HISTORICAL ATLAS OF CHARITY

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AL SERVIZIO DEI MALATI

Nel XXI secolo gli Ospedalieri mantengono il carisma del loro fondatore negli ospedali e nelle cliniche in cui si occupano principalmente delle persone senza tetto, come espressione della dimensione della gratuità; dei malati in fase terminale, accolti e assistiti nei centri di cure palliative; dei malati di AIDS; dei tossicodipendenti; degli immigrati, degli anziani e delle persone in condizioni di infermità e di disabilità croniche. Continuano dunque a vivere il Vangelo della misericordia là dove esiste povertà, malattia e sofferenza32. Alcuni anni più tardi troviamo Camillo de Lellis, che patì per buona parte della vita il dolore e la preoccupazione causati da una piaga maligna e incurabile a un piede, e fu testimone della disastrosa situazione della maggioranza degli ospedali romani, che si trovavano con pochi mezzi e in mano a persone senza la vocazione o la voglia di sopportare le miserie dei malati che avevano in cura. Tentò di convincere i responsabili che «a chi soffre e prova dolore non si può chiedere pazienza, bensì offrirgliela», ma non ebbe molto successo. Risultava molto difficile chiedere professionalità a chi non era preparato, mentre pretendere la carità è impossibile se essa non proviene dall’amore per Dio, se non è ispirata dal Signore. A un certo punto della sua vita, il 2 febbraio 1575, pentito delle malefatte giovanili, convertitosi a Dio, Padre di tutte le creature, scopre nel profondo del proprio animo l’identificazione di Cristo con i malati. «I poveri malati sono la pupilla e il cuore di Dio, e ciò che facciamo a questi miseri lo facciamo a Dio stesso», scrisse ai suoi religiosi; agì di conseguenza per tutta la vita. Resosi conto che spesso i comportamenti degli addetti, non derivando da vero amore ma solo dalla paga e dalla noia, non corrispondevano agli obblighi più elementari, ritenne indispensabile riunire uomini pietosi, capaci di commuoversi alla vista di un fratello ferito, ben decisi a dedicarsi ai più poveri dei poveri, quelli che non potevano contare nemmeno sul proprio corpo. Troviamo di nuovo in san Camillo la manifestazione tangibile del fatto che la carità non consiste di parole e teorie ma di fatti, di azioni, di dedizione personale – la formula «carità come azione» compare decine di volte nelle prime Regole – in modo che la vita si riduce alla carità, costantemente in cammino, dedizione generosa a quanti piangono per la loro miseria, che non conserva nulla per sé. Questa consegna e il 150

servizio ai malati devono compiersi «con l’affetto che prova una madre amorosa quando il suo unico figlio è malato». Bella espressione, usata per la prima volta dagli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, che mette in relazione l’amore generoso, privo di contropartite e costante di una madre con l’amore di Dio. Viene usata anche da san Vincenzo de’ Paoli quando si rivolge alle Figlie della Carità: «La vostra premura principale deve essere quella di servire i poveri malati con molta dolcezza e cordialità, compatendo i loro mali, ascoltando i loro lamenti come fa una buona madre; perché essi vi considerano come nutrici e come persone inviate da Dio per assisterli». Il protagonista unico è il malato, la priorità assoluta spetta a lui: «Ciò che più deve interessare ai religiosi sono i problemi dei malati, recarsi là dove si trova il dolore, la peste, la miseria». A Napoli cinque religiosi, chiamati dalle autorità militari, furono inviati su alcune navi spagnole in cui si trovavano soldati in quarantena, malati di tifo petecchiale o «castrense». I religiosi ubbidirono «sapendo con certezza di andare incontro a morte sicura per amore di Dio, e rendendo grazie alla santa obbedienza per averli giudicati degni di ciò». Nel 1590 la peste devastò la città di Roma e troncò la vita di 30.000 esseri umani. Coloro che assistevano gli infermi si moltiplicarono e stettero presenti negli ospedali, nelle case private e nelle strade, con carità, umiltà, mansuetudine e compassione. Venticinque giovani religiosi diedero la vita in questa occasione. Leggendo le cronache di questo e di altri trionfi, ricordiamo le parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Giovanni 15,13). Per trent’anni san Camillo passò buona parte del suo tempo all’ospedale di Santo Spirito in Sassia, un complesso medievale ricostruito da Sisto IV in splendido stile rinascimentale. Ancora oggi vi si può ammirare l’immensa galleria di 120 metri di lunghezza per 20 di larghezza e 30 d’altezza, lungo la quale si allineavano i letti dei malati, talvolta dotati di baldacchino. Al centro, sotto una cupola ottagonale, un altare e un bellissimo tabernacolo del Palladio. In un linguaggio estetico straordinario si traduceva la pagina evangelica, con Cristo circondato da trecento infermi, Cristo al centro della sofferenza umana. Probabilmente il luogo non era il più adatto in cui collocare l’altare e distribuire i sacramenti, ma non c’è dubbio che

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4. Pierre Subleyras, Camillo de Lellis salva dallo straripamento del Tevere gli ammalati dell’ospedale di Santo Spirito. Olio su tela, XVIII secolo. Museo di Roma. 5-6. La torre centrale ottagonale e l’imponente corsia Sistina del braccio sud dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia, Roma.

Pagina seguente: 7. Chiostro interno dell’ospedale della «Ca’ Granda», Milano, progettato da Filarete, dove i Camilliani fondarono una casa dopo quelle di Roma e Napoli.

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