l’Unità Laburista - The boys are back in town - Numero 35 del 11 dicembre 2020

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Numero 35 del 11 dicembre 2020

The boys are back in town


Sommario 

l’Editoriale del Direttore/Il Ritorno - pag. 3

di

Aldo AVALLONE  

Il Covid al lavoro - pag. 7 di Raffaele FLAMINIO E ora costruiamo città a portata di mano pag. 20 di Rosanna Marina RUSSO 25 Novembre: la violenza della retorica - pag. 27 di Antonella BUCCINI Vaccini privati e pubblici contagi - pag. 29 di Giovanni AIELLO

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Il vaccino dei dati - pag. 36 di Antonio DINETTI A far l’amore cominci tu? - pag. 41 di Antonella BUCCINI

I viaggi ai tempi del Covid - pag. 44

di Veronica

D’ANGELO   

Viva viva l’Inghilterra - pag. 48 di Antonella GOLINELLI Pillole di politica - pag. 51 di Aldo AVALLONE L’arte al tempo del Covid - pag. 54 di Isabella RAMELLA

Su alcune pandemie degli ultimi cento anni. Parte prima - pag. 57 di Giovan Giuseppe MENNELLA Il mondo ha fame di Spiriti Liberi - pag. 66 di Rosanna Marina RUSSO

Distanze - pag. 71 di Lucia COLARIETI 2


l’Editoriale del Direttore

Il ritorno Aldo AVALLONE

Ci siete mancati. 3


Ci siamo lasciati nel marzo scorso a inizio epidemia proponendoci di ritornare il più presto possibile ma la sospensione è stata più lunga di quel che credevamo. Problemi organizzativi legati innanzitutto al progetto di testata che avevamo in mente, a quello che vogliamo realizzare da oggi in poi. Una crisi di crescita, definiamola in questo modo. Una pausa che ci ha consentito di fare il punto su quanto realizzato nella esperienza passata che, nei trentaquattro numeri pubblicati, ha visto una media di circa quarantamila lettori – utenti unici a numero. Un successo quasi incredibile per una testata gratuita, senza sponsor né pubblicità e tantomeno finanziamenti pubblici. Naturalmente siamo orgogliosi del successo ottenuto e ringraziamo soprattutto voi, lettori affezionati che ci avete sostenuto con la vostra assidua presenza. Quale direttore de l’Unità laburista voglio ringraziare l’Editore che ha creduto nel progetto e tutti i giornalisti e collaboratori che hanno messo a disposizione in maniera volontaristica la loro professionalità. Ma dopo i convenevoli di rito veniamo al dunque. Ritorniamo online con lo stesso entusiasmo di sempre, se possibile moltiplicato. Con la stessa linea editoriale che ha la presunzione di fornire utili spunti di riflessione al dibattito sui temi politici, sociali, ambientali nell’ambito della nostra idea politica che è quella di una sinistra unita e laburista. Avremo nuove rubriche, nuovi collaboratori che si aggiungeranno a quelli “storici” e avremo una nuova periodicità. Non più plurisettimanale ma – più o meno – mensile. Questo ci consentirà di lavorare con maggiore calma ed evitare quei problemi di tempistica nella pubblicazione che ci hanno penalizzato negli ultimi tempi. Naturalmente il taglio del giornale sarà diverso. Maggior numero di articoli e maggior approfondimento dei temi trattati. Senza perdere, ci auguriamo, quella verve particolare che ha caratterizzato i nostri primi numeri. 4


Il numero del “Ritorno” è quasi totalmente monotematico. Da febbraio ad oggi stiamo vivendo un’esperienza unica che sta cambiando il mondo. La pandemia è un fenomeno trasformazionale epocale. Gli equilibri sistemici sui quali si è retto il mondo finora sono saltati e dobbiamo prendere coscienza al più presto che niente potrà funzionare come in passato. Il Covid-19 non è soltanto un’emergenza sanitaria, ma una crisi globale che comprende ovviamente temi sanitari ma anche sociali, politici, economici, di sicurezza del territorio, di relazioni internazionali. Il virus ci ha messo davanti, tutto a un tratto, alla consapevolezza che il modello turbo capitalista ha fallito. Che occorre mettere al centro del dibattito l’uomo e l’ambiente. Si avverte l’urgenza di ridefinire norme e comportamenti individuali e collettivi che vadano in tale direzione. Si tratta di una sfida da far tremare i polsi eppure la politica, sia a livello locale che internazionale, deve farsene carico pena una crisi di democrazia che aprirebbe spazio a rischi concreti di derive autoritarie. In questo numero del “Ritorno” troverete riflessioni sui cambiamenti che il Covid19 ha apportato o sta apportando nei diversi ambiti sociali e personali. Dal mondo del lavoro all’organizzazione delle città, dal turismo all’arte. Abbiamo, inoltre, una novità: uno spazio letterario che di volta in volta si potrà concretizzare attraverso la pubblicazione di poesie, presentazioni di libri, racconti di narrativa. In questo numero, ad esempio, ci verrà rivelato come nasce l’amore ai tempi del covid. Ci auguriamo possa incontrare il vostro apprezzamento. Saremo aperti e disponibili ai vostri suggerimenti e al dialogo continuo che riteniamo indispensabile per la crescita della testata. Scriveteci sulla nostra pagina facebook e all’indirizzo mail che troverete in ultima pagina del giornale. Non mi resta che salutare, augurando buona lettura a tutti. 5


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Pandemia e Lavoro

Il Covid al lavoro Raffaele FLAMINIO

La pandemia ci strattona strascinandoci in mondo nuovo e sconosciuto. Un mondo del quale non capiamo la complessità, abituati, come siano stati per decenni, a soluzioni semplicistiche immediate e irriflessive. In particolare il tunnel che ci troviamo a percorrere, nostro malgrado, ci imporrebbe riflessioni complesse e scelte ineludibili alle quali non possiamo abdicare sia come individui che, come componenti di un sistema complesso fatto di relazioni e interazione dove i comportamenti e le semplificazioni innescano reazioni a catena non sempre riscontrabili nel breve periodo. Il Covid 19 nella sua manifestazione pandemica, agisce come un parassita virale che colpisce, non solo la biologia umana, ma principalmente le fibre vive della società, i suoi contesti, i suoi riti quotidiani che sono fatti di due materie primarie: la Salute e il Lavoro. Salute e Lavoro sono dirette conseguenze l’una dell’altra. Se sto bene, posso compiere un numero di azioni tali da rendermi sereno perché c’è Salute; di conseguenza posso compiere senza eccessiva complicazione l’azione primaria del vivere sociale, ciò che mi fa sentire parte integrante di un organismo sociale complesso: Lavorare. Questi due elementi sono quelli minacciati da vicino dalla pandemia. Il dilemma dell’esistenza umana e la costruzione sociale, si sono sempre posti il problema di coniugare efficacemente i due elementi primari costituiti dalla Salute ed il Lavoro dimostrando in più epoche la stretta relazione vigente. 7


Gli ordinamenti giuridici internazionali si sono dotati progressivamente di un corredo di regole e obblighi al fine di tutelare la salute dei cittadini e dei lavoratori. La Direttiva Europea n. 89/391 ("direttiva quadro" sulla SSL) obbliga tutti gli stati membri dell’ Unione Europea a recepire negli ordinamenti Nazionali le norme e gli obblighi che sanciscono la sacralità della salute dei cittadini Lavoratori saldando così, perfettamente, i due architravi dell’esistenza individuale e collettiva. Con questa Direttiva l’Unione Europea già nel 1989 individuava nella tutela della salute dei lavoratori l’elemento decisivo per la salute pubblica ed il possibile ristoro sul gravame nei bilanci degli stati membri. Le indagini condotte dagli studiosi scoprivano che, sempre più lavoratori si ammalavano di Lavoro e sul Lavoro, producendo per le casse sanitarie statali un peso enormemente lesivo, sia in termini finanziari che di dignità dei lavoratori stessi. D’altro canto le rivendicazioni salariali, la riduzione degli orari di lavoro, il riconoscimento dei diritti del lavoro, la rappresentanza, per gran parte del ventesimo secolo, detto “Il secolo breve” hanno rappresentato un orizzonte politico sociale da perseguire confermando, se possibile, ancora più marcatamente la stretta relazione tra salute e sicurezza. La coniugazione di questi due elementi, fornisce un reagente per le società complesse, come la nostra, che dovrebbero produrre investimenti: da cui trarre produttività, ricchezza e giusta redistribuzione di essa. Nel 1995 nasce il WTO (World Trade Organization) in Italiano “Organizzazione Mondiale del Commercio” che si prefigge il compito di stabilire regole uguali e condivise nell’ambito degli scambi commerciali internazionali, aderiscono all’iniziativa 164 paesi. Nello stesso decennio gli indici di borsa crescono vertiginosamente, in particolare quelli dell’e commerce, delle aziende tecnologiche e quelle delle infrastrutture telefoniche e reti trasmissione dati. I capitali circolano 8


velocemente ed indisturbati cosi come le merci. Una sbornia colossale. Il lavoro, gli uomini e donne che ne fanno parte diventano un peso e costituiscono un effetto collaterale penoso ma, necessario per affrontare il cambiamento globale. Cambiamento all’insegna della distruzione sistematica delle risorse naturali,dello sfruttamento dei territori che innesca, visibilmente i cambiamenti climatici, le crisi demografiche dei Paesi così detti avanzati e le migrazioni di massa dai continenti più poveri e vulnerabili che intanto subiscono guerre regionali sempre più crudeli e cruente. Ciò produce la sconfitta dell’uomo e della politica, asservita agli oggetti che producono danaro per pochi, i quali costituiscono gruppi di pressione fortissimi che condizionano gli Stati negli indirizzi politici. I G7 e i G8 di quegli anni, sono costellati da imponenti manifestazione di dissenso che provocheranno molti morti e forti repressioni. Il contagio di quegli anni ha un virus: la PAURA . Quel sentimento innesca il ritiro e l’ineluttabilità del corso delle cose di cui bisogna solo prendere atto e accettare. Le ricette economiche proposte dagli Organismi Internazionali sono solo di carattere recessivo e punitivo, eliminare lo Stato sociale e privatizzare, il Mercato aggiusterà ogni cosa. Le prime pandemie moderne in quegli anni si palesano, compaiono: l’AIDS, Ebola, la febbre Suina, la Mucca Pazza, la Sars Cov1. Comincia la guerra dei brevetti tra le multinazionali del farmaco, sostenute da fondazioni“benefiche” e Paesi che sono assoggettati da Imprese che producono fatturati decine di volte superiori al Pil di molti Stati. Riprende sotto mentite spoglie il colonialismo dei ricchi che corrompe tutto. Il lavoro langue o è moribondo, fiorisce la panacea di tutti i mali: la Flessibilità. Ma solo per chi lavora. I Contratti Collettivi Nazionali non vengono rinnovati, si scambia lavoro con salute 9


e sicurezza si precarizza decisamente il Lavoro sull’altare della Flessibilità. La cartina di tornasole di questa nuova idea di società è, come si è detto il “Mercato” in nome del quale si taglia la Sanità, il posto fisso, i mezzi di trasporto, la scuola, i salari, le pensioni. Spariscono le botteghe di prossimità, gli artigiani. I centri delle città diventano dimora delle grandi compagnie mercantili e sagre di aperitivi e dopo cena. E’ una sfida senza precedenti trovare un ciabattino per risuolare un paio di tacchi. Ma tutto resta sotto traccia. Continuiamo a vivere e credere che questo sia il miglior mondo possibile, costruiamo inconsapevolmente muri e barriere difensive. Un click sullo smartphone o sul computer, crediamo, risolvano e assolvano la nostra coscienza, appaghino la nostra voglia di possesso compulsivo e bramoso per le merci. Il 2020 è l’Anno Maledetto. Tutto si inceppa, vengono meno le nostre “granitiche” certezze. Irrompe “L’Aguzzino Invisibile” dal nome in codice, Sars CoV2, per i più, Covid-19. Non guarda in faccia a nessuno. Divora, metabolizza e ricomincia. Gli ultimi numeri ci parlano di circa 50.000.000 di infetti e 1.239.000 morti nel mondo. Numeri da capogiro. IL LAVORO. Il lavoro già ferito a morte, è in terapia intensiva. Si chiude tutto. Ciò che è possibile lasciare aperto si lascia. Fioriscono le ipotesi, svaniscono molte certezze. Tranne quelle del lavoro a tutti i costi e, costi quel che costi. Da evitare sono: la prevenzione per la salute e la sicurezza di chi lavora, i limiti agli orari di lavoro, le tutele contrattuali, l’innovazione, il rinnovo dei contratti collettivi nazionali, le assunzioni. Insomma l’ossigeno per il 10


