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ANNO 7 - NR. 2 - marzo 2021
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Punto & a capo di Waimer Perinelli
Mario Draghi il predestinato burocrazia permettendo È arrivato Draghi! Un coro lo accoglie, un saluto tanto partecipato ed elevato da cancellare all'istante ogni perplessità. In Parlamento una maggioranza schiacciante e in grado di relegare al ruolo di briciole, stelle cadenti, schegge inconsistenti le defezioni del partito che fino a ieri era il più numeroso. L' Italia è in festa. L'Europa festeggia il neo presidente del Consiglio, il primo Ministro.
È
arrivato Draghi e come la Primavera descritta in poesia da Cesare Pavese “Sarà un volto chiaro. S’apriranno le strade sui colli di pini e di pietra...”. Il cielo, se parlasse, potrebbe dire quanto l’ Italia ne abbia bisogno nella scuola, lavoro, giustizia, componenti sociali sopra cui regna purtroppo la Burocrazia. Già nell’Ottocento Carlo Marx accusava la burocrazia di essere il male della Società. Per burocrazia s’intende normalmente il groviglio di leggi, spesso in attesa delle norme di attuazione, in cui si confondono e schiantano le buone intenzioni di chi vuole lavorare, produrre, investire, viaggiare. Massimo Gramellini, editorialista del Corriere della Sera, ha recentemente ricostruito il viaggio di una pratica scoprendo come nel caso descritto, ma ciascuno di noi ne conosce almeno altri due, il percorso fosse circolare . Un serpente che si morde la coda. Accade cioè che si possano passare alcune ore in un ufficio pubblico per individuare la persona competente e scoprire, dopo una lunga fila, di essere allo sportello sbagliato e che quello giusto è lo sportello accanto, dove c’è un’altra lunga fila di cui si è l’ultimo arrivato. “ Colpirò la burocrazia lumaca “ ha detto Draghi nel discorso sulla fiducia pronunciato al Senato e poi ha sottolineato come:«Sono proprio la farraginosità degli iter e la moltiplicazione dei passaggi burocratici la
causa di inaccettabili ritardi, ma anche il terreno fertile in cui si annidano e prosperano i fenomeni illeciti». Nella lotta contro gli illeciti nella Pubblica Amministrazione c’è in prima fila la Corte dei Conti. Draghi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario della Corte , di cui ha sottolineato il ruolo di custode della legalità, ha ribadito che i controlli devono essere “ efficienti, rapidi e intransigenti”. Tre qualità strettamente connesse non sempre presenti. “ Un Paese capace di attrarre investitori anche internazionali, deve difendersi dai fenomeni corruttivi che rappresentano un veicolo di ingerenza criminale anche da parte delle mafie e un fattore disincentivante sul piano economico per gli effetti depressivi sulla competitività e la libera concorrenza», ha scandito il premier tra gli applausi. E ha aggiunto: «Ieri a proposito dello sviluppo del Mezzogiorno ho detto che sì, c’è il credito d’imposta, ma la prima cosa è assicurare legalità e sicurezza». Per Draghi la “ semplificazione della burocrazia e la trasparenza sono le basi di una efficace politica di prevenzione, nella lotta alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose. Sono temi che il Presidente del Consiglio, massimo esperto di finanza, ben conosce. Mario Draghi, colui che alcuni giornali si sono affrettati a definire, senza ironia, “il Predestinato”, per la fulgida carriera scolastica e lavorativa, ha vissuto nel mondo
Il Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi
delle banche e sa benissimo che non sono istituti di beneficenza. Conosce l’attrazione che esse esercitano per gli investitori e fra di loro gli speculatori contro i quali, nella lotta, sono indispensabili trasparenza e semplificazione burocratica perché proprio nella lentezza e complessità decisionale si annidano gli illeciti . Ma la burocrazia non è fatta solo di leggi, anzi è fatta soprattutto di uomini ed essi sono sensibili al potere e quello, specie se malavitoso, nasce e si sviluppa nella disinformazione, nella trasformazione dei dettati della legge in oscuri codicilli da azzeccagarbugli. Burocrazia, leggi, norme di attuazione e uomini sono spesso una cosa sola, non si cambia la prima senza incentivare o colpire i secondi. Come si dice nel girare una scena cinematografica: buona la prima, ma siamo ai ciak iniziali. Il copione già vede alcuni fuoriusciti dal coro e altri che s’interrogano sulla validità dello spartito. Auguri a Mario Draghi, il predestinato.
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SOMMARIO ANNO 7 - MARZO 2021 DIRETTORE RESPONSABILE Armando Munaò - 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com VICEDIRETTORE Chiara Paoli - Elisa Corni COORDINAMENTO EDITORIALE Enrico Coser COLLABORATORI Waimer Perinelli - Erica Zanghellini - Katia Cont Alessandro Caldera - Massimo Dalledonne Francesca Gottardi - Maurizio Cristini Laura Mansini - Alice Rovati Giorgio Turrini - Laura Fratini - Patrizia Rapposelli Zeno Perinelli - Adelina Valcanover - Veronica Gianello Nicola Maschio - Giampaolo Rizzonelli - Mario Pacher CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D'Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D'Onghia - Dott. Marco Rigo EDITORE - GRAFICA - STAMPA Grafiche Futura srl Via della Cooperazione, 33 - Mattarello (TN)
PER LA TUA PUBBLICITÀ cell. 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com info@valsugananews.com Registrazione del Tribunale di Trento: nr. 4 del 16/04/2015 - Tiratura n° 7.000 copie Distribuzione: tutti i Comuni della Alta e Bassa Valsugana, Tesino, Pinetano e Vigolana compresi COPYRIGHT - Tutti i diritti di stampa riservati Tutti i testi, articoli, interviste, fotografie, disegni e pubblicità, pubblicati nella pagine di VALSUGANA NEWS e sugli Speciali di VALSUGANA NEWS sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore, del Direttore Responsabile o dell’Editore è vietata la riproduzione o la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni, per altri giornali o altre pubblicazioni, possono farlo richiedendo l’autorizzazione scritta all’Editore, Direttore Responsabile o Direttore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che, utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio e quindi fatta pervenire, a GRAFICHE FUTURA srl, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Punto & a capo 3 Sommario 5 Fatti e Misfatti: intellettuali e uomini di cultura? 6 A Trento la Casa in difesa dei diritti umani 8 Beatrice Scartezzini: una donna in azzurro 10 Violenza nei festini di Alberto Genovese 13 Maria Teresa, d’Austria 14 Un anno di pandemia. Intervista a Stefano Merler 16 Il personaggio: Mario Monicelli 19 La caserma, il reality di Rai2 20 L’aquila di Roma sulle nostre valli 22 L’inizio di una dinastia: Cesare Maldini 26 Giovani e società 28 Vaccino sì o vaccino no? 29 Quando Martin Lutero fu a Trento 30 Il personaggio: Erri De Luca 33 Judo: storia, sport e tradizione 34 Società oggi: scuola e Covid 36 Frida Kahlo, la forza del colore 38 AUSER Pergine: gli anziani chiamano i giovani 42 L’uomo che vola con le ali il turbo e il vento 44 I rischi on-line per i più piccoli coaching 46 Le parrocchie da incubo 48 Borgo Valsugana : i nostri migliori cittadini 49 Un santo itinerante a Borgo Valsugana 50 Il mondo a testa in giù 52 Il risveglio dei fiori 54 Pietro Verdini, il re del bosco 55 La rapina di “Leo” e “Lupo” a Borgo Valsugana 56 Alta Valsugana Smart Valley 57 Meteologia oggi: il gelicidio in Valsugana 58 La licantropia e il lupo mannaro 59 Pergine: se la passeggiata si deve fare nel comune 60 Moda oggi: la magia del cambiamento 62 Borgo Valsugana: Il monastero di S. Anna 64 Medicina & Salute: gli attacchi di panico 66 Medicina & Salute: Noi e gli altri 68 Quanto è bella l'amicizia 70 Girovagando: Kenya, esperienza di volontariato 72 Qui USA: il sito archeologico di Chillicothe 74 Che tempo che fa 76 Altroconsumo risponde: il diritto di recesso 78
Beatrice Scartezzini “UNA DONNA IN AZZURRO” Pagina 10
Il personaggio MARIO MONICELLI Pagina 19
Frida Kahlo “LA FORZA DEL COLORE” Pagina 38
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Fatti e misfatti di Armando Munaò
Intellettuali e uomini di cultura?
MA FATEMI IL PIACERE
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o avuto modo di ascoltare l’incredibile dibattito radiofonico sull’emittente fiorentina “Controradio” dove, nel corso della rubrica “Bene bene male male”, tre “intellettuali”, dall’alto della loro cultura radical-chic e indubbiamente accomunati da una certa intellighenzia benpensante e forse anche da un pensiero misogino, hanno offeso e deriso l’On.le Giorgia Meloni. Secondo uno di “questi”, che l’ha insultata in maniera decisamente volgare e con termini triviali e da “bassa” osteria (e chiedo scusa alle osterie), la gravissima colpa della Meloni sarebbe stata quella di non aver appoggiato il governo Draghi e di essere, quindi, passata all’opposizione. Un attacco deprecabile e vergognoso, che, a mio modesto avviso, non trova spiegazione e giustificazione alcuna. Questi i nomi del terzetto: Giovanni Gozzini, 65 anni, professore di Scienze politiche all’Università di Siena, già direttore del Gabinetto Vieusseux, ex assessore al comune di Firenze e figlio di Mario, senatore della sinistra indipendente; Giorgio van Straten 66 anni, scrittore, ex direttore dell’istituto Gramsci Toscano, consigliere nel CdA della Biennale di Venezia, presidente dell’Agis, dell’Azienda speciale Palaexpo di Roma, membro del CdA della Rai e Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana; Raffaele Palumbo, 50 anni, conduttore e moderatore del dibattito nonché scrittore e docente di comunicazione. Ed ecco i fatti: nel corso della trasmissione del 19 febbraio scorso, Gozzini,
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a un certo punto, è intervenuto per commentare la posizione assunta, alla Camera dei Deputati, da Giorgia Meloni nel dibattito per la fiducia al nuovo governo Draghi. Questi, però, non ha motivato il suo dissenso alla logica politica sostenuta dalla parlamentare, oppure controbattere, civilmente ed educatamente, l’argomentare della Meloni alla non fiducia al nuovo governo. Si è lanciato, invece, in una serie di improperi e in un attacco personale com’è raro vedere e sentire. Un comportamento decisamente ingiustificabile, inqualificabile e maggiormente condannabile perchè le ”irripetibili” volgarità sono state esternate da un docente universitario il cui precipuo compito non solo è quello d’insegnare e quindi preparare, nel migliore dei modi, le future generazioni sociali e politiche, ma soprattutto essere per gli studenti un punto di riferimento e buon esempio di moralità e civiltà. Così non è stato e anche per questo gli è stata comminata una “sospensione immediata” dall’insegnamento per tre mesi (senza stipendio) in attesa del “processo interno” e di una eventuale e ancora più grave sanzione disciplinare, come ha precisato il rettore dell’Università di Siena, Francesco Frati, condannando pubblicamente, l’inaccettabile aggressione verbale subita da Giorgia Meloni: “Gli attacchi volgari e sessisti a lei rivolti – ha sottolineato il rettore -
Giorgia Meloni - Quirinale
pongono a noi tutti una seria riflessione su quanto questi comportamenti, rivolti quasi sempre alle donne, siano gravi, inaccettabili e da stigmatizzare senza riserve. E noi abbiamo la necessità di difendere l’onore dell’Ateneo e far sì che l’Università di Siena, a sua volta vittima delle dichiarazioni del professore, sia difesa nella sua dignità”. Questo il dibattito (da me registrato), del tre contro una, con un discutere “dagli altissimi contenuti culturali, civili, morali ed educativi ” (sich sich sich): “….c’è il mal di miserere…il mal di miserere m’è preso quando ho sentito quell’ortolana, con tutto il rispetto della categoria, della Meloni, questa pesciaiola, e mi dispiace d’offendere i negozianti, ha esordito Gozzini,… non posso vedere in Parlamento gente
Fatti e misfatti simile, cioè di una ignoranza di tale livello...che non ha mai letto con ogni evidenza un libro in vita sua e che poi possa, questa gente, rivolgersi, da pari a pari, a uno come Mario Draghi…”. A quel punto Palumbo era intervenuto per dire:”onore agli ortolani e ai pesciaioli, scusatemi, che non c’entrano niente”. E l’altro ospite, Giorgio van Straten, sottolineando di essere d’accordo con la precisazione di Palumbo, diceva a Gozzini…e allora non dire pesciaiola. E quest’ultimo:” e allora cosa devo dire, datemi dei termini, una rana dalla bocca larga, vacca, scrofa...cosa devo dire per stigmatizzare il livello d’ignoranza e di presunzione”. E Van Straten a quel punto:”peracottara…ti va bene?” e Gozzini:”peracottara...forse”. Il “nostro” poi, non contento delle vergognose offese proferite a Giorgia Meloni, si è anche esibito in una incredibile disquisizione politico-filosofica per spiegare, secondo lui, il vero concetto e significato di “democrazia”. “Io contesto il fatto, ha detto, che la democrazia sia uno vale uno. La democrazia è prima di tutto una scuola e un esercizio. Un secolo fa gli operai si leggevano la roba e diventavano comunisti per questa ragione. C’era una identificazione comunismo=democrazia=comunismo”. Quindi, per il Gozzini, si è democratici solo se si è
comunisti. “E allora, la gente come la Meloni, ha poi continuato, se finisce in parlamento nella sua ignoranza e nella sua presunzione, c’è qualcosa che va. Questo concetto riduttivo, che la democrazia è dare la libertà di parola a tutti va confutato perché non è vero”. Per la cronaca il “docente” non è nuovo a queste uscite perché le volgarità dette nei confronti della Meloni, hanno fatto tornare alla mente, secondo quanto riportato dalla stampa, un episodio di tanti anni fa. Era il 2008 e sempre dalla stessa emittente il professore, che all’epoca era assessore alla Cultura a Firenze, indirizzò ai fratelli Diego e Andrea Della Valle, allora presidenti della Fiorentina, un
commento volgare lontano dai toni dell’eleganza e dalla buona educazione: li invitò testualmente a trasformare il loro progetto per un nuovo stadio in “un rotolino” e poi a “ficcarselo su per la tromba del cosiddetto”. Anche quella volta Gozzini chiese scusa, ma a nulla è servito e infatti dovette rassegnare le dimissioni dalla giunta guidata da Leonardo Domenici. Da sottolineare che la politica compatta, con in testa il Presidente Mattarella, ha voluto esprimere solidarietà alla leader di Fratelli d’Italia, eccezione per pochissime voci “scordate” e stonate che hanno inspiegabilmente dissentito dalla presa di posizione contro il professore che ha apostrofato Giorgia Meloni con epiteti rivoltanti. Giovanni Gozzini - da Libero Quotidiano
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La seconda giornata internazionale sulla libertà di stampa di Roberto Rinaldi*
Nasce a Trento la
CASA in DIFESA dei DIRITTI UMANI
Il prossimo tre maggio la città di Trento ospiterà la seconda giornata internazionale sulla libertà di stampa, un evento inclusivo che si propone di accendere un faro sui cronisti minacciati in Italia e nel mondo. L’iniziativa è nata da un incontro tra il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana Giuseppe Giulietti, il segretario del Sindacato dei giornalisti del Trentino Alto Adige Rocco Cerone, il vicesegretario Lorenzo Basso e il sindaco di Trento Franco Ianeselli.
