n° 29
Febbraio 2020
Responsabile editoriale: Edoardo Bucci Responsabili editoriali per la sezione “Attualità”: Susanna Rugghia e Francesco Paolo Savatteri Responsabili editoriali per la sezione “Cultura”: Luca Giordani e Jacopo Andrea Panno Responsabile editoriale per la sezione “Il Plus”: Luca Bagnariol Responsabile “Focus”: Annachiara Mottola di Amato Responsabile strategico per le inchieste editoriali: Pietro Forti
Questo numero è stampato anche grazie al contributo di Teatro di Roma e Banca Popolare Etica: la nostra banca, specializzata in finanza etica ed alternativa.
O.GRA.RO. Srl Vicolo dei Tabacchi,1 - 00153 Roma
28/02/2020
L’EDITORIALE di Luca Bagnariol
Il 21 Febbraio si sono realizzate le paure di buona parte della popolazione italiana: il COVID-19 ha colpito, causando la prima vittima all’interno dei nostri confini nazionali. Nelle ore successive alla notizia, si è scatenato il vero e proprio panico all’interno dell’opinione pubblica: più aumentano i contagi, più la paura cresce. Una situazione totalmente normale in uno scenario di epidemia a livello globale, che se in precedenza ci aveva risparmiato ora ci vede coinvolti in prima persona. Intanto, una parte del paese si ferma: tutte le manifestazioni sportive in Veneto e Lombardia sono state sospese dal Ministro Spadafora, le università nei luoghi interessati dal contagio sono state chiuse ed il Sindaco di Milano Sala ha consigliato ai suoi concittadini di “ridurre la socialità”. Questo mese non potevamo evitare di affrontare un argomento che ha così polarizzato l’attenzione dell’opinione pubblica e che ora ci vede nostro malgrado vittime degli eventi, ma abbiamo deciso di distaccarci dalla narrazione convenzionale che è stata data dell’epidemia di COVID-19, dedicando l’intera sezione de Il Plus alle contingenze politico-sociali meno raccontate dal resto della stampa nazionale. Questo nuovo Coronavirus è un fenomeno che va ben oltre una conta giornaliera dei morti e dei contagiati: lascerà un segno indelebile sul mondo sia a livello economico che a livello sociale, due aspetti invece completamente trascurati dalla narrativa standard che si è andata ad imporre. Una decisione simile vuole anche fungere come un gesto di denuncia verso la classe editoriale di questo paese, che ha perseguito nel corso di questo ultimo mese unicamente i propri interessi economici facendo però venir meno la funzione di servizio pubblico della totalità dei quotidiani d’informazione del nostro paese. I costanti ed asfissianti aggiornamenti sull’espansione del nuovo coronavirus, ben prima che questa interessasse effettivamente il nostro paese, hanno certamente influito positivamente sugli introiti mensili delle maggiori testate italiane, ma hanno contribuito in modo determinate a trasformare la legittima preoccupazione e paura della popolazione nei confronti di un’epidemia globale in una vera e propria isteria di massa, tramite la quale si rischia di perdere la necessaria razionalità per affrontare una situazione d’emergenza così critica. Scomodo
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Sul banco degli imputati finiscono tutte le maggiori testate del nostro paese: dal Corriere della Sera, che rende appositamente gratuita la sezione del sito dedicata al COVID-19 in modo tale da guadagnare il più possibile dalle inserzioni pubblicitarie presenti all’interno degli articolo (mascherando la ricerca di guadagno dietro il rispetto del proprio ruolo d'informazione per l'intera popolazione) , ad Open di Enrico Mentana, il quale mostra fiero sul proprio profilo Facebook gli eccezionali risultati dei mesi di Gennaio e Febbraio a livello di visite mentre i suoi costanti aggiornamenti sono stati uno dei principali motori che hanno spinto la popolazione verso il terrore. L’informazione italiana è venuta meno al suo compito fondamentale, ossia assistere la cittadinanza fornendo le indicazioni del Ministero della Salute e cercando di condividere solo le informazioni necessarie per aiutare a contrastare al meglio una possibile espansione dell’epidemia. Tutto questo è venuto meno, creando da un lato un eccessivo allarmismo che con l’arrivo del nuovo coronavirus si è tramutato in un panico collettivo senza eguali nella storia recente del nostro paese, mentre dall’altro una sorta di menefreghismo verso un’emergenza sanitaria a livello globale che non ha fatto altro che esasperare ancor di più gli animi della popolazione. Il COVID-19 rischia di passare alla storia come uno dei momenti più bassi mai toccati dal giornalismo italiano, che pur di riuscire ad aumentare i propri introiti ha deciso di venir meno alla propria funzione informativa ed ha spaccato l'opinione pubblica del nostro paese, causando un frattura che impedisce di avere quella coesione necessaria per superare simili momenti di difficoltà.
Buona lettura! 3
I N D I C E FOCUS 3 LA PANTERA • A 30 anni dalla pantera cosa rimane de movimento che animò le università contro la virata neoliberalista dela sinistra istituzionale di Sara De Benedictis, Maria Sole Dassiè, Annachiara Mottola di Amato e Marina Roio 3 Introduzione 4 Da Ruberti alla Gelmini 8 La nuova cultura politica degli anni 90 9 Un'eredità invisibile che arrva fino ad oggi 10 I CONSIGLI DEL LIBRAIO
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ATTUALITÀ 14 Opération Barkhane di Cristiano Bellisario, Simone Martuscelli e Leonardo João Trento 16 Il disaccordo del secolo di Susanna Rugghia, Luigi Simonelli e Giulio Ucciero 22 La città inamministrabile III di Giovanni Tucci 28 Parallasse di Luca Bagnariol 34
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MOSTRI Teatro delle arti di Rodolfo Cascino-Dessy
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CULTURA LA COPERTINA di Rebecca Cipolla Oceano Indiano di Gaia Del Bosco e Lorenzo Cirino Tra centri sociali e avanguardie di Annachiara Mottola di Amato e Marina Roio Existencilism di Alessio Zaccardini Stereo8 di Jacopo Andrea Panno Il regista che non c'era di Carlo Giuliano Perché Sanremo è Sanremo di Carolina Scimiterna Questa non è una pagina spam di Maria Marzano
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PLUS COVID-19 Quanto costa il COVID-19 ? di Luca Bagnariol L’altro contagio di Jacopo Andrea Panno Italia:psicosi,spaghetti e mandolino di Maria Marzano La corsa all'oro della ricerca di Ilaria Michela Coizet
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Scomodo
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LA PANTERA A 30 ANNI DALLA PANTERA COSA RIMANE DEL MOVIMENTO CHE ANIMÒ LE UNIVERSITÀ CONTRO LA VIRATA NEOLIBERISTA DELLA SINISTRA ISTITUZIONALE Trent’anni fa, da Nord a Sud, la Pantera invadeva le aule universitarie coinvolgendo migliaia di studenti. Nasceva così, nelle facoltà occupate, il movimento studentesco destinato a segnare profondamente la cultura politica degli anni ’90. E non solo. All’alba di una nuova epoca fu insieme la fine di un’era di movimenti e l’inizio di un nuovo modo di intendere l’attivismo. Parlare della Pantera oggi vuol dire quindi parlare di quel movimento prima silenziato, poi dimenticato che ci può aiutare a comprendere il nostro presente politico.
Scomodo
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Introduzione Correva l’anno 1989 e mancavano tre giorni all’inizio del nuovo decennio quando venne avvistata su Via Nomentana, a Roma, una pantera nera aggirarsi indisturbata, in libertà. Ci vollero parecchi giorni per riacchiapparla e riportarla nel circo o zoo da cui era scappata, mesi per spegnere la spinta innovatrice del movimento studentesco che da quell’episodio bizzarro prese il nome. Il movimento della Pantera sorge così sullo squarcio della fine di un’era politica, sociale e culturale e l’inizio di un’altra, alla fine di un anno travagliato di grandi cambiamenti. A dicembre dell’89, infatti, risale la prima delle tante occupazioni che, dalla facoltà di Lettere dell’università di Palermo, si estese in tutto il Paese, portando con sé una ventata d’aria fresca nel clima di generale apatia, disincanto e individualismo degli anni 80. La Pantera dimostrò come, anche all’interno di un contesto radicalmente diverso da quello delle ondate del ’68 e del ’77, si potesse ancora fare politica utilizzando, senza rinnegarlo, parte del repertorio delle pratiche politiche del passato e reinventando allo stesso tempo quanto risultava vecchio e stantio, adattandolo alle nuove esigenze e ai nuovi linguaggi di una società che stava cambiando a ritmi rapidissimi. Oggi, a trent’anni di distanza dal ’90, anno in cui il movimento maturò per poi iniziare una fase discendente che portò alla fine dell’esperienza, collocare la portata del movimento nella storia dell’attivismo studentesco vuol dire rispondere ad una domanda fondamentale: ci troviamo di fronte all’ultimo movimento ‘novecentesco’ che chiude la stagione iniziata nel mitico ’68 o si tratta, piuttosto, del germe di un nuovo modo di fare politica, i cui frutti matureranno più tardi, fino ad arrivare alla contemporaneità? 6
Per cercare di dare risposta ad una domanda che nasce dall’esigenza di comprendere l’evoluzione della cultura politica che anima i movimenti studenteschi di oggi, dobbiamo capire in primo luogo cosa è stata la Pantera, quali sono stati i suoi obiettivi, i suoi tratti distintivi, che cosa ha rappresentato per tutti gli anni ’90 e per quelli successivi. Per farlo ci siamo affidati al racconto del Professor Ermanno Taviani, membro del movimento della Pantera e leader del collettivo della facoltà di lettere. Oggi professore di Storia contemporanea all’Università di Catania, ci ha raccontato la sua esperienza di studente universitario alla fine degli anni ’80, spiegandoci quali furono le cause che fecero insorgere gli studenti e quindi nascere il movimento, tra cui un ruolo centrale ebbe la proposta di legge Ruberti, allora ministro dell’Università e della Ricerca. “Il movimento nasce con diverse motivazioni sia a livello internazionale che nazionale. Innanzi tutto era l’89 e stava cambiando tutto: era crollato il muro di Berlino e uno dopo l’altro stavano crollando, come tessere del domino, i regimi comunisti. E soprattutto c’era stata, in Cina, a Pechino la strage di piazza Tienanmen, dove erano dei ragazzi a protestare. Anche contro i regimi dell’est d’europa erano stati dei giovani che avevano cominciato le proteste. Insomma, tutto questo aveva fatto finire la guerra fredda. Oggi è difficile dar l’idea di cosa volesse dire pensare che una crisi tra le super potenze potesse far finire il mondo invece, chi ha vissuto quel periodo aveva esattamente questa impressione, negli anni 80, infatti, questa era una sensazione forte. Fu così fino all’86 quando Gorbaciov diventò leader dell’unione sovietica, si allentò la tensione e ci fu un senso liberatorio di cambiamento. C’era la sensazione che la storia si fosse rimessa in movimento ed era come se fosse compito dei giovani cambiare le cose. Anche in Italia, soprattutto a livello politico generale, c’era per molte ragioni un senso di staticità: c’era il susseguirsi di governi dominati dalla Democrazia Cristiana e, insomma, sembrava che qua le cose non stessero cambiando. Scomodo
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Per il movimento della Pantera la legge Ruberti è stato sicuramente il fatto scatenante, perché era una legge sbagliata per tanti motivi. E poi c’era il fatto che soprattutto in Italia centro-meridionale, l’università scoppiava. La mia facoltà a Roma, Lettere, era una struttura pensata per 2000 studenti ed eravamo 17000 iscritti. I corsi più affollati erano spesso svolti nei cinema o in sale fuori dall’università perché l’Aula Magna e le altre aule non bastavano. Non c’era spazio. Non c’erano le biblioteche. Poi a quell’epoca c’era Torvergata da poco ma non c’era ancora Roma Tre. Quindi la sapienza aveva 180000 iscritti, numeri paragonabili a una città come Pisa, con strutture che erano state pensati per 15 mila, massimo 20 mila iscritti. Che credibilità aveva quella classe politica nel dire <<ora arriva il privato e tutto si risolve>> quando non poteva garantire spazi di vivibilità, minimi, per i suoi studenti? Le case dello studente a Roma erano per 3000 persone, quando i fuori sede erano 50000. Il diritto allo studio garantito dalla costituzione, non era garantito. Era una violazione permanente. Ora metti insieme tutte queste cose: la voglia di cambiare ora che la cappa della guerra fredda sembrava liberare delle energie, la legge Ruberti che sembrava consegnare ai privati l’università italiana e la situazione drammatica che si viveva nelle università. C’era molta solitudine, una forte insofferenza da parte degli studenti e soprattutto la sensazione che il foglio di carta, la laurea, sul mercato del lavoro non servisse così tanto . Non è un caso che la rivolta scoppi a Palermo, dove c’era tutto questo e in più c’era l’emergenza della corruzione e della mafia, una situazione di degrado politico, umano, morale, di violenza e di mancato controllo del territorio lasciato in mano alla mafia. Per questo molti ragazzi della Pantera di Palermo erano gli stessi che stavano nel movimento antimafia o che ci sarebbero entrati. Fu proprio lì a dicembre che cominciò la prima occupazione. A Roma invece l’occupazione iniziò alla facoltà di lettere mercoledì 15 gennaio ”. Come nasce il nome la Pantera? “Erano passate poche settimane dal crollo del muro di Berlino quando venne avvistata a Roma una pantera, che nessuno riusciva a catturare. Questo avvenimento colpì per la sua bizzarria la creatività di Fabio Ferri e Stefano Paolini che si accorsero che il movimento non aveva un nome. Scomodo
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Si, c’era Movimento degli studenti contro la legge Ruberti oppure Movimento universitario contro la riforma dell’università ma non si addicevano all’unico movimento universitario di grandi dimensioni dal ’77 dal quale era passata ormai una generazione. Allora, dato che proprio in quei giorni c’era la storia della pantera fuggita, mi ricordo che vennero una notte al centro stampa di lettere, con dei bozzetti e ci proposero questa cosa: inventarono lo slogan LA PANTERA SIAMO NOI e lo unirono al simbolo delle Black Panthers americane che, per molti studenti, quelli non politicizzati, non significava niente. Ma per noi che facevamo politica invece, soprattutto per noi che studiavamo storia, aveva un significato forte. La cosa divertente è che in due giorni per i giornali e i media (che pure rispetto ad oggi erano molto più rudimentali) noi diventammo La Pantera. Ci piaceva perché la pantera era fuggita da una prigione e vagava libera per la città e noi ci sentivamo così”. C’erano dei legami con i movimenti del ’68 e del ’77? Alcuni rivendicarono proprio la rottura con quei movimenti. “A Roma avevamo molto discusso tra di noi, non eravamo tutti concordi - non sulla questione del privato, eravamo tutti contro la legge Ruberti, - ma venivamo da tredici anni in cui anche le forze giovanili della sinistra erano state molto divise. Il ’77 aveva significato una spaccatura netta tra l’estrema sinistra e il partito comunista. Anche se di queste cose discutevamo e ci scontravamo in realtà dentro il movimento, faticosamente, quella spaccatura era stata un po’ superata. Alla fine, in quei mesi, siamo stati insieme: tutte le componenti della sinistra universitaria, dai cattolici moderati agli studenti antagonisti. I centri sociali, che fino a quell’epoca erano nell’area antagonista in conflitto con la sinistra più ufficiale, sono entrati nell’università e molti studenti poi sono entrati nei centri sociali. C’è stato una sorta di passaggio, dopo l’occupazione molti dell’area antagonista sono entrati invece in rifondazione comunista. Per esempio Smeriglio, che era uno dei leader dell’area antagonista, ora è eurodeputato ed è stato vice presidente della regione Lazio. 7
La memoria del ’77 c’era ed è stata anche un elemento, all’inizio, di scontro. Per esempio a lettere, uno dei primi giorni, qualcuno portò una scaletta dentro l’atrio, dicendo che era quella usata per assaltare il palco di Luciano Lama nel 1977 (che fu il momento materialmente di massimo scontro tra Pci e i giovani di quel movimento). Era un simbolo che valeva chiaramente solo per un’area politica. La differenza l’ha fatta il fatto che noi non ci siamo mai scordati che era un movimento di studenti. Anche il ’68 era cominciato come un movimento di studenti contro una proposta di legge sull’università, ma dopo due o tre mesi non gliene importava più niente a nessuno”. Com’era organizzata e gestita l’occupazione? Che tipo di attività venivano organizzate? “L’occupazione era organizzata come quelle del passato, c’erano le commissioni didattica e logistica ma c’erano anche la commissione razzismo, la commissione barriere architettoniche, la commissione stampa. Però la cosa divertente è che, almeno a lettere , c’erano varie tribù. Per esempio la tribù dell’area antagonista che stava in presidenza, poi le tribù dei vari dipartimenti, ognuna con la propria identità, alcune più legate ad alcune aree politiche, però la cosa bella è che alla fine molte avevano l’identità di studenti-di-quel-dipartimento. La differenza con gli altri collettivi e movimenti politici stava nella pratica: loro erano interessati agli spazi abbandonati per incuria o per manovre speculative, per il movimento studentesco l'obiettivo era quello di appropriarsi effettivamente e rivitalizzare uno spazio pubblico come quello dell’università, ritenendo marginali le lotte per conquistare spazi tutto sommato ininfluenti. Un momento secondo me molto bello fu il primo sabato in cui l’università era tutta occupata. Ci fu una grande festa sia nel piazzale della Minerva sia in ogni facoltà. Molti erano venuti apposta in questo luogo che era anche un luogo arido, degradato che si viveva in quel periodo con frustrazione e che invece improvvisamente era nostro. 8
Mi ricordo che con due compagni siamo saliti sopra un edificio, e abbiamo visto che era tutto pieno di gente, ed era pieno di musica che veniva da ogni parte, improvvisamente queste aule erano state ripopolate. E poi ci furono molte esibizioni: il concerto degli Onda Rossa Posse, che poi sono diventati gli Assalti frontali, e tanti altri gruppi, teatrali e circensi. Quel luogo era diventato un’altra cosa. Enrico Lucci, che all’epoca era uno studente di storia, la sera ogni tanto faceva degli spettacoli in cui imitava vari personaggi della vita pubblica, morivamo dal ridere. Poi vennero anche tutta una serie di personaggi come Nanni Moretti, giornalisti, intellettuali a darci sostegno. La comunicazione, anche se era gestita tramite fax e tramite la prima rudimentale rete di comunicazione via computer, è stata la prima piazza telematica autonoma di questo paese. Il fax in quel periodo lo avevano solo gli uffici: in alcune facoltà gli impiegati cercarono di portarlo via ma dappertutto ce ne impadronimmo, ne avevamo capito l’importanza”. Quale fu il rapporto con le forze di estrema destra e con cosa dovette misurarsi la vostra rivendicazione del carattere non violento del movimento? “Un gruppo di neofascisti, dell’area allora di Alemanno, occuparono una o due aule ad economia, ma quella fu la loro unica presenza. Il movimento fu pacifico, non dicevamo non violento, almeno a Roma, perché l’area antagonista diceva che non violento implicava un concetto filosofico che non avevamo, quindi ci dicevamo pacifici. I tentativi di reprimere il nostro carattere non violento non furono fatti attraverso un scontro diretto, ma attraverso vie più subdole, attraverso accuse di terrorismo. Per esempio il ministro dell’interno Gava, che era un personaggio orribile e che si diceva fosse legato alla camorra, disse che all’interno del movimento c’erano legami con le vecchie Brigate Rosse”. Per quale motivo si è sciolto il movimento? Alcuni parlano di una scissione davanti alla possibilità di un compromesso con Ruberti. “Per tante ragioni. All’inizio Ruberti non voleva parlare con noi, si scelse degli interlocutori tra i rappresentanti degli studenti dei consigli di amministrazione. Insomma, si scelse i suoi studenti con cui dialogare. In realtà Ruberti era anche una persona ragionevole, non era aggressivo. Scomodo
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Ma le nostre divisioni interne, che erano anche abbastanza evidenti, hanno reso difficile parlare con una voce sola anche perché fu un movimento che non ebbe leader nazionali, c’era una grande attenzione alla democrazia interna: c’era un continuo discutere sulla via più democratica per decidere le cose. Queste tortuose vie della democrazia interna al movimento hanno fatto si che non abbiamo sfidato i nostri interlocutori veramente ad un tavolo politico. Questo unito ovviamente al fatto che i nostri interlocutori non volessero dialogare con noi: la componente studentesca non doveva avere voce in capitolo su come doveva essere cambiata l’università. All’assemblea nazionale di Firenze, proprio per evitare conflitti, abbiamo deciso dei giorni in cui avremmo disoccupato tutti insieme. Dopo il 17 marzo, con la manifestazione nazionale di Napoli, abbiamo tutti restituito le chiavi”. Quale fu il lascito della Pantera durante gli anni 90? Anche rispetto alla cultura dei centri sociali? “Innanzi tutto la Pantera rappresenta la prima sperimentazione di quelle unioni di tutte le sinistre anti-Berlusconi degli anni ’90 e degli anni 2000. Difatti per molti è stato un laboratorio di politica proprio in quel senso lì. I centri sociali non avevano un rapporto diretto con l’università e con i collettivi, se non attraverso poche persone, la Pantera ha spinto i centri sociali a diventare più centri-sociali, di aggregazione. Mentre l’occupazione è diventato il metodo di lotta prevalente, molti che avevano partecipato all’occupazione della Pantera hanno poi iniziato ad occupare nuovi centri sociali, meno legati a logiche di contrapposizione o alla logica del nemico. Molti gruppi sono rimasti uniti. Siamo rimasti noi, la massa dei giovani, nella battaglia contro la guerra del golfo nel ’93, nella battaglia contro Fini e Berlusconi; così come una serie di esperienze che sono convogliate nel movimento no-global, forti fino al 2001 ma anche dopo. Voglio dire, a Genova c’era molta Pantera”.
Quali valori e principi che rivendicavate allora ti sembrano essere rimasti oggi nella storia dei movimenti studenteschi? E cosa invece è cambiato? “Movimenti universitari non ce ne sono stati, c’è stato l’Onda ma fu limitato ad un ristretto numero di facoltà. La Pantera ha posto il problema della centralità del sapere nella società, che è il sapere sia come formazione sia del sapere in generale rispetto ad un mondo sempre più pieno di informazioni e con una dimensione diversa. Secondo me il valore della cultura è una cosa che noi avevamo chiara. Nei movimenti successivi questa cosa l’ho sentita con forza, così come ho sentito con forza la rivendicazione di un mondo in cui non possono essere le multinazionali a decidere a livello globale e come non possono essere gli appalti ai privati a gestire le amministrazioni statali. Queste cose prima con il movimento noglobal e adesso con i movimenti per l’emergenza ambientale sono per fortuna sotto gli occhi di tutti. Per esempio Fridays for future è l’unico movimento di giovani che negli ultimi anni è riuscito a portare in piazza decine di migliaia di persone. E poi, banalmente, la difesa della scuola e dell’università pubblica. Oggi però accanto alle piazze tradizionali c’è la piazza telematica e questo fa una gran differenza”.
