Numero 39 del 16 aprile 2021
Happyness
Sommario l’Editoriale del Direttore/Il governo dei migliori? pag. 3 di Aldo AVALLONE Il diritto di avere diritti - pag. 6 di Giovanni AIELLO Io ho il diritto di essere felice - pag. 14 di Rosanna Marina RUSSO Di sedie, di gatti e altre amenità - pag. 20 di Antonella GOLINELLI Breve evoluzione storica dei diritti - pag. 25 di Giovan Giuseppe MENNELLA GNM: chi-come-perché - pag. 35 di Aldo AVALLONE Avanti c’è posto! - pag. 41 di Antonella BUCCINI Il ferro va battuto quando è caldo e quello del lavoro è rovente - pag. 43 di Raffaele FLAMINIO Antigone e il Dogma - pag. 50 di Chiara TORTORELLI Degustare il vino online? Si può con lo Smart Tasting - pag. 54 di Veronica D’ANGELO Francesco di nome e di fatto - pag. 57 di Rosanna Marina RUSSO Un fiorino - pag. 62 di Antonella BUCCINI In tempi d’incertezza, un grazioso fumetto ci riporta la certezza - pag. 66 di Anna NAPOLITANO Diritto alla felicità - pag. 68 di Lucia COLARIETI 2
L’editoriale del Direttore
Il governo dei migliori? Aldo AVALLONE
Il governo dei “migliori” dopo appena due mesi dall’insediamento appare già in difficoltà. Nato con due obiettivi prioritari – redigere il Recovery plan e far partire a pieno regime la campagna vaccinale – oggi è sostanzialmente fermo al palo su entrambi. La scadenza del 30 aprile, data entro cui bisognerà inviare il Piano all’Europa, si avvicina e di fatto non si sa ancora nulla sui progetti sui quali l’Italia intende investire i circa duecento miliardi del Recovery fund. Il rapporto con gli enti locali è molto conflittuale e dalle regioni stanno giungendo all’esecutivo soprattutto richieste rivendicative e prive di quello spirito di collaborazione che sarebbe assolutamente necessario in questa fase. All’orizzonte si profila l’ennesimo scontro tra centro e periferia su chi dovrà gestire il flusso di denari che arriverà dall’Europa e il rischio di una spesa poco efficace appare concreto. È proprio di questi ultimi giorni la denuncia da parte della Rete italiana Pace e Disarmo che stigmatizza la raccomandazione del Parlamento al governo per destinare una parte dei fondi, ben ventisette miliardi di euro, alla spesa militare per l’acquisto di nuove armi. È evidente che, se dovesse concretizzarsi questa proposta, sarebbero tagliate risorse ad altri settori più importanti. 3
La campagna vaccinale, dal cui successo dipende il contenimento dell’epidemia e, di conseguenza, l’allentamento delle necessarie chiusure per poi far ripartire l’economia, è in pieno caos. L’obiettivo del generale con la piuma sul cappello di arrivare a cinquecentomila vaccinazioni al giorno è lontano anni luce nonostante il suo vorticoso girovagare tra le regioni promettendo l’arrivo imminente di dosi reali sui contratti ma immaginarie nella realtà. La confusione informativa sul vaccino Astrazeneca, dapprima da somministrare solo al di sotto dei cinquantacinque anni in quanto non efficace sulla popolazione anziana, poi al di sopra dei sessanta per evitare il rischio, remotissimo, di trombosi, l’incertezza sulla seconda dose che dovrebbe essere somministrata tra qualche settimana a chi ha già fatto la prima, evidenzia un limite grande nella catena decisionale e una mancanza di trasparenza che rischia di minare la fiducia dei cittadini nel piano vaccinale. Ora si sta provando a porre rimedio attraverso informazioni rassicuranti ma il danno è già stato ampiamente compiuto. Intanto il Paese è una polveriera pronta ad esplodere. Le giuste rivendicazioni delle categorie più penalizzate dalle chiusure delle attività commerciali sono giunte in piazza. Certo, vi sono state strumentalizzazioni da parte della destra e la presenza di violenti attivisti fascisti è da condannare senza indecisioni ma il problema lavorativo di una parte considerevole di cittadini non può essere ancora ignorato. I “sostegni” approvati dal governo non sono sufficienti e arrivano a destinazione con ancora maggiore ritardo dei “ristori” dell’esecutivo precedente. A dimostrazione che non basta cambiare un termine per poter rendere miracolosamente rapide delle procedure complesse che hanno bisogno di tempo per essere davvero efficaci. E il 30 giugno dovrebbe scadere il blocco dei licenziamenti. Confindustria sta già operando un forte pressing affinché la misura non venga prorogata. Gli industriali vogliono avere mano libera per le loro ristrutturazioni aziendali. Ecco, questo è un passaggio decisivo sul quale le forze progressiste che appoggiano questo governo devono assolutamente impegnarsi perché il blocco venga prorogato finché sarà necessario. Si sono già persi troppi posti di lavoro e la crisi economica non deve essere pagata dai lavoratori. Se servono ulteriori risorse vengano prelevate dove la ricchezza c’è. Dopo la Banca d’Italia e la Corte dei Conti, anche il Fondo Monetario Internazionale suggerisce per uscire dalla crisi post pandemia “un contributo temporaneo di recupero su redditi elevati o ricchezza”. Davvero un bel 4
giro di parole per non dire Patrimoniale. In questo ultimo anno le diseguaglianze tra ricchi e poveri sono cresciute e mai come ora occorre un intervento fiscale che permetta la redistribuzione della ricchezza in maniera più equa. Non bisogna avere timore nell’affrontare questo tema e ci aspettiamo un impegno rilevante in sede governativa e parlamentare da parte dei partiti di sinistra. Ma al di là dello sguardo su quanto sta avvenendo nel Paese, mi preme una riflessione finale su quanto accade nel mondo politico. Non si può tralasciare la nascita di fatto del Neo-Movimento guidato da Giuseppe Conte. Un evento, forse passato alquanto sottotraccia nell’informazione nazionale, ma che avrà grossa rilevanza nei prossimi mesi e anni. In diretta streaming davanti all’assemblea dei portavoce, in un intervento di appena un’ora, l’ex primo ministro ha seppellito definitivamente il vecchio Movimento 5 Stelle attraverso una rifondazione profonda che passa soprattutto su due punti chiave, finalmente messi da parte: l’uno vale uno e la democrazia digitale della piattaforma Rousseau. Conte ha detto testualmente che “la democrazia digitale non è neutra” e per questo serve “la massima trasparenza e chiarezza sul processo dei dati”. Che la capacità dovrà affiancare l’uno vale uno ed è un passo in avanti fondamentale per superare il populismo urlato che è stato il distintivo del primo M5S. Sarà certamente un processo lungo e non privo di difficoltà. Le vecchie incrostazioni saranno dure da ripulire e, soprattutto, da far accettare a una base troppo frastagliata ideologicamente. Eppure, da sinistra bisogna guardare con estrema attenzione al percorso del Neo Movimento. Senza aperture di credito gratuite ma nemmeno preclusioni pregiudiziali. I valori che Conte intende mettere al centro dell’azione politica del nuovo M5S sono assolutamente condivisibili: etica pubblica e onestà, innanzitutto, ma anche giustizia, lotta alla mafia e, naturalmente, transizione ecologica. Se alle parole seguiranno i fatti, il Neo Movimento potrà a tutti gli effetti far parte di quella alleanza strategica tra tutte le forze progressiste che dovrà contrastare la destra alle prossime elezioni. 5
Politica
Il diritto di avere diritti Giovanni AIELLO
La democrazia è ufficialmente in crisi. Il dato emerge, sebbene in forme leggermente diverse, sia dal ‘Democracy Index 2020’, report annuale a cura dell’Economist Intelligence Unit (divisione della nota rivista inglese che si occupa di consulenza e di ricerca), sia da quello di ‘Freedom House’, organizzazione non governativa con sede a Washington. L’Economist ha evidenziato come su 167 paesi analizzati (nel mondo gli stati riconosciuti sovrani sono complessivamente 6
196), sono appena 22 quelli in cui la democrazia può dirsi realmente compiuta. Fra questi, come prevedibile, troviamo i paesi scandinavi, il Canada, la Nuova Zelanda, l’Australia, ma anche stati inattesi, come Costa Rica, Uruguay, Cile, Corea del Sud. L’Italia non è ricompresa in questo primo gruppo di eccellenza, ma si trova al 29esimo posto fra le “democrazie imperfette”, in triste compagnia ad esempio di Ungheria e Polonia, ma anche degli Usa. Il report di Freedom House ha invece messo in luce una più generale erosione dello spazio dei diritti. Complice la pandemia (talvolta servita da grimaldello), un po’ ovunque nel mondo sono stati adottati provvedimenti che hanno limitato le libertà fondamentali, talvolta scavalcando i principi di legalità e proporzionalità. Ed in molti regimi è stata usata la violenza per contenere o finanche impedire qualsiasi manifestazione di pensiero dissonante, con il caso più eclatante costituito dal golpe militare in Myanmar, sulla cui unanime condanna grava però il veto opposto da Cina e Russia nel corso del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La sintesi di queste analisi è dunque piuttosto dura da digerire; i tre quarti della popolazione mondiale (oltre 5,5 miliardi di persone) vivono una condizione definita di “deficit democratico”, mentre un terzo degli abitanti (quasi 3 miliardi) subisce l’oppressione diretta di governi autoritari, e non arriva al 10% la quota di coloro che nel mondo possono dirsi fino in fondo liberi.
‘Dittature, guerre e povertà: ovvero la seconda domanda di Yali’ Ma le classifiche, com’è noto, se da un lato fotografano un utile quadro d’insieme, dall’altro risultano sempre opinabili (il Canada, per esempio, figura come una
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realtà virtuosa, ma si fa forte dell’ala protettiva garantita dalla politica imperialista degli Usa), e soprattutto non estinguono gli interrogativi principali. Uno di questi, ad esempio, ce lo suggerisce ‘Armi, acciaio e malattie’, celebre saggio di Jared Diamond, pubblicato nel 1997 e vincitore del premio Pulitzer, in cui si ricostruisce come e perché in alcune aree del mondo (verosimilmente nell’attuale bacino del Mediterraneo e poi in Europa) si siano sviluppate civiltà che nel corso della storia hanno finito per sopravanzare le altre. La ricerca dell’antropologo americano era partita nel 1972 da una candida domanda rivoltagli da Yali, un politico della Nuova Guinea incontrato durante un viaggio di ricerca; “come mai voi bianchi avete tutto questo cargo (beni materiali, ndr) e lo portate qui in Nuova Guinea, mentre noi neri ne abbiamo così poco?”. Applicando questo approccio anche al nostro tema, potremmo dunque immaginarci che Yali ci ponga oggi una seconda domanda: “come mai voi avete così tanti diritti, mentre noi non ne abbiamo affatto?”. Esattamente come per il “cargo”, anche il mondo dei diritti risulta infatti spaccato in due parti profondamente diseguali. E se per una minoranza sono riconosciute (almeno sulla carta) le libertà civili, il giusto processo, l’accesso alle cure e all’istruzione pubblica, per tutti gli altri la vita scorre invece fra stati semi autoritari e regimi sultanistici (le monarchie assolute degli anni duemila). Inoltre si riscontra un’altra casistica (soprattutto con riguardo a Sudamerica, Africa ed ampie zone dell’Asia), per cui quanto più risulta geopoliticamente “prezioso” il territorio su cui insiste un determinato stato, tanto più aumentano le possibilità che il governo corrispondente non rispetti i diritti fondamentali, che il paese sia coinvolto in guerre apparentemente senza padrone e che la situazione economica e sociale ne risulti compromessa (si pensi in proposito al Venezuela di Maduro e alla Siria di Assad, paesi distanti ma accomunati dalla 8
presenza di ingenti giacimenti di petrolio e dalla contestuale disgregazione interna). Si tratta di uno scenario che, parafrasando proprio il titolo del best seller di Diamond, potremmo sintetizzare con l’espressione “dittature, guerre e povertà”. Viene soltanto da chiedersi chi mai possa trarre beneficio da questa oscena relazione fra ricchezza naturale dei territori e povertà delle persone che vi abitano, così come fra valore strategico dei luoghi e conflitti senza fine.