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’idea e che la città capoluogo della regione Trentino Alto Adige diventi un modello, una casa in difesa di chi illumina le “periferie del mondo», ovvero quei luoghi vicini o lontani dove vengono violati i diritti umani anche imbavagliando l’informazione. Ad ispirare i promotori dell’iniziativa è l’articolo 21 della Costituzione italiana che recita: Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. E Trento ed il Trentino, forti di una tradizione secolare, sono sembrati il
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luogo ideale per ospitare giornalisti di varie nazionalità, minacciati o perseguitati a causa del loro impegno in difesa dei diritti umani e per questo posti sotto protezione da parte delle forze di polizia e carabinieri. L’idea è che a Trento sia aperta una struttura di accoglienza in cui popolazione e soggetti dell’informazione possano confrontarsi. “Con la pandemia da Covid c’è il rischio di dimenticare il resto del mondo, dice il sindaco della città Franco Ianeselli, c’è la tentazione di sottovalutare le minacce alla libertà di espressione, gli attacchi alla libertà individuale. Noi vogliamo racco-
gliere testimonianze da tutto il mondo e i giornalisti in cambio dell’ospitalità porteranno la propria esperienza nelle scuole». Khalifa Abo Khraisse film-maker libico, attualmente trasferito in un luogo protetto, ci fornisce un primo esempio di come sia difficile esercitare la professione nel proprio paese d’origine. «Sono un giornalista e
Trento - Piazza del Duomo
La seconda giornata internazionale sulla libertà di stampa film-maker, dice, ed essere giornalista in Libia significa scegliere un mestiere pericoloso dove si rischia la vita. Ho conosciuto persone che hanno lavorato per anni in condizioni impossibili e disumane. Persone picchiate, arrestate, rapite, assassinate. Ogni giorno che vi svegliate – spiega – rischiate queste opzioni. Può succedere anche a voi in qualunque parte vi troviate. Succede a tutti i colleghi e amici. Ogni articolo che leggete potrebbe essere l’ultimo, ogni fotografia che scatti potrebbe essere l’ultima. Tu vivi queste cicatrici e queste ferite possono distruggerti. Se resisti trovi la forza per andare avanti, e se sopravvivi oggi, domani non ti puoi prendere il lusso di fermarti. Non hai tempo e ambiti per cercare aiuto.“ Khalifa è arrivato in Italia, dove vive sotto copertura, grazie al programma Media Freedom Rapid Response che si occupa di dare supporto legale, assistenza e protezione ai giornalisti in pericolo di vita per il loro lavoro. Il partner italiano di questo progetto europeo è l’Osservatorio Balcani e Caucaso, che nel caso di Khalifa Abo Khraisse si è unito al Festival dei Diritti Umani e alla rivista QcodeMagazine. Per Khalifa e per tutti i giornalisti impegnati nella difesa dei diritti umani, la Casa di Trento potrebbe diventare un’oasi di sicurezza, un baluardo contro le sopraffazioni in difesa dei più deboli delle vittime delle guerre, persone inermi, indifese, violentate fisicamente e moralmente, di cui l’informazione può essere la prima arma difensiva. Le violenze preferisco-
no l’ignoranza, il buio, l’anonimato. La nascita della Casa per la difesa dell’informazione gode tra i fondatori dell’Associazione Articolo 21 con il presidente Paolo Borrometi, la presidente dell’Associazione Bielorussia in Italia Ekaterina Ziuziuk, di Anna De Freo del comitato Federazione Europea dei Giornalisti (EFJ) e Segretario generale aggiunto della Fnsi. Il prologo è previsto il 13 marzo con
l’incontro a Trento dei presidenti di tutte le Regioni italiane per commemorare le vittime, tutte le vittime, del conflitto siriano. *Roberto Rinaldi è referente Trentino Alto Adige Articolo 21 Articolo 21 è un’associazione nata il27 febbraio 2002 che riunisce esponenti del mondo della comunicazione, della cultura e dello spettacolo; giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero.
Trento la Torre civica
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La campionessa di casa nostra di Laura Mansini
Beatrice Scartezzini Una donna in azzurro nella canoa
foto di Alberto Caldani
Otto Marzo; giornata internazionale dei diritti delle donne. Questa giornata vuole ricordare le conquiste sociali, economiche, politiche, culturali e sportive raggiunte dalle donne. Noi la celebriamo raccontando una giovane trentina dei nostri giorni
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ella, intelligente, laurea con 110 e lode in “Lettere moderne- Studi storici e filologico letterari” presso l’ Università degli studi di Trento, una giovane donna sulle limpide acque del nostro bellissimo lago di Caldonazzo, per ben 10 volte campionessa nazionale di “Canoa e Kayak (FICK) in acqua , velocità olimpica”. Beatrice Scartezzini è l’immagine di una donna d’oggi. Nata a Trento nel 1995, vive a Seregnano (Civezzano) con la famiglia; suo zio è Mariano Scartezzini, grande atleta degli anni ottanta nella specialità dei 3000 siepi. Beatrice ha iniziato a conoscere la Canoa al Lido di Caldonazzo nel 2003, aveva 9 anni e lì è cresciuta
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anche grazie all’impegno del Circolo Nautico, guidato con mano sicura da Matteo Ciola, che ogni anno avvicina a questo sport moltissimi giovani. La Canoa è uno sport duro, che richiede molto allenamento. Beatrice fa parte della squadra Nazionale Senior Assoluto dall’anno 2016, ha partecipato ai raduni nazionali ed ha gareggiato a competizioni internazionali: campionati mondiali U23 su distanza Olimpica e campionati Europei. Campionessa Italiana, senza contare tutte le medaglie conquistate come seconda o terza classificata in importantissime competizioni. Un impegno forte il suo, che le occupa gran parte della giornata perché oltre all’allenamento lei studia con grandissimo
impegno, ottenendo anche in questo ottimi risultati. Studio, allenamento. Domanda: “ Ma con tutti questi impegni c’è posto per l’amicizia, l’amore? “ Risposta: “ Sì, c’è posto per tutti i miei sentimenti, si tratta di organizzare il proprio tempo.” Grande sorriso, bellissimi occhi azzurri, una serenità che deriva da un carattere molto determinato e soprattutto lucido. “ Devo dire- continua- che molto importante per me è stato “TopSport” un programma di UniTrento a sostegno della dual career di studenti-atleti di alto livello. Mi sono iscritta nel 2017.” Beatrice è una delle prime campionesse ad essersi laureata, infatti afferma: “ Un supporto concreto nel conciliare gli impegni
La campionessa di casa nostra rando . Speriamo di farcela- un grande sorriso. Sarebbe importante trovare degli Sponsor per poter partire”. Pensiamo proprio che li troverà, come non cedere al fascino di questa donna?
sportivi con quelli accademici me l’ha dato proprio questo progetto di doppia carriera all’Università di Trento - TopSport infatti è nato nel 2011 come primo esempio sul territorio nazionale - per un’atleta come me, spesso in giro per l’Italia, oppure all’estero, è stato utilissimo, visto che tra i vari benefit offre sessioni straordinarie per chi non può essere presente alla data dell’appello. Devo dire che ho trovato sempre grande disponibilità da parte dei docenti e poi è questione di organizzazione. Tra le uscite con l’imbarcazione sul lago di Caldonazzo ed anche sul lago Maggiore e la palestra, mi alleno 11 volte la settimana, mattina e pomeriggio eccetto il mercoledì e la domenica, giorno di riposo se non ci sono gare : tuttavia devo riconoscere che studiare dopo l’allenamento è faticoso. Serve molta concentrazione”. Non contenta, la giovane, dopo aver conseguito la sua laurea triennale, si è iscritta a “Filologia e critica letteraria” che ha durata biennale, e di nuovo in TopSport, che richiede la sua partecipazione a gare internazionali, perché mantenere un alto livello agonistico è uno dei requisiti per accedere al programma. In questi giorni si trova a Verbania sul lago Maggiore, perché si allena
con Beniamino Bonomi , campione Olimpionico. Visto quest’ulteriore allenamento, le chiedo se ci sia in programma qualche altra meta da raggiungere , forse le Olimpiadi? “Sì, se tutto andrà bene, speriamo di partecipare alle Olimpiadi di Parigi 2024”. So che sta per nascere un nuovo progetto che vuol coinvolgere sempre più il nostro bel lago. “E’ un progetto che sto costruendo con un gruppo di atleti trentini, vorremmo fare una squadra al CUS di Pergine, ci stiamo lavo-
foto di Lucio Tonina
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ABBIGLIAMENTO E INTIMO DA 0 A 99 ANNI
Società oggi di Patrizia Rapposelli
Violenza nei festini di Alberto Genovese Opinione pubblica condanna le giovani a una seconda violenza.
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agazze di eccessi, sesso e droga possono legittimare la violenza maschile? Mi chiedo se sono aggravanti. Uno stupro non è mai giustificato, ma quest’idea barcolla con il clamore mediatico della vicenda Genovese. Dicono “Se lo sono cercato” e il giudizio pubblico cavalca l’onda della corresponsabilità per quanto loro successo. Le vittime si devono difendere dall’attacco popolare. Dal danno alla beffa. Il mago delle start up Alberto Genovese arrestato a Milano lo scorso novembre con l’accusa di abusi sessuali nei confronti di una ragazza di 18 anni e indagato tutt’ora per altre sei violenze commesse, riesce a spostare l’attenzione da sé alle malcapitate. A farlo non è l’uomo d’oro dell’Innovation Digital italiano, ma la pressione mediatica e dell’opinione pubblica riguardo la vicenda accaduta. Infatti, il comportamento delle giovani, trascinate nell’esca perversa dell’acme dionisiaca dell’imprenditore, sta passando sotto la lente d’ingrandimento di un pregiudizio sessista retrivo che inevitabilmente offusca e minimizza la responsabilità dell’autore delle violenze. Da vittime a poco di buono il passo è breve; risucchiate nel tritacarne del giudizio, delle allusioni e delle insinuazioni, raccontiamo di una seconda violenza, quella derivata dal sistema generale. Da una parte i social traboccanti di commenti e opinioni, dall’altra una corrente mediatica che tende a riprodurre costantemente ciò che è successo, alla ricerca di elemen-
ti utili a capire una storia che non ha nulla da comprendere. L’unica retrospettiva plausibile è quella che fa capire che non doveva accadere. Da Milano ad Ibiza i party lussuosi dell’uomo d’oro sono noti per quelli del giro: location di divertimento sfrenato, teatro di lusso, droga e giochi erotici, scenario agli occhi delle più giovani di opportunità. Nell’Italia “bene” i festini a base di sesso e cocaina rimangono silenziosi, ma da quella prima storia sordida a Villa Inferno nel Bolognese si è scoperchiato un mondo; un giro di feste a luci rosse dove le prestazioni sessuali venivano pagate con la polvere bianca o gli agganci giusti. È uno di quegli scandali peggiori, tollerati e silenziosi, crimini che pochi osano denunciare. “Tanti sapevano, droga, violenze e silenzi alla corte del mago”. La Terrazza del Sentimento a Milano è solo l’ultimo party costato caro ad una diciottenne, forse la storia più eclatante e brutale come sentito dire o considerata tale per il clamore mediatico prodotto. I racconti di violenze sessuali non hanno differenze, sono tutti disumani. A quella festa era chiaro ci sarebbe stata una “fattanza” e chi vi partecipava ne era consapevole, inutile negarlo. L’attrazione per un ambiente dorato fa emergere il potere e l’onnipotenza di chi può tutto. La droga nei piatti di portata e i soldi che l’imprenditore scialava per tutti. In queste feste le ragazze non hanno
disdegnato qualche riga di coca, maldestramente valutata la situazione, il finale lo conosciamo, ma questo non è un buon motivo per adombrare il carnefice e nemmeno un’aggravante. Ingenuità, evidenza di tanti problemi giovanili che caratterizzano la società d’oggi, ma a differenza di questi ultimi, la figura abusata è sovraesposta, attrae l’attenzione del pubblico in modo proporzionale alla gravità dell’accaduto. Forse i media e social network, ma soprattutto chi usa il web per dare libero sfogo alle proprie problematiche. non hanno considerato l’ulteriore violenza cui una giovane donna poteva essere sottoposta. Il giudizio dovrebbe preoccuparsi della fotografia lasciata da questa vicenda, un’educazione zoppa, una generazione fragile, preda di chi ha il potere di gestirli come pupazzi attaccati ai fili d’interessi- materiali- e adulti spesso disposti a chiudere gli occhi davanti alle atroci banalità. Nota: foto d’archivio non sono riferite all’articolo.
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Conosciamo il passato di Guido Nesler
MARIA TERESA sovrana illuminata
Maria Teresa, figlia di Carlo Sesto d’Asburgo, regnò dal 1740 al 1780 sul vastissimo impero d’Austria, che si estendeva dalla Lombardia al Tirolo, comprendendo quindi anche l’attuale Trentino, fino all’Ungheria e alla Boemia. Fece scelte amministrative e politiche capaci di organizzare, oltre al Trentino, anche il Veneto, specialmente nelle vallate alpine del Feltrino e delle Dolomiti quando la regione venne da Napoleone strappata a Venezia e annessa all'Austria.