Quanto ha influito la Pantera nelle sue scelte professionali? “Molto. Quello che ho cercato di portare dentro all’università, a differenza di molti miei colleghi, è tenere sempre conto dell’opinione degli studenti. Ho cercato di migliorare la vita di un’università che il più delle volte è pensata più per i professori e per le istituzioni che per chi la vive dall’altra parte”. Scomodo
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Da Ruberti alla Gelmini il mondo della formazione sotto attacco
L’analisi di Taviani ci consente di cogliere il significato di un movimento breve e spesso dai più ignorato e dimenticato come quello della Pantera, che ha rivestito invece un ruolo decisivo per la formazione non solo della generazione che lo ha vissuto e animato ma anche per quelle successive che ne hanno inconsapevolmente raccolto l’eredità. Il moto che attraversa l’Italia nel 90, infatti, per la prima volta mette in luce quelle che poi si sarebbero rivelate essere le grandi criticità della società contemporanea proprio nel momento in cui queste iniziavano a palesarsi in modo più evidente. Un progressivo processo di privatizzazione che avanzava in tutti gli ambiti della società, non solo in quello della formazione universitaria, come sottolinearono più volte gli stessi attivisti della Pantera, spiegando come la riforma Ruberti costituisse solo la spia di un processo più ampio. Lo smantellamento dello Stato sociale e il galoppante protagonismo delle logiche del mercato che ridisegnavano anche i luoghi della formazione. Da ultimo l’esigenza di immaginare una sinistra alternativa a quella istituzionale che sempre più di fatto, da una parte, sotto la spinta di Craxi, si allineava ai nuovi valori neoliberisti-lo stesso ministro Ruberti artefice della contestata riforma era socialista- dall’altra viveva una forte crisi di identità che avrebbe poco dopo portato nel 91 allo scioglimento del PCI e alla formazione del PDS. Il movimento della Pantera dimostrò quindi di avere una notevole capacità di analisi politica del presente e di lucidità teorica, in quanto riuscì a cogliere nel suo divenire un fenomeno emergente caratterizzante gli istituti universitari e cioè “la distruzione capitalistica delle università italiane” come sottolinea Raul Mordenti, ex-militante in diversi movimenti universitari, oggi politico e professore dell’Università di Tor Vergata. 10
“E ciò significa privatizzazione, precariato, violazione della libertà di ricerca e di insegnamento attraverso i meccanismi di valutazione etc.”. Mordenti sottolinea come tutte queste dinamiche fossero state lette dalla Pantera che elaborò dei documenti con proposte concrete che non arrivarono neppure in Aula in quanto “il consenso che si era costruito intorno alla figura del ministro Ruberti era pressoché totale. Lo considero il punto più alto dell’egemonia del pensiero craxiano sulle università, tant’è vero che tutti i successivi ministri della pubblica istruzione hanno mantenuto la stessa linea. C’è una continuità assoluta da Ruberti alla Gelmini tra governi di centro-destra e centro-sinistra nelle politiche relative alle università, che non ha corrispettivi in nessun altro settore”. Dal 90 in poi le riforme che si sono succedute hanno contribuito a smantellare l’istituzione scolastica e universitaria con i guasti che tutti conosciamo oggi. Così le problematiche che animavano le proteste in cui si raccolsero diverse università italiane al grido: “ la pantera siamo noi!”, e che nell’evoluzione del movimento coinvolsero anche tanti studenti medi, non sono diverse da quelle che in tempi più recenti hanno spinto alla contestazione. Paradigmatico è il caso dell’Onda del 2008- come anche dei più contenuti moti del decennio successivo-nata per protestare contro i tagli all’istruzione proposti dal IV governo Berlusconi che, con la proposta di legge Gelmini, riduceva ulteriormente i finanziamenti pubblici alle Università e sanciva ancora una volta la parola d’ordine privatizzazione. Se nel 90 gli studenti della Pantera distribuivano i primi volantini con gli slogan “No alla privatizzazione della cultura” e “ Basta libri di testo costosi, vogliamo le fotocopie libere”,i militanti dell’Onda (studenti e precari in rivolta) scendevano in piazza affermando di volersi riappropriare del futuro, “combattendo il mezzo attraverso il quale le istituzioni avevano compiuto questo furto: la precarizzazione”. Il contesto delle manifestazioni, certo, era profondamente diverso, eppure è impossibile non cogliere la linea di continuità tra la lotta alla privatizzazione e al principio di autonomia degli atenei del 1990 e il moto di protesta dell’Onda che si scaglia contro una delle sue concrete espressioni. Scomodo
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La nuova cultura politica degli anni 90 Ma un po’ di Pantera non la ritroviamo soltanto nei molti temi che dal 90 in poi guidarono le mobilitazioni studentesche ma anche, e forse soprattutto, nelle modalità di protesta scelte e nell’utilizzo di spazi e strumenti nuovi che rompevano rispetto al passato. In relazione alle prime, l’occupazione rimase una pratica centrale per il movimento che ne rivendicò l’importanza come strumento e mai come fine ultimo; il movimento, difatti, nacque nelle aule universitarie occupate e finì con la dis-occupazione delle stesse. Ma la centralità che ebbe l’occupazione per la Pantera andò ben oltre: molti membri del movimento erano infatti cani sciolti, non appartenevano a partiti, sindacati, o movimenti precedenti, molti di questi non erano mai entrati in un luogo occupato prima né avevano mai frequentato dei centri sociali. L’esperienza maturata all’interno delle facoltà occupate agì in molti di loro da stimolo per avvicinarsi a quei mondi, come i CSA o CSOA, e per costruirne di nuovi. A tal proposito si parla spesso della seconda ondata dei centri sociali che nel corso degli anni 90 vissero, proprio grazie all’eredità della Pantera, la stagione di massima vivacità ed espansione (un maggiore approfondimento della tematica nell’articolo Tra centri sociali e avanguardia, la Pantera nella cultura degli anni 90 a pag.48). Il lascito più grande del movimento fu forse proprio questo: l’inaugurazione di spazi, fisici e non, per un nuovo modo di fare politica e cultura. Infatti non bisogna dimenticare che il movimento della Pantera fu anche movimento culturale, culla di inedite avanguardie artistiche e musicali che, proprio nel corso degli anni 90 e all’interno di vecchi e nuovi centri sociali, si andranno ad affermare. Non bisogna dimenticare poi come la carica innovativa della Pantera sia passata anche attraverso l’utilizzo dei primi e rudimentali strumenti di comunicazione “a rete”. I ragazzi della Pantera, infatti, per comunicare in maniera efficiente tra tutti gli atenei occupati nelle varie città potevano contare su una rete di fax e poi su una di posta elettronica (Okkupanet) creata dagli studenti di informatica pisani, cose che sembravano loro, e di fatto lo erano, il massimo dell’avanguardia e che comunque furono strumento essenziale, sia nelle questioni organizzative sia nel creare un sentimento di unione fra le varie facoltà in lotta. Il movimento la Pantera inaugurerà anche un rapporto nuovo fra attivismo e media che sarà estremamente fecondo: Scomodo
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videogiornali, centri stampa di ateneo con il compito di tenere i rapporti con l’esterno e ancora partecipazione a trasmissioni Rai, vedi Samarcanda, condotta in diretta dalle università occupate, che farà registrare una crescente adesione studentesca al movimento. Se è vero, quindi, che l’esperienza della Pantera nacque all'interno di un contesto specifico, quello delle aule universitarie, ponendo come questione centrale delle rivendicazioni la difesa del mondo della formazione con l’opposizione alla legge Ruberti, lo è altrettanto il fatto che la forza e il valore del movimento non risiedono tanto in quei mesi di lotta dell’anno 1990. Per molti, infatti, tra cui anche parte degli ex-militanti, il movimento in sé significò ben poco; basti pensare al fatto che l’obiettivo principale, ovvero il blocco della legge Ruberti, non fu raggiunto e questa fu approvata direttamente in Commissione. Si trattò poi di un movimento relativamente breve, e nella durata delle occupazioni, e nella memoria collettiva da cui presto venne dai più rimosso. Eppure, nonostante la marginalità a cui è stato relegato nella storia dei movimenti studenteschi, rispetto alle ondate lunghe del ‘68 e del ‘77, ancora scolpite nell’immaginario di tutti, la Pantera ha forse rappresentato il punto di inizio di una nuova forma di attivismo che ha dovuto fare i conti con il cambio di paradigma di un’intera società. Per questo motivo se parliamo di Pantera c’è chi preferisce non ricordarla come il movimento del ‘90, “ se così fosse, infatti- dicono- dovremmo prendere atto di avere avuto un impatto insignificante anche se su tante cose ci avevamo visto lungo”, ma come il movimento che inaugurò una fase ben più lunga, quella degli anni 90. Secondo questa chiave di lettura, con una prospettiva storica più a lungo termine, l’importanza della Pantera fu quindi quella di aver generato la miccia di qualcosa che sarebbe esplosa più tardi, con i suoi tempi di maturazione. Il movimento riuscì parzialmente ad avviare un processo di politicizzazione di massa per una generazione che veniva da un decennio nel quale la politica era ritenuta una questione di secondo ordine. Quell’esperienza ha rappresentato quindi il terreno fertile per la nascita di un’infornata di militanti che si è dimostrata capace di agire all’interno di una nuova prassi politica, spesso all’interno dei nuovi luoghi di aggregazione, come i CSOA, che vivranno la loro epopea nel decennio che condurrà al G8 di Genova del luglio 2001. 11
Un’eredità invisibile che arriva fino ad oggi Riannodando il filo dell’evoluzione dei movimenti studenteschi, partendo dalla Pantera fino all’Onda del 2008, le cui proteste si sono protratte fino al 2010-2011, arriviamo agli ultimi dieci anni di contestazioni che conosciamo più da vicino. Molto sembra essere cambiato nelle forme di partecipazione e di protesta, e, più in generale, nelle motivazioni e nelle modalità di approcciarsi alla politica e allo stesso tempo, tanto altro sembra essere rimasto, implicitamente, nel dna dell’attivismo studentesco che ci vede protagonisti. In linea generale possiamo osservare come nell’ultimo decennio, la partecipazione politica degli studenti, e conseguentemente la loro attività di protesta, ha continuato a seguire, forse accelerando, un trend discendente iniziato già negli anni Novanta, quando la crisi delle ideologie e il disfacimento dei partiti di massa, dopo Tangentopoli, hanno portato all’avvento del Berlusconismo e dell’antipolitica. Se guardiamo al macro contesto non stupisce che i giovani non abbiano fiducia nelle istituzioni e nella politica, e dunque non partecipino attivamente, spesso nemmeno nella forma del voto (i dati elettorali delle elezioni europee di maggio 2019 ci dicono che il 50,7% degli elettori tra i 18 e i 34 anni non è andato a votare). Siamo infatti la generazione che, cresciuta in un clima di generale disaffezione verso la politica, ha vissuto la grande crisi economica che sembra averci condannato ad un futuro di precarietà occupazionale se non di disoccupazione; la stessa generazione formatasi in un clima profondamente improntato all’ l’individualismo, favorito anche dalle nuove tecnologie. 12
L’evidenza di questo trend discendente nell’interesse dei giovani per la cosa pubblica è innegabile e si riflette in alcuni dati importanti rispetto ai volumi e alla forza delle ultime mobilitazioni. Rispetto alle proteste di piazza così come alle “classiche”occupazioniscolastiche,siregistrauncalorispetto al passato sia in frequenza che in partecipazione. Ripercorrendo gli anni dal 2012 al 2018 scopriamo infatti che si è tenuta ogni anno nelle più grandi città italiane una manifestazione studentesca “di rito”, con una partecipazione che non ha mai superato i 100 mila presenti in tutto il Paese. Le motivazioni erano prettamente legate a problematiche del momento riguardanti il mondo della scuola: contro l’austerity del governo Monti e per il diritto allo studio (2012-2013), contro la riforma della “Buona scuola” e contro l’alternanza scuola lavoro (dal 2014 al 2017), contro i continui tagli all’istruzione e contro il governo M5S-Lega (2018). Anche la “tradizionale” pratica delle occupazioni, pur rimanendo una costante nel repertorio di protesta dei movimenti studenteschi, ha progressivamente perso la sua forza, svuotandosi spesso del significato originario. Per un decennio, quindi, (dall’Onda al recentissimo movimento globale dei Fridays For Future) l’attivismo studentesco è rimasto una presenza silenziosa, non incisiva nel tessuto sociale. Ma ridurre le motivazioni di questa situazione di stallo dell’attivismo studentesco all'anacronismo delle forme della protesta, ci sembra semplicistico e anche inesatto. Pratiche come l’occupazione e le manifestazioni di piazza, piuttosto che l’utilizzo di spazi come i centri sociali come luoghi di incontro e di formazione di una coscienza politica, pur essendo eredità di una cultura inaugurata negli anni 90, non hanno smesso di funzionare in quanto vecchi, quanto piuttosto perché tali erano le rivendicazioni portate avanti, sconnesse da ciò che veniva percepito come urgente dalle nuove generazioni. A differenza di un movimento come FFF, infatti, queste proteste avevano minore forza non solo in quanto centrate su tematiche di carattere locale, e non globale (l’ennesima riforma della scuola, la politica portata avanti dal governo di turno, Scomodo
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i diritti degli studenti), poco attraenti quindi per le nuove generazioni, distanti dalla politica nazionale e proiettate nel mondo globalizzato, ma soprattutto perché ormai prive del carattere di necessità, di priorità che intanto si era spostato altrove. I Millennials, infatti, e ancor di più i membri della generazione Z, sono cresciuti in un contesto che aveva già completamente assimilato i valori del neoliberismo e che, pertanto, si ribellava debolmente alle ennesime riforme all’interno di un paradigma ormai ritenuto immodificabile. Per questi motivi per risvegliare la contestazione studentesca occorreva dunque una tematica più urgente, globale, unificante. Qualcosa che si potesse vivere sulla propria pelle, che facesse anche paura: i cambiamenti climatici. La posta in gioco non è più una prospettiva di benessere sfumata ma la prospettiva di vita in quanto tale. E’ in questo cambio di priorità che nasce il movimento che, giunto in Italia all’inizio del 2019, ha riportato migliaia di giovani nelle piazze: Fridays For Future. La novità di FFF risiede innanzitutto nella causa perorata: la crisi climatica. FFF è un movimento ambientalista che chiede azioni concrete da parte dei governi di tutti i Paesi per diminuire drasticamente le emissioni di CO2 e dunque mantenere l'aumento della temperatura media globale sotto il livello limite di +1.5°C. Si tratta di un movimento internazionale largamente diffuso, nato in Svezia ad agosto 2018 grazie all’azione della sedicenne Greta Thunberg, che ne è il volto. E’ certamente evidente la distanza tra questo movimento e quelli ‘novecenteschi’. Dal contenuto centrale, la questione climatica, passando per la radicale trasformazione del tessuto sociale e del ruolo dei partiti di massa e delle forme della politica tradizionale, fino alle piattaforme usate per chiamare alla mobilitazione. Si ricordi come uno strumento fondamentale per il grande successo delle giornate del Global Strike for Future sia stato sicuramente quello dei social network, seguendo un pò la traccia dell’Onda che per prima aveva inaugurato l’uso del web per una mobilitazione efficace. Diverse sono anche le modalità della protesta. Se dalla Pantera all’Onda l’attivismo studentesco nasceva dalle occupazioni di atenei e scuole per poi uscire all’esterno, FFF si configura come un movimento prevalentemente di piazza, che agisce tramite scioperi, presidi, cortei, lezioni pubbliche, die-in e sit-in. Tuttavia, nonostante le tante differenze, sarebbe miope affermare che il movimento che si oppone al cambiamento climatico sia un’erba spontanea cresciuta per caso e improvvisamente in un campo di fiori di un altro colore. Scomodo
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“ I movimenti non sono isole, i movimenti non finiscono mai”- commenta Raul Mordenti- “ A me piace la metafora della barriera corallina: i movimenti non finiscono nel nulla, si inabissano in un percorso carsico, hanno delle deviazioni, cambiano di forma e poi in qualche modo riemergono. E’ sempre stato così ed è vero anche per la Pantera, certo il fatto è che non è indifferente se riemergono da una vittoria o da una sconfitta”. E la Pantera prima, il movimento del G8 di Genova nel 2001 e infine l’Onda, sono stati tutti movimenti calpestati. Mordenti cita a tal proposito un vecchio proverbio cinese: “quando si calpestano i fiori non ci si può lamentare di non raccogliere i frutti”. “Questi tre movimenti, legati l’uno all’altro per ragioni diverse, erano di una bellezza e di una vivacità incredibili, erano per la sinistra un’occasione da cogliere e sono stati silenziati”. La Pantera, a differenza del ‘68 che fu accolto sostanzialmente da una parte della sinistra, “fu umiliata e vide come risposta lo stringersi compatto del quadro politico intorno alla riforma”. Solo comprendendo le responsabilità di quella sinistra si può capire “il grande freddo” degli anni 90 e 2000 e l’egemonia del berlusconismo. Lo stesso avvenne più tardi con gli altri movimenti studenteschi e non, per capire quei vuoti durati anni, quel disincanto, “da ultimo il silenzio deprecato della vostra generazione, bisogna riflettere su tutto questo”. Forse solo attraverso questa consapevolezza è possibile riannodare alla storia dei movimenti studenteschi la stagione scialba dell’ultimo decennio e quella nuova dei Fridays For Future che si battono per la tematica ambientale. “Questa -si legge in un documento programmatico del movimento- può avere una forte lettura politica, come quella di chi sottolinea che i danni prodotti all’ambiente sono la naturale conseguenza di un sistema economico senza scrupoli quale è quello capitalistico”. Oggi i Fridays rivendicano nelle piazze la propria autonomia, la distanza dalle varie formazioni partitiche, ma si caratterizzano anche per una vocazione eminentemente politica. Tra loro i protagonisti sono i giovanissimi, figli di un mondo profondamente diverso ma anche gli insegnanti, i genitori, i fratelli e le sorelle più grandi i quali tutti, ognuno con il proprio bagaglio di esperienza, contribuiscono a tenere insieme le fila di una storia iniziata più di trent’anni fa.
Sara De Benedictis Maria Sole Dassiè Annachiara Mottola di Amato Marina Roio 13
I CONSIGLI DEL LIBRAIO Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.
ODRADEK Via dei Banchi Vecchi,57 00186 Roma RM
“La Rivista Anarchica A”
Il MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM
“La vera storia del pirata Long John Silver” di Bjorn Larsson Editore: Iperborea
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Davide consiglia: “Questo mese recensiamo un rivista a noi molto cara. Una delle poche che si trovano nelle Librerie importanti. La Rivista Anarchica A arrivata al n. 440. Le grandi catene di Librerie hanno deciso anni fa di non distribuirla più. E pensare che ha 49 anni ed esce con scadenza mensile in nove numeri l'anno (con eccezione di gennaio, agosto e settembre). Era la rivista di De Andrè. Spesso nei concerti la portava con se piegata in una tasca della giacca. E' la rivista del pensiero anarchico italiano. Molto elegante nella grafica quanto interessante nei contenuti. Non ci si può appisolare senza averla sfogliata e gustata, pagina dopo pagina. Marco consiglia: Siamo nel 1742. Ho vissuto a lungo. Questo non me lo può togliere nessuno. Tutti quelli che ho conosciuto sono morti. Alcuni li ho mandati io stesso all'altro mondo, se poi esiste. Ma perché dovrebbe? Inizia così questo romanzo tributo ad uno dei più grandi scrittori, l'autobiografia di un pirata, un bugiardo e un affabulatore. Un romanzo storico basato su un personaggio di fantasia, ma non per questo meno credibile. Infatti è lui stesso a raccontare e a decidere di cosa parlare e quando farlo. Spesso ci troviamo davanti a grandi digressioni, altre volte John Silver ci parla della sua vita attuale, tutto è imperniato su di lui e la sua esistenza. La scusante che si è dato il protagonista per decidersi a lavorare a questo scritto è, dapprima, il voler far sapere a Defoe, lo scrittore che noi tutti conosciamo e che lui aveva incontrato mentre era ancora in vita, la verità su ciò che gli aveva taciuto e mentito anni prima. Successivamente nascerà anche come risposta alla scoperta della pubblicazione de L'isola del tesoro da parte di Jim, il ragazzo che gli aveva promesso di non parlare di lui ad anima viva. Il libro riesce a creare delle immagini stupende; il mare infinito, le navi, i falò. Riuscirete ad immaginare tutto senza nemmeno rendervene conto. La sensazione che avrete e che questo autore ama profondamente questi elementi; quando ne parla le immagini sono potenti perché lui stesso le vede e ci descrive ciò che ama. Trattandosi di avventure, avvenute principalmente in mare, i luoghi chiamati in causa sono moltissimi e tutti particolarmente importanti per l'evoluzione della storia. "Quello che voglio è essere padrone del mio destino, non di quello degli altri
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LIBRERIA PUNTO SCUOLA OSTIA Viale dei Promontori, 168 00121 Roma RM
“TURISMO DI MASSA E USURA DEL MONDO” di Rodolphe Christin Editore: Elèuthera, 2019
CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM
“Rivoluzione globotica” di Richard Baldwin Editore: il Mulino
LIBRERIA TLON Via Federico Nansen, 14 00136 Roma RM
“Permafrost” di Eva Baltasar Editore: Nottetempo
Il libraio vi augura una buona lettura
Paolo consiglia: Sociologo che si è a lungo occupato di turismo di massa, Rodolphe Christin torna sull'argomento con questo appassionato saggio che analizza la logica ormai prevalentemente consumistica che muove l'Homo turisticus, impigliato nella rete sempre più stretta dei circuiti organizzati e per il quale il viaggio perde gran parte della sua forza trasformatrice. Una “fuga d'evasione” che ha distrutto la dimensione simbolica del viaggio, e che quasi sempre offende e danneggia i luoghi delle loro mete. Un esempio fra i tanti? Le navi-mostro gonfie di turisti famelici che transitano nei canali di Venezia senza che nessuno possa fermarle... Federica e Rossella consigliano: Nel suo ultimo saggio appena pubblicato da Il Mulino e coraggiosamente intitolato Rivoluzione globotica, l’accademico americano Richard Baldwin sviluppa il tema del progresso robotico globale, delle sue conseguenze sul mondo del lavoro e più in generale sul tessuto sociale. Non si tratta certo della prima rivoluzione di tale ampiezza, ci ricorda Baldwin in un primo capitolo che riassume in modo cristallino le cause e gli effetti della rivoluzione industriale. Il mondo non è mai pronto ad assorbire cambiamenti di questa stazza, e il passaggio dal mondo rurale a quello industriale, che siamo abituati a considerare un progresso, ha lasciato a terra milioni di persone. Decenni dopo, nel secondo dopoguerra, la stessa automatizzazione che aveva permesso il formidabile sforzo bellico ha causato lo sfaldamento della classe operaia, non risparmiando i colletti blu e modificando in profondità i legami sociali. In quale direzione, verso quali vantaggi l’onnipresente informatica e gli sviluppi dell’intelligenza artificiale ci stanno conducendo? Chi ne farà le spese? Quali gruppi sociali ne usciranno rinforzati e quali feriti? Quali sono le nostre reali capacità di assimilazione dei cambiamenti in atto? Baldwin racconta in modo estremamente documentato i progressi della robotica, descrive le misure messe in atto dalle classi che si sentono via via minacciate e ipotizza che i prossimi a subire le conseguenze delle nostre prodezze tecniche saranno i colletti bianchi, finora risparmiati e che hanno beneficiato in più ampia misura delle rivoluzioni precedenti. Amelia, un robot biondo di ultima generazione, lavora meglio degli umani all’help desk di una banca svedese, le vetture autoguidate sono sempre più sicure e i robot diagnostici potrebbero creare “un’intera nuova classe di medici professionisti “ in tempi brevi. Le ultime ottanta pagine del saggio indicano piste di riflessioni e cercano di individuare ciò che ci rende, noi umani, insostituibili. Nonostante la fede dichiaratamente ottimista nel progresso espressa dall’Autore nel titolo dell’ultimo capitolo – Il futuro non prende appuntamenti: prepararsi ai nuovi lavori - è difficile tuttavia non essere inquieti sull’avvenire di coloro che saranno in ritardo.
Ci sostengono anche: IL TOMO
OTTIMOMASSIMO
EQUILIBRI
SIMON TANNER
LIBRERIA TRASTEVERE
TRA LE RIGHE
Via degli Etruschi, 4 00185 Roma RM Via Lidia, 58 00179 Roma RM
LA LIBROLERIA
Via della villa di Lucina, 48 00145 Roma RM
LIBRI & BAR PALLOTTA Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM
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Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM Via della Lungaretta, 90e 00185 Roma RM
MINERVA
Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM
ALTROQUANDO
Via del Governo Vecchio, 82, 00186 Roma RM
Piazzale delle Medaglie d’Oro, 36b 00136 Roma RM Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM
KOOB
Piazza Gentile da Fabriano, 16, 00196 Roma RM
JASMINE
Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM
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Opération Barkhane La Ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato l’invio di altri 600 soldati francesi nella regione africana del Sahel, per un totale di forze impegnate nell’area pari a 5.100 unità.
Dopo 7 anni di coinvolgimento diretto di Parigi nelle ex-colonie francesi, il quadro è ben lontano dall’apparire stabile. Con il declino di Al-Qaeda e dell’ISIS nel Medio Oriente, il Sahel è poi diventato un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, e perciò il prossimo fronte della lotta globale al terrorismo.” con “il Sahel è ormai un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, destinato a diventare il prossimo fronte della lotta globale al terrorismo. “Silenziare le armi” resta un obiettivo irraggiungibile per il 2020. continua a pag. 16
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Opération Barkhane -------------------------------------------------------------------------------------------------------Come il più grande impegno militare francese all’estero si sta trasformando in un nuovo Afghanistan
Introduzione Domenica 2 febbraio 2020 la Ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato l’invio di altri 600 soldati francesi nella regione africana del Sahel, portando il numero totale delle forze impegnate nell’area a 5.100. La notizia, praticamente assente sui media nazionali italiani, arriva al termine di una serie di mesi caldi di critica e dibattito sulla più grande missione francese all’estero, in un’area fra le più pericolose d’Africa, quasi sconosciuta all’opinione pubblica europea e non solo. Il Sahel — dall’arabo Sahil “bordo del deserto” — è una lunga fascia di territorio che divide il deserto del Sahara a nord dalla savana a sud e che attraversa orizzontalmente numerosi paesi dell’Africa occidentale, dalla Mauritania fino al Sudan. Una lunga zona di contatto fra il Maghreb islamico e l’Africa sub-sahariana. Da più di un decennio l’intera area è ormai immersa in uno stato di insicurezza e violenza, dove terrorismo islamico, trafficanti di esseri umani e organizzazioni criminali transnazionali hanno trovato terreno fertile per porre le proprie radici, in una regione immensa e scarsamente popolata. Con il declino di Al-Qaeda e dell’ISIS nel Medio Oriente infatti, il Sahel è ormai un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, destinato a diventare il nuovo fronte della lotta globale al terrorismo. 18
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I francesi nel Sahel La presenza francese nell’area risale al 2012, quando Parigi intervenne al fianco del governo maliano nell’ambito della Guerra Civile del Mali. Il conflitto vedeva contrapporsi il governo centrale di Amadou Toumani Tourè ed il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA), un gruppo tuareg separatista. Il MNLA mirava ad ottenere l’indipendenza di questa regione nel Nord del paese, con l’appoggio di movimenti islamisti locali, tra cui l’organizzazione Al-Quaeda nel Mahgreb Islamico (AQMI) e varie milizie radicali rifugiatesi nell’area dopo il crollo del regime di Gheddafi in Libia. La pessima amministrazione del conflitto da parte del governo centrale, sommata ai malumori dei soldati costretti ad affrontare nemici la cui potenza militare era in continua crescita, portarono ad un colpo di Stato da parte dell’esercito maliano che, dopo aver messo in fuga il regio Presidente, installò un regime militare con a capo Dioncounda Traorè, legittimamente riconosciuto dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS). Approfittando del crollo del potere statale, i ribelli del MNLA riuscirono nel marzo 2012 a proclamare l’indipendenza dell’Azawad. Il presidente Traorè decise dunque, in accordo con l’ECOWAS, di richiedere l’intervento militare francese, per riappropriarsi dei territori settentrionali occupati e fermare l’avanzata verso sud delle truppe jihadiste. Ebbe così inizio l’11 gennaio 2013 la Opération Serval, con la quale Parigi intervenne per ripristinare l’integrità territoriale maliana, segnando così l’inizio del coinvolgimento francese nella crisi saheliana.
L’operazione ottenne subito l’appoggio delle Nazioni Unite, che diedero il via all’operazione di peace-keeping MINUSMA, e di altre nazioni europee, che inviarono aeromobili e uomini per fornire supporto logistico e addestramento all'esercito maliano, nell'ambito della missione dell'Unione Europea EUTM Mali. In poco tempo l’operazione Serval riuscì a conseguire numerosi successi e si concluse il 15 luglio 2014, a seguito della decisione dell’allora presidente francese Hollande di riconsiderare la dimensione dell’impegno dei soldati francesi, attraverso una distribuzione geografica molto più ampia a fronte della natura transnazionale del problema.
fiducioso del supporto dell’ONU, dell’UE, e dei paesi del G5 Sahel, un gruppo regionale di 5 stati saheliani (Mali, Mauritania, Ciad, Burkina Faso e Niger) nato proprio per favorire la cooperazione, la sicurezza e lo sviluppo a livello regionale. L’operazione Barkhane con circa 4.500 uomini e numerose basi militari sparse in tutta la regione, pose il proprio quartier generale a N’Djamena, capitale del Ciad, a testimoniare l’importanza strategica della partnership con il regime di Idriss Déby Itno, alleato nella lotta ai gruppi armati jihadisti. Come riporta l’European Council of Foreign Relations “L'operazione Barkhane è la più grande operazione d'oltremare della Francia, con un budget di più di 600 milioni di euro all’anno". L’operazione Barkhane è attiva ancora oggi, e i suoi compiti sono numerosi, dalle pattuglie di combattimento a fianco delle forze locali e delle milizie partner, fino alla raccolta di informazioni e all’addestramento. Nonostante l’ampia gamma di azioni, i funzionari francesi sottolineano che la priorità di Barkhane è l’antiterrorismo, ed in particolare le operazioni di eliminazione dei più importanti leader jihadisti. L’azione sul campo tuttavia, si è rivelata un’impresa ben più ardua del previsto, per tutte le forze internazionali presenti nell’area. Lo sanno bene i circa tredicimila caschi blu dell’Onu impiegati in Mali nella missione MINUSMA, tristemente nota per essere stata dichiarata nel 2014 l’operazione di peacekeeping più pericolosa del mondo. Le difficoltà sono dovute soprattutto alle tecniche di guerriglia asimmetrica dei mujaheddin, alla loro difficile localizzazione nelle aree desertiche e allo scarso livello di preparazione militare e logistica degli eserciti nazionali locali.
