Azione 09 del 27 febbraio 2023

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5

SOCIETÀ

Uno sguardo sul territorio con Endrio Ruggiero, capo dell’Ufficio beni culturali

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La storia della pallacanestro a stelle e strisce, dai campioni degli anni Ottanta a oggi

TEMPO LIBERO Pagina 11

Gli equilibrismi elvetici sulla riesportazione delle armi in Paesi terzi

ATTUALITÀ Pagina 19

Ucraina, le previsioni sbagliate

Spiegate

Carlo Silini

Posso abbandonarmi a un sentimento di pura meraviglia di fronte ai prodigi di ChatGPT, il celebre e recente programma di intelligenza artificiale (AI) che risponde in un batter d’occhio a qualsiasi domanda gli si ponga? Sì e no. Vorrei farlo per non ingrossare l’esercito dei reazionari tecnologici, una tribù resistente ai cambiamenti, destinata prima alla sconfitta intellettuale, poi al dileggio, infine all’oblio. Come i signori che certamente hanno avversato l’introduzione della ruota, delle macchine a vapore, delle lavatrici e di altre novità che si sono poi rivelate strumenti di liberazione da immani fatiche e schiavitù per l’umanità.

Evito, quindi, di moraleggiare sul fatto che ChatGPT annulli la fatica (e la scienza) della ricerca in archivi, biblioteche, scuole, centri studi, giornali e banche dati online. Sarebbe come maledire le calcolatrici, visto che si possono fare i conti a mente.

Osservo però qualche vuoto cognitivo. Quando le ho chiesto quali romanzi avesse scritto Plinio Martini, mi è toccato leggere: «Mi dispiace, ma non sono a conoscenza di un autore chiamato “Plinio Martini” che abbia scritto dei romanzi». Scioccante, ma è probabile che sia solo questione di tempo e che man mano che apprenderà nuove informazioni l’AI colmerà anche questi buchi.

Quando invece le ho chiesto di spiegarmi la fusione nucleare come se fossi un bambino di dieci anni, ho ricevuto una risposta magnifica: «Ciao! La fusione nucleare è come mettere insieme due piccoli mattoncini, che si chiamano atomi, per farne uno grande. Quando gli atomi si uniscono, rilasciano un sacco di energia calda, proprio come quando accendi un fuoco (…)». Apprezzo inoltre che ChatGPT non cada nei tranelli delle domande a cui è impossibile rispondere con certezza. Chi vincerà le elezioni

cantonali? «Non ho accesso alle informazioni in tempo reale sulle preferenze degli elettori e sulle attività dei candidati; – ha risposto – inoltre, come intelligenza artificiale, devo rimanere imparziale e non posso fare previsioni politiche». E quando mi sono divertito a domandare di scrivere un discorso di Obama come se lo pronunciasse Salvini, ha rifiutato perché «non sarebbe eticamente corretto scrivere un discorso di una persona che ripudia le idee dell’altra». Chapeau. Non pretendo poi l’impossibile. ChatGPT (di cui si occupa pure Ovidio Biffi a pag. 25) è una macchina, quindi è inutile aspettarsi risposte su quesiti amorosi o sul senso metafisico delle cose. Su richiesta, scrive addirittura poesie e racconti. Che dire? Se togli l’anima (e qui l’anima non c’è) non avrai nulla di artistico, al massimo un po’ di ingegneria linguistica. Preoccupazioni? Soprattutto due. Nell’imme-

Nel suo romanzo Thomas Hettche ricostruisce la storia del teatro di Augusta e il destino di un Paese

CULTURA Pagina 29

a ChatGPT chi era Plinio Martini

diato i posti di lavoro che salteranno, per esempio nell’editoria. Succederà, com’è sempre successo dopo ogni balzo tecnologico della società industriale, ma conto che dopo il trauma iniziale nascano nuove professioni. In generale temo invece la difficoltà per gli utenti di distinguere il vero dal verosimile, dal possibile, dal probabile e dal falso. ChatGPT non cita le fonti e realizza sintesi concettuali pescando da quello che trova in rete, probabilmente prediligendo le risposte più ricorrenti su Internet. L’inghippo, per ora, non sono tanto le fake news in sé, ma la possibilità che molte volte la risposta sia affidabile e qualche volta no. O che sia corretta all’80% e discutibile al 20. Il problema è la Babele, il vero mescolato al falso e viceversa. ChatGPT è un portentoso generatore di testi coerenti, ma guai a considerarlo un generatore non dico di verità, ma di informazioni verificate e dunque sempre attendibili.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 09
Federico Rampini e Paola Peduzzi Pagine 21 e 25 Keystone

SOCIETÀ

Nuovi trend per relazionarci alla natura Si va dal Rewilding all’Ungardening, da una parte si migliora l’approccio al selvaggio, dall’altro si restituisce il potere alla Madre terra nei nostri giardini

Pagine 6-7

Diagnosi e cura per un male ancora misterioso Secondo la Lega svizzera contro il cancro, in Svizzera ogni anno si ammalano di tumore al pancreas circa milleseicento persone, settanta in Ticino

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Lo scarpone che conquistò l’Everest

Storie svizzere ◆ Quella dello sherpa Tenzing è una delle avventure che Bally riscopre digitalizzando il suo vasto archivio

Nel 1952, il calzaturificio della famiglia Bally di Schönenwerd (fondato nel 1851 dai fratelli Carl Franz e Fritz), canton Soletta, fu tra i finanziatori di una spedizione svizzera sull’Himalaya, che mirava al primato nella conquista del tetto del mondo. La scalata si interruppe a 150 metri dalla meta e in cima all’Everest non sventolò la bandiera rossocrociata, ma ai piedi di un ancora sconosciuto sherpa rimasero gli scarponi-stivali di renna «made in Switzerland» forniti dallo sponsor: un modello speciale dalla suola innovativa, cucito su misura per gli alpinisti estremi.

L’anno dopo, accompagnando Edmund Hilary alla conquista dell’Everest, lo stesso sherpa, di nome Tenzing Norgay, entrò così nella storia… calzando Bally.

Questa storia di tradizione artigianale e innovazione tecnologica me la racconta Nicolas Girotto, amministratore delegato del marchio svizzero del lusso, nel suo ufficio del quartier generale di Caslano.

A settant’anni da quell’indimenticabile impresa, in collaborazione con i figli di Tenzing Norgay – aggiunge Girotto – Bally è tornata sull’Himalaya per contribuire alla salvaguardia di un ambiente montano oggi minacciato da uno sfruttamento eccessivo. Con la Bally Peak Outlook Foundation, creata nel 2020, abbiamo già contribuito a ripulire da oltre sette tonnellate di rifiuti i campi base dell’Everest e di altre vette himalayane. E abbiamo appena firmato un accordo con le associazioni ambientaliste locali per proseguire l’impegno almeno fino al 2030.

Il CEO del brand racconta della consolidata familiarità con i Tenzing Norgay con l’orgoglio consapevole di chi si trova per le mani uno straordinario patrimonio di memoria. Un archivio di oltre 170 anni offre infatti infiniti spunti narrativi in un mondo della moda in cui il cosiddetto heritage è ormai un impagabile valore aggiunto nella cura dell’immagine: blasone distintivo dell’industria del lusso.

Gli stivali di renna, sì, ma anche le scarpe da curling della squadra svizzera alle Olimpiadi del 1956, e poi i primi scarponi da trekking e gli eleganti pattini degli anni Venti del Novecento, che pare di veder volteggiare ai piedi del bel mondo internazionale sul ghiaccio dell’hotel Suvretta a St. Moritz o sul laghetto di Arosa. E invece il pattino in morbido pellame nero, modello 1926, volteggia ora in 3D sugli schermi del laboratorio di digitalizzazione di Manno, assieme allo stivale di renna modello Everest 1953. Minuziosamente fotografati e accompagnati da dettagliate schede di prodotto, i preziosi originali sono già rientrati nell’archivio climatizzato di Schönenwerd, che conser-

va le collezioni e l’intero patrimonio di memoria aziendale: 40mila paia di scarpe, 15mila fotografie, 3mila loghi, oltre mille manifesti, bozze originali, scatole per scarpe fin dal 19esimo secolo, filmati, pubblicità, cataloghi, giornali e riviste. Cui si aggiungono le collezioni (comprese borse e abbigliamento) degli ultimi 24 anni, da quando l’azienda ha cambiato proprietà, e

dalla famiglia Bally, dopo alcuni passaggi, è entrata a far parte della JAB Holding Company.

Il progetto di digitalizzazione (della durata di tre anni) è iniziato la scorsa primavera e prevede di acquisire in altissima definizione una scelta di modelli rappresentativi delle collezioni, che saranno consultabili nei minimi dettagli su schermo, evitando così

Tech Competence Center di Manno, di cui Bally è socio fondatore.

L’archivio in forma digitale (a fine 2022 sono già stati fotografati e schedati oltre 6mila modelli) sarà progressivamente reso accessibile da remoto in modo tale da poter fornire spunti d’ispirazione per le nuove collezioni al team di creativi dell’azienda, che potranno esplorare nei minimi particolari cuciture, strutture delle pelli, suole, fibbie e stringhe prima di farsi inviare i modelli prescelti da toccar con mano.

Ma non saranno solo i fashion designer a sfruttare le potenzialità offerte dalla soluzione tecnologica sviluppata nel laboratorio di Manno: USI ha infatti istituito un dottorato (PhD con indirizzo Physical-Digital) per l’accompagnamento accademico del progetto di digitalizzazione dell’archivio e ad altri studenti della medesima università è offerta l’occasione di rinnovare le forme di esposizione museale facendo dialogare l’oggetto reale con la sua versione digitale.

I risultati di questa ricerca interdisciplinare troveranno il loro spazio anche a Villa Heleneum (da aprile prossima sede di Bally Foundation), dove una delle sale sarà dedicata periodicamente a una lettura trasversale del patrimonio archivistico.

Una piccola capsula del tempo inserita in un ampio progetto culturale, che vuole spingere ulteriormente la ricerca e l’innovazione al di fuori del campo della moda, focalizzando l’attenzione sulle arti e la sostenibilità ambientale.

A Castagnola, nei 700 metri quadrati della storica villa affacciata sul Ceresio, dove in futuro troverà posto anche una residenza d’artista, la nuova direttrice di Bally Foundation Vittoria Matarrese, ha annunciato un programma composito che offrirà performances, incontri e workshop educativi oltre alle mostre.

Una proposta espositiva che del resto appartiene a Bally fin dal 1942, quando la famiglia di industriali decise di allestire, in una delle sue residenze padronali nel piccolo villaggio industriale solettese, il Museo della calzatura di Schönenwerd: un valore culturale era stato allora agganciato a un prodotto industriale, prima, molto prima che il mondo della moda scoprisse il patrimonio della memoria e si lanciasse nell’ heritage marketing

di spedire in giro per il mondo quelli che sono ormai diventati delicati oggetti di modernariato. L’operazione di conservazione e valorizzazione del suo archivio è stata lanciata da Bally Foundation in collaborazione con l’Università della Svizzera italiana e alcune aziende locali e internazionali (Hyphen, Microsoft, Moresi e Azure Cloud) sotto la guida del Lifestyle

Oggi la villa di Schönenwerd mostra i segni del tempo e quell’avanguardistico museo di metà Novecento è da ripensare con gli strumenti del XXI secolo. A Villa Heleneum, invece, si sperimenteranno le nuove forme di valorizzazione, visualizzazione e apertura al pubblico del patrimonio archivistico di uno dei più longevi brand nell’universo dell’abbigliamento di lusso.

● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
Tenzing Norgay con scarponi Bally fotografato da Sir Edmund Hillary sulla vetta dell’Everest. (© BALLY PEAK OUTLOOK FOUNDATION – ARCHIVI) Matilde Fontana

Per una maggiore cultura del territorio

Incontri ◆ A colloquio con l’architetto di origini leventinesi Endrio Ruggiero, a capo dell’Ufficio dei beni culturali

«Una società che sa prendersi cura del proprio patrimonio e del proprio territorio è una società virtuosa e sapiente che è poi in grado di trasportare i medesimi valori positivi in tutti gli ambiti della propria attività quotidiana». Questa convinzione la esprime Endrio Ruggiero, capo dell’Ufficio dei beni culturali (UBC) presso il Dipartimento del territorio. Le notizie di demolizioni di edifici storici, di grandi progetti edilizi controversi, ma pure di azioni della popolazione e di associazioni per contrastare queste tendenze si susseguono nei media a dimostrazione che forse le sensibilità stanno mutando a favore di una maggiore attenzione al territorio e ai manufatti che lo caratterizzano. Nominato nella nuova funzione la scorsa primavera dopo oltre vent’anni di attività nel medesimo Ufficio e precedenti esperienze professionali internazionali, Endrio Ruggiero è un profondo conoscitore del territorio ticinese, guida ideale per capire, oltre al ruolo dell’UBC, come evolve il concetto di protezione in questo ambito e quali sono le nuove sfide da affrontare.

Il percorso che l’ha portata a operare nel campo della conservazione è singolare. Ce lo vuole raccontare?

Sono stato attratto da questo settore un po’ per caso sul campo, in particolare a Mosca mentre partecipavo al restauro del Gran Palazzo del Cremlino a metà degli anni Novanta. Cresciuto nella valle Leventina, ho studiato architettura alla Scuola Politecnica Federale di Losanna con il sogno di diventare designer di automobili. Ho invece esercitato la professione di architetto in diversi Paesi europei fino a giungere in Russia dove ho collaborato con una ditta specializzata in restauro. Abituato ai ritmi frenetici dell’edilizia privata tradizionale, ho così scoperto i «tempi tranquilli» del restauro. Ho da subito coltivato questo nuovo interesse fino al concorso che nel 2001 mi ha condotto all’UBC in qualità di collaboratore scientifico del Servizio monumenti, Servizio che ho poi diretto dal 2014 al 2022.

L’Ufficio dei beni culturali conta altri due Servizi. Può riassumere compiti e contesto della protezione dei beni culturali nel nostro cantone?

La Legge sulla protezione dei beni culturali (LBC) del 1997 è il fondamento per l’operato dell’UBC che si basa anche su una serie di raccomandazioni e principi di intervento federali a loro volta ispirati alle convenzioni internazionali in materia (Carte del restauro).

Per fondare una reale politica di conservazione, è necessario innanzitutto conoscere il proprio territorio e il relativo patrimonio. Il Servizio inventario si occupa pertanto di allestire e aggiornare sia il Censimento, sia l’Inventario dei beni culturali protetti di interesse cantonale e locale. Va pure precisato che non esiste una tutela a livello nazionale; i beni di importanza nazionale sono tali poiché in passato hanno beneficiato di contributi federali per la loro salvaguardia. Tornando all’UBC, tocca poi al Servizio monumenti occuparsi delle pratiche di

conservazione e restauro riguardanti i beni tutelati. Infine al Servizio archeologia compete la parte legata ai perimetri di interesse archeologico e naturalmente la sorveglianza, la gestione e la ricerca nei cantieri archeologici.

Nel limite del possibile, tutti i Servizi si occupano anche di consulenza, ricerca, divulgazione e formazione.

I rapporti con la Confederazione e in particolare con l’Ufficio federale della cultura costituiscono un altro compito impegnativo dell’UBC che è interessato anche dai progetti di grande impatto territoriale, come quelli stradali e ferroviari. Con una ventina di collaboratori, l’UBC è un Ufficio giovane e dinamico, composto da quasi il 90% di personale femminile per lo più altamente qualificato.

Nella relazione fra beni culturali e territorio, in quale misura, oltre al monumento protetto, va preservato l’ambiente circostante? Quale ruolo svolge la pianificazione?

Il contesto è fondamentale, come indicano in modo chiaro le raccomandazioni della Commissione federale dei monumenti storici. Ogni monumento si situa in un contesto spaziale con il quale si relaziona sotto diversi aspetti e che è pertanto parte essenziale del monumento stesso. Rappresenta infatti l’ambito in cui il monumento ha effetto, in cui è percepito e dal quale non può estraniarsi. Per questo motivo merita un’attenzione particolare che può essere

garantita solo attraverso un’oculata pianificazione. La protezione integrata dei beni culturali e la pianificazione sono strettamente legate, poiché la seconda, sia in vigore che in divenire, può influire significativamente sulla conservazione e la valorizzazione dei beni culturali. Si tratta di uno dei punti cardine della Legge del 1997 e che spiega l’appartenenza dell’UBC al Dipartimento del territorio. Il problema principale sta nelle diverse velocità di mutamento: il monumento si modifica lentamente nel tempo, il suo contesto è invece destinato a cambiamenti più rapidi. Per evitare misure che ne pregiudichino il carattere, è quindi indispensabile integrare la tutela dei beni culturali nella pianificazione urbanistica e territoriale, prevedendo, se del caso, anche misure di protezione come la creazione di zone di salvaguardia o norme più restrittive. Un ruolo chiave lo svolgono i Piani regolatori comunali, in alcuni casi risalenti però agli anni Settanta e Ottanta del Novecento (e quindi pensati almeno un decennio prima) con obiettivi di sviluppo diversi da quelli odierni. La pressione edilizia si è fatta sentire con grande incisività soprattutto negli ultimi vent’anni e con una velocità che non corrisponde a quella dell’evoluzione della tutela del patrimonio culturale.

Quale influenza ha l’accresciuta sensibilità della popolazione

verso le testimonianze storiche e culturali?

La sensibilità e l’attenzione della popolazione, occorre dirlo, sono notevolmente accresciute negli ultimi lustri e restano fondamentali. Tuttavia ritengo che la salvaguardia del patrimonio debba sempre di più passare anche da un generale senso di responsabilità collettiva. È compito nostro ma anche di altre realtà sul territorio (Comuni, enti, proprietari privati) lavorare per estendere il significato di bene comune, in special modo nei contesti dove si rileva riluttanza nei confronti della tutela degli edifici, riluttanza dovuta sovente a una ponderazione eccessiva degli interessi, soprattutto economici. Un territorio privato di valori storici, architettonici, urbanistici e paesaggistici è un territorio povero, arido che si apre inesorabilmente alla desolazione e alla banalizzazione urbana. Per evitare questo scenario, occorre promuovere una tangibile cultura della costruzione, permettendo a passato, presente e futuro di coesistere armoniosamente in un sistema di reciproca qualità. È necessario lavorare in quest’ottica, soprattutto in ambito privato, per risvegliare quel senso civico che stiamo in parte perdendo.

La sensibilità varia a dipendenza della tipologia di beni degni di protezione?

Effettivamente l’attenzione nei confronti delle raffinate testimonianze storico-artistiche più antiche rispetto a quella nei confronti dei manufatti più recenti non è sempre la stessa. Anche una parte di questi ultimi è protetta – vedi La tutela del Moderno nel Cantone Ticino pubblicato nel 2012 dall’UBC – perché si tratta di opere significative per la collettività. Il nuovo concetto di bene culturale è stato introdotto con la Legge del 1997 che rispetto alla precedente (risalente al 1946) ha esteso la protezione ad altre tipologie costruttive come edifici scolastici e industriali, opere viarie, strutture alberghiere ecc. In Ticino sono tutelati una sessantina di edifici del Moderno realizzati tra gli anni Venti e Ottanta del Novecento.

Infine va considerato che l’Inventario dei beni tutelati è per sua natura in continuo aggiornamento dovendo rispecchiare le mutevoli sensibilità della società.

Quali sono oggi le principali sfide riguardo alla conservazione e alla valorizzazione dei beni culturali? In generale credo sia necessario promuovere una maggiore cultura del territorio, territorio nel quale sia possibile riconoscersi. Ciò per preservare la nostra identità di cui i beni culturali sono una chiara e fondamentale espressione. Occorre poi insistere in maniera più marcata sulla manutenzione ordinaria e straordinaria che si rivela essere sempre il miglior restauro. Ai proprietari e all’opinione pubblica bisogna far comprendere il valore dei vari manufatti così come l’importanza di conservarli e valorizzarli. Le difficoltà in questo ambito non sono legate ai monumenti classici, bensì all’architettura moderna. La presa di coscienza del valore e dell’importanza di una scuola degli anni Settanta del Novecento, come ad esempio quella di Riva San Vitale attualmente in fase di restauro, è tutt’altro che acquisita. Eppure questi edifici offrono in generale spazi generosi e interessanti che assicurano un’elevata qualità di vita alle persone che li utilizzano. La loro patrimonializzazione deve però ancora essere metabolizzata dal punto di vista culturale, per cui non è sempre evidente far capire tali concetti ai proprietari, siano essi privati cittadini o enti pubblici. Quali aspetti apprezza della sua attività e quali invece le delusioni che ha dovuto affrontare?

Aver maturato una profonda conoscenza del territorio cantonale e dei suoi beni è di sicuro uno dei principali arricchimenti, assieme alle numerose collaborazioni con gli attori che operano con impegno nella conservazione dei beni culturali. I momenti di sconforto sono invece legati a qualche demolizione che purtroppo non si è riusciti a evitare. Penso a Villa Branca e alla Romantica a Melide o ancora al Villino Salvioni a Bellinzona. Vi è inoltre qualche oggetto che per vari motivi non si è in grado di restaurare e che lentamente prosegue nel suo degrado. Nel primo caso si tratta di eventi che hanno perlomeno avuto il pregio di suscitare una reazione nella comunità e nelle associazioni che difendono il patrimonio culturale e paesaggistico del Ticino. L’accresciuta sensibilità odierna è in parte dovuta anche a questi episodi. L’Ufficio dei beni culturali si muove all’interno di precise norme che in alcuni casi vanno a scapito dei manufatti di pregio, sostituiti spesso da nuove edificazioni senza un particolare valore architettonico. Tutto ciò comunque non ci abbatte, anzi ci sprona a lavorare con rinnovato vigore. Apprezziamo inoltre altri segnali positivi come le iniziative comunali volte ad ampliare, tramite varianti di Piano regolatore, il numero di oggetti da salvaguardare. La Città di Lugano si sta muovendo in questa direzione e l’esempio di un centro importante potrà fungere da stimolo per altre autorità comunali.

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
La scuola di Riva San Vitale (prima del restauro) progettata da Aurelio Galfetti, Flora Ruchat e Ivo Trümpi è un esempio di Moderno in Ticino (Archivio UBC, foto Simone Mengani, Mendrisio); in basso, interno della scuola. (Archivio UBC, foto studio Bardelli Architetti Associati, Locarno)

Consegna fino alla porta di casa

Attualità ◆ Lo shop di OBI Online porta in tutta la Svizzera molti articoli dell’assortimento, anche quelli più pesanti e ingombranti

Il tuo centro del fai da te e del giardinaggio OBI ti offre non solo un vastissimo assortimento di prodotti da acquistare in negozio, ma ti dà anche la possibilità di ordinare molti articoli comodamente online da casa: puoi decidere tu se ritirarli nel punto vendita di S. Antonino oppure farteli consegnare direttamente al tuo domicilio. Lo shop online OBI è particolarmente indicato per i prodotti più pesanti e di grandi dimensioni, non importa che si tratti di materiale per l’edilizia, accessori per la casa oppure di attrezzi per il giardinaggio.

Da Volketswil a casa tua

La merce ordinata su OBI.ch viene consegnata in tutta la Svizzera direttamente dal magazzino di OBI Online a Volketswil. Questo servizio è stato implementato in brevissimo tempo due anni fa, durante la pandemia di coronavirus, quando i negozi di bricolage hanno dovuto chiudere temporaneamente, anche se il progetto era già in procinto di partire prima di allora. Il team di addetti di OBI Online è composto da dieci persone, tra cui il giovane Fowzi Yassin, il quale durante la nostra visita al magazzino di Volketswil si stava occupando di evadere un ordine di due lampade a sospensione che una cliente desiderava farsi consegnare a casa. Dopo aver visionato l’ordine sullo schermo del computer, Fowzi Yassin si reca al reparto lampade del magazzino alla ricerca dei prodotti, per poi tornare poco dopo al reparto imballaggio. «Ormai so dove si trovano esattamente tutti gli articoli», commenta sorridendo l’addetto OBI. Una volta scansionato il numero d’ordine e le due lampade affinché tutto corrisponda all’ordinazione effettuata, il sistema gli dà luce verde. A questo punto può passare al confezionamento dei prodotti per l’invio, che spesso richiede una certa creatività. Siccome il cartone medio non è abbastanza alto per le lampade e quello grande necessiterebbe di troppo materiale da imballaggio, Fowzi Yassin mette una seconda scatola sopra quella media, in modo che i due prodotti siano imballati in modo sicuro e non subiscano danni durante il trasporto. Infine, il collaboratore stampa l’etichetta con l’indirizzo del destinatario, la incolla sulla confezione e il pacco è pronto per lo spedizioniere. Se non vi sono imprevisti, la cliente riceverà il suo ordine il giorno successivo. Il team di OBI Online tratta qualcosa come 4500 pacchi al mese e la tendenza è in forte crescita. Attualmente nel negozio online sono disponibili oltre 47’000 articoli, mentre in una filiale ve ne sono circa 10’000 in più.

OBI ONLINE: I TOP

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Un primavera «calda»

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Lo shop online OBI prevede una primavera intensa sul fronte delle ordinazioni. Ciò è dovuto al fatto che, da un lato, l’offerta del negozio virtuale è sempre più conosciuta e ampia, dall’altro perché come da tradizione il periodo è molto forte in termini di vendite nei negozi di bricolage. «Tra gli articoli più richiesti da OBI Online, vi sono quelli più ingombranti e pesanti (vedi box), poiché i clienti li possono ricevere comodamente fino davanti alla porta di casa, senza doverli trasportare da soli», afferma Pascal Venetz, responsabile di OBI Online, che aggiunge: «Siamo rimasti stupiti da quante persone abbiano ordinato articoli da giardinaggio già a gennaio. Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il clima è stato nel complesso relativamente mite». Questi prodotti sono stati i più venduti da OBI Online lo scorso anno: 1 Bordo per prato, Mini 2 Scatola Rako, 60 Litri 3 Sabbia da gioco, 25 kg Ordina adesso su: OBI.ch
«Tra gli articoli più richiesti, vi sono quelli più ingombranti e pesanti»
Pascal Venetz Responsabile di OBI Online
Il collaboratore di OBI Online Fowzi Yassin prepara per l’invio un ordine di lampade a sospensione.

Gusto dolce e consistenza morbida

Attualità ◆ Il Salame Felino IGP è un grande classico della salumeria italiana. Questa settimana alla Migros trovate la specialità firmata Beretta in offerta speciale

Prodotto con carni di maiali pesanti o medio-pesanti allevati in Italia, il Salame Felino IGP (Indicazione Geografica Protetta) rappresenta un’autentica eccellenza nel panorama gastronomico parmigiano. Solo ingredienti semplici e naturali compongono la ricetta tradizionale di questa specialità prodotta unicamente nel territorio di Parma e Provincia nel rigido rispetto del disciplinare. La carne di puro suino macinata a grana grossa viene sapientemente condita con sale marino e pepe intero. Una volta insaccato nel budello naturale, il salume è lasciato stagionare per almeno 25 giorni perché possa acquisire il suo caratteristico colore rosso rubino, l’aroma delicato e il gusto dolce. È tradizione affettarlo direttamente a tavola con tagliere e coltello, presentato con le classiche fette oblique, ma si presta bene anche come ingrediente prestigioso per ricette speciali, come le tartellette senza cottura al Salame Felino oppure la cheesecake salata con Salame Felino.

Come tutti gli altri salumi della Fratelli Beretta presenti nell’assortimento Migros, anche il Salame Felino IGP è prodotto con le migliori materie prime conformemente ai più elevati standard di qualità. Passione, tradizione e competenza sono i segni distintivi di questa azienda italiana fondata nel 1812 e ancora oggi gestita all’ottava generazione dalla stessa famiglia.

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Rewilding e Ungardening: così si torna alla ricerca dell’Eden perduto

Ambiente ◆ Boschi e giardini ci parlano di trend che stanno mutando il nostro modo di relazionarci alla natura e agli spazi che condividiamo con essa, con una visione meno «ego» e sempre più «eco»

Si potrebbe parafrasare lo scultore e orafo italiano, Arnaldo Pomodoro, affermando che «Il giardino è specchio della società e del rapporto con la natura; ed è insieme uno spazio mitico, dove con più fantasia e libertà è possibile la collaborazione tra uomo e la natura stessa (nella citazione originale dello scultore è «tra artista e architetto»).

Si stanno radicando nuove tendenze anche nella pianificazione di zone selvatiche, aree verdi e giardini

Da quando l’uomo come specie ha deciso di sedentarizzarsi, rinunciando alla vita nomade, il suo rapporto con l’ambiente che lo circonda è cambiato in maniera sostanziale. Possiamo dire che in precedenza fosse parte esso stesso dei luoghi che attraversava, esattamente come lo erano, e lo sono, i grandi gruppi di animali che un tempo seguiva per sostentarsi. Diventato sedentario ha iniziato a manipolare intensamente gli spazi occupati creando paesaggi umani.

Ci sono dibattiti infiniti sulla no-

zione di paesaggio e sulla necessità della sua salvaguardia. Secondo la Fondazione Svizzera per la Tutela del Paesaggio (www.sl-fp.ch) questo è una parte di territorio così come viene visto e percepito in generale (suoni, odori…) dalla popolazione, che in esso (quando salvaguardato e valorizzato) trova un fondamento di identità, salute e una fonte di esperienze estetiche. Si parla di paesaggi naturali e culturali, i primi lasciati più all’azione della natura, i secondi a quella dell’uomo.

Il giardino, come concetto, è il tentativo di mantenere nell’esistenza e negli spazi antropizzati un po’ di natura. Citando Hermann Hesse (In giardino, 1952): «Nel giardinaggio c’è qualcosa di simile alla presunzione e al piacere della creazione: si può plasmare un pezzetto di terra come si vuole; […]. Si può trasformare una piccola aiuola, un paio di metri quadrati di nuda terra, in un mare di colori, in una delizia per gli occhi, in un angolo di paradiso».

Che siano concepiti con il rigore architettonico all’italiana, con studiato disordine all’inglese o secondo i canoni enigmatici alla giapponese (solo per citare alcuni stili) l’inter-

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vento dell’uomo nei giardini è quello di un deus ex-machina che si assicura di inserire elementi paesaggistici vari (specchi d’acqua, cascatelle) e tipologie di piante e fiori che garantiscano un effetto estetico gradevole durante tutto l’anno, cercando di conferire all’insieme un aspetto il più naturale possibile. In breve: una natura addomesticata dove, oltretutto, a volte, la presenza di altre specie viventi, come insetti, uccelli o piccoli roditori, non è vista di buon occhio. In proposito sono interessanti le osservazioni che si scambiano Paolo Pecere e Simone Pollo all’interno del terzo podcast della serie L’altro animale in merito al diritto di esistenza delle altre specie viventi con cui condividiamo il pianeta (https://bit.ly/411nKHO).

Alla ricerca di un nuovo equilibrio, più naturale e rispettoso dei ritmi e delle esigenze tipiche della natura stessa, di cui siamo parte anche noi, si stanno radicando sempre più alcune tendenze anche nella pianificazione di zone selvatiche, aree verdi e giardini, che di fatto favoriscano un’azione più spontanea proprio a Madre Natura.

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to dell’utilità della biodiversità: alberi di un’unica specie, tutti alti uguali e della stessa età, inermi di fronte a tempeste di vento violente. Si fa strada il concetto di Rewilding, ovvero il rilancio dei processi naturali, in cui gli ecosistemi vengono restaurati in grande scala. Il beneficio, oltre che per le altre specie animali e vegetali, è evidente anche per l’uomo che recupera un ambiente più sano in cui vivere, con ricadute positive anche in termini economici, grazie alla crescita di attività come il turismo, ma anche la creazione di nuovi posti di lavoro per chi si occupa di gestire questo processo (naturalisti, biologi, ingegneri ambientali). Essendo un’operazione che va controcorrente rispetto a quanto abbiamo fatto finora, e considerata la complessità delle cornici economica e sociale in cui ci si muove, le soluzioni da mettere in campo richiedono un livello di elaborazione e collaborazione particolarmente sfidante.

Se invece scendiamo di livello, nel nostro piccolo, quello che possiamo sperimentare è l’Ungardening (www. ungardening.org), ovvero riportare nei nostri giardini dietro casa, sui nostri balconi, le piante native del territorio. In una contingenza come quella attuale, con fenomeni climatici estremi e schizofrenici (periodi di siccità cui fanno seguito grandi piogge, temperature che salgono e scendono improvvisamente) il giardinaggio classico sta diventando meno sostenibile, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità appunto di acqua, o l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, l’introduzione di specie (vegetali e di conseguenza animali) alloctone.

Lo scopo primario dell’Ungardening è la salvaguardia dell’ecosistema con piante e fauna locali, cercando

di ripristinare un minimo di armonia con la natura. È la filosofia che nel 2019 ha spinto Jacques Pitteloud, ambasciatore svizzero a Washington, a rivoluzionare il giardino della sede diplomatica assegnatagli, trasforman-

do i prati intorno alla residenza, simili a un campo da golf, in un piccolo paradiso popolato da piante locali, a beneficio di uccelli e insetti, che sono tornati a farsi vedere per la gioia dell’ambasciatore stesso che è anche

un appassionato bird-watcher (https:// bit.ly/3SlNOtr).

In Svizzera, tornando al nostro campicello, possiamo consultare Info Flora (www.infoflora.ch/it/#), centro di competenza per le informazioni sulle piante selvatiche della Confederazione che, sempre nel 2019, ha lanciato insieme a RSI «Missione B – per una maggiore biodiversità», operazione che ha come obiettivo di contrastare l’impoverimento della vegetazione locale, mettendo più superficie possibile a disposizione della biodiversità.

La raccomandazione è quella evitare una promozione indiscriminata delle specie vegetali, ma di scegliere le specie giuste nel posto giusto, prestando particolare attenzione al luogo d’origine della specie stessa.

Per avere un piccolo prato fiorito, ma anche dei bei vasi da balcone, si possono scegliere semi locali che forniscono il giusto nutrimento per il mondo degli insetti della zona. Altre informazioni e preziosi consigli

si trovano anche nell’ambito del progetto Regio Flora (www.regioflora. ch), mentre al Vivaio cantonale forestale di Lattecaldo (www.ti.ch/vivaio) ci possono aiutare a scegliere e portare a casa specie di cespugli indigeni.

Chiudo con una citazione dello scrittore Paulo Coelho: «Nel corso della propria esistenza, ogni essere umano può adottare due atteggiamenti: Costruire o Piantare. I costruttori possono dilungarsi per anni nei loro compiti, ma arriva un giorno in cui terminano la propria opera. A quel punto si fermano, e il loro spazio risulta limitato dalle pareti che hanno eretto. Quando la costruzione è finita, la vita perde di significato. Poi ci sono quelli che piantano: talvolta soffrono per le tempeste e le stagioni, e raramente riposano. Ma al contrario di un edificio, il giardino non smette mai di svilupparsi. Esso richiede l’attenzione continua del giardiniere ma, nello stesso tempo, gli permette di vivere una grande avventura».

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Proteggere la salute del pancreas

e ormoni. La cura del cancro fa notevoli progressi

«Con la diagnosi della mia malattia ho scoperto che il tumore endocrino del pancreas (perché di questo si tratta) è molto raro ed è quello di Steve Jobs, notizia non rassicurante. Non avevo altri riferimenti (…). E poi c’è Gianluca Vialli, con il quale sono riuscito a parlare il giorno dopo e mi ha aiutato (…)». Sono le parole del cantante italiano Fedez all’indomani della scoperta casuale di questa malattia piuttosto rara, ma della quale all’apparenza si sente parlare sempre un po’ di più, al punto che abbiamo indagato sull’evoluzione della sua incidenza e sugli strumenti di cui oggi la medicina dispone per farvi fronte.

I nuovi approcci combinati di chirurgia e terapie permettono di guardare al futuro con maggiore ottimismo

«L’impressione è che in Ticino ne vediamo più di prima; potrebbe essere che meno pazienti si recano oltre San Gottardo come un tempo, unitamente all’evidenza che questo tumore sia effettivamente in aumento». A parlare è il professor Pietro Majno-Hurst, primario di chirurgia viscerale all’Ospedale Regionale di Lugano, cui fa eco la caposervizio dottoressa Alessandra Cristaudi a suffragio di questo aumento dei casi «riscontrato ad esempio anche in Francia da diverse équipe». Di fatto, i dati riportati dalla Lega svizzera contro il cancro indicano che ogni anno nel nostro Paese si ammalano di tumore al pancreas circa 1600 persone («In Ticino si registrano circa 70 casi all’anno»).

Il pancreas è un’importante ghiandola che si trova in profondità nell’addome, dietro allo stomaco e a fianco dell’intestino, ed è responsabile della produzione di ormoni (come l’insulina) e di enzimi digestivi (sostanze che aiutano l’assorbimento dei cibi).

Il tumore che può interessarlo, illustra la dottoressa Cristaudi, «si sviluppa di solito dai suoi dotti, dove la sua crescita può generare un’alterata funzione dell’organo o la distruzione del dotto che conduce la bile dal fegato verso il duodeno, dando la tipica colorazione gialla della pelle (ittero).

Nel tempo, crescendo, potrà invadere i vasi sanguigni circostanti, i nervi e i linfonodi, favorendo così la migrazione delle cellule cancerose verso altri organi e generando le cosiddette metastasi».

Majno definisce ancora oscure le cause: «Tra i fattori di rischio possiamo annoverare il fumo, il sovrappeso associato a una dieta troppo ricca di grassi animali e la predisposizione genetica famigliare (vi sono famiglie dove questa patologia è più frequente), così come il diabete mellito». Le sue caratteristiche particolarmente aggressive («anche quando è di piccole dimensioni può creare velocemente

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Giornalismo, che passione Forum elle ◆ A colloquio con Rachele Bianchi Porro

metastasi nei linfonodi o nel fegato») e la sua natura silenziosa («una vera e propria profilassi si può fare solo ad alcuni pazienti») la rendono una malattia temibile.

Lo confermano i nostri interlocutori che fra i pochi strumenti di prevenzione ne distinguono uno «alla larga» e uno «alla stretta»: «Occuparsi dei fattori di rischio patologici come diabete di tipo 2, obesità, sedentarietà e fumo permette di agire “alla larga”. La prevenzione “stretta” riguarda la sorveglianza di alcuni pazienti che presentano delle cisti del pancreas, trovate per altre ragioni, che potrebbero col tempo trasformarsi in neoplasia. Ad ogni modo, la migliore prognosi deriva dal riuscire a scoprirlo in fase precoce (per avere una migliore sopravvivenza, in termini di quantità e di qualità di vita), coadiuvata dall’innovativa presa a carico multidisciplinare di cui oggi disponiamo». Scoperta sovente casuale come conferma l’emblematica testimonianza del noto personaggio pubblico: Fra i pochi strumenti di prevenzione disponibili, Majno-Hurst e Cristaldi ne distinguono uno «alla larga» e uno «alla stretta»

«Sono stato fortunato: l’ho scoperto per caso con un esame di controllo (la TAC ai polmoni per un pregresso problema respiratorio ha evidenziato qualcosa che non andava al pancreas) al quale è seguito un iter di esami che non hanno trovato metastasi né linfonodi intaccati (…). L’operazione è

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala Barbara Manzoni

stata importante e devo assumere farmaci ogni giorno, stare attento all’alimentazione e gestire i problemi di digestione che spero passeranno col tempo. Ma sono stato fortunato perché il tumore è stato trovato, e operato, in una fase precocissima».

Il tasso di mortalità per questa diagnosi è ancora alto. Tuttavia, i progressi nelle cure e i nuovi approcci combinati di chirurgia e terapie permettono sempre più di migliorare le prospettive di sopravvivenza e, concordano gli specialisti, consentono di guardare al futuro con più ottimismo.

«La qualità delle cure è migliorata da un nuovo approccio comprendente una prima fase di chemioterapia che costituisce, insieme alla chirurgia che la seguirà, la principale arma per combattere questa patologia», afferma il professor Majno che, comunque, sottolinea il ruolo chiave dell’intervento chirurgico, anch’esso evoluto con tecniche derivate dalla chirurgia dei trapianti: «Il modo migliore per affrontare la situazione sta nella collaborazione delle équipe mediche multidisciplinari: oncologi, chirurghi, gastroenterologi, endoscopisti, radiologi, radioterapisti, anestesisti, diabetologi, terapisti del dolore, nutrizionisti e psicologi collaborano sotto lo stesso tetto per accompagnare il paziente in un percorso il più possibile su misura».

Allora: «L’impiego della chemioterapia prima della chirurgia mira a neutralizzare le micrometastasi e permette di circoscrivere il più possibile la massa che sarà operata in modo più radicale. Potrebbe seguire un’ulteriore chemioterapia, e certamente una sor-

veglianza nutrizionale». Monitoraggio, spiega Cristaudi, «essenziale alla ripresa delle abitudini alimentari, dove si richiedono pasti più piccoli e frequenti, una masticazione lenta ed efficace unita a un supplemento di enzimi per favorire la digestione nella nuova condizione».

Infine, un breve cenno del chirurgo alla «pre-abilitazione»: «Rispetto a riabilitare il paziente dopo l’intervento, significa poter preparare il suo organismo e la sua mente, e invertire in tal modo il processo di indebolimento nel quale si trova al momento della dianosi». Una scelta che lo coinvolge come protagonista nel trattamento: «D’altra parte, gli proponiamo di parlarci di sé, scrivendoci una breve biografia da condividere con tutti i curanti, così da offrirgli un sostegno adattato alle sue attese: una via che ci pone nell’accettazione del ruolo di “custodi della sua identità” in un momento dove egli la vede minacciata, e ci sembra che questo aiuti lui e la sua famiglia ad affrontare ancora meglio un percorso non certo semplice, ma sempre più favorevole».

Conferenza

Giovedì 2 marzo, alle 18.30, avrà luogo la conferenza pubblica webinar: «Tumore del pancreas: nuove prospettive» sotto l’egida dell’EOC Dipartimento di chirurgia vascolare.

Relatori: Pietro Majno-Hurst (Primario chirurgia vascolare ORL) e Alessandra Cristaudi (caposervizio). Per partecipare seguire il link: https://bit.ly/3DWFrhU

L’organizzazione femminile Forum elle invita tutte le persone interessate a un incontro con Rachele Bianchi Porro, giornalista da molti anni e dal 2015 conduttrice della fortunata trasmissione della RSI LA1 Storie. L’appuntamento è per giovedì 9 marzo 2023 all’Hotel&SPA Internazionale di Bellinzona (ore 17.30).

Informazioni

Iscrizioni entro il 1. marzo 2023; contattare Simona Guenzani, simona.guenzani@forum-elle.ch, Tel. 091 92382 02.

Un filo che unisce

AvaEva ◆ I casi della vita alla Filanda

Fausta Pezzoli-Vedova, autrice di Il Filo Spezzato: Un viaggio dentro la malattia (Dadò Editore) sarà presente alla Filanda di Mendrisio lunedì 13 marzo (ore 14.00-16.00) per parlare del suo percorso umano e sanitario e condividere con il pubblico una serie di riflessioni sulla malattia e la vita più in generale. L’appuntamento è organizzato dal Movimento AvaEva, associazione che promuove reti di contatto per le donne della generazione delle nonne e dà voce ai temi che le concernono.

Iscrizioni info@avaeva.ch

10 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
Medicina ◆ Questa piccola ghiandola dietro allo stomaco è responsabile della produzione di enzimi
Il professor Pietro Majno-Hurst, primario chirurgia Viscerale ORL e la dottoressa Alessandra Cristaudi. (Stefano Spinelli)
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TEMPO LIBERO

La Regina del Mar Arabico

L’attuale Kochi ha accolto generazioni di navigati mercanti ancora oggi annidati tra le botteghe del quartiere di Matancherry

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Emblema della Spagna

Si cucina in tanti modi diversi, grazie al fatto di essere abbastanza eterodossa: è la tortilla, che in questo numero viene proposta alla Allan

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Rivali ed eredi della palla a spicchi

Sei forte papà

Tutti i segreti per realizzare una bacheca da donare con l’aggiunta di fotografie, disegni e pensieri in onore di San Giuseppe

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Tra il ludico e il dilettevole ◆ Fra duelli, confronti e rivalità, scopriamo alcuni dei campioni che hanno fatto la storia della pallacanestro a stelle e strisce

Se i campioni di oggi si misurano con i loro contemporanei, d’altra parte non possono sottrarsi all’ascendenza dei loro predecessori. A 38 anni e alla sua ventesima stagione da professionista, di recente LeBron James è diventato il miglior marcatore di tutti i tempi della lega professionistica di basket americana (NBA). Arrivando a quota 38’390 punti nel corso della partita tra Lakers e Oklahoma City Thunder, ha così superato il record, rimasto imbattuto per quasi quarant’anni, detenuto da Kareem Abdul-Jabbar. La notizia è stata accolta con l’attenzione che si riserva ai grandi traguardi sportivi. Dagli anni Ottanta e dal record di Abdul-Jabbar, molti sono stati i duelli che hanno fatto la storia della palla a spicchi americana. Fra scontri, confronti, e rivalità, scopriamo alcuni dei campioni che hanno fatto la storia della pallacanestro a stelle e strisce.

Tutto lo sport, ma non solo, potrebbe essere descritto come una serie di duelli fra rivali, che infine potrebbero passarsi il testimone

Negli anni Ottanta del secolo scorso, il basket americano cresce a braccetto della cultura hip hop diffondendosi nei ghetti delle grandi città, e nei campetti dispersi un po’ ovunque nelle grandi aree metropolitane come New York, Chicago e Los Angeles. Parallelamente, lo sport della palla a spicchi spopola anche presso scuole pubbliche e università, in aree geografiche decisamente più agricole e conservatrici. In Indiana, per esempio, nei licei e nelle università la pallacanestro è quasi una religione, e non mancano figure che vestono i panni del guru: come Bobby Knight, che per tanti anni allenò la squadra dell’Indiana University.

In quegli anni la NBA è dominata da due giocatori: Larry Bird e Earvin «Magic» Johnson, uomini simbolo delle compagini più forti della lega: i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers. Larry è timido, terribilmente serio e riservato, mentre Earvin è estroverso, affabile e sempre pronto allo scherzo. Sembrano fatti apposta per alimentare una rivalità perfetta che, dai tempi del college – dove i due si sfidano nella finale del campionato NCAA –, si prolunga molto naturalmente nel mondo professionistico. Tanto che, sull’arco del decennio, i due fenomeni si contendono ripetutamente il titolo di campioni.

Larry era famoso perché, dall’alto dei suoi 208 centimetri, realizzava con talento e naturalezza tutto ciò che definisce il gioco del basket, dal

palleggio al tiro, fino ai movimenti senza palla. Earvin, dal canto suo, faceva del passaggio vincente – l’assist – la sua invidiabile carta da visita. Da gesto secondario e subordinato, con l’asso dei Lakers il passaggio si trasforma, diventa addirittura più spettacolare di una schiacciata. Avete presente il no look pass? Correndo a velocità supersoniche da una parte all’altra del campo, Magic guardava da una parte e mandava la palla dall’altra, senza che nessuno capisse bene cosa stesse succedendo. Poi – questione di centesimi di secondo –, la palla magicamente ricompariva nelle mani di un compagno pronto a finalizzare l’azione.

Negli anni Ottanta, come detto, il basket che contava finiva per coincidere con le grandi sfide fra questi due giocatori e le loro rispettive squadre. Ma sul finire del decennio qualcosa stava cambiando. L’attenzione stava spostandosi altrove, e il nuovo fenomeno si chiamava Michael Jordan. Dopo un titolo vinto con l’università di North Carolina, Jordan entra nell’NBA nella stagione 1984-85 arruolato dai Chicago Bulls, con i quali negli anni Novanta vincerà ben sei titoli (’91-’92-’93 e ’96-’97-’98). Atleta simbolo di un’epoca, Jordan è stato anche una vera e propria icona nell’immaginario e nella cultura popolare degli anni Novanta. Con i suoi

movimenti spettacolari ha sedotto gli amanti dello sport un po’ ovunque guadagnandosi, in pochi anni, il soprannome di Air Jordan per la sua capacità di librarsi nell’aria sfidando la forza di gravità.

In quegli anni Michael Jordan cambiò letteralmente il gioco del basket. Alcuni suoi tratti caratteristici, dalla lingua fuori mentre giocava, all’eleganza delle movenze, a quel suo modo di portare i pantaloncini fin quasi sotto il ginocchio, diventarono ben presto i nuovi sintagmi attraverso cui prese forma una nuova estetica del basket e dello streetwear. Forse fu proprio quel suo stare a metà strada fra cielo e terra, mentre gli avversa-

ri si arrendevano alla forza di gravità, a renderlo un mito vivente. La stella di Jordan fu così folgorante che, anche a distanza di anni dal suo ritiro, la sua linea di scarpe e di abbigliamento sportivo targata Nike continua a essere fra le più vendute e desiderate dai giovani, che riconoscono nel simbolo iconico dell’uomo che vola le loro aspirazioni e i loro sogni.

Micheal Jordan era così dominante che, per anni, non ebbe praticamente rivali. Quasi a voler riempire un vuoto creato dal suo strapotere, molti avevano cercato, sul campo, il nuovo Jordan, o perlomeno un giocatore in grado di tenergli testa. Harold Miner era stato battezzato Baby Jordan, un soprannome che riduceva a zero la possibilità di essere un vero rivale. Di Grant Hill e Larry Johnson si diceva che potessero raccoglierne lo scettro, ma nessuno dei due ci arrivò veramente vicino. Solo sul finire della carriera di Jordan scese in campo qualcuno che, con il tempo, avrebbe saputo raccoglierne l’eredità. Quel qualcuno era Kobe Bryant.

Vincendo cinque titoli, Kobe fu per gli anni Duemila ciò che Michael Jordan era stato negli anni Novanta. Se la differenza di età – Michael è di quindici anni più vecchio – ha reso difficile un vero e proprio duello ad armi pari (i due si sono incontrati otto volte sul campo), ciò non ha impedito che ci fosse il confronto. È un po’ come se i due atleti si fossero incrociati sul campo per passarsi il testimone. Per tutti i campioni arriva il momento, presto o tardi, di lasciare il passo al proprio erede. Lo sapeva bene Michael Jordan tanto che, poco dopo la prematura scomparsa di Kobe Bryant, in uno dei suoi rari discorsi pubblici affermò: «Quando Kobe Bryant è morto, è morta una parte di me».

Oggi il mondo della palla a spicchi è animato da altre rivalità, e a calcare i campi ci sono altri campioni. Ma il rinnovamento non esclude l’esistenza di alcune costanti. Perché in fondo tutto lo sport, ma non solo, potrebbe essere descritto come una serie di duelli fra rivali, alcuni dei quali si trasformano in veri e propri passaggi di testimone. Come affermano gli autori dell’interessante libro intitolato proprio Rivali. Sfide Leggendarie che hanno fatto lo sport: «Le rivalità esistono per nutrire il pubblico di storie, e il conflitto – lo sappiamo – è il motore della narrazione». Nello sport, e così in altri ambiti, sono le rivalità a fare la storia.

Consiglio di lettura

A cura di «L’ultimo uomo», Rivali, Sfide leggendarie che hanno fatto lo sport, Einaudi, 2022.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11
Sebastiano Caroni

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Un fiore dove ogni petalo è una religione

Reportage ◆ Prove di multiculturalità in Malabar, alla ricerca della perduta via delle spezie

Enrico Martino, testo e foto

Ebrei in fuga da Babilonia, fedeli di una chiesa cristiano-siriaca nata nella lontana Mesopotamia, marinai arabi spinti dal vento che gonfiava le vele dei loro dāw, le imbarcazioni tradizionali del Mar Arabico, in molti sono giunti sin qui. Onnipresenti immagini di Madre Teresa, a testimonianza di una forte comunità cristiana, convivono senza problemi con falci e martello di un partito comunista che governa lo Stato indiano del Kerala, da sempre.

Non si è fatta mancare nulla questa striscia di costa affacciata sull’Oceano Indiano per alimentare il suo mito, non si è fatta mancare neanche le reti cinesi dei tempi di Kublai Khan e Marco Polo, navigatori portoghesi, olandesi e inglesi incerti tra l’attrazione per l’altrove e le certezze dello sfruttamento coloniale. È la ricetta di un’inaspettata India cosmopolita, unica eccezione di un subcontinente massicciamente induista con forti minoranze musulmane, indissolubilmente legata ai venti monsonici che da millenni permettono di raggiungere velocemente l’antico Malabar. Un nome che sprigiona esotici profumi di pepe nero, zenzero, cardamomo, curcuma e cannella, non a caso la parola «pepe» viene dal tamil pippali e «zenzero» da singabera, protagonisti di una corsa alle spezie per cui l’Occidente impazzì già dall’antichità. Una competizione senza esclusione di colpi tra potenze europee e mondo islamico perché proprio il monopolio arabo su questi traffici fu la molla di spedizioni navali che segnarono l’inizio della grande espansione dell’Occidente.

Colombo si ritrovò nelle Americhe cercando la via che portava al raro pepe nero del Malabar ma fu Vasco da Gama nel 1498 a garantire al Portogallo il controllo della Via delle Spezie. Da allora portoghesi, spagnoli, olandesi e inglesi incrociarono in queste acque i loro destini, qualche volta pacificamente altre meno. Prima di loro, e degli arabi, era arrivata la flotta romana del Mar Rosso, una storia rivelata solo recentemente dal ritrovamento di una stazione commerciale vicino a Mahè che riforniva Roma di spezie e schiave indiane a prezzi da capogiro, che già all’epoca di Nerone erano una delle principali ragioni di salasso delle casse imperiali.

Il cuore di tutto era la piazzaforte coloniale di Cochin, l’attuale Kochi, la «Regina del Mar Arabico» favoleggiata per secoli da europei e arabi che però se la dovevano vedere con generazioni di navigati mercanti ancora oggi annidati tra botteghe stracolme di spezie dell’antico quartiere di Matancherry. Antri impregnati dell’umidità ossessiva del monsone dove Kirorimal, con la pazienza di chi si trova davanti uno sprovveduto, mi afferra una mano nascondendola sotto un lembo del dhoti, la tunica d’ordinanza, poi modula strette di mano ognuna diversa dall’altra, come un virtuosista. «Ogni stretta un prezzo, e tutto rimane un segreto tra compratore e venditore, un sistema imbattibile» ride trionfante in un andirivieni di portatori carichi di sacchi di iuta.

Trasuda polvere, spezie e storie Matancherry, la più intrigante delle quali nasconde dietro una piccola porta la foresta di lampade a olio della sinagoga Pardesi costruita nel 1568, distrutta nel 1662 dai portoghesi perennemente a caccia di miscredenti e ricostruita dopo l’arrivo dei più tolleranti olandesi nel 1664. Ne aveva-

no già viste tante gli ebrei del Malabar, dai tempi in cui il nome biblico dell’India era Odhu e re Salomone flirtava con la regina di Saba: i primi sarebbero arrivati ai tempi della deportazione a Babilonia da parte di Nabucodonosor o alla Diaspora seguita alla distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 72 dopo Cristo; l’unica certezza storica è l’esistenza di un piccolo principato ebraico tra il quinto e il quindicesimo secolo, così incredibile da far scrivere a Rabbi Nissim, un viaggiatore ebreo del quattordicesimo secolo, «Sono arrivato a vedere un re israelita, l’ho visto con i miei occhi».

A far piazza pulita ci pensarono mori e portoghesi costringendo i po-

chi sopravvissuti a chiedere protezione ai maharaja locali. Dopo la caduta di Granada, però, alcuni ebrei sefarditi spagnoli raggiunsero Cochìn alimentando un’intrigante leggenda ripresa da Salman Rushdie nell’Ultimo sospiro del Moro. Leggenda che aveva che fare con la corona di Boabdìl, ultimo sovrano dell’Andalusia musulmana, che sarebbe stata nascosta qui dai discendenti dell’amante ebrea del re.

Gli ultimi eredi di quel mondo se ne sono andati per sempre, in Israele o dietro il cancello arrugginito con la Stella di Davide del vecchio cimitero, e i pochi sopravvissuti sono solo evanescenti presenze.

L’inestricabile gioco di rimandi culturali di Matancherry continua davanti agli affreschi erotico-divini della cosmogonia induista nella residenza degli ultimi maharaja, dove la prosperosa Mohini seduce Shiva e un indaffaratissimo Khrisna è impegnato a titillare con sei mani e due piedi otto gopis, le sue amanti, in rappresentanza del mirabolante numero di oltre sedicimila concubine. Le radici induiste si materializzano soprattutto nella luce fioca dei templi, lontano dai turisti, quando le rappresentazioni del Kathakali trasformano gli uomini in dei e demoni di poemi epici come il Mahabaratha e il Ramayana

Nel frattempo gigantesche portacontainer che non trasportano più spezie ma Made in India sfilano davanti alle ultime reti cinesi e i camion frigorifero caricano il pesce al ritmo di jingles elettronici che si liquefanno nell’aria immobile. Dietro le ultime case olandesi resta la tomba vuota di Vasco da Gama nella cattedrale portoghese di Saint Francis (dopo quattordici anni di piogge monsoniche, il poco che ne restava fu riportato con tutti gli onori a Lisbona) e i risentimenti di padre Yohamman, della chiesa siro-caldea di Marth Mariam.

«Da quando hanno ucciso Arius le cose sono cambiate anche qui, parlo del vescovo ovviamente» aggiunge con un’aria vagamente infastidita, indifferente al fatto di farmi precipi-

tare in un vorticoso abisso temporale di eresie come quella ariana che risale a sedici secoli. I cristiani siriaci locali non hanno dubbi sul fatto che la loro presenza risalga a San Tommaso in persona, che avrebbe fondato sette comunità in Malabar per poi finire martirizzato nel vicino Tamil Nadu. Una leggenda che la scoperta della facilità di comunicazioni tra Medio Oriente e Malabar ha trasformato in un’ipotesi plausibile, rafforzata anche dai Rampan Pattu, antichi poemi orali che parlano dell’apostolo con indicazioni storiche sconosciute alla cultura locale.

«Il Kerala è un fiore dove ogni petalo è una religione» spiega serafico padre Josep nella Miracle Church di Kokkamangalam, eretta sul luogo dove sarebbe sbarcato San Tommaso. «Per questo qui vengono anche pellegrini indù e musulmani» conclude trionfante, tacendo pudicamente quello che mi confessa uno di loro, «molti pensano che uno straniero come San Tommaso sappia cavarsela meglio con le faccende che riguardano l’estero». Storie arrivate con i monsoni che toccano terra proprio in Kerala, «il luogo dove nasce la pioggia» e il profumo delle spezie impregna sottili melanconie che sanno d’Arabia e Occidente.

Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.

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Matancherry’s Jew street, tradizionali magazzini utilizzati da secoli per il commercio di zenzero e altre spezie. Sotto al centro: il trucco, la radicale trasformazione del volto umano destinata a trasportare nel lontano regno dell’immaginario. Sotto a destra: attore prima della messa in scena al tempio Guruvayur; sullo fondo pellegrini addormentati. In basso, Chiesa cattolica di Santa Cruz, una delle più antiche di Fort Cochin.

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Una tortilla alla Allan direttamente dalla Spagna

Gastronomia ◆ Là dove il culto delle patate continua a prosperare

Io non ho imparato a cucinare dalle nonne, che ambedue dicevano – a ragione, secondo i nonni – di non essere brave, né dalla mamma, che proprio non ci sapeva fare ma che amava i grandi ristoranti. Io ho imparato a cucinare dai libri, studiati con passione quando decisi che volevo imparare a spadellare. I libri base furono, oserei dire ovviamente, il mitico Pellaprat, (vale a dire L’arte della cucina moderna di Henri-Paul Pellaprat): edito nel 1935, ha formato generazioni di cuochi; e l’altrettanto mitico Larousse Gastronomique, grande e completa enciclopedia. Ergo mi sono formato sulla cucina classica di inizio Novecento, quindi francese con contributi di altri.

Una delle caratteristiche di quanto proposto in queste opere era la presenza di due ingredienti, onnipresenti o quasi: patate e uova. Che da allora amo. Restano il mio, o almeno uno dei miei comfort food. Sintesi ovvia: una bella frittata di patate, con qualche altro ingrediente, resta un conforto perfetto. In questo mi sento molto spagnolo, dato che la tortilla, che è fatta così, è il loro piatto nazionale. Già, la tortilla… è l’emblema della Spagna tutta, un paese dove il culto delle patate continua a prosperare. Si fa in tanti modi, ovviamente. Io prediligo la versione che vi descrivo qui di seguito, e che, essendo abbastanza eterodossa, chiamo, poco umilmente, tortilla alla Allan Eccovi la ricetta (ingredienti per 4/6 persone). Prima domanda: quali patate utilizzare? Questo è il problema. Le patate sono di origine andina, e gli inca svilupparono tante cultivar per adattarle ai diversi climi; si dice, anche se forse è una esagerazione, che le cultivar fossero circa duemila diverse! Le cultivar sviluppate in Europa sono molte di meno. Questo detto, nella maggioranza dei negozi oramai si trovano solo le Bintje, mitica culti-

var di origine olandese che va bene un po’ per tutto ma… Quindi che fare?

Io preferisco le patate Ratte, a pasta gialla, dolcissime, ma anche le Vitelotte viola: ognuno, comunque, usi quelle che ama.

Procediamo. Rompete 10 uova in una ciotola e sbattetele con un pizzico di sale. Mondate e affettate 2 cipolle rosse (anche bianche vanno bene). Lavate 600 g di patate, asciugatele, non sbucciatele (io ho un debole per la buccia delle patate buone, del tutto commestibile) e tagliatele a fette sottili. In una casseruola antiaderente scaldate una noce di burro o di un altro grasso animale – l’olio extravergine di oliva non è perfetto per soffriggere, ma da aggiungere crudo, se buono –, quando comincerà a friggere, rosolate rapidamente le cipolle per 4 minuti, mescolando e quasi subito sfumando con vino bianco – per evitare che la temperatura del grasso le degradi – poi levatele.

Aggiungete altro burro e versateci le fettine di patate. Coprite la casseruola con un coperchio e lasciate cuocere mescolando di tanto in tanto perché le fette non si attacchino ma formino una crosticina. Unitele nella ciotola con le uova sbattute e le cipolle. Ungete di burro una teglia usa-egetta e spolverizzatela di pangrattato leggermente tostato; versate il composto, livellatelo, spolverizzate con pangrattato e cuocete in forno a 200° per 15 minuti o fino a quando la superficie sarà ben dorata, e la frittata, rappresa all’interno, non troppo asciutta.

Si può servire sia calda, anche come piatto forte, sia fredda, come antipasto o come farcitura di un panino. Molte, le varianti, che rendono però questa frittata «meno tortilla». Si possono aggiungere prosciutto e altri salumi e formaggio; ma anche, previa cottura ovviamente, verdure come spinaci o zucchine, funghi di ogni genere ed erbe aromatiche.

Vediamo come si fanno altri piatti a base di patate.

Frittelle di patate e sedano rapa. Lavate 500 g di patate poi lessatene 300 g a vapore per 30 minuti e grattugiate il resto. Grattugiate anche 300 g di sedano rapa. Passate le patate les-

Ballando coi gusti

Frittelle di lenticchie

se, mescolatele a quelle grattugiate e al sedano rapa, quindi amalgamatele con 2 uova sbattute, 1 pizzico di sale, abbondante pepe e 100 g di farina setacciata. Friggete il composto, poche cucchiaiate alla volta, in abbondante olio di semi ben caldo. Scolate le frittelle quando saranno dorate, tamponatele con carta assorbente da cucina e servitele subito. Patate al formaggio. Lavate le patate e tagliatele a spicchi. Lessateli in acqua bollente salata per 2 minuti, poi scolateli. Mescolateli con 80 g di pane grattugiato e disponeteli in una teglia leggermente unta di olio. Cuocete in forno a 180° per 30 minuti. Sfornate e cospargete con il

formaggio duro grattugiato con i fori grossi. Regolate di sale e di pepe e completate la cottura fino a quando il formaggio non inizia a fondere. Patate burro e salvia. Lavate le patate e tagliatele a spicchi. Mettete in una teglia o in un tegame che possa andare in forno abbondante burro, deponeteci le patate in un solo strato, unite parecchie foglie di salvia e 1 spicchio di aglio mondato e leggermente schiacciato e fatele saltare per pochi minuti a fuoco allegro, scuotendole spesso perché si coprano al meglio del condimento. Poi cuocetele in forno a 200° per circa 30 minuti. Servitele spolverizzandole di sale e di pepe.

Pakora di verdure

Oggi proponiamo delle semplici frittelle, che sono un ottimo antipasto.

Ingredienti per 4 persone: 300 g di lenticchie cotte – 200 g di farina –200 cl di latte – 1 uovo – 1 tuorlo – ½ cucchiaino di peperoncino in polvere – ½ bustina di lievito – un pizzico di zucchero – olio di semi per friggere – sale.

Frullate le lenticchie con lo zucchero e il sale e mescolatele al latte bollente. Fate raffreddare il composto e unitevi la farina setacciata con il lievito. Unite l’uovo, il tuorlo e il peperoncino e mescolate con cura. La pastella deve essere abbastanza spessa, se non lo fosse aggiungete poca farina. Con l’aiuto di due cucchiai formate le frittelle e tuffatele in olio di semi ben caldo. Scolatele su carta per fritti e servitele immediatamente.

Ingredienti per 4 persone: 250 g di farina di ceci – 100 g di zucchine, 100 g di carote – 100 g di cimette di cavolfiore – 100 g di cipolle – 100 g di melanzane – 1 cucchiaino di bicarbonato – 1 cucchiaino di garam masala – 1 cucchiaino di coriandolo secco – 1 cucchiaino di peperoncino –olio di semi per friggere – sale.

I pakora sono frittelle indiane. Preparate la pastella mescolando in una ciotola la farina con il bicarbonato, il garam masala, il coriandolo, il peperoncino e 1 pizzico di sale. Versate 1,5 dl di acqua fredda e proseguite a mescolare fino a ottenere un composto omogeneo. Lavate e mondate le verdure, quindi tagliatele a listarelle sottili. Incorporate le verdure alla pastella e mescolate bene. Scaldate abbondante olio in una padella per fritti e gettate il composto a cucchiaiate. Fate dorare le frittelle in maniera uniforme. Scolatele e posatele su carta per fritti. Servite subito.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 15 Come si fa?
pixabay.com KentWang

Un cuore per papà

Crea

con noi

◆ Un’idea per riciclare i tappi di sughero e realizzare una bacheca d’effetto da regalare per la festa del papà

Materiale

Una bacheca per la festa del papà, da donare con l’aggiunta di fotografie, disegni e pensieri.

I piccoli di casa si potranno divertire a realizzarla dipingendo una base di cartone e realizzando un grande cuore con tondi ricavati dai tappi di sughero avanzati o raccolti dagli amici di famiglia.

Un progetto semplice ma d’effetto che si presterà molto bene a decorare un angolo della vostra casa.

Procedimento

Tagliate dal cartone un quadrato di 40x40 cm e dipingetelo da am-

bo i lati di bianco; in questo modo non rischierà di incurvarsi. Lasciate asciugare (potete velocizzare questa operazione utilizzando un asciugacapelli). Distribuite sopra alla base una quantità sufficiente di pittura rossa e con un pennello andate a tirarla in maniera irregolare coprendo quasi completamente la base bianca creata in precedenza. Sempre dal cartone ritagliate un cuore largo circa 28 cm e con la colla caldo (se siete adulti) oppure con la colla vinilica (se a completare questa operazione saranno i bambini) riempitelo di tondi in

Giochi e passatempi

Cruciverba

Annuncio: Cercasi socio per apertura gioielleria, richiedesi… Trova il resto dell’annuncio rispondendo alle definizioni e leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 13, 1, 5, 2, 5)

ORIZZONTALI

1. Il Blaise fisico e matematico

6. Canti religiosi ebraici

11. Abbreviazione di onorevole

12. Percorre linee urbane

14. Liete, serene

15. Si ricava da due date

17. Sede di affetti e sentimenti

19. Le iniziali dell’attore Nolan

20. Il lordo senza il netto

22. Il prefisso che dimezza

23. Timorata di Dio

24. L’io in psicanalisi

26. Vaso di terracotta

28. Pianta aromatica

30. La Giunone dei greci

32. Donna senza precedenti…

33. Il cantautore Stewart

35. Canto sacro

37. Una nota

38. Premio nelle gare medievali

40. Istituzione finanziaria vaticana

41. Antica unità di peso

43. Le tracce del passato…

45. Le iniziali dell’attore Solenghi

46. Contrapposto a profano

47. Illustre VERTICALI

1. Fa tanti versi…

2. Uno sportello del mobile

3. Le iniziali dell’attrice Theron

4. Altare pagano

5. Fibre tessili

7. Si spinge con le dita

8. Le iniziali dell’Ariosto

9. Un pelosetto in casa

10. Ha una criniera sulla schiena

13. Attore muto

16. Stadio d’altri tempi

18. Ambiziosi scopi

sughero che avrete ricavato dai tappi tagliandoli a fette di circa 5 mm. Se avete turaccioli di misure diverse cercate di tenere quelli più larghi all’esterno. Rivestite in questo modo tutta la sagoma. Con il filo rosso avvolgete il vostro cuore in modo che i fili risultino ben tirati, infine aiutandovi con la stessa colla rifinite col filato tutto il perimetro. Con gli stampini scrivete su di un foglio bianco le parole SEI FORTE PAPÀ. Ritagliatele e incollatele sul cartone. Rifinite il cartone lasciando un piccolo margine attorno alla parola e andate a incollare sul retro una piccola molletta in legno. Con la colla a caldo o del biadesivo fissate il cuore al centro del pannello, fissate sul filo di lana le mollette e rifinite con una cornice di 3 cm. La vostra bacheca è pronta per ac-

• C artone di riciclo

• Tappi in sughero

• Taglierino

• Colla a caldo o colla vinilica

• Pittura acrilica bianca e rossa

• Pennelli piatti

• Filo di lana grossa rossa

• Stampini con lettere e inchiostro nero

• Mollettine in legno

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

cogliere pensieri e fotografie da dedicare ai papà. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

21. Circondano i facoltosi

23. Progetti, programmi

25. Colore giallo-rossiccio

27. Croce Rossa Italiana

28. Un cereale

29. Uno dei Sette Nani

31. Delimitato da collo e glutei

32. Altro nome di Cupido

34. Proferire

36. Famosi

38. Segno matematico

39. Organizzazione Mondiale della

Soluzione della settimana precedente

ALIMENTARI – Nome della

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 16
42.
44.
Sanità
Le iniziali del conduttore Conti Le iniziali della conduttrice Isoardi
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
CURIOSITÀ
NEOTAMO – DA SETTEMILA A TREDICIMILA. 1 2 3 45 6 78 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 N E ON T ALA M O I DE A S E TR T EL M I A L A OSOL A T RIO CUN EO A DONE NF INDO C I M EOL I LIO SI AA ARIE 8 1 65 4 2 7 9 5 1 3 2 7 985 2 8 3 74 6 95 4 9183 425 76 4368 571 92 5729 614 83 1 4 9 7 8 6 2 3 5 7851 236 49 2634 957 18 6 9 1 2 7 8 3 5 4 3546 198 27 8275 349 61
sostanza:

Viaggiatori d’Occidente

Breve ma indimenticabile

Lo sci ha un futuro? No. Punto. La rubrica di questa settimana potrebbe finire qui, lasciando in bianco il resto dello spazio. Ma prima vorrei dare voce a un rimpianto. Gli sport invernali hanno scritto un bel pezzo della loro storia qui da noi (oltre che in Austria, Italia e Francia, si capisce). La data d’inizio dello sci in Svizzera si fa risalire al settembre 1864, a St. Moritz, con la celebre scommessa tra l’albergatore Johannes Badrutt e alcuni turisti inglesi, quando ancora per le vacanze si veniva d’estate: se fossero tornati d’inverno, e fossero rimasti delusi, i suoi clienti non avrebbero pagato nulla. Naturalmente gli ospiti furono invece entusiasti (e pagarono), anche se il turismo invernale decollò solo nel periodo tra le due guerre, quando gli americani «inventarono» l’estate al mare sulla Costa azzurra, «rubando» agli svizzeri la loro stagione migliore e costringendoli

a ripensare l’inverno. La storia dello sci è breve dunque (meno di un secolo) ma indimenticabile. Ora siamo ai titoli di coda e nessuno concede più di mezzo secolo ancora di lenta agonia (solo quaranta anni secondo Luca Mercalli).

Se la tendenza è inequivocabile ci sono tuttavia molte altre domande in sospeso che richiedono una risposta. Per esempio dovremmo aiutare le stazioni invernali in difficoltà, per sostenere l’economia locale? E possiamo immaginare un diverso modello di sviluppo per questi territori?

Naturalmente ogni stazione è un caso a sé, ma alcune riflessioni generali sono ampiamente condivise.

Il cambiamento climatico è rapido e impressionante. E in montagna ancora di più: due gradi a livello mondiale diventano quattro sulle Alpi.

Se negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso si sciava anche d’esta-

Passeggiate svizzere

Il tea-room Haug a Svitto

Topofobia, da sempre, al solo sentirne il nome. Colpa del collegio di Svitto, spauracchio ipotizzato dai miei per contrastare le mie pigrizie e turbolenze adolescenziali. Perdipiù il suono aspro, secco, quasi come un comando per cani che provoca Schwyz , toponimo originale del capoluogo del cantone omonimo un tempo Paese forestale della Svizzera primitiva, non ha certo aiutato. Per non parlare del patto federale, custodito come una reliquia in un museo costruito apposta per sacralizzarlo oltremisura, a sproposito.

Perciò da Svitto, con estrema cura, mi sono sempre tenuto alla larga. Anche se negli ultimi anni, passandoci via milioni di volte in treno, quei due fiabeschi Mythen svettanti alle sue spalle tra i boschi, ogni volta, mi tentavano di fare, un giorno o l’altro, un giro in città. Alla fine non ci sono mai stato a Svitto dove arri-

vo ora, in treno, per via di un tea-room. Cammino in mezzo a un mare di nebbia che ha fatto sparire i Mythen, Svitto, e tutto il resto del paesaggio. Dalla piazza centrale con il municipio affrescato di battaglie, riesco però ad agguantare la graziosa scritta gigante in alto, tra due file di finestre con persiane verdi sotto le pieghe barocche del tetto, con la «ti» e la «erre» di Tea Room svolazzanti. Una rarità per posti di solito non sbandierati più di tanto e in via di estinzione, considerati da molti come desueti, ammuffiti, polverosi, deprimenti, con vecchiette dai capelli viola che mangiano vermicelles. L’interno del tea-room Haug (512 m) a Svitto, soprattutto la saletta più piccola in fondo, è invece di riconforto netto con tanto legno di noce e pelle capitonné color marmellata di lamponi. Risalente alla fine degli anni Quaranta, età dell’oro dei tea-room elvetici,

Sport in Azione

Sei razzista? Io ti punisco

A partire dagli incontri del 22 febbraio, validi per la Coppa del Brasile, ogni atto, parola, slogan o atteggiamento razzista verrà punito con una penalizzazione in classifica. Che i colpevoli siano i giocatori in campo, lo staff in panchina, o i tifosi sugli spalti e in tribuna poco importa. Sarà il club sportivo a pagare. Non più solo in denaro. Lo ha annunciato una dozzina di giorni fa il presidente della Federcalcio brasiliana, Ednaldo Rodrigues. Dal canto suo, l’omologo dirigente della Lega, che rappresenta i club coinvolti, ha rincarato la dose aggiungendo che ogni atteggiamento a sfondo razzista dovrà essere segnalato alla giustizia ordinaria, affinché possa procedere secondo le sue leggi. Non voglio fare della dietrologia. Sono convinto che questo processo fosse in atto a prescindere dal passaggio della presidenza dal conservatore Jair Bolsonaro al progressista Ignacio Lu-

la da Silva. Si tratta ad ogni modo di una svolta epocale nella lotta al razzismo nello sport. Un segnale chiaro che la sensibilità sta cambiando. Ne è testimone la società civile che viaggia verso una rovente bipolarizzazione etica. Da un lato abbiamo una moltitudine di persone sempre più coscienti del fatto che la discriminazione di una persona per la razza, l’etnia, la religione o l’orientamento sessuale, è quanto ci sia di più becero nell’animo umano. Dall’altro, una minoranza –almeno sarebbe auspicabile – di strenui difensori di una squallida libertà di pensiero che invade in modo ignobile quella di altri individui. Lo sport, unitamente alla caserma, è rimasto uno degli ultimi baluardi di quest’ultima categoria. Perché ci si può vilmente mimetizzare nella massa, o nascondere sotto un’uniforme che rende tutti più o meno uguali. In Svizzera la legge parla chiaro.

te sui ghiacciai, oggi neanche le stazioni ad alta quota sono al sicuro. Le ultime Olimpiadi invernali a Pechino si sono svolte interamente su neve artificiale (non era mai successo); stessa situazione per la Coppa del mondo di sci ad Adelboden. Certo l’innevamento artificiale può aiutare a colmare qualche lacuna, ma non è la soluzione del problema. Se fa troppo caldo la neve si scioglie subito e comunque per produrla serve acqua, che viene presto a mancare se non nevica a sufficienza l’anno prima: un classico circolo vizioso. Qualche buona nevicata di tanto in tanto poi non cambia nulla, anzi è peggio, perché suscita illusioni e ritarda il necessario cambiamento.

Lo sci sarà sempre più uno sport per ricchi. Chi lo dice a Karl Marx che la lotta di classe si è spostata sulle piste innevate? Negli ultimi anni si è scatenata la tempesta perfetta: pri-

ma la pandemia, poi la siccità e infine l’aumento del costo dell’energia. I costi per la manutenzione delle piste sono cresciuti parecchio e oltretutto bisogna ammortizzare in qualche modo i giorni sempre più numerosi senza neve: inevitabile il rincaro degli skipass, al di là di occasionali promozioni. Infine i laboratori di ricerca propongono materiali di qualità straordinaria, dalle tute agli scarponi agli sci, ma anche qui a costi crescenti. Già ora per una settimana bianca una famiglia deve impegnare cifre impressionanti. E non a caso in Svizzera si registra un calo del numero di sciatori del venti per cento in soli dieci anni. Scordiamoci il passato. Intorno allo sci per decenni è cresciuta tutta un’economia, con un indotto importante (alberghi e ristoranti, maestri di sci, negozi eccetera). Lo stesso mercato immobiliare delle abitazioni se-

condarie ne è stato plasmato. Ora la montagna dovrà inventarsi un futuro dove la neve, anche d’inverno, è solo un elemento tra i tanti, insieme a escursionismo, mountain bike, turismo culturale e gastronomico. Naturalmente quando e dove si potrà si continuerà a sciare, magari con qualche sostegno mirato agli impianti, ma investimenti su scala maggiore sarebbero uno spreco (non parliamo di idee stravaganti come Cortina 2026).

La montagna cercherà di attrarre nuovi abitanti: lavoratori da remoto e nomadi digitali, giovani famiglie e pensionati in fuga dalle città, artigiani. E tuttavia meglio non farsi illusioni; al massimo si potranno limitare i danni. Per molte località comincia un tempo di perdita, di declino, una traversata del deserto verso una meta incerta e avvolta nelle nebbie. Ma lamentarsi serve a poco, quando c’è così tanto da fare.

questo tea-room svittese dove vago senza aver trovato ancora il punto di osservazione ideale, oltre al riuscito arredo fuori dal tempo, grazie agli stucchi dei soffitti, lampadari a corona con pendenti tipo cristallo, emana un’aria più antica. La percezione di un’altra epoca è dovuta poi anche a questa settecentesca ex casa parrocchiale. Alle nove e diciassette di un mattino verso la fine di febbraio, inizio ad acclimatarmi seduto sulla pelle capitonné color marmellata di lamponi di una sedia in legno sorprendentemente comoda della saletta più intima alla quale si può accedere anche dalla strada, diretti, senza passare dalla confiserie fondata nel 1889 da Gustav Haug (1853-1909). Pasticcere partito con sua moglie Eugènie (1857-1933) da Stoccarda. Attraverso la sala grande, più luminosa ma un po’ meno magica, e scendo nella confiserie per

un croissant al cioccolato. Stamattina, per colazione, non mi aspettavo niente di speciale oltre all’arredo di un certo gusto che qui nella saletta in fondo, più riflessiva, conta nove tavolini in noce, eppure il croissant al cioccolato, va detto, è una cannonata. L’idea del tea-room è stata del figlio e della figlia del pasticcere svevo: Josef Haug (1885-1948) e Jeannette Haug (1891-1967), i cui tre nipoti, René, Gustav, e Jörg, passati anche loro a miglior vita, hanno portato avanti la pasticceria-tearoom fino alla generazione attuale di Haug. Senza illustrare nel dettaglio il panorama odierno di torte a fette e pasticcini, non è neanche l’ora del resto, spiccano però due torte intere alla mocca ricoperte di scaglie di mandorle e anche le Linzertorte, in vetrina, guardano fuori bene. Nel repertorio non potevano mancare i Mythen di cioccolato, quasi più souvenir che specialità. Quat-

tro posti sono magari meno strategici per lo studio del luogo ma più distensivi per via delle panche-divanetti in pelle che di solito preferisco d’istinto; bisogna però saper cambiare, ogni tanto. Un tocco fuori dal mondo, in diversi punti, contro le pareti, sono le lampade similcandele sgocciolanti di cera. Un motivo ricorrente nella boiserie, come lì, nel separé-onda proprio sopra la panca-divanetto, è l’intreccio che richiama all’istante la Linzertorte Linzertorte e caffè era il solito per Meinrad Inglin (18931971), autore, tra l’altro, di Die graue March (1935), libro immerso nella natura e in un mare di nebbia il cui confine grigio è contenuto nel titolo. In realtà, a poco a poco, un po’ per via dell’effetto boiserie a intreccio combinato al colore dell’imbottitura in pelle, le luci candela, la nebbia, chissà, incomincio a sentirmi come dentro a una Linzertorte

Ogni atto discriminatorio è passibile di sanzioni, più o meno severe, a dipendenza della gravità del fatto. Ma vai a individuare la voce della canaglia che impreca contro Mister X per il colore della sua pelle, o contro Mister Y poiché non fa mistero della sua omosessualità? Nonostante le videocamere di sorveglianza, gran parte degli atti di razzismo e omofobia a tutt’oggi restano impuniti. Il siluro lanciato sul pianeta-calcio dal Brasile potrebbe provocare una svolta. Finora i club sportivi si limitano a far rimuovere dalle tribune gli striscioni ritenuti offensivi e discriminatori. Inoltre passano alla cassa in due modi: pagando multe più o meno salate, e rinunciando a una parte degli incassi nei casi in cui la giustizia sportiva imponga la chiusura di una curva o dell’intero stadio. La forza deterrente di queste misure non ha spostato di molto l’ago della bilancia. I grandi club sono con-

frontati con cifre da capogiro in altri ambiti, al punto che le ammende sopra menzionate equivalgono alla classicissima «quantité négligeable ».

Se invece una società sportiva comincia a essere toccata nella classifica, la musica cambia. Avere qualche punto in meno può significare perdere il titolo nazionale, oppure, nel caso del calcio europeo, fallire l’accesso alla lucrativissima Champions League. Il rapporto tra punti persi e milioni persi comincerebbe a destare comprensibili preoccupazioni. Indurrebbe i club a modificare radicalmente la relazione con le frange più esagitate della tifoseria, troppo spesso trattate con i guanti, poiché si ritiene sia meglio averle amiche.

Per questa ragione è auspicabile che il gesto rivoluzionario della Federcalcio brasiliana possa essere preso in considerazione anche dalle altre federazioni, e non solo quelle calcistiche.

Il mondo del rugby, spesso considerato a ragione come un esempio di fair play, ci ha proposto pochi mesi fa la storia di Conakry Traoré, di origini angolane, naturalizzato italiano, pilone della Benetton Treviso e della Nazionale azzurra. Per Natale si è visto recapitare, quale regalo dai suoi compagni, un pacchetto contenente una banana marcia. La vicenda ci sbatte in faccia il confine tra razzismo e goliardia. I rugbisti del Treviso hanno riconosciuto l’errore e si sono scusati con Conakry. La tensione è stata quindi parzialmente assorbita. Sono tuttavia convinto che in questa fase delicata di cambiamento della sensibilità, sia opportuno mantenere alto il livello di guardia. Il tempo, lo speriamo, ci consentirà di percepire con chiara consapevolezza la differenza tra la meschinità dell’atto discriminatorio e la battuta sdrammatizzante, affettuosa e, perché no, autoironica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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di Oliver Scharpf
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di Giancarlo Dionisio

Il lato cioccolatoso della Pasqua.

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ATTUALITÀ

Il sacco della RAI

Centinaia di opere d’arte sono sparite da corridoi e pareti dell’ente televisivo

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Estero Pakistan: riesplodono le contraddizioni nella «terra dei puri»

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Economia

Quanto pesano i lavoratori stranieri sul nostro sistema sociale?

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Svizzera

Il punto sulle reti ferroviarie che ci attraversano

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Equilibrismi elvetici sulla riesportazione delle armi

Berna ◆ Se il Governo permette di fornire munizioni a un Paese ingiustamente aggredito la nostra neutralità è a rischio?

A volte può capitare che per fare politica occorra metter mano al bilancino del farmacista. Ed è quello che sta succedendo per la riforma della legge sul materiale bellico, con cui si mira ad agevolare la vendita di armi svizzere all’estero. Il tema è delicato, e il momento pure. C’è di mezzo la nostra neutralità, che dall’inizio dell’invasione in Ucraina è costantemente messa a dura prova, in particolare da quando il Consiglio federale ha deciso di riprendere le sanzioni europee volute per mettere alle strette la Russia di Putin. E così ora, a quello delle sanzioni si aggiunge un altro nodo da sciogliere, quello dell’esportazione di armi. Tocca al Parlamento trovare i giusti equilibri per cercare di definire nuove regole per il commercio di materiale bellico. La legge in materia prevede che uno Stato che acquista armi svizzere può rivenderle a terzi solo dopo il via libera del nostro Governo. In buona sostanza c’è bisogno di un’autorizzazione, con il sigillo del Consiglio federale. Di recente tre Paesi europei – Danimarca, Germania e Spagna – hanno chiesto di poter consegnare all’Ucraina armi in loro dotazione ma di origine elvetica. In tutti e tre i casi il Consiglio federale ha negato il proprio nullaosta. In linea generale Berna vuole così garantirsi che il materiale bellico elvetico non finisca in zone di guerra o in contesti in cui vengono violati i diritti umani. Ne va del principio della neutralità, dice e ribadisce il Governo. Ora però le cose potrebbero cambiare.

A Berna c’è molta frenesia tra i partiti alla ricerca di soluzioni capaci di trovare la quadratura del cerchio: permettere la riesportazione – chiesta a gran voce dai Paesi membri della Nato e anche dall’industria bellica svizzera – e al tempo stesso difendere il principio della neutralità elvetica. E, per farlo, in queste settimane si sono escogitate diverse soluzioni da equilibristi, visti i termini, le tempistiche e le formulazioni utilizzate. Queste, riassunte all’osso, le posizioni di partenza. Il PLR vuol far leva sul concetto di «valori». Il materiale bellico rossocrociato può essere rivenduto solo da Paesi che condividono i medesimi valori democratici della Svizzera. In altre parole: di una democrazia ci dobbiamo pur fidare. Il senatore bernese Werner Salzmann – uomo dell’esercito e dell’UDC –ha poi aggiunto una clausola temporale: si può riesportare ma solo dopo cinque anni dall’acquisto, questo per impedire un passaggio diretto dalle fabbriche di armi svizzere ai campi di battaglia. Da par suo il Partito socialista chiama in causa le Nazioni Unite: la riesportazione verso un Paese in guerra è possibile se il Consiglio di Sicurezza o i due terzi dell’Assem-

blea generale dell’ONU condannano lo Stato che ha dato il via alle operazioni militari, ed è il caso della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Il Centro vuole permettere la riesportazione ma solo verso l’Ucraina e per un periodo limitato a due anni. Questo lo scacchiere su cui i quattro partiti di Governo hanno inizialmente messo mano alle loro pedine. Non senza alcune mosse, anche a sorpresa.

Possiamo permettere a Paesi terzi di inviare materiale bellico svizzero in Ucraina?

La prima è stata quella dell’UDC che ha bloccato sul nascere le ambizioni di Werner Salzmann, che con un’alleanza ad hoc in campo borghese era pronto a facilitare le riesportazioni di armi svizzere, anche a sostegno dell’industria bellica elvetica, solitamente protetta e difesa dalla stessa UDC. Il gruppo parlamentare democentrista ha però deciso che questa volta non se ne farà nulla. Sull’argomento si è espresso anche Christoph Blocher. Per il padre padrone del par-

tito queste riesportazioni rischiano di mettere a repentaglio la neutralità. La legge sul materiale bellico non si tocca. E questo anche per due ulteriori motivi: questa normativa è stata appena rivista, due anni fa, proprio con l’obiettivo di rendere più difficile la rivendita di armi. E poi anche perché lo stesso Blocher ha appena lanciato un’iniziativa popolare per una «neutralità permanente, armata e globale della Svizzera». Insomma, meglio evitare contraddizioni interne. Internamente anche i socialisti hanno a loro volta qualche mal di pancia, con l’ala pacifista del partito che non ne vuole sapere di queste rivendite facilitate di materiale bellico. Qui si apre un derby tutto a sinistra con i Verdi, compatti su questo tema, e decisi a bocciare qualsiasi apertura in favore del mercato delle armi. Le discussioni in Parlamento si preannunciano infuocate, con i fautori della riforma che daranno battaglia fino all’ultimo per trovare formulazioni capaci di strappare un voto positivo. Incerto al momento il risultato, ma sicuro lo scenario: ci vorranno mesi prima di trovare, semmai, una soluzione

di compromesso. L’eco di questo dibattito si farà in ogni caso sentire anche all’estero, visto che la pressione in questo ambito arriva anche dai Paesi a noi vicini. E questo, se ce n’era ancora bisogno, l’hanno provato sulla loro pelle anche i Consiglieri federali Ignazio Cassis e Viola Amherd, alla recente Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera. La ministra vallesana lo ha ammesso, si è più volte dovuta confrontare con l’incomprensione dei colleghi europei in merito alla questione della riesportazione di armi, in un momento in cui l’esercito ucraino ne ha urgente bisogno. «Non riusciamo a farci capire», ha dovuto riconoscere la ministra vallesana. A poco è servito ribadire che la Svizzera si sta a suo modo impegnando in favore dell’Ucraina, offrendo i propri buoni uffici, con le sanzioni e nell’ambito dell’aiuto umanitario. Aspri i dissapori espressi in particolare dalla Germania, che minaccia di non acquistare più armi svizzere. Secondo la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, «la neutralità non è un’opzione. Essere neutri significa schierarsi dalla parte dell’aggres-

sore». Parole forti, con la Svizzera che si trova sollecitata anche a rafforzare la propria partecipazione alla sicurezza collettiva europea e atlantica. Qui ci sono in particolare da chiarire i nostri futuri rapporti con la Nato. Anche questo sarà tema di dibattito, nel corso della sessione primaverile delle Camere federali, tra chi auspica un aumento delle spese militari e una più stretta collaborazione con l’Alleanza atlantica e chi invece non ne vuole sapere di intensificare questo partenariato militare. Di mezzo c’è, pure qui, sempre lei: la nostra neutralità. E gli aggettivi da affiancarle. Deve essere «armata e perenne», come prefigura l’UDC? «Cooperativa», come immaginava l’anno scorso il ministro degli esteri Ignazio Cassis? Oppure «caso per caso» come ritiene il Consiglio federale? Di certo c’è di che dibattere e anche da metter mano al «bilancino del farmacista». Con all’orizzonte un guaio simile a quello che Berna avverte con l’Unione europea: il rischio di un crescente isolamento del nostro Paese da quello che viene chiamato il «mondo libero», che fatica a capirci. Sempre più.

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Un collaboratore della Ruag con un «Leopard» in una foto di alcuni anni or sono a Thun. (Keystone) Roberto Porta

Il grande sacco della RAI

Furti d’arte ◆ Sono centinaia le opere di valore scomparse negli anni dai corridoi e dagli uffici dell’ente televisivo

Tutta colpa della cattiva manutenzione delle sedi RAI, accentuatasi durante il distanziamento imposto dalla pandemia di Covid-19. Così un paio d’anni addietro capita che negli uffici romani un quadro si stacchi dalla parete. È il famoso Architettura di Ottone Rosai, tra i principali esponenti del Futurismo. Il dipinto, rappresentante alcune case stilizzate e due cipressi, viene inviato al restauro. Agli incaricati bastano pochi interventi per accorgersi che si tratta di un falso. L’immediata denuncia alla Procura produce l’intervento dei carabinieri addetti alla «Tutela del patrimonio culturale» (Tpc).

In un paio di mesi d’indagini riescono a individuare l’impiegato, che cinquant’anni prima si era impossessato dell’opera. Protetto dalla prescrizione, l’autore del furto racconta di averla sostituita con una copia e venduta per 25 milioni di lire (circa 250 mila euro). Viene rintracciato l’acquirente, il quale spiega di averla a sua volta ceduta una decina di anni dopo e lo stesso ha fatto il secondo proprietario con il quale, però, si perdono le tracce del quadro. La sparizione del dipinto di Rosai riporta in primo piano la denuncia, fatta a suo tempo dal tg satirico di Canale 5, «Striscia la notizia»: nel 2004, sempre dalla sede di viale Mazzini, erano scomparsi Vita nei Campi di Giorgio De Chirico e La Domenica della Buona Gente di Renato Guttuso. E se le fortune artistiche ed economiche del secondo sono in netta discesa, il primo rimane l’incontrastato capofila della pittura metafisica. Le quotazioni dei suoi quadri e delle sue sculture crescono negli anni al pari di quelle dei suoi scritti.

Il quadro di De Chirico appare secondo nella lista dei furti più famosi. Qui, infatti, continua a primeggiare la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio. È sparita

nel 1969 dall’Oratorio di san Lorenzo palermitano. Dopo oltre cinquant’anni di ricerche, si conoscono nomi e cognomi della banda, le dinamiche, il primo nascondiglio, l’immediata azione della mafia e l’antiquario trafficante di opere d’arte, ormai deceduto, proveniente dal Canton Ticino, forse da Lugano, il cui nome è top secret perché l’inchiesta è ancora in corso. Lui avrebbe acquistato la tela, portandola oltreconfine, via Milano, già nel 1970. Eppure la tela in questi decenni è stata al centro d’infinite storie, prima fra tutte l’estenuante trattativa aperta da Cosa Nostra per restituirla. Una sfida per i carabinieri del Tpc, che pure di colpi ne hanno messi a segno parecchi. Nell’ottobre del 2019 a un’asta londinese di Christie’s è stata aggiudicata per 70mila euro la scrivania che Giò Ponti, uno degli architetti più apprezzati del ventesimo secolo, disegnò appositamente per la sede

RAI di Milano, di cui aveva curato il progetto. Christie’s ha da subito affermato l’integrità del proprio operato ribadendo che mai avrebbe messo in vendita opere di cui fosse stata dubbia l’autenticità o la proprietà. Dal catalogo della vendita gl’investigatori hanno appreso che la scrivania era stata comprata nel 2010, con tutta la documentazione necessaria, dalla galleria Anna Patrassi di Milano. La titolare ha rivelato di averla acquistata qualche anno prima, fra il 2007 e il 2008, ma senza rammentare da chi.

Un esame certosino di vecchie foto scattate durante le inaugurazioni degli uffici della RAI in tutt’Italia ha portato alla sconvolgente scoperta del saccheggio perpetrato un po’ ovunque. Mancano dipinti di Casorati, Monachesi, Nespolo, Corot, Piranesi (stampe d’epoca di pregiato valore). Tra le opere delle quali non si hanno più notizie risaltano un’inci-

sione di Monet del Paysage de Verneuil, un’incisione di Betty Fels di Amedeo Modigliani e una di Alfred Sisley di Hampton Court. In tanta magnificenza quasi si perdono gli altri quadri rubati come il Colosseo di Giovanni Stradone (Scuola Romana) e il Porto di Genova del torinese Francesco Menzio, (Scuola de «I sei di Torino»). Un elenco preciso è quasi impossibile. I dirigenti dell’ente televisivo non sono stati infatti capaci di stabilire quali siano i pezzi mancanti e se possano magari giacere in qualche scantinato. Ipotesi che i magistrati delle procure interessate (Roma, Milano, Torino, Lecce) tendono a escludere.

Più l’inchiesta procede, più aumenta il numero dei manufatti dispersi. Non c’è traccia delle quattro miniature, in bronzo e argento, riproducenti il cavallo dello scultore Francesco Messina, che svetta all’ingresso di Viale Mazzini ed è nei decenni divenuto il

Nel mondo chiuso dei charedìm che vivono senza tv e senza internet

Israele ◆ Seconda puntata del nostro viaggio tra i volti dell’ebraismo ortodosso contemporaneo

Secondo la tradizione il mese ebraico di adar si contraddistingue per la gioia che lo pervade e che giunge all’apice in occasione della festività di Purim, il carnevale, che cade nel suo quattordicesimo giorno (quest’anno il 7 marzo del calendario civile), un mese esatto prima della Pasqua. Nei giorni scorsi, tuttavia, Israele ha fatto ingresso nel suo mese piu gioioso con il «cuore» pesante.

L’ostinazione del governo Netanyahu ad approvare in prima istanza la tanto contestata riforma giudiziaria ha infatti inasprito ulteriormente le proteste e gli scioperi che divampano in tutto il Paese, l’economia vacilla, lo shekel, la moneta, si va indebolendo ogni giorno che passa, mentre in Cisgiordania proseguono scontri drammatici.

Solo mercoledì a Nablus l’ennesima operazione dell’esercito israeliano ha provocato la morte di oltre dieci palestinesi e un centinaio di feriti, e la tensione è alle stelle, anche in vista dell’approssimarsi del Ramadan.

Per estraniarsi dalle preoccupazioni e percepire a pieno l’euforia del

nuovo mese è necessario adentrarsi nei quartieri ultraortodossi dove vivono i cosiddetti charedìm, letteralmente «timorosi». Quest’espressione ha la sua origine nell’Europa del 1800, quando è stata adottata per di-

stinguere le comunità che osservavano scrupolosamente uno stile di vita tradizionale nel pieno rispetto delle norme del diritto ebraico che molti ebrei cominciavano invece ad abbandonare in conseguenza dei processi di laicizzazione, integrazione, assimilazione o modernizzazione che dir si voglia. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale i superstiti di tali congregazioni dell’Europa orientale si radunarono intorno ai loro rabbini, finendo per emigrare in particolare in Israele e negli Stati Uniti e secondo un autocensimento del 2022 in Israele costituirebbero oggi circa il 13% della popolazione.

Comunicano con i manifesti

I charedìm cercano per quanto possibile di evitare il contatto con una cultura che non sia la loro, non hanno dunque la televisione, se utilizzano internet si servono di appositi filtri, stampano giornali per conto proprio e comunicano principalmente attravero l’affissione di manifesti sui mu-

simbolo della Rai. Mancano pure molte sedute di Carlo Mollino, uno degli architetti più famosi e gettonati a cavallo della Seconda guerra mondiale, padre dell’auditorium RAI di Torino intitolato ad Arturo Toscanini. Il direttore dei beni artistici dell’ente televisivo ha dichiarato che diversi direttori di sede mai hanno segnalato la sparizione degli oggetti d’arte dai loro uffici. Ignoranza, menefreghismo o complicità? I magistrati ritengono che dei 1500 quadri, sculture, oggetti, mobili ascrivibili al patrimonio RAI almeno il 10 per cento è irrecuperabile. Il danno ascende a decine e decine di milioni. Il critico d’arte più seguito della Penisola, Vittorio Sgarbi, afferma che i dipinti irrintracciabili di Soffici, Sironi, De Pisis hanno una valutazione sui 15-20 milioni di euro.

Gli ultimi sviluppi hanno consentito di stabilire che l’anno di svolta fu il il 1996 quando fu organizzata a Lecce una mostra dal titolo: Opere del Novecento Italiano nella collezione della Radiotelevisione italiana. Ebbene, gran parte delle tele, delle sculture, degli oggetti ormai introvabili all’epoca erano esposte lì, nel Salento. Sono mai state riportate a Roma e nelle altre città da dove provenivano? La speranza degli inquirenti di trovare le bolle di spedizioni è finora andata delusa. Nessuno degli organizzatori della mostra ha saputo fornire indicazioni utili. I carabinieri stanno cercando di appurare quali fossero gl’impiegati e i dirigenti coinvolti. Non essendoci ancora la prescrizione sarà molto difficile ricevere confessioni spontanee come accaduto con il quadro di Rosai. E fanno quasi tenerezza i due tecnici di una ditta appaltante arrestati per avere rubato dalla sede RAI di Torino due computer, quattro smartphone, tre notebook, un lettore CD e sei hard disk.

ri, i cosiddetti pashkavìlim. Vivono una sorta di esistenza parallela al resto della popolazione, concentrati in quartieri o città interamente concepiti per soddisfare le loro esigenze, usi e costumi. L’isolamento si riflette ad esempio sulle certificazioni alimentari prodotte sotto la stretta sorveglianza di rabbini di loro fiducia e più severe di quelle emesse dalle autorità rabbiniche locali.

Lo stesso vale per le istituzioni scolastiche, rigorosamente divise tra maschili e femminili per motivi di pudore e modestia. Gli uomini studiano nelle yeshivòt, le scuole rabbiniche di grado diverso, non prestano servizio nell’esercito e per la maggior parte proseguono gli studi anche una volta sposati, percependo modesti assegni di mantenimento.

Le donne, pur sposandosi molto giovani e facendo una media di 6 o 7 figli, in molte comunità sono ancora le uniche a portare a casa uno stipendio. Anche per questo motivo, a differenza degli uomini che dedicano la maggior parte dello studio al Talmud e all’interpretazione rabbinica delle

Scritture, già dai gradi inferiori godono di un’istruzione più ampia e variegata, che comprende anche materie «laiche» per poter fare ingresso nel mondo del lavoro.

Negli ultimi anni le ultraortodosse si vanno emancipando dal settore dell’istruzione per addentrasi in ambiti lavorativi diversi che vanno dalla grafica alla contabilità, dall’assistenza sociale al telemarketing e al segretariato. Inoltre sono sempre più richieste dalle società di high-tech che offrono loro corsi di formazione e programmazione informatica, attirate anche dal fatto che si accontentano di stipendi più bassi.

Sono dunque in aumento anche le università pubbliche e private che offrono loro facilitazioni all’ingresso, per eludere la mancanza del diploma di maturità, e persino corsi separati dal resto degli studenti. Le donne ashkenazite portano la parrucca, mentre le sefardite generalmente un copricapo o un cappello, dal momento che i rabbini sefarditi si oppongono spesso all’uso delle parrucche per ragioni di modestia.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 20
Non c’è traccia neppure delle quattro miniature riproducenti il cavallo dello scultore Francesco Messina, che svetta all’ingresso di Viale Mazzini, sede della RAI. (Keystone)
Sarah
Parenzo
Padre e figlio a Tsfad, in Galilea. (Wikimedia Commons)

L’abbraccio tra Biden e Zelensky davanti al muro della memoria dei caduti per l’Ucraina a Kiev. (Keystone)

Il Pakistan allo sbaraglio

Prospettive ◆ Esplodono i paradossi nella cosiddetta «terra dei puri»

Sette previsioni sbagliate

Guerra in Ucraina ◆ Un anno di clamorose smentite dei nostri pregiudizi

La settimana che si è conclusa ha confermato una rappresentazione della guerra in Ucraina come «scontro di civiltà». Lo hanno ribadito i due discorsi simmetrici e contrapposti di Joe Biden e Vladimir Putin. Da una parte: l’Ucraina come simbolo di tutti i valori del mondo libero, per cui il nostro destino si gioca nella sua difesa. Dall’altra: la Russia come baluardo dei valori tradizionali, da difendere contro un Occidente perverso e decadente, oltre che aggressivo e deciso a umiliare Mosca.

La notizia su colloqui tra le due parti in corso in Svizzera, che ha avuto poca risonanza negli Stati Uniti, è stata smorzata dalla precisazione che si tratta di colloqui di basso livello. Quindi forse soltanto un modo per mantenere un canale di comunicazione aperto, in attesa di tempi migliori. Ma migliori per chi? Ciascuno è ancora convinto di poter vincere, o comunque non vuole sedersi a un tavolo di vero negoziato se non dopo aver rafforzato la propria posizione.

Il fantomatico «piano cinese di pace» è destinato a sgonfiarsi come il pallone-spia? Le due vicende sono collegate. Se la Cina volesse davvero mediare, cioè spingere Putin a fare concessioni, non avrebbe reagito in modo così duro dopo essere stata colta in flagranza di spionaggio sui cieli americani.

Un anno di guerra dovrebbe indurci a riflettere anche su come l’abbiamo raccontata e analizzata noi. Perché tante previsioni sull’Ucraina si sono rivelate clamorosamente errate negli ultimi dodici mesi? Provo a elencare, per capitoli, le principali smentite che la realtà ha inflitto ai nostri pregiudizi.

1. Ma quale invasione?

«Putin non invaderà, vuole solo garanzie sulla sicurezza della Russia». Questo diceva la maggioranza degli osservatori e dei leader politici europei, alla vigilia dell’attacco. Putin ha distrutto quel capitale di credibilità, ha sprecato una fase in cui l’Occidente lo considerava un genio strategico. Ha costretto l’Europa a emanciparsi dal suo gas, perdendo così la più formidabile arma di pressione nei nostri confronti.

2. Una vittoria lampo

per cui molti leader occidentali erano pronti a concedere di tutto alla Russia: a cominciare da una neutralità ucraina che la consegnava al destino di Stato-satellite di Mosca. Da che cosa nasceva questa previsione, spazzata via dalla resistenza ucraina? Da una sopravvalutazione delle forze armate russe, legata ad alcuni exploit (Cecenia, Georgia, Siria) studiati poco e male. Da una sottovalutazione del nazionalismo ucraino: in molti hanno creduto alla propaganda di Putin secondo cui l’Ucraina non è mai stata una vera nazione bensì soltanto una costola della Russia. E quindi avrebbe dovuto accogliere a braccia aperte l’armata di Putin, almeno in alcune regioni. Ignoranza storica e pregiudizi filo-russi hanno contribuito. Attenzione al rischio opposto. Un anno pieno di sorprese negative per le forze armate russe, non deve indurci a pensare che i generali di Putin non possano imparare dai propri errori.

3. La crisi energetica

Apocalisse energetica. Per mesi dopo l’inizio dell’invasione, molti descrivevano un’Europa sull’orlo di una terrificante penuria energetica, condannata a un inverno di gelo e stenti. I Paesi europei hanno dimostrato flessibilità nel diversificare le proprie fonti, andando a cercare energia altrove. Il sistema delle imprese ha reagito accelerando i risparmi energetici e l’innovazione. Le fasce sociali più deboli sono state aiutate grazie ai bilanci pubblici. Perché tante previsioni allarmiste e catastrofiste? Tendiamo a sottostimare l’elasticità tipica dell’economia di mercato, che reagisce con prontezza agli aumenti di prezzi o alle scarsità. Infine sottovalutiamo la capacità di risposta dei sistemi politici democratici. Un diffuso pregiudizio dice che le dittature sanno reggere meglio gli sforzi bellici prolungati, ma la storia non conferma questo teorema.

4. La mancanza di cibo

Apocalisse alimentare. Idem come sopra. A un certo punto del 2022 sembrava che ci fosse la carestia alle porte. È bene ricordare questo dato: siamo otto miliardi sul pianeta ma la produzione agricola è in grado di sfarmare dieci miliardi di persone. La povertà, non la scarsità, è la ragione per cui esistono ancora centinaia

di milioni di denutriti e sottonutriti. Povertà e diseguaglianze esistevano prima di questa guerra.

5. La forza delle sanzioni

Le sanzioni costringeranno la Russia a sedersi al tavolo di negoziato. È dai tempi di Mussolini in Etiopia che le sanzioni internazionali falliscono. Lo stesso dicasi per Cuba, Corea del Nord, Iran. Tutti questi Paesi hanno trovato anche dei sistemi per aggirare almeno in parte l’embargo, figurarsi se la Russia non si era preparata per fare lo stesso. Peraltro il regime di sanzioni contro la Russia oggi vede schierato tutto l’Occidente insieme con alleati importanti come Giappone e Corea del Sud. Ma gran parte del mondo, inclusa una potenza filo-occidentale come l’India, il Golfo Persico, l’Africa e l’America latina, non partecipa.

6. La buona influenza cinese

La guerra finirà con la mediazione cinese. Xi Jinping sta con Putin a tutti gli effetti. Anche se questa guerra ha procurato delusioni e costi a Pechino, la Cina vede la sua utilità in termini di «distrazione» dell’America dall’Estremo Oriente.

7. Il dittatore sta male

Putin sta per sparire: golpe o malattia terminale. Lo abbiamo visto tutti godersi un bagno di folla nel comizio di pochi giorni fa a Mosca. Non sembrava un uomo malato, né assediato dagli oppositori. Gli unici attacchi visibili contro di lui all’interno della Russia, vengono da falchi della destra nazionalista come il capo della Divisione Wagner. Il fatto che lui li tolleri lascia aperta una supposizione: che sia lui stesso a voler far credere all’Occidente che una sua caduta sarebbe seguita da un regime ancora più aggressivo. In ogni caso dietro questa profezia (morte o golpe) c’è anche la convinzione, o la speranza, che Putin sia l’unico vero problema. Questo significa non fare i conti con la dimensione patologica, paranoica, di un imperialismo russo che ha messo radici anche nella cultura popolare. La Germania nazista dovette «rieducare» se stessa dopo il 1945 per purificarsi di una malattia che era nazionale, non era esclusiva di Hitler ed era già ben visibile nel Primo Reich.

Lahore messa praticamente sotto assedio da migliaia di seguaci dell’ex-premier Imran Khan che protestavano contro le accuse di corruzione e sedizione di cui il suddetto è stato chiamato a rispondere in tribunale. Le migliaia di cui sopra imploravano la polizia di arrestarli, e la polizia si faceva invece grasse risate limitandosi a osservarli. Nessuno degli aspiranti martiri per la libertà è finito in galera, e l’assedio è diventato una gita aziendale. Nel frattempo, il capo della Lashkar-i-Toiba Mohammed Hafiz Saeed (l’organizzazione che ha pianificato l’attacco di Mumbai nel 2008, tanto per capirci), che secondo Islamabad dovrebbe essere in galera da quando il suo arresto è stato adoperato mesi fa per togliere il Pakistan dalla «grey list» della Financial Action Task Force (Fatf), si vanta, libero e bello, in un video di aver recentemente tenuto sermoni talmente buoni da convertire in massa qualche centinaio di hindu che risiedono in Pakistan.

Il Paese in bancarotta continua ad attaccarsi agli integralisti islamici

E il ministro delle Finanze Ishaq Dar si fa fotografare tutto contento con una delegazione di alto profilo della Rotschild & Co., che fornisce servizi finanziari a vari Paesi in tutto il mondo: il Pakistan, ormai di fatto in bancarotta, si prepara a quanto pare a ristrutturare il proprio debito pubblico prima del tracollo definitivo. E lo fa, sghignazzano alcuni analisti, con una finanziaria di origine ebrea mentre continua ad attaccarsi sempre più tenacemente all’integralismo islamico e a rifiutarsi di avere rapporti con Israele. Sempre negli stessi giorni, una delegazione governativa di piccoli dottor Frankenstein si reca a Kabul a implorare i mostri da loro stessi creati di tenere al guinzaglio i «terroristi cattivi» che se la prendono con il governo pakistano. D’altra parte il Paese, il cui nome significa letteralmente «la terra dei puri» è stato fondato su un paradosso (una repubblica islamica per cittadini di tutte le religioni e anche per i laici) e di paradossi continua a vivere minacciando periodicamente di implodere fin dalla sua fondazione nel 1947. Storicamente, le numerose crisi attraversate sono sempre state risolte con una bella ditta-

tura militare: che però, al momento, non è più sul menu per diverse ragioni. I generali infatti, sono troppo occupati a litigare tra loro: da quando il burattino Imran, in perfetto stile Pinocchio, si è liberato dei propri fili e ha smesso di dire bugie (o, almeno, di dirne troppe) rivelando ciò che tutti sapevano e cioè di essere stato fin dal principio soltanto un pupazzo da ventriloquo per l’esercito che lo aveva fatto eleggere, l’esercito non se la passa troppo bene e cerca di tenere un profilo bassissimo cercando di far credere alla popolazione che a comandare sia il Governo e che i generali si limitano a seguire le direttive della politica. D’altra parte, con il Paese allo sfascio questa appare, tutto sommato, la linea più conveniente da tenere. Negli ultimi vent’anni il debito pubblico pakistano si è più che raddoppiato ogni cinque anni: e il Governo del buon Imran, sostenuto dai generali, ha messo allegramente la testa nel cappio della «trappola del debito» cinese, vendendo di fatto il Paese a Pechino con accordi ancora più capestri di quelli firmati dai suoi predecessori per diventare protagonisti (o vittime, dipende dai punti di vista) di quella branca della «nuova via della seta» che è il China-Pakistan Economic Corridor Il debito del Pakistan è ormai insostenibile, i generi di prima necessità hanno prezzi da capogiro, l’inflazione è alle stelle, la politica allo sbando, la politica estera continua a seguire le linee guida dettate dalla buonanima dell’ex-dittatore Musharraf: doppi e tripli giochi e menzogne spudorate per ottenere i soldi necessari a tappare di volta in volta i buchi più urgenti. Islamabad, generali e politica, reagisce da par suo ispirandosi a Marie Antoinette e alla versione pakistana delle famigerate brioche: teniamo occupata la popolazione con la minaccia del terrorismo provocato dall’Occidente per avere costretto il Pakistan a sostenere la coalizione internazionale in Afghanistan, con gli islamofobici infedeli che cercano di attaccare Islamabad e coi nemici alle porte del Paese che vogliono distruggere la «terra dei puri» accusandola ingiustamente di aver creato i terroristi islamici e di usarli ancora come strumento privilegiato di politica estera e di ricatto. Qualcosa succederà. E l’Occidente, come da copione, non permetterà che un Paese dotato di bomba atomica si sfasci: il ricatto, Musharraf docet, funziona ancora e sempre.

I sostenitori dell’ex-premier pakistano Imran Khan mercoledì scorso a Lahore. (Keystone)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 21
La vittoria sarà facile e veloce per Putin. Questa era una delle ragioni Federico Rampini

Quanto pesa davvero la popolazione immigrata sullo stato sociale del nostro Paese?

Economia ◆ L’apporto dei lavoratori stranieri è positivo soprattutto per l’AVS, diverso il discorso per chi è disoccupato o in assistenza

Anche nel 2022 l’immigrazione in Svizzera è proseguita a ritmi elevati, portando il livello degli stranieri residenti a oltre il 25% della popolazione. Il numero dei lavoratori stranieri è pure aumentato del 26%. E il saldo migratorio (arrivi meno partenze) ha superato le 81’000 persone.

Sono in molti a ritenere che una parte degli stranieri arrivi da noi per poi portarsi in patria la rendita già percepita in Svizzera: timori eccessivi

Una delle critiche che vengono mosse alla forte immigrazione in Svizzera (che volutamente abbiamo tralasciato nell’articolo del 13.2.23) riguarda anche il nostro sistema di protezione sociale. Molte persone pensano che una parte degli immigrati vengono in Svizzera per approfittare del nostro sistema sociale e spesso tornano in patria portandosi dietro la rendita già percepita in Svizzera. La tendenza sembra essersi rinforzata con l’introduzione della libera circolazione delle persone con l’Unione europea. È pro-

prio da qui che proviene la maggior parte dei lavoratori immigrati, fra l’altro, negli ultimi anni, con un tasso di formazione accademica superiore a quello degli stessi svizzeri.

Un’attenta analisi delle cifre e dei fatti non conferma però questi timori. Va premesso che non è sempre facile fare confronti in questo campo, il rischio di errore può esse-

re importante. Per quanto concerne però le statistiche del nostro pilastro più importante di protezione sociale, cioè l’Assicurazione vecchiaia e superstiti (AVS), si può disporre dei bilanci, ma non dei particolari, per esempio delle rendite di vecchiaia pagate all’estero. Possiamo così sapere che l’AVS paga circa 47 miliardi di franchi all’anno a 2’471’000 milioni di persone di cui 1’687’000 residenti in Svizzera e 784’000 residenti all’estero. Molti di questi residenti all’estero, ma non tutti, sono persone che hanno lavorato in Svizzera e pagato i contributi per le assicurazioni sociali.

Si può dire che l’immigrato (generalmente giovane e in buona salute) contribuisce alla solidità del nostro sistema di protezione vecchiaia

L’AVS dice che la rendita media dei beneficiari è di 1876 franchi mensili. Se utilizziamo lo stesso parametro per i residenti all’estero (fra cui parecchi svizzeri emigrati al momento del pensionamento) otteniamo una cifra di circa 31,8 miliardi di franchi versati in Svizzera e 14,8 miliardi versati all’estero. Questo senza tenere conto di parecchie variabili, tra cui il fatto che il beneficiario all’estero può anche tenere un conto in Svizzera e che altre prestazioni (per esempio prestazioni complementari) non vengono versate ai residenti all’estero. Per l’AVS – come detto –la rendita è determinata dai contributi versati dal beneficiario che ha lavorato in Svizzera e dal suo datore di lavoro.

In conclusione si può dire che l’immigrato (generalmente giovane e in buona salute) contribuisce alla solidità del nostro sistema di protezione vecchiaia. Secondo i calcoli del Segretariato di Stato per l’Economia (SECO, dati del 2019), gli immigrati dall’UE/AELS hanno contribuito nella misura del 27% al finanziamento dell’AVS, mentre hanno percepito il 15,2% della somma globale di rendite versate. Biso-

gna infine tener conto del fatto che gli immigrati, in generale, non hanno contribuito per tutta la loro vita lavorativa all’AVS, per cui la loro rendita non è completa.

Per l’assicurazione contro l’invalidità (AI) si temeva che la libera circolazione delle persone potesse far aumentare il numero di stranieri al beneficio di una rendita. Anche qui il timore non si è però concretizzato. Secondo il SECO, nel 2021 sono state pagate in totale 248’200 rendite complete. Ne hanno beneficiato il 73% di svizzeri contro il 19% di stranieri dell’UE/AELS e l’8% di altri paesi. Negli ultimi anni i beneficiari totali di rendite AI sono diminuiti. Nel 2007 erano ancora 290’000. La quota di stranieri UE/ AELS era allora del 24% e quella di altri Paesi dell’11%. Tra il 2010 e il 2019 la diminuzione è stata del 23% per i cittadini UE/AELS e del 6% per gli altri Paesi.

Anche per le assicurazioni malattia, lo straniero che lavora in Svizzera paga i premi e – giovane e in buona salute – non utilizza molto le casse malati. Se, al pensionamento, lascia la Svizzera, deve integrarsi nel sistema del proprio Paese. Tutto sommato, alle casse malati costa meno di quanto paga.

La situazione cambia per l’assicurazione contro la disoccupazione. Nel 2020 gli immigrati dai paesi UE/AELS hanno pagato il 25,5% dei contributi, ma percepito il 32,8% delle prestazioni. Per gli altri Paesi, si costata il 5,5% dei contributi contro il 14,3% delle prestazioni. Per l’assicurazione contro la disoccupazione molto dipende dal tipo di lavoro. Fra gli stranieri si costata un numero superiore alla media di persone non o poco qualificate. In caso di perdita del posto di lavoro difficilmente riescono a trovarne un altro. A questo gruppo vengono aggregati anche i profughi, alla fine del periodo di cinque anni o da quando gli oneri vengono trasferiti ai cantoni. I profughi dall’Ucraina godono dello statuto speciale.

Analogo il risultato per gli aiuti sociali: li percepisce il 2,1% degli svizzeri, ma il 6,2% degli stranieri. Anche in questo caso si vedono grandi differenze tra i tipi di stranieri. Quelli provenienti dai Paesi UE/AELS che chiedono aiuti sociali sono solo il 2,7%. Tra loro i tedeschi per l’1,6%, ma spagnoli e portoghesi per il 4,6% e rispettivamente il 3,4%. Da altri Paesi la percentuale sale al 12,1%.

Difficile rispondere alla domanda se gli stranieri pesino meno sul sistema svizzero di protezione sociale. All’inizio l’apporto dei lavoratori è positivo soprattutto per l’AVS. Molto dipende però dalla scelta dell’immigrato di lasciare o meno la Svizzera al momento del pensionamento, nonché dalla quantità e dalla qualità dell’immigrazione. Il giudizio può essere diverso per le prestazioni per cui non si paga un premio. Per questo gli aiuti sociali o non vengono versati all’estero, o la loro percezione in Svizzera va chiaramente definita. Secondo alcuni esperti del problema non vi sono soluzioni adeguate se non la naturalizzazione o un dosaggio dell’immigrazione.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 22
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Un lavoratore polacco nei campi di asparagi nella zona di Kerzers, nel canton Friborgo. (Keystone)

Ferrovia, la Svizzera può attendere

Istantanee sui trasporti ◆ Possiamo aspettarci un più rapido completamento delle linee di accesso ad AlpTransit in Italia e Germania grazie ai Piani di ripresa e resilienza dell’Unione europea? Le priorità sembrano stare altrove

La strategia elvetica per il rilancio della ferrovia è stata avviata a cavallo degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso con il progetto Ferrovia 2000, che interessava l’asse Est-Ovest, e con la Nuova Trasversale Ferroviaria Alpina (NTFA) per l’asse Nord-Sud. Quest’ultima poggia notoriamente sul principio di ripartire il traffico su due direttrici: il Lötschberg e il San Gottardo. È stata denominata «strategia a rete» e ha disposto un potenziamento parziale dei due itinerari eliminando le tratte di montagna attraverso le gallerie di base. Per il trasporto delle merci il successo degli sforzi compiuti sinora in Svizzera dipende in larga misura anche dall’efficienza dei percorsi attraverso i Paesi del Benelux, della Germania e dell’Italia, che costituiscono la parte preponderante dell’itinerario complessivo dal Mare del Nord al Mediterraneo. Cosa succede su questi fronti?

Germania e Italia, a differenza della Svizzera, non sembrano avere messo il rilancio ferroviario fra le proprie priorità

L’Unione europea si è concentrata sulla promozione di una rete transeuropea dei trasporti, denominata TEN-T. Si tratta di nove corridoi principali. Uno di questi interessa direttamente la Svizzera. Ha una porta di entrata a Basilea e tre in uscita: a Domodossola, Luino e Chiasso. Si tratta del corridoio Reno-Alpi, che collega i porti olandesi e tedeschi del nord Europa con l’area Piemonte/ Lombardia/Liguria. Altri due corridoi aggirano la Svizzera a ovest (corridoio Mediterraneo sull’asse Francia-Piemonte/Lombardia/Liguria)

rispettivamente a est (corridoio Scandinavia-Mediterraneo sull’asse Svezia-Danimarca-Germania-Italia). I lavori su queste due direttrici sono in corso e beneficiano di un contributo dell’Unione europea pari al 40% dell’investimento. Il tratto centrale del corridoio «Scandinavia-Mediterraneo» è costituito dal traforo di base del Brennero, di cui si pronostica l’attivazione alla fine del presente decennio. Si lavora anche sul corridoio «Mediterraneo» attraverso la Francia. L’elemento cardine del tracciato è la galleria di base del Moncenisio, di cui si ipotizza l’apertura agli inizi del prossimo decennio.

L’attenzione dell’UE, nonostante il plauso agli sforzi elvetici, è concentrata altrove. Così sembra anche l’impegno dei Paesi a noi immediatamente confinanti a nord e a sud. Le tratte di accesso alla Svizzera sul corridoio Reno-Alpi accumulano infatti ritardi e rinvii. La Germania prevede di portare a termine il potenziamento della tratta Karlsruhe-Basilea, solo nel decennio 2040-2050. A Sud si è compiuto qualche passo avanti. È stato realizzato il nuovo collegamento dal Ticino verso Malpensa, fortemente voluto dal Cantone, che pure ha finanziato metà dell’opera in territorio svizzero, e dalla Regione Lombardia e si è proceduto all’ampliamento delle sagome delle galle-

Conferenze con la Polizia Cantonale: consigli per prevenire le truffe

I prossimi appuntamenti:

– Giubiasco: 2 marzo 2023 ore 14.00

Centro diurno Fondazione Vita Serena, Via Rompeda 15 A

Ascona: 9 marzo 2023 ore 14.00

CDSA Pro Senectute, Via Ferrera 24

– Lugano: 16 marzo 2023 ore 14.00

Salone OCST, Via Balestra 19

– Valmara: 30 marzo 2023 ore 14.00

Sala Consiglio Comunale di Melano, Via Cantonale 89

Teatro interattivo

«Ala

mè età»

Cosa vuol dire invecchiare bene?

In modo attivo e mantenendo una buona qualità di vita? La Compagnia teatrale UHT mette in scena due spaccati di vita quotidiana e le avventure un gruppo di abitués di un’osteria. Lasciatevi incuriosire e provate a cambiare il destino dei vari personaggi e non esitate a partecipare!

Mercoledì 15 marzo ore 14.30

Solduno, Centro diurno «Insema» di Pro Senectute Via D.Galli 50

rie e agli adeguamenti per consentire l’allungamento dei treni merci verso Milano, Luino e attraverso la linea del Sempione, peraltro sostenuti da contributi finanziari della Confederazione. Il rinnovo tecnologico degli impianti della linea a sud di Lugano fino a Milano non è invece ancora stato concluso sia sul lato svizzero, sia su quello italiano. Sul fronte dei terminali è stato ampliato l’impianto di Busto Arsizio e sembrerebbe concretizzarsene uno nuovo a Milano per lo smistamento, entrambi pure con il contributo finanziario della Confederazione. Infine si avvicina alla conclusione, probabilmente nel 2024, la nuova linea tra Genova e Tortona (valico dei Giovi) e il potenziamento complementare verso Milano.

Potranno arrivare nuovi mezzi anche per potenziare le linee di accesso al San Gottardo attraverso il gigantesco programma di finanziamento attivato dall’UE nel 2021 per combattere gli effetti della pandemia (Fondo per il rilancio o Recovery Fund)? Che sia l’occasione per giungere anche fino a Chiasso con interventi in grado di decongestionare la linea verso Milano, dove già oggi i treni merci, i treni viaggiatori internazionali e i treni del sistema ferroviario regionale lombardo-ticinese sono in perenne conflitto per assicurarsi un numero sufficiente e affidabile di tratte?

Il Fondo è provvisto di 750 miliardi di euro, concessi agli Stati membri nella forma di contributi a fondo perso e prestiti. Presupposto per ottenere gli aiuti era l’allestimento di un piano di misure e riforme per uno sviluppo socio-economico all’insegna della transizione ecologica.

Siamo andati a indagare nei piani dei nostri vicini. La Germania ha

postulato un programma da 25,6 miliardi di euro che punta sulla decarbonizzazione dell’industria e sul miglioramento dell’efficienza energetica. Parole d’ordine sono lo sviluppo della mobilità elettrica, la promozione dell’idrogeno, il rinnovo del parco immobiliare e la digitalizzazione in tutti i settori. La priorità è stata posta sulla riconversione dell’industria automobilistica alle nuove tecnologie e ai nuovi carburanti. La ferrovia non compare tra i beneficiari. Gli accessi alla Svizzera devono dunque ancora attendere.

Il Piano nazionale italiano di ripresa e resilienza prevede investimenti per un importo complessivo di 191,5 miliardi di euro, di cui in particolare 31,5 miliardi sono richiesti specificatamente per le infrastrutture ferroviarie e intermodali. Si indicano impegni per i principali assi ferroviari dell’alta velocità per i passeggeri e dell’alta capacità per le merci volti al completamento dei corridoi ferroviari TEN-T e delle tratte di valico così come al potenziamento di nodi e reti regionali. Tra i potenziamenti si menzionano anche la direttrice Liguria-Alpi con le tratte tra Genova e Milano così come tra Torino e Milano e il rafforzamento dei collegamenti con i valichi svizzeri. Tuttavia in questa direzione l’intervento risolutore illustrato nel passato con il quadruplicamento della tratta Como-Seregno (Gronda est) e proseguimento verso Bergamo (Gronda nord-est) non ha trovato spazio. Per quanto interessa il Ticino, seppur in modo indiretto, solo l’elettrificazione della linea Como-Lecco è stata inclusa nel programma con all’incirca un’ottantina di milioni di euro. Le priorità stanno altrove anche in Italia.

Corsi sulla compilazione delle direttive anticipate «Docupass»

Con questo documento mettete per iscritto i vostri desideri, le vostre esigenze e le vostre aspettative nel caso in cui dovesse subentrare un’incapacità di discernimento. Diversi i temi trattati in piccoli gruppi da un’assistente sociale: chi pagherà le fatture quando non potrete più farlo? Chi potrà organizzare gli aiuti a domicilio quando non potrete più farlo? Un incontro di 2 ore a livello regionale.

– Lugano, 23 marzo 2023, 14.00-16.00

– Mendrisio, 23 marzo 2023, 14.00-16.00

Contatto

Pro Senectute Ticino e Moesano

Via Vanoni 8/10, 6904 Lugano

Tel. 091 912 17 17 – info@prosenectute.org

Le nostre sedi regionali si trovano anche a: Balerna, Bellinzona, Biasca e Muralto

www.prosenectute.org

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Il Mercato e la Piazza

Un Cantone che invecchia e… si spopola

In Ticino le elezioni cantonali sono alle porte. Gli incontri e gli scontri politici si moltiplicano. Raramente però in queste assemblee, indipendentemente dai partiti e dai movimenti che vi sono rappresentati, si discutono i problemi di lungo termine. L’attualità, regionale, nazionale o internazionale, domina i discorsi dei candidati uscenti e di quelli che aspirano a prendere il loro posto. Dovrebbe far eccezione, a questi dibattiti sull’effimero, la tavola rotonda che, per iniziativa di Coscienza svizzera, riunirà martedì 28 febbraio, all’auditorium della Banca dello Stato di Bellinzona, i rappresentanti dei quattro partiti di governo per discutere di una possibile politica demografica per il Ticino. Politica demografica? Per le persone della mia età il tema è relativamente scabroso perché richiama le misure, quasi sempre costrittive della libertà di procreare, che le dittatu-

Affari Esteri

re usavano adottare per controllare lo sviluppo demografico dei loro Paesi. Quasi come introduzione ai temi da discutere, nel dibattito appena evocato, Coscienza svizzera ha distribuito, all’inizio di febbraio un volume dal titolo L’incertezza demografica che raccoglie, in dieci capitoli, prese di posizione di specialisti dell’evoluzione demografica del Cantone e del resto della Svizzera. Come spesso succede in queste miscellanee, anche nel volume di Coscienza svizzera c’è di tutto e un po’. Si parla sia dell’evoluzione demografica del recente passato come di quanto potrebbe succedere in futuro. Per quel che concerne l’evoluzione recente, dall’analisi contenuta negli interventi pubblicati, appare chiaro che la demografia ticinese sta seguendo, con parametri propri, una tendenza alla diminuzione della natalità e all’invecchiamento della popolazione che, purtroppo, si manifesta

da decenni nell’Europa occidentale. La tendenza in questione, che ha fatto emergere, a partire dall’inizio del nuovo secolo, saldi negativi del movimento naturale (perché i decessi superano le nascite), sembra essersi aggravata, per quel che concerne il Ticino, a partire dal 2016, per il venir meno del consistente apporto assicurato dal saldo migratorio positivo. Questo indebolimento è dovuto, quasi esclusivamente, alla perdita di importanza della sua componente straniera. Da qualche anno, in generale, le partenze degli stranieri dal Ticino sono cresciute mentre sono diminuiti gli arrivi. Siccome – salvo i pochi miliardari che, attualmente, sembra ci vengano dalla Norvegia - il saldo migratorio positivo è sostenuto soprattutto dall’arrivo di lavoratori stranieri, sarebbe facile attribuire la riduzione degli ultimi anni a eventuali debolezze economiche. Tuttavia, più

Quella passeggiata di Biden e Zelensky

Siamo uniti, siamo determinati, l’Ucraina è ancora libera e indipendente, e non ci stancheremo mai di difenderla. Joe Biden è arrivato in Europa con un messaggio potente, ha attraversato il confine polacco-ucraino e ha svegliato Kiev con la sua passeggiata assieme a Volodymyr Zelensky, ha portato i fiori al memoriale dei caduti della protesta pro europea dell’Euromaidan, nel 2014, ha promesso altri aiuti all’Ucraina e poi è tornato in Polonia, la sua Polonia: al presidente polacco Andrzej Duda, ha confidato che lui, da piccolo, sognava di essere polacco.

È passato un anno dall’aggressione russa e il presidente americano è tornato dagli alleati europei per raccontare quanto di «straordinario» è accaduto nel frattempo. Straordinaria è la violenza russa, indefessa e sadica, «crimini contro l’umanità», ha detto Biden; straordinaria la resistenza ucrai-

Zig-Zag

na, che ha respinto il Golia russo e ha costruito, giorno dopo giorno, la propria sopravvivenza; straordinario è Volodymyr Zelensky, «il migliore», come lo hanno definito gli ucraini festeggiando il suo quarantacinquesimo compleanno a fine gennaio; e straordinaria è l’alleanza occidentale, che ha compreso la minaccia esistenziale posta dalla Russia, ha superato divisioni, riluttanze, protagonismi e tabù per difendere l’Ucraina. Anzi, per difendere anche sé stessa, equazione che non era scontata considerando che per noi l’Ucraina era un Paese mezzo filorusso, corrotto e guidato da un comico. Invece il calcolo giusto è stato fatto: era Vladimir Putin ad avere «torto marcio», ad aver pensato che l’Occidente non si sarebbe mai speso tutto unito per salvare Kiev, non l’aveva fatto nel 2014, perché avrebbe dovuto farlo ora? E invece.

Joe Biden, davanti al Palazzo reale di

OpenAI come «Apriti Sesamo»?

Ci ha già pensato l’amico Alessandro Zanoli nella sua rubrica su questo giornale a spiegare (bene) cos’è e come funziona una ChatGPT, proclamandosi sostanzialmente convinto che noi umani avremo sempre la meglio nei confronti della nuova «macchina pensante» che sta rivoluzionando il mondo dei mezzi di informazione. Vorrei avere la sua stessa convinzione, perché nel giro di pochi giorni alcuni fatti hanno scombussolato il grado del mio ottimismo. Il primo segnale è giunto da Matteo Cheda. Dalla riserva delle sue riviste sul consumo (ma non solo) ha scelto «Spendere Meglio» per presentare un articolo, assai ben fatto se non perfetto, sul denaro contante. Solo verso la fine fa sapere ai lettori di non aver scritto lui quel testo, ma un robot evidentemente già operativo anche da noi: «Si chiama ChatGPT e usa l’intelligenza artificiale» spiega Cheda, aggiungendo che lui si è li-

mitato ad andare su chat.openai.com e a chiedere al software «un articolo sulla scomparsa del denaro contante». Pochi giorni dopo ecco un bis. Nella newsletter curata ogni sabato sul «Corriere della Sera» il nostro collaboratore Federico Rampini rivela di aver compiuto un analogo esperimento. Ma davanti al risultato Rampini ammette di aver provato, oltre a stupore e imbarazzo, anche l’impressione di aver perso! Stessa partenza anche per lui che, imitando ciò che già fanno tanti studenti universitari americani, ha chiesto all’intelligenza artificiale la stesura di un breve saggio di geopolitica: «Ho scelto un tema che conosco, sul quale ho scritto spesso, e del quale tornerò a occuparmi sicuramente in futuro: l’invasione cinese in Africa. Ho chiesto a ChatGPT di scrivere un’analisi di cinquemila parole. Lo ha fatto in cinque minuti. Ho letto il risultato: dignitoso. Non solo

che all’evoluzione della congiuntura, o a quella di possibili mercati di beni e servizi fondamentali per l’economia del nostro Cantone (come, per esempio, quelli legati all’edilizia e al turismo) per spiegare la perdita di attrattiva del Ticino, come residenza, per i lavoratori stranieri bisogna in questo caso fare riferimento allo sviluppo della domanda e dell’offerta sul mercato regionale del lavoro. Per dirla in modo spiccio: nel corso degli ultimi anni, il forte aumento dell’effettivo di lavoratori frontalieri potrebbe aver inciso negativamente sull’afflusso di lavoratori stranieri dimoranti. Niente è però sicuro: occorrono nuove analisi che mettano maggiormente a fuoco quanto è successo dal 2015 a oggi, ci dicono gli autori del volume di Coscienza svizzera. E le contromisure?

I contributi sulle misure da adottare affrontano i quattro temi principali della crisi demografica ticinese. Si

tratta della diminuzione delle nascite, dell’invecchiamento della popolazione, della gracilità della domanda di lavoro da parte dei domiciliati e dell’indebolimento del saldo migratorio (in particolare della sua componente internazionale). Ce n’è abbastanza non soltanto per metter su una politica demografica ma, addirittura per creare un nuovo dipartimento della popolazione, in seno all’Amministrazione cantonale. Sì perché, come precisano i contributi del volume di Coscienza svizzera, l’invecchiamento della popolazione e l’indebolimento demografico del Cantone stanno creando problemi economici e sociali non indifferenti. Invece di chiamarli problemi o difficoltà potremmo designarli, come si fa nel volume in questione, con il termine, forse più positivo, di «sfide». Quelle demografiche sono però sfide difficili da vincere.

Varsavia, ha tenuto il discorso del primo anniversario della guerra, in un’atmosfera eccezionale di partecipazione e calore. I colori ucraini si mescolavano a quelli polacchi, a quelli americani, a quelli europei, il presidente Duda ha detto che «non c’è libertà senza solidarietà» e poco dopo, sullo stesso palco Biden ha ripreso la stessa frase, celebrando la forza ucraina, dell’alleanza occidentale, dell’unità, della democrazia. Putin ci ha messo di fronte a delle domande, ha detto Biden, e oggi abbiamo le risposte: non ci siamo voltati dall’altra parte, non ci siamo disuniti, non abbiamo abbandonato il popolo ucraino, e non ci siamo stancati – e non abbiate alcun dubbio, non lo faremo mai. Poche ore prima, di fronte a un pubblico seduto, ubbidiente e sbadigliante, il presidente russo aveva tenuto il suo discorso sullo stato della nazione: la propaganda di Mosca aveva detto che sarebbe stato un discorso

incendiario, che la visita a Kiev di Biden aveva reso il presidente ancora più determinato ad annichilire l’Ucraina e l’Occidente. Putin ha parlato per un’ora e quarantacinque minuti, ha rovesciato il mondo – noi siamo intervenuti in Ucraina per liberarla dall’Occidente che le aveva dichiarato guerra, ha detto – ma poi non lo ha rimesso in piedi, perché ai suoi sostenitori non ha un gran bottino da portare: l’Ucraina è ancora libera e indipendente. E ancora una volta si è dimostrato che non è stata la forza dell’Occidente, il cosiddetto accerchiamento, a spingere Putin all’invasione, bensì il suo contrario: la (presunta) debolezza dell’Occidente.

Gli equilibri in questa nostra parte di mondo cambiano, il baricentro della difesa, della sicurezza e anche dei valori si è spostato verso Est e verso Nord, ma i soldi e i mezzi necessari per garantire questo ombrello sono

sempre nell’Ovest dell’Unione europea e oltre l’Atlantico. Questo riassestamento avrà molte conseguenze e alcuni prevedono che, almeno in Europa, i motori del continente, Francia e Germania, non cederanno facilmente potere e leadership all’Est. Ma sono analisi premature, forse pure un po’ inopportune: ora occorre muoversi in sincrono, ognuno per quel che può fare, che sia fissare il carattere di questa guerra o spedire munizioni o entrambe le cose, come fa l’America, che di questa alleanza detiene la leadership valoriale e fattuale. Ma il punto non è la competizione, non oggi di certo: è la collaborazione, la libertà riconquistata attraverso la solidarietà. E il morale alto, in mezzo alla tragedia, tenuto su da un americano ottantenne che cammina in una mattina azzurra di Kiev con di fianco un ucraino che ha la metà dei suoi anni e che dice a Putin: se tocchi lui è come se toccassi me.

per la forma, ortografia e sintassi di un inglese perfetto. Anche il contenuto: una sintesi che definirei equilibrata e aggiornata di informazioni e analisi correnti sul tema della Cina in Africa. Posso fare meglio, io? Per adesso sì, lo dico senza superbia (…) Però sono preoccupato lo stesso». Davanti a queste «magie» è naturale immaginare che, in un futuro sicuramente vicino, ci sarà qualche altro balzo in avanti: il primo giornale online, la prima rivista specializzata, o magari anche una prima trasmissione televisiva tutti artificiali, cioè prodotti giornalistici in cui confluiscano algoritmi, software e intelligenze artificiali. È però facile anche intuire quali pericoli potrebbero nascondersi dietro alla facciata di un mondo mediatico in teoria perfetto e credibile, magari anche tecnicamente controllabile, ma comunque riconducibile a un’AI, a una intelligenza artificiale!

Questo spiega perché per ora resiste la convinzione (in me tarata da mezzo secolo di professionalità) che l’intelligenza artificiale non potrà mai garantire quello che oggi ancora intendiamo come informazione indipendente, libera, obiettiva o di servizio pubblico. Di conseguenza non credo che quanto promette il fantastico progresso tecnologico possa essere accettato ignorando pericoli e dilemmi che ricadranno sui nostri figli, nipoti, amici e concittadini (pochi o milioni che siano) se accetteremo supinamente l’avvento delle «macchine pensanti», o, peggio, di un’unica orwelliana «macchina pensante». L’amico Charlie (la preziosa newsletter domenicale de Il Post.com) attenua un po’ queste fisime ricordandomi come dietro l’angolo ci siano sempre opportunità e disastri e che, per scongiurare questi ultimi, occorre «immaginare con fantasia le prime, le opportunità, an-

che per chi ci tiene a una buona informazione, e non solo al risparmio dei costi: le intelligenze artificiali in aiuto della qualità dei contenuti e non solo della loro quantità». Giudizi speranzosi rafforzati, pensate un po’, dalla stessa OpenAI che ideando ChatGPT ha rivolto un perentorio «Apriti Sesamo» a tutto il mondo mediatico: l’azienda californiana sta già lavorando a un’altra intelligenza artificiale la cui missione consiste nel riconoscere i testi scritti… da altre intelligenze artificiali. Sulle ali di questo ottimismo un po’ surreale c’è però anche una grossa incognita: OpenAI è sì un’«organizzazione senza fini di lucro», quindi eticamente rispettabile nonostante l’assedio di vari investimenti miliardari delle Big Tech; ma tra i suoi fondatori annovera anche un bislacco e imprevedibile visionario come Elon Musk. Di colpo ritrovo tutti i miei timori.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 25 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Ovidio Biffi
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di Paola Peduzzi
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Energia per il corpo e la mente

Inizio del semestre, esami e pressione sulle prestazioni

A scuola, all’università, nella formazione continua o nella vita lavorativa di tutti i giorni, le esigenze del corpo e della mente sono enormi per molti, soprattutto nella stagione attuale. Mancanza di energia, stanchezza e talvolta anche richieste eccessive possono essere le conseguenze. Purtroppo, in queste fasi stressanti della vita, sottoposte alla pressione del tempo, spesso si trascura un’alimentazione sana e quindi

trienti validi. Va da sé che il cibo spazzatura

getiche, che

spesso vengono consumate rapidamente nei momenti di difficoltà, non hanno un effetto a lungo termine sull’aumento delle prestazioni. Si consiglia invece di prestare attenzione a una dieta sana e, se necessario, di sostenere corpo e mente in modo sensato e mirato con integratori alimentari adeguati.

Nella radice risiede il potere

In Asia, la radice di ginseng è simbolo di salute, forza ed energia. Per questo motivo il ginseng viene anche chiamato affettuosamente "radice del potere". Come alimento, il ginseng e le sue preparazioni sono da sempre parte integrante delle più svariate ricette e pietanze della cucina asiatica. Nella medicina tradizionale orientale, il ginseng viene utilizzato anche come tonico, con proprietà di rafforzamento immunitario, di stimolazione del metabolismo e di potenziamento del corpo e della mente.

Le cose belle arrivano a chi aspetta

Il ginseng asiatico originale prospera preferibilmente nelle regioni montane e forestali della Corea e della Manciuria e porta il nome di "Panax Ginseng C". A. Meyer". Questa designazione è sinonimo di qualità particolarmente elevata. La crescita della pianta del ginseng è molto lenta e la formazione dei preziosi ingredienti richiede un tempo altrettanto lungo. A seconda del metodo di coltivazione e dei requisiti di qualità, passano fino a sei anni prima che la radice di ginseng venga raccolta. Dopo il raccolto, i terreni devono rigenerarsi per un periodo fino a dieci anni prima di essere nuovamente pronti per la coltivazione di ginseng di alta qualità. Sebbene la sua coltivazione sia molto impegnativa, il ginseng viene oggi coltivato commercialmente in tutto il mondo in varie regioni e in diversi tipi e qualità. Il ginseng di bassa qualità viene spesso raccolto dopo soli tre o quattro anni. Il tempo concesso alla radice di ginseng per fiorire si riflette, tra l’altro, nella quantità di ginsenosidi che contiene, responsabili delle preziose e versatili proprietà del ginseng.

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L’interpretazione dei sogni

Il nuovo spettacolo di Stefano Massini, vincitore del Tony Award nel 2022, è ora di nuovo a teatro ispirato da Sigmund Freud

Carmelo Bene e i media Intervista a Luca Buoncristiano e Federico Primosig, i curatori della corposa antologia sull’attore italiano e i suoi colloqui con la stampa

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Tom Petty dal vivo

Per la Warner Records è uscito un cofanetto sull’indimenticabile concerto Live at the Fillmore del rocker americano registrato nel 1997

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Il filo del cuore delle marionette di Augusta

Pubblicazione ◆ Tra realtà e fantasia, il romanzo di Thomas Hettche – uscito in italiano per Bompiani – accende le emozioni

Mai avrebbe immaginato che dietro quella porticina nel foyer del teatro l’aspettasse un viaggio nel tempo sospeso fra fiaba e realtà. Era corsa via da suo padre, imbronciata e piangente, dopo lo spettacolo al teatro delle marionette di Augusta. Roba per bambini e non per ragazzine come lei. E ora, imitando Alice nel paese delle meraviglie, s’intrufola in un luogo oscuro e freddo, su per una scala a chiocciola fino a un’enorme soffitta dove sono appese tante splendide marionette, come la principessa Li Si e una vecchia cicogna, pappagalli e diavoletti, asini e cavalli. Fra tanti animali si affollano nel tappeto di luce della luna altri bizzarri personaggi che scendono a terra sciolti dai loro fili, come la signora Wutz e il pinguino Ping, il gatto con gli stivali e Fata Piumetta, il piccolo principe, Naso Nasaccio e il brigante Ozziplozzi. Poi di fronte a sé scorge una splendida signora con un tailleur di seta brillante, che stringe fra le dita una sigaretta e fuma. È Hatü, protagonista del romanzo di Thomas Hettche, Il filo del cuore, tradotto da Francesca Gabelli per Bompiani, e storica figura del teatro delle marionette di Augusta in Baviera, creato da suo padre Walter Oehmichen.

Lo scrittore spalanca le porte dell’immaginazione ricostruendo la storia di un singolare teatro che richiama inevitabilmente, attraverso le tragiche vicende del nazismo e della guerra, il destino di un intero paese

Anche stavolta Hettche, nato a Treis nel 1964 ma cresciuto culturalmente a Francoforte fra germanistica e filosofia, coltiva il gusto per il bizzarro e il fantasioso. Come nel romanzo L’isola dei pavoni dove rivisitava la storia prussiana dell’Ottocento da una sorta di giardino dell’Eden, fra Potsdam e Berlino, vista con gli occhi di una nanerottola che si fregiava del titolo di giovane castellana. Ora lo scrittore spalanca le porte dell’immaginazione ricostruendo la storia di un singolare teatro che richiama inevitabilmente, attraverso le tragiche vicende del nazismo e della guerra, il destino di un intero Paese. E anche quello di Hatü che negli anni ha creato con suo padre tutti quei personaggi che si accalcano intorno alla ragazzina un po’ confusa che ha la sensazione di librarsi in alto, leggera come tutti loro e sospesa nell’aria. «Ora che sai volare – le dice Li Si – sei una di noi». E a lei la signora narra di tempi lontani e delle marionette degli zingari che finirono tutti nei lager, e del teatro bruciato nei bombardamenti

del 1944 e tutte le figurine distrutte, Hänsel e Gretel e la fata Zimberimbimba e l’uccellino bianco. Sono le prime immagini di un lungo racconto che fa rivivere con un ritmo assai vivace l’incredibile avventura di quel teatro che dopo la guerra il padre chiamerà Puppenkiste, la cassa delle marionette, da portare in giro per poter recitare ovunque anche fra le macerie. Lui e la moglie, che presterà la voce ad alcuni di quei pupazzi, un tempo recitavano insieme in teatro, poi arrivarono le prime marionette intagliate da Walter con i tre re magi e lo spettacolo per i commilitoni in guerra a Calais, e al ritorno, l’idea di un piccolo palcoscenico con riflettori in miniatura che mostra alle figlie Ulla e Hatü. A loro insegna come manovrarle con il «filo del cuore», quello con cui in realtà quelle misteriose figurine di legno ci guidano: «È il filo che ci fa credere che una marionetta sia viva perché è fissato al cuore degli spettatori». Un legame che Ha-

tü coltiverà per tutta la vita lasciando, a sua volta, questa magica eredità a uno dei suoi figli. Di fronte a quel piccolo palcoscenico ombre e luci si sono alternate senza posa: bello ricordare lo spettacolo per il compleanno della sorella Ulla con Erich Pabst ospite d’onore e il compositore ebreo Arthut Piechler minacciato dal regime, dove da ultimo la vecchia strega che attira i bambini finisce nel forno. Ma l’immagine ricorda ad Hatü la gentile signora Friedmann con la stella gialla portata via su un camion con tante altre anziane. E pensa per un attimo all’amica Vroni che ha perso i genitori nella notte delle bombe. Che fare? La giovane ricorda le parole dello scrittore Ernst Wiechert dopo la guerra nella sala liberty del Ludwigsbau, dove un tempo si tenevano grandi balli: «Dovete dissotterrare l’amore di sotto alle rovine dell’odio». Una prospettiva tutt’altro che estranea alle fantasie di Oehmi-

chen, che ricostruendo il suo teatro, si era detto: «Più strapperò la gente alla desolazione, più l’aiuterò». E non esitò a mettere in scena, con Hatü, Faust e Il piccolo principe o Il gatto con gli stivali e tante belle fiabe per ricostruire un mondo migliore. Hettche intreccia mirabilmente, su due piani narrativi, il racconto di Hatü con l’esperienza surreale della ragazzina, sempre più coinvolta in un clima fantasioso dove ora il re degli gnomi, Kalle Wirsch, e Jim Bottone, l’accompagnano alla ricerca del personaggio di Kasperl che cela un doloroso segreto. Quel mondo che affonda nell’oscurità la proietta in una luce fiabesca fra sagome ballerine e il gioco infinito della creatività. Mentre Hatü racconta con gioia gli amori e le entusiasmanti esperienze della propria vita e i successi di quel teatrino che più tardi finì sugli schermi televisivi e cinematografici e si affermò a livello nazionale. Forse anche lei ha vissuto dentro una fiaba, così come

l’aveva definita lo scrittore Michael Ende conosciuto a Monaco: «Quando si desidera una cosa e questa si avvera». Poi tutto è ancora lì, in quel suo laboratorio, che rivede con una certa malinconia, dove sono appesi i suoi ultimi personaggi: il re Alfonso Quarto, l’imperatore Pung Ging, Nepomuk il mezzo drago e tanti altri. E ricorda la frase di un amico: «Il passato è presente, il presente è passato». Un po’ anche per quella ragazzina che ora conosce «il filo del cuore» e quasi non può pensare di trovarsi in un posto diverso da quello di Hatü, che la solleva e sospinge fuori verso il suo mondo, mentre lei, eccitata e felice, ha l’impressione che sia quella storia stessa a farla volare.

Bibliografia

Thomas Hettche, Il filo del cuore. Romanzo dell’Augsburger Puppenkiste, Il teatro delle marionette di Augusta Bompiani, Milano, 2023.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 29
CULTURA
Messa in scena teatrale della fiaba Il cuore freddo di Wilhelm Hauff della Augsburger Puppenkiste. (Keystone) Pagina 31 Luigi Forte

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La presenza galvanizzante di Stefano Massini

Teatro

◆ Unico

italiano premiato con il Tony Award nel 2022, il drammaturgo torna in scena con L’interpretazione dei sogni

Quando è sulla scena con gli occhi fissi in quelli dello spettatore, con quello sguardo limpido che ricorda i santi delle chiese di paese, il viso spigoloso disegnato dalle luci, la mascella ossuta e l’ombra di un sorriso, quasi un’anticipazione di ciò che verrà, Stefano Massini (nella foto), che si trovi in un’arena televisiva, o sul palcoscenico di un teatro, galvanizza l’attenzione del pubblico che tiene avvinto alle sue parole per tutto il tempo necessario al racconto. Laureato in papirologia sulla statuaria di Iside, grazie all’incontro con Luca Ronconi e il teatro, è diventato il drammaturgo italiano più famoso al mondo, l’unico premiato con il prestigioso Tony Award per la sua Lehman Trilogy, lavoro teatrale che racconta la storia epica dell’omonima famiglia di banchieri e che ha girato il mondo con successo.

Quest’anno come «autore e performer», come si definisce lui stesso, Massini porta in tournée: L’interpretazione dei sogni, suo spettacolo liberamente ispirato e tratto dagli scritti di Sigmund Freud sui quali ha già pubblicato un libro (L’interpretatore dei sogni 2017), e riempie i teatri tra applausi scroscianti e ampi consensi. Noi eravamo tra il pubblico della prima nazionale nella Sala Grande del Teatro della Pergola a Firenze, una splendida «bomboniera» da anni mai così affollata e, per l’occasione, percorsa da una palpabile eccitazione per il fatto che Stefano Massini, figlio ormai famoso di questa città, vi tornava a calcare il palcoscenico in veste di narratore, prima di portare le sue storie altrove. Un atto di fiducia che era motivo di orgoglio, anche se tra il pubblico serpeggiava una certa perplessità: cosa poteva esserci di così spettacolare nel racconto dei sogni altrui, nelle sciarade intime delle persone incontrate da

Sigmund Freud e delle quali questi aveva scritto nel 1899?

Poi Massini è arrivato sul palcoscenico e in maniche di camicia, perlopiù in piedi davanti a una scenografia essenziale dove troneggiava il disegno di un grande occhio che a tratti sembrava un vortice, o un labirinto, ha iniziato a narrare: evocando personaggi, situazioni, sogni, descrivendo vicende che s’intrecciano dentro e fuori dallo Studio del Dottor Freud, che sotto-

lineano le intuizioni del medico austriaco, ma anche le sue esitazioni e le incredulità che suscitava con le sue tesi. Uno spettacolo che spazia dai libri, ai diari di Freud, al suo carteggio con Einstein sulla guerra e la pulsione di morte, e che Massini orchestra in una serie di storie che si «sgranano» come capitoli inframmezzati dalle musiche di Enrico Fink, eseguite dal trio Whisky Trail, scanditi dalla voce del Narratore che a tratti si eclissa per

dare la parola a Freud stesso, che poi lascia il posto a Massini che, in prima persona, parla di vite altrui e nasconde i propri sogni all’interno di una sua «drammaturgia onirica».

Così prende vita sul palcoscenico, nei racconti di Stefano Massini, una sorta di caleidoscopio umano dove facciamo la conoscenza tra gli altri, «della signora che muore ogni tre giorni, del bambino col nome di un cane, della giovane cameriera sempre

Miu, una crudele Peter Pan in tuta blu

Cinema ◆ La serie Netflix Copenhagen Cowboy stravolge le regole del formato seriale

Giorgia Del Don

La nuova serie Netflix del geniale regista danese Nicolas Winding Refn (alias NWR), Copenhagen Cowboy (nella foto un’immagine del trailer), ci invita al confronto con la parte oscura che sonnecchia in ognuno di noi. Esploratore della violenza fino al puro estetismo, Refn non ha paura di mostrarla in modo frontale obbligando lo spettatore a vivere sentimenti contrastanti: il rigetto ma anche, e soprattutto, il fascino. Sebbene ne sia capace (a confermarcelo sono il suo capolavoro Drive ma anche la sua serie per Amazon Prime Too Old to Die Young), il provocatorio regista danese sceglie questa volta di non mostrare le scene di violenza in maniera esplicita ma di mantenerle fuori campo o di suggerirle attraverso il suono: magnifiche le partizioni sonore del suo compositore feticcio Cliff Martinez che regalano alle immagini un’inquietante sensazione di leggerezza. La tetra atmosfera in cui sono immersi i personaggi, popolata da mafiosi albanesi, organizzazioni criminali cinesi e una famiglia di sadici e ricchi allevatori di maiali (che ricorda il cinico Porcile di Pasolini), sembra non lasciare spazio ad altre forme di

violenza. Sin dalla prima puntata lo spettatore viene calato in uno stato di allarme, assalito da una crudeltà palpabile che non è necessario mostrare, che esiste in quanto onnipresente virtualità.

Copenhagen Cowboy è capitanato dalla misteriosa Miu (fantastica Angela Bundalovic), un personaggio inafferrabile che sfida ogni categoria. Né umana né aliena, né adulta né bambina, l’antieroina della serie sfida il mondo guidata da una potentissima sete di vendetta di cui non si conoscono tutte le ragioni (a parte il fatto che sin da piccola è stata venduta e ricomprata come un qualsiasi oggetto) ma che divora tutto con perversa lucidità. Niente può fermare questa creatura fragile che nella sua tuta blu ricorda un crudele Peter Pan e vive in un’inquietante fattoria della campagna danese gestita dal crimine organizzato albanese che – tra le sue mura – nasconde un bordello. La tenutaria è una donna violenta che ingaggia Miu come porta fortuna nella speranza di riuscire a rimanere incinta. La protagonista infatti ha dei poteri sovrannaturali che molti vogliono sfruttare. Sin dall’inizio, NWR

ci scaraventa in un universo distopico che striscia nelle viscere della capitale danese, un universo fatto di violenza e perversioni, illuminato solo dalle luci a neon rosse e blu (una passione del regista) che impregnano tutto fino alla saturazione.

Da questo universo distopico trapelano una grazia e un rigore estetico che ci riportano a serie culto de-

gli anni Novanta come Twin Peaks e la sua Red Room (le cui tappezzerie continuano ad ossessionarci), ma anche a film emblematici come Suspiria di Dario Argento. La grazia narcotica dell’impassibile Miu, il suo fisico asciutto da ballerina classica associato a un taglio di capelli alla garçonne che gli conferiscono un’aria da mimo, infonde ai luoghi un non so che

spaventata, della signorina che non ride mai» in un crescendo avvincente che ci tocca nel profondo (proprio lì, dove abbiamo nascosto i nostri sogni e le nostre paure), e ci coinvolge, ci intriga, ci spiega, sottolineando quel senso di stupore, di sofferenza e allo stesso tempo di frustrazione e inadeguatezza che prova ogni protagonista che cerca di capire sé stesso, di ritrovarsi e riconoscersi anche nei sogni, in quelle immagini bislacche che lo «visitano» ogni notte. Il quesito al quale Freud tentava di rispondere e che viene enunciato sin dall’inizio dello spettacolo è: «Perché questo teatro ogni notte, quando chiudo gli occhi, apre il sipario?» e nei suoi scritti e nell’Interpretazione dei sogni affronta e analizza la questione nelle sue infinite possibilità e, per il quarantasettenne Massini, quelle pagine sono diventate una magnifica «ossessione» perché sono così ricche di materiale, di potenzialità teatrali, di spunti e di metafore da riempire molte vite.

La magia di questo spettacolo dura quasi due ore, e non è un caso che il pubblico si senta partecipe nel discorso e allo stesso tempo protagonista tanto da applaudire spesso, quasi a scena aperta, intervenendo qua e là bisbigliando, o lasciandosi sfuggire una risatina liberatoria prima del lungo, caloroso applauso finale. L’ennesimo exploit di Stefano Massini non finisce qui, infatti con L’interpretazione dei sogni tornerà al Teatro della Pergola e poi di nuovo in tournée, nella prossima stagione 2023/2024. Molto probabilmente sarà uno spettacolo ancora diverso, una nuova esplorazione dei testi di Freud con la creazione di nuovi personaggi, protagonisti del teatro del sogno, di un mondo sfuggente che diventa reale nella passione dei racconti romanzati di Stefano Massini.

di prezioso trasformando l’orrore in astrazione.

Se di primo acchito tutti gli elementi sembrano riuniti per creare una serie di forte impatto in perfetto stile Kill Bill, ciò che divide la critica è il rifiuto di NWR di appoggiarsi sulla narrazione, come fanno invece la stragrande maggioranza delle serie, trasformandola in perno attorno al quale far evolvere i personaggi. Con i suoi audaci movimenti di camera: le sue vertiginose riprese dall’alto, i piani sequenza infiniti, l’immobilismo delle azioni e i dialoghi scarni e taglienti, così come la sovrastilizzazione di ogni piano (concepito come un quadro), il regista danese sfida tutte le regole invitandoci a lasciarci andare ad una lasciva deambulazione sensoriale. Non è allora più la linearità della narrazione a guidarci ma piuttosto l’incanto d’immagini crudeli e bellissime che si insinuano sotto pelle, come un veleno. Che lo si ami o lo si odi, Refn ha il coraggio di esplorare narrazioni diverse che nascono dal mezzo cinematografico non più utilizzato come semplice supporto ma come strumento per decostruire senza paura il concetto stesso di opera filmica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 31
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Carmelo Bene e il suo non-rapporto con i media

Intervista ◆ Luca Buoncristiano e Federico Primosig hanno curato una corposa antologia sull’attore e i suoi colloqui con la stampa

Nel percorso di Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 – Roma, 2002) il rapporto coi media – anche se sarebbe più consono dire il «non-rapporto» – non fu marginale e, in un certo senso, stabilì caratteristiche assimilabili e opposte alla relazione che Pier Paolo Pasolini ebbe con gli stessi. Entrambi gli artisti avevano infatti la capacità di mettere in crisi i mezzi di comunicazione attraverso una sorta di scardinamento che piegava strutturalmente il dispositivo – giornalistico o televisivo che fosse – al proprio discorso. Ma se il primo era «sempre didattico nonostante l’arditezza delle sue posizioni», il secondo lasciava l’interlocutore «nella condizione di fare i conti con il suo linguaggio e il suo pensiero».

Ciò detto, l’interesse attorno a questa parte del lavoro di Bene è sempre stato presente, poiché con essa egli espresse – seppure in modo residuale – il proprio progetto esistenziale-filosofico-artistico non differentemente che col suo «togliere di scena» i capolavori o con la sua programmatica, ossessiva ricerca sull’oralità. Se però negli anni sono proliferati, o semplicemente apparsi, più libelli dediti a raccogliere l’inventario beniano delle formule provocatorie o pochi inediti posti in cornice da un curioso inquadramento editoriale (si veda, ad esempio, Ho sognato di vivere. Poesie giovanili, pubblicato nel 2021 da Bompiani e a suo tempo recensito su queste pagine) ad oggi mancava un’iniziativa degna delle operazioni che caratterizzarono il rigore con cui il diretto interessato pianificò la pubblicazione della propria opera omnia. Con la monumentale antologia Si può solo dire nulla. Interviste edita da Il Saggiatore, Luca Buoncristiano e Federico Primosig vanno ora ad attraversare questa faglia, consegnando finalmente al lettore una raccolta all’altezza di quel «troppo» che la figura e il fantasma di Carmelo Bene incarnano e dalla cui fisionomia subito emerge l’accuratezza dell’importante operazione. Abbiamo incontrato i due curatori.

Millesettecentotrentasei pagine, nelle quali viene scrupolosamente passato al vaglio un lasso di tempo che va dai primi anni ’60 al 2001. Un lavoro che cronologicamente abbraccia tutta la vita scenica del personaggio. Come nasce un progetto così vasto?

LB: Il progetto ha una sua origine antica, in via Aventina 30, residenza romana di Carmelo Bene. Per conto della Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene oltre alla catalogazione del lascito artistico, mi occupai della curatela del numero monografico su Bene della rivista «PANTA» della Bompiani. Il «PANTA» è una raccolta delle migliori interviste all’attore. Per arrivare a quella sintesi passai a setaccio la rassegna stampa presente in casa, ne feci una catalogazione che crebbe poi negli anni attraverso un lavoro di ricerca il più accurato possibile, terminato con Federico per la realizzazione di questo volume.

FP: Nella mia mente questo è stato per molti anni il libro che avrei voluto possedere ma che nessuno aveva fatto. Poi le interlocuzioni tra l’associazione L’orecchio mancante, di cui sia Luca che io facciamo parte assieme a molti studiosi e collaboratori di Bene, e l’editore Il Saggiatore hanno

portato ad un punto di svolta che ha messo in moto l’operazione. La catalogazione di Luca è stata imprescindibile, integrata da elementi che avevo raccolto io in maniera più casuale nel tempo e soprattutto dal lavoro di scavo di quest’ultimo anno che ha fatto emergere altre perle.

A quanto è dato sapere, Carmelo Bene stabilì i criteri di gestione della propria eredità culturale. Come vi siete orientati, in questo senso?

LB: Bene con l’idea della Fondazione si era reso erede di sé stesso. L’oblio che aveva cercato in vita l’aveva cercato per sé, voleva sì dimenticarsi ma non essere dimenticato. Ecco allora che Bene con l’idea della Fondazione diviene un ente pubblico, formato oltre che da fidati collaboratori, anche dalle istituzioni. Poi le cose sono andate diversamente ma il punto centrale è il concetto di archivio vivente e cioè che l’eredità artistica di Bene da qualsiasi parte la si voglia considerare è sempre «parlante».

FP: Bene è un grande maestro di rigore quindi il primo parametro è stato quello di muoversi con l’idea di realizzare qualcosa che lui non avrebbe disapprovato. Organizzando il primo archivio consultabile delle sue interviste abbiamo voluto solidificare un tassello del suo lascito.

Nell’introduzione al testo, presentando l’opera si parla di «un nucleo teorico» originario che non manifesta una progressione o uno sviluppo – e in questo Bene si dimostra strutturalmente all’antitesi della civiltà dei consumi – ma «un modo d’essere». Se doveste tratteggiare l’essenza di tale posizione, come la descrivereste?

LB: Carmelo Bene dice: «Io sono il vortice insensato della trottola, il movimento e la sua negazione, sono l’antiumanesimo, Lorenzaccio che decapita le statue, Aguirre che si firma il traditore. Carmelo Bene, perché, soggetto alla necessità del nome, come rassegnazione al destino». Poiché il centro del lavoro di Bene è egli stesso, non c’è un andare avanti, un progredire, ma solo infiniti modi «diversi di morire in versi». Ecco il tornare sempre ad Amleto, Pinocchio, Majakovskij, ecc., al fine di annullarsi in questa perpetua ripeti-

zione. L’inevitabilità di un destino. Ciò che muta, semmai, è l’approccio formale per cui assistiamo a un processo di espoliazione, di rarefazione.

Dal caos iniziale arriviamo al rigore estremo degli ultimi spettacoli, diverse modalità di togliersi di scena.

FP: Bene vive un’adesione totale alla

che spesso usava riferendosi a sé stesso) era una sorta di crocevia vivente ed a-storico di una serie di esperienze umane, da quelle cronologicamente collocabili ad un periodo a lui antecedente come il teatro greco, la mistica, il barocco, la letteratura dell’Ottocento a quelle a lui contemporanee come le svolte nella filosofia e la psicoanalisi, la fisica del ventesimo secolo, la crisi di alcune forme d’arte ecc. Il volume contiene davvero centinaia di brani. Fra questi ce n’è uno che reputate particolarmente significativo e volete riportare?

LB: Impossibile arrivare a una sintesi, personalmente amo molto l’ultima intervista, quando Bene parla di Elvis Presley, nel riconoscere la grandezza del mito, riconosce l’inevitabilità del proprio destino. Non si sfugge mai alla grandezza.

sua poetica, la sua vita è un tutt’uno col suo lavoro artistico e la sua riflessione. Nel breve spazio di un’intervista la citazione di Luca è un’utile suggestione, Bene condensava spesso in fulminanti flash la sua posizione alla stampa. Posso aggiungere, per contestualizzare, che CB (acronimo

FP: Più che un brano vorrei menzionare l’intervista di Gigi Livio e Ruggero Bianchi, la più lunga intervista a Bene mai realizzata. La qualità degli interlocutori unita a questa volontà di approfondimento la rende unica. Non era mai stata ristampata dalla prima pubblicazione del 1976.

Bibliografia

Luca Buoncristiano e Federico Primosig, Si può solo dire nulla Il Saggiatore, Milano, 2022.

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Il «Santo Graal» per i fan di Tom Petty

Musica ◆ La Warner Records pubblica un cofanetto sull’indimenticabile Live at the Fillmore registrato nel lontano 1997

Quando si parla di leggende del rock, è innegabile come il nome dello statunitense Tom Petty (nell’immagine), prematuramente scomparso nel 2017, sia spesso sottovalutato da una critica musicale oggigiorno forse più interessata a scandali ed esibizionismi che alla qualità intrinseca del materiale proposto. In realtà, nell’arco di ben quarant’anni di carriera l’inossidabile Thomas Earl Petty, classe 1950, ha dimostrato di essere uno dei più energici e instancabili performer sulla piazza: insieme alla sua band d’elezione, gli indimenticabili Heartbreakers, Petty è sempre rimasto un musicista dalla grandissima professionalità e ammirevole integrità artistica, in grado di toccare le più alte vette di eccellenza proprio nelle esibizioni dal vivo – ambito nel quale era un maestro indiscusso.

Sul palco del Fillmore, Petty inanella così i maggiori successi della propria carriera, senza tuttavia trascurare anche brani meno noti al grande pubblico

Non è quindi un caso che oggi, a distanza di cinque anni dalla scomparsa di Petty, la Warner Records scelga di pubblicare dagli archivi una testimonianza dal vivo cruciale, a lungo considerata come il «Santo Graal» dai fan di Tom e da sempre reperibile sotto forma di cosiddetto bootleg (registrazione abusiva a opera di appassionati). Si tratta del Live at the Fillmore, registrato nell’ormai lontano 1997 al celebre auditorium di San Francisco, presso il quale Petty tenne una cosiddetta «residency» – termine

con il quale si definisce un fenomeno tipico della musica live americana che vede artisti di grande richiamo esibirsi per diverse sere di fila presso la medesima sala da concerto, così da soddisfare le richieste di un pubblico particolarmente numeroso. Quel che Elvis e Frank Sinatra facevano abitualmente a Las Vegas è così toccato anche a Tom, che tra il gennaio e febbraio 1997 ha trascorso al Fillmore ben venti serate consecutive, passate alla storia come a dir poco incendiarie e considerate da Petty stesso come uno dei punti più alti della propria carriera.

Oggi, questo box set di 4 CD racchiude una selezione di 58 tracce, principalmente tratte dalle ultime sei serate – le uniche a essere state registrate con un apparato professionale. Non si tratta di brani del tutto inediti, in quanto alcuni erano già apparsi nel notevole cofanetto The Live Anthology, pubblicato nel 2009 dalla Reprise Records; tuttavia, questa nuova pubblicazione rimane un vero e proprio «must» per qualsiasi appassionato di rock a stelle e striscie, anche grazie alla partecipazione di guest star di tutto rispetto quali John Lee Hooker e Roger McGuinn – ma, soprattutto, all’impressionante versatilità e disinvoltura sfoggiate da quella macchina perfettamente oliata che erano gli Heartbreakers, capaci di cimentarsi con qualsiasi genere e uscirne sempre vincitori.

Sul palco del Fillmore, Petty inanella così i maggiori successi della propria carriera, senza tuttavia trascurare anche brani meno noti al grande pubblico, ma ugualmente imprescindibili per i suoi fan: su tutti, lenti quali Alright For Now, Angel Dream e It’s Good to Be King, ma

anche brani più ritmati e ballabili (le irresistibili ed entusiastiche Walls e You Wreck Me, e la più ambigua Cabin Down Below, dai marcati accenti blues). In tal senso, l’intelligenza di Petty nella scelta del repertorio si riflette nella sua attenzione a tutte le fasi della propria carriera, e non semplicemente agli album di maggior successo. Quasi a voler sottolineare tale versatilità, la permanenza al Fillmore permette di vedere Tom e compagni alle prese con le cover più disparate, rivelando così le loro passioni e ispirazioni musicali: si va da versioni ispirate di classici del rock’n’roll quali Lucille e Johnny B. Goode, all’antico e mai sopito amore di Petty per i Byrds

(It Won’t Be Wrong, Eight Miles High) e J.J. Cale (Call Me the Breeze), fino a scelte ben più inaspettate e sorprendenti – si vedano la title song del più celebre film di James Bond, Goldfinger, e (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones.

E come sempre accade con Tom Petty e i suoi Heartbreakers, l’esecuzione di ogni brano è a dir poco perfetta, dall’arrangiamento all’interpretazione: qui, più ancora che in altre esibizioni dal vivo, l’altissimo livello a cui la band ha da sempre abituato i propri fan raggiunge vette insuperabili, dimostrando una volta di più la portata della perdita che la morte prematura dell’artista ha comportato –

soprattutto perché testimonianze come quella fornita da questo cofanetto costituiscono ulteriore conferma di un’energia e abnegazione verso la propria arte che i giovani rocker di oggi possono solo invidiare.

Così, sebbene nulla possa davvero rimediare all’assenza di Petty sulla scena musicale attuale, testimonianze e documenti come questo Live at the Fillmore 1997 restano quanto di più prezioso noi si abbia a disposizione per ricordare e celebrare la grandezza di un artista e performer la cui modestia e passione per l’arte del fare rock hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica popolare – ben oltre i confini degli States.

Alter ego, la prima serie TV realizzata in Ticino

Cinema

◆ La

Ticino Film Commission fa un bilancio dell’ultimo quadriennio e lancia i suoi nuovi progetti

Cristiano Ronaldo e Roger Federer sono solo due delle personalità arrivate in Ticino di recente per le riprese pubblicitarie che hanno fatto il giro del mondo. Questo è stato anche possibile grazie al lavoro svolto dalla Ticino Film Commission (TFC), diretta da Niccolò Castelli e presieduta da Nicola Pini. A conferma che la fondazione – creata dal Cantone senza scopo di lucro e che mira ad attrarre sul territorio produzioni audiovisive di vario genere come film, serie televisive, documentari, video musicali, pubblicità, eccetera – sta facendo un lavoro importante sin dalla sua creazione, avvenuta nel 2014, per valorizzare il territorio attraverso il settore audiovisivo.

Si tratta di un’iniziativa davvero importante per la nostra realtà che vedrà la partecipazione di 52 attori, 500 comparse e 70 tecnici

I dati relativi all’ultimo quadriennio, presentati nelle scorse settimane a Bellinzona, confermano l’importante crescita. Rispetto ai quattro anni precedenti, dal 2018 al 2021 l’impat-

to economico stimato dalle produzioni venute a girare film sul nostro territorio è stato di 13 milioni (+193%) e i pernottamenti sono aumentati del 194% raggiungendo quasi quota 9mila. Anche le produzioni supportate dalla TFC sono cresciute del 124% così come i dipendenti coinvolti (più 251%). La tendenza positiva è stata confermata anche nel 2022 con 4 milioni di indotto generato e 37 produzioni. Dal prossimo anno, però, cambia il sistema di finanziamento con il Cantone che riduce la sua quota partecipativa lasciando spazio a un altro sostenitore istituzionale come BancaStato che affiancherà il sostegno di Ticino Turismo e di Organizzazioni turistiche regionali. Questa, in estrema sintesi, la parte legata alla governance e alle cifre.

Venendo ai progetti sostenuti di recente dalla TFC, è interessante segnalare che a febbraio sono partite le riprese della prima serie TV realizzata interamente in Ticino e più precisamente nel Bellinzonese. Si intitola Alter Ego e vede dietro la macchina da presa Erik Bernasconi (Sinestesia, Moka Noir) e Robert Raltson (Il demolitore di camper). Mentre davanti alla camera attori italiani piutto-

sto noti come Gianmarco Tognazzi e Roberto Citran, insieme ad attori locali come Giorgia Würth, Margherita Coldesina e Bruno Todeschini. Una serie che, come ha detto una delle produttrici, Amel Soudani, sarà trasmessa in novembre e doppiata anche in tedesco e francese. Si tratta di un progetto davvero importante per la nostra realtà che vedrà la parteci-

pazione di 52 attori, 500 comparse e 70 tecnici. Interessanti anche altri due aspetti: il coinvolgimento di tanti giovani attori locali e il fatto che tutta la troupe girerà per ben 11 settimane con importanti ricadute economiche per alberghi, appartamenti presi in affitto, ristoranti e negozi della regione. La serie (che conterà sei episodi della durata di 45 minuti l’uno) è

un thriller poliziesco girato durante il periodo del carnevale ed è un susseguirsi di misteriosi omicidi, indagini serrate e numerosi colpi di scena. La conferenza stampa della TFC è stata anche l’occasione per evidenziare come negli ultimi anni il settore audiovisivo abbia fatto passi da gigante nella formazione dei tecnici, tuttavia, mancano ancora alcune figure come gli aiuti registi e gli assistenti di produzione. Un appello probabilmente indirizzato al CISA o ad altre realtà formative presenti sul territorio.

Non da ultimo sarà importante porre attenzione alla scrittura. Da sempre le fiction ticinesi – salvo rari casi – hanno un problema con la sceneggiatura. Sotto questo punto di vista la serie, oltre a Bernasconi, è affidata a Carlotta Balestrieri, Claudia Bellana e Andrea Valeri. Quattro autori, anche piuttosto giovani, che si spera riescano nel difficile compito di trovare le soluzioni adeguate e credibili per una serie tv e quindi di riuscire laddove in molti hanno fallito. È probabilmente questa la sfida più grande e quella che pone i maggiori interrogativi di un progetto ambizioso sul quale si sta puntando e investendo parecchio.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 27 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 35
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La troupe sul set per le riprese di Alter ego. (© Simone Mengani, Amka Films)

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Primavera: cielo limpido e casa linda

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Offerte profumate in forma solida e liquida

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Alter ego, la prima serie TV realizzata in Ticino

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Carmelo Bene e il suo non-rapporto con i media

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Nel mondo chiuso dei charedìm che vivono senza tv e senza internet

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Il grande sacco della RAI

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Una tortilla alla Allan direttamente dalla Spagna

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Rewilding e Ungardening: così si torna alla ricerca dell’Eden perduto

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