Azione del 6 febbraio 2023

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SOCIETÀ

Crisi climatica: il professor Mercalli non ha perso tutte le speranze, ma si salverà chi sa

Pagine 4-5

TEMPO LIBERO

Il Desert Endurance Motorsport è il primo team svizzero a tagliare il traguardo della Dakar Classic

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ATTUALITÀ

La Cina è in crisi economica, politica e geopolitica così cambia strategia, anche verso gli USA

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Sopravvivere, anche all’inferno

edizione 06

MONDO MIGROS

Pagine 6 – 7

CULTURA

Alla Fondazione Prada la mostra Recycling Beauty riflette sull’attualità degli oggetti antichi

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I gol maledetti di Aaron Ramsey e la politica

Carlo Silini

Quando si avvicina un appuntamento elettorale mi tornano in mente le «correlazioni spurie», un’espressione utilizzata per indicare due fenomeni statisticamente correlati tra loro, pur non essendo legati da un rapporto causa-effetto. Qualche esempio chiarisce perfettamente il concetto. Lo prendiamo in prestito da un articolo di Roberto Fini, già presidente per l’Italia dell’Associazione Europea per l’Educazione Economica (lo trovate sul sito www.aeeeitalia.it).

Qui apprendiamo che «sembra esistere una relazione diretta fra numero di stormi di rondini in cielo e numero di matrimoni celebrati. Cioè: tanto maggiore è la quantità di rondini, tante più coppie convoleranno a nozze. (…) Dunque, potremmo ipotizzare che se per qualche evento naturale le rondini smettessero di solcare i nostri cieli, nessuna coppia deciderebbe di sposarsi». È vero che più rondini ci sono in cielo, più gente si sposa! Ma è sbagliato pensare che il primo fatto causi il secondo. In realtà, come osserva Fini, «le rondini compaiono più numerose nei nostri cieli in primavera ed in autun-

no», cioè nelle stagioni scelte da molte coppie per sposarsi.

Esilarante l’esempio di correlazione spuria che riguarda il centrocampista Aaron Ramsey. Quando il calciatore militava nell’Arsenal (2009-2014), qualcuno ha notato che ogni volta che segnava un gol, nel giro di pochissimo tempo moriva un VIP. Così, nella partita contro il Manchester United del primo maggio 2011 lui segnava e il giorno dopo moriva Osama Bin Laden; in quella contro il Tottenham del 2 ottobre 2011 faceva gol e tre giorni dopo spirava Steve Jobs. L’11 febbraio del 2012 andava in gol contro il Sunderland e il giorno stesso moriva Whitney Houston… Il trucco è facile e può essere applicato a qualsiasi funambolo del pallone: si prendono le date dei gol e si verifica chi è morto nel giro di qualche giorno.

Succede anche a noi. Diversi anni fa notai che quando un mio determinato collega andava a un concerto di musica classica con un certo suo amico, succedeva un disastro epico: l’11 settembre, la strage al Parlamento di Zugo, la mor-

te di Lady Diana… Sono arrivato a pregarlo di distruggere il biglietto per una serata musicale a Lucerna col suo solito amico. Per il bene del pianeta, ovviamente, non perché fossi diventato superstizioso nel frattempo.

Ma c’è chi riesce ad utilizzare le correlazioni spurie a proprio vantaggio. Tipicamente i politici, o almeno alcuni di loro. Il neonato Governo italiano ha rivendicato come un proprio successo la cattura del mafioso Matteo Messina Denaro. Certo, il boss è stato preso mentre alla guida dell’Esecutivo a Roma c’era Giorgia Meloni. Ma il merito della cattura è interamente delle forze dell’ordine che per trent’anni hanno lavorato per questo risultato, non di chi sedeva da un quarto d’ora sulla poltrona di Palazzo Chigi. Viceversa, succede che i governanti, quando si trovano a dover giustificare misure impopolari, attribuiscano la colpa di queste ultime alla cattiva gestione dei governanti precedenti. Così: diminuisce il tasso di inflazione, merito mio. Cresce il numero dei disoccupati, colpa della precedente amministrazione… Lo stesso avviene, alla

rovescia, dai ranghi dell’opposizione: da quando la maggioranza è in mano al partito nemico la corruzione dilaga, i furti con scasso s’impennano, i contagi da malattie rare pure.

Quest’anno si rinnoveranno le autorità in sei cantoni, Ticino incluso. In ottobre arriveranno le elezioni federali. Prepariamoci mentalmente a una pioggia di correlazioni spurie del tipo: votatemi, da quando ci sono io è tornato l’Eden in terra; non votate i miei avversari: quando ci sono loro l’universo implode.

Consigli? Se non avete tempo o modo di verificare le affermazioni tonitruanti dei candidati, non dimenticate che l’accostamento temporale di due fenomeni non significa automaticamente che il primo sia la causa del secondo, nel bene e nel male. E che non esistono mai uomini della Provvidenza, ma al massimo politiche provvidenziali.

Date più retta ai candidati che parlano dei loro programmi, che a quelli che si autoincensano di continuo vantando mirabolanti successi montati a tavolino, utilizzando astutamente l’antica e infallibile arte delle corrispondenze spurie.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Francesca Mannocchi Francesca Mannocchi

SOCIETÀ

Giovani con problematiche multiple La Piattaforma nazionale contro la povertà vuole sostenere maggiormente i ragazzi con gravi difficoltà nel passaggio dalla scuola dell’obbligo alla formazione professionale

Anziani, consigli contro le truffe Cinque associazioni attive a favore della terza e quarta età in collaborazione con la Polizia cantonale organizzano una serie di incontri informativi sulla sicurezza

Né buona né cattiva, ma utile

Ambiente ◆ La Natura nei cambiamenti climatici in verità è la nostra miglior alleata

Di fronte a un’inondazione, al collasso disastroso di una montagna, a una valanga che fa vittime, a un ciclone che distrugge case e interi villaggi, di fronte alle cosiddette catastrofi naturali, in poche parole, siamo portati a reagire con una certa rabbia e parliamo di Natura nemica. Ci rendiamo però anche conto che la Natura non fa che reagire a sua volta alle situazioni mutevoli dello stato del mondo. Lo capiamo bene soprattutto di questi tempi, con i cambiamenti climatici: una prolungata siccità in una regione particolare, che magari è già a rischio per la sua posizione geografica, ad esempio, può innescare incendi distruttivi, e a volte incontrollabili. Ma la natura si distrugge e si riforma, sa rigenerarsi.

Recenti studi dimostrano che il diradamento di liane e rattan raddoppia la crescita della biomassa nella foresta

La natura non è né buona né cattiva, di certo non è nemica: è la Natura. Quanto all’umanità, per centinaia di anni il nostro sviluppo è avanzato a spese della natura. Solo di recente, proprio con i cambiamenti climatici, ci siamo accorti che proteggere un ambiente naturale vuol dire proteggere noi stessi e che spesso siamo noi la causa dei nostri malanni. Dobbiamo adattarci a una natura che cambia. Se ci inventiamo modelli di vita auto-portanti su vasta scala e li applichiamo, adattandoli alle diverse realtà locali, possiamo migliorare le cose. La stessa natura ci offre suggerimenti e lezioni su come proteggerla, mentre gli agenti atmosferici agiscono, il clima si guasta e la fauna selvatica si estingue. Tutto è concatenato, non si può sfuggire da questa realtà.

È accertato che una persona su tre al mondo manchi di un accesso sicuro all’acqua potabile, e quest’acqua ci arriva primariamente dalle sorgenti naturali. Più di un miliardo di persone conta sulle foreste per la propria sussistenza, eppure in certi luoghi c’è chi le distrugge. Il 75% dei poveri del mondo fa affidamento solamente sull’agricoltura per il proprio sostentamento, ma l’agricoltura dipende dalla natura: dalla bontà dei suoli, dal rifornimento d’acqua, dall’impollinazione degli insetti.

Nel 2015 ben 193 nazioni hanno sottoscritto l’Agenda 2030 per combattere l’ineguaglianza, porre fine alla povertà, preservare la salute, proteggere l’ambiente, fronteggiare il cambiamento climatico. C’è un solo elemento che sta alla base di quasi tutti questi obiettivi ed è la natura. Senza ecosistemi sani, sia marini sia ter-

restri, non si possono raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030. Quindi la natura non è il problema, è la soluzione. È la nostra amica se sappiamo rispettarla.

Le iniziative e le ricerche nel mondo intese a promuovere la convivenza tra l’uomo e la natura con beneficio per entrambi sono innumerevoli. Le conducono scienziati sostenuti soprattutto da organizzazioni non governative, fondazioni, centri universitari, e dove possibile anche con contributi dei governi. Interventi anche molto localizzati, a volte curiosi. Per esempio è successo che nelle isole Hawaii, dove il consumo di pesce è una tradizionale ragione di vita, sia stato fatto un errore, corretto poi in maniera drastica e singolare.

Con lo sviluppo del turismo e per soddisfare la grande richiesta, negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso il governo hawaiano importò numerose varietà di pesci. Tra queste c’era il piccolo bluestripe snapper, della specie Lutjanus. È molto conosciuto e molto bello, chiunque si sia immerso vicino a una barriera corallina l’ha visto. È giallo brillante sui due

terzi del corpo, ha la pancia bianca e sui due lati, per tutta la lunghezza del dorso, ha quattro strisce blu. Vive dappertutto e mangia di tutto: pesciolini, polipetti, piccoli crostacei, gamberetti, alghe. Vive in grandi gruppi e si riproduce facilmente. Inutile dire che alle Hawaii diventò una specie invasiva con grave danno e perdita per le specie autoctone, tanto più che all’inizio non era considerato buono da mangiare per cui lo lasciavano stare: quando lo pescavano per caso lo buttavano oppure lo usavano come esca per prendere altri pesci. La soluzione Hawaiana per ridurre la pressione di questa specie è però passata proprio dalla tavola. Ristoranti alla moda hanno lanciato negli ultimi anni coloratissimi piatti a base di «azzannatore striato». Risultato: tutti lo servono, tutti lo mangiano, il suo numero si è ridotto, ritornano le specie autoctone e la situazione si sta riequilibrando.

Un’altra soluzione drastica e apparentemente contraddittoria tocca invece la foresta amazzonica. Anche lì ci sono specie invasive, come varie specie di palme rampicanti conosciute

col nome di rattan, e le liane, che crescono più in fretta di alberi e arbusti, competono con esse per la luce e il nutrimento e si arrampicano dovunque. La deforestazione operata dall’uomo ha fatto sì che questi arrampicatori siano diventati abbondantissimi: infatti dove si disbosca senza criterio crescono per primi e rallentano la crescita delle altre specie native. Di fatto, sebbene le liane e il rattan siano una parte naturale dell’ecosistema, possono cominciare a superare le altre piante nella foresta degradata. Il guaio è che queste piante parassite non sono in grado di immagazzinare altrettanta anidride carbonica quanta gli alberi dai quali hanno rubato l’energia per crescere.

Recenti studi hanno dimostrato che il diradamento delle liane e del rattan raddoppia la crescita della biomassa nella foresta, ciò che rende il taglio di questi arrampicatori la migliore strategia per rigenerare la foresta e aumentare così la sua capacità di assorbire il CO2. Può sembrare paradossale, ma è così: per rianimare la foresta è necessario tagliare la foresta, o meglio una parte di essa e con un

criterio scientifico che non danneggi la biodiversità. In certe zone si sta già operando in questo senso.

La conoscenza dello stato delle cose e delle dinamiche naturali porta a scegliere le strategie migliori per proteggere l’ambiente e al tempo stesso vivere meglio. Nel campo agroalimentare operare in armonia con la natura, quando questa è mutevole, può essere vitale. Si sa che il Centro America è un grande produttore di caffè. Ebbene è successo che alcune zone degli Stati di Oaxaca e Chiapas, in Messico, abbiano sofferto dei cambiamenti climatici e del conseguente inaridimento dei suoli. Le piantagioni di caffè non davano più un guadagno sufficiente ai contadini, che si preparavano a spostarsi altrove. Con l’aiuto di organizzazioni esterne si è ridotta e migliorata qualitativamente la piantagione, aggiungendo però sullo stesso terreno la coltivazione di agrumi, come il lime, resistenti alle nuove condizioni climatiche, dando agli agricoltori un’entrata supplementare durante l’anno. Risultato: si è bloccata una possibile emigrazione interna con soddisfazione di tutti.

● ◆ 4 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
Pagina 9 Pagina 8 Viti di rattan attorcigliate. (Alpha) Loris Fedele

Ora il disastro è proprio dietro l’angolo

COP ◆ La situazione della Terra peggiora di giorno in giorno; intervista al professor Luca Mercalli, che da 30 anni è in prima linea per sensibilizzare e informare sul riscaldamento globale

Vi siete mai chiesti perché nel 2022 ci sono state due COP: la COP 27 in Egitto (Sharm el-Sheikh, dal 6 al 18 novembre, ma chiusasi il giorno 20) e la COP 15 in Canada (Montreal, dal 7 al 19 dicembre)? Che cos’hanno in comune queste COP e, soprattutto, perché hanno il medesimo acronimo, ma un numero differente? Partiamo dal numero più basso, il 15. Verrebbe da dire che la COP 15 sia più giovane della COP 27 e invece… invece no. La COP 15 – più precisamente la CBD, dall’inglese Convention on Biological Diversity – nasce un mese prima della COP più famosa, quella che riunisce i Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC). Entrambe le COP (acronimo di Conference of Parties) nascono nel 1992, ma quella che si occupa della biodiversità è stata adottata a Nairobi, in Kenya, il 22 maggio, mentre la COP più famosa nasce a Rio de Janeiro tra il 3 e il 14 giugno. È infatti proprio a Rio che si svolge la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente che passerà alla storia come «Summit della terra». La Convenzione sulla diversità biologica è stata ratificata ad oggi da 196 Paesi; 197, invece, quelli che hanno sottoscritto la Convenzione relativa ai cambiamenti climatici.

Ne abbiamo parlato con il professor Luca Mercalli, climatologo, meteorologo e divulgatore scientifico che già nel 2009 proponeva al grande pubblico il saggio Che tempo che farà. Breve storia del clima con uno sguardo al futuro fornendo esempi inequivocabili su come e quanto il nostro pianeta si stava sgretolando.

Sono passati, da quelle prime Convenzioni, 30 anni…

Trent’anni nei quali abbiamo sentito proclami, promesse, si sono fissati obiettivi e stilati protocolli. Tutto bene. Il problema però resta. Anzi, si è acuito. Un dato su tutti – lo zero termico a oltre 5000 metri proprio sulle Alpi svizzere il 25 luglio del 2022 – ci dice che la situazione, sul pianeta terra è addirittura peggiorata.

Il suo precedente saggio, nel 2019 è stato riveduto e reso ancor più esplicito: Il clima che cambia – Perché il riscaldamento globale è un problema vero e come fare per fermarlo (BUR), segno che la situazione è in continua evoluzione.

Certo, e dovrei aggiornare ulteriormente i dati (ndr, sorride) ma la sostanza non cambia. Siamo sull’orlo di un precipizio e sembriamo ignorarlo. Sì, a Montreal, i Paesi membri hanno raggiunto un accordo in 23 punti per salvaguardare la biodiversità del pianeta – biodiversità che, non dimentichiamolo, è in pericolo anche a causa dei cambiamenti climatici –, ma finché non vedrò un planisfero nel quale viene evidenziato quel 30 per cento di zone nelle quali si è deciso di proteggere la bio-

diversità, resterò scettico e, soprattutto, preoccupato.

Preoccupato per il pianeta o perché gli accordi raggiunti non sono vincolanti?

Guardi, anche gli accordi raggiunti a Rio nel 1992 non erano vincolanti e si è dovuta attendere la 21esima COP, quella di Parigi del 2015, per giungere a un accordo giuridicamente vincolante che impegnasse i Paesi firmatari a limitare ben al di sotto dei 2 gradi Celsius il riscaldamento medio globale rispetto al periodo preindustriale, puntando a un aumento massimo della temperatura pari a 1,5 gradi Celsius. Il risultato lo conosciamo tutti: siamo nel 2023 e l’obiettivo, fissato per il dopo 2020, non è stato raggiunto. C’è chi è soddisfatto dei risultati raggiunti a Montreal sotto la presidenza della Cina. Ho sentito che oggi siamo tutti consapevoli dell’importante ruolo della biodiversità. Bene. Mi chiedo però dove vada a finire questa consapevolezza se poi nella maggior parte dei casi gli umani continuano a comportarsi come se nulla fosse.

Si percepisce una certa disillusione nelle sue parole. Disillusione non è il termine corretto. Personalmente non mi sono mai illuso. Il mio approccio ai fatti si fonda sul principio «causa-effetto». Ora, sono 30 anni che i climatologi di tutto il mondo – e io con loro – sostengono che le attività umane svolte in modo bulimico e incontrollato hanno prodotto quei cambiamenti climatici che ci stanno portando al disastro planetario. E non solo i climatologi. A Montreal, in occasione della COP 15, il segretario generale delle Nazioni Unite – Antonio Guterres – ha chiesto un «patto di pace con la natura», indispensabile in quanto l’umanità è diventata un’«arma di estinzione di massa». Risultato? Un accordo in 23 punti non vincolanti. Insomma, un buon proposito che vedrà alcuni Paesi impegnarsi e altri rimandare a tempi migliori l’impegno con le conseguenze che possiamo immaginare. Poi, senza immaginare, basterebbe ricordare quanto accaduto a Casamicciola, sull’isola di Ischia, il 26 novembre dell’anno scorso o il Capodanno più caldo della storia sull’Europa settentrionale o, ancora, lo studio della statunitense Carnegie Mellon University, pubblicato su «Science» a inizio 2023, che ci dice che due ghiacciai su tre potrebbero scomparire entro il 2100.

Capisco, ma… siamo sempre in zona analisi. Soluzioni possibili e praticabili?

Due, sostanzialmente, gli attori della possibile – seppur tardiva – inversione di marcia: gli Stati e i cittadini. Gli Stati, ad esempio, dovrebbero iniziare ad adottare politiche chiare in materia di protezione ambientale. Un esempio? Definire la capacità di carico dei territori, ovvero la loro sostenibilità ecologica

che mette insieme le risorse naturali disponibili, la popolazione e la produzione di scarti che il territorio può sopportare, che sono quantità non infinite, ma limitate. Un atto che penso di poter riassumere in una semplice regola riguardante per esempio il suolo: si ricostruisce e si ristruttura solo quello che già c’è ed è attualmente abbandonato o trascurato. Non si fa del nuovo cemento, nemmeno un metro quadro in più. I cittadini dovrebbero invece individuare metodi per ridurre il proprio personale carico ambientale. Un gesto semplice potrebbe essere quello di mangiare meno carne e tornare a consumare prodotti stagionali delle proprie aree geografiche. Se abito in Lombardia in autunno acquisto uva, mele e pere e non mango, papaya o ananas. E poi risparmio energetico e pannelli solari.

Lo dice perché lei, a Vazon, in Alta Val di Susa, come racconta nel libro Salire in montagna oltre ad aver

ristrutturato in modo ecocompatibile un’antica grangia ha anche iniziato a occuparsi dell’orto? Lo dico perché penso che i principi dell’agroecologia – che è un’importante presa di coscienza della limitatezza delle risorse naturali e della necessità di ridurre sempre di più la dipendenza del nostro modello economico-sociale dall’apporto dei combustibili fossili – siano praticabili da molti cittadini e costituiscono una palestra fondamentale verso la preparazione all’autosufficienza alimentare locale. Le posso assicurare che patate, piselli e cavoli che crescono nell’orto di Vazon sono buonissimi e quest’anno, con le temperature tropicali che abbiamo avuto sulle Alpi, sono maturati perfino i pomodori (il che potrebbe non essere una buona notizia).

Quindi agroecologia e non altre forme di sussistenza fai da te.

Agroecologia perché è interdisciplinare e si fonda sullo studio del

rapporto fra coltivazioni agricole e ambiente utilizzando il metodo scientifico e non strane pratiche esoteriche che spesso inquinano altri metodi che vanno di moda. Perché produttività, stabilità, sostenibilità ed equità sono le linee guida di questa disciplina (insegnata anche in diverse università) che considera i processi agricoli in un dato ambiente e con caratteristiche specifiche. Torno, per esemplificare, all’orto di Vazon. È ben chiaro che la coltivazione delle patate lì, a 1650 metri sul livello del mare, ha processi differenti rispetto a quelli adottati per coltivare le patate in pianura. L’agroecologia ne tiene conto ed evita dunque di imporre sistemi univoci per situazioni differenti. È anche per questo che penso che ogni cittadino possa contribuire, nel suo piccolo, a modificare questa folle corsa verso il disastro, ma bisogna pretendere meno dalla natura, non possiamo sfruttarla fino all’osso.

Riusciremo a evitarlo (il disastro)?

Lo spero. Io mi sono dato ancora dieci anni di tempo. Li spenderò per ricordare a tutti che sì, ce la possiamo fare. Basta volerlo. Si smette di indignarsi e preoccuparsi e ci si rimbocca le maniche: mettendo pannelli solari sul tetto, coltivando un orto, certo, ma anche, più semplicemente, insegnando ai propri figli che, a scuola, ci si può andare anche a piedi. L’ho fatto anche raccontando la crisi climatica in un fumetto per i giovani: Il tuo clima (edizioni TataiLab). Se alla scadenza del decennio non vedrò risultati nella politica e nella società, mi concentrerò soltanto sulla mia salvezza personale… Si salvi chi sa!

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 5
Il professor Luca Mercalli; sotto: l’immagine di copertina del fumetto ll tuo clima

Mario Irminger è il nuovo presidente della direzione generale della FCM

Info Migros ◆ Nella riunione del 2 febbraio 2023 l’amministrazione della Federazione delle cooperative Migros (FCM) lo ha nominato successore di Fabrice Zumbrunnen

Il 57enne Mario Irminger è dal 2011 CEO di Denner, affiliata della Migros, e in questi anni ha contribuito a fare evolvere con successo la catena di discount svizzera. In precedenza ha lavorato inizialmente presso EY per otto anni come revisore dei conti, poi ha trascorso dodici anni come direttore finanziario di Heineken Svizzera. Nel 2010 Mario Irminger è diventato direttore finanziario di Denner e un anno dopo è stato nominato CEO.

Il 57enne è CEO dell’affiliata Denner che in questi anni ha fatto evolvere con successo

«Siamo molto lieti di avere avuto l’opportunità di nominare come nuovo presidente della direzione generale FCM un profondo conoscitore del commercio al dettaglio svizzero in possesso di una spiccata predisposizione nei confronti delle esigenze della clientela, il quale conosce alla perfezione anche la cultura della Migros», afferma Ursula Nold, presidente dell’amministrazione della Migros.

«Siamo convinti che Mario Irminger, con la sua personalità propositiva e l’elevato orientamento agli obiettivi, saprà dare nuovi impulsi all’attività chiave della Migros e farà progredire ulteriormente l’intero Gruppo Migros. Mario Irminger porta in azienda un’esperienza completa e pluriennale maturata nel commercio al dettaglio, nell’industria e nel settore finanziario. Sotto la sua guida, Den-

ner ha sviluppato con successo la sua posizione di leadership nel settore altamente competitivo dei discount, ha fortemente incrementato il fatturato e ottenuto una crescita redditizia».