“Il presidente Traorè decide dunque, in accordo con l’ECOWAS, di richiedere l’intervento militare francese, per riappropriarsi dei territori settentrionali occupati e fermare l’avanzata delle truppe jihadiste.”
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Venne quindi lanciata una nuova operazione, l’Opération Barkhane, anche in risposta alla necessità di ridimensionare il budget per le operazioni esterne, che cominciavano a gravare sulle finanze dello stato francese. Con la nuova operazione si ebbe quindi una riduzione degli uomini impegnati in Mali e la loro ridistribuzione nell’intera regione del Sahel. Il presidente Fraçois Hollande era convinto di poter riuscire a gestire la situazione e ad impedire la ricostituzione di un nucleo jihadista nel territorio presidiato,
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La situazione attuale Dopo ben 7 anni di coinvolgimento diretto di Parigi sul territorio, il quadro è ben lontano dall’apparire stabile nelle ex-colonie francesi. Negli ultimi due anni i gruppi armati della regione hanno intensificato i loro attacchi, prendendo di mira comunità, edifici pubblici ed infrastrutture, portando violenza ed insicurezza ad un livello senza precedenti e rendendo quasi impossibile il sostentamento e l’accesso ai servizi basilari per le popolazioni locali. I paesi più colpiti sono soprattutto Burkina Faso, Mali e Niger, nei quali si è registrato anche un notevole aumento del numero di profughi e sfollati. Secondo l’Unicef sarebbero ormai 1 milione e 200 mila le persone – di cui più della metà bambini – ad aver abbandonato le proprie case e villaggi a causa degli attacchi e dei conflitti armati. Fra i militari francesi la situazione non è affatto rosea, con il numero di caduti che è tornato a salire recentemente. Nel mese di novembre 2019 infatti, sono stati in 13 a perdere la vita in incidente fra due elicotteri, avvenuto durante un’azione di supporto alle forze locali in combattimento contro gli jihadisti. L’eco dell’accaduto non ha tardato a farsi sentire in Francia, dove giornali e media hanno sottolineato come l’incidente rappresenti per l’esercito francese la più grave perdita da 36 anni ad oggi – dopo l’attentato di Beirut del 1983. L’intera operazione è quindi finita nuovamente sotto il fuoco incrociato di numerose critiche: da un lato quelle dei cittadini francesi,
che si domandano cosa ci facciano i loro soldati a rischiare la pelle nel deserto; dall’altro quelle degli esperti, che hanno rimarcato come a discapito degli sforzi di Parigi, le forze sul campo non siano riuscite a mettere fine agli attacchi dei gruppi jihadisti, né a contenere le violenze a danno dei civili di cui gli eserciti locali sono accusati.
Secondo l’esperta danese le forze francesi, concentrandosi principalmente sulla ricostruzione degli Stati deboli e sulla lotta al terrorismo trans-frontaliero, non avrebbero risposto adeguatamente ai disagi e risentimenti delle popolazioni locali, finendo per mettere in moto una dinamica che rischia di alimentare quello stesso nemico che cercano di eliminare. In questo clima di crescente critica e ostilità nei confronti della presenza francese nel Sahel, il Presidente Emmanuel Macron ha inizialmente minacciato di ritirare le forze dalla regione, convocando poi i leader di Mali, Niger, Chad, Burkina Faso e Mauritania nella città di Pau in Francia, per una conferenza sul Sahel tenutasi lo scorso 13 gennaio. L’intento del Presidente francese era chiaro: rivalutare la situazione sul campo ed ottenere dai leader africani una decisa riaffermazione della legittimità dell’intervento di Parigi, per porre fine a tutte le ambiguità e le accuse di neo-colonialismo rivolte alla missione francese. Nei mesi precedenti al summit infatti si sono moltiplicati gli episodi di proteste anti-francesi nei paesi del G5. Nella stessa Pau nei giorni a ridosso della conferenza, numerosi fra membri delle comunità africane di Francia hanno chiesto a gran voce che i francesi terminassero la loro “occupazione”. “Non c’è alcuna ambiguità da parte dei paesi del G5 sul fatto che le forze internazionali debbano rimanere nel Sahel” ha dichiarato Tiébilé Dramé, Ministro degli Esteri del Mali, aggiungendo: “se sono lì è perché noi abbiamo chiesto che venissero”.
“L’eco dell’accaduto non ha tardato a farsi sentire in Francia, dove giornali e media hanno sottolineato come l’incidente rappresenti per l’esercito francese la più grave perdita da 36 anni ad oggi - dopo l’attentato di Beirut del 1983.”
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Fra le molte analisi quella di Signe M. Cold-Ravnkilde del Danish Institute for International Studies sottolinea un aspetto chiave dell’inefficienza delle missioni nel Sahel.
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Per quanto riguarda la rivalutazione della missione Barkhane invece, nel summit si è deciso che la presenza francese rimarrà distribuita su tutti i cinque Paesi dell’area, ma con un focus particolare sulla cosiddetta “zona delle tre frontiere”, dove i confini di Mali, Niger e Burkina Faso si incontrano e nella quale i gruppi armati riescono ad operare con facilità, sfruttando lo scarso controllo e la porosità dei confini. “La priorità è lo Stato Islamico del Gran Sahara” ha continuato Macron, ponendo però l’accento anche sulla necessità delle forze di Barkhane e del G5 di rafforzare i progetti di sviluppo nella regione, al fine di riguadagnare la fiducia dei civili. Almeno per la riaffermazione della legittimità della presenza francese il summit di Pau sembra aver funzionato. Ma il vero successo del nuovo assetto post-summit si potrà misurare solamente in giugno, in occasione del prossimo meeting del G5 in Mauritania, sperando che le nuove truppe sul campo annunciate da Macron possano aiutare a frenare il diffondersi dell’insurrezione jihadista nella regione. Le criticità strutturali della missione però restano. “Ricostruire uno stato dove vi è un rifiuto dello stato è contraddittorio,” ha dichiarato Jean-Hervé Jezequel, esperto dell’International Crisis Group in un’intervista su France24. “C’è una strategia militare, ma nessuna strategia politica. Se si vuole restaurare uno stato, bisogna chiedersi che tipo di stato si sta restaurando”.
Gli effetti della crisi libica sulla regione Nell’ampio contesto delle crisi africane, quella del Sahel è particolarmente legata alle vicende della vicina Libia. Il 9 e 10 febbraio si è tenuto ad Addis Abeba il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana.
l’impegno diplomatico dell’Unione nei prossimi anni: la Libia e il Sahel. Due questioni legate a doppio filo, più di quanto non sia mai stato messo in evidenza. Nella primavera del 2011 l’allora capo di Stato libico Muammar Gheddafi, pochi mesi prima che venisse catturato e ucciso, avvertì a lungo i leader occidentali che supportavano i ribelli contro il suo regime. In una conversazione con Tony Blair, il Rais metteva in guardia il leader britannico sulle disastrose conseguenze della sua rimozione dalla leadership libica, che a suo dire avrebbe aperto un vuoto di potere dove al-Qaeda e altri gruppi avrebbero potuto prendere il controllo e attaccare l’Europa. Anche sul settimanale russo Zavtra, Gheddafi si pronunciò con parole che oggi risuonano quasi come una profezia: “State bombardando il muro che si erge sulla strada dei migranti e dei terroristi”. E sono proprio questi due i temi che uniscono la situazione libica con l’instabilità in Sahel. Le migrazioni innanzitutto. È proprio nel Sahel infatti che passano due delle tre rotte principali del traffico dei migranti diretti al mediterraneo e l’Europa: quella centrale (Burkina Faso, Mali, Niger) e quella occidentale (Senegal, Mauritania, Algeria). Entrambe le rotte convergono poi in Libia, ormai fuori controllo, dove la situazione dei profughi è ingestibile. In netta crescita è anche il fenomeno dei migranti climatici, in un continente in cui la desertificazione sta causando impatti devastanti. Secondo uno studio del CNR del marzo 2019, il 90% dei migranti arrivati in Italia attraverso la rotta mediterranea tra il 1995 e il 2009 emigravano per motivi climatici.
“‹‹Ricostruire uno stato dove vi è un rifiuto dello stato è contraddittorio,›› ha dichiarato Jean-Hervé Jezequel, esperto dell’International Crisis Group in un’intervista su France24.”
Scomodo
Febbraio 2020
Il titolo del summit di quest’anno era Silencing Arms in 2020, ad indicare la priorità dei governi del continente di fermare i conflitti interni. Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, nel suo discorso introduttivo ha indicato in particolare due aree su cui si dovrà focalizzare
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Passata la tempesta di instabilità seguita alle primavere arabe, è molto probabile che il principale motivo di emigrazione torni ad essere il clima sfavorevole. Ma non solo. Le tensioni religiose ed etniche stanno alimentando nell’area una gigantesca crisi umanitaria: in Burkina Faso, Mauritania e Niger vivono attualmente un milione di rifugiati dai paesi circostanti, di cui la metà solo in Burkina Faso; inoltre, 60mila migranti dal solo Mali hanno trovato rifugio in Mauritania. In questo contesto si inserisce un’esponenziale escalation del terrorismo jihadista. Nel 2019, secondo i dati ONU, gli attentati dei gruppi estremisti islamici nella regione hanno causato 4000 vittime tra civili e militari; e solo negli ultimi due mesi i morti sarebbero più di 300. Da ricordare sono, ad esempio, l’attacco che ha visto 35 civili uccisi la Vigilia di Natale in Burkina Faso e, sempre nello stesso paese, un attentato ad una chiesa che ha provocato circa 24 morti. Ma anche l’assalto alla base militare di Chinegodar, in Mali, che ha causato la morte di 89 soldati nigeriani. Fornire una mappa dei diversi gruppi jihadisti che dal 2012 popolano il Sahel è difficile. Anche tralasciando i cosiddetti lupi solitari, esiste una galassia di minuscoli gruppetti che si raccolgono poi entro sigle più ampie. Uno dei gruppi di riferimento è sicuramente l’ISGS (Islamic State in the Greater Sahara): fondato nel maggio 2015 e proveniente da una scissione del MUJAO (il Movimento per l’unità della Jihad nell’Africa Occidentale), è ufficialmente affiliato allo Stato Islamico dall’ottobre 2016. Non un affiliato qualunque, anzi: visto il progressivo indebolimento delle forze dell’ISIS in Siria, Iraq e Libia, il progetto di instaurare un califfato nell’Africa occidentale è ormai il fronte d’azione principale dello Stato Islamico (vedi Scomodo n°22). 22
Grande rilevanza ha anche il GSIM (Group for the Support of Islam and Muslims) che comprende tre formazioni diverse: AQIM (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, operante in Mali), Ansar Dine (anche questo in Mali) e Katibat Macina (tra Mali e Burkina Faso). Infine, va segnalata l’organizzazione Ansarul Islam, autrice di quasi tutte le principali operazioni terroristiche nel nord del Burkina Faso. A questo punto, per capire la composizione di questi gruppi jihadisti bisogna fare un passo indietro, ritornare alla caduta del regime libico di Gheddafi e approfondire la composizione etnica dell’area. Uno dei gruppi sociali annoverabili tra i principali sostenitori del Rais erano i Tuareg, un popolo di pastori prevalentemente nomadi che rappresenta una minoranza cospicua ma piuttosto emarginata nelle gerarchie socioeconomiche dei paesi dell’area. Con la caduta di Gheddafi i tuareg libici varcano il confine a sud, ormai praticamente inesistente, portando con sé una grande parte degli armamenti delle milizie di Gheddafi, iniziando quindi nel 2012 la lotta armata per instaurare il califfato. Una lotta che ha logorato inesorabilmente la stabilità dei paesi interessati, i quali adesso sembrano aver deciso di passare definitivamente al contrattacco. In chiusura del summit di Addis Abeba, infatti, gli stati del G5 Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger) hanno avanzato la proposta di creare una propria forza militare antiterrorismo, per rendersi così meno dipendenti dagli aiuti occidentali ed in particolare francesi. La praticabilità di quest’opzione, però, rimane molto difficile. Sia perché le risorse da destinare a un esercito autonomo sarebbero enormi — eccessive per paesi che non hanno un’economia florida — sia, soprattutto, perché non sarà per nulla facile convincere i paesi attualmente impegnati nell’area a rinunciare ai propri interessi. Scomodo
Febbraio 2020
“Silenziare le armi” nella regione, quindi, resta un obiettivo che nemmeno i più inguaribili ottimisti potrebbero ritenere raggiungibile per il 2020. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, dell’unione africana e della Francia, quella del Sahel è una crisi ben lontana dall’essere risolta. I gruppi sul campo hanno dimostrato infatti di avere grandi capacità di finanziarsi — tramite il traffico di esseri umani, in alcune zone riscuotendo addirittura le tasse — e di sapersi adattare alla pressione degli interventi esterni, conducendo una guerra asimmetrica, ricorrendo sempre più ad attentati ed evitando lo scontro aperto. Quello che si prospetta per Parigi dunque è uno scenario da Afghanistan, con truppe francesi in aumento senza data di ritorno, un nemico che sfrutta eccellentemente il terreno a suo vantaggio, ed una popolazione locale riluttante a collaborare con le forze internazionali. La risoluzione della crisi nel Sahel è di importanza cruciale per la stabilità del Nord Africa e del Mediterraneo, e finché la regione rimarrà una base sicura per terroristi e trafficanti di esseri umani, continuerà a costituire una seria minaccia anche per l’Europa.
di Cristiano Bellisario, Simone Martuscelli e Leonardo João Trento Scomodo
Febbraio 2020
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Il disaccordo del secolo
-------------------------------------------------------------------Come il piano per la risoluzione del conflitto israelo -palestinese di Trump si riflette nelle risposte del mondo arabo
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Per Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq ed ex inviato speciale per la Siria e il processo di pace israelo-palestinese, la domanda che guida e struttura la narrazione dell’area in cui secondo l’Arab Human Development Report del 2016 si sono verificati il 17% dei conflitti mondiali dal 1948 al 2014 è: gli USA stanno dimostrando di perdere in Medio Oriente la propria egemonia? L’ultimo successo diplomatico effettivo degli Stati Uniti, prima dell’accordo sul nucleare del 2015 faticosamente strappato da Obama all’Iran, risale al 1978 con la pace di Camp David. Il cosiddetto “asse della restaurazione” – composto da Egitto, Arabia Saudita e Israele – fedele agli USA non presenta spesso una guida chiara: dunque, il giornalista Alan Friedman durante la conferenza Perché le guerre in Medio Oriente non finiscono mai si domanda come si debba decifrare la linea politica americana nella regione. Che, a dispetto della retorica trumpiana della smobilitazione militare e del “disimpegno”, ha visto in Medio Oriente negli ultimi 3 anni un aumento tra le 16 e le 18 mila unità. Carnelos osserva come il fulcro della questione riguardi un asset culturale connaturato al DNA occidentale: il bisogno patologico dell’Occidente di un nemico che consenta l’innesto di un rafforzativo identitario. È così che anche il progetto di pace israelo-palestinese rischia di configurarsi nient’altro che come l’ennesimo diktat di un giovane impero incapace di imporre un controllo capillare sul Mediterraneo orientale. L’“accordo del secolo”, come ama definirlo Trump, viene presentato il 28 gennaio scorso alla Casa Bianca in presenza del premier israeliano Benjamin Netanyahu e degli ambasciatori di Oman, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti. Scomodo
Febbraio 2020
Le parole chiave dei due leader consistono nella consunta formula della “soluzione dei due Stati”, principio nato con gli accordi di Oslo del 1992 dall’esigenza di disinnescare la dominazione dei milioni di arabi della zona dopo la storica conquista della Palestina del 1967, a seguito della Guerra dei sei giorni che vide l’annessione della penisola del Sinai e la Striscia di Gaza all'Egitto, la Cisgiordania e Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. L’oltretomba di questo principio fa capolino all’indomani degli accordi quando Yitzhak Rabin, il primo ministro israeliano che aveva firmato l’accordo di Oslo, viene assassinato da un estremista di destra ebreo nel 1995. Peccato comunque, incalza il giornalista canadese Gwynne Dyer in un articolo pubblicato da Internazionale il 20 gennaio, che durante l’incontro tra i leader non ci fosse neanche un palestinese. Erano in migliaia a Ramallah l’11 febbraio a protestare contro il piano Trump, e secondo i dati diffusi dal Centro per la ricerca politica di Ramallah solo il 39% di loro sostiene la soluzione dei due Stati e il 61% pensa che questa possibilità sia tramontata da tempo a causa dell’espansione degli insediamenti coloniali israeliani. Il 65% chiede al presidente Abu Mazen di troncare le relazioni con Israele e gli USA, ma il 68% non crede che il presidente interromperà il coordinamento tra i servizi di sicurezza dell’Anp con l’intelligence israeliana. Assenti all’appello della Casa Bianca anche i rappresentanti del tradizionale asse mediorientale filostatunitense: Egitto, Arabia Saudita – tra l’altro partner dell’iniziativa – e infine la Giordania. Scomodo
Febbraio 2020
Il quadro strutturale del piano di oltre 180 pagine che prende il palliativo nome di Peace to prosperity: A vision to improve the Lives of the Palestinian and Israeli People è stato eloquentemente definito da Daniel Levy, presidente del U.S./Middle East Project: “A hate plan, not a peace plan.”
“Le parole chiave dei due leader consistono nella consunta formula della ‹‹soluzione dei due Stati››” Il documento presenta quattro punti salienti e di fondamentale portata politica: in primis Israele mantiene la maggior parte di Gerusalemme come sua capitale sovrana, lasciando ai palestinesi i sobborghi di Abu Dis e dintorni come loro capitale; in secondo luogo i palestinesi non ottengono alcun diritto al ritorno; vengono ridisegnati poi i confini principalmente tra Israele e Cisgiordania – con i primi che annettono anche la valle del fiume Giordano, un’area fertile che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania, in cambio di piccole aree desertiche nel Negev vicino al confine con il Sinai; infine è sancita la creazione di uno stato per i palestinesi, ai quali è tuttavia interdetto il controllo dei confini e su cui si impone la smilitarizzazione. Inoltre, le disposizioni del perimetro economico prevedono tra i provvedimenti più importanti investimenti per 50 miliardi di dollari nei territori occupati, senza precisare come i fondi saranno investiti e senza affrontare problemi estremi come la situazione umanitaria legata al collasso nella Striscia di Gaza o alla scarsa libertà di circolazione dei palestinesi in Cisgiordania.
L’intero accordo finale dovrà essere, infine, negoziato nei prossimi quattro anni con l’impegno degli israeliani, seppur in mancanza di qualsiasi vincolo concreto, a congelare qualunque nuova costruzione di insediamenti nei territori occupati. Dal canto suo il presidente palestinese Abu Mazen, intervenuto durante il Consiglio di Sicurezza dell’ONU il giorno stesso della manifestazione a Ramallah, ha ancora una volta preso le distanze dall’iniziativa americana ribadendo la necessità di negoziare lo status di Gerusalemme e dichiarando “l’accordo tra Stati Uniti e Israele un modo per mettere fine alla causa palestinese”. Ma ritiene esista ancora una possibilità di pace, che non esclude affatto Trump dalla negoziazione: gli USA non possono semplicemente essere i soli interlocutori della mediazione tra Palestina e Israele. Tuttavia il negoziato in Medio Oriente dovrebbe configurarsi come “un processo di pace internazionale guidato dal Quartetto” – USA, Russia, Onu e UE. Dall’altra parte del tavolo delle trattative gli stati della Lega Araba votano in coro contro il piano di pace di Trump. Ma resta aperto l’interrogativo se si possano effettivamente dire così uniti attorno alla causa palestinese. Vicini a parole, lontani nei fatti L’accordo farsa è il nome più indulgente tra quelli che ci giungono dal Cairo. Tra le vetture che escono ed entrano dalla capitale egiziana, sede del summit straordinario della Lega Araba, sono diverse quelle appartenenti ai corpi istituzionali e diplomatici dei rappresentanti medio-orientali. Tanti no echeggiano dai palazzi di potere dove si ritrovano attoniti gli organi decisionali. Eppure, di potere si può parlare? La questione è se si possa davvero discutere di capacità decisionale se infine una decisione, o perlomeno una discussione virtuosa e multilaterale, non c’è mai stata. 25
Il piano Trump, approvato o bocciato che sia, non ha previsto consultazioni di parti esterne se non quella israeliana. Tolto l’amico Netanyahu, nessun altro presidente della regione ha avuto colloqui con Washington. La Palestina, una delle due parti direttamente coinvolte dal Great Deal trumpiano, non ha mai avuto voce in capitolo. L’esclusione delle parti avverse, che si ritrovano poi sì ad opporsi al duo Occidentale (considerando Israele potenza filoamericana), le rende impotenti. E questa umiliazione non è rimasta inespressa. Gli stati arabi tutti sono stati insultati da questo piano. La Lega tutta ha bocciato il Peace to Prosperity di Trump. O quasi. La Lega Araba adotta una risoluzione per respingere l’arrogante piano di “pace”. Tutti i 22 ministri degli Esteri dell’organizzazione votano all’unanimità, opponendosi sul piano formale all'accettazione della proposta americana per risolvere una delle contese politico-territoriali più lunghe e complesse della storia. Facendo ordine tra le voci giunteci in questi giorni, purtroppo, vediamo come la nettezza di Abu Mazen, che durante la riunione straordinaria pacatamente grida “No al Piano Trump”, non troverà riscontri eccessivi nelle sue controparti. Dal canto suo, il presidente palestinese non accetta la ghettizzazione del proprio popolo, che condannerebbe a vivere in un sistema proto-sudafricano, all’interno di un territorio sorvegliato e confinato dalle truppe israeliane. E i suoi delegati sono dello stesso avviso. Il capo della delegazione palestinese nel Regno Unito, Husam Zomlot, disdegna allo stesso modo dichiarando a Reuters che quello proposto non è un accordo di pace, ma una bantustanizzazione della Palestina e del suo popolo.
Tra tanti slogan che si trovano a seguito di queste proteste, ce n’è uno che spicca: Abu Mazen ha dichiarato di non voler esser ricordato come colui "che ha venduto Gerusalemme". Già da qui, tristemente, trapela più timore che battaglia.
Il tour di supporto continua: da Riyadh con una mano il re saudita, Salman bin Abdulaziz Al Saud, rassicura che l'Arabia Saudita sta sempre con i palestinesi, mentre con l’altra porta avanti il suo giro d’affari miliardario con l’amministrazione americana (vedi, su Scomodo n.25, Il Karma del Golfo); da Istanbul un forte messaggio arriva dal presidente Erdogan, che davanti ai membri dell’AKP giura di sostenere sempre i fratelli palestinesi contro i soprusi colonialisti di Israele, fingendo così preoccupazione politica quando il fronte libico impegna ogni suo pensiero; Amman condanna le velleità espansionistiche di Netanyahu, subito dopo averci firmato un trattato di pace. Con il Libano infuocato dalle proteste che vanno avanti da mesi e la Siria ormai sempre più sinonimo di tragedia umanitaria, l’unico sincero appoggio è quello iraniano. La guida suprema Ali Khamenei ribadisce che la Palestina appartiene ai palestinesi, aborrendo la sfacciataggine statunitense. “L’accordo del secolo morirà prima di Trump” e la folla di Teheran plaude in sostegno alla Palestina, come riferisce l’agenzia di stampa ufficiale Irna. Ma davvero l’Iran, straziato dalle misure statunitensi, si butterà nella mischia palestinese? Togliendo per un attimo il “mantello critico”, sono tre i fattori di tragicità di questo nuovo capitolo. In primis, la proposta in sé che, come ripetuto, non coinvolge l’attore più sofferente e propone una visione di esclusione per il popolo palestinese. In secondo luogo lo scenario regionale: nell’immediato le ricadute del piano all’interno dei circuiti politici limitrofi è limitata.
“Eppure, di potere si può parlare? La questione è se si possa davvero discutere di capacità decisionale se infine una decisione, o perlomeno una discussione virtuosa e multilaterale, non c’è mai stata.”
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La voglia di rivalsa c’è, ma davanti alla non proposta di un’alternativa emerge soprattutto la paura del leader palestinese di dover cedere ad una compravendita svantaggiosa.
Scomodo
Febbraio 2020
Sono molti gli esperti, come il Presidente dell’ISPI Paolo Magri, che ritengono la questione palestinese non essere ormai da tempo più al centro dei giochi politici mediorientali. Le divisioni che attraversano il Medio Oriente oggi si giocano su altri fronti, come la Siria e la Libia, e con dinamiche perlopiù indipendenti dalle evoluzioni del conflitto. L’ultimo punto, figlio del secondo, sta proprio nel tipo di concezione ormai ascrivibile alla divisione israelo-palestinese. La matrice puramente storica ha stancato le forze locali, esterne e la sofferente popolazione. Quest’ultima ha sviluppato ormai una apatia politica lancinante e comprensibile, dovuta ad anni di scontri e vita disumana. La sfiducia verso gli attori palestinesi, la rabbia verso i presunti alleati arabi, l’agonia nel non trovare una soluzione decente: tutti nodi che stritolano chi questo mondo lo vive e con stanchezza ancora lo difende. Il Peace to Prosperity, quindi, non porterà né pace né prosperità. Ha provocato la chiusura delle relazioni diplomatiche tra Palestina ed Israele – con quest’ultimo che negli ultimi tempi aveva avviato alcuni meccanismi di cooperazione con molti paesi arabi. L’azzardo statunitense ha spaccato per l’ennesima volta il fronte pan-arabo, già completamente disunito, a causa di una visione totalmente antitetica all’idea stessa degli Accordi di Oslo, rimasta unica vacillante strada per la pace durante questi anni. La visione di Trump, come al solito, è puramente imprenditoriale. Con questa proposta vuole far partire una piattaforma negoziale. Come primo risultato è riuscito a dividere tutti gli attori interessati, ad umiliare uno dei due protagonisti principali e a spezzare i tentativi di riavvicinamento medio-orientali. Eccovi servito l’accordo del secolo.
Solo alle mie condizioni Volgendo lo sguardo al passato, si può ricordare come nel 2002 sotto forte impulso dell’Arabia Saudita – più preoccupata dai risvolti negativi che i sommovimenti della seconda intifada avrebbero avuto (e stavano già avendo) sulla stabilità regionale e sul mercato dell’energia che da altro – veniva presentato il progetto dell’Arab Peace Initiative.
che gli israeliani si ritirassero dai territori della striscia di Gaza, della Giudea, della Samaria e di Gerusalemme Est; che si trovasse una soluzione giusta e bilaterale al problema dei circa 3.8 milioni di rifugiati; e da ultimo, che si consentisse la formazione di uno stato palestinese sovrano ed indipendente nei territori da cui Israele si sarebbe ritirato, con capitale a Gerusalemme Est. Tutto ciò in cambio del riconoscimento formale dell’esistenza di Israele e della sua sovranità statale da parte dei membri della Lega Araba. Il piano fu poi approvato e sponsorizzato a più riprese nei summit ufficiali della Lega (nel 2002 a Beirut, con dieci assenti su ventidue membri, ed a quello del 2007 a Riyadh). Nella miglior tradizione degli sforzi diplomatici delle due fazioni coinvolte però, il piano nasceva già destinato ad un fallimento quasi certo. Per parte araba, costituiva un ulteriore (e poco impegnativo) mezzo per attirare il riconoscimento della comunità internazionale mantenendosi al contempo lontani dal conflitto vero e proprio. Per gli israeliani, le possibilità di accettare un piano costituito da termini unilateralmente dettati nei loro confronti – che in sostanza rimetteva principalmente nelle loro mani il processo di risistemazione di milioni di rifugiati – erano prossime allo zero. Possibile però che pur facendo parte di un’organizzazione così apparentemente votata alla causa palestinese – già nel 1964, fu ad un summit della Lega che avvenne la creazione del primo Consiglio Nazionale Palestinese – molti degli stati membri si comportassero in palese contraddizione?
