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Il futuro non è scritto IV trimestre 2020 — €20
Gli Stati Uniti, domani
4 RELAZIONI:
Ceci nʼest pas un édito
Testo Stefano Lai
La storia di Relazioni: è iniziata facendo l’elenco di ciò che non volevamo essere e quindi anche queste prime pagine, che tradizionalmente dovrebbero essere un editoriale, non lo saranno. Come aveva già suggerito Montale, tutto quello che oggi possiamo dire è ciò che non siamo e ciò che non vogliamo, ma eliminando da questa frase ogni senso di resa: rifiutando l’abitudine a tutto ciò che c’è, la nostra è in realtà un’affermazione, è la volontà di ricercare e rendere possibile tutto ciò che non c’è ancora. Non leggerete quindi le promesse del direttore, il patto con i lettori, le rituali professioni di imparzialità. Relazioni: sarà parziale, prenderà posizione e si schiererà, seppure partendo dall’intenzione di aprirsi a (quasi) tutti. RELAZIONI: 5
La forza del pappo Il pappo del tarassaco comune – noto anche come “dente di leone” o “soffione” – è una perfetta metafora vegetale delle relazioni. I pappi, sottilissime appendici piumose, compongono l’infruttescenza del fiore, la palla bianca – bellissima e fragile, un prodigio di equilibrio dinamico – che rende famosa la pianta. Basta una leggera brezza, però, perché la palla si rompa, disperdendosi nel vento. Sembrerebbe la fine, ma non lo è, al contrario: proprio grazie al pappo, che fa da paracadute, i semi viaggiano nell’aria e si posano sul terreno creando un nuovo tarassaco. Cosí accade alle relazioni: sono belle e fragili, è facile romperle e disperderle, ma dalla loro apertura e moltiplicazione nascono altre reciprocità, si creano reti di relazioni in costante divenire. La forza del pappo è la stessa delle relazioni: utilizzare la propria flessibilità per generare continuamente qualcosa. Ogni articolo, ogni immagine della pubblicazione vuole essere un pappo che accompagna nel vento un’idea, un’osservazione, un pensiero che produce nuove relazioni.
Aaron Tilley è un fotografo di still life e adotta un approccio concettuale che mescola perizia tecnica e ironia. Ha pubblicato, tra gli altri, per “The Gourmand Journal”, “Kinfolk Magazine”, “Creative Review”, “Vogue Italia”, “Hunger Magazine” e “Vanity Fair”. Set designer: Sandy Suffield.
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Ogni storia ha il suo c’era una volta, e anche la storia di Relazioni: ce l’ha. C’era una volta non un re, e nemmeno un pezzo di legno, ma un gruppo di comunicatori, persone dalla carriera brillante, guru della comunicazione, liberi professionisti, fondatori di agenzie di consulenza, top manager di grandi aziende. Intorno a febbraio del 2020 questo gruppo di persone decise di incontrarsi per riflettere insieme su un tema che era legato alla professione, ma non solo. La riflessione ruotava intorno alla consapevolezza che ognuno nel proprio campo, attraverso percorsi diversi e spesso indipendenti, aveva accolto con entusiasmo e favorito la globalizzazione, ma l’aveva fatto in modo acritico, senza curarsi degli effetti negativi. Di fronte a questa sensazione condivisa, la domanda da porre a noi stessi era fondamentalmente questa: possiamo fare qualcosa di meglio? Questo è l’interrogativo che ha fatto nascere e guiderà Relazioni: abbiamo favorito la creazione di questo mondo, come possiamo rendere possibile la nascita di un mondo migliore, piú giusto e meno lacerato dalle disuguaglianze? Non si tratta di rinnegare la globalizzazione, che resta un evento per molti aspetti positivo, ma di cominciare a considerare anche le conseguenze controverse e apertamente critiche per individuare soluzioni possibili.
Relazioni: sarà parziale, prenderà posizione e si schiererà, seppure partendo dall’intenzione di aprirsi a (quasi) tutti.
Le nuove generazioni, ma anche la generazione di coloro che hanno occupato negli anni della globalizzazione trionfante i vertici delle organizzazioni, si sono adeguate in fretta alla politica economica dell’obiettivo da raggiungere nel minor tempo possibile, della progettualità schiacciata sul trimestre, perdendo cosí di vista gli obiettivi a lungo termine, la visione delle imprese e delle istituzioni, gli effetti nel medio periodo delle decisioni prese sotto la tirannia dell’hic et nunc. Questo schiacciamento sul presente è una delle criticità della nostra epoca, come lo è l’affievolirsi delle competenze, che riguarda da vicino i ruoli, le professioni e le azioni legate alla comunicazione. In un mondo in cui tutto è comunicazione, rischiano di perdersi lo studio e l’uso consapevole degli strumenti della comunicazione. Ma qualcosa di analogo accade in tutte le professioni: le competenze e le conoscenze specifiche che dovrebbero guidarle e orientarle tendono a svanire e a diluirsi in una nebulosa di azioni casuali, senza direzione e senza qualità. Ecco dunque un’altra serie di domande che Relazioni: vorrà condividere con la propria comunità: perché è avvenuta l’evaporazione delle competenze? Si può invertire la spirale di dequalificazione che ha provocato il crollo delle capacità professionali, la smobilitazione dei sa-
peri, la crisi delle classi dirigenti che è sotto gli occhi di tutti? Un equivoco enorme e tragico ha investito il nostro mondo negli ultimi anni, ovvero la convinzione che la negazione delle competenze fosse un gesto democratico. Non è cosí, e le conseguenze nefaste di questo convincimento stanno emergendo in modo drammatico: un mondo in cui le competenze rinunciano a mediare processi e conflitti è un mondo piú ingiusto, piú violento, piú diseguale. Disgregata l’impalcatura delle competenze, i regimi sociali contemporanei e i loro modelli rischiano di implodere, portando con sé le istituzioni democratiche e i sistemi di protezione degli individui, soprattutto dei piú deboli. Preso atto di questa situazione, come produrre i cambiamenti necessari a invertire la tendenza? Solo trasformando le relazioni tra persone, organizzazioni, istituzioni, e quindi rimodellando l’ambiente in cui viviamo in quanto insieme di tutte le relazioni che lo attraversano. È urgente tornare a progettare la comunicazione per non essere progettati dalla comunicazione. Nessuno come i comunicatori ha il potere di influenzare e correggere la gestione delle relazioni. Nessuno come loro è in grado di vedere le conseguenze delle azioni, analizzare gli effetti di lunga durata delle decisioni.
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Tutti questi problemi dovevano essere discussi a febbraio, in un incontro tra una trentina di specialisti ma, come è successo a gran parte delle nostre vite negli ultimi mesi, anche questo appuntamento si è trasformato in un evento digitale, una serie di incontri cominciati il primo di aprile. Nascevano cosí gli Aprilanti, che prendevano il nome dalla data fatidica e da un termine proverbiale: “Quattro aprilante, quaranta dí durante”. Il tempo che fa il quattro di aprile, secondo la saggezza popolare, durerà per quaranta giorni. L’immagine è piaciuta subito ai partecipanti: tutti volevano che le idee scambiate quel giorno durassero ben oltre il primo di aprile, fossero capaci di imprimere una direzione al corso futuro delle cose. In fondo il mese di aprile contiene nel suo etimo l’idea dell’apertura; apre la nuova stagione, è l’inizio di qualcosa, e in molti calendari antichi coincideva con l’inizio dell’anno. In questi sei mesi di vita gli Aprilanti hanno promosso alcuni webinar e hanno gettato le basi per la nascita di un vero e proprio movimento. Uno dei primi Aprilanti è anche l’editore di questa pubblicazione periodica, che ha sentito la necessità di far scaturire dalle discussioni e dai seminari virtuali qualcosa di fisico, di solido, un oggetto da toccare e da far passare di mano in mano. Alcuni lo hanno seguito, altri lo hanno guardato con lo stesso sguardo misto di curiosità
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e paura degli spettatori del circo Freaks, nell’omonimo film di Tod Browning. In fondo qualcuno che nel 2020 vuole realizzare un prodotto stampato deve avere qualcosa del freak. E allora può scegliere di sentirsi isolato e mettersi a tacere, oppure di coinvolgere altri freak come lui, capaci di trovare nel progetto un intento comune: contribuire a scrivere il futuro, che non è mai già scritto. Ci piace pensare che, come nel film di Browning, i veri freak siano coloro che credono di essere “normali”, coloro che credevano che questo progetto non dovesse nascere. Per definire Relazioni: siamo partiti, si diceva, dall’elenco di cose che non volevamo diventasse: la prima della lista era un manuale delle pr. Ce ne sono già troppi, e spesso sono la causa dell’impoverimento della professione. Non un manuale, dunque, ma uno stimolo, uno strumento che possa aiutare a comprendere i fenomeni, decifrare il cambiamento, rinunciare a essere elitari, per esempio snobbando gli influencer perché troppo popolari, senza aver capito l’origine e le motivazioni profonde della loro popolarità. Vogliamo realizzare uno strumento che, mentre collabora alla comprensione del cambiamento tecnologico, culturale e cognitivo che stiamo attraversando, riesca anche a tenerne il passo. Oggi come non mai ci serve un pensiero veloce capace di diven-
Un equivoco enorme e tragico ha investito il nostro mondo negli ultimi anni, ovvero la convinzione che la negazione delle competenze fosse un gesto democratico. Non è cosí.
tare prospettico. Il futuro non è scritto significa anche che non sarà modellato soltanto dagli strumenti e dai valori della cultura alfabetica cui siamo piú abituati. Ogni pubblicazione immagina i propri lettori, e Relazioni: non vuole che i suoi siano solo i comunicatori, i pr o i tessitori sociali, come vengono definiti sempre piú spesso, e giustamente, i professionisti delle relazioni. Ci rivolgiamo a tutte le persone che vogliono contribuire a scrivere un futuro migliore del nostro presente, perché sono loro il pubblico della comunicazione, loro la società che tesse la propria tela. Le persone che prendono decisioni nelle aziende pubbliche e in quelle private, nelle istituzioni, nei corpi intermedi. Vogliamo che ognuno prenda spunto dalle esperienze raccontate qui e rifletta sulle conseguenze durature delle azioni che sta avviando, non solo sul vantaggio immediato e spesso effimero. Vogliamo che gli spunti e gli sguardi che riusciremo a mettere insieme possano aggiungere valore alle decisioni e alle azioni dei top manager. Vogliamo far emergere le relazioni che restano implicite nei processi decisionali: oltre l’oggetto immediato della propria azione, esistono tanti soggetti interconnessi, ed esistono relazioni con la storia, con il territorio e l’ambiente, con le persone, con i concorrenti. Tutti noi gestiamo relazioni, con i familiari,
con il panettiere sotto casa, con i collaboratori, con chi prende decisioni per noi. La nostra intenzione è fare in modo che le relazioni siano consapevoli, progettate, non dominate dagli automatismi; che riconoscere il valore di ciò che sta fuori dal nostro io sia una consuetudine e non un’eccezione. In questo senso il lavoro dei comunicatori può e deve essere centrale perché sono loro che per mestiere e per competenza gestiscono le relazioni e possono essere di aiuto agli altri. La comunicazione dovrebbe recuperare un ruolo piú strategico e meno esecutivo, e vorremmo che le analisi proposte e le storie raccontate da Relazioni: servissero ad aumentare nei comunicatori la consapevolezza di essere costruttori di futuro, non semplici “copisti” delle decisioni altrui. Bisognerebbe elencare le persone che hanno contribuito a creare Relazioni:, ma il concerto di voci, idee, discussioni e stimoli che ha reso possibile questo progetto è talmente vasto che finiremmo sicuramente col dimenticare qualcuno. Abbiamo deciso di ringraziare tutti quelli che sanno di averci dato qualcosa. L’ultimo pensiero riguarda tutti noi che lavoriamo per Relazioni:. Ci abbiamo messo impegno e fatica perché vogliamo fare qualcosa, non vogliamo stare fermi a guardare il mondo che non ci piace. Vogliamo trasformare la negazione in affermazione. Il futuro non è scritto. ◊
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Contenuti Gli Stati Uniti, domani
16 La versione di Chomsky a cura di Luca Mastrantonio 26 Il voto negli Usa di Marco Bardazzi 28 Se vota il gemello (digitale) di Maria Pia Rossignaud e Derrick de Kerckhove
La prossimità e la distanza
46 L’abisso americano di Franco Berardi Bifo 54 Galleria: Found Photos in Detroit di Arianna Arcara e Luca Santese
36 Il miglior nemico di Simone Pieranni
62 Ditegli sempre di sí! Chill’è pazzo! di Alessandro Carrera
74 Una diversa postura di Alberto Abruzzese
104 Milano e la sfida dell’Europa a cura di Stefano Lai
80 Mettersi in mezzo di Aldo Bonomi
112 L’utopia dello spazio: ridefinire le relazioni a cura di Giacomo Pedini
88 Ridurre le disuguaglianze: la chiave del nuovo sviluppo di Patrizia Luongo
La comunicazione al tempo del Covid-19
41 Graphic Novel: Not funny di Gianluca Costantini e Franco Berardi Bifo
118 Spazi di vita, spazi di consumo di Maura Latini
96 Aprire il carcere di Gloria Manzelli
122 Assemblee in remoto di Susanna B. Stefani
130 Curiosi di mondi diversi di Adriana Mavellia
152 Oltre l’innovazione di Luca Barbieri
134 Un fiume di parole. Zone d’ombra della comunicazione pubblica di Stefano Rolando
158 La comunicazione al tempo della pandemia di Massimo Tafi
142 L’altro contagio: Europa e infodemia di Valentina Parasecolo
162 Gestire la crisi, comunicando di Biagio Oppi
146 Storie dal fronte della cura di Walter Bruno
Rubriche
4 Editoriale a cura di Stefano Lai
166 Il futuro delle relazioni a cura di Aprilanti
12 Hanno collaborato
168 Roger di Elisabetta Gola e Mario Pireddu
13 La foto di Ruby Okoro 15 TIP di Paolo Gervasi 70 Kafka-Hag di Guido Vitiello 128 2099 di Giacomo Pedini
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169 La stanza di Sally di Sally Swainston 170 La penultima parola di Davide Rampello 176 Ultimo tratto di Giona Maiarelli
IV trimestre 2020
Direttore responsabile Stefano Lai stefano.lai@relazioni.eu Editor Alessandra Maiarelli Copy editor Paolo Gervasi Progetto grafico Maiarelli Studio Creative Director Giona Maiarelli Art Directors & Graphic Design Stefano Lucchetti Alessandro Molent Photo editor Alice Sossella Relazioni:live Giacomo Pedini Redazione Jacopo Donati redazione@relazioni.eu
16 La versione di Chomsky
Relazioni con la stampa Stilema press.stilema@stilema-to.it Editore luca sossella editore
Stampa Centro Stampa Digitalprint
36 Il miglior nemico
80 Mettersi in mezzo
Carta Munken Lynx 100g e 300g by Arctic Paper Font Antwerp (a2-type) Söhne (Klim Type Foundry)
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Foto di copertina: American Flag, 2020. Stefano Massei è un fotografo italiano di still life, ritratti e fine art che vive e lavora a San Francisco. Pagina successiva: Time Omen, 2019. Ruby Okoro è un artista nigeriano, cresciuto tra Roma e Lagos. Autodidatta, la sua ricerca è ispirata dai paesaggi naturali e urbani, indaga le strade, i villaggi, i mercati delle città nigeriane e lavora sulla trasformazione dell’ordinario in immagini iconiche e drammatiche.
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Hanno collaborato Paolo Gervasi Editor e ricercatore, ha lavorato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e alla Queen Mary University di Londra.
Guido Vitiello Giornalista e ricercatore all’Università la Sapienza di Roma, scrive per “il Foglio” e per “Internazionale”.
Adriana Mavellia Fondatrice dell’agenzia di relazioni pubbliche Mavellia ms&l, ora presidente onorario di ms&lGroup.
Noam Chomsky Linguista e teorico della comunicazione, è docente emerito al Massachusetts Institute of Technology di Boston. Dopo aver ideato la teoria della grammatica generativa, ha studiato i linguaggi dei media e delle tecnologie emergenti. È da sempre un attivista politico.
Alberto Abruzzese Sociologo e mediologo, è stato professore ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi a Napoli, Roma e Milano.
Stefano Rolando Docente e direttore scientifico dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica, il public branding e la trasformazione digitale all’Università Iulm di Milano.
Luca Mastrantonio Giornalista del “Corriere della Sera” e saggista, insegna comunicazione e storytelling multimediale all’Università Iulm di Milano. Marco Bardazzi Giornalista, per dieci anni è stato corrispondente ansa dagli Stati Uniti. Maria Pia Rossignaud Giornalista, è direttrice di Media Duemila e vicepresidente dell’Osservatorio TuttiMedia. Derrick de Kerckhove Accademico e direttore scientifico di Media Duemila, ha diretto il McLuhan Program in Culture & Technology a Toronto ed è Visiting Professor al Politecnico di Milano. Simone Pieranni Giornalista, lavora nella redazione esteri del “Manifesto”. Ha fondato a Pechino l’agenzia editoriale China Files. Gianluca Costantini Artista e attivista, ha pubblicato storie e illustrazioni sulle principali riviste italiane e straniere.
Aldo Bonomi Sociologo, ha fondato e dirige l'istituto di ricerca Aaster (Associazione Agenti di Sviluppo del Territorio). Patrizia Luongo Economista, ricercatrice per il ForumDD, ha lavorato per l’Università di Bari e come consulente per l’OCSE, la Banca Mondiale e lo Human Development Report Office delle Nazioni Unite. Gloria Manzelli Dirigente generale del Ministero della Giustizia, dipartimento amministrazione penitenziaria, e provveditore regionale per l’Emilia Romagna e le Marche. Pierfrancesco Maran Assessore all’Urbanistica, Verde e Agricoltura del Comune di Milano, è consigliere comunale dal 2006, eletto nelle liste del pd. Nel 2011 da assessore alla Mobilità ha introdotto l’Area C. Stefan Kaegi Creatore di teatro documentario, audio-installazioni, format in ambiente urbano. Fondatore dei Rimini Protokoll con Helgard Haug e Daniel Wetzel. Maura Latini Amministratore delegato di Coop Italia.
Franco Berardi Bifo Scrittore e filosofo, è autore di numerosi saggi su trasformazione del lavoro, innovazione e processi comunicativi.
Susanna B. Stefani Consulente e consigliere indipendente, nel 2002 ha fondato GC Governance Consulting, società di soluzioni per il governo societario.
Alessandro Carrera Scrittore e saggista, è professore di Letteratura italiana e di Culture e Letterature del Mondo alla University of Houston, in Texas.
Giacomo Pedini Dramaturg, regista teatrale e scrittore, insegna Storia della regia e Istituzioni di regia all’Università di Bologna.
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Valentina Parasecolo Giornalista, è press officer del Parlamento europeo presso l’Ufficio di Milano. Walter Bruno Giornalista, dal 1998 è direttore della comunicazione del Gruppo Humanitas. Luca Barbieri Giornalista e imprenditore, è docente di Linguaggio giornalistico all’Università di Padova. Massimo Tafi Fondatore di Mediatyche, nel 2016 ha creato l’Osservatorio Sostenibilità e Comunicazione. Biagio Oppi Head of Corporate Communication di Alfasigma dal 2019 e professore a contratto di Comunicazione d’Impresa all’Università di Bologna. Elisabetta Gola Professoressa di Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Cagliari, tiene corsi dedicati alla comunicazione efficace. Mario Pireddu Docente di Tecnologie per la Formazione, è presidente del corso di laurea magistrale in Informazione digitale presso l’Università degli studi della Tuscia. Sally Swainston Inglese, da oltre trent’anni in Italia, è laureata in lingue all’Università di Oxford e si occupa di traduzioni e interpretariato. Davide Rampello Docente, curatore, direttore artistico e consulente culturale, è stato presidente della Triennale di Milano ed è direttore creativo di Rampello & Partners.
LA FOTO
Ruby Okoro / Galerie Number 8
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TIP
di Paolo Gervasi una bustina vuota di fiammiferi, in una storia raccontata da Carlo Emilio Gadda, non viene gettata via, ma “immantinenti estromessa dai confini dell’Io”. Non è difficile, quindi, immaginargli sul volto un ghigno beffardo mentre, nel 1953, da redattore della Rai, Gadda compila le Norme per la redazione di un testo radiofonico, uno scrupoloso elenco di regole di scrittura destinato ai collaboratori del Terzo programma. Per rendere un testo accessibile, scrive Gadda, servono chiarezza, semplicità, ritmo. Occorre essere fluidi e concisi, evitare di sopraffare chi ascolta (o legge) con esibizioni erudite, dissimulare il sapere, usare immagini vive e concrete, evitare toni paternalistici o pedagogici: “L’eguale deve parlare all’eguale, il libero cittadino al libero cittadino, il cervello opinante al cervello opinante”. Proprio Gadda, lo scrittore che vede nella realtà un inestricabile “gomitolo di concause”, in cui la trama delle relazioni è talmente fitta da rendere necessaria una lingua difficile, complessa, tortuosa, vertiginosa come una prospettiva barocca, si fa teorico della lingua democratica. La contraddizione è solo apparente: ogni contesto ha la sua scrittura, ogni messaggio la sua specifica forma comunicativa. In letteratura, Gadda aveva bisogno di una lingua densa e inaudita per raccontare l’oscurità della psiche novecentesca, e per sabotare la retorica tronfia del fascismo. “Resosi defunto anche Gabriele d’Annunzio, la ‘orazione’ è alquanto decaduta nel gusto del pubblico”, scrive nelle Norme. Superare la società che si è lasciata abbindolare dalla lingua falsa delle orazioni significa per prima cosa creare una lingua diretta, orizzontale, transitiva. In cui la scelta delle parole è guidata da un principio di reciprocità, di attenzione per chi sta all’altro capo dell’atto comunicativo. Dall’elaborazione di una scrittura nuova scaturiranno le forme nuove del pensare e del vivere insieme.
Oggi ci troviamo in una situazione molto simile: in un contesto saturo di comunicazione, sopraffatti da discorsi stereotipati e gergali che sono la forma contemporanea dell’oratoria, assediati da storie fasulle scritte in una lingua logorata dall’uso, frastornati dall’imprecisione delle parole, sentiamo il bisogno di trovare il segno esatto, univoco e necessario della chiarezza. Non si tratta naturalmente di imporre a tutti uno stile telegrafico: la brevità compulsiva dei social molto spesso non è concentrazione ma dissoluzione della lingua, perché appiattisce la scrittura sul parlato e comprime il tempo dell’elaborazione. Si tratta però di trovare la trasparenza necessaria a raggiungere l’altro al di là della cortina fumogena della comunicazione permanente. Un gesto che è il contrario dell’immediatezza: richiede tempo, e attenzione. Gadda non ha mai smesso di “estromettere dall’Io” le sue frasi spiraliformi, ma era consapevole che la lingua della relazione ha il dovere politico di trovare la forma aerodinamica che le consenta di andare “da cervello a cervello”. Nelle sue lezioni sulla tecnica dello scrivere Giuseppe Pontiggia citava spesso, come modello di efficacia comunicativa opposto alla retorica vuota e sensazionalistica dei media, una frase dell’alpinista Reinhold Messner. Al giornalista che gli chiede, sperando di estorcergli qualche banalità pseudo-spirituale, di descrivere le emozioni provate arrivando in cima all’Everest, Messner risponde: “Ero molto stanco, volevo tornare a casa”. Il giornalista, deluso, prova a incalzarlo, ma Messner ha già detto tutto: ha concentrato il senso di un’esperienza estrema nell’essenzialità di una sensazione fisica assoluta, eludendo tutti i possibili luoghi comuni. La lingua che dobbiamo ancora scoprire, la scrittura di domani, ha la stessa fame di ossigeno dell’alpinista. Abbiamo molto da imparare dalla sua stanchezza. ◊
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“Non sono elezioni come tutte le altre, non riguardano soltanto gli Stati Uniti. In gioco ci sono il destino del pianeta e dell’umanità. Quelle di novembre saranno le piú importanti elezioni nella storia umana” La versione di Chomsky
Intervista a Noam Chomsky a cura di Luca Mastrantonio Immagini Holly Andres 16 RELAZIONI:
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Luca Mastrantonio ha dialogato per Relazioni: con uno dei piú prestigiosi intellettuali al mondo, che è anche un radicale e influente militante politico. A 91 anni Chomsky disegna uno scenario drammatico, ma sceglie di non arrendersi al pessimismo: è impegnato nella costituzione di una Internazionale progressista, guarda con speranza ai milioni di persone che nelle strade di tutto il mondo protestano contro razzismo e disuguaglianze, appoggia i movimenti ambientalisti.
Il 3 novembre si vota per le elezioni negli Stati Uniti. Cosa dovremmo aspettarci? Noam Chomsky È una situazione strana e per molti aspetti inquietante. Il presidente Trump ha già dichiarato pubblicamente che potrebbe non accettare il risultato del voto. Una cosa del genere non ha precedenti nella storia della democrazia parlamentare, non solo negli Stati Uniti. I repubblicani sanno di aver perso consensi e cercano in tutti i modi di recuperare per mantenersi al potere. Proveranno a escludere migliaia di persone dal voto, secondo una pratica consolidata: nelle circoscrizioni ostili possono arrivare a cancellare centinaia di nomi dalle liste elettorali. Oppure si può rendere quasi impossibile il processo di registrazione al voto, che negli Stati Uniti è da sempre un limite alla piena attuazione della democrazia, perché è disseminato di ostacoli soprattutto per le persone povere, le minoranze, le categorie marginali. In Alabama è necessario registrarsi in presenza di testimoni, ed è possibile farlo solo in uffici che non sono presenti in Luca Mastrantonio
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tutte le zone, e per alcuni distano centinaia di chilometri. Le elezioni, poi, si svolgono sempre in un giorno lavorativo, creando ulteriori difficoltà a chi non può permettersi di assentarsi dal lavoro per mettersi in fila in attesa di votare. A ogni tornata elettorale spariscono milioni di voti, e sono per lo piú i voti dei cittadini piú fragili e svantaggiati. Nonostante questo, Trump è in difficoltà e potrebbe non raggiungere i consensi che gli servono. Ma la sua personalità, al limite della psicopatologia, non gli permette di accettare l’idea della sconfitta. Anche perché fuori dalla Casa Bianca ci sono molti guai giudiziari ad attenderlo. LM Crede che la democrazia americana sia in pericolo? NC C’è chi dice che gli Stati Uniti siano una democrazia a partito unico, il partito degli affari, del quale democratici e repubblicani sono soltanto due fazioni. Di certo 40 o 50 anni fa l’orientamento dei due partiti non era cosí chiaramente distinguibile. Ora i repubblicani hanno
D I S E G N O D I G I A N L U C A C O S TA N T I N I
rotto la simmetria, sono diventati un partito di ultradestra, hanno molto in comune con i partiti neofascisti europei. Perfino gli osservatori conservatori descrivono i repubblicani di oggi come un movimento radicale che sta abbandonando i metodi e i valori della politica parlamentare. Già dai tempi dell’elezione di Obama i republicani sono riusciti a neutralizzare il Senato attraverso l’ostruzionismo: quello che veniva definito il piú grande organo legislativo al mondo ha smesso di legiferare. L’amministrazione Trump persegue due soli obiettivi: far diventare i ricchi sempre piú ricchi, e collocare a tutti i livelli dell’ordinamento giudiziario magistrati di destra. La politica fiscale, la politica economica, gli incentivi statali diretti, tutto va a favore delle grandi aziende e della esigua minoranza dei super-ricchi. E un sistema giudiziario in mano a fun zionari fedeli alla destra sarà in grado di bloccare per molti anni a venire ogni possibile riforma anche moderatamente redistributiva. La costituzione americana del xviii secolo era molto progressista. Ma il sistema politico degli
Stati Uniti in questo momento è ultraconservatore: se facessero domanda per entrare nell’Unione Europea verrebbero probabilmente respinti, non sarebbero compatibili con gli standard democratici e giuridici europei. Da quello che dice sembra quasi che l’era Trump possa finire con una sorta di guerra civile a bassa intensità, e il Paese seguire la strada delle cosiddette “democrazie autoritarie”. È uno scenario plausibile? NC Trump non ha mandato l’esercito regolare a fronteggiare le manifestazioni legate al movimento Black Lives Matter, perché teme che i comandi militari possano disobbedire ai suoi ordini. Sta utilizzando la polizia di frontiera e altre formazioni di polizia federale come forze paramilitari per reprimere le proteste, e lo fa in contrasto con i sindaci e i governatori. Queste truppe si comportano in modo molto violento, e sembrano quasi voler esasperare gli scontri per giustificare la repressione. L’escalation della violenza potrebbe fornire un pretesto per riLM
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correre allo stato d’emergenza, e a quel punto perfino lo svolgimento regolare delle elezioni sarebbe a rischio. Naturalmente non immagino un governo militare o apertamente fascista. Il fascismo era un’ideologia e aveva una dottrina, cose fuori dalla portata di Trump. Lui somiglia piú al piccolo dittatore di una repubblica delle banane, che agisce per tornaconto personale e per salvaguardare gli interessi di chi lo sostiene. Per fare un esempio, ha dismesso tutte le commissioni d’inchiesta sulla corruzione negli atti del Senato, soprattutto in quei distretti, come quello sud di New York che indaga su Wall Street, che stavano cominciando ad avvicinarsi agli affari di Trump e della sua cricca. LM Quali sarebbero le conseguenze di una rielezione di Trump? NC Se Trump dovesse essere rieletto sarebbe una catastrofe, non solo per gli Stati Uniti, ma per il mondo intero. Basti pensare alla questione ambientale: Trump non è soltanto negazionista rispetto all’emergenza climatica, tutti i suoi atti legislativi contribuiscono a spingere il pianeta verso il disastro. È l’unico leader al mondo, insieme forse solo a Bolsonaro, che continua a favorire l’utilizzo crescente di carburanti fossili, a negare la necessità di ridurre le emissioni nocive, a rifiutarsi di riconoscere la realtà scientifica della crisi climatica. Sembra voler correre piú velocemente possibile verso l’abisso. L’aggravarsi di questa condizione può farci superare il punto di non ritorno, che è vicinissimo, rendendo la situazione di deterioramento del pianeta irreversibile. Ma il ruolo tossico di Trump riguarda anche molte altre questioni che hanno un impatto al di là dei confini nazionali, dallo sdoganamento del suprematismo bianco, alla corsa al riarmo, al fiancheggiamento dei cosiddetti movimenti “pro-life”, che sono in realtà movimenti antiabortisti e oscurantisti in materia di diritti civili. Trump sta smantellando il sistema di controllo e contenimento della proliferazione di armi nucleari, tentando di alterare i trattati internazionali. E ha approvato un piano di rifinanziamento del Pentagono per sviluppare nuove armi ad alto potenziale distruttivo.
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La Costituzione americana del diciottesimo secolo era molto progressista. Ma il sistema politico degli Stati Uniti in questo momento è ultraconservatore. RELAZIONI: 21
Il coronavirus è un ottimo esempio di quanto siano inadeguate le risposte “nazionaliste” ai grandi problemi globali, che richiedono azioni unitarie e condivise.
Per questo dico che le elezioni di novembre non riguardano soltanto gli Stati Uniti, ma la sopravvivenza stessa del pianeta e dell’umanità. Con altri quattro anni di queste politiche potrebbe non esserci futuro. È un momento unico nella storia della democrazia parlamentare. Sono le elezioni politiche piú importanti della storia umana. LM L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19 negli Stati Uniti continua a essere preoccupante: quanto potrebbe pesare sul voto? NC Il coronavirus è un ottimo esempio di quanto siano inadeguate le risposte “nazionaliste” ai grandi problemi globali, che richiedono azioni unitarie e condivise perché riguardano l’intera specie. Mentre in Asia e in Oceania il virus è stato contenuto rapidamente, mentre l’Europa, dopo le incertezze iniziali e pur trovandosi in una situazione molto grave, è riuscita a reagire con efficacia e a uscire relativamente in fretta dall’emergenza, gli Stati Uniti hanno lasciato esplodere il contagio. Trump non ha ascoltato gli esperti, ha cercato di sfruttare l’epidemia per attaccare la Cina, ha accreditato le teorie del complotto. È direttamente responsabile per la morte di decine di migliaia di cittadini americani, e per questo cerca disperatamente qualcuno da incolpare, l’Organizzazione mondiale della sanità, la Cina, i democratici. Ha rifiutato ogni idea di coordinamento e di solidarietà internazionale, ed è proprio perché l’oms ha un approccio internazionalista che Trump cerca sistematicamente di indebolirla e distruggerla. Provocando effetti collaterali terribili: l’oms fa un lavoro cruciale di assistenza medica nei luoghi dove sono in corso
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crisi umanitarie gravissime, come lo Yemen – una crisi provocata anche dalle armi che gli Stati Uniti cedono all’Arabia Saudita – o molti paesi dell’Africa. L’Europa, e in particolare l’Italia, guardano alle elezioni americane con grande interesse anche per capire se potranno ritrovare negli usa il loro storico alleato, in grado di controbilanciare il peso crescente dell’influenza politica ed economica di Russia e Cina. NC Bisogna dire che gli Stati Uniti non sono mai stati un alleato molto affidabile. Prima hanno supportato con entusiasmo il fascismo; Roosevelt ammirava Mussolini, lo descriveva come un elegante gentiluomo italiano che stava “civilizzando” il suo popolo. Poi nel dopoguerra hanno utilizzato gli aiuti economici come uno strumento per controllare e orientare la politica interna dei paesi europei che uscivano distrutti e impoveriti dal conflitto mondiale, sabotando le loro democrazie. In confronto a queste ingerenze del passato, Russia e Cina non sembrano rappresentare una minaccia concreta per l’Italia e l’Europa. Nonostante le apparenze la Russia è un paese povero, il suo indice di sviluppo è molto basso, le sue reali capacità di azione internazionale sono limitate. Allo stesso modo la Cina, pur essendo una potenza mondiale sul piano economico, resta mediamente un paese arretrato, dovrà affrontare enormi problemi di gestione delle tensioni sociali all’interno; la sua forma di governo autoritaria limita la possibilità di impostare un’efficace politica di influenze. Piú che cercare l’appoggio degli Stati Uniti i LM
paesi europei dovrebbero rafforzare la propria cooperazione. L’Europa deve superare le divisioni interne, valorizzare la forza della propria unione economica e politica, e diventare una potenza autonoma, libera da influenze esterne, per contribuire a ridefinire gli equilibri mondiali. Nello scenario di una possibile sconfitta di Trump, cosa servirà agli Stati Uniti per invertire le tendenze disgregatrici che questa amministrazione ha innescato? NC Se Trump dovesse essere sconfitto sarebbe necessario per prima cosa cercare di fermare la folle corsa alla distruzione del pianeta. Bloccare immediatamente l’impiego massiccio dei carburanti fossili, la deregolamentazione sulle emissioni, e favorire l’uso di fonti di energia alternative. L’intera industria dei carburanti fossili andrebbe progressivamente dismessa: il governo dovrebbe nazionalizzarla e avviare un processo di conversione, per raggiungere l’obiettivo delle emissioni zero. Servirebbe un nuovo regime di controllo sulla proliferazione di armi nucleari, e un programma che porti a proibire l’impiego dell’energia nucleare a scopi militari. Si potrebbe tagliare la spesa per gli armamenti e bloccare lo sviluppo di nuove armi dall’enorme potenziale distruttivo. Si tratta di atti legislativi concreti, realizzabili, che potrebbero in poco tempo restituire agli Stati Uniti la loro leadership morale, renderli di nuovo un punto di riferimento per le democrazie di tutto il mondo, ponendoli all’avanguardia di una rivoluzione dell’intero sistema sociale e produttivo. LM
LM A proposito di rivoluzioni: ha avuto grande risonanza la lettera, pubblicata su “Harper’s Magazine”, da lei firmata insieme a molti altri prestigiosi intellettuali, in cui si denunciava la minaccia alla libertà di espressione annidata in alcuni eccessi del politicamente corretto e nella cosiddetta “cancel culture”. Esiste il rischio che la richiesta di giustizia costringa a sacrificare la libertà? NC La lettera non nominava mai la cancel culture, ma è significativo che sia stata interpretata all’interno di quel contesto. In realtà era
una lettera molto semplice, che si limitava ad affermare l’importanza della libertà di parola. Si riferiva anche alle azioni di alcuni settori della sinistra che rischiano di creare un’atmosfera tossica, in cui la richiesta legittima di protezione per le categorie discriminate diventa una forma di intimidazione che limita la libertà d’espressione. Ma questa è una porzione minuscola di ciò che negli Stati Uniti è la vera cancel culture. Le “cancellazioni”, le pressioni dirette o indirette che impediscono aqualcuno di parlare e di esprimere la propria opinione, sono praticate dall’establishment, da chi detiene il potere, e quindi in questo momento dalla destra. E hanno come obiettivo chi contesta il sistema, e quindi molto piú spesso la sinistra. Per restare alla mia esperienza diretta, che non è certo tra le peggiori, nel 1973 il grande gruppo editoriale proprietario della casa editrice americana che aveva pubblicato un mio libro sul coinvolgimento degli Stati Uniti nella violenza contro-rivoluzionaria ordinò la chiusura dell’editore e la distruzione di tutti i suoi libri. Piú recentemente per un ordine arrivato da uno dei dirigenti della rete è stata cancellata, pochi minuti prima della messa in onda, una mia intervista alla radio nazionale pubblica, considerata una delle voci piú liberal dell’informazione statunitense. Episodi come questi sono estremamente frequenti, ma siccome sono diretti contro opinioni minoritarie non passano come minacce alla libertà di parola. Quindi va bene vigilare sugli eccessi che provengono da sinistra, non creare gabbie linguistiche e limitazioni troppo rigide all’espressione, ma è anche molto importante avere presente il quadro completo delle “cancellazioni”, vigilare sui grandi soprusi e i pesanti condizionamenti che l’establishment e la destra esercitano continuamente. LM Fino a qui abbiamo delineato uno scenario inquietante. Esistono segnali di speranza che possano contraddirlo? NC Ne esistono moltissimi. È in corso di organizzazione a Reykjavík, in Islanda, il primo summit di una Internazionale progressista nata dall’incontro tra il movimento di supporto a Sanders negli Stati Uniti e il lavoro del gruppo
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L’Internazionale progressista è nata dall’incontro tra il movimento di supporto a Sanders negli Stati Uniti e il lavoro del gruppo diem25 che cerca di salvare le idee fondative dell’Unione Europea.
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Holly Andres è una fotografa fine art, nota per i suoi scenari cinematografici spesso ispirati a esperienze infantili. Le sue opere sono apparse in gallerie e musei di tutto il mondo, da Barcellona a Istanbul, da Bogotà, a New York, San Francisco e Atlanta. Collabora regolarmente con prestigiose pubblicazioni, tra cui “The New York Times Magazine”, “TIME”, “The New Yorker” e “The California Sunday Magazine”, “Art in America”, “Artforum”, “Exit Magazine”, “Art News”, “Modern Painters”, “British Journal of Photography”, “PDN”, “American Photo” e molti altri.
diem25, che cerca di salvare le idee fondative dell’Unione Europea correggendo i molti gravi difetti che indeboliscono le istituzioni europee. L’Internazionale lotta contro le politiche reazionarie che si affermano ovunque nel mondo, e per un superamento degli squilibri socio-economici che lacerano il pianeta. Dopo la morte di George Floyd è nato forse il piú grande movimento sociale nella storia degli Stati Uniti, che ha contagiato il mondo intero. Non si tratta solo di proteste contro le violenze della polizia, ma di un movimento contro le disuguaglianze e il razzismo istituzionale. Sta raccogliendo consensi enormi, molto al di là della comunità afroamericana e molto di piú dei movimenti antirazzisti del passato. La destra è terrorizzata dall’idea che la società americana voglia finalmente correggere le proprie ingiustizie strutturali, e reagisce scompostamente. Questo per me è un enorme elemento di speranza. Poi c’è l’entusiasmo cresciuto intorno alla candidatura di Bernie Sanders, energie politiche che dopo il suo ritiro sono confluite nella campagna di Joe Biden, per spingerla su posizioni piú progressiste. Il programma di Biden sulle questioni ambientali – scritto insieme a Sunrise, un gruppo ecologista molto radicale – prevede investimenti di milioni di dollari per lo sviluppo delle energie rinnovabili, e l’adozione di un Green New Deal tra le priorità dell’agenda legislativa. È uno dei programmi piú progressisti che io abbia mai visto, e anche questo è motivo di grande speranza. I democratici sanno che non possono deludere i giovani attivisti spinti verso la politica dall’allarme per l’emergenza climatica, perché sono loro il futuro della nostra società. ◊
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Il voto negli Usa Come funziona il meccanismo elettorale negli Stati Uniti: come si vota, dove, quando, con quali criteri vengono conteggiati i voti e quali rischi di trasparenza e partecipazione sono impliciti nel sistema con cui si sceglie il presidente di quella che è stata definita a lungo “la piú grande democrazia del mondo”. Testo Marco Bardazzi Immagini Giona Maiarelli
il sistema elettorale che gli Stati Uniti si sono dati per scegliere ogni quattro anni il presidente è da tanti punti di vista sorprendente. In positivo, perché resiste dall’inizio del xix secolo e ha permesso un’alternanza democratica anche nei momenti piú bui. Ma anche in negativo, per le tante fragilità che mostra e le potenziali ingiustizie e parzialità che incarna, come denuncia Noam Chomsky in queste pagine. Per capire i punti deboli della macchina elettorale, ai quali quest’anno si aggiunge l’incertezza inedita dell’emergenza Covid-19, occorre ricordare come funziona il voto. Il presidente degli Stati Uniti in realtà non viene eletto dai votanti, il meccanismo è indiretto. Il 3 novembre si voterà per eleggere 538 membri del collegio elettorale, che a loro volta eleggeranno il presidente in un voto sempre fissato per il primo lunedí dopo il 12 dicembre. Sarà poi il Congresso a certificare i risultati all’inizio di gennaio per permettere al nuovo presidente di insediarsi il 20 gennaio, Inauguration Day. Il “numero magico” per ottenere la presidenza è 270: tanti sono i grandi elettori (membri del collegio elettorale) che occorreranno a Donald Trump o a Joe Biden per poter dichiarare vittoria. Ogni Stato esprime un numero di grandi elettori proporzionale alla propria popolazione calcolata in base all’ultimo censimento federale: gli Stati che “valgono” di piú sono la California (55 voti elettorali), il Texas (38), New York e Florida (29 ciascuno). In quasi tutti gli Stati, con l’ec-
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cezione di Maine e Nebraska, vale il meccanismo “winner-take-all”: chi ha il 50% + 1 dei voti conquista tutti i voti elettorali in palio. Sulla scheda i votanti troveranno quindi i nomi dei grandi elettori e i nomi del candidato presidente e candidato vice a cui sono vincolati. Si tratta di un sistema che risale all’epoca dei padri fondatori e rispecchia la natura federale del Paese, secondo la quale i singoli Stati hanno un peso e un’autonomia molto vasti. È per questo che le strategie elettorali vengono disegnate con un approccio Stato per Stato, tenendo al centro i 10-12 Stati tradizionalmente piú incerti, che sono il vero ago della bilancia. È sempre per questo motivo che i sondaggi su scala nazionale raccontano solo una parte della storia e non sono molto significativi: nel 2016 Hillary Clinton ha ampiamente vinto nel voto popolare su scala nazionale, ma ha conquistato solo 232 voti elettorali contro i 306 di Trump. Ancora, è legato a questo sistema anche il fatto che le percentuali di affluenza non siano mai al livello per esempio dei Paesi europei. È evidente che elettori in Stati sicuramente “rossi” (repubblicani) o “blu” (democratici) sono meno motivati e meno incentivati dai rispettivi partiti per andare ai seggi il 3 novembre. La mobilitazione per recarsi alle urne è uno dei fattori principali su cui lavorano le campagne elettorali, che devono fare tra l’altro i conti con il fatto che si vota sempre di martedí, un giorno lavorativo. E qui emergono i problemi e le possi-
Si tratta di un sistema che risale all’epoca dei padri fondatori e rispecchia la natura federale del Paese, secondo la quale i singoli Stati hanno un peso e un’autonomia molto rilevanti.
bili discriminazioni, visto che a molti per votare occorre un permesso per assentarsi dal lavoro. Quando si entra sul terreno dei permessi e delle regole, gli Stati Uniti si prestano a rischiose parzialità, perché tutto viene deciso a livello di Stati e ancor piú di contee. Il problema forse maggiore del sistema è che tutto è demandato a funzionari non “terzi”, ma con una chiara appartenenza politica, democratica o repubblicana, e ogni dissidio è giudicato da magistrati a loro volta scelti dai poteri esecutivi, democratici o repubblicani, a ogni livello del governo. Il risultato è un mosaico spesso indecifrabile dove in pratica ogni contea sceglie il proprio sistema elettorale (scheda di carta, tablet elettronici, macchinette con le leve da tirare, portaschede da punzonare e molti altri), decide chi inserire e chi rimuovere dalle liste elettorali (un tema che riguarda molto le minoranze, specialmente afroamericani e ispanici, perché i carichi pendenti e i precedenti penali vengono giudicati con ampia discrezione), stabilisce il numero e la dislocazione dei seggi, dispone come viene gestito il voto per posta e chi deve verificarne la correttezza.
