L'Espresso 31

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L’analisi di MASSIMILIANO PANARARI

Calenda, una scelta obbligata Impossibile stare al centro

E

dopo schermaglie, rinvii e battibecchi a profusione, habemus pactum tra Enrico Letta e Carlo Calenda. Un patto di carattere rigorosamente elettorale fra il Partito democratico e Azione, come specificano i protagonisti, ma che va a formare il “nocciolo duro” dell’alleanza riformista in questa inedita campagna estiva. L’asse preferenziale col Pd porta in dote a Calenda il 30% dei collegi e il trasferimento in quota proporzionale dei candidati espressi da partiti “invisi”; e, soprattutto, gli consente di spostare il timone programmatico dell’intesa saldamente in direzione riformista e verso l’Agenda Draghi (contro cui si sono immediatamente levate le voci dei “rossoverdi”, a proposito delle difficoltà strutturali di tenere insieme quello che, prima della sciagurata decisione del M5S di staccare la spina al governo, veniva chiamato il “campo largo”). Dal punto di vista delle premesse, quindi, si tratta per il leader di Azione di un saldo ampiamente attivo. Dietro il quale si può leggere, altresì, un cambiamento di strategia da parte di Calenda, che ha evidentemente optato per il rilancio del bipolarismo, anziché puntare sull’idea, caldeggiata - in maniera ambivalente

- fino a poco tempo prima, del terzismo liberale e del Terzo polo (che proverà a intestarsi Matteo Renzi nella sua corsa verosimilmente solitaria). Un’opzione per molti versi obbligata: dura lex, sed lex quella del “Rosatellum” che, peraltro, nessuno ha provato a cambiare. E una scelta realista, anche per evitare che, col rifiuto di partecipare al cartello progressista, uno dei temi comunicativi dominanti della campagna elettorale diventasse l’accusa rivolta ad Azione di avere regalato un ulteriore vantaggio competitivo alla coalizione “Msb” (Meloni-Salvini-Berlusconi). Ma pure, probabilmente, un’interpretazione del Centro liberaldemocratico quale luogo politico non in grado di produrre una massa critica decisiva nell’età della polarizzazione. L’Italia della Prima Repubblica non ha mai assistito alla nascita di una Terza forza (anche tendenzialmente) unita, ma il suo peso culturale è stato assai rilevante e il Centro - sotto la forma poderosa della Dc ha sempre “dato le carte” nell’ambito della vita pubblica. In epoca postmoderna, prosciugato nei numeri e nei consensi, esso è divenuto uno spazio mobile, riempibile (od occupabile) con istanze, narrazioni e parole d’or-

CON LA DESTRA SOVRANISTA UNA POSIZIONE TERZA FRA I DUE POLI NON AVREBBE SENSO

dine tra loro differenti, e definibile nei termini di una stretta associazione con un’ulteriore specifica: centrodestra o centrosinistra. Oggi, dopo avere dato il colpo di grazia all’esecutivo presieduto da Draghi, e avere visto il consolidamento senza via di ritorno di un’egemonia culturale di tipo populsovranista, il centrodestra non c’è più, sostituito da quello che andrebbe chiamato col suo nome più appropriato: il destracentro (o, forse, ancor meglio, il destradestra-centro, che ha esiliato lo spirito liberalconservatore rivendicato dalla Forza Italia delle origini in una posizione nettamente residuale). E, dunque, date le numerose incertezze che portava con sé il posizionamento terzo ed equidistante e la natura altamente competitiva e “campale” di queste elezioni politiche, per far vivere la propria piattaforma programmatica il liberalmoderato Calenda non poteva che collocarsi al fianco del fronte progressista. Sapendo, presumibilmente, di dover pagare un pegno immediato, quello evidenziato dalle contestazioni sui social (un termometro vero di quanto si muove nella sua base, al di là delle “bolle” degli ambienti digitali). E chissà che queste proteste non preludano a una futura battaglia “congressuale” in quello che, al momento, è ancora in tutto e per tutto un partito personale e del leader, fondato in maniera indiscutibile sull’esuberante personalità da lottatore (e vincente one man show decisionista) del suo presidente . Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

7 agosto 2022

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