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u detta la “Sovrana Illuminata”, perché introdusse riforme di fondamentale importanza, prima fra tutte la scuola obbligatoria e gratuita per i bambini di entrambi i sessi dai sei ai dodici anni. Istituì il catasto, riformò la giustizia e la pubblica amministrazione, promosse l’arte, la cultura e la fondazione di università. In campo sanitario favorì la sperimentazione dei primi vaccini contro il vaiolo. Si avvalse inoltre sempre di collaboratori molto validi, anche se talvolta di umili origini. Durante il periodo del suo regno si distinsero dei personaggi di alto livello in vari campi. In particolare nelle Valli del Noce, uomini intelligenti, le cui scelte ebbero effetti positivi in tutto l’impero. Fra questi alcuni meritano di essere ricordati.
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Carlo Antonio Martini nacque a Revò nel 1726. Fu professore di diritto all’università di Vienna. Godette della stima di Maria Teresa , che lo volle presso la sua residenza per seguire l’educazione dei figli, due dei quali divennero imperatori d’Austria: Giuseppe Secondo, che regnò dal 1780 al 1790 e Leopoldo Secondo dal 1790 al 1792. Il Martini sostenne la necessità di rendere l’istruzione elementare gratuita ed obbligatoria, che venne istituita nel 1774. Propugnò inoltre l’abolizione della pena di morte e della tortura. Leopoldo Secondo lo nominò presidente della Commissione Aulica di Legislazione, con l’incarico di redigere il nuovo codice civile austriaco, che rimase in vigore per tutto l’ottocento. Francesco Vigilio Barbacovi nacque
Maria Teresa d'Austria da giovane
a Taio nel 1738 da una famiglia di antica tradizione forense. Nel 1774 il principe vescovo di Trento Sizzo de Noris lo incaricò di redigere il primo codice civile trentino. Nel 1792 il principe vescovo Pietro Vigilio Thun gli affidò il compito di armonizzare tale testo legislativo con quello elaborato a Vienna dal Martini.
Conosciamo il passato Giovanni Battista Lampi nacque a Romeno nel 1751. Fu ritrattista della Casa d’Asburgo. Nel 1786 ritrasse, a figura intera e in grandezza naturale, l’imperatore Giuseppe Secondo. Anche Caterina Seconda di Russia gli commissionò il suo ritratto. Pure il figlio primogenito, anch’egli di nome Giovanni Battista, fu un famoso ritrattista e lavorò con il padre sia a Vienna che a S. Pietroburgo. Peter Josef Kofler nacque a Ruffrè nel 1700 e studiò giurisprudenza a Vienna. Nel 1737 divenne presidente di quel tribunale Dal 1741 al 1764, anno della sua morte, fu borgomastro (sindaco) di Vienna. Bartolomeo Antonio Bertolla nacque a Mocenigo di Rumo nel 1702. Frequentò, in piccolo centro presso Vienna, un triennio di apprendistato, conseguendo quindi il diploma, che gli consentì di esercitare la professio-
ne di orologiaio. Ritornato a Rumo, si dedicò alla costruzione di orologi a pendolo. La sua opera più famosa fu la costruzione, per Maria Teresa, di uno straordinario orologio astronomico dotato di un grande numero di indicazioni, fra le quali le fasi lunari, le maree, i segni zodiacali, le eclissi solari e lunari. Per il progetto ed i relativi complessi calcoli il Bertolla si avvalse della collaborazione di Francesco Borghesi, parroco di Mechel (frazione di Cles), nonché matematico e astronomo. Al termine della prima guerra mondiale gli americani portarono l’orologio presso lo Smithsonian Institut di Washington, dove si trova tuttora. Cristoforo Migazzi, la cui famiglia era di Cogolo di Peio, fu cardinale di Vienna dal 1757 al 1803, anno della sua morte. Fu sepolto nella cattedrale di S. Stefano. Carlo Firmian di Mezzocorona fu
Maria Teresa d'Austria
nominato da Maria Teresa ministro plenipotenziario della Lombardia nel 1759. In tale ruolo si occupò, in particolare, dell’istituzione delle scuole obbligatorie, del catasto e della riforma della giustizia. Fu pure uomo di grande cultura e raffinato collezionista di opere d’arte.
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Sanità Italia in controluce di Nicola Maschio
Covid 19: un anno di pandemia Nostra intervista a Stefano Merler, epidemiologo trentino.
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n anno di Covid: a che punto siamo e cosa ci riserverà il futuro? Ne abbiamo parlato con Stefano Merler, epidemiologo e matematico trentino della Fondazione Bruno Kessler, il quale contribuisce al monitoraggio del virus nelle regioni italiane ed ha fornito un apporto determinante alla redazione del “Piano sanitario di organizzazione della risposta dell’Italia” all’emergenza pandemica da Covid-19. Merler, innanzitutto Le chiedo: in che situazione ci troviamo attualmente, dopo un anno di pandemia? Grande incertezza. Credo che tutto sommato abbiamo imparato molto su SARS-COV-2 e, anche se tutto il mondo o quasi sta ancora facendo molta fatica a gestire questa epidemia, siamo molto più preparati rispetto a marzo 2020. C’è chi lo definisce una semplice influenza e chi invece lo paragona alla spagnola: qual’è la verità e, soprattutto, possiamo parlare di un problema “strutturale” del sistema sanitario? In termini di trasmissibilità e di letalità questo virus è peggiore della spagnola. Ha una trasmissibilità naturale di circa 3 (ogni persona ne infetta 3 in media) contro l’1.8-2 della spagnola e un tasso di mortalità per infezione altissimo, probabilmente superiore all’1%. Infatti,
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nonostante gli enormi sforzi fatti in tutto il mondo, siamo già ai milioni di morti accertati. Nessun sistema sanitario al mondo sarebbe stato in grado di reggere all’impatto di una malattia come questa senza importanti misure di distanziamento sociale che ne hanno limitato la trasmissione. Non credo sia solo un problema di posti letto in terapia intensiva, per due motivi: il primo è che le persone spesso muoiono anche se ammesse in questo reparto. Il secondo, è che non si parla solo di ventilatori: servono anche operatori sanitari specializzati, rari da trovare. Ogni giorno giornali e telegiornali riportano dati, numeri e opinioni di esperti di ogni settore. C’è il rischio concreto che si crei disorientamento in coloro che vogliono informarsi?
Parliamo della più grave emergenza dalla seconda guerra mondiale. È normale che tutti vogliano dire la loro, anche se questo genera molta confusione. Posso solo suggerire di guardarsi bene il curriculum scientifico, cioè le pubblicazioni dei vari esperti, per capire di cosa realmente lo sono e valutare se ascoltarli. Virologia, infettivologia ed epidemiologia sono discipline completamente diverse tra loro. Parte economica: la pandemia sta mettendo in ginocchio tutte le attività, ma chiudere è davvero la soluzione? Io mi occupo di studiare l’epidemia, mentre questo è un aspetto politico. Posso essere d’accordo sul fatto che non disponiamo, a livello mondiale, di studi definitivi che mostrino quanto sono più o meno rischiose certe attività, pur con stime di rischio o evidenze di focolai in certi ambienti. Scientificamente, ciò che è certo è che non riusciamo a gestire un’epidemia con RT anche di poco sopra 1 per più di qualche settimana: nonostante le restrizioni, però, non riusciamo a far scendere RT di molto sotto 1. La suddivisione in zone colorate funziona? Col lockdown nella prima ondata RT era sceso a 0.6: ora, le zone gialle possono valere un RT di circa 1, quelle arancioni e rosse circa 0.9 e 0.8 rispettivamente. Queste stime ovviamente
Sanità Italia in controluce
valgono solo per lo strain “tradizionale”. Che uso fare di questi risultati è una scelta politica. Capitolo vaccini. Stanno arrivando, siamo solo all’inizio ma abbiamo già vaccinato più di tre milioni e mezzo di persone. È un buon risultato o bisogna fare di più? Ma soprattutto, gli altri dati (morti, contagi) vanno considerati come reali?
Più vacciniamo e più casi ci risparmiamo, diminuendo così il carico sui servizi sanitari e le morti. Inoltre, diamo al virus meno possibilità di mutare e rendere magari meno efficienti i vaccini stessi. Sulla questione dei dati, quelli dei vaccini credo siano precisi, quelli sui casi meno perché sappiamo che riusciamo ad identificare solo una frazione delle infezioni totali: secondo le nostre stime il tasso di notifica è passato da circa il
10% nella prima ondata ad un numero variabile tra il 20% e il 40% nella seconda. Per qualche riapertura credo basterà mettere in sicurezza la parte più fragile della popolazione, anche se sarà un percorso di mesi. Il ritmo attuale non è incoraggiante ma leggo con estremo piacere sui giornali dell’impegno del Governo a vaccinare il 50% degli italiani prima dell’estate. Incognita varianti. Pur essendo tantissime, tre sono quelle più chiacchierate oggi: inglese, sudafricana e brasiliana. Cosa cambia e, soprattutto, potrebbero vanificare tutta la campagna vaccinale? Intanto mi preme dire che dai primi risultati i vaccini sembrano efficaci contro la variante inglese, che rappresenta il problema più immediato visto che la sua prevalenza in Italia era già del 18% agli inizi di febbraio ed è più trasmissibile dal 30% al 70%. Le altre due varianti sono probabilmente meno prevalenti in Italia ma in effetti pongono qualche problema dal punto di vista immunologico. Credo sia importante vaccinare il più possibile ora in modo da mitigare lo strain “tradizionale” e la variante inglese. Io, potessi farlo, mi vaccinerei domani stesso con qualunque vaccino. Finiamo con una previsione: come potrebbe evolversi la situazione nei prossimi mesi? Previsioni non ne ho mai fatte, se non a 30 giorni al massimo perché sono abbastanza affidabili e utili per capire l’impatto a breve sul sistema sanitario. Quelle a lungo termine mi lasciano sempre molto perplesso perché per predire questa epidemia bisognerebbe saper predire il comportamento umano e come interverrà la politica per gestire l’epidemia stessa. Mi auguro che per l’estate si siano vaccinate una larga percentuale delle persone esposte a maggior rischio. Poi, con la stagione calda passeremo molto più tempo all’aperto, durante le vacanze estive si ridurranno spontaneamente i contatti sociali e tutto questo potrebbe aiutarci.
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Il Personaggio di Katia Cont
Un uomo ruvido, simpatico e straordinario
Mario Monicelli: il suo cinema e quell’Italia Tragicomica «Quando mi domandano quale regista mi sarebbe piaciuto essere, rispondo sempre Buñuel in “La commedia umana”. Il mio cinema è di sinistra, o se si vuole è democratico, nel senso che sta dalla parte dei più deboli mettendo in luce le ingiustizie. Certo non è assertivo e ancora meno ideologico, non mostra mai direttamente il dramma, sono nemico delle “scene madri”, e ho una vera predilezione per le “scene figlie”. Dunque amo raccontare la vita attraverso i suoi riflessi che la alleggeriscono con il comico». Queste alcune delle frasi più significative rilasciate da Mario Monicelli durante una delle sue ultime interviste, che ben riassumono l’anima e lo spirito di un uomo di cultura molto discusso, amato e odiato allo stesso tempo. Personaggio scomodo ma essenziale per una società che ha avuto il bisogno di guardarsi allo specchio e ci è riuscita grazie ai suoi film. Mario Monicelli nacque a Roma, nel quartiere Prati, il 16 maggio 1915, sette giorni prima dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Dell’intero secolo che attraversò, Monicelli fu testimone attento, sagace e ironico senza mai nascondere un fondo di pessimismo e malinconia che ha aleggiato, in modo più o meno evidente, in tutta la sua vita e la sua opera. Laureato in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è ricordato oggi come un cineasta straordinario con oltre cinquant’anni di carriera. Autore di
una sessantina di film tra cui tanti capolavori assoluti; chi non ricorda i componenti della “Banda del buco” de “I soliti ignoti”, o gli allegri compagni di “Amici miei”, oppure Vittorio Gassman-Brancaleone da Norcia in “L’armata Brancaleone”, tutte figure entrate con prepotenza nell’immaginario collettivo. Le sue opere sono patrimonio cinematografico nazionale ed è doveroso ricordare oltre ai già citati, anche: “Guardie e ladri”, “Un borghese piccolo piccolo”, ma anche “Il medico e lo stregone”, “La grande Guerra”, “Romanzo popolare” e “Il Marchese del Grillo”. La firma stilistica della regia monicelliana rappresenta il migliore compromesso tra cinema d’autore e film da botteghini, una peculiarità che gli ha permesso di guadagnare la stima e l’affetto non solo della critica ma anche del pubblico. Precursore di un filone amaramente comico ed aggressivo, ha dato visibilità alle storie dei poveracci condannati a rimanere tali, e all’arte dell’arrangiarsi. In un Italia che lui stesso definiva “Tragicomica”. Ha sempre parlato dell’Italia e dell’italiano con un velo di amarezza: «Gli italiani vogliono sempre qualcuno che pensi per loro». Nei suoi film, i caratteri comuni sono gli stessi dell’Italia che vedeva lui: l’ambientazione crudele, i personaggi malleabili, deboli, codardi, sballottati da grandi travagli interiori, incapaci di prendere decisioni importanti. E il giu-
dizio che Monicelli ne dà è fortemente critico, così come dalle sue interviste si evince sempre un certo rammarico, un amore/odio per un popolo che lo ha apprezzato e ha riso dei suoi film, senza mai fermarsi davvero a riflettere su ciò che volessero dire realmente. Anche nell’ultima sua intervista rilasciata a L’Espresso in occasione del suo 94mo compleanno, ha dichiarato: «Non ho nostalgia di nulla. Ma che rabbia l’Italia di oggi». Per lui, il cinema e la vita erano un po’ la stessa cosa, e li ha diretti entrambi con maestria. Mario Monicelli ha preferito dirigere anche la sua fine; ormai malato terminale, si è lasciato cadere dal quinto piano dell’Ospedale San Giovanni di Roma, la sera del 29 novembre 2010. Pandemia permettendo, la Casa del Cinema di Roma e Centro Sperimentale di Cinematografia, ha in programmazione dal 15 febbraio la mostra fotografica “Mario Monicelli”. La mostra è allestita nelle sale della Casa del Cinema intitolate a due grandi sceneggiatori del cinema italiano come Sergio Amidei e Cesare Zavattini. Si tratta di una spettacolare galleria di immagini provenienti dall’archivio fotografico della Cineteca Nazionale, che ripercorrono passo passo tutta la storia artistica di Mario Monicelli, dagli esordi in coppia con Steno alla fine degli anni ‘40 (“Totò cerca casa”) fino al film del suo commiato, “Le rose del deserto” (2006).