“Possibile però che pur facendo parte di un'organizzazione così apparentemente votata alla causa palestinese, [...] molti degli stati membri si comportassero in palese contraddizione?”
Scomodo
Febbraio 2020
Anche in questo caso però, i termini della proposta di risoluzione del conflitto erano stati discussi e stilati da una sola delle due parti, prevedendo: che si ritornasse ai confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967;
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Patate bollenti La tematica più scottante riguarda il trattamento degli sfollati e rifugiati palestinesi. Si ritiene che solo nel 1948, anno in cui viene fondato lo stato d’Israele, i flussi di rifugiati palestinesi si attestassero a più di 4.3 milioni di persone. In tema, i rifugiati palestinesi – in quanto oggetto diretto delle attività di una specifica agenzia delle Nazioni Unite (la United Nations Relief and Work Agency for Palestinian refugees in the Near East, UNRWA) – non sono soggetti alle norme in materia contenute invece nella Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiati del 1951. Tra queste il divieto di espulsione di rifugiati per ragioni diverse da quelle di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, o il divieto di imporre restrizioni alla libertà di movimento dei rifugiati. Una volta divenuto chiaro che l’UNRWA non sarebbe riuscita a fornire il supporto economico necessario a raggiungere un’integrazione dei profughi palestinesi nei paesi arabi ospitanti, e che dunque di “temporanea permanenza” non si trattava, due sarebbero diventati i principi ispiratori per i paesi in questione, a detta di Abbas Shiblak, ex ricercatore senior nel programma di studio sui rifugiati all’Università di Oxford, ora direttore del Centro per la Diaspora ed i Rifugiati Palestinesi. In primis: esprimere solidarietà nei confronti dei rifugiati, ad esempio fornendogli permessi di residenza negli stati ospitanti – ed in questo senso va l’adozione del Casablanca Protocol del 1965, ad opera della Lega Araba. Quest’ultimo si occupava principalmente del diritto dei rifugiati palestinesi di lavorare e godere di piena libertà di movimento e di diritti di residenza. A seguire, “enfatizzare” l’identità dei palestinesi mantenendone lo status di rifugiati, così da perseguire nel lungo termine gli obiettivi di rimpatrio (in uno Stato palestinese sovrano) 28
o re-insediamento nei territori da cui avevano dovuto andarsene, piuttosto che di integrazione nei paesi ospitanti. A tal fine, la stessa Lega aveva adottato risoluzioni che proibivano la naturalizzazione di palestinesi come cittadini degli stati ospitanti, per motivi politici. In questo contesto, il documento più diffusamente rilasciato ai rifugiati palestinesi era finito con l’essere il cosiddetto RD (Refugee Document), ad opera delle amministrazioni dei singoli stati. Voltafaccia Dopo alcuni anni però, iniziano a verificarsi inversioni di tendenza nei comportamenti degli stati arabi: l’Egitto a partire dai tardi anni ’70 smette di rinnovare gli RD gratuitamente, imponendo oltretutto la condizione che si dia prova di poter effettuare spese ed avere quindi una qualche forma di reddito (pena la deportazione); il Libano dopo aver posto la registrazione con l’UNRWA e la ricezione di razioni da parte di essa come prerequisiti per ricevere un RD ed il permesso di soggiorno (anche qui pena la deportazione), a seguito della crisi diplomatica con la Giordania del ’95 inizia ad espellere migliaia di rifugiati, negando poi l’ingresso anche a chi già deteneva un RD libanese se non con permessi speciali. Un altro capitolo si apre a seguito dell’annessione israeliana di Gaza (che era sotto l’amministrazione egiziana) e della Cisgiordania nel 1967: dei circa 300.000 profughi creatisi molti erano di “secondo grado”, essendosi già spostati dai territori annessi nel ’48. Di questi, una parte possedeva RD egiziani (vivendo a Gaza) e si vide quindi negare il rinnovo del documento e l’accesso ai territori egiziani. Molti – si stima sugli 80.000 – furono poi costretti a fuggire in Giordania, dove non hanno mai ricevuto pieni diritti di residenza. Scomodo
Febbraio 2020
Qui infatti, pur avendovi i palestinesi goduto di diritti di cittadinanza (escludendo i rifugiati del’67) dal 1948, le politiche di “distacco amministrativo” dalla Cisgiordania adottate da Re Hussein nel 1988 hanno creato ambiguità. I loro passaporti sono stati resi temporanei (validi solo per 2, poi 5, anni), aggiungendo l’obbligo di richiedere il visto per poter continuare a risiedere in territori giordani. Hussein giustificò il tutto con la “nobile” intenzione di rinunciare ad ogni rivendicazione di sovranità su quei territori (in favore dei palestinesi), lasciando però la gestione del processo interamente nelle mani dello stesso stato di Israele. Si aggiunga il fatto che nella maggior parte degli stati arabi i palestinesi sono equiparati ad ogni altro straniero ed esclusi quindi dai servizi di educazione, sanità e social benefits più in generale (in Libano dal ’48 ed in Egitto dall’80). O che per poter portare la propria famiglia in uno stato arabo ospitante un genitore palestinese debba provare di avere un reddito che rientri in una soglia minima, quando in un totale di 8 campi e 5 centri per sfollati solo il 37% degli uomini e l’8% delle donne tra i 15 ed i 49 anni risultano avere un impiego. O ancora, che spesso la libertà di movimento dei rifugiati è fortemente limitata, come nel caso della Siria che impedisce l’accesso a palestinesi provenienti da territori occupati da Israele, o con passaporto giordano temporaneo: non ci si stupirà poi più di fronte alla scelta definitiva della Lega di revocare in toto il Casablanca Protocol nel 1991, senza fornire particolari motivazioni.
di Susanna Rugghia, Luigi Simonelli e Giulio Ucciero Scomodo
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La città inamministrabile III
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A casa ovunque Nel saggio pubblicato nel 2016 dal titolo Overheating: An Anthropology of Accelerated Change, in italiano Fuori Controllo edito da Einaudi, l’antropologo norvegese Thomas H. Eriksen analizza la realtà attuale sotto una particolare lente concettuale: il riscaldamento. 30
Per Eriksen il riscaldamento va inteso come la crescita smodata e la perenne accelerazione che caratterizza oggi la vita dell’uomo sulla Terra, con conseguente erosione delle risorse, aumento delle diseguaglianze e sfibratura delle relazioni sociali.
In un mondo che aumenta incessantemente di velocità, c’è un’industria che da anni registra tassi di crescita verticali e rappresenta a pieno le contraddizioni del nostro mondo globalizzato: il turismo. Scomodo
Febbraio 2020
Il giornalista Marco D’Eramo nel suo saggio Il selfie del mondo, edito da Feltrinelli, afferma con decisione come il turismo sia oggi il principale motore dello sviluppo globale e racconta il fenomeno senza filtri e retoriche romantiche alla Goethe, ma per quello che oggettivamente è col tempo diventato. Non più un semplice vezzo dei ceti borghesi occidentali, quanto un vero e proprio fenomeno di massa globale in rapidissima ascesa e che coinvolge, tra diretti interessati e indotto, buona parte dell’economia planetaria. Questo boom, che è soprattutto degli ultimi decenni (da 200 milioni di viaggiatori internazionali nel 1980 a 1200 milioni nel 2015 stando alla World Tourism Organization) non sarebbe stato però possibile senza l’avvento delle grandi piattaforme online. Tra le molte, una in particolare sta facendo registrare una crescita vertiginosa e da anni sta contribuendo alla trasformazione tangibile delle nostre città. Per raccontare questa storia, occorre prima entrare nella casa di due ragazzi ventenni e a corto di denaro nella costosa San Francisco degli anni prima della Grande Crisi. Brian Chesky e Joe Gebbia sono due amici da poco laureati. Per arrotondare qualche soldo decidono di affittare, all’interno della loro abitazione, un materasso ad aria. In città c’è una grande conferenza sul design e pur di trovare un posto dove dormire la gente farebbe qualunque cosa. In città c’è una grande conferenza sul design e pur di trovare un posto dove dormire la gente farebbe qualunque cosa. È così che nasce nel 2008 il servizio Airbed&Breakfast.
È questo il mito fondativo della più grande piattaforma online per gli affitti brevi attualmente operativa, oggi nota semplicemente come Airbnb. Airbnb è il principale colosso, insieme a Homeaway e Booking, degli affitti brevi turistici, in inglese noti come short term rentals.
Non è più il classico viaggio fatto di estenuanti check-in alla reception e colazioni in sale affollate. Con Airbnb ad accoglierti c’è una persona come te, di cui conosci il nome e con cui puoi chiacchierare per farti dare consigli su come conoscere la città. In pochi anni il successo della piattaforma esplode e già dai primi anni '10 attraversa l’Atlantico per diventare una realtà affermata anche in Europa. Come successo a molte altre piattaforme di condivisione online, da Facebook a YouTube, Airbnb ha nel corso degli anni attraversato numerose trasformazioni, reinventando se stessa e la sua comunità più volte, seguendo le tendenze e le esigenze di mercato. A differenza degli altri suoi parenti californiani, però, Airbnb ha dato alle trasformazioni di mercato un carattere esplicito, non occultato dal “gratuitismo” dei social network. In brevissimo tempo si è passato dai posti letto alle stanze e agli interi appartamenti, per finire alla proposta delle cosiddette “esperienze” (gruppi di viaggiatori che pagano una persona locale per fare qualcosa di tipico o particolare). Alla primavera 2019 (dati Airbnb Newsroom) gli annunci di questa piattaforma sono presenti in oltre 99.800 città, con sei checkin al secondo su scala globale. La stessa società stima un guadagno totale per gli host di circa 65 miliardi di dollari e un flusso di arrivi pari a circa mezzo miliardo di ospiti dall’inizio dell’attività. Tra le opzioni di pernottamento disponibili anche 14.000 “piccole case”, 4.000 castelli e 2.400 case sull’albero. Appare dunque chiaro il distacco intercorso dai tempi del materasso ad aria.
“Airbnb ha dato alle trasformazioni di mercato un carattere esplicito. In brevissimo tempo si è passato dai posti letto alle stanze e agli interi appartamenti, per finire alle cosiddette esperienze”
Scomodo
Febbraio 2020
All’inizio della sua storia, Airbnb è principalmente un luogo immateriale dove far incontrare domanda e offerta di posti letto, camere, interi appartamenti momentaneamente resi disponibili dai padroni di casa, in inglese host. Il beneficio riguarda entrambe le parti: da un lato i proprietari di casa possono far rendere ciò che altrimenti sarebbe inutilizzato, come la camera di un figlio lontano o la casa nei giorni in cui si parte per le vacanze; dall’altra il viaggiatore gode di prezzi decisamente più bassi (come ricordato prima, il fenomeno nasce proprio come provocazione contro il caro prezzi degli alberghi in una delle città più care degli USA). Ma c’è dell’altro. Un senso di piacevole accoglienza e di calore, uno scambio umano altrimenti impensabile in una fredda camera d’albergo.
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Non stupisce dunque come gli effetti dell’attività delle locazioni brevi turistiche, che di fatto si caratterizzano oggi come un immenso e fruttuoso business, siano da qualche anno finiti sotto i riflettori del dibattito pubblico e accademico. Nel suo Airbnb Città Merce uscito nel 2019 con DeriveApprodi, la ricercatrice Sarah Gainsforth ripercorre oltre dieci anni di battaglie contro gli effetti degli affitti brevi, su tutti “il rialzo dei valori immobiliari e i canoni di locazione, la contrazione di offerta di case in affitto e, dunque, l’espulsione dei ceti medi e bassi dai centri urbani”. Il saggio ha aperto gli occhi a molti e portato in Italia un dibattito già da tempo presente in America e sfociato in un consistente attivismo volto a proporre politiche di regolamentazione per quello che de facto è diventato un grande attore del campo immobiliare nelle nostre città. Se da un lato cresce la consapevolezza sulle controversie legate alla piattaforma di home sharing, dall’altro Airbnb non ha nessuna intenzione di rinunciare al successo guadagnato finora. Nell’epoca in cui per tutte le piattaforme digitali l’entusiasmo un po’ ingenuo da comunità online sta lasciando il posto al rigido pragmatismo di chi si vuole quotare in borsa, Airbnb compatta le fila della sua comunità con iniziative di vero e proprio team building da movimento politico come la recente 100case 100idee, che ha riunito gli oltre 200.000 host italiani per discutere del futuro del settore. Di questi, moltissimi vivono e lavorano nella città di Roma. 32
Urbi et orbi La città italiana più visitata dai turisti è Roma. Nel 2018, l’Istat ha stimato che nel territorio della Città Metropolitana di Roma Capitale siano arrivati, contando strutture alberghiere ed extra-alberghiere, 11.131.192 persone. Di queste, il 69% erano straniere ed il restante turisti interni. Il dato in ogni caso è in crescita ogni anno, così come in crescita è il numero di persone che, nel mondo, si sposta per turismo.
“Con poco meno di 30.000 alloggi la piattaforma è nei fatti il secondo gestore di case che abbiamo a Roma, dopo l’ATER e prima del Comune di Roma” Un tale mercato non può che portare Roma, la quale ha ormai fatto del gigantismo il suo marchio di riconoscimento, ad essere anche la città italiana con il maggior numero di annunci sulla piattaforma Airbnb. Nella Capitale infatti, come afferma il portale online insideairbnb (che ha fatto della ricerca sul fenomeno la sua missione), sono presenti ben 29.436 annunci per locazioni turistiche: un numero molto più alto delle altre principali città d’arte italiane confrontabili come Venezia (8.469 annunci) e Firenze (11.262). Di questi annunci, a Roma, 10.368 sono intere stanze e 18.843 sono interi appartamenti (il 64% degli annunci), principalmente di piccole dimensioni (63 metri quadri il dato medio) come afferma la mappa nº27 elaborata dai ricercatori del blog mapparoma.
Se dunque siete uno studente o un giovane lavoratore e vi state chiedendo che fine abbiano fatto tutti i mono e bilocali in affitto nelle aree più centrali della città, è probabile che il bilocale dei vostri sogni sia già su una piattaforma per affitti brevi come Airbnb. Osservando i dati su Roma di insideairbnb, uno degli aspetti più interessanti è la concentrazione spaziale degli alloggi. Il I Municipio (Centro storico) detiene il primato assoluto con più della metà di alloggi disponibili, pari a 15.700 di cui il 70.2 % sono interi appartamenti. Seguono il VII (San Giovanni - Cinecittà) con 2.479 alloggi di cui il 52,6 % interi appartamenti e il II Municipio (Parioli - Nomentano) con 2.274 alloggi di cui il 56,6 % interi appartamenti. Enrico Puccini gestisce l’Osservatorio Casa Roma e si occupa da anni della questione abitativa nella Capitale. In un recente incontro pubblico a tema Airbnb, ospitato dal centro sociale Lab Puzzle nel quartiere Tufello, ha fatto notare come con poco meno di 30.000 alloggi la piattaforma sia nei fatti “il secondo gestore di case che abbiamo a Roma, dopo l’ATER (che gestisce l’edilizia popolare per conto della Regione e conta 48.000 alloggi) e prima del Comune di Roma (che gestisce un patrimonio di circa 28.000 alloggi). Se comprendiamo anche le comuni locazioni a lungo termine tra privati ed escludiamo gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, vediamo come Airbnb gestisca quasi 1/5 dei 150.000 affitti presenti in città”. Intervistato sul nesso tra boom degli affitti brevi e il crescente fenomeno di turistificazione, ossia la scomparsa del tessuto sociale e commerciale originario del centro città, Puccini risponde così: Scomodo
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“L’ aver sottratto alloggi al mercato ordinario significa in buona sostanza che case che una volta erano affittate a residenti ora sono destinate a turisti, con tutto quello che ne comporta. Il fenomeno è stato massiccio e quindi molto impattante. Ad esempio sulla piattaforma Airbnb si è registrato un forte incremento degli annunci negli anni 2014-2015, anni in cui la crisi immobiliare ha trovato l’apice, che ne ha raddoppiato il numero. Ora vi sono circa 30mila appartamenti su Roma e per avere un riferimento numerico un medio municipio romano ha 70mila alloggi di cui però il 65% è abitato da famiglie proprietarie”. Secondo Puccini le carenze nell’affrontare il fenomeno sono essenzialmente tre: leggi, strumenti di lettura e controllo: “La legge che regola l’intero mercato degli affitti è la legge 431 del 1998, scritta in un’altra fase storica e andrebbe rivista. Da un lato, in un momento di crisi, non bisogna inibire la capacità delle famiglie di poter implementare il reddito (la casa è da sempre il bene rifugio degli italiani) dall’altro bisognerebbe arginare le speculazioni. In seconda battuta manca un Osservatorio Pubblico sull’Abitare che sintetizzi in tempo reale tutti i dati sulla città nonostante sempre la 431/98 lo preveda. Oggi i fenomeni e le dinamiche urbane sono più veloci: le amministrazioni senza efficaci strumenti di lettura sono cieche e rischiano di intervenire in ritardo, come succede ora. In ultimo la legge della Regione Lazio limita gli affitti turistici di carattere non imprenditoriale a pochi giorni all’anno: ma chi controlla?”. Tornando ai dati di Airbnb a Roma, un altro dato rilevante è quello della gestione di questi appartamenti. Scomodo
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Airbnb era infatti nato come piattaforma di incontro tra domanda e offerta di alloggi temporaneamente vacanti e contrapponeva il fascino di uno scambio “umano” al soggiorno nei grandi alberghi. Oggi, però, la stragrande maggioranza degli annunci è di tipo cosiddetto multihost, ossia la tipologia per cui uno stesso “padrone di casa”, host, gestisce più annunci e dunque più alloggi. Nel I Municipio gli annunci multipli sono il 72,3% del totale, nel VII Municipio il 54,9% e nel II Municipio il 55,5.
Appare chiaro come laddove girano più profitti e il numero di annunci è più alto, cioè nel Centro Storico, è più alto anche il numero di diverse proprietà gestite da uno stesso host. In quest’area la sola host “Bettina” è responsabile di 89 annunci, seguita da “Emiliano e Maria” con 81 annunci attivi. Nel suo libro Sarah Gainsforth rivela come dietro Bettina ci sia l’agenzia internazionale Halldis, con sede a Milano e la quale gestisce più di 700 alloggi in tutta Italia, a Parigi e a Bruxelles. In ogni caso è evidente che il significato per Airbnb di host, in inglese “padrone di casa” ma anche “ospite”, sia decisamente mutato negli anni, come ha spiegato alla redazione di Scomodo
Marzia Midulla, vicepresidente dell’associazione Host di Roma e Lazio. Midulla ha studiato come architetto e ha cominciato nel 2012 ad affittare il suo appartamento di Monti per necessità economiche. “Oggi la mia professione è la local manager, gestisco più di 30 appartamenti per conto di terze persone che non hanno il tempo di occuparsene. Ho aperto una società dove lavorano anche i miei due figli”. Midulla riferisce come negli ultimi anni (“quando ho cominciato io non lo conosceva nessuno”) “gli affitti brevi sono diventati per molti un business, ci sono tante persone che hanno affittato casa per subaffittarla su Airbnb. Sono intervenute anche le multinazionali, che stanno comprando molti appartamenti. È diventata una grande bolla”. Dal canto suo, Midulla fa parte di quella comunità di host che prende attivamente parte nella difesa dello spirito originario della piattaforma: “faccio lavorare molte persone, tra pulizie, lavanderia etc. Cerco di fare bene il mio lavoro: per altri non è così, ma io come host sento la responsabilità delle persone che vengono a pernottare nei miei alloggi, vengono per la prima volta a Roma, non conoscono la città e spesso sono disorientati.” “Mi auspico la comparsa di un codice identificativo unico della struttura”, continua Marzia, “fornito dallo Stato, che semplifichi gli adempimenti burocratici (ora ci sono credenziali diverse per ogni interlocutore istituzionale)”. Questo permetterebbe di avere tutti in regola. Oggi molti non rispettano gli adempimenti (versamento contributo di soggiorno, dichiarazione nominativi alla Regione Lazio, versamento cedolare secca) anche perché c’è poca chiarezza. Questo codice scoraggerebbe coloro che si improvvisano e poi finiscono per fallire. 33
Ridurrebbe anche la competizione abbastanza selvaggia che c’è. Adesso un alloggio per due vicino piazza di Spagna sta anche a 45 euro a notte”. La richiesta di un codice unico identificativo è anche la linea ufficiale di tutta la comunità host Airbnb, linea fuoriuscita dalla convention 100case 100idee. Interrogato dalla redazione in proposito e sull’opportunità di normare il settore degli affitti brevi in città, l’Assessore allo Sviluppo Economico, Turismo e Lavoro di Roma Capitale, Carlo Cafarotti, riconosce che “Roma vive effetti importanti circa l’impatto di affitti brevi e B&B, il principale dei quali è la diminuzione della parte residente nel centro”. Prosegue poi affermando che “il fenomeno deve essere governato e deve essere normato senza che le aziende la vivano come una diminuzione, perché una maggiore regolamentazione e una maggiore chiarezza non può che servire a tutti” e conclude che “deve esserci completa simmetria per quanto riguarda le informazioni, come l’esposizione della partita IVA e della sede legale, tra chi fa l’imprenditore con Airbnb e B&B e chi fa l’albergatore”. Sembrerebbe pertanto che il tempo della crescita senza freni sia in dirittura d’arrivo per le piattaforme di affitti brevi. Nonostante ciò, la recente proposta per affidare ai Comuni il potere di elargire licenze e stabilire un tetto massimo di annunci, presentata dagli esponenti del PD Nicola Pellicani e Rosa Maria Di Giorgio come emendamento al dl Milleproroghe, è stata ritirata il 28 gennaio per contrasti interni alla maggioranza di governo. Contrario alla proposta si è infatti dimostrato il partito Italia Viva, così come tutte le associazioni di host. Nella visione di Midulla, il governo non può “vietare a qualcuno di fare ciò che preferisce con la sua proprietà privata”.
Polarizzazione Un'altra delle lenti con cui si può osservare la realtà contemporanea, oltre al riscaldamento, è la polarizzazione. I principali temi protagonisti del dibattito pubblico sono quasi sempre oggetto di divisioni nette, visioni del mondo speculari e contrapposte. Il fenomeno Airbnb non fa eccezione. Non capita spesso che Airbnb rilasci dichiarazioni, al di fuori, s’intende, della nutrita pagina FAQ’s presente sul suo sito.
Per questo motivo spesso la locazione breve rappresenta la migliore soluzione per non tenere una casa sfitta e poter far fronte alle spese. Penalizzare gli affitti a breve termine, inoltre, non eviterebbe i fenomeni di over-tourism, che sono ormai legati a flussi turistici ovunque in costante crescita.” Sulla vicenda del codice unico identificativo, più volte richiamato come risolutivo dalle varie associazioni di host italiani, la società dichiara: “Airbnb si è detta subito favorevole a un codice nazionale e unico, che superi i codici regionali, per evitare un doppio adempimento per i proprietari. Ci siamo resi disponibili, anche insieme alle altre piattaforme online, a supportare il lavoro del Governo nella stesura dei decreti attuativi, che stabiliranno come implementare il codice. Ribadiamo la nostra piena collaborazione su questo fronte per assicurarci che questo strumento davvero permetta di semplificare gli adempimenti e che sia nazionale, facile da ottenere, unico, obbligatorio, che garantisca un periodo di transizione”. Sui fenomeni di sovraffollamento turistico che colpiscono le nostre città, Airbnb suggerisce “una presenza di alloggi diffusa sul territorio (certamente non solo nel centro urbano) che consenta a mercati turistici ormai saturi di continuare a crescere, evitando ulteriore cementificazione e consumo di suolo dovute alla costruzione di nuove strutture d'accoglienza”.
“Ci sono tante persone che hanno affittato casa per subaffittarla su Airbnb. Sono intervenute anche le multinazionali, che stanno comprando molti appartamenti. È diventata una grande bolla”
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Interrogata da Scomodo circa l’opportunità di regolare il settore degli affitti brevi, la società Airbnb ribatte: “La creazione di un tetto di notti alla locazione breve nei centri storici costituisce un approccio inefficace e controproducente rispetto ad una crescita sostenibile del turismo, specialmente per i piccoli borghi, e non andrebbe incontro alla necessità di destagionalizzazione turistica”. Prosegue: “Sono necessarie politiche a sostegno della residenzialità, per tutelare chi affitta a lungo termine i propri immobili e per proporre più soluzioni abitative anche nei centri storici. I contratti a lungo termine non tutelano i proprietari di casa che si trovano spesso in situazioni di difficoltà rispetto ad affittuari morosi di cui non riescono a liberarsi.
Infine ribadisce che Airbnb ha concretamente portato benefici per numerose persone in Italia: “I primi beneficiari dell’economia degli affitti brevi sono gli host, soprattutto donne (54%) in media di 47 anni. Scomodo
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Il 66% degli italiani che nel 2018 ha affittato tramite Airbnb ha dichiarato che questa attività è stata utile per ammortizzare le spese legate alla casa e per il 22% queste entrate sono state una risorsa aggiuntiva anche per far quadrare il bilancio familiare. Il modello di Airbnb infatti è diverso da quello di altre piattaforme digitali: la gran parte del corrispettivo stabilito dall’host (generalmente il 97%) resta sul territorio. Lo dimostra il 43% dei viaggiatori che ha visitato l’Italia utilizzando Airbnb ed effettuato acquisti o attività nello stesso quartiere in cui ha soggiornato. Il 51% ha invece dichiarato di aver speso in loco i soldi risparmiati utilizzando la piattaforma. Non solo: l’ospitalità in casa ha favorito lo sviluppo di nuove figure professionali, e l’aggiornamento di competenze già esistenti, ma che hanno trovato nuovi sbocchi grazie al mercato degli affitti brevi.”
“In alcune aree del centro storico di Napoli c’è adesso una monocultura di pizzerie, ristoranti e negozi di souvenir. Recentemente è stata fatta una mappatura dei tre Decumani e di una parallela di via Toledo (vico Lungo del Gelso). Il censimento, tra il 2017 e il 2018, ha mostrato a distanza di un anno un aumento del 50% di ristoranti e pizzerie”.