Lavoro, serio, sicuro, tutelato e tutelante per tutti subordinati, parasubordinati, autonomi. La legislazione sociale in materia di lavoro è a maglie larghe, lascia una enorme discrezionalità a chi dà lavoro. I cambiamenti registrati in questi anni stravolgono l’idea stessa di lavoro. Le assunzioni per la maggior parte sono a chiamata, spessissimo richiedono la partita iva, camuffando in questo modo il lavoro dipendente senza tutele in lavoro autonomo. Anche nel lavoro pubblico e nelle grandi aziende private è preferito il contratto a tempo determinato rinnovabile e prorogabile, le decontribuzioni (oneri a carico dei lavoratori e dei datori di lavoro per il conseguimento al diritto alla pensione) diventano uno strumento d’incentivazione per l’assunzione. Nelle grandi aziende i piani industriali stanno falcidiando l’occupazione impegnando severamente lo Stato con il pagamento di milioni di ore di cassa integrazione, con il risultato di produrre insicurezza e instabilità sociale. La vera novità è costituita dal fatto chi lavora non riesce a campare a far studiare i figli a curarsi. La formazione nelle aziende, pubbliche e private, non supporta adeguatamente le conoscenze e l’auspicabile conversione industriale promessa e proposta. Il paradigma di questa idea di lavoro emerge in questo nefasto periodo pandemico. Gli ospedali e gli operatori sanitari sono allo stremo delle forze e principalmente sono pochi. I salassi dei decenni precedenti a carico della Sanità, fondata sul mercantilismo e non sul diritto alla salute e al lavoro giustamente retribuito e tutelato, ci stanno dimostrando praticamente l’importanza del fattore umano e l’umanizzazione del lavoro. Purtroppo solo in questo momento ci rendiamo conto di cosa significhi la morte sui posti di lavoro. Le statistiche dei decessi sul Lavoro, stilate da Inail, Istat, dall’inizio dell’anno ne contano circa un migliaio e l’anno è ancora in corso; ma il nostro immaginario collettivo si focalizza sui cantieri edili e 11


nella metallurgia. Il risveglio, traumatico, dal torpore civile e sociale ci ha catapultati in una realtà a cui non prestavamo attenzione. Questa pandemia sta colpendo tutti direttamente o indirettamente e ci induce ad aprire gli occhi su ciò che oggi significa lavorare e a quali rischi. Ora cominciamo a capire l’importanza di un’ orario di lavoro presidiato e congruo, di come sia importante il riposo per recuperare efficienza fisica e mentale. Di come la formazione sia un elemento determinante per affrontare la complessità delle nuove tecnologie, esse sono elementi neutri e inerti che hanno necessariamente bisogno del fattore umano che va dalla progettazione, all’assemblaggio, all’utilizzazione. La cronaca ci ha raccontato che centinaia di autorespiratori acquistati per fronteggiare l’assistenza ai nostri malati, siano rimasti inutilizzati e inerti perché le istruzioni riportate, erano in lingua tedesca. Ciò fa rabbrividire; evidenziando che il fattore umano non è relativo ed insignificante ma, la programmazione che scaturisce dalla conoscenza dei contesti e la manualità sono fattori che determinano la vita o la morte dell’individuo e del sociale. Il lavoro senza conoscenza diventa un fattore di arretratezza e il cardine della conoscenza è la buona istruzione. Le chiusure necessarie e dolorose, di tanta parte del mondo del Lavoro, come per gli operatori della sanità, ha coinvolto gli insegnanti e i docenti che per tanti anni sono stati mortificati e maltrattati dal falso concetto mercantilistico che produrrebbe efficienza e prosperità. L’istituzione scolastica decadente e fatiscente, oggi si regge sulla tenace e disperata resistenza di un corpo docenti che nel volgere di pochi mesi si è convertito ad una modalità completamente nuova e sconosciuta di didattica. Con grosso sforzo gli insegnati e particolarmente le insegnanti, hanno saputo coniugare didattica e cura degli studenti non mancando di assolvere ai doveri che i pesanti fardelli domestici le assegnano come la stragrande maggioranza delle nostre concittadine, che nonostante la loro strategica importanza sono state le prime a pagare, anche in questa spaventosa guerra di 12


trincea che palesa un nemico tutt’altro che invisibile, implacabile e comunque onesto. Già onesto, perché in grado di farci capire, capitolo dopo capitolo quali siano le priorità di cui dobbiamo tenere conto. L’istruzione costituisce un investimento a lungo termine che necessità di programmazione e di una visione dinamica del futuro dei Paesi e delle generazioni future. La crisi dell’istruzione mostra molti nervi scoperti, in particolare nel nostro Paese. La crisi e la chiusura di questo comparto produttivo ma, non finanziario, ha mandato in crisi l’intero mondo del lavoro. La presenza dei figli, specialmente per i minori, nelle case, ha posto il grande interrogativo del lavoro in presenza in tutti i settori produttivi legati al terziario avanzato sia esso pubblico che privato. Milioni di genitori Lavoratori si stanno trovando di fronte a poche alternative. Dal cassetto polveroso della politica e del mondo imprenditoriale è stato tirato fuori il lavoro da casa, così detto “AGILE” o con l’onnipresente anglismo “Smart Working”. Sono anni che un emerito professore di sociologia del lavoro, il cui nome è Domenico De Masi, insiste e scrive sull’argomento. Per anni De Masi è stato considerato un velleitario visionario, nell’accezione negativa del termine. La tesi è estremamente semplice: la tecnologia accompagnata da regole certe ed efficaci consente il lavoro a distanza. La contrattazione collettiva nell’ambito del lavoro subordinato e parasubordinato deve regolamentare la prestazione di Lavoro, poggiando le sue fondamenta sulla dignità, la salute e la sicurezza di chi lavora. Purtroppo siamo solo all’inizio e colpevolmente in ritardo. I rischi che si registrano sono molteplici. Esistono seri indizi che molti “illuminati” predichino bene per poi razzolare male, ovvero trasformando questa nuova e utile modalità, “flessibile”, in cottimo e controllo a distanza violando i principi cardine della legislazione. L’utilizzo delle tecnologie, comporta la nuova alienazione, che nel secolo scorso Chaplin, nel film “Tempi moderni” bene rappresentò nella catena 13


di montaggio. La nuova catena di montaggio è costituita dai nostri supporti informatici. Uno dei nuovi diritti che si manifestano è quello della disconnessione; per fare un esempio pratico, nel settore bancario questo nuovo emergente diritto ha trovato la sua dignità, prima negli accordi aziendali di secondo livello e poi nel rinnovato CCNL del 31 marzo 2015.A quanti dei nostri figli o addirittura a noi stessi dobbiamo imporre la disconnessione per evitare patologie complesse è subdole? E il lavoro perché dovrebbe esserne esente? L’assioma Salute è Lavoro è sempre presente e su questo occorre vigilare e fare attenzione. Il semplice click su una piattaforma informatica di delivery o di consegna di una qualsivoglia merce al nostro domicilio, che rischio comporta per chi compie questo lavoro? L’ individuo “Lavoratore” quali tutele possiede? Il Covid 19 ci pone di fronte a questa grande contraddizione. Mio figlio/a che cerca lavoro, o il mio vicino di casa che lo ha perso, se intraprendono questa nuova modalità di lavoro, apparentemente dipendente, salvo comprarsi una bicicletta, un ciclo motore, un cellulare idoneo a supportare gli applicativi che gestiscono gli ordini e la geolocalizzazione, quanto guadagneranno? Quale sarà la loro tutela rispetto agli infortuni sul lavoro? Quale salario avranno la possibilità di contrattare? Chi li rappresenta? Quali e di quante ferie godranno e se si ammalano chi pagherà la loro malattia? Avranno diritto al trattamento di fine rapporto, potranno richiedere un prestito in banca? Questi sono gli interrogativi, retorici, a cui bisogna dare una risposta urgente. Il modo giusto è farsi domande quando si clicca per ricevere un hamburger con patate fritte o un libro o un televisore. La tecnologia aiuta ma se lasciata libera genera nuove forme di schiavitù e d’invisibilità. Quando compriamo della frutta e della verdura, quanti di noi pensano ai campi e alle persone che vi lavorano? Per combattere questa “schiavitù” è stata promulgata 14


la legge contro il Capolarato. Il Capolarato ripercorre la strada delle piantagioni di cotone degli Stati del Sud degli Usa ai tempi della secessione. Quanta pena quelle immagini descritte o viste hanno suscitato nei nostri cuori. Dietro ad ogni oggetto che acquistiamo e consumiamo c’è umanità che ha bisogno di tutele e protezione. Il Covid 19 sta evidenziando come il Lavoro è stato usato, valutato e sfruttato. Questo tempo ci impone riflessione e accortezza, ci impone regole, legalità, sorveglianza. Non è più tempo di semplificazioni e mal di pancia. Il Lavoro vuole dignità. Non c’è Lavoro utile e lavoro inutile. La pandemia ci dice che finanche le bistrattate pulizie sono importanti e utilissime. Quelle donne e quegli uomini che sempre sono stati al lavoro per assicurarci sui luoghi di lavoro igiene e sicurezza, meritano rispetto e dignità e non vi è nessuno che possa mortificarli o considerarli figli di un Dio minore. Cosi come per coloro che assistono a domicilio i nostri anziani e che, per la stragrande maggioranza, sono stranieri divenuti, loro malgrado, apolidi. Senza patria perché i modelli di “sviluppo forzoso” li hanno privati, anche, delle loro disgraziate terre. Un individuo che non appartiene a nulla ed è soggiogato da un suo simile è un essere inutile, spesso facile alle lusinghe dei furbi, dei lupi vestiti da agnelli. Il Covid 19, con la sua veemenza, sta fornendo utili consigli a tutto il genere umano. Il Lavoro, dunque, è l’antidoto giusto. Nel Lavoro i singoli si accomunano, traggono forza nell’unità. Le esperienze circolano e fanno fiorire le idee, le quali fanno bene alla pancia producendo “Pane e Companatico” e allo spirito perché superano le barriere generando volontà, rivendicando la dignità di essere una/o che conta e che consapevolmente accetta senza ricatti o falsi infingimenti. LA RAPPRESENTANZA E LA TUTELA DEL LAVORO. 15


Le Organizzazioni Sindacali più rappresentative degli interessi dei Cittadini Lavoratori nel marzo scorso, a pandemia dichiarata, sottoscrivono in data 14 marzo 2020 “Il protocollo condiviso delle misure per il contrasto della diffusione del virus Covid 19 negli ambienti di Lavoro” . Questo documento sottoscritto tra Governo, Sindacati e Associazioni dei datori di Lavoro, fornisce le linee guida e gli obblighi, a carico di tutti gli attori, “per la prosecuzione delle attività produttive solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione. La domanda nasce spontanea, direbbe il compianto scrittore Riccardo Pazzaglia. Era necessario sottoscrivere un protocollo? Non c’erano tutti i DPCM e le norme di sicurezza dettate dall’ OMS a garantire la sicurezza sanitaria e anticontagio sui luoghi di Lavoro? E’ evidente che ciò non risultava sufficiente. All’inizio della Pandemia nell’area geografica del Paese ritenuta, più avanzata è produttiva le persone che lavoravano si ammalavano, i contagi si moltiplicavano nei siti produttivi ad una velocità impressionante, i piazzali di stoccaggio delle merci e le piattaforme logistiche di arrivo e partenza degli approvvigionamenti erano ingombri di merci e di gente che le conduceva e chi le lavorava. Il lavoro a tutti i costi. Neanche troppo sottintesi i ricatti sull’occupazione. Le associazioni datoriali tuonavano contro le denuncie dei lavoratori che chiedevano tutele lavorative e sanitarie. La parola d’ordine lavorare, lavorare a qualsiasi costo e senza costi di prevenzione e sicurezza. Molte di quelle attività produttive erano e sono senza rappresentanze sindacali, infarcite di lavoratori a termine che pur di lavorare sopportavano ogni ribalderia e imposizione. Una realtà che interessa la gran parte del mondo del lavoro nel nostro Paese. I rapporti di forza che si innescano nell’ambito lavorativo, nonostante le leggi e gli accordi, sono tutti pendenti verso l’impresa. Pochi sono i soggetti virtuosi che affrontano la sfida globale con le idee, l’innovazione e gli investimenti 16


ma, soprattutto considerando il fattore umano. Dunque quel protocollo in questa fase ha rappresentato un elemento che ha assunto forza di legge, imponendo a tutti le regole di una produzione sicura che tenesse conto di tutti gli interessi sul campo. Quello che è importate ricordare che il lavoro in sicurezza è regolamentato dal Testo Unico 81/08 e nonostante ciò, è stata necessaria una mobilitazione delle Organizzazioni Sindacali per richiamare il Governo e i Datori di Lavoro, pubblici e privati, al rispetto delle regole. In questo momento drammatico molti Contratti Collettivi Nazionali aspettano di essere rinnovati. La sottoscrizione di tali strumenti, consente di porre un argine a fughe in avanti. Impone un ripensamento generale di che cosa sia oggi il lavoro che si misura in un mercato globale. Gli orari di lavoro sono un elemento di cui il mondo produttivo si deve fare carico. Una loro razionale articolazione che, tenga presente complessivamente delle esigenze del trasporto pubblico, dei tempi di vita e di lavoro, delle esigenze di cura che donne e uomini sono chiamati ad assolvere in una società che è incrinata e rotta, che non lascia spazio ad altro se non al vivere per lavorare. La contrattazione dei salari e gli stipendi è un’importate cornice in cui è racchiusa l’essenza stessa del lavoro che contribuisce ad un ordinato e solidale sviluppo delle nazioni. Stiamo vedendo come tutte le filiere produttive merceologiche ma, principalmente quelle di produzione immateriale, sanità, terziario, istruzione, ricerca, reti trasmissione dati, finanziarie, siano importanti e debbano essere strutturate e costruite sull’efficienza e su un alto contenuto di etica e solidarietà. L’universalità del diritto alla Salute, al Lavoro, alla partecipazione sono contenuti nei suddetti concetti dai quali deriva la sicurezza della società e degli individui che la compongono. Il mercato libero, come fin’ora ci hanno voluto far credere, mostra crepe estremamente pericolose. Quasi tutti gli Stati del pianeta si sono impegnati a investire enormi quantità di denaro al fine di costituire una efficace rete di protezione per gli individui e non è pensabile che chi 17