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Vita da naya in tv a Levico Terme di Gabriele Biancardi
La caserma il reality di Rai2
La Caserma il cast con logo - da Rai.it
Faccio parte di quella generazione che ha fatto la naja. Oddio non è che abbia lasciato chissà quale impronta. Fare il deejay in un albergo a Dobbiaco per l'aeronautica, non la chiamerei proprio “difesa dei patri confini”. Dodici mesi forse sprecati, non ho marciato, non ho sparato..ecco perché non ho ricordi divertenti, o epici. Ho messo dischi. Invece, coloro che l'hanno fatta per davvero, tengono vivo il ricordo, sono ancora legati ai vecchi commilitoni e credo che sfugga anche qualche lacrima ogni tanto. Questi sono i più accaniti oppositori de “la caserma”, reality di Rai 2 girato completamente in trentino e precisamente e Levico.
L
’idea è davvero molto buona, purtroppo non suffragata dagli ascolti. La caserma, accoglie un gruppo di ragazzi e ragazze, proveniente da tutta Italia, capelli lunghi, piercing, una certa libertà d’azione. A condurre il tutto un istruttore con varie esperienze reali in zone di guerra, dotato di un grande carisma. Con lui alcuni aiutanti che sinceramente, potrebbero benissimo fare cinema o teatro, tanto sono brillanti. Invece è tutto vero. Il primo shock. Via cellulari, tablet e rasatura capelli. I ragazzi senza telefonino sbandano, 20
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non sanno come comunicare, sono impacciati, ma poi, dopo qualche giorno capiscono cosa fare. Parlano, e pure tanto! Cominciano a seguire certe regole, orari, compiti e responsabilità. Levico offre uno squarcio di bellezza rara, prosaicamente credo che sia una bella cartolina turistica, se solo non ci fosse sto virus di mezzo. Ma sono certo che non siano passati in secondo piano i luoghi visti. Nel passare delle settimane, ci si accorge che le meccaniche, sono sempre le stesse, i ragazzi flirtano con le ragazze, ci sono
pianti e risate. Dopo una settimana di marce, corsi di camuffamento, prove fisiche, cibo da caserma nei vassoi di acciaio, una sera è stato concesso loro l’uso dello spaccio! È stato quasi commovente vederli, felici, alle prese con calcetto, flipper, freccette e giochi di carte, tutti passatempi che nella vita reale, non avrebbero nemmeno guardato. Quindi? Ci sono tante considerazioni che possono essere messe in evidenza. La prima è che i ragazzi sono tali in ogni generazione, messi di fronte a delle regole, magari con fatica, ma alla fine le rispettano. Non
Vita da naya in tv a Levico Terme sono un fan del ritorno della naja, il rispetto e l’educazione credo siano compito in primis della famiglia, a 19 anni è un pochino tardi. Ma la socializzazione in mezzo a questo mondo virtuale è importante e qui viene a galla. Una notte, per punizione, tre dei ragazzi, hanno pelato chili di patate di fronte ad un fuoco. Il loro resoconto è stata come “una bellissima notte”. Tutto bene? No, gli ascolti non sono andati benissimo e sui social sono stati massacrati. Un plotone di najoni furibondi perché quella non era la vera “leva”, insulti gratuiti, ma quelli oramai sappiamo, insomma una vera e propria levata di scudi ai ricordi. Si, perché il problema è quello, non tanto una ventina di ragazzi che assaporano una velata versione della naja, ma il fatto che sia passata per una vera vita militare, in tv. A leggere i commenti, sembra che
tutti abbiano fatto un anno da Rambo, missioni in oriente e salvataggi estremi. La cosa che più mi stupisce è che i commentatori nostalgici, che se la prendono con questo gruppo, sono i genitori degli stessi ragazzi che non fanno più la naja. Ma evidentemente, guai a “sporcare” un ricordo, quello ci appartiene e ogni volta che ne raccontiamo una parte, solitamente lo “coloriamo” di particolari nuovi ed epici. Io al massimo posso dire che venne Giovanni Spadolini in vacanza una settimana. Credo che l’idea potrebbe addirittura trasformarsi in una proposta turistica. Gli stessi incavolati di cui sopra, inneggiano al ritorno di un anno di leva, per insegnare ecc. ecc, quindi perché non mandarli 20 giorni in un contesto simile? Magari capirebbero che la convivenza non è facile, che se tu fai una boiata poi a pagarne le
conseguenze sono tutti. Non si tratta di sparare o altro di belligerante. Speriamo che nessuno delle nuove generazioni siano costrette a farlo, ma solo di una esperienza senza la mamma che ti sveglia e ti fa trovare i panni pronti (la mia lo ha sempre fatto), si tratta di far riscoprire certi meccanismi insiti in ognuno di noi. Il bisogno di socializzare che non sia solo virtuale. Poi i ragazzi del reality, che all’inizio onestamente tanto simpatici non sono, via via che passano i giorni, mettendo in risalto anche le loro storie personali, trovi delle sorprese. Delle vite anche difficili, orfani in giovanissima età, alcuni adottati, vite che sono nascoste proprio dal fatto che nessuno ti chiede nulla. Ma anche i ragazzi di oggi hanno delle storie pesanti, dei disagi, gli stessi che abbiamo vissuto noi ma senza smartphone.
da sin. il dottor Federico Giuliano e a dx Il dott. Gabriele Bonini
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Tra passato e presente di Waimer Perinelli
L'aquila di Roma sulle nostre valli Mi capita spesso di camminare sulla via Claudia Augusta Altinate, un po' perché passa anche davanti alla mia casa in Valsugana, altre volte, e ne ricordo una in particolare, quando qualche amico decide di compiere un'impresa storico agonistica. Accadde, per esempio, nella metà degli anni 80 del Novecento quando il barbiere-maratoneta Marco Patton decise di percorrerla tutta in sette giorni. Un'impresa epica. Ma questa è un'altra storia.
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uella che racconto oggi è la sensazione di vissuto, di già visto, che spesso mi accompagna nella camminata lungo l’antica strada: una serie di ricordi vividi, quali devono essere stati quelli che hanno spinto Marcel Proust a scrivere la sua “A la Recherche du temps perdù”. Ciò che immagino, ma mi sembra di vedere realmente, sono le legioni di Roma e i legionari, quelli che hanno dato armi e vita per la nascita e conservazione dell’Impero secolare. Da Roma salivano a nord lungo la via Flaminia fino a Rimini e poi presa la via Emilia si dirigevano verso Piacenza, oppure, come nel caso nostro, deviavano lungo il mare Adriatico per raggiungere Ravenna ed Altino e da qui andavano ad est verso Aquileia oppure a nord ovest e, attraverso le nostre valli del Feltrino e Valsugana, salivano ad Augusta Vindeculorum, in Rezia. Davanti ad ogni legione c’era l’Aquila, d’argento ai tempi della Repubblica e d’oro con l’avvento dell’Impero. L’aquila era il simbolo del potere di Roma, icona di Giove, padre di tutti gli dei e dell’esercito. Simboleggiava la supremazia dell’imperatore, capo dell’esercito e Pontifex Maximus.
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Non è chiaro perché l’esercito romano adottasse questo uccello come simbolo di potere e forza. Forse per ragioni naturalistiche. E’ noto che questo grande uccello predatore vive più a lungo di qualsiasi altro volatile, almeno 70 anni; si crede però che per raggiungere questa età debba sacrificare un po’ di artigli e parte del piumaggio. Insomma forza fisica ma anche spirito di sacrificio. I romani non furono i soli né i primi ad adottare l’aquila come simbolo di forza e portafortuna. Presso gli Atzechi e i Maya l’uccello rappresentava il velo della notte e del buio nell’esistenza e nella coscienza: un velo squarciato dal sole che sorge come luminosa potenza del cielo. I Celti, o Galli, per un quarto di secolo, avversari di Gaio Giulio Cesare, attribuivano all’aquila il simbolismo dell’acqua che agisce come Lupa romana un oracolo intuitivo.
Ai romani soli spetta però il primato di averla adottata e conservata per oltre mille anni. La presenza dell’aquila come simbolo dei sovrani di Roma è testimoniata da Dionigi di Alicarnasso il quale, racconta come tra le insegne federali che i capi delle città etrusche portarono a Roma da Tarquina, in seguito alla vittoria di Tarquinio Prisco, vi fosse uno scettro con sopra un’aquila che il re continuò ad adottare “per tutto il tempo della sua esistenza”. Sallustio testimonia che Gaio Mario, avversario di Silla nella guerra civile, la usò per la prima volta
Tra passato e presente come insegna nella guerra contro i Cimbri consegnandone una ad ogni legione e tale uso rimase da allora. L’aquila era affidata alla prima Centuria della prima Corte e conservata, presso il quartiere generale della legione, nell’accampamento, all’interno dell’Aedes Signorum (santuario) assieme alle altre insegne militari. Da quel luogo usciva solo assieme alla legione sotto la responsabilità di un Aquilifer, il sottufficiale alfiere, che la custodiva e difendeva fino alla morte. La perdita dell’insegna era considerata una disgrazia per la legione e per Roma. Nella storia della Città Eterna si ricordano almeno due avvenimenti funesti. Il primo a Carre, oggi Harran in Turchia, nel 53 a.c., quando le legioni comandate da Licinio Crasso furono sterminate dai Parti e le aquile caddero in mano ai barbari. L’altro nella foresta di Teutoburgo nel 9 d.c. quando i germani guidati da Arminio annientarono tre legioni comandate da Publio Quintilio Varo. Per singolare coincidenza entrambe le catastrofiche sconfitte romane furono causate da tradimenti. Arminio germano (dei Cherusci) di origine ma, prima ostaggio e poi figlio adottivo di Varo, disertò, si unì e poi guidò le schiere barbare che massacrarono le legioni nella foresta orientale del basso Reno. Crasso, da parte sua, credette ad alcuni nobili partici finti disertori, dai quali fu poi tradito ed attirato in trappola nel deserto. Entrambe le sconfitte segnarono la fine dell’espansione romana in quelle terre ma i romani non furono paghi fino a che non recuperarono le Aquile. Giulio Cesare nel 44 a.c. stava proprio organizzando una spedizione contro i Parti quando fu trucidato. Le aquile delle legioni furono poi recuperate da Augusto
nell’ambito di una trattativa di pace con i Parti. Le Aquile di Teutoburgo furono recuperate da Germanico sei anni dopo la strage. Una terza catastrofe accadde nel 70 d.c. nel corso delle guerre civili dei Flavi ma le quattro aquile consegnate spontaneamente dalle legioni ai Batavi furono recuperate e le legioni vennero sciolte. L’Aquila ancora oggi è simbolo di Roma assieme alla Lupa e per scelta avvenuta fra il 1782 e il 1789, l’ Aquila dalla testa bianca, o calva, è diventata simbolo prima dell’indipendenza ed oggi dell’Impero Americano.
Statua di Giulio Cesare
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L’inizio di una dinastia:
CESARE MALDINI P
rendiamo una città storicamente sferzata dalla Bora, Trieste, e un anno tra le due Guerre mondiali, il 1932. Qui, una mattina di febbraio, viene alla luce uno dei giocatori più conosciuti della storia del calcio italiano del ventesimo secolo. Origini slave, cosa non così inusuale vista la vicinanza del mondo jugoslavo, per la precisione slovene, con un cognome che in principio sarebbe stato Malduin. A causa però di un regio decreto dell’anno 1927, che impediva la permanenza nella nostra penisola di famiglie con cognome di origine straniera, quest’ultimo fu conseguentemente riadattato in Maldini. Con il tempo, queste sette lettere riempiranno in continuazione le testate dei più accreditati giornali sportivi e non, portandoci inevitabilmente a parlare di una vera e propria dinastia, capeggiata da Cesare, protagonista del racconto, proseguita in maniera eccelsa da Paolo e ora retta da Daniel. Torniamo però ad analizzare da vicino la storia del capostipite, il “mulo de Servola”, tradotto per i più profani, o in generale per coloro che non hanno tutta questa affinità con il vernacolo triestino, come “il ragazzo di Servola”. È da questo semplice quartiere, storica enclave slovena, che Cesare si avvicina al mondo del calcio; pare infatti che le sue prestazioni
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Cesare Maldini nell'incontro Feyenoord. AC Milan (0-2)
nell’oratorio locale, avessero impressionato non poco l’allora massaggiatore della Triestina, tale dottor Cerne. Questo signore, convinto delle potenzialità del ragazzo, contribuì a farlo provinare con la società alabardata, con la quale disputò tutta la trafila, prima dell’esordio in Serie A avvenuto il 24 maggio 1953. Quel giorno, indelebile nella mente di Cesare Maldini, anticipò di qualche mese un fatto abbastanza grave, occorso in occasione della prima giornata di campionato. Si dice infatti che al momento di partire per Torino, dove si sarebbe dovuta svolgere la sfida contro la Juventus, quattro giocatori si ammutinarono per protesta contro i mancati pagamenti del loro stipen-
dio, portando pertanto l’allenatore a schierare al loro posto alcuni giovani della primavera, tra cui anche Cesare. L’uomo alla guida di quella squadra era un triestino incallito di nome Nereo Rocco, per tutti il “paròn”, noto per essere il primo fruitore, nel dopoguerra, di un calcio meno orientato alla fluidità e alla bellezza, focalizzato maggiormente su di una disposizione tattica ossessiva e su una strenua difesa: il “catenaccio”. Al di là però della visione o della concezione del gioco, per Maldini il suddetto allenatore era molto di più, un sorta di padre, presente in quel pomeriggio piemontese e immancabilmente nella magica notte londinese del ‘63. Prima di arrivare
Il calcio in controluce a quella serata, il giovane triestino avrà modo di consacrarsi definitivamente durante la stagione 1953/54 al termine della quale il Milan, allora nelle mani dell’imprenditore Andrea Rizzoli, ne avvalorerà l’acquisto per ben 58 miliardi di lire. L’esborso, non indifferente ai tempi, era motivato da una richiesta esplicita da parte del mister rossonero dell’epoca, Bèla Guttmann, colui che notando per primo le potenzialità di Maldini affermò: “Questo ragazzo è da Milan e nel Milan giocherà”. Per chi non lo conoscesse, il “maestro” ungherese fu tra i primi a teorizzare il modulo 4-2-4 e successivamente l’uomo che lanciò Eusebio, la “Pantera Nera”, uno dei più forti giocatori della storia portoghese e centravanti del suo Benfica, in grado di vincere per due anni consecutivi la Coppa dei Campioni. Oltre al tecnico magiaro,
reo di averlo riadattato come centromediano o libero, Cesare deve, come detto in precedenza, moltissimo a Nereo Rocco. Era lui che sedeva sulla panchina rossonera quella memorabile sera del 22 maggio 1963, quando il Milan si impose con il passivo di due reti a uno contro il Benfica, grazie a due marcature di Altafini. Quel giorno risulta oggi, rianalizzandolo, abbastanza paradossale: è storico, perché la società meneghina fu la prima squadra italiana a trionfare in campo europeo, con Cesare a farne da capitano, ma più di tutto è particolare perché mostra due creature plasmate da Bèla a confronto. Da una parte il mulo triestino e dall’altra Eusebio. Maldini disputerà la sua ultima partita con i “diavoli” milanesi, esattamente tre anni dopo, contro il Catania in un match a senso unico terminato con il risultato di 6-1. Il gol dei siciliani fu
Cesare Maldini- da Biografieonline
un’autorete di Cesare, questo però al popolo milanista non interessava. Tutti erano affranti, perché consapevoli del fatto che in quel momento un’istituzione se ne andava, lasciando un vuoto incolmabile nel prato di San Siro. Nessuno ancora poteva immaginare che quella voragine si sarebbe chiusa in poco tempo, ma soprattutto che a farlo potesse essere un altro Maldini: il figlio Paolo.