Ritornando a Eriksen, l’alternativa che l’autore individua nel suo saggio all’ingovernabilità del “globale” consiste nell’individuazione di tattiche e forme di resistenza legati a “congiunture e contesti locali”. Alessandra Caputi è membro fondatore del distaccamento napoletano della rete SET (Sud Europa di fronte alla Turistificazione). Cominciata nel 2016 come semplice constatazione della trasformazione repentina che il centro storico della città stava subendo, dal 2018 il collettivo si batte per denunciare il fenomeno di proliferazione degli affitti brevi, di espulsione del ceto popolare residente e di impoverimento del tessuto commerciale, sia con i cittadini delle aree più interessate che nelle sedi istituzionali.
A Napoli la riconversione turistica del centro città, storicamente uno dei pochi in Italia ancora abitato da un vasto numero di residenti, si accompagna al tema degli sfratti: “Molti proprietari trovano più conveniente affittare ai turisti, dunque persone che vivono nel quartiere da una vita si sono trovate in mezzo alla strada. Quando a Napoli abbiamo organizzato la prima manifestazione contro Airbnb, in contemporanea con le altre città europee della rete SET, a dispetto delle attese, molte persone si sono affacciate dai balconi per ringraziarci ed incoraggiare il corteo. Ci dicevano bravi e spiegavano che nessuno fino a quel momento aveva parlato dei problemi legati al turismo degli abitanti del centro storico, la narrazione di politici e giornalisti era solo positiva”.
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Caputi affronta quindi così il tema della locazione turistica breve come integrazione al reddito e sviluppo dell’economia locale: “gli affitti brevi ricalcano i classici meccanismi di estrazione della rendita fondiaria: in una prima fase tutti si arricchiscono, il mercato è nuovo, c’è spazio per tutti anche per chi mette una stanza in affitto per avere un sostegno di cui ha concretamente bisogno, magari subaffittando la propria casa; successivamente si assiste ad una concentrazione, chi lo faceva per arrotondare non ce la fa più perché i guadagni sono diminuiti a causa dell’abbondanza di offerta e comunque si tratta di un impegno gravoso, non tutti possono far fronte, rimangono solo i proprietari più forti cioè quelli delle seconde e terze case, che magari possono permettersi di pagare terze persone per la gestione; in ultimo stiamo osservando adesso una terza fase dove subentrano i grandi gruppi immobiliari, i quali comprano interi stock abitativi per convertirli ad uso ricettivo”. Che viviamo tempi strani d’altronde lo dice meglio di tutti Raffaele, uno dei membri del comitato, durante la consueta assemblea del mercoledì sera presso Santa Fede Liberata, poco lontano da piazza del Gesù: “Quando abbiamo fatto le nostre proposte nessuno dei consiglieri di sinistra è venuto. Gli unici che ci hanno appoggiato sono stati quelli della Lega”.
di Giovanni Tucci 35
Parallasse
-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo
Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
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Kobe Per la prima volta in quasi tre anni di pubblicazione, questa rubrica necessita di una doverosa quanto dolorosa premessa. Per quanto possa apparire ridicolo agli occhi del lettore, l’argomento che verrà trattato in questo numero rappresenta forse il più difficile mai affrontato nel corso di questi 3 anni. La morte di Kobe Bryant ha lasciato un vuoto profondo nel cuore di centinaia di milioni di persone e, pur dopo diverso tempo, è ancora difficile riuscire a processare un simile lutto. Mai il qui presente redattore avrebbe voluto che questo argomento divenisse protagonista di questa rubrica: troppo forte è il dolore per la scomparsa di una delle più grandi personalità sportive della storia dell’umanità per poter parlare lucidamente della sua figura. In questi casi, l’unica soluzione dovrebbe essere il silenzio e la riflessione personale sul lascito che il Black Mamba ha concesso al mondo intero, ossia la sua inscalfibile mentalità che gli ha permesso di ergersi come uno dei più grandi cestisti di sempre. Sfortunatamente, a chiamarci in causa sono stati i giornali sportivi italiani, colpevoli di un’indegna commemorazione della morte di Bryant nelle prime pagine del giorno successivo a questa immensa tragedia, che oltre alla leggenda dei Lakers ha visto coinvolti la figlia Gianna ed altre sette persone.
Delle (prime) pagine indecenti In Italia, a dominare la categoria del giornalismo sportivo sono ben 3 testate: due istituzioni come la Gazzetta dello Sport e il Corriere delle Sport, mentre più staccato vediamo il giornale sportivo di Torino Tuttosport. Come è possibile evincere dai nomi dei quotidiani, queste pubblicazioni dovrebbero coprire all’interno ogni singolo evento sportivo accaduto nel corso del giorno precedente, ma questo di norma non accade poiché il panorama sportivo italiano a livello informativo è totalmente incentrato sul calcio, che vede il maggior bacino di tifosi ed appassionati e per questo permette ai giornali di ottenere migliori risultati a livello di vendite quotidiane. Per intenderci: se le prime pagine dei giornali sportive italiane fossero dedicate ogni volta al volley, probabilmente tutte queste testate sarebbero già fallite da un pezzo. Esistono però delle ovvie eccezioni, come un grande risultato a livello nazionale o di club in qualsiasi disciplina oppure, ed è questo il caso, un avvenimento sconvolgente come la morte di una grande icona mondiale del mondo sportivo. Le centinaia di migliaia di lettori che quotidianamente comprano questi giornali immaginavano che le aperture del 27 gennaio fossero totalmente dedicate alla scomparsa di Kobe, ma così non è stato: la notizia della morte della leggenda gialloviola è stata relegata nella parte alta della prima pagina Scomodo
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(zona di solito in cui vengono relegate notizie rilevanti ma non di assoluta importanza), mentre lo spazio centrale dedicato alla prima notizia del giorno è stato lasciato alla sconfitta in campionato della Juventus contro il Napoli di Gennaro Gattuso. Una scelta che sarebbe apparsa “comprensibile” (ma sempre totalmente inaccettabile) per quanto concerne Tuttosport, che ha nella tifoseria juventina lo zoccolo duro della propria utenza quotidiana, ma che appare incomprensibile per quanto concerne gli altri due quotidiani, specialmente osservando quanto accaduto in Spagna. Nella penisola iberica infatti, persino due quotidiani totalmente incentrati sulle vicende delle due principali squadre sportive del paese come AS e Mundo Deportivo (che rispettivamente si concentrano su Real Madrid e Barcellona) hanno giustamente deciso di dedicare la propria prima pagina alla terribile notizia che era giunta nel corso della giornata precedente dalla California: atteggiamento in totale contrasto con quello della Gazzetta, da sempre riconosciuto come uno dei giornali più attenti alle notizie del mondo extra-calcistico (questo ovviamente prima che il mondo dell’editoria entrasse in crisi, ora anche la Rosa è costretta ad inseguire i tifosi di calcio per evitare la bancarotta). La testata che però esce peggio da questo scempio è certamente Il Corriere dello Sport, che oramai da mesi pare entrato in un loop senza fine di uscite discutibili (a partire da quando il direttore Ivan Zazzaroni decise di anticipare l’annuncio della leucemia di Sinisa Mihajlovic quest’estate). Scomodo
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Oltre a non concedere la prima pagina a Kobe (preferendo piuttosto un bel primo piano di Lorenzo Insigne), il titolo scelto dal direttore per il suo editoriale, “è caduta una stella dal cielo”, pare più un tentativo di black humor uscito terribilmente male che un modo di rendere omaggio al Black Mamba.
Nei giorni successivi, il direttore è riuscito addirittura a fare peggio, non rispondendo alle critiche subite mascherandosi dietro al concetto che se una notizia si fosse imposta su tutti gli organi di stampa sarebbe venuto meno il principio di pluralità d’informazione. Zazzaroni avrebbe fatto più bella figura ammettendo che doveva cercare di sfruttare una partita così sentita come Napoli e Juve, due dei club col maggior numero di sostenitori in Italia, per cercare di mettere apposto i conti del proprio giornale, piuttosto che proferire un’oscenità simile.
Le aperture del 27 gennaio dei maggiori quotidiani sportivi italiani devono essere ricordate come uno dei momenti più bassi toccati dal giornalismo italiano. Ad un simile scempio non potranno mai rimediare né scuse ufficiali né dichiarazioni di circostanza su quanto Kobe Bryant sia stato un’icona sportiva mondiale. L’omaggio che Kobe meritava era ben altro per quanto grande è la legacy (non solo sportiva) che lascia a questo mondo. Eppure, sarebbe bastato così poco: una pagina nera a lutto, i suoi 2 numeri di maglia che hanno contraddistinto la sua carriera (l’8 e il 24) ed una giusta frase per unire tutti i lettori nel ricordo di una delle più grandi personalità sportive che abbianopiede sul globo terrestre. Come si sia fatto a preferire un primo piano di Lautaro Martinez che viene espulso è una domanda che lascia poche risposte e tanta rabbia nel cuore. 8/24 Mamba for Life
di Luca Bagnariol 37
di Rodolfo Cascino-Dessy Foto di Emma Terlizzese
SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA
TEATRO DELLE ARTI Poszione dell'area: Via Sicilia 57/ 59 Superficie totale dell’area: 8 875 mq Anno di abbandono: Inizio anni ‘90 Proprietà: Cassa Nazionale Previdenza e Assistenza Ragionieri e Periti Commerciali (Comune di Roma) 38
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UNO STABILE DI QUASI 10.000 MQ2 COMPLETAMENTE DISMESSO ED IN CONTRASTO VICINO ALLE VILLETTE IN STILE LIBERTY CHE DA SEMPRE CARATTERIZZANO IL QUARTIERE LUDOVISI.
C
ostruito dall’architetto e ingegnere Carlo Broggi su richiesta della Confederazione Nazionale dei Sindacati Fascisti ed inaugurato il 21 aprile 1937 – con l'opera La Finestrina di Vittorio AlfieriIl Teatro Delle Arti è stato uno dei primi ad ospitare le trasposizioni d' opere di molti autori allora poco noti in Italia, fra i quali Brecht e O'Neill.
Pilastro del teatro futurista italiano, per anni è stato diretto dall'eclettico regista Anton Giulio Bragaglia -noto esponente del teatro d'avanguardia- che rese il Teatro Delle Arti un fiore all'occhiello, portando performance innovative e d'ogni tipo. Nel nome stesso è racchiusa una dichiarazione d’intenti: Il Teatro delle Arti nacque, infatti, con lo spirito di riunire nelle sue rappresentazioni e trasposizioni le forze più avanguardistiche unendo la recitazione con il canto, la danza, la poesia e la musica, oltre a varie forme d'arte considerate allora sperimentali. 40
Il teatro vede fino alla fine degli anni ‘70 un via vai di artisti e registi di gran calibro come Vittorio Gassman, Anna Magnani e Federico Fellini, che con la loro assidua presenza lo rendono palcoscenico degli anni d'oro del teatro italiano. Tutto questo cambia a metà degli anni ‘80, quando il Teatro Delle Arti viene dato in gestione all'imprenditore fiorentino Vittorio Cecchi Gori, che regge il timone per qualche anno per poi abbandonare la nave all'inizio degli anni 90'. Dopodiché, il nulla. Dagli anni ‘90 lo stabile rimane lasciato a sé stesso per oltre quindici anni, mutando pian piano da teatro a casa di senzatetto e sfortunati ed ergendosi a simbolo degli oltre sessanta luoghi di cultura abbandonati, fra cinema e teatri, sparsi per la città di Roma. Per decenni gioiello della capitale ed ora espressione pura dell’abbandono, il Teatro Delle Arti è situato a due passi da via Veneto, in via Sicilia 57, la stessa dello storico Liceo Classico Torquato Tasso. Uno stabile di quasi diecimila metri quadri completamente dismesso ed in contrasto con le vicine villette in stile liberty che da sempre caratterizzano il quartiere Ludovisi. Un luogo che dentro di sé racchiude parte della storia del teatro italiano, oggi totalmente dimenticato seppur in una zona della città resa iconica da La Dolce Vita di Fellini. In questo caso, l'abbandono del Teatro Delle Arti non rappresenta solo una perdita immensa dal punto di vista urbanistico, ma anche una perdita di un pezzo della nostra storia e della nostra arte. Scomodo
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La riqualificazione mancata Sembra esserci una speranza nel 2005, quando viene acquistato dalla Cassa Nazionale Previdenza e Assistenza dei Ragionieri e Periti Commerciali del Comune di Roma, con la promessa di rimetterlo in piedi affittandolo al miglior offerente. Promessa che a distanza di ulteriori quindici anni, si dimostra non esser stata mantenuta nonostante le miriadi di proposte. Prima nel 2010 quando viene commissionato allo studio d'architettura ADM per il suo riuso, ma specialmente nel 2013, sotto la giunta Alemanno, quando in Campidoglio fu portato un piano di riqualificazione per celebrare la famosa Anna Proclemer ed i suoi allora novant'anni d'attività dal suo debutto nel 43' proprio sul palco del Teatro Delle Arti. Un enorme progetto che doveva esser finanziato dall'allora Presidente della Cassa Nazionale Paolo Sartarelli e che in teoria doveva non solo riportare il teatro al suo storico splendore, ma in più aggiungere nello stesso fabbricato una parte residenziale ed il restauro per il commissariato di Polizia di Castro Pretorio.
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La redazione di Scomodo ha provato a contattare la Previra spa, agenzia che al momento dovrebbe disporre della gestione dell'immobile, ma non è mai arrivata una risposta. L'unica dichiarazione trovata risale al 2015, la stessa che viene data da più di un decennio: “Stiamo cercando il miglior offerente a cui affittarlo, molte persone sono interessate a questo immobile”. Eppure, nonostante il “grande interesse”, il Teatro Delle Arti marcisce da oltre trent'anni e molto probabilmente continuerà a marcire. Un Paese che non si prende cura del proprio patrimonio culturale, è un Paese intellettualmente morto, ed il Teatro Delle Arti che si staglia imponente nel centro della città, rimane in piedi per ricordarci ed esser simbolo di questa amara verità.
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Tra centri sociali e avanguardie, la Pantera nella cultura degli anni '90 Negli anni 90 si afferma un nuovo modo di fare e concepire la cultura.
È quello della galassia dei centri sociali che in questo periodo vivono la fase di maggiore diffusione e vitalità. Luoghi di incontro, dibattito e creatività dove si incontrano attivismo politico e avanguardie artistiche. Di fronte a una società sempre più votata ai valori del successo e dell’affermazione personale questi spazi non convenzionali sembrano rispondere alle esigenze dei non rappresentati. Chi non si riconosce nelle forme della cultura mainstream trova qui un’alternativa possibile. continua a pag. 48
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I Graforibelli
I Graforibelli nascono nel 1990 come movimento di critica alla società dell'informazione, alla privatizzazione della formazione e alla gestione della cultura in Italia. Nel corso degli anni hanno anche fondato il laboratorio Sciatto e il festival del fumetto Crack!, che si tiene al Forte Prenestino. Nel 2014 alla Casa della Memoria a Roma è stata presentata la mostra “Sono un Graforibelle mamma!”, dove sono state esposte le vignette di alcuni membri del movimento, tra i quali Andrea Guerra, Carlo Barbanente, Roberto Grossi e Valerio Bindi. Valerio ha realizzato per noi la copertina di questo mese.
Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 46
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Chi erano i Graforibelli, come nascono e quale evoluzione hanno avuto nel tempo? I Graforibelli nascono con un’indole anarchica, non sono mai stati un’espressione di contenuti politici organica al movimento, ma una forza espressiva autonoma e radicale che si esprime attraverso una forma di autobiografia collettiva che precede il comic journalism. Hanno seguito il movimento della Pantera nel Novanta e poi dopo un lungo silenzio sono stati espressione indignata del massacro del G8 a Genova. Nel frattempo hanno fondato con altre persone il gruppo SCIATTO, un laboratorio, uno stile, un modo diverso di raccontare attraverso l'esplorazione delle periferie di Roma, individuando spazi e deserti della città, luoghi in mutazione. Poi hanno realizzato molti fumetti e autoproduzioni per vie diverse, ma ancora oggi i vari Graforibelli continuano a raccontare le storie e le parole che sentono. Difficilmente sopportano di stare sotto i riflettori. Li devi un po’ stanare, come ha fatto Scomodo. La particolarità di questa copertina rispetto alle precedenti è che ci troviamo di fronte ad un assemblaggio di elementi vari ma legati tra loro così da creare un’armonia, qual è l'elemento che accomuna il tutto? Il collage pensato per la copertina di Scomodo raccoglie in maniera informale alcune delle vignette realizzate dal gruppo dei GRFREB (i Graforibelli) durante l’occupazione della facoltà di Architettura a Roma nel 1990. Fu un movimento interessante che non è riuscito nel breve raggio a modificare le politiche contro cui scendeva in piazza, ma che ha influenzato tramite le varie forme di creatività che esprimeva gli anni Novanta, soprattutto grazie all’ibridazione con le occupazioni dei centri sociali che riempivano gli spazi vuoti, i deserti delle città. Come nell’immagine le vignette venivano attaccate a ciclo continuo e disordinatamente lungo le scale della facoltà e di lì reinviate via fax a tutti i centri occupati. Queste tra l’altro sono per la maggior parte sono inedite, prese direttamente dal nostro archivio. I fumetti hanno il potere di riuscire a farci immergere dentro una storia con tutte le scarpe, qual è la storia che questa copertina ci vuole raccontare?
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Quella di un movimento composto di persone che al massimo superavano di poco i venticinque anni nel Novanta e che si erano nutriti delle avanguardie culturali che hanno composto gli anni Ottanta. Il gap tra il 1977 e il 1990 era stato riempito da musica, arte, fumetto e teatro, tutte forme che avevano sperimentato codici immaginari in assoluta originalità. Le donne e gli uomini che percorsero gli anni Novanta possedevano le chiavi del linguaggio della contemporaneità e sapevano come misurarsi con i media di massa usando tecnologie a basso, bassissimo costo e autoproduzione. La copertina racconta una storia di ragazzi e ragazze generosi che hanno tentato in tutti i modi di condividere saperi ed esperienze nel corso della loro vita e delle loro scelte politiche. Com'è nato il Crack! Festival e qual è il suo obiettivo? Tutto quello che si è provato a Genova toglie la parola. CRACK!, il festival di fumetti e grafica del CSOA Forte Prenestino, che inizia in quegli anni il suo corso, parte da questo silenzio, con un nome che è il suono di uno sparo nel deserto. Un crepitio preso dagli Scorpioni del Deserto di Hugo Pratt. Finora questo festival ha significato un immenso investimento di network e di propagazione culturale costituendo un incredibile forziere di visioni del presente, che attraversa, e discute, le pratiche di autoproduzione. Al momento il network nato da CRACK! è planetario, un movimento grafico internazionalista con decine di festival auto-organizzati, inclusivi, ospitali, autoconvocati e tutti in rete fra di loro, capaci di coinvolgere migliaia di autori di fumetto e un pubblico attivo e recettivo.
Insomma la scelta non è avvenuta per CRACK! ma semplicemente questo progetto ha confermato la sua esistenza in uno spazio accogliente e multiplanare che nel tempo ha sostenuto con sempre molta energia le forze radicali e creative. Il Forte è una Fortopia, una eterotopia metropolitana, che a partire dal 1986 continua ad aprire percorsi vitali nella nostra città. Cosa pensi del ritorno della politica come argomento centrale nella street art in Italia grazie ad artisti come Tvboy, Laika e Jorit? Io penso che tutto l’underground esprima una condizione di vita che ha una sua inevitabilità soprattutto, e proprio per questo la possa distillare in una partecipazione politica. Tutta la street art è politica, quando viene dall’underground, e lì macina visioni. È una forma di vita. Non vedo altre possibilità, poi certo esiste arte che usa stilemi e tecniche street ma è come una marca, un timbro su di un prodotto pronto per il mercato globale. Nel fumetto che vediamo a CRACK! è lo stesso, c’è un lavoro sulle immagini e sulle forme delle fanzine che le contengono, che non può essere riconvertito in una produzione industriale, che esiste solo in quanto legato a produzioni fatte a mano e radicali. E questo aspetto è così profondamente politico che molte volte non passa attraverso dei contenuti ma prende una forma che ne mostra direttamente la forza e l’alterità. di Rebecca Cipolla
Come mai avete scelto di tenere il Festival al Forte Prenestino? Il primo festival che abbiamo realizzato nei sotterranei del CSOA Forte Prenestino risale al 1991, il Festival dell’Arte: raccoglieva contributi dall’Europa dell’Est e dell’Ovest dopo che i muri erano caduti e i confini si erano smagliati, finalmente. Organizzare questo festival ha significato ripristinare i sotterranei invasi dal fango del tempo ed è stato quello l’habitat naturale di molteplici altri eventi underground, anche di fumetto, nel corso di tutti i Novanta.
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OCEANO INDIANO il racconto a puntate di una nuova convivenza Cinque compagnie romane- DOM-, Industria Indipendente, Muta Imago, mk e Fabio Condemi - sono state chiamate a dar vita a febbraio ad un nuovo progetto teatrale presso il Teatro India. Un processo iniziato già lo scorso settembre con la festa in occasione del ventennale del teatro - da sempre espressione di ricerca e sperimentazione artistica –, quando la nuova direzione ha chiesto a queste cinque compagnie di immaginarla reinventando completamente la funzione degli spazi dell’India. Oceano Indiano nasce proprio da questa volontà: porre una particolare attenzione sulla funzione sociale degli spazi del teatro e sul loro legame con la città, trasformando così l’India in un luogo di residenza e contestualmente di accoglienza del pubblico attraverso una programmazione dalla natura più varia, che offra una pluralità di visioni artistiche grazie a proposte provenienti da compagnie di generazioni e discipline diverse.
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Noi di Scomodo siamo stati chiamati, per i prossimi quattro mesi, a raccontare questo progetto in costante evoluzione, con l’intento di avvicinare il lettore ad una nuova prospettiva di teatro, che moltiplichi i momenti di apertura alla città. “Oceano Indiano - ci scrivono Lorenza e Giulia, della redazione di Teatro di Roma, che produce il progetto - si apre allo sconosciuto. Galleggiando in superficie o nuotando in profondità, si incontrano imprevedibili ecosistemi, attività artistiche e momenti di condivisione”. Per questo Claudia, Leonardo, Martina ed Erika, alcuni artisti delle suddette compagnie, hanno sottolineato che ciò che si apprestano a fare è teatro, nonostante nel progetto ci sia ben poco di riconducibile agli spettacoli frontali tradizionali. Se in uno spettacolo tradizionale c’è infatti la fase della lettura della sceneggiatura, durante la quale l’attore cerca di comprendere il personaggio e il contesto nel quale esso si muove, gli artisti di Oceano Indiano costruiranno, partendo da dei filoni generali e attraverso varie esperienze vissute in prima persona, una programmazione di varia natura e articolazione. Le cinque realtà romane, infatti, abiteranno per i prossimi mesi il Teatro India condividendo spazi e abitudini, giungendo ad una coabitazione dello spazio. La scelta del teatro India poi non è certamente casuale, un teatro un po’ isolato dalla città, una sorta di cava scollegata dal quartiere, ciò che più si contrappone alle regole della “geografia del teatro”, un modo di organizzare il territorio rispondente al sistema economico che ha a lungo regolato il commercio degli spettacoli. <<Uno degli obiettivi principali – spiegano entusiasti Leonardo e Martina, rispettivamente di DOM- e Industria Indipendente- è il far percepire questo posto come abitato; c’è quindi stato tutto un lavoro riguardo la struttura… ma poi l’anima del posto, quella che, quando entri, ti fa sentire il calore diverso da quei luoghi che tu riconosci come “aperti solo perché c’è uno spettacolo”, siamo noi. Importante è cambiare la dimensione percettiva di questo posto, che vuole essere casa e porto, sempre aperto>>. Vivere quindi lo spazio nella sua totalità e provare esperienze che inevitabilmente si manifesteranno nelle attività da condividere con le compagnie: da Prima_piscina mirabilis - a cura di Michele di Stefano di mk e Silvia Rampelli -, laboratorio di ricerca volto a dare la possibilità a chiunque lo desideri di immergersi nell’ accadimento puro, nell’esplorazione dell’articolazione fisica di sé, senza costruzione; a Nascita di un giardino ,progetto proposto da DOM- e dedicato allo spazio aperto del Teatro India, alla relazione tra questo e il tessuto urbano circostante, composto di camminate, pratiche somatiche e percettive, esercizi di osservazione e science fiction, che approderà ad una progettazione partecipata dello Scomodo
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spazio e ad una festa/rito di inaugurazione; passando per The Indian Transmissions - di Muta Imago e a cura di Chiara Colli, una stazione radiofonica clandestina che si accende e trasmette in streaming ciò che accade, trasformando la biglietteria di India in una cantina romana. Questi e altri progetti dei singoli collettivi si andranno a tessere tra loro in una indefinita dimensione spazio temporale, lasciando piena libertà alla curiosità e alla creatività. Un percorso ibrido e multimediale che attraversa le compagnie sia nella loro singola essenza, sia in rapporto le une con le altre e anche con eventuali professionisti o appassionati singoli che, se desiderosi, prenderanno parte, in occasione di workshop e laboratori, al progetto. Questo si finalizzerà in una serie di spettacoli - alcuni dei quali verranno rappresentati in festival e rassegne, per poi arrivare al Teatro India nella prossima stagione - e continue ricerche concentrate sul dato umano, e il dialogo tra compagnie e pubblico. Un processo di co-creazione e formazione in fieri, di accorciamento delle distanze, che affianca in una dimensione reticolare la stagione dell’India, una sperimentazione estremamente positiva per la produzione culturale della capitale, che rimette al centro il legame tra l’artista e lo spazio con una progettazione trasversale e di lungo termine. Un’esperienza che, orgogliosamente, Scomodo seguirà nei prossimi mesi molto da vicino.
di Gaia Del Bosco e Lorenzo Cirino
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Tra centri sociali e avanguardie, --------------------------------------------------------------------------------------------------------La Pantera nella cultura degli anni 90
Roma, Piazza del Popolo: è il 3 febbraio del 1990 e sul palco sale un gruppo che suona a un ritmo nuovo: è l’Onda Rossa Posse che infiamma la folla al suono del rap di “Batti il tuo tempo”. La folla è quella dei ragazzi e ragazze liceali e universitari del corteo nazionale della Pantera. Il concerto chiude il partecipatissimo evento e inaugura una nuova stagione, quella degli anni ’90, caratterizzata da un nuovo modo di fare e intendere la cultura. Nasce così in Italia l’era delle avanguardie artistiche e musicali e inizia la fase più esaltante e prolifica dei centri sociali che diventano i luoghi privilegiati per le nuove sottoculture. Del resto è la stessa Onda Rossa Posse a citarli nei testi delle sue canzoni. In “Batti il tuo tempo”, ad esempio, si parla del Leoncavallo di Milano, uno dei primi centri sociali occupato nel 1975, da molti considerato l’archetipo per eccellenza. I centri sociali quindi esistevano già da tempo. Le prime occupazioni di spazi in contesti urbani risalgono agli anni ’70 sotto la spinta dell’esigenza di rappresentare chi era tagliato fuori dai meccanismi della rappresentanza tradizionale, quella che veniva definita “seconda società”, ovvero i giovani senza lavoro ed emarginati. Paolo Perrini, presidente di Spin Time Labs, se lo ricorda bene: “Lo sviluppo dei centri sociali è stato più che altro una risposta al concetto per cui all’epoca la società vedeva i giovani come un elemento di precarietà del futuro”. 50
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Le domande che provenivano da questi ragazzi non si esaurivano però unicamente nella sicurezza di avere un tetto sulla testa ma coinvolgevano anche esigenze di altro tipo. La volontà di affermare nuove forme di socialità, di incontro, di formazione politica e culturale. Gli anni ’80 diventano il periodo di incubazione dei centri sociali prima del boom che si avrà nel triennio 89-91. Da una parte racconta Perrini - c’era “quel neoliberismo forsennato che ha portato ad una situazione di crisi paurosa, dove appunto i giovani e la precarietà come sistema di vita venivano istituzionalizzati”, dall’altra, si assisteva al ripiegamento di un’intera società nell’ambito della sfera privata. Così nei vacui e superficiali anni ’80 che spingevano verso l’individualismo di massa, le domande di quanti non si riconoscevano nello stile di vita e nelle forme della socialità mainstream crescono e diventano più pressanti. «Noi siamo il degrado che avanza. Noi siamo i barbari calati per saccheggiare la città vetrina e gozzovigliare sulle sue rovine» recitava il volantino degli occupanti del Brancaleone a Milano, oggi sgomberato, in cui ad essere presa di mira era la patina consumistica della Milano da bere degli anni '80, quando, ci racconta Perrini, “era centrale la questione degli yuppies e avere successo era il valore più importante, anche a livello culturale, proposto da quel modello di società”. In questo contesto i centri sociali diventano così, poco a poco, sempre più consapevoli di costituire il terreno per la formulazione di una risposta alternativa a quelle domande, nuovi attori sociali capaci di rappresentare i non rappresentabili.