“presume” di comandare imponga poi un volere particolare e di casta. Il compito del sindacato è gravoso, va aguzzato l’ingegno. E’ necessaria una riflessione e un serio ascolto delle esigenze di chi lavora. Lo sforzo da compiere è quello di immaginare e programmare una visione medio lunga che contempli l’impatto delle nuove tecnologie, che seppur potrebbero corrispondere ad una versione più ecologica del mondo, se non governate efficacemente, comprometterebbero il rapporto con l’umanità. Il rapporto con i cittadini lavoratori è necessario. La vicinanza fisica che sin’ora è stata la chiave partecipativa e coinvolgente deve essere ripensata, la contingenza storica che l’emergenza sanitaria ci sta imponendo, mette a rischio la rappresentanza. Essa se coniugata con le nuove tecnologie invece salvaguarda e rinforza il diritto di partecipazione democratica dei lavoratori nell’interesse generale. Il lavoro a distanza deve prevedere un nuovo modello di comunicazione, impone nuove relazioni sindacali. Il diritto di assemblea, luogo ideale, nel quale scaturisce il confronto deve essere ridisegnato sulle piattaforme digitali che stanno inaugurando e sperimentando in questa epoca inedite modalità lavoro. Così come attraverso la disconnessione deve essere garantito il diritto di sciopero sancito dalla Costituzione. Tutto quello che si è previsto e garantito con anni di lotte e perseveranza, deve essere difeso innestato da nuovi paradigmi. L’auto referenzialità ha proposto troppo spesso riti inutili, la classe dirigente del Sindacato deve essere preparata e pronta a proporre, improntata su una strategia di lungo periodo, agile, come il lavoro a cogliere e incanalare il cambiamento. Alcuni passi in questa direzione si stanno compiendo, il Forum dal nome “Futura” organizzato dalla Cgil di Maurizio Landini a cui hanno partecipato i Segretari Generali di Cisl e Uil Furlan e Bombardieri con Bonomi della Confindustria ha palesato la distanza che esiste tra una visione conservativa e padronale del lavoro espressa dal presidente degli imprenditori e il sindacato che, promuove un modello avanzato di 18


relazioni industriali, fondato sulla partecipazione dei lavoratori che conferiscono idee del lavoro mai asfittiche e minoritarie. La sperimentazione del lavoro a distanza, li dove sia possibile, costituisce una frontiera che va compresa e declinata correttamente. Il luogo di lavoro si trasferisce nelle mura domestiche, in postazioni mobili, o in altri luoghi che non sono ” tradizionali” ma, sono comunque Lavoro è pertanto, deve essere svolto con criteri che assicurino sicurezza e certezza di regole. I dati statistici raccolti indicano che la produttività aumenta, quindi maturano, qualora non fosse chiara a qualcuno, il senso di responsabilità e disciplina di chi lo esegue, senza che ci sia un capò a dettare i tempi o brandire una “frusta”. I pericoli che incombono su questa nuova modalità risiedono nell’orario di lavoro, nelle retribuzioni che facilmente possono trasformarsi in cottimo che è vietato, al controllo a distanza, alla sicurezza delle informazioni, alle pause, all’ergonometria delle postazioni di lavoro, al pagamento dei buoni pasto, agli incidenti in itinere e alle nuove malattie professionali. Questa nuova realtà se governata con prudenza e lungimiranza può offrire opportunità nuove che contemperino anche il resto della esigenze di un individuo.

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Pandemia e Società

E ora costruiamo città a portata di mano Rosanna Marina RUSSO

La città come un paese. Tante volte ho pensato, passeggiando per Napoli, a come sarebbe stato magnifico poter raggiungere la biblioteca o il cinema in pochissimo tempo e senza utilizzare i mezzi di trasporto. E quando è scoppiato questo quarantotto sanitario, mentre leggevo da più parti ”Saremo migliori”, io pensavo, invece “Ora cambieremo e in meglio le nostre città. Colmeremo il gap tra periferia e centro e tutto avrà un volto diverso”. Sei mesi fa lessi una interessantissima intervista fatta ad Alfredo Brillembourg che da venti anni si occupa di rendere vivibili le ba20


raccopoli di tutto il mondo, nella quale l’architetto venezuelano ha espresso a gran voce questa urgenza: “È ora di riorganizzare le città” . Certo Brillembourg è esperto nella riorganizzazione urbanistica delle situazioni sociali più estreme, come gli slum, ma alcune idee, o se vogliamo visioni,

nella sostanza sono valide dap-

pertutto e per questo possiamo ritenerle universali. Il richiamo di Brillembourg è relativo alla pandemia, chiaramente, e al possibile ritorno di questa, visto che l’intervista è di aprile, ma anche a un pensiero rinnovato rispetto alla vivibilità di tutte le città. Anche da noi, sia chiaro, qualcuno ha detto e indicato una mèta e sperato in un cambiamento radicale, ma ciò che è stato fatto è andato verso la direzione dello sperato e del detto? Riorganizzare, dunque. Avremmo dovuto cominciare a farlo questa estate, avremmo dovuto prepararci quando la morsa del Coronavirus si era leggermente allentata. Avremmo dovuto studiare quello che sapevamo e proiettarci oltre col pensiero. Avremmo dovuto. Ma non lo abbiamo fatto e, invece, siamo andati in vacanza, mentre il virus ci aspettava silente. E ora bisogna correre ai ripari,

rendendo funzionale quello che non funziona,

modificando ciò che è possibile modificare e soprattutto rivolgendo sulle cose esistenti uno sguardo diverso. Perché se osservi il mare di notte sei pronto a giurare che sia nero. E allora costruisci lampade e ti chiudi in casa, perdendo la possibilità di navigare. Intendiamoci, non è che non sia stato fatto alcunché . Sono stati erogati dei fondi e prorogate le misure di contenimento al contagio con i vari Dpcm e sono stati compilati interi dossier come quello redatto dal Ministero della Salute per la “evoluzione della strategia e pianificazione nella fase di transizione per il periodo autunno-inverno”. Anzi, si è scritto molto. Massimo Cacciari ha parlato addi21


rittura di “delirio normativo”. Ma una visione globale del problema e delle possibili soluzioni non c’è stata, né da parte del governo, né da parte delle regioni. E se gli esperti avvertivano sulla probabilità del contagio di ritorno (non in maniera unanime, purtroppo), probabilmente molti non ne erano convinti. Il 30 maggio scorso il CNEL ha discusso sulla mobilità e sui tempi della citta. E in quella sede, durante i lavori della Consulta nazionale per la sicurezza stradale e la mobilità sostenibile, Gianpaolo Gualaccini, presidente della Consulta, nel suo intervento ha detto: ”Bisogna superare la fase emergenziale e strutturare i cambiamenti per arrivare preparati alla ripresa, a settembre”. Ripeto: ripresa a settembre. E il governo, dunque, in sintonia con le deliberazioni del CNEL, ha spinto la sua azione verso la ripresa del Paese senza prepararsi alla seconda ondata della pandemia. Non ha programmato, quindi, cambiamenti strutturali dell’organizzazione sociale perché non credeva in un’ondata di ritorno o, forse e anche, per specifiche incomprensioni tra le forze politiche al suo interno. Questa decisa indeterminatezza ha regolato, per così dire, il traffico, ma non ha inciso sugli stili di vita, non ha spostato di un millimetro l’impianto dell’organizzazione sociale, non ha cambiato percorsi né modalità e, dunque, ci ha allontanati dal mantra governativo: ”dobbiamo convivere col virus”. Invece sarebbe stato fondamentale riadattare il territorio alle attuali e future esigenze, rivoltando le zolle, per così dire, visto che questa non è una piccola contingenza, ma una giuntura critica che traccia un solco tra il prima e il dopo e che non ci permette di perdere tempo, ma che ci obbliga a studiare velocemente la rotta da prendere. Ora dobbiamo ottimizzare quello che c’è per creare al più presto un mo22


dello cittadino che riduca la possibilità di contagio e in più ci preservi da altre possibili situazioni pandemiche. E per ripartire molte cose le sappiamo. Sappiamo quali sono i principali luoghi di esposizione al contagio, quali settori vanno ancora migliorati e ci è ormai chiaro ciò che ha ufficializzato il Commissario Arcuri nelle conferenza stampa del 29 ottobre: “l’80% dei contagi avviene in famiglia”. Intendendo con questo che la mobilità e i contatti sono da tenere sotto controllo. Conosciamo le difficoltà incontrate dal nostro sistema sanitario nel periodo peggiore della pandemia e gli interventi per contenere il contagio nelle strutture ospedaliere, per tutelare medici e infermieri, per aumentare i posti Covid ordinari e di terapia intensiva. A questo proposito va detto, però, che forse sarebbe opportuno iniziare a recuperare un rapporto equilibrato tra sanità pubblica e privata. Negli ultimi anni si è assistito a una crescente riduzione della sanità pubblica nei confronti di quella privata, con una perdita di efficienza apparsa lampante nei momenti di maggiore crisi. Sintomatico il confronto tra il caso lombardo (privato al 30%) e quello veneto (privato al 10%). Bisogna assolutamente razionalizzare il sistema ospedaliero nel segno della flessibilità e creare una rete costituita da team di operatori sanitari selezionati e formati per le diagnosi veloci a domicilio e dai medici di base per la cura dei pazienti non gravi. In questo modo la medicina territoriale riavrebbe il suo ruolo di cura, divenendo filtro tra malati e ospedali . E, continuando nella disamina generale, abbiamo visto lo sforzo che c’è stato, sia da parte del governo, sia da parte delle Regioni (chi più chi meno, ma questa è 23


un’altra storia) per la creazione di particolari modelli procedurali in ambito assistenziale nelle RSA. Ma si potevano forse già creare delle social housing dove mettere in connessione minialloggi per anziani ed alloggi per famiglie o badanti, meglio ancora se con servizi centralizzati, concedendo, ovviamente, facilitazioni e sussidi per chi fosse stato disponibile all’aiuto. Comunque è da rivedere il sistema delle RSA , garantendo maggior protezione in collegamento con le strutture sanitarie e instaurando rapporti organici e più stretti con le famiglie. In realtà il ministro Speranza ha avviato adesso un percorso del genere, cioè la revisione del sistema dell’assistenza agli anziani, affidando a Monsignor Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, il coordinamento di una Commissione dedicata a questo tema. I componenti si sono già riuniti il 28 settembre e il 3 novembre. Nella prima relazione si legge: “C’è bisogno di farsi prossimi alle case, ai quartieri, alle città: dagli infermieri di quartiere ai medici di famiglia, dagli assistenti sociali ai fisioterapisti, dagli educatori di ogni ordine e grado sino alle farmacie e alle realtà del quartiere e agli stessi istituti”. Ricordiamo che monsignor Paglia, dopo lo scandalo del Pio Albergo Trivulzio, ha invocato la chiusura delle case di riposo. Sappiamo ancora che nella scuola è essenziale poter rimodulare, dilatare e differenziare i tempi. E che si può fare molto senza investire grosse risorse. Come istituire, per i piccoli, delle zone specifiche per salutare i genitori, sullo stile delle kiss&fly, come supplire alla carenza di personale, in fase emergenziale, chiamando ,a sostegno e senza obbligo, i ragazzi dell’ultimo anno del liceo pedagogico e gli universitari, come utilizzare i supplenti annuali a disposizione delle scuole assegnandoli non alla singola classe, con la possibilità, quindi, di spostarli dove c’è bisogno, come fruire di spazi esterni messi a disposizione dal comune con tenso24


strutture sullo stile di quelle impiegate per i ricevimenti. E, alla voce “lavoro”, laddove ci sia lo Smart o il coworking è imprescindibile regolarizzare tempi e modi, mentre dove è impossibile produrre se non in presenza bisogna provvedere a sostituire le mense con spazi per piccoli gruppi e a limitare incontri tra operai e impiegati costituendo dei team fissi (qualcuno l’ha fatto) . Sappiamo, infine, che nelle grandi conurbazioni la forte affluenza di persone nella rete dei trasporti pubblici favorisce la diffusione del virus, per cui anche qui vanno previsti nuovi modelli organizzativi del trasporto pubblico e pubblico-privato già in uso in altri paesi (scaglionamento orari, car sharing, ecc...). Ebbene, tutto ciò che ormai sappiamo può portarci verso una “visione” che tenti di considerare le diverse problematiche nel suo insieme? Io credo di sì e mi ricollego alle parole di monsignor Paglia e al concetto di prossimità perché è un’idea che accosta il passato al futuro e che risponde all’esigenza del cittadino di avere tutti i servizi a portata di mano per utilizzare al minimo i trasporti pubblici e ci proietta in una “città dei 15 minuti”, come immaginata e in parte realizzata dalla sindaca Hidalgo che ha rivisitato radicalmente la cultura della mobilità. Parigi si sta rimodellando così che gli abitanti soddisfino tutti i loro bisogni (lavoro, shopping, cultura) entro 15 minuti dalla propria abitazione. Perché la lezione di questo tornado pandemico è proprio questa: la pianificazione urbana deve sincronizzare spazi, tempi e movimenti. Dobbiamo ritornare a quel maggio francese a cui la Hidalgo evidentemente si ispira, a quell’idea di miglioramento del contesto di vita, a quel situazionismo che fece della psicogeografia una delle bandiere. Ma anche non volendo emulare la Hidalgo bisogna prevedere nuove tipologie ur25


banistiche ed edilizie al fine di rendere le nostre città inclusive e resilienti nell’affrontare future crisi, smantellando il format centro/ periferie e concentrandoci sulla multifunzionalità degli edifici. Sempre Brillembourg è riuscito a costruire delle “palestre verticali” che in periodi tranquilli sono luoghi di culto o spazi di ricreazione o di sport; ma nei periodi di crisi il tetto si trasforma in una pista di atterraggio per elicotteri da soccorso e l'intero edificio diventa un centro di emergenza o un punto di distribuzione di viveri e medicine. Possibile che da noi non si possano organizzare semplici strutture multifunzionali in punti strategici degli insediamenti? Possibile che non si possano rendere autosufficienti piccoli agglomerati cittadini in modo da permettere agevoli spostamenti e non faticose avventure ? Solo in questo caso ha senso sponsorizzare l’uso dei monopattini e delle biciclette, se cioè l’uso di questi mezzi è funzionale non solo alla semplice passeggiata, ma a sbrigare le normali attività quotidiane. Quello che ora serve non è più il presto e lontano, ma che la città diventi paese e ci appaia come Anastasia di Calvino “un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte”.