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Giovani & Società di Veronica Gianello
AMANDA GORMAN:
le parole dei giovani illuminano il futuro Non siamo americani, eppure buttiamo sempre un occhio in là, oltreoceano, ogni volta che qualcosa si smuove. Il 20 gennaio di quest’anno incerto e carico di aspettative, qualcosa si è smosso: Joe Biden è stato proclamato 46esimo Presidente degli Stati Uniti d’America. È l’inizio di una nuova era, come abbiamo sentito fino alla noia nelle edizioni dei telegiornali di tutto il mondo. Eppure la vera rivoluzione va letta nella cornice squisitamente americana che ha segnato questo passaggio di consegne.
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l neo-eletto presidente ha fatto la sua parte, e la sua parte include anche—e forse soprattutto— la capacità di scegliere e delegare a chi è più adatto di lui ogni momento saliente della giornata, ad anticipazione della sua visione per i prossimi quattro anni. Fare un passo indietro per fare un passo avanti. E se un presidente quasi ottantenne chiede che la propria visione venga rappresentata, scritta e declamata dalle parole di una giovane neo-laureata, io credo che si stia seminando su un terreno fertile. Amanda Gorman è è la poetessa scelta per comporre e recitare una propria composizione durante l’insediamento di Biden. The Hill We Climb è il risultato, la collina che scaliamo. Così, se ci sentiamo lontani dalla politica, tanto più da quella di un paese che non è il nostro, dobbiamo ricordarci anche che anche noi siamo chiamati a scalare quella collina: come esseri umani prima ancora che come cittadini. Il fatto che a ricordarcelo siano le parole di una ventiduenne di colore, cresciuta dalla madre, erede di quella schiavitù che talvolta non appare poi così lontana, rende il messaggio di Gorman universale. Non indora nulla questa giovane donna, mentre ricorda i recenti attacchi alla democrazia che ‘può
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essere momentaneamente minacciata, ma mai definitivamente sconfitta’. Racconta con sguardo e mani fiere la sua terra, fatta di sogni ma anche di accattoni, tenendo il ritmo come se stesse cantando. Uno spettacolo. Sembra quasi che ci prenda per mano, mentre ci chiede: come possiamo trovare la luce in quest’ombra senza fine? Una domanda che sposta subito l’io poetico a qualcosa di più grande, a qualcosa che accomuna tutti; qualcosa che, in qualche modo, unisce. È proprio l’unione la colonna portante di questo componimento. Un’unione che tuttavia è ben lontana dall’essere perfetta, e che proprio in questo svela la propria grandezza. Lo ricorda la Costituzione americana stessa: usiamo la giustizia per creare un’unione che sia ancora più forte. Dobbiamo smettere di considerarci a pezzi, rotti, finiti, da buttare: siamo semplicemente non ancora completi; siamo artigiani, con l’immenso dono dell’incompiutezza che ci permette ogni giorno di cercare di cesellare il nostro volto, di colmare i vuoti che spesso ci creiamo dentro, o attorno, che allontanano invece di avvicinare. Solo colmando lo spazio tra noi riusciremo a colmare quello davanti a noi, sostiene Gorman. In questa visione superiamo il pregiudizio della
generazione passata nei confronti del fallimento, e vediamo le cadute come un insegnamento, come una nuova opportunità, perché comunque tramite esse, non senza dolore, cresciamo. È un climax di forza, un inno alla fede, la chiusa di questa poesia. Una forza che viene da noi, che noi nutriamo, fino a cambiare la domanda iniziale: non ci chiediamo più ‘Come supererò questa catastrofe?’, ma piuttosto ‘Come può questa catastrofe prevalere su di me?’. Cambiamo le carte in tavola, e dalle fessure, dagli spiragli del nostro essere imperfetti e disuniti entra finalmente la luce, perché la luce c’è sempre se solo siamo abbastanza coraggiosi da vederla, se solo siamo abbastanza coraggiosi da diventare noi stessi luce.
Amanda Gorman durante l’insediamento di Biden
Umana-mente di Chiara Paoli
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Vaccino sì o vaccino no
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opo aver vaccinato medici, infermieri e gli ospiti delle RSA, è da poco iniziata la campagna di vaccinazione degli anziani over 80. Non sono mancate le polemiche e le difficoltà di prenotazione. Il numero verde è sempre occupato e trovare la linea libera appare come un miraggio e per i più vecchi prenotare on-line risulta difficile, vista la poca dimestichezza con le moderne tecnologie, il computer e tutto ciò che riguarda internet. Coloro che hanno figli ricorrono all’aiuto delle generazioni più giovani per prenotare, gli altri passano le ore al telefono (numero verde 800 867 388, attivo dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 18 e il sabato mattina dalle 8 alle 14), cercando di ottenere un appuntamento. Con la prenotazione della prima dose, si ottiene immediatamente l’appuntamento anche per il richiamo, che viene fissato a 3 settimane esatte di distanza, quindi a 21 giorni. Saranno 35.000 i trentini nati prima del 31 gennaio 1941 che verranno vaccinati in questi mesi e a loro seguiranno le maestre, in primis quelle che lavoro nei nidi d’infanzia e nelle scuole materne. Sono aumentati infatti i casi di Covid-19 nella fascia 0-6, dove i più piccoli non sono tenuti a indossare la mascherina vista la tenera età e dove le insegnanti sono a stretto contatto con raffreddori, tosse e malanni di stagione, che a volte celano dietro di sé il terribile virus. A quest’ultima categoria verrà proposto il vaccino Astrazeneca che è consigliato per persone al di sotto dei
65 anni (anche se AIFA ne raccomanda l’uso al di sotto dei 55 anni) e prive di patologie. Qualcuno lo ha ribattezzato il “vaccino all’acqua di rose” perché in realtà questa tipologia mostra un’efficacia che non supera il 60% e quindi garantisce una copertura decisamente inferiore rispetto ai vaccini Pfizer e Moderna che raggiungono il 95%. C’è chi è scettico su qualsiasi vaccino, a prescindere dalla copertura garantita; chi sostiene che in pochi mesi non sia possibile creare in laboratorio, sperimentare e testare sufficientemente un vaccino. In realtà il mondo in cui viviamo corre ormai a mille all’ora e sforna ogni giorno novità, io non credo ci sia da stupirsi se anche la scienza e la medicina hanno messo il turbo. Onestamente poi, visto come stanno andando le cose, preferisco di gran lunga vaccinarmi, piuttosto che vivere una vita in lockdown mandando in rovina l’economia e spingendo le persone sull’orlo della follia. Io nonostante tutto sono ancora ottimista e mi auguro che possiamo uscire presto da questo terribile pantano, che ci sta privando della nostra libertà, della cultura e delle bellezze che ci circondano. Il vaccino lo vedo come il male minore, per ottenere un bene supe-
riore e generalizzato che influisce su coloro che ci circondano, perché la nostra vita è fatta di comunità e socialità, anche se in questo periodo rischiamo di scordarcelo. In questo periodo i discorsi spesso degenerano e si rischia di prendersela con chiunque a prescindere perché tutti sono ormai stufi di questa situazione pesante che ci opprime ormai da un anno. Speriamo si possa presto vedere la luce in fondo al tunnel della pandemia e ci auguriamo che con le belle giornate primaverili, gli umori possano risollevarsi e i casi di positività diradarsi sempre più…se poi sparissero definitivamente, sarebbe proprio un’immensa liberazione. Il motto più sentito in questo momento è sicuramente questo: “Libera nos a malo” (dalla nota preghiera del Padre nostro, prendendo in prestito il titolo del saggio del vicentino Luigi Meneghello o più recentemente ascoltando la canzone di Luciano Ligabue, a voi la scelta).
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Il passato in cronaca di Waimer Perinelli
Quando Martin Lutero fu a Trento Martin Lutero fu a Trento in incognito durante la sessione di apertura del Concilio. Questa è una fake news, un'affermazione affascinante ma non suffragata da alcuno scritto o ricerca storca. A raccontarla è invece una leggenda popolare composta da più vicende intersecantesi, utile nella narrazione degli eventi e, come vedremo alla volontà contro riformatrice della Chiesa. Una notizia raccolta anche dalla rivista Tridentum del 1910 e raccontatami cinquant'anni fa da un amico cultore di tradizioni popolari.
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gombriamo subito il campo dall’idea che storicamente Lutero fosse a Trento nel 1545. Il monaco, presbitero agostiniano, nato ad Eisleben nel 1483, se passò da Trento nel suo viaggio a Roma dove fu inviato nel 1510 per alcune questioni inerenti il suo ordine religioso, non ne fu particolarmente colpito. Nulla è riportato nei suoi scritti dove naturalmente si parla della città eterna della cui vita, scrivono alcune fonti, non fu scandalizzato. Fu invece colpito dalla bellezza architettonica, dal fervore artistico. Dobbiamo pensare che si stava progettando la grande Basilica di San Pietro con architetti del valore di Raffaello e Michelangelo. Narra una leggenda che egli fosse colpito invece dalla santità tanto da prostrarsi in ginocchio in piazza del 30
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Popolo esclamando «Salve Roma santa, città di martiri, santificata dal sangue che essi vi hanno sparso». Nulla faceva presagire quanto sarebbe successo solo sette anni dopo quando, forse influenzato dalla vendita delle indulgenze praticata da papa Giulio II (che commissionò a Michelangelo il Mosè) e Leone X, elaborò e pubblicò le 95 tesi della Riforma per le quali venne scomunicato nel 1521. Roma era lontana, ma entriamo nella leggenda e allora lo troviamo in incognito per osservare i padri della Controriforma. La Rivista Tridentum 1910 scrive che a Rovereto una vecchia, originaria di Pinè, “..gran raccontatrice di favole, sosteneva che Martin Lutero fu a Trento (nel 1545 ndr) e che inutilmente i padri del Concilio cercarono di convertirlo....Il grande monaco
sostenne con calore la disputa e uscendo dal duomo, per allontanarsi protetto dal salvacondotto dell’imperatore, tracciò sul pavimento con un dito bagnato nell’acqua benedetta le sigle misteriose: M M M M P P P P che furono spiegate come mai muterò mente mia-piuttosto patirò pene perpetue.” Capita nella storia che uno scritto o più documenti finiscano per contrastare o confermare una tesi. La regola vale anche per le leggende, purché rimangano tali e non si voglia trasformarle in fatti realmente accaduti. E così troviamo un racconto molto simile a quello appena riportato, un po’ più ricco di particolari, così come la fantasia popolare ama fare. Si racconta di un mendicante proveniente dal nord Europa con il capo
Il passato in cronaca coperto da un mantello nero ed un grande cappello a larghe tese dello stesso colore. Sarebbe stato proprio Martin Lutero arrivato a Trento nel 1545, con l’interesse di ascoltare in incognito le sessioni, respirare l’aria che tirava nelle strade, vedere quali prelati e imperatori fossero presenti. Alcune persone, infatti, avrebbero riconosciuto nel medicante proprio Lutero. Un’altra storia popolare vuole che Lutero, arrivato alle porte della città, chiedesse informazioni ad una vecchietta e che questa, non avendolo riconosciuto, lo diffidasse comunque dall’entrare in Trento dove, nella chiesa di Santa Maria Maggiore (costruita per volontà del principe vescovo Bernardo Clesio fra il 1520 ed il 1524) era pronto un pentolone di olio bollente nel quale l’eretico sarebbe stato fritto. Naturalmente Lutero se la dette a gambe levate. E qui compare il personaggio della vecchietta che naturalmente non è quella della prima leggenda. Ma, ed è più importante, la vicenda cambia palcoscenico, dal Duomo a Santa Maria Maggiore che storicamente fu sede di alcune sessioni conciliari fra il 1562 ed il 63. E proprio in questo Santuario si svolge, secondo la leggenda un altro atto della presenza di Lutero a Trento. Secondo questa versione
Chiesa di S. Maria Maggiore a Trento- da Visit Trentino
l’eretico entrò proprio nella basilica e si nascose in un confessionale ascoltando segretamente i padri del Concilio. Appena possibile fuggì non senza lasciare un segno del proprio passaggio. Fu infatti rinvenuta una scritta composta da sette M misteriose, messe a forma di piramide. La scritta fu interpretata così: “Maledetto Madruzzo, Martino Mai Muterà, Meglio Morire” dove Madruzzo era il Cardinale principe vescovo a cui spettò concludere il Concilio. Lo scandalo fu enorme: venne celebrata una messa per esorcizzare i segni della maledizione di Lutero e la scritta fu immediatamente cancellata. Nelle due versioni abbiamo trovato la vecchietta e la scritta, ma esiste una terza leggenda che potremmo ricondurre, con la stessa fantasia di cui è ricca la volontà popolare, a Lutero o comunque al momento magico o miracolo di Trento. La storia si lega al Crocifisso di fattura tardogotica che si trova nel Duomo. Un crocifisso scolpito dal tedesco Sixstus Frei di Noriberga, dopo il 1511, ritenuto miracoloso e chiamato “del Concilio”. La leggenda
racconta che “ al tempo che stava per concludersi il Concilio quando a Palazzo Lodron in via Calepina, si presentò un vecchio mendico che ottenne dai pietosi conti decente ricovero. La mattina i famigli aprendo la sua stanza trovarono il misterioso mendicante scomparso ed in sua vece un enorme crocifisso illuminato da quattro enormi ceri. Si gridò al miracolo, vennero i padri del Concilio, levarono la croce e a portarono trionfalmente in duomo. Fu davanti quel crocifisso che si proclamarono gli articoli di fede. E avvenne un altro strepitoso miracolo. Dopo che i padri ebbero letta la formula solenne di chiusura fu visto il capo del Cristo crocifisso chinarsi lentamente. Fu l’atto del divino assenso.” Nessuno ha identificato il misterioso mendicante in Lutero (che secondo le precedenti leggende si aggirava misteriosamente per le vie di Trento) qui la fede o credulità popolare preferisce attribuire l’evento ad un miracolo operato da un angelo o forse........ Sicuramente il racconto non è la cronaca di fatti accaduti ma di notizie falsificate: le fake news dei nostri antenati.