‘Civili in casa, incivili fuori: la Francia e gli altri’ Quest’ultima domanda trova una risposta evidente nel gigantesco cortocircuito etico e giuridico, costantemente in atto proprio nei paesi a più alta tradizione democratica, fra la tutela dei diritti entro i propri confini e la cinica politica neocolonialista abitualmente adottata verso l’esterno. Esempio lampante di questa schizofrenia è senza dubbio la Francia, prototipo di tutte le repubbliche moderne, giustamente considerata la patria dei diritti dell’uomo e dotata attualmente di un sistema di tutele tra i più sviluppati del mondo. Eppure, il governo di Parigi estende la sua influenza in tutti i continenti e in particolare su ampie zone dell’Africa, dove gestisce con fermezza le istituzioni monetarie (come la BCEAO e BCEAEC, che riuniscono le banche centrali dei paesi francofoni dell’area occidentale ed equatoriale), i flussi commerciali e il destino politico delle ex colonie, tanto da potersi parlare di una ‘Francafrique’. Ha basi militari in Gabon, Senegal, Gibuti, Ciad ed è intervenuta sia in Costa d’Avorio (operazione Liocorno del 2002) che nel colpo di stato nel Mali, agendo spesso anche in modo autonomo, indipendentemente dalle risoluzioni internazionali. Nel 2011, fu proprio l’allora 9
presidente Sarkozy ad inaugurare i bombardamenti in Libia, avviando contestualmente un’ambigua politica che vede i francesi tutt’ora divisi fra l’appoggio di facciata al governo “ufficiale” di Sarraj (militarmente sostenuto dalla Turchia di Erdogan) e un dialogo incoffessabile col generale Haftar (forte invece del supporto economico della Russia). Analoghe ricostruzioni, naturalmente, tornerebbero valide per tutti i principali governi, Italia compresa. Ed infatti basta scorrere per intero la lista degli stati intervenuti proprio in Libia sotto la bandiera congiunta delle Nazioni Unite e della Nato, per notare subito una macabra corrispondenza con quella classifica delle democrazie ‘complete’ da cui eravamo partiti; Norvegia, Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Belgio, Canada, e poi Gran Bretagna e Usa. Le troviamo tutte, anche le comunità più meritevoli, dentro questo conflitto crudele durante il quale sono stati più volte bombardati finanche i presidi ospedalieri (come accaduto a maggio 2020 all’Ospedale Centrale di Tripoli), e che fin ad oggi ha già causato migliaia di morti fra i civili, oltre a un’emergenza che coinvolge quasi un milione e mezzo di persone (circa un terzo sono minori) tra sfollati, rifugiati e migranti i cui diritti sono violati sistematicamente. Un quadro d’insieme, questo, che inoltre ricalca in pieno quello di decine di altre guerre dimenticate in diverse aree del mondo.
‘I diritti sono per tutti, oppure non sono diritti’ A ben vedere sembra dunque che i diritti, per via di un amaro paradosso, possa permetterseli soltanto chi nel mondo fa la voce grossa, per giunta negandoli a chi è più vulnerabile. I principi contenuti nella ‘Dichiarazione Universale dei diritti umani’ (adottata nel 1948 a Parigi dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite) non costituiscono infatti un obbligo in capo agli stati membri, anche se numerosi 10
giuristi aderiscono alla tesi secondo la quale “le norme che compongono la Dichiarazione sono ormai considerate, dal punto di vista sostanziale, come principi generali del diritto internazionale e come tali vincolanti per tutti i soggetti di tale ordinamento”, come si legge anche dalla pagina ufficiale del Senato. Peso diverso ha invece la Convenzione Europea per i diritti dell’uomo, entrata in vigore nel 1953. Un documento davvero prezioso, che nel recepire in larga parte il contenuto della precedente Dichiarazione, assume in più valore vincolante all’interno della UE, ed offre sia agli stati che ai singoli individui l’opportunità di ricorrere ad un’apposita corte (la Corte Europea per i diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo). Rimane però viva l’ambizione di costituire prima o poi quello che il giurista Stefano Rodotà aveva individuato, nel suo omonimo libro, come il ‘diritto di avere diritti’, universalmente riconosciuto e tutelato. Nulla, infatti, in tema di garanzie, va mai dato per scontato. Prova ne sia la risoluzione adottata per consenso lo scorso 23 marzo dal Consiglio Onu dei diritti umani, dal titolo “Assicurare l’accesso equo, sostenibile, tempestivo e universale di tutti gli stati ai vaccini contro la pandemia da Covid-19”. E ciò proprio mentre si assiste per assurdo ad una vera e propria corsa internazionale, sospesa fra accaparramenti indebiti delle dosi (solo gli Usa ne possiedono attualmente oltre 1 miliardo) e colpevoli ritardi nel resto del mondo. I numeri forniti in proposito da ‘Our World in Data’ dicono infatti che finora, delle quasi 800 milioni di somministrazioni totali, oltre la metà è concentrata soltanto fra Stati Uniti, Cina e India, con un rapporto complessivo fra vaccinati e popolazione globale che ad oggi si attesta appena al 5,5%. Insomma, siamo sempre al chi tutto e a chi niente. 11
Ma anche lì dove le persone credono di essere più al sicuro, la sfida costante per i diritti non deve essere abbandonata. Ce lo ricordano i casi più eclatanti di “eccesso di sorveglianza” da parte delle forze dell’ordine in questi ultimi mesi, come quello verificatosi a Londra in occasione della veglia in ricordo di Sarah Everard (la ragazza rapita ed uccisa da un poliziotto). Oppure a Parigi, dove una manifestazione contro la contestatissima legge sulla ‘sicurezza globale’ voluta da Macron è stata dispersa con la forza. Ci sono poi i segnali provenienti dal mondo del lavoro, con il primo sciopero nazionale dei dipendenti di Amazon e la difficile battaglia dei riders, che accendono una spia sullo sfruttamento 4.0 nei confronti dei cosiddetti ‘platform workers’. Senza mai dimenticare infine il dramma silenzioso della segregazione economica, che intrappola milioni di persone a bassissimo reddito, e colpisce i nuovi poveri fin nel cuore delle nostre città. Si tratta in definitiva di un panorama tutto da ridefinire e da sorvegliare con la massima attenzione. L’obiettivo: sottrarre la sfera dei bisogni e dei diritti agli appetiti del nuovo filantrocapitalismo degli Zuckemberg e dei Gates, che “applica modelli di mercato alla beneficenza” (come scrive la giornalista Nicoletta Dentico), con l’intenzione di privatizzare gradualmente il welfare, la ricerca e l’accesso all’informazione.
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Politica e Società
Io ho il diritto di essere felice Rosanna Marina RUSSO
“Sei felice?”. Quando lo chiediamo, non è raro che l’altro ci guardi smarrito e poi risponda: “Non so. E poi, cos’è la felicità?”. Già, cos’è. A guardare i dizionari sarebbe uno stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i desideri o la compiuta esperienza di ogni appagamento o un insieme di emozioni e sensazioni del corpo e dell’intelletto in grado di procurare uno stato di gioia per un periodo di tempo particolarmente lungo. Ma possiamo smentirci subito. Umberto Eco, nell’articolo “Il diritto alla felicità” pubblicato su L’Espresso il 26 marzo 2014, scrisse che se per felicità “si intende 14
uno stato permanente, l’idea di una persona che è felice per tutta la vita, senza dubbi, dolori, crisi, questa vita sembra corrispondere a quella di un idiota – o al massimo a quella di un personaggio che viva isolato dal mondo senza aspirazioni che vadano al di là di una esistenza senza scosse (...)”. Quindi, la felicità “è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata…” Complicata appare una definizione certa e univoca. Ma, al di là di fugacità o permanenza, è lecito chiedersi se questo appagamento vada perseguito soltanto individualmente o se, invece, necessita di una funzione sociale e politica che lo sostenga per compiersi appieno e anche, in questa doppia prospettiva, se è un diritto inviolabile tanto da dover essere tutelato persino nelle carte costituzionali. Quest’ultima domanda ha forse la risposta più immediata: è la Dichiarazione d’Indipendenza americana, 1776, che viene subito alla mente. Il riferimento lì è esplicito: “A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla felicità. “ Assertivo. Eppure, Benjamin Franklin aveva scritto “diritto alla proprietà”. Fu Gaetano Filangieri, a cui fu inviata la bozza, che modificò l’espressione proposta con quella accettata del “diritto alla felicità “. Concetto che chiarì successivamente, nel 1780, con l’opera La Scienza della Legislazione: “Nel progresso concreto del sistema di leggi sta il progredire della Felicità nazionale, il cui conseguimento è il vero fine del Governo, che lo consegue non genericamente ma come somma di Felicità dei singoli individui” Ma, al di là della primogenitura della parola “felicità”, se poi quell’impegno, “quella promessa al mondo di abbracciare popoli e civiltà in una visione ampia e dialettica” sia stata mantenuta, è cosa diversa. Forse potremmo dire con Howard Manford Jobes: “lo sgradevole privilegio d’inseguire un fantasma e di abbraccia15
re una delusione”. Probabilmente fu per non abbracciare una delusione che nella Carta costituzionale gli americani hanno lasciato cadere l’argomento. Non ve n’è traccia. Ma se quella Dichiarazione ha fatto da apripista, oggi più che mai tutti gli Stati, per lo meno quelli democratici, cercano di soddisfare quell’aspirazione universale. Anche la nostra Costituzione, seppure sia stato cancellato dai Padri Costituenti ogni riferimento alla “Nazione (...) felice” contenuto nello Statuto Albertino, ne contempla in filigrana la tutela, con gli artt. 2 e 3. Nel primo dispone che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle funzioni sociali ove si svolge la personalità…”, mentre nel secondo stabilisce che “È compito della Repubblica rimuovere gli “ostacoli…che impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. Come dire che sviluppare appieno la propria personalità vuol dire essere felici e che lo Stato ne è corresponsabile. Ma anche l’ONU indica questo come un tema fondamentale. Difatti con la Risoluzione A/RES/66/281, ha istituito la “Giornata Internazionale della felicità” che si celebra il 20 marzo di ogni anno, perché “(...) consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell’umanità(...)”. E così molti leader, che lo hanno inserito nell’agenda politica. Dal piccolo comune di Ceregnano, centro del Polesine nella provincia di Rovigo, in cui è stato creato “l’Assessorato alla Felicità” alla nazione europea tra le più grandi, la Francia, in cui è stata costituita una commissione di esperti col compito di studiare e “confezionare” il “PIL del benessere”. Ma, allora, se le istituzioni se ne preoccupano, è evidente che la felicità non può essere inseguita solo individualmente. Se da una parte dipende dalle nostre scelte, dall’altra queste devono ancorarsi a libere opportunità. C’è un significato sociale e 16
politico ampio: l’uomo può realizzare la sua felicità solo se esiste una realtà sociale attenta alla qualità di vita. Lo Stato deve garantire la possibilità di tale realizzazione, ma senza interferenze, riconoscendo l’autonomia dell’individuo nella determinazione della propria esistenza. Per dirla con Kant: “Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo, ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo” . E, molto concretamente, quando fu chiesto a James Madison, uno dei padri costituenti americani, come lui intendesse realizzare la propria
felicità, egli rispose:
“nel grembo e nell’amore della famiglia, nella compagnia dei miei vicini e dei miei libri, nelle salutari occupazioni delle mie fattorie e dei miei affari” Quindi in un luogo quanto più remoto dal Congresso e in una vita su cui la sfera pubblica non poteva rivendicare alcun diritto. In definitiva Madison riconosceva nella libertà di agire la vera forma di felicità. Perciò lo Stato può contribuire alla realizzazione della felicità individuale, fornendo le risorse giuridiche, finanziarie ed istituzionali che consentano o rendano più agevole il raggiungimento di questo obiettivo da parte dei singoli, così come non deve porre in essere norme o provvedimenti che precludano, senza ragione giustificatrice, il compimento della felicità individuale, ma non può e non deve determinare in che cosa debba consistere, in concreto, la felicità individuale e come conseguirla. Non è suo compito. Lo è, invece, investire sulla qualità di vita di tutte le componenti della popolazione: esercizio dei diritti civili, giustizia sociale, parità delle opportunità, consistenza e qualità delle relazioni tra le persone. Parlare di felicità, infatti, significa parlare di bisogni materiali e immateriali da soddisfare o almeno di una progettazione sociale che promuova la massima diminuzione 17
dell’infelicità. E torniamo a Eco: “Felicità e quotidianità e vivere nel tempo e nello spazio dell’oggi e del qui e ora”. Ma noi ci siamo chiesti, inizialmente, come accostare la parola “felicità” alla parola “diritto”. Ebbene, diritto vuol dire relazione. L’idea che la felicità possa essere solo quella personale, di ciascun essere umano, perseguita solo per i propri fini, senza pensare e senza preoccuparsi di quella degli altri, se non addirittura ricercata a scapito di quella degli altri, appare fuorviante ed erronea. Se diamo valore agli altri, lo diamo a noi stessi, e questo reciproco riconoscimento, questo incontro, questa “relazione” è ciò che ci dà veramente pienezza e che appaga ogni nostro bisogno ed esigenza. Il riconoscere questo vincolo solidale ci completa e ci consente di raggiungere quella felicità individuale che porta alla felicità collettiva di cui parlava Filangieri, indicandola come “scopo delle leggi e dei governi”. Che è, in definitiva, anche la riflessione della Arendt quando parlava di “felicità pubblica” come esperienza soggettiva e intersoggettiva legata all’esercizio della libertà politica. Una felicità, dunque, che non assume solo i connotati di un diritto ma anche quelli di un dovere verso noi stessi e verso gli altri. Ma se non possiamo sapere, com’è ovvio, quanti esseri umani sono felici, possiamo conoscere quali paesi, quali stati nel mondo posseggono o mirano a possedere quella “felicità collettiva”? 18
La risposta è sì. C’è Il Word Happiness Report. È un’indagine eseguita ogni anno con l’obiettivo di stilare una classifica dei 156 paesi presi in esame, sulla base della felicità dei propri cittadini, analizzando e contestualizzando scientificamente 6 parametri ben precisi: reddito, speranza di vita in buona salute, sostegno sociale, libertà, fiducia e generosità dei propri abitanti. Bene. Al centro dell’Europa c’è una nazione che non manca mai di essere tra le prime posizioni di questa classifica: la Danimarca. Volendo cercare di capire: un governo stabile con un bassissimo tasso di corruzione, sanità e istruzione di altissima qualità, tasse molto alte, ma con servizi di prim’ordine, e un equilibrio più sano tra lavoro e tempo libero, il Work Life Balance. Certo, scorrendo gli occhi su queste caratteristiche e rapportandole all’Italia, si è portati a pensare, con dolorosa rassegnazione, che una vera felicità collettiva forse noi non la raggiungeremo mai e che l’unica felicità possibile da ottenere è solo quella individuale, in un modo o nell’altro. Se ci va bene. Però un dubbio è legittimo: e se è proprio perché la pensiamo in questo modo, perché siamo rassegnati e viviamo senza pretendere e controllare che lo Stato agisca che non riusciamo a raggiungere quella benedetta felicità collettiva?