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Giusto per dire

25 novembre: la violenza della retorica Antonella BUCCINI

In Italia secondo i dati Istat 8 milioni circa di donne, (il 43,6 per cento) dai 14 ai 65 anni nella loro vita hanno subito molestie. Il 24 per cento è stata infastidita ver27


balmente con proposte oscene o commenti sul proprio corpo. Il 20 per cento è stata pedinata, toccata o baciata contro la propria volontà. Un milione 400 mila donne hanno denunciato molestie fisiche o ricatti sessuali sul lavoro. E questo è quanto. Abbiamo un problema, dunque. Lo abbiamo con le donne, se ancora troppe individuano nella vittima l’induzione alla violenza o alla molestia, se sottovalutano la volgarità in un presunto apprezzamento, se giudicano il femminismo un fenomeno discutibile del passato. Ma lo abbiamo anche con gli uomini se da bambini e poi da adolescenti sono destinati alla costante competizione con i loro simili ai quali dare dimostrazione della loro identità sessuale, della loro forza e perché no della loro aggressività. E questa rassegna passa attraverso le donne, trofei e vittime poco importa. Residua la retorica sciorinata nella celebrazione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne a fronte di stereotipi femminili che gli stessi media, assolta la liturgia con unanime riprovazione ma con un “…e però…” smozzicato qui e là giusto per “completezza”, continueranno a proporre con l’esibizione del corpo femminile e con modelli “vincenti” che ne faranno scempio.

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Pandemia e Business

Vaccini ‘privati’ e pubblici contagi Giovanni AIELLO

Presto arriveranno i vaccini anti-coronavirus. L’emergenza globale favorisce un business multimiliardario per le poche compagnie produttrici, mentre aumentano le incertezze per i compratori: ovvero i governi di tutto il mondo. A tenere banco sui giornali, in queste ultime settimane, sono in prevalenza le tecniche utilizzate per realizzare i vaccini contro il Coronavirus, l’affidabilità della sperimentazione, la risposta immunitaria delle persone, il numero di dosi disponibili, i prezzi, le date di consegna e finanche i frigoriferi per conservare questi farmaci. Si tratta naturalmente di questioni tutte più che legittime, per le quali una risposta dei tecnici è quanto mai necessaria ed urgente. 29


I vaccini in Italia Quanto alle tecniche sappiamo che sono due. Una inedita, basata sul mRNA, che contraddistingue i vaccini messi a punto dalle multinazionali Pfizer/Biontech e Moderna, e l’altra, più tradizionale, che sfrutta un adenovirus, e viene usata invece dal gruppo AstraZeneca. Nel primo caso, per mezzo del vaccino, viene trasmessa alle cellule sane una particolare sequenza di geni del coronavirus (denominata ‘spike’, ovvero chiodo, proprio perché è quella che permette al virus di accedere), che sebbene non possa procurare da sola l’infezione, è in grado comunque di sollecitare la produzione degli anticorpi, in modo che di fronte ad una reale minaccia di contagio le cellule in seguito sapranno immediatamente riconoscere l’invasore e quindi respingerlo. Nel secondo caso invece, l’adenovirus (un virus comune che causa abitualmente il raffreddore e che il nostro organismo già conosce) viene ibridato con una parte di coronavirus, stimolando quindi una reazione del sistema immunitario nei confronti di entrambe le infezioni. L’efficacia di quest’ultimo approccio, che si basa su un virus preformato, si preannuncia leggermente inferiore (90%, contro il 95% del metodo con mRNA), ma non presenta ad esempio quei difficili problemi legati alla cosiddetta “catena del freddo” caratteristici del vaccino Pfizer/Biontech, che infatti va conservato a -75 gradi. Da qui le discussioni sui problemi logistici cui accennavamo in apertura (una parte di questi costosi ultra-congelatori sarà prodotta anche in Campania dalla Pluris, un’azienda che fa capo ad un gruppo statunitense ma che ha sede nel comune di Nusco), visto che questo farmaco, l’unico per ora ad essere entrato nella III fase di sperimentazione, sarà il primo ad arrivare in Italia all’inizio del 2021 con circa 27 30


milioni di dosi, sufficienti quindi per 14 milioni circa di cittadini (è necessaria una doppia inoculazione) appartenenti alle fasce più esposte. I segreti delle Big Pharma Ma al di là delle soluzioni in senso strettamente farmacologico, certamente attese, ancorché più o meno collaudate, poco si parla invece delle cosiddette Big Pharma coinvolte in questa sorta di gara scientifica per miliardi di dosi di farmaco, che mette in palio un “montepremi” con cifre da manovra finanziaria di governo, e soprattutto anni di preminenza strategica per il vincitore o i pochi vincitori che si assicureranno i brevetti e i contratti per la fornitura dei vaccini in tutto il mondo (visto che per vaccinare massivamente occorreranno almeno 12-18 mesi, e potrebbero rivelarsi necessarie più campagne vaccinali successive). A tal proposito, risulta sufficiente in questa sede accennare ad esempio alla storia della società più grande e nota tra quelle interessate, ovvero l’americana Pfizer, per mettere già in fila quasi tutte le circostanze e le contraddizioni che sono alla base del più amaro degli interrogativi: è accettabile che per gestire un’emergenza sanitaria mondiale, che investe la politica, l’economia, le abitudini sociali e le prospettive di intere popolazioni, si debba ricorrere ad aziende che, per mestiere, vendono prodotti farmaceutici, e che applicano quindi alla salute di tutti la cinica legge della domanda e dell’offerta (o se preferiamo, il principio costi-benefici)? Il grande gruppo fondato da Charles Pfizer a New York oltre 150 anni fa ha naturalmente tutte le carte in regola, dal punto di vista puramente operativo, per occuparsi di questa ricerca. Ma con un fatturato di oltre 50 miliardi di dollari e circa 100mila dipendenti, c’è anche il rischio che si senta un po’ troppo sicuro di sé. E non sorprenda quindi se la distribuzione del vaccino (proprio mentre vi scriviamo 31


stanno decollando i primi voli della United Airlines con destinazione Bruxelles) sia iniziata addirittura senza attendere il definitivo placet della competente autority statunitense, la potentissima Food and Drug Administration. Ed infatti, a riprova di questa politica per così dire self confident, le vicende della Pfizer, come verrebbe facile immaginare anche ai meno smaliziati, sono spesso rimbalzate dai grandissimi successi commerciali di prodotti come il Viagra o lo Xanax, fino a cause con risarcimenti miliardari a carico del gruppo, come accaduto nel 2009 per la pratica della cosiddetta vendita off-label (fuori-etichetta) di farmaci quali ad esempio il Bextra (un antinfiammatorio) e lo Zyvox (un antibiotico). Si trattava (e parliamo al passato per professare un dovuto ottimismo) di indurre i medici a prescrivere questi ed altri farmaci anche al di là del loro preciso spettro di utilizzo, per patologie e in dosi diverse da quelle previste dalla legge. L’obiettivo era quello di ampliarne ovviamente la diffusione, in totale spregio dei rischi e degli effetti sui pazienti. Sarebbe davvero lunga la lista delle cause e delle accuse nei confronti della Pfizer (anche per sperimentazione illecita sull’uomo, in un processo ancora in corso). Ma non serve elencarle tutte per comprendere comunque l’esigenza di un diverso equilibrio per la salute globale, sospesa fra le urgenze, come quella anti-contagio attuale, e una visione di lungo periodo tutta da ridefinire. E guarda caso, proprio il CEO di Pfizer, Albert Bourla (un cognome che evoca scherzi inattesi), pare si prenda gioco del buon affidamento del pubblico, quando sceglie di vendere oltre il 60% delle sue quote aziendali per un valore vicino ai sei milioni di dollari, giusto nel mentre, all’inizio di novembre, si annuncia l’efficacia altissima del suo vaccino, e contemporaneamente le azioni registrano un picco di crescita del 10,6 %. Quasi volesse egli stesso ricordarci inconsciamente la portata 32


macroscopica degli interessi in ballo e delle implicazioni finanziarie, salvo poi negare pubblicamente ogni intento speculativo, sia suo che della compagnia. E analoga sensazione di sconcerto suscitano in tal senso anche le parole del direttore medico di Moderna, Tal Zaks, il quale sul sito Axios ha affermato che “Bisogna stare attenti a non sopravvalutare i risultati. Quando inizieremo la distribuzione non avremo dati concreti sufficienti per dimostrare che questo vaccino riduce la trasmissione”. E lo ha fatto esattamente in concomitanza con l’accordo firmato dalla sua azienda con la Commissione Europea per una fornitura che potrebbe arrivare potenzialmente fino a 160 milioni di dosi. Le scelte dei compratori: la UE e gli altri Forse per via di questo clima di incertezza diffusa “Sono lieta che la Commissione abbia finora concluso sei accordi relativi al vaccino”, ha affermato Stella Kyriakides, Commissaria europea per la Salute e la sicurezza alimentare. “Questo traguardo - ha proseguito - è una prova tangibile di che cosa rappresenti in concreto l'Unione europea della salute”. Le intese infatti, in attesa delle autorizzazioni che arriveranno dall’Ema (l’autorità di controllo europea), oltre all’americana Moderna riguardano, come si accennava, il gruppo anglo-svedese AstraZeneca e il binomio Usa-Germania costituito da Pfizer/Biontech, ma anche la joint franco-britannica Sanofi-GSK, l’azienda belga Janssen Pharmaceutica NV e ancora la tedesca CureVac. “Stiamo realizzando un portafoglio di vaccini contro la COVID-19 tra i più completi al mondo”, ha confermato in proposito anche la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, a riprova di quanto potrebbe rivelarsi importante questa diversificazione in caso di parziale efficacia di alcuni farmaci. Una scelta questa, che in una fase così critica ed improvvisa (al netto di tutte le in33


certezze riguardo le vere cause di questa pandemia, sulle quali è ancora in corso l’indagine dell’OMS), potrebbe probabilmente rivelarsi come una soluzione premiante. Ma non di certo una soluzione per tutte le tasche. Visto che l’approvvigionamento dei vaccini ha dei costi altissimi (dai 2,80 euro a dose di AstraZeneca, fino ai 20-30 dollari a dose per Moderna), e sono molti i governi, ad esempio dell’Africa e del Sud Est asiatico, tagliati completamente fuori dalle negoziazioni. Ecco perché la Commissione europea ha già raccolto quasi 16 miliardi di euro nell’ambito della “risposta globale al coronavirus”, e parteciperà con 400 milioni ad uno strumento dell’OMS denominato COVAX, per offrire un accesso equo ed universale ai test, alle cure e naturalmente ai vaccini, da fornire a prezzi contenuti. Ma se da un lato ciò rappresenta una garanzia ulteriore, visto che “nessuno sarà sicuro fino a quando non lo saremo tutti”, come riportato nella pagina ufficiale della Commissione, dall’altro rimarca una volta di più le distanze fra i paesi “ricchi” e il cosiddetto secondo e terzo mondo, ancora in attesa del benefattore di turno. Su questo stesso terreno si gioca anche la partita di Cina e Russia, e finanche dell’India, che potrebbero proporzionalmente rinforzare il loro potere d’influenza nelle rispettive aree di interesse strategico, assicurando scorte dei propri vaccini ai paesi più a basso reddito. Naturalmente i cinesi sono in vantaggio, attesa la loro oramai proverbiale capacità produttiva. Ma Pechino è in grado anche di fornire direttamente la tecnologia per la produzione del farmaco, come ha già fatto con grandi paesi quali Brasile e Messico. Possibili prospettive Alla luce di questo scenario, in cui l’emergenza sanitaria mondiale, piuttosto che avvicinare i governi, sembra accentuare ulteriormente le disuguaglianze, rimane dunque da capire quali sono le possibili alternative, per ambire ad una graduale 34


transizione verso una politica globale della salute sempre più slegata dai mercati, più trasparente e condivisa, basata sulle indicazioni provenienti ad esempio dal cosiddetto modello “One Health” (secondo il quale la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente va trattata unitariamente), peraltro già accolto dall’Istituto superiore della sanità, dall’Unione europea e da altri organi internazionali. Importanti organizzazioni senza scopo di lucro, come la HAI (Health Action International), che si occupa da quarant’anni di accesso ai farmaci essenziali e di uso responsabile della medicina, e la CI (Consumers International), che dal 1960 rappresenta agenzie di consumatori appartenenti ad oltre 100 diversi paesi per promuovere legislazioni che rispettino i diritti dei consumatori sanciti dalle Nazioni Unite, anche nel campo del farmaco, hanno sicuramente già tracciato una strada da seguire, insieme a realtà quali Médecins Sans Frontières ed Emergency. Ma per superare le attuali condizioni e le minacce provenienti da quello che la studiosa di psicologia sociale Shoshana Zuboff, professoressa all’università di Harvard, ha individuato come il “capitalismo della sorveglianza” (nel quale l’individuo è ridotto ad oggetto digitale di osservazione per fini commerciali da parte dei colossi del digitale, che gestiscono i big data - nel nostro caso relativi ai numeri del contagio - in una logica sempre più asimmetrica e predatoria), dobbiamo ripartire proprio dal diritto. Servono - sempre secondo la Zuboff - fondamenti costituzionali più aggiornati, che riescano a porre limiti realmente efficaci alle nuove forme di controllo e di potere economico, di cui, come abbiamo visto, anche gli attori impegnati oggi nel contrasto alla pandemia possono diventare una chiara espressione.