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Erri De Luca:
quel peso che può essere salvezza Erri De Luca nasce con il mare negli occhi, nella Napoli affamata degli anni ’50. Nonostante la sua origine, De Luca è anche un montanaro, un alpinista, uno scalatore instancabile; è muratore, camionista, volontario in zone di guerra; è autodidatta, ricercatore e traduttore di lingue antiche. Ogni esperienza della sua ricca vita non ha escluso le altre, creando un bagaglio quantomai variegato che ci regala oggi l’inconfondibile poesia che scorre dalla sua penna.
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ubblica il suo primo libro Non ora, non qui, a quarant’anni e ne viene subito riconosciuto il valore dalla critica. È difficile raccontare di cosa narra, poiché quello che scrive riflette, in qualche modo, la sua vita. Eppure è altrettanto difficile non riconoscere la sua voce tra le righe dei suoi libri. Libri brevi, potrebbe sembrare: io preferisco definirli essenziali. Non c’è sempre bisogno di scrivere molto per dire quello che serve. Quella di De Luca è una brevità densa, che raccogliendo dal proprio bagaglio una manciata di vita vera, la sparge come fosse semenza, facendo crescere racconti che diventano LOGO DI ART & WOOD immagini vivide. De Luca è artigiano, è contadino, è forse, prima di tutto, Logo ART&WOOD osservatore. Non c’è narrazione in lui FONT: Fiker Futura Regular &: Abadi MT Condensed Extra Bold che non sia contenitore di nuove stoEllisse verde: Dry Brush 2. CMYK: 64, 0, 100, 0. rie.DryÈBrush una narrazione lineare e pulita, Ellisse arancione: 2. CMYK: 9, 64,100,1. Linee di contorno da adattare alla grandezza del logo stesso. che spesso anticipa ciò che sarà, senza troppe sorprese. Tuttavia le pagine scorrono, e a tenerci col fiato sospeso sono bellezza e precisione delle Logo in negativo. parole. Sono parole che rimangono Da usare su tutti gli sfondi colorati che non siano arancione e/o verde.
NB: da valutare SEMPRE se la resa diventa migliore nel caso in cui i cerchi vengano come sotto, quindi BIANCHI.
in testa e ci costringono a pensare. Sono parole che ingrandiscono un pensiero, parole che si fanno spazio in silenzio, parole capaci di trovare posto nella quotidianità. D’altronde De Luca è maestro indiscusso nel trasformare in poesia la vita di tutti i giorni, e nel cantarla in modo semplice ma estremamente vero. Non c’è finzione, non c’è necessità di farlo, c’è solo desiderio di includere nel raccontare l’esperienza di un singolo che diventa esperienza di tutti. Tra i suoi racconti più belli va senza dubbio ricordato Il peso della farfalla. Si dispiega qui con estrema cura e delicatezza la storia più antica del mondo: quella tra l’uomo e la natura. Più che una storia è una lotta che difficilmente trova una risoluzione netta. De Luca dipinge per noi la figura del re dei camosci: un solitario, cresciuto da solo, che si è guadagnato il suo posto in silenzio, conquistando ammirazione e rispetto da tutti gli animali. Lo stesso rispetto viene portato dal bracconiere che lo insegue da tutta la vita: sembra paradossale che un bracconiere porti rispetto per la sua vittima, eppure in qualche
modo è così. Sono entrambi vecchi, stanchi; si sono osservati e aspettati da sempre. La tensione è evidente, cresce fino a sovrastare il controllo del bracconiere. Uccidere il camoscio è il suo ultimo desiderio, la sua conferma di essere il vero re. Il camoscio è evidentemente più forte, eppure, il suo istinto naturale gli impone di soccombere. Il bracconiere vince, ma percepisce immediatamente che in questa morte non può esserci una vera vittoria. Così si carica in spalle l’eterno rivale ormai senza vita, e improvvisamente sembra incapace di reggere quel peso. Quel peso fisico diventa peso mentale, peso di un continuo rincorrere, di un cercare di essere superiore che non porta a nulla, peso della natura che ancora sfidiamo, illusi di poter davvero vincere. Le gambe del bracconiere tremano, eppure non riescono a muoversi. Una farfalla bianca, candida, si posa sulle corna del camoscio, naturalmente, quasi senza peso. Eppure è proprio la delicatezza di quelle ali la goccia che fa traboccare il vaso. Il bracconiere cede, crolla, non ce la fa più. È davvero una sconfitta? O è solo natura? Quel peso impercettibile ma decisivo che può sembrare un fallimento, spesso diventa liberazione e nuova vita… Forse finalmente più leggera.
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Es: nel caso scegliessi uno sfondo viola, io lascerei i cerchi
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Le arti marziali di Patrizia Rapposelli
Judo storia e sport dalla tradizione alla modernità
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Hanno fatto parlare di sé, nella tradizione e nella modernità, hanno affascinato, incuriosito e fatto discutere: le arti marziali. Pratiche fisiche e mentali che conservano un patrimonio culturale immateriale di una nazione. Negli ultimi mille cinquecento anni se ne sono sviluppate una moltitudine e generalmente le prime a cui si pensano risalgono all’Asia Orientale. Storicamente utilizzate come mezzo di difesa e attacco in tempi di guerriglia, si sono poi impregnate di principi tecnici, estetici e morali, mentre nei tempi moderni hanno assunto un valore educativo, fisico e culturale. La maggior parte delle arti marziali sono oggi divenute sport alle quali viene data un’enfasi sull’educazione della mente. Quella probabilmente più famosa in Occidente è la disciplina del Judo, considerata dal Comitato Olimpico Internazionale uno tra gli sport più completi fisicamente e psicologicamente. Vediamolo da vicino.
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a storia del judo è la trasformazione di un’arte marziale in sport moderno. Gli inizi sono legati alla tradizione giapponese della lotta. Per capirla si deve fare un passo indietro. Judo deriva dal Jujitsu e quest’ultimo dai combattimenti samurai. Nel Giappone medievale 1129-1603 con lo stabilizzarsi del governo militare, periodo molto combattuto, nacquero le caste privilegiate e specializzate dei guerrieri. In questo periodo si sviluppa il Bujutsu, un sistema di combattimento creato per la protezione individuale; il guerriero doveva essere efficacie sul campo di battaglia. Tra il 1603 e il 1868 periodo Edo, si ha un momento di pace, stabilità sociale e politica. Il progredire dei tempi e delle tecnologie fa superare l’utilità del combattimento individuale, ma il patrimonio culturale frutto
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dell’esperienza dei samurai non decade, anzi si evolve, si stilizza, si spiritualizza, sottolineando i principi etici e educativi. I maestri del Bujutsu, disposti in tal modo, iniziano a parlare di “Budo”, la via del guerJigoro Kano con 2 allievi - da KuSakura riero. Nasce il Jujitsu, un’arte che assume ha un cambiamento nelle pratiche di un’educazione orientata al principio combattimento, il Giappone è nell’era della non resistenza, delle proiezioMeiji. In questo tempo né l’arte marni e del controllo, ma è ancora una ziale, né la cultura tradizionale hanno pratica violenta. Tra il 1866 e il 1869 si il favore del popolo; da una parte la
Le arti marziali violenza del passato, dall’altra il suo utilizzo nelle sale da gioco o nelle liti. In questo contesto emerge la figura di Jigoro Kano, nato a Mikage nel 1860, fondatore del Judo, dedicò la sua vita all’educazione della gioventù della nazione, combinò tradizione e modernità, con il progresso dell’individuo al servizio della comunità. Figlio di buona famiglia, segue una formazione classica, vivace intellettualmente mostra gracilità e fragilità. Decide allora di studiare Jujitsu, l’arte che si dedicava ad aiutare il debole a sconfiggere il forte. Era ineccepibile per un ragazzo della sua condizione sociale esercitare una pratica così violenta. Dopo aver cambiato diversi maestri, iniziò a concentrarsi sulla dimensione spirituale e a studiare da solo i movimenti. Così nel 1882 creò una scuola privata di preparazione e diede vita ad un Dojo tutto suo di nome Kodokan << Luogo in cui si studia la via>>. Così sullo sfondo dello storico periodo Meiji in Giappone ebbe inizio il metodo denominato
Kodokan Judo. Nel 1895 stabilì il << GOKYO>>, metodo di insegnamento che verrà revisionato nel 1920. Jigoro Kano viaggiò molto allo scopo di diffondere il Judo Kodokan che soppiantò il vecchio Jujitsu. Oggi, dalla tradizione alla modernità Judo è filosofia di vita, trasmissione di valore e disciplina quale era per i guerrieri. Disciplina sportiva, preparazione fisica e mentale. Conoscenza tecnica e mezzo formativo. Judo è educante e socializzante. È << via della flessibilità>>, non più solo un’educazione orientata verso il corpo secondo il principio della non resistenza, ma un’arte che mette al centro il “Do” <<la via>>. L’obiettivo diventa migliorare sé stessi. Una pratica guidata dai principi, che responsabilizzano e insegnano il rispetto reciproco, che onora i fondamenti filosofici, migliora l’autonomia, l’autocontrollo e l’apprendimento della realtà. La sua filosofia si basa sul principio delle tre culture: acquisizione di conoscenze, educazione morale, sviluppo del corpo
attraverso la pratica. Judo insegna a trovare un equilibrio tra mente, corpo e spirito, in egual modo armonia tra intelletto, fisicità e moralità. Kano stabilì fosse necessario esplicitare il grado del praticante, il passaggio ad una classe superiore dipendeva e dipende tutt’oggi da un esame che valuta tecnica, conoscenza, condotta etica e morale. Esiste una divisione tra “mudansha”, i non portatori di Dan, e gli “judansha”, i portatori di Dan. I Dan sono 12 e il passaggio al primo Dan sta ad indicare l’inizio di un nuovo cammino di crescita personale, più cosciente e avviato all’insegnamento della pratica stessa. A Jigoro Kano dopo la sua morte venne consegnato il dodicesimo Dan; da allora l’undicesimo rimase vuoto, ad indicare l’abisso incolmabile tra Kano e gli altri praticanti. Jigoro Kano morì nel 1938 lasciando un patrimonio tradizionale, filosofico e sportivo indelebile per quest’arte. Judo, disciplinato e amministrato dalla federazione FIJILKAM, è diventato sport ufficiale alle Olimpiadi di Tokyo 1964 e oggi è sport moderno praticato in tutto il mondo. EZIO GAMBA Nato a Brescia nel 1958, vincitore di una medaglia d’oro (1980 – Mosca) e una d’argento (1984 – Los Angeles) nei 71 kg ai Giochi Olimpici); di due medaglie d’argento (1979 e 1983) ai campionati mondiali; di una medaglia d’oro (1982) due d’argento (1979 e 1983) e una di bronzo ai campionati europei; di due medaglie d’oro (1983 e 1987), una d’argento (1979) e una di bronzo (1975) ai Giochi del Mediterraneo; di due medaglie d’oro (1976 e 1978) ai campionati mondiali militari. Medaglia d’Onore al Merito Sportivo. Nel 2009 si trasferisce in Russia, dove è allenatore della nazionale di judo;[5] nel 2010 insignito del premio di miglior allenatore europeo dell’anno. Il Presidente Putin gli ha concesso la cittadinanza onoraria russa.
Ezio Gamba, il primo oro olimpico del Judo azzurro
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Scuola, società e Covid di Veronica Gianello
Un anno in
DAD
cosa abbiamo imparato e cosa continuiamo a sbagliare
Anche se magari non ne abbiamo una percezione reale, è già un anno che rincorriamo in affanno questo tempo ballerino. Riaggiustarsi, reinventarsi, reinserirsi regolarsi: cambiamenti necessari per non rimanere indietro. Allo stesso modo dei singoli individui, delle aziende, delle famiglie, si è dovuto ripensare anche alla scuola.
