Il personaggio di Alessandro Caldera
Lauda, il pilota che vide l’inferno prima di vincere ancora
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Tutti quelli che hanno corso in macchina hanno questa consapevolezza: quando si vince, il 30 per cento di merito va alla macchina, il 40 per cento al pilota, il restante 30 per cento alla fortuna”. Già, la fortuna, la dea bendata della mitologia classica, che non ha voltato le spalle al protagonista del racconto di oggi ma che anzi, per rimanere in tema epico, ha mandato un eroe a salvargli la vita, in un domenica tedesca del 1976. La storia, e che storia, è quella di Niki Lauda e di un uomo al
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quale il pilota austriaco deve letteralmente la vita: Arturo Merzario. Di famiglia benestante, il pilota austriaco abbandonò gli studi universitari in favore dell’automobilismo; svolse tutta la trafila, prima approdò in Formula 3 e poi scommettè tutto sulla Formula 2, alla quale arrivò grazie ad un prestito bancario con conseguente polizza sulla vita. La scuderia che se ne assicurò le prestazioni fu, nel ’71, la March con la quale debuttò al trofeo in memoria di Jim Clark, lo “scozzese volante”, perito tre anni prima in un incidente sulla
pista di Hockenheim. A quella manifestazione la figura di Niki fu però oscurata da un certo Ronnie Peterson, al quale la sorte riserverà, qualche anno dopo, una fine prematura e infame occorsa durante il Gp di Monza del ’78. Tornando però al debutto in F2, è bene citare le parole del direttore tecnico Herd in merito a quel giorno nel quale lo stesso Lauda pensò di essere stato annichilito dal più accreditato collega svedese: “Niki fece 1'14"0 mentre Ronnie 1'14"3. In quel momento capii che Niki doveva