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Pandemia e Numeri

Il vaccino dei dati Antonio DINETTI

Corre l’anniversario del primo contagio mondiale di Covid19 e rispetto allo scorso inverno la sensazione che viviamo è paradossale: i numeri ci dicono che stiamo 36


messi peggio, perlomeno a diffusione del virus e a sovraccarico delle strutture ospedaliere al netto dei potenziamenti effettuati in precedenza; la percezione che abbiamo della nostra vita è invece mutata. Siamo in overdose informativa, a prescindere dalla qualità e affidabilità dei messaggi che ci arrivano, ci sembra di saperne di più o almeno di poter gestire meglio di prima ogni singolo atto quotidiano e al tempo stesso ci rendiamo conto di non avere contezza della situazione generale per come la comunicazione istituzionale viene gestita. Calziamo meglio la mascherina per andare al supermercato, magari quel modello lì, più protettivo, e di sera ci propinano algoritmi e mappature territoriali che durano lo spazio di qualche giorno e mutano senza problemi dalla più blanda alla più grave delle situazioni e delle restrizioni. La ferita istituzionale aperta dal Covid nel rapporto tra Stato e Regioni si allarga sempre più, al punto che la conflittualità sfocia spesso in ricorsi agli Organi di Garanzia dello Stato. Rispetto ai mesi iniziali dello sviluppo della pandemia di sicuro abbiamo incamerato l’esperienza dura della quarantena, del conforto stressante, (sembra un ossimoro ma non lo è), di sapersi chiudere tra le mura domestiche in attesa di notizie meno catastrofiche, ma qualcosa di nuovo si è insinuato nella nostra consapevolezza. Il senso di sfiducia in chi ci dovrebbe proteggere e nelle cose che ci ripete ossessivamente, la paura per i dissesti economici e le prime avvisaglie di una situazione sociale esplosiva. Buone notizie sembrano arrivare dal fronte vaccini, ma sappiamo perfettamente che dobbiamo passare eduardianamente la nottata, almeno il prossimo inverno. In questa dura contingenza si insinua ormai ben chiara, emergenza nell’emergenza, la questione dei dati. Non c’è supporto alla decisione che valga senza dati affidabili, raccolti omogeneamente, puntuali e facilmente interrogabili. Non può esserci 37


comunicazione efficace dell’Amministrazione Pubblica verso i cittadini senza disporre di una solida infrastruttura della conoscenza e dei migliori mezzi per renderla trasparente e condivisibile. Siamo da un po' di anni nell’era degli Open data ma ci è stato impossibile comprendere il funzionamento dell’algoritmo predisposto per la zonizzazione territoriale, con buona pace dei famosi ventuno indicatori di cui graziosamente il Governo ci ha messo a conoscenza. Chi ci fa capire se e quanto debba prevalere nell’analisi generale un parametro su di un altro? Ogni brava analisi multicriteria prevede dei pesi ponderati, delle matrici di applicazione degli indicatori. E siamo sicuri che al Sud si possa assegnare lo stesso peso a criteri e indicatori validi per il resto del Paese? È sufficiente sapere che i criteri sono divisi in tre gruppi, “capacità di monitoraggio, capacità di accertamento diagnostico, indagine e gestione e trasmissibilità dei contagi e la tenuta dei servizi sanitari”? Se il più importante, l’Rt (il numero medio di persone contagiate per ogni persona contagiata), resta sotto 1,25 la regione può veramente rimanere gialla a prescindere dagli altri indicatori, o tale scelta rinuncia ad altri aspetti predittivi che raccomanderebbero una soluzione più cautelativa? I territori partono tutti dalla stessa linea di partenza? Questi pesi e la loro applicazione andrebbero comunicati e condivisi, anche se è di tutta evidenza il risvolto politico che ne potrebbe scaturire, a maggior ragione in una stagione in cui le tornate elettorali sono state frequenti e tormentate. Tuttavia, se comprensibile è la cautela politica nell’attutire determinate condizioni di criticità ai blocchi di partenza, si può inserire poi nel processo valutativo la medesima criticità? Come fa una regione ad essere gialla se ha dimostrato in partenza di aver affanno, ad esempio, nei criteri di monitoraggio? La sensazione che il cittadino, anche il più indifeso dal punto di vista scientifico, ne ricava è di grande insicurezza, 38


specie se l’algoritmo, alla luce dell’impostazione, disvela un ruolo più di supporto ex post che non di analisi di scenari. Già, qui risiede il problema. Il Governo ha bisogno di andar per gradi e tappare i buchi per quanto possibile in una pragmatica e affannata mediazione tra danno alla salute e danno economico o ha il compito di valutare in anticipo e prevenire gli stessi dissesti? E il ruolo del tracciamento è saltato definitivamente con la app Immuni? Perché i dati massivi di colossi del web non vengono usati? Sono tutte domande senza retorica, interrogativi concreti che si pongono da tempo epidemiologi, statistici, virologi, giornalisti esperti di media e certo sono materia di assillo per i nostri governanti, ai quali va riconosciuto d’ufficio di star affrontando un’emergenza epocale e globale. Nelle more della stesura di queste note le Regioni hanno richiesto in sede di Conferenza istituzionale di ridurre a cinque gli indicatori oltre all’adozione di criteri di maggiore trasparenza: - percentuale di tamponi positivi, (escludendo attività di screening e il «re-testing» degli stessi soggetti, per mese, compresi i test antigenici rapidi attualmente non conteggiati, abbassando in automatico la percentuale di positività); - Rt calcolato sulla base della sorveglianza integrata dell’ Istituto Superiore della Sanità; - tasso di occupazione dei posti letto totali di Terapia Intensiva; - tasso di occupazione dei posti letto totali per pazienti Covid; - possibilità di garantire adeguate risorse per contact-tracing, isolamento e quarantena. 39


Sembrerebbe, oltre che una ricetta politicamente meno indigesta, un’aspirazione all’univocità di scelte che possano aiutare un’opinione pubblica esasperata dai tira e molla normativi, comportamentali e socioeconomici dovuti a un profluvio mai visto prima di DPCM, a cadenza pressoché settimanale. Il Governo e il Comitato tecnico scientifico non sembrano voler mollare e in fondo non va nascosto che un’analisi più raffinata in assoluto valga di più a gestire la complessità dei fenomeni; si parla di non ripetere gli errori di un’estate troppo disimpegnata e irresponsabile mentre sulla stampa si rincorrono i titoli dedicati al DPCM di Natale, tra tutti quello che dovrebbe scongiurare una terza drammatica fase emergenziale a inizio anno nuovo. Un anno atteso con più desiderio del solito per l’avvento prossimo della profilassi di massa che potrà contare su diversi vaccini. Resta però ancora senza progressi degni di nota il lavoro sul Vaccino dei Dati che dovrebbe essere, a differenza di quelli che immunizzano dal contagio, svolto in condivisione tra decisori e la comunità; servirebbe ad allargare conoscenza e responsabilizzazione, accogliendo i contributi di una platea più vasta di esperti e contribuendo ad aumentare la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni. La crisi globale indotta dalla pandemia non sta aumentando dalle nostre parti la smartness politica e civica e i processi di E-democracy e questa forse è un’occasione che stiamo perdendo.

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Costume

A far l’amore cominci tu? Antonella BUCCINI

In principio furono le Kessler. Anzi no. Abbe Lane. 41


Una giovane e bellissima americana che negli anni ’50 piroettava intorno al marito Xavier Gugat, direttore d’orchestra di origini spagnole, di trent’anni più vecchio, grassoccio e con l’espressione untuosa. Per anni, dunque, Abbe Lane fu l’incubo dei funzionari rai per le movenze seducenti nei vestitini strizzati intorno alle sue magnifiche forme. Le Kessler nel ‘61 dovettero indossare le calze pesanti per il loro da da umpa, la pelle non si doveva vedere. Nel ‘62 furono più trasparenti, sempre le calze, nel ‘63 le nostre conquistarono il nylon. Anche la straordinaria Delia Scala nel 1959, nella storica “Canzonissima” dovette trasformare il suo can can in cin cin. Qualche anno dopo la giovane Mina, che aveva orgogliosamente avuto un figlio da un uomo sposato, Corrado Pani, veniva allontanata dalla Rai. E poi arrivò lei, Raffaella Carrà. Nel ‘70, mostrò l’ombelico all’umanità televisiva, scompigliò i capelli affrancati dalla lacca, e ballò il tuca tuca con Alberto Sordi, una coreografia che mobilitò l’Osservatore Romano. I tempi erano evidentemente maturi e la si lasciò libera di movimentare bacino, anche e ombelico che già allora sembrò agli italiani quello del mondo. E’ di questi giorni la notizia che l’inglese Guardian l’ha eletta “l’icona culturale che ha insegnato all’Europa le gioie del sesso”. Questa inaspettata consapevolezza è emersa in coincidenza dell’uscita della com42


media musicale Explota Explota del regista uruguaiano Nacho Alvarez. Un musical dunque che celebra i suoi grandi successi e sembra fare il paio con gli Abba in Mamma mia. Bella soddisfazione per la nostra Raffaella, già consolidato simbolo dei gay nostrani. Tra l’altro, l’artista Francesco Vezzoli ha dichiarato sulle donne: “Penso che lei per liberarle abbia fatto più di molte femministe”. Esagerato? Il personaggio Carrà ha conservato negli anni una forma di sobrietà, più propriamente di reticenza, eleganza per taluni, pur non risparmiandosi in vigorose coreografie e canzoni ammiccanti ma senza azzardare sorprese, anzi, garantendo la stabilità del colpo di caschetto e il ritmo sincopato della sua musica. E se l’adozione di movenze e costumi, arditi per i benpensanti, può aver provocato pruriti e quindi riserve moralistiche, la reiterazione e la prevedibilità hanno prodotto una salvifica rassicurazione. Un mix perfetto per l’inveterato successo della nostra e forse chissà destinato in qualche modo a smuovere la sensualità sopita delle donne. A voler dar credito alla giornalista inglese possiamo allora ipotizzare che magari l’esortazione “a far l’amore comincia tu” possa aver incoraggiato le signore davanti alla tv, che, giunte alla sigla del varietà del sabato sera, pur di fronte a mariti distratti e magari già in pigiama, abbiano preso l’iniziativa assumendosene l’inusuale responsabilità, visto che a sollecitare era addirittura la Carrà.

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Pandemia e Turismo

I Viaggi ai tempi del Covid-19 Veronica D’ANGELO

Sono passati appena tre mesi dall’estate di questo 2020. Ognuno di noi ha deciso in coscienza come trascorrere i mesi estivi, chi andando comunque all’estero, approfittando della tregua che ci ha concesso il Covid-19, chi in Italia, chi non andando affatto in vacanza, per motivi economici o ideologici. Ma una cosa è certa: il turismo ha subito una battuta di arresto senza precedenti. In questo periodo parlare di viaggi sembra quasi una chimera, eppure la voglia di spostarsi e di visitare altri luoghi non è sparita con le paure del contagio, anzi. Le misure di contenimento degli spostamenti e della vita sociale, più o meno stringenti nel corso dell’anno, ci hanno obbligato a modificare il modo di intendere il turismo e a scoprire nuovi tempi e modi di viaggiare che, probabilmente, influenzeranno il mercato nel prossimo futuro. 44


Durante il lockdown della scorsa primavera, ad esempio, si sono moltiplicati i viaggi virtuali. Agenzie specializzate, blogger, siti istituzionali, molti sono stati quelli che nel periodo di reclusione forzata, gratuitamente o dietro compenso, hanno offerto tour virtuali di paesi, percorsi o città europee, assecondando la voglia di evasione e di viaggi all'estero. Con la fine dell’isolamento, poi, è arrivata la necessità di stare all'aperto, di spostarsi in situazioni rilassanti, economiche e maggiormente compatibili con le misure di sicurezza anti-Covid. Non è un caso che il turismo estivo si sia concentrato in Italia, con vacanze mediamente più brevi, al mare e in montagna, piuttosto che in città. Gli effetti li ho riscontrati appieno su me stessa. Erano anni che non facevo un viaggio in Italia, sempre presa da mete lontane, se non esotiche, nella convinzione che i viaggi in patria li avrei potuti fare anche in età più... matura. Invece questo è stato l'anno del viaggio on the road nel bel Paese, della ricerca di posti isolati e lontani dalle folle, del bisogno di contatto con la natura, dell'assaporare la moltitudine di esperienze enogastronomiche che offre ogni angolo della nostra penisola. Due amiche, un’auto, una cartina geografica dell’Umbria e via, in esplorazione di una regione così vicina e così ricca di attività: dalle passeggiate per borghi medievali alla visita di castelli e cantine produttrici di sagrantino di Montefalco, dalle cascate delle Marmore alle chiese e all’atmosfera mistica della città natale di San 45


Francesco, dagli assaggi di norcineria alle cene gourmet. Le “gite fuori porta”, poi, sono state un toccasana, soprattutto nei periodi successivi di chiusura dei confini regionali. In coppia, in famiglia o in gruppo - quando le restrizioni ce lo hanno permesso - le escursioni giornaliere, naturalistiche o culturali, sono state lo sfogo necessario alle incertezze sulla nostra libertà di movimento e la principale modalità per fare turismo, che ha assunto caratteri sempre più slow. La verità è che la mancanza dei viaggi ha lasciato il posto alla scoperta dei dintorni. Non ho mai fatto tanto trekking come in questo periodo, sono stata in locali della città in cui non ero mai stata e visitato mostre e monumenti, finché si è potuto. E quando ho smesso di cucinare in casa tutti i piatti del mondo, ho riscoperto il calore di una trattoria genuina e un calice di buon vino bevuto in compagnia. Il virus ci ha impedito di muoverci lontano da casa, ma chiudendo il recinto ci ha costretto a guardare meglio quello che abbiamo sempre avuto sotto i nostri occhi e in alcuni casi ad ammettere che era tanto di più di quello che ci aspettavamo. Viviamo in un Paese che per fortuna vanta una ricchezza unica in termini paesaggistici e culturali. E quindi, finché siamo obbligati a restare nelle nostre regioni e anche quando finalmente potremo viaggiare oltre confine, perché non approfittarne e continuare a valorizzare questa ricchezza? Possiamo fare i turisti nella nostra città, visitare un paesino sconosciuto, passeggiare in campagna o in montagna, magari contattando le associazioni che propongono percorsi dedicati nel fine settimana, trascorrere una giornata in una azienda vinico46


la o fare un pic-nic in un parco, cercare le spiagge che negli altri mesi dell'anno sono bellissime, senza la folla d'agosto. E se ci fermeremo ad interagire con la comunità del luogo, mangiando in un ristorante tipico, alloggiando in una struttura a conduzione familiare, comprando una delle tante specialità gastronomiche che il mondo ci invidia o un oggetto d'artigianato, contribuiremo anche alla ripresa della economia locale. Credo che questa sarà la nuova frontiera del turismo: da un lato le infinite possibilità offerte dal virtuale, dall’altro il rilancio di un turismo nazionale, lento e responsabile. E visto che le stime parlano di una ripresa del settore grazie al turismo interno, sarà necessario assecondare i nuovi gusti e le esigenze degli italiani, reinventare spazi ed attività - pensiamo agli hotel di lusso e alle navi da crociera che si stanno convertendo in uffici o al rinnovato interesse per la montagna e per i cammini - ampliare l’offerta di servizi ed esperienze, ancora più legate all’enogastronomia, innovare grazie alla tecnologia. Insomma, la pandemia ha mutato lo scenario classico del turismo e, una volta che saranno terminate le misure più estreme, bisognerà adattarsi alle nuove prospettive e al nuovo modo di intendere e intraprendere i viaggi. E poiché ogni crisi rappresenta al contempo una opportunità, come al solito quelli che sopravvivranno saranno coloro che più saranno capaci di adattarsi al cambiamento. E io, da giramondo curiosa quale sono – da qui il titolo del mio blog La Gatta Vagabonda – non vedo l’ora di raccontarvi le loro storie.