Comincia così all’interno di questi spazi una febbrile discussione teorica volta a costituire un’identità ideologica nuova che selezionasse dal passato (i movimenti del ’68 e del ’77) solo quello che intendeva trattenere. Questa presa di coscienza fu fondamentale affinché al mondo dei centri sociali si avvicinassero anche tutti coloro che prima non vi avevano mai messo piedi, un po’ per sospetto un po’ perché vittime dell’idea che fossero spazi in cui l’attivismo politico dovesse rimanere l’elemento caratterizzante. Q
Il movimento della Pantera, infatti, che nacque dalla precisa esigenza di contestare la riforma Ruberti sugli atenei, fu anche un importante movimento culturale: stanchi del linguaggio e delle forme stantie e scontate dei movimenti passati, i militanti volevano aggiornarli adeguandoli alle tendenze delle giovani generazioni di allora. I caratteri impressi nel dna della Pantera (revisione del passato dei movimenti, nuovi stili comunicativi, l’utilizzo del fax) lo resero il megafono perfetto per la diffusione dell’esperienza dei centri sociali. E nei centri sociali, in quelli già esistenti e nei nuovi che furono fondati, rifluirono, quando l’esperienza delle facoltà occupate cessò e si avverti l’esigenza di spazi alternativi e autogestiti, quelle spinte nuove, quelle realtà culturali, sorte proprio nel grembo della Pantera. Molti dei giovani che parteciparono alle proteste diventarono in seguito attivi sostenitori dei diritti degli artisti di strada, continuando a sperimentare all’interno dei centri sociali un nuovo modo di fare cultura. Per la scrittrice Tatiana Bazzichelli: "Negli anni '80 i Centri Sociali nascono proprio per questo… e nello stesso tempo nascono come spazi di networking". Negli spazi occupati, negli stabili abbandonati, in ex fabbriche, in ville, appartamenti e case sfitte si sono sviluppati i dibattiti sulla condizione giovanile, si sono tenuti happening, sperimentazioni, concerti, assemblee, fino a trasformare detti spazi in luoghi di abitazione. Centrale per la diffusione e attrazione culturale dei centri sociali, veri e propri centri di produzione culturale, è la musica,
“Particolarmente interessante è il caso romano, dove l’esperienza dei centri sociali fu determinata nel 1992 dalla presentazione di una delibera di iniziativa popolare”
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L'apertura dei centri sociali all’esterno, quella che da molti venne definita “la fuoriuscita dalla gabbia” avvenne nel periodo di grandi fermenti a cavallo dei due decenni. A questo fenomeno contribuirono diversi fattori, il più incisivo dei quali forse fu proprio l’esplosione del movimento studentesco della Pantera tra dicembre ’89 e gennaio ’90. Il movimento dovette molto, sin dalle sue origini, all’esperienza dei primi centri sociali che lo influenzarono nella scelta di linguaggi innovativi e nell’adozione delle pratiche del do it yourself, e allo stesso tempo costituì la spinta decisiva per l’espansione e il successo degli stessi.
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in quanto in questi spazi si dava la possibilità di avere un’autorganizzazione anche per ciò che concerne i generi musicali della compagine giovanile. I generi più proposti sono il rap e il raggamuffin, la cui origine in Italia va ricercata proprio in questi contesti. Anche nei ragazzi del 1990 il moto di protesta generò un fenomeno di innovatività musicale. I motori centrali di questa prorompente sperimentazione musicale furono l'Isola nel Kantiere di Bologna, il CSOA Officina 99 di Napoli, il Centro Sociale Occupato e Autogestito Leonkavallo di Milano e il Forte Prenestino a Roma. Questi furono alcuni dei centri sociali più importanti in Italia, non a caso situati nelle periferie di grandi città dove la sensazione di alienazione e la conseguente necessità di risposte erano avvertite con più urgenza. Città come Bologna, Napoli, Milano, Torino e Roma, dove non a caso si registra la concentrazione più alta di CSOA (circa 250), hanno da sempre rappresentato la culla di questa galassia in espansione. Particolarmente interessante è il caso romano dove racconta Paolo Perrini “l’esperienza dei centri sociali fu determinata nel 1992 dalla presentazione di una delibera di iniziativa popolare che è stata poi l’unica nella storia del comune di Roma a tramutarsi in legge nel 1994 dalla prima consigliatura di Rutelli.
“Negli spazi occupati, negli stabili abbandonati e nelle ex fabbriche si sono sviluppati i dibattiti sulla condizione giovanile.” 52
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“L'apertura dei centri sociali all’esterno, definita ‹‹la fuoriuscita dalla gabbia››, avvenne a cavallo dei due decenni” Io ero tra i primi firmatari assieme a tutti i centri sociali della città”. L’atto era in un certo senso rivoluzionario in quanto modificava radicalmente la condizione e la percezione dei centri sociali stessi: “permetteva l’utilizzo da parte nostra dello spazio pubblico e privato abbandonato a fini sociali” continua Perrini. “Questo determinò il blocco degli sgomberi e le assegnazioni dei centri sociali, istituendo un percorso che fece aprire anche nuovi centri sociali come il CSOA La Strada, La Pirateria di Porta, Acrobax e tutti gli altri”. Il rapporto dei centri sociali romani con le istituzioni fu però anche fonte di accesi dibattiti che coinvolsero le realtà esterne alla capitale: in gioco c’era in parte anche l’identità antagonista di questi spazi. Insito, infatti, nella dna dei centri sociali in Italia, sin dai primissimi anni della loro formazione, è il fatto di presentarsi come una galassia composita che, partendo dai capisaldi comuni, si è differenziata, intraprendendo strade diverse a seconda dei contesti urbani di riferimento. Il Rap è quello che fai, l’Hip Hop è quello che vivi Tra gli anni ’80 e ’90 è sbarcato in Italia l’Hip Hop, basato sulle 4 arti: Writing, Djing, Breakdance e Rap. L’Hip Hop è cultura e tradizione tramandata dalla “black esperience”, fatta di messaggi positivi e denuncia sociale. Scomodo
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In Italia questa musica avanguardistica e sentita come propria è stata captata e ha trovato subito un luogo per rifugiarsi nei centri sociali autogestiti tramite le Posse. A Milano c’erano i Lion Horse Posse, a Roma al Forte Prenestino grazie alla Radio Onda Rossa nacquero gli Onda Rossa Posse e a Bologna all’Isola Kantiere gli Isola All Stars Posse. Nel ’90 a Roma “Batti il tempo” è il primo vinile di una canzone rap in Italia. Infatti, in questo momento c’è una profonda mescolanza di musica e politica che creerà un connubio e matrimonio fortissimo. La componente di critica sociale è intrinseca al genere come “qualcosa di sinistra” come dice Ice One, in quanto è una delle forme espressive più legate al dissenso, è una musica dal basso o di contestazione, tanto da diventare colonna sonora di manifestazioni. Avendo un rapporto stretto con i centri sociali, in un certo senso inizia a delinearsi un paradigma o tipologia di testo fortemente politicizzato, ma è comunque un movimento nuovo e spontaneo che cresce, utilizzando sonorità reggae e hardcore, nonché i generi che venivano ospitati negli stessi spazi. Durante le occupazioni delle varie facoltà fiorirono anche forme di espressione artistica come momento di cultura alternativa, tra questi episodi è memorabile il corteo circense. Le occupazioni erano in quel momento in una fase avanzata ed iniziava ad essere passato un po’ di tempo dall’inizio della protesta, oggetto di una forte pressione mediatica. Importanti testate giornalistiche nazionali si erano esposte denigrando i ragazzi della Pantera. 54
I protestanti si trovarono nel polverone delle false accuse e della disinformazione. Il corteo circense, organizzato dal PIC, Pronto Intervento Culturale, fu una risposta gioiosa e colorata alla provocazione mediatica ma anche una espressione artistica fortemente corporea che utilizzò un metodo di comunicazione alternativa contro una politica ormai logora.
Per irridere le “ondose” parole di alcuni giornalisti, Cesario Olivia realizzò barchette di carta proprio con quei giornali, riempendo con queste la vasca della fontana sotto la Minerva che, solitamente, era sempre vuota. Altri studenti quel giorno si travestirono da corvi neri ed entrarono, gracchiando, nelle classi delle facoltà non occupate, interrompendo le lezioni per annunciare il corteo. All’interno delle facoltà occupate fiorirono anche Laboratori teatrali. Dentro la Sapienza di Roma sorse un gruppo teatrale organizzato da Nino Racco, il quale all’epoca lavorava a cappello nelle piazze romane come cantastorie e attore.
Nino dirigeva il gruppo formato soprattutto da studenti di lettere e antropologia, dandogli il nome di “Novanta Teatro Movimento”. Per la formazione del corpo dell’attore leggevano “Terzo Teatro” di Barba e “Teatro povero” di Grotowski. Dalla direzione di Nino approdarono poi al teatro musicale. Terminata l’occupazione,gli studenti per un periodo si trasferirono in un casale di pietra nei Boschi del monte Peglia, senza acqua corrente o elettricità. Vissero lì conducendo una vita comunitaria per qualche anno, per poi tornare a Roma. Alcuni di loro divennero artisti di strada come Daniele Mutini, che continua ad esibirsi nelle piazze, altri si rifugiarono nel Rap. La produzione di cultura della Pantera, attraverso video, scrittura disegni è un fatto nuovo e significativo. Tutto il lavoro fatto sulla comunicazione e il linguaggio diventa non una espressione “organica”di contenuti politici tradotti in altre forme, ma proprio un prodotto indipendente creativo antagonista che esprime in sé l’anima del movimento.Le vignette create dagli esponenti del gruppo Graforibelli, giovanissimi studenti che, con i loro disegni, stampati a bassa risoluzione dalle vecchie macchine di fax, tappezzarono i muri della Capitale, rappresentano una delle tante manifestazioni della componente artistica del movimento.
di Annachiara Mottola di Amato e Martina Roio Scomodo
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Existencilism -------------------------------------------------------------------*** c'é n**s** ****o ** *********r, **e****! **? D***.
“Le persone dovrebbero sapere che c’è stato un recente proliferare di esibizioni dedicate a Banksy e che nessuna di queste è stata autorizzata dall’artista. Sono state interamente organizzate senza il consenso o la partecipazione dell’artista. Vi prego di trattarle di conseguenza” – Banksy Vi farà piacere sapere, cari lettori, che tutte le informazioni sull’ultima mostra dello stenciler più famoso al mondo, che si svolgerà a Roma, le potete trovare a questo link: https://www.chiostrodelbramante.it/post_mostra/ banksy/ ma io non ve ne parlerò perché, come avrete ormai capito, è una mostra sbagliata. Ok, forse la citazione dal suo sito personale non vi ha convinto a sufficienza, e ci starebbe. Rinforzo con un’altra citazione proveniente da una delle sue rarissime interviste: «L'arte che guardiamo è fatta da solo pochi eletti. Un piccolo gruppo crea, promuove, acquista, mostra e decide il successo dell'Arte. Solo poche centinaia di persone nel mondo hanno realmente voce in capitolo. Quando vai in una galleria d'arte sei semplicemente un turista che guarda la bacheca dei trofei di un ristretto numero di milionari». Il che, orientativamente, è il riassunto del Banksy-pensiero che potete trovare nel suo libro del 2002: Existencilism. Quindi, anche se a marzo verranno esposte circa 150 delle sue opere a Roma il mio personalissimo consiglio è di non andarci. Scomodo
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Ciò non toglie che sia interessante cercare di capire come mai vengano proposte così spesso nuove mostre di Banksy anche se la risposta è semplice: è uno degli artisti affermati più amati al mondo e si fa leva sulla voglia del grande pubblico di esserne parte e, in nome del profitto, non è più importante snaturare totalmente l’opera e le volontà di un artista... l’importante è guadagnarci. Ma, prima di tutto, partiamo dal principio... chi è Banksy? La sua identità è, ad oggi, totalmente sconosciuta anche se alcuni indizi suggeriscono che NO! Se qualcuno nel 21esimo secolo non ha mai sentito parlare di Banksy probabilmente vive sotto un pavimento, quindi partiremo dall’assunto che si sappia chi sia (in senso lato, ovviamente) e andremo oltre. Più interessante è il comprendere perchè questa mostra è sbagliata. Non è soltanto un fattore di totale disconoscimento da parte dell’artista. Più che altro è il fatto che la totalità delle sue opere cercano di mettere in risalto un concetto estremamente semplice e complesso: c’è qualcosa di profondamente sbagliato nella nostra società, interveniamo. Il problema è che la società turbocapitalista ha talmente assoggettato il nostro presente che lo stesso artista è stato costretto a scenderci a patti, seguirne le regole, proprio per tutelarsi. Il fatto che sia possibile acquistare delle opere di Banksy a basso costo, in rarissimi shop, sembrerebbe ad un primo sguardo un controsenso piuttosto formidabile, ma non è così. Perchè il motivo principale per cui Banksy ha cominciato a “commercializzarsi” è proprio per evitare che altri utilizzassero il suo nome, all’epoca non registrato, per fare soldi.
Sono lontani i tempi in cui partecipava alle faide tra writers con King Robbo a Bristol. Quando l’intera città è stata sconvolta per una ventina d’anni dalle due fazioni Team-Robbo/Team-Banksy a colpi di bomboletta donando ogni giorno un nuovo volto ad una città grigia per definizione.
“Quando vai in una galleria d'arte sei semplicemente un turista che guarda la bacheca dei trofei di un ristretto numero di milionari”
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Quella faida terminò con King-Robbo in coma, da cui non si sarebbe mai più risvegliato, ed un onore alle armi da parte di Banksy in perfetto stile writer: ad uno dei murales più famosi di Robbo, tre mesi dopo l’avvento del coma, fu aggiunta una corona ed una bomboletta spray, sovrastata da un simbolo di “pericolo, materiale infiammabile”.
Un modo, forse, per simboleggiare l’accensione di una candela. A questa modifica ne furono aggiunte altre a modificarne leggermente la fattura... una chiara accettazione della pace da parte dei membri del Team-Robbo che, però, hanno voluto deporre le armi alle loro condizioni. Già, quei tempi sono lontani. Il successo ha investito Banksy e per preservare il suo messaggio ha dovuto tutelarsi, trasformando l’illegale in legale. Ma, almeno, lo ha fatto a modo suo. Infatti il suo personal shop, a New York, si chiama “Pest Control Office” e, oltre ad essere l’unico spazio autorizzato a vendere la sua arte, funziona anche come organo di controllo deputato alla certificazione delle sue opere. Il che avviene con una procedura sufficientemente complicata... Ogni opera dell’artista viene associata, nell’atto della vendita, ad una falsa banconota da 10 sterline raffigurante l’effige di Lady D e autografata da Banksy, a mano. La banconota viene quindi tagliata a metà. Una metà resta nelle mani della Pest Control Office, l’altra viene data al cliente. Inutile sottolineare, ma lo faccio comunque, come ad ognuna di quelle parti di banconote ne corrisponda una ed una sola. Un falso per certificare l’autenticità di un’opera d’arte. Perchè lui è Banksy, e può farlo. Interessante sottolineare, però, come l’artista si sia rifiutato di autenticare determinate opere vendute in alcune aste. Perchè? Di nuovo, perchè la sua arte deve essere accessibile a tutti. Il capitalismo, e i milionari, non potevano restare a guardare e, nel tempo, hanno cominciato a strutturare un complesso sistema per appropriarsi delle opere dell’artista... Scomodo
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ovvero si inseriscono in un contesto “illegale” (street art non autorizzata) “legalizzandola” (battendo all’asta i muri delle case su cui è intervenuto l’artista) e “lavandosene le mani” (la responsabilità della rimozione del muro è nelle mani di chi vince l’asta). Più Banksy cerca di combattere, mettere a nudo, indicare questo sistema... più acquisisce importanza a livello globale. Resta simbolica l’asta nel lontano ottobre 2018 in cui il suo dipinto Ragazza con palloncino fu battuto dalla casa d’aste Sotheby’s per 1.180.000 euro (Un milione e centottantamila euro). Non appena pronunciato il rituale “Venduto” un complice dell’artista fece scattare un meccanismo nascosto all’interno della cornice, distruggendo la tela. Ennesima provocazione. Banksy urla al mondo: “Non potete comprarmi”. Ovviamente il valore della tela tagliata è aumentata esponenzialmente. Non c’è speranza. C’è da dire che una domanda, però, sorge spontanea. Se Banksy non riesce, nonostante i suoi sforzi, ad estromettersi dal sistema classico... perchè continua? Certo, il primo pensiero potrebbe essere che cerchi in tutti i modi di non dargliela vinta. Ma non è detto assolutamente che sia tutto qui. Già in passato un collettivo di street artist, fondato presumibilmente da Banksy stesso, è stato sciolto perchè stavano ottenendo troppa notorietà: “Abbiamo scelto di chiudere questo collettivo perchè alcune delle nostre opere cominciavano a valere migliaia di sterline, non era questo il nostro intento.” Hanno scelto la Damnatio Memoriae, quindi rispetterò la loro decisione e non vi dirò il nome del collettivo. Scomodo
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Tanto ormai il loro sito è down. Ma allora perchè continuare? Che Banksy sia semplicemente il più grande dei paraculi? Uno stratagemma per far finta di essere antisistema e, in questo modo, aumentare la sua notorietà? Oppure è convinto che il suo messaggio sia molto più importante rispetto al piccolo prezzo di essere milionario e parte integrante di un sistema che sta contribuendo a far evolvere e non disinnescare?
“Il successo ha investito Banksy e per preservare il suo messaggio ha dovuto tutelarsi, trasformando l’illegale in legale.”
Che sia per questi dubbi che l’ultima sua opera, apparsa nel giorno di San Valentino del 2020, sia stata vandalizzata da un altro writer il giorno seguente con la scritta wankers (coglioni, idioti ndr)? Era un messaggio rivolto a noi? Al silenzioso pubblico adorante?
Oppure era l’inizio di un dissing tra writer che vogliono tornare alle origini e chi ormai appartiene ad una casta artistica? Se vi aspettate risposte in quest’articolo cascate male, non ci sono. Ognuno è perfettamente in grado di informarsi autonomamente, googlare Banksy, e andare sul suo sito per vedere tutte le opere d’arte con stancil o no che ha creato nel tempo. Gratuitamente. Di certo c’è solo che le mostre si moltiplicano nel tempo – quella romana è solo l’ultima di una lunga serie nel mondo - oltretutto la seconda che avviene nella capitale in quattro-cinque anni – che l’ingresso non è, ovviamente, mai gratuito (già il fatto di aver inserito quell’ovviamente vi dovrebbe far incazzare) e che il valore delle sue opere è sempre più alto. La vera domanda è: se voi foste dei ragazzi interessati al messaggio di questo famoso street artist, come dovreste comportarvi se sapeste che a marzo ci sarà una mostra a lui dedicata? Secondo voi dovreste andare fino a lì, spendere dei soldi per un biglietto, guardare i trofei di alcuni milionari che vogliono solo pompare il loro ego per far vedere quant’è grosso il loro c(onto) e magari farvi dei selfie per far vedere come siete anti-sistema.... oppure dovreste semplicemente ignorarla, aprire l’instagram di Banksy e guardare i suoi murales free-of-charge? Magari cercando di capirne autonomamente il significato? Domande Esistenciliste.
di Alessio Zaccardini 57
STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per dicembre da mettere in play anche su Spotify.
Bresh CHE IO MI AIUTI Da CHE IO MI AIUTI Frequenze: Rap
Era da almeno tre anni che i seguaci di quel movimento multiforme chiamato Drilliguria aspettavano un progetto ufficiale di Bresh, forse il rapper italiano più promettente tra tutti quelli che ancora non sono saliti alla ribalta nazionale. Il suo primo album è un progetto ben delineato anche se ancora un po’ acerbo, ma la title track è un ottimo distillato della sua musica, leggera come la brezza marina e al contempo chirurgica nel descrivere il passaggio all’età adulta.
Vodoo Kid – Tempi Alterni Da Tempi Alterni Frequenze: Contemporary R&B
ASON Do RE Stop Show Stop ow Da Sh e: Hip Hop nz Freque
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REASON è stata l’ultima aggiunta alla Top Dawg, l’etichetta capitanata da Kendrick Lamar che ha plasmato il suono e l’identità del rap più classico negli ultimi anni. Come i suoi colleghi, l’artista californiano è un mc senza fronzoli, che in Show Stop si cimenta, aiutato dalle sporche di re K-Dot, in un po’ di sano bragging riguardo alle sue donne, al suo oro e – dopo un’overdose di skkrt – a sua mamma vestita Prada.
Vodoo Kid, ex frontwoman dei Red Lines, è entrata lo scorso anno nel roster di Carosello Records, adattando la sua voce malleabile all’italiano dopo aver cantato quasi esclusivamente in inglese. Il suo ultimo singolo prosegue il percorso iniziato nel 2019 con lo scopo di portare in Italia un pop da sapore più internazionale e lascia il segno, anche grazie al tappeto orecchiabile ed etereo orchestrato da Busojamz.
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Phantogram Pedestal Da Pedestal Frequenze: Electropop
Sono passati dieci anni da Eyelid Movies, il folgorante album di debutto del duo di pop elettronico Phantogram, due artisti che nel corso di questo tempo, tra riconferme e passi nel vuoto, sono sempre riusciti ad evolversi e a farsi riconoscere all’interno di un genere nel quale suonare come la copia di qualcun altro è terribilmente facile. Pedestal tiene fede al nome della band, ispirato ad un’illusione ottica, ed è un vortice di strati di synth e dissonanze, un meraviglioso bug del sistema.
The Magic Gang Think Da Think Frequenze: Indie rock
Sembrano passati secoli da quando Joji era conosciuto su YouTube come Filthy Frank e caricava video corrosivi nei quali insegnava parole razziste in giapponese e andava in giro vestito con una tuta aderente rosa. Oggi è diventato una delle stelle della variegata scena R&B USA e il suo ultimo singolo è una bella svolta, con l’artista di origine giapponese che riesce a sfruttare tutte le tonalità del suo falsetto per realizzare una ballad rock decisa e vibrante.
Tiromancino Strade Des Da La crizione di un attimo (2000) Frequenze: Alternative rock
Scomodo
Febbraio 2020
I The Magic Gang sono un quartetto inglese che annovera gli Weezer come loro maggiore influenza, e il lascito di Rivers Cuomo e soci, assieme a quello del britpop allegrone di Pulp, Teenage Fanclub e Supergrass, è indelebile nel sound della band. Un suono che nel 2020 decide di puntare su strumenti quasi anacronistici come le chitarre e i fiati, ma che in Think guadagnano insieme una potenza e un’armonia spensierate e davvero notevoli.
Joji Run Freq uenz Da Run e: Al tern ative
pop
es Bridg n o e L , ngbin t Khrua Midnigh n EP u S xas c funk Da Te Psychedeli enze: Frequ
I primi anni 2000 erano quel periodo meraviglioso nel quale i Subsonica e i Bluvertigo partecipavano a Sanremo, Elisa lo vinceva e i Tiromancino arrivavano secondi nella sezione “Giovani”, con la loro prima hit Strade. Un brano che vede la partecipazione di un ottimo Riccardo Sinigallia e che unisce chitarre e scratch in un amalgama tenebrosa e seducente, perfetta per essere ascoltata durante un viaggio notturno in tangenziale.
Leon Bridges e i Khruangbin hanno deciso di registrare un joint album dopo essere andati in tour insieme negli Stati Uniti nel corso del 2018 e la loro scelta si è rivelata molto azzeccata vista la loro comunanza stilistica. In Midnight il crooner di Fort Worth racconta un road trip che prende vita grazie al contributo molto chill del gruppo di Houston, che sembra uscito da una compilation soul della Motown degli anni ’70.
ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su cerca Stereo8
di Jacopo Andrea Panno 59
Il regista che non c'era --------------------------------------------------------------------------------------------------------Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare il montaggio
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Scomodo
Febbraio 2020
Dove sono i binari? “Non ho proprio niente da dire ma voglio dirlo lo stesso”. Si sbugiardava così il personaggio di Guido Anselmi in 8½, interpretato da un Marcello Mastroianni al suo massimo e ormai consacrato ad alter ego definitivo del genio che l’aveva diretto: Federico Fellini. Un leitmotiv apparentemente insignificante, canticchiato sovrappensiero, che va a perdersi nel marasma di voci di cui era satura la pellicola del ’63, ma di vitale importanza per comprendere l’opinione che Fellini aveva di sé e del proprio percorso filmico. Talmente significativa da diventare – nonostante il regista l’avesse coniata già da un po’ – la definizione più esatta della sua poetica, assumendo quasi un tono da curriculum vitae o da bio di LinkedIn: “Sono un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo”. Parole perfette per descrivere l’opera spartiacque di Federico Fellini, ma che in realtà possono essere inglobate in un discorso molto più ampio, riguardante diverse generazioni di registi coetanei (e non) dell’artigiano riminese, sparpagliati lungo tutto il secondo ‘900: quello sull’autorialità. Un concetto dal significato solo in apparenza oscuro, causa d’imbarazzo per tutti coloro che, alla richiesta di delimitare i confini del cinema d’autore, d’individuarne le regole d’ingaggio, v’inseriranno anche l’ultima arrivata fra le opere prime, a patto di essere un prodotto riuscito. Spesso confuso come il contrario del blockbuster, tacciato di non essere largamente fruibile e relegato a un pubblico di nicchia, Scomodo
Febbraio 2020
il film d’autore assume invece dei connotati – a tratti meno inclusivi ma non per questo più elitari – che non hanno necessariamente a che fare con la sua qualità, ma piuttosto con la sua riconoscibilità.