«Ringrazio per la fiducia accordatami. Il chiaro e forte supporto dell’amministrazione della Migros è

per me un onore e una grande motivazione. Sono molto lieto di intraprendere questo nuovo compito», dichiara Mario Irminger.

Mario Irminger inizierà il lavoro nella sua nuova funzione di presidente della direzione generale il 1° maggio 2023. Prende il posto di Fabrice

Zumbrunnen, il quale, come già comunicato, ha deciso di ritirarsi dal ruolo di presidente della direzione generale della Federazione delle cooperative Migros alla fine di aprile 2023. Presto verrà avviata la ricerca per trovare il successore di Mario Irminger come CEO di Denner.

Un piatto pregiato dalla Norvegia

Attualità ◆ Il merluzzo delle Lofoten è nuovamente disponibile fresco nei reparti pesce Migros

Per la gioia del palato di tutti gli amanti del pesce, ma non solo, nei maggiori supermercati Migros è nuovamente disponibile fresco per un breve periodo – fino a inizio aprile – uno dei più esclusivi prodotti ittici del nord Europa, il merluzzo invernale skrei. Skrei è una parola norvegese che significa «migrante». Questo pesce, infatti, raggiunti i cinque-sette anni di vita, ogni anno per riprodursi percorre 1000 chilometri tra il mar glaciale Artico di Barents e le coste delle isole Lofoten, dove le acque sono più temperate grazie alla corrente del Golfo. Questo lungo viaggio influisce in modo determinante sulla qualità della carne, che risulta povera di grassi e muscolosa, che dopo la cottura si trasforma in una tenera, compatta e saporita prelibatezza in grado di accontentare anche i palati più esigenti, compresi quelli dei bambini.

Pesca controllata

La pesca del merluzzo skrei è severamente controllata e regolamentata dalle autorità norvegesi, le quali fissano le quote e i metodi di cattura al fine di preservare le risorse ittiche degli oceani. I pesci sono infatti catturati da piccole imbarcazioni utilizzando metodi tradizionali tramandati da generazioni, come ami, lenze e piccole

reti. Solo le aziende che soddisfano i rigorosi standard del Norwegian Seafood Export Council possono commercializzare il pesce e fregiarsi della denominazione skrei. Lo skrei venduto dalla Migros è ulteriormente certi-

ficato secondo le direttive MSC per una pesca di cattura sostenibile.

Un pesce versatile Il merluzzo nordico skrei si può preparare in molti modi e non deluderà

La mansione prioritaria del nuovo presidente della direzione generale FCM sarà sviluppare ulteriormente il Gruppo Migros e rafforzare e organizzare in modo più efficiente l’attività dei supermercati della Migros insieme alle dieci cooperative regionali.

meglio le sue proprietà nutritive; oppure perché non cuocerlo semplicemente al cartoccio in forno, in modo da preservare tutti i suoi aromi e profumi? Qualsiasi sia la vostra preparazione, potete stare certi di non sfigurare mai.

Già provato?

Come stupire gli invitati con un perfetto matrimonio di sapori tra nord e sud? In una padella fate appassire dell’aglio e dello scalogno tritati. Unite qualche pistillo di zafferano e sfumate con del vino bianco. Aggiungete dei pelati o della passata di pomodoro a piacere, salate, pepate e lasciate sobbollire per qualche minuto. Sciacquate e sgocciolate una scatoletta di ceci e aggiungeteli alla salsa insieme al succo di mezzo limone. Condite quattro filetti di merluzzo skrei con sale e pepe e aggiungeteli anch’essi alla salsa. Mettete il coperchio e lasciate cuocere il tutto a fuoco basso per una quindicina di minuti. Servite con degli spicchi di limone.

nessuna aspettativa. Brevemente arrostito o grigliato con erbette aromatiche fresche, capperi e olio al limone diventa un ottimo piatto all’insegna della leggerezza; cotto al vapore senza troppi condimenti mantiene al

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 6
dorsale di merluzzo skrei MSC per 100 g Fr. 5.40 In vendita nelle maggiori filiali Migros
Filetto

Un pane sempre invitante

Pane della settimana ◆ Quello alle noci IP-SUISSE stupisce per la sua ricchezza di aromi e la forma caratteristica

Come tutti i pani dell’assortimento Migros, anche il pane alle noci viene prodotto nei propri panifici con savoir-faire e padronanza del mondo della panificazione. Qui, gli esperti panettieri preparano molte specialità dal forte valore aggiunto, dando la priorità a ingredienti indigeni coltivati in modo sostenibile, ad artigianalità e a tempi di trasporto brevi.

Con la sua bella forma tonda, gli intagli armoniosi in superficie e il suo tipico colore scuro, il pane alle noci Migros attira fin da subito l’attenzione della clientela. Questa specialità di lunga data viene preparata con una sapiente combinazione di farine scure di

frumento e segale di qualità IP-SUISSE, con l’aggiunta di semi di girasole, lino, sesamo e papavero blu. L’impasto così ottenuto viene quindi arricchito con ben il 22% di noci per regalare al pane il suo gusto particolarmente pronunciato ma ben bilanciato, lievemen-

te acidulo e maltato. Inoltre, grazie alla sua mollica leggermente umida, si mantiene fresco più a lungo rispetto ai pani convenzionali. Il pane alle noci è davvero eclettico, sia accostato a ingredienti dolci sia a preparazioni salate. È ideale servito con formaggi a pa-

sta molle dal sapore deciso, insalate e antipasti misti, ma si presta molto bene anche per la preparazione di canapé e sandwich dalle farciture più disparate, mentre durante la stagione fredda è perfetto per accompagnare un corroborante minestrone.

Pane alle noci IP-SUISSE 400 g Fr. 4.90 In vendita nelle maggiori filiali Migros

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 7 Lindt Connaisseurs e Lindt Mini Pralinés è in vendita alla tua Migros
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Sostenere i giovani, prevenire la povertà

Fragilità sociale ◆ Nella fase di transizione dalla scuola dell’obbligo alla formazione professionale ci sono ragazzi che devono affrontare gravi problemi in diversi ambiti della loro vita: come aiutarli?

Sono ragazzi. In un momento decisivo per la loro vita, per la loro formazione e carriera, erano pieni di speranze, eppure ora non sanno più cosa vogliono, non sanno da che parte voltarsi, hanno paura che la società volterà loro le spalle, saranno invisibili, forse saranno poveri, non era questo il loro destino, non è colpa loro, vorrebbero migliorare la loro condizione, ma non ci riescono più. Sembra un incubo, e invece è la realtà di molti giovani. Si dice che fino all’età dei 25 anni la maggior parte dei ragazzi passi dalla scuola dell’obbligo a una formazione professionale e poi nel mondo del lavoro, gettando le basi per la propria vita lavorativa. C’è però una piccola parte che questa strada la fa in salita, senza arrivare da nessuna parte, perché deve far fronte a grosse preoccupazioni in più ambiti della propria esistenza. Si tratta di problematiche multiple, una combinazione di diversi fattori a rischio derivanti dall’estrazione sociale, problemi psicosociali, il proprio passato (migratorio o assistenziale, per esempio), e altro ancora. Questo fa sì, purtroppo, che i ragazzi in questione non riescano a conseguire nessun titolo di livello secondario fino ai 25 anni (sono quasi il 10% secondo l’Ufficio federale di statistica) e che quindi l’ingresso nel mercato del lavoro diventi difficoltoso, esponendoli così al rischio di povertà, anche per tutta la vita. Un altro dato statistico – sempre dell’UST – è sconcertante: il 6,2% dei giovani in età compresa tra i 15 e il 24 anni non è né in formazione e non lavora. Sono chiamati i Neet (Not engaged in Education, Employment or Training), e sono invisibili (di loro abbiamo già parlato anche sul numero di «Azione» del 7 novembre 2022). Come aiutarli?

Su incarico della Piattaforma nazionale contro la povertà, la Scuola universitaria professionale della Svizzera nord-occidentale (FHNW) ha ora elaborato una guida sulla base di uno studio del 2022 inerente al sostegno di adolescenti e giovani adulti

Viale dei ciliegi

Salva Rubio-Loreto Aroca

La bibliotecaria di Auschwitz

Il Castoro (Da 12 anni)

Apriamo il volume, ci imbattiamo nei risguardi e troviamo una ragazzina immersa nella lettura di un libro, in varie posizioni, sdraiata, seduta, ma sempre con lo sguardo incantato e assorto di chi è trascinato dentro una bella avventura. I risguardi ci mostrano solo la ragazzina, ma se ci addentriamo nella storia che questo graphic novel ci narra, ecco apparire anche l’ambientazione in cui Dita, la ragazzina, si trova, ed è un’ambientazione di orrore: siamo ad Auschwitz, nel 1942. La quattordicenne Edita (Dita) Adlerova, nata a Praga nel 1924, venne deportata con la famiglia nel ghetto di Terezin e da lì ad Auschwitz, dove, grazie al prigioniero ebreo tedesco Fredy Hirsch, che si era guadagnato il posto di supervisore del suo settore, poté occuparsi di gestire i pochi libri entrati clandestinamente nel campo e farli girare tra i detenuti, oltre naturalmente a leggerli lei. Quella della «bibliotecaria di Auschwitz» è una storia vera, raccontata in un ro-

con problematiche multiple nelle fasi di transizione. La Guida sullo sviluppo di sistemi cantonali per le fasi di transizione scuola-formazione-mercato del lavoro è destinata a chi si occupa della gestione e dell’accompagnamento nei sistemi di transizione e di aiuto e agli attori specializzati dei settori dell’integrazione sociale e professionale. Ma è anche un interessante documento per tutti, che testimonia una problematica ben presente nella nostra società e si fa portavoce di una necessaria prevenzione per queste situazioni di grande disagio. Assodato che tutti i giovani dovrebbero avere la possibilità di svolgere una formazione postobbligatoria,

si sa che nel tempo i requisiti richiesti sono aumentati. E se in Svizzera vige un buon sistema di transizione attraverso i semestri di motivazione o le prestazioni d’integrazione professionale, spesso il problema è più sfaccettato e coinvolge altri ambiti. Come la sfera personale, che include per esempio problemi di salute, disabilità, scelta inadeguata della professione; quella familiare o di riferimento, nella quale rientrano le condizioni finanziarie precarie, gli stili educativi poco stimolanti, malattie, dipendenze, rapporti conflittuali, violenze, separazioni, ma anche l’assenza di persone di riferimento al di fuori del nucleo familiare. O il tempo libero, dove sussi-

ste a volte l’impossibilità di accesso alle diverse opportunità, la mancanza di reti sociali, l’influenza negativa di un gruppo di pari. Per quanto riguarda la formazione, lo spettro di problematiche è poi molto ampio: dai rapporti difficili tra insegnanti e allievi, alla mancanza di una scolarizzazione inclusiva, dal bullismo, alle discriminazioni razziali, sociali e di genere. Nelle aziende formatrici si parla per esempio di insufficienti competenze pedagogiche e sociali, rischi per la salute, discriminazioni. Le problematiche possono insorgere anche quando già è in atto una prestazione di sostegno e questo accade quando c’è un rapporto conflittuale, una discontinuità, o quando le famiglie non possono più accedervi. Le difficoltà derivano ovviamente anche dalla società e dall’economia: poca offerta di formazione e troppe esigenze, concorrenza, condizioni sociali che favoriscono la disparità.

Tutte situazioni che incontrate singolarmente possono essere più o meno «risolvibili», ma che insieme costringono i ragazzi in una gabbia dalla quale è difficile liberarsi. È importante, dunque, che sappiano che la situazione di forte disagio nella quale si trovano non dipende solo da loro, ma anche da problemi sociostrutturali. Questa consapevolezza, infatti, può aiutare ad alleviare la sensazione individuale di fallimento, e ridare motivazione.

In Ticino sono diverse le realtà (fondazioni, associazioni o progetti), pubbliche o private che si occupano di accompagnare i ragazzi che si trovano in questa situazione nel loro inserimento socio professionale. Tra queste la Fondazione Gabbiano, attiva in tutto il cantone attraverso diversi progetti di sostenibilità sociale. Edo Carrasco, direttore della fondazione dal 2005, mi ha raccontato come, a livello generale, il primo grande problema che riscontrano i ragazzi sia «la fine della scuola media, che si porta spesso appresso la difficoltà di trovare una propria identità. Con i livelli B poi si ha meno opportunità, un crite-

rio di separazione non evidente da gestire. Più gravi sono i casi di “eredità” familiare: se un ragazzo è già in assistenza da piccolo, ha più del 50% di possibilità di esserlo anche a 18 anni».

La fondazione si occupa prevalentemente di ragazzi da questa età in poi, per i quali «mettiamo a disposizione un modello di presa a carico completo e ampio, ispirato anche ai progetti Forjad del Canton Vaud. Bisogna capire che il problema non è solo formativo o professionale, ci vuole un supporto completo, olistico. Un aiuto alla pratica lavorativa attraverso maestri socioprofessionali in piccoli atelier creati ad hoc per sviluppare e conoscere ambiti lavorativi, ma anche un supporto psicologico che permetta un lavoro in termini sistemici, che si concentri sulla famiglia e il contesto. L’obiettivo sarebbe quello per i ragazzi di trovare le indicazioni per reinserirsi nel mondo del lavoro entro un anno e mezzo e poi restarci».

Carrasco vede la situazione attuale preoccupante: «Assistiamo a una fragilizzazione dei giovani negli ultimi anni, anche prima della pandemia. I Neet per esempio, fanno estrema fatica nella gestione personale. Quando il disagio sociale è forte rischia di trasformarsi in disagio psichico. E più il giovane è fragile meno ha prospettive, perché il nostro mercato del lavoro è chiuso, complesso e sempre più esigente». Per Edo Carrasco una soluzione è nella prevenzione. E poi «uscendo dalla dinamica dell’aspetto lavorativo come risposta ai problemi esistenziali. Avere insomma in tutti i progetti di sostegno una presenza più strutturata, meno focalizzati sulla performance professionale e più sull’ascolto, in grado di accogliere il bisogno».

Informazioni

https://www.contro-la-poverta. ch/studien/studien-nationalesprogramm/detail/leitfaden-zurweiterentwicklung-kantonalersysteme-im-uebergang-schuleausbildung-arbeitsmarkt

di Letizia Bolzani

manzo best seller da Antonio Iturbe, e ora trasposta in un graphic novel per ragazzi, di grande impatto, di due autori spagnoli: i testi sono dello scrittore e sceneggiatore Salva Rubio e le illustrazioni dell’artista Loreto Aroca.

Le giornate di Dita sono terribili, ma «leggere le faceva credere per un po’ di non essere ad Auschwitz», e questa «manciata di vecchi libri» compì «un miracolo» anche sugli altri prigionieri, trasportandoli per qualche momento nel ristoro di un Altrove.

Mi sia concesso a questo punto un ricordo personale, relativo a quando, anni fa, incontrai a Mantova per

un’intervista il grande Uri Orlev (autore di romanzi come L’isola in via degli Uccelli, o Corri ragazzo corri), che mi disse, e ne ho un ricordo indelebile: «lo sa perché scrivo per l’infanzia? Perché quando ero nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, solo al mondo, con mio fratello piccolo che deperiva di giorno in giorno e stava per arrendersi, sono riuscito a riaccendere in lui la fiammella della speranza raccontandogli delle storie, nelle quali creavo ambienti e avventure meravigliosi e fantastici, che lo portavano lontano da lì». Anche per Dita, che sin da bambina aveva capito che i libri possono essere «finestre sul mondo e su se stessi», è stato così. La lettura, come la musica, e tutta l’Arte, è anche resistenza.

Nikolai Popov Perché?

Terre di Mezzo (Da 4 anni)

Torna, dopo la prima edizione svizzera del 1995 (titolo originale Warum?), e dopo l’edizione italiana Nord-Sud del 2000, il grande classico pacifista dell’illustratore russo Nikolai Popov

(1938-2021), che ha realizzato questo libro perché ha conosciuto da vicino la guerra e perché «i bambini, che comprendono l’insensatezza della guerra e vedono quanto sia facile essere trascinati nel circolo vizioso della violenza, possano diventare in futuro una forza di pace». Popov ci racconta la storia di un devastante conflitto tra rane e topi, cominciato da un nonnulla, da un fiore raccolto da una rana e protervamente bramato da un topo. Il topo ruba il fiore alla rana, ed ecco allora insorgere tutte le altre rane a cercare di riprenderselo, subito contrastate da un esercito di topi. I car-

ri armati sono vecchi stivali e scarpe abbandonate, ma la loro valenza metaforica è potente, così come lo è l’invenzione di armi e trappole per distruggere. E il bel paesaggio verde e luminoso delle prime pagine, nelle ultime s’incupisce di toni neri e marroni. I prati lussureggianti diventano terra deturpata e brulla. L’assurdità della guerra emerge con immediatezza potente. Il riferimento, nella scelta degli animali, è ovviamente alla Batracomiomachia («battaglia delle rane e dei topi») antica, ripresa in età moderna da molti autori, tra cui Leopardi. Ma non è importante che i bambini colgano quest’allusione, tanta è la forza di quella domanda, Perché?, sollecitata dall’intensità delle illustrazioni di Popov. Illustrazioni che bastano a loro stesse, a tal punto che questo libro nasce come un silent book, un albo senza parole. Il testo è stato aggiunto, forse per facilitare ulteriormente la comprensione della vicenda, nelle edizioni italiane. Sia in quella NordSud, sia in questa, rivista e arricchita da una prefazione dell’autore e da una postfazione dello storico della letteratura per ragazzi Leonard S. Marcus.

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I ragazzi con problematiche multiple hanno più difficoltà a conseguire un titolo di studio di livello secondario. (Pexels.com)

«Meglio una chiamata di troppo che una in meno»

Anziani e

truffe

Consigli e raccomandazioni in una serie di incontri organizzati in collaborazione con la Polizia cantonale

Richiamare l’attenzione delle persone anziane sulle truffe con consigli mirati senza spaventarle. È questo l’obiettivo di una serie di incontri promossi congiuntamente da cinque organizzazioni attive a favore degli anziani in collaborazione con la Polizia cantonale. In particolare la cosiddetta «truffa del falso nipote» è sempre d’attualità, come dimostrano gli arresti avvenuti nel Luganese lo scorso autunno. Poter visualizzare suggerimenti pratici e porre domande anche su altri tipi di reati –dai furti in casa ai borseggi alle truffe online – è un valido aiuto per evitare di ritrovarsi vittime di comportamenti criminali. Soprattutto nei casi di truffe telefoniche, oltre a essere diffidenti, è importante confidarsi con i familiari o altre persone di fiducia e avvisare subito la polizia. «Meglio una chiamata di troppo che una in meno» conferma il sergente maggiore Patrick Cruchon del Servizio comunicazione media e prevenzione della Polizia cantonale che conduce gli incontri informativi in tutto il Ticino.

Sempre attente ai bisogni delle fasce di popolazione della terza e quarta età, alcune associazioni come Pro Senectute Ticino e Moesano, GenerazionePiù (Anziani-OCST) e ATTE avevano già promosso iniziative di questo genere. Ora però, coinvolgendo anche AILA-OIL (Associazione italiana di Lugano per gli anziani, Associazione ospedale italiano di Lugano) e Generazioni & Sinergie, si è voluto unire le forze per coordinare e rafforzare questa azione di prevenzione. La collaborazione con la Polizia cantonale permette inoltre di avere accesso a una maggiore documentazione a carattere preventivo, come spiega Laura Tarchini, responsabile della comunicazione di Pro Senectute Ticino e Moesano. «Questo materiale – precisa al riguardo – sarà utile per sensibilizzare sia l’utenza (alcuni volantini saranno distribuiti tramite i nostri servizi) che il personale, in modo da essere sempre più attenti e all’ascolto

di eventuali disagi in tal senso. La fragilità non è infatti l’unico problema. Le persone anziane vivono sovente in una condizione di solitudine, per cui il contatto con chi consegna il pasto a domicilio o effettua un altro tipo di visita può rivelarsi prezioso per confidare le proprie preoccupazioni o semplicemente segnalare eventi insoliti».

Telefonate inquietanti che annunciano incidenti o malattie di parenti o amici, chiedendo denaro in contanti per risolvere il problema, devono sempre far sorgere più di un dubbio! La prevenzione è un punto centrale anche per la Polizia che conta sulle tempestive segnalazioni di questi e altri episodi per poter fermare i malviventi. «Questi ultimi – spiega Patrick Cruchon – fanno leva sulle emozioni, sul senso di colpa e sul legame familiare per mettere pressione sulla persona anziana. Non agiscono a caso o sporadicamente. Dai nomi di battesimo a un unico nominativo nelle rubriche o sui campanelli (nel caso dei furti), raccolgono indicazioni molto utili, effettuando poi innumerevoli chiamate». Come reagire a queste sollecitazioni scaltre e insistenti? Risponde il rappresentante della Polizia cantonale: «I consigli sono improntati alla diffidenza, alla prudenza. Se si finisce per dar seguito alla chiamata, è sempre meglio avvisare una persona di fiducia e in ogni caso mai consegnare denaro o oggetti di valore (gioielli) a persone sconosciute che possono anche spacciarsi per poliziotti in borghese o altri funzionari. Nessuna informazione deve essere fornita nemmeno sui propri averi, siano essi presenti in casa o depositati in banca». La maggior parte di queste truffe è messa a segno telefonicamente. «Un numero di telefono estero o sconosciuto deve già far scattare un campanello d’allarme di fronte a questo genere di richieste. È però vero che i metodi dei truffatori sono sempre più subdoli, giungendo a camuffare il numero da cui parte la chiamata. Le tattiche evolvono ve-

locemente, per cui non abbiamo liste esaustive di situazioni da evitare, ma piuttosto consigli appunto di accortezza da mettere in pratica in più ambiti». Bisogna pure astenersi dall’effettuare versamenti bancari a persone sconosciute o dall’accogliere al domicilio artigiani o funzionari la cui visita non è prevista. Per informazioni più dettagliate sulle diverse tipologie di crimine è a disposizione il sito di Prevenzione Svizzera della Criminalità (PSC, www.skppsc.ch ), servizio intercantonale specializzato con sede a Berna. Questo centro di competenza nazionale è gestito da una commissione della Conferenza delle direttrici e dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia. Patrick Cruchon consiglia di consultarlo, perché offre informazioni dettagliate nelle tre lingue ufficiali suddivise per tematiche. Sull’attività di PSC precisa: «I progetti e le campagne, accompagnati da materiale informativo che resta a disposizione presso gli sportelli delle polizie, sono promossi in funzione dei fenomeni criminali rilevati nella so-

cietà e di quelli che influiscono maggiormente sul senso di sicurezza della popolazione».

Un ambito molto a rischio non solo per gli anziani è l’utilizzo di Internet. La parola d’ordine dell’esperto qui è: «Mai cliccare link sconosciuti!» Patrick Cruchon segnala al riguardo un sito di prevenzione dedicato in modo specifico alle truffe online: www.s-u-

I prossimi incontri

Mendrisio – 9 febbraio, 14.00, sala del Consiglio Comunale (via Municipio 13).

Biasca – 16 febbraio, 14.00, Centro diurno ATTE (via A. Giovannini 24).

Lugano – 16 marzo, 14.00, Salone OCST (via S. Balestra 19).

Ascona – 9 marzo, 14.00, Centro diurno Pro Senectute (via Ferrera 24).

Val Mara – 30 marzo, 14.00, sala del Consiglio Comunale di Melano (via Cantonale 89).

p-e-r.ch. Il portale ripete quale sia il comportamento base da tenere: «Non abbassate mai la guardia e usate sempre il buonsenso». Sono poi presentate le tipologie più diffuse di cibercriminalità sotto forma di e-mail e messaggi. Tipologie che riguardano pacchi in arrivo, aggiornamento dei dati, possesso di registrazioni pornografiche, opportunità di investimento, servizio postale e vincite. Oltre a non cadere nel tranello con il fatidico «click», bisogna pure astenersi dal fornire dati personali.

Lo scorso novembre nel Luganese sono avvenuti diversi arresti nell’ambito delle truffe telefoniche stile «falso nipote». Ciò conferma da una lato come questa attività fraudolenta sia purtroppo sempre in auge, ma dall’altro anche la possibilità di intercettare gli autori del crimine. Grazie alla segnalazione di un congiunto e al lavoro investigativo della Polizia cantonale e di quella della Città di Lugano si è potuto intervenire tempestivamente. Questo a dimostrazione di quanto affermato in precedenza dal sergente maggiore Cruchon, vale a dire di non esitare a segnalare comportamenti sospetti anche quando la truffa non è stata consumata.

Nel 2022 le truffe andate a segno nel nostro cantone sono state 22, in netto aumento rispetto agli anni precedenti; i tentativi invece sono stimati annualmente fra i 200 e i 300. Per informarsi e chiedere consigli, gli incontri organizzati dai cinque enti che si focalizzano sui bisogni degli anziani rappresentano un’ottima opportunità. Dopo quello inaugurale, svoltosi a Bellinzona, ne sono previsti altri cinque ripartiti su tutto il territorio cantonale. L’intenzione delle associazioni promotrici e della Polizia cantonale è di continuare la sensibilizzazione sul tema anche in futuro attraverso un percorso attualizzato. L’unione delle forze fra i diversi enti dovrebbe poi estendersi ad altri ambiti di particolare interesse per la popolazione anziana.

In arrivo la due ruote ecologica da Guinness

Motori ◆

Si chiama

SEAT MÓ

Dalla pista alla strada. È una Seat anzi un Seat. Proprio così: non si tratta di un’automobile prodotta dal Costruttore spagnolo bensì di uno scooter. Si chiama SEAT MÓ 125 Performance ed è elettrico. A fine 2022 un prototipo di questa due ruote ecologica è entrato nel Guinness dei primati e ora arriva in produzione.

Sul circuito internazionale di Zuera (Saragozza, Spagna), un team è riuscito a battere due titoli Guinness World Records™ in 48 ore consecutive, per concludere un anno di lavoro di sviluppo e test dello scooter, che hanno incluso anche la preparazione al tentativo di record. Uno in squadra e uno con un solo pilota per una percorrenza totale di ben 2588 chilometri in 48 ore, più o meno l’equivalente della distanza tra Barcellona e Helsinki (Finlandia) in linea retta. Ce lo racconta in esclusiva il protagonista della prova in solitaria: Valerio Boni.

Giornalista e scrittore, Valerio Boni (nella foto durante la sfida) ha iniziato la sua attività professionale alla fine degli anni Settanta. Ha quindi assistito da una posizione privilegiata alla trasformazione del mondo a due

125 Performance, ed

e quattro ruote che ci ha portato sino alla mobilità elettrica di oggi. Fisico atletico e occhi pronti sempre a raccogliere nuove sfide, Boni ha la capacità di trasformare i suoi sogni in realtà.

La sfida era importante: percorrere il maggior numero di chilometri possibile in 24 ore guidando una due ruote alimentata in modo esclusivamente elettrico. «Inizialmente – racconta Boni – pensavo di cimentarmi in una pista ad anello. Un po’ più semplice. Gli uomini Seat mi hanno, invece, proposto un circuito lungo al limite del miglio, ovvero circa un chilometro e seicento metri. Zuera è il circuito di kart più lungo al mondo. Non mancano curve tornanti e rettilinei». Boni è entrato nel Guinness percorrendo 1158 chilometri in 24 ore di corsa in solitaria, con brevi soste per cambiare la batteria poco più di ogni ora e qualche occasionale pausa da poche decine di minuti. «La sfida è stata possibile grazie al fatto che sullo scooter Seat si può cambiare il pacco batterie in circa dieci secondi. Basta sfilarlo: ha addirittura le ruote e diventa un trolley. Mi fermavo al volo, mi cambiavano la batteria in dieci secondi e ripar-

è

uno scooter elettrico da record del mondo

tivo. La temperatura lo scorso ottobre non era male, meglio che i 40° gradi di agosto, ma faceva comunque molto caldo. Ogni sei ore mi fermavo per mangiare, bere e lasciare che un fisioterapista si prendesse cura del mio corpo per una ventina di minuti» spiega Boni. «La sfida è cominciata verso mezzogiorno ed è terminata 24 ore dopo». Notte compresa: «Non mi sono mai fermato ma non ho neppure patito il sonno, solo un po’ di umidità la notte». In merito a un eventuale momento più duro, afferma che non

ce n’è stato «ma dopo aver viaggiato tutta la notte solo con la luce dei fari del mezzo e di due fotoelettriche che illuminavano parzialmente la pista, al mattino con il ritorno della luce sembrava di girare su un circuito diverso, tutti i riferimenti erano cambiati». La sua esperienza gli ha sicuramente permesso – dopo mille chilometri – di capire a fondo il SEAT

MÓ: «Guidavo la versione performance che all’epoca era un prototipo e che è stata presentata in questi giorni a Barcellona. I freni a marghe-

rita erano della spagnola Galfer, l’ammortizzatore di Holins, e la forcella anteriore rivista con idraulica e componenti di Andreani. Insomma un equipaggiamento professionale. Ho apprezzato il motore elettrico che ha prestazioni simili a quelle di un classico scooter con motore termico e addirittura superiori in accelerazione. Tre le modalità di guida, eco, city e sport. Io non ho mai usato la sport perché l’autonomia ne risente. L’eco poteva essere buona per la durata della batteria ma sul rettilineo è limitato a poco più di 70, il city è stato il compromesso migliore. Raggiungevo gli 80 sul rettilineo principale, poi curva in pieno e cominciava il tratto guidato. Insomma mi sono divertito. Autonomia teorica superiore ai 70 chilometri, per l’uso in pista in un’ora ne percorrevo 55 prima di fermarmi». In conclusione, per Boni le due ruote elettriche «non ti penalizzano in alcun modo. Se hai la certezza di avere l’energia a disposizione, la guida è divertente e nell’uso in città e nell’hinterland va davvero benissimo». Dalla pista alla strada. Oggi SEAT MÓ è in vendita.

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Telefonate inquietanti che annunciano incidenti o malattie di parenti o amici devono sempre far sorgere più di un dubbio. (Pixabay)

Approdi e derive

Di coltelli, griglie orarie e risposte educative

Recentemente, in una scuola del luganese, è comparso un coltello. Solo un accenno a uno degli episodi brutti che di tanto in tanto si annunciano nelle aule. Episodi brutti, preoccupanti, che confliggono con quella bellezza che sempre abita e alimenta autentiche atmosfere educative. Mi riferisco alla bellezza di esperienze che ci toccano nel profondo, che ci fanno crescere, ci aprono alla vita e sono l’essenza dell’educazione. Edgar Morin a ragione ha sostenuto, nel corso della sua lunga presenza culturale, che educare è insegnare a vivere. Ma, aggiungo, l’educazione è sempre un educarsi; è un’esperienza intima di apertura all’invito di un Maestro che sa accogliere e accompagnare il nostro sguardo. Quando accade, percepiamo un’emozione, un sentimento di bellezza che può trasformarci.

L’archetipo della potenza e del valore della bellezza sta nei dialoghi di Platone: questo sentimento, questa emozione che nasce nel corpo, è la sor-

Terre Rare

Sarei stato tentato di far scrivere questo articolo a ChatGPT (la piattaforma online che permette concretamente di chattare con l’intelligenza artificiale e di sperimentare le sue abilità nella redazione di testi). Più che altro per vedere se qualcuno se ne sarebbe accorto. In questi giorni i giornalisti (categoria professionale tra le più preoccupate dalla nuova invenzione) stanno sviscerando il meccanismo alla ricerca delle sue pericolose potenzialità. Dopo aver letto una decina di esperienze altrui in vari campi dello scibile specialistico l’impressione è che le potenzialità dello strumento siano piuttosto limitate. Se è vero che i suoi programmatori gli hanno fatto ingollare l’intero contenuto di Wikipedia in inglese (e perché solo in inglese? Un bell’esempio di sciovinismo culturale, specialmente se gli si chie-

gente del desiderio di trascendenza, ovvero è la spinta verso la conoscenza di una bellezza più grande. Il desiderio di trascendenza è tensione ideale che ci ricorda che noi non siamo mai solo quello che siamo: un bel modo per raccontare il viaggio educativo, il viaggio verso sé stessi. Fin da questo antico messaggio inaugurale, si capisce come la bellezza non abiti tanto dentro le cose, quanto dentro di noi: è un’esperienza intima, che ha a che fare con il nostro sentimento di interiorità, qualcosa che ci chiama. Certo esistono tante cose belle che hanno un gran successo sul mercato. Per essere attrattivo ogni oggetto sembra dover esibire una propria indiscutibile bellezza. Sono forme di estetizzazione generalizzata, e di godimento estetico, che segnalano, credo, un gran bisogno di gratuità per cercare in qualche modo di dimenticare le molte bruttezze in cui il mondo racconta la sua storia.

C’è però una grande differenza tra

le tante belle cose esibite, tra l’esibizione di sé e di ogni realtà nelle vetrine del mondo, e l’esporsi intimo a sé stessi nel riconoscere e nell’accogliere la bellezza che si manifesta in noi. Quella che per Platone, al di là delle molte cose visibili, è idea luminosa, nascosta nella nostra anima; o quella che Kant considera un sentimento umano universale, pura gratuità, pura finalità, che non ha nulla a che vedere con i piaceri e con gusti personali. O ancora, quella bellezza che ci smuove in un incontro imprevisto. Di questa intima esperienza di bellezza la conoscenza è senz’altro un luogo privilegiato. Lo sappiamo bene, non impariamo nulla senza una bella emozione. È proprio la percezione della bellezza della conoscenza ad illuminare il nostro cammino, la nostra domanda di verità.

Educarsi significa allora imparare a sentire la bellezza ovunque risuoni: nell’eleganza di una formula matematica, in una legge della natura che ci

invita a contemplarla nelle sue espressioni, ma pure in una domanda grande, forse senza risposta. Comprendere e contemplare, non solo apprendere nozioni utili immediatamente spendibili. Mi torna spesso alla mente l’esternazione attribuita a Watson e Crick davanti alla prima immagine della doppia elica del DNA: «è troppo bella», pare abbiano esclamato, «dev’essere vera!».

Il riconoscimento della bellezza ha un suo linguaggio e questo linguaggio si offre a noi anche nella letteratura, nella poesia, nella musica. Qui avvengono incontri fondamentali che, come sostiene Morin, ci mettono in contatto «con il mondo dell’umanità interiore, cioè delle nostre soggettività, e anche con il mondo dell’umanità esteriore, quella delle altre mentalità e delle altre culture che ci vengono rivelate da un romanzo, da una poesia». Perché imparare a vivere significa riconoscere l’unità mentale e affettiva di tutti gli esseri umani. Imparare a

star bene al mondo con sé stessi e con gli altri.

Quel coltello comparso in classe è davvero solo la punta di un iceberg che rivela però un malessere profondo, quasi sempre, e per fortuna, più sottile e silenzioso; un malessere che i ragazzi non riescono a lasciare fuori dall’aula. Di fronte a queste difficoltà, la scommessa educativa sta proprio nel coraggio di credere che educare sia ancora possibile.

Possiamo anche continuare a pensare al bene della scuola ragionando sulla griglia oraria, su quali insegnamenti proporre, e quando, secondo le richieste della società. È una preoccupazione plausibile, certo, ma se ci dimentichiamo di dare innanzitutto una risposta educativa al valore intrinseco, e gratuito, di ogni esperienza conoscitiva, allora restiamo complici di quello sguardo utilitaristico che tiene a bada il mondo. E questo significa rinunciare alla nostra responsabilità etica nei confronti delle future generazioni.

derà qualcosa a proposito della gastronomia…) ci si può aspettare che il livello della conversazione non si riveli particolarmente entusiasmante. Chi chiacchiererebbe con la Treccani? ChatGPT oltretutto è calibrato su parametri di political correctness molto alti. Il che lo rende uno strumento del tutto inutile nel campo della comunicazione contemporanea. In epoca di fake news a oltranza, i testi prodotti dal meccanismo potrebbero rivelarsi poco più che educatissimi esercizi di stile, volti a non offendere nessuna suscettibilità. Non si riesce a capire infatti la preoccupazione espressa da molti commentatori, i quali vedono nell’algoritmo intelligente una possibilità di automatismo della bugia meccanizzata. Che ciò sia peggiore di quanto succede già oggi, è difficile immaginarlo. Ma lasciando

Le parole dei figli

«POV: Prof: “Come definiresti la tua vita?”. Io: “Fa un po’ schifo”». È la scritta che appare sopra uno dei 100 mila video che Clotilde sta guardando su TikTok, in cui una sua coetanea maneggia un topo, lì a rappresentare il concetto che sta esprimendo. E, uno dopo l’altro, la maggior parte dei video che la mia 14enne scorre vedono stampate sopra le tre lettere malefiche: P-O-V. Una dicitura che nelle Parole dei figli, ossia nel loro modo di comunicare sui social, va per la maggiore. I più informati di noi sanno che POV è l’acronimo di Point of View, ovvero «Punto di Vista». Convinta da sempre che per capire i Gen Z sia fondamentale anche capire come comunicano (motivo di origine di questa rubrica), la domanda che mi faccio è: che cosa rappresenta esattamente il POV e perché spopola tra i giovanissimi come forma privilegiata di espressione? Confesso subito che,

dopo avere guardato per ore video di TikTok e googlato l’impossibile, sono riuscita a darmi una risposta solo con l’aiuto della sociolinguista Vera Gheno. Non ho resistito a disturbarla, perché mi sembrava di essere finita all’improvviso nella canzone di Vasco Rossi quando canta «Voglio trovare un senso a questa situazione, anche se questa situazione un senso non ce l’ha».

Dimentichiamoci gli emoji che ormai sono considerati dai Gen Z cringe che vuol dire imbarazzanti, come raccontato in un altro Parole dei figli (metterne tre di fila viene considerata addirittura un’eresia). L’acronimo in questione, invece, è così diffuso che è pure diventato il titolo di una serie tv di Rai Gulp che racconta di adolescenti: POV – I Primi Anni. A scuola noi boomer abbiamo studiato la grammatica, la sintassi, l’analisi logica, le coniugazioni: qui, invece,

da parte certo catastrofismo paranoico, da quel che si legge ChatGPT dà l’impressione di esprimersi attraverso la voce del secchione da primo banco. Anche quando vuol fare dell’umorismo, risulta un po’ ingessato e saccentello. Quando vuol essere gentile e affabile, pare legnoso e poco simpatico.

Un po’ una Signorina Rottermeier ingentilita. Anzi, appunto: abituati come siamo dalle consuetudini linguistiche di umani biologici, siamo messi in difficoltà da un fattore in più. ChatGPT ci parla da uomo, da donna o da cos’altro? Questo è un fattore di curiosità che ci rende attenti su come il nostro modo di ascoltare il mondo sia influenzato tanto da attenderci un punto di vista orientato sul genere. Da un uomo ci attendiamo, senza volerlo ma per abitudine invalsa, una comunicazione più asciutta e misurata; da

una donna una maggiore attenzione alle sfumature di umanità e di collaborazione. Ma da un algoritmo?

Fa sorridere l’esperienza riportata su un quotidiano statunitense in cui un giornalista malizioso ha provato a gestire le interazioni con le sue conoscenze su Tinder utilizzando i suggerimenti ricevuti da ChatGPT.

L’esperimento si è rivelato come fallimentare nella maggior parte dei casi: troppo scialbe, prevedibili, equilibrate e insipide le interazioni del meccanismo. Eppure… in qualche caso sono funzionate. Ciò dimostra che, anche in termini sentimentali, qualcosa di ChatGPT è in ognuno di noi. E questo è l’aspetto preoccupante della faccenda, dunque. Non quanto ChatGPT somigli a noi, ma il contrario, quanto noi somigliamo a lui. Se sarà usato dagli studenti per fare i compi-

ti, come paventano gli educatori, scriverà probabilmente come molti di loro fanno già oggi, copiando Wikipedia. E lo stesso si potrà dire a proposito del lavoro dei giornalisti. Resta da vedere se in altri campi (medicina, diritto, finanza) la «mediocrità informativa» dello strumento potrà trovare applicazioni reali.

Il problema sarà senz’altro quello della responsabilità. Quando un professionista di qualsiasi settore utilizzerà ChatGPT per prendere una decisione, su chi ricadrà la colpa in caso di errore? Perché la «macchina pensante» non sarà mai in grado di risolvere in modo positivo tutti i problemi e, soprattutto, sollevarci dalle nostre responsabilità. Perché forse a ChatGPT non chiederemo soluzioni intelligenti, ma soprattutto alibi alle nostre manchevolezze.

entriamo nel linguaggio post-grammaticale dettato dai social. Motivo per cui bisogna fare un passo alla volta e, per comprendere esattamente il significato di POV, è necessario prima sapere che cos’è un MEME. Ispirandoci a quel che spiega Vera Gheno per l’Accademia della Crusca, possiamo definirlo come un’immagine, un video, una parte di testo, ecc., tipicamente di natura umoristica, che viene copiata e diffusa rapidamente dagli utenti di Internet, spesso con lievi variazioni. L’ha coniato il biologo Richard Dawkins negli anni Settanta assimilandolo al gene. Quest’ultimo è un «replicatore di informazioni» che saltando di corpo in corpo permette l’evoluzione della specie. Il MEME, invece, è un «replicatore di un’unità di informazione», che si diffonde con velocità pressoché incontrollabile soprattutto nel web, a denotarne il grande successo

di pubblico. Una delle sue caratteristiche principali è proprio la viralità.

Ebbene, il POV è un tipo di MEME. E il Point of View è il punto di vista dal quale si deve guardare la cosa. Espressione di uno stato d’animo o di un pensiero riguardo a un dato argomento o a una certa situazione.

«POV: Ti sto consolando perché il tuo ragazzo ti ha lasciato» e sotto scorrono le parole di una canzone e una scena in cui un adolescente consola un amico. Oppure: «POV: La tua amica ti sta chiedendo di mangiare il sushi che le è rimasto», altra canzone, altra scena in cui la tiktoker scuote la testa. I video sono girati in prima persona, il sottofondo è musicale, sullo schermo viene mostrato il punto di vista che il creator condivide con chi andrà a visualizzare il contenuto.

Ma che cosa rappresenta questa nuova modalità espressiva? È il bisogno

di esprimere sé stessi nel modo che meglio riesce agli adolescenti, ossia con un video sui social? Ecco cosa mi spiega Vera Gheno: «Il POV richiama il mondo dei videogiochi in cui tu sei in 3D e guardi attraverso il personaggio. Nei POV gli adolescenti si immedesimano nei panni di una persona e raccontano quel che sta vivendo, pensa, prova. È una forma intermediata per parlare di sé, ma senza usare la prima persona. Una sorta di proiezione del mio punto di vista facendolo passare per quello di una persona X». Il POV, dunque, è il modo prediletto dai Gen Z per parlare di sé ma in modo mediato. Conoscendo le difficoltà degli adolescenti ad esporsi in prima persona, ora tutto è chiaro.

«Poi il POV si memizza (ossia diventa un meme e dunque virale) – conclude Vera Gheno – e di qui l’invasione di riproduzioni».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ / RUBRICHE 10 ◆ ●
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di Simona Ravizza
POV
di Alessandro Zanoli
ChatGPT siamo noi

L’eterno ritorno dell’eternauta

In un continuo avverarsi della storia narrata, l’epico fumetto di Oesterheld torna in libreria

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Tra sepolture e cave di sale Viaggio nelle viscere di Hallstatt, uno degli insediamenti più antichi d’Europa, patrimonio UNESCO

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Squisitamente aromatica

Pasta alla radice di prezzemolo, aglio, pomodori sott’olio, erbe, olive e pancetta rosolata in padella

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La carica dei soldatini

Non solo oggetti da collezione o giocattoli, ma testimoni della Storia e dell’evoluzione dei tempi

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Dalle montagne svizzere al deserto arabo

Adrenalina ◆ Sfida vinta alla 45esima edizione del Rally Dakar per il Team Desert Endurance Motorsport

Moreno Invernizzi

Per l’ebbrezza della velocità pura, quella scarica di adrenalina che ti corre lungo la schiena mentre pigi a fondo la tavoletta del gas, vai su un circuito. Già lì le emozioni sono notevoli. Se vuoi quel qualcosa in più, però, cerchi altre strade. E se quelle «strade» si fanno sterrate, trasformandosi in montagne di sabbia, vere e proprie dune da domare, pietraie, e quant’altro la natura ti può mettere davanti come ostacolo, beh, allora quelle emozioni descritte poc’anzi si amplificano e moltiplicano.

Sensazioni, queste, tutte provate sulla loro pelle da Francesco e Alessandro Guasti, Marco Ernesto Leva, Alexia Giugni, Stefano Brendolan, Marco Corbetta, Nicolò Musetto, Giuseppe Francesco Simonato, Nunzia Del Gaudio e Andrea Cadei. Proprio queste forti emozioni sono state il loro pane quotidiano per due lunghe (quasi interminabili) settimane. Una scarica costante di adrenalina pura vissuta nel deserto dell’Arabia Saudita, dove si è corsa la 45esima edizione del Rally Dakar 2023. Loro, gli intrepidi di cui sopra, si sono imbarcati nell’avventura con il Team Desert Endurance Motorsport, la prima squadra svizzera al via della Dakar Classic.

«Benché il rally sia alla sua 45esima edizione, sono solo tre anni che si disputa una versione Classic, per cer-

ti versi anche più impegnativa della competizione originale: qui, più che la velocità, a fare la differenza sono i dettagli e l’abilità di prendere le scelte giuste al momento giusto, oltre che un’ottima dimestichezza con gli strumenti di navigazione», racconta il responsabile del «campo base» della squadra Ermanno De Angelis, co-fondatore (unitamente alla moglie Nunzia, una delle protagoniste dirette della gara) della luganese Victorious, società che si è occupata di tutti gli aspetti della spedizione in Arabia Saudita (da Lugano e direttamente sul posto) del Team Desert Endurance Motorsport.

La versione Classic del rally si disputa solo da tre anni, ma è per certi versi anche più impegnativa dell’originale

«Definito il concetto iniziale, poi ce ne sono moltissimi altri che devi affrontare, come la tipologia dei mezzi con cui gareggiare, la preparazione tecnica di vetture e camion, il restauro e la preparazione meccanica, la selezione degli equipaggi, la parte mediatica da curare, la logistica, la selezione dello staff tecnico e via discorrendo… Spina dorsale del progetto è stata Nunzia, che oltre alle attività or-

ganizzative e logistiche pre-evento, è stata la vera anima in gara: era a bordo del camion, ha diretto il team, gestito le persone ed è stata il metronomo dell’intera spedizione. Se a bocce ferme si è rivelata un successo molto del merito è suo!».

Cosa vi ha messo sulla strada dell’Arabia Saudita? «L’idea di partecipare alla gara ci aveva già stuzzicato tre anni fa, quando è stata proposta per la prima volta». Nel giro di due anni, quell’idea è diventata una splendida realtà: «Creare un team è stato un passo relativamente semplice, considerata la grande motivazione, anche se per arrivare fisicamente alla partenza ci abbiamo messo tredici mesi: non volevamo lasciare nulla al caso, presentandoci al via con tutte le premesse per portare fino in fondo la nostra missione e non solo per fare una comparsata».

Altro che comparsata. A bocce ferme, il Team Desert Endurance Motorsport, nel suo piccolo ha scritto una pagina di storia: tutti e quattro gli equipaggi al via hanno infatti raggiunto con successo la destinazione finale, 6542 km oltre la partenza.

«Uno straordinario successo per una squadra esordiente in questa competizione, un’impresa che a mia memoria non era mai riuscita a nessuno prima di noi! Il risultato finale è il coronamento di un ottimo lavoro di squa-

dra». Un ideale punto di partenza, ma non certo di arrivo.

«Rotto il ghiaccio nel miglior modo possibile, ora non resta che andare avanti. Stiamo già lavorando all’organizzazione della nostra seconda campagna alla Dakar: a breve sceglieremo gli equipaggi con cui ci presenteremo per il nostro bis fra le dune dell’Arabia Saudita. Il know-how maturato nella prima partecipazione ci darà sicuramente un buon vantaggio, anche se, come dicono i “saggi” e i più navigati della Dakar, ogni edizione è qualcosa di differente, così come ogni tappa è qualcosa di nuovo, e ogni giorno è diverso da quello precedente».

A ogni buon conto, sebbene i preparativi siano già in corso, questa è musica del futuro. Tornando dunque all’avventura appena vissuta, De Angelis mette l’accento sull’ottimo lavoro corale dell’intero gruppo, cosa che ha reso possibile la spedizione: «Al via, il Team Desert Endurance Motorsport si è presentato col giusto spirito di squadra, ossia quello di un gruppo unito e pronto a darsi reciproco aiuto. Proprio in questo senso è da interpretare la scelta di puntare su due vetture, due Fiat Panda, e due camion Iveco, assai utili in caso di problemi nel deserto. E non a caso durante le tredici tappe i nostri mezzi più pesanti (e in particolare il “Musone”) sono stati impegnati una buona trenti-

na di volte per togliere qualcuno dagli impicci. Anche perché quest’anno il maltempo non ha risparmiato la gara, con piogge di un’intensità che non si vedeva da quasi mezzo secolo e che hanno pure costretto gli organizzatori ad annullare due tappe».

Diversi gli aspetti più delicati con cui la squadra si è confrontata durante la gara, alcuni di questi più insidiosi come «le numerose pietraie incontrate sul cammino, soprattutto nelle tappe iniziali. Che hanno messo a dura prova la scocca di auto e camion, e che hanno costretto i meccanici a fare gli straordinari per le riparazioni, volanti e a fine tappa: alla Dakar, quando finisce la giornata del pilota, inizia quella, altrettanto lunga, dei meccanici per rimettere in sesto il veicolo per il giorno seguente. Del resto, come diceva Enzo Ferrari, la macchina da corsa ideale è quella che si rompe il giorno dopo aver tagliato il traguardo».

Proprio per garantire il miglior supporto possibile alla spedizione, lo stesso De Angelis ha ceduto il suo posto sul «Musone» in corsa ad Andrea Cadei, le cui doti di meccanico si sono rivelate estremamente utili in gara. «Ma il prossimo anno sarò anch’io a bordo di un equipaggio impegnato nella gara, lascio a qualcun altro la regia delle incombenze dietro alle quinte», promette Ermanno De Angelis.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11
TEMPO LIBERO

Il continuo ritorno del vagabondo dell’infinito

Un altro viaggiare ◆ Ciclicamente viene riproposto L’eternauta in un incessante auto-avveramento; presto di nuovo in libreria

Una delle più alte forme di viaggio è il vagabondare, e il più famoso «vagabondo» della storia narrata non può che essere l’eternauta, al secolo Juan Galvez: «Potrei dirti centinaia di nomi e non mentirei perché li ho avuti davvero. Forse, tra tanti uno è più chiaro di tutti… Khruner. Me lo ha dato una specie di filosofo verso la fine del secolo ventunesimo. Nella sua lingua, Khruner vuol dire “Il vagabondo dell’infinito”».

Il prossimo 23 febbraio, la Panini comics lancerà una nuova edizione del classico fumetto mondiale Spacciato per essere «un grande fumetto d’azione e d’avventura che appartiene da tempo al canone ristretto dei migliori fumetti di fantascienza» (così si legge nei paratesti dell’edizione numero 29 de I classici del fumetto di Repubblica, 2003), a noi, che lo abbiamo letto per la prima volta solo di recente, è risultato piuttosto un vero e proprio romanzo «romanzesco» (la ripetizione è voluta) con tante immagini, sì, ma soprattutto con tantissime parole, di certo troppe per dirsi fumetto.

Scritto e pubblicato per la prima volta tra il 1957 e il 1959 (in Argentina) e a metà degli anni Settanta nella versione italofona (testi di Héctor Germán Oesterheld, illustrazioni di Francisco Solano Lopez, con traduzione di Stelio Rizzo), L’eternauta ciclicamente torna a far parlare di sé, quasi fosse il continuo avverarsi della storia narrata; è tornato alla ribalta anche negli ultimi due anni per-

sino nell’ambiente televisivo, dove si è iniziato a vociferare che Netflix starebbe realizzando una serie ideata proprio sulla famosa Historieta, sebbene qualcuno si stia impegnando per smentire categoricamente tale notizia.

Nel formato libro, pure, compaiono ciclicamente nuove versioni per editori diversi, anche di recente pubblicazione, come ha fatto Cosmo e come farà la Panini comics con la nuova uscita prevista per il prossimo 23 febbraio.

Noi ne abbiamo di certo sentito parlare anche nel bel docufilm realizzato dal regista locarnese Stefano Knuchel, Hugo in Argentina, passato dal Festival Internazionale del Cinema di Venezia nel 2021, e ripresentato alle giornate de «L’immagine e la parola» del Locarno Festival nel 2022. Sullo schermo, Knuchel ha raccontato la permanenza in Sud America di Hugo Pratt, che arrivò a Buenos Aires nel 1949 per rimanervi fino al 1962, stringendo amicizia anche con HG Oesterheld (autore, peraltro, del fortunato Sgt. Kirk); fumettista che da lì a qualche anno avrebbe sofferto in prima persona le drammatiche pene causate dalla dittatura, divenendo un desaparecido nel 1977. Nel docufilm viene mostrata la casa dove L’eternauta prese forma anticipando – ed è questo uno dei massimi riconoscimenti che viene attribuito al fumetto di Oesterheld rimasto al pari di una pietra miliare nella storia delle immaginazioni –ciò che sarebbe successo in Argentina con la salita al potere della giunta militare alla cui testa sedette Jorge

L’Isola dei Cavalieri

Viaggio ◆ Per i lettori di «Azione», Hotelplan organizza dal 29 aprile al 6 maggio 2023 un tour a Malta

Settemila anni di storia circondati dal profondo blu del Mediterraneo.

Può essere così riassunto il fascino di Malta, isola che alcuni lettori di «Azione» avranno la possibilità di visitare questa primavera, dal 29 aprile al 6 maggio 2023, in gruppo, accom-

Il programma di viaggio

1. Ticino – Linate – Malta

In pullman fino a Linate, e partenza per Malta. Trasferimento in hotel****.

2. La Valletta & Malta Experience Visita de La Valletta, con i giardini chiamati «Il Belvedere d’Italia» e la Cattedrale di San Giovanni. Spettacolo in multivisione The Malta Experience. Visita al Museo Nazionale di Archeologia e al Forte di Sant’Elmo.

3. Mdina

L’antica cittadella di Mdina e la Cattedrale, con panoramica dell’isola. Da Mdina alle catacombe di Rabat, fino alle scogliere di Dingli. Visita ai giardini botanici di San Anton e alla Chiesa Rotonda di Mosta. Sosta al villaggio dell’artigianato di Ta’ Qali.

pagnati da una guida di lingua italiana, con partenza dal Ticino e un soggiorno di 8 giorni (7 notti). Questo viaggio, organizzato in collaborazione con «Azione» prevede un itinerario ben preciso che svelerà la natura dell’isola, paragonabile a un museo

4. Le Tre Città La zona storica conosciuta come «Le Tre Città» (Vittoriosa, Cospicua e Senglea). Da Cospicua fino all’antica Birgu. A bordo di un’imbarcazione tipica, giro delle calette che formano il Grande Porto. A Senglea è prevista una sosta alla «vedetta» da dove si può ammirare il porto e la Valletta dall’alto. Attività individuali.

5. Gozo Escursione a Gozo. Visita alla «Inland Sea» a Dwejra, la Cittadella di Victoria, la baia di Xlendi e i Templi di Ggantija. Uno spettacolo culturale mostrerà la storia di Gozo attraverso i secoli. Rientro a Malta con il traghetto.

Rafael Videla, correva l’anno 1976. Quindi onore alla lungimirante inventiva, ma che cosa dire della forma, della resa narrativa, dell’espressione dell’ottava arte qui messa in gioco per descrivere il viaggio infinito che è il vagabondare senza tempo e spazio del protagonista? È trascorso oltre mezzo secolo per cui va tenuto conto delle differenti sensibilità, e degli sviluppi occorsi nel frattempo. Ciononostante, a noi pare che la ridondanza di molti testi contenuti nelle strisce annoino un po’ e talvolta anticipino davvero troppo quanto accadrà, togliendo forza e tensione emotiva alla storia,

In omaggio 1 carta regalo Migros a persona, del valore di CHF 50.– con prenotazioni entro il 10 febbraio 2023. Sul sito www.azione.ch, il dettaglio del programma.

all’aperto ricco di riferimenti storici di tutti i tempi, ma che pure vanta una vibrante vita notturna e un’ottima gastronomia: sebbene l’arcipelago maltese abbia dimensioni modeste, moltissimi sono i motivi per visitarlo!

6. Hagar Qim – Grotta Azzurra –Marsaxlokk – Grotta dell’Oscurità Visita del sud dell’isola. Dal villaggio di Qrendi, al complesso dei Templi di Hagar Qim. E poi ancora: Wied iz-Zurrieq fino, meteo permettendo, alla Grotta Azzurra. Il villaggio di pescatori di Marsaxlokk. E la visita della Grotta dell’Oscurità, una delle prime abitazioni dell’arcipelago.

7. Malta Giornata libera per approfittare della spiaggia e dei servizi dell’hotel, attività individuali, relax o shopping.

8. Malta – Linate – Ticino Trasferimento in aeroporto in tempo utile per il volo verso Linate. All’arrivo, rientro in Ticino con pullman privato.

di tavola in tavola. A pagina 34, delle 464 dell’edizione letta, avevamo già incontrato almeno tre o quattro incongruenze narrative (per fare un esempio, laddove la descrizione dice «Rimanemmo lì storditi senza dire una parola» ci si ritrova un personaggio che quella parola la dice: «Allucinante», senza aggiungere peraltro nulla alla scena; v. foto); e sono proprio le tantissime e inutili didascalie lunghe e ripetitive a generare l’effetto «romanzesco» in un fumetto che poteva benissimo avvalersi «solo» delle immagini.

Immagini che fanno scoprire la capitale dell’Argentina portando il lettore tra le strade più conosciute di Buenos Aires, ma anche lungo le sue parallele, attraverso le piazze, all’ombra dei suoi monumenti, e persino dentro i negozi, come quello degli alimentari oppure quello del ferramenta, e via disegnando.

Vale dunque la pena di leggere o rileggere questa Historieta , forse non tanto perché ritenuta «un capolavoro del fumetto mondiale» (ciò che alza di parecchio l’aspettativa), ma perché l’idea di un vagabondare infinito nello spazio-tempo, pur rimanendo sempre nello stesso posto, ha qualcosa di affascinante che, giunti alla fine, quest’opera riesce a rendere molto bene.

Bibliografia

Testi di Héctor Germán Oesterheld, illustrazioni di Francisco Solano Lopez, e traduzione di Stelio Rizzo, L’Eternauta, I classici del fumetto di Repubblica, 2003.

Tagliando di prenotazione

Desidero iscrivermi al tour di Malta dal 29 aprile al 6 maggio 2023 Nome

Prezzo per persona

L’itinerario può subire variazioni, anche durante il viaggio, per ragioni tecniche operative pur mantenendo le visite del tour. Il viaggio viene effettuato con un minimo di 15 partecipanti. Il prezzo che segue è soggetto ad adeguamenti per fluttuazioni dei cambi valutari o supplementi carburante e/o tasse aeroportuali.

Prezzo per persona in camera doppia standard 1830.– CHF.

Supplemento camera singola standard 380.– CHF.

La quota comprende Trasferimento dal Ticino a Milano Linate e rientro; volo andata e ritorno in classe economica; trasferimenti aeroporto-hotel-aeroporto con assistente italofono; sistemazione in camera doppia standard presso l’Hotel Dolmen**** (o similare); pasti come da programma; pullman privato e guida locale parlante italiano;

Sarò accompagnato da ........... adulti.

Sistemazione desiderata (cerchiare ciò che fa al caso).

Variante singola: SI NO

escursioni e ingressi come da programma; tasse aeroportuali e di sicurezza; accompagnatore Hotelplan dal Ticino.

La quota non comprende Supplemento camera singola standard; spese dossier Hotelplan 100.– CHF; bevande; pasti non menzionati; mance per autista e guida; facchinaggio; spese di carattere personale; assicurazione contro le spese d’annullamento; tutto quanto non indicato alla voce «la quota comprende».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 12
Ma.Ma. L’eternauta è nato in Argentina alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, e da allora continua a stimolare i suoi lettori.
Locarno-Muralto Piazza Stazione 8 6600 Muralto T 091 910 37 00 locarno@hotelplan.ch Bellinzona Viale Stazione 8a 6501 Bellinzona T 091 820 25 25 bellinzona@hotelplan.ch Lugano Via Ferruccio Pelli 7 6900 Lugano T 091 910 47 27 lugano@hotelplan.ch
Cognome Via NAP
Località Telefono e-mail

Hallstatt, lungo i cunicoli della città del sale

Itinerari ◆ Il sentiero che comincia dalla Bergstation della funicolare porta all’ingresso dei Salzwelten, e oltre, nel bel mezzo delle grotte protette dall’UNESCO: qui nei secoli furono sepolte migliaia di persone

Un arco di tempo che dura da settemila anni e non accenna a concludersi. È la stima del periodo in cui il sale estratto dalla montagna di Hallstatt ha offerto alle comunità locali un’opportunità di conservare provviste, oltre ad averne migliorato le condizioni di vita e reso possibile il commercio. Località austriaca situata nella regione montuosa del Salzkammergut, Hallstatt è uno degli insediamenti più antichi d’Europa. L’intero villaggio, insieme alla miniera di sale, è inserito nel patrimonio UNESCO.

La pressione della montagna provoca un restringimento delle gallerie di circa un centimetro all’anno

Nello stesso luogo in cui uomini e donne dell’età arcaica avevano scavato gallerie e costruito un villaggio, la miniera è più attiva che mai: ogni anno si estraggono 300mila tonnellate di sale. All’interno vi sono gallerie costruite in legno, acciaio e cemento, delle quali 24 chilometri sono tuttora in uso. Con l’ausilio di un tradizionale scivolo dei minatori ci si sposta ai livelli od «orizzonti» inferiori. Sebbene la struttura della miniera sia plastica, la pressione della montagna provoca un restringimento delle gallerie di circa un centimetro all’anno. Un naturale flusso d’aria mantiene una temperatura costante di 8° e un’umidità pari al 65%.

Nel 1846 fu scoperta per la prima volta la rilevanza del luogo – a ricoprire la carica di maestro minerario era all’epoca Johann Georg Ramsauer. I minatori si erano imbattuti nel corpo mummificato di un uomo, conservatosi grazie alla concentrazione di sale nel terreno. Gli scavi successivi portarono in superficie ossa e antichi reperti, resti di tombe nelle quali gli antichi abitanti di Hallstatt avevano sepolto i loro morti. Gli schizzi dei ritrovamenti sono raccolti nei Grabungsprotokolle prodotti da Ramsauer, dettagliati resoconti sui quali si basano ancora oggi gli archeologi del Museo di Storia Naturale di Vienna, che ogni estate proseguono gli scavi portando alla luce sempre nuove scoperte. Nel 2003 fu rinvenuta una scala in legno lunga otto metri, la più antica d’Europa con oltre 3250 anni e costruita con un metodo unico. Gli scalini sono incastrati in entrambi i lati della scala per mezzo di scanalature, in un sistema modulare che la rende facile da smontare, trasportare e ricostruire altrove.

Le sepolture sotto tutela del museo sono circa 1500, ma si pensa che tra l’VIII e il IV secolo a.C. furono oltre quattromila le persone sepolte in questo luogo. Percorrendo il sentiero che comincia dalla Bergstation della funicolare e prosegue per circa 300m fino all’ingresso dei Salzwelten, si costeggia a sinistra un gigantesco cimitero preistorico a 840 metri di altitudine che si estende nel bosco, salendo quasi fino alle rocce.

I morti erano adagiati sulla schiena, con lo sguardo rivolto verso il lago. Numerosi scheletri presentano segni di usura riconducibili al duro lavoro fisico della miniera. Gli antichi abitanti credevano in una vita dopo la morte e i corredi funebri riflettevano l’appartenenza sociale del defunto. Si sono conservati in buone condizioni i

pezzi dei corredi realizzati in ceramica e metallo come gioielli, recipienti, attrezzi e armi, alcuni dei quali sono esposti all’interno della Rudolfsturm.

Poiché la posizione geografica del cimitero non ne consentiva l’ampliamento, le tombe dovevano essere reimpiegate. Teschi e ossa erano raccolti nell’ossario e decorati con il nome del defunto. Sono circa seicento i teschi presenti nell’ossario presso la chiesa cattolica di Hallstatt.

Lungo il sentiero si oltrepassa la

cappella di Santa Barbara, protettrice dei minatori. La leggenda narra che si fosse rifiutata di abbandonare la fede cristiana e per questo fosse stata rinchiusa in una torre per tre anni e decapitata dal padre, a sua volta colpito da un fulmine sul luogo dell’esecuzione. I 29 bottoni della giacca dei minatori, tre dei quali devono sempre rimanere aperti, commemorano l’età di Barbara al momento della morte. A partire dalle varietà di fili rinvenuti nella miniera si sono fatte sup-

posizioni su materiali e fantasie degli antichi capi di abbigliamento; sembra che, a essere particolarmente apprezzate, fossero righe, quadri e pied-depoule. Le donne indossavano probabilmente abiti lunghi fino a terra e un fazzoletto sulla testa, entrambi fissati con fermagli e fibbie. Gli uomini portavano pantaloni e corpetti a cui abbinavano copricapi in pelle, feltro e pelliccia. Il sale ha permesso di conservare anche reperti alimentari. I cereali dovevano essere alla base dell’alimentazione locale, come raccontano le tracce di antiche bucce di orzo, miglio e fave rinvenute a terra. Ma gli abitanti della zona erano onnivori, e parte della loro dieta era fatta di carne di maiale, camoscio e agnello. Grandi quantità di carne di maiale erano conservate sotto sale, un antenato dello speck. Cereali e maiale sono ancora oggi alla base di un piatto tipico in tutta l’area sud orientale delle Alpi, il Ritschert, preparato con carne affumicata e cotta con orzo, fave, piselli e miglio e insaporita con erbe aromatiche. Nelle miniere lavoravano anche donne e bambini. Le prime si caricavano i blocchi di sale sulla schiena

e li portavano fuori, i secondi rifornivano le gallerie di fasci di trucioli che servivano per l’illuminazione. La tecnologia ha reso possibile un’evoluzione delle tecniche di estrazione del sale, che oggi ne sfruttano la solubilità in acqua. Nella pietra salina si scava uno spazio per permettere all’acqua di fluire e il sale si scioglie in essa fino a raggiungere il punto di saturazione. Il liquido così ottenuto prende il nome di acqua salina. Un terzo del suo volume è rappresentato da sale disciolto, dieci volte in più rispetto al mare: solo il Mar Morto si avvicina a valori di salinità simili. Estratta dalla montagna per mezzo di pompe, l’acqua è deviata alla salina di Ebensee, a 40 chilometri di distanza e qui viene fatta evaporare, formando ciò che prende il nome di sale di ebollizione. Gran parte della produzione rimane in Austria per essere impiegata in cucina o come antigelo, mentre il sale industriale è commercializzato in tutta Europa e quello medicinale è esportato persino oltreoceano, per l’uso in integratori e preparati per flebo.

Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 13
Informazioni
Simona Dalla Valle, testo e foto Una distesa di sale da tavola di Bad Ischl. Al centro, la stazione è sul lato opposto del lago rispetto a Hallstatt, paese che si raggiunge in pochi minuti di traghetto; l’arrivo della funicolare, con sullo sfondo dopo il ponte la Rudolfsturm; in basso, esposizione sotterranea sui diversi tipi di sale.

Tagliatelle alle erbe aromatiche con pancetta

Ingredienti

Piatto principale

Ingredienti per 4 persone

250 g di radici di prezzemolo

2 spicchi d’aglio

3 c d’olio d’oliva

200 g circa di pancetta

o prosciutto crudo

100 g di pomodori secchi

sott’olio in vasetto

1 mazzetto d’erbe aromatiche

miste, ad es. basilico, prezzemolo

50 g di rucola

400 g di pasta fresca, ad es. fettuccine

sale

16 olive nere snocciolate, ad esempio Kalamata

pepe nero macinato fresco

Preparazione

1. Tagliare la radice di prezzemolo a fette sottili, e finemente l’aglio. Rosolare la radice di prezzemolo nell’olio, finché diventa croccante, poi aggiungere l’aglio, facendolo rosolare brevemente. Trasferire entrambi su carta da cucina.

2. Rosolare le fette di pancetta nella stessa padella, finché diventano belle croccanti poi lasciarle sgocciolare su carta da cucina.

3. Estrarre i pomodori dall’olio e dimezzarli a seconda delle dimensioni, scaldandoli nel grasso della pancetta.

4. Tritare grossolanamente le erbe e la rucola, e aggiungerle ai pomodori insieme alla radice di prezzemolo e all’aglio. Sbriciolare sul composto, metà della pancetta.

5. Cuocere le tagliatelle al dente in acqua salata, tenendo da parte un mestolo di acqua di cottura. Scolare la pasta, lasciandola sgocciolare.

6. Condire le tagliatelle con le olive e la miscela di erbe e pancetta. Se necessario, irrorare con un po’ di acqua di cottura messa da parte precedentemente. Quindi insaporire con pepe e sale, e servire con il resto della pancetta.

Consigli utili

Servire con parmigiano grattugiato di fresco e aromatizzare la pasta con l’olio dei pomodori sott’olio. Quale decorazione croccante: distribuire su una teglia da forno un po’ di prezzemolo riccio con i gambi. Irrorare con un po’ d’olio e mescolare bene. Lasciare essiccare nel forno a 180 °C per circa 25 minuti. Cospargere sulla pasta.

Preparazione: circa 30 minuti.

Per persona: circa 22 g di proteine, 43 g di grassi, 62 g di carboidrati, 740 kcal/3050 kJ.

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Un intero esercito di giocattoli in adunata

Collezionismo ◆ Dagli albori della storia a oggi attraverso lo sguardo dei soldatini di ogni

Maria Grazia Buletti

Proprio di soldatini stiamo parlando, e non di qualche centinaio, magari di piombo, come quelli che pensavamo di trovare, bensì di un numero imprecisato molto, molto superiore di quanto ci immaginavamo. La collezione di Nicola Maspoli comprende ogni genere di figure costituite da materiali che ne testimoniano la storia e l’evoluzione nei tempi. Non sappiamo da dove cominciare a guardare, a chiedere, a sapere, a scoprire: tutti troppi e tutti incredibilmente variegati, allineati nelle bacheche che, a fronte delle loro dimensioni, ci

sembrano immensi contenitori vetrati: «Avevo tre anni e credevo molto a Gesù Bambino, alla magia del Natale. Mi ricordo di essermi svegliato e di essere subito andato a vedere cosa mi aveva portato. Accanto all’albero con le candeline vere, di quelle che si accendevano per pochissimo tempo nel timore che qualcosa prendesse fuoco, c’era questo castello sul tavolino, e quella luce magica…».

Con l’esuberanza di chi non vedeva l’ora di condividere la sua pazzesca collezione, Nicola Maspoli ci viene in aiuto mostrando un castello poggiato sul tavolino dinanzi a noi, il cui spazio residuo è animato da un campo indiano, dalle sue tende e da una marea di soldatini. A piedi, a cavallo, assieme agli indiani, il tutto a creare la vita del campo e a dar forma a varie narrazioni interne: «Ci sono ancora quei primi soldatini che si sono anche un po’ rovinati, tanto ci ho giocato». Dal racconto di Nicola Maspoli riviviamo la magia di quella mattina di Natale, quando suo padre, Sergio, gli fa trovare l’incredibile regalo: «Era il 1959. Proprio allora è iniziato il mio amore verso i soldatini di ogni materiale».

Mentre prendiamo qualche figura fra le mani, ne guardiamo altre, incantati dall’allestimento e dalle messe in scena fra castello e campo Sioux. A guidarci nella storia attraverso i materiali con cui sono stati via via realizzati, è un sempre di più appassionato

Giochi e passatempi

Cruciverba

Il più piccolo cetaceo al mondo, misura circa 135 centimetri. Come si chiama?

Scoprilo rispondendo alle definizioni e leggendo nelle caselle evidenziate.

ORIZZONTALI

2. Col suo fegato si fa il paté

5. Flemmatica

10. Cade nel mezzo

12. La volgare d’altri tempi...

14. Cappio, occhiello in inglese

15. Si segna a calcio

17. Un sentimento

19. Il Paradiso delle Alpi

21. Il fiume che bagna Firenze

22. Misura lineare inglese

24. L’Angela presentatore (iniz.)

25. Prima di me e di te

26. Movimento involontario

genere

Nicola Maspoli: «Fino agli anni Sessanta il soldatino più economico era quello “di carta”: disegni e fumetti pubblicati anche sul Correre dei Piccoli che naturalmente io ho». Orgoglioso, ce ne mostra uno mentre prosegue: «In quegli anni, c’erano solo i soldatini di cartapesta (perché ancora non era stata inventata la plastica molle) e i soldatini di plastica dura che erano fragilissimi: se fossero caduti per terra si sarebbero rotti».

Il piccolo Nicola capisce presto con quali poteva giocare e quali sarebbero stati solo da conservare, dando inizio alla collezione. «Avevo sei anni, nel pieno degli anni Sessanta, quando è arrivata la plastica molle (nelle sorpresine si trovavano gli indiani, i cow boys e via dicendo) con cui si poteva giocare perché non si rompevano, mentre in Italia avevano avuto l’idea di fabbricarli anche in gomma». Ce li mostra mentre afferma che «sono eterni, questi hanno 60 anni!».

Dagli anni Settanta, ci spiega, il mondo dei soldatini è cambiato: «Sono venute un po’ meno la comprensione di cosa ci sta dietro: come l’amore e il rispetto della cultura del giocattolo attraverso la cura nella costruzione, ad esempio, di quelli di cartapesta; non si dipingono più (costi alti) e si stampano oppure si vendono così, anonimi e grigi».

Nicola Maspoli fatica ad arginare l’entusiasmo per la sua collezione; gli chiediamo se conosce il Mu-

Nicola Maspoli e i suoi soldatini. (Vincenzo Cammarata)

seo del Soldatino a Bologna. Anche qui restiamo sorpresi: «Certo! Ho un amico a Bologna, ci siamo conosciuti per i soldatini e ci frequentiamo da quasi 40 anni: ci scambiamo visite e soldatini, ci sentiamo al telefono…». Insieme al ricordo della sorprendente collezione della Regina Elisabetta II a cavallo, gli aneddoti che portiamo con noi sono due. Il primo ha che fare con lo scambio generazionale: «Ho giocato parecchio anche con mio figlio, coi soldatini Playmobil perché questi si sarebbero rovinati, ed era bellissimo!». La seconda meraviglia è l’abilità con cui ha costruito con le proprie mani i soldatini «delle guerre di Borgogna tra Carlo il Temera-

rio e gli Svizzeri: faccio gli stampi in caucciù, modifico un indiano e lo vesto con armatura, faccio il calco e produco il soldatino».

Ma quelli più belli in assoluto da lui costruiti? Forse per la storia che conservano, sono quelli di legno grandi almeno quindici centimetri: «Circa 40 anni fa ho conosciuto un bambino di 6 o 7 anni che stava perdendo la vista. Allora, gli ho fabbricato soldatini di legno come questi, li ho dipinti uno per uno (lui voleva quelli di Napoleone) per permettergli di giocarci: era così contento perché così grandi li poteva vedere, per cui pure lui poteva finalmente giocare coi soldatini!».

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1. Alberi ad alto fusto

3. Le iniziali dell’attore Eastwood

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 15
Sofia Ricci 7. Famoso 8. Cifra approssimativa 9. Ripudio del proprio credo 11. Nome femminile 13. Aria calda e umida 16. Casa in portoghese
18.
Ha due code
20.
Simbolo chimico
del neodimio 23. Capitale europea 25. Aggettivo possessivo 27. Un articolo 28. Baronetto inglese 30. Bagna Rostov 31. Santa... in Argentina
(Frase: 6, 3, 5, 2, 10) inserire nelle
caselle colorate.
«…DOMANI
1 2 34 5 6 78 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 DETT O RO M A N I INOX CUP REO S ON MID UNO P RIM O E LF O S AMO SERIO TA R E ATRIO SEL I AGIO NONNI O SO ILE ONE A V I I NA UDIR REALTA P R OSA 7 64 412 69 5 8 7 2 39 25 4 4 8 9 9 1 8 23 5 1932 874 65 2763 458 91 5481 962 73 6 5 1 7 2 8 9 3 4 7249 635 18 3895 147 26 8 3 2 6 5 9 1 4 7 9654 713 82 4178 326 59
Soluzione della settimana precedente «Mi guardo allo specchio e mi vedo giovane, simpatico e in forma, come se avessi 20 anni...!» Resto risultante della frase:

Il 14 febbraio è San Valentino

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Lombardia e Lazio al voto

Il 12 e 13 febbraio sono previste le elezioni amministrative in Lombardia e nel Lazio dove il PD rischia di incassare dolorose sconfitte

Ricucendo le lacerazioni del passato

La storia di alcune città divise – Mostar, Gorizia, Beirut, Nicosia – e i faticosi tentativi di guarire ferite e rancori antichi

Dove l’unico desiderio è sopravvivere Reportage da Dadaab, immenso campo profughi che esiste dal 1991 in Kenya. Save the Children: «Qui fame e violenza sono la norma»

Pechino in crisi cambia strategia

L’analisi ◆ La modesta crescita economica e la rigidità nella gestione della pandemia si riflettono sulla stabilità politica interna

La Cina sta correggendo la rotta. Gli ultimi tre anni, segnati dal Covid, dalla tensione crescente con l’America e dalla guerra in Ucraina hanno messo in questione il senso di marcia impresso da Xi Jinping (nella foto) all’Impero del Centro. Le sue premesse si sono rivelate errate o almeno discutibili. A partire dal certificato di declassamento della superpotenza americana – la crisi profonda c’è, ma non è (ancora?) finale – dall’ascesa inarrestabile della potenza cinese e dalla disponibilità del resto del mondo ad accodarsi a Pechino in quanto inevitabile numero uno del secolo. Tutte analisi come minimo affrettate.

La Cina si trova infatti in crisi economica, politica e geopolitica. L’anno scorso, causa soprattutto le chiusure da Covid, la crescita del PIL è stata ufficialmente del 3%, molto al di sotto del minimo (5-6%) che il Governo della Repubblica Popolare considera accettabile non solo per lo sviluppo del Paese ma soprattutto per la tenuta del regime. Il consenso tuttora forte alla dinastia rossa al potere dal 1949 si basa sulla diffusione del benessere per

un Paese che da due sole generazioni non soffre più la morte per fame. La modesta crescita economica, insieme alle difficoltà del sistema finanziario e del mercato immobiliare, alle ombre che si stagliano sulle Nuove vie della seta – progetto di controglobalizzazione in salsa sinica – si riflettono sulla stabilità politica interna. Il Congresso del Partito comunista, in ottobre, ha dato mandato a Xi Jinping di procedere a una revisione tattica per evitare che la crisi diventi pericolosa per il futuro del regime.

La Cina si è resa conto che inasprire lo scontro con l’America, fino alla guerra per Taiwan, non è per nulla saggio

La correzione di rotta è stata brusca. Da gennaio la politica «zero Covid», dogma di Xi, è stata abolita in favore della riapertura delle città alla vita normale e delle fabbriche alla produzione standard. A rischio di un numero elevato di vittime del virus, visto che il sistema sanitario e i vaccini

a disposizione del popolo cinese non sono all’altezza dell’epidemia. Ma un Paese di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti – per la prima volta in lieve decrescita da molti decenni – può sopportare il sacrificio ulteriore di qualche centinaio di migliaia o milioni di vittime (i numeri restano segreti) pur di evitare il collasso del regime. Contemporaneamente, Xi ha messo in riga i «lupi guerrieri». Ovvero i diplomatici e politici che negli ultimi anni hanno comunicato al mondo l’arroganza cinese, che evidentemente Pechino riteneva di potersi permettere proprio per l’illusione che gli altri Paesi fossero disposti ad allinearsi alla Cina in quanto prossimo numero uno del pianeta. Il tono della comunicazione è addolcito. Soprattutto la Cina ha riaperto un canale di serio dialogo con gli Stati Uniti, dopo che i duellanti per l’egemonia planetaria avevano passato il tempo a insultarsi platealmente.

La svolta non è solo retorica. Pechino si è resa conto che inasprire lo scontro con l’America, fino alla guerra per Taiwan, non è saggio. La Cina non può permettersi lo scontro

militare con gli Stati Uniti. Lezione appresa grazie anche alla guerra in Ucraina. Xi è deluso e contrariato da Putin. Il presidente russo gli aveva mentito sul senso dell’operazione militare speciale – o forse aveva solo mentito a sé stesso – dipingendola come una trionfale marcia su Kiev.

L’amicizia «senza limiti» sancita a inizio febbraio scorso dai due leader è in questione. Non fino al punto da portare Mosca e Pechino verso il divorzio. La Cina ha un solo partner potente al mondo: la Russia. Nel caso la coppia scoppiasse, Xi sarebbe completamente isolato. Quindi deve ingoiare qualche boccone amaro pur di tenere agganciati i russi, naturalmente questo vale a maggior ragione per Putin.

Stiamo dunque avvicinando una nuova stagione nei rapporti fra Cina e America? Non proprio. Il piano inclinato su cui corrono le relazioni sino-americane continua a tendere verso lo scontro. A Washington si rafforza il partito della guerra preventiva contro Pechino. Alti ufficiali americani evocano la probabilità della scontro intorno al 2025. E i «fal-

chi» cinesi, provvisoriamente invitati all’automoderazione, considerano anch’essi prossima la resa dei conti con gli americani. La correzione di rotta adottata da Xi non garantisce affatto un compromesso, meno ancora un condominio sino-americano sul pianeta. È un’ammissione implicita di debolezza. Un tentativo di scongiurare una crisi finale. Un modo per giungere all’eventuale guerra con il numero uno su una base più solida.

Chi ha salutato con particolare compiacimento la riapertura delle città e delle fabbriche, dunque la ripresa dell’economia cinese, sono i partner commerciali di Pechino. In particolare gli europei. Su tutti la Germania, che negli ultimi trent’anni ha strutturato le sue relazioni economiche con la Cina in modo assolutamente speciale, a scapito del mercato europeo e delle buone relazioni con l’America. Vedremo nei prossimi mesi e anni quanto la correzione di rotta permetterà alla Cina di riprendere un corso più tranquillo di sviluppo della sua economia e della sua potenza. Su cui spicca oggi un enorme punto interrogativo.

ATTUALITÀ ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17 Keystone
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Democratici alla deriva

Elezioni ◆ Il 12 e 13 febbraio sono previste le Amministrative in Lombardia e nel Lazio dove il PD rischia di incassare dolorose sconfitte, ecco perché

Il PD eleggerà il suo segretario nazionale, favoritissimo Stefano Bonaccini, il 26 febbraio, due settimane dopo la tornata elettorale in Lombardia e nel Lazio (12 e 13 febbraio). Con la quasi certa doppia sconfitta, i democratici avranno toccato il punto più basso della loro storia e potranno prendersela soltanto con la propria insipienza. Una collezione di errori che ha pochi precedenti. Il capolavoro di Enrico Letta, tanto perbene quanto inadeguato, è stato il cocciuto rifiuto di un’alleanza con il M5S nelle consultazioni nazionali dello scorso settembre. Disse no a Giuseppe Conte, accusato di aver fatto cadere il Governo Draghi; disse sì alla sinistra radicale di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che in Parlamento per cinquanta volte su cinquanta avevano negato la fiducia a Draghi. Una scelta incomprensibile, che ha consentito al centrodestra trainato da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni di far man bassa alla Camera e al Senato con il 44% dei consensi contro il 50% raccolto dall’opposizione e vanificato dall’aver fatto ognuno corsa a sé.

Il grave errore di Enrico

Letta è stato il cocciuto rifiuto di un’alleanza con il M5S nelle consultazioni nazionali

Dal risultato settembrino sono derivate le scelte nelle due Regioni. Malgrado i fastidi di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi per l’incontenibile crescita di Meloni, a cavallo del 30%, il centrodestra ha confermato l’unione elettorale con la prospettiva assai concreta di conservare la Lombardia e di conquistare il Lazio, fin qui governato da Nicola Zingaretti, che è stato pure segretario del PD. Un esito reso possibile dalle divisioni del presunto fronte progressista. A Milano la candidatura da indipendente di Letizia Moratti sembrava la mossa giusta per dare scacco matto all’avvocato varesino Attilio Fontana, leghista e presidente uscente in corsa per il secondo mandato. A Roma l’ex assessore alla sanità Alessio D’Amato, forte dell’ottimo comportamento delle strutture pubbliche durante la pandemia da Covid, sembrava il candidato idoneo

Boom di miliardari nel Regno Unito

Divari ◆ Mentre oltre 13 milioni di persone vivrebbero sotto la soglia di povertà

per conservare al PD la presidenza. Invece non è andata così.

Moratti era stata chiamata da Berlusconi e Salvini per salvare la giunta Fontana nell’infuriare del Covid. Le avevano affidato vicepresidenza e sanità con ottimi esiti. Tuttavia, quando ha capito che i due compari avrebbero ricandidato Attilio Fontana, si è staccata forte del suo passato (ex ministra dei Governi Berlusconi, ex presidentessa della RAI, addirittura evocata quale possibile successore di Sergio Mattarella al Quirinale) e del cognome pesante. Dire Moratti, il defunto marito Gianmarco, significa dire petrolio, Inter, finanza, assistenza sociale (il centro antidroga di San Patrignano). Un reticolo di rapporti capace di supportarla anche nell’urna. La sua discesa in campo ha terrorizzato il centrodestra. Se avesse ricevuto l’appoggio del PD avrebbe conquistato la Regione. Uno scacco pressoché definitivo per Salvini, la cui Lega rischia di essere doppiata da Fratelli d’Italia nella terra d’origine, un tempo serbatoio di voti (i sondaggi dicono 28% contro 14%).

Ma il PD si è erto a paladino della propria purezza con il retropensiero che la presenza di Moratti avrebbe eroso in maniera decisiva i consensi di Fontana e consentito al proprio alfiere, il solerte Pierfrancesco Maiorino, di vincere. Calcolo sbagliato: Moratti è data intorno al 20% e Fontana sarà riconfermato con una percentuale intorno al 40%. Il 33% di Maiorino servirà soltanto ad acuire i rimpianti per non aver messo Salvini nei guai – in caso di perdita della Lombardia, una larga fetta della Lega era pronto a metterlo nell’angolo – e conquistare la principale Regione italiana. Non è un caso se in cinquantadue anni il centrosinistra l’abbia guidata soltanto per diciotto mesi con Fiorella Ghilardotti, dal novembre 1992 al giugno 1994. Ne approfitterà Fratelli d’Italia: ha già fatto pesare di essere determinante chiedendo la maggioranza assoluta degli assessori e annunciando una sorta di tutela su Fontana.

Nel Lazio si sono abbattuti sul PD gli opportunismi di Conte ormai decisissimo a frantumarlo nella speranza di raccoglierne i cocci. L’infiocchettato professorino si è impossessato del M5S relegando Beppe Grillo al ruolo di santo patrono silenzioso, grazie ai 300mila euro annui di

consulenza. In effetti la svolta tribunizia di Conte, dalla difesa del reddito di cittadinanza al pacifismo «putiniano» nei confronti dell’Ucraina, ha consentito ai pentastellati di salvarsi alle elezioni e di essere oggi accreditati di un 18%, che ne fa la principale forza di opposizione. Conte non ha giocato per vincere, bensì per non far vincere il PD e obbligare il prossimo segretario ad andargli al traino. Di conseguenza ha detto sì a un accordo in Lombardia, dove il M5S è da sempre in affanno, incapace di raggiungere un risultato a due cifre, attualmente sta fra il 7-8%. Mentre si è opposto alla richiesta di correre assieme nel Lazio, dove ha presentato una propria candidata, il volto televisivo Donatella Bianchi, accreditata di circa il 17%. Unito al 35% di D’Amato avrebbe significato battere il rappresentante designato dalla corte meloniana, Francesco Rocca, dato al 43%. La discesa in campo di Moratti ha terrorizzato il centrodestra. Con l’appoggio del PD avrebbe conquistato la Regione

Fino alla candidatura Rocca è stato il presidente della Croce Rossa Italiana. Prima avvocato, poi manager ospedaliero, è circondato da buona stima. Perfino la gioventù spericolata, problemi di droga con una condanna per spaccio, si è tramutata nel trionfo della riabilitazione al servizio della comunità. La sua campagna elettorale si è basata sulla difesa dei troppi vulnerabili. Tuttavia sta inanellando una gaffe dopo l’altra e, a livello personale, sembra raccogliere meno voti dei partiti, che lo sostengono. A dispetto degli avversari, la sua vera forza è la loro disarticolazione. Sembra colpire anche Azione di Carlo Calenda e Matteo Renzi, descritti in crescente dissenso e lontani dal costituire un sostanzioso terzo polo, eventuale arbitro della contesa fra destra e sinistra. Anch’essi sono a rischio ridimensionamento. Forse è il motivo dell’improvvisa sintonia con Meloni: si offrono come ancora di salvataggio in alternativa a Salvini e nella speranza di attrarre i naufraghi di Forza Italia alle prese con l’inesorabile invecchiamento di Berlusconi.

Se nell’ultimo triennio larga parte dei sudditi di Sua Maestà ha accusato i colpi delle crisi innescate da Brexit e pandemia, i super ricchi invece non sono solo diventati più ricchi, ma anche più numerosi. I titolari di patrimoni a nove zeri, infatti, dal 2020 al 2022 sono aumentati del 20%, passando da 147 a 177. Un trend in corso da tempo (nel 1990 i miliardari erano appena 15), ma che negli ultimi anni ha subito un’accelerazione anche per effetto degli interventi di Governi e banche centrali volti a contenere le ripercussioni dell’emergenza sanitaria globale. L’azione della Banca d’Inghilterra – come del resto quella di istituti di credito in altri Paesi – azzerando il tasso di sconto e pompando liquidità nell’economia, alla fine si è rivelata un’arma a doppio taglio. Ha favorito infatti un exploit di ricchezza a beneficio dei miliardari, sulla pelle delle fasce meno abbienti. A lanciare l’allarme è l’associazione britannica no profit Equality Trust, secondo la quale il tentativo di evitare una delle peggiori recessioni della storia, sostenendo imprese, famiglie e Governo con un minore costo del denaro, ha avuto l’effetto boomerang di gonfiare il prezzo dei beni a vantaggio di ricchi investitori che hanno ammassato profitti sia sul mercato mobiliare che su quello immobiliare.

Per fare un esempio, secondo un’indagine svolta da Resolution Foundation, il 10% della fascia più ricca residente in Gran Bretagna – cui fa capo quasi il 60% della ricchezza del Paese – durante la pandemia ha registrato guadagni di oltre 50mila sterline solo grazie all’aumento dei prezzi delle case

la ricchezza del Paese ed è ora che il Governo intervenga».

Dal 1990 a oggi il patrimonio nel Regno Unito dei super-ricchi è salito –tenuto conto dell’inflazione – da 53,9 ad oltre 653 miliardi di sterline, registrando così un incremento superiore al 1000% in 32 anni. I miliardari, inoltre, se a quell’epoca erano appena 15, con la regina Elisabetta in testa quando il suo patrimonio computava ancora la collezione d’arte reale, adesso sono quasi 180 e contano molti stranieri. Nel secolo scorso, nella celebre Sunday Times Rich List – la celebre lista dei Paperon de’ Paperoni del Regno compilata ogni anno dal domenicale – spiccavano aristocratici, magnati del petrolio o dello shipping. Oggi nella top ten l’unico nato in Gran Bretagna è l’imprenditore di apparecchi domestici James Dyson, che – con una fortuna di 23 miliardi sterline – svetta al secondo posto, fra due coppie di fratelli indiani: gli Hinduja, al primo posto con quasi 28,5 miliardi di sterline di patrimonio accumulato puntando sui veicoli elettrici e i Rubens, immobiliaristi con asset per oltre 22 miliardi di sterline. Nelle prime dieci posizioni figurano anche l’ucraino Lev Blavatnik, lo svizzero Guillaume Pousaz e l’indiano Lakshmi Mittal. Per entrare nella graduatoria bisogna essere nati nel Regno Unito, avere la cittadinanza britannica o la residenza nel Paese, oppure possedere ingenti risorse nel Regno. La progressiva trasformazione dell’economia britannica avviata a partire dagli anni Settanta da manifatturiera a finanziaria e i legami del Regno con ex colonie divenute paradisi fiscali, come le Isole Vergini Britanniche o le Cayman Islands, hanno sicuramente contribuito all’attrazione di capitali stranieri, alla polarizzazione della ricchezza e all’aumento dei divari nella società.

e al fatto di avere avuto meno opportunità di spesa. Intanto, secondo gli ultimi dati pubblicati dalla Joseph Rowntree Foundation, sono ben 13,4 milioni le persone che vivono sotto la soglia di povertà in Gran Bretagna, la metà delle quali non può permettersi cibo, acqua e riscaldamento. Circa 1,3 milioni di poveri hanno meno di 12 anni: un bambino britannico su quattro. Sono numeri sconvolgenti che delineano un divario economico e sociale nel Regno Unito senza precedenti. Tuttavia non è una situazione irreversibile.

«Chiediamo al Governo di tassare la ricchezza in linea con il reddito, riformare il settore finanziario e porre fine agli schemi che incoraggiano l’elusione fiscale», ha dichiarato a «The Guardian» Jo Wittams, co-direttrice esecutiva di Equality Trust. «Due terzi dell’opinione pubblica britannica concorda che i lavoratori non percepiscono una quota adeguata del-

Come mettere lo stop a una situazione che sta diventando via via più insostenibile? Oltre all’introduzione di tasse patrimoniali progressive mirate a redistribuire la ricchezza, Equality Trust propone una profonda riforma del settore finanziario con l’implementazione di regole che mettano fine a destabilizzanti speculazioni e l’eliminazione di strumenti che creano indebiti vantaggi. Quanto ai servizi pubblici essenziali, dovrebbero tornare in mano pubblica per assicurare che i bisogni primari dei cittadini possano essere soddisfatti a prezzi ragionevoli.

L’idea di introdurre patrimoniali sui super-ricchi per ridurre le ineguaglianze esacerbate dal costo della vita ora alle stelle è stata di recente promossa anche da economisti come il premio Nobel Usa John Stiglitz e anche da alcuni super-ricchi in persona. Centinaia di miliardari e multimilionari provenienti da varie parti del mondo – inclusa l’erede Disney, Abigail Disney, e l’attore Mark Ruffalo – si sono presentati infatti al World Economic Forum di Davos con lo slogan: «Tassate noi, ultra-ricchi, adesso». Il fenomeno, infatti, non riguarda solo il Regno Unito ma ha dimensioni più vaste, come evidenziato da un recente studio di Oxfam, secondo il quale due terzi della nuova ricchezza prodotta dall’inizio della pandemia è finita nelle mani dell’1% più ricco della popolazione.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 19
Il segretario del PD Enrico Letta e, sullo sfondo, Giuseppe Conte. (Keystone) Nel 2012 lo svizzero Guillaume Pousaz ha fondato a Londra la società Checkout.com. (AFP)
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Per andare oltre il confine

Prospettive ◆ La storia di alcune città divise – Mostar, Gorizia, Beirut, Nicosia – nel saggio dello storico Francesco Mazzucotelli

Romina Borla

Pensiamo a Gerusalemme, città contesa tra israeliani e palestinesi, dove in queste settimane è tornata a salire la tensione. Ma anche a Belfast, teatro di sanguinosi contrasti tra la comunità nazionalista cattolica e quella unionista protestante, o Johannesburg che durante l’Apartheid era divisa in aree residenziali riservate alle diverse etnie. Per avvicinarci a noi: Berlino, tranciata in due dal celeberrimo Muro, simbolo tangibile della cortina di ferro che separava l’Occidente della NATO dai Paesi sotto l’influenza sovietica. E l’elenco potrebbe continuare. «Alcune città del mondo sono state fisicamente divise da conflitti internazionali e interni che hanno squarciato il tessuto urbano, creando barriere materiali e immateriali tra case, quartieri e persone», spiega lo storico Francesco Mazzucotelli che insegna all’Università di Pavia. Frontiere che agiscono anche in maniera brutale sulla psiche della gente producendo spaesamento e smarrimento, i quali in taluni casi portano alla malattia mentale. «Si tratta di profonde ferite e rancori radicati che perdurano nonostante il raggiungimento di accordi di pace, ma non mancano percorsi di faticosa e lenta ricomposizione, promossi da frange minoritarie che rifiutano la logica della polarizzazione e del rigetto dell’altro». Sono proprio questi slanci, questi «tentativi di ricucire le lacerazioni del passato», che il nostro interlocutore evidenzia nel saggio di recente pubblicazione Storie di città divise (Moltefedi).

Il libro si concentra sulla storia di realtà che Mazzucotelli ha avuto modo di conoscere da vicino. Quattro città – ovvero degli insiemi di elementi interconnessi, delle unità funzionali – che a un tratto, e in maniera traumatica, si ritrovano separate: Mostar, Gorizia, Beirut e Nicosia. Partiamo da Mostar, il centro principale dell’Erzegovina nel contesto dello Stato jugoslavo, che fu devastato dalla guerra civile (1992-95) seguita alla proclamazione di indipendenza della

Bosnia ed Erzegovina. «Il 9 novembre 1993 – spiega l’intervistato – le milizie croato-bosniache fecero saltare in aria il ponte vecchio che dà il nome alla città, lo Stari Most, commissionato dal sultano Süleyman e realizzato nel 1557. Uno sfregio. Il ponte era infatti considerato uno dei segni più imponenti della presenza ottomana nei Balcani e il simbolo della città “mista” di Mostar, dove la popolazione era quasi egualmente suddivisa tra musulmani, croati (cattolici), serbi (ortodossi) e “jugoslavi” (persone che non volevano dichiarare una particolare identità etnica o religiosa). Prima del 1992 non esistevano quartieri segregati: i matrimoni misti erano frequenti e i vari gruppi erano presenti in tutte le aree cittadine». Alla fine del 1993 c’erano invece due blocchi distinti: una parte ovest controllata dai croato-bosniaci e una parte est controllata dai musulmani. Gli spostamenti coatti di popolazione, tesi a omogeneizzare il proprio settore ed espellere le minoranze indesiderate, hanno ulteriormente cambiato la fisionomia della città anche dopo la fine delle ostilità.

La ricostruzione dello Stari Most, nel 2004, è stata interpretata – con troppa fretta – come la ricomposizione dei legami tra le due sponde della città e tra fazioni in lotta, dice Mazzucotelli. «In realtà, al di là della politica dei simboli, il percorso da fare è ancora lungo. Mostar resta divisa dal punto di vista istituzionale. A fine anni Novanta ci fu il tentativo di trasformarla in un protettorato sotto il controllo diretto dell’UE. Non ha funzionato a causa delle resistenze sia da parte croata che musulmana. Mentre nell’ultimo decennio, visto il mancato svolgimento del voto per il rinnovo dei poteri locali, si sono mantenute amministrazioni separate su base etnica e accumulati numerosi problemi legati alle infrastrutture e ai servizi comunali. Problemi di difficile risoluzione se non si adotta una visione unitaria e condivisa».

Passiamo a Gorizia. Dopo l’italia-

nizzazione forzata imposta dal regime fascista, il trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, alla fine della seconda guerra mondiale, tracciò il nuovo confine tra Italia e Jugoslavia a ridosso del centro storico della città, lasciando periferia e paesi limitrofi sul lato jugoslavo. La «Nuova Gorizia» nacque nel giugno del 1948, quando furono poste le fondamenta del nuovo agglomerato urbano al posto del centro storico rimasto sul lato italiano. «La relazione tra Gorizia e Nova Gorica nei decenni successivi fu segnata dalla contrapposizione tra modelli politici e ideologici diversi, acuita dalle narrazioni e recriminazioni nazionali, ma anche da una quotidianità intessuta di scambi e relazioni, sin dal periodo della stabilizzazione dei rapporti tra Italia e Jugoslavia all’inizio degli anni Sessanta». Oggi – osserva lo storico – al posto delle recinzioni di filo spinato si snoda un sentiero ciclopedonale che attraversa vigneti, campi e villette di periferia. A volte capita che la casa si trovi in Italia e l’orto in Slovenia, o viceversa. «Diversamente dal caso di Mostar, le due municipalità hanno trovato una formula di amministrazione congiunta. In particolare nel 2011 si è formato il Raggruppamento europeo di cooperazione territoriale tra i Comuni di Gorizia, Nova Gorica e Šempeter-Vrtojba». Entità che si è ad esempio occupata del progetto di gestione del bacino del fiume Isonzo e del recupero urbanistico della piazza della stazione Transalpina. «Si tratta di una sfida all’approccio Stato-centrico che concepisce l’UE solo come un’unione di Stati nazionali e istituzioni finanziarie, e non anche come un’alleanza di regioni e comunità territoriali», osserva l’esperto. «La candidatura congiunta (e vincente) di Nova Gorica e Gorizia come capitale europea della cultura per il 2025 si basa precisamente su questa impostazione, ovvero la volontà di andare al di là del confine». Guerra civile (1975-1990) e strappi traumatici hanno caratterizzato anche la storia di Beirut, capitale del Liba-

no. «Il conflitto intestino libanese viene spesso presentato come una contrapposizione tra la destra cristiana, che puntava a mantenere l’egemonia politica e sociale e un allineamento filo-occidentale in politica estera, e un coacervo di formazioni armate palestinesi, nazionaliste arabe e di sinistra che aspiravano al ribaltamento dello status quo. A questo bisogna aggiungere le dinamiche della guerra fredda e le manovre degli attori regionali, come Israele e Siria. I due schieramenti sulla carta si tradussero, nella realtà, in una congerie di bande armate sotto il controllo di capi carismatici e opportunisti, mentre le motivazioni ideologiche lasciavano il posto alla predazione criminale». Beirut venne sbriciolata – sottolinea Mazzucotelli – mentre le microguerre, caratterizzate da cambiamenti di alleanze e rovesci di fortuna, produssero una frammentazione tra gli spazi sotto il controllo delle diverse milizie; le linee di combattimento fortificate; e la terra di nessuno in quello che era stato il cuore commerciale della città. «La fine dei combattimenti nel 1990 non ha significato il ritorno alla pace», afferma l’intervistato. «Sono rimaste contrapposizioni e tensioni che periodicamente riemergono. L’instabilità del Medio Oriente, gli scontri nei territori palestinesi e la guerra civile in Siria contribuiscono a infiammare la vita politica libanese, già di per sé molto tesa. Il tentativo di ricostruire Beirut come centro regionale della finanza e dei servizi è riuscito solo in piccola parte: la grave crisi economica degli ultimi tre anni, che ha messo il Paese in ginocchio,

ha mostrato tutti i limiti del sistema clientelare libanese. Manca una memoria condivisa e perciò abbondano le recriminazioni e i sospetti tra i diversi settori della società».

Infine Nicosia che – dice Mazzucotelli – durante gli scontri del 1963 tra greco-ciprioti e turco-ciprioti venne divisa da una linea di demarcazione tracciata da un ufficiale britannico con una penna a sfera con l’inchiostro verde. «Con l’invasione militare turca, nell’estate 1974, quella linea verde diventò una frontiera militarizzata – presidiata dalle truppe ONU – che ha diviso in maniera pressoché insuperabile la città e tutto il resto dell’isola sino al 2004, anno del fallito referendum sull’unificazione. Da allora i negoziati tra parte nord (Turchia) e sud dell’isola continuano ad avere alti e bassi». Si è comunque verificato un certo rilassamento delle formalità durante gli attraversamenti tra le due aree, facilitando scambi e spostamenti in entrambe le direzioni, però la pandemia ha sparigliato le carte e riportato a una chiusura totale della frontiera. Il Covid – non solo a Nicosia – ha mostrato, da un lato, come la liberalizzazione delle modalità di attraversamento dei confini tra Stati non sia una conquista e, dall’altro, come sia difficile superare le fratture del passato. «Ma qualcosa si muove anche a Nicosia, a partire dalla strategia congiunta di pianificazione urbana nota come Nicosia Master Plan, che tenta di gestire lo sviluppo e le trasformazioni urbane anche in mancanza di un accordo politico definitivo». Insomma, la speranza di un futuro diverso resiste.

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«La tua pancia è adulta, il tuo cuore bambino»

Kenya ◆ Viaggio a Dadaab – immenso campo profughi che esiste dal 1991 – dove fame, violenza e stupri sono la normalità Francesca Mannocchi, testo e foto

Njamal ha 16 anni, è nata in Sud Sudan ed è arrivata nel campo profughi di Dadaab, in Kenya, quando ne aveva 11. Sua madre è fuggita portandola via dalla guerra e dalla fame. Quando pensa ai suoi primi ricordi di quelle settimane, Njamal cambia sguardo. Dice solo: «Mia mamma mi ha portato qui per salvarmi e sono stata macchiata per sempre».

Poche settimane dopo il suo arrivo, infatti, è stata stuprata. Era solo una bambina e per lei è stata dura capire cosa stesse accadendo e gestire la vergogna. Aveva paura di dire a sua madre cosa era accaduto, cioè che era andata a prendere la legna nella radura intorno al campo profughi per attrezzare una tenda di fortuna e lì è stata sorpresa da un uomo che l’ha violentata, uccidendo per sempre la sua infanzia. Njamal l’ha detto a sua madre quando non poteva più nasconderlo. Esprime i ricordi di quei mesi con questa frase: «Senti qualcosa nello stomaco, un dolore, una nausea. La tua pancia è adulta, ma il tuo cuore è ancora bambino».

Quel neonato, nato quando lei stessa era ancora molto piccola, non l’ha mai chiamato figlio. Se ne prende cura sua madre. Njamal da allora è stata sostenuta da un gruppo di supporto psicologico gestito dalla missione di Save the Children in Kenya; ma l’anno scorso l’ombra del suo passato è tornata, e lei ha subito di nuovo violenza. Il figlio nato da questo secondo stupro è nelle sue braccia, mentre prova ad allattarlo, seduta sotto la poca ombra delle strade polverose di Dadaab.

Quel neonato, nato quando Njamal era ancora una bambina, non l’ha mai chiamato figlio. Se ne prende cura sua madre

Alla domanda: cos’è per te l’infanzia?

Risponde: «Niente di buono, l’inferno». Alla domanda: cos’è per te il futuro? Dice: «Non riesco a pensare al futuro, penso solo sia arrivato il momento di abbandonare i miei sogni».

Il sogno che aveva da bambina, prima che la sua infanzia fosse inghiottita per sempre dalla violenza, era scrivere. Avrebbe voluto studiare, diventare una scrittrice, mettere su carta le storie degli altri o inventarne. Oggi ha dovuto smettere anche di frequentare le scuole informali che le organizzazioni umanitarie approntano per i bambini rifugiati nel campo, per insegnare loro a leggere e scrivere. Se studiasse non potrebbe prendersi cura di suo figlio, del figlio frutto della seconda violenza che ha subito.

«L’impossibilità di immaginare il futuro è comune agli adolescenti che vivono nel campo», dice Tukow Nuuh, operatore di Save the Children specializzato nella protezione dei bambini. «Noi chiamiamo questo luogo il Campo delle tre generazioni, perché esiste da 32 anni e ci sono i padri e le madri, i figli e ora i figli dei

figli ad abitarlo. Ma la loro gestione della memoria è molto diversa, perché chi è arrivato qui negli anni Novanta ricorda una vita fuori di qui – la vita di prima – mentre chi è nato nel campo ha visto solo questo posto. Le sue baracche, le sue tende di stracci. Sono migliaia di vite che di fatto sono arrivate qui per scampare a dei pericoli e vivono in una prigione a cielo aperto, privati di ogni diritto. In situazioni come queste, purtroppo, è molto facile che i più giovani siano esposti a violenza, devianze e sfruttamento».

Il campo profughi di Dadaab è nato nel 1991 in seguito all’inizio della guerra civile in Somalia. Doveva essere una soluzione temporanea per centinaia di migliaia di persone in fuga dal conflitto, ma pian piano l’emergenza è diventata una crisi cronica. Nel picco di maggiore affluenza i rifugiati in questa parte del Kenya orientale sono arrivati a essere 600mila. Oggi ne restano più di 300mila. Dadaab è il terzo campo profughi più grande del mondo e la situazione sta di nuovo peggiorando, perché il Corno d’Africa vive da tempo gli effetti di una «tempesta perfet-

ta»: la siccità, l’aumento dell’inflazione globale e le ostilità armate stanno minacciando la vita dei somali allontanandoli di nuovo, in massa, dalle loro case. Circa 70mila persone sono recentemente arrivate nelle vicinanze dei campi profughi, molti dopo aver affrontato un viaggio di diversi giorni a temperature altissime, senza acqua né cibo a sufficienza. L’impatto della siccità – tutta l’area affronta il fallimento della sesta stagione delle piogge consecutiva – è stato aggravato dall’aumento dei prezzi seguito all’invasione russa dell’Ucraina. In aeree periferiche come Dadaab, dove quasi tutte le merci devono essere importate, l’impennata dei prezzi è stata particolarmente acuta. Gli effetti si sono fatti sentire anche per le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali che a loro volta vivono una «tempesta perfetta»: aumento del costo del carburante, e quindi delle spedizioni, e diminuzione dei fondi per gli aiuti. La conseguenza è che al flusso di persone in arrivo corrisponde un netto declino del supporto alimentare e infrastrutturale.

Nei dintorni estremamente aridi

di Dadaab giacciono carcasse di animali morti; quelli ancora vivi sono malnutriti come gli abitanti del campo. Nelle zone più periferiche, i nuovi arrivati costruiscono tende con quello che trovano: rami secchi, pezzi di plastica, stracci. Il Governo kenyota non ha mai autorizzato la costruzione di edifici stabili e permanenti per disincentivare i rifugiati dal trasferirsi nel Paese, ma i profughi dopo tre decenni sono ancora lì. Chi ha potuto, ha trasformato la tenda in una casa di lamiera o di fango, chi è arrivato da poco si accontenta degli stracci. Il cibo viene distribuito dalle organizzazioni umanitarie una volta al mese; questo significa che chi arriva dopo la distribuzione può restare anche tre settimane senza niente da mangiare, così la comunità prova a dividere il poco che c’è, che generalmente è una manciata di riso e un po’ di fagioli. Le famiglie con molti bambini hanno gravi problemi perché non c’è latte né altri cibi da dare loro, così la situazione precipita velocemente e anche chi era arrivato nel campo in buona salute finisce con l’ammalarsi e, se va bene, essere ricoverato nella clinica gestita da Medici Senza Frontiere, dove i casi di malnutrizione sono aumentati del 150% in pochi mesi. A peggiorare la situazione e mettere a dura prova la capacità sanitaria del campo anche l’epidemia di colera in corso, dichiarata alla fine di ottobre del 2022, che ha portato al ricovero di 500 persone. Colpa della siccità ma anche della risposta umanitaria del tutto inadeguata a causa di scarsi finanziamenti. Se non arrivano soldi, qui, non arriva acqua pulita, non arrivano latrine, ciò significa che il campo stesso diventa una latrina a cielo aperto. I bambini e gli adulti devono usare acqua non potabile e dannosa per l’organismo. Le malattie virali come il colera si diffondono dunque con estrema velocità.

Secondo le Nazioni Unite «il numero di persone colpite dalla siccità in Somalia è più che raddoppiato nel 2022, passando da 3,2 milioni di gennaio a 7,8 milioni di ottobre, con il bisogno di aiuto che aumenta in proporzione». Le previsioni non sembrano migliori per il futuro, anzi. L’Ufficio dell’ONU per gli affari umanitari ha previsto che anche la prossima stagione delle piogge, prevista da marzo a maggio, fallirà. È dunque destinata a peggiorare la portata dell’emergenza umanitaria nel Corno d’Africa, realtà che dovrà fare i conti con un ulteriore, probabile taglio degli aiuti. In pratica un milione di persone, nella totale disperazione, potrebbe mettersi in cammino nei prossimi mesi per cercare di salvarsi.

Persone come Fartun Ahmed Mohammed, una donna poco più che ventenne arrivata 4 mesi fa da Baidoa, in Somalia, con i suoi 6 figli. Il primo l’ha avuto a 14 anni. Nata e cresciuta in una famiglia di pastori, ha a sua volta sposato un pastore. «Non era rimasto più niente, vivevamo in un’area di campagna prendendoci cura del bestiame e della terra. Non è rimasto niente, sono tutti morti e la terra si è seccata». «Non è rimasto niente» è la frase che ripete più spesso. Pensa alle mucche, pensa al grano, pensa a sua nonna, morta di stenti, poi si rabbuia e dice che è venuta via per questo. Quando ha visto morire sua nonna ha capito che era arrivato il momento di mettere in salvo i bambini. Suo marito è rimasto in Somalia e lei si è messa in cammino, 4 giorni di viaggio fino all’ingresso in Kenya. «Voglio solo un futuro per i miei figli», dice. Non dice: un futuro migliore, dice solo «futuro». Perché è così che le madri pensano in questa parte di mondo, non attraverso la categoria della qualità. Loro sperano solo che i figli sopravvivano alla fame e alla sete.

Carlo Silini (redattore responsabile)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00
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Il suono della guerra

Carlo Piccardi nel suo libro indaga la rappresentazione musicale dei conflitti armati: l’abbraccio tra la guerra e la musica

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Il dialogo tra Ratzinger e Habermas

A più di un mese dalla sua scomparsa, ricordiamo il Papa nel suo scambio con il filosofo e nella sua battaglia per il latino durante la messa

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Babylon, una tuffo nel cinema

Un film che ci riporta alla magia e ai fasti del cinema dagli anni Venti in poi imponendoci una riflessione sull’oggi in cui tutto sta svanendo

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L’arte classica, elemento vitale del nostro presente

Mostra ◆ Alla Fondazione Prada Salvatore Settis propone una meditazione sulla riattivazione e il riuso degli oggetti antichi

È mai possibile che un gabinetto sia stato utilizzato per secoli nell’ambito del rituale ieratico e rigidamente codificato con cui viene incoronata la massima autorità religiosa della Chiesa cattolica? La risposta, per quanto sorprendente possa apparire, è «sì», come ci racconta la mostra Recycling Beauty in corso alla Fondazione Prada di Milano, nelle cui sale, tra tanti capolavori dell’arte classica, è esposta anche una latrina di epoca adrianea.

Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, va precisato che non si tratta di una semplice latrina, ovvero del corrispettivo antico delle tazze in ceramica smaltata a cui ci ha abituato da oltre un secolo la standardizzazione industriale. Quello esposto a Milano e proveniente dal Museo Pio Clementino (in origine erano due, ma uno se l’è preso Napoleone e si trova ora al Louvre) è infatti uno splendido sedile in marmo rosso con piedi leonini e decorazioni di volute e palmette in bassorilievo, che presenta al centro della seduta un foro circolare aperto sul davanti. Sia questo sedile sia il suo gemello al Louvre provenivano da un bagno privato che, vista la loro estrema raffinatezza, doveva far parte della residenza imperiale. Travisando completamente il significato della loro forma, nel medioevo vennero però ritenuti delle sellae gestatoriae, ossia delle sedie desinate alle partorienti.

Attestate in San Giovanni in Laterano fin dalla fine dell’XI secolo, le due sedie in porfido, dette per questo sedes porphyreticae, venivano utilizzate per la cerimonia di investitura del Papa assieme a un terzo sedile di epoca romana, chiamato sedia stercoraria perché considerato, questo sì, un’antica latrina. In realtà, a differenza delle prime due, questa sedia in marmo bianco non era affatto un gabinetto, ma un trono, la cui seduta presentava però nella parte anteriore una rientranza a semiluna. Dall’erronea interpretazione medievale della funzione di questi tre oggetti antichi derivò tuttavia il significato metaforico con il quale vennero utilizzati per alcuni secoli durante la cerimonia di incoronazione papale. Il pontefice doveva infatti sedersi inizialmente sulla sedia stercoraria, quale atto di umiliazione che gli ricordava la sua natura umana e poi distendersi come una partoriente sulle due sedie porphyreticae per rinascere interiormente a nuova vita come richiedeva il ruolo che stava per assumere. Per la loro forma e funzione queste sedie fornirono appiglio a numerose leggende, come quella che voleva che il loro foro servisse a verificare, attraverso le opportune palpazioni, che il futuro Papa, come scrisse il canonico ed erudito zurighese Felix Hemmerli nel 1444, avesse veramente

«virgam et testiculos ». Una verifica resasi necessaria a seguito della vicenda, anche questa in realtà totalmente leggendaria, della Papessa Giovanna, la quale, celando la propria identità femminile, sarebbe riuscita a salire fino al soglio pontificio nel 853. Scoperta a causa di un parto prematuro (evidentemente non aveva avuto l’accortezza di rispettare il voto di castità) venne lapidata dalla folla inferocita due anni dopo. Fu probabilmente perché prestavano il fianco a leggende e maldicenze, che, a partire dal Cinquecento, per decisione di Leone X prima e di Pio V poi, le tre sedie non vennero più utilizzate nel cerimoniale di insediamento.

«Il nuovo contesto assorbe quel che reimpiega, ma deve lasciarlo riconoscibile anche mentre se ne impadronisce»

La curiosa storia di questi sedili è una delle tante che ci racconta la mostra, curata con la consueta autorevolezza e competenza da Salvatore Settis, che già nel 2015 aveva firmato un’altra esposizione memorabile dedicata all’arte

in

con

l’inaugurazione della nuova sede milanese della Fondazione Prada. Senza intralciare la capacità evocativa e la grandiosità di opere spesso ridotte in stato frammentario, il preciso e illuminante apparato didattico inserito nell’allestimento progettato da Rem Koolhaas, permette di dipanare il groviglio inestricabile di trasformazioni, reinterpretazioni, rifacimenti, ricostruzioni, integrazioni, modifiche, aggiunte, rifunzionalizzazioni di cui sono stati fatti oggetto molti manufatti antichi nel lungo arco di tempo che va dal Medioevo all’età barocca. A illustrare la storia di questi oggetti e ad ampliare la prospettiva della mostra ai contesti urbani e architettonici contribuisce in maniera decisiva anche il ricco catalogo che illustra dettagliatamente la «rosa di causali che gli sono soffiate addosso a mulinello», per dirla con Gadda, permettendoci in questo modo di leggere in tutta la sua ampiezza quel capillare processo di riciclaggio che –integrando e assimilando in una nuova narrazione le macerie di un impero imploso su sé stesso nel momento della sua massima espansione – ha dato il via alla rinascita della civiltà europea. Se in alcuni casi, come nel caso dei due sedili appena citati o delle miglia-

ia di capitelli e colonne integrati nelle chiese romaniche, assistiamo semplicemente a un riutilizzo con funzioni e in un contesto diversi, in altri casi il processo di assimilazione e riciclaggio prevedeva interventi più invasivi come testimonia il rilievo proveniente dal Museo di Velletri, raffigurazione del trasporto di un guerriero morto in battaglia, trasformato successivamente, attraverso l’aggiunta di alcune aureole, in una deposizione di Cristo. Analogo il caso di una testa dell’Imperatore Antonio Pio innestata sul corpo di un sacerdote romano e trasformata, con l’aggiunta di un bastone, in una raffigurazione di San Giuseppe. Ma il processo di assimilazione poteva anche comportare la distruzione completa dell’oggetto antico, come nel caso delle innumerevoli lastre e colonne di preziosi marmi di epoca romana – dal marmo bianco al porfido, dal serpentino al paonazzo – triturate per ottenere le tessere policrome con cui i maestri cosmateschi realizzavano i loro splendidi pavimenti intarsiati, tra cui quelli della Cattedrale di Agnani e dell’Abbazia di Westminster. Ma anche nei casi di appropriazione più estrema il riferimento al passato non venne mai cancellato. Come scrive Settis, «il nuovo con-

testo assorbe quel che reimpiega, ma deve (e vuole) lasciarlo riconoscibile anche mentre (anzi, proprio perché) se ne impadronisce». Ed è quello che avvenne anche per il colosso di Costantino, la cui ricostruzione in scala 1:1, qui proposta per la prima volta con grande acribia filologica e dispiego di mezzi tecnologici, vale da sola il prezzo del biglietto. Per la statua dell’imperatore alta oltre 11 metri e realizzata probabilmente dopo la vittoria di Ponte Milvio era stata infatti riutilizzata, dopo le opportune modifiche, una statua di Giove Capitolino di alcuni secoli prima. In questa sostituzione simbolica della divinità con la figura dell’imperatore si compiva però in qualche modo il destino finale dell’impero romano, che probabilmente era veramente diventato too big not to fail. Ma la grandiosità delle sue rovine, come ci ricorda un famoso disegno di Füssli che raffigura i resti del colosso, avrebbero continuato a suscitare lo sgomento e l’ammirazione di chi sarebbe venuto dopo.

Dove e quando Recycling Beauty, Fondazione Prada, Milano fino al 27 febbraio. Lu-do 10.00-19.00; ma chiuso. www.fondazioneprada.org

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 25
CULTURA
classica
concomitanza
Immagine della mostra Recycling Beauty, Gruppo di un leone che divora un cavallo, IV secolo a.C., Musei Capitolini, Palazzo dei Conservatori. (Roberto Marossi, Courtesy Fondazione Prada) Elio Schenini

L’abbraccio tra guerra e musica

Pubblicazione ◆ Che suono hanno i conflitti? Lo racconta Carlo Piccardi nella sua ricerca storica

«La guerra non è finita! La guerra non finirà mai!» Con queste tragiche battute cantate dal reduce Gennaro Jovine si conclude Napoli milionaria!, l’ultima opera di Nino Rota su libretto di Eduardo De Filippo. E a scorrere le seicento pagine dell’ultimo volume di Carlo Piccardi per Il Saggiatore, verrebbe proprio da dargli ragione. Non importa, infatti, quanto si conosca o si ricordi della storia studiata sui libri di scuola; la prima dolorosa impressione che emerge man mano che si procede nella lettura è che non esista un decennio della vicenda europea o mondiale, che non sia stato funestato da una qualche forma di conflitto, scontro, battaglia o addirittura guerra. L’inevitabile vicinanza e la conseguente quotidianità di questa sciagura hanno modificato a tal punto le vite delle popolazioni coinvolte, da produrre un decantato artistico nel quale le infinite schegge del discorso bellico si sono conficcate in maniera profonda e indelebile. E la musica non ne è uscita indenne.

Proprio da questo assunto è partito Piccardi nella sua ricerca – quasi come un antropologo o un archeologo –per riportare alla luce le tracce lasciate dalla lunga convivenza con la guerra nella produzione musicale dal rinascimento a oggi. Una composizione via l’altra, un autore dopo l’altro, lentamente si delinea, in primo luogo, una cronaca asciutta eppure sbalorditiva del rapporto fra musica e potere: un rapporto fatto di cortigianeria e asservimento che gradualmente si trasforma in convinta partigianeria e infine, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda, diviene fiera propaganda o radicale opposizione. Una volta terminato Il suono della guerra si matura, così, una nuova sconcertante consapevolezza: non solo la musica non è mai stata una forma d’arte indipendente, ma non ha mai nemmeno cercato di sottrarsi alla mischia; e non per una innata natura guerrafondaia dei musicisti, ma perché sarebbe stato semplicemente impossibile.

Come avrebbe potuto Händel non

omaggiare con un oratorio – Judas Macabaeus – il duca di Cumberland dopo la vittoria della battaglia di Culloden; o, ancora, come si sarebbe potuto sottrarre Beethoven, nell’anno del Congresso di Vienna, alla scrittura di un pezzo inneggiante alla restaurazione quale La vittoria di Wellington; o, infine, come poteva Wagner non scrivere una cantata per esaltare i successi della Germania contro la Francia nel 1871 (All’esercito tedesco di fronte a Parigi)? In effetti si tratta solo di domande retoriche poiché, fino a quando la musica non si è potuta sganciare dalle committenze, i compositori sono stati anch’essi soldati, ossia, stando all’etimologia della parola, prestatori d’opera al soldo di un potente in grado di pagare.

D’altra parte, però, basterebbe la mera enumerazione di titoli inanellati da Piccardi nell’indice finale, per mostrare chiaramente come la torbida fascinazione esercitata sugli autori nel corso del tempo dal tema della guerra, non avrebbe potuto né sussistere né prosperare senza un corrispettivo interesse anche da parte del pubblico. Solo così si può giustificare la stima impres-

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sionante di 80’000 libretti d’opera dedicati a questo argomento nel lasso di tempo che va dall’invenzione del melodramma nel Seicento fino ai giorni nostri; un’infiltrazione tanto capillare e diffusa da determinare persino una graduale modifica nella composizione dell’orchestra e nella costruzione degli strumenti, al fine di ricreare in teatro, con maggiore realismo, gli inni e le fanfare dei campi di battaglia. Tuttavia, all’apice del proprio successo in musica, la guerra dovette pagare l’inevitabile scotto per una popolarità così esplosiva e dirompente: quelle trame cariche di pathos si trasformarono in spassosissime parodie e i personaggi gallonati in coloratissime caricature, come il General Boum de La Grande-Duchesse de Gérolstein di Offenbach, figura prototipica di tutti i militari da operetta, che fieramente se ne va A cheval sur la discipline Ma lo sforzo enciclopedico di Piccardi non si limita a raccontare le opere. Tra queste pagine dense di date, titoli e conflitti affiorano le storie personali e le tragiche vicende di musicisti che nella guerra hanno creduto al

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La cantante soprano Liudmyla Monastyrska e i musicisti dell’Orchestra ucraina per la libertà guidati dal direttore d’orchestra Kerii-Lynn Wilson. (Keystone)

Un Arlecchino muto

Concorso ◆ A teatro con «Azione»

La trama di Arlecchino muto per spavento è quella «classica» della Commedia dell’Arte, con un amore contrastato e lazzi e improvvisazioni. Il giovane Lelio, lasciata Venezia e giunto a Milano, pretende sia fatta giustizia: nella sua patria si è follemente innamorato di Flamminia, figlia di Pantalone De’ Bisognosi, ampiamente ricambiato. Ma il padre della giovane l’ha già promessa in sposa a Mario, sebbene questi ami la risoluta Silvia. Risate e colpi di scena per un appuntamento imperdibile grazie alla pièce prodotta da Stivalaccio Teatro e che sarà in cartellone il 13 e il 14 febbraio a Locarno. (www.teatrodilocarno.ch)

punto da prendervi parte – per poi, in alcuni casi, non tornare più indietro –ma anche episodi inverosimili come la marcia di Toscanini con la banda divisionale dei quattro reggimenti di stanza presso la Sella del Vodice, per ascendere alle prime linee del Montesanto e, infine, il 26 agosto 1917 eseguire un concerto per le truppe che scatenò l’offensiva degli Austriaci.

L’abbraccio tra guerra e musica, insomma, fertile e al contempo mortale per diversi secoli, sembra essere rimasto inscindibile fino al conflitto del Vietnam, dopodiché più nulla. In quel momento, la guerra è uscita dal dibattito pubblico per diventare asettico reportage da regioni troppo periferiche per destare interesse; e la musica, sostiene Piccardi, insieme al resto della società, ha voltato lo sguardo. Ma il 24 febbraio 2022 le cose sono cambiate. E adesso che cosa farà la musica?

Bibliografia

Carlo Piccardi, Il suono della guerra. La rappresentazione musicale dei conflitti armati, Il Saggiatore, Milano, 2022.

Concorso

«Azione» mette in palio 5x2 biglietti per lo spettacolo Arlecchino muto per spavento che andrà in scena al Teatro di Locarno martedì 14 febbraio 2023 (ore 20.30). Per partecipare al concorso inviare una mail entro giovedì 9 febbraio 2023 a giochi@ azione.ch (oggetto: «Arlecchino») indicando i propri dati personali.

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Quell’intenso dialogo tra Ratzinger e Habermas

Idee ◆ A più di un mese dalla scomparsa del papa teologo, ricordiamo il confronto del 2004 col filosofo sulla società moderna

Negli articoli di giornale pubblicati sul Papa emerito scomparso, Joseph Ratzinger, raramente citato risulta il «dialogo» di Monaco di Baviera del 19 gennaio 2004 tra il cardinale e il filosofo tedesco Jürgen Habermas. A suo tempo, invece, anche «Dialoghi» (per non dire di riviste di filosofia importanti) ne rese abbondantemente conto. La recentissima uscita (ottobre 2022) del primo volume di Una storia della filosofia, del filosofo tedesco facilita però le cose e colma i vuoti di memoria. Proprio questo primo volume, difatti, porta il sottotitolo: «Per una genealogia del pensiero postmetafisico».

I cristiani, soprattutto i cattolici, hanno sempre sostenuto che sulla base della Rivelazione fosse possibile trovare un terreno d’intesa tra gli uomini. Chi lo negava, rivendicando come confine i limiti della ragione, subì interdetti e persecuzioni. La storia, si potrebbe dire, ha dato loro ragione. Perciò il mondo laico è apparso teso a realizzare una società liberale e possibilmente democratica, ma che, come tale, basta a sé stessa. La scoperta che nel vasto mondo valessero altre convinzioni per un po’ è stata considerata una variante, al massimo esteticamente apprezzabile, forse anche degna di rispetto. Così nell’arte, per esempio. Il problema si è fatto più acuto quando individui fuori del nostro circolo presero a rivendicare pari dignità di pensiero e diritti di azione politica, fino a contrapporsi alla civilizzazione «occidentale» con le armi in pugno. È il caso del musulmanesimo aggressivo di cui è segno e strumento la violenza, privata e pubblica.

A Jürgen Habermas (1929), erede di una grande tradizione «liberale», i dubbi sono venuti dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. In un discorso tenuto a Francoforte appena poche settimane dopo (il 14 ottobre), disse: «Gli assassini votati al suicidio, che hanno trasformato degli aerei di linea in proiettili viventi per dirigerli contro le cittadelle del capitalismo e della civilizzazione occidentale, erano motivati da convinzioni religiose, come sappiamo ora

dal testamento di Atta e dalla bocca di Osama bin Laden. Per loro gli emblemi della modernità globalizzata sono l’incarnazione del Grande Satana. Ma anche da noi, universali testimoni dell’avvenimento “apocalittico”, si sono affacciate con forza alla mente immagini bibliche (…) E il linguaggio della vendetta, con cui non soltanto il presidente degli Stati Uniti ha reagito all’inconcepibile, ha assunto toni veterotestamentari. Ovunque si sono riempite le chiese, le sinagoghe, le moschee, come se questo attentato che lascia interdetti avesse fatto risuonare, nel profondo della nostra società secolarizzata, una corda religiosa».

È dunque tutt’altro che definitivamente acquisito, come sostiene il filosofo Emanuele Severino, che «la tecnica guida il mondo: ha emarginato quelle utopie e si muove nel clima

di un pensiero filosofico che ha mostrato la loro impossibilità». Al contrario, sostiene Habermas, il concetto di funzionalità (Zweckmässigkeit) che noi aggiungiamo al darwiniano processo di mutazione, adattamento, selezione, si rivela troppo povero per riuscire a marcare la differenza tra “essere” e “dover essere” cui ci riferiamo quando violiamo una legge (…)». Dov’era – si chiede Habermas – la radice della convinzione del presidente Lincoln che tutti gli uomini nascano liberi e uguali malgrado il diverso colore della loro pelle?

I fondamenti morali prepolitici era dunque il titolo che la Katholische Akademie di Monaco di Baviera aveva dato, il 19 gennaio 2004, al confronto fra Habermas e Ratzinger, allora prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della fede.

Nel pensiero del filosofo, la storia dimostra che, lasciata fuori dalla porta, la religione rientra dalla finestra: non bisogna dunque più estremizzare il quesito ma piuttosto trattarlo in modo non drammatico, come una questione empirica aperta. L’atteggiamento del «laico» non è dunque più un atteggiamento di superiorità, la filosofia ha motivi per relazionarsi alle tradizioni religiose con una «disponibilità ad apprendere». «La società che si apre a questo tipo di rapporto può essere definita postsecolare». Ratzinger risponde anzitutto sul piano politico. La società moderna ha riunito gli elementi normativi nelle diverse dichiarazioni dei diritti umani e li ha così sottratti al gioco delle maggioranze. Le società religiose hanno cercato la fonte delle loro convinzioni nella natura, ma il modello

La riforma mancata di Benedetto XVI

risulta spuntato dalla teoria dell’evoluzionismo. Come ultimo elemento sono rimasti i diritti umani: comprensibili presupponendo che il suo stesso essere dell’uomo comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non inventati. Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe aiutare a ritrovare la questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per l’uomo e la sua esistenza nel mondo.

Ratzinger si dichiara perciò in ampio accordo con quanto esposto da Habermas «sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione di entrambi i lati». Ammette che vi sono nella religione patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione, per così dire, come organo di controllo, movendosi dal quale la religione deve necessariamente farsi purificare e ordinare. Ma vi sono pure patologie della ragione non meno pericolose: perciò la ragione deve essere ammonita sui suoi limiti ed esortata a imparare: una disponibilità all’ascolto verso le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Religione e ragione sono chiamate alla reciproca chiarificazione, devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente».

Il 19 aprile 2005, appena un anno dopo l’incontro di Monaco, Joseph Ratzinger veniva eletto papa e prendeva il nome di Benedetto XVI. Sul tema entrambi gli attori del dialogo sono tornati: occasionalmente Ratzinger, sistematicamente Habermas. Questo, oggi, alla morte di uno dei due attori, meminisse juvabit.

Bibliografia E. Morresi, Idee per una società «postsecolare». Il dialogo tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, Dialoghi, di riflessione cristiana, anno 37, no. 189, dicembre 2005, Locarno, pp. 3-8. A questo articolo si rimanda per una ricognizione più particolareggiata di quel dialogo.

«Pro multis» ◆ La sua battaglia sulla traduzione dal latino delle parole della consacrazione del vino durante la messa

C’è un aspetto del pontificato di papa Benedetto XVI del quale non si è parlato in occasione del suo decesso – lo scorso 31 dicembre – perché poco conosciuto, se non dagli specialisti, ma che riguarda però tutti i fedeli ogni qualvolta assistono alla messa. Con l’entrata in vigore della riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965), il rito della messa non solo è stato modificato, sotto il pontificato di Paolo VI, ma anche tradotto nelle varie lingue nazionali, sebbene il latino continui a essere la lingua di riferimento (tanto da chiamare quella latina l’«edizione tipica» del messale perché funge da base e da modello per le varie traduzioni). Da allora, nella messa in italiano, le parole della consacrazione del vino suonano così: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fa-

te questo in memoria di me». Ma non è così in tutte le lingue.

Per mettere un po’ di ordine, per rispettare il «pro multis» sempre utilizzato in latino (anche nell’attuale messa, detta di Paolo VI, quando viene celebrata in questa lingua) e anche – immaginiamo – per fedeltà alla Sacra Scrittura (in Matteo 26:28, nella Bibbia della Conferenza episcopale italiana del 2008 si legge: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati»), tre mesi dopo la sua elezione, papa Benedetto XVI fece compiere dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, allora presieduta dal cardinale Francis Arinze, un sondaggio tra le Conferenze episcopali, per conoscere il loro parere circa la sua intenzione di tornare a tradurre fedelmente il «pro multis» con «per molti». Ricevuti questi pareri, il 17 ottobre del

2006, su indicazione del Papa, il cardinale Arinze inviò una lettera circolare a tutte le Conferenze episcopali del mondo elencando sei ragioni a favore del ripristino del «per molti» ed esortandole – laddove la formula «per tutti» fosse in uso – a «intraprendere la necessaria catechesi dei fedeli» in vista del cambiamento. Ma questa richiesta si urtò a molte resistenze e fu accolta solo in parte, in particolare dagli episcopati di lingua ungherese, inglese e spagnola, che si adeguarono nelle successive traduzioni del messale romano. (Da notare che per i francofoni il problema non si poneva, perché sin dalla primissima traduzione si era adottata la formula «pour la multitude »).

Tra le opposizioni più tenaci alla modifica vi fu quella della Conferenza episcopale tedesca. Visto che sei anni dopo non se n’era fatto ancora niente, nel 2012 Benedetto XVI indi-

rizzò una lunga e severa lettera all’allora presidente dei vescovi tedeschi

Robert Zollitsch per sollecitare l’applicazione di quanto già disposto («la Santa Sede – si legge in particolare –ha deciso che nella nuova traduzione del messale l’espressione “pro multis” debba essere tradotta come tale, senza essere già interpretata. La traduzione interpretativa “per tutti” deve essere sostituita dalla semplice traduzione “per molti”»). Ma non ci fu nulla da fare, tanto che nei Paesi tedescofoni (Svizzera tedesca compresa) nella formula di consacrazione durante la liturgia della messa si continua a dire «für alle ».

Emblematico anche il caso della traduzione in italiano, che ci riguarda da vicino. Sebbene uno degli scopi delle terza traduzione italiana del messale romano – durata ben 16 anni ed entrata in vigore, anche nella diocesi di Lugano e nella parte italofona

della diocesi di Coira, nell’Avvento 2020 – fosse di adeguare più fedelmente il libro liturgico all’editio tertia latina del messale romano e malgrado le direttive del Vaticano già ricordate, non se ne fece niente ed è così rimasto il «per tutti» a causa dell’opposizione al cambiamento di buona parte dell’episcopato italiano, che venne consultato.

Quindi si può dire che la ferma intenzione di Benedetto XVI di ripristinare, nella messa, le parole della consacrazione del calice riprese testualmente dai Vangeli e in uso per secoli (anche nelle Chiese orientali), ma nei decenni scorsi sostituite quasi ovunque da una diversa traduzione è stata un mezzo fallimento. Diverse nuove versioni postconciliari della messa hanno trasformato il «pro multis» in un immaginario «pro omnibus». E così invece di «per molti» hanno tradotto «per tutti».

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Oskar Kokoschka e le teorie di Cipolla

Teatro ◆ Al Sociale e al Paravento la coppia

Bernardi-Costantini ed Emanuele Santoro

Babylon, un film esagerato

Cinema ◆ Il ritorno di un Brad Pitt in grande stile e una esplosiva

Margot Robbie in una pellicola che ci racconta di una magia (quasi) perduta

Un’esplosione. Damien Chazelle (il regista di La La Land, Whiplash, First Man) ha realizzato un film unico e irripetibile perché esagerato, volgare, divertente, drammatico, intimo, diseguale, sontuoso, goliardico e scatologico. Un’opera che per la sua ampiezza, per l’uso di migliaia di comparse e grandi spazi oltre che per la visione cinematografica a 360 gradi si avvicina ai grandi kolossal del passato come Cabiria, Quo Vadis e Ben Hur, un genere ormai passato di moda e che il regista americano ha riportato sul grande schermo con un entusiasmo che solo chi ama il cinema in modo viscerale può fare. Del resto, anche il nome Babylon, richiama un passato epico, tipico dei kolossal. Tuttavia, come un altro film appartenente a questo filone che fece scalpore (I cancelli del cielo di Cimino responsabile della bancarotta della United Artist ma che poi divenne un vero e proprio cult) anche Babylon può diventare un clamoroso flop al botteghino: il budget per produrlo è stato di 78 milioni di dollari e gli incassi, finora, negli Stati Uniti non hanno raggiunto i 20 milioni.

Siamo a metà degli anni Venti del secolo scorso a Los Angeles. Un momento cruciale per Hollywood e l’industria cinematografica con il passaggio del muto al sonoro: una vera e propria rivoluzione che segnerà l’ascesa di nuove stelle e la rovina di vecchie glorie che non sono riuscite a effettuare il passaggio. In questo contesto seguiamo le vicende di quattro personaggi: Nellie LaRoy interpretata da Margot Robbie, ritratta nella foto,

che convince in un ruolo che chiede dolcezza ed esuberanza); Jack Conrad (interpretato da un Brad Pitt tornato in piena forma), attore di successo con oltre ottanta film muti all’attivo, dedito ad alcol, droga e donne; Manuel Torres (tuttofare messicano che impara il mestiere di regista da autodidatta lavorando per gli attori e gli Studios) e Sidney Palmer (Jovan Adepo), talentuoso jazzista nero che diventa una star cinematografica. Chazelle ha pensato bene di ricreare quello spirito pionieristico e naïf ma tanto affascinante per mostrare agli spettatori la potenza originaria del cinema

Già da queste poche parole si intuisce che Babylon è un atto d’amore verso la settima arte e tutto ciò che ha rappresentato in quell’importante momento storico (in una scena un personaggio afferma con forza che «il cinema non è un’arte minore, ma c’è bellezza e per molta gente significa qualcosa d’importante») e forse – qui si va con l’azzardo – è anche una sottile critica verso una magia che negli anni ha perso. Chazelle ha pensato bene di ricreare quello spirito pionieristico e naïf ma tanto affascinante per mostrare agli spettatori la potenza originaria del cinema. Ecco, il film va inteso come un regalo agli spettatori, i veri protagonisti di Babylon (impliciti ed espliciti come nella scena finale nella quale Manuel entra in un cinema

quasi trent’anni più tardi e si emoziona per Singin’ in the Rain, che ricordiamo è ambientato nel 1927 e parla appunto del passaggio dal muto al sonoro). Se quindi da un lato la pellicola di Chazelle parla del «cinema che fu» e lo fa usando il cinema (divertente la scena nella quale Conrad telefona a una Gloria Swanson in declino per chiederle se conosce qualche giovane attore, lei protagonista di quel capolavoro che è Il viale del tramonto), dall’altro parla di una società, quella americana di quegli anni, in profondo cambiamento: l’industria cinematografica ha modellato Los Angeles e l’ha trasformata da cittadina in metropoli (basti pensare che nel 1920 contava mezzo milione di abitanti e nel 1930 ben 1,2 milioni). Un cambiamento che il regista ci mostra attraverso alcune scene dall’alto in cui vediamo la moltitudine di capannoni dedicati ai set: una nuova città nella città.

Che cosa aggiungere? Ah, la colonna sonora. Il regista da sempre dimostra di avere una spiccata sensibilità per l’accompagnamento musicale (ricordiamo la figura del batterista di Whiplash) e non poteva non mostrarla qui, dove si racconta il passaggio dal muto al sonoro. Tra i protagonisti c’è il jazzista Sidney Palmer, interpretato da Jovan Adepo, figura ispirata a Curtis Mosby, leader di una band jazz molto popolare e soprattutto la musica accompagna dal vivo le numerose feste in cui qualsiasi eccesso è lecito. Un gioco continuo tra apparenza e sostanza, finzione e realtà, come nella vita.

Klimt, Mahler, Gropius, Kokoschka… non si può certo dire che le siano mancate esperienze: la più bella di Vienna o vedova delle quattro arti, così veniva chiamata la compositrice Alma Mahler, femme fatale al tempo in cui Oskar Kokoschka si innamora di lei. Una passione fulminea, ossessiva, soffocante che porterà il pittore e drammaturgo espressionista austriaco quasi alla follia. Certamente gli causò una singolare reazione quando l’ardente vedova decise di lasciarlo: per fuggire da dolorosi fantasmi, chiese a una costruttrice di giocattoli di realizzare una bambola snodabile che replicasse esattamente le fattezze di Alma. Un feticcio che l’artista poi distrusse, come un atto creativo, per sublimare la perdita dell’amata.

Le minuziose istruzioni di Kokoschka per dar forma alla bambola sono parte della corrispondenza con l’artigiana che una voce legge sulla scena dell’omonimo spettacolo di Ledwina Costantini creato in collaborazione con Daniele Bernardi e al suo debutto al Teatro Sociale di Bellinzona. Ricalcando tipologie teatrali ricorrenti, con Kokoschka , la nascita e l’epilogo distruttivo del feticcio femminile per Costantini-Bernardi diventano elementi di un esplicito traslato sui drammi della violenza di genere. Avvolta in un abito dorato, la luce dell’arte, Ledwina ricostruisce sul palco la bambola con sacrale lentezza. Sulle parti intime rivediamo l’immagine de L’origine del mondo di Courbet ma prima di smembrarla trova posto anche un richiamo alla Pietà michelangiolesca.

La platea segue in un contesto ravvicinato grazie a una piccola telecamera che documenta il rito sa-

crificale dove il possesso e la disgregazione del corpo accompagnano la dicotomia dell’anima fra amore e odio, fra Eros e Thanatos. Uno spettacolo rigoroso e dal sapore performativo, fra le note di un coro e orchestra e la voce di Milva che, sulla sorpresa finale, ci ricorda che gira il mondo gira

La persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista

Quando uscì tradotto in italiano per le edizioni de Il Mulino, la fascetta del volume recitava entusiasta: Quattro edizioni in due mesi. Il libro più beffardo dell’anno. Con il titolo Allegro ma non troppo, nel 1988 l’autorevole economista pavese Carlo Cipolla si arrendeva così al pubblico della sua lingua madre abbandonando gli austeri panni dello studioso consegnando alle stampe un paio di brevi saggi originariamente scritti in inglese per fare un regalo agli amici: un divertissement, un guizzo anarchico dell’intelligenza. Il libricino, diventato rapidamente un best-seller, conteneva una parodia della storia socioeconomica del Medioevo e una scherzosa (ma non troppo, appunto) teoria sulla stupidità umana che conserva la sua sconcertante attualità.

Una particolarità che non è sfuggita a Emanuele Santoro, attore e regista salentino ormai trapiantato, da anni fra i protagonisti della scena indipendente ticinese oggi martoriata da una discutibile politica culturale. Mantenendone la sostanza, Santoro ha riproposto il saggio con una rilettura scenica a cui abbiamo assistito al Teatro Paravento di Locarno. Delle teorie di Cipolla, suddivise e argomentate in cinque leggi fondamentali, va certamente ricordata la quinta, la più importante: la persona stupida è il tipo di persona più pericoloso che esista. Facendo astrazione dal gioco intellettuale, per accorgerci quanto siamo in balìa della stupidità il passo è breve.

Una realtà che, come identifica Santoro nella sua documentata premessa, sfocia in sciocchezze e situazioni involontarie in cui la stupidità si confonde con l’ingenuità. Un fenomeno che contagia spesso anche istituzioni che dovrebbero essere insospettabili. Succede con i paradossi dalla politica, dell’amministrazione e con situazioni che, viste con quella lente della stupidità, rivelano quanto esse siano immerse in una inquietante stupidità.

L’Orazione semiseria di Santoro riesce a unire le teorie di Cipolla a una personale traccia ironica grazie una piacevole riscrittura. ©

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In fin della fiera

La divina Galinescu tradita dalle trote

Felice non riuscì mai a darsi una spiegazione del suo gesto. Aveva alzato la mano e gridato : «Io!». Come è possibile che una persona calma, riflessiva, con una posizione invidiabile – responsabile degli approvvigionamenti di una fabbrica di coppe e diplomi –perda il controllo di sé fino al punto di proclamarsi medico senza esserlo? Senza la minima nozione elementare di medicina? Sono gli insondabili misteri dell’animo umano direbbe il docente di Demenza senile all’Università della Terza Età.

Partiamo dall’inizio. Si sa che gli addetti agli acquisti sono blanditi e corteggiati dai fornitori. Ma non si può etichettare come un tentativo di corruzione l’offerta di una poltrona di platea se arriva da uno che da vent’anni ti vende la pergamena finta per confezionare i diplomi e conosce la tua sfrenata passione per l’opera lirica. Tanto più che si trattava di una recita pomeridiana. Felice aveva letto meraviglie

del soprano protagonista della Norma di Vincenzo Bellini in programma quella domenica pomeriggio al Teatro Regio. Niculina Galinescu era rumena, di Timisoara ed era stata l’allieva prediletta della grande Ekaterina Imbriacova presso il conservatorio di Novgorod. I responsabili dell’ente lirico avevano pescato con mano felice nell’inesauribile serbatoio delle voci dell’Europa dell’Est. Una voce calda, possente, un colore, un’estensione, un timbro, una pasta! Per non parlare della presenza fisica e delle doti di attrice. Per la verità l’orecchio attento di Felice iniziava ad avvertire una sorta di raschietto nello sfondo della voce di Niculina e microscopici segnali di nervosismo in Pollione e Adalgisa ma i commenti entusiastici delle sue vicine di posto («Senti che velluto! Che ricami!») l’avevano tranquillizzato. Se non che al momento di prorompere contro Pollione al grido «Maledetto dal mio sdegno non godrai d’un em­

Un mondo storto

Il dente del giudizio

Il dente del giudizio tutti sanno che è un dente in via di scomparsa, infatti spesso non cresce, o cresce male dando gravi problemi, come granulomi e carie con ascesso e secrezione di pus. Per scomparire del tutto occorre che la selezione naturale favorisca le persone che nascono senza denti del giudizio, ovvero che chi ha i denti del giudizio con i conseguenti problemi odontoiatrici non abbia prole, mentre chi è senza trasmetta alla prole questa mancanza, in modo che si crei una discendenza che ne sarà priva, con solo 28 denti. Quindi bisogna prevedere che la loro presenza o la loro mancanza sia in qualche modo legata al successo o all’insuccesso riproduttivo. Ciò significa che chi è dotato di dente del giudizio non troverà una femmina da fecondare, al contrario di chi ne è privo. Ma come può accadere ciò? Ebbene, si è visto e l’ho potuto constatare spe­

Xenia

pio amore. Te sull’onde e te sui venti seguiran mie furie ardenti», proprio sulle furie ardenti la voce della divina Niculina si era ingrippata come il pistone di un motore senz’olio. L’orchestra si spegne tra i mormorii degli spettatori, il direttore di scena esce sul proscenio a chiedere con voce allarmata: «C’è un medico in sala?». Facciamo un passo indietro. Quella domenica la signora Galinescu, circondata dalla consueta corte di ammiratori, a pranzo in un ristorante del centro storico aveva scoperto l’esistenza delle trote in carpione. Ingorda come solo le soprano sanno essere, ne aveva spazzolate dodici e aveva voluto conoscere lo chef per complimentarsi con lui e farsi dare la ricetta. Per giustificare la sua richiesta aveva spiegato: «Noi in Romania abbiamo le trote del lago Balaton ma non sono così gustose» ed era sembrata a tutti un’inutile pedanteria farle notare che il Balaton si trova in Ungheria.

Lo chef, commosso, le aveva portato un secondo vassoio di trote, chiedendole in cambio l’immancabile selfie. In quell’omaggio era presente la trota assassina: la sua polpa bianca celava un piccolo frammento di lisca che aveva manifestato la sua presenza nel momento peggiore. Torniamo in teatro. Felice ha un ricordo nebuloso e sfocato degli istanti successivi al suo alzarsi in piedi e gridare «Io!». Una maschera arrivò a prelevarlo e lo condusse prima nel foyer e poi dietro il palco. Qui, in un camerino colmo di fiori, abbandonata su una poltrona, la testa reclinata all’indietro, respirava affannosamente la divina Galinescu. Felice stava per spiegare che c’era stato un equivoco, credeva che cercassero un addetto agli approvvigionamenti, che lui non era un medico. Invece, constatato che nel camerino della diva c’era un’ottomana, Felice la fece sdraiare bocconi, con il torso in fuori e la testa

reclinata fin quasi a terra. Poi, senza esitare, prese a dare possenti manate e qualche pugno sulla schiena della druidessa figlia di Oroveso, neanche fosse stato un Pollione di borgata. I presenti lo lasciarono fare e fu la salvezza per la cantante che sputò la lisca e fu pronta a riprendere la recita. Riconoscente, volle invitare a cena il suo salvatore. Si tennero lontani dalle portate di pesce; bevvero in abbondanza e, avendole Felice fatto i complimenti per il suo eccellente italiano il soprano gli confidò che lei era nata a Cuneo e il suo vero nome era Caterina Bongiovanni. Era stata costretta ad assumere un’altra identità poiché i sovrintendenti degli enti lirici stravedevano per le cantanti dell’Est europeo. Se avessero saputo che lei veniva da Cuneo non l’avrebbero neanche ammessa a sostenere il provino. Per Felice era arrivato il momento giusto: «Confidenza per confidenza», le disse, «neanch’io sono medico».

rimentalmente su molti soggetti che le carie tipiche del dente del giudizio creano quel tipico fiato puteolente che allontana le femmine o il maschio, per cui a parità di sex appeal la femmina propenderà per maschi che mancano fin dalla nascita dei denti del giudizio e quindi presentano un alito entro i limiti dello standard di gradevolezza, e così tornando ad accoppiarsi con lo stesso più e più volte, aumenterà la probabilità della fecondazione. Altrettanto dicasi per le femmine che presentano carie, alitosi e in genere quel sapore repellente di marcio che anche il maschio preso da una smania sessuale assoluta, ne viene respinto. La femmina può essere bella e oltremodo attraente per i sensi della vista e del tatto; il maschio ancora in distanza ne è eccitato, lei con inequivocabili occhiate lo invita, mostrandosi predisposta genericamente alla riproduzio­

ne con lui. Seguono i riti della nostra specie: se sono in un locale con musica, ballano, se sono sulla spiaggia del mare si stendono parallelamente vicini; ma quando si passa alla seconda fase tipica della specie umana che è il bacio, emana dalla bocca di lei (ma si possono invertire i ruoli specularmente) una tale atmosfera malsana per via dei denti in suppurazione, che il maschio si affloscia e piuttosto vorrebbe morire. Il che impedisce ogni passo avanti, e mai si giungerà a una fecondazione.

È così che la legge evolutiva di Darwin si fa sentire. E le femmine coi denti del giudizio in bocca non potranno avere congiungimenti sporadici neppure con maschi raminghi appartenenti alla feccia disgraziata dei maschi, né quindi avere una prole che torni a presentare i caratteri materni ereditari, tra cui i già citati denti del

giudizio cariati. Ciò a poco a poco eliminerebbe i portatori di carie, con una mutazione genetica stabile. A meno che i maschi dal fiato cattivo si accoppino sistematicamente solo con le femmine dal medesimo fiato, generando una razza coi denti del giudizio sempre cariati. In tal caso il dente del giudizio assumerà a poco a poco le funzioni del richiamo sessuale, sarà come una ghiandola nuova che rilascia testosterone, e il marcio farà parte dell’umanità e del suo odore attrattivo. Cioè per essere precisi: l’umanità si dividerà probabilmente in due sotto razze, con e senza il dente; le quali avranno vita e cultura distinte, e a poco a poco si diversificheranno anche fisiologicamente, aborrendosi l’una con l’altra; la mandibola cambierà dimensioni e di conseguenza tutta l’ossatura del cranio. Può darsi che una specie risulti prognata e l’altra col

Weiblinger, spirito libero e l’incontro con Hölderlin

Gli italiani lo chiamavano don Guglielmo, ma il suo nome era Wilhelm Friedrich Waiblinger. Aveva deciso di stabilirsi a Roma. Era malato e più la sua salute declinante lo strappava alla vita – che amava furiosamente –, più riaffiorava, potentissimo, il ricordo dell’incontro che aveva segnato – e cambiato – il corso della sua esistenza. Era accaduto a Tubinga, ma fu a Roma, in un appartamento dietro via Giulia, che scrisse Hölderlin. Vita poesia e follia. Rimasto inedito fino al 1947, è uno dei suoi pochi libri tradotti in italiano.

Nato ad Heilbronn, nel Württemberg, sulla riva del Neckar, nel 1804, Waiblinger andò a studiare teologia e filosofia in un austero seminario luterano di Tubinga. Era il 1822. Un giorno un conoscente gli chiese di accompagnarlo in visita da un singolare poeta – Hölderlin. Waiblinger, giovanissimo, aveva letto solo un suo com­

ponimento, e acconsentì – incuriosito. Hölderlin alloggiava nella casa del falegname Zimmer, in una stanza della torre. Dietro la porta chiusa, il ragazzo lo sentì blaterare a gran voce: ma non c’era nessuno, Hölderlin parlava da solo. Già da anni era scivolato nell’ottenebramento che lo inghiottì, come la nuvola una cima, a metà della vita. Li accolse con modi esageratamente cerimoniosi, inchinandosi. I suoi soliloqui sconnessi in una lingua inventata non avevano senso. La sua vuota cortesia serviva a tenere a distanza gli intrusi. Il mondo intero era per lui un intruso. Quando i suoi occhi spasmodici si posarono sul ragazzo, a Waiblinger si ghiacciò il sangue nelle vene. Terrorizzati, i due fuggirono.

Ma Waiblinger, emotivo e precoce (a diciott’anni, ancora studente del liceo, frequentava i maggiori scrittori svevi e aveva già composto una tra­

gedia e svariate liriche; a diciannove aveva scritto tre romanzi, di cui uno su un vampiro e un altro dato poi alle fiamme), non riuscì a dimenticare quell’uomo, anzi rimase sconvolto dalla grandezza della sua poesia e del suo destino. Annotò nel diario che «Hölderlin è l’uomo che cercavo», «l’eroe del mio romanzo, uno che diventa folle per ebbrezza divina, per amore e per aspirazione verso gli dèi».

Si fece coraggio e tornò a visitarlo. (Quasi cento anni dopo, quelle visite ispirarono a Herman Hesse un bel racconto, Nel chiosco di Pressel: la letteratura alimenta sé stessa). Hölderlin, smarrito nel caotico fluire dei suoi pensieri, non riconosceva nessuno, ma riconobbe lui, definendolo «un uomo gentile». Lo chiamava Vostra Santità, e voleva essere chiamato Killalusimeno. Il poeta divino seguiva docilmente il poeta adolescente in

giardino, tra i vigneti e nella sua casa sul monte Osterberg. Più sensibile di uno psichiatra, il ragazzo intuì che ricordare il passato e la sua opera gli scatenava crisi di ansia, frenesia, violenza e delirio. Così non si parlavano quasi. Camminavano per ore. La visione della natura lo rasserenava. Hölderlin coglieva fiori e si riempiva le tasche di sassi e pezzi di ferro. Fumava la pipa. A volte scriveva versi di semplicità omerica, guardando una pecora che passava sul ponte. Li donava cortesemente al suo compagno. A volte cantava melodie incomprensibili, o suonava il pianoforte – una musica ossessiva, come uno spartito suonato da un bambino. Wilhelm sentì che quell’uomo spezzato era l’essere più simile a lui sulla terra. Anche Waiblinger, infatti, era uno spirito libero, eccentrico, autodistruttivo e ribelle, a disagio nel mondo. Fu punito dalle autorità perché si

mento ritratto, si troveranno repellenti a vicenda e incompatibili per via del fiato, costruiranno villaggi distinti, forse due civiltà, come è già successo con l’homo sapiens e il contemporaneo Neanderthal. Non si può dire chi dei due prevarrà, se quello col giudizio o quello senza.

Si potranno tuttavia dare casi isolati di accoppiamento misto; si genererà, come tra asini e cavalli, un soggetto ibrido e infecondo, una specie di mulo, che rimarrà scapolo o nubile e malcontento, e che come il mulo sarà destinato ai lavori bassi di manovalanza, o guardiano di harem, nel caso gli harem siano destinati a risorgere. Quanto alla dentatura, probabile si alternino soggetti dalla dentatura sanissima con soggetti dai denti guasti, a seconda della razza di ciascun genitore. Saranno soggetti in ogni caso depressi e dalla gioventù senza futuro.

vestiva a modo suo, perché usciva di notte, perché vagabondava. Camminare senza scopo era considerato sintomo di follia. Tentò perfino di uccidersi. Poi si innamorò della nipote di un professore: lo scandalo fu grande, tanto che nel 1826 fu espulso dal seminario per condotta immorale. Allora fece come tutti i giovani inquieti del suo tempo: prese in prestito un po’ di denaro (dal suo editore) e partì alla ricerca del sole e della luce dolce del sud. Weiblinger era già stato in viaggio a Milano e Venezia, vagabondando: nel Belpaese non si era puniti per questo. L’Italia – povera ma ricca di bellezza – gli aveva dato ciò che cercava: la libertà. Ma prima di lasciare la Germania per sempre andò un’ultima volta a trovare il suo malinconico amico e lo invitò a essere il suo compagno di viaggio. Hölderlin rise.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
(Continua)
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Oggetti pratici per la casa

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Fanno bene all’umore

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Scorte di prelibatezze

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Ce n’è per tutti i gusti!

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