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Pandemia e Viaggi

Viva viva l’Inghilterra Antonella GOLINELLI

Bentrovati. Ci siamo lasciati l'inverno scorso agli albori del Covid e ci ritroviamo ora in piena seconda ondata. Nel frattempo ho gironzolato di qua e di lĂ della Manica, con tutti i problemi del caso. Non che ci sia il mondo che viaggia, sia chiaro. Viaggia chi deve e poco altro. A parte la disgraziata parentesi ferragostana gli aeroporti sono ben lontani dall'essere pieni. 48


Apro e chiudo una parentesi. Nel semivuoto enorme spazio in cui ti vieni a trovare ti guardi attorno e ti chiedi per chi le abbiano costruite queste strutture mostro. Ti chiedi anche se mai torneranno ad essere sfruttate allo stesso modo in futuro. Ti chiedi come gestiranno i percorsi di arrivo e partenza, chilometriche passeggiate per arrivare a destinazione per trovarti con altri 4 gatti o addirittura da sola a farti controllare i documenti. Ti chiedi se tutte le misure di sicurezza ancora vigenti hanno tuttora senso e se le avranno in futuro. Perché far transitare la gente scalza per uno scan è anche umiliante ad una certa età. Mi hanno scansionato talmente tante volte che mi aspetto i risultati, gli esiti delle tac. Che potrebbe anche essere un'idea non così' peregrina in effetti. Tornando a noi, sia qui che là vivo in un paesotto e i comportamenti sono simili. La gente è prudente, circola protetta, segue le direttive governative, sta attenta insomma. Quello che noto come differenza sostanziale è che quelli in divisa là girano a piedi oltre che in macchina, se vedono degli assembramenti ci passano in mezzo sciogliendoli di conseguenza. Che già molti sono dei tronchi di pino, in più son sempre bardati e risultano quindi grossi. In effetti fanno piuttosto impressione. Il fatto più importante è che se vedono qualche furbetto lo fermano e gli fanno una bella ramanzina col ditone puntato. Dovreste vedere come abbassano le penne subito! Tornano persino sobri. Una vicenda che ho trovato sempre differente è la gestione delle prescrizioni delle medicine per le cronicità. Qui vai dal medico, fai la fila, chiedi la ricetta, aspetti, ti danno la ricetta e vai in farmacia per il ritiro. Dalla scorsa primavera siamo riusciti a chiedere via bigliettino le ricette che arriva49


no direttamente in farmacia. Una conquista. Là la farmacia effettua la prenotazione per la volta successiva e ti manda un messaggio prima della scadenza per il ritiro delle confezioni, misurate in due mesi di cura. Anche in Albione è partita la campagna vaccinale per l'influenza standard, con gli stessi canoni che abbiamo qui. La differenza è che l'amante inglese si è recato in farmacia, ha chiesto il vaccino illustrandosi e il farmacista si è guardato attorno e non avendo una grossa affluenza ha detto semplicemente “scopra il braccio”e zac! Vaccino fatto. Io è un mese che provo a contattare il mio medico via telefono, un centinaio di telefonate contate, per vaccinarmi. Ancora non sono riuscita. Ma non demordo. Per non parlare poi del fatto che l'azienda per cui lavora l'amante inglese ha comunicato ai dipendenti di aver ordinato una serie di dosi a loro disposizione presso il medico aziendale (a disposizione anche in caso di malattia per inciso) previo appuntamento telefonico. Ehi, una certa differenza la vedo. Voi? (Fine parte 1) 50


Politica

Pillole di politica Aldo AVALLONE

PerchÊ bisogna mangiare leggero la sera‌ L’altro ieri sera ho mangiato i peperoni, lo so che mi fanno male ma sono goloso e non sono riuscito a trattenermi. 51


E la notte ho avuto un incubo, di quelli da non augurare nemmeno al peggior nemico. Al governo c’era la destra: Salvini primo ministro con la Meloni all’Interno e Zangrillo alla Salute. Nel Paese infuriava la pandemia: gli ospedali erano pieni, i pronto soccorso sommersi dai malati e la gente impaurita non sapeva che fare. Il Matteo felpato andava in giro con la stessa faccia di corna a fare selfie nei bar per l’aperitivo e nei reparti di terapia intensiva. La Giorgia nazionale ospite d’onore ai raduni forza nuovisti dei no vax, rigorosamente senza mascherine, proclamava l’uscita dall’Europa e il prode Alberto annunciava la fine dell’epidemia un giorno sì e l’altro pure, rianimando nel frattempo stuoli di vip nelle cliniche per milionari.

Poi, per fortuna, è suonata la sveglia e ho ringraziato iddio e tutte le divinità conosciute di avere Conte al governo. L’esperienza, soprattutto quella di eventi negativi, insegna sempre qualcosa. Per cui ieri a cena mi sono mantenuto leggero: minestrina di verdure e formaggio senza grassi, quello che non sa di niente ma fa tanto bene al colesterolo. E ho sognato che il governo, in piena concordia e senza discussioni, con l’appoggio anche dei vivaisti (sì era un sogno e si sa che nei sogni tutto può accadere) approvava all’unanimità una legge che istituiva la patrimoniale. Si sarebbero tassati in maniera progressiva tutti i patrimoni al di sopra dei cinque52


centomila euro, sia dei residenti in Italia che all’estero. Con le risorse recuperate si costruivano ospedali pubblici, venivano assunti medici e infermieri, pagati finalmente come meritano, si potenziava la medicina territoriale e assicurava una degna assistenza sanitaria a tutti i cittadini anche a quelli meno abbienti e perfino agli immigrati. La destra insorgeva e chiedeva un referendum abrogativo benché nel nostro Paese le leggi fiscali non possano essere sottoposte a referendum. Ma nei sogni tutto può accadere. La Corte costituzionale ammetteva il referendum e si andava al voto sul quesito semplice: “volete voi abolire la patrimoniale?”. I NO vincevano con il 99% dei voti.

Poi è suonata la sveglia ma mentre andavo al lavoro un sorriso mi disegnava il volto e un lieve sfarfallio di felicità mi solleticava lo stomaco.

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Pandemia e Cultura

L’arte al tempo del Covid Isabella RAMELLA

“Questi nostri bravi artisti che ci divertono tanto…” con questa frase il nostro Premier Giuseppe Conte, pur non volendo, e proprio perché non volendo, non sembra confinare le arti nel concetto di spettacolo e i suoi fruitori in quello di semplici spettatori di un evento? E se è lui, indiscutibilmente uomo di cultura, a pronunciarla in questo momento storico, stretti nella morsa della pandemia, ecco che forse noi tutti dovremmo interrogare più a fondo il nostro pensiero. Il DPCM del 16 ottobre giustamente lascia aperte le attività essenziali, volte a soddisfare i nostri bisogni primari, mentre tra i primi a esser chiusi sono i teatri, i cinema, i musei tanto che sembri “quasi” che l’operare artistico rientri nel novero delle atti54


vità “inessenziali“. Di certo questi luoghi favoriscono quegli assembramenti che vanno assolutamente contenuti tuttavia, senza voler stigmatizzare la disposizione presidenziale, ci si potrebbe chiedere quanto questa scelta di chiusura drastica e rapida si fondi sulla sotterranea convinzione “dell’inessenzialità” delle arti, potendosi esse considerare mero intrattenimento. Di colpo dentro di me si è riaffacciata un’antica questione collegata al mio vissuto e mi trovo a ricordare gli sguardi di mia madre e di mio marito e i loro sorrisi indulgenti quando tiravo fuori l’attrezzatura per dipingere. Dedicarmi a quell’attività significava togliere spazio ai figli, alla famiglia e al lavoro vero, ma loro che mi amavano lo tolleravano pensando che servisse a rilassarmi. Così mi sentivo una ladra quando prendevo il cavalletto e ci sistemavo sopra la tela mettendo un po’ più in alto i colori in modo che le bambine, che mi giocavano intorno, non potessero arrivare a toccarli: mi accingevo a dedicarmi all’inutile, ad un’attività “inessenziale”. Come potevo riuscire a spiegare cosa in quei momenti mi esaltava e che pure nel profondo mi inquietava? Nessun rilassamento, quindi, e nessun divertimento, anzi, tutt’altro. Vorrei allora offrire uno spunto alla riflessione su questi temi. Negli ultimi giorni la commozione collettiva per la morte improvvisa di un grande attore comico sembra riassumere in sé tutto il dolore di questi tempi luttuosi e si piange per la morte di un artista che attraverso la sua opera ci ha fatto sorridere. Com’è possibile dunque che un’opera ritenuta un puro svago generi una mancanza tale da riunire nella commozione un popolo intero? In questa contraddizione fa capolino la dimensione “inquietante” che sempre l’arte reca in sé: essa ci scuote nel profondo assecondando il nostro bisogno di sbirciare nel fondo oscuro della nostra esistenza, dove dunque ha pari voce in capitolo di quelle attività considerate essenziali. Lo sforzo dell’artista che attraverso la sua opera dà voce alla propria anima induce chi l’osserva e resta coinvolto a intraprendere lo stesso viaggio interiore, portando alla luce le sofferenze 55


nascoste di cui forse così si possono sciogliere i nodi. La comunicazione districa l’irrisolto interiore, la comunicazione è guarigione. A quanto pare, allora, ci sono saperi inutili che si rivelano di straordinaria utilità e che talvolta ci fanno intravedere l’inutilità dell’utile, come ci spiega il noto letterato Nuccio Ordine nel suo pregevole saggio. Concludo raccontando un episodio che trovo sempre di commovente bellezza e che mi sembra racchiudere in sé il messaggio che vorrei far arrivare al lettore. Anni fa il Maestro di origine israeliana Daniel Baremboim, uno dei maggiori direttori d’orchestra viventi e coraggioso fautore del dialogo con i Palestinesi, tanto da aver dato vita ad un’orchestra giovanile composta in pari numero da musicisti israeliani e palestinesi, nel corso di una trasmissione televisiva raccontò che qualche tempo prima aveva visitato un campo di profughi palestinesi dove, com’è facile immaginare, si viveva in condizioni pietose mancando innanzitutto generi di prima necessità. Il Direttore si impegnò personalmente a far giungere al più presto congrue derrate alimentari, ma alla fine del suo discorso fu sorpreso dall’intervento di un uomo che, con tono cortese e fermo, disse: “Maestro, noi le siamo sinceramente grati per la sua premurosa generosità, ma le facciamo rispettosamente notare che il cibo non si nega neppure agli animali. Se invece vuol trattarci da uomini ci porti musica.”