“Di grandi registi apparentemente arrivati al capolinea, se ne accumulano ogni anno di più” Per semplicità, vi basti un bizzarro quanto sagace esperimento mentale: immaginate di costringere dieci registi affermati – per maestria o per denaro – a girare ciascuno un film sullo stesso tema, per non dire sulla stessa storia; poi tagliate via dalle bobine sia titoli di testa che di coda, di modo che risulti impossibile risalire all’autore di ognuna; concludete il tutto mostrandoli a un pubblico ignaro, apparentemente incapace di intuire la mano dietro ciascuno dei dieci film.
“La vecchia scuola concentrava i propri sforzi sul taglio narrativo e la caratterizzazione dei personaggi” Quelli che faranno gridare al pubblico in sala il nome del corrispettivo regista, guadagneranno un posto fra le fila della filmografia d’autore. In questo è racchiuso il vero significato della citazione di
Fellini: nella capacità d’imprimere alle proprie opere un distintivo taglio artigianale, una sequela di caratteri sempre riconoscibili ma mai replicabili o insegnabili – come accaduto per quei personaggi cosiddetti ‘felliniani’, entrati a tal punto nell’immaginario comune da infettarne anche il lessico. Quella “aspirazione a diventare un aggettivo” esplicitata dal loro creatore con una battuta, ma covata da qualunque regista che sogni di affermarsi nell’autorialità. Nel concreto poi, all’atto di coniare questo personalissimo marchio di fabbrica, la vecchia scuola sceglieva di concentrare i propri sforzi su aspetti come il taglio narrativo o la caratterizzazione dei personaggi – dagli inconfondibili thriller psicologici alla Roman Polanski alla comicità sfigata delle macchiette di Woody Allen – piuttosto che affidarsi esclusivamente a fattori tecnici come il montaggio o i movimenti di macchina. Una linea di condotta che però non sembra più contare per una fetta non indifferente dei cinematografari contemporanei, e la cui inversione di rotta sembra esser stata portata negli ultimi anni alle estreme conseguenze. Il panorama si è saturato di esercizi di stile e ‘piaceri per gli occhi’ – come una certa critica cinematografica definisce certe pellicole – mentre a scarseggiare più che mai sono i film di cuore, di contenuto, o (più banalmente) belli nella loro interezza. Ci si trova insomma di fronte a un vasto gruppo di registi/ferrovieri che, concentrandosi troppo sui comparti tecnici e ben poco su dei reali contenuti, “ha venduto i biglietti, messo in fila i viaggiatori, sistemato le valigie nel bagagliaio”, senza porsi la fatidica domanda con cui si chiudeva l’ennesima citazione di Fellini in riferimento a 8½: “Dove sono i binari?”. 61
Vecchi marinai nei porti sicuri Come a Oriente così in altre parti del mondo, si sta assistendo all’ascesa vertiginosa di un Cinema che, appena albeggiato, sembra già gravido e prossimo allo zenit. Di contro, tradizioni cinematografiche più mature, per non dire senili – dal Nuovo Mondo al Vecchio Continente – sempre più spinte ad autoisolarsi nella gabbia dorata del perfezionismo stilistico, stanno subendo una battuta d’arresto. Una crisi che sembra fare, almeno per ora, meno vittime che superstiti, ma che sta cambiando la natura stessa dei film, già dotati di uno scheletro dalla impeccabile ossatura tecnica prima ancora che di un’anima originale. I film diventano contenitori vuoti dagli espedienti stilistici già decisi, nella sola attesa di una discreta storia da raccontare. Il mezzo finisce per schiavizzare il fine. I passeggeri sono già in carrozza, con la valigia nel bagagliaio e il biglietto in mano. Ma perché non ci sono i binari? Il campo delle risposte è vastissimo, per larga parte forse ancora imperscrutabile perché riferito a un fenomeno in continua evoluzione. Ma di fronte a un pubblico che, di stagione in stagione, ripone gran parte delle proprie aspettative nei titoli di grandi nomi attivi ormai da mezzo secolo, il problema della senilità – non per forza determinante – finisce per ricadere non solo sulla tradizione cinematografica occidentale tout court, ma anche sui registi che hanno contribuito a formarla.
Immaginarli già con un piede nella fossa sarebbe un’esagerazione, perché a un confronto con le nuove proposte filmiche continuerebbero ad apparire come mostri sacri; ma di grandi registi apparentemente arrivati al capolinea, o comunque non più all’altezza del loro passato,
preso dalla smania insaziabile di sfornare una commediola all’anno, Allen non mette a segno un buon colpo dai tempi di Irrational Man; e tutt’intorno si inventano panegirici sulla capacità di Eastwood e Scorsese di tradurre la loro età anagrafica in ritmi filmici più placidi, per giustificare la lentezza di pellicole semplicemente stanche come The Mule e The Irishman. Tutti prodotti indiscutibilmente interessanti, senz’altro ricchi di spunti, ma le cui carenze di sceneggiatura spingono gli autori a rifugiarsi nel porto sicuro del comparto tecnico, di cui ne conoscono trucchi e segreti come le proprie tasche. Il tutto aggravato dalle pretese di un pubblico inclemente, che mal digerisce l’uscita dal seminato delle tematiche classiche dei registi, trasformando le loro cifre stilistiche in catene opprimenti, con gli effetti più diversi: dalla caduta nel dimenticatoio di Silence perché lontano dal classico gangster movie alla Scorsese, alla nascita di un recentissimo Eastwood anti-sistema con l’ottimo Richard Jewell. Ma il panico generato da un mancato ricambio, dalla paura cioè che una volta scomparsa, questa generazione di vecchi saggi della regia non venga sostituita da una nuova altrettanto valida, sembra non essere l’unica ragione, visto che ad adagiarsi sugli allori troviamo anche registi più giovani o addirittura alle prime armi. Fra questi, il premiatissimo Damien Chazelle di La La Land, un film elogiato per la sua eleganza visiva ma dalla sceneggiatura fondamentalmente piatta, ma anche veterani come Tarantino e Fratelli Cohen, che rispettivamente in C’era una volta...a Hollywood e Ave, Cesare!
“Il panorama si è sarurato di esercizi di stile e piaceri per gli occhi, mentre scarseggiano più che mai i film di cuore, di contenuto, o (più banalmente) belli nella loro interezza”
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se ne accumulano ogni anno di più: dopo l’insuccesso di Quello che non so di lei, Polanski si trova costretto ad abbandonare la familiare aura del thriller psicologico in favore della più gestibile cronaca storica de L’ufficiale e la spia;
Scomodo
Febbraio 2020
si sono concentrati minuziosamente sull’impatto scenografico non accorgendosi della frammentarietà delle trame. Un’intera, preoccupante sintomatologia che sembra colpire addirittura una certa fetta della critica internazionale, generando un pericoloso circolo vizioso.
Perché un film che si fermi alla superficie può colpire a un primo impatto, ma senza regalare una sceneggiatura intrigante o un’interpretazione memorabile, finirà per annoiare sempre più a ogni nuova riproduzione;
malattia e ancora in diritto di distruggere o glorificare un film, spinga i registi a ricercare il facile encomio stilistico dimenticandosi di sceneggiatura e interpretazioni, diventandone la causa. Oppure creando l’illusione che l’unica via per proporre contenuti validi sia parlare di discriminazione razziale o sessuale, facendo leva sul finto progressismo delle giurie che a ogni nuova rassegna riempiono film come Green Book e La forma dell’acqua di candidature e premi. Un’infinità di punti che si ritrovano nell’ultima, chiacchieratissima promessa tecnica della stagione, 1917, analizzabile (anche qui) solo al prezzo di una recensione smembrata, costretta a snocciolare il film nei suoi compartimenti stagni perché impossibilitata a reperirne una generale coerenza.
“Una crisi che sta cambiando la natura stessa dei film, già dotati di uno scheletro dalla impeccabile ossatura tecnica prima ancora che di un'anima originale”
Un serpente che si morde la coda Da un po’ di tempo a questa parte, la critica cinematografica sembra mancare di autorevolezza, privata di quella voce preventiva che attraverso le proprie recensioni spingeva il pubblico ad andare in sala per guardare un film piuttosto che un altro. Letta ormai rigorosamente a posteriori, ricercata dallo spettatore non come fonte che debba interessarlo a un film, ma piuttosto istruirlo sugli aspetti specialistici e interpretativi a lui più ostici, la recensione smette di parlare col cuore e si abbandona ai più tecnici voli pindarici. Potrebbe trattarsi di un sintomo causato dal panorama filmico, che scarno di contenuti costringe la critica a parlare del solo comparto tecnico, non sortendo però lo stesso effetto sul pubblico. Stordito dall’impatto visivo del film, in un mondo in cui si inneggia al capolavoro con una facilità preoccupante, lo spettatore disimpara a valutare le ultime uscite in sala con la pacatezza dovuta: affetto da memoria a breve, inserirà l’ultimo, abbagliante exploit tecnico nelle varie classifiche dei Migliori Film del Decennio, salvo poi rimpiazzarlo, appena un anno dopo, con il successivo ritrovato. Scomodo
Febbraio 2020
mentre a superare la prova del tempo sono molto più spesso quei cult – da Strade perdute di Lynch a Fight Club di Fincher – che inizialmente mal digeriti, vengono metabolizzati con gli anni. Ma potrebbe anche valere il contrario: che la critica, lungi dal subire passivamente i sintomi di questa
Niente di nuovo sul fronte occidentale Era dai tempi di Dunkirk che un film non fomentava così tante speranze nel quadro bellico della cinematografia di genere. Una pellicola gustosamente curata dal punto di vista tecnico, ma diventata comunque caso nobile rispetto all’andazzo generale perché in grado di rinnovare un’ambientazione storica già largamente sviscerata grazie a una struttura narrativa dalla temporalità originale, affidando ai continui giochi di analessi e prolessi tipici di Nolan la vera cifra stilistica del film. Cinque anni dopo, l’attesissimo tour de force visivo di Sam Mendes – aggiudicatosi tre statuette ‘tecniche’ agli Oscar – sposta l’attenzione 63
dalla Seconda alla Prima Guerra Mondiale, raccontando altresì di una dimensione più privata rispetto a quel disastro strategico collettivo che fu l’Esodo di Dunkirk: una maratona a due. A una coppia di soldati viene ordinato di coprire quindici chilometri di territorio nemico ormai abbandonato – o presunto tale – nell’arco di una sola giornata, per impedire a un contingente di milleseicento anime di attaccare un fronte che non può sperare di spezzare. Nel documentare il tutto, Mendes si lascia affiancare da un gigante della Fotografia come Roger Deakins per creare un unico piano sequenza – fatto salvo un lungo stacco a mo’ di intervallo – che in termini di consequenzialità degli eventi surclassa addirittura il precedente di Birdman, facendo combaciare tempo della storia e tempo del racconto più di quanto fatto da Iñárritu. Un complesso artificio registico pensato per seguire i soldati lungo la linea del fuoco, ad altezza di proiettile, focalizzandosi passo dopo passo su ogni pozza, maceria o cadavere calpestati lungo quei quindici chilometri di devastazione. Perché si possa toccare con mano la sporcizia della guerra di trincea, rasentando frequenti sinestesie che ne facciano odorare persino il puzzo di fango e sangue.
“Era dai tempi di Dunkirk che un film non fomentava tante speranze nel quadro bellico della cinematografia” 64
Scomodo
Febbraio 2020
“Sam Mendes si arrischia verso il baratro del virtuosismo barocco, ricadendo nella trappola della superbia” Inoltre, concentrandosi su un lasso di tempo così breve, e potendolo quindi sviscerare in ogni suo istante, Mendes porta a casa un ulteriore risultato, imparando dalla lezione di 2001: Odissea nello spazio. Un film inattaccabile al quale il grande pubblico ha sempre e solo potuto imputare l’eccessiva lentezza, frutto invece della scelta deliberata di Kubrick di abolire la più grande menzogna raccontata fino ad allora dalla fantascienza in merito ai viaggi interstellari: che fossero rapidi, frenetici e ricchi d’azione. Allo stesso modo, facendo sudare allo spettatore ogni centimetro guadagnato dai due soldati, Mendes rinuncia allo spasso visivo di un conflitto lampo in favore del lento arrancare della guerra di logoramento. Il verismo bellico è in apparenza ai massimi storici, e raggiunge il suo picco quando il duetto si trasforma in canto solista, declassando l’intoccabile protagonista a milite pressoché ignoto, liquidandolo con una frase che suona come epitaffio funebre: “Era un brav’uomo, raccontava storie divertenti, mi ha salvato la vita”. Niente di più, niente di meno. Ma questo realismo così tanto ricercato rischia, ancora una volta, di cadere sotto i colpi degli sfarzi della tecnica. Senz’altro in grado, con il suo rivoluzionario piano sequenza, di spostare un po’ più in là il fronte dei comparti tecnici, Scomodo
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Mendes si arrischia però verso il baratro del virtuosismo barocco, ricadendo come i suoi protagonisti nella trappola della superbia. I primi problemi si intravedono nelle interpretazioni: frugali, spicce, mai solcate da un’espressione che sia specchio dello stato emotivo reale dei due soldati. Vincolati dalle esigenze del piano sequenza unico – il cui impercettibile montaggio ha comunque richiesto di sostenere lunghe scene senza stacchi di camera – i due interpreti, ancora alle prime armi, si trovano di fronte a una prova attoriale non facile, che infatti non sembrano riuscire a sostenere. Tuttavia, se l’atmosfera ruvida e anaffettiva della guerra può giustificare delle interpretazioni spigolose, lo stesso non vale per gli altri passi falsi compiuti in 1917. Innanzitutto, quella smania insaziabile di frapporre una serie interminabile di ostacoli – come di fortunosi imprevisti – fra i due soldati e la loro meta, perde di credibilità e si trasforma in mania di persecuzione. Ogni dettaglio sembra costruito ad hoc per far precipitare sulle loro teste tutti i tuoni, fulmini o persino aerei di un’intera guerra mondiale. Ma anche le situazioni fortuite si accavallano in modo poco plausibile: quel secchio di latte appena munto – lasciato incustodito a fianco dell’unica mucca salvatasi miracolosamente dal massacro del bestiame lungo la ritirata – di cui guarda caso un neonato avrà bisogno, dopo un’ora di bobina, nei luoghi più impensabili e disabitati. 66
Alla conta dei feriti insomma, la tanto pubblicizzata intenzione di far sentire lo spettatore come il terzo commilitone, eliminando la finzione filmica del montaggio grazie al piano sequenza ininterrotto, viene vanificata dalla mano pesante di una scenografia troppo invasiva, che letteralmente sparge petali lungo il cammino un attimo prima del passaggio della cinepresa.
“In un mondo in cui si inneggia al capolavoro con una facilità preoccupante, lo spettatore disimpara a valutare le ultime uscite con la pacatezza dovuta”
Ma il conto salato di questo sfarzo visivo è presto servito nella scena successiva, quando i rintocchi di un campanile eroso dal fuoco fino a un attimo prima entrano in contraddizione con quanto appena visto, vanificando un espediente di notevole importanza ai fini della consecutio narrativa. L’ennesima disattenzione di un film dai contenuti disordinati, che rischia di far dimenticare la reale statura registica di Mendes, nonché di farlo passare in modo abbastanza impietoso – volendo rispolverare vecchie definizioni aristoteliche – per uno di quei “pugili inesperti che vanno scorrazzando qua e là e vibrano sovente buoni colpi ma senza rendersene conto”.
E la storia di guerra uguale a mille altre che il regista si era ripromesso di documentare silenziosamente, senza fronzoli o artifizi, viene dirottata lungo una linea narrativa e spaziale fin troppo prestabilita. Il film incarna quindi l’emblema di una sceneggiatura completamente asservita alla tirannia del comparto tecnico, che raggiunge il suo climax nella scena notturna della cittadella. Un’ambientazione visivamente impressionante per quei suoi giochi di luce a raggera ottenuti grazie all’uso di flare e di un costosissimo impianto di duemila lampade al tungsteno alto cinque piani, il tutto per mostrare pochi fotogrammi di una chiesa data alle fiamme.
di Carlo Giuliano Scomodo
Febbraio 2020
PERCHÉ SANREMO È SANREMO *tarattattatta tarà*
Elodie: amo, sei pazzesca, cos’altro vuoi che ti dica? Tutto di te è pura poesia: l’infanzia da cubista di Quartaccio, la penna di Mahmood unita alla tua voce, la base da discoteca che Dua Lipa torna in Kosovo. Bonus: Versace ogni sera. Peccato non si sia posizionata in alto, avremmo fatto i pezzi all’Eurovision. La giuria demoscopica non è pronta per te tanto quanto i giornalisti di Libero sono pronti per le tue scollature.
Levante: per ogni Elodie su questo pianeta c’è una Levante che è pronta a rubarle il giro di amicizie, il ragazzo e anche il pin della carta di credito. Non mi sono mai piaciute le gatte morte, a maggior ragione se hanno pure una voce fastidiosa. La canzone era totalmente incomprensibile: all’inizio ho dato la colpa all’audio pessimo del mio televisore, ma sentendola successivamente con le cuffie in una sala insonorizzata con un allineamento favorevole dei pianeti e la luna piena, è risultata ancora più criptica. Si capivano due parole ogni cinque, e quelle due non erano manco belle. Outfit carini, ma se la tua canzone si chiama Tikibombom avrei osato un po’ di più rispetto al vestito per la funzione domenicale a Piazza Ungheria.
Diodato: detta veloce potrebbe sembrare una bestemmia, come quella che ho tirato io quando si è posizionato primo. La cosa che più mi distrugge, oltre al suo aspetto da studente di lettere fuori sede sfigato (nonostante abbia 50 anni) e la sua voce da eunuco, è il fatto che la sua canzone abbia avuto bisogno dello scandalo sentimentale scaturito dalla liaison del buon vecchio Antonio con la summenzionata suorina Levante per fare rumore. E il tutto assume contorni sempre più paradossali considerando che la canzone si chiama proprio “Fai Rumore”. Nota dell’autrice: ho dovuto controllare come si chiamasse, perché è talmente inutile che nemmeno mamma Diodato si ricordava il nome della canzone del figlio.
Le Vibrazioni: ritorno in pompa magna con tanto di scandalo mediatico. In tutta la travagliata e burrascosa faccenda del divorzio di Francesco Sarcina (originatosi per via di un presunto tradimento della moglie Clizia Incorvaia con Riccardo Scamarcio, migliore amico di lui), io sono sempre stata #teamClizia: stiamo pur sempre parlando di Riccardo Scamarcio, chiamala scema. Non ho molto gradito il fatto che, come per Diodato, le operazioni di marketing relative alle loro partecipazioni sono state quasi totalmente incentrate sulle figure di queste due virago mangiauomini (Levante e la Incorvaia) che fanno soffrire questi poveri martiri. Finitela, che siete ridicoli. Bonus: oh ma quanto faceva ridere l’interprete in lingua dei segni? ERR0R_SPAM
Scomodo
Febbraio 2020
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Questa non è una
Sanremo, il festival della canzone italiana Si inaugura il festival di Sanremo con la conferenza stampa di Amadeus.
Per rimediare alla gag Ama si schiera con le minoranze, numerosi sono gli interventi girl power e politically correct. Per scoprire di piĂš visualizza i videoclip e lascia un like!!!
Sanno stare un passo indietro
DONNE * SCOPRI DI PIĂ&#x2122; sul ladro di scena
ERR0R_666 Morgan/ Squalificato per cattiva condotta
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Le brutte intenzioni, la maleducazione La tua brutta figura di ieri sera La tua ingratitudine, la tua arroganza
pagina spam
OSPITI SPECIALI:
Tiziano Ferro is the new Baglioni
ERR0R_R!P |3&LÂŁN_ Memorabile la vista dell'areola di Elettra Lamborghini, ma non sucita tanto scandalo, oramai non ci sono piĂš farfalline di una volta :-(
Musetti animaletti
Cristiano Ronaldo inutile
Angela Brambati smascella
Fai rumoretti Tikibombetti
Musichetti e il resto scomparetti
Achille Lauro CAMPIONE INDISCUSSO (nonostante la scena gli sia stata rubata da *)
di Maria Marzano
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Alberto Urso: se Villa Arzilla avesse forma umana, quella persona sarebbe Alberto Urso. Il ragazzo mi inquieta e manco poco, ha sempre la stessa faccia in tutte le foto. Sembra un filtro Instagram. Io, erroneamente, pensavo che avessimo scampato il pericolo “tenorini”. E invece. Appena ha attaccato a cantare avevo voglia di sbattere i mignoli dei piedi a tutti i mobili di casa mia, sicuramente la sofferenza sarebbe stata minore. Elettra, Elettra Lamborghini: raga appena ho sentito le chitarrine
ne Frego fosse incredibilmente simile a Rolls Royce dell’anno scorso, probabilmente per andare sul sicuro con i vecchi, ormai abituati a quelle note. La partecipazione di Lauro è stata, tuttavia, rivoluzionaria per il messaggio tanto semplice quanto innovativo, in quanto proveniente da un uomo, inneggiante alla sessualità fluida e contro gli stereotipi di genere. Tutte cose che a noi simpatici millennial non suonano strane, ma vaglielo a dì alle cariatidi delle platee dell’Ariston. Capo degli sgravoni, total Gucci oltretutto. Bugo + Morgan: Maurizio Cattelan non sarebbe stato in grado di fare meglio. Una performance del genere nemmeno Marina Abramovic al MoMA. Nella testa di chiunque ormai da settimane riecheggiano le famosissime parole di Morgan, indirizzate a Sugo Bugo, talmente inutile ed
stavo già volando, poi mi butta lì un “innamorata di un altro cabron” e non ci ho capito più niente. Musica, e il mio diploma di Conservatorio scompare. Per Elettra sarei capace di andare in transenna a twerkare vestita solo di quelle fascette tarocche vendute davanti al Palalottomatica. Lei stonatissima e totalmente ignara della figura barbina appena fatta in Mondovisione, metafora fortissima. Bonus: serata duetti con Myss Keta, e qui mi taccio perché tutti sapete di cosa sto parlando. Achille Lauro: c’è un discorso complesso da fare. Di per sé, ascoltando la canzone, ci si rende immediatamente conto che non si sta ascoltando l’Achille Lauro a cui siamo abituati: dov’è la samba trap? Dove sono i versi taglienti sulla difficoltà della periferia? È apparso a tutti i fan di Lauro che Me
invertebrato, con quella sua spocchia e cadenza da bassa Brianza, che non ha nemmeno risposto. Ahahah, sfigato. Inutile che ripeta la dinamica della storia, sulla vicenda dirò solo che, giusto o sbagliato, Morgan è un Musicista talmente grande ed un cantautore talmente valido, che dovete stare zitti tutti. A maggior ragione se vi chiamate Bugo (nome al
Anastasio: madonna santa ti odio. Pensavate che la ‘teenage angst’ fosse finita con lo scorso millennio? Beh, Anastasio non ha ricevuto il memo, e nonostante abbia tipo 40 anni è ancora terribilmente arrabbiato. Per cosa, chiederete voi? Forse perché Salvini non ha vinto le elezioni.
di Carolina Scimiterna 70
Scomodo
Febbraio 2020
PLUS il
COVID COVID COVID COVID COVID COVID COVID
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Il COVID-19 sta scuotendo il mondo a livello politico ed economico, ma la stampa nazionale si è rivelata incapace di cogliere tutte le implicazioni di questa epidemia. Narrare l’espansione di questo nuovo Coronavirus come una semplice conta giornaliera dei morti impedisce di comprendere appieno un simile fenomeno. Ma più le morti aumentano, più i giornali guadagnano: uno scenario che impedisce di credere che la situazione possa migliorare. Scomodo
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QUANTO COSTA IL COVID-19 ? L’IMPATTO DELL’EPIDEMIA A LIVELLO ECONOMICO E POLITICO Una delle chiavi di lettura più interessanti che l’epidemia di Coronavirus è certamente il suo impatto a livello geopolitico ed economico. Lo scoppio dell’epidemia di COVID-19 è avvenuto infatti forse nel momento peggiore per il governo di Pechino, visto che il 2019 è stato l’anno in cui la Cina ha fatto maggiormente vacillare la leadership globale degli Stati Uniti tramite la sapiente strategia del Presidente Xi Jinping. In questo aspetto del pessimo timing di questa malattia certamente risiede il parallelismo più forte con l’epidemia di SARS, la quale nel 2003 scoppiò nel preciso momento in cui la Cina stava iniziando a proporsi al mondo come un partner politico-commerciale affidabile. Le somiglianze con la situazione del 2003 però si esauriscono solo in questo aspetto, visto che Pechino ha compiuto in questi 17 anni degli enormi passi avanti a livello geopolitico, passando dallo status di paese emergente a quello di seconda potenza mondiale. Avendo assunto questa posizione, alla Cina non è stato possibile mascherare l’epidemia come fece tra il nei primi mesi del 2003, come testimoniato dagli inconcludenti rapporti volontariamente condivisi dal governo cinese con l’OMS per cercare di mostrare come quanto stesse accadendo nella provincia del Guangdong fosse totalmente irrilevante. Un atteggiamento che è costato alla Cina delle pesanti critiche che per lungo tempo l’hanno svantaggiata nello scenario internazionale: proprio per questo, nel caso del COVID-19, Pechino ha mantenuto un atteggiamento pressoché perfetto nei confronti dell’OMS, condividendo passo per passo ogni singola informazione vitale e non ritardando in alcun modo il lavoro dell’organizzazione.
IL PERICOLO AFRICANO Questa Attenzione nei confronti della gestione del processo di ricerca di una cura risulta necessaria anche per il fatto che oramai la Cina rappresenta un paese cardine per un innumerevole numero di paesi a livello internazionale. In questo senso, i paesi africani sono certamente quelli che hanno maggiormente legato le proprie economie nazionali a quella del colosso cinese, che ha deciso di sfruttare il sempre maggiore disinteresse da parte dei governi occidentale nei confronti del continente Africano per imporre la propria leadership su uno dei mercati potenzialmente più remunerativi per l’alta presenza di possibili consumatori. L’Africa rappresenta al momento la più grande sfida per la Cina: nel caso in cui Pechino non riesca a contenere gli effetti del virus nell’unica parte del mondo in cui è riuscita ad imporsi al di sopra degli Stati Uniti, le mire espansionistiche di Xi Jinping subirebbero una brusca battuta d’arresto per un lungo tempo. 72
Scomodo
Febbraio 2020
Per quanto concerne l’impatto economico della diffusione del COVID-19 all’interno dei nostri confini nazionali, che rischia di bloccare per settimane il punto nevralgico dell’economia italiana, è difficile ad oggi comprendere l’evolversi della situazione. Ogni analisi risulterebbe dunque priva di fondamento e per questo va rimandata ad un articolo futuro specifico sul tema. Con la notizia del primo caso confermato in Egitto, è sicuro che Pechino investirà pesantemente per permettere al continente africano di superare con il minor numero di danni possibile questa epidemia, anche se il costo economico di una manovra simile dovrebbe risultare estremamente elevato a causa dell’arretratezza del sistema sanitario della quasi totalità dei paesi africani. Dalla gestione del caso africano passa quasi tutta la credibilità internazionale che Pechino ha costruito nel corso degli ultimi anni: una situazione che potrebbe essere sfruttata tranquillamente dall’eterno nemico cinese, gli Stati Uniti, che tramite una politica ancora più forte di aiuti sanitari all’Africa potrebbe riprendere la leadership sul continente, scacciando la Cina dall’unico luogo in cui essa sia riuscita effettivamente a superarli. L’Africa rischia di divenire lo scenario di una “guerra” a colpi di vaccini ed aiuti sanitari, in cui il contenimento dell’epidemia sarebbe un risultato totalmente secondario rispetto al mantenimento/superamento dello status quo geopolitico attuale all’interno del continente africano.