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Politica
Di sedie, di gatti e altre amenità Antonella GOLINELLI
In questo periodo di tempo (ancora) sospeso varie vicende si affacciano alla ribalta. Abbiamo iniziato con il catcalling. Ci ho messo un po' a capire di cosa si trattasse in effetti. Quando chiamo i miei di gatti se non e' ora di cena non mi si fila nessuno. 20
Anyway, alla fine ho capito di cosa si trattasse. Piu' dal dibattito seguito che dalla traduzione. Sui social ho seguito le diatribe tra male and female in diverse e opposte posizioni, ovviamente. Le donne che lamentano fischi, apprezzamenti e palpeggiamenti. E vorrei anche vedere. Gli uomini che non capiscono, dicono loro, non riescono a distinguere, dicono sempre loro. Ma i protagonisti non lo hanno fatto mai!!!! Se'! Come se fosse vero. Ok. Parto. Dimmi un po' te omarello, che lanci fischi da pecoraio ogni volta vedi passare un essere di genere opposto, cosa ti passa per la testa? A parte farti mandare un accidente accorpato ad auguri delle piu' nefaste malattie esotiche esistenti, come pensi sia accolto “l'apprezzamento”? Dimmi un po' tu scrutatore dotato di vista a raggi X che fai una TAC ad ogni femmina transitante nei paraggi esprimendo ad alta voce commenti e valutazioni, pensi di essere simpatico? E invece tu che cogli ogni occasione per allungare la mano di nascosto, perche' sei un vigliacco e quella mano la usi poi anche a casa per te, pensi di porgere un gradito omaggio? Voi che in gruppo circondate la sfortunata di turno pensate forse di rallegrarle la giornata? E non capiscono! Loro non capiscono! Non capite no! Cosa volete capire che vi siete bloccati con lo sviluppo a 12 anni! Ma santa pazienza. Ve l'ha insegnata qual21
cuno un po' di educazione o provenite da genie di incapaci di stare al mondo? #mognint Meanwhile si è imposto prepotentemente il fatto di Ankara. Incontro bilaterale Unione Europea Turchia, per far cosa non e' dato sapere. Nei TG non è uscito il motivo dell'incontro. Comunque, arrivo nel salone, due poltrone dorate e due divani. Dato il posto direi piu' ottomane o tomane come diceva mia nonna. Alla fine della fiera sulle poltrone dorate si sono seduti Erdogan, il feroce saladino, e Charles Michel Presidente del Consiglio Europeo, il simpatico pennellone belga. La Ursula von der Leyen Presidente della Commissione Europea, massimo rappresentante dell'Europa, è rimasta in piedi. Si è accomodata sul sofà, molto comodamente, di fronte al Ministro degli Esteri turco. A prescindere dai motivi della visita di stato, qui i fatti sono tanti. i) un fatto è il tentativo di umiliazione nei confronti di una rappresentante, la massima rappresentante eletta, dell'Europa. Sempre nella A sta il problema. È un problema che si ripresenta ciclicamente, si riaffaccia come i peperoni, il tentativo di intimorire, sminuire, retrocedere chi ha una diversa distribuzione di pochi, a volte pochissimi, etti di carne. Stranamente accade più di frequente negli incontri con omarelli con tendenze dittatoriali. Chissà come mai? ii) Un altro fatto è che un belga dovrebbe avere un'educazione, se non altro dovrebbe padroneggiare la galanteria, mentre gli avvenimenti smentiscono l'ipotesi. Le foto che lo ritraggono con l'espressione della consapevolezza di aver compiuto una corbelleria dicono molto. 22
Ad ogni modo il simpatico pennellone ha rilasciato interviste nella quali si dichiara molto preoccupato, al punto di non dormirci la notte. E ci credo! S'è mosso il mondo per chiedere la sua testa. Non in questi termini ovviamente ma in quelli di dimissioni. È palese che l'omarino non è in grado di gestire il peso del ruolo. Del resto, ha tutto uno storico di mosse poco felici per non dire infelici. È inadeguato. Quello che mi indigna proprio è il tentativo del feroce saladino di infilare una zeppa nei meccanismi europei. Un bizantinismo inutile che si sta rivelando un eccesso. In fact, durante una diretta Draghi a risposta di una domanda l'ha definito un dittatore di cui l'Europa ha bisogno, col quale bisogna collaborare. Apriti cielo! Proteste infiammate, chiamata dell'ambasciatore con richiesta di scuse formali, dichiarazioni roboanti di un ministro turco (non ho capito quale), minacce di richiamare a casa l'ambasciatore turco, minaccia di sospendere i contratti. Ale'! Al momento pare non sia accaduto nulla ancora ma confido che smetteremo di comprare nocciole e vetro dalla Turchia. Confido smetteremo anche di inondarli di denaro per tenere fermi i migranti che vogliono andare a nord. Se non ci comprano più elicotteri da guerra ci daremo al pacifismo spinto, sempre che ce li avessero pagati alla fine (questa potrebbe essere un'illazione o forse no). Anyway siamo sempre lì. Maschi Vs femmine. Non ce la fanno. Se non compiono il quotidiano tentativo di sopraffazione non stanno bene. Che a ben vedere rivelano la reale pochezza di tanti. Se non hanno qualcuno su cui sentirsi padroni non si sentono realizzati. Lo sapete vero che dimostrate di non valere niente? 23
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Storia e politica
Breve evoluzione storica dei diritti Giovan Giuseppe MENNELLA
In età medievale e moderna, fino a un’epoca non molto lontana da quella contemporanea, alla stragrande parte della popolazione non erano riconosciuti significativi diritti individuali e collettivi, almeno non quelli che sono garantiti oggi nelle società democratiche di massa. Nell’Ancien Regime i Sovrani godevano di un’autorità assoluta, soprattutto nei confronti della gente comune, in quanto considerati rappresentanti di Dio in Terra. Agivano sciolti da freni materiali e soprattutto da leggi codificate, non trovando opposizione se non in pretese dinastiche e di potenza dei più grandi feudatari dei Regni, ma soprattutto nell’autorità del Papa di Roma che si considerava sovraordinato a tutti. 25
I primi soggetti che pretesero il riconoscimento di precisi diritti, nell’ambito di una certa autonomia, furono i Feudatari e i Baroni di più alto lignaggio. Il basso Medioevo fu caratterizzato, soprattutto in Francia e in Inghilterra dove nascevano embrioni di Stato Nazionale, dal contrasto di lunga data tra i Sovrani assoluti e i Feudatari circa i reciproci poteri e diritti. Il 15 giugno 1215 fu accettata dal Re inglese Giovanni Senza Terra la Magna Carta Libertatum, un Patto che, rispetto al Sovrano, garantiva i diritti della Chiesa, la protezione dei civili dalla detenzione ingiustificata (Habeas corpus), una giustizia rapida e la limitazione sui tributi feudali alla Corona. Più che una concessione strappata all’autorità del Sovrano, la Carta fu un riconoscimento di diritti reciproci. Con le successive, molteplici, modifiche e con la Petition of Right e il Bill of Rights è durata a lungo nei secoli, nel mondo anglosassone e americano, arrivando a influenzare anche la Costituzione degli Stati Uniti del 1787. Sicuramente, specialmente all’inizio, contemplava il rapporto medievale tra il Monarca e i Baroni piuttosto che i veri e propri diritti della gente comune. Tuttavia, è rimasto un potente, iconico monumento alla libertà, anche dopo che la quasi totalità del suo contenuto e delle principali successive modifiche è stato abrogato dai libri statutari del XIX e XX secolo. Costituisce ancora un importante simbolo delle libertà e dei diritti di oggi, nel mondo anglosassone e statunitense. È stata definita da qualcuno in Gran Bretagna “il più grande documento costituzionale di tutti i tempi, il fondamento della libertà dell’individuo contro l’autorità arbitraria del despota”.