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Pandemia e Storia

Su alcune pandemie degli ultimi cento anni. Parte prima Giovan Giuseppe MENNELLA

La pandemia più famosa degli ultimi cento anni, e anche la più grave della storia del Mondo, è stata la cosiddetta influenza “spagnola” che infuriò giusto un secolo fa, dalla primavera del 1918 alla fine del 1919. 57


Finora non si sono trovate sicure evidenze scientifiche sulla sua origine e sul suo sviluppo. Ancora oggi non ci sono certezze sulla natura biologica dell’agente patogeno, probabilmente un virus. Peraltro, allora si pensò a un batterio, in quanto un secolo fa i virus si conoscevano appena e non erano stati studiati a sufficienza. Sono state affacciate varie ipotesi sul luogo e la modalità di inizio dell’infezione Lo storico statunitense Alfred W.Crosby fa risalire l’eziologia del virus a un salto di specie tra animale e uomo (il cosiddetto “spillover”) avvenuto nello Stato del Kansas, contea di Haskell, dove nel gennaio 1918 il medico locale avvertì immediatamente il servizio sanitario nazionale della presenza di una grave forma di malattia respiratoria. In quella zona erano presenti allevamenti di anatre domestiche. I simpatici animali da cortile probabilmente dovevano avere avuto contatti con anatre selvatiche che incubavano il virus aviario. Il salto di specie del virus dal mondo animale a quello umano dovette avvenire tra le anatre domestiche e qualche allevatore, magari attraverso piccole ferite presenti prodottesi dagli uomini macellando le anatre. La casualità, che ha spesso un ruolo importante nel verificarsi delle vicende storiche, ci mise lo zampino. Infatti, in quel periodo, gli Stati Uniti partecipavano alla Grande Guerra a fianco delle Potenze dell’intesa. Quindi, le autorità militari chiamavano alle armi i giovani di alcune classi di età e li raccoglievano in campi militari di addestramento. Naturalmente, la fortuna, avversa per le sorti del mondo di allora, volle che tra i reclutati ci fosse Albert Gitchell, proveniente da quella contea di Haskell nel Kansas che intanto stava incubando la zoonosi virale. Il ragazzo fu assegnato al campo militare di Fort Riley, come addetto alla distribuzione del rancio. I commilitoni gli passavano davanti e entravano in contatto con il suo respiro e anche con le goccioline emesse dalla tosse. Il 4 marzo 1918 la malattia respiratoria di Gitchell divenne 58


evidente e fu diagnosticata. Gitchell fu il primo caso e la prima vittima di quella influenza. Ben presto in quel campo di addestramento si verificarono 522 casi di influenza respiratoria, alcuni gravi e con qualche vittima. Entro l’11 marzo il virus aveva raggiunto il quartiere Queens di New York. Successivi movimenti di truppe, dettati dalle esigenze militari, trasferirono il contagio in altri campi. Se non ci fosse stata la guerra e l’intervento degli Stati Uniti, probabilmente il virus sarebbe rimasto confinato nelle praterie del Medio Ovest degli Stati Uniti. Intanto le truppe americane continuavano a essere trasferite in Europa, portando la malattia respiratoria nelle trincee del Fronte occidentale. Nell’agosto 1918 un ceppo più virulento fece la sua comparsa a Boston, a Brest, porto francese in cui sbarcavano le truppe americane e a Freetown in Sierra Leone. Era chiaro che il virus andava serpeggiando soprattutto sulle navi militari, per cui la malattia ormai stava varcando gli oceani e veniva sbarcato anche sul Vecchio Continente, ma dato che la guerra era nella fase decisiva, i movimenti militari e quelli connessi ai rifornimenti non si potevano fermare. Le condizioni estreme di disagio, sporcizia, umidità che si vivevano nelle trincee del Fronte Occidentale, tra la Francia e il Belgio, favorirono la proliferazione della malattia. Fu quella, della primavera del 1918, la prima ondata, che dalle trincee, con i soldati che tornavano a casa in licenza o negli ospedali nelle retrovie e nelle città, andò espandendosi anche nella popolazione civile. Questa ipotesi eziologica della pandemia è stata ritenuta quella più probabile anche in una recente puntata del programma televisivo Sapiens, in onda su Rai 3, a cura del geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi. In questa prima fase, primavera del 1918, i casi e la mortalità non furono elevatis59


simi, ma comunque le autorità militari e civili imposero ugualmente la censura sulle notizie, sia per non favorire il nemico tedesco e austriaco, presso cui la malattia si stava pure espandendo, sia per non compromettere la tenuta del morale dei civili del fronte interno. Le notizie sulla malattia furono pubblicate solo sulla stampa della Spagna, che, essendo una delle poche Potenze neutrali d’Europa, non aveva un immediato interesse a censurare le informazioni. Perciò la malattia fu definita negli organi di informazione di altri Paesi “influenza spagnola” e con questo nome passò alla Storia. Tuttavia sono state formulate anche numerose altre ipotesi sull’eziologia della pandemia. Secondo il virologo londinese John Oxford, la malattia sarebbe iniziata in un campo militare e ospedale a Etaples, nelle retrovie del Fronte francese, attraverso uccelli selvatici che avevano infettato i maiali la cui carne era utilizzata per l’alimentazione delle truppe. Secondo Claude Harroun, ricercatore dell’Istituto Pasteur, il virus sarebbe arrivato negli Stati Uniti dalla Cina e sarebbe mutato in un ceppo più pericoloso a Boston, per essere poi diffuso in Europa e nel mondo attraverso il porto francese di Brest, utilizzando come diffusori inconsapevoli i soldati e i marinai dell’Intesa. Invece, lo scienziato Andrew Price Smith studiò e pubblicò dati provenienti dagli archivi austro-ungarici e ipotizzò che l’influenza avesse esordito in Austria fin dall’inizio del 1917. Lo storico Mark Humphries dell’Università del Canada, basandosi su documenti da lui rinvenuti nel 2014, ha ipotizzato che l’origine della pandemia sia da identificare nella mobilitazione di 96.000 lavoratori cinesi, chiamati a prestare servizio dietro le linee britanniche e francesi sul Fronte Occidentale, che vi avrebbero diffuso una malattia respiratoria che aveva già colpito la Cina dal novembre 1917 e che 60


l’anno successivo sarebbe stata ritenuta simile all’influenza spagnola dai funzionari medici cinesi. Tuttavia, in un rapporto pubblicato nel 2016 sul giornale dell’Associazione medica cinese, si afferma che non sono state rinvenute prove della diffusione della malattia in Europa da parte di soldati e operai cinesi, non esistendo riscontri certi della circolazione del virus negli eserciti europei prima dello scoppio virulento della primavera del 1918. Però, considerando la poca trasparenza dimostrata dalle autorità cinesi nel fornire informazioni sull’inizio della attuale pandemia da coronavirus, è lecito non avere troppa fiducia sull’attendibilità del report cinese del 2016. Nell’estate del 1918 si verificò una diminuzione e quasi una scomparsa dei casi. Sembrò che il morbo se ne stesse andando, in punta di piedi così come era venuto. Periodo che, con il senno del poi, può essere considerato assai simile a quello che si è vissuto in relazione al nuovo coronavirus in questo sfortunato anno 2020, tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno. Una seconda ondata si verificò all’inizio dell’autunno del 1918 e fu molto più grave della prima, andando a danneggiare anche molte operazioni militari degli eserciti, proprio nel periodo decisivo della guerra, tra cui l’offensiva tedesca sul Fronte occidentale alla fine dell’estate di quell’anno. La maggiore gravità fu dovuta a una mutazione del virus, in concomitanza con la particolare situazione determinata dalla guerra. Cioè, mentre in un periodo di pace i malati più gravi sarebbero stati isolati e quelli leggeri avrebbero continuato a circolare, contribuendo a diffondere solo la variante leggera della malattia, viceversa, nel corso dell’emergenza bellica, furono i malati più lievi a rimanere lontani dalla popolazione perché trattenuti a combattere nelle trincee, mentre quelli più gravi erano inviati nelle retrovie, negli ospedali da campo e negli agglomerati urbani, contribuendo al proliferare presso la popolazione civile del ceppo più grave. 61


Un’altra ragione della maggiore gravità della seconda ondata dell’autunno 1918 fu determinata dalla circostanza che i malati venivano curati con più sollecitudine e attenzione, ma purtroppo con gli unici sistemi allora disponibili, che rivelarono nella migliore delle ipotesi inefficaci, ma spesso anche controproducenti. Infatti, si tentò spesso di inoculare un vaccino, di nuova scoperta, elaborato per infezioni polmonari batteriche, che non ebbe efficacia o aggravò ulteriormente le condizioni dei malati. Si ricorse a cure ritenute valide per infezioni batteriche in quanto il virus respiratorio produceva in molti casi una polmonite batterica secondaria opportunista che costituiva solo l’evoluzione finale della sindrome. Anche le cure con dosi eccessive di aspirina non fecero altro che accelerare gli esiti letali per molti malati, causando soprattutto edema polmonare. Inoltre oggi si è compreso che moltissimi casi furono aggravati da un eccesso di reazione immunitaria dell’organismo, soprattutto un soggetti giovani, che determinava un aumento di processi infiammatori, la cosiddetta “tempesta citochimica”. Nella seconda ondata si riscontrò un alto tasso di letalità anche nella fascia dei pazienti di età compresa tra i 20 e i 40 anni, forse determinata da una suscettibilità al male legata all’esposizione infantile di quelle classi a precedenti epidemie virali, quelle di un virus H3N8, che aveva circolato negli anni dal 1889 al 1900. Inoltre, nei giovani si verificava spesso la tempesta infiammatoria citochimica, di cui si è detto, fenomeno di cui si è parlato molto anche nella prima fase della attuale pandemia da nuovo coronavirus SARS Covid 19. Viceversa, potrebbe essere stato minore il tasso di letalità in alcune popolazioni esposte a precedenti influenze similari H1. La mortalità potrebbe essere stata erroneamente sovrastimata anche perché la mortalità per altre malattie respiratorie, quali polmoniti semplici batteriche e tubercolosi, dipendenti da fattori diversi, non era allora distinguibile da quella dipendente 62


dall’influenza spagnola. Infatti, non erano stati scoperti i farmaci antibiotici e antivirali che avrebbero consentito guarigioni da polmoniti batteriche e da tubercolosi, contribuendo a diminuire in modo importante il conteggio dei morti per Spagnola. Il problema di stabilire l’inizio, la durata e la fine della pandemia presenta aspetti tuttora abbastanza problematici. Vari studi indicano l’origine della pandemia “spagnola” in influenze virali sviluppatesi sui fronti di guerra mesi o addirittura anni prima del 1918 e probabili precursori virali nell’influenza del 1915. Le ondate furo tre, quella della primavera del 1918, quella più grave dell’autunno 1918 e quella, di nuovo meno grave, dell’inverno 1918-1919. Però in alcune zone del mondo le code della pandemia si spinsero fino all’anno 1920 e in qualche caso più sporadico anche fino al 1921. Anche allora severe ed efficaci misure di prevenzione e quarantena tennero alcune nazioni maggiormente indenni e fecero pagare loro un prezzo di perdita di vite umane molto meno severo. Fu il caso del Giappone, della Nuova Zelanda, della Nuova Caledonia, delle Samoa americane e di altre isole e plaghe particolarmente lontane e isolate. Sul conto totale delle vittime nel mondo, ancora non c’è accordo tra gli scienziati e gli storici, oscillando tra un massimo di 100 milioni a un minimo di 20 milioni. Probabilmente una stima precisa non sarà mai possibile e sembra saggio che venga attestata orientativamente a 50 milioni di esseri umani. La stima più probabile per l’Italia è di 600.000 vittime, pari a circa l’1,5% della popolazione. La percentuale di mortalità variò a seconda dei luoghi, dallo 0,67% al 5%, o addirittura al 10%, degli ammalati. Come nel caso dell’attuale pandemia di SARS Cov2, può avere influito sul maggiore o minore tasso di mortalità la presenza o meno di molti asintomatici, anche se è appena il caso di sottolineare che, mentre per l’evenienza odierna la presenza di asintomatici è accertata da studi scientifici, non 63


si può dire altrettanto, con certezza, per la pandemia di febbre “spagnola” del 1918 -1920. Di quale virus si trattò? Per moltissimo tempo su tale quesito ha regnato l’incertezza scientifica, dovuta alla quasi totale assenza di riscontri oggettivi, quali tessuti di persone ammalate, analisi biologiche approfondite, molto problematiche all’epoca. Solo da poco tempo è stato possibile rinvenire alcuni tessuti di malati e accertare con buona validità scientifica che si fosse trattato di un’influenza cosiddetta “aviaria”, una delle tante zoonosi, cioè malattie virali trasmesse dagli animali agli umani, per il tramite del materiale biologico di uccelli. In quel caso era un virus aviario A/H1N1, comportante manifestazioni patologiche aggravate dalle condizioni estreme di vita dovute alla guerra e dalla sostanziale inefficienza delle cure mediche allora disponibili, visto che lo studio della struttura biologica dei virus e l’apprestamento di rimedi farmacologici erano agli albori. Le pandemie da zoonosi si sono sviluppate per la coesistenza tra animali e uomini, soprattutto da quando, a partire dalla domesticazione, c’è stata convivenza con gli animali domestici. Un tipico caso di zoonosi è stato il vaiolo, condiviso con i bovini addomesticati. Nel mondo odierno, in cui gli esseri umani non convivono più come un tempo con gli animali domestici, le zoonosi tendono a prodursi dal contatto con animali selvaggi, o direttamente o attraverso la mediazione degli uccelli che infettano gli animali da allevamento. Perciò alcune epidemie, talvolta pandemie, sono definite “aviarie”. Anche molti personaggi famosi furono vittime della febbre “spagnola”. Il caso più noto, perché il personaggio era particolarmente importante nel periodo delle avanguardie artistiche e culturali parigine, fu quello del poeta Guillaume Apollinaire. Il poeta moriva, tra il dolore dei suoi amici Picasso, Braque, Max Jacob, proprio mentre a Parigi si festeggiava la vittoria. Ci rimisero la pelle anche Max Weber, il 64


sociologo definito il Marx della borghesia, gli artisti austriaci Gustav Klimt e Egon Schiele e l’importante dirigente bolscevico e primo legislatore della Costituzione dell’URSS Jakov Sverdlov, autore dell’ordine ai bolscevichi siberiani di fucilare lo Zar Nicola II e tutta la sua famiglia. Forse, se fosse vissuto avrebbe potuto diventare più importante degli stessi Lenin e Stalin. E’ quasi certo che anche il Presidente statunitense Woodrow Wilson sia stato colpito dall’influenza mentre partecipava ai lavori della Conferenza della pace di Parigi all’inizio del 1919. La malattia sarebbe stata la causa della sua scarsa incisività nelle trattative parigine e della successiva morte prematura poco tempo dopo. Un evento così importante per la storia del mondo è stato quasi completamente dimenticato ed è stato trattato pochissimo anche dagli storici. Probabilmente per la “sfortuna” di essere stata contemporanea a un avvenimento ancora più importante come la Grande Guerra. Inoltre, la sua maggiore virulenza coincise con la fine della guerra e con il desiderio, umanamente comprensibile, delle popolazioni europee e mondiali di lasciarsi alle spalle e dimenticare le terribili sofferenze e gli immani lutti patiti in quel terribile periodo di massacri bellici e di malattie.

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Religione e Politica

Il mondo ha fame di Spiriti Liberi Rosanna Marina RUSSO

La fraternità è l’unica strada possibile per un mondo giusto e libero “da ogni desiderio di dominio sugli altri”, l’unica strada per la vera uguaglianza. Questo il nucleo, questo il pensiero rivoluzionario e lucido del papa che analizza i mali della società e prospetta soluzioni nella sua enciclica “Fratelli tutti” . Monumentale. Ma quanto e come impatta un documento così imponente sulla vita delle persone che la realtà la vivono così, semplicemente nel proprio quotidiano e che potrebbero porsi la domanda: “Io c’entro?” Sicuramente parla di carità e di amore. D’altra parte un papa deve fare il papa. La scrittura è semplice, comprensibile ma, allo stesso tempo, ricca, corposa, piena 66


di riflessioni, cosicché bisogna esercitare una lettura con pause lunghe e frequenti per metabolizzare. Riesce a creare

un legame empatico con il lettore che si

sente protagonista, partecipe del sogno di cui avverte la fragranza della speranza e l’audacia del futuro e si percepisce lontano da quella inutile corsa sul posto da cui siamo circondati. Il linguaggio a tratti è poetico “ C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana” e il “noi” appare in ogni rigo. Quel noi che la pandemia avrebbe dovuto farci recuperare insieme a una grammatica delle relazioni che ci insegna che niente e nessuno può prescindere da ciò che lo circonda. “Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”. Non capitan Drogo chiuso nella Fortezza Bastiani, dunque, ma Colombo che guarda lontano e vince grazie alla sinergia di tutta la sua nave. E l’approdo che si intuisce essere il più urgente da raggiungere per Bergoglio è quello dell’integrazione: “Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti”. E ripropone, ampliandone il significato, la parabola del buon Samaritano che viene mostrata non solo come esempio di “non possiamo lasciare che qualcuno rimanga ai margini della vita” . ma anche come paradigma di “costruzione di un nuovo legame sociale” e di un futuro realizzabile: non solo il soccorso immediato, ma il coinvolgimento del locandiere. Alcune affermazioni introducono al cuore dell’enciclica : “l’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi.” Quindi non parla solo agli individui e alle comunità, parla agli Stati. 67


Di certo, questa, è una richiesta di riconoscimento di responsabilità da parte della politica nazionale e internazionale, è un mettere al centro quel principio di destinazione universale dei beni (di cui ha già parlato nella Laudato sii, in relazione all’ambiente) che rende concrete le idee di fraternità e di uguaglianza, a parer mio. Tutto è di tutti, sembra dire continuamente il Papa. Dunque mette in prima linea la questione frontiere, frutto di decisioni umane, sottolineando con forza che ogni nazione appartiene anche allo “straniero”. Credo che nessuna legge di nessun paese occidentale sia tanto precisa e lungimirante nell’affrontare e proporre un metodo per l’integrazione del migrante così come fa il papa e trovo che questo concetto di appartenenza del genere umano alla Terra tutta, sia quella globalizzazione buona che non è mai arrivata. Ma se la Terra è di tutti, e quindi ogni Nazione è di tutti, siamo naturalmente cittadini del Paese in cui viviamo e lavoriamo. Allora quei pezzi di carta che ce lo certificano devono servire a dare voce a chi viene accolto e rendere responsabile chi accoglie, non a dare visibilità sociale. E la proprietà privata quanto è privata, visto che quel principio ci rende tutti solo fruitori delle risorse? Bergoglio non la demonizza, ma ne parla come un diritto non primario gravato da una sorta di ipoteca sociale che deve avere, quindi, uno sguardo verso il bene comune e insieme stigmatizza un atteggiamento ormai incarnito delle società opulente: «oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani”. Il mondo è di tutti, ripete, e tutti devono disporre delle sue risorse, perciò è necessario lottare contro le cause sociali dello scarto e costruire insieme quel sogno che si chiama lavoro per tutti, perché solo così i poveri, gli “stranieri”, i migranti possono diventare protagonisti della loro personale possibilità di sviluppo integrale. Gli Stati, dunque, devono permettere che ogni persona fiorisca insieme alla propria famiglia e alla propria collettività . Già, ma come 68


fare? Chirurgico e lineare Francesco individua il bersaglio da colpire nella riduzione del costo del lavoro che, sostiene, è la causa del lavoro povero, quello che viene mal retribuito e che non rispetta un salario minimo legale. Pertanto è contro le cause sociali dello scarto che bisogna intervenire e i manager delle imprese devono prioritariamente creare lavoro, dialogando con la classe politica. Da noi in Italia sarebbe faticosissima questa interlocuzione, visto che

l’impressione che si ha è

quella di una governance acefala a tutti i livelli, di fatto incapace, soprattutto in questo periodo pandemico, a prendere decisioni. Però il papa parla per il mondo, la sua visione è ad ampio respiro e, quindi, si può pensare che sia più benevola. Invece si legge con grande sconforto: “La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace” e, ancora: “Per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?» La “ buona politica”. Un vuoto che definire tale vuol dire essere pietosi. Giacché un vuoto fa sperare che il contenitore possa essere riempito, che ci sia qualcuno disposto a colmarlo con determinazione e, soprattutto, con la sicurezza del gesto. Certamente quello del papa non è un programma politico, ma la valenza politica, di buona politica, del discorso è indubbia. Devo dire che la sua speranza nella possibilità del successo intenerisce, la certezza che esistano gli “eroi del futuro”, i “poeti sociali” che in maniera anche creativa 69


sappiano essere “ costruttori di un nuovo legame sociale” commuove. Verrebbe da chiedersi come si possa proporre il concetto di fraternità a chi urla sempre, a chi crea sempre contrapposizione amico nemico, a chi mette enfasi sulla parola popolo fino a farne una finzione pericolosa, a chi individua sempre nemici e lotta per annientarli, a chi disprezza i deboli o in forma populista o in quella liberista, a chi svuota di significato parole come democrazia, libertà, giustizia, unità. Eppure per Francesco, nonostante tutto, è possibile, perché esistono quelli che lui chiama “ spiriti liberi”, quelli che credono al valore dell’altro all’incontro, all’ascolto. E chi non può decidere per interi popoli e non può fabbricare opportunità, come c’entra? “Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri?”

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Amore ai tempi del Covid

Distanze Lucia COLARIETI

Quel giovedì 5 marzo Loredana non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta che si incontravano. L’allarme era nell’aria, i casi di contagio aumentavano velocemente e per strada c’era poca gente spaventata. Luca le aveva fatto una sorpresa, durante l’intervallo le aveva chiesto di uscire, da qualche giorno era diventato difficile incontrarsi, tra i turni serrati di lui in ospeda71


le e la paura di incontrare quel maledetto virus anche sulle labbra amate. Era una giornata tiepida piena di sole già primaverile, avevano passeggiato nel grande parco verde, nel tepore delle chiacchiere la mezz’ora era volata, sapevano che la prudenza avrebbe imposto di stare a distanza ma un saluto commosso non aveva resistito ai buoni propositi, al riparo di una chioma frusciante il bacio era stato brevissimo e intenso. La loro storia era iniziata da un anno, Loredana era quasi rassegnata alla vita solitaria, i trenta erano passati da qualche anno e le delusioni accumulate la facevano essere guardinga. I suoi anni passavano tra il lavoro in uno studio di consulenza, le amiche e la mamma con cui viveva, la cui malattia la costringeva a continue visite in ambulatorio. Erano diventate una routine faticosa, fino a quando era comparso quel giovane dottore. Il suo sorriso aveva trasformato i pavimenti e le pareti di linoleum grigio in un cielo terso e luminoso, si chiamava Luca ed era stato tenace e coraggioso nel conquistarla, timidi caffè al bar dell’ospedale, un numero di telefono scambiato, un appuntamento in piazza per un gelato, la prima cena fuori e scoprirsi a guardarsi negli occhi e sorridere senza un motivo, trovarsi nei piccoli gesti, comprendersi al volo, accendersi di desiderio, darsi piacere a vicenda pelle su pelle, cuore su cuore. Si erano salutati con quel bacio, la vita aveva un altro colore quando erano insieme. Gli eventi dei giorni successivi avevano travolto le loro vite e quelle dell’intera umanità. Chiusi in casa con il timore di un virus che può colpire e uccidere, il mondo che piove in casa attraverso immagini che parlano di tragedie. Le strade delle città deserte, le piazze vuote, le serrande abbassate, il silenzio regna e dai balconi le persone cercano un minimo di relazione sociale gridando e cantando. 72


A Loredana è stato concesso di lavorare da casa, ormai la rete di chiacchiere e incontri che intesseva la sua giornata si è rarefatta dentro uno schermo, sull’agenda si cancellano uno ad uno gli impegni presi, cinema, teatro, palestra, caffè al bar e rimpatriate tra amici, come caduti su un campo di battaglia ogni riga è stata barrata, rimangono solo le scadenze dei pagamenti. La spesa si fa al telefono, in farmacia si va di corsa e cercando di incontrare meno persone possibile. Luca diventa un’entità lontana, una voce al telefono, un ricordo di un’altra vita. Nel guscio della propria casa Loredana, come tante altre persone, cerca il proprio confort e costruisce la sua piccola quotidianità aggrappandosi a gesti e riti come a delle boe in un mare tempestoso. Pulisce la casa, prepara il cibo, bada alla mamma malata, riordina cassetti, programma serie tv e libri, in fondo al cuore quel sorriso e i colori delle emozioni. Lui è perso nella fatica di stare al fronte, a combattere la battaglia mondiale contro la polmonite virale che toglie il respiro. Loredana lo ha sempre ammirato per la sua dedizione al lavoro e sa che questo è il momento di attendere e di vivere la sospensione da ogni cosa. Osserva il suo corpo al mattino davanti allo specchio e le sembra che sia in letargo, si veste e copre le curve morbide che lui conosce, quel punto preciso dove lui poserebbe le mani e le labbra sparisce sotto la felpa comoda. La biancheria bella è rimasta indietro nel cassetto, le ore, i giorni, le settimane e i mesi che ci vorranno prima di poter sentire di nuovo la sua pelle sembrano infiniti. Nel guardaroba la gonna leggera è priva di vita in attesa di poter essere sollevata da dita impazienti, il flacone di profumo e il rossetto giacciono sulla mensola come oggetti da spolverare. 73


Ogni mattino la giornata inizia scacciando dalla mente la convinzione che sia un sogno dal quale ci si può risvegliare. Loredana sa di dover essere concreta e adulta, in fondo sta bene, al sicuro e si tratta di affrontare un periodo difficile ma che finirà. Tutto il mondo impazzisce a fare pizze e dolci, lei si adegua, la sua specialità, una brioche dolce con l’uvetta, le riesce sempre buonissima. Organizza video chiamate di gruppo con le amiche, segue lezioni di pilates on line, legge i libri che aveva sempre desiderato terminare, gioca a carte con la mamma, tira fuori l’astuccio del cucito e anche quella vecchia scatola piena di perline e fili per le collane. Una volta terminato il lavoro e le faccende di casa bisogna tenersi impegnati. Le ore di luce si allungano e una poltrona fuori al balcone con un bicchiere di bollicine può darle l’impressione di un aperitivo con le amiche. Il cervello deve essere impegnato. Appena la ragione allenta la presa l’angoscia invade il cuore, ha tanta paura di non ritrovarsi, in fondo è solo un anno che escono insieme, quell’ultimo anno le sembra quasi un sogno ma la sua vita precedente le appare inutile. Lui le ha ridato i colori, con lui immagina di poter affrontare ogni cosa, si sente serena, appagata, non lo vuole perdere. I messaggi di Luca sul cellulare la strappano all’incubo, l’immagine sorridente del profilo e il buongiorno accompagnato da un’ icona con il cuore le ricolorano le guance. Sa di non dover lasciarsi andare. Le giornate si seguono pressoché identiche nella loro claustrofobica normalità, come se attingesse ad una misteriosa ampolla che custodisce il rimedio alla tristezza, Loredana scava nei ricordi, spremendo fino all’ultima goccia del prezioso elisir. Scorrono le immagini di un cioccolatino aperto insieme per leggere la frase romantica, di un pranzo nel chiasso della gente, le note di una canzone condivisa, il brivido di un bacio sulla nuca, di un dito passato sull’orlo della calza, di un caffè rimasto a raffreddarsi. 74


Il mondo va avanti e l’umanità segna dei punti di vittoria sul virus, i contagi calano, si comincia a parlare di allentare le misure di sicurezza. La fine del tunnel sembra vicina, la guerra non è vinta ma si può pensare di tornare alla normalità. Luca l’ha chiamata e si sono dati appuntamento al loro bar. È fine maggio e l’estate sta già allungando le sue mani calde, ogni cosa ha sapore di nuovo, tre mesi di chiusura in casa fanno riscoprire come inedito anche il ticchettio dei passi sul selciato cittadino. Loredana è emozionata, non tutto è come aveva sperato, ancora mascherine, ancora timori, ancora distanza, non ci si sente sicuri ma soprattutto lei si sente incerta sul loro rapporto. I fatti le dicono che lui non è mai sparito, ha sempre telefonato e inviato messaggi, le ha proposto di incontrarsi senza esitare, ma le vite sono cambiate in questi tre mesi, lei ha vissuto nel tepore della sua casa, lui ha combattuto al fronte; una telefonata o un messaggio non consentono di condividere le emozioni, e se lui avesse deciso di tornare alla sua vita precedente, se giudicasse il rapporto con lei un errore, un’avventura, solo la ricerca di un appagamento fisico? Saranno capaci di ritrovare l’intesa e la sintonia, scoccherà il desiderio? Si riaccenderà la passione o si è tutto addormentato nel tepore delle telefonate quotidiane? L’aria le manca ma un sorriso l’aspetta al di la del marciapiede. Le parole di convenevoli scorrono tra di loro come sottotitoli in un’altra lingua. Mi sei mancata dice lo sguardo, ti voglio dice il tocco delle dita sulla pelle, sei mia le braccia strette sulle spalle, ti amo le labbra sulle labbra. Mai più, pensa Loredana, mai più tanto tempo distanti.

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