VECCHI PROBLEMI, NUOVA CINA Il Presidente della Repubblica Popolare non deve solo guardarsi da un possibile ritorno americano all’interno dell’Africa, ma anche dai possibili risultati economici che rischiano di compromettere la crescita del paese. Rispetto alla SARS, l’impatto economico del COVID-19 con molta probabilità risulterà molto più devastante, raggiunse il costo globale di 40 miliardi di dollari. Le motivazioni di questo maggiore impatto sono molteplici: in primis, la crescita del PIL cinese aveva segnato un calo al 6,1% rispetto alle stime del Partito Comunista cinese, flessione dovuta principalmente alla guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti. Altro aspetto di rilevante importanza è il fatto che rispetto al 2003, si è totalmente ribaltato l’impatto di investimenti e consumi sul PIL cinese: se in precedenza i consumi contribuivano “solo” per il 45%, nel 2018 questa percentuale ha raggiunto un valore superiore al 75%. Cioè significa che, se nel caso della SARS il crollo dei consumi durante i mesi dell’epidemia non aveva così pesantemente influenzato il PIL, oggi le manovre di contenimento e il blocco di ogni forma di consumo interni al paese rischia di costare alla Cina quasi 1 punto percentuale (secondo le stime della S&P Ratings ed altre società internazionali, anche se molte sembrano riporre fiducia nelle capacità di recupero dell’economia cinese),risultando un durissimo colpo per la seconda economia mondiale. La “svolta consumistica” cinese degli ultimi anni rischia così di enfatizzare ancor di più i risvolti negativi dell’epidemia odierna.
Scomodo
Febbraio 2020
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A RISCHIARE NON È SOLO PECHINO L’economia cinese non è l’unica che in questo momento trema dinanzi al COVID-19, ma vi è un intero settore che rischia di dover rimandare di anni il proprio sviluppo a causa di questa epidemia: quello tecnologico. La Cina si è imposta infatti nel corso di questi anni come il leader mondiale per ospitare gli stabilimenti di assemblaggio e produzione di alcuni dei prodotti tecnologici di maggior rilievo a livello internazionale, come gli IPhone Apple, i cui componenti vengono forniti dagli stabilimenti della Foxconn di Shenzhen, al momento ancora chiuso poiché collocato all’interno del distretto di Hubei. Questo evento sta spingendo Apple e Foxconn a spostare la produzione degli IPhone 11 e 11 Pro Max in India, anche perché il resto degli stabilimenti cinesi oltre a quello di Shenzhen risulta pesantemente condizionato dallo sviluppo del COVID-19. La scelta di Apple è di fondamentale importanza se vuole riuscire a mantener fede alla propria tabella di lancio, che prevede per la primavera di quest’anno il lancio dell’IPhone SE 2, modello economico che nella strategia dell’azienda di Cupertino dovrebbe fare concorrenza proprio al gran quantitativo di aziende cinese attive sul mercato come OPPO o Xiaomi e rispondere in parte al lancio della famiglia S20 da parte di Samsung. Proprio l’azienda coreana potrebbe trarre beneficio dalla presenza del COVID-19, sfruttando i possibili ritardi di Apple e delle aziende cinesi, che non la possono veder coinvolta a causa della sua precedente scelta di abbandonare i propri impianti sul territorio cinese per i pessimi risultati ottenuti nel mercato locale. Non è solo Apple a rischiare di rimanere pesantemente influenzata dal nuovo Coronavirus: anche Sony e Microsoft rischiano di dover rimandare il lancio delle loro nuove console di riferimento, la Playstation 5 e la X-Box Series X per la stessa motivazione, visto che gli stabilimenti di produzione dei componenti elettronici delle due si trovano anch’essi nella regione di Hubei. Tutti questi aspetti mostrano come il COVID-19 alla fine non riesca neanche ad avvantaggiare gli Stati Uniti sui mercati, visto che due delle maggiori aziende statunitensi rischiano seriamente di vivere un anno terribile a livello economico a causa dello svilupparsi dell’epidemia. In chiusura, non si può che rivolgere un pensiero al nostro paese, che durante l’anno scorso sotto la guida del governo gialloverde si era pericolosamente avvicinato alla sfera d’influenza di Pechino. Uno degli aspetti maggiormente positivi del Memorandum firmato con la Cina sarebbe stato quello di aumentare il numero di turisti cinesi, già oggi quarta nazionalità per presenze annue e quella che spende maggiormente al giorno (circa 300 euro, secondo i dati ISPI). Lo scoppio dell’epidemia, soprattutto in un periodo come quello del Capodanno Lunare in cui i cinesi tendono a viaggiare molto, rischia di distruggere completamente le più che positive previsioni d’inizio anno per quanto concerne il settore turistico. Per quanto concerne altri aspetti economici, al momento siamo in una fase troppo prematura per poter fare alcun tipo di previsione. Il COVID-19 ha colpito in un momento molto delicato per l’economia mondiale, visto che sempre più insistenti si fanno le voci di una nuova recessione economica alle porte. Al momento, non possiamo ancora del tutto prevedere quanto l’epidemia impatterà in modo negativo sull’economia mondiale. Dai primi dati usciti appare chiara una cosa: il virus non colpirà gentilmente i mercati mondiali, visto che il proprio epicentro risiede nel paese che più degli altri nel corso di questi ultimi anni ha cercato di porsi al centro dell’economia globale. Se Pechino affonderà per colpa del COVID-19, molto probabilmente sarà lunga la fila di paesi che trascinerà con sé nel baratro.
di Luca Bagnariol
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L’ALTRO CONTAGIO
LA DERIVA APOCALITTICA NELLA NARRAZIONE DEL CORONAVIRUS IN ITALIA
ANTEFATTO Una donna americana tornata da un viaggio d’affari in Asia muore a causa di quella che sembra una semplicissima influenza, ma che si rivela essere una nuova malattia. Nel resto del mondo si verificano casi simili e la sede principale dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie manda un’équipe medica nel villaggio cinese dove sembra abbia avuto origine l’epidemia. Il virus si rivela essere un incrocio tra due ceppi trasportati da pipistrelli e maiali che colpisce il sistema nervoso e i polmoni. La malattia intanto continua a diffondersi senza che venga trovata una cura, provocando un’isteria di massa nella popolazione mondiale, favorita anche dalla disinformazione generale. Mentre un blogger complottista decide di sfruttare economicamente il clima di panico per vendere un sedicente vaccino omeopatico, una delle dottoresse dell’equipe che per prima aveva isolato il ceppo muore dopo aver contratto il virus. Quella che sembra una storia molto simile ai prodromi dell’epidemia del coronavirus è in realtà l’incipit di Contagion, medical thriller del 2011 diretto da Steven Soderbergh. Nel film come nella cronaca di queste settimane ci sono persone bloccate dentro città in quarantena e terrorizzate alla sola idea di stringere la mano alla persona sbagliata. Il regista di Traffic aveva preso ispirazione dalle epidemie della SARS e dell’influenza H1N1 per realizzare un film ultra-realistico, tanto da tornare d’attualità a fine gennaio entrando nella top 10 dei film più visti su iTunes. Sempre più utenti su Twitter hanno notato le analogie definendo – e sbagliando – Contagion una profezia apocalittica del coronavirus, quando invece la pellicola si allontana dalle atmosfere isteriche da b-movie per analizzare come una minaccia diffusa a livello globale può portare a un collasso del sistema sociale. Un epilogo che ci appare sicuramente estremo e che però riflette in controluce alcune disfunzioni del sistema presenti anche oggi in Italia e nel mondo, tra cui il panico generato dai mezzi di informazione è una delle più importanti.
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*tlanquillow non avele paula, 6 solo lazzista :-)
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TUTTO IL CORONAVIRUS MINUTO PER MINUTO Il trattamento giornalistico che è stato riservato al coronavirus dai network italiani potrebbe ricordare in parte, in un altro gioco di coincidenze, quello avvenuto nel 2014 con l’epidemia di ebola in Africa occidentale. Le proporzioni di questo nuovo fenomeno mediatico, che da ormai più di un mese rimbalza senza sosta tra quotidiani, siti web, radio e televisione, sono però talmente amplificate ed esasperate da non permettere nessun paragone. Il virus cinese è diventato stabilmente il primo servizio al tg, l’articolo acchiappa-click e il taglio alto o medio in prima pagina, riuscendo a rivaleggiare con praticamente ogni altro argomento di attualità, in un crescendo che non accenna minimamente a diminuire ma sembra anzi acquistare sempre più forza dalla propria onnipresenza. Questo bombardamento continuo, poi, portato avanti con toni allarmistici e sensazionalistici, ha ovviamente generato un ritorno economico e di visibilità alle testate coinvolte, oltre a fomentare una psicosi diffusa e sfociata in episodi discriminatori, che come in un uroboro senza fine sono diventati a loro volta oggetto di notizia. Questo contagio mediatico, pur avendo infettato qualsiasi piattaforma, ha preso piede con particolare forza in televisione e soprattutto sul web. Così anche chi non fa in tempo a sintonizzarsi su Sky TG24 può comunque informarsi sugli ultimi sviluppi grazie all’utilissima diretta live sul sito del canale, per sapere se finalmente i dannati ospedali cinesi sono stati riforniti con le mascherine o per ammirare il virus in tutto il suo splendore fotografato da un microscopio elettronico all’avanguardia. Una buona parte delle notizie che girano online provengono comprensibilmente dai grandi quotidiani, Repubblica, Corriere, Stampa e Messaggero su tutti, per i quali l’epidemia cinese è il tema caldo del giorno, ogni giorno. È impossibile ignorare però anche tutti quei siti web di informazione, fortemente orientati al clickbaiting, che intasano le homepage di social e i motori di ricerca, come The Post Internazionale e Fanpage. Quest’ultimo a febbraio è stato capace nel giro di due settimane di passare da un approfondimento su “tutte le bufale sul virus a cui non bisogna credere” a riprendere una notizia di agosto riguardo a un ragazzo morto intossicato dopo aver mangiato in un ristorante cinese come se fosse appena accaduta. Ma il re indiscusso della competizione è Enrico Mentana, che con “la scommessa vinta” di Open ha contribuito ad esacerbare ulteriormente la narrazione compulsiva sul coronavirus pubblicando centinaia di articoli, tra i quali innumerevoli bollettini giornalieri totalmente inutili sulle condizioni dei pazienti dello Spallanzani. Nonostante le critiche degli utenti il direttore del TG La7 in uno status su Facebook ha puntato il dito sul “vero contagio” della strumentalizzazione politica della malattia fatta da governo e opposizione, dimostrandosi ancora una volta un maestro esemplare del cerchiobottismo. Il clima mediatico focalizzato su un unico tema ha poi orientato la politica editoriale anche di un sito tradizionalmente lontano da queste ambiguità come Il Post, che sta dedicando uno spazio considerevole agli immancabili aggiornamenti quotidiani sul numero di morti e infetti. Non è un caso quindi che gli articoli sul coronavirus assomiglino sempre più ad un continuo déjà vu, senza che lo sguardo giornalistico si posi su argomenti contingenti e meritevoli di attenzione come le politiche di contenimento in Cina o il precariato lavorativo degli “angeli del virus” romani.
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DA WUHAN A RACCOON CITY IL PASSO È BREVE L’overloading informativo si è accompagnato ad un racconto spesso parziale, incompleto, scandalistico o completamente falso, rendendo molto più difficile per il pubblico riuscire ad informarsi in maniera competente sul tema. Anche in questo caso le dinamiche assomigliano a quelle imperversate nel 2014 durante l’epidemia di ebola, con la sottile differenza che stavolta molte fake news non vengono messe in giro da pagine social complottiste come Catena Umana e Adesso fuori dai Coglioni, ma sono gli stessi quotidiani e siti web di informazione a perpetuare in prima persona questo framing post-apocalittico e al contempo incredibilmente futile. Si passa da The Post Internazionale che titola “Trovata cura per il virus” riferendosi alla possibilità che il plasma delle persone guarite venga usato per un eventuale vaccino, ad Open che racconta lo struggente “San Valentino ai tempi del coronavirus” di una coppia italo-cinese, fino al Post che afferma che “Sono morte più persone per il nuovo coronavirus che per la SARS”, senza citare minimamente le differenze tra il numero di contagi e il tasso di mortalità delle due malattie. Molti quotidiani poi hanno rincarato la dose, prima magnificando un inesistente primato italiano nell’isolare il virus – per Libero addirittura gli italiani “danno una lezione al mondo”, per giunta con un team di “medici donne meridionali”! – e in seguito ribattezzando “super untore” il cittadino britannico che aveva contagiato undici persone in Francia, con un giustizialismo che infrange qualsiasi norma deontologica del mestiere. Ma è con le false teorie e gli articoli complottisti che il giornalismo italiano ha raggiunto vette ancora inesplorate di disinformazione, accumulando un archivio talmente vasto da essere il sogno bagnato di qualsiasi debunker. Questa infodemia diffusa ha partorito articoli nevrotici secondo i quali il virus è di volta in volta parte di un piano architettato da Bill Gates e dall’élite globalista per ridurre la sovrappopolazione del pianeta o una creazione del Pirbright Institute, istituto di ricerca inglese produttore di vaccini. L’opinione diffusa contenuta in molti di questi articoli, che provengono da voci mal interpretate o da network inattendibili, è che la Cina non stia comunicando dati perfettamente trasparenti – ed è una preoccupazione condivisibile – ma anche che stia nascondendo agli occhi degli occidentali abomini e soprusi indicibili. Una delle prove più spettacolari e false è un collage di video pubblicato sul sito della Stampa e del Tempo dall’emblematico titolo “Quello che la Cina non ci dice sul virus”, che mostra delle persone collassare per terra in metropolitana, in ufficio e in altri luoghi pubblici, come se si trovassero in un episodio di Resident Evil. La fonte non è un canale informativo ma Benedetta Paravia, in arte PrincessBee, star della musica negli Emirati Arabi Uniti, che ha affermato di aver raccolto una serie di video ricevuti da amici cinesi, poi condivisi dai due giornali completamente decontestualizzati e accompagnati da descrizioni fantascientifiche di “persone che non sanno più a chi avvicinarsi” e “operatori sanitari protetti da tute simili a quelle degli astronauti”. L’apice è stato raggiunto il 25 gennaio da TGCom24, il cui direttore Paolo Liguori ha rivelato in un video di aver saputo da una “fonte attendibilissima” ma non meglio specificata che il virus sarebbe in realtà un’arma batteriologica fabbricata in un laboratorio militare di Wuhan in cui si conducono “esperimenti militari coperti dal più grande segreto”. L’arma sarebbe sfuggita al controllo dei suoi creatori a causa del contagio di un tecnico, come in una sorta di remake di Stranger Things ambientato in Cina e non a Hawkins.
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L’origine della bufala divulgata da Liguori, un articolo del Washington Times, testata americana malfamata spesso confusa con il Washington Post, non ha però impedito che la notizia venisse ripresa dal trittico Libero, Mattino e Messaggero e che diventasse il pretesto per l’europarlamentare dell’M5S Fabio Massimo Castaldo di annunciare su Facebook di voler presentare un’interrogazione parlamentare in merito “alla realtà dei fatti” sul laboratorio di Wuhan. Questa diffusione incontrollata di notizie allarmiste ha costretto il Ministero della Salute a realizzare degli spot televisivi informativi con protagonista Michele Mirabella e ad istituire un numero di pubblica utilità, senza contare il lavoro di factchecking dell’OMS, che sul suo sito ha dovuto sfatare miti assurdi come la presunta utilità come rimedi al virus di asciugamani elettrici, lampade a raggi ultravioletti, gargarismi con il collutorio e cipolle.
LE CONSEGUENZE DELLA PSICOSI Anche il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro è stato costretto a diffondere un video per tranquillizzare gli italiani e spiegare che la trasmissione del virus avviene tramite le persone, e non visitando Chinatown, mangiando “zuppe di pipistrello” o facendo acquisti nei negozi cinesi, a differenza dei proclami delle catene di Sant’Antonio allarmiste su WhatsApp. Nonostante un post su Facebook che intima di non fare acquisti su Wish possa sembrare divertente nella sua ingenuità, fa comunque parte dell’ondata di fake news dal tono catastrofico che hanno sommerso i social in questi mesi e che hanno contribuito a generare un clima di sfiducia e sospetto verso la comunità cinese in Italia. Questo stigma razzista si è concretizzato in aggressioni fisiche, come è accaduto a una coppia a Venezia, e verbali, di cui è stata vittima su di un treno la docente di marketing Lala Hu. La destra italiana poi non ha perso occasione per strumentalizzare la tempesta sociale in corso, accusando i “cinesi onti” di voler impestare il paese, nel caso di un post del consigliere comunale di Treviso di Forza Italia Nicolò Scomparin, o attaccando volantini che consigliano di comprare italiano alle vetrine di negozi cinesi, come ha fatto Forza Nuova a Como e a Brescia. Una grande parte della responsabilità di questo razzismo imperante è da attribuire al sistema giornalistico italiano e alla sua frenetica caccia al click o visual in più, a discapito di un’informazione ragionata ed effettivamente capace di fornire ai lettori gli strumenti per affrontare con maggiore consapevolezza una situazione comunque da non sottovalutare. Sperare in un cambio di rotta da parte dell’informazione italiana appare complicato, visti gli eccezionali risultati economici che questa narrazione compulsiva dell’epidemia ha portato ai giornali italiani. Basti pensare al caso di Open di Enrico Mentana, che ha visto nel mese di gennaio il picco massimo di utenti sul proprio sito e che ha recentemente annunciato un nuovo giro di assunzioni visti gli eccellenti risultati economici raggiunti nel corso degli ultimi due mesi. La situazione sta ora cambiando a causa di una forte pressione a livello politico sulle testate giornalistiche per cercare di migliorare l’informazione sull’espansione dell’epidemia in Italia, per cercare di evitare un costante aumento della paura nell’opinione pubblica. Molti sono i giornali che si sono resi protagonisti di questa svolta, anche se è arrivata oramai troppo tardivamente: i danni compiuti dall’asfissiante narrazione giornalistica prima dell’arrivo del virus in Italia sono oramai irreparabili. di Jacopo Andrea Panno
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Italia
psicosi, spaghetti e mandolino
Ministero della Salute
Il kit di sopravvivenza è un presidio medico chirurgico consigliato dall'equipe dei MGI (Medici Gatti Italiani) Dott. M.Marziano Scomodo
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LA CORSA ALL’ORO DELLA RICERCA
IL VALORE POLITICO DELL’ISOLAMENTO DEL COVID-19 Fino a qualche giorno fa, il mondo intero concorreva in una sorta di moderna corsa all’oro per ottenere il primo posto sul podio della ricerca medica. Il virus, emergenza sanitaria a livello globale, è stato in qualche modo riletto in chiave d’utilità: combatterlo non è più soltanto una sfida medica, ma una vera e propria competizione fra nazioni, funzionale a dimostrare chi è il più capace ed efficiente. Il due febbraio l’Istituto Spallanzani si è aggiudicato la vittoria, dandoci la possibilità di sperare nel primato. La scoperta è stata trasmessa come un successo tutto al femminile. Un grande passo che fa tristemente ancora scalpore, come fosse un valore aggiunto l’essere stata un’équipe di tre donne ad avere la meglio. La realtà è stata però, come spesso accade, lievemente enfatizzata. Il risultato è stato indubbiamente di squadra: 30 professionisti, hanno lavorato coordinandosi con l’Istituto Superiore di Sanità.
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Il ministro della salute dell’attuale governo, Roberto Speranza, ha però specificatamente parlato di tre donne in particolare: Maria Rosaria Capobianchi, direttore del Laboratorio di Virologia; Francesca Colavita, la più giovane ricercatrice del gruppo, e Concetta Castilletti, responsabile della Unità dei virus emergenti. Interessante è come l’opinione pubblica abbia usato questa vittoria come arma funzionale alla difesa di un amor di patria scontato e dozzinale: l’Italia, la “grande proletaria”, finalmente si riscatta facendo mangiare la propria polvere al resto dell’Europa e del Mondo. Ma è davvero così? A smontare l’entusiasmo patriottico interviene l’informazione già pubblicamente divulgata ma quasi totalmente ignorata relativa ai precedenti progressi conseguiti fuori dai confini del Bel Paese: la Cina aveva prontamente isolato il virus a Gennaio, condividendo con l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) le informazioni sulla sequenza del genoma rilevata. Nell’articolo del 31 gennaio, “Nature” ricorda come «un team dell’Istituto di virologia di Wuhan guidato dal virologo ZhengLi Shi ha isolato il virus da una donna di 49 anni, che ha sviluppato i sintomi il 23 dicembre 2019 prima di ammalarsi gravemente». Contrariamente a ciò che molti titoli strillavano, nemmeno in Europa risultiamo imbattuti: l’ipotetico primato è stato immediatamente smentito dal direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità Giovanni Rezza e dalla direttrice del Laboratorio di Virologia dell’INMI (Istituto Nazionale Malattie Infettive) di Roma Maria Rosaria Capobianchi. Due giorni prima dell’annuncio dello Spallanzani infatti, l’Istituto Pasteur di Parigi era già riuscito, partendo dai casi di contagio interni al paese (cosa in cui il Paese si trovava ad essere sfortunatamente “in vantaggio” rispetto all’Italia) ad isolare il virus dopo essere riusciti a sequenziarne il genoma, aggiudicandosi per questo il vero primato sull’Unione Europea. Se fossimo davvero arrivati per primi forse avremmo potuto risollevare il nome della ricerca Italiana, o quanto meno ci saremmo potuti beare del momentaneo ed illusorio prestigio che ne sarebbe potuto eventualmente derivare. Il punto infatti, è proprio questo: puntare sul successo del particolare per tentare di porre in secondo piano il degrado dilagante generale che, dall’interno, corrode da sempre l’ambiente della ricerca medico sanitaria italiana. Gli scarsi e sporadici finanziamenti non bastano. È inutile girarci intorno.
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L'investimento pubblico in ricerca e sviluppo (R&S) si aggirava intorno ai 10 miliardi di euro nel 2008 per poi scendere a 8,7 miliardi nel 2016. Nel 2017 l’Italia ha investito circa l'1,3% del PIL nella ricerca: notevole, ma neanche lontanamente sufficiente, dal momento che la media europea ammontava intorno al 2%. Le punte di diamante sono la Germania con il 3% e la Francia con il 2,2%. Si arriva comunque ad una situazione paradossale: negli ultimi decenni, stiamo assistendo all'effetto di una serie di cambiamenti strutturali, che hanno infuso nuova vita alla ricerca, ma che non comportano un miglioramento rilevante delle prestazioni sanitarie italiane, che anzi continuano a risentire di alcune carenze strutturali e sistematiche. Alison Abbott, anima di “Nature”, spiega dal suo punto di vista, esterno, quali siano i principali fattori che ledono la ricerca in Italia. Sono la mancanza di stabilità nelle istituzioni, che si ritrovano prive di programmazioni a lungo termine ed il basso numero di scienziati, cosa che certamente deriva dagli stentati finanziamenti e la scarsa trasparenza nel metodo di ricerca e di approccio alle nuove materie di studio in campo scientifico. Il tutto, culmina e si concretizza nella figura di Francesca Colavita, la più giovane del gruppo di ricercatori che si è occupato dello studio del Coronavirus in Italia. Molisana di trent’anni, ha lavorato finora allo Spallanzani con un contratto a tempo determinato che la ha resa per anni l’ennesima ricercatrice italiana a riempire le fila dei “precari”. Millecinquecento euro al mese, nonostante la professionalità e la dimestichezza con l’ambiente, dimostrate tra l’altro anche nel suo ultimo studio, relativo al trattamento del virus Ebola, che passa improvvisamente in secondo piano su qualsiasi giornale o notiziario se paragonato alla condizione lavorativa della Colavita stessa.
Nel giro di poche ore infatti, vi è stata una overdose mediatica su un fatto di per sé gravissimo, ma che ha subito una mera speculazione soltanto in quanto argomento di interesse da parte della coscienza pubblica. Argomento che, secondo il miglior uso italiano, è rimasto sterile, se non per quanto riguarda “il contentino”: un posto a tempo indeterminato alla Colavita ma che non cambia la condizione delle altre migliaia di ricercatori che, nonostante il successo appena conseguito, vivono con stipendi che riflettono l’inadempienza del nostro sistema retributivo, soprattutto nel settore pubblico. «Guadagno sui 20 mila euro all’anno». La sentenza dichiarata dalla giovane stessa, è ben poco incoraggiante per chiunque voglia gettarsi nel campo della ricerca medica in Italia. Il traguardo appena raggiunto ha purtuttavia prodotto un qualche effetto sulla coscienza comune, e l’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D'Amato, ha assicurato una prossima stabilità per la giovane ricercatrice.
Con quest'ultima conquista, non sconvolgente ma certamente degna di nota, il quadro che rappresenta la ricerca medica italiana presenta una quantità di sfaccettature più chiare e definite: l’Italia sa muoversi in condizioni di emergenza. È in grado di coordinare gli sforzi per conseguire un obbiettivo, se esso viene imposto come un traguardo il cui raggiungimento, nel minor tempo possibile, è imperativo. Tuttavia dovrebbe essere in grado di mantenere tale livello di efficienza e prontezza di riflessi anche quando non ci si trova davanti ad un’emergenza pandemica internazionale. Ennesimo esempio della disorganizzazione del nostro sistema, lo troviamo proprio nella figura della Colavita: trent’anni, competente e, nonostante tutto, precaria.
di Ilaria Michela Coizet
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Copertina I Graforibelli Art director Maria Marzano Artwork Frita Illustratori Gionatella pag. 16 / 18 / 19 / 20 / 28 / 31 / 33 / 35 Simone Spellucci pag. 22 / 24 / 25 / 26 Luogo Comune pag. 48 / 50 / 52 Alessandra Marinelli pag. 53 / 54 / 55 Faro pag. 58 / 60 / 61 / 62 Maria Marzano pag. 65 / 66 / 67 / 68 / 70 / 73 / 77 / 78 Fotografi Emma Terlizzese pag. 36 / 37 / 38
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