Gli scenari di cosa può andare male sono innumerevoli e a volte la realtà supera l’immaginazione, come è successo nelle elezioni del 2000, quando le schede punzonate in modo incerto in una sola contea della Florida hanno tenuto per un mese in stand-by l’elezione di George W. Bush. I democratici da sempre accusano gli avversari di disegnare i distretti elettorali in modo da scoraggiare le minoranze, mentre i repubblicani di Trump quest’anno stanno facendo una battaglia contro il voto postale – in aumento per cercare di evitare assembramenti ai seggi, contro il rischio Covid-19 – ritenendo che questo favorisca Biden. In generale, il sistema americano funziona bene quando c’è un vincitore netto. Se invece si lotta sul filo dei voti elettorali c’è il rischio di una crisi. Mai tanto concreto come quest’anno, in cui potrebbe esserci un vincitore nella notte delle elezioni e un risultato opposto quando saranno contati tutti i voti per posta. In ogni caso, tutto si deciderà come sempre in pochi Stati. Riflettori puntati quindi su Ohio, Pennsylvania, Florida, Wisconsin, Michigan, Georgia, Arizona e North Carolina. ◊
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Se vota il gemello (digitale)
Testo Maria Pia Rossignaud e Derrick de Kerckhove Immagini Broomberg & Chanarin
Con ogni gesto che compiamo in rete, avvertono Maria Pia Rossignaud e Derrick de Kerckhove, disseminiamo un’enorme quantità di dati che costituisce virtualmente il nostro “gemello digitale”: una copia di noi stessi, con la quale viviamo in simbiosi, esposta alla manipolazione di chi gestisce i dati. Per capire cosa sta accadendo ai gemelli digitali dei cittadini americani in vista delle elezioni, Relazioni: ha parlato con una giornalista esperta di nuovi media e con il sociologo dei media il cui pensiero si è formato alla scuola del geniale fondatore della mediologia, Marshall McLuhan.
Nel vostro ultimo libro suggerite che, agendo direttamente sul gemello digitale, le potenzialità del controllo sociale si sono spinte “oltre Orwell”, ovvero a un livello di penetrazione molto piú profondo rispetto all’immaginazione distopica di un Grande fratello capace di insinuarsi nelle vite individuali. In che modo questo spostamento influenza la costruzione del consenso politico ed elettorale? Maria Pia Rossignaud Il gemello digitale (Digital T-win) è una delle figure retoriche nascenti dalla trasformazione digitale; è un avatar, è la nostra vita raccontata dai dati. Ma non solo raccontata da noi o a noi: ormai l’accesso ai dati è bidirezionale. Al tempo di Orwell l’accesso era inteso unidirezionalmente, il modello era quello del broadcast da uno a molti, come per la televisione. Il panorama, come preannunciato già da McLuhan, è cambiato; infatti il teorico del villaggio globale ha detto: “Nell’era dell’elettricità metà umanità passerà a spiare l’altra metà”. In questo modo ha annunciato che il concetto di privacy avrebbe subito, nel corso degli anni, cambiamenti significativi, per non dire che saRelazioni
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rebbe potuto sparire, definitivamente. A quei tempi nessuno immaginava che un giorno saremmo stati tracciati. R Le istituzioni statali, il sistema politico, il concetto stesso di democrazia vengono stravolti da questa trasformazione: non si tratta soltanto di nuove forme del consenso. È la persona, alla quale dovrebbero applicarsi le dinamiche democratiche, a essere completamente trasformata a causa dello sdoppiamento seguito alla nascita del gemello digitale. Che rapporto c’è tra il gemello digitale e la nostra identità analogica? È ancora possibile tracciare un confine? Derrick de Kerckhove La reciprocità dell’informazione è parte della nostra società, e questa nuova essenza dell’essere si è manifestata con forza nell’era del Covid-19. L’informazione, come il virus, parte dall’essere umano, arriva fuori dell’essere umano, può cambiare la vita all’essere umano attraverso il gemello digitale, l’altro me che si fa strada nel mondo degli assistenti virtuali. Alexa e Siri sono i cavalli di Troia che penetrano nella nostra casa, nella nostra intimità. Proba-
Adam Broomberg e Oliver Chanarin vivono e lavorano tra Londra e Berlino. Insegnano fotografia alla Hochschule für bildende Künste di Amburgo. Hanno esposto al Centre Pompidou di Parigi, all’Hasselblad Centre di Göteborg, al Centro per l’arte contemporanea Ujazdowski Castle di Varsavia, alla Jumex Foundation di Città del Messico, al Llandudn di Mostyn nel Regno Unito, alla Townhouse del Cairo e allo Stedelijk Museum di Amsterdam. Il loro lavoro è presente in importanti collezioni pubbliche e private, tra cui quelle della Tate Gallery e del MoMa. Spirit is a bone è una serie di ritratti creati da un sistema di riconoscimento facciale sviluppato in Russia a scopi di sorveglianza. Il software crea una maschera digitale, una copia tridimensionale del volto, realizzata senza la collaborazione del soggetto ritratto, che “guarda in camera” pur non sapendo di essere fotografato. Reso sempre frontalmente, il volto impresso da questo obiettivo è costretto alla passività, privato della direzione dello sguardo, delle ombre, dell’espressione. Eppure non smette di essere il ritratto di un essere umano, anche in quanto vibra dell’istinto individuale di sottrarsi al potere del contratto sociale.
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bilmente noi umani passeremo dall’accettazione al desiderio di un gemello digitale personale, per questo dobbiamo sperare che la tutela dei dati che danno forma al gemello diventi parte dei diritti umani fondamentali. Samsung sta già lavorando alla creazione di un gemello digitale personale. Probabilmente fra dieci anni non percepiremo il nostro gemello digitale come un’entità separata. A quel punto saremo un’entità unica inseparabile, praticamente gemelli siamesi. Ecco perché è importante tracciare la storia di questa nuova figura che emerge dalla trasformazione digitale: parlare di elezioni senza parlare di ciò che
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cambia nel nostro essere cognitivo doppiato dal gemello digitale, per esempio, significa raccontare limitandosi a una parte della storia degli Stati Uniti, come del resto del mondo. Chi voterà dunque alle prossime elezioni negli Stati Uniti? I cittadini o i loro gemelli digitali? Che ruolo potranno avere pratiche manipolatorie sul modello di quelle emerse non troppo tempo fa con lo scandalo Cambridge Analytica? MPR Nello speciale che la rivista “Media Duemila” ha dedicato nel febbraio 2019 al gemello digitale in quanto figura emergente della trasformaR
zione digitale, Roberto Saracco ha spiegato che i dati per la costruzione del nostro gemello digitale esistono già, sono disseminati nelle banche dati presenti in rete: “A livello micro, per esempio, è ormai pratica comune quella di avere i nostri esami clinici digitalizzati (radiografie, Tac, mri ecc.). Tali rappresentazioni biologiche delle parti del nostro corpo permettono poi al medico di trovare soluzioni piú utili al paziente. A livello macro possiamo invece considerare Facebook (e numerose altre applicazioni social) come una sorta di gemello digitale grezzo, in grado di catturare in formato digitale aspetti della nostra vita, di ciò che facciamo e di chi siamo”. Cambridge Analytica, come sappiamo, estraeva dati da applicazioni come Facebook, e li utilizzava per orientare, attraverso il gemello digitale, opinioni politiche che avevano conseguenze, per cosí dire, analogiche. DDK Il doppio è alimentato dalle tracce che ciascuno lascia in rete e ora piú che mai dai maggiordomi digitali che stanno invadendo le nostre case, le nostre macchine e le nostre protesi tecnologiche. Il proliferare di un numero crescente di strumentazioni a sensori, indossabili e sempre piú implementabili sul e nel corpo, sono cibo per il nostro doppio digitale. Però noi esseri umani siamo molto di piú (o almeno lo speriamo) della mera rappresentazione di muscoli e movimento, metabolismo e battito cardiaco. Siamo anche, soprattutto, pensieri. Sebbene la creazione di una fedele replica digitale del nostro cervello appartenga ancora al campo della fantascienza, è già possibile ottenere una rappresentazione approssimativa del suo comporR
tamento. Se è vero che la creazione del nostro gemello digitale sarà un processo lungo, oggi Siri e Alexa, per esempio, sono dei degni antenati. Il rischio è perdere le tracce dell’evoluzione e trovarsi, ancora prima di rendersene conto, con un gemello digitale che sceglie per noi università, cibo, palestra, partner. E, perché no, il presidente degli Stati Uniti? La nuova sfida sarà come educare il nostro alter ego digitale, prima che lui educhi noi e voti per noi. La prima cosa da fare è riprendere possesso non solo dei dati, ma del potere di controllo e di costruzione del nostro gemello. Lo smartphone, per esempio, registra quello che leggiamo e guardiamo su internet, cosí come i nostri acquisti, e potrebbe, quindi, rispondere per noi a molte domande o addirittura anticipare le nostre scelte. Siamo di fronte a un processo lento e quasi impercettibile attraverso il quale aspetti e porzioni sempre piú ampie di noi stessi sono riflesse in una rappresentazione digitale sempre piú accurata. R
DDK
Quindi è inevitabile che questo finirà col travolgere la politica cosí come la conosciamo? MPR Sebbene si parli di gemelli digitali dal 2002, solo nel 2017 questa tecnologia è diventata uno dei trend strategici che interessa urbanisti, strateghi militari, operatori dei sistemi di sicurezza, educatori, formatori. Progressivamente il concetto cattura l’attenzione di un numero crescente di imprese, città e interi paesi. Roberto Viola (direttore della dgconnect a Bruxelles) dice che vuole costruire un gemello digitale dell’Europa. R
L’informazione, come il virus, parte dall’essere umano, arriva fuori dell’essere umano, può cambiare la vita all’essere umano attraverso il gemello digitale.
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Oggi l’attenzione è sull’emozione, perché è importante capire quale ruolo questa giochi sia nella società, sia nella rete.
La diffusione delle piattaforme digitali modifica non solo gli strumenti della politica, le strategie comunicative, ma i suoi stessi contenuti. Andiamo verso una politica algoritmica, in cui è l’analisi dei dati a determinare programmi e proposte? DDK La cultura è dirompente, bisogna ripeterlo continuamente per comprendere e far comprendere che la trasformazione digitale si estende, prende sempre piú spazio dentro e fuori di noi. La nostra controfigura è legata a intelligenze artificiali e ha, magari, sembianze umane: la immaginiamo aggirarsi per le strade attendendo domande. Il problema del terzo millennio sono le domande perché le risposte le abbiamo tutte già nelle nostre protesi tecnologiche, telefonini e computer. Siamo di fronte a un’enorme mutazione epistemologica, ma attenzione, nulla è senza rischi. Dalla logica sequenziale ci avviamo verso l’ecologia algoritmica, il vettore temporale è rovesciato, cioè il mondo passa, definitivamente, dal presente al futuro immediato dei predictive analytics, e dall’analogico al digitale. “La condizione che emerge dall’intersezione di dati e algoritmi è l’anticipazione: la capacità del nuovo apparato sensoriale e cognitivo di anticipare (con un meccanismo feed-forward) eventi e comportamenti. La prolassi, l’orientamento verso il futuro, richiede amplificazione, automazione e aggiornamento costante (anche se invisibile all’uomo in quanto prodotto da tecnologie autonome e automatizzate)”. Parole di Cosimo Accoto, dal suo splendido libro del 2017, Il mondo dato. R
È chiaro che la capacità di anticipazione, di interpretazione dei desideri consci e inconsci della popolazione, è una miniera per la politica; proprio
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perché le macchine predittive sono in funzione anche per le campagne elettorali. MPR Oggi l’attenzione è sull’emozione, perché è importante capire quale ruolo questa giochi sia nella società, sia nella rete, e quindi quanto siano in grado di sostenerne la direzione e di gestirla, a favore o contro, i politici. Negli ambienti digitali però circolano, e anzi proliferano come fossero nel loro medium ideale, le notizie distorte, false, inverificabili. Che ormai sembrano entrate stabilmente anche nel dibattito politico, pronunciate impunemente senza che a nessuno venga richiesta una verifica. L’antidoto può venire dagli strumenti digitali stessi? DDK Nel contesto del cambiamento che abbiamo descritto, le fake news fanno parte della transizione. Ma cosa succede se l’informazione scorretta tratta proprio della transizione? Ecco perché in questa “digital transformation” l’etica diviene una priorità. Nell’era in cui i ruoli cambiano, la contaminazione dei ruoli dilaga, la post-verità, cosí come il populismo, porta a confondere l’oggettività con la soggettività. Le dichiarazioni dei potenti non richiedono piú nessun tipo di verifica. Questa confusione tra oggettività e soggettività minaccia la democrazia: la campagna elettorale negli Stati Uniti è un esempio eclatante. Potrebbe succedere a breve che l’oggettività si rifugi negli algoritmi dell’intelligenza artificiale. MPR La nostra idea è che la piattaforma digitale urbana che abilita la città aperta deve rimanere un’evoluzione della democrazia, che abbia il gemello digitale come cittadino. L’alternativa pericolosa a questo scenario è la datacrazia. La R
datacrazia sostenuta dai Big data, elemento fondante della catena del valore della città digitalmente avanzata e abitata da esseri umani con il loro doppio digitale, può diventare un deposito della memoria collettiva e personale. I Big data operano come una riserva latente, virtuale, d’informazioni, che è lí a disposizione di chi gestisce l’analisi dei dati. Si può paragonare a una sorta d’inconscio collettivo digitale, destinato a trasformarsi in estensione indiretta delle nostre capacità cognitive. Supera la logica sequenziale perché connette informazioni e contamina parametri.
Dobbiamo disegnare un nuovo modello etico per tornare a parlare di politica nel senso piú pieno? DDK Con Oltre Orwell: il gemello digitale, abbiamo voluto inviare un messaggio chiaro: dobbiamo costruire insieme la nuova etica, rispetto alla quale i media hanno una responsabilità oggettiva. MPR Con l’associazione Osservatorio TuttiMedia stiamo aggregando persone (volutamente non parliamo di esperti) per creare la mente connettiva da cui far nascere una nuova ecologia dei media. Lo scopo è porre le basi per la nuova Algoritmetica. ◊ R
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Il miglior nemico La Cina osserva con attenzione le elezioni americane. E al di là dell’apparente irriducibilità del conflitto politico ed economico con gli Stati Uniti, intuisce nelle politiche di Trump una paradossale occasione per rafforzare la propria influenza globale. Tra attacchi al sistema di valori su cui si fonda la democrazia americana e appelli alla convivenza pacifica, Pechino studia il proprio posizionamento nei confronti del prossimo inquilino della Casa Bianca. Testo Simone Pieranni Immagini Li Wei
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Li Wei vive e lavora a Beijing. È stato inserito nel Time Magazine’s Top Ten Pictures of the Year (2012) e tra i “trenta fotografi piú creativi del mondo” selezionati dal Getty (2006). Negli ultimi vent’anni ha esposto in oltre 100 mostre in tutto il mondo, in Asia, Stati Uniti ed Europa. In Italia ha partecipato alla Biennale di Venezia e ha allestito una personale a Palazzo Reale, Milano.
un sondaggio pubblicato dal quotidiano nazionalista cinese “Global Times” nel 2016, poco prima delle elezioni presidenziali americane, rivelava che la maggioranza dei cinesi avrebbe preferito la vittoria di Donald Trump anziché quella di Hillary Clinton. Questa constatazione accese un dibattito – insieme alla diffusione di leggende metropolitane secondo le quali i funzionari cinesi si sarebbero attaccati al telefono per chiedere ai propri connazionali negli Usa notizie sul probabile esito della consultazione elettorale – che pareva procedere in due direzioni: da un lato il sondaggio esprimeva il profondo disprezzo dei cinesi nei confronti di Hillary Clinton (un’antipatia quasi pari a quella dimostrata per l’ex Segretario di stato da tanti repubblicani), percepita come la politica americana piú anti-cinese a causa delle sue reiterate critiche nei confronti di Pechino, soprattutto sul tema dei diritti umani; il secondo aspetto messo in luce dal sondaggio era la diffidenza, quando non l’esplicita critica, nei confronti della democrazia americana tout court. A questo proposito non pochi, sui social cinesi, avevano offerto la seguente lettura della votazione on line: i cinesi avrebbero preferito la vittoria di Donald Trump proprio per dimostrare l’inefficienza della democrazia americana, contrapposta alla meritocrazia cinese. Il sottotesto sarebbe stato il seguente: Trump non potrebbe mai arrivare al potere in Cina, perché nel Partito comunista cinese vige un sistema di selezione della classe dirigente “meritocratico”, mentre in democrazia chi ha piú soldi (a prescindere da quanto sia abile a gestire un Paese) può vincere. Proprio questo filone di ragionamento, per-
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cepito sia dai funzionari cinesi sia dai cosiddetti laobaixing (l’espressione in mandarino per indicare le “persone comuni”), nel corso dei quattro anni di presidenza di Donald Trump è diventato il leit motiv del nazionalismo cinese. Orientato a mettere a confronto la meritocrazia cinese e la democrazia occidentale, lo stesso “Global Times” ha quasi sempre criticato apertamente Washington senza mai puntare eccessivamente il dito contro Trump, nonostante la determinazione della Casa Bianca nel riattizzare il sentimento anti-cinese dell’elettorato repubblicano additando la Cina come la causa della diffusione del coronavirus (il chinese virus di cui in piú occasioni ha parlato Trump) o come la causa della povertà di ampie fasce di popolazione americana bianca, specie quella raccolta nei territori della Rust Belt. Nei mesi estivi del 2020 il responsabile del Research Center for the Governance of Global Cyberspace della Fudan University, proprio sul “Global Times”, scriveva che “la campagna elettorale americana si è trasformata in uno spettacolo politico teso a dimostrare chi è piú duro contro la Cina”. Questa opinione è stata condivisa per molto tempo da una parte dei funzionari cinesi del Partito comunista, in particolare dagli ambasciatori. Lo straordinario impegno sui social o attraverso articoli pubblicati su quotidiani locali da parte dei diplomatici cinesi ha costituito una delle novità nel rapporto ondivago tra Cina e Stati Uniti. Gli strali di Trump contro Pechino, accusata di aver permesso la diffusione del contagio da coronavirus, sono arrivati al termine di due anni densi di scontri dialettici ed economici tra le due super potenze. Washington – nell’intento di rallentare il progresso tecnologico ci-
nese, specie relativo allo sviluppo delle reti 5g – ha aperto le danze imponendo dazi sulle merci cinesi, con la scusa dell’eccessivo deficit nella bilancia commerciale; poi ha puntato direttamente Huawei (dopo zte, scaricata anche da Pechino in quanto azienda statale), messa sotto accusa – pur senza prove – per la sospettata vicinanza al Partito comunista (pur essendo un’azienda privata, come recita d’ufficio la difesa cinese). Infine, Trump ha deciso di colpire applicazioni e piattaforme cinesi facendo quanto la Cina fa da sempre, ovvero minacciando di vietarne l’utilizzo sul territorio americano, e chiedendo a un’azienda americana di acquisire Tik Tok, un’applicazione di videomessaggi made in China che spopola anche in Occidente. A corollario di questo confronto economico sono arrivati quelli di natura piú diplomatica: la situazione tesa di Hong Kong e la repressione totale cinese nei confronti della minoranza uigura nella regione nord-occidentale dello Xinjiang hanno prodotto un consenso bipartisan tra democratici e repubblicani americani nella condanna di Pechino e nella votazione di atti congressuali che hanno sanzionato alcuni funzionari del Partito comunista cinese. Durante tutto questo periodo si è assistito al proliferare di articoli e invettive da parte dei diplomatici cinesi, identificati dall’etichetta (cara ai media mainstream italiani e internazionali) di Wolf Warrior. In realtà il protagonismo dei diplomatici è da ricondurre a una strategia voluta da Xi Jinping, il presidente cinese: Xi, diventato numero uno della nomenklatura di Pechino nel 2012 come segretario del pcc e nel marzo del 2013 in quanto Presidente della Repubblica popolare, ha contribuito a una postura internazio-
nale del Paese piú muscolare, dando piena libertà di parola ai diplomatici, quasi tutti appartenenti alla sua cricca. Questo processo è iniziato molto prima della diatriba tra Cina e Usa ed è partito dall’Africa, continente sul quale la Cina da tempo investe, sperimentando i propri prodotti sui mercati locali (Huawei fece la stessa cosa in Sudamerica). Nel corso degli anni gli ambasciatori cinesi in Africa hanno risposto in modo piú o meno veemente alle accuse di neocolonialismo, per poi passare il timone a rappresentanze diplomatiche piú pesanti. I lupi però, di recente, sembrano essersi trasformati in agnelli: al culmine delle polemiche e delle accuse reciproche tra Cina e Stati Uniti l’atteggiamento di questi rappresentanti di Pechino nei confronti delle elezioni americane è parso cambiare, mutando completamente l’ecosistema mediatico nazionale. A segnare questo cambiamento è stato Cui Tiankai, ambasciatore cinese negli Stati Uniti: alla fine di luglio 2020 ha scritto un articolo su “Politico” dal titolo La Cina e gli Stati Uniti dovrebbero ripristinare la loro relazione, nel quale ha ricordato le parole di Nixon dopo il primo storico incontro con Deng Xiaoping nel 1979: “Non sono le nostre convinzioni comuni che ci hanno riuniti qui, ma i nostri interessi comuni e le nostre speranze comuni […] la speranza che ognuno di noi ha di costruire un nuovo ordine mondiale in cui nazioni con sistemi e valori diversi possono vivere insieme in pace, rispettandoci l’un l’altro mentre siamo in disaccordo l’uno con l’altro”. L’articolo di Cui Tiankai che ripropone questa collaborazione nel rispetto delle differenze è parso avere un destinatario principale, ovvero il candidato democratico alle elezioni americane Joe Biden.
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Il progetto di Xi Jinping di una Nuova Via della Seta mirava proprio a un rinnovato protagonismo cinese.
Eppure proprio Biden, annunciando la sua candidatura, non aveva emozionato granché i cinesi, cosí come non è piaciuta a Pechino la nomina per la vicepresidenza di Kamala Harris, che in precedenza si era espressa a favore dei manifestanti di Hong Kong. Dopo l’intervento di Cui su “Politico” i media di stato cinesi hanno cambiato il proprio atteggiamento, con articoli di esplicita critica a Trump piú che all’intero sistema democratico americano. Questo cambiamento “ufficiale”, però, non sembra avere attecchito tra tutti i funzionari per alcuni motivi che ricalcano le vicende che portarono allo scetticismo nei confronti di Hillary Clinton. Trump, pur nella sua imprevedibilità (caratteristica detestata dal Partito comunista cinese), garantisce a Pechino un’agibilità che era impensabile con Obama. Nonostante i dazi, le sanzioni e le sparate su Twitter, Donald Trump per la Cina ha significato la possibilità di presentarsi al resto del mondo come potenza responsabile, favorevole al mercato globale, e come potenziale guida della globalizzazione. Tutti elementi fondamentali per gli intenti di Xi Jinping, il cui progetto di Nuova Via della Seta mirava proprio a un rinnovato protagonismo cinese. Anche perché il protezionismo politico di Trump ha finito per allontanare gli Stati Uniti da ruoli importanti all’interno di organizzazioni internazionali, con il risultato di un avanzamento cinese: l’esempio dell’Organizzazione mondiale della sanità è lí a dimostrarlo. Inoltre la politica asiatica di Trump ha assunto fin da subito le sembianze di un immenso favore fatto a Pechino: stracciando la strategia “pivot to Asia” di Obama, tesa a contenere la Cina,
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e affossando la Transpacific Partnership (un accordo di libero mercato tra molti paesi asiatici, a eccezione della Cina), Washington ha finito per gettare tra le braccia di Pechino anche paesi che storicamente non si possono certo annoverare tra gli alleati cinesi, come Giappone e Corea del Sud. Con Seul e Tokyo, Trump ha fatto perfino di peggio, lamentando di dover garantire e pagare la loro sicurezza, creando non poco scompiglio e nervosismi nelle leadership dei due paesi, cui ha valso ben poco la “pace mediatica” con il leader nordcoreano Kim Jong-un. Infine c’è un aspetto da non sottovalutare e che di sicuro è tenuto a mente dalla leadership cinese: Joe Biden potrebbe intraprendere un’opera di contenimento nei confronti della Cina sicuramente piú “educata” nei modi rispetto a Trump, ma al contrario dell’attuale amministrazione Usa potrebbe anche cercare sponde, instaurare un dialogo multilaterale contro Pechino con altre nazioni, specie quelle europee. Si tratterebbe di un’insidia non da poco per la Cina di Xi Jinping, che fino a oggi sembra aver sfruttato a proprio vantaggio non solo la crescita economica e tecnologica interna ma anche il modus operandi di Trump, sgradito a molte cancellerie europee. Le parole di Cui Tiankai, dunque, piú che un’apertura a Biden vanno lette come un piú cauto atteggiamento di attesa da parte di Pechino, nella speranza che un cambio alla Casa Bianca possa favorire un’atmosfera meno tesa tra le due potenze mondiali. Le quali, al di là della retorica di entrambe le parti, sono a tal punto interconnesse da rendere quasi impossibile una rottura totale delle relazioni economiche e politiche. ◊
GRAPHIC NOVEL
Not funny Nel 1977 Ridley Scott sceglie il titolo di un testo di William Burroughs (Blade Runner) per un film che reinterpreta un racconto di Philip Dick: Do androids dream of electric sheep? Dall’incontro prende forma l’immaginario della mutazione tecnologica e culturale in corso negli anni ottanta. Burroughs e Dick hanno descritto il linguaggio come un virus che si è insinuato nell’organismo umano, ha trasformato la sua biologia, ha inibito la facoltà del silenzio. Per il virus della parola non esiste immunità: da questa intuizione prende forma l’immaginario della mutazione tecnologica e culturale in corso oggi.
Disegni Gianluca Costantini Testi Franco Berardi Bifo
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PERCIÒ IL PUNTO NON È �N�� O PER�E�.
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E’ UN INCUBO. E’ �UESTO CO�E� LUN�O L� �IN��I� �EL �I�ST�� �PEN�O C�E PRI�� O POI IL �I�ST� TI ��E�� � ���LIE.
L’incubo di ie�i no�e non e� mio.
Io e� �o��n�o un �e��ona�io de�’incubo di qua�cun a���� ma di chi?
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Quindi è nua. �� pochi is�nti lo capi�i.
Ma solo diveni� nua è per�e�a�en� zen.
M���� ����� �� ��� ����. RELAZIONI: 45
Ho scelto di leggere soltanto maschi bianchi, perché l’abisso si racconti dal di dentro. Cormac McCarthy, John Steinbeck, Philip Roth e Jonathan Franzen. È una scelta certamente discutibile e so che qualcuno me la può rimproverare. Me la rimprovero io stesso, ma poi mi giustifico con una ragione molto personale: sono maschio bianco e senescente. So di cosa sto parlando. L’abisso americano Testo Franco Berardi Bifo Immagini Laura Alandes RELAZIONI: 47
Il disfarsi degli Stati Uniti Il filo principale degli ultimi vent’anni della storia del mondo è la lenta disgregazione della potenza americana. L’undici settembre 2001 è il punto di partenza di questo processo. La forza militare di gran lunga piú potente di tutti i tempi appariva ed era indistruttibile. Il solo modo di distruggerla era spingere il gigante contro se stesso. Questa è la strategia che seguí Osama bin Laden. Sotto la direzione poco intelligente di George Bush e Dick Cheney il gigante entrò in un processo di autodistruzione. La disfatta afghana e quella irachena provocarono demoralizzazione e furia nel cervello bianco americano. Salman Rushdie racconta questa furia autodistruttiva nel profetico romanzo Fury pubblicato nel 2001. Poi venne il collasso finanziario del 2008, e un presidente nero alla Casa Bianca. Barack Obama presidente fu uno shock per l’istinto suprematista radicato nella storia americana e nella psiche dell’uomo bianco. L’ascesa di Trump è la reazione della società bianca a una lunga lista di umiliazioni: disfatta nelle due guerre di Bush, impoverimento della classe media seguito alla crisi del 2008, e alla fine un elegante colto presidente nero. Quattro anni di trumpismo hanno fatto avanzare rapidamente il processo di disgregazione dello Stato, e il processo si avvicinava al compimento quando nel 2020 è esplosa la pandemia. Cosa accadrà dopo? Naturalmente non lo so, ma mi limito a osservare che dopo una serie di rovesci politici Trump appare sempre di piú come il leader del popolo del secondo emendamento, cioè dei bianchi armati, che non sono un’esigua minoranza, ma una quota decisiva della popolazione. In maggio abbiamo assistito alla diffusione della rivolta nera in molte città, mentre un gruppo di trumpisti armati entrava dentro il palazzo
La gloria della colonizzazione del West è raccontata qui come un vagabondaggio nebbioso tra violenza, paura e abiezione, un resoconto delle origini della storia americana 48 RELAZIONI:
del governo del Michigan. In un articolo di Roger Cohen intitolato The Masked versus the Unmasked, pubblicato dal “New York Times”, possiamo cogliere la percezione di un precipitare che si è fatto quasi inarrestabile: “Un vicino di casa in Colorado mi ha detto che per i liberali è giunto il momento di prendere le armi. Quelli sono armati e non si fermeranno davanti a niente. Cosa potremo dire ai nostri nipoti? Che abbiamo provato a resistere con le parole, ma che loro avevano i fucili?”. Cohen aggiunge subito che non è d’accordo con il suo vicino, e che la democrazia americana non è come la democrazia ungherese. Ma io non sono tanto sicuro che il suo ottimismo sia fondato, anzi penso che la democrazia americana sia molto piú profondamente corrotta di quella ungherese, essendo l’espressione di processi storici che includono anche la tentazione genocida, la deportazione, la schiavitú, la violenza. La democrazia americana è stata un falso fin dal principio, fin da quando i proprietari di schiavi che scrissero la dichiarazione di indipendenza si fermarono a considerare la possibilità di scrivere qualcosa a proposito del problema della schiavitú, poi decisero di rimandare. Non dovremmo credere che Trump sia una stranezza un po’ funky dello spirito americano, o l’eccezione in un paese di gente ragionevole: Trump è l’espressione dell’anima bianca il cui inconscio è infestato dal senso di colpa, e quindi dal desiderio di vendetta. Grazie alla sua ignoranza e alla sua abiezione morale Donald Trump rappresenta una delle anime piú profonde di un popolo che – nel passato – ha potuto tollerare i crimini contro le popolazioni native, gli abusi su milioni di neri, Hiroshima e Nagasaki, gli attacchi e le ingerenze nei confronti di Stati sovrani, soprattutto in America Latina. Non ci sono usa alternativi come pensammo negli anni sessanta e settanta. Ci sono milioni di donne e di uomini che hanno subito la violenza dell’America e a un certo punto, tra gli anni sessanta e settanta, tentarono di riformare il Paese. Fallirono, e i loro sforzi furono inghiottiti da un buco nero. Osama bin Laden è riuscito nel suo progetto di spingere la piú grande potenza militare di tutti i tempi contro se stessa. La provocazione del 2001 costrinse il gigante a fare la guerra contro
il caos, ma chiunque faccia la guerra al caos è destinato alla sconfitta perché il caos si alimenta della guerra. Bush e Cheney non lo sapevano e si infilarono nella trappola. Grazie alla loro stupidità ora cominciamo a vedere che il crollo del gigante si profila all’orizzonte. Fin da quando nel 1992, al primo summit sul clima di Rio de Janeiro, George Bush senior disse che il tenore di vita degli americani non è oggetto di trattative fu chiaro che nel futuro del pianeta c’era una contraddizione insanabile: l’idea di sviluppo della quale gli Stati Uniti si facevano garanti rischiava di distruggere il pianeta. Le tracce di questo futuro probabile le troviamo nella coscienza letteraria. Avrei voluto parlare dei libri di Joyce Carol Oates, particolarmente di A Book of American Martyrs, o della straordinaria premonizione di Octavia Butler che negli anni ottanta del secolo passato, in Parable of the Sower, descrive una perfetta distopia in cui l’empatia col dolore dell’altro è considerata come una malattia. Ho scelto invece di leggere soltanto maschi bianchi, perché l’abisso si racconti dal di dentro. Cormac McCarthy, John Steinbeck, Philip Roth e Jonathan Franzen. È una scelta certamente discutibile e so che qualcuno me la può rimproverare. Me la rimprovero io stesso, ma poi mi giustifico con una ragione molto personale: sono maschio bianco e senescente. So di cosa sto parlando. Il buio dentro Il secondo romanzo di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1968 col titolo Outer Dark, è un viaggio metaforico verso l’anima originaria dell’America bianca. Il tempo e il luogo della storia sono nebulosi: desolazione, assenza di ogni riferimento storico, senso pervasivo di un offuscamento mentale. In qualche posto dalle parti dell’Appalachia, intorno al passaggio tra xix e xx secolo, una don-
na che si chiama Rinty partorisce il figlio di suo fratello. Il fratello, Culla, lascia il bambino senza nome nei boschi perché muoia, poi dice alla sorella che il bambino è morto per cause naturali. La donna non gli crede e va fuori, nel buio, alla ricerca del figlio. “I bambini del Regno saranno lasciati nel buio là fuori: e ci saranno pianti e stridore di denti”, dice il Vangelo di Matteo. La presenza ossessiva del Dio biblico disegna ombre di colpa che ossessionano i personaggi del racconto, nessuna coscienza emerge dalle loro azioni né dalle loro parole. Dopo aver abbandonato il bambino, Culla vaga ramingo, trova un lavoro e delle armi, uccide qualcuno, poi fugge, come in un incubo. L’episodio finale è il piú assurdo e il piú spaventoso. Culla cade in un fiume, si rompe una gamba, e quando esce dal fiume incontra tre uomini che lo Laura Alandes è una fotografa originaria di Valencia che vive e lavora a New York.
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hanno seguito. Portano con loro suo figlio, il bambino che Culla ha abbandonato nel bosco. Il bambino è orribilmente ferito, è privo di un occhio. I tre uomini accusano Culla di esserne il padre, poi uno dei tre uomini uccide il bambino. La conclusione è circondata da una luce surrealista di follia: sopravvissuto alle sue avventure, Culla diviene amico di un cieco, lo vede camminare verso una palude dove può morire. Il romanzo si conclude con le parole che Culla dice fra sé: “Qualcuno dovrebbe dire a quel cieco dove sta andando”. La gloria della colonizzazione del West è raccontata qui come un vagabondaggio nebbioso tra violenza, paura e abiezione, un resoconto delle origini della storia americana. Furore Dall’incubo alla realtà, dalla narrazione mitologica e allucinata di Cormac McCarthy alla narrazione storica di John Steinbeck.
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“Zerohedge” è una rivista nazional-operaista che esprime la visione del suprematismo antiglobalista della classe operaia bianca americana. Poiché sono un lettore assiduo di questa rivista ripugnante e utilissima mi ha colpito un articolo di Wayne Allensworth, dal titolo The Old America Is Dead: Three Scenarios for the Way Forward, che fa riferimento al film che nel 1939 John Ford trasse dal romanzo di Steinbeck The Grapes of Wrath, Furore nella traduzione italiana. Cacciato dalla terra che da tre generazioni appartiene alla sua famiglia, Muley affronta il bulldozer che viene a demolire la sua casa imbracciando un fucile. Sono gli anni della Depressione: in conseguenza del loro indebitamento e del contesto finanziario che non sono in grado di comprendere, una comunità di lavoratori agricoli dell’Oklahoma riceve la visita degli sgherri del padrone che li avvertono: dovete andarvene da questa terra. “Alcuni degli uomini del padrone erano gentili perché odiavano quel che stavano facendo, altri erano arrabbiati perché detestavano essere crudeli, ma tutti sapevano di essere presi in qualcosa piú grande di loro. Alcuni di loro odiavano la matematica che li aveva condotti lí, alcuni erano spaventati, alcuni invece adoravano quella matematica perché forniva un rifugio dal pensiero e dal sentimento. […] Quando il mostro smette di crescere, muore. Non può rimanere delle stesse dimensioni”, scrive Steinbeck. La dolorosa impotenza dei lavoratori di fronte al mostro del capitalismo finanziario torna di attualità oggi mentre la pandemia riporta allo scenario della Depressione. “Alla fine gli uomini del padrone vennero al punto: ‘Il sistema della mezzadria non funziona piú. Un uomo su un trattore può sostituire dodici o quattordici famiglie. Gli paghiamo un salario e produce tutto il raccolto. Siamo costretti a farlo. Non ci piace, ma il mostro è ammalato’. I mezzadri siedono per terra mentre l’avvocato sta parlando e infine dice: ‘Ve ne dovete an-
dare dalla terra’. Gli uomini seduti si alzarono incazzandosi. ‘Mio nonno ha preso questa terra, ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via di qui. Mio padre è nato qui, ha ucciso i serpenti e strappato le erbacce. Poi è venuto un anno cattivo e siamo stati costretti a prendere il denaro in prestito.Noi siamo nati qui. Papà ha dovuto prendere altro denaro in prestito. E a quel punto la banca aveva la proprietà della terra, ma noi stavamo qui e prendevamo una parte di quel che potevamo raccogliere’. Ma gli uomini del padrone sono inflessibili, e il mezzadro gridò: ‘Mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha ucciso i serpenti, noi possiamo uccidere le banche, che sono peggio degli indiani e dei serpenti […]’. Gli uomini del padrone si arrabbiano. ‘Dovete andarvene’. ‘Prenderemo le nostre carabine, come il nonno quando arrivarono gli indiani. E poi? E allora verrà prima lo sceriffo, poi verranno i soldati… il mostro non è umano, ma può fare quel che vuole degli esseri umani…’.” Questo sentimento e questa mitologia spiegano cosa fa la forza di Trump: i bianchi che hanno conquistato la terra, e per colonizzarla hanno dovuto uccidere gli indiani, sono sotto minaccia per colpa del globalismo liberale. Trump è la loro arma contro la minaccia globalista. Il popolo del secondo emendamento ha ora l’ultima opportunità di salvare il proprio predominio sociale: questa opportunità è Trump, sostiene Wayne Allensworth. “Il nostro popolo, la nostra cultura, la nostra storia, tutto quel che abbiamo caro, oggi subisce l’attacco dei media mainstream, dei politici, degli attivisti e dei magistrati, aiutati e sostenuti dai nemici interni, che spesso sono nostri figli e nostri amici, ma hanno interiorizzato la calunnia sinistrorsa del sangue, la narrazione di un’America irrimediabilmente razzista che deve essere rasa al suolo. Fino a poco tempo fa il blob globalista non aveva fatto i conti con la Nazione Storica Ameri-
cana che si è ora alzata in piedi. Poi è stato eletto presidente Donald Trump. Il blob fu scioccato. Usando il virus cinese e le rivolte come copertura, il blob e la sua ala militante, Antifa e Black Lives Matter, hanno portato a nuovi livelli l’anarco-tirannia”. La mitologia suprematista sostenuta da un esercito di bianchi armati ha radici profonde. L’articolo si conclude poi con un incitamento aperto a preparare la guerra civile: “Se noi facciamo affidamento soltanto sulla politica elettorale perderemo, soprattutto perché si sta chiudendo il cerchio demografico, i vincitori non ci daranno tregua. La vita politica che abbiamo conosciuto in passato è finita. L’America in cui siamo cresciuti e che amavamo è morta. Le elezioni sono al piú un’azione di resistenza. Ma sembra improbabile che Trump, o chiunque altro, possa per esempio deportare e spingere all’autodeportazione decine di milioni di alieni illegali, anche se può desiderarlo”.
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Ma c’è una buona notizia: i bianchi hanno imparato come comportarsi quando i tumulti minacciano le loro case e la loro storia”.
Trump non può fare da solo tutto il lavoro, dicono i suprematisti. Dobbiamo prendere le armi e fare il lavoro con lui: deportare decine di milioni di immigranti illegali. Lo abbiamo fatto quando massacrammo gli indiani. Dobbiamo farlo di nuovo. Follia? Certo, ma è proprio questo che i politologi non sono in grado di capire: che solo la follia può comprendere un mondo totalmente fuori controllo. E che succede se Trump perde le elezioni di novembre?, si chiede Allensworth. La riposta è questa: “Se Trump perde, il blob trionfa. Ma poiché questa non è una nazione, adesso, ma solo un paese, privo di un senso comune, di una fede e di una lingua, solo uno stato di polizia può tenerlo insieme. Ma questo non potrà assicurare l’ordine nel caos della post-America, e il numero decrescente di bianchi non godrà certamente della protezione di quello Stato. I bianchi americani potranno trovarsi nella condizione dei bianchi sudafricani, costretti a temere continuamente per la loro vita.