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l distance learning, l’e-learning, l’homeschooling sono tutte pratiche quotidiane in paesi come gli Stati Uniti, e tutte dignitosamente riconosciute fin dagli anni ‘70. Noi invece, da buoni italiani, ci siamo appropriati di queste modalità d’insegnamento/apprendimento senza analizzarle, buttandole all’interno del nostro sistema scolastico senza curarci del come e senza includerlo organicamente all’interno del nostro modo di fare scuola. Che ciò sarebbe diventato un problema è stato chiaro fin da subito: nessuno si è preso la briga di introdurre questa DAD, la ‘didattica a distanza’. Non una legge, non un decreto, nemmeno una Ministra a sostenerla con forza a livello nazionale. Non è stato tracciato un percorso coerente. I Dirigenti scolastici sono stati invitati a muoversi in maniera autonoma, in quanto ‘comandanti della nave’, come li definì la stessa Azzolina. Un atteggiamento comprensibile forse, e magari anche apprezzabile, dato che comunque siamo stati colti decisamente alla sprovvista. Tuttavia, da lì, nulla è più stato fatto. È iniziato uno scarico di colpe e parole vuote che ha sempre più sminuito la potenza di questo nuovo strumento. È triste sentire ancora sottolineare che
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‘la didattica deve essere in presenza, gli ad olescenti hanno bisogno di stare in classe, di vivere la socialità’. Ma va? I bambini e gli adolescenti, però, hanno anche diritto ad essere sani… e a veder vivere il più a lungo possibile i loro nonni. Allora questo nauseabondo egoismo che punta continuamente il dito ad altre realtà che hanno più libertà, più diritti, più vantaggi di noi nel mezzo di una pandemia che sta mettendo il mondo in ginocchio è un cane che si morde la coda, è uno sterile lamentarsi senza fornire soluzioni. Certo che fanno arrabbiare le ingiustizie, certo che poter andare al centro commerciale e non a scuola è un’ingiustizia. Quindi? Demonizziamo la DAD? No, come ogni cosa, ne dobbiamo cogliere tutto ciò che di positivo può dare. Non nascondiamo la testa sotto la sabbia: non è la DAD a discriminare gli studenti e a sottolineare le differenze e limiti di ognuno; quantomeno non è solo la DAD. C’è chi in questo nuovo modo di lavorare ha trovato nuovi stimoli, chi ha accettato e superato nuove sfide. C’è chi ha sofferto ed è andato in crisi. Ma nella didattica in presenza non succede forse la stessa cosa? Certo, si può copiare, ci sono mille problemi tecnici, il video
Scuola, società e Covid si oscura, le assenze sono coperte dai problemi di connessione… Eppure si lavora. E lavorano anche gli insegnanti, perché loro per primi devono riprogrammare il modo di insegnare e di arrivare ai ragazzi. Lo sostengo da insegnante di scuola secondaria di secondo grado in una grande città: tuttora sto lavorando a settimane alterne in presenza e in DAD, o in modalità mista, ovvero con alcuni studenti in classe e alcuni al computer. Ho alcune lezioni in sede e altre in una succursale a quindici minuti a piedi. Il mercoledì cambio
sede quattro volte. La mattina, spesso, devo partire mezz’ora prima di quanto dovrei perché tante volte devo lasciar passare qualche bus troppo pieno per poter salire. Arrivo a scuola e i ragazzi sono ammassati fuori a gruppi a ridere, a mangiare, a fumare. Chiedo permesso ed entro, senza possibilità di andare in quarantena con alunni positivi in classe, senza urgenza di essere vaccinata. Non mi lamento, ringrazio ogni giorno di avere un lavoro e di avere l’onore di trasmettere, spero, qualcosa a questi ragazzi che si affacciano alla vita. Però quando arrivo a casa la sera e leggo
NUOVA RIVENDITA BOMBOLE
che la ministra Azzolina vuole ‘tornare a trattare la scuola come un’attività produttiva’, che ‘la didattica a distanza non funziona’, che ‘io sto dalla parte dei ragazzi’, mi chiedo se tutti gli sforzi fatti per vivere positivamente le risorse della didattica a distanza abbiano un senso. Mi rispondo sempre di sì, comunque. Mi rispondo di sì perché mentre al cuore dell’istituzione scolastica, al Ministero, giocano a comprare banchi con le rotelle e al toto-rientro in classe, alle periferie, nelle scuole, insegnanti e alunni sono ancora lì, un anno dopo, a quadratini di schermo a urlare ‘Mi sentite?’, a cogliere l’opportunità del nuovo e dell’inaspettato. Magari stufi, ma con fiducia in ciò che il diverso sa portare, perché è la qualità del lavoro quotidiano, nonostante tutto, che rende la scuola un’attività produttiva, sia essa a distanza o in presenza.
- ORARIO dal lunedì al sabato presso il nostro deposito 08.00/12.00 - 15.00/19.00
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Il personaggio di Chiara Paoli
Frida Kahlo la forza del colore
Frida Kahlo Autoritratto con collana di spine - da Artesplorando
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n questo mese di marzo, dedicato alle donne, vorrei raccontarvi la storia di Frida Kahlo, pittrice messicana la cui vita è stata costellata da problemi di salute e grandi delusioni, ma la cui grinta l’ha spinta a guardare sempre avanti, affrontando le difficoltà senza abbattersi. Visto il periodo, credo che questo esempio di resilienza possa ispirare altre persone a cercare di superare gli ostacoli che si presentano sul cammino della nostra vita, rendendolo movimentato. Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderón nacque il 6 luglio del 1907 a Coyoacán in Messico, figlia di Wilhelm, tedesco emigrato in Messico. Suo padre, dopo aver svolto diversi lavori, aprì un proprio studio fotografico, operando per il governo per documentare monumenti, chie-
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se, architetture, strade e industrie. Per molto tempo si è ritenuto che Frida si fosse ammalata di poliomielite all’età di 6 anni, altri ritengono oggi si sia trattato di un’altra patologia e cioè di spina bifida occulta. Rimane il fatto che gamba e piede destro rimasero più esili, da cui ne conseguì un’andatura claudicante; questa deformità la portò ad essere soprannominata “Frida gamba di legno”. Ma lei non si è abbattuta e anzi, per dimostrare di essere come tutti gli altri iniziò ad essere spericolata e ribelle, sempre pronta ad arrampicarsi sugli alberi e a praticare sport; spesso indossava pantaloni e abiti maschili, alternati alle lunghe e colorate gonne messicane che coprivano la sua “diversità”. Frequentò il liceo, nel 1922 si iscrisse alla Escuela Nacional Preparatoria di Città del Messico per diventare
medico, in quel periodo fece parte del gruppo studentesco dei “Los Cachuchas”, che appoggiavano le idee socialiste-nazionaliste di José Vasconcelos. A 18 anni la sua vita cambiò: il 17 settembre 1925, stava viaggiando con il suo ragazzo, Alejandro Gomez, su un autobus che andò a finire contro un tram; lui morì mentre lei rimase gravemente ferita nell’incidente; numerose furono le fratture riportate, la colonna vertebrale si spezzò in tre punti e perse la possibilità di divenire un giorno madre. Dovette affrontare ben 32 operazioni chirurgiche ed è stata costretta a letto per diversi mesi con il busto di gesso. In questo periodo di immobilità, iniziò a dedicarsi quotidianamente alla pittura dipingendo soprattutto autoritratti, grazie all’uso di uno specchio.
Il personaggio Lei stessa disse: “Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio.” Dopo circa due anni ricominciò a camminare e tornò attiva anche politicamente, iscrivendosi nel 1928 al Partito Comunista. In questo periodo conosce il famoso muralista Diego Rivera, che aveva già visto nel 1922 sulle impalcature della Scuola Nazionale Preparatoria, Frida lo andò a cercare per mostragli i suoi lavori e avere così una sua considerazione in merito. Ed è così che tra i due ha inizio una relazione, che li condusse ben presto al matrimonio, il terzo per Diego, nonostante i 20 anni abbondanti di differenza. Frida seguì Diego negli Stati Uniti per le sue commesse artistiche e quindi a New York, dove scoprì di essere in dolce attesa. A gravidanza avanzata avrà il primo aborto spontaneo, il suo gracile fisico non riusciva a reggere una gestazione. Sconvolta Frida ritorna in Messico con il compagno, il cui lavoro era stato aspramente criticato, annullando le commesse U.S.A. La coppia decise di vivere in case separate unite da un ponte, così che
ognuno potesse avere i propri spazi “artistici”. Nel 1936 la coppia sostenne la richiesta di asilo politico di Lev Trockij, concessa l’anno successivo, ma che li vede espulsi dal Partito Comunista Messicano. Dal 1938 la sua attività pittorica si intensificò notevolmente e i suoi quadri divennero “racconti” della sua interiorità e rappresentazioni delle origini e delle tradizioni messicane; è l’anno dell’esposizione newyorkese. L’anno seguente andò a Parigi, dove le venne dedicata una mostra. Qui frequentò gli artisti surrealisti, come Salvador Dalì, traendone spunto per alcune opere, ma ritenendosi sempre al di fuori di questo movimento: “Pensavano che anche io fossi una surrealista, ma non lo sono mai stata. Ho sempre dipinto la mia realtà, non i miei sogni.” La loro storia d’amore fu costellata di tradimenti continui e giunse al tracollo nel 1939, quando Frida scoprì il marito a letto con la sorella Cristina. L’anno seguente, nonostante tutto i due si sposano nuovamente a San Francisco. Frida, d’altronde, lo ripagò con la stessa moneta, intrecciando a sua volta alcune relazioni con personaggi di spicco come il rivoluzionario russo Lev Trotsky, il poeta francese André Breton e la fotografa Tina Modotti. Gli anni ’40 furono costellati dal successo e le sue opere vennero esibite in moltissime mostre collettive messicane. Nel 1943 divenne insegnante nella nuova scuola d’arte della pedagogia popolare e liberale: l’Esmeralda, ma ben presto la sua salute la costringe a tenere le lezioni nella sua casa o per meglio dire in strada, dove si poteva fissare la vita. Nel 1950 subì sette interventi alla colonna vertebrale e passò ben 9 mesi in ospedale. I dolori la affliggevano continuamente e dipende dagli antidolorifici. Nel 1953 venne allestita la sua prima personale
a Città del Messico, dove presenziò stesa in un letto, visto che le era stato proibito di alzarsi. Nell’agosto dello stesso anno, le fu amputata la gamba destra sino al ginocchio a causa di un’infezione in cancrena. L’anno successivo fu colta da polmonite, ma continua a lottare per quello in cui crede, partecipando alla manifestazione contro l’intervento statunitense in Guatemala. Morì per embolia polmonare il 13 luglio, all’età di 47 anni nella sua amata Casa Azul, oggi sede museale a lei dedicata, visitata ogni anno da migliaia di persone. A lei sono dedicate diverse biografie e il film interpretato da Salma Hayek, molte le esposizioni a lei dedicate anche in Italia dopo il 2000, una delle quali attualmente aperta presso la sede della Fabbrica del Vapore a Milano, che è stata prorogata sino al 21 maggio prossimo. Il grande merito di questa artista è quello di aver messo in mostra attraverso le sue opere tutto il suo dolore, le angosce e le preoccupazioni, che rispecchiano quelle di molte altre donne.
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Società oggi di Francesco Zadra
AUSER PERGINE
il volontariato degli anziani che chiama i giovani L’associazione si propone di favorire l’invecchiamento attivo degli anziani e far crescere il ruolo dei senior nella società
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l volontariato non conosce tregua, nemmeno in tempo di pandemia, ed è dal mondo degli anziani che giungono stimoli per studiare nuove iniziative e riorganizzarsi al meglio in attesa che la situazione critica si risolva e si possa riprendere un tenore di vita più sereno e proficuo. «Poco dopo la sua costituzione, nel 2008, Auser Pergine è divenuta Onlus, vedendo riconosciuta la sua attività di solidarietà, socializzazione, e prestazione di servizi, sempre più incisiva nel contesto sociale della nostra città e al di fuori di essa». A presentare l’associazione “per l’invecchiamento attivo” è il suo presidente, Armando Pergher, che fu dall’inizio presidente dei revisori dei conti, e poi vice presidente, impegnato ora
Armando Pergher
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a proseguire sulla strada tracciata da Gino Bernard, primo presidente dal 2008 al 2010, e da Elia Bernardi che gli subentrò sino al maggio 2018 con il supporto della vicepresidente Maria Sartor, pur cercando di incrementare ulteriormente la sua crescita. «Abbiamo una vocazione al volontariato – dice Pergher - che viviamo nei servizi di accompagnamento dei nostri associati, a visite mediche, terapie e altro, nelle varie unità sanitarie del Trentino, studi medici, per il ritiro di medicinali, esiti di esami e altri servizi negli uffici pubblici ed esercizi commerciali, per il ritiro di generi di consumo, servizi di sostegno e collaborazione nelle strutture della Rsa di Pergine “Fondazione Montel”, e con una vita sociale ricca di eventi di socializzazione e solidarietà che ci ha qualificato infine come Associazione di Promozione Sociale, senza che si sia trascurata o limitata l’attività originale». Auser ha un alto indice di partecipazione, con una media annuale sempre superiore ai 300 soci, e in alcuni anni si è raggiunta la quota di 400, e tra gli eventi di socializzazione più ricorrenti, annovera i pranzi sociali, “primaverili” e “autunnali”, in locali caratteristici anche fuori regione, frequenti nel mese di maggio “Le matinée musicali” in collaborazione con la scuola musicale “C. Moser”, i corsi di ballo “Ballando con il cuore” in collaborazione con la Rsa “Fondazione Montel”, le conferenze sulla salute del dottor Lino Beber, i “carnevali”,
padre Beppino, direttore di Maso San Pietro, morto in gennaio
le feste dei nonni e i compleanni, le “domeniche al parco” al parco 3 castagni e a Maso San Pietro, vari incontri sociali in locali a disposizione dell’associazione, e da tre anni a questa parte, soggiorno di 15 giorni in un albergo di Rimini. «Un evento significativo – dice ancora il presidente - è stata la partecipazione numerosa al pranzo di solidarietà organizzato per la raccolta fondi a sostegno della Fondazione Lene-Thun per la realizzazione di progetti a favore dei bambini malati di tumore. Ricordo ancora la manifestazione del settembre 2010 “La Sciarpalonga” con grande partecipazione della cittadinanza e una comparsa nella trasmissione televisiva “Il milionario”». Alcune manifestazioni sono state condivise con altre associazioni,
Società oggi come l’ACS di Canale il Gruppo Alpini e il Gruppo Anziani e Pensionati con i “pranzi sociali di mezza estate”; con CS4 per l’allestimento e la gestione del Centro Crea, e sempre con la Fondazione Montel e la Scuola musicale C. Moser, «trovando sempre – dice ancora Pergher - un sostegno dall’Amministrazione comunale, in particolare per la concessione delle autorizzazioni necessarie per l’utilizzo di spazi pubblici, quali il Parco Tre Castagni e il locale della Vecchia Mensa, e la convenzione in comodato d’uso gratuito di un locale della struttura di Via Canopi da utilizzare come sede per l’associazione. Ricordo poi la disponibilità della Comunità Maso San Pietro con un doveroso riconoscimento al compianto Padre Peppino Taufer nel far fronte all’impossibilità di proseguire l’utilizzo del locale della Mensa per motivi di sicurezza consentendo di fruire in alternativa alcuni locali di quella struttura». Il sogno del presidente sarebbe di riuscire ad aprire le porte dell’associazione ai giovani, e nel 2013 un docente dell’Istituto M. Curie provò a coinvolgere alcuni studenti, ma quell’esperienza non ebbe seguito. «Rimane tuttavia – conclude Pergher - l’intenzione di riprendere in mano quel “non facile” progetto poiché la presenza di una componente giovanile nell’associazione sarebbe importante. Vorremmo creare all’interno una struttura giovanile semiautonoma che collabori con il Comitato direttivo e che si adoperi in attività, cultura, giochi e altri interessi che riescano a mettere insieme giovani e anziani. Padre Beppino avrebbe saputo soccorrermi in tal senso, ma non dispero di poter trovare soluzioni adeguate perché tale sogno si concretizzi».