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Nel Continente europeo, in epoca basso-medievale, a partire dall’anno 1000 dell’Era volgare, il popolo, un tempo sottoposto all’autorità dei Feudatari, acquisì libertà e qualche diritto trasferendosi dal contado nelle città. Nella realtà urbana si era al riparo dai soprusi e dagli ordini dei Baroni feudali. Gli Statuti comunali riconobbero ai soggetti alcuni diritti, soprattutto quello di non sottostare più al lavoro obbligatorio a favore dei Signori (le corveè) e quello di esercitare arti e mestieri, come operai o artigiani o commercianti. È stato detto che l’aria delle città rendeva di fatto liberi. A partire dal XVI secolo, dall’epoca delle scoperte geografiche e delle esplorazioni e migrazioni degli europei in altri Continenti, la saggistica giuridica elaborò e codificò il diritto dei popoli all’emigrazione. Diritto del tutto eurocentrico, se mai ce ne fu uno, dato che codificò più che altro il diritto di masse di avventurieri del Vecchio Continente a trasferirsi nelle Americhe, in Asia, in Africa per sottomettere quelle popolazioni, per sete di dominio e di ricchezze, stuprando, rubando e distruggendo. Appare quindi piuttosto sorprendente che oggi quegli stessi Stati europei, che in passato avevano sempre riconosciuto il diritto all’emigrazione, lo neghino oggi, erigendo barriere di ogni tipo, ai discendenti di quelle stesse popolazioni extraeuropee che vivono in condizioni precarie proprio perché i loro Paesi sono stati sfruttati dagli avventurieri europei di un tempo. E forse non solo di un tempo, ma anche di oggi, ma questa è proprio un’altra storia. Un anno importante per la storia del riconoscimento dei diritti fu quel 1648 in cui, con la Pace di Westfalia, nacque l’Europa moderna. Con quel Trattato, che sancì la fine della Guerra dei Trent’anni e delle Guerre di Religione, l’Imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione germanica rinunciò definitivamente ai tentativi di imporre con la violenza la propria confessione religiosa cattolica ai Principi prote27
stanti tedeschi. Dal canto loro, anche tutti i Principi dell’Impero rinunciarono all’imposizione violenta di qualsivoglia confessione religiosa ai sudditi. Fu il primo, decisivo, passo per il riconoscimento del diritto della gente comune di professare liberamente ogni fede religiosa e per l’instaurazione del principio di tolleranza. In quel medesimo periodo, anche in Inghilterra, con le Guerre Civili e le Rivoluzioni del 1649 e del 1688, si affermò il principio della Monarchia costituzionale e poi parlamentare. Per la prima volta furono imposti limiti giuridici all’esercizio del potere della Monarchia, la quale, da allora in poi, fu obbligata a rispettare le decisioni di un Parlamento e quindi riconoscere, a monte, diritti politici quantomeno alle categorie più abbienti e istruite della popolazione comune che li esercitavano con l’elezione dei loro rappresentanti al Parlamento di Westminster. Nel XVIII secolo, il pensiero illuministico sviluppò in via teorica e scientifica il concetto della separazione tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario. Fu aperta allora, anche nell’Europa Continentale, la strada per una futura limitazione per via di legge lo strapotere dei Sovrani assoluti di Antico Regime, riconoscendo agli strati più evoluti della popolazione comune i diritti politici. Ma, come in Inghilterra nel secolo precedente, anche qui, a cominciare dalla Francia nel 1789, il cammino per ottenere questi diritti non doveva essere pacifico, tra sommosse, repressioni, congiure e rivoluzioni. In Italia, sull’argomento dei diritti, l’Illuminismo produsse a Milano il pensiero di Pietro Verri e Cesare Beccaria e a Napoli quello di Antonio Genovesi. Pietro Verri e Cesare Beccaria impegnarono il loro pensiero per il diritto dei cittadini a non subire più la tortura giudiziaria e le pene infamanti. Antonio Genovesi 28
tenne le sue lezioni di Economia civile, gettando le basi per un’azione sociale solidaristica dell’Economia, che potesse assicurare ai soggetti non solo miglioramenti materiali, ma anche morali, in una parola, il diritto alla felicità. L’insegnamento di Genovesi fu ripreso dai Padri fondatori degli Stati Uniti che, nelle dichiarazioni preliminari inserirono un richiamo al diritto alla felicità, in quanto Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, soprattutto il secondo, avevano conosciuto il pensiero dell’economista napoletano. Tutto il lavorio del ‘700 Riformatore e Illuminista sfociò nei documenti giuridici che sancirono le Rivoluzioni d’America e di Francia. La Dichiarazione di Indipendenza delle Colonie americane del 4 luglio 1776 nella prima parte espresse alcuni principi generali, richiamando scritti giusnaturalistici e illuministi, come il diritto di uguaglianza e quello di ribellione all’autorità (diritto alla Rivoluzione). La Costituzione degli Stati Uniti del 1787 fu perfezionata, dopo pochi anni, con i primi emendamenti che presero forma di una Carta dove furono previsti una serie diritti, concernenti la libertà di culto, di parola, di stampa, di riunione e petizione, quella di portare armi, oggi contestata, il divieto di arresti, perquisizioni, confische irragionevoli (con evidente ispirazione all’habeas corpus medievale inglese), il divieto di processi che comportassero la pena capitale o pene molto gravi senza la costituzione di un Grand Jury, il diritto a un processo penale rapido e pubblico. Tutti diritti destinati a una sfera di cittadini omologhi a quelli della democrazia ateniese del V secolo avanti cristo, cioè con esclusione degli stranieri, delle donne e degli schiavi. Una democrazia “alla greca”.
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La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 dell’Assemblea Nazionale Francese sancì i diritti di libertà e di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato, quello di essere ammessi a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, di non essere accusati, arrestati e detenuti se non nei casi previsti dalla legge, di essere sottoposti solo a pene necessarie e non puniti se non in base a una legge, la presunzione di innocenza fino a quando non dichiarati colpevoli, non essere molestati per le opinioni, anche religiose, a meno che non sia turbato l’ordine pubblico, il diritto di parola, scrittura e stampa, il diritto di proprietà, limitabile solo per necessità pubblica e con giusto e previo indennizzo. Entrati nel secolo XIX, tutte le lotte e i rivolgimenti per l’ottenimento dei diritti contro i moltissimi Regimi assoluti che imperversavano ancora, furono ispirati dai due documenti americano e francese. In Europa Continentale ci furono lotte e Rivoluzioni di tre tipi. Le Rivoluzioni liberali, per ottenere i diritti politici di rappresentanza, con la promulgazione di Costituzioni e l’istituzione di Parlamenti rappresentativi. In Italia la Rivoluzione liberale per l’ottenimento dei diritti politici si intrecciò con la Rivoluzione nazionale per l’ottenimento del diritto all’indipendenza nazionale e all’autogoverno. Il cardine delle lotte italiane fu lo Statuto Albertino, riconosciuto nel 1848 nel Regno di Sardegna. Questo Statuto, di fatto un embrione di Costituzione, fondò diritti politici, ma non sociali, e ispirò la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, divenendo poi la legge fondamentale anche dello Sto unitario dal 1861 al 1948. In Francia i diritti politici e, più tardi, quelli sociali sono stati riconosciuti dalle Costituzioni che hanno accompagnato, tra Rivoluzioni e guerre vinte e perdute, il 30
cambio di cinque successivi Regimi, nel 1791, nel 1848, nel 1871, nel 1945 e nel 1958. In Germania, fino alla Costituzione della Repubblica di Weimar, lotte, guerre e rivoluzioni non riuscirono a instaurare neanche molti diritti politici, forse qualche diritto sociale per una forma di paternalismo tecnicistico tipicamente teutonico. Lo Stato, almeno fino alla Costituzione della Repubblica di Weimar, fu sempre autoritario, rigidamente gerarchico, militarista e caratterizzato dalla sopravvivenza di strutture politiche arcaiche quali Principati, Regni e Città-Stato. Le Rivoluzioni Nazionali mirarono a ottenere il diritto alla libertà e all’indipendenza di nazionalità oppresse da Imperi autoritari plurinazionali, plurilinguistici e plurietnici, come furono nell’800 l’impero russo e quello austriaco. Emblematiche le lotte nazionali in Italia, in Ungheria, in Polonia. Le Rivoluzioni sociali, per ottenere il miglioramento dei diritti concernenti le condizioni di lavoro e di salario della classe lavoratrice, scoppiarono già nel periodo della Rivoluzione francese con le rivolte dei lavoratori di Parigi e con l’incitamento alla lotta di rivoluzionari e pensatori come Babeuf e Filippo Buonarroti. Poi con la sanguinosa rivolta degli operai di Parigi nelle giornate sanguinose del giugno 1848. Dopo la metà del secolo e dopo la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels le Rivoluzioni per l’ottenimento di diritti sociali non perseguirono solo l’obiettivo di miglioramenti normativi ed economici, ma anche quello della presa del potere politico da parte del proletariato, per l’edificazione di uno Stato socialista. Il paradigma e l’esempio più sanguinoso fu il rivolgimento della Comune di Parigi nel 1871.
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Due esperimenti costituzionali interessanti, per certi versi in anticipo sui tempi per molti loro aspetti moderni e libertari ma presto abortiti, furono la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 e la cosiddetta Carta del Quarnaro, scritta per la maggior parte da Alceste De Ambris, per l’autogoverno della città di Fiume occupata nel 1919 dai legionari guidati da Gabriele D’Annunzio. La prima durò un solo giorno, il primo luglio 1849, la seconda pochi mesi, stracciate rispettivamente dall’esercito francese e dalle cannonate sparate per ordine del Governo Giolitti. Nel XX secolo, dopo la tempesta dell’annullamento dei diritti e delle libertà da parte dei regimi totalitari, la coalizione delle Nazioni Unite che aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale si fece promotrice di un riconoscimento universale dei diritti delle popolazioni. L’impulso iniziale fu dato dal discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Roosevelt il 6 gennaio 1941 sulle cinque libertà e i cinque diritti fondamentali. Diritto alla libertà di espressione, alla libertà religiosa, alla libertà dal bisogno e alla libertà dalla paura. Le prime due libertà erano già previste dal primo emendamento della Costituzione americana, le altre erano innovative, oltre i tradizionali valori costituzionali. Nella seconda parte del discorso elencò i benefici della democrazia, come opportunità economiche, occupazione, sicurezza sociale e la promessa di un adeguato sistema sanitario. Ovviamente, la pratica degli anni a venire e la storia del mondo come si è evoluta fino ai nostri giorni ha fatto capire che tutte queste belle cose sono assai difficili in determinate zone del mondo che risentono sia del passato di sfruttamento coloniale sia, soprattutto delle ruberie e della feroce repressione delle dittature autoctone. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1948 dell’O.N.U., sorta di logico seguito del discorso di Roosevelt, ha rappresentato una summa di tutte le dichiarazioni e carte dei diritti precedenti, ampliandole molto dal punto di vista dei diritti indivi32
duali e sociali, come il diritto al riconoscimento della personalità giuridica, di non essere sottoposto a interferenze arbitrarie nella vita familiare e privata, la libertà di movimento e residenza, il diritto di asilo in altri paesi, il diritto di lasciare il proprio paese ed eventualmente di ritornarci, di non essere privato della cittadinanza e di poter acquisire la cittadinanza di un altro paese, il diritto all’istruzione etc. In Italia, nel dopoguerra, la Carta fondamentale dei diritti dei cittadini fu la nuova Costituzione della neonata Repubblica, promulgata il primo gennaio 1948. Diversamente dallo Statuto Albertino, nella nuova legge fondamentale furono riconosciuti, oltre ai diritti politici, sostanziali diritti sociali ed economici, frutto del lavoro degli esponenti intellettuali delle due componenti su cui era stata fondata la Repubblica, cioè i cattolici e i socialisti. Però, quell’Italia degli anni ’40, appena uscita dal disastro della guerra perduta, risentiva ancora in larga parte dei costumi di una civiltà contadina, caratterizzata dal massimo di solidarietà reciproca tra le persone e le famiglie, ma dal minimo di libertà individuale, soprattutto per i giovani e le donne. Una società ancora in larga misura patriarcale e dalla moralità repressiva. Quindi, soprattutto dopo il boom economico e il passaggio da una società contadina a una industriale, apparve evidente l’indispensabilità di integrare la legislazione dei diritti di libertà individuale, concernenti soprattutto i rapporti interpersonali, familiari e il miglioramento della condizione della donna. Iniziò così la stagione delle lotte per questo tipo di riforme. Un nuovo diritto di famiglia, il diritto al divorzio, il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza e, nel campo sociale, un allargamento dei diritti dei lavoratori, soprattutto nella vita di fabbrica. Una stagione che vide all’avanguardia il Movimento dei Radicali, con in testa Marco Pannella, le Associazione delle donne e i partiti socialista e comunista. Tutto questo sfociò nella legislazione degli anni ’70 concernente i diritti al divorzio, 33
all’interruzione volontaria di gravidanza, a nuovi e più moderni rapporti giuridici nella famiglia, ai diritti dei i lavoratori con lo Statuto del 1970, ai diritti degli ammalati con il Servizio Sanitario Nazionale nel 1978, a una nuova sistemazione migliorativa delle condizioni di cura delle persone affette da problemi mentali, grazie al vero e proprio apostolato di Franco Basaglia e dei suoi colleghi e allievi di Psichiatria democratica. Oggi c’è ancora molto da fare, sia per difendere i diritti già acquisiti, sia per ampliarne e perfezionarne il contenuto. In molte Nazioni non occidentali vigono ancora feroci dittature che calpestano, oltre ai diritti politici, anche quelli umani, soprattutto in Africa e in Asia, mentre in America Latina sembra per fortuna allentata la morsa dei Regimi militari. In Italia sono da ampliare i diritti degli omosessuali, delle famiglie arcobaleno, delle famiglie che vorrebbero procreare artificialmente, dei ragazzi di famiglie straniere nati in Italia e di cultura e lingua italiane che non riescono ad ottenere la cittadinanza per lo jus soli. In Italia, come nel Mondo, andrebbe meglio tutelato il diritto di non subire l’utilizzo scorretto dei propri dati in rete da parte delle aziende, il diritto dei lavoratori che, nonostante le dichiarazioni ufficiali di principio, continuano a restare senza tutele o con poche tutele, sfruttati dalle grandi imprese operanti in rete. In conclusione, le lotte per la difesa e l’ampliamento dei diritti della gente comune sono come gli esami di Eduardo De Filippo, non finiscono mai.
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Comunicazione Politica
GNM: chi-come-perché Aldo AVALLONE
Da questo numero conosciamo informalmente i protagonisti di 999, l’Ente del Terzo Settore che è editore de l’Unità Laburista. La prima chiacchierata è con Gian Nicola Maestro, ligure nato nella stupenda cornice dalla Riviera di Ponente e Chief Content Officer di 999-ETS, che ci racconterà anche la sua esperienza professionale svoltasi, da sempre, in stretto rapporto con il suo impegno politico. Gian, come hai iniziato? A Milano negli anni ‘80, dopo – anzi – durante ultimo anno dello IED a Milano: iniziai come assistente allo Studio Convertino, dove usai il Mac1 (che emozione 35
veder uscire le prime cose con la stampante a aghi!): all’epoca curavo numerose sigle RAI – tra cui la Domenica Sportiva – riviste, cover di dischi e manifesti di concerti (ricordo il manifesto del concerto di Jerry Lee Lewis al Rolling Stone, interamente realizzato da me: nascosi una firma nelle illustrazioni...). Dopo circa sei mesi li mollai e passai allo Studio Plagio, ex reparto grafico di Fiorucci, responsabile di capolavori pop quali gli angioletti Fiorucci, il marchio CROFF, le prime pubblicità Panda, ecc. Lì, come assistente dell’art director Pignagnoli (Pigna), imparai davvero cos’è la comunicazione visiva. Il progettare prima e non durante, l’importanza del pensiero ma, soprattutto, che la grafica non è cardiochirurgia e non ne va nemmeno della vita di migliaia di bimbi… insomma, a non prendersi troppo sul serio. Avanti veloce: passano gli anni, i computer segnano un cambiamento epocale nella società’ e nel lavoro: dal fare tutto a mano – e ecco l’importanza del progettare – alle infinite possibilità’ del mezzo informatico. E qui bisognerebbe aprire un’altra directory: con i personal computer, chiunque diventa grafico/fotografo/ impaginatore, basta prendere e stirare un segno, una parola – et voila’, ecco un logo. Orribile, banale e inutile ma, intanto… Da Milano ti trasferisci a Torino… Venni chiamato a Torino come operatore 3d dalla Pixel Graphics del gruppo Satiz/ la Stampa: in quel periodo feci di tutto e, nel frattempo, usai le macchine potentissime – per l’epoca – per fare grafiche per i Movimenti (rientravo in ditta la notte…). Ricordo manifesti, dischi e una serie di finti manifesti elettorali situazionisti che crearono un discreto scompiglio... Aprii il mio studio da freelance e iniziai a lavorare per molte ditte italiane e non: il mio partner era, in allora, Ars Media (tuttora un’importante realtà torinese – e non solo). 36
E siamo agli anni 90. Il Web Dal 1995, con l’avvento di internet, si aprirono ancora nuovi scenari. La progettazione di siti web, con annessi e connessi. Iniziai a seguire i clienti a 360°, fornendo tutto (da strategie a visuals), creai un network di professionisti che coordinavo sui vari clienti. Shinynetwork fu uno dei miei primi clienti nazionali, per cui seguii tutto. Poi la Fratelli Carli, per la quale creai il primo sito eCommerce – credo uno dei primi italiani – e tutta la comunicazione food e cosmetics (per il sito Linea Mediterranea e per il Museo dell’Olivo venni pubblicato e poi premiato come uno dei migliori web designers italiani); Noberasco, poi Canterbury New Zealand, Seven, Parasuco e altre fashion firms per cui seguii comunicazione e eventi come Pitti Moda; l’Orchestra Sinfonica della Rai, Jacobacci and Partners per cui seguii eventi e video produzioni, il Museo del Festival di Sanremo e molti altri. Questo fino a circa il 2012, quando la crisi strutturale portò molte aziende a dotarsi di agenzie interne e, quindi, fece “saltare il banco” a molti studi. La crisi (l’altra…) cosa cambiò – e come? Purtroppo, dovetti ridurre le persone che lavoravano con me e continuai a lavorare come consulente e art director per varie agenzie, tra cui Frame Communication, per la quale seguivo progetti per FCA, Maserati, Jeep e ancora Ars Media, oltre a creare e sviluppare tutta l’immagine coordinata della mostra “I mondi di Primo Levi”, prima a Torino e poi in Europa. Producevo marchi e logotipi per musei, ditte e singoli, nonché immagine coordinata e branding per società di vario livello. Ovviamente non smisi mai di fare grafica per divertirmi e per iniziative sociali, realizzando cover di dischi, manifesti, ecc. Come nasce 999-ETS? 37
Saltando molte cose, arrivo a 999. Prima, insieme agli altri fondatori, giocai diverse “partite in incognito”. Quando mi hanno raccontato l’idea, sono saltato subito a bordo. La cosa di creare una “Bestia all’incontrario” è stuzzicante (666 capovolto diventa 999) e l’immagine che abbiamo scelto è un monolite ottico. Un marchio costruttivista, duro, poche informazioni: colori istituzionali il nero e il rosso, un claim – “Costruiamo Vittorie Politiche” – che è un manifesto. Tutta la comunicazione segue queste linee base. Rarefazione delle personalità, poche info e asciuttezza nelle parole. Fra l’altro, è appena terminata una campagna di 3 settimane su Facebook che ha fatto numeri di tutto riguardo, senza comprare un byte di traffico da Zuck... Le motivazioni di 999 sono già nei suoi segni. Duri, secchi. La sinistra ha un disperato bisogno di comunicare bene. Non di inseguire le pance degli italiani o dare solo addosso a Salvini. Questa cosa bisognerebbe urlarla dai balconi: “Non serve dire che S e’ cattivo!”, che e’ razzista o che so altro... Non serve. Anzi, gli facciamo un enorme favore. Gli algoritmi prendono e ringraziano. Il problema credo sia da un lato la “quasi vergogna” delle radici comuniste – si può ancora dire? – e dall’altro un modo edulcorato (o timoroso?) di affrontare la realtà, di chiamare le cose con i propri nomi. La disperazione, la fatica, la solitudine di moltissimi – tanti, troppi – queste cose vanno urlate. Non nascoste come se i tuoi elettori fossero dei bambini impressionabili. Temo davvero che taluni “comunisti col rolex” (adesso sarebbe più appropriato chiamarli “progressisti con il c..o al caldo”) siano troppo distanti dalla realtà o ne abbiano paura. E in questo prolasso storico ci stiamo giocando una partita fondamentale, forse l’ultima. Una intera fetta di società sta per essere cancellata, la media borghesia è scomparsa, inghiottita dalla forbice tra i pochissimi che stanno in alto e i molti che an38
naspano in basso, le libertà e i diritti vengono cancellati con una leggerezza davvero eccessiva, qualsiasi dissenso dal pensiero comune schiacciato. Attenzione: mi preoccupa il meccanismo. La mancanza di confronto, il fatto che l’asticella si alzi sempre più, le libertà negate. Mi preoccupa l’aria da linciaggio che tira ovunque. Per questo è nata 999: per mettere in mano un’arma efficace e contemporanea a chi vuole contrastare il conservatorismo, i sovranisti, il razzismo endemico, le disuguaglianze, la povertà. Al singolare: non esistono “le povertà”, la povertà è una sola.
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Politica
Avanti c’è posto! Antonella BUCCINI
“Questa ce l’ho”. Qualcuno ricorderà lo scambio delle figurine dei calciatori dei bambini degli anni ‘60. Era tutto un daffare a confrontare, valutare, mercanteggiare, soprattutto sui doppioni che potevano valere una figurina, ma se rari, anche due o tre. Mi è tornato in mente leggendo dell’iniziativa di Letta sulle donne capigruppo alle camere. La storia è nota. Un uomo di potere intende indurre altri due uomini di potere a fare un passo indietro per offrire il loro posto a due signore, come in metropolitana o in fila all’ufficio postale. Le due signore accettano e si accomodano. Il gioco è fatto. L’album delle figurine completato. Letta ha insistito perché “… c’è un problema enorme di presenza femminile nel nostro partito …” E quindi che si fa? Noi uomini decidiamo che è venuto il momento: prego. Non solo. Bisogna pur sceglierle queste signore. Sulla base dell’art. 1 dello Statuto del PD secondo il quale le attribuzioni di incarichi interni 41
sono ispirate ai criteri del merito e della competenza, rigorosamente accertati? Il capogruppo alla Camera, da vero gentiluomo, cede rapidamente il passo e lascia che le due aspiranti si accapiglino tra di loro. Il capogruppo al Senato, invece, è riluttante. Obietta a Letta che la sua è una proposta ambigua, che bisognerebbe iniziare dai segretari del partito da sempre uomini. Anche qui mi vengono in mente i ragazzini. “Perché… tu? Guarda chi parla”. E quindi il capogruppo che fa alla fine? Cede. Ma a lui la scelta diamine. E così nell’ambito della sua corrente, base riformista, composta da ex renziani, incorona la candidata che lo sostituirà. Grata. Qualcuno sicuramente ha apprezzato lo sforzo di Letta. Un segnale, un inizio. Ma per quanto ancora dobbiamo plaudire ai piccoli passi e farcene una ragione? Che sconforto. E tale è lo sconforto da accantonare anche il punto esclamativo. È questa quindi la pratica della parità di genere. Ho l’impressione che anni di lotta delle donne siano stati tirati con lo sciacquone.
Se c’è stato un limite nel
movimento femminista ha riguardato proprio l’identità che si è appiattita su quella maschile senza avere l’energia di delineare una diversità affrancata da stereotipi di genere. Lo stesso limite degli omosessuali, ma questa è un’altra storia. Chi altri se non le donne, dunque, avrebbero dovuto lottare per il potere e soprattutto maneggiarlo con la cura e l’ascolto proponendone una versione altra da quella maschile. Ma nel caso di specie siamo ben oltre. Queste donne della politica sembrano impegnate a occupare poltrone sempreché qualcuno ce le metta. Non un sussulto né una strategia. Nessun dissenso di genere né una voce stonata. Tutte allineate, in attesa. Prima o poi arriverà il loro turno. Qualcuna di loro ha sostenuto che se la cooptazione è destinata ad un uomo nessuno parla…. Ecco dunque le loro probabili aspirazioni: l’omologazione, la partecipazione ai giochi, anche da suddite, che importa. Intanto Ursula von der Leyen resta in piedi. In questa circostanza neanche un posto a sedere! Forse abbiamo un problema. 42
Lavoro
Il ferro va battuto quando è caldo e quello del lavoro è rovente Raffaele FLAMINIO
La storia degli ultimi
cinquant’anni
ha
dimostrato
che
l’ipotizzata
smaterializzazione del lavoro, pensata e applicata sin dai tardi anni ’70 dalla scuola economica di Chicago, con la teorizzazione e l’applicazione di ricette neoliberiste e liberticide, ha fallito. Il mercato così come inteso e pensato da quegli economisti è distruttivo. La prima ragione consiste nello sfruttamento spietato delle risorse del pianeta che resta l’unico tesoro da preservare. La seconda nella schiavizzazione 43
progressiva del mondo del lavoro, strutturata sull’alienazione dei diritti, per un lavoro, qualunque esso sia, che vada a genio a chi lo “dona” purché a basso prezzo e che peschi in una umanità disorientata e bisognosa di sopravvivere. Le categorie del vecchio lavoro, ci hanno detto, sono finite. Gli operai, i tecnici, gli amministrativi, i laureati sono solo entità del passato, il darwinismo del mercato avrebbe generato il nuovo. Crediamo che ciò sia avvenuto generando un Mostro. Tutto è concorrenza, tutto è al ribasso, persino il cibo e la dignità ai quali si attribuisce un prezzo che è pagato dalle comunità che, se più forti e strutturate, subiscono punizioni inflessibili e feroci, fino a ridurle alla ragione secondo l’adagio ricorrente “ringrazia e stai zitto”. Le delocalizzazioni, per esempio, sono la punta della montagna sotto cui frana il sistema del lavoro e la redistribuzione reddituale e salariale. La liquefazione del lavoro e con esso i diritti naturali e civili che esso contempla, hanno terremotato la sinistra politica e sindacale italiana, consentendo la messa in discussione di tutto ciò che è stato il lungo e sanguinoso cammino intrapreso da chi del lavoro ne faceva una bandiera ed una parola d’ordine. Pur comprendendo le difficoltà in cui versa il maggiore partito della sinistra e rispettandone il travaglio, a cui tutti noi assistiamo sbigottiti, ci saremmo aspettati dal neo segretario di quel partito, un discorso programmatico chiaro, preciso ed identitario tale da aprire una fase prepotente di riflessione sulla scia delle culture di riferimento a cui esso dovrebbe ispirarsi, quella socialista e quella cristiano sociale che tanto hanno fruttato in termini di lavoro e diritti connessi all’identità Costituzionale del nostro Paese. Il richiamo allo Ius Soli e il diritto di voto ai sedicenni sono argomenti che interessano il nostro mondo ma credo in subordine, e particolarmente in questo preciso frangente. Che cosa ne sarà di tanti giovani italiani di “cromia” diversa se le condizioni di chi dovrebbe lavorare restano immutate? È come se si volesse costruire la casa comune dal tetto. Certo il 44
fattore demografico non è irrilevante ma la sopravvivenza delle donne e degli uomini su questa terra non dipende dall’ Eden immaginato, fino a prova contraria l’umanità fu maledetta dal Creatore per aver trovato la strada più breve e comoda e se la memoria non mi tradisce disse pressappoco così “trarrai dal sudore e dalla fatica i frutti della terra” e dunque sarà il lavoro per tutta l’esistenza in vita ad assicurare prosperità e idee a beneficio di tutti. Anche il Figliuol Prodigo pronuncio queste parole: Date a Cesare quel che è di Cesare. A lume di naso sembra che questi concetti espressi, semplicemente, racchiudano le tesi fondative del nostro pellegrino in cerca d’identità. La storia è implacabile, si ripete, dalla falce e martello siamo giunti all’algoritmo e alla memoria artificiale ma i temi restano sempre gli stessi, ciò dimostra che la complessità è tanta, e sarebbe ora di farla finita con la semplificazione e le furberie
dei posizionamenti tattici di
convenienza. Chi ha dato prova di inaffidabilità invocando, presunti levantini rinascimenti e invidie per il costo del lavoro di certe latitudini, venga messo da parte e non faccia più ritorno nel mondo che non gli appartiene, lo spazio a cui aspira è in altre direzioni più consone al suo sentire. È il momento questo di riprendere il bandolo della matassa, legarlo a quel filo spezzato che si chiama Lavoro. Bisogna abbandonare la vista panoramica e asettica che i comodi pulpiti hanno consentito finora, e immergersi a piene mani nel letamaio putrido in cui versa il lavoro e i giovani. Farla finita con chi dal lavoro altrui trae profitti e accumula primati di evasione fiscale, contributiva e permette gli omicidi preterintenzionale sul lavoro. Le statistiche di Inail e Inps grondano morti impunite e bianche, di lavoro si muore quando c’è e si muore se non c’è perché si è ridotti alla fame e alla disperazione. La politica della nostra parte deve interpretare questi odiosi numeri, traducendoli in progetti di legge parlamentari, ascoltando chi si trova ogni giorno a masticare amaro, avere la forza di affermare i principi 45
inalienabili del diritto al lavoro sicuro e remunerato giustamente. La battaglia vinta dai ciclisti delle consegne ai quali era negata anche l’esistenza è un paradigma dei nuovi mestieri in cui l’algoritmo gestisce l’esistenza senza concedere nulla all’umanità e al diritto. La cosa spaventosa è che l’accesso alle istituzioni è stato consentito solo alla lobby dei padroni delle ferriere, le rivendicazioni di esistenza in vita di quei lavoratori erano state ignorate. Solo la forza nella testa, oltre che nelle gambe, di quei lavoratori raccolti da pochi volenterosi sindacalisti, è stata incanalata fuori dal voluto cono d’ombra nel quale il lavoro è stato cacciato. Il diritto è stato esercitato dai tribunali e dalle denuncie, la politica, pure la nostra, stava sul comodo pulpito a pontificare di cose che finge di non conoscere, interessata alla comodità o al design della poltrona da occupare tramite legge elettorale. Come anche la magnificenza dei colossi del commercio on line è stata smascherata dalle coraggiose denunce di pochi temerari lavoratori. Il compito della nostra, politica è di sporcarsi le mani, scendere nell’agone infernale del lavoro, vivere e partecipare con chi di lavoro vive aspirando legittimamente alla dignità del proprio stato. Solo cambiare il lessico può essere un viatico; via i circoli e spazio alle sezioni, polmoni e sentinelle territoriali capaci di interloquire con le istituzioni locali e con i sindacati, assistere e indirizzare, sintetizzare, gli interessi della maggioranza del Paese che vive di lavoro. La Cgil nel marzo del 2016 attraverso la consultazione degli iscritti e la raccolta di oltre due milioni di firme attivando i banchetti per strada, presentava la proposta di legge di iniziativa popolare detta “Carta dei Diritti Universali del Lavoro”. Quella proposta di legge è stata ignorata dal Parlamento della Repubblica. Il 22 marzo a distanza di cinque anni, con l’urgenza del Covid 19, i lavoratori di Amazon sulla scia di giuste rivendicazioni salariali, e contratti stabili, sono scesi in sciopero in tutto il mondo; sono 840.000 i dipendenti del colosso del commercio on line tutti insieme hanno 46
alzato la testa e la voce, anche se solo per un giorno, perché la paura di perdere il lavoro è tanta. 40.000 persone di quell’azienda in Italia hanno detto basta insieme ai loro rappresentanti sindacali. La Cgil ha avanzato una proposta e tentato di aprire una riflessione sull’argomento; vorrei essere smentito, ma quanti parlamentari, della nostra parte, hanno letto quel documento? Hanno tentato di discutere con il sindacato un argomento così importante per milioni di persone? Landini dichiara il 22 marzo giorno sullo sciopero: “Questo sciopero deve trasformarsi in atti concreti da parte del Governo e del Parlamento per riaffermare il principio che fare impresa nel nostro Paese vuol dire riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva nazionale e aziendale, e a un corretto sistema di relazioni industriali. Condizioni necessarie per ridare dignità alle persone, sconfiggere la precarietà e garantire lavoro di qualità”. Concetti che disegnano una idea nuova di lavoro, perfettamente consona per governare le spinte deleterie del capitalismo impalpabile. Ciò significa dare un corpo e un’anima a questi giganti invisibili che incombono sull’umanità, depredando anche le aspirazioni, le voglie, e le scelte che ogni individuo ha facoltà di esercitare liberamente. In ambito sindacale si sta discutendo di applicare anche in Italia il modello di contrattazione tedesco, ovvero della partecipazione dei lavoratori attraverso i loro rappresentanti nei consigli di amministrazione delle aziende; un sistema senza dubbio affascinante e sfidante. Ma senza una legge sulla rappresentanza, seria e vincolante per tutti, un tale salto di relazioni industriali il nostro sistema è in grado di reggerlo? Oggi in Italia ci sono circa 400 contratti di categoria collettivi, tantissimi detti pirata, chiedo quale operazione andrebbe fatta preventivamente? I sindacati hanno espresso un cauto ottimismo sul nuovo decreto sostegni che affronta la fase emergenziale, prorogando il blocco dei licenziamenti, resta essenziale riformare l’istituto della cassa integrazione e tutti quei provvedimenti che impediscano di depredare risorse 47
pubbliche per dirottarle all’estero. Costituire una legislazione unica europea sul lavoro è una condizione primaria. La brutta faccenda dei vaccini e lo strapotere delle case farmaceutiche sono esemplari. Il presidente del consiglio Mario Draghi non ha usato mezzi termini, ha definito la rottamazione leghista un condono, forse necessario, ma sempre un condono. L’evasione insieme alle mafie sono la peste del nostro Paese. Sul fronte fiscale l’Europa resta una armata Brancaleone, le multinazionali che costringono i cittadini del continente allo sciopero, vengono protette dalla fiscalità pulviscolare degli stati membri che proteggono le stesse, dalla fiscalità giusta e solidale. Non è concepibile, se non se ne ha la forza, di sperare in un abbuono del dedito concesso ora. La “miminum Tax” una sorta di patrimoniale imposta ai colossi multinazionali, ventilata dalla nuova amministrazione U.S.A. e spiegata dal Fondo Monetario Internazionale, convertito temporaneamente alla solidarietà globale, potrebbe essere un viatico convincente tale da assicurare gli investimenti idonei per un’economia più calibrata sul sociale. Ci piacerebbe che le forze progressiste mondiali e tra queste il PD, tracciassero un processo politico coraggioso e “rivoluzionario” concepito sui numeri della sofferenza. Gli indici sull’occupazione europea e quella dei sussidi di disoccupazione statunitensi sono implacabili, come tali sono i numeri del costante arricchimento di pochi. Questo è ciò che vorremmo che facessero, come donne e uomini di sinistra, i partiti che da tempo richiamiamo a declinare “cose di sinistra”. Trovare le risorse per dare forma concreta alle nostre idee è la necessaria condizione per continuare ad esistere. 48
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Cultura
Antigone e il Dogma Chiara TORTORELLI
Non anteporre mai nessuna norma esterna ai valori intrinseci dell’animo umano. Questo ci racconta Antigone, personaggio della tragedia greca nato dalla penna di Sofocle, e oggi quanto mai attuale e dirompente. Antigone, figlia di Edipo e Giocasta, figlia quindi di un rapporto incestuoso (Edipo e Giocasta erano madre e figlio) eredita da quel legame fuori dalle righe la natura eretica dell’animo umano. Sorella di Eteocle e Polinice, dopo la lotta che ha visto scontrarsi i due fratelli e l’uccisione di Polinice per mano del fratello Eteocle, lei scontrandosi col volere 50
dello zio Creonte, re di Tebe, vorrebbe seppellire il fratello, e dargli degna sepoltura. Per Antigone la legge dello Stato non può contrapporsi alla legge sacra del cuore, che è anche la legge dello Spirito, non dando un’adeguata sepoltura a Polinice si condanna la sua anima a non trovare pace neanche nell’Aldilà e questo è inaccettabile. Si scontra con Creonte e non cede alle minacce, decide di seppellire il fratello in gran segreto ma viene scoperta e condotta al cospetto del re di Tebe. Per Creonte la norma è tutto e va difesa con rigore e intransigenza, quindi il re di Tebe chiede alla nipote di rinnegare il fratello e di cedere all’odio ma Antigone risponde: “Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore”. E per la legge del cuore, per l’integrità della sua anima sarà disposta a morire. Antigone è un dramma che attraversa i tempi e si presta a essere letto in chiavi diverse. Una splendida rivisitazione ne fece Anouilh negli anni Quaranta, per dare un affresco sull’umana natura, sulla tendenza dell’uomo al servilismo e alla sottomissione. In Anouilh i personaggi del mito non riescono a comunicare tra loro, e dalla non comunicazione si evince l’assurdità propria della dimensione umana, della morte e del destino. Sembra quasi un gemellaggio con i romanzi Kafkiani, nel nichilismo che trasuda. Manca Tiresia e quindi si perde il legame profetico con la religiosità e la trascendenza, e ad Antigone viene tolto tutto, anche la dimensione ideale, perciò la sua a51
zione diventa “ostinata” e senza scopo e Creonte non è che un individuo preso in un meccanismo a lui ignoto, che lo fa girare come una marionetta. È interessante mettere in parallelo i due drammi, l’Antigone storica e l’Antigone del Novecento costruita su ciò che è la nuova polis, la nuova vita politica e sociale in chiave nichilista, quando viene privata del valore spirituale e trascendente, della chiave dell’anima e della vita interiore. E quindi quando ogni gesto anche il più nobile appare fine a se stesso e senza scopo. Come non legare questa comparazione ai nostri tempi? La riflessione di Antigone sembra quanto mai attuale in questo tempo storico, in questa società priva di valori fondanti dove ci troviamo a vivere e dove sembra sempre di più appannarsi la legge del cuore che è quella dell’empatia, del rispetto, del riconoscimento, quella che ci porta a considerare le ragioni dell’altro e che ci pone in ascolto della complessità dell’animo umano. Oggi la cultura tecnocratica, scientista e a volte spietata, privata della cultura dei valori, siano essi religiosi, etici o semplicemente umani, mira a ridurci ad algoritmi, a numeri, a macchine, trascurando le peculiarità del cuore, quelle leggi sacre del Cosmo e dello Spirito che raccontano la verticalità dell’approccio all’esperienza. Abbiamo costruito tutto su una chiave orizzontale, semplicistica, dove l’essenziale è stato reso banale e in questa chiave tutto è diventato schieramento, bene/male, sì/ no, giusto/sbagliato, abbiamo reso la psiche un luogo meccanico da indagare con strumenti diagnostici, dimenticando la chiave filosofica, la dimensione della domanda che non necessariamente prevede una risposta ma si definisce nel suo man52
tenersi aperta, e in quel suo accogliere pareri, opinioni “altre”, anche divergenti o dissonanti. La cultura della “ricetta” ha sostituito la cultura della riflessione, e assistiamo impotenti alla comunicazione propagandistica, costruita per fare effetto sugli slogan, sulle barricate, sulla violenza ideologica fine a se stessa. La violenza dello scalpo ha preso piede scalzando l’etica del confronto. Su questa base la norma non nasce più su una base democratica ma estrapolata dalla legge morale e dall’etica, dal fine spirituale, inteso come propriamente evolutivo e costruttivo, insito nella dimensione verticale dell’umana natura, diventa un’arma. L’arma della ricerca, impossibile perché cercata dove non potrà mai esserci, delle certezze e degli assoluti. La norma che nasce dalla paura farà parte del dogma, e sui dogmi si può costruire soltanto una cultura totalitarista, quella degli ordini ciechi a cui obbedire senza alcun discernimento, di cui ci racconta la Arendt ne “La banalità del male”. Antigone ci ricorda invece dalla notte dei tempi la “legge” della compassione, del sentire, non del dogma. Legge del cuore e Legge di Stato devono unirsi per creare ciò che si pone oltre il Dogma e diventa chiave di Etica e Giustizia. E se ascoltassimo la voce di Antigone, non esisterebbe più la logica stringente della dicotomia, per cui si idolatra un assoluto impossibile, il diverso diventa nemico e la parola si veste di violenza, ma potremmo fare di nuovo spazio all’Altro come portatore di ricchezza, dialogo e confronto.
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Società
Degustare il vino online? Si può, con lo Smart Tasting Veronica D’ANGELO
È partita a marzo dell’anno scorso, a inizio lockdown, l’iniziativa di un imprenditore vinicolo piemontese di stappare ogni giorno una bottiglia di vino, degustarlo e raccontarlo in diretta su Facebook. L’idea, battezzata con l’hashtag #Stappatincasa, è stata subito un gran successo e dopo un po’ sono partite le interviste con produttori e personaggi legati al mondo del vino, che accompagnavano le degustazioni con storie e aneddoti. Da allora i video e le dirette sulle pagine Facebook e Instagram in cui si raccontano le aziende vinicole e si degustano i loro vini si sono moltiplicati, incontrando il favore di enoappassionati e curiosi che ascoltano e seguono produttori, esperti ed influencer mentre fanno roteare i calici e procedono alla analisi sensoriale del vino. Ma la vera novità di quest’ultimo anno, frutto del perdurare delle restrizioni sociali da pandemia, è il cosiddetto Smart tasting o Web tasting, 54
cioè una degustazione di vino fatta online con un esperto, destinata a chi ha voglia di non essere solo spettatore, ma di partecipare con un bicchiere pieno tra le mani senza però muoversi dalle mura domestiche. In pratica si sceglie il tipo di degustazione da acquistare, si ricevono le bottiglie in anticipo direttamente a casa e si ottiene un link che rimanda a un video registrato o un sistema di videoconferenza online. Al momento opportuno, collegandosi, un esperto aprirà la nostra stessa etichetta e ci condurrà all’assaggio del nettare di Bacco, descrivendo sentori e sapori del vino che abbiamo appena stappato tranquillamente seduti sul divano. Comodo, vero? Per trovare queste wine experience, che possono comprendere oltre al vino anche prodotti gastronomici in abbinamento, basta fare una ricerca sul web, essendo ormai piuttosto diffuse. Le proposte provengono direttamente dalle aziende vitivinicole oppure da siti specializzati, come ad esempio Cantine.wine o Divinea, nonché da alcune sedi della Associazione Italiana Sommelier che stanno utilizzando questo sistema per incontri di approfondimento e corsi di avvicinamento al vino. Insomma, lo Smart tasting permette di continuare le degustazioni di vino anche a distanza in un momento in cui abbiamo fortemente bisogno di coltivare interessi, avere stimoli e distrazioni mentali a domicilio. Ma cosa succederà quando finalmente potremo riprendere la vita sociale, frequentare un corso o recarci personalmente in cantina? Le abitudini acquisite durante la pandemia avranno consolidato un nuovo mercato di esperienze “virtuali”, che manterrà il suo spazio tra coloro che hanno difficoltà a spostarsi o che semplicemente si sono abituati alla comodità delle degustazioni casalinghe così come al food delivery? O al contrario queste esperienze perderanno fascino di fronte alla possibilità di visitare una cantina e percepire l’emozione di un produttore o di un sommelier mentre assaggia il vino che ha versato? Ai posteri l’ardua sentenza, come si suol dire. Intanto, preparate i vostri calici e… buona degustazione in salotto! 55
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Vaticano
Francesco di nome e di fatto Rosanna Marina RUSSO
Guadagnare meno guadagnare tutti, parafrasando. Questa la scelta del papa. E non era affatto semplice discriminare tra ciò che è bene e ciò che è meglio e trovare la soluzione più accettabile. Ma è quello che fa un leader. E Papa Bergoglio è più di un leader di passaggio, è un sovrano assoluto, che ha scelto il nome Francesco perché, come lui stesso ha detto: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri”. Ma è anche una sorta di manager che, per portare avanti le sue opere di carità, deve saper gestire dei fondi. Che scarseggiano. 57
Il Vaticano è indebitato, probabilmente anche per delle irregolarità durante alcuni pontificati, ma Papa Francesco non è tipo da recriminare. Perciò, da tempo, ha avviato una nuova politica di amministrazione non solo per alleviare il deficit, ma anche per rendere la gestione finanziaria più agile, più efficiente e più autosufficiente e, quindi, avere più risorse disponibili per aiutare i poveri e i disagiati. Fa dunque i conti con la crisi economica già presente, aggravata a causa del COVID, e con la sostenibilità economica futura dello Stato del Vaticano. E i conti non tornano. Quest’anno il Vaticano chiuderà in rosso di 50 milioni a causa del crollo delle entrate del 30%, entrate che venivano soprattutto dai Musei Vaticani e che si sono ridotte drasticamente. Pertanto, con una lettera apostolica in forma di “Motu proprio” Francesco ha preso delle decisioni di contenimento della spesa, radicali ma necessarie per scongiurare i possibili licenziamenti. E motiva le risoluzioni con il: “disavanzo che da diversi anni caratterizza la gestione economica della Santa Sede” e soprattutto con la situazione venutasi a creare a causa della pandemia “che ha inciso negativamente su tutte le fonti di ricavo della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. Il papa decide di sua iniziativa, perché secondo il Codice di Diritto Canonico può farlo, in quanto dotato di tutti i poteri per esercitare sovranità immediata su tutta la Chiesa universale. E dispone il taglio degli stipendi dei dipendenti vaticani, proporzionale e progressivo. Così, mentre ancora noi ci chiediamo se una patrimoniale sia lecita, il papa per un certo verso la attua: più si guadagna e più la percentuale tolta è gravosa. Quindi un ridimensionamento delle retribuzioni del 10% ai cardinali, dell’8% ai capi dicastero e ai segretari e del 3% a sacerdoti, religiosi e religiose in servizio presso la Santa Sede. E tutti i dipendenti, eccetto i laici, vedranno bloccati gli scatti 58
di anzianità fino al 2023. Ma, come spiega Vatican news, “Questo blocco riguarderà i dipendenti dal quarto livello in su e dunque non toccherà gli stipendi più bassi”. In più nella lettera è specificato che questi tagli non sono applicati “qualora l’interessato documenti che gli sia impossibile far fronte a spese fisse connesse allo stato di salute proprio o di parenti entro il secondo grado”. Le categorie meno fortunate sono perciò salvaguardate. Sarebbe interessante capire se in uno Stato diverso dal nostro i controlli vengono attivati. Ma, potremmo chiederci, era necessario arrivare a questo? La Chiesa non è ricchissima di suo? In un certo senso sì. Ma quasi tutto ciò che possiede non può essere spendibile. Se da una parte è vero che nei suoi musei ci sono alcuni dei più grandi tesori artistici del mondo, accumulati in 2000 anni di storia della cristianità, è altrettanto vero che non possono essere venduti. Nel 2015 chiesero a papa Francesco se non sentisse talvolta la necessità di vendere i tanti tesori per aiutare gli altri. La sua risposta fu chiara: “Questa è una domanda facile. Non sono tesori della Chiesa, sono tesori dell’umanità”. La stessa impossibilità di fruizione, anche se per ragioni diverse, esiste per edifici e terreni: sebbene la Chiesa sia presente in tutto il mondo, questi non appartengono al Vaticano. Le diocesi e i 296 ordini religiosi diffusi ovunque sono i proprietari di questi beni immobili e li amministrano per conto loro. Ciascuna “succursale”, circa 2800 diocesi, è un’entità separata, amministrativamente indipendente, con il suo proprio bilancio. La Chiesa è decentralizzata da un punto di vista economico; si può di fatto dire che il Vaticano sta per conto proprio. Ovviamente queste diocesi mandano ogni anno denaro al Vaticano, destinato, in maggioranza, alle attività missionarie o attività meritorie sostenute dal Papa, ma questa somma è meno del 4,5% delle entrate totali. 59
Persino i regali che riceve in gran quantità, il papa preferisce usarli per finanziare le sue opere di carità. Per esempio, nel 2014 l’azienda americana Harley-Davidson gli regalò una motocicletta. Papa Francesco firmò il serbatoio del carburante e la regalò alla Caritas romana. La moto fu venduta all’asta per 210.000 euro e il denaro usato per restaurare un asilo per senza tetto e una mensa. Ci sono poi molte spese che producono poco o niente: la Radio Vaticana che, per mantenersi operativa, conta su 330 impiegati e spende 37 milioni all’anno, raccogliendo in cambio meno di un milione in pubblicità; le Nunziature Apostoliche, ambasciate in 113 nazioni, che per funzionare hanno bisogno di oltre 30 milioni di dollari all’anno; le circa 2000 abitazioni affittate a gente che lavora in Vaticano a prezzi inferiori a quelli di mercato. Insomma, Il Vaticano è una città che deve avere entrate congrue non solo per sopravvivere, ma per avere la possibilità di donare e queste provengono dagli ingressi di turisti e pellegrini ai musei, per circa 130 milioni di dollari l’anno, da donazioni per circa 85 milioni di dollari l’anno e da investimenti in azioni, obbligazioni e oro, per 920 milioni, che fruttano tra i 15 e i 25 milioni di dollari. Tutto relativamente poco per pagare i debiti. Il Papa però ha chiaro il suo progetto e reputa la missione della Chiesa prioritaria, a costo di qualsiasi sacrificio, perché è lungimirante e guarda in prospettiva, inquadrando la problematica nell’ambito di “una sostenibilità economica”. “Un futuro sostenibile economicamente”, scrive nella lettera apostolica, “richiede oggi, fra altre decisioni, di adottare anche misure riguardanti le retribuzioni del personale”.
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In un momento di difficoltà il Papa chiama tutti a raccolta e impone una forma di tassazione di solidarietà a tempo indeterminato. Ma perché il Papa ha agito proprio sugli stipendi? Semplice: quasi i 2/3 delle spese sono per gli stipendi di circa 4000 persone e tra queste figurano, come abbiamo visto, anche cardinali, arcivescovi, capi di dicastero o di pontifici consigli. Salari che vengono distribuiti grazie al fondo del Clero istituito all'Inps. Ma noi, maliziosamente, potremmo chiederci se il Papa si è escluso da questa operazione tagli, se ha agito sul suo stipendio. E magari sapere quest’ultimo a quanto ammonta e, in definitiva, quanto guadagnano i papi. In realtà non c’è una retribuzione fissa: Joseph Ratzinger percepiva una rendita di 2.500 euro, cifra che, volendo, poteva integrare con i diritti dei tanti libri pubblicati come teologo. Francesco, invece, non riceve alcuno stipendio perché così ha voluto: in un certo senso si è autotassato prima di tassare gli altri. Ha dato l’esempio “come un buon padre di famiglia”, si direbbe nel nostro ordinamento. Certo ha la facoltà di attingere liberamente all'Obolo di San Pietro, un fondo istituito presso lo Ior, l’Istituto per le Opere di Religione, che raccoglie le donazioni in arrivo nella data del 29 giugno, ma sempre con lo scopo di sponsorizzare tutti i progetti benefici a lui più cari. Niente da fare o da dire: ha scelto di essere e non solo di chiamarsi Francesco. Nomen omen, ma non come destino: come scelta. 61
Tecnologie
Un fiorino Antonella BUCCINI
Sono una semianalfabeta digitale. La premessa vale come confessione ma solo per agevolare una sorta di equidistanza dai fatti anche se quel “semi” tradisce una certa autoindulgenza. Ma qui, ad ogni modo, si deve confidare nella buona volontà di chi legge nei confronti di chi scrive. I fatti sono questi. Da tempo, molto tempo, indugiavo su un problema che prima o poi avrei dovuto affrontare. Il prima non arrivava mai, sempre il poi. Ancor più quando mi aggiravo nei pressi dell’ufficio postale dove sostavano per ore file e file di utenti in attesa di udienza. La soluzione del problema passava di là e io giravo alla larga, anzi ad un certo punto evitavo quel percorso come chi vuole sfuggire a brutti ricordi o, come nel mio caso, ad ancor più brutti presentimenti. Intanto chiedevo ad amici e conoscenti, cogliendo al volo l’opportunità nel corso delle consuete conversazioni covid: tu come hai fatto? Come si procede? Hai atteso a lungo? Tutti, chi più chi meno, mi rispondevano con 62
una certa sufficienza minimizzando la portata della cosa, ma io sospettavo l’intenzione di umiliare le mie capacità o esaltare le loro, non so. Infine, una mattina mi sono alzata dopo una notte complicata, forse troppe serie tv. Non so se è stata la veglia notturna ma avevo le idee chiare, ci avrei provato, anzi ero proprio risoluta, ci sarei riuscita. Mi sono seduta al pc e ho digitato: richiesta SPID!!! L’unico sistema digitale per l’accesso ai servizi on line della pubblica amministrazione. Mi sentivo come John Wayne che sale spavaldo sulla diligenza ignorando però l’ineluttabile attacco degli apache. Sono, dunque, giunta al sito dedicato. Il primo ammonimento è stato di procurarmi a portata di mano la tessera sanitaria, il codice fiscale e un documento di riconoscimento. Bene, mi sono detta provocatoria, mostrando le tre tessere al mio invisibile interlocutore: ce l’ho! E ora via, si parte. Scorrevano sullo schermo, come dal finestrino della diligenza: SCEGLI il gestore …. in presenza o con CIE? Con CIE occorre il SOFTWARE specifico … allora no in PRESENZA … ma puoi copiare sul BROWSER, credenziali!!! CREDENZIALIIII … Dimenticata password? DIMENTICATA VERO??? INSERISCI il numero inviato con sms! INSERISCIIII !!! Puoi recarti all’ufficio postale … Vuoi? RISPONDI!!! Gesù! Ma non mi sono arresa. Fino a quando … fino a quando…. Sono arrivati gli apache!!! Ero a metà arrampicata ma qualcuno mi dice di allegare i documenti fronte retro, previa scansione, ovviamente (questo l’avevo capito!). Dunque allego. Ci provo. Ma il programma mi dà ERRORE! Leggo meglio: il fronte e il retro del documento devono essere allegati con due file DISTINTI!!! E io ne avevo uno, solo UNO! E a questo punto che scocca la freccia apache. Ho visto tutto bianco. Mi è venuto un calo degli zuccheri! “Chi siete? Cosa Portate? Si ma quanti siete? Un fiorino!” Ecco come mi sono sentita. Troisi in Non ci resta che piangere davanti all’esattore ingrippato. Solo che non sapevo a chi destinare la battuta finale di Troisi (va fanculo). Davanti 63
a un caffè ho pensato che questo paese non ci merita. Se questa è la digitalizzazione della pubblica amministrazione meglio morire. Risale al 1968 la legge che in Italia vara il principio e poi i criteri di semplificazione secondo i quali le pubbliche amministrazioni non possono chiedere ai cittadini documenti di cui sono in possesso. Sono stati necessari almeno 40 anni per adottare la pratica dell’autocertificazione che pure non esaurisce il problema. Perché lo Stato mi richiede ancora di identificarmi, MI CONOSCI, mi hai fornito tu tutti i documenti, SAI TUTTO DI ME! Altrimenti non comprendo come mai la tessera sanitaria mi arriva a casa e lo SPID no! Le procedure informatiche poi! Espressione di un’anima perversa, di un essere bipolare che pianifica piattaforme nella fase down e pretende due file diversi per lo stesso documento! PERCHE’?!!! Mi sono chiesta esausta davanti al mio caffè quale destino è riservato ad un anziano solo che non ha nessuna idea della innovativa depravazione informatica! La semplificazione! Questo è un paese di vecchi ma non per i vecchi, in verità neanche per i giovani, loro però possono ancora fuggire. Ps: dopo 15 gg, sbollita la rabbia, ci sono riuscita e ogni tanto ripenso allo SPID come a un trofeo conquistato senza spargimento di sangue! 64
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Cultura
In tempi d’incertezza, un grazioso fumetto ci riporta la certezza Anita NAPOLITANO
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“My son is probably gay “è il nuovo fumetto del Mangaka giapponese Okura, il primo volume è dal 7 aprile nelle librerie italiane. Il fumetto, che nasce come web comic postato su twitter e poi successivamente serializzato sulla rivista Gangon Pixin Square Emix, racconta la quotidianità di Hiroki, il protagonista adolescente che cerca di nascondere alla sua famiglia la sua identità, il suo orientamento sessuale, mostrando tutto il suo imbarazzo a non riuscire ad essere se stesso. La storia è narrata attraverso gli occhi della madre di Hiroki, Tomoko, una donna amorevole e di mentalità aperta, che ha intuito la condizione del figlio, e osserva in silenzio, aspettando e sperando che sia Hiroki a mostrarsi naturalmente per quello che è. Gli altri personaggi sono il fratello minore YuUki più scontroso, ma molto legato a Hiraki e il padre che lavora lontano da casa, ma riesce ad essere attento alla vita familiare. Le vicende vengono narrate con leggerezza tanto da essere comiche, soprattutto per le gaffe di Hiroki che vengono accolte dalla madre con la dolcezza di chi ama incondizionatamente: una madre comprensiva che riesce a non inibirlo per spronarlo a sentirsi libero. Questo fumetto può definirsi una commedia garbata; un tema difficile come il coming out, viene toccato con leggerezza e semplicità in quanto amore ed empatia dovrebbero essere le chiavi di accesso alla difficoltà della comunicazione tra genitori e figli. Perché leggere questo fumetto fresco di stampa? Perché tratta di uno dei diritti fondamentali dell’essere umano: il diritto di libertà e di uguaglianza (art.3 della Costituzione) in particolare il diritto di essere accettati qualunque sia l’orientamento sessuale, inoltre è interessante come per tutta la narrazione la diversità è trattata come una risorsa da valorizzare, liberandosi delle paure.Le parole che definiscono questo grazioso fumetto sono: Amore, Empatia, Rispetto che sono sufficienti per perdersi con leggerezza nella lettura di “ My son is probably gay”. 67
Racconto
Diritto alla felicità Lucia COLARIETI
Le case di Licola mare s’infilano tra i canneti del litorale in mezzo a strade polverose di sabbia, sono costruzioni basse corrose dalla salsedine, l’aria salmastra pervade i cortili tristi e il lungomare è costeggiato da una sequela di stabilimenti balneari che chiudono la vista all’orizzonte. Il piccolo borgo a mezz’ora di auto dalla grande città potrebbe essere una ridente cittadina, dal clima temperato e luogo di riposo e contatto con la natura, ma non lo è. Le strutture ricettive, che d’estate raccolgono i cittadini in cerca di refrigerio, si erigono come castelli protetti da mura e reti, all’esterno rimane lo squallore di una società civile che non c’è. 68
Santino ha nove anni e il cappuccio della felpa calato sulla testa, nel vento gelido di novembre cammina accostato alle cancellate che costeggiano la strada, la penna a sfera tintinna, il bambino la trascina sul ferro, in una cantilena ritmica che lo accompagna nel silenzio di un pomeriggio invernale. La penna sarebbe servita per i compiti, gli era rimasta in mano mentre scappava dalla stanza al pianterreno dove vive, nell’altra mano stringe ancora la fotocopia della scheda che gli ha dato la maestra: “Giornata mondiale dei diritti dei bambini”, c’è scritto a caratteri grandi. Stava tentando di comprendere quelle parole difficili quando la mamma, che anche quel pomeriggio era ubriaca, aveva cominciato a inveire contro il suo compagno, tra gli strilli di pianto dei fratelli più piccoli. Santino è abituato alle scenate dell’uomo, solo l’ultimo di una lunga serie di cui ha rinunciato anche a ricordare i nomi, che urla parole oscene e finisce per scaraventare oggetti in giro per la stanza, perciò ha imparato a fuggire il più presto possibile. Scappa furioso e si sente in colpa, suo padre ha un’altra famiglia e lui è grande, dovrebbe difendere la mamma e gli altri bambini più piccoli. Il ritmo ossessivo della penna incalza, cresce con la forza dei pensieri oscuri e si spezza improvviso alla fine della ringhiera. Santino è giunto dinanzi ad un cortile aperto, una canzoncina arriva dall’edificio rosa in fondo, la melodia entra nei suoi pensieri e con limpidezza gli mostra ciò che lui non vorrebbe vedere: non ha nessuna voglia di difendere quella donna. Si sente ancora più in colpa. Lo sguardo gli cade sul foglio che ha in mano, in quel pomeriggio sarebbe solo felice di poter compilare bene la scheda per la maestra, ma non immagina nessuno che possa aiutarlo, pensa con le lacrime che bruciano trattenute con rabbia. 69
Dal portoncino della palazzina spunta una testa coperta da un velo grigio. Santino ha visto tante volte quelle suorine, insieme ad alcuni ragazzi, prelevare e accompagnare i bambini. Arrivano sempre dopo pranzo e li portano in quella casa che appare magica, i piccoli ne escono allegri e poi eseguono sempre tutto l’assegno senza essere costretti ad aprire libri e quaderni a casa. Gli sembrano felici, mentre per lui è sempre complicato fare i compiti; l’unico tavolo della stanza è spesso invaso da piatti sporchi e rifiuti, e poi c’è qualche fratellino che piange, a volte si deve alzare per aiutare la mamma ad andare a letto, la luce è poca e d’inverno si trema dal freddo. La suora lo guarda con un sorriso dolce. «Vieni Santino» gli dice avvicinandosi «c’è troppo vento qua fuori, vieni dentro a prendere una cioccolata». Santino sporge la mano con la scheda, non sa quali parole potrebbe usare, non le ha mai dette. «Vuoi che ti aiuti? Dentro ci sono le ragazze, ci sono anche i colori per la scheda, vieni, entra». La donna lo conduce verso la stanza dalla quale proviene un dolce tepore e le voci di altri bambini. «Dopo chiamo la direttrice» dice la suora ad una giovane china su un tavolino. «Va bene» risponde l’altra «Speriamo che ci sia posto per lui». «Glielo chiedo, mi sembra che Santino abbia tanta voglia di stare con noi tutti i pomeriggi». «Sì» conclude la giovane sorridendo «Credo che ne abbia proprio il diritto».
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