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Questo Paese è spaventoso Dagli anni della Depressione agli anni sessanta, alle rivolte nere e alla contestazione universitaria. In Pastorale americana Philip Roth mette in scena la tragedia di un uomo che è cresciuto come un sonnambulo credendo nei valori del sogno americano, fin quando è costretto a riconoscere la realtà: un crollo che colpisce la sua famiglia, il Paese e il mondo intero. Lo chiamano lo Svedese, ma è un giovane ebreo del New Jersey: un ragazzo modello, alto, bello, studioso, buon giocatore di baseball. Siamo negli anni cinquanta e la vita per lui si presenta gloriosa e felice. Sposa Miss New Jersey, hanno una figlia, Merry. Merry è affetta da una pronunciata forma di balbuzie. Non c’è modo di curare questo suo difetto, questa macchia angosciosa nella perfetta gioia della famiglia che si affaccia sul decennio sessanta. Poi Merry vede alla TV un monaco che si cosparge di benzina e si dà fuoco, rimanendo immobile in mezzo alla fiamma fin quando non cade come un pezzo di legno. È cosí che la realtà si apre un varco nel giardino incantato del sogno americano dello Svedese. Scoppiano le rivolte nere, Watts e Newark in fiamme. Lo Svedese protegge la sua fabbrica di guanti, tutto nel quartiere sta cambiando. Non è piú il giardino incantato, lindo come uno spot pubblicitario, c’è sangue, paura. E soprattutto Merry è come impazzita. Non torna a casa la sera, frequenta amici pericolosi, comunisti, anarchici. Poi la tragedia esplode, e non ci sarà mai piú modo di rimediare. Merry diventa un’assassina, Merry ha messo la bomba che ha ucciso un povero passante, un medico ben voluto in città, Merry è latitante, è fuggita, Merry non tornerà piú, sua madre ha un crollo nervoso. Merry si rifugia in un quartiere
Nessuno avrebbe immaginato che gli Stati Uniti sarebbero potuti finire come stanno finendo. L’America, malattia terminale del genere umano, si sta sbriciolando. non lontano. Accetta di vedere lo Svedese. Merry è magrissima, sporca, rovinata. Merry è stata violentata. Il mondo dello Svedese è crollato, telefona al fratello, gli dice di Merry, gli dice che nulla è come aveva creduto. “‘Tu non hai idea di cosa sia questo paese. (…) Questo paese è spaventoso’. (…) A quarantasei anni di età lo Svedese si accorse del fatto che siamo tutti alla mercede di qualcosa di demente. È solo questione di tempo…” Ecco: credo proprio che il tempo è venuto. Nessuno avrebbe immaginato che gli Stati Uniti sarebbero potuti finire come stanno finendo: il numero dei morti per coronavirus cresce ogni giorno, il sistema sanitario cura solo chi ha soldi. L’ennesimo omicidio per strangolamento, l’esplosione delle proteste, la nuova violenza poliziesca, e l’invio delle truppe a Portland. Gli appelli al popolo del secondo emendamento, e le file di cittadini che comprano armi al supermercato. L’America, malattia terminale del genere umano, si sta sbriciolando. Marasma “La follia del fronte freddo che attraversa una prateria d’autunno. Una raffica di disordine dopo l’altra […] l’intera nordica religione delle cose si avvicinava alla fine”. È l’incipit del libro che segna il passaggio al secolo della rapida disintegrazione, prima di tutto disintegrazione del cervello umano: The Corrections, di Jonathan Franzen. “Alfred mancava del cumquibus neurologico”. Alfred Lambert è padre di tre figli che hanno tra i trenta e i quarant’anni, ed è il marito di Enid. Enid sull’orlo di una depressione scopre la magia degli antidepressivi chimici, mentre Alfred vacilla sull’orlo della demenza. Il mondo diviene sempre meno comprensibile, ogni oggetto si fa
scivoloso e sempre piú difficile da afferrare, e le azioni si fanno confuse, gli oggetti perdono il loro senso, la loro connotazione funzionale. La realtà è diventata incomprensibile non soltanto per la degradazione neurochimica, ma anche per la trasformazione dell’ambiente circostante. “Un uomo di colore fa un pompino a un uomo bianco, la telecamera gira intorno al fianco sinistro […] Scaricò l’immagine e la guardò ad alta risoluzione. […] E c’era una importante domanda cui voleva trovare risposta. Presto sarebbero arrivati i suoi figli. Gary e Denise e forse anche Chip, il suo figlio intellettuale. E forse Chip avrebbe potuto rispondere a quella importante domanda. E la domanda era... la domanda era...”. Il marasma è una condizione di estrema dissociazione del flusso cerebrale e dell’universo circostante: si verifica quando il sistema nervoso comincia a perdere l’integrazione necessaria per elaborare gli impulsi semiotici e quelli naturali. Molti segni nella situazione americana conducono verso una diagnosi politica: il cervello americano è in condizioni di marasma. Un marasma politico ma soprattutto psichico. La percezione di una vertigine apocalittica, quindi, non nasce soltanto dalla resa dei conti con la lunga storia di violenza razziale e sessuale, di inquinamento industriale e psichico, e di supersfruttamento economico, ma anche dalla degradazione neurologica senile e dall’impotenza. Nel film Nebraska di Alexander Payne (2013), un ufficiale di polizia scopre il vecchio Woody Grant che cammina lungo l’autostrada. Lo prende con sé e chiama il figlio David, cui il padre dice che vuole andare a Lincoln, Nebraska, per ricevere un milione di dollari che crede di avere vinto in una lotteria. Quando David vede il biglietto della presunta vincita capisce che si tratta di un messaggio pubblicitario per convincere qualche fesso a comprare qualcosa. È una storia struggente, ed è lo specchio di una popolazione (la maggioranza degli americani bianchi) cresciuta con false mitologie di superiorità e nutrita da un cibo orribile (in senso fisico e spirituale) e adesso, come nell’ultima scena di Outer Dark, sta camminando come un gruppo di ciechi sonnambuli verso le sabbie mobili, senza abbandonare la certezza della propria superiorità. ◊
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GALLERIA
FO U N D P H OTO S IN DETROIT
“Abbiamo trovato queste foto nelle strade di Detroit. Le abbiamo prese e abbiamo cominciato a setacciare migliaia di polaroid, lettere, riproduzioni di prove giudiziarie, documenti della polizia, foto segnaletiche, album di famiglia. Quella che vedete è una selezione di immagini tratte dall’archivio Found Photos in Detroit 2009-2010.”
di Arianna Arcara e Luca Santese
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Found Photos in Detroit nasce dall’idea di un reportage sulla città di Detroit. Il progetto originariamente intendeva ritrarre l’abbandono e la decadenza in cui si trova la città, conseguenza della crisi socioeconomica che l’ha colpita a partire dalla metà degli anni settanta. Durante il primo viaggio, nel dicembre del 2009, i fotografi hanno ritrovato molte foto e documenti abbandonati nei pressi di diversi edifici pubblici dismessi, stazioni di polizia, scuole, tribunali, ospedali. Questo materiale, per quanto in un primo momento sembrasse del tutto casuale, ha rivelato immediatamente un sorprendente potenziale di documentazione. Allo stesso tempo, la volontà iniziale di raccontare la città con un reportage andava sfumando, per riemergere nella forma di una sfida diversa, una ricostruzione ottenuta attraverso il montaggio. Il materiale mostrava che un fotoreportage su Detroit sarebbe stata un’operazione a posteriori, incapace di restituire l’evoluzione della decadenza; diventava chiaro che un lavoro sul materiale fotografico già esistente sarebbe stato in grado di mostrare il fenomeno dall’interno. A Detroit sono stati ritrovati molti faldoni con diversi documenti riconducibili agli archivi della polizia: non solo foto, quindi, ma anche lettere minatorie e prove di altro genere. Insieme a questo tipo di documenti, tuttavia, sono state raccolte anche fotografie di vita famigliare, e tracce di vita quotidiana. Le immagini ritrovate sono in tutto un migliaio, ma per la prima mostra è stato selezionato un corpus di 200 fotografie. Il criterio di selezione fondamentale è stato considerare i materiali per quello che sono nella sostanza: documenti. Non importa se civili, pubblici o privati. Ogni singolo pezzo è, di per sé, una testimonianza. Apertura sinistra
Found Photos in Detroit, Untitled, Polaroids. Apertura destra
Found Photos in Detroit, Flag. Fig. 01, Fig. 02
Found Photos in Detroit, Polaroids. Fig. 03, Fig. 04
Found Photos in Detroit, Abused children. Fig. 05
Found Photos in Detroit, Mugshot and Evidence.
Un sistema di rilevazione che “sente” gli umori dell’elettorato. Un presidente sociopatico che sopporta solo di essere assecondato. Una realtà completamente ricreata dalla disinformazione. Un Paese reso immune all’empatia da un misterioso vaccino. Cronaca o immaginazione distopica?
Ditegli sempre di sí! Chill’è pazzo!
Testo Alessandro Carrera Immagini Lauren Greenfield
in interface, un romanzo di fantascienza uscito in inglese nel 1994 a firma di Stephen Bury (pseudonimo di Neal Stephenson e J. Frederick George), s’immagina una campagna elettorale negli Stati Uniti in cui un candidato è virtualmente imbattibile. Un chip impiantato nel cervello e collegato a un network di rilevazioni gli permette di percepire istantaneamente le variazioni nei sondaggi. Mentre pronuncia i suoi discorsi elettorali, “sente” in tempo reale le reazioni dell’elettorato e si orienta di conseguenza. L’aggeggio bionico non gli basta per vincere le elezioni. Anzi, per via di una serie di improbabili intrighi, la presidenza degli Stati Uniti va alla fine a una donna afroamericana di umili origini, che il giorno dell’inaugurazione affronta gli stupefatti membri del Congresso annunciando che sí, forse loro non ci possono credere ma questa black bitch è arrivata alla Casa Bianca e intende restarci. Per i democratici ottimisti potrebbe essere la profezia di una futura vittoria di Kamala Harris, attualmente candidata alla vicepresidenza nel ticket elettorale che la accomuna a Joe Biden (anche se il Joe Biden del romanzo fa una brutta fine, altrimenti la presidenza non andrebbe a lei). I meno ottimisti faranno bene invece a meditare sull’altra profezia, quella del chip impiantato nel cervello. Non si è realizzata esattamente come gli autori avevano previsto, ma è qui, sotto i nostri occhi, e può darsi benissimo che, per vincere, sia piú che sufficiente. L’attuale presidente degli Stati Uniti ha instaurato con il suo popolo un rapporto che potrebbe essere visualizzato dall’antica etichetta della “Voce del Padrone”, quella del cane fedele seduto davanti al fonografo ad ascoltare. In questo caso, però, non si sa chi sia il fonografo e chi sia il cane. I ruoli si scambiano continuamente. A volte il presidente è il fonografo e il cane fedele è la sua base elettorale. Altre volte è il contrario. La base elettorale è il fonografo e il cane fedele è il presidente, il quale ripete quello che ha appena sentito dalle sue fonti di informazione preferite: Fox News, Breitbart News, oan (One America News Network), Alex Jones, Rush Limbaugh, nonché le infinite teorie del complotto partorite da quel formicaio di menti dissennate che risponde al nome di QAnon. Non c’è filtro, non
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L’attuale amministrazione sa benissimo quello che sta facendo: sta trasformando gli Stati Uniti d’America in una repubblica totalitaria.
c’è discernimento, c’è solo caos. Caos verbale, caos mentale. Sia chiaro, l’attuale amministrazione sa benissimo quello che sta facendo: sta trasformando gli Stati Uniti d’America in una repubblica totalitaria tramite la nomina di giudici federali conservatori, la deregolamentazione in materia di protezione dell’ambiente, la severa riduzione o abolizione delle leggi antinquinamento nonché la deificazione della polizia, usata come truppa antisommossa per spaventare i neri a dovere. Negli Stati Uniti le forze di polizia sono state regolamentate nell’ottocento con il primo e principale scopo di catturare gli schiavi che fuggivano e piú in generale di “tenere i neri al loro posto” (in inglese la frase suona piú cruda, ma qui non la voglio ripetere). Il rapporto a specchio che si è instaurato tra l’industria della disinformazione e le parole pronunciate giornalmente, nonché caoticamente, dall’attuale presidente degli Stati Uniti deve però essere analizzato. Se la maggiore fonte di disinformazione alla quale attinge un buon 40% della popolazione è il presidente in persona, non si tratta piú nemmeno di disinformazione, bensí della creazione di una realtà alternativa. Ma anche questo termine è ormai inadeguato. Da quando Donald Trump è diventato presidente, dovremmo parlare piuttosto di realtà.2, ormai indipendente dalla realtà.1 nella quale si ostinano a vivere coloro che non si abbeverano alle fonti di disinformazione sopra menzionate. Un esempio sarà sufficiente: il 30 luglio 2020 è mancato un uomo di nome Herman Cain, 74 anni, afroamericano, imprenditore, ex amministrato-
re delegato di una vasta catena di pizzerie, presidente dell’Associazione nazionale dei ristoratori, nel 2011 candidato repubblicano alla presidenza, promotore della “tassa unica 9,99%” (“Non è il prezzo di una pizza?”, si chiesero in tanti), ardente sostenitore di Donald Trump tanto da farsi vedere alla manifestazione pro-Trump di Tulsa, Oklahoma, il 20 giugno 2020 senza mascherina sul volto e senza rispettare nessuna distanza sociale perché, come aveva ripetutamente affermato seguendo il suo presidente, la pandemia non esiste e la maschera è un trucco dei democratici per soffocare la libertà. Quaranta giorni dopo è morto di Covid-19. La famiglia non ha cancellato il suo account Twitter, anzi ha continuato a usarlo a suo nome. Non molti giorni fa è infatti circolato un tweet in cui si sosteneva che il Covid-19 “non è poi cosí letale come si dice”. Firmato: Herman Cain. Questa squisita disinformazione dall’oltretomba non era venuta in mente nemmeno ai grandi tiranni del passato che, se una cosa sapevano, era di non essere immortali, e per quanto paranoici potessero essere, da Ivan il Terribile a Stalin, forse avevano il sentore che la morte non si fa disin-
Nella pagina precedente: Jackie Siegel, moglie del magnate immobiliare David Siegel, con sei dei suoi otto figli, nel salotto della sua casa in costruzione, di oltre 8.000 mq, ispirata alla Reggia di Versailles. In questa pagina: Manifestazione dorata dell'ideale americano del self-made man, Limo Bob, autoproclamatosi “Limo King”, possiede un impero di limousine personalizzate con lampadari di cristallo, jacuzzi e stripper pole, che superano i 30 metri di lunghezza.
Lauren Greenfield è stata definita “la piú importante cronista visiva della plutocrazia” dal “New York Times”. Fotografa e regista vincitrice di un Emmy, ritrae le icone della cultura pop riflettendo sulle questioni di genere e sul consumismo, come nel caso del progetto “Generation Wealth”. I suoi lavori sono stati pubblicati ed esposti nei musei di tutto il mondo, inclusi l’Art Institute di Chicago, il County Museum of Art e il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il Museum of Modern Art di San Francisco.
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Da quando Donald Trump è diventato presidente, dovremmo parlare piuttosto di realtà.2, ormai indipendente dalla realtà.1
formare. Non cosí i sostenitori di Donald Trump: la loro trasformazione in zombie è ufficialmente cominciata. Non solo: è una tappa molto importante nella costruzione della realtà.2. Sono zombie alfabetizzati; sanno scrivere, parlare, digitare un tweet, tutte cose che gli zombie di prima e seconda generazione non erano in grado di fare: ma perché non dovrebbe esserci evoluzione anche tra gli zombie? Il progresso tecnologico non è incompatibile con la zombificazione. Ciò che è incompatibile è l’introspezione, il dubbio che porta a chiedersi: “Ma che cosa sto dicendo? Ma chi me lo fa dire?”. La persona e lo zombie non possono coincidere; uno dei due deve farsi da parte. D’altra parte, il presidente degli Stati Uniti non è uno zombie; anzi è ben vivo. Non è lui a reggere le fila dell’industria della disinformazione, anzi a volte ne è solo un prodotto. Occupa la posizione privilegiata – un classico cliché da commedia – del matto al quale nessuno deve dire che è matto (non ho detto che è matto; ho detto che ne occupa la posizione). C’è stato un momento, negli ultimi mesi, in cui sarebbe stato possibile smontare l’intero edificio della realtà.2 cosí pazientemente costruita fin da quando Donald Trump, allora non ancora presidente e nemmeno candidato, aveva lanciato la campagna secondo la quale Barack Obama non era nato negli Stati Uniti e dunque non era un presidente legittimo (c’è chi a questa forma di birtherism o “nascitismo” crede ancora adesso). Il momento si è verificato alla Casa Bianca, durante la conferenza stampa del 23 aprile, quando Trump, apparentemente improvvisando (in realtà seguendo i “consigli” di una sedicente chiesa della Florida, tutti suoi sostenitori, che predica di
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ingerire leggere quantità di lisoformio e candeggina per ripulire il corpo dal Male), ha detto allegramente che gli scienziati dovrebbero almeno considerare l’interessante possibilità di depurare il corpo umano dal virus attraverso l’iniezione in vena di disinfettanti da cucina, oppure con qualche macchinario capace di penetrare nel corpo e illuminarlo dall’interno di potenti raggi ultravioletti. Tutto il mondo ha visto la faccia terrorizzata della dottoressa Deborah Birx, coordinatrice della task force di risposta al coronavirus. Le telecamere hanno a lungo indugiato sui suoi occhi sgranati e la sua bocca serrata come in uno spasmo. Ebbene, se quella bocca si fosse aperta, se la dottoressa Birx si fosse alzata per dire: “Presidente, la smetta di dire idiozie!”, Trump, lo si può giurare, avrebbe perso il controllo della situazione, avrebbe smarrito la sua narrative, e forse non gli sarebbe stato possibile recuperarla. Perché un episodio simile era già accaduto. Era il 9 giugno del 1954, quando il giudice Joseph Welch, seduto allo stesso tavolo del senatore Joseph McCarthy che stava torturando con domande insidiose l’ultima vittima della sua crociata anticomunista, improvvisamente si voltò verso di lui e gli disse: “Senatore, non le è rimasta nessuna decenza?”. Fino a quel momento, McCarthy era stato intoccabile, invincibile, gli Stati Uniti tremavano davanti a lui. Una settimana dopo, non era piú nessuno. Non si può rimproverare a Deborah Birx di non aver avuto la stessa prontezza; lo stesso eroismo, anche. Perché sarebbe stata non solo licenziata, ma minacciata di morte, e da quel momento avrebbe dovuto vivere sotto scorta armata. Ma quel momento è passato, e Trump ha avuto modo di riprendere il controllo. Stava scherzando, no? È cosí bello scherzare, sdrammatizzare un po’. Che diamine, non si può piú neanche scherzare? Ma se la dottoressa Birx avesse pronunciato quelle parole, sarebbe stato svelato il segreto degli Stati Uniti di Trump, la constatazione che da quattro anni la popolazione americana è impegnata in una gigantesca terapia collettiva a beneficio di un solo paziente – uno solo, ma affetto da una forma particolarmente severa di narcisismo esibizionista e fortemente sociopatico.
Cindy impugna una pistola durante una simulazione di attacco presso l'Elk Mountain Resort a Montrose, in Colorado. Durante le vacanze presso il resort di lusso, ai visitatori vengono offerti dei corsi di difesa personale.
Le interviste mattutine che Donald Trump rilascia a Fox News sono delle vere e proprie sedute terapeutiche in cui l’intervistatore di turno, com’è nella peggiore tradizione della psicologia dell’io, invece di aiutare il paziente a navigare fra gli scogli dei traumi di cui ha indubbiamente sofferto, si dedica con abnegazione a rafforzare il suo ego, ignorando che quell’ego è solo la somma delle sue frustrazioni e che rafforzandolo non si fa altro che ingigantire le frustrazioni stesse. Non lo rendono una persona migliore, le sedute di terapia dell’io in diretta televisiva; lo rendono solo un migliore sociopatico, ancora piú convinto del suo diritto di calpestare il mondo come se in fondo non gli importasse piú di tanto, come se per lui tutto fosse solo un gioco. Mortale, certamente, per i 190.000 morti di Covid-19 (nel momento in cui scrivo), ma in particolare per gli afroamericani che del coronavirus sono le vittime in piú alta proporzione: da coloro ai quali la polizia spara alla schiena un giorno sí e uno no, su fino a Herman Cain.
Lasciamo perdere la terapia. Gli interi Stati Uniti, inclusi i media critici di Trump e della sua amministrazione, da quattro anni stanno rappresentando una colossale farsa napoletana, a metà tra O miedeco d’e pazze di Eduardo Scarpetta e Ditegli sempre di sí (Chill’è pazzo!) di Eduardo De Filippo. La grande questione che si porrà tra novembre e gennaio, nel caso ancora molto improbabile che Donald Trump perda le elezioni (non faccio previsioni), sarà questa: siccome è certo che in caso di sconfitta sosterrà che si trattava di elezioni truccate dalla Cina, rifiuterà di concedere la vittoria a Joe Biden e non lascerà la Casa Bianca, la questione sarà dunque come convincerlo con le buone, come accompagnarlo fuori, come dirgli quelle paroline dolci che lo calmeranno e lo faranno salire su un elicottero che lo porterà docilmente in una delle sue tenute. Non c’è un protocollo per una simile crisi istituzionale. Se il presidente degli Stati Uniti impaz-
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Ma l’altra parte del Paese non si fa impressionare. Anche se si dichiara contro i vaccini, da molto tempo assume regolarmente, e molto volentieri, dosi da cavallo di vaccino anti-empatia.
zisce (o fa finta per non pagare dazio), non si sa cosa fare se non dirgli sempre di sí. Il 14 luglio 2020 una psicologa clinica ha pubblicato il libro forse piú rivelatore sulla personalità di Donald Trump: Too Much and Never Enough: How My Family Created the World’s Most Dangerous Man (ha venduto un milione di copie il giorno stesso in cui è uscito). L’autrice è Mary Lea Trump, figlia di Fred Trump Jr e nipote di Donald. Sostiene la nipote Mary che lo zio, per sopravvivere alla sadica figura di Fred Trump padre – che ha portato alla disperazione e al suicidio alcolico il fratello maggiore di Donald e padre di Mary – si è orientato sulla tattica del mentitore seriale. Fin dall’età di otto anni aveva capito che sostituire una menzogna con un’altra menzogna fa dimenticare la menzogna precedente. Gli interlocutori si scandalizzano dell’ultima, perché è sempre la piú sfacciata, ignorando o volendo ignorare che la prossima sarà piú sfacciata ancora. Grazie a questa tattica, che Trump ha portato a perfezione, la struttura a specchio della disinformazione funziona veramente nei due sensi. Non solo Trump assimila e ripete le teorie del complotto che ha sentito dai suoi media preferiti; lui stesso ne crea di nuove, puntualmente ripetute da tutti, sia per assecondarle sia per denunciarle, perché dopotutto sono le parole del presidente. Cosí capita, come a me pochi giorni fa, di entrare nel negozio annesso a un distributore di benzina nel centro geografico del Texas e di buttare l’occhio al televisore ovviamente sintonizzato su Fox News, la rete di notizie piú seguita in assoluto. Sottotitolo casuale alla notizia in corso:
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Joe Biden fa uso di droghe? Donald Trump pensa di sí. Nessun seguito, nessun commento, nessuno che dica: ma se il presidente pensa che il suo avversario sia un drogato è una cosa gravissima, è suo dovere tirar fuori le prove. No, non c’è bisogno di prove. Il messaggio deve agire esattamente nella forma in cui è stato enunciato, come una cosa cosí plausibile da essere detta per caso, nemmeno ripetuta, anzi lasciata cadere in attesa di qualche altra rivelazione piú grave ancora, che comunque non verrà commentata, non avrà seguito, sarà sostituita da qualcosa di perfino piú scandaloso, e cosí senza fine. Dopotutto, l’intero edificio della teoria del complotto sostenuta dai seguaci di QAnon è che Trump, in accordo con funzionari dello Stato che si mantengono anonimi (Anon, appunto), sta cercando di estirpare una cabala mondiale di democratici pedofili guidati da Hillary Clinton e Barack Obama. Chi ha bisogno di prove? Solo quei poveri falliti che vivono ancora nella realtà.1; la realtà. 2 si crea, si distrugge e si ricrea a volontà. Chi vive nella realtà.2 è Dio, e forgia il mondo a sua immagine e somiglianza. Ma non è nemmeno questa la cosa piú importante che impariamo dal libro della nipote di Trump. Ce n’è un’altra ancora, piú significativa. Di suo zio, scrive M.L. Trump, non si può sapere come potrebbe sopravvivere in un ambiente, diciamo cosí, normale, dove una dottoressa Birx possa effettivamente dirgli: “Signor presidente, la smetta di dire idiozie”. In altre parole, se qualcuno portasse Donald Trump nel mezzo di Times Square a New York e lo lasciasse lí, noi non sappiamo se sarebbe in grado di tornare a casa da solo senza farsi prendere da una crisi di panico, perché per tutta la vita – parole di M.L. Trump – suo zio è sempre stato “istituzionalizzato”, altro termine per dire “ricoverato”. No, non ricoverato in un ospedale psichiatrico, ma ricoverato di fatto, e protetto dal mondo esterno dalle persone del suo seguito e della sua organizzazione, che hanno sempre fatto tutto per lui, hanno diretto gli affari a suo nome, hanno comprato e venduto, l’hanno condotto attraverso sei bancarotte, innumerevoli rotture di contratti e cause per truffa, e soprattutto gli hanno sempre dato ragione (Ditegli sempre di sí!), sapendo che il
Eden Wood, qui a 6 anni, è una star di un concorso di bellezza per bambini che ha collezionato oltre trecento vittorie. Dopo questo scatto si è ritirata da questo genere di competizioni, per dedicarsi al suo personale reality show.
loro paziente non era in grado di reggere il minimo no, la minima contrarietà senza lasciarsi andare a crisi di rancore e paranoici piani di vendetta. Ho iniziato con un romanzo di fantascienza. Finisco con un film: Codice 46, diretto da Michael Winterbottom nel 2003. Un investigatore arriva a Shanghai per lavorare su un caso di frode. In una società retta da rigidissime norme genetiche alcuni certificati di assicurazione che permettono di viaggiare al di fuori della megalopoli sono stati falsificati e forniti a persone che per ragioni appunto genetiche non avrebbero dovuto riceverli. L’investigatore, padre e marito esemplare, s’innamora però di colei che ha commesso la frode. Colpa di un “virus dell’empatia” di cui si serve per entrare nella mente dei sospettati, e che lo rende però indifeso di fronte a una donna la quale, piú giovane di lui, per ragioni genetiche è di fatto un clone di sua madre (sí, è una variante del mito di Edipo, e la ditta che fornisce le assicurazioni si chiama Sfinge). Nella situazione attuale della campagna elettorale americana, verrebbe da dire che Joe Biden sia stato soggetto a una massiccia contaminazione di virus dell’empatia. L’intero Partito democratico sta cercando di convincere gli americani che Biden “sente il tuo dolore”, che anzi per via delle tragedie della sua vita (la morte della prima moglie e di un figlio in un incidente stradale, la morte per tumore di un secondo figlio qualche anno fa) è proprio l’uomo del perenne dolore, The Man of Constant Sorrow della celebre ballata folk, una sorta di Madonna addolorata al maschile, quello che ci vuole per consolare un paese devastato dalla pandemia e umiliato dalla ferocia del suo presidente. Ma l’altra parte del Paese non si fa impressionare. Anche se si dichiara contro i vaccini, da molto tempo assume regolarmente, e molto volentieri, dosi da cavallo di vaccino anti-empatia, un vero mix da sballo che rende piú forti, piú decisi, e non fa perdere tempo a soffrire per le disgrazie altrui. Dopo quattro anni passati a iniettarsi ogni giorno una siringa di vaccino anti-empatia, come si fa a non credersi invincibili, come supereroi della Marvel, come Alien, come Herman Cain twittante dall’oltretomba che la malattia che l’ha ucciso non è poi cosí mortale? ◊
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KAFKA-HAG
di Guido Vitiello “se le dico irlanda, cosa le viene in mente? Mi elenchi quattro, cinque parole al massimo”. Ecco, a questa proprio non ero preparato. E dire che ne avevo fatte di congetture, anche delle piú azzardose. L’annuncio sulla pagina delle offerte di lavoro, del resto, era piuttosto criptico. “Centro Studi Aura”, c’era scritto – e io avrei pensato subito a qualche balordaggine parapsicologica, non fosse stato per quell’elenco incongruo di requisiti: laurea in lettere o filosofia, buona conoscenza del tedesco, talento nell’affabulazione e nella falsificazione. Quest’ultima, poi. Pensai a una burla, forse perché nella pagina a fronte c’era un articolo – l’ennesimo, in quell’estate del 1984 – sui falsi Modigliani di Livorno che stavano abbindolando fior di critici e storici dell’arte. Il tedesco a dire il vero lo sapevo poco e male, e mi ero fatto aiutare da un amico seminarista per decifrare quel tanto di Walter Benjamin che serviva alla mia tesi su certe avanguardie artistiche del secondo dopoguerra, tesi che per inciso non avevo terminato e, va da sé, neppure discusso. Insomma, a rigore i requisiti mi mancavano tutti, ma la parola “aura” mi era filosoficamente familiare, e tempo da perdere ne avevo, tanto piú che l’annuncio, a differenza degli altri che affollavano il taglio basso di quel giornale locale, ai perditempo non raccomandava di astenersi. Cosí presi un appuntamento e mi presentai nel luogo concordato, che avrebbe, questo sí, dovuto insospettirmi – una porticina ritagliata in una parete rugosa e abbacinata dal sole, davanti a uno spiazzo di terra battuta, in una periferia che non era ancora campagna ma di certo non era piú città. E cosí, eccomi davanti a quell’uomo in gilè e alla sua misteriosa domanda sull’Irlanda, che disarcionò tutte le mie congetture. Era dunque una seduta psicoanalitica? Un abboccamento di qualche scuola di self-help? L’avamposto di una nuova sezione provinciale di Scientology,
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di cui anche in Italia da qualche anno si era cominciato a parlare? E allora perché quegli strani requisiti? L’uomo in gilè sfilò dal taschino un grosso orologio a cipolla che pareva un cimelio del primo ottocento, e ricordo che il gesto mi stupí, perché al polso aveva uno Swatch trasparente che spuntava sotto le maniche arrotolate. Capii che il mio tempo era finito e che dovevo rispondere. Tra l’immediatezza e la voglia di far bella figura scelsi una via di mezzo che inclinava alla seconda, e attaccai cosí: “Shamrock, fiume Liffey, rognoni di castrato, Oscar Wilde, Flann O’ Brian” (misi l’accento su quest’ultimo, era il mio pezzo forte: all’epoca non era uno scrittore cosí noto). L’uomo in gilè non sembrò impressionato, si limitò a scribacchiare qualcosa. “E se le dico Spagna?”, rilanciò. “Vediamo…” (qui mi sentivo piú ferrato, e poi ci avevo preso gusto) “Escorial, Zurbarán, gazpacho, guerra civile, Siglo de Oro”, risposi spigliato. Mi fissò per qualche secondo con occhi vitrei, e un sorriso tra la commiserazione e la beffa. Ma in che razza di posto ero finito? Diede un nuovo sguardo all’orologio da tasca, posò i gomiti su un tavolaccio che sarebbe stato temerario chiamare scrivania, giunse le mani come per intimare il silenzio e cominciò un discorso che non avrei piú dimenticato. “Vede, per creare Aura mi sono dimesso dall’agenzia turistica che io stesso avevo fondato vent’anni fa, e che, le dirò, faceva buoni affari”. “Capisco”, lo interruppi con prematura familiarità, “il richiamo degli studi per alcuni è irresistibile, cova per anni, e poi…”. “No, aspetti, aspetti”. Capii che da lí in poi avrei fatto meglio a tacere. Da una cartellina sfilò alcuni fogli che parevano tavole parolibere futuriste. “Osservi questi diagrammi. Ho fatto per anni ai miei clienti le due stesse domande che ho fatto a lei; le parole segnate a caratteri piú grandi sono le risposte piú frequenti”. Intorno a Spagna lessi: passione, sole, paella, flamenco,
corrida; intorno a Irlanda: birra, pecore, maltempo, San Patrizio, Ira. “Per questa ragione le agenzie turistiche infarciscono i loro dépliant di cose del genere. La sanno piú lunga di quanto crede sulla natura umana. Sanno per esempio che alla nostra specie, salvo eccezioni, non piace affatto viaggiare, se non per ritrovare il noto nell’ignoto, e dunque uccidere nella culla ogni possibile esperienza. Sanno che l’essenza del turismo è il bovarismo, e che nulla commuove Madame Bovary piú delle lettere artefatte di Rodolphe. Lei è un ragazzo di buone letture, e penserà che questi diagrammi siano solo un guazzabuglio di cliché; scommetto che non spenderebbe mai una lira per un viaggio in Spagna in cui le rifilassero il flamenco e la paella. Le sembrerebbe – dico bene? – inautentico. Già, Jargon der Eigentlichkeit” (ammiccò, confidando nel mio millantato tedesco). “Insomma, un modo tortuoso e costoso per finire nel vecchio padiglione di un’esposizione universale, o in un casinò a tema di Las Vegas. Eppure – non se ne abbia a male – anche i suoi sono cliché; semplicemente, sono cliché di secondo grado. E a noi il suo profilo interessa, perché pensiamo che sia il profilo del turista futuro”. Pensiamo? Guardai la parete spoglia alle sue spalle: pensiamo chi, se era solo come un prete all’altare in quella specie di casa colonica scalcinata? “Negli ultimi anni i clienti, soprattutto i piú giovani, venivano in agenzia a chiedermi viaggi autentici, esperienze autentiche. Tutto, dicevano, ma non vogliamo ritrovarci nei posti dove vanno i turisti, mangiare nei ristoranti dove mangiano i turisti, sgomitare davanti alle attrazioni per turisti. Vogliamo andare dove va la gente del posto, fare la loro vita. Tradotto nei termini del nostro Benjamin: vogliamo l’aura – sí, proprio quel sigillo di autenticità e di unicità che è svaporato dal viaggio nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che è poi l’altro nome del turismo. Ebbene, è proprio quest’aura che voglio produrre e vendere. Ma mi serve un socio. Il centro studi è solo la prima cellula di una futura agenzia dedicata ai turisti che disprezzano il turismo: saremo i loro smancerosi Rodolphe per un bovarismo meno grossolano di quello che vagheggia ballerine di flamenco e pub irlandesi. Le ho già detto
Ennio Flaiano nominava Kafka-Hag gli imitatori decaffeinati di Kafka, ma i fondi del caffè restano sempre uno strumento prezioso per capire cosa accade attorno alla tazza, nell’universo. che l’agente di viaggio la sa lunga sugli uomini, al pari del chierico piú devotamente cinico; ebbene, sappiamo che quell’aura che i nuovi Wanderer vanno cercando non esiste piú, anzi, che non è mai esistita; ma proprio come i chierici – la pia fraus, ricorda? – sappiamo anche che per il bene dell’uomo, per rendere la vita vivibile, dobbiamo proteggere questa chimera. La mia nuova agenzia allestirà, con tutti i mezzi teatrali e illusionistici del caso, esperienze autentiche contraffatte per viaggiatori che non vogliono piú confondersi con i turisti. E non sospetteranno nulla, creda a me. Li manderemo in Messico, e vedranno le facce indurite dei campesinos di Graham Greene. A Long Island avvertiranno quell’indefinibile sapore di Fitzgerald e di età del jazz. E cosí via. Ma saranno i nostri falsari – scenografi, comparse, attrezzisti – a fornirgliela segretamente, e a caro prezzo. Che ne dice, si arruola?”. Per la prima e ultima volta in vita mia, fui io a congedarmi da un colloquio di lavoro con la frase: le faremo sapere. Ma non gli feci sapere un bel nulla. Diventare socio di un signore spiritato con due orologi di due secoli diversi sarebbe stato troppo temerario perfino per il ventenne sbalestrato che ero. Oggi, però, mentre pasteggio con i miei rognoni di castrato e una birra scura in una sperduta bettola dublinese, tra facce che avrebbero potuto popolare una giornata qualunque di Leopold Bloom, mi sorprendo a pensare che forse l’uomo in gilè, da qualche parte dietro le quinte, sta ridendo alle mie spalle. Certo è che mi sento un cretino. ◊
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Non c’è piú tempo. È la verità che la crisi pandemica ha imposto come un’evidenza. Ma se un intervento è possibile per frenare le derive di dissoluzione e sofferenza che l’azione del virus ha accelerato, si tratta in primo luogo di cambiare le forme e i metodi del sapere che pretende di descrivere e orientare il mondo. Senza un lavoro di semplificazione dell’immane complessità che paralizza la conoscenza, non sarà possibile trovare la postura mentale ed esistenziale necessaria alla sopravvivenza della specie.
UNA DIVERSA POSTURA
Testo Alberto Abruzzese Immagini Viola Di Sante
74 REL A ZI O NI :
PREAMBOLO Ora ci riguarda l’odierna esperienza di tutti, senza distinzioni di censo o di condizione, di fronte a una minaccia di morte che è entrata a far parte della vita ordinaria e tuttavia non è ancora diventata, della vita, l’unica coscienza e immaginazione possibile. La rinnovata prossimità tra la regola della mortalità umana e l’eccezione di un agente mortifero che “attiva” la regola, impone la necessità di una grande pedagogia della sfera privata, prima ancora, o meglio al di là, di quella pubblica. A volersela cavare con qualche buona citazione potrei per esempio ricorrere a uno dei frammenti del Fatzer di Bertolt Brecht: “Abbandona la tua posizione. / Le vittorie sono state ottenute. Le sconfitte sono / ottenute: / ora abbandona la tua posizione”. Già: la frase è stata detta ai primissimi tempi dei favolosi anni trenta, quando la società moderna credeva di essere giunta al culmine di se stessa e dei propri opposti destini. Quando risuonavano già domande e risposte su tutto ciò che ci interroga oggi, cioè su quale dovesse essere la posizione giusta da prendere e da difendere per non cadere di nuovo in errore. Per non far ricadere il Futuro nella sua Storia. Eppure ben di rado si arrivò e ora s’arriva a riconoscere quanto avvenne e sta avvenendo senza riuscire ad abbandonare le vecchie posizioni – posture, poderi e potenze – della civilizzazione umana. Forse la recente aggressività critica, eretica, di alcune proposte della pedagogia è il segno della fine di un’epoca: per mutare di posizione non serve un altro abitare quanto piuttosto un altro abitante in grado di costituire una praticabile e non utopica differenza.
Viola Di Sante (1990) coltiva da sempre la sua vocazione alla fotografia. Ha partecipato a diverse mostre e pubblicazioni collettive; recentemente ha collaborato con “The Smart View”. Lavora preferibilmente su pellicola, ma utilizza il digitale per cogliere l’immediatezza dell’esperienza quotidiana.
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PER MUTARE DI POSIZIONE NON SERVE UN ALTRO ABITARE QUANTO PIUTTOSTO UN ALTRO ABITANTE IN GRADO DI COSTITUIRE UNA PRATICABILE E NON UTOPICA DIFFERENZA.
PRIMA POSTURA La pandemia è precipitata sulla vita quotidiana mascherata dalla sigla scientifica Covid-19: una formula semplice da dire ma non da pensare, da tradurre per scioglierne il significato. Si sta tentando di farlo, non diversamente da altri precedenti casi della storia sociale, in molteplici modi, piú o meno congiunti o separati tra loro, cosí da poter operare attraverso ogni apparato cognitivo e pratico socialmente a disposizione. Scrivendo, prendendo parte a un’operazione editoriale, si attiva una rete di connessioni socioculturali che dovrebbero fare da laboratorio di idee sul possibile ricambio di contenuti e rotte del mondo presente. Del mondo in cui la pandemia – in quanto forma globale di allarme, di pericolo reale e simbolico, sull’intera esistenza umana – sta rilanciando il tradizionale doppio vincolo tra Resistenza e Rinascita. I due termini, resistere e rinascere, hanno in sé il dilemma tra la regola e l’eccezione. Infatti c’è da domandarsi se sia il sociale ad avere paura di perdere il proprio carburante umano, la risorsa necessaria alla propria sovranità, o sia invece l’umano in tutta la sua miseria – infelicità distruttiva – a temere di perdere il proprio motore sociale, la propria macchina di sopravvivenza psicofisica nel mondo che lo ospita. Ovvero se la persona incarnata nei soggetti sociali sia affezionata alla regola della civilizzazione a tal punto da non riuscire a scegliere l’eccezione, adattandosi cosí alle stesse regole di sopravvi-
venza dei sistemi in cui è inclusa. La domanda è di quelle che non si possono tacere e di cui non si dovrebbe nascondere mai piú la portata critica: come coniugare al punto giusto e piú credibile due impulsi vitali apparentemente consanguinei – resistere e rinascere – in modo che non diventino l’uno la negazione dell’altro? La realtà è che il naturale avvitamento su se stesso di un puro e cieco, violento, desiderio di sopravvivenza della (o alla?) condizione umana si muove incessantemente a proprio stesso danno. Dannazione fatalmente imposta dalla confusione tra due opposti istinti di sopravvivenza: è impossibile rinascere davvero se si resiste alla propria morte.
SECONDA POSTURA Quando ancora riesco a scrivere, un tarlo mi divora il cervello: come riuscire a dire quel che penso in prima persona singolare dovendo purtuttavia fare un uso obbligato della prima persona plurale per conferire a quello che dico una qualche credibilità. Nel segreto della persona – là dove essa cerca di usare la lingua che ha appreso per esprimersi e comunicare ad altri una propria percezione del mondo – il “noi” scatta come risarcimento del sé (risarcire: rappezzare, rassettare, riordinare, compensare, dare ristoro, consolare, rassicurare). Risarcimento della sensazione istintiva e immediata di non bastare a se stessi, alla propria singolarità, per poter parlare ad altri e di altri. Cosí si finisce sí per parlare – dire qualche cosa a tutti i costi – ma in nome di un altro travestito da molti. Il “noi” che ci fa parlare e insieme ci fa presuntuosamente pensare a nome di altri “molti” – tuttavia di fatto ignoti, assenti alla nostra coscienza di singoli individui – è ingombrante e subdolo: il bisogno di conforto, di preconcetta condivisione e autorità, che spinge a usarlo crea subito la percezione inconscia o ragionata che debba esistere una maggioranza reale o immaginata che faccia fede a ciò che la persona vuole e desidera dire, da sola. E allora la persona si perde tra il “noi” che dice, facendone il proprio veicolo, il proprio lasciapassare, e il “noi” che la dice, assoggettandola. Dicendo per lei. Cosí – sia tragedia o commedia tale perpetuo infingimento – questo “noi” che ci detta dentro per lasciar-
ci uscire allo scoperto della vita quotidiana, a far massa uno a uno, persona per persona, è dunque il nodo gordiano da sciogliere, per trovare il modo di liberarsi? È un fatto che ai piú recenti mutamenti del pensiero stia facendo seguito una carenza sempre piú grande di parole umane in grado di farlo uscire fuori della mente (è una delle questioni da riportare all’avvento dell’intelligenza artificiale, ma risale anche agli albori del linguaggio umano). Sempre piú di sovente è difficile trovare nei vocabolari una parola adeguata a ciò che si sente e si pretende di esprimere: quelle a disposizione non dicono abbastanza. I vocaboli a disposizione non bastano piú a dire ciò che realmente si desidera esprimere. È urgentemente necessario trovarne altri. E ancora: sta già iniziando un processo, spontaneo e ben fuori dall’ordinario, di trasformazione d’ogni corretta costruzione sintattica e lessicale. Un fenomeno che per il momento viene stigmatizzato come progressiva ignoranza, processo esclusivamente distruttivo e regressivo, invece che venire riconosciuto come un processo costruttivo, come fu all’apparire delle prime, primordiali, tracce di piattaforme di comunicazione verbale umana, da cui sono dipese le lingue vive e morte del pianeta. Lo so – sappiamo? – bene: l’arte ha sempre compiuto tali forme di oltrepassamento del senso comune, ma per l’appunto in virtú del fatto di ricavare la potenza simbolica delle proprie trasgressioni dalla potenza delle
SEMPRE PIÚ DI SOVENTE È DIFFICILE TROVARE NEI VOCABOLARI UNA PAROLA ADEGUATA A CIÒ CHE SI SENTE E SI PRETENDE DI ESPRIMERE: QUELLE A DISPOSIZIONE NON DICONO ABBASTANZA. RELAZIONI: 77
norme che trasgrediva. Proprio questo è l’inarrestabile motivo dell’attuale natura terminale della crisi, non piú positiva ma negativa, dell’arte che, anche e piú ancora dopo la sua riproducibilità tecnica, è arrivata a toccare e rivelare la massima evanescenza di ogni radice storica, a seguito della progressiva instabilità e crisi formale delle norme espressive ordinariamente correnti e condivise in ambito sociale. Di sicuro a essere abitato è ancora un mondo umano di mezzo. Grazie alla tracciabilità tecnologica delle infinite conversazioni glocal tra ogni cosa vivente, la sofisticata immaginazione tardo-moderna è sempre ancora un mondo di “noi” – che sublima un soggetto universale disgregato e tuttavia, proprio in quanto definitivamente sceso in terra, ancora in grado di affermare il proprio potere mondano. L’immaginazione che ancora ci immagina e personalizza s’è illusa e ha illuso di avere finalmente raggiunto ogni piú umile territorio via via relegato dalla civilizzazione al ruolo di periferia umana, abitato da forme viventi date per mute e in via di estinzione. E tuttavia a mio avviso anche l’immaginazione globale – concretizzata nell’internet delle cose per come s’è inventata, stimolata, narrata e vissuta – non è che la variante, clamorosamente ostentata come dato di fatto, di un superuomo che scende sempre di nuovo dalla montagna a far proseliti nella vecchia maniera dei dominatori trasformatisi in astute colombe. Il “noi” non circola piú pronunciato soltanto nella prima persona dei sovrani e delle loro varie corti (le cerchie di tecnocrati, funzionari e ceti dirigenti, dominanti, abbienti ecc.) ma attraverso sciami di individui, di corpi e tribú di corpi (i social), che per finta o davvero persuasi credono di parlare a proprio nome. Lo credono ancora per effetto latente, ingannevole, di esperienza di sovranità storiche in declino sempre piú rapido. Conseguenza della assoluta spersonalizzazione di ogni re e suddito operata globalmente dalle transazioni finanziarie – moneta che circola per mano di uomini senza piú alcuna qualità – subentrate ai consunti poteri delle filosofie, delle politiche e persino delle economie domestiche di un soggetto moderno ancora inseparabile dal principio di autorità dei sistemi di potere verticale che lo hanno cosí a
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NON C’È PIÚ TEMPO PER RICOMINCIARE SEMPRE DACCAPO E CONTINUARE AD AFFIDARSI A UN IMMANE CUMULO DI COMPLESSITÀ. SE DAVVERO IL TEMPO STRINGE, IL METODO DEI SAPIENTI HA DA CAMBIARE.
lungo reso credibile. Il resto – la carne deviata, esclusa e umiliata da tali credenze – è silenzio. Attende di ribollire dentro la natura ameboide dei linguaggi digitali. C’è un obbligato tratto comune nell’esperienza di chi, dal piú umile al piú esperto di pensiero, ha osservato le regole di clausura e distanziamento che la società ha imposto ai singoli in nome della collettività. Spesso confondendo e ribaltando tatticamente i due diversi piani: quello pulsionale del desiderio egoistico di sopravvivenza a tutti i costi della persona, dei suoi affetti, abitudini e interessi, e quello razionale-strumentale della necessità di sopravvivenza del sistema di appartenenza, quello al di là di loro, espresso da forme, apparati e dispositivi di potere in cui, del resto, sono di fatto incarnati anche quando non lo vogliano o addirittura non lo pensino. E attenzione: è importante capire che la componente pulsionale – quella piú dettata dal desiderio di salvaguardare la propria carne, mettere a distanza malattia, dolore e morte – è parimenti alla base di comportamenti in apparenza opposti: da un lato l’osservare le leggi, per “buon senso”, interesse, educazione e senso civico; e dall’altro, con diversa declinazione della paura, il trasgredire le leggi. La stessa pulsione anima tutte le reazioni dello spettro: chi rivendica la decisione di liberarsi
delle leggi, non prenderle in considerazione, per soddisfare le proprie tentazioni tribali, abitudini e voglie; chi si sente o dichiara osservante delle leggi, della loro necessità, ma in rivolta contro la loro cattiva, ingiusta, ineguale, imperfetta applicazione; chi ne denuncia l’ideologia strumentale e concentrazionaria in nome della propria ideologia libertaria, sino a farne addirittura un progetto politico.
TERZA POSTURA Non c’è piú tempo! Questo è l’allarme che Covid-19 rilancia nel pensiero di quanti in modo culturale, sapienziale o istintivo, valutano l’impatto di una malattia contagiosa sul piano della vita umana e sociale. La vita delle persone e dei sistemi di potere in cui le persone abitano e si riproducono. Se mai c’è qualcosa da fare per frenare la qualità mortale di questa malattia globale, senza possibili frontiere di contenimento, allora va fatta subito. In nome non di magnifiche sorti ma di pura sopravvivenza della carne e con essa di tutto ciò che le serve a vivere. Sullo sfondo della questione, a fare resistenza, ci sono piú tradizioni: quella della cultura umanista, quella delle scienze umane e quella della tecnoscienza. Tutte impegnate a valutare se la civilizzazione abbia o meno prodotto un miglioramento della condizione umana. In questo campo i dati statistici hanno fatto da padroni, misurando quanto la condizione umana sia migliorata nel tempo. Ma i numeri ingannano credendo di potere inverare la quantità di vittime e di sopravvissuti che si sono assommati nella storia del pianeta terra, illudendosi o peggio illudendo che salvezza e felicità, dolore e morte, siano qualità statisticamente decidibili. Il quadro attuale di un divario clamoroso tra ricchi e poveri e persino tra poveri e disperati delinea un presente-futuro che impone la previsione di una sopravvivenza umana ottenuta a prezzo di una immane estinzione umana. Se questo è vero – a parte la complicità di ogni possibile catastrofe ambientale o politica – è ben difficile negare l’urgenza di un “che fare”, qui e ora. A giudicare dalle attuali modalità di pensiero e azione in uso in ogni agenzia di persuasione
dell’opinione pubblica, cosí come in ogni soggetto e istituzione di formazione professionale e di conseguenza in ogni apparato politico e amministrativo su scala locale, nazionale, internazionale e globale, ci sono buone ragioni per dubitare che l’azione decisiva possa essere intrapresa. Per due motivi essenziali. Il primo: in ognuno di questi settori c’è un vuoto assoluto di riflessione sulla persona umana invece che sul soggetto sociale, sulla vocazione dell’individuo invece che sulla natura strumentale delle professioni. Il secondo motivo – strettamente connesso al primo – riguarda il metodo di ricerca e trasmissione del sapere in uso nelle scienze umanistiche. All’inarrestabile crescita di complessità dello sviluppo tecno-scientifico fa da contraltare un sapere umanistico in cui la stessa crescita di complessità del mondo va a svantaggio della specifica capacità delle discipline di elaborare vocazioni individuali adeguate a semplificarlo. La tragica urgenza al “che fare” – che “utilmente” si rivela sotto la pressione della pandemia – può essere soddisfatta solo attraverso una radicale semplificazione delle procedure e degli scopi. Tale semplificazione avviene invece soltanto ai vari livelli di divulgazione dei vecchi e nuovi media, cosí da essere in tutto distorta e strumentalizzata e disorientare i propri pubblici. E aumentare il rumore senza neppure saperlo ascoltare. Tuttavia, lo specialismo delle discipline che dovrebbero funzionare da corpus del sapere esibisce metodi ben lontani dal soddisfare una semplificazione operativa del presente, percorrendo invece sempre di nuovo, inanellando sempre di nuovo, la complessità estrema delle loro lunghe tradizioni. Non c’è piú tempo per ricominciare sempre daccapo e continuare ad affidarsi a questo immane cumulo di complessità. Se davvero il tempo stringe, il metodo dei sapienti ha da cambiare. Il “che fare” si nutre di semplicità. Ma attenzione! Capire questa urgenza dovrebbe spingere a mutare radicalmente, anzi a trovare, le pratiche in grado di soddisfarla. Vanno trovati i suoi soggetti. E il teatro di questa operazione non possono essere le biblioteche, ma le piattaforme interattive, centri di elaborazione di forme del saper agire che nascano dalla necessità di sopravvivenza delle persone. ◊
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È come se il Covid-19 avesse messo a nudo le strutture implicite della nostra società, disseminata di dispositivi che ci rendono invisibili gli uni agli altri. Anche prima della pandemia, infatti, cercavamo di renderci immuni dall’incontro con l’altro, e rifuggivamo il coinvolgimento nella communitas. Gli smottamenti creati dall’emergenza hanno però denunciato la fragilità dei luoghi svuotati dall’economia dei flussi, e quindi la necessità di ricostruire i tessuti: politici, sociali, culturali. Per sostituire finalmente alla chiusura immunitaria l’apertura comunitaria. Mettersi in mezzo. Testo Aldo Bonomi Immagini Roger Ballen 80 RELAZIONI:
Blinded, 2005.
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nel secondo novecento ci eravamo abituati ad associare all’invisibilità sociale un insieme di fenomeni che rimandavano a condizioni di marginalità ed esclusione, a contesti connotati da arretratezza o ritardo rispetto a un ampio processo di sviluppo tutto sommato inclusivo. Oggi l’invisibilità riguarda invece il corpo centrale della società, come una nebbia che si estende dai margini della città per arrivare al centro, a sua volta diventato convenientemente invisibile; sollevato, potremmo dire, al di sopra dell’indistinto sociale, illuminato e talvolta accecato come una falena dalla luminosità delle promesse del progresso tecnologico. Questa immagine, che può apparire apocalittica, ci dice anche qualcos’altro. L’invisibilità sta tanto nella dimensione orizzontale di chi è immerso nella nebbia e non riesce a distinguere e riconoscere il simile a sé, quanto nella dimensione verticale di chi dall’alto non vede altro che una coltre grigia uniforme. Una cortina che non è certo un fenomeno naturale, è semmai il prodotto di un vasto processo sociale generato da una spinta verticale alla modernizzazione che fa fatica a tradursi in civilizzazione diffusa. E determina quel grande disallineamento tra le traiettorie accelerate del progresso tecnico-scientifico e delle relative tecnostrutture funzionali, che si colloca nella dimensione dei “flussi”, e la lenta metabolizzazione politica, sociale e antropologica radicata nei luoghi. Traiettorie sulle quali si è interrogato anche un grande storico come Aldo Schiavone, nel suo breve saggio sul senso della nozione di progresso. All’interno di questa cornice sistemica la connotazione sociale dell’invisibilità rimanda a una dimensione critica della relazionalità umana, rispetto alla quale mi è sempre sembrato utile ricorrere alla categorizzazione elaborata da Roberto Esposito e giocata sulla dicotomia Immunitas-Communitas. In altre parole, se l’invisibilità, a partire dalla dimensione micro, è in prevalenza il prodotto dell’incapacità di vedere o della mancanza di volontà di guardare all’altro, è perché il nostro sguardo è guidato da una razionalità “immunitaria”. Cosa significa? Significa fondamentalmente che lo sguardo rifugge da ciò che ci “accomuna” in quanto persone, esseri umani, alla collettività dei quali eravamo, in
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un tempo remoto, gratuitamente vincolati in un meccanismo di reciprocità. Ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità grazie a pervasivi dispositivi di mediazione e di regolazione “terzi” (le norme, il diritto, la razionalità economica, i vincoli esterni ecc.) che ci immunizzano dal destino altrui, inibendo i neuroni specchio dell’empatia, e ci permettono di coltivare le nostre microeconomie identitarie ed emotive, costruite sulla fantasmagoria delle precarie distintività di status già descritte da Bourdieu. L’immunità che produce invisibilità, nonché le varie sindromi a essa connesse, è perciò il propellente di una società sovrabbondante di mezzi funzionali alla costruzione di identità prive di un senso di appartenenza a una qualche direzione collettiva della storia. Tutto ciò è, a mio modo di vedere, ancora piú evidente se pensiamo alla rete digitale che, nella mutazione post-Covid-19, è diventata prerequisito tecnico della visibilità, imponendo però una condizione essenziale, ricordata da Marco Bracconi nelle sue riflessioni in presa diretta sulle accelerazioni digitali indotte dalla pandemia: “fare spazio tra le persone e riempirlo di connessioni per le quali poi risultare indispensabile”. Lo spazio tra le persone è quello di una nuova intermediazione (non certo di una semplice e comoda disintermediazione che rende tutto e tutti visibili!) intorno alla quale si ristrutturano i dispositivi di visibilità e invisibilità sociale, a cominciare da quei corpi sociali che nella tradizione del secolo scorso erano deputati a “rappresentare” le passioni e gli interessi delle persone all’interno di un meccanismo ancora in gran parte di matrice comunitaria o di classe, dando voce e consistenza politica pluralistica agli invisibili del lavoro, della piccola impresa, della cooperazione, dei ceti popolari, dei ceti medi, delle comunità locali lungo la filiera istituzionale ecc. Roger Ballen è nato a New York, ma da trent'anni vive e lavora in Sud Africa dove, da geologo, ha cominciato a fotografare paesaggi e villaggi, prima di spostare il proprio obiettivo all’interno delle case. Considerato uno degli artisti fotografici piú influenti del ventunesimo secolo, i suoi lavori estremi e stranianti costringono lo spettatore a intraprendere scomodi percorsi introspettivi, chiamandolo a un confronto inevitabile con la verità dell’immagine. Ha esposto in tutto il mondo.
Headless, 2006.
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Lo sguardo rifugge da ciò che ci accomuna in quanto persone, esseri umani, alla collettività, ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità. Quella microfisica dei poteri promuoveva e facilitava la visibilità sociale diffusa, ne strutturava i rapporti orizzontali e verticali, ne organizzava le istanze conflittuali producendo forme di solidarietà e senso comune. Oggi il grande meccanismo immunitario e l’egemonia esercitata dalla dimensione dei flussi, insieme a un’intrinseca difficoltà al rinnovamento interno, ha confinato la microfisica dei poteri al ridotto della difesa corporativa, mentre ancora non si vedono all’orizzonte nuovi soggetti capaci di rappresentare i nuovi invisibili, che sono tuttavia aumentati enormemente per quantità e varietà sociale. D’altro canto l’onda invisibile da immunità connota la polverizzazione del sistema ordinatorio delle classi in quella moltitudine indistinta e frammentata indotta a ricercare micro appartenenze comunitarie che agiscano da dispositivi sociali di protezione dallo spaesamento, dall’anomia e dalla penuria di fiducia nei ceti dirigenti. I quali appaiono “sollevati” dalla moltitudine e non hanno quasi nemmeno piú la necessità di coltivare processi di legittimazione pubblica. In questo contesto la ricerca di comunità tende piú facilmente ad assumere caratteri deteriori, ovvero a costituirsi in ambiti chiusi, esclusivi, rancorosi, regressivi, con pretese sovraniste. Del resto non può forse essere altrimenti quando la comunità è espressione di una pura “reazione” alla potenza dei flussi immunitari, cioè quando privilegia l’identità soggettiva rispetto all’identità costruita in relazione, per riprendere la distinzione di Emmanuel Lévinas. E questo mi pare molto evidente se osserviamo le dinamiche di territorio, dove emergono tante faglie di invisibilità rispetto alle quali occorre costruire soglie. Occorre colmare la faglia sempre piú profonda che non solo nella società, ma anche nei territori separa élite e popoli. Per capire, oltre alla geografia, vale la pena guardare, come per il luddismo, alla storia, scomodando la memoria tra passato e presente.
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Territorio è parola dura e antica sin dalle origini. Nell’Italia dei Comuni incorporava il legame stretto tra spazio e politica. Appare agli albori della modernità nel conflitto tra il riformatore Lutero, alleato dei Principi, e i contadini di Thomas Müntzer, che come ci insegna Max Weber sta a fondamento dell’etica del capitalismo. Anche oggi tira aria da Riforma/Controriforma nel contrasto tra l’Europa del gotico e quella del barocco. Tra i sostenitori della Kultur e quelli della Zivilisation, nelle lunghe derive del moderno che si sono tradotte in un conflitto tra flussi e luoghi. Territorio è parola pesante che rimanda alla terra, al suolo e allo spazio di posizione degli attori sociali. È anche costruzione sociale e forma di rappresentazione del legame tra spazio e politica. Puntualmente, al di là dei teorici dei flussi secondo i quali saremmo nell’epoca della politica senza territorio, ritroviamo questa parola pesante che s’invola e s’incunea dentro le questioni politiche ed economiche facendosi geopolitica. Si fa geoeconomia, produce riflessioni tardive sull’austerity, preoccupazioni su rallentamenti, stagnazione, recessione e diventa questione sociale, con forme di luddismo agite dai territori del margine contro il centro, sull’antico asse città/contado. Tema che ho evocato per i gilet gialli e che induce a scomporre e ricomporre quella moltitudine gialla, la quale ci appare indistinta senza piú il sistema ordinatorio delle classi e delle rappresentanze sociopolitiche tradizionali. Ora, l’irruzione del Covid-19 in questo contesto ha in qualche modo rimescolato le carte, aprendo qualche finestra di opportunità oltre la retorica della comunità nazionale sotto attacco pandemico. La pandemia ha reso evidente che la tenuta sociale nelle città e nei territori non esiste senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della filiera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del novecento né la retorica del welfare aziendale, entrambi in-
centrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore. L’impianto piramidale dei flussi, che impattano nei luoghi desertificando le reti sociali e del lavoro, con in mezzo uno Stato ancillare piú che regolatore, provoca una gara verso l’alto per pochi e per tanti il precipitare verso il basso dove sono delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai cosí attuale. Mettendosi in relazione con le reti territoriali che sono beni collettivi, come la scuola e i servizi nelle città e nei piccoli comuni. Rovesciando la filiera che parte dall’economia, attraversa lo Stato e impatta nei luoghi, nel suo opposto: dalle comunità di luogo alla statualità che fa rete territoriale sino a cambiare le economie in metamorfosi dentro la crisi ecologica e il salto tecnologico. Sono deboli tracce di comunità di cura e di operosità che fanno oasi piú che società nella loro resilienza: le fondazioni di comunità per il welfare locale, la rete Caritas o Casa della carità. Ci sono anche imprese responsabili che, facendo green economy, incorporano il concetto di limite ambientale e sociale, e firmano il Manifesto di Assisi di Symbola. Ci sono i “ritornanti” che si fanno agrigiani, nuovi contadini artigiani della terra. E testimonianze piú radicali, che rinnovano l’interrogativo del novecentesco “mondo dei vinti”, ricostruendo i paesi abbandonati come a Paralup, o facendosi ricettori dei flussi migratori come nell’esperienza del comune di Riace. Destinate a rimanere oasi se non diventano comunità larga per attraversare il deserto, facendo società e dando una risposta alla domanda su “quale Stato”. Certo con le sole comunità si fa testimonianza, non società, se non iniziamo a tessere e ritessere almeno un’idea di società in grado di mettersi in mezzo tra flussi e luoghi con l’obiettivo di ridisegnare statualità. Per attraversare il deserto che ci pare “la fine di un mondo” andando verso l’altrove potremmo usare la metafora di Enea che si carica sulle spalle Anchise, citata in un’intervista da Papa Francesco, e laicamente adattarla alle rap-
presentanze delle imprese e dei lavori sperando possano diventare Enea adeguati ai tempi. Vale per Confindustria che sembra guardare all’indietro, al partito del Pil, ignorando la necessità di incorporare il Bes (Benessere equo e sostenibile) per andare altrove. Per le rappresentanze del capitalismo molecolare falcidiato dal lockdown e in affanno nel ripartire. Per il commercio con la sua prossimità allo stesso tempo rivalutata e negata dalle astronavi simil-Amazon, e in affanno nel ridisegnare servizi nelle città, sul territorio e per il turismo. Per le rappresentanze dell’agricoltura nei campi e del lavoro nelle filiere, in rapporto con la grande distribuzione. E vale per il sindacato, che questa volta si trova a cogestire l’introduzione di tecnologia in alto, a negoziare, si spera, con i padroni dell’algoritmo, a dar voce alla frammentazione dei lavori dentro le mura, sul territorio e nelle case del lavoro a distanza, facendosi anche sindacato delle comunità di cura per gli invisibili. Marco Revelli mi ha fatto giustamente notare quanto sia debole questo mio disegnare una comunità larga tra gli uomini e le donne delle oasi e le forze sociali del novecento che ho appena tratteggiato; questa speranza che possa emergere una società di mezzo e che si metta in mezzo portando una voce interrogante e conflittuale nella metamorfosi che ci aspetta. Come dargli torto, vedendo l’eterno ritorno dei tanti pronti a saltare sulle spalle di un Anchise barcollante. Ma qui siamo e qui ci tocca ricominciare ad andare verso un altrove, sperando di riuscire a metterci in comune. Chiediamoci, nell’incertezza in cui siamo immersi, se il virus genererà apertura o rinserramento, se produrrà solidarietà o rabbia rancorosa, comunità o solitudine, nuova energia o isolamento. Siamo in una forbice, tra rancore che può farsi rabbia alla ricerca del capro espiatorio in cima alla piramide, o nella prossimità orizzontale delle differenze. Altrimenti si può, come sostiene De Rita, contare ancora sull’antropologia adattiva della società italiana. Covid-19 pare sbatterci in faccia un futuro senza avvenire e la contraddizione tra una solitudine da immunitas e la voglia di comunità per un futuro da communitas. Come suggerisce Roberto Esposito, la “voglia di comunità” non è buona in
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Mimicry, 2005.
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sé. Da qui il nostro teorizzare la comunità di cura e la comunità operosa come alternativa possibile. Anche oggi, nel labirinto della paura della pandemia, non saprei evocare che queste due polarità per ritrovare il filo di Arianna. Per non passare per inguaribile buonista, preciso che oltre all’angoscia della solitudine ci salverà l’interesse a metterci in comune. Non è stato forse anche per interesse, nella pandemia, che abbiamo riscoperto la comunità stretta della cura di infermieri e medici, cui ci siamo affidati? Per poi accorgerci di quella comunità di cura larga che va dai contadini agli operai, ai bottegai, alle cassiere nei supermercati, ai camionisti che ci hanno garantito luce, calore, cibo a domicilio... tutti lavoratori dell’ultimo miglio che ci erano invisibili. Ma la comunità di cura larga non è “solo” questo. Mettersi in comune per interesse porta a riscoprire quello che l’arroganza della disintermediazione e la teorizzazione dell’uno vale uno aveva cercato di cancellare: le forme e la cultura della rappresentanza, le forze sociali, la società di mezzo. La comunità di cura larga evoca pratiche che rimandano al vuoto della rappresentanza, piegata come legno storto nella rappresentazione da società dello spettacolo che aveva trasformato la dialettica sociale in rituale stantio capace solo di produrre “tavoli”. Covid-19 ha riportato la rappresentanza all’essenziale: il sindacato è tornato a difendere corpo e salute, artigiani e commercianti nel deserto del capitalismo molecolare hanno riscoperto il senso del rappresentare. Per non parlare dei senza rappresentanza, dalle partite iva fino al lavoro sommerso, agli immigrati, ai poveri, ai carcerati, cui rimane la pietas di pochi politici e le parole interroganti del Papa. Parole che ci hanno interrogato, “intalpati” nelle nostre case, dove si riscopre il piacere di fare il pane, mentre in basso manca il pane, e in mezzo c’è la panificazione per i supermercati, che speriamo non diventino i forni di manzoniana memoria. Dentro la moltitudine avevamo visto la faglia tra nuda vita e vita nuda. Definivo la prima il nostro essere al lavoro dentro la società automatica di Big data con il nostro sentire, pensare e comunicare. Ci eravamo dimenticati, avendola delegata al volontariato e alle Caritas, della vita nuda che mangia, si copre e abita. Qui siamo e qui oc-
corre rimettersi in mezzo, rifare comunità di cura larga, rifare società di mezzo nel salto d’epoca: da una società del novecento dai mezzi scarsi ma con fini certi a una società con mezzi sempre piú potenti, ma con fini totalmente incerti, che oggi scopre l’incertezza dei mezzi per immunizzarci dal coronavirus. Sento rullare i tamburi dei futurologi, già sentiti ai tempi della new economy, che esaltano il nostro smart working come destino. Non tengono conto del destino dei tanti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione terziaria, apolidi dentro e per la rete. Chi negozia e chi rappresenta chi nel capitalismo della rete? Chi determina algoritmi, informazioni, saperi e tecnica nella società automatica? Auspico e sostengo da tempo una rinascita sindacale che si metta in mezzo tra nuda vita e vita nuda negoziando in alto con il capitalismo della rete e in orizzontale facendo sindacato di comunità. Cosí come per il capitalismo delle reti, quelle hard della logistica, fondamentale per muovere le merci dentro e fuori imprese 4.0, dalla moltitudine di lavoratori dell’ultimo miglio con camion e camioncini, sino ai fantasmi in bicicletta che portano i nostri cibi caldi. In mezzo rimane il capitalismo manifatturiero in metamorfosi da innovazione, dove la crisi ecologica aveva già posto il problema di un umanesimo industriale (parola grossa!), per una green economy in cui il capitalismo incorpora il concetto del limite. Ho sempre scritto che non si dà green economy senza una green society che la impone. Non esistono capitalismi che cambiano senza un po’ di conflitti e senza rovesciare almeno concettualmente il termine capitalismo in capitale sociale e, come ci hanno insegnato Giorgio Ceriani Sebregondi a Claudio Napoleoni, senza mettere in mezzo tra economia e politica la società. Per il nostro interesse è fondamentale che la comunità di cura larga recuperi uno spirito militante di stimolo al cambiamento della comunità operosa in divenire, ponendo cosí la questione essenziale di come passare dalla fine del mondo a un altro mondo possibile. Ce la faremo quando, riprendendoci per mano, capiremo che non è solo questione di economie, di lavori, di interessi ma, come hanno spiegato Eugenio Borgna e Ulrich Beck, è un riconoscersi nella comunità di destino esistenziale. ◊
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DISUGUAGLIANZE: RIDURRE LE
LA CHIAVE DEL NUOVO SVILUPPO
Testo Patrizia Luongo
per anni abbiamo pensato che le disuguaglianze fossero il prezzo da pagare per raggiungere maggiori livelli di crescita, una crescita che poi, miracolosamente, avrebbe generato una “automatica” riduzione delle disuguaglianze. Abbiamo pensato si trattasse di un costo temporaneo, di un male minore da sopportare per un circoscritto lasso di tempo, per poi arrivare in un “paradiso” in cui saremmo stati tutti piú ricchi, inclusi gli ultimi, e le disuguaglianze non sarebbero state piú cosí estreme. Negli ultimi anni abbiamo iniziato ad aprire gli occhi, a capire che in realtà il meccanismo che avevamo messo in moto era quello opposto. L’aumento delle disuguaglianze ha ostacolato, e molto spesso bloccato, la crescita: ha impedito il ricambio sociale, ha soffocato lo sviluppo e precluso, soprattutto alle donne e ai giovani, la possibilità di sviluppare il proprio potenziale, ancor piú nei territori marginalizzati. La crisi legata alla pandemia Covid-19 ha aperto gli occhi anche a quanti ancora non vedevano, o non volevano vedere, quanto fosse sbagliato il paradigma secondo cui prima viene la crescita e poi tutto il resto, inclusa la riduzione delle disuguaglianze. Come per tutte le precedenti pandemie lo shock esterno prodotto dal Covid-19 ha amplificato disuguaglianze già esistenti, ha acceso i riflettori su quelle che erano invisibili ai piú, e ha finalmente reso evidente l’urgenza del cambiamento. [Su questo cfr. anche Forumdd, Un futuro piú giusto è possibile. Promemoria per il “dopo” Covid-19 in Italia, www.forumdisuguaglianzediversita.org/un-futuro-piu-giusto-e-possibile-promemoria-per-il-dopo-covid-19-in-italia.] Gli elevati livelli di disuguaglianze economiche e sociali, però, non sono il frutto di processi neutri e inevitabili, ma il risultato di scelte ben precise: una cultura d’impresa in cui l’unica cosa che conta è il valore patrimoniale, mentre gli
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stakeholder escono di scena; l’eliminazione del lavoro come interlocutore; politiche pubbliche rigide e cieche ai luoghi; il rispetto e la tutela dell’ambiente visti come vincolo invece che come sprone a cambiare; l’eccessiva concentrazione della conoscenza che ha portato ad accettare situazioni di monopolio e oligopolio che hanno ostacolato il trasferimento tecnologico alle piccole e medie imprese, indebolendo cosí in Italia quel tessuto, paralizzandolo in gestioni familistiche e perdendo innumerevoli occasioni di crescita. La non-inevitabilità della situazione attuale, però, ci dice anche un’altra cosa: tutto questo può cambiare. Possiamo capovolgere la situazione, le conoscenze e il sapere per farlo sono a portata di mano, sono nell’esperienza dei territori e delle imprese, del lavoro e della cittadinanza organizzata. Da questa consapevolezza è nato il Forum Disuguaglianze Diversità (Forumdd), un think and do che mette insieme il mondo della ricerca, istituzionale e accademica, con quello della cittadinanza attiva. Tramite la sua assemblea, composta da quarantasette persone e otto organizzazioni di cittadinanza attiva (ActionAid, Caritas Italiana, CittadinanzAttiva, Cooperativa Sociale Dedalus, Fondazione Lelio e Lisli Basso, Fondazione di Comunità di Messina, Legambiente e Uisp), e grazie al lavoro che svolge assieme a trentasei partner di progetto, il Forumdd lavora per disegnare politiche pubbliche in grado di ridurre le disuguaglianze e va-
lorizzare le diversità, ispirandosi all’art. 3 della Costituzione, che al secondo comma stabilisce che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Questo incontro inusuale tra il mondo della ricerca e quello delle organizzazioni di cittadinanza attiva ha poi trovato alleanze con imprese, con il mondo del lavoro organizzato e con comuni di diverse dimensioni per lavorare alla “messa a terra” delle proposte di politiche presentate nel rapporto 15 proposte per la giustizia sociale del marzo 2019. [L’elaborazione del rapporto ha beneficiato dei circa 30 eventi che sono stati svolti su tutto il territorio nazionale e del contributo di circa 100 ricercatori. Cfr. www.forumdisuguaglianzediversita.org.] Come raccontiamo meglio nel libro recentemente pubblicato dal Mulino Un futuro piú giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale, perché il cambiamento auspicato avvenga è necessario costruire una strategia che consenta di liberare i saperi e riequilibrare i poteri. Suggeriamo di intervenire su tre meccanismi che influiscono sulla creazione e la distribuzione di ricchezza – il cambiamento tecnologico, l’equilibrio di poteri nel mercato del lavoro e il passaggio intergenerazionale della ricchezza – per raggiungere cinque obiettivi: accrescere l’accesso alla conoscenza, cosí che il cambiamento tecnologico sia un vettore di giustizia sociale; liberare i saperi delle persone nei territori, promuovendo nuove attività e buoni lavori e garantendo l’accesso a servizi essenziali di qualità su tutto il territorio nazio-
L’AUMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE HA OSTACOLATO LA CRESCITA, HA IMPEDITO IL RICAMBIO SOCIALE, HA SOFFOCATO LO SVILUPPO.
nale, in particolare nelle aree marginalizzate; ridare dignità al lavoro, garantendone la tutela e la partecipazione; garantire ai giovani la libertà di costruire il proprio futuro indipendentemente dalla ricchezza familiare; e, infine, migliorare la qualità e i metodi di lavoro della pubblica amministrazione, obiettivo trasversale e fondamentale perché tutti gli altri vengano raggiunti. Le proposte del Forumdd, quindi, rappresentano gli strumenti operativi che consentirebbero di raggiungere questi obiettivi. Si può accrescere l’accesso alla conoscenza attivando il potenziale trasformativo delle imprese pubbliche, [Cfr. Forumdd, Missioni strategiche per le imprese pubbliche italiane, www.forumdisuguaglianzediversita.org/wp-content/ uploads/2020/07/rapporto-imprese-pubbliche.x61577.pdf ] che fungerebbe anche da sprone a uno sviluppo del Paese basato su giustizia sociale e ambientale. Pur costituendo un pilastro fondamentale del capitalismo italiano, e nonostante le grandi capacità tecniche e innovative che le caratterizzano, infatti, alle imprese pubbliche italiane non sono assegnate missioni strategiche coerenti con una “visione del Paese”, frutto di un confronto continuo fra lo Stato azionista e le stesse imprese. Al contrario, sono lasciate da sole nel costruire tali missioni e non beneficiano di quel confronto strategico infor-
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IL PROGETTO
Obiettivi L'obiettivo del Forum Disuguaglianze e Diversità è disegnare politiche pubbliche e azioni collettive che riducano le disuguaglianze, aumentino la giustizia sociale e favoriscano il pieno sviluppo di ogni persona (diversità), e costruire consenso e impegno su di esse. Grazie all'alleanza fra cittadini organizzati e ricerca (un think tank assolutamente originale), ragioni e sentimenti presenti in una moltitudine di pratiche possono aiutare a trasformare paura e rabbia nell'avanzamento verso una società piú giusta. Chi siamo – Un’alleanza culturale e politica autonoma centrata sull’articolo 3 della Costituzione; – Un “think and do”, un luogo originale che mette insieme saperi di mondi diversi, organizzazioni di cittadinanza attiva e ricerca, prassi e teoria, sperimentazione e aspirazione sistemica; – Un costruttore di ponti fra culture diverse, fra comunità sperimentali e istituzioni. Come agiamo – Produciamo proposte di politiche pubbliche e azioni collettive per la giustizia sociale; – Lavoriamo con le comunità per realizzare progetti pilota; – Siamo interessati e veniamo chiamati a costruire dialogo fra progetti territoriali e proposte di sistema; – Diffondiamo le nostre idee e le nostre proposte, i dati e le analisi sulle disuguaglianze, le idee e le proposte di altri con cui dialoghiamo.
www.forumdisuguaglianzediversita.org
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I NUMERI
47
8
4
Membri dell’assemblea
Organizzazioni
Fondazioni sostenitrici
5
36
1
Membri dello staff
Partner di progetto
Rapporto con “15 proposte per la giustizia sociale”
100
200+
15
Esperti che hanno collaborato pro bono al Rapporto
Incontri, seminari, conferenze e focus group tra prima e dopo il lancio del Rapporto
Team che lavorano per la “messa a terra” delle proposte
21
8
1
Alleati per la “messa a terra” del Rapporto
Progetti di ricerca azione
Nuovo progetto strategico sull’Istruzione
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male che consentirebbe di avere nuove idee, di sviluppare nuove tecnologie e di rendere il Paese piú forte. Il potenziale delle imprese pubbliche, colonna portante anche del sistema di imprese private, può essere sfruttato assegnando missioni strategiche orientate a promuovere l’innovazione tecnologica e lo sviluppo inclusivo e sostenibile del Paese, chiare e tecnicamente rigorose, fissate in atti programmatori di medio-lungo termine, e maturate attraverso un confronto fra azionista pubblico e imprese; promuovendo e rendendo sistemico il confronto e quindi la cooperazione strategica fra le stesse imprese pubbliche; e, infine, rendendo coerente l’azione delle amministrazioni pubbliche statali e regionali con le strategie delle imprese pubbliche. O ancora, si può accrescere l’accesso alla conoscenza dando natura sistematica alla collaborazione fra pmi e i centri di competenza pubblica e privata che la producono. Questo consentirebbe alle pmi di tornare a svolgere la loro funzione di micro-adattamento delle nuove tecnologie alle specifiche esigenze della clientela, sfruttando la loro maggiore facilità di rapporto con le risorse dei territori, e offrirebbe a molte pmi colpite dalla crisi Covid-19 una strada per il rilancio. L’istituzione dei Consigli del lavoro e della cittadinanza consentirebbe di ridare dignità al lavoro, garantendo la partecipazione. Si tratta di costruire, gradualmente ma in modo sistemico, impresa per impresa o territorio per territorio, nel caso di piccole imprese, il luogo di confronto, decisione e influenza sulle scelte aziendali che raccolga i principali portatori di interessi diversi dai
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proprietari-azionisti e dai finanziatori: lavoratori e lavoratrici, indipendentemente dalla natura del contratto di lavoro, consumatori e consumatrici e residenti nella comunità locale, direttamente coinvolti e coinvolte dalle ricadute ambientali, economiche e sociali dell’attività produttiva. L’esigenza di avere luoghi di confronto di questo tipo, già evidente prima della pandemia, è resa piú urgente dalle sfide legate alla crisi Covid-19 che rendono necessarie in tutte le imprese scelte strategiche coraggiose, sia per reagire alla crisi di liquidità sia per affrontare le probabili rotture delle catene internazionali del valore, il cambiamento della domanda e l’accelerazione del cambiamento tecnologico. Per compiere scelte coese, basate sulla conoscenza di tutti gli stakeholder, sarebbe prezioso avere luoghi di confronto, decisione e influenza sulle scelte aziendali come i Consigli del lavoro e della cittadinanza. Politiche di sviluppo attente ai luoghi, alle esigenze dei cittadini e delle cittadine che abitano i territori, in grado di sfruttare al meglio le competenze presenti in ogni luogo, sono la chiave per liberare i saperi delle persone, soprattutto nelle aree marginalizzate. La crisi Covid-19 ha portato milioni di cittadini e cittadine a ridisegnare i propri progetti di vita. [Cfr. Forumdd, Liberiamo il potenziale di tutti i territori, www.forumdisuguaglianzediversita.org/ wp-content/uploads/2020/07/Liberiamo-il-potenziale-di-tutti-i-territori-La-proposta-e-gli-allegati_DEF.x61577.pdf ]. Si sono modificate le preferenze, sta emergendo una nuova domanda di cura e assistenza alla persona che risponda alle singole esigenze; di apprendimento lungo l’intero arco di vita; di disconnessione fra i tempi di vita e di lavoro; di abitazioni di qualità; di luoghi a bassa densità abitativa; di rispetto delle prospettive di genere; di mobilità flessibile e sostenibile; di maggiore rispetto per l’ambiente; di alimentazione di qualità e sicura; di lavori dignitosi. È necessario che questa nuova domanda sia soddisfatta e il compito delle politiche è quindi quello di rimuovere gli ostacoli che impediscono alla
IL FORUMDD LAVORA PER DISEGNARE POLITICHE PUBBLICHE IN GRADO DI RIDURRE LE DISUGUAGLIANZE E VALORIZZARE LE DIVERSITÀ, ISPIRANDOSI ALL’ART. 3 DELLA COSTITUZIONE. domanda e all’offerta di incontrarsi. Si tratta di un compito importante da svolgere su tutto il territorio nazionale, ma che diventa cruciale nelle aree marginalizzate del Paese, nelle periferie e nelle aree interne, dove altrimenti si rischia di perdere la finestra aperta dalla crisi. Non piú quindi sussidi o liste di progetti costruiti in un centro lontano dalle persone, ma politiche efficaci, moderne, che definiscono obiettivi lasciando ai territori la scelta delle strategie piú adatte per raggiungerli. Si tratta di un metodo innovativo, che suggeriamo di utilizzare anche per spendere tanto i fondi nazionali quanto le ingenti risorse che arriveranno dall’Europa. Non piú sussidi o liste di progetti che mirino semplicemente a spendere rapidamente i fondi, ma una strategia con missioni e obiettivi chiari e un metodo che assicuri che le scelte fatte raccolgano tutti i saperi disponibili e rispondano ai bisogni e alle aspirazioni delle persone, territorio per territorio. Il tema è quindi uno solo: spendere bene tutte le risorse per uno sviluppo piú giusto che liberi le capacità creative e imprenditoriali e migliori qualità di vita e giustizia sociale e ambientale in tutti i territori. E, infine, l’ultimo obiettivo, trasversale e necessario per il raggiungimento di tutti gli altri, quello che riguarda la pubblica amministrazione, di cui va migliorata la qualità, ma anche il metodo di lavoro, attraverso un processo di rinnovamento che consenta di superare l’estrema
debolezza in cui essa è caduta dopo anni di disinvestimento, non solo in termini di risorse, che scoraggia molti amministratori o non fornisce loro il supporto necessario a svolgere un ruolo pro-attivo e discrezionale. Non si tratta quindi di fare nuove leggi ma di rendere la pubblica amministrazione in grado di prendere decisioni discrezionali nell’interesse generale e in modo tempestivo, di promuovere l’uguaglianza riconoscendo le differenze e di farlo dando vita a forme di pubblico confronto con i cittadini; di favorire la capacità di progettare e governare il cambiamento, facendo attenzione ai risultati che produce. Per fare tutto questo si potrà far leva sullo sblocco del turn-over, che porterà all’ingresso di 500.000 giovani nella pa, ma perché questo rinnovamento sia risolutivo è necessario che cambino anche i modi di selezione e il modo in cui ci si prende cura dei nuovi entrati e li si incoraggia a prestare attenzione non solo alle procedure ma anche, e soprattutto, ai risultati. Questi sono solo alcuni degli strumenti che si possono mettere in campo per invertire lo stato attuale delle cose. Servono a rendere evidente che un cambiamento è possibile, che è possibile invertire la rotta. E che per farlo non serve l’ennesimo grande piano di spesa, ma un riequilibrio di poteri e un cambiamento di organizzazioni, serve modificare il modo in cui si fanno le cose, il modo in cui sono spesi i soldi pubblici e il modo in cui si utilizza il potere. Servono proposte concrete con obiettivi chiari. Ci sono in Italia, nei territori, nelle imprese, nelle organizzazioni sindacali e di cittadinanza attiva le forze per farlo, lo raccontano le tante esperienze con cui il Forumdd collabora. Sta alla politica e alle politiche liberarne il potenziale e a ciascuno di loro, di noi, non accontentarsi di ricevere la propria parte ma impegnarsi perché ci sia una strategia che consenta di raggiungere una maggiore giustizia sociale e ambientale. ◊
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Nell’immaginario collettivo il carcere è il luogo della negazione di ogni relazione. Ma perché l’istituzione carceraria possa davvero svolgere la sua funzione costituzionale, il recupero sociale del detenuto, ha bisogno di valorizzare tutte le relazioni che la aprono verso l’esterno: con i territori, le istituzioni, il mondo della cultura e delle imprese. E con le reti familiari, affettive e sociali che accompagnano chi sta in carcere nel percorso di reintegrazione. Testo Gloria Manzelli Immagini Stefano Vaja
A P R I R E
I L
C A R C E R E
P
arlare di relazioni in carcere introduce una prospettiva nuova, quasi provocatoria per un argomento, quello della pena, che da sempre soffre delle piú profonde contraddizioni, e dei molti pregiudizi dovuti spesso alla scarsa conoscenza che si ha del sistema penitenziario italiano, dei principi ispiratori sanciti dalla costituzione, delle norme che lo regolano e della piú ampia cornice normativa europea. La dimensione relazionale potrebbe sembrare incompatibile con l’ambiente carcerario, luogo chiuso per definizione, circoscritto e protetto da un muro di cinta, quasi a sancirne pubblicamente l’inaccessibilità. Nell’immaginario collettivo il carcere è una sorta di girone infernale che non lascia spazio alla dignità del detenuto, che ne annienta la personalità, dove i rapporti tra i pari sono di tipo esclusivamente criminoso e violento, difficilmente annoverabili tra le relazioni. L’articolo 27 della Costituzione italiana chiarisce contenuto e funzione della pena: le condanne “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, e “devono tendere alla rieducazione del condannato”. È inoltre stabilito a livello costituzionale il principio di presunzione di innocenza per l’imputato sino a sentenza definitiva di condanna. Al centro della norma è il singolo individuo, imputato o condannato, non la popolazione detenuta nella sua generalità. L’Assemblea costituente ha tracciato un percorso molto chiaro per il legislatore: il perno su cui deve ruotare l’intero sistema è l’individuo, l’autore del reato, chi ha violato il patto sociale. Logico corollario è il principio della personale responsabilità penale, che può essere attribuita solo a colui che ha infranto le regole, colpevole acclarato di un reato specifico con sentenza passata in giudicato, non ai suoi familiari, alla sua rete amicale, affettiva e sociale. Il legislatore del 1975 nel definire le modalità di intervento sul condannato ha stabilito che “il trattamento individuale deve rispondere ai particolari bisogni di ciascun individuo […] per ciascun condannato e internato […] sono formulate le indicazioni in merito al trattamento rieducativo” che ne favoriscano la responsabilizzazione.
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La “rieducazione” del condannato in termini concreti e operativi consiste nel suo rientro proficuo e graduale, al termine della pena, nel contesto sociale, supportato da strumenti personali, lavorativi, affettivi. È evidente come, oltre alla presenza di presupposti oggettivi, la volontà del condannato assuma un ruolo centrale per la riuscita del progetto di risocializzazione e per il definitivo affrancamento dalle logiche delinquenziali. In questa fase il detenuto è e deve essere coinvolto attivamente; un atteggiamento passivo, rassegnato o di adesione solo apparente rischia di compromettere l’esito del programma di recupero. Mai come in questa fase dell’esecuzione penale la personalità del condannato assume un ruolo centrale. La determinazione a costruire già all’interno del carcere un percorso virtuoso che lo sostenga in uno stile di vita rispettoso delle norme è imprescindibile. Il cambiamento di rotta non può essere imposto dall’alto e l’istituzione in questo senso è tenuta a promuovere nella persona una riflessione profonda e una rivisitazione critica del vissuto, accompagnando e supportando la scelta di legalità, che tuttavia può arrivare solo dalla persona interessata. La funzione rieducativa della pena è un compito arduo, e non può che passare attraverso lo snodo cruciale di una svolta culturale trasversale a tutte le componenti sociali, che porti a considerare la popolazione detenuta una possibile risorsa per il sistema paese, e le carceri quartieri della città di cui i servizi pubblici devono farsi carico. Ecco la prima, fondamentale relazione. Il carcere si deve rapportare con il territorio, con tutte le componenti istituzionali, sociali, civili, culturali e produttive del contesto di riferimento. In questo vi è un obbligo di reciprocità perché il territorio a sua volta non deve essere impermeabile ma inclusivo. Il principio per cui il carcere non può mai essere considerato estraneo al contesto territoriale, alle sue fragilità e alle sue risorse, costituisce un elemento fondamentale per una concreta, efficace integrazione e per il superamento dei pregiudizi. La funzione della pena, la prevenzione dei reati non è, e non può essere, una competenza esclusiva dell’amministrazione penitenziaria, ma deve necessariamente chiamare in causa tutti
gli attori istituzionali e i servizi preposti perché il cittadino detenuto sia portatore di diritti e di doveri analoghi a quelli riconosciuti e richiesti al libero cittadino. Il successo o il fallimento di un percorso di recupero coinvolgono tutte le istituzioni e i servizi pubblici di cui il sistema penitenziario non è che un segmento. Con lungimiranza il legislatore del 1975 ha previsto il principio per cui la società esterna – privati, istituzioni, associazioni – deve partecipare all’azione rieducativa del condannato, anche entrando in carcere per farsi parte attiva di questa delicata e difficile vicenda. Viceversa, il carcere deve aprirsi e diventare tutt’uno con il territorio di riferimento. Alla società civile devono affiancarsi le forze produttrici del paese, l’impresa deve guardare alla manodopera detenuta come a una reale risorsa produttiva; gli investimenti in carcere sono da sempre un valore aggiunto nella qualità degli interventi per il recupero delle persone detenute. Il lavoro è il tema centrale di ogni percorso di reinserimento sociale. Il lavoro conferisce dignità, autonomia e crea le basi per il progressivo sviluppo della persona. Un lavoro e una casa dignitosi sono troppo spesso una chimera per l’ex detenuto, soprattutto nei periodi storici travagliati da crisi economiche e insicurezza sociale. Negli ultimi decenni si sono registrati risultati importanti in questa direzione. Si sono avviati, con successo, laboratori teatrali, musicali, di pittura, attività sportive di ogni genere e soprattutto corsi scolastici, dall’alfabetizzazione di base all’istruzione universitaria. Sono stati aperti istituti penitenziari a vocazione trattamentale avanzata, concepiti già in sede di progettazione con spazi e accessi adeguati all’allestimento di impianti produttivi anche di una certa complessità, nei quali le imprese hanno potuto allestire le proprie lavorazioni. Si sono aperti call center interamente gestiti da detenuti, sartorie e laboratori di
tessitura, produzioni alimentari e ristoranti fruibili da clienti esterni, compagnie teatrali che si esibiscono in teatri esterni a beneficio di un pubblico di non detenuti. La sinergia tra istituzioni e realtà produttive è risultata una carta vincente. Laddove il tessuto sociale si è reso permeabile e sensibile e gli istituti penitenziari hanno saputo interagire con il territorio cogliendo le opportunità, si sono realizzati importanti e consolidati risultati di integrazione e reinserimento. Le diverse attività produttive intramurarie non hanno assunto una connotazione assistenziale, e si sono rivelate altamente competitive. I prodotti, immessi sul mercato, sono concorrenziali rispetto alla filiera produttiva esterna. In questi casi gli imprenditori si sono lanciati nella sfida di avviare all’interno delle carceri veri e propri rami d’azienda o fasi produttive, affidandoli alla manodopera detenuta, assunta direttamente. Il rapporto è quello datore di lavoro/dipendente, e questa scelta ha l’ulteriore vantaggio di trasferire ai detenuti professionalità e specializzazione, spendibili anche successivamente, a condanna scontata. Il tema della professionalizzazione delle attività lavorative è cruciale. Il mercato del lavoro, come quello produttivo, si è trasformato e globalizzato; formazione e specializzazione professionale sono un valore aggiunto e una garanzia nella costruzione di un percorso di reintegrazione sociale stabile. La formazione professionale dei detenuti di competenza degli enti locali deve diventare una delle priorità nell’agenda delle istituzioni. Investire nella creazione di posti di lavoro anche per detenuti significa investire in sicurezza sociale, in modo piú efficace e duraturo di qualsiasi investimento nell’edilizia penitenziaria per la creazione di nuove carceri. La prevenzione deve essere declinata principalmente sul territorio, nel tessuto sociale, economico e culturale del paese,
L A D D OV E I L T E S S U T O S O C I A L E S I È R E S O PERMEABILE E SENSIBILE E GLI ISTITUTI PENITENZIARI H A N N O S A P U T O I N T E R AG I R E C O N I L T E R R I T O R I O , S I S O N O R E A L I Z Z AT I I M P O R TA N T I E C O N S O L I DAT I R I S U LTAT I DI INTEGR AZIONE E REINSERIMENTO.
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Stefano Vaja è un fotografo di teatro, reportage ed etnografia. Da ventidue anni è il fotografo della Compagnia della Fortezza. Con Nicola Scaldaferri ha pubblicato Nel paese dei cupa cupa (Squilibri, 2005), Santi, animali e suoni (Nota, 2005) e Il suono dell’albero, (Nota, 2012, When the trees resounded è la versione inglese del 2019), tutti sulle feste rituali in Basilicata. Realizza video e documentari.
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e risultare dalla sinergia di tutte le forze sociali. Vale la pena riportare testualmente il 1° comma dell’articolo 17 dell’Ordinamento penitenziario, che sancisce il principio di responsabilità sociale in relazione alla funzione della pena: “La finalità di reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche e private all’azione rieducativa”. Le eccellenze del sistema che abbiamo citato, tuttavia, non sono ancora patrimonio comune di tutti gli istituti penitenziari, essendo numerosi i contesti in cui sono ancora scarse la sensibilità e l’attenzione verso il tema dell’espiazione della pena, e della necessità e opportunità di partecipare fattivamente all’azione di reinserimento sociale dei cittadini detenuti. Un atteggiamento che non è limitato ad alcune aree del paese ritenute storicamente “a rischio”, ma si manifesta anche in aree piú solide. Per questo una svolta culturale è fondamentale per rimuovere i pregiudizi.
F
inora abbiamo descritto la relazione tra istituzioni e servizi pubblici dei quali deve far parte anche il carcere. Tuttavia la persona reclusa non è solo un nome su un fascicolo, un elenco di norme violate, una condanna in espiazione, una data di fine pena. È anche un padre o una madre, marito, moglie, figlio, figlia, sorella, fratello, lavoratore, amico. Proviene da un contesto sociale, familiare, lavorativo che è necessario conoscere ed esplorare per comprendere se può essere considerato una risorsa su cui contare, o viceversa un fattore di rischio. Ecco introdotto il delicatissimo tema delle relazioni personali dei detenuti. L’evento carcerazione segna una frattura insanabile non solo nella vita di colui che è privato della libertà personale, ma ha ripercussioni inevitabili anche nell’ambito della cerchia familiare piú intima, piú ristretta, e piú in generale nella rete sociale di appartenenza. L’istituzione penitenziaria italiana è lontana da meccanismi di spoiler degli affetti e dei legami indissolubili nella vita delle persone, anche per il piú pericoloso cri-
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P E R I L S U C C E S S O D I U N P E R C O R S O R I E D U C AT I VO È DETERMINANTE LA PRESENZA E IL SOSTEGNO DI UNA RETE DI RELAZIONI AFFETTIVE CHE , IN COLLABORAZIONE CON LE I S T I T U Z I O N I , C O N T R I B U I S C A A L P R O C E S S O R I A B I L I TAT I VO .
minale. Nei casi in cui sono presenti figli minori, l’obiettivo è farli diventare un valido sostegno valoriale con cui costruire un concreto ed efficace programma di recupero del condannato. Prima ancora del dato normativo, è l’esperienza maturata sul campo a insegnare quanto sia determinante per il successo di un percorso rieducativo la presenza e il sostegno di una rete di relazioni affettive che, in collaborazione con le istituzioni, contribuisca al processo riabilitativo. Non solo, ma il mantenimento dei legami affettivi gioca un ruolo fondamentale durante la carcerazione, alleviandone in qualche modo il peso, favorendo anche la resilienza del carcerato durante le fasi processuali sino alla pronuncia della sentenza di condanna. I rapporti con i familiari costituiscono uno snodo cruciale dell’intero percorso detentivo, su cui gli operatori focalizzano l’attenzione e l’approfondimento sin dai primissimi interventi di presa in carico della persona arrestata. A questi aspetti l’ordinamento italiano dedica molta attenzione. La direzione del carcere è tenuta a segnalare al centro di servizio sociale i detenuti che non mantengono rapporti con i propri familiari, perché l’isolamento affettivo costituisce un fattore di rischio che deve essere monitorato. Nel corso della detenzione i rapporti con familiari, conviventi e amici sono coltivati attraverso i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica ed epistolare, anche se quest’ultima, in carcere come all’esterno, è da considerarsi ormai retaggio d’altri tempi. Naturalmente le modalità dei rapporti con familiari o terze persone non sono lasciate alla autodeterminazione del detenuto e/o del congiunto, ma sono regolamentate da specifiche norme di legge che, pur riconoscendone la rilevanza, pongono delle limitazioni funzionali all’armonizzazione di esigenze diverse. Da una parte la salvaguardia dei rapporti affettivi ma, dall’altra,
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l’altrettanto pregnante necessità di tutela della sicurezza e dell’attività investigativa. Sia i colloqui visivi sia la corrispondenza telefonica sono sottoposti, quindi, alla preventiva autorizzazione da parte delle autorità. La norma tuttavia, anche in presenza dell’autorizzazione, prevede un limite quantitativo e temporale dei rapporti con familiari e terze persone. I detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese di un’ora ciascuno, con alcune restrizioni per chi è stato condannato per reati piú gravi. Su quest’ultimo aspetto il legislatore italiano, anche nei piú recenti interventi, non ha voluto superare un approccio difensivistico al delicato tema dei rapporti familiari, subordinandone la centralità al giudizio di pericolosità sociale. Un’attenzione particolare va dedicata ai bambini che entrano in contatto, direttamente o indirettamente, con il carcere, e che purtroppo sono numerosi. Alla data del 31 ottobre 2019 a fronte di 60.985 detenuti, di cui 2.676 donne, risultavano detenute 49 madri con figli al seguito (di cui 28 straniere) e 52 minori (di cui 29 stranieri). Complessivamente i detenuti genitori sono circa il 50% del totale e nel corso del mese di settembre 2019, su 107.504 colloqui, 33.154 sono stati quelli con almeno un familiare minore (pari al 30,8%); dei 105.355 familiari ammessi ai colloqui, 24.354 erano minori (pari al 23,1%). Il tema dei minori nel circuito penitenziario italiano è di dimensioni rilevanti, non solo per l’aspetto quantitativo, ma soprattutto per le implicazioni nello sviluppo di bambini e ragazzi. La relazione affettiva è sostenuta anche attraverso l’istituto dei permessi, autorizzazioni a uscire dal carcere in occasione di eventi particolari che attengono la sfera familiare e affettiva. I permessi sono concessi anche in caso di pericolo di vita di un familiare o di un convivente o in si-
La trasparenza del male
tuazioni di particolare gravità e rilevanza per il nucleo di appartenenza del detenuto. Con l’istituto giuridico dei permessi premio i condannati che hanno tenuto una condotta regolare possono essere autorizzati dal magistrato di sorveglianza a trascorrere dei periodi fuori dal carcere per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. A differenza dei permessi concessi per gravi motivi, i permessi premio sono il risultato di un percorso di adesione alle regole intramurarie e di rivisitazione critica del trascorso delinquenziale; questa esperienza è parte integrante del programma di trattamento del singolo detenuto, e deve essere seguita da educatori e assistenti sociali in collaborazione con gli operatori del territorio. L’insieme di questi provvedimenti rivela come l’ordinamento penitenziario italiano ritenga quello delle relazioni un fattore cruciale per il raggiungimento degli obiettivi che la Costituzione italiana assegna al sistema delle pene. Relazioni che sottraggono il detenuto all’isolamento, e si irradiano a partire dal suo contesto ambientale e affettivo di riferimento fino a coinvolgere tutti gli attori istituzionali e sociali. ◊
“Sono piú di trent’anni che mi chiudo ogni giorno in questa stanza. Per la prima volta, oggi, mi è sembrata una cosa enorme. Gli inizi sono sempre prossimi alla fine, quando cominci pensi che tutto possa finire un attimo dopo”. Invece in quella stanza del carcere di Volterra in cui è entrato per la prima volta nel 1988, Armando Punzo ci torna ogni giorno da allora, per fare teatro con i detenuti-attori della sua Compagnia della Fortezza. “Se ho scelto di fare il mio teatro in questa stanza – ha detto – non è perché mi interessi il carcere. Anzi. A me interessa solo chi riesce a sentirsi libero in un carcere, chi riesce a decrescere, depotenziarsi, sminuirsi, farsi talmente piccolo da passare come pensiero altro attraverso le sbarre della prigione. Il carcere reale è metafora concreta di un carcere piú ampio in cui tutti viviamo. Entrare qui dentro significa varcare un limite che esiste anche nel mondo fuori, ma che in carcere è visibile, evidente. Il teatro diventa uno strumento perfetto per straniarlo. Perché quel limite altro non è che l’uomo. Sono io. In carcere il male diventa trasparente”. Nella sua ricerca concreta e circoscritta sul rapporto tra limiti e resistenza, in oltre trent’anni di spettacoli nati in una cella di tre metri per nove e presentati nel cortile assolato della prigione medicea, il regista, drammaturgo e attore ha ottenuto i massimi premi e riconoscimenti italiani ed europei, facendo della Fortezza un riferimento imprescindibile nella storia del teatro contemporaneo, una compagnia che attira migliaia di spettatori a ogni nuovo debutto e calca i piú prestigiosi palcoscenici del Paese. Le foto dello spettacolo Naturae, regia e drammaturgia di Armando Punzo, sono di Stefano Vaja. Armando Punzo, Un’idea piú grande di me. Conversazioni con Rossella Menna, Luca Sossella editore, nuova edizione 2020.
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Milano e la sfida dell'Europa
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Un’intervista a Pierfrancesco Maran
Piazza Duomo è stranamente deserta, ma nonostante la calda giornata non è la canicola a tenere lontano le persone. È l’ombra lunga della pandemia causata dal Covid-19 a svuotare lo spazio pubblico.
A cura di Stefano Lai Immagini Luca Strano RELAZIONI: 105
A Milano l’emergenza sanitaria non solo ha portato una tragica sequenza di lutti, ma ha colpito duramente l’economia e soprattutto l’immagine della città, lasciando i milanesi increduli e, per la prima volta dopo gli anni della crescita e della costruzione di un’identità forte, in balía di uno strisciante timore per il futuro. Relazioni: incontra Pierfrancesco Maran, Assessore all'Urbanistica, Verde e Agricoltura del Comune di Milano, nel suo ufficio con vista su piazza Duomo. Pierfrancesco Maran è giovane, ha da poco compiuto quarant’anni, sembra uno studioso ma non un secchione, conosce la politica, parla con sicurezza, senza esitazioni, e trasmette immediatamente l’impressione di avere ben chiaro in testa dove vuole arrivare.
La prima domanda non può che essere di carattere personale. Cosa ti ha spinto verso la politica, visto che ormai da decenni si parla della disillusione dei giovani e della loro indifferenza per la gestione della cosa pubblica? Pierfrancesco Maran Il mio interesse verso la politica è nato durante il liceo, a metà degli anni novanta c’erano ancora degli studenti politicizzati, animati da un sentimento che crebbe notevolmente con la morte di Falcone e Borsellino. Le stragi di mafia hanno spinto me, e come me molti altri giovani, a uscire dall’immobilismo e a scegliere l’impegno politico e la cura della dimensione sociale. I temi del territorio, invece, della politica di prossimità, li ho scoperti un po’ casualmente. Ero concentrato sui grandi problemi internazionali e sulle ingiustizie sociali “di sistema” quando, un mese prima della maturità, ho deciso di candidarmi per i Consigli di zona. Sono stato il piú giovane eletto a Milano e per un po’ di anni sono sempre stato “il piú giovane” in qualche ruolo istituzionale o funzione politica. Grazie a questa esperienza ho scoperto che accanto alle grandi questioni globali c’erano problemi che costituivano il tessuto immediato dell’esistenza delle persone: gli orari della biblioteca, la manutenzione del giardinetto… una dimensione della politica che secondo me è la piú bella. Stefano Lai
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Peraltro sei entrato in giunta con Pisapia durante l’esperienza amministrativa che ha segnato il ritorno del centrosinistra al governo della città. PM Sí, esatto. Dei miei quarant’anni ne ho vissuti ventuno dentro le istituzioni; durante gli anni della mia “militanza” il centro-sinistra ha affrontato una faticosa risalita, e una lenta riconquista di quella che sembrava una città inequivocabilmente di destra. La sinistra sembrava destinata a non toccare palla, noi per primi ci sentivamo distanti dal senso comune dei cittadini. Alla fine degli anni novanta è cominciato un lungo percorso di ricostruzione della relazione con il territorio, all’interno del quale la fatica e la costanza sono stati elementi imprescindibili. E credo siano elementi essenziali di qualunque esperienza politica che non cerchi solo il consenso immediato, e ambisca a durare. Poi dieci anni fa Pisapia ha fatto questa scelta che definirei “particolare”, affidandomi l’Assessorato alla Mobilità, che tanto per dare un’idea gestisce un miliardo e cento milioni su tre miliardi di bilancio comunale. SL
Luca Strano (1993) è un fotografo italiano che vive e lavora a Londra, dove ha recentemente conseguito una laurea in fotografia documentaria presso il London College of Communication.
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Una scelta forse un po’ incosciente politicamente ma a conti fatti credo che sia andata bene per me, per il sindaco, e spero anche per la città. Del resto forse solo a trent’anni si poteva avere il coraggio, dopo sei mesi di assessorato, di varare l’Area c, la chiusura parziale del centro alle automobili. C’era stato un referendum, d’accordo, però era la prima volta in Italia che si adottava una congestion charge, una “tassa sul traffico”. A volte mi dico che forse in un altro momento della vita non l’avrei fatto. La decisione era coerente con la volontà di fare di Milano una città europea. A febbraio 2020, prima del lockdown, Milano era considerata una delle due o tre città piú dinamiche in Europa. Tralasciando per un attimo la sospensione creata dal Covid-19, Milano è una città che è cresciuta tanto e continua a crescere, simbolicamente e fisicamente, espandendosi e inglobando i territori e i centri urbani limitrofi. Fino a dove può arrivare Milano, e che rapporto ha con i propri confini, con le aree-satellite che le gravitano attorno? PM Sicuramente fa parte della storia di Milano l’idea tossica che i comuni dell’hinterland fossero il dormitorio della città, mentre la città vera e propria si spopolava. Milano però nell’ultimo decennio si è ripopolata, è passata da 1.300.000 abitanti a 1.400.000. E non perché siano semplicemente arrivate 100.000 persone in piú: ogni anno arrivavano 40-50.000 persone, e se ne andavano 35-40.000. Questi numeri danno l’idea di un fermento, che contiene molti piú aspetti positivi che negativi. Milano è entrata in competizione con Parigi, Barcellona, Londra, non portavamo via abitanti a Roma o Napoli, per molti eravamo e siamo stati l’unica alternativa italiana all’interno di uno spettro migratorio internazionale. Negli anni settanta e ottanta si parlava molto della necessità di creare una città policentrica, ma io non credo si sia andati in quella direzione. Esistono dei centri alternativi, la fiera, Mind-Arexpo lo diventerà, Sesto San Giovanni. Ma quello che è accaduto in questi anni è che una città piccola come Milano ha avuto una straordinaria espansione del centro, che ha di fatto incluso tutSL
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te le zone all’interno della cerchia ferroviaria modellandole secondo caratteristiche omogenee, simili a quelle del centro. Porta Nuova e City Life non sono delle nuove centralità di Milano ma fanno parte del centro. L’altra tendenza interessante che si stava già sviluppando, e che è stata incrementata nel periodo dell’emergenza sanitaria – la pandemia tra tante catastrofi ha avuto alcune conseguenze “reattive” che possono essere valorizzate in futuro – è la riscoperta delle dinamiche di quartiere. Chi vive a Milano ha scelto di vivere a Milano, si riconosce nei valori di una città fondata sul lavoro e sulle opportunità. Una città in cui in parte devi vedertela da te, e quindi per certi aspetti dura, difficile. Ma anche una città che quando le cose vanno bene sa che deve restituire qualcosa alla comunità: il numero di ore di volontariato svolto dalle associazioni a Milano è impressionante per una città percepita tradizionalmente come “egoista”. Scegliendo di vivere a Milano dunque si sceglie anche dove vivere, in quale zona, e quindi il tipo di esperienza della città che si vuole fare: c’è la città di chi si muove in macchina, quella di chi usa solo mezzi pubblici, le diverse città degli studenti universitari con annessa la geografia dei locali notturni, la città delle coppie e delle famiglie con i quartieri nuovi immersi nel verde e gli appartamenti piú grandi. E in che modo la pandemia si è innestata su queste dinamiche di diversificazione della città? PM Noi pensiamo intuitivamente che la crisi sanitaria abbia giovato, per esempio, alla grande distribuzione, ai supermercati. A ben vedere, molti supermercati lamentano una perdita di clienti, particolarmente tra gli abitanti delle città a medio-alto potenziale d’acquisto, che hanno riscoperto i negozi di vicinato, e sono disposti a pagare qualcosa in piú per fare la spesa in una bottega di qualità, per il piacere e la comodità di trovare tutto sotto casa. Il paradosso da combattere è che questo rischia di creare un’ulteriore divaricazione rispetto alla periferia, che ha piú supermercati e meno offerta di piccoli negozi. Durante il lockdown sono emersi con grande evidenza elementi di qualità della vita che prima SL
restavano impliciti: poter fare jogging sotto casa è un valore; il macellaio non ti sta derubando ma ti dà un prodotto garantito e un’esperienza di prossimità; avere il giardinetto per il cane nelle vicinanze è importante. La città in cui tutte le cose essenziali sono a 15 minuti a piedi di distanza, che è stata un nostro obiettivo, ora è diventata un valore primario e condiviso, mentre prima lo era solo per chi sceglieva – anche potendoselo permettere, certo – una determinata zona e quindi un determinato stile di vita. Come si concilia questa grande espansione e differenziazione della città, e la sua accresciuta vivibilità, con una presenza massiccia dell’immigrazione e di fasce di popolazione che restano escluse dalle zone rese piú vivibili? Come
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socio-abitativo ideale, che rende davvero possibile l’integrazione. In zone in cui l’immigrazione è al 20% arrivano famiglie con un lavoro, con una buona formazione culturale, piú attente e piú disponibili all’incontro con altre culture. Di fatto nei quartieri dove ha funzionato meglio il libero mercato non abbiamo sacche esplosive dal punto di vista sociale. Tuttavia bisogna monitorare che il mercato immobiliare non si stabilizzi su prezzi escludenti, proprio perché la cultura della città richiede che si abbia la possibilità di arrivare e giocarsi le proprie risorse anche senza tanti mezzi a disposizione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare di una città come Milano, il 15% della popolazione vive in case popolari e il 70-72% in case proprie: un dato in calo, ma che ci dice
La città in cui tutte le cose essenziali sono a 15 minuti a piedi di distanza, che è stata un nostro obiettivo, ora è diventata un valore primario e condiviso, mentre prima lo era solo per chi sceglieva una determinata zona e quindi un determinato stile di vita.
si gestiscono i processi di integrazione senza creare quartieri-ghetto e forme di segregazione sociale? PM Milano secondo me ha alcune zone critiche ma non dei veri e propri ghetti. E gli unici punti davvero critici, significativamente, sono i quartieri che hanno soltanto edilizia popolare, nei quali non si è creato il mix abitativo e sociale che fa convergere tutte o quasi le fasce di reddito. Noi stiamo investendo tanto al GiambellinoLorenteggio, in via Bulla, al Corvetto, che sono le sacche piú difficili. Il rovescio positivo dell’aumento dei prezzi è che tante famiglie che hanno un lavoro ma semplicemente non si possono permettere i prezzi delle zone semi-centrali scelgono di andare a vivere in quartieri tradizionalmente popolari, e critici, come Quarto Oggiaro, viale Monza, via Padova, creando cosí un tessuto
comunque che sette persone su dieci vivono in casa loro. È un elemento che va considerato quando si afferma che l’aumento dei prezzi è il male assoluto, perché significa che le case non sono in mano ai grandi fondi immobiliari, appartengono alle famiglie, che hanno investito e hanno visto incrementare il proprio patrimonio anche del 20%. Poi esiste un patrimonio di circa 100.000 case in affitto di cui ormai 20.000 sono occupate dai turisti. In questo contesto gli studenti, i lavoratori fuori sede, le famiglie, i coniugi separati, appunto gli immigrati e altre categorie fragili sono a rischio espulsione, e vanno tutelate monitorando le dinamiche speculative. Va detto che a Milano queste dinamiche non sono gravi come si potrebbe pensare: esiste un Bubble Index promos-
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so dall’istituto finanziario internazionale ubs che monitora un centinaio di città nel mondo per individuare le bolle speculative, e Milano a febbraio era fuori dalla bolla speculativa, il mercato non risultava drogato. Tuttavia la distanza tra il costo crescente degli affitti e gli stipendi medi è una forchetta che si sta ampliando, e questo ci preoccupa. A febbraio, una settimana prima dell’esplosione dell’epidemia, ho sollevato il problema di limitare Airbnb a Milano. Parlando in uno dei suoi libri del “secolo delle città”, anche il sindaco Sala, insieme a tanti osservatori in tutto il mondo, sembra invocare uno scenario in cui le grandi città si autonomizzano dal tessuto degli Stati che le contengono, acquisiscono regole, meccanismi di funzionamento, relazioni e aree di influenza proprie, diventando degli organismi extra-territoriali, quasi delle città-stato. Anche secondo te si va verso questa configurazione? PM Il sindaco in realtà non parla mai di cittàstato, anzi contesta questa definizione e dice che Milano semmai è il motore, la locomotiva del paese, e che deve essere messa nelle condizioni di esercitare questo ruolo. Resta però il problema che proprio per incarnare una funzione di traino servono alla città un’agilità, un dinamismo, una possibilità d’azione diversi da quelli del resto d’Italia. Faccio un esempio a partire da una norma che ci siamo inventati a Milano, e che secondo me è eccezionale ma sarebbe molto critica se applicata al resto del Paese. Abbiamo censito 180 immobili abbandonati e offerto vantaggi e agevolazioni ai proprietari che avessero presentato un piano di intervento entro dodici mesi e aperto il cantiere per la rimessa in funzione entro diciotto mesi. Senza un piano di recupero entro il dodicesimo mese dal censimento l’immobile andava demolito e, in caso di mancata demolizione, veniva svalutato. Siccome gli immobili abbandonati a Milano sono in larga parte in mano alle banche, ai fondi d’investimento, alle assicurazioni, che mettono a bilancio valori immobiliari piú alti di quelli reali, la norma era un incentivo all’intervento per evitare svalutazioni che avrebbero pesato sui bilanci. Milano, però, seppure con molta fatica legislativa, può permettersi una norma di questo tipo che va a incidere sugli investimenti. SL
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Recentemente il sindaco Sala ha scritto ai leader europei per chiedere che le strategie di ripresa post-emergenza sanitaria includano investimenti strategici sulle grandi città. Come si fa a conciliare la grande città del lavoro e della produzione, che ha bisogno di infrastrutture e quindi può generare traffico, densità, inquinamento, e la città a misura d’uomo, vivibile, da attraversare in bicicletta? PM Io non credo ci sia contraddizione tra questi due approcci; il rischio semmai è creare un paese-arcipelago, formato da isole molto diverse tra di loro. Osservando anche il contesto internazionale io vedo che nelle grandi città, anche quando sono governate dalla destra o dal centrodestra, le strategie attuate sono davvero molto simili; chi governa fa quasi sempre le stesse cose, e chi si oppone dice quasi sempre le stesse cose. Magari è un abbaglio collettivo, ma le grandi città vanno tutte in una direzione coerente. L’idea di fondo è che la città debba diventare sempre di piú un’isola di vivibilità nella quale non basta avere un lavoro, ma è necessario preservare una certa qualità della vita, e quindi lo spazio pubblico viene valorizzato tanto quanto le infrastrutture. Le aziende che devono spostare la loro sede si informano sul livello delle scuole della città. Spesso pensiamo erroneamente che all’origine delle scelte ci siano motivazioni puramente economiche. Ma l’azienda che deve scegliere una città ha anche il problema di convincere manager e alti funzionari a viverci, e di conseguenza la vivibilità della città, i suoi spazi verdi, i mezzi pubblici, la connessione con il resto del mondo e quindi il sistema aeroportuale e ferroviario, la scuola come infrastruttura sociale, tutto viene valutato. SL
Come sarà la città del futuro e in che direzione si svilupperà il concetto di smart city? Come immagini Milano da qui a qualche anno e cosa stai facendo per prepararla? PM Il tema di fondo secondo me, di enorme rilevanza per tutte le città del mondo, è capire chi possiede i dati e come li si mette in condivisione. Perché c’è una distanza crescente tra le poche informazioni che ha a disposizione il pubblico e l’immane quantità di informazioni che SL
hanno i soggetti privati. Io non credo che la soluzione possa essere semplicisticamente rendere pubblica in blocco la proprietà dei dati, perché non è fattibile. Ma occorre un ragionamento su come una larga parte dei dati possa diventare un bene comune, a disposizione di tutti. È un punto essenziale che può produrre una vera svolta sia ambientale sia di qualità della vita. Pensiamo ai problemi della logistica e della mobilità. Se tutte le informazioni già disponibili fossero utilizzabili da chi deve fare una consegna, ogni fattorino inquinerebbe un terzo di quello che inquina oggi. Ognuno di noi integrando al meglio i servizi di viabilità esistenti potrebbe ridurre notevolmente la propria impronta di inquinamento e risparmiare decine di minuti al giorno sui tempi di spostamento.
ha colpito duramente Milano, anche in termini di immagine. A un certo punto sembrava fosse l’epicentro dell’epidemia. Come ci si risolleva da questa situazione? PM Ci sono vari problemi. Uno è comunicativo, si tratta di ricostruire un senso di fiducia nella città, sia all’interno sia all’esterno. Il secondo è che abbiamo visto la morte alle porte della città. È una visione che lascerà delle tracce e indurrà i milanesi a un esercizio della prudenza e a prendere precauzioni anche maggiori rispetto a quelle prese dagli italiani che non hanno vissuto la crisi cosí direttamente. Terzo, non ci sono turisti. Questo certo è un fenomeno globale e non solo milanese. Noi pensiamo però che Milano abbia delle caratteristiche per cui, quando si riaprirà davvero la competizione internazionale, sarà di nuovo
La caratteristica che salva Milano è la sua attitudine a fare, a pensare soluzioni, a non stare fermi. Provarci, inventare, e alla fine trovare sempre un modo per risollevarsi.
Come fai a convincere il privato, e in particolare le grandi compagnie della tecnologia e delle piattaforme digitali, a collaborare con il pubblico? PM Intanto il pubblico potrebbe utilizzare meglio alcune leve che ha, per esempio le autorizzazioni all’impianto di centraline 5g potrebbero essere concesse in cambio di una trasparenza seria sulle informazioni raccolte. Quando abbiamo autorizzato le società di car-sharing a lavorare a Milano, abbiamo imposto loro di metterci a disposizione i dati che raccoglievano sulle loro corse. Le amministrazioni hanno questo grande potenziale, possono concedere la possibilità di fare cose comunque necessarie, chiedendo in cambio azioni di utilità pubblica. SL Sicuramente l’emergenza sanitaria SL
lí in prima fila. Poi bisognerà aggiornarci, perché nel 2019 c’erano piú “week” tematiche delle cinquantadue settimane dell’anno. La crisi può affrancarci da alcuni eccessi di fiducia nell’evento permanente. Però sentiamo anche che c’è voglia di ritornare a visitare Milano, di ritrovare il suo istinto per il design e per la moda. Ci sono le condizioni per rialzarci e speriamo che avvenga presto. Non tutta la città è uguale: il centro è in grandissima difficoltà, e la sua sofferenza non è superabile senza turisti. Le zone dove non c’erano turisti né uffici ma che vivono della vita di quartiere si stanno riprendendo meglio. Ma la caratteristica che salva Milano è la sua attitudine a fare, a pensare soluzioni, a non stare fermi. Provarci, inventare, e alla fine trovare sempre un modo per risollevarsi. ◊
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L’utopia dello spazio: ridefinire le relazioni
© E R I K A AVAT S M A R K , A N E N E M Y O F T H E P E O P L E I N O S L O
Dialogo con Stefan Kaegi a cura di Giacomo Pedini Immagini Rimini Protokoll
Nei mesi reclusi in casa ci siamo tenuti in contatto attraverso decine di software. Eppure nei Pirenei, dove Relazioni: ha raggiunto Stefan Kaegi, il telefono fa cilecca. Per qualche giorno si è rifugiato lí, il regista e autore dei Rimini Protokoll che, con Helgard Kim Haug e Daniel Wetzel, inventa performance sorprendenti in giro per il mondo, da Berlino a Shanghai e ritorno (via Vancouver). Molti loro progetti teatrali sono senza “attori”: chi partecipa spesso attraversa luoghi, magari pezzi di città, ogni tanto con la guida di operatori di call-center, come in Call Cutta, ogni tanto seguendo le istruzioni di un software con voce umana, come in Remote x. Alcune istallazioni coinvolgono non solo lo spazio, ma anche la dimensione temporale, come nel recentissimo Bauprobe Beethoven, una raccolta di voci e percorsi della storia tedesca nel cuore della Beethovenhalle di Bonn. Neanche il Covid-19 li ha fermati: nel pieno del contagio hanno lanciato Call Cutta at Home, un viaggio condiviso su Zoom tra le pareti di casa propria.
Giacomo Pedini Stefan, il lavoro dei Rimini Protokoll colpisce perché ogni progetto, pur avendo una sua struttura, riesce sempre ad adattarsi ai luoghi ospitanti. Insomma lo spazio definisce le vostre creazioni: ma come li scegliete, cosa vi fa dire questo è il posto giusto? Stefan Kaegi Di certo molti nostri progetti vogliono far immergere il pubblico in uno spazio, sollecitarne i sensi, tenerli aperti in tutte le direzioni. È il contrario del cinema, dove il montaggio delle immagini dice via via cosa guardare. A teatro conta invece l’imprevisto. Prendiamo Remote x, dove cinquanta persone attraversano una città guidati da una voce digitale in cuffia: all’inizio noi lavoriamo sul tempo. È la materia prima attorno a cui organizziamo una struttura, cioè il modo in cui delle persone costruiranno relazioni. Solo dopo interviene lo spazio: può capitare, per esempio, di trovarsi a un certo punto del percorso in situazioni all’apparenza simili, ma piuttosto diverse. Magari siamo in un luogo preciso, ma a seconda del meteo o del giorno della settimana intorno a noi le cose cambiano: ora c’è una folla, ora il deserto. Nella versione italiana del progetto, Remote Milano, c’è un momento in cui si sta fermi davanti a una grande stazione ferroviaria, dove
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molte persone vengono a guardare gli orari dei treni: il nostro pubblico è lí che le osserva, come fossero parte di una pièce teatrale, commentata dalla voce in cuffia. Ora, può capitare che passi di lí una scolaresca: gli studenti non guardano gli orari dei treni, ma il nostro pubblico. Due pièce si specchiano fra loro, per un istante. Voglio dire: in uno spazio si sta sempre in una maniera unica. Noi cerchiamo di aiutare gli spettatori a scoprire ciò che è loro di uno spazio. Altro esempio: Cargo Sophia, o Cargo Losanna, perché ne esistono piú varianti. Di base tutte condividono certi aspetti: di notte si sta seduti nel retro di un furgone, che fa il suo giro di lavoro in città, e chi è dentro osserva l’esterno da una lunga finestra. Tutti gli spazi guardati sono sia reali sia finti, perché sono luoghi tanto messi in scena attraverso l’uso, per esempio, della musica, quanto visti da una finestra aperta sul mondo, lí dove agiscono delle forze materiali. Ciò che di solito si eviterebbe a teatro, noi lo inseguiamo: cerchiamo di portare il pubblico dentro posti che possono venire stravolti dall’imprevisto, dalla pioggia o da una manifestazione pubblica, o dal semplice fatto di rimanerci piú del previsto. Ci sono il traffico, i semafori rossi… Intervengono due fattori: per un verso met-
REM OTE X — B ELG R AD E © S O NJA ŽU G I Ć
tiamo in piedi una specie di cinemascope, la finestra che ti fa guardare il mondo, ma d’altra parte ti esponiamo del tutto a ciò che la situazione reale impone. È cosí che si dà una connessione con l’argomento del lavoro: Cargo x parla dei trasporti globali attraverso l’esperienza particolare di chi guida i camion, con le loro reali biografie. Dal tuo racconto è chiaro che nei vostri progetti il pubblico ha libertà di movimento: decide come rapportarsi ai luoghi toccati, pur dovendo rimanere dentro certe coordinate. Quali sono i limiti di questa libertà del pubblico e quanto è effettiva? SK Ci accusano spesso di creare progetti teatrali dittatoriali o manipolatori, solo perché diamo delle istruzioni al pubblico: cammina per di qui, vai piú piano, siediti… Sono solo istruzioni: ognuno può seguirle o meno. Sí, alla fine noi proviamo a manipolare, o meglio a indurre a fare. Ma l’esito dipende dal pubblico, non da noi. Tra l’altro mi domando: sedersi in un normale teatro non è qualcosa di manipolatorio? Non ti viene detto di startene al tuo posto, in silenzio, di non fare questo o quello, per esempio non andare alla toilette? Ci si può sentire a disagio. Invece a me fa piacere che in un teatro le persone siano costretGP
te a spegnere il cellulare. Dunque la manipolazione dove sta? Di fondo noi creiamo dei format perché le persone stiano in relazione. Potrei anzi dire che inventiamo dei dispositivi di gioco, nel senso tedesco o inglese del termine, lingue in cui “recitare” e “giocare” si dicono allo stesso modo. Dire “dispositivo di gioco” significa parlare di un complesso di regole: qui si entra in una sfera utopica del teatro, in cui possiamo ridefinire le nostre pratiche dello stare insieme. Si va oltre la legge della chiacchiera, delle situazioni lavorative quotidiane, della massima produttività. Possiamo creare e praticare regole che ci aiutano ad allargare il campo della percezione e a ridimensionare le cose: una dote propria del teatro. Quello che dici mi fa venire in mente Bertolt Brecht, quando pensava al teatro come a uno strumento capace di incidere sulla realtà, facendo attraversare al pubblico due momenti, uno di illusione e poi uno di presa di distanza, un effetto di straniamento dalle cose per rifletterci sopra. È cosí per voi? SK Prendiamo Remote x: è un format che spinge a fare qualcosa che di norma si evita, rinunciare alla propria libertà. In un primo momento, se riGP
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Magari siamo in un luogo preciso, ma a seconda del meteo o del giorno della settimana intorno a noi le cose cambiano: ora c’è una folla, ora il deserto. fletti a livello teorico sulla performance, pensi: in fondo mi sto facendo guidare da un telefono e una voce. Eppure è anche un atto liberatorio, perché rompe certe nostre costrizioni di tutti i giorni, quando dobbiamo scegliere tra diverse cose da fare, o tra prodotti, o tra argomenti. Invece dentro questa struttura guidata finiamo per dare piú risposte del solito o impiegare il tempo con piú attenzione. Va notata questa resa a un format temporale creato da qualcun altro. Sarebbe giusto quasi parlare di gameplay, ovvero di un processo di gioco, non nel senso del giocare contro qualcuno o per vincere qualcosa. È piú un giocare con altre persone, che poi non sono che gli altri attori/partecipanti di Remote x, i suoi utenti: solo che lo si capisce alla fine, quando non si è piú nel processo. Tutto questo è piú evidente in un altro nostro progetto, Situation Rooms. Funziona cosí: ogni sette minuti si deve impersonare qualcuno di diverso, seguendo con monitor e cuffie tutte le sue azioni, che hanno sempre a che fare con le armi: ora sei un soldato, poi una vittima, un soldato bambino, un medico da campo, un rifugiato ecc… Dico impersonare perché chi guarda è costretto a seguire le azioni filmate e l’audio di una persona reale. Può anche essere piacevole, ma richiede una certa energia e attenzione: si segue un tracciato e si agisce al suo interno. Fine. Magari, però, dopo qualche giorno, alcuni spettatori piangono: Situation Rooms riemerge in loro; hanno digerito lentamente l’esperienza digitale e immersiva. In questo senso si genera un vero e proprio secondo momento di riflessione. Quindi è come se pensiero ed emozione si unissero nell’esperienza fisica. Quanto conta lo spazio? SK Molto. Poi lo spazio ci dà un privilegio. Se paragoni i nostri progetti a dei documentari o notiziari video, ti accorgi di una differenza fondamentale: il pubblico resta con noi per una, due o tre ore. Otteniamo una grande attenzione dalle persone, che possiamo estendere e utilizzare. Per
la precisione possiamo spazializzarla, nel senso che ti facciamo muovere, agire dentro spazi che normalmente non conosci, ti immettiamo materialmente dentro processi decisionali o di gestione. Mettiamo le persone in ruoli in cui di norma non stanno, in luoghi che non abitano, da cui alla fine osservano pure se stessi: ecco il rapporto tra azione e riflessione. E con la quarantena? Le cose si sono complicate, perché tanta gente è stata costretta a lavorare su Zoom. Allora ho iniziato a immaginare performance in cui non si condivide un unico spazio. E che finiscono col valorizzare paradossalmente proprio il fatto di stare in certi luoghi particolari. Per esempio, ora stiamo lavorando a un progetto su Beethoven e la Germania Ovest. Sarà nella Beethovenhalle, un sito in ricostruzione a Bonn. È un luogo particolare, perché avrebbe già dovuto essere rinnovato, ma i lavori non sono finiti. Camminandoci dentro, come farà il pubblico, ho pensato di far ascoltare le voci di persone che ci hanno lavorato in tempi diversi. Nonostante si percorra lo stesso spazio, questo finisce per sembrare altro: metà distrutto e metà rinnovato. È cosí che si rende visibile la sua particolare vicenda: la messa in scena della politica tedesca. Già perché in quel luogo per alcuni anni i partiti politici hanno votato i presidenti. Ora, facendoti camminare per la Beethovenhalle, ascoltando in ogni punto diverse persone che ne parlano, anche voci di gente scomparsa che parla di una politica ormai passata, si arriva a sentirne gli sguardi, i corpi, solo perché si è lí.
GP SK
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GP È come riuscire a colmare un’assenza, a far concentrare in un punto tante stratificazioni passate… SK L’assenza dei corpi è qualcosa di importante per noi, perché portiamo le persone in un luogo a seguire un protagonista che non c’è. Magari lo si può ascoltare, oppure vedere ciò che ha attorno, come in Situation Rooms. Addirittura si possono
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toccare le stesse cose che lui o lei hanno toccato. Ma il protagonista manca. Ho appena lavorato a un progetto nei teatri di Losanna e Stoccarda, chiamato Black Box. Abbiamo preso dei classici spazi teatrali che, come sappiamo, sono rimasti chiusi per mesi. Nel momento in cui è stato possibile tornarci, lo abbiamo fatto con cuffie e registrazioni binaurali, cioè calibrate per ascoltare cose diverse dalle due orecchie. Si entra nel teatro, ci si muove e si ascoltano persone che sono state esattamente lí: si sente una registrazione, ma la percezione è che ti siano accanto. Per paradosso la loro assenza ne fa comprendere meglio le parole. Quello che dici colpisce molto in Call Cutta at Home, che per via del Covid-19 è giocato sull’assenza, nel senso che i venti partecipanti sono a casa propria collegati via Zoom e guidati da due operatrici indiane, pure loro in due paesi diversi. Manca uno spazio, manca un protagonista, siamo tutti lontani, eppure per un’ora sembra di toccarsi… SK Sí, è un aspetto proprio di Call Cutta at Home. Perché non si è in un teatro, ma a casa, che di norma non è uno spazio pubblico. Anzi è il luogo dove ci si ritira. Ma il gioco è cambiato con il CoGP
vid-19: ci ha forzato a lavorare in delle case-ufficio. Nel Call Cutta originale la relazione era tra una persona in giro per una città e una dentro un call-center: il prototipo spaziale del call-center ha ora invaso il nostro vivere quotidiano. Improvvisamente quello che era privato è diventato casa-ufficio. Una necessità da un lato, ma pure un fatto sociale: si condivide il posto dei libri, della cucina, dei letti. Sei distante, vero, ma allo stesso tempo ti avvicini, costruisci un’intimità. È il prototipo del call-center ribaltato: un operatore di call-center si presume che parli con te e che sia dove sei tu, non tu dove è lui. Si presume che sia lí per te, che non abbia un corpo suo e un luogo dove stare. La casa-ufficio su Zoom, che abbiamo usato come base per Call Cutta at Home, crea invece uno spazio condiviso che è fatto delle cucine di tante persone riunite in un tempo. Call Cutta at Home si può fare con partecipanti che, nello stesso istante, sono in Brasile, a Filadelfia, in Israele, in Germania… All’improvviso ti trovi in uno spazio comune piuttosto strano, in cui molti non hanno neanche lo stesso fuso orario. Però si condivide un luogo, per il semplice e umanissimo fatto di avere tutti un letto e una cucina. Cosí si entra in relazione, si finisce per toccarsi. ◊
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Spazi di vita, spazi di consumo
Testo Maura Latini
La frattura temporale prodotta dalla pandemia sembra aver smaterializzato acquisti e consumi, ma in realtà ha innescato cambiamenti che pongono importanti problemi di sostenibilità sociale e ambientale. La mutazione delle abitudini dei consumatori tuttavia non fa che accelerare processi già in corso, e richiede un ripensamento complessivo dei luoghi dell’acquisto, da riprogettare nel segno dell’ibridazione, della sostenibilità, della scoperta di nuove forme di socialità.
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Comprare nel futuro La pandemia e il lockdown hanno segnato una frattura temporale che ha un valore universale, riguarda tutti e ha investito anche gli aspetti minimi dell’esistenza, come spostarsi da un luogo all’altro o fare la spesa. Un cambiamento che ha generato una sensazione di disorientamento collettivo inedita per le società occidentali, e quindi difficile da gestire. Conoscevamo la paura come sentimento individuale, legato alla propria relazione con le cose, le situazioni, i luoghi, ma da tempo non vivevamo piú una paura collettiva di questo tipo. Avevamo dimenticato i rischi connessi alle malattie contagiose, tragicamente connaturate alla storia evolutiva del genere umano; le abbiamo date per debellate, tanto da arrivare a mettere in discussione le vaccinazioni. Abbiamo vissuto una epocale e stravolgente regressione psicologica, che ha travolto il modello sociale, di lavoro, divertimento, conoscenza, viaggio, acquisti, relazioni che si era sedimentato nel corso della modernità. Una doccia fredda per gli umani che si pensavano invincibili nella loro cavalcata verso il futuro, tanto violenta da mettere a repentaglio il futuro della terra. La prima rilevante conseguenza del Covid-19 per il mondo dei consumi è dunque la paura di frequentare persone e gruppi. Paura che nella migliore delle ipotesi potrebbe trasformarsi in leggera preoccupazione, ma che difficilmente scomparirà del tutto, a meno che non arrivi il vaccino capace di debellare il rischio, trovando la soluzione senza eliminare il problema. In questo caso tutto potrebbe riprendere come prima, almeno riguardo ai rapporti di prossimità con le altre persone. Diversa invece la situazione delle tendenze che riguardano il consumo di cibo e si ripercuotono sui luoghi degli acquisti, in quanto si tratta di trasformazioni che hanno una genesi precedente
al virus, si sono affermate nell’ultimo decennio, e hanno trovato nella pandemia un moltiplicatore di cambiamento. Le tendenze piú rilevanti al momento sembrano due: la volontà di concentrare il tempo e il modo di fare acquisti senza impoverirli nei contenuti; e l’aspettativa di acquistare prodotti di buona qualità a prezzo basso. Sintetizzando potremmo parlare di “semplificazione” e “convenienza”. Sono due tendenze che si sovrappongono e hanno trovato un terreno fertile nel mondo digitale. In realtà è proprio il digitale che ha contribuito alla loro nascita, crescita e sviluppo dirompenti. Le persone sono state rapidamente abilitate ai nuovi modelli di acquisto online, con un’estrema semplificazione operativa e i plateali attestati di convenienza cui il mondo digitale ci ha abituato, e senza dover pagare direttamente e in chiaro i costi di un servizio ubiquitario e specifico. Viviamo una sorta di dissociazione cognitiva che ci rende estranei a tutto ciò che ruota intorno ai nuovi modelli di acquisto. Per strada vediamo i rider della gig economy, ma non la realtà che rappresentano. Questi nuovi lavori hanno conseguenze rilevanti sulla competizione; rendono possibili servizi specifici e innovativi, ma a determinate condizioni di costo del lavoro, sostenibili solo per le imprese che non tengono conto adeguatamente delle relazioni sindacali e dei diritti acquisiti. Come si potranno garantire questi nuovi servizi che ci facilitano la vita, trovando però un corretto equilibrio tra valore del servizio e remunerazione dei lavoratori? La parcellizzazione degli acquisti e delle consegne, per di piú, non sembra compatibile con le rinnovate esigenze di sostenibilità ed equilibrio ambientale. Lo sviluppo economico che conosciamo si basa spesso su un rinvio del pagamento dei costi ambientali, addebitati alle generazioni future,
Si tratta di trasformazioni che hanno una genesi precedente al virus, si sono affermate nell’ultimo decennio, e hanno trovato nella pandemia un moltiplicatore di cambiamento. RELAZIONI: 119
che si troveranno un pesante conto da saldare. Le istituzioni nazionali e sovranazionali inizieranno finalmente a progettare cambiamenti guardando davvero al futuro, o continueranno a lanciare proclami non supportati da prospettici elementi normativi? La responsabilità civile è sempre piú un tema cruciale. La forza dell’ibridazione Le novità indotte dal digitale hanno attivato cambiamenti nelle modalità di fruizione degli ambienti e nella relazione delle persone con gli spazi. Stiamo superando il concetto di “ambiente specializzato” (un luogo per guardare un film, un altro per leggere, uno dove acquistare prodotti, uno in cui mangiare…). Tanto piú che alcune di queste specializzazioni potrebbero non essere piú percepite come utili, rendendo superati i relativi luoghi. Luoghi che potrebbero rinascere solo integrando la loro specializzazione originaria con attività complementari utili e gratificanti per il fruitore, ed economicamente ed eticamente sostenibili per l’erogatore. Certo serviranno anche progetti radicali, che in Italia faticano a imporsi. La tendenza alla disintermediazione fisica dei luoghi dell’acquisto ha provocato contraccolpi già evidenti e in progressivo aumento da quando la mobilitazione fisica dei prodotti ha trovato un’alternativa funzionale ed efficace nella spesa online. Il Covid-19 e il lockdown hanno solo velocizzato i tempi di un’evoluzione già in corso. Il minor tempo di cui adesso disponiamo per andare da un luogo d’acquisto all’altro potrebbe fare la differenza, seppure in negativo. Ma non è detto: in piena pandemia i supermercati hanno dimostrato la loro importanza anche come luoghi di aggregazione (per quanto controllata); per instaurare relazioni positive le persone hanno bisogno di incontrarsi; e infine tutti i luoghi, grazie alla tecnologia, pos-
sono diventare molto altro rispetto a ciò per cui sono nati. Il punto vendita è un luogo ricco di stimoli che può offrire una sintesi efficace di vecchie e nuove risposte. Certo va riempito di contenuti diversi, ragionevolmente molto piú evoluti grazie alla tecnologia, radicati nelle relazioni e rigeneratori di socialità. Tanto piú se a fare da connettore c’è il cibo, forse il primo tratto culturale della specie umana, da sempre attivatore di socialità, come racconta la storia degli scambi costruttivi, e a volte distruttivi, tra esseri umani. Ma il cibo è anche qualità e quantità, elementi che concorrono a costruire e mantenere la salute delle persone, cosí come quella dell’ambiente. Per il cibo si impegnano ogni anno parte rilevante delle risorse anche non rinnovabili del pianeta. La sua produzione è responsabile del 70% del consumo di acqua, come del 35% delle emissioni di co2 sulla Terra, che sembra intenzionata a presentarci il conto velocemente se è vero che gli alimenti saranno in futuro meno nutrienti a causa degli alti tassi di co2 nell’atmosfera. I luoghi degli acquisti, dunque, potrebbero evolvere positivamente anche come ambienti per lo scambio di informazioni, la socializzazione dei contenuti e la scelta dei prodotti. Una scelta piú consapevole sarebbe di grande importanza in prospettiva, se vogliamo cambiare un modello economico e sociale non piú sostenibile già prima del Covid-19. L’ibridazione dei luoghi di vendita, piú facile nelle città dove le diversità da portare a sintesi generano di per sé novità e cambiamenti, è funzionale ai bisogni delle persone, ma contemporaneamente utile anche a garantire allo spazio una nuova ragione di esistere. Ciò può creare opportunità rilevanti anche nei piccoli e piccolissimi centri urbani, dove spesso mancano i servizi che solo la presenza di tante persone può garantire. È ancora prematuro indicarla come una tendenza,
La diffusione e le ricadute dello smart working sono un caso recente sul quale riflettere, che presenta opportunità e rischi, promettendo grande duttilità e minacciando pericolose reclusioni domestiche. 120 RELAZIONI:
L’opportunità data dall’ibridazione degli spazi, che da monotematici diventano polifunzionali, potrebbe permettere il recupero dell’esistente e la protezione del suolo residuo.
ma il Covid-19 sembrerebbe aver ridato valore alla vita fuori dai grandi centri urbani. I centri piú piccoli e periferici sono percepiti come piú sicuri grazie alla minore densità abitativa, come piú economici – nonostante le difficoltà economiche connesse alle conseguenze della pandemia siano ancora tutte da valutare –, e piú adatti a sfruttare le possibilità di connessione ubiqua offerte dal digitale. La diffusione e le ricadute dello smart working sono un caso recente sul quale riflettere, che presenta opportunità e rischi, promettendo grande duttilità e minacciando pericolose reclusioni domestiche. E potrebbe avere particolari effetti di esclusione per il genere femminile, che già adesso si fa carico della parte piú gravosa del lavoro di cura, e rischia di vedere questa situazione amplificata dal lavoro a distanza. Il consolidamento della potenziale tendenza alla valorizzazione dei piccoli centri urbani dipenderà anche dalle capacità di organizzare la vita nei territori, sviluppando le facilitazioni che la tecnologia può garantire alle famiglie ma anche alle imprese. Potrebbe rappresentare una grande opportunità per l’Italia, storicamente policentrica, se le istituzioni e le imprese piú sensibili interpretassero come un volano di sviluppo l’implementazione di servizi innovativi e di base per la vita e la socialità delle famiglie. Ambienti unici per morfologia, cultura, arte, gastronomia potrebbero essere vissuti da nuove comunità che richiedono servizi moderni. È un grande salto prospettico, ma proprio in alcuni di questi contesti territoriali molto piccoli il supermercato come luogo di acquisto, già adesso predisposto e strutturato per il servizio in senso lato, potrebbe svolgere un compito privilegiato e funzionale alle caleidoscopiche nuove esigenze delle persone, facilmente aggregabili in questo luogo. Ma c’è un altro capitolo potenzialmente connesso alle nuove necessità delle persone e all’o-
ramai inderogabile riprogettazione degli spazi esistenti, che potrebbe diventare un fattore di rinascita: il ragionamento sul risparmio di suolo, legato alla riqualificazione del già costruito. Il suolo è un bene prezioso e finito, che non si rigenera una volta usato e cementificato. L’opportunità data dall’ibridazione degli spazi, che da monotematici diventano polifunzionali, potrebbe permettere il recupero dell’esistente e la protezione dello scarso bene prezioso che è il suolo residuo di cui il nostro paese dispone. Tutti i progetti del futuro devono fare i conti con la sostenibilità. Il fattore tempo Una delle incertezze piú grandi che abbiamo di fronte è dunque la quantità di tempo di cui disponiamo per ripensare agli assetti sociali, commerciali e urbanistici. Per quanto concerne il cibo le tendenze in atto non si fermeranno, tutti noi nel ruolo di clienti pretenderemo ciò che ci sembra utile e funzionale alla nostra ambizione di vita. Ma i tempi dei cambiamenti necessari al commercio sono tendenzialmente lunghi, perché profondi e impattanti per processi e strutture, e servirebbero davvero indirizzi istituzionali con una visione strategica perché le imprese possano sviluppare investimenti coerenti. In assenza di indirizzi certi, servirà responsabilità proprio da parte di coloro che a vario titolo ricoprono ruoli nella filiera alimentare, e sono chiamati a gestire cambiamenti e affrontare argomenti scomodi, temi difficili ma importanti in prospettiva come quelli dell’etica e delle scelte ambientali, la sicurezza, l’impatto sulla salute delle persone. Riuscirà una volta tanto la collettività economica a guardare al futuro e a lavorare per lasciare alle giovani generazioni qualcosa di migliore e non di peggiore di quanto è stato affidato alla nostra generazione? ◊
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# 0036 Erba, Milano, IT. 2008 Serie “Lumen”.
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Assemblee in remoto
Riunioni, consigli d’amministrazione, assemblee dei soci: l’emergenza sanitaria ha spostato “in remoto” tutti i momenti relazionali della vita di una società. Ma se gli incontri a distanza sono stati strumenti utili per affrontare condizioni eccezionali, è necessario vigilare perché le inevitabili restrizioni alla partecipazione che comportano non diventino strutturali. Testo Susanna B. Stefani Immagini Carlo Valsecchi RELAZIONI: 123
nulla sarà piú come prima. Nella vita quotidiana e nelle circostanze speciali. Nulla sarà piú com’era perché la pandemia ha forzosamente inibito la piú basilare delle interazioni umane: la relazione fisica tra le persone. È stato giusto cosí, ovviamente: la salute prima di tutto. Ma ora che possiamo cominciare a fare il bilancio di un semestre anomalo nelle relazioni, dobbiamo fermarci a riflettere e stabilire che cosa sia utile mantenere del nostro nuovo stile di vita e che cosa, invece, di ciò che abbiamo dovuto imporci, sia necessario considerare provvisorio, sia pure apportando le opportune modifiche ai comportamenti. L’imposizione, sia chiaro, è avvenuta in modo tutt’altro che indolore e volontario; è stata drasticamente pilotata da precise indicazioni mediche e da regole della convivenza civile introdotte con decreti e regolamenti a tutti i livelli. E cosí ci siamo dovuti adattare a eseguire le ordinanze, alcuni con insofferenza, altri per l’angoscia che lo sfacelo intorno a noi suscitava, talora senza riflettere sul fatto che l’ossessione per la pandemia rischia di fare piú danni della pandemia stessa. Lockdown: persino il suono del termine è lugubre per chi ha un orecchio sensibile. Il lockdown nella vita degli affetti, in quella professionale, in quella istituzionale e persino in quella religiosa ha cambiato letteralmente la nostra vita. Ha avuto impatti gravi e devastanti sull’economia. Ha anche modificato gran parte degli iter che seguono nel corso dell’anno le vicende di un’impresa. Per esempio, gli incontri tra manager per le decisioni nella gestione aziendale e le riunioni dei consigli di amministrazione per la conduzione e il controllo delle attività societarie. Per quanto riguarda le riunioni fra manager, l’adozione delle videoconferenze ha in gran parte consentito di non far calare eccessivamente l’efficacia dell’attività. Mancava il (dis)piacere di contatti interpersonali nello stesso luogo, è vero, ma per contro c’era senza dubbio una minor perdita di tempo nell’arrivare alle conclusioni. Le riunioni di consiglio d’amministrazione telematiche, che la gran parte delle società autorizzavano già nei loro statuti, tutto sommato non hanno dimostrato troppe falle, ma hanno
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L'assemblea è la sola occasione durante l'esercizio aziendale in cui i soci sono protagonisti e possono dimostrare di essere attivi portatori d'interesse.
# 01105 Bologna, IT. 2018. Serie “Gasometro M.A.N. n. 3”.
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Carlo Valsecchi dedica la propria ricerca alla relazione tra luce-spazio-tempo. Dai primi anni novanta ha esposto in numerosi musei e manifestazioni, in Italia e all'estero, tra cui la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, il Museo dell'Élysée di Losanna, il Museo MART di Rovereto, la Somerset House di Londra, la Fondazione MAST di Bologna, il MMCA di Seul, la Pinacoteca Nazionale di Bologna.
# 0148 Dalmine, Bergamo, IT. 2002 Serie “Lumen”.
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prodotto alcune metamorfosi: meno dibattito sui temi all’ordine del giorno, meno contributo dai singoli, meno trasparenza (visiva) su come i componenti giungevano a decidere su una controversa delibera (“a me gli occhi”…); meno concentrazione da parte di alcuni durante lo svolgimento anche solo per il fatto di non trovarsi in una sala riunioni insonorizzata e raccolta, ma nel proprio studio, casa o mezzo di trasporto. Diverso il discorso per le assemblee. Senza entrare in aspetti tecnici si sa che, alla fine di ogni anno di esercizio, i soci, riuniti in assemblea, sono chiamati ad approvare il bilancio (e, in caso di assemblea straordinaria, anche importanti modifiche agli aspetti che regolano l’impresa). Dunque, come si sono svolte le assemblee delle società quotate nel periodo del lockdown? Un decreto emergenziale, emanato il 17 marzo 2020, e definito “Cura Italia”, ha sancito all’articolo 106 il distanziamento anche nello svolgimento dell’assemblea societaria (e delle riunioni degli altri organi collegiali societari). La nuova prassi è diventata valida indipendentemente dall’esistenza di questa modalità nello statuto, e ha indicato non solo la possibilità di rinviare le assemblee, ma anche di tenerle in remoto, come tutte le altre riunioni aziendali. Presidente, notaio (come segretario), e tutti i partecipanti collegati a distanza; eventuali domande dei soci alla presidenza inviate in forma scritta entro termini previsti nella convocazione dell’assemblea; possibilità per i soci di nominare un rappresentante unico, con deleghe e subdeleghe, per partecipare e deliberare per conto loro. Molte voci, anche qualificate, si sono espresse favorevolmente circa questa modifica, evidenziando che, in fondo, rappresentanza e interlocuzione sono co-
munque garantite. Alcuni però hanno obiettato che questa modalità “mediata” dalla distanza abbia tolto molto al diritto dei soci di esserci e di far sentire davvero la propria voce (non solo in senso fisico, naturalmente). È come se, in una rappresentanza democratica, non ci fosse piú la possibilità di parlare, di chiedere, di “arrabbiarsi”, di pretendere, insomma di esercitare il proprio diritto. In fondo l’assemblea è la sola occasione durante l’esercizio aziendale in cui i soci sono protagonisti e possono dimostrare di essere attivi portatori d’interesse. È mancata la relazione fisica tra i partecipanti e questo ha trasformato un avvenimento tra i piú vivi e importanti della vita societaria in una formale lettura di dati e avvenimenti senza interlocuzione, ciò che con un’espressione popolare si potrebbe definire “una messa cantata”. Chi ha almeno una volta nella vita partecipato all’assemblea di una banca popolare (magari dentro un palasport, con 5.000 partecipanti, con 80 richiedenti parola, con giuristi che assistono la presidenza nelle risposte alle domande – un clima da corrida!) capisce bene le differenze macroscopiche provocate dal “remoto”. C’è stato davvero un decadimento del diritto di rappresentanza e di esercizio della funzione dei soci. Pur nel rispetto formale della legge. Ora: nulla tornerà come prima, lo sappiamo, ma ci dobbiamo dare da fare affinché queste regole dettate dalla necessità di contenere la pandemia non diventino permanenti; affinché ci sia consentito di tornare, sia pure con le dovute precauzioni, alle buone pratiche di governo e all’inviolabile diritto di rappresentatività dei portatori di interesse che hanno fatto investimenti. Stiamo parlando di democrazia, non solo di legge. ◊
Per quanto riguarda il dibattito sull’argomento assembleare, che è stato molto vivace, si consiglia la lettura, oltre del decreto “Cura Italia” del 17 marzo 2020, degli articoli di alcuni grandi giuristi ed esperti di Corporate Governance: Romina Guglielmetti, Coronavirus e Assemblee telematiche, non mancano i dubbi, “Italpress”, 6 aprile 2020; Ead., Assemblee a porte chiuse a rischio di irregolarità, “Il Sole 24 Ore Plus”, 28 marzo 2020. Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo, L’Assemblea virtuale? Qualcosa resterà, “L’Economia”, 30 marzo 2020.
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IL DENARO N O N B A S TA M A I
di Giacomo Pedini abbiamo ammirato tutti la baia su Aasiaat screziarsi di luci porpora nella notte boreale, dolce e chiara. Il suo sottile skyline, che non opprime le semplici silhouette delle casette in legno, non ha mai brillato cosí, neppure quando il 25 dicembre lí è stato inaugurato Hui, l’edificio della rigenerazione perpetua. Abbiamo sospirato uno “uau” davanti alle facciate di mezzo mondo o sui nostri palmi di mano, mentre sfilavano i colori pastello degli abiti presidenziali. Ma il discorso tenuto dalla neo-speaker della Federazione eb, nonostante i toni vivaci, era pieno delle solite frasi: “armonia tra produzione e natura”, “dovere della salute e del benessere”, “astensione dai conflitti”. Molti si aspettavano altro. Insomma, a dieci anni dal suo lancio Axus ha un po’ tradito le attese. La festa di ieri in Groenlandia non servirà a rilanciarne l’immagine. Neanche la generale tregua di guerra sarà d’aiuto. La rivoluzione della valuta hi-digital, pensata per migliorare il funzionamento dell’alta finanza e dei grandi gruppi d’impresa, non si è realizzata. È vero che, nell’ultimo decennio, le esigenze commerciali globali non soffrono piú l’impatto nefasto dei frequenti conflitti armati tra usa, Grande Korea, Cina e, talvolta, la Regione europea. Sganciati dalle valute nazionali o continentali, i colossi dell’energia, dell’hi-tech e del food possono continuare il loro fondamentale lavoro, permettendo tra l’al-
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tro la vita e lo sviluppo di un ormai vastissimo indotto. Se proprio una rivoluzione c’è stata, ha riguardato solo una parte del mercato e dell’ambiente. Eppure Axus era nata nel 2040 per realizzare un disegno piú vasto. Non avrebbe solo dovuto rompere il rapporto distruttivo tra gli Stati nazionali e la catena produttiva, di modo che eventuali conflitti, piú o meno sanguinosi, non recassero duri contraccolpi al commercio e alle macro-politiche ecologiche. Certo, bisogna pur ammettere che tutto ciò è accaduto, se pensiamo alla realizzazione delle nuove metropoli orizzontali, pulite e auto-rigenerantisi. Aasiaat ne è un esempio eccellente. Le diverse battaglie per il controllo della baia di Baffin non hanno impedito al vecchio scalo portuale e aereo di trasformarsi nella eco-capitale di oggi. Devo poi aggiungere che con il tempo Axus è servito a smuovere i grandi capitali che vegetavano in quelli che allora erano paradisi fiscali. Sono le promesse microeconomiche e, dunque, sociali a non essersi compiute. Perché se le grandi aziende e i loro capitali lavorano ormai su Axus, lo stesso non si può dire per il commercio locale, che gira tutto sulle vecchie valute elettroniche. Se vado a comprare le mele dal fruttivendolo, o dal tanto in voga Hortus di Françoise Choi, non pago certo in Axus. Stesso discorso per l’affitto o l’acquisto di un apparta-
mento, a meno che non stia dentro un asset: io, però, a casa mia ci vivo. Va insomma ricordato che la vita quotidiana di miliardi di persone è regolata da questa microeconomia, che non significa solo commercio al dettaglio. Naturalmente questo problema è piú evidente nelle aree di guerra, nonostante negli ultimi dieci an-ni siano sempre piú circoscritte, grazie anche all’efficienza dei conflitti simulati. Tuttavia le zone belliche finiscono comunque per subire una sorta di isolamento, con i conseguenti episodi di saccheggio. Eppure si tratta di un problema minore, perché localizzato: ormai la questione fondamentale è accedere ad Axus. È ottenere dalla Federazione eb la possibilità di operare nelle nuove sedi di borsa, che gli sono esclusivamente riservate. Non è un caso che i vertici del nostro capitalismo sono, di fatto, immutati da quarant’anni. Se il xxi secolo è iniziato con la corsa entusiasmante al digitale e all’ia, i centometristi di allora si sono trasformati in podisti: tra quanto cederanno le loro gambe? Sparse in aree diverse del mondo, stanno fiorendo, con le vecchie valute nazionali, nuove realtà lavorative: le piú fortunate – poche decine l’anno – vengono comprate da società Axus. Le altre imprese continuano a fatica. Il sostegno degli Stati è minimo: sono troppo impegnati a gestire le esigenze militari e le piú varie disparità sociali. Le vecchie borse ormai hanno un volume di scambi ridicolo, piú simile al baratto che al mercato. Non è un caso che, nell’ultimo biennio, ai soliti conflitti tra gli Stati nazionali si siano aggiunte regolari esplosioni di violenza interne, spesso in aree periferiche o sollecitate da gruppi politici rampanti. Finché è successo nel deserto di Atacama o a Bonoua nulla di strano: sono zone altamente organizzate nella difesa del lavoro. Ora però ci sono i recenti fatti di Stoccolma e di Tel Aviv, per non dire del caos che ha rallentato Chongqing. Sono fenomeni locali, d’accordo, tutti pervasi da un certo fanatismo fuori tempo massimo. Però invocano, chi piú chi meno, la medesima (contro-)rivoluzione: abolire le valute digitali (Axus in testa) e tornare alla cartamoneta. La cosa è impossibile, ma fa pre-
Notizie, opinioni, fatti e curiosità dal 2099. L’attualità del futuro, raccontata in anticipo. Immaginare il mondo alla fine del secolo, per andare oltre la fine del mondo.
sa perché coglie un serio problema: non è il benessere materiale a garantire il futuro, ma l’idea che ogni persona abbia la possibilità di scegliere per se stessa, secondo i propri principi. Il meccanismo generato da Axus ha migliorato la qualità materiale della vita di molti. Ha pure messo un freno al disastro ambientale: le grandi aziende globali sono riuscite là dove i trattati internazionali fallivano. Il prezzo è però l’evidenza che gli esseri umani sono divisi in due categorie, che dialogano pochissimo. Ecco perché non mi aspetto nulla di buono dall’insistere sull’“armonia tra produzione e natura” e il “dovere della salute e del benessere”, come dal fatto di gridare “ban-co-no-te ban-co-no-te”. Né l’una né l’altra “rivoluzione” placheranno il caos che ci portiamo addosso. Anzi non credo che serva una rivoluzione. Piuttosto suggerirei di prendere atto che il denaro, di carta o digitale che sia, non basta, nel bene e nel male. Serve qualcosa d’altro, che non si tocca né si conta. Un filosofo di fine novecento ha scritto che una comunità si fonda sul dono. La particolarità di questo dono, però, è il suo essere invisibile, immateriale. È il gesto che ogni persona a un certo punto fa per l’altra, senza aspettarsi nulla in cambio. Perdipiú non servirebbe, perché l’altra persona, di per sé, fa un gesto analogo. Tutto ciò può sembrare uno scambio, assomigliare a un commercio: eppure non lo è. ◊
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Curiosi di mondi diversi Testo Adriana Mavellia
Di relazioni ne esistono tante Qualche decennio fa ero in visita a una amatissima professoressa di lettere delle superiori con cui avevo mantenuto un rapporto di grande fiducia e affetto. Le confidai che avevo scelto di lavorare nelle relazioni pubbliche e lei, convinta da quel “pubbliche” che fosse un lavoro di grande visibilità, mi manifestò il piacere che le sarebbe derivato dal vedermi piú spesso, almeno in televisione! Le confessai che non sarebbe stato proprio cosí. Cercando di attenuare la sua delusione e di spiegare il senso del mestiere che stavo intraprendendo, ancora poco diffuso in Italia, le dissi di non considerare tanto l’aggettivo “pubbliche”, quanto invece il sostantivo “relazioni”. Non del tutto convinta ribatté prontamente, con consueta vivacità intellettuale, che di relazioni ne esistono tante, il mondo ne è intriso, e pertanto mi predisse un futuro lavorativo assai faticoso e complesso. Nel corso della mia lunga vita professionale nelle relazioni pubbliche ho pensato molte volte alla profezia della professoressa Vera Aspesi, rivelatasi Vera Visionaria. In effetti il termine “relazioni” dal punto di vista professionale è un contenitore di iniziative e tecniche comunicative da utilizzare in modo sapiente e molto spesso simultaneo: in qualche modo, come aveva detto la professoressa, “di relazioni ne esistono tante”, e sono soggette alle interferenze esterne, al tempo che le rafforza o le attutisce, ai comportamenti degli uomini e delle donne che possono migliorarle o metterle in crisi. Le connessioni, i rapporti, i le-
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gami che contribuiamo a stabilire nel nostro lavoro necessitano dell’apporto di numerose figure professionali, che intervengono sulle sfaccettature di questo meraviglioso lavoro. La mia convinzione ormai consolidata è che le relazioni pubbliche sono da sempre la tecnica multidisciplinare per eccellenza, necessaria alle imprese private o pubbliche, o a qualsiasi altro soggetto economico o istituzionale che abbia a cuore la sua reputazione. La quale, come già diceva negli anni trenta Henry Ford, non compare nel bilancio nonostante sia il bene aziendale piú prezioso, assieme alle risorse umane. Individuare e contribuire a governare tutti i fattori che concorrono alla formazione e al mantenimento di questa risorsa vitale è il compito che ci assumiamo, molto complesso ma per me tuttora entusiasmante. Scegliamo i linguaggi adatti a coltivare i rapporti con i molteplici “diretti interessati”, ossia gli stakeholder: dipendenti, fornitori, azionisti, investitori, istituzioni; e con l’immensa platea dell’opinione pubblica, dai consumatori ai giornalisti, dalle associazioni del settore alla concorrenza. A seconda delle esigenze e delle dimensioni dell’impresa committente, le relazioni possono espandersi in ampiezza di pubblici e territori, fino a coinvolgere legislatori e istituzioni nazionali ed europee. È un mestiere che, oltre alle competenze specifiche, richiede curiosità, visione, tenacia e ironia. Curiosità, per guardare il mondo, osservare l’attualità, studiare il passato, leggere di tutto e comprendere i fenomeni; visione, per valutare gli effetti delle decisioni e delle azioni, immagi-
Da quelle riflessioni è nato e si è sviluppato il movimento degli Aprilanti, ispirato da un programma utopistico e allo stesso tempo necessario: che le relazioni possano contribuire alla creazione di un mondo migliore. nare ciò che potrà accadere anche a partire da segnali deboli e saper trarre delle sintesi; tenacia, per non stancarsi mai di fare tutto ciò; ironia per non credersi infallibili, semmai dei professionisti della duttilità. Strateghi che aiutano i vertici a prendere decisioni, medici che prevengono mali aziendali, avvocati che difendono reputazioni sotto attacco, pedagoghi di comportamenti utili perché migliori, esploratori di cassetti aziendali in cui spesso sono custodite storie preziose e progetti che appaiono scontati e non sono invece mai abbastanza conosciuti. Nel lontano 2019 Sottolineare la drammatica distanza che ci separa dal 2019 non è un gioco di parole o un’illusione ottica, trattandosi solo dell’anno scorso, ma è la realtà: “the new real” che stiamo vivendo da quando la malattia Covid-19, trasformandosi in pandemia, si è impossessata del mondo e delle nostre libertà. Un’intuizione di ciò che stava per
accadere, o meglio una serie di anticipazioni basate sull’esercizio alla visione, all’inizio di dicembre 2019 ispirò tre professionisti che non si vedevano da molto tempo e che, pur essendo concorrenti, sono grandi amici. Insieme a Toni Muzi Falconi e Omer Pignatti ci siamo interrogati sulla fine di un periodo storico, causata dalla caduta vorticosa delle competenze nel mondo del lavoro, non escluso il nostro che, come altri, si era appiattito ottusamente e in modo acritico sulla globalizzazione prima finanziaria, poi digitale, poi socio-culturale, col suo nefasto carico di squilibri: ineguaglianza, deterioramento ambientale, disperazione migratoria. Da quelle riflessioni è nato e si è sviluppato nei mesi successivi il movimento degli Aprilanti, ispirato da un programma utopistico e allo stesso tempo necessario: che le relazioni possano contribuire alla creazione di un mondo migliore. E cosa, se non un mestiere che contiene nella sua stessa definizione il termine relazioni, può contribuire a questo ambizioso progetto?
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Relazioni: il passato è scritto? Non esiste futuro senza passato. Sono molte le storie e gli aneddoti che si raccontano sulle origini delle relazioni pubbliche. In fondo questo è un mestiere antico, e poiché ha a che fare con la formazione dell’opinione pubblica, può essere molto delicato. Fortunatamente i filosofi hanno preparato qualche payoff utile a introdurre la nostra professione. Già 2500 anni fa Aristotele scriveva: “l’uomo è per natura un animale sociale”; Hegel nell’ottocento ribadiva il concetto individuando l’“intersocialità” come fondamento per capire se stessi attraverso gli altri. Tra i primi a lavorare sulla propria reputazione troviamo Giulio Cesare: la diffusione degli Acta Diurna, resoconti delle sue gesta, potrebbero essere considerati gli antenati dei comunicati stampa! E certamente il personaggio era molto attento al modo in cui sarebbe passato alla storia, consapevole di quanto diceva Publilio Siro, drammaturgo romano: “a fatica si riconquista la reputazione una volta perduta”. La nascita delle relazioni pubbliche in forma piú strutturata si fa risalire alla seconda metà dell’ottocento, quando le compagnie minerarie, estrattive e di trasporti diedero vita in Inghilterra a una campagna per persuadere la popolazione a trasferirsi in America, presentata come la terra promessa delle opportunità. Il campo si è esteso nel primo novecento quando, sull’onda dello sviluppo industriale, nacquero le prime agenzie di propaganda e informazione a opera di Ivy Lee, un giornalista di Boston, ed Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud, considerati i padri (non sempre probi) delle relazioni pubbliche. Durante la prima e la seconda guerra mondiale gli Stati attinsero molto ai servizi dei comunicatori per propagandare le proprie non sempre etiche ragioni. Anche per rispondere a queste tendenze nacque un movimento di moralizzazione della professione avviato da Basil Clarke, che in Inghilterra nel ’29 lanciò il primo codice di etica del settore, punto di riferimento a partire dal quale negli anni successivi si è sviluppata la pratica etica delle relazioni pubbliche cosí come la conosciamo oggi. Sono di parte: la sensibilità di Clark riguardo al rispetto per gli altri, che ha dato vita a un dibattitto costantemente in corso
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Mi fa sorridere, e mi fa fantasticare che nel nostro lavoro, minuscolo ritaglio spaziotemporale, noi possiamo contribuire a far vivere le cose attraverso le relazioni che creiamo.
sui temi etici nel mondo delle relazioni pubbliche, lo rende ai miei occhi il primo vero padre della professione. Chissà che queste pagine non diventino anche un’occasione per riscrivere un pezzo della nostra storia. Relazioni: una teoria rivoluzionaria Scorrendo le pagine affascinanti di Helgoland, il libro in cui Carlo Rovelli, prestigioso ricercatore in fisica e storico della scienza, propone un’interpretazione relazionale della teoria dei quanti, sono stata colta da una suggestione irresistibile, anche se irriverente. Rovelli descrive la rivoluzione compiuta dalla teoria quantistica, “forse la piú grande rivoluzione scientifica di tutti i tempi”, “cuore pulsante della scienza odierna”, e afferma che “la teoria dei quanti è la teoria di come le cose si influenzano”. Secondo Rovelli “le proprietà delle cose si realizzano nelle interazioni, gli oggetti sono caratterizzati dal modo in cui interagiscono, il mondo che conosciamo, che ci riguarda, ci interessa, ciò che chiamiamo realtà, è la vasta rete di entità in interazione, che si manifestano l’una all’altra interagendo, e della quale facciamo parte”. Ecco, che alla base di una teoria cosí profondamente rivoluzionaria, “la teoria di come le cose si influenzano”, ci sia la relazione, mi fa sorridere, e mi fa fantasticare che nel nostro lavoro, minuscolo ritaglio spaziotemporale, noi possiamo contribuire a far vivere le cose attraverso le relazioni che creiamo. ◊
Abbonamenti Relazioni
Un fiume
di parole. Zone d’ombra della comunicazione pubblica.
Testo Stefano Rolando Immagini Fontanesi
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L’avventura dell’analisi nel magmatico e opaco dibattito pubblico “Dibattito pubblico” è una nozione che si sta modificando. Il potere del web (velocità, interattività, sconfinamento) rispetto alle forme tradizionali della “discussione” sta producendo una radicale trasformazione della portata sociologica e culturale dei significati condivisi. Le due sfere che un tempo separavano gli scambi nell’ambito delle élite – segnati da competenze che potevano conferire alle opinioni una funzione interpretativa con “valore aggiunto” di ordine cognitivo e critico – dagli scambi di massa – una fruizione di prevalente “scorrimento”, a pendolo tra il deposito immateriale dei mass media e i linguaggi di comunità (famiglia, lavoro, appartenenze) – oggi presentano geometrie qualitative piú ampie e piú articolate. Resta che il sistema educativo e quello dell’informazione rappresentano ascensori importanti – in quanto “relazionali” – tra snodi diversi dei poli sociali di riferimento, fino ad aumentare e diminuire distanze sia in termini di alfabetizzazione sia di potere decisionale. Tuttavia l’evoluzione in corso obbliga a tener conto di molte variabili. Tra le quali – proprio nel campo della comunicazione pubblica – il fatto che l’espressione “dibattito pubblico” ha avuto negli ultimi vent’anni sia un’accezione riduttiva, con riferimento alle forme disciplinate e normate di confronto di opinioni tra soggetti portatori di competenze e interesse soprattutto nella fase pre-decisionale connessa alla realizzazione di infrastrutture e opere pubbliche; sia un’accezione esondante che riporta alla questione decisiva della società “parzialmente ignorante”. Inquadrata già quarant’anni fa dal politologo Giovanni Sartori: “Lo stato di disattenzione, sotto-informazione, distorsione percettiva e, infine, totale ignoranza dei pubblici di massa è scoraggiante. Solo un 10-20 per cento della popolazione adulta merita la qualifica di informata”. Nelle discussioni professionali che hanno preceduto l’uscita di questa pubblicazione si sono prodotte intuizioni che dimostrano che i professionisti coinvolti non hanno inteso sprecare l’occasione della pandemia.
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Lo spaccato delle opinioni degli operatori della comunicazione e dell’informazione va assunto come un ambiente di percezione e ridistribuzione delle attività di uno di quegli ascensori che incide sui cambiamenti del dibattito pubblico inteso nella sua accezione piú ampia. Fin dall’inizio della crisi globale provocata dal coronavirus si era intuito che vi erano piú settori – oltre a quello direttamente implicato dei medici e dei ricercatori, diversamente e a volte anche conflittualmente raggruppati nella “comunità scientifica” – che avrebbero potuto e dovuto lavorare sull’insorgente dibattito pubblico. Un confronto costruito subito su piú piani, provocato dal virus e sagomato con carattere locale e globale (immediata intuizione di Piero Bassetti), cioè due livelli tematici distinti e interagenti. Pur essendo evidente che la contabilità della pandemia avrebbe avuto un inquadramento nazionale, perché da essa dipendevano decisioni, norme e calcolo dei danni. In questo ambito chi scrive ha potuto avviare dalla fine di febbraio un monitoraggio quotidiano che ha riguardato l’evoluzione e le prospettive della “lezione sociale e civile della pandemia”. I due emisferi della reattività sociale Il rapporto tra addetti ai lavori e la società nel suo insieme ha assunto, da subito, un carattere bipolare, con forte distinzione nelle dinamiche reattive: da un lato una componente sociale informata e critica, dall’altro una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa non tanto attorno agli eventi quanto attorno ai “processi”, e quindi identificata dai tratti del cosiddetto “analfabetismo funzionale”. Componente questa che ha mostrato la propria vulnerabilità agli effetti della infodemia, cioè della rapida crescita di un enorme volume di notizie ambigue sia nella sostanza che nella fonte. Le due componenti formano un perimetro di ricaduta sociale (ma anche – attenzione! – di “nuova domanda” di informazione e comunicazione) in cui tutta la comunicazione finisce per rovesciarsi con esiti difformi. Perché in alcuni ambiti la condizione percettiva e reattiva della società si manifesta come sensibile, dialogabile, negoziabile. In altri ambiti essa appare molto
meno elastica, poco modificabile, in particolare a causa della mancata volontà dei poteri di favorirne l’evoluzione. Ora, infatti, mentre alcuni mesi di fiato sospeso su contagi, ricoveri, dimissioni e decessi stanno lasciando il posto a interrogativi di grave portata (redditi sfumati, produzione ridotta, occupazione sbriciolata, organizzazione sociale senza garanzia di ripresa, crisi individuali e collettive, debole rigenerazione della crescita, applicazione forzata di tecnologie che contengono rischi di deprivazione anche di diritti e di libertà ecc.) il punto di domanda ricorrente – “nulla sarà come prima?” – diventa obbligatorio. La risposta ottimistica, mostrare i nostri lati migliori a valle della crisi, non sparisce ma non si impone. Quella domanda resta ancora per i piú minacciosa anziché stimolante. Detto in altri termini – cogliendo anche una fase del dibattito pubblico internazionale, che ha natura, riferimenti e criticità diverse, ma che contrappone generazioni, rappresentanze di genere e di etnia e altri soggetti conflittuali in modo piuttosto radicalizzato – si cerca di capire se sono già possibili valutazioni finali. Se cioè almeno nel medio periodo terremo la carreggiata e se, affrontando una questione cresciuta nella fase 2, quella post-sanitaria e quindi piú di carattere sociale, della crisi, i fattori di ritardo nelle dinamiche del ciclo “comprendere, partecipare, decidere” si presentino oggi come sistematici (dunque ritornanti in base a cause difformi) o sistemici (os-
Da un lato una componente sociale informata e critica, dall’altro una componente sociale caratterizzata da ignoranza diffusa e identificata dai tratti dell’analfabetismo funzionale.
sia connaturati cosí profondamente da non farci immaginare che siano facilmente scalfibili). Ergo, se finiremo fuori dalla carreggiata. Malgrado le apparenze e le cose fin qui accennate, ci poniamo questa domanda con poco ottimismo. Anche qui per responsabilità che toccano la componente sociale decisiva, come ha spiegato Giovanni Belardelli: “In realtà la qualità della discussione pubblica dipende sí dal pubblico, dalla totalità dei cittadini, ma anche da un altro fattore: la presenza o meno di élite in grado di introdurre elementi virtuosi nella discussione cercando di orientarla positivamente, in termini di diffusione di dati reali, di messa a fuoco di questioni rilevanti, di critica delle realtà parallele costruite facendo appello alle reazioni piú emotive della gente”. Già, la responsabilità di chi può e di chi sa. Vecchio cruccio, spesso confermato, non ancora estinto. Tramortito, va detto, dal lungo processo che – sommando crisi economica decennale e crisi sanitaria in atto – ha dimezzato la forza sociale del ceto medio, distruggendo (almeno in Italia) il baluardo politico riformistico e facendo sorgere, fino a dimensioni maggioritarie, il populismo. È questo il chiaroscuro che accompagna le nostre discussioni fuori forse dal lockdown, ma non fuori dalle ambiguità delle condizioni, delle funzioni e persino delle consapevolezze. Il dibattito davvero aperto riguarda i consolidati dualismi italiani, il nostro paradigma identitario (terroni-polentoni, cattolici-comunisti, montecchi-capuleti, attivi-passivi ecc.) che rapidamente polarizza quasi tutto, privo dei freni inibitori di un’identità nazionale che doveva essere rodata dalla storia dal momento in cui Massimo D’Azeglio annunciò, fatta l’unità d’Italia, la piú grande sfida possibile: “e adesso facciamo gli italiani!”. Lo sguardo teso a riconoscere le zone d’ombra Discussioni dunque sui media e soprattutto nella realtà. Su questioni sempre in bilico tra conoscenze limitate e decisioni difficili. Ogni nazione, ogni comunità locale, ogni borgo, ha affrontato la situazione con statistiche che misuravano da un lato vivi e morti (i capitoli piú penosi, da Bergamo alle rsa milanesi) e dall’altro, con dati
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Le immagini in questo articolo sono tratte dal profilo anonimo Instagram fontanesi. Le sue immagini sono l’emblema dell’influenza esercitata da internet sulla realtà e viceversa, offrendo cortocircuiti visivi che stanno diventando una vera e propria forma d’arte.
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spesso incerti, le capacità tecniche e politiche di proteggere la popolazione. Ovvero di fronteggiare l’imprevedibilità aggressiva del virus, mentre si apriva l’ennesimo conflitto (ancora acceso) sulla persistenza o al contrario sulla sparizione delle fonti di epidemia. Il perimetro di questo confronto si chiama “comunicazione pubblica”. Che, in Italia, ha avuto alterne sorti nel novecento: prima gli eccessi di potere del fascismo, poi la lunga sottotraccia democristiana (con deleghe variamente attribuite, tra l’altro anche alla Rai), poi un rilancio di ruolo nelle tensioni riformatrici degli anni ottanta e il lungo travaglio della “seconda Repubblica”, fino al ridimensionamento a favore del giornalismo e della comunicazione politica. Come ha scritto Giuseppe De Rita: “La pandemia ha trovato un impressionante vuoto di comunicazione pubblica, un vuoto che non è stato coperto da saltuari episodi di enfatiche dichiarazioni governative, e in cui hanno fatto supplenza il variegato mondo dei social (piú opinioni che informazioni, naturalmente); e le pagine e i supplementi locali dei grandi quotidiani (in alcuni casi, per qualche pignolo disperato osservatore, anche l’elaborazione dei necrologi quotidiani)”. Il vuoto della comunicazione pubblica di cui parla De Rita è prodotto da una serie di zone d’ombra, che vorrei discutere per punti. – La statistica. Spina dorsale di ogni comunicazione pubblica, ma cenerentola di un sistema mediatico e politico che, in Italia (e non solo) preferisce i sondaggi, ovvero la percezione, all’accertamento della verità. L’idea che da noi la letalità potesse essere dieci volte quella dichiarata nel rito quotidiano della conferenza stampa ufficiale delle ore 17 è stata avanzata dal capo stesso della Protezione civile Angelo Borrelli, che da quel momento è stato messo alle strette dai capi dell’Istituto superiore di sanità e persino dalla vaghezza dei ministri di riferimento. Questione non solo italiana che, peraltro, in alcuni paesi del mondo ha avuto una gestione politica pesante, visti gli ingombranti danni di immagine che i dati potevano produrre. In Italia è stata notevole la difficoltà di monitorare i processi reali dei decessi non in ospedale, ovvero di tenere sotto con-
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trollo tutta la dimensione extra-ospedaliera. Come si vede nell’esplosione dei dati di molti paesi, le curve statistiche hanno seguito traiettorie stravaganti. Incrementando cosí la sfiducia crescente nei dati stessi, primo passo di un crollo del rispetto istituzionale che non avrebbe dovuto verificarsi. Il tutto nell’ambito dell’esplosione di un problema generale di Big data su cui, fatti salvi alcuni ammonimenti di Bankitalia, manca da noi un autorevole inquadramento pubblico di ciò che in questo campo oscilla sempre tra opportunità e minaccia. – Lo scontro tra “scienza” ed “economia”. Compito del governo e di tutte le istituzioni avrebbe dovuto essere quello di mediare costantemente le due prospettive, trovando sintesi creative fase per fase. Non agire a rimorchio ora degli uni e ora degli altri, con quell’effetto “pendolare” che deriva dal voler dare ragione a tutti anche nel momento di maggior conflitto, tanto di interesse quanto teorico. Sarebbe stato importante che il quadro politico-istituzionale avesse potuto maturare la sua posizione chiarendo la priorità data al rispetto per la salute e la prevenzione, ma senza perdere di vista la prospettiva produttiva e di lavoro, sbocco reattivo della società da perseguire con la forza e in un certo senso anche con la durezza delle grandi epopee ricostruttive. Ma se nella politica italiana prevaleva – come ha prevalso – l’atteggiamento assistenziale, era evidente che questa tensione non si percepiva e che molte altre cose conseguivano. Nel corso del nostro monitoraggio si sono registrate voci critiche circa questo punto civilmente e culturalmente essenziale. – Il sistema educativo. Nel tentativo convulso di dare risposte funzionali circa la gestione delle lezioni e degli esami (argomento non eludibile), è mancato un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi, che mettesse a fuoco ispirazioni, argomentazioni e proposte al di là della velocizzazione intervenuta nei processi digitali. Non per sminuirne la portata. Ma anche per non accodarci all’idea che implementare questa funzionalità sia la piú importante delle modernizzazioni di quei sistemi. Qui il dibattito pubblico è stato duro, anche di qualità, ma periferico.
Non ha alzato molto la percezione dei problemi insoluti e ha lasciato che gli stessi media dilagassero sui centimetri del distanziamento dei banchi, senza cogliere l’opportunità di restituire all’educazione il ruolo di baricentro strategico e politico. Su questo genere di discussioni le moltissime indicazioni prodotte da un monitoraggio accolgono di tutto. Anche la saggezza culturale del decano dei sociologi e dei pensatori educativi europei, Edgar Morin, che ha richiamato l’attenzione su molti punti del dibattito ancora troppo sopiti: “I video non possono sostituire permanentemente i film, i tablet non possono sostituire permanentemente le visite in libreria. Skype e Zoom non danno un contatto carnale, il tintinnio del vetro di un ‘brindisi’. Il cibo domestico, anche eccellente, non reprime il desiderio di un ristorante. I film documentari non reprimeranno il desiderio di andare lí per vedere paesaggi, città e musei, non mi toglieranno il desiderio di ritrovare l’Italia o la Spagna. La riduzione all’essenziale dà anche sete al superfluo. Spero che l’esperienza modererà i nervosi compulsivi, ridurrà l’evasione di una fuga a Bangkok per riportare ricordi da raccontare agli amici, spero che contribuirà a ridurre il consumismo, vale a dire l’intossicazione del consumatore”. L’incerto potere della comunicazione Portando a conclusione queste rapide falcate su una montagna di materiale, va detto che il punto di attenzione di una comunità professionale come quella che anima questa pubblicazione riguarda il potere, quello civile e quello culturale. Potere che la comunicazione, nel suo complesso e nella sua specificità “relazionale”, rigenera (oppure no), modifica (oppure no), rafforza (oppure indebolisce), a valle di una crisi sanitaria e sociale ancora in corso e quindi senza la possibilità di tirare vere e proprie somme. Ma non eludendo nemmeno la responsabilità di una valutazione tendenziale. Le forze in campo del dibattito (scienziati, imprenditori, politici, comunicatori) sono state indotte dalle regole della “rappresentazione” a convergere e a divergere. I media hanno ovviamente una funzione di accompagnamento e
È mancato un inquadramento del tema socialmente centralissimo del ruolo delle scuole e delle università nella crisi e per il dopo crisi.
di legittimazione e delegittimazione che è forte in ogni società libera. Ma la “comunicazione”, fatta di azioni di intermediazione per segmenti sociali, fatta di relazioni cognitive, fatta di completamento di sensibilità e di consolidamenti attenzionali, potrebbe collocarsi piú sul versante culturale che nella cassetta degli attrezzi decisionali. Dipende dai contesti, dipende dalla committenza, dipende dalle poste in gioco. Proprio i contesti di crisi e di emergenza hanno per lo piú rafforzato una tendenza alla strategicità e non al puro “confezionamento”. Tuttavia siamo in un’epoca in cui la parola “strategia” si spreca per tutto, senza che poi riesca a consistere proprio nei luoghi in cui dovrebbe essere custodita meglio. La comunicazione pubblica è in fase di ripensamento di ruolo e di efficacia normativa. Qualcosa è in movimento. Ma è il contesto politico generale a non dare certezze sugli esiti di un (per ora) marginale interessamento. La comunicazione come contenitore generale – in tutte le sue articolazioni sociali, economiche, istituzionali e nel suo profondo coinvolgimento nella mutazione in atto dei processi digitali – riflette elementi di forza ed elementi di debolezza (tra cui il piú grave è costituito dalla incapacità di vedersi riconosciuta la propria autonomia disciplinare e quindi l’organizzazione di propri raggruppamenti). Ecco dunque alcuni argomenti che fanno da cornice alle conclusioni del monitoraggio qui evocato. ◊
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L’altro contagio: Europa e infodemia Nei mesi piú critici della pandemia le istituzioni europee hanno registrato flussi anomali di notizie false o inattendibili che miravano a screditare la risposta europea all’emergenza, esaltando la gestione di Paesi come Russia e Cina. Il Parlamento europeo ha reagito coordinando campagne di verifica dei fatti e potenziando l’informazione sulle questioni sanitarie. Ma anche elaborando una strategia di lungo periodo che è l’unica arma possibile per combattere la guerra asimmetrica della disinformazione: rafforzare consapevolezza, senso critico e responsabilità. Testo Valentina Parasecolo
Il monitoraggio condotto dalle istituzioni europee ha registrato centinaia di migliaia di articoli e messaggi sui social media che veicolavano in modo coerente contenuti falsi e fuorvianti.
avete mai letto che l’Unione europea vorrebbe vietare gli spaghetti alle vongole? O dell’ordine di Bruxelles di abbattere gli ulivi in Puglia? Vi siete mai imbattuti in un post o un tweet sull’Ue che impone i sacchetti per frutta e verdura a pagamento? Nessuna di queste presunte notizie è vera. Ma fanno tutte parte della sistematica attività di disinformazione – condotta soprattutto online e capace di aggregare consensi trasversali e di fare opinione – di cui è oggetto l’Unione europea. La complessità dei meccanismi democratici e la scarsa familiarità del dibattito pubblico italiano con i temi non immediatamente riconducibili alla politica interna fanno dell’Unione europea un terreno fertile per la diffusione di fake news, un fenomeno che la struttura dei social media e la crisi dei media tradizionali hanno amplificato. E che durante l’emergenza legata al Covid-19 ha assunto le dimensioni di una vera e propria “infodemia”, secondo la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità: una proliferazione di informazioni spesso false o imprecise che hanno generato confusione e sfiducia nei cittadini ostacolando anche l’efficacia della risposta sanitaria. Dalle illazioni sull’origine del virus, alle indicazioni mediche contraddittorie, fino agli scenari complottisti su vaccino e tecnologia 5g, contagio epidemico e contagio infodemico si sono alimentati a vicenda. Nel vortice della disinformazione, accelerato dall’utilizzo intenso dei social durante il lockdown, sono finite anche le azioni messe in campo dall’Ue, distorte da un flusso consistente di notizie senza fondamento. Il contrasto alla disinformazione è un’attività complessa, in cui bisogna distinguere i contenuti
apertamente illegali da quelli dannosi ma legali. E la diffusione inconsapevole di informazioni false, nella quale un cittadino può incorrere in buona fede, dalla disinformazione tendenziosa condotta a scopo di lucro o con l’obiettivo di alterare l’opinione pubblica. È difficile stabilire con certezza, nella galassia di fonti ed emittenti, nelle intricate catene di condivisione e diffusione, da dove provengano le notizie, chi le abbia messe in circolazione, a quali scopi. Durante l’emergenza sanitaria legata al Covid-19, tuttavia, il monitoraggio condotto dalle istituzioni europee ha registrato in tutto il mondo centinaia di migliaia di articoli e milioni di menzioni sui social media che veicolavano in modo coerente messaggi falsi e fuorvianti. Supportata dai dati raccolti da un rapporto della European Union External Service (eeas), la Commissione europea ha denunciato l’esistenza di una serie di campagne di disinformazione dolose. Affermando, in un documento datato 10 giugno 2020, che durante lo sviluppo della pandemia “soggetti esterni e alcuni paesi terzi, in particolare Russia e Cina, hanno avviato nell’Ue e nel resto del mondo operazioni di influenza mirate e campagne di disinformazione incentrate sul Covid-19”. Con obiettivi precisi: “Boicottare il dibattito democratico, esacerbare la polarizzazione sociale e migliorare la propria immagine nel contesto della pandemia”. Il report eeas descrive un’azione coordinata di condizionamento delle fonti informative, finalizzata a diffondere l’idea che alcuni paesi (in particolare Russia e Cina) agissero contro il coronavirus piú efficacemente rispetto ai paesi europei, e quindi a indebolire la fiducia nei si-
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stemi democratici dell’Ue. Sempre secondo il report eeas la Cina avrebbe utilizzato anche gli account dei media di Stato, delle ambasciate e dei mezzi di informazione vicini al Partito per “contrastare le accuse” relative al ritardo con cui ha lanciato l’allarme sul virus, negare la responsabilità della diffusione planetaria dell’epidemia, e “utilizzare la pandemia per promuovere il proprio sistema di governo e rafforzare la propria immagine all’estero”. La narrazione cosí orchestrata insisteva sul fallimento dell’Unione europea nella gestione della crisi, sulla mancanza di supporto ai paesi membri cui sopperivano gli aiuti e il sostegno provenienti proprio dalla Cina, sulla lentezza degli interventi di Bruxelles e sugli egoismi reciproci degli Stati europei. Al contrario le azioni promosse dall’Europa dopo lo scoppio dell’epidemia venivano oscurate e faticavano a entrare nella cronaca dell’emergenza. L’Europa era rappresentata sull’orlo dell’implosione, immobile e impotente, mentre gli aiuti russi e cinesi – poi rivelatisi piú utili alla propaganda che alla pratica sanitaria – venivano esaltati come operazioni salvifiche. Anche con la complicità dei media italiani, che hanno accolto l’arrivo del team di esperti dal Cremlino in Italia a metà marzo con uno storytelling enfatico e poco attento ai fatti. Risultato, a fine marzo il 52% degli italiani riteneva la Cina un partner amico, contro il 10% di gennaio. Viceversa, il sostegno alla Ue era sceso dal 42% di settembre al 27%. Si è trattato insomma di un doppio attacco virtuale in grado di alterare sensibilmente l’opinione pubblica della regione del mondo con il regime democratico piú evoluto. Approfittando proprio del fatto che un simile regime prevede un livello ambizioso di discussione e armonizzazione dei punti di vista e degli interessi, con tempi sicuramente meno veloci rispetto a un sistema autoritario. Osservata da dentro le istituzioni europee la lotta contro la disinformazione è una sorta di guerra asimmetrica: al fuoco incrociato di armi non convenzionali dalla potentissima capacità di penetrazione nel tessuto sociale si deve necessariamente rispondere con le armi spesso “depotenziate” dei protocolli istituzionali e del diritto.
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Di fronte a una nebulosa di messaggi non tracciabili, opachi, anonimi, in una giungla di account falsi, inverificabili, automatizzati, che condividono un flusso incontrollabile di notizie, le istituzioni devono reagire restando entro il perimetro della neutralità, della verifica paziente, della citazione di dati inoppugnabili. Anche perché il problema della disinformazione da “tecnico” si fa immediatamente politico: indicare esplicitamente uno Stato come committente di campagne di disinformazione per lo piú anonime o “mediate” da agenti difficilmente identificabili espone le istituzioni europee all’accusa di abbandonare la propria neutralità politica. Il contrasto alle fake news, infine, come afferma chiaramente la Commissione europea, deve essere compatibile con il pieno esercizio della libertà d’informazione, e non può essere condotto attraverso strumenti che limitino l’indipendenza dei media. Al contrario, è proprio il rafforzamento e il sostegno dei media indipendenti a costituire uno degli argini fondamentali al decadimento dell’informazione. Confutare ogni singolo dato diffuso, del resto, è un proposito chimerico: la disinformazione si può combattere soltanto attraverso l’educazione, l’alfabetizzazione mediatica, il rafforzamento delle capacità critiche, il potenziamento degli strumenti di verifica. Che non devono essere utilizzati soltanto a livello istituzionale ma trasferiti agli operatori dell’informazione, chiamati a diffondere notizie verificate e a verificare quelle sospettate di fare disinformazione, e poi ai cittadini stessi, per metterli nelle condizioni di difendersi autonomamente dall’esposizione alle notizie false. Già nel 2018 la Commissione europea e l’Alto rappresentante per la politica estera e di difesa avevano definito un approccio contro l’alterazione delle informazioni che mirava a coinvolgere l’intera società, dalle istituzioni ai giornalisti, dai ricercatori ai fact-checker, dai media digitali alla società civile. La piattaforma euvsdisinfo e i relativi account social documentano il lavoro fatto negli ultimi anni per contrastare le campagne di disinformazione, in particolare quelle provenienti dalla Russia. Riprendendo questo modello, le istituzioni europee hanno agito su piú livelli per rispondere alla disinformazione lega-
La disinformazione si può combattere soltanto attraverso l’educazione, l’alfabetizzazione mediatica, il rafforzamento delle capacità critiche, il potenziamento degli strumenti di verifica.
ta all’emergenza sanitaria. In collaborazione con l’oms hanno promosso il monitoraggio dei media per la verifica della correttezza scientifica delle informazioni in circolazione. Hanno potenziato la formazione dei giornalisti e dei professionisti della comunicazione attraverso l’organizzazione di corsi online e webinar promossi centralmente da Bruxelles, pensati anche per sensibilizzare gli influencer ai pericoli della disinformazione e appoggiarsi alla loro capacità di orientamento dell’opinione pubblica. La costituzione di un Osservatorio europeo dei media digitali consentirà di creare una comunità di verificatori di fatti e ricercatori universitari, e di elaborare strumenti digitali open source per l’individuazione di notizie inattendibili e flussi di informazioni sospette. Entro la fine dell’anno, infine, la Commissione dovrebbe lanciare un bando da 9 milioni di euro per selezionare progetti volti a creare centri regionali di ricerca sui media. Sulla base di questi approcci complessivi, il Parlamento europeo ha anche allestito campagne di comunicazione attiva e di demistificazione. Ha utilizzato i propri account social per sviluppare thread e post dedicati alle bufale e alle informazioni scorrette piú diffuse. Ha potenziato la collaborazione con i fact-checker indipendenti e ha elaborato progetti editoriali che raccontano origini e dinamiche di diffusione delle notizie false (come il format “TrUe” ideato insieme a “Repubblica”). A marzo 2019 è stato istituito un sistema di allarme rapido per mettere in contatto tra di loro gli esperti di disinformazione delle istituzioni europee e degli Stati membri. Centrale poi nel tentativo di debellare l’infodemia è stata la coopera-
zione con i social media e le piattaforme online, supportate nella definizione di un piano di buone pratiche che permettano di promuovere informazioni attendibili e autorevoli fornite da autorità sanitarie nazionali e da organi di informazione riconosciuti, e di rimuovere i contenuti falsi e potenzialmente dannosi per la sicurezza pubblica e la salute dei cittadini. Infine, e forse soprattutto, la comunicazione europea dovrà fare tesoro dell’esperienza della crisi infodemica per inventare modi nuovi di raccontarsi, che sappiano prevenire la disinformazione sottraendole argomenti. Dovrà far emergere con chiarezza il fatto che l’Ue si è dimostrata negli ultimi mesi un orizzonte di concreto sostegno per la comunità dei propri cittadini. E comunicare efficacemente l’importanza degli accordi sul bilancio pluriennale e il Next Generation eu, l’ambizioso piano di rilancio post-crisi che punta su ambiente e digitalizzazione e dispiega risorse senza precedenti, non solo in senso quantitativo, ma per il notevole passo avanti nel processo di integrazione che gli accordi implicano. La strategia di contrasto alla disinformazione, dunque, non può che avere come obiettivo a lungo termine il sostegno alla creazione di un sistema informativo e di una cittadinanza sempre piú consapevoli, critici e responsabili. La democrazia si fonda sulla trasparenza, e la soglia di attenzione delle istituzioni su questo aspetto deve essere alta per impedire ingerenze e mistificazioni. Ma non esiste una verità che possa essere imposta per via istituzionale: solo una diffusa cultura critica può proteggere i processi democratici e le società aperte dai loro nemici. ◊
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Storie dal fronte della cura
Come i medici davanti a una malattia sconosciuta, anche i comunicatori della salute si sono trovati a lavorare in uno scenario nuovo in cui l’ascolto e l’interpretazione dei sintomi provenienti dal corpo dell’ospedale sono stati fondamentali per capire come traghettare l’intera comunità oltre la crisi, verso una nuova stabilità e ripartenza. Testo Walter Bruno Immagini Mattia Balsamini RELAZIONI: 147
Lotta al virus: 2300 pazienti curati dall’inizio della pandemia Covid-19 è stata una grande occasione per interrogarsi sul valore del brand, gli strumenti comunicativi, le opportunità e i rischi mediatici per i rappresentanti del mondo medico-scientifico. Il tutto rompendo definitivamente le barriere tra comunicazione interna ed esterna. Dal 21 febbraio gli ospedali Humanitas in Lombardia, Piemonte e Sicilia hanno curato piú di 2300 pazienti affetti da Covid-19, riconvertendo le strutture, mettendo a disposizione oltre 600 posti letto e raddoppiando i posti in terapia intensiva, sub-intensiva e pronto soccorso. Tutto il personale è stato coinvolto attivamente nell’emergenza, in prima linea nei reparti Covid-19 o a supporto delle nuove esigenze (per esempio la comunicazione con i familiari e i checkpoint agli ingressi). L’impegno nella cura è andato di pari passo con lo sviluppo di progetti nuovi: come Emergency Hospital 19, una struttura dedicata alla diagnosi e alla cura intensiva di patologie infettive e virali, che si abbina a un programma di ricerca scientifica in ambito immunologico contro le malattie infettive. Emergency Hospital 19, ideato nel cuore della pandemia da un team di clinici, architetti, ingegneri e progettisti, è una struttura autonoma, replicabile ed esportabile, dotata di pronto soccorso, diagnostica, terapia intensiva e sub-intensiva, blocco operatorio e ambienti di degenza. È la sintesi dei bisogni registrati durante i mesi di emergenza accanto ai nostri pazienti: percorsi nettamente separati per garantire sicurezza e continuità di cure a tutti. La comunicazione in crisis room La gestione della comunicazione durante l’epidemia di Covid-19 ha imposto una rimodulazione dei messaggi e dei canali di diffusione. In questo articolo si racconta in particolare l’esperienza sul campo dell’ospedale di Rozzano, ma attività simili e adattate al contesto sono state realizzate negli altri ospedali del gruppo grazie alla condivisione delle competenze dei professionisti del team. I messaggi si sono da subito caricati di finalità nuove: dovevano essere informativi, ma anche educativi e non illusori in un contesto esterno caratterizzato da grande tensione, paura
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dell’ignoto e bulimia informativa. I nostri uffici comunicazione, presenti a fianco del top management nella crisis room, si sono trasformati in una redazione attiva 7 giorni su 7, veri e propri hub che hanno centralizzato il flusso delle comunicazioni per trasmetterle ai vari target. Bollettini & bollettini In emergenza, quando le persone hanno davvero fame di conoscenza, la semplicità paga in termini di efficacia e di engagement. L’email è stata – soprattutto all’inizio della crisi – lo strumento scelto per far intervenire i vertici dell’istituzione in alcuni momenti topici, per motivare i professionisti e ringraziarli per l’impegno, la dedizione e la passione con cui hanno svolto il proprio lavoro. I bollettini quotidiani da parte della Direzione sanitaria sono stati lo strumento piú semplice ed efficace per aggiornare tutti i dipendenti sullo scenario generale dell’epidemia, le misure messe in campo dalle autorità sanitarie, contestualizzare le azioni effettuate in Humanitas e anticipare le sfide future. Un appuntamento fisso molto apprezzato dalla popolazione interna, che lo ha ritenuto – specie nella prima fase della crisi, piú densa di incognite – un valido strumento per far sentire tutti informati e parte della stessa squadra, anche chi temporaneamente lavorava in smart working. Ospedale-trincea, parola d’ordine: informare La riorganizzazione degli spazi dell’ospedale e dei servizi ha imposto la ridefinizione dei flussi di passaggio dei pazienti, dei messaggi a loro dedicati e lo studio della segnaletica. La collaborazione con i servizi generali, il servizio clienti, l’ufficio relazioni con il pubblico e l’ufficio dedicato alla patient experience, è stata fondamentale per la razionalizzazione di messaggi chiari ma non allarmanti. Video storytelling per comunicare e formare Il video è stato lo strumento piú immediato e indicato per comunicare messaggi semplici e diretti. Grazie alla sua versatilità è anche possibile adattarlo facilmente ai diversi canali di comunicazione (interno, esterno, formazione dei professionisti). Attraverso il coinvolgimento di tutti
Mattia Balsamini è un fotografo italiano che si è formato tra Milano e Los Angeles. Lavora sui temi legati al territorio d’origine, sul concetto di casa e sul lavoro inteso come fattore identitario dell’essere umano. Le sue immagini rivelano un interesse verso le persone e le loro storie, la funzionalità della tecnologia e gli elementi grafici dell’ordinario. Tra i musei che, in Italia e all’estero, hanno ospitato le sue opere, Triennale Milano e MAXXI di Roma. Contingency Plans è una ricerca fotografica sulle aziende italiane che hanno convertito o adattato le loro linee di produzione per rispondere all’epidemia di Covid-19. Sono storie di un Paese che non ha mai voluto fermarsi davvero. Questo progetto è stato supportato da covid19visualproject.org, un archivio permanente che indaga la pandemia e il suo impatto sulla vita delle persone in tutto il mondo.
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Nelle voci dei professionisti ci sono la fatica, lo stupore di vedere come l’emergenza abbia spinto ogni persona a dare il massimo, le emozioni dell’autoisolamento per proteggere i propri cari.
i gruppi di stakeholder interni (per esempio direzione medico-sanitaria, risorse umane, medici, infermieri ecc.), sono state realizzate decine di brevi video distribuiti alla popolazione dell’ospedale attraverso l’email e l’intranet, con l’obiettivo di informare i professionisti sanitari su tutte le novità e le scoperte riguardanti la gestione e la diagnosi di Covid-19, ma anche sulle corrette modalità di protezione; fornire strumenti e spunti di approfondimento per affrontare, anche a casa, la momentanea situazione di disagio (per esempio, come spiegare il Covid-19 ai bambini e il servizio di supporto psicologico); valorizzare i professionisti diversamente in prima linea, mantenendo alto l’engagement. Parallelamente abbiamo lavorato anche sui canali social e web di Humanitas. Due le tipologie di video diffusi: quelli ad alto contenuto scientifico, anche in inglese, destinati a un target di professionisti del settore e perciò veicolati tramite LinkedIn e video informativi per la popolazione riguardo alla gestione di Covid-19. Tra i video piú toccanti c’è Dietro una maschera, diffuso il primo maggio per ringraziare i professionisti degli ospedali e realizzato attraverso ore di riprese nelle aree Covid-19. Storie e voci, quando il racconto diventa una necessità In una situazione di tensione e stress il racconto ha assunto un valore quasi terapeutico. L’ufficio comunicazione è diventato un collettore di storie: foto degli operatori in prima linea raccolte e diffuse internamente attraverso una galleria fotografica; messaggi vocali e testuali dei vari professionisti (compresi i volontari che, da casa, hanno testimoniato la loro vicinanza); disegni di figli e nipoti raccolti con un concorso creato ad hoc e appesi nei corridoi dell’ospedale.
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E poi una novità nata proprio dall’emergenza: Humanitas Voice, le storie dal fronte della cura, il canale podcast realizzato dai professionisti di Humanitas impegnati nella lotta al coronavirus a Rozzano, Bergamo, Milano, Torino e Castellanza. Un racconto che ha dato spazio alle emozioni personali di chi ha lavorato e vissuto l’ospedale “in prima linea”, insieme alle testimonianze e la solidarietà di molti professionisti dello sport, dello spettacolo e del giornalismo. I podcast sono disponibili sulle principali piattaforme musicali (Spreaker, Spotify e Deezer), suddivisi in playlist a seconda della città. Il risultato è un grande diario vocale, in continua costruzione, destinato a lasciare una traccia viva di un momento importante della nostra storia. Nelle voci dei professionisti ci sono la fatica, lo stupore di vedere come l’emergenza abbia spinto ogni persona a dare il massimo per operare trasformazioni logistiche e organizzative mai viste prima, le emozioni dell’autoisolamento per proteggere i propri cari. Sono storie di chi resiste e spera, aggrappandosi alle emozioni comunicate con gli occhi e ai sorrisi dei primi pazienti guariti. Con i media per informare e fare chiarezza I media hanno svolto un ruolo estremamente importante per raccontare all’esterno l’impegno dell’istituzione sul fronte dell’emergenza e della raccolta fondi. L’ufficio comunicazione si è occupato di raccontare ciò che stava avvenendo negli ospedali e nei laboratori di ricerca Humanitas ai media nazionali e internazionali attraverso comunicati stampa, interviste rilasciate da medici, scienziati e manager. Tra il 21 febbraio e il 25 luglio 2020, solo l’irccs Humanitas ha registrato 1800 uscite media e 100 servizi Tv e radio.
La salute al centro e le stagioni della pandemia Mai come in questi ultimi mesi la salute è stata al centro della nostra vita privata e professionale oltre che perno dei palinsesti televisivi e dei timoni dei giornali. Siamo passati dalla paura all’euforia, dalla celebrazione degli eroi alla caccia ai virologi accusati di comunicare troppo e in modo contraddittorio. Come spesso capita in questo ambito di comunicazione, ha prevalso la pancia piuttosto che la testa, intesa come razionalità e fedeltà ai dati della scienza. Dal 21 febbraio gli ospedali Humanitas hanno iniziato a trasformarsi accogliendo centinaia di pazienti colpiti da un nemico ignoto: un’escalation violenta (specie a Bergamo) che ha cambiato le nostre vite e quelle delle comunità che gravitano attorno ai nostri ospedali. Il team della comunicazione ha scelto di rimanere sempre in prima linea entrando nella sala motori per meglio raccontare, fuori e dentro, quello che stava succedendo. Abbiamo voluto essere testimoni accanto ai nostri medici, infermieri, tecnici, ingegneri, manager e staff raccontando le loro gesta. Come i cronisti di un tempo
mandati al fronte. Abbiamo vissuto le stagioni dell’emergenza cui ha corrisposto uno stile di comunicazione sempre diverso: dagli esordi della pandemia, con la comune sensazione di ignoto e paura, alla fase piú adrenalinica legata alla trasformazione e condivisione, al momento della fatica e della resilienza (con i podcast di Humanitas Voice, i racconti della solidarietà della comunità, dei contagiati e di coloro che purtroppo ci hanno lasciato) fino alla ripartenza delle normali attività dell’ospedale (sicurezza, tempo per la cura delle patologie no-Covid-19 e per la prevenzione) e di quelle legate alla preparazione per reagire a fronte di un ritorno del virus (Emergency Hospital 19). Non è mancato naturalmente un momento per dire grazie: la Convention Humanitas, per la prima volta completamente digitale, ha coinvolto piú di 6000 professionisti con oltre 50 video-interviste ai protagonisti della lotta alla pandemia: una grande testimonianza collettiva che diventa storia, che cristallizza l’orgoglio per ciò che è stato fatto per i nostri pazienti e i valori che ci guidano in un mondo nuovo. ◊
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Oltre lʼinnovazione Il mondo rimodellato dalla crisi post-Covid-19 presenta, accanto ai dubbi, le paure e le incertezze, grandi opportunità: ridefinisce valori e priorità, sgombra il campo dalle illusioni, fa emergere le esperienze davvero rilevanti per la società e per l’economia. E promette di liberare il discorso sull’innovazione da eccessi, forzature e falsificazioni. Testo Luca Barbieri Immagini Putput
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PUTPUT, progetto fondato nel 2011 da Stephan Friedli e Ulrik Martin Larsen, attualmente con sede a Copenhagen, è l’incontro visivo e concettuale di due menti. Tra input e output, PUTPUT indugia sull’incrocio sempre piú trafficato in cui si incontrano fotografia, scultura e design. Una fascinazione condivisa e profondamente radicata per le relazioni metafisiche che legano gli oggetti di uso quotidiano guida la loro visione, che trasfigura l’ordinario in straordinario.
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nel corso dell’ultimo decennio il mondo della stampa 3d, dei fablab e dei maker space – luoghi diffusi di fabbricazione digitale – è rimasto sospeso in una sorta di limbo, tra artigianato, amatorialità e retorica dell’innovazione; una destinazione esotica buona per esibire a giornalisti e decision maker strani esemplari di giovani che “fanno cose”. Come fosse uno zoo. Cosí, mentre molte aziende scommettevano sulla prototipazione rapida, per gran parte dell’opinione pubblica le stampanti 3d sono ancora quelle cose che permettono di avere un “mini-me” sulla scrivania. I fablab e i maker space, anziché essere considerate fabbriche, sono “acquari” in cui ammirare macchine e programmatori: un po’ scuola, luogo d’incontro di saperi e generazioni, un po’ coworking. Carino, ma niente cui prestare veramente attenzione. Poi, tra febbraio e marzo, il mondo è cambiato. Con il Covid-19 abbiamo scoperto che la globalizzazione del sistema produttivo è economica ma molto pericolosa: in emergenza, quando l’egoismo nazionale prevale sullo spirito di cooperazione internazionale e chiude i mercati, intere parti del globo rischiano di restare senza componenti fondamentali. Come mascherine e respiratori. Ed è qui che, usciti dal cilindro, tornano alla ribalta maker space e fablab. A Brescia, raccogliendo l’idea di un primario, Isinnova trasforma una maschera da snorkeling in un respiratore, producendo pezzi su misura con la stampa 3d. Il caso fa scuola e i fablab d’Italia iniziano a produrre visiere, componenti per respiratori, mascherine. Charlotte, la valvola disegnata da Isinnova, permette di riadattare oltre 150mila maschere in tutto il mondo. Il paese scopre di avere una risorsa manifatturiera in piú. Era sotto gli occhi di tutti, ma non la vedevamo. E non era l’unica cosa a sfuggirci. Come è noto ogni crisi, ogni cambiamento, contiene delle opportunità, e ha i suoi vincitori e i suoi vinti: settori che declinano, nuovi protagonisti che riescono a mettere a frutto un’idea che era semplicemente in anticipo sui tempi, imprese che devono ridefinire in corsa strategie e politiche per evitare uno schianto a tutta velocità. Inoltre, questa non sembra affatto una crisi: è ragionevole pensare che il mondo attuale
Con il Covid-19 abbiamo scoperto che la globalizzazione del sistema produttivo è economica ma molto pericolosa.
rimarrà plasmato dal Covid-19 anche quando il Covid-19 non ci sarà piú. Perché l’attenzione e i valori delle persone e dei decisori sono cambiati, perché la durata e la vastità del fenomeno sono tali da ridefinire priorità e frame di riferimento. Il punto, nel vortice di questa accelerazione, è provare a capire se stiamo andando bene o male, se i vincitori siano, in massima parte, quelli giusti, se questa crisi sia un setaccio per l’oro o un generatore di fuffa. Propenderei per la prima ipotesi, quella positiva. D’altra parte, venendo da un decennio di fuffa e storytelling esasperato sull’innovazione, non è difficile accogliere con fiducia il cambiamento. Quando parliamo di innovazione parliamo anche e soprattutto di comunicazione. L’hype dell’innovazione parte in Italia nel 2012: con il decreto Passera, il governo Monti “inventa” – letteralmente dal punto di vista giuridico – le startup. L’Italia è in crisi, e l’innovazione e le startup diventano un espediente psicologico e narrativo per dare speranza (e illusioni) a tanti giovani. È un trend che non si è ancora esaurito, ma si è profondamente evoluto: le startup sono oltre 11.000 e dentro ci si trova di tutto; nel mondo dell’informazione nascono testate di settore specificamente dedicate al tema, ma tutti i giornali mainstream parlano di innovazione e startup e, alla fine, quel che rimane è soprattutto un modo in piú per mettere in risalto l’economia che ce la fa. In un paese come il nostro, non è poco. All’interno di questo microcosmo, piuttosto autoreferenziale, ci sono due criteri di valutazione fondamentali: le quotazioni e la crescita in termini finanziari, le notizie sugli investimenti e le
operazioni che “certificano” l’appetibilità economica di una società innovativa; e un’analisi sull’innovazione di prodotto e di processo. Il sistema dei media predilige, almeno all’inizio, il primo criterio. Perché di fronte ai numeri si abbassa la guardia; perché si vogliono a tutti i costi storie positive di crescita; perché per valutare un’idea altrui bisogna studiare, avere intuito ed esperienza. E i giornalisti italiani in grado di farlo con contezza ci sono, ma non sono la maggioranza. La mancanza di competenze spesso porta a prendere cantonate, come incoronare di volta in volta uno “Zuckerberg italiano”, che per prodotto e fatturato si rivela ben lontano dal fondare nuovi paradigmi economici e puntualmente finisce nell’oblio; o esaltare come innovativi (solo perché la piattaforma è digitale) business di consegna a domicilio salvo poi scoprire che – si tratti di ristoranti o fragole a chilometro zero – facilitano o nascondono forme di sfruttamento e caporalato. E poi ci sono esperti improvvisati, incubatori che invece di far soldi con le startup fanno soldi “sulle” startup (ma molto piú spesso non ne fanno proprio), investimenti azzardati. Cose da circo. Ma, fortunatamente, un circo in declino. Nel frattempo, un po’ come capitato ai fablab e alla stampa 3d, molto di buono e valido è cresciuto e sta maturando: spinoff universitari molto promettenti con tecnologie già testate ma in cerca di business model; startup di impronta ingegneristica con avanzate competenze di robotica e automazione, tra i punti forti dell’innovazione italiana, cosí come lo sono biotecnologie e bio-medicale; l’università che, con i suoi tempi, ha prodotto molti Competence center dedicati a Industria 4.0. E non parliamo solo di hardware,
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Bisogna consolidare un ecosistema in grado di selezionare e supportare i migliori connettendo tutti gli attori sani, senza esclusioni.
che resta il maggior potenziale di crescita: il digitale nel nostro paese ha fatto un balzo notevole e ha finalmente reso accessibili a tutti le possibilità della rete. Un solo nome: Bending Spoons, la società che ha realizzato la app anti-Covid Immuni, è una ex startup diventata un’azienda da 90 milioni di euro. Ed è solo uno dei pezzi di una nuova economia che lavora in armonia con le aziende piú dinamiche del Made in Italy. La crisi ci aiuta a liberarci del “circo”, o – è spietato, mi rendo conto – di chi non aveva le capacità per continuare a correre. Impone a chi faceva startup per hobby scelte drastiche. Il momento dei giochi è finito per tutti. Anche dal punto di vista comunicativo, anche dal punto di vista degli eventi: avremo capienze limitate; possiamo permetterci di rivolgerci al pubblico sbagliato? È ovvio che, d’ora in avanti, quel che rimane in gioco deve essere rilevante per tutti, dal punto di vista sociale ed economico. È la condizione necessaria, ma non sufficiente, per farcela. Bisogna anche consolidare un ecosistema in grado di selezionare e supportare i migliori connettendo tutti gli attori sani, senza esclusioni: i produttori di ricerca (università e centri privati); i produttori di tecnologia (pmi e startup); i facilitatori. Tutti insieme in un circuito che dia veramente vita al trasferimento tecnologico, dai laboratori al mercato, di cui abbiamo bisogno e sul quale l’Italia ha tanto da dare. Un sistema non necessariamente accentrato. L’Italia è piena di “periferie” naturali e deve valorizzare diversità e specificità. Nel nuovo mondo dell’innovazione, una grossa opportunità per il paese, anche la comunicazione è chiamata a fare la sua parte. Innanzitutto presidiando i territori, andando a toccare con
mano (e competenza) i fenomeni nascenti per fare da filtro dell’ecosistema, per eliminare pian piano il “rumore” (e la disillusione) di fondo che la comunicazione stessa ha contribuito a creare. E poi uscendo dalle maglie ansiogene del ritorno immediato nelle quali è sprofondata. Se cosí non fosse, il rischio è quello di rimanere sempre in mezzo al guado. Come fosse marzo. E stare nel mezzo porta all’immobilità. In troppi, anche comprensibilmente, hanno pensato al Covid-19 come a un terremoto. Un’emergenza cui rispondere, ma passeggera. Un’emergenza che vede, per l’appunto, da una parte gli eroi e dall’altra gli sciacalli. Ma il Covid-19 non è un terremoto, è un nuovo paradigma per affrontare il quale non servono eroi, servono sistemi e competenza. Attorno a questo nuovo paradigma cambiano i valori dell’economia e della società e con essi i “valori notizia”, i criteri di notiziabilità che sono da sempre espressione dell’interesse del pubblico. L’economia si sta riassestando: decidere se lo fa “sfruttando il Covid-19” oppure “contribuendo a risolvere la crisi” è questione di giudizio morale che al giornalismo e all’informazione non compete. Alla comunicazione resta il compito di capire chi sta cercando e offrendo soluzioni valide. Non si tratta di speculare sulle disgrazie, ma di raccontare come un pezzo di economia italiana ha saputo riadattarsi creando valore e lavoro, e aiutare a discernere ciò che vale da ciò che vale meno. È una grande opportunità, un appuntamento che non possiamo perdere. Se, come dice William Gibson, “il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito”, a noi spetta di fare il possibile perché questo futuro sia accessibile a tutti, nessuno escluso. ◊
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La comunicazione al tempo della pandemia No, non è andato tutto bene. La comunicazione di aziende e istituzioni durante la pandemia non è stata capace di mostrare coraggio, inventiva, prospettive. Si è attestata pigramente su una stereotipata narrazione patriottica, attingendo ai luoghi comuni sull’eroismo last-minute degli italiani e rappresentando un posticcio senso di unità nazionale. Un’occasione mancata che è il sintomo di una generale carenza di visione strategica nel mondo della comunicazione. Testo Massimo Tafi Immagini Stefano Massei
Dichiarazione in forma di premessa Commentare quel che è accaduto (e continua ad accadere) dal punto di vista della comunicazione durante il Covid-19 ha un paio di controindicazioni. La prima è che da troppi anni mi occupo di comunicazione per non sapere che ogni campagna è il frutto di un processo di elaborazione complicato, giocato sull’equilibrio e la complicità tra azienda committente e agenzia. Il risultato è il frutto di un compromesso, anzi di molti compromessi, a volte al rialzo, a volte al ribasso. Solo dall’interno si possono conoscere le strategie dell’azienda, i suoi veri obiettivi, i dati di mercato che guidano le scelte. Il giudizio di un esterno è per sua natura basato solo su valutazioni astratte e di principio; è, per cosí dire, puro. La seconda controindicazione nasce dal fatto che il modo in cui un’azienda comunica è visibile attraverso le sue campagne pubblicitarie e le azioni sui social, mentre restano sottotraccia al-
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tre modalità comunicative – con i partner, con i fornitori, con le altre aziende, con i dipendenti e anche con i media – che sono piú difficili da valutare nella loro interezza. Tenendo in mente queste limitazioni, e senza voler valutare la capacità creativa di agenzie e aziende, o la loro professionalità nell’intendere e nello sviluppare la comunicazione verso i pubblici di riferimento, si possono tuttavia impostare alcune osservazioni sulle politiche della comunicazione. L’Italia sul Piave Una cattiva, stucchevole – ma non necessariamente falsa – narrazione vuole l’Italia capace di mostrare il proprio valore solo quando si trova sull’orlo del precipizio e, data da tutti per spacciata, come per miracolo scopre lo spirito nazionale, attiva il genio italico, fa nascere eroi indomiti. Il popolo si affida – eccezionalmente senza
La comunicazione ha pensato di cavalcare quel patriottismo inatteso con l’idea che fosse socialmente utile dare un supporto psicologico agli italiani, far sentire loro la vicinanza del mondo della produzione.
remore – ai suoi condottieri e tutto finisce bene. È una narrazione che interessa gli ambiti piú diversi, dalla politica, alla guerra, al calcio. L’archetipo narrativo, naturalmente, è Caporetto, e il motto “Tutta l’Italia è sul Piave” che ricompattò il Paese fino a quel momento diviso tra interventisti di destra, interventisti di sinistra, interventisti per ragioni affaristiche, neutralisti pacifisti, neutralisti rivoluzionari, neutralisti per paura. Gli eroi indomiti in qual caso furono gli Arditi. Attraverso la stessa narrazione ci siamo raccontati anche eventi meno nobili ma investiti di uguale pathos: le nazionali del ’70, dell’82 e del 2006, che non dovevano neppure superare le qualificazioni, tra litigi, rivalità, polemiche, Mazzola e Rivera, calciopoli, le scommesse. Poi invece arrivò la finale e, in due casi, persino la vittoria. Con i Tardelli, i Boninsegna, i Paolo Rossi, i Fabio Grosso pronti a diventare indomiti eroi per caso.
Era troppo sperare che l’emergenza sanitaria per una malattia di cui nessuno sapeva e capiva nulla generasse un paradigma comunicativo differente? Evidentemente sí, era troppo. La comunicazione commerciale – prodotta cioè da marchi e aziende il cui obiettivo finale è vendere – non si è sottratta alla banalità dell’“Italia è sul Piave”. Quindi, un profluvio di spot e paginate inneggianti al valore italico che si mette in mostra solo a un passo dal baratro, e tanta retorica su quanto siamo bravi, uniti, disciplinati nei momenti estremi. Il tutto naturalmente avvolto nel tricolore, dai palazzi illuminati ad hoc, ai loghi rivisitati in bianco rosso e verde, fino alle scie delle Frecce tricolore. Anche in questo caso gli eroi indomiti non sono mancati: medici, infermieri, volontari. Era di questo che avevamo bisogno? In effetti, nella primissima fase della “chiusura” c’è stato il fenomeno spontaneo (alimentato dai media)
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della gente sui balconi che cantava l’Inno di Mameli; la comunicazione ha pensato di cavalcare quel patriottismo inatteso con l’idea che fosse socialmente utile dare un supporto psicologico agli italiani, far sentire loro la vicinanza del mondo della produzione. Eppure, mentre il “popolo dei balconi” si è stancato presto di quell’esibizione di amor patrio, la comunicazione non ha trovato una forma migliore per esprimere la propria partecipazione al dramma collettivo. Incapacità, mancanza di creatività? No, non credo. Un noto pubblicitario mi ha fatto notare che la pubblicità (usiamo questa semplificazione) si basa sul gioco di parole, sul ribaltamento provocatorio del senso comune, sullo sberleffo, sull’esagerazione; tecniche che mal si conciliavano con il dramma che si stava vivendo. A parte il fatto che non vedo molta ironia né molta provocazione nelle campagne prima e dopo il Covid-19, penso che il problema debba essere ricondotto a una crisi piú generale della comunicazione. E se non a una cri-
Cosa si aspettavano gli italiani dal mondo della produzione? Patriottismo e mielosa solidarietà? Se si aspettavano questo, questo hanno avuto. 160 RELAZIONI:
si, almeno a un cambiamento piuttosto radicale nell’approccio alla comunicazione. La creatività ha spesso anticipato modi di vivere, costumi, atteggiamenti che solo con il tempo sarebbero diventati senso comune: basti pensare a una campagna brutta ma efficace come quella della “Milano da bere”. Nessuno prima di quella campagna aveva percepito e raccontato il cambiamento di Milano negli anni ottanta, c’era voluto uno spot per renderlo evidente. Allo stesso modo, in anni piú recenti, è stata la pubblicità a parlare precocemente di famiglie “non tradizionali”, di rapporti di coppia plurali, assai prima che si imponesse il politicamente corretto. Per non parlare dei primissimi anni sessanta, quando Carosello raccontava stili di vita che nelle case degli italiani non erano ancora arrivati. Oggi la forza anticipatrice, per certi aspetti visionaria, della comunicazione si è affievolita fino quasi a scomparire. Ma anche in questo caso sarebbe sciocco ricondurre tutto alle minori capacità dei giovani crea-
tivi. Ovviamente non è cosí. Come sempre nella comunicazione, il problema è di strategia e di contenuti. Quasi mai di esecuzione. Covid-19 e strategia di comunicazione Il nodo quindi è ciò che si vuol dire o che si è in grado di dire. Per tornare all’emergenza Covid-19: cosa si aspettavano gli italiani dal mondo della produzione? Patriottismo e mielosa solidarietà? Se si aspettavano questo, questo hanno avuto. Non hanno avuto invece prospettive, idee, soluzioni, chiarezza. Mentre da un lato in TV e sulle pagine dei giornali comparivano le campagne di cui si è detto, e rimbalzava ovunque il semplicistico slogan “andrà tutto bene”, nei luoghi delle decisioni le stesse aziende (o le loro rappresentanze) chiedevano libertà di licenziamento e sussidi, cioè denaro pubblico per sostenere l’impresa privata: non esattamente quello che potremmo definire un buon esempio di solidarietà, giuste o meno che fossero le richieste. Insomma, il mondo dell’impresa non è stato portatore di una visione coraggiosa, motore primo di una buona comunicazione. È questo, penso, il dato piú deludente: in un momento in cui il Paese aveva bisogno di propulsione, di spinta, di intelligenza non corporativa, le categorie sociali che questo sforzo dovrebbero esprimere di piú e meglio (non solo l’impresa, anche i sindacati, le associazioni, la tanto spesso invocata “società civile”) non hanno saputo liberarsi da una mediocre logica corporativa e questuante. Insomma, il mondo dell’impresa – committente della comunicazione – non aveva molto da dire. Questa afasia diventa ancora piú evidente se ci si chiede quanto e cosa, con quanta chiarezza e senso di prospettiva, hanno comunicato le imprese italiane al proprio interno. Temo assai poco. Del resto, il tessuto imprenditoriale italiano è costituito in larghissima parte da medie e piccole imprese per le quali, si sa, la comunicazione interna si limita nella maggior parte dei casi a qualche ordine di servizio. Al contrario, se un insegnamento è venuto forte e chiaro da questo periodo difficile, riguarda proprio l’importanza della comunicazione interna: il lavoro da remoto – dove ognuno è una monade isolata – tende nel tempo a perdere senso ed energia. Spetterebbe proprio alla comunicazione ricostruire in virtuale il tessu-
to connettivo distrutto o indebolito dalla distanza fisica. Su questo credo ci sia necessità di lavorare parecchio, aziende e agenzie, perché buoni progetti di comunicazione interna non restino appannaggio di pochi grandi player ma diventino cultura diffusa delle imprese italiane. Le istituzioni Criticare il modo in cui le istituzioni locali e centrali hanno comunicato durante il Covid-19 è diventato uno dei piú praticati sport nazionali: confusione, drammaticità, mancanza di coordinamento le accuse piú blande. Tutte giuste. Ma anche in questo caso può valere la pena andare al di là del dato immediato. Confusione, certo: governo e regioni hanno spesso mandato messaggi reciprocamente contraddittori. Hanno organizzato conferenze stampa concomitanti, quasi a farsi concorrenza. Ma forse il problema in questo caso riguarda meno la comunicazione e piú la struttura di governo. Che le regioni abbiano una forte autonomia (e continuino a rivendicarne) è un fatto. Che tale autonomia sia quasi totale per quanto riguarda la sanità è un altro fatto. Come sarebbe stato possibile, quindi, immaginare un coordinamento unico della comunicazione? Quest’ultima non prescinde mai dalla struttura e dagli interessi di chi la attua. In fondo, dobbiamo rallegrarci di essere stati sommersi dalla comunicazione e dall’informazione, anche quando è stata sgradevole, confusa e drammatizzante: nel 1918 i quotidiani italiani diedero la prima notizia ufficiale sull’esistenza della Spagnola sei mesi dopo il suo arrivo, in concomitanza della seconda, tremenda, ondata. Appello conclusivo Anche il linguaggio conta: non solo cosa si dice, ma come lo si dice. Per fare un solo esempio: anziché parlare di “distanziamento sociale”, avremmo potuto adottare l’espressione “distanziamento sanitario”. La seconda indica con maggiore chiarezza una necessità specifica e momentanea. La prima ha invece un sapore totalizzante, indica una prospettiva di lungo periodo, una scelta di vita “a-sociale”, quindi autoritaria e definitiva. Le parole sono importanti. E chi meglio di noi che ci occupiamo di parole dovrebbe saperlo? ◊
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Gestire la crisi, comunicando L’interruzione improvvisa di tutti gli automatismi lavorativi dovuta alla pandemia ha fatto emergere con chiarezza il ruolo cruciale della comunicazione nel governo di una grande organizzazione multinazionale. La comunicazione esterna e, in modo ancora piú decisivo, la comunicazione interna sono diventate funzioni centrali, non solo in quanto custodi dell’immagine aziendale, ma in quanto collante organizzativo e simbolico capace di ricomporre in ambienti e con strumenti nuovi la coesione di tutte le componenti. Testo Biagio Oppi
Alfasigma e la comunicazione Alfasigma è un’azienda tra le quattro principali realtà dell’industria farmaceutica italiana, nata nel 2015 dall’unione tra Alfa Wassermann e Sigma-Tau, presente in circa novanta paesi, con 3000 dipendenti, 17 filiali nel mondo e oltre un miliardo di fatturato. Chi scrive è stato chiamato nell’aprile del 2019 per strutturare la funzione di Corporate communication & Media relations, fino a quel momento inesistente. Poco prima dell’emergenza Covid-19, in Alfasigma erano stati lanciati strumenti di comunicazione interna e attività d’ascolto organizzativo, e il 2020 avrebbe dovuto essere l’anno della comunicazione esterna. Dalla Cina con stupore Quando dalla Cina cominciarono ad arrivare i primi segnali dell’epidemia, l’azienda si preoccupò principalmente delle misure da prendere
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localmente, oltre alla quarantena per i colleghi di ritorno in Italia dopo la convention cinese di inizio anno. L’azienda seguiva attentamente l’evolversi della situazione e ci si chiedeva, con un certo grado di scetticismo, come si sarebbe potuto applicare un eventuale lockdown in Italia. Nei primi giorni di febbraio, tuttavia, fu necessario cominciare a preoccuparsi anche delle forniture dall’Asia: prima i principi attivi di cui si cominciava a prevedere la carenza, poi le forniture di materiali utili alla produzione provenienti dalla Cina. La divisione Technical operations cominciò a elaborare le prime procedure per la gestione di materiale in arrivo da zone colpite dal Covid-19, spingendo l’ufficio Corporate communication ad approcciare il tema con un manuale di crisis management appena diffuso. Nel frattempo i colleghi cinesi erano passati a un’attività svolta completamente in remoto, gli ospedali e gli ambulatori non potevano esse-
re raggiunti fisicamente, le richieste di prodotti cominciavano a focalizzarsi sui farmaci per curare sintomi e complicazioni del Covid-19. I colleghi in Cina si adattarono in breve a questa forma di remote working, cominciando a sfruttare le potenzialità dei social network cinesi – come WeChat – per le attività di informazione medico-scientifica. In meno di un mese il volto dell’azienda in Cina era cambiato: uffici deserti, persone al lavoro da casa, meeting virtualizzati. La comunicazione interna al centro L’ufficio Corporate communication all’inizio di febbraio ha sviluppato due manuali di crisi pensati appositamente per l’emergenza: uno per le filiali internazionali, tendenzialmente piú piccole nel numero dei dipendenti e maggiormente focalizzate sulle attività di tipo commerciale e promozionale; un altro per l’organizzazione basata in Italia, che compren-
L’ufficio comunicazione diviene immediatamente un punto di riferimento, anche grazie a un approccio multistakeholder e, soprattutto, per la sua attitudine a una maggiore attenzione alla relazione. RELAZIONI: 163
La funzione comunicazione diventa centrale nel rappresentare esternamente l’organizzazione, e nel ricostruire attorno a sé il senso di appartenenza che l’individuo “solo” nella propria casa rischia di perdere.
de tutte le funzioni della filiera farmaceutica e metà dell’intera forza lavoro. Dopo metà febbraio, con i primi casi italiani, si entrò in modalità “gestione di crisi”, attivando una serie di comitati: un comitato centrale, un comitato per le Technical operations, uno locale in ogni sede produttiva. È in quel momento, e con la distribuzione di manuali e procedure alle filiali internazionali, che la funzione Corporate communication diventa centrale nell’intera governance aziendale – come già peraltro accaduto durante altre crisi, in altre organizzazioni. L’ufficio comunicazione diviene immediatamente un punto di riferimento: in parte per la sua familiarità con la gestione delle crisi, ma anche grazie a un approccio multi-stakeholder che altre funzioni spesso non hanno e, soprattutto, per la sua attitudine a una maggiore attenzione alla relazione. La comunicazione si fa carico di una serie di risposte integrate: dal setup dei comitati di crisi, al triage, alla redazione in velocità di comunicazioni per tutti i dipendenti o per le singole business unit. Non solo quindi communication crisis, ma vero e proprio crisis management. Dal blocco della forza lavoro sul campo al remote working (definito forse erroneamente smart working dalle direttive istituzionali) il passo è breve, in Italia e nel resto del mondo. Da un punto di vista di software l’adozione nei mesi precedenti di piattaforme tecnologiche come Teams e Sharepoint rende facile la transizione a una mo-
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dalità di lavoro remota, mentre dal punto di vista dei contenuti e della gestione delle comunicazioni gli strumenti chiave diventano i canali di comunicazione interna che erano stati lanciati nel 2019: intranet, newsletter, email periodiche di aggiornamento Covid-19, il social network interno Yammer, le riunioni globali tramite i sistemi di web-conference. Il comitato di crisi si riunisce quotidianamente per monitorare l’andamento della gestione e per definire le azioni da intraprendere. Vengono decise numerose attività di donazione a enti terzi, in particolare nel settore sanità, oltre a una campagna di fund-raising interna destinata a Caritas per aiutare le famiglie in difficoltà. Nel resto del mondo gradualmente le filiali passano alla modalità di lavoro remoto, seguendo il modello già messo in atto in Cina e in Italia. Con la creazione di community ad hoc sul social network interno viene incoraggiato uno scambio molto intenso di messaggi, contenuti, azioni di solidarietà. Il passaggio alla fase 2: #restart Alfasigma Da aprile si comincia a programmare il passaggio alla fase 2: un rientro parziale e progressivo negli uffici, durante il quale la funzione comunicazione viene chiamata all’elaborazione di una strategia e dei relativi strumenti, che accompagni la nuova normalità, per riportare le persone in azienda e comunicare internamente ed esternamente la ripartenza.
La sfida è quella di spostare le persone da una zona ormai divenuta di comfort, la casa e il lavoro da casa, verso gli uffici. La produttività dei mesi in lockdown è stata superiore alle attese, molti dipendenti hanno lavorato in maniera ancor piú intensa di prima, affrontando i disagi della convivenza forzata, con figli a casa da scuola e luoghi non pensati per il lavoro. Tramite un’indagine interna viene rilevata la voglia di tornare a lavorare insieme, nonostante la contestuale paura di rischiare un contagio e di dover affrontare disagi nell’organizzazione logistica familiare. Corporate communication presenta un piano integrato di engagement interno ed esterno, che prevede il coinvolgimento diretto dei dipendenti con diversi obiettivi: – informativo, per raccontare le misure precauzionali messe in atto; – formativo, per incoraggiare i dipendenti ad adottare comportamenti virtuosi e rispettosi; – di engagement, per ri-energizzare i colleghi e ripartire insieme, includendo anche la forza vendita temporaneamente in cassa integrazione; – di posizionamento esterno, per raccontare il ruolo che un’azienda come Alfasigma può avere nel contesto piú ampio, agendo in maniera responsabile e trasparente. Numerosi gli strumenti messi in campo per ognuno di questi obiettivi: dal vademecum #restart alle campagne di comunicazione interna; dai video dei dipendenti alle infografiche e alle social card per la campagna esterna #restart; dalle lettere di Presidente e Ceo alle Town hall, è enorme lo sforzo per ricreare le connessioni con chi ha vissuto lontano dal lavoro per due mesi. In questo contesto vengono anche lanciate una serie di iniziative di ascolto tra cui pulse survey digitali e raccolte di feedback. Per migliorare l’ascolto degli stakeholder interni piú giovani, tra febbraio e marzo Corporate communication e hr lanciano l’a_mab, acronimo che sta per Alfasigma Millennial Advisory Board: un gruppo costituito dai colleghi appartenenti alla generazione dei cosiddetti millennial. Obiettivo principale: offrire uno spazio di ascolto e inglobare nelle iniziative di engagement aspettative, linguaggi e strumenti piú vicini alle nuove generazioni.
Il ruolo centrale della comunicazione “It’s not about contents, it’s about relations”, soleva ripetere Dan Tisch, past-Chair di Global Alliance for pr & Communication e Ceo della principale agenzia canadese, Argyle Public Relationships. È l’idea guida che ha accompagnato l’intero processo di gestione della comunicazione in Alfasigma a partire dall’inizio dell’emergenza, ma in particolare da febbraio e dall’inizio dei lockdown nei diversi paesi. L’atomizzazione degli individui nella propria casa. Il rischio di costruire bolle di interazione all’interno del proprio team, isolandosi in compartimenti indipendenti. La lontananza dalla macchina del caffè, luogo di incontro fisico. La mancanza di spazi e occasioni di dialogo e di ascolto. Queste e altre minacce sono certamente state bilanciate dall’opportunità di proseguire le attività in remoto, per un certo periodo e con una certa efficienza ed efficacia. La comunicazione, in questo scenario di allontanamento dai luoghi dell’azienda, diventa centrale per riuscire a governare l’organizzazione, ascoltando e riportando all’interno le esigenze, irrorando con flussi comunicativi la struttura, ma anche mantenendo coinvolti i colleghi con iniziative in grado di fare appello ai valori e ai principi di comportamento che identificano l’azienda. Oltre a ciò la funzione comunicazione diventa centrale nel rappresentare esternamente l’organizzazione, e nel ricostruire attorno a sé il senso di appartenenza che l’individuo “solo” nella propria casa rischia di perdere. Il senso dell’organizzazione nel contesto esterno, ma anche il senso del lavoro del singolo nell’organizzazione e quindi il suo contributo alla società. L’integrazione della comunicazione interna ed esterna rende l’organizzazione piú comunicativa e, diffondendo al livello degli individui la cultura dell’ascolto e dell’interazione, può rappresentare uno dei fondamentali collanti e dei principali flussi di energia che mantengono attiva l’organizzazione dentro la nuova normalità. Perché il processo si alimenti continuamente, è cruciale una continua cura delle relazioni con i pubblici, attraverso la ricreazione di luoghi di scambio e confronto, al di là delle abituali attività di comunicazione ed engagement. ◊
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IL FUTURO DELLE RELAZIONI
a cura di Aprilanti all’inizio del 2020 un gruppo di professionisti delle relazioni pubbliche si è autoconvocato per riflettere sulle sfide e le emergenze che interrogano il mondo della comunicazione: nascevano gli Aprilanti, e dal magma di idee e sollecitazioni messe in circolazione in quel contesto ha preso forma anche Relazioni:. In questo spazio, una sorta di rubrica “autogestita”, gli Aprilanti raccontano le loro attività. A cominciare dai webinar organizzati durante i primi mesi di vita del gruppo, quando il lockdown imponeva forme di interazione a distanza. Dopo l’incontro fondativo, a metà aprile si è tenuto il primo webinar dedicato alla riflessione sul futuro della professione. Si partiva da una necessità che era anche un’indicazione di metodo: estrarre dalla propria esperienza riflessioni, spunti, concetti da mettere in comune con tutti i professionisti delle relazioni pubbliche, e non solo con loro. Uno degli obiettivi principali degli Aprilanti, infatti, era ed è quello di costruire ponti tra mondi diversi; di conseguenza, oltre ai comunicatori, i webinar hanno coinvolto docenti universitari, dirigenti d’azienda, imprenditori, intellettuali. Di seguito riportiamo brevissime sintesi degli interventi del primo webinar, che si è svolto, dopo i rinvii dovuti al lockdown, l’1 di aprile, tanto che per chi vi ha partecipato è diventata la riunione “Pesce d’aprile”. Sul canale YouTube Aprilanti Video si trova la versione integrale di tutti i webinar. Adriana Mavellia. Per impostare la riflessione sul futuro della professione occorre interrogarsi sulle ragioni che hanno reso difficile comprendere la complessità della globalizzazione, accolta senza un’adeguata analisi critica proprio da chi fa dell’esercizio del senso criti-
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co il perno della propria professione. Le classi dirigenti, infatti, i professionisti, le élite intellettuali hanno fatto mancare la propria capacità di analisi dei fenomeni sociali ed economici che hanno portato il mondo nelle condizioni attuali. Toni Muzi Falconi. I relatori pubblici non sono riusciti a far emergere una cultura delle relazioni, e talvolta sono stati i primi a non credere nella sistematizzazione della loro disciplina. Una delle cui premesse è la distinzione tra due figure che, seppure a volte congiunte, svolgono ruoli diversi: il relatore pubblico, che aiuta l’organizzazione a raggiungere gli obiettivi ascoltando e conoscendo la genesi dell’organizzazione stessa e del territorio in cui agisce; e il comunicatore, che si occupa di diffondere il messaggio e di portarlo piú efficacemente possibile all’audience definita. Obiettivo prioritario per relatori e comunicatori negli anni a venire sarà costruire il capitale relazionale sociale del territorio italiano, che per troppo tempo è stato trascurato. Omer Pignatti. La professione del relatore pubblico è stata investita negli ultimi anni dallo smarrimento di competenze specifiche e da una regressione del pensiero critico. Le tendenze omologanti della globalizzazione hanno cancellato soprattutto le competenze legate alla progettualità e alla creatività, e spesso reciso i legami con il territorio. Digitalizzazione e disintermediazione hanno creato una frattura generazionale: mentre i comunicatori esperti non hanno colto la portata della trasformazione, i piú giovani l’hanno cavalcata senza sviluppare un’autentica capacità critica. Per ricomporre la frattura occorre agire sui luoghi della formazione, stimolarli a superare le formule manua-
listiche, potenziare studi formativi che alzino la qualità culturale complessiva. La comunicazione deve recuperare valori e concetti ambiziosi, come la riflessione sul tempo, sull’estetica, sull’utopia, e passare dall’io al noi costruendo comunità di relazione. Giovanna Cosenza. La formazione universitaria e l’insegnamento delle relazioni pubbliche sono stati ispirati da docenti che avevano un’idea “verticale”, alta e profonda della disciplina; erano capaci di promuovere una visione ampia, e di favorire lo studio e l’analisi dei sistemi (come per esempio Umberto Eco all’Università di Bologna). I corsi di laurea delle origini in Italia erano pochi, e consentivano una formazione intensiva. Con la riforma universitaria si sono moltiplicati e frammentati, mettendo in crisi la visione verticale e l’integrazione dei saperi che dovrebbe costituire il fondamento culturale della professione. João Duarte. Il ruolo del comunicatore si è trasformato passando dalla funzione di consigliere dell’imprenditore a una dimensione puramente tecnico-manageriale. Il dna delle imprese si è modificato: allentato progressivamente il legame col territorio, venuta meno la figura dell’imprenditore “di visione” che cercava consulenti che lo aiutassero a vedere l’orizzonte, lo sviluppo delle imprese su scala globale ha finito col privilegiare il tecnicismo. Il relatore pubblico ha assunto quindi un profilo esecutivo, tecnico-manageriale, che aderiva ai cambiamenti della cultura aziendale. Francesca Folda. In tutto il mondo aumenta la disuguaglianza. Le economie in formazione degli stati emergenti ereditano il difetto delle economie tradizionali: provocano divario sociale. Allo stesso tempo, però, contengono un elemento di novità: riescono a pensare in termini di sostenibilità ambientale. Questa modalità di pensiero andrebbe cooptata e integrata in un “global mindset”, una mentalità globale che possa rendere l’interazione planetaria, fino a oggi verticale, un fenomeno orizzontale. Rosanna D’Antona. Le relazioni pubbliche sono già diventate parte di una conversazione piú estesa che apre la professione al confronto con realtà precedentemente impermeabili.
All’inizio del 2020 un gruppo di professionisti delle relazioni pubbliche si è autoconvocato per riflettere sulle sfide e le emergenze che interrogano il mondo della comunicazione: nascevano gli Aprilanti. La trasformazione di quello che era spesso un monologo in una forma di dialogo, o di discorso a piú voci di tutte le parti in causa (la politica, l’impresa, il sociale) è un fenomeno auspicabile che va incoraggiato, e che potrà essere favorito positivamente dalle nuove tecnologie. Massimo Tafi. La crisi globale prodotta dal Covid-19, che ha amplificato quella già in corso della globalizzazione, non produrrà grandi cambiamenti (è raro che trasformazioni significative derivino dai drammi collettivi), ma potrà indicare la necessità di percorrere strade nuove. Spostamenti magari non eclatanti ma capaci di incidere in profondità: forme di associazionismo piú forti, per esempio, potrebbero sostenere la professione e aiutarla a superare divisioni controproducenti. Francesco Rotolo. Lo storico Yuval Noah Harari ci ha messo in guardia sul “mondo che verrà”: anche se “la tempesta passerà” le decisioni prese durante questi mesi lasceranno segni duraturi. Per le nazioni e le loro popolazioni la partita si giocherà tra “people empowerment” e controllo totalitaristico. Quando le persone sono costrette a scegliere tra libertà e sicurezza, tra privacy e salute, le democrazie sono già a uno stadio critico e occorre aumentare ancora di piú il livello di consapevolezza delle persone. Le relazioni pubbliche possono dare un grande contributo in questa direzione. Per mettersi in contatto con gli Aprilanti ed essere informati sulle loro attività, si può scrivere all’indirizzo hello@aprilanti.org ◊
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ROGER
Roger sarà uno spazio dedicato all’analisi critica – recensione, discussione e valutazione – dei testi, manuali, studi sulla comunicazione che ci verranno segnalati, che avremo ricevuto o intercettato (Roger!). Con tanto di “pappi”, il simbolo di Relazioni:, assegnati come un punteggio, da uno a cinque. Perché il messaggio arrivi forte e chiaro!
di Elisabetta Gola e Mario Pireddu robert, roger, romeo. Chi sono queste persone? Il lettore che ha familiarità con l’immaginario legato alle missioni spaziali, al mondo militare o alle radiocomunicazioni riconoscerà probabilmente gli ultimi due nomi. Roger, per esempio, è diventato noto al grande pubblico grazie alle missioni Apollo della Nasa e ai film di guerra, come espressione utilizzata per comunicare la ricezione di un messaggio. Roger that è infatti l’equivalente di copy that, e la R iniziale sta per “received”, ricevuto. L’uso della R risale alle prime risposte via telegrafo in codice morse, come conferma della ricezione di una trasmissione, e si estese quasi naturalmente alle comunicazioni via radio. Le forze armate britanniche e americane iniziarono a utilizzare “Roger” tra la fine degli anni trenta e i primi anni quaranta del secolo scorso, insieme al restodelle espressioni che formavano l’alfabeto fonetico creato per evitare fraintendimenti – potenzialmente fatali – durante le comunicazioni bidirezionali. L’espressione Roger Wilco comunica, in modo ridondante, sia la ricezione che l’imminente esecuzione di un ordine (“will comply”). Durante la seconda guerra mondiale l’alfabeto fonetico utilizzato da inglesi e statunitensi comprendeva questi termini: Able, Baker, Charlie, Dog, Easy, Fox, George, How, Item, Jig, King, Love, Mike, Nan, Oboe, Peter, Queen, Roger, Sugar, Tare, Uncle, Victor, William, X-ray, Yoke, Zebra. Prima di allora è attestato l’uso di “Robert”, e dalla seconda metà degli anni cinquanta l’espressione utilizzata dai
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membri della Nato per comunicare la ricezione di un messaggio è diventata “Romeo”. Roger è però rimasto nell’immaginario condiviso e nello slang dei radioamatori, e continua a vivere anche nel nome della rubrica che state leggendo. Un nome dal sapore rétro, dunque, per uno spazio dedicato all’analisi critica – recensione e valutazione, per utilizzare termini altrettanto “fuori corso” – di testi, manuali, studi sulla comunicazione che ci verranno segnalati o che avremo intercettato (Roger!). Negli ultimi decenni l’attenzione dedicata alla comunicazione è cresciuta in modo esponenziale, grazie anche alla nascita di corsi di studio dedicati e al ruolo via via sempre piú centrale delle reti digitali e di internet. La pubblicistica sul tema vede sempre nuovi testi riempire gli scaffali delle librerie, analogiche e digitali, oltre che naturalmente canali dedicati sui social e offerte di vario tipo. Roger sarà una guida all’esistente, con uno sguardo alle ultime novità e approfondimenti su quel che di utile è disponibile da tempo. La storia della comunicazione è la storia degli esseri umani, dei nostri successi e delle nostre sconfitte, dei nostri piú grandi traguardi e delle nostre miserie inconfessabili: gli studi sui media e ora quelli sulle reti sono utili per capire chi siamo e come funzioniamo; qui le nostre preferenze andranno soprattutto alle analisi laiche e prive di nebbia morale. Nel proporvele e commentarle, ci prenderemo qualche libertà… d’altronde, lo sapete, Jolly Roger è anche il nome della bandiera dei pirati. ◊
L A S TA N Z A D I S A L LY
di Sally Swainston George Floyd’s future How inexhaustible the world is, always producing something new, something universally unexpected. Those untold millions can die for thousands of years from a great evil, whether cornered and alone on some deaf street, or by routinely recorded cattle truck. Then almost nothing, just another ordinary foul murder with society officially on hold in time of plague, and the planet ignites, unselfish crowds demolish the assumptions of ages, and a line is drawn across which there can be no retreating. An anniversary crowded with Jesse Owens, Muhammad Ali, Oscar Wilde, and the national liberation of Argentina, must now find one more space on the podium, and that will be at the front. No more back of the history bus.
Il futuro di George Floyd Quanto inesauribile è il mondo, sempre a produrre qualcosa di nuovo, qualcosa di universalmente inatteso. Loro, ignoti milioni possono crepare per migliaia d’anni per colpa di una grande malvagità, messi all’angolo e soli su qualche strada sorda, o su un carro bestiame regolarmente registrato. Poi quasi niente, solo un altro ordinario osceno omicidio con la società ufficialmente sospesa in tempi di peste, e il pianeta si accende, masse senza egoismo demoliscono gli assunti di sempre, e una linea è tracciata, oltre la quale non può esserci ritorno. Un anniversario affollato, con Jesse Owens, Muhammad Ali, Oscar Wilde e la liberazione della nazione argentina, deve ora trovare un altro spazio sul palco, e sarà lí davanti. Mai piú in fondo all’autobus della storia.
In un’intervista radiofonica il poeta inglese Simon Armitage, nominato Poet Laureate nel 2019, ha detto che la poesia può far accadere cose inaudite nella testa di chi legge, agendo anche a distanza di migliaia di chilometri, o di anni. La poesia, quindi, stabilisce relazioni superando i limiti spaziotemporali: ecco dunque spiegata la sua presenza su Relazioni:. Inauguriamo questa stanza con un testo che affronta in modo diretto, senza schermi, le tensioni piú scoperte del nostro tempo. Lo ha scritto Rip Bulkeley, nato a Devon nel 1941. Professore universitario, Bulkeley ha fondato nel 1999 il gruppo “Oxford Back Room Poets”. Nel 2003 ha pubblicato la raccolta War Times, e nel 2018 ha curato l’antologia Poems for Grenfell Tower, dedicata alle vittime dell’incendio dell’omonimo palazzo di Londra. La poesia che pubblichiamo fa parte di un progetto ideato da Carol Ann Duffy e dalla Manchester Writing School dell’Università di Manchester, che durante la crisi del coronavirus hanno invitato poeti di tutto il mondo a scrivere poesie attraverso le quali elaborare le conseguenze sociali ed esistenziali della pandemia e del lockdown.
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L A P E N U LT I M A PA R O L A
PRENDERSI CURA DI SÉ SIGNIFICA PRENDERSI CURA DEL MONDO
Una conversazione di Luca Sossella con Davide Rampello prima di avere chiaro che l’etica è quella parte della filosofia che studia il comportamento umano, quando ero un ragazzo mi è capitato di leggere una frase: “Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale”. Kant viene sempre raccontato come un filosofo complesso e incomprensibile, ma questa è una frase molto semplice: quello che vuoi fare deve valere come legge universale, altrimenti non farlo. La seconda formula dell’imperativo categorico esprime un passaggio dall’universalità alla visione soggettiva. Il filosofo dice: “Agisci in modo da trattare l’umanità, cosí nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come
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un fine, e mai come un mezzo”. Gli altri non sono cose, sono prima di tutto nostri simili e immediatamente dopo sono da noi differenti. Comprendere questo semplice concetto significa interpretare il rapporto di cura verso gli altri e di cura verso noi stessi. Solo se riusciremo a prenderci cura dell’altro conosceremo quella gioiosa libertà che consiste nel riconoscere la volontà dell’altro di prendersi cura di se stesso. Su questa premessa è iniziata la conversazione. L’altro giorno mentre cercavo di mettere in ordine vecchi quaderni, e per ordine intendo selezionare solo le parole necessarie e strappare quelle servili, ho trovato queste parole
Luca Sossella
di Paolo Fabbri pronunciate durante un convegno tanti anni fa: “La cura è quel qualcosa tra cognizione e passione che è seguito da un fare, si conclude nell’azione. Curarsi di qualcosa significa starci attenti, preoccuparsene, ma nello stesso tempo essere pronti a fare, passare all’azione. È quel nodo essenziale che, come sostenevano Aristotele e Descartes, lega la cognizione e la passione alle azioni”. Pensavo di cominciare da qui per tentare di rendere esplicito il tuo concetto di design della cura o arte della cura, che ne dici? Davide Rampello Dico che è molto giusto, ma bisogna fare un salto ulteriore, dare un nome a quel qualcosa e nel contempo superarlo perché non si tratta di una cosa, ma di un sentimento per l’altro. La cura è quel sentimento tra la cognizione e la passione, fra te stesso e l’altro; ma bisogna fare estrema attenzione a quel sentimento che può trasformare l’altro in dominato, anche quando il dominio da chi lo subisce sia accettato, ovvero taciuto. Bisogna innanzi tutto avere cura che l’altro non si senta sollevato dalla cura di sé, quindi avere cura non è una semplice attenzione verso qualcosa, ma un sentimento, un sentire, un ac-
consentire, un consenso, che altro non è che un sentire assieme. LS Ciò che manca non è proprio una comunità a cui riferirci? DR Nelle prime comunità cristiane e nelle successive generazioni, il grande dono e sentimento della fede creò comunità. Una fiducia incorruttibile trasformava gli animi degli umani, era il motore unanime del fare e del saper fare, che tutto rende concreto: perché le cose divengono cum-crete, concrete, se sono cum-credute, credute assieme. Bisogna conquistare la fiducia o la fede, che significa entrare nel tempo dell’azione ovvero uscire dal lamento. Questo non vuol dire che non dobbiamo interrogarci sulla nostra fragilità. Anzi, solo esponendo le debolezze, affidandoci alla testimonianza, alla memoria, alla sopportazione, durante la pandemia c’è stata un’offerta straordinaria da parte di medici, infermieri, operatori sanitari, sacerdoti e di tutte le anonime pluralità operose, nell’affrontare i dolori, gli affanni, le infelicità. Questa fragilità ha risvegliato nella collettività il valore attorno al quale una comunità si rigenera: il
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Agisci soltanto secondo quella massima che tu nello stesso tempo puoi volere che divenga una legge universale.
senso del sacro, che significa indagare nel mistero e nel limite dell’umano. LS Il sacro? Intendi che nel sacro trovano spazio gli argomenti irrazionali non riducibili ai principi fondamentali della ragione pratica, economica? DR Considerare il sacro vuol dire esaminare la propria coscienza, ma cos’è l’esame di coscienza? Non è altro che recuperare se stessi dopo la disattenzione del giorno. Tornare presenti a se stessi, secondo l’antico principio di Sant’Agostino: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è la visione, il presente del futuro l’attesa. Il sacrificio che l’umano compie sublima il valore della vita per ridonare agli altri esseri umani “l’amore rinnovato per la vita”. Le catastrofi lasciano nel cuore dei superstiti la volontà e il desiderio di rigenerarsi, di rinascere. Alcuni mantengono il patto e proseguono sulla via della ricostruzione virtuosa, altri dimenticano l’intesa e dominati dall’arroganza che li guida tentano di domina-
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re gli altri. Il compito dell’avere cura, disegnare (de-signum) la cura, è impedire questa infernale volontà di dominio. L’Italia dovrebbe riproporre un’antica lezione magistrale, i Viaggi in Italia; i taccuini e i diari degli aristocratici e dei ricchi borghesi che venivano d’oltralpe nelle nostre città e percorrevano le nostre campagne, coltivate come giardini, per completare e perfezionare la loro formazione, sono la testimonianza dell’apprezzamento e della valorizzazione di tutto quel capitale umano che in mille modi diversi ha progettato campagne, borghi, palazzi, teatri. Coltivando, cucinando, componendo, dipingendo, recitando, scoprendo visioni e terre sconosciute. La “patria dell’anima”, che Gogol tanto amava, deve ancora una volta rigenerare se stessa; vivere all’italiana dovrebbe diventare un altro paradigma, ritrovare l’arte della cura, creare il design della cura. LS La cura è intesa anche come sintesi dell’altruismo: soddisfare il proprio bisogno di affettività e di felicità nell’incontro con l’altro. DR Bisogna riabilitare la cura; Leonardo da Vinci è l’uomo curiosus per eccellenza in quanto è colui che si cura, che si prende cura del mondo prendendosi cura di se stesso. Guarda che è importante, per come interpreto io il problema, far comprendere la necessità di riconoscere l’interdipendenza dall’altro. E questo ragionamento ci obbliga e permette di pensare una diversa relazione con gli altri, con l’altro. La persona fragile, vulnerabile, è in grado di vedere l’urgenza della cura in quanto si riconosce a sua volta nella necessità di ricevere attenzione, ovvero uno sguardo che curi tutto ciò che lo circonda e sia spinto da qualcosa che è superiore anche alla responsabilità civica e politica, è oltre la preoccupazione della sostenibilità. Ci vuole la passione per l’altro, l’amore per l’altro. Attenzione, vale a dare senso, oltre che significato, la relazione con l’altro che non sia strumentale o sacrificale, ma sia riconoscere l’altro come una potenza che costituisce il proprio ascolto, altrimenti anche l’ambientalismo, il discorso sulla sostenibilità, senza l’ascolto, diventa giardinaggio. Il dramma della pandemia ci ha fatto dimenticare “le cose del mondo”, minac-
Marcus Maddox è un fotografo fine art che lavora tra Philadelphia e New York. La sua opera, guidata dall’empatia e dall’intuizione, si caratterizza per il lavoro sulla “naturalità” dei colori. Attratto dagli immaginari dell’intimità, cerca modi significativi e dinamici per rappresentare la condizione umana. Le sue opere sono state esposte negli Stati Uniti e in molti altri Paesi. Figures of Color è uno studio sulla pelle nera che esplora la relazione tra luce e oscurità. Le immagini presentano figure nere all'interno di ambienti colorati, creando una forma di astrazione fotografica basata su contrasti netti e colori piatti. Il progetto è ispirato al lavoro di artisti neri contemporanei come Kerry James Marshall, Amy Sherald, Jon Key, le cui figure hanno suggerito la possibilità di esplorare la pienezza del colore e il tentativo di rappresentare la lucente bellezza della pelle nera.
Nella pagina precedente: All the pains, all the tears, Nashville, 2017 In questa pagina: Sosa no. 5, New York, 2019
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Awaken my friend, New York, 2019
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La persona fragile, vulnerabile, è in grado di vedere l’urgenza della cura in quanto si riconosce a sua volta nella necessità di ricevere attenzione, ovvero uno sguardo che curi tutto ciò che la circonda.
ciando le nostre notti con la paura, mentre la risonanza infausta dei bollettini quotidiani dava notizia del pianto del Paese; nei nostri cellulari e computer si moltiplicavano storie di lagune immobili, e nelle vigne e negli orti arrivavano famiglie di cinghiali. Uno stupore infantile e commosso testimoniava la necessità del riequilibrio rapido del pianeta. LS Le nozioni connesse di responsabilità e cura assegnano una potenzialità nuova all’azione individuale, al gesto attivo del soggetto slegato dalla comunità: colui che lega i due termini, colui che partecipa alla cura responsabile, agisce dentro la catastrofe della disuguaglianza o della pandemia, poco cambia, fuori dall’abitudine. Fuori dalla schiavitú del senso comune, la pandemia ci insegna il senso della cittadinanza terrestre, ci prepara a un’era planetaria di inter-solidarietà, ci fa comprendere che l’umanità intera partecipa a una comunità di destino. È necessario formare operatori di partecipazione, tessitori sociali che ci permettano
di interconnettere le discipline, di cogliere i legami fra i diversi saperi affrontando la spirale di dequalificazione, la caduta di capacità ideali e professionali di coloro che devono prendere decisioni politiche, non tecniche: politiche. DR L’impellente necessità deve essere di fatto la cosciente determinazione di rinascere. Superare il logoramento passivo dell’attrito e proseguire prendendo un’altra via: essere il frutto di un patto d’amore. Ricomporre le nostre rovine, ricomporre l’orchestra dei sentimenti gentili che abbiamo sopraffatto con la vanità: attenzione, ascolto e cura delle cose. Bisogna riappropriarsi della cura come attenzione per la comunità, riconquistare quel “senso del tutto” che nell’umanesimo motivava la “curiosità” di mercanti, artisti, uomini di scienza e d’arme, “curiosi” del tutto che si prendevano “cura” di ogni cosa. La sicumera dei poteri, l’ottundimento delle ideologie, l’indifferenza, l’ingiustizia, lo sfruttamento e la violenza sono il costante “lato oscuro” dell’umanità. Tutto questo oggi è moltiplicato dall’epica tragica delle migrazioni, dal dissennato depauperamento delle risorse, dalla corruzione delle acque e dell’atmosfera, dall’estinzione delle biodiversità, e ora dall’avvelenata incertezza del nostro quotidiano. Dobbiamo rigenerare il nostro lessico per dare nuova vita alle cose, parole inesatte non possono concludersi che in una conoscenza fuorviante. Le parole che compongono il nostro linguaggio quotidiano sono troppo imprecise nel senso e soprattutto nel sentimento. La precisione e la chiarezza sono generate dal prendere coscienza, come si diceva una volta, che siamo obbligati alla nostra ricostruzione. E la rinascita si concretizzerà se le comunità di imprenditori, progettisti, artigiani, commercianti, formatori, le comunità tutte dei borghi, dei campanili d’Italia non cesseranno, nonostante tutto, di “progettare”. È di tutte queste comunità il talento della creatività, dell’ideazione, del fare e del saper realizzare: vale a dire il design. È antica e radicata nella civiltà latina la cultura del progetto. Una nuova politica economica? L’economia dell’ospitalità non è l’economia delle relazioni? ◊ LS
DR
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U LT I M O T R AT T O
di Giona Maiarelli IL 26 GIUGNO 2020 è morto Milton Glaser, uno dei designer piú influenti del XX secolo. Per lui le riviste erano organizzazioni complesse e l’art director un alleato di chi le dirige. Prima di lui ci furono altri formidabili art director editoriali a New York: Lieberman a “Vogue”, Brodovitch e Wolf a “Harper’s Baazar”, Lois a “Esquire”, ma erano star che usavano le copertine come la tela di un artista, non partecipavano all'elaborazione tumultuosa dentro caotiche notti, fumo di sigari e take-away cinese. Ho avuto fortuna: ho studiato e poi lavorato con lui dal 1984 al 1987, prima art director della rivista “Adweek” e poi designer di progetti editoriali presso WBMG, lo studio di Glaser e Bernard. Ai piú giovani sem-
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brava un sogno lavorare con il grafico piú famoso su progetti internazionali. Ero uno di loro, e là fuori c’era New York, progettavamo in una bottega di un maestro rinascimentale generoso e paziente che ampliava il nostro orizzonte. Era affascinato dalla dinamica tra le parole e le immagini, e le soluzioni stavano tra l’espressione e l’oggettività, tra la familiarità e la novità: il logo I NY è l’esempio piú noto. Stavamo lavorando a un inserto mensile per “L’Express” e pensando a chi legge mi disse: la reazione non sia né sí, né no, ma wow. ◊ La prima copertina di “New York” (foto di Jay Maisel) una rivista, fra più di cento che ha progettato, uscita ininterrottamente dal 1968.