UN UOVO DI PASQUA PER PIAN DEI FIACCONI L’obiettivo è la ripartenza, la ricostruzione. Lo scorso dicembre 2020 una valanga ha spazzato via il rifugio Pian dei Fiacconi (Canazei) e, insieme ad esso, anche le speranze, la serenità e la quotidianità di Guido Trevisan, il gestore. Ma ora, con la consapevolezza che il percorso sarà lungo e complesso, c’è grande voglia di rinascita. Ed ecco che, per Pasqua, la collaborazione con la gelateria Diciotto Dodici di Pergine Valsugana sarà un altro piccolo tassello in questo senso. Splendide e squisite uova, di dimensioni medie e raffiguranti il mondo (rigorosamente in cioccolato), verranno vendute allo scopo di donare il ricavato proprio alla ricostruzione del rifugio. <<Il 2020 è stato davvero un anno terribile – ha spiegato Guido, - ma ho lanciato diverse raccolte fondi per ricostruire, con pazienza e negli anni, il rifugio di Pian dei Fiacconi. Il primo periodo è stato tutto orientato a sanare i debiti, ora invece puntiamo ad una ripartenza. Ovviamente, sarà una ricostruzione sempre orientata alla sostenibilità e all’attenzione verso l’ambiente, temi sui quali ho sempre puntato molto. Dove? Ancora non lo sappiamo>>. Ecco dunque l’idea nuova e particolare, venuta a Silvia Scola dopo che quest’ultima, acquistando un altro prodotto, aveva notato lo scopo benefico dell’investimento, con una parte del ricavato destinata ad una Onlus. <<Abbiamo perciò pensato di ragionare nello stesso modo – ha aggiunto la titolare della gelateria Diciotto Dodici. - L’uovo che realizzeremo, per tutti coloro che vogliano prenotarlo contattandoci con un po’ di anticipo, conterrà una sorpresa legata al tema della sostenibilità. Il ricavato verrà devoluto a Guido, perché possa ricostruire ciò che ha perso. Invitiamo tutti a partecipare alla causa, gustandosi un uovo non solo bello da vedere, ma anche e soprattutto buono da mangiare!>>. Per prenotare l’uovo di Pasqua (saranno comunque presenti un numero limitato di “esemplari” presso il negozio perginese) basterà rivolgersi alla gelateria di Silvia. (N.M.)
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Il personaggio di Waimer Perinelli
L'uomo che vola con le ali,
IL TURBO E IL VENTO
Vincent (Vince) Reffet 36 anni, morto lo scorso novembre a Dubai, è l'uomo che volava. Vince e aereo erano una cosa sola; attorno al suo corpo, avvolto da una speciale tuta, c'era un'ala al carbonio e agganciati due turbo reattori che gli consentivano di volare, sino a 400 chilometri l'ora, a fianco di un Airbus A380 il più grande aereo passeggeri esistente. Vincent ha portato all'estremo il millenario sogno umano di volare.
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a mitologia ci racconta di Icaro e del padre Dedalo decollati con ali di piume, attaccate al corpo con la cera dall’isola di Creta, per sfuggire a Minosse. La storia centenaria descrive le macchine che Leonardo da Vinci progettava per imitare il volo degli uccelli. La storia più recente narra i voli in mongolfiera e del primo volo con aeromobile a motore più pesante dell’aria. Era il 17 dicembre del 1903, quando i fratelli statunitensi Wilbur e Orville Wrigth fecero decollare il loro Kitty Hawk. Pensate, solo due anni dopo, il signor Lutalto Galetto , nato a Sanguinetto in provincia di Verona, ottiene il brevetto di volo. La sua storia e quella della sua famiglia è una storia del volo fra Veneto e Trentino. Il volo: andata e ritorno. Lutalto con il brevetto conquistato in Francia si trova a pilotare aerei di guerra nel Primo conflitto mondiale e viene decorato con la medaglia d’argento al valore militare e con quella d’oro al valore aeronautico civile consegnatagli al teatro La Scala di Milano. Dopo il conflitto svolse alcune attività in Francia ed Italia e trovò casa e lavoro a Caldonazzo in Alta Valsugana dove impiantò una segheria. Il lavoro non lo distraeva dalla passione di volare che coltivò a lungo contagiando anche il figlio Luciano, oggi 97 anni, che vive nell’area dell’antica
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segheria dismessa. Luciano affascinato dall’entusiasmo del padre, prende il brevetto di volo nel 1949, a soli 24 anni, esercitandosi presso l’aeroporto di Gardolo a nord di Trento. La sua passione lo ha portato a volare con molti tipi di aereo da turismo, ma il suo compagno fedele è stato sempre l’ FL.3, un monomotore da turismo ad ala bassa, costruito dopo la seconda guerra mondiale dalla ditta Lombardi. E’ all’aeroporto di Gardolo e successivamente a quello di Mattarello, che Luciano incontra questo aereo. La sua passione non gli fa trascurare l’attività di famiglia ma dedica al volo ogni momento libero. Giunto a 94 anni rinuncia prudentemente ad ogni brevetto di volo, ma non a volare e decide di praticare a Bolzano il volo a vela con l’aliante. L’ultimo volo lo ha compiuto su questo mezzo leggero con le grandi ali la scorsa primavera decollando dalla pista di Belluno. “ E tornerò a volare la primavera prossima, dice Luciano, perché nell’aria sto bene”. E nell’aria la famiglia Galetto ha trovato il proprio elemento naturale. Giorgio Galetto, pilota della terza generazione, seguendo giovanissimo il padre nei diversi aeroporti, è stato fulminato dall’aliante, un aeromobile più pesante dell’aria, normalmente senza motore, che si sostiene in volo grazie alla reazione dinamica dell’aria
Lutalto Galetto
Lutalto Galetto in aereo
Il personaggio
Giorgio Galetto
contro le superfici alari. La passione dell’aria ha dato a Giorgio grandi soddisfazioni e la conquista di due titoli mondiali nel 1999 e nel 2011. Grazie ai successi mondiali Giorgio ha rinnovato l’impresa del nonno con la decorazione, al Teatro La Scala di Milano, con la medaglia d’oro al valore aeronautico civile. Dalla Francia dove il nonno Lutalto decollava nel 1905 a Belluno dove decolla oggi il padre a Tiene dove Giorgio ha trovato una valida squadra pur portando nel cuore il Trentino e in particolare Caldonazzo dove è nato nel 1957. Oggi a 63 anni, appare soddisfatto ma preoccupato per le alte velocità raggiunte anche dagli alianti apparentemente delicati e leggeri come farfalle. “Un aliante oggi può raggiungere i 300 chilometri all’ora, dice Giorgio, solo 50 anni fa volavano a 150. A renderli così veloci sono i nuovi profili al carbonio e
Luciano e Giorgio al simulatore
la possibilità di sfruttare all’inverosimile favorevoli condizioni termiche. Si può passare velocemente da una termica all’altra e la reazione dell’aria sembra a volte un vero e proprio calcio al fondoschiena”. La velocità sembra essere il mito del futuro. In formula uno si corre a 320 chilometri all’ora e perfino sull’acqua le barche di nuova concezione, con grandi vele e carena planante, capaci di sollevarsi dallo specchio liquido e, perciò prive di attrito, raggiungono anche i 50 nodi. La velocità è tuttavia il pericolo più grande in terra, acqua e cielo. Ne è la prova proprio l’incidente mortale occorso a Vincet Reffet. Non
Giorgio e Chiara
è ancora chiara la causa dell’incidente, certo è che l’uomo alato, nato ad Annecy in Francia, volava grazie a quattro propulsori in grado di farlo viaggiare per 50 chilometri alla velocità di 400 chilometri/ora. Per chi ama le statistiche sarà bene sottolineare che il carburante necessario per un’ora di volo varia fra 35 e 60 litri e che dunque il problema oltre alla velocità è quello di trasportare combustibile necessario per almeno una decina di minuti di volo. Poi il pilota deve aprire il paracadute per atterrare sui propri piedi. Vincent ricordava in una recente intervista di essersi lanciato con il paracadute a soli 15 anni poi nel novembre del 2015 a trent’anni, si era lanciato da un elicottero a 1220 metri di altezza affiancando con l’ala al carbonio, tuta e turbo razzi l’airbus A380. Il suo impegno nel deserto degli Emirati Arabi rientrava in un progetto più ampio, per uomini razzo, voluto e coordinato da Hamdan Bin Mohammed Bin Rashidal Maktoum 37 anni,, erede al trono di Dubai e suo estimatore.. “Far volare il mio corpo è ciò che amo, aveva dichiarato Vincent Reffet poco prima di morire, con quest’ala posso volare come un uccello”.
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Società oggi: CHALLENGES MORTALI di Nicola Maschio
I RISCHI ONLINE che mettono
in PERICOLO i PIÙ PICCOLI
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nternet ha rappresentato, per tutti noi, un’enorme rivoluzione. Si è aperto un vero e proprio nuovo mondo fatto di notizie, immagini, video e social network. Ma anche pericoli. Più di quanti si possano immaginare. Un triste fenomeno su tutti si è diffuso in questi ultimi anni: quello dei giochi online. Tra l’altro, va detto, definirli “giochi” è fuori luogo. Potremmo etichettarli come “sfide”? Forse. Ad ogni modo, qualsiasi termine si decida di utilizzare per descriverli, ciò che è innegabile è la loro grandissima pericolosità. Sul web, ad esempio, vengono definite “Challanges mortali”. Partiamo da quella probabilmente più famosa, la trappola della Balena Blu, più comunemente nota come “Blue Whale”. Ideata dal 22enne russo Philipp Budeikin, studente di psicologia arrestato nel 2017, la sfida comportava una serie di passaggi e di ordini dati dal “curatore” (in questo caso, appunto, il giovane Budeikin) sempre più inquietanti. In un primo momento qualche taglio sulle braccia, poi la visione di video dell’orrore nelle ore notturne. Piccole azioni, ma sinonime dell’inizio della fine. Si perché questa sfida, terminati tutti gli ordini del curatore, portava le persone al suicidio. Nello specifico, all’interno della lunga lista di ordini (50 in tutto, uno al giorno) alcuni erano volti a “preparare” la persona all’atto finale: si doveva per prima cosa scegliere un edificio molto alto, poi salire sul tetto di quest’ultimo, sporgersi leggermente, fino ad arrivare agli ultimi ordini i quali, in modo del tutto surreale, portavano la vittima ad accettare il
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giorno e l’ora della propria morte, stabilite dal curatore. E quel giorno, dopo altre sfide dell’orrore, la “balena” (così erano chiamati i partecipanti al gioco) doveva lanciarsi dal tetto di un edificio. Unitamente a ciò, il soggetto passava giornate intere senza parlare con nessuno, isolandosi dal mondo, procurandosi un dolore sempre maggiore, fino a togliersi definitivamente la vita. Una spirale discendente di orrori, da lasciare basiti ma, soprattutto, increduli nel pensare che qualcuno abbia davvero deciso di seguire tutti questi terribili passaggi. Leggere le testimonianze di chi è riuscito ad interrompere il gioco, ma anche osservare i video di coloro che hanno deciso di togliersi la vita, fa rabbrividire. Ma non è tutto, perché a questa tragica sfida ne sono seguite altre. Molte altre. Le vittime, per la maggior parte, sono state giovani con problemi famigliari alle spalle, che necessitavano di attenzione o con gravi complicazioni relazionali. Pensiamo ad esempio alla Fire Challenge, sfida nata e praticata soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito, che portava i ragazzi a cospargersi di liquido infiam-
mabile e darsi fuoco, rigorosamente filmati dalla propria videocamera. Ancora, va citata la Momo Challenge, con la comparsa di una spaventosa maschera all’interno di video per bambini: il personaggio in questione, per l’appunto Momo, diceva al telespettatore cosa fare per procurarsi dolore fisico, ferendosi e facendosi del male. Fortunatamente, nonostante la paura che anche questo nuovo fenomeno si diffondesse a macchia di leopardo per tutto il globo, i casi di denunce e gli episodi di autolesionismo sono stati pochi. Scampato pericolo? Per nulla. Ultimo episodio in ordine cronologico è stato quello di Johnatan Galindo, personaggio immaginario apparso nella celebre app Tik Tok. Un uomo con la maschera da cane, simile al Pippo dei cartoni animati, che incita alla violenza gli spettatori più piccoli. Anche in questo caso, correndo velocemente ai ripari, si è riusciti ad interrompere il fenomeno sul nascere. Ma i problemi restano e, oggi più che mai visto che spesso siamo costretti a casa, occorre monitorare con cura le attenzioni che i più piccoli riservano al vasto mondo del web.
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Girovagando tra i libri di Francesco Zadra
Le “parrocchie da incubo” non sopravvivranno al Covid Sarà che negli ultimi anni il format televisivo “cucine da incubo”, creazione dell’irascibile chef britannico Gordon Ramsay, è approdato nelle emittenti di mezzo pianