Meeting e Congressi - Nov Dic 2021

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IN MY OPINION

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uesto novembre ho avuto la possibilità di partecipare a Smart Working Day sia a Milano sia a Roma, il cui il tema del lavoro agile è stato visto in modo poliedrico analizzando non solo chi applica e chi non applica un sistema di smart working ma anche altre problematiche molto rilevanti e, prima tra tutti come da una parte il 2020 abbia dato un forte impulso al lavoro da remoto, ma come per “remoto” si intenda soprattutto l’abitazione del dipendente. Il rischio è quello di pensare solo al lavoro da casa e non all’applicazione di una vera cultura del lavoro agile. Oltre ai problemi della disconnessione, del burnout e di una vera capacità di lavoro per obiettivi che venga assimilata in modo strutturale nell’approccio manageriale dell’azienda, si evidenziano infatti anche temi di disequità di genere ma anche di categoria. L’avvocato Paola Pezzali, dello studio Cafiero Pezzali e Associati, ha messo in evidenza l’indagine condotta dall’avvocato Ciro Cafiero, in qualità di esperto del lavoro del ministro Elena Bonetti, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le Pari Opportunità e la Famiglia, in cui sono state intervistate circa cinquanta tra le maggiori aziende in Italia. Dall’indagine emerge che con il lockdown il carico degli impegni familiari delle donne è aumentato in media di 15 ore, 99mila donne hanno lasciato il lavoro per esigenze familiari e sanitaria oltre il 75% delle lavoratrici continuerebbe comunque a lavorare da casa in smart working vista l’assenza di servizi di welfare pubblici. La scelta dello smart working da parte delle donne non rilancia la leadership femminile e potrebbe essere anche controproducente, gli uomini occupano più spazi in presenza e le donne più in assenza, ma alle donne viene chiesto di essere più brave dei colleghi uomini ma meno competitive e ambiziose. Spesso si dimentica, inoltre, che molte persone non potranno mai lavorare da casa, perché il ruolo di operatore in produzione o nell’erogazione di un servizio presuppone necessariamente la presenza. Le aziende presenti al meeting che hanno tra i lavoratori sia white collar sia

Smart working

2.0

Il lavoro “da remoto” non coincide con il lavoro “da casa”. Se l’approccio è sempre più agile, manca tuttavia ancora una cultura adeguata. E il rischio di disequità è alto blue collar, hanno evidenziato il rischio di avere dipendenti di serie A e dipendenti di serie B, se non si introduce una visione agile anche in questi ambiti, andando a cogliere quindi elementi non solo relativi alla localizzazione del dipendente, ma anche all’approccio al lavoro: «Non mi interessa dove lavori, ma i risultati che raggiungi» ha commentato uno dei direttori Hr. Da questo punto di vista molte società si stanno muovendo, compensando sia con un piano di welfare, sia con una flessibilità lavorativa maggiore, pur nei limiti dettati dalla necessità di operare in presenza. Se da una parte è data per scontata la presenza di tool di collegamento abilitanti e sicuri, la digitalizzazione gioca un ruolo fondamentale per metter in campo una cultura agile, così come lo sviluppo di un approccio sistemico, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, tema sostenuto dal dottor Marco Carlomagno, segretario generale della Flp (Federazione Lavoratori Pubblici), che permetta di migliorare la user experience degli utenti e anche degli operatori a servizio dei cittadini. Di valore è stato il

contributo dell’avvocato Sergio Codella, che ha sciolto svariati dubbi sulla gestione del lavoro agile da parte delle aziende secondo l’attuale normativa. Oltre a Smart Working Day, che ne 2022 tornerà a fornire la proiezione più completa sull’applicazione del lavoro agile nel nostro Paese, non si può non citare anche l’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano che proietta 4.380.000 smart worker nel periodo post emergenza, rileva miglioramenti nella vita privata e lavorativa, maggiore produttività e efficacia nel lavoro. Conferma anche il tecnostress e l’aumento delle ore di lavoro, e distingue le grandi aziende da un lato, per cui l’81% degli intervistati ha un modello formale o informale di lavoro agile, e la Pmi dall’altro, dove la percentuale scende al 53% e il 44% non prevede nessuna iniziativa, contro la Pa con una percentuale del 67%. Un’Italia a diverse velocità quindi, in cui molti nodi non sono ancora sciolti e in cui si prospettano problemi, come le disparità che non emergono dai grandi numeri, ma che vanno assolutamente affrontate.

SIMONA CIOTTI Hr manager e coach simona.ciotti.MeC@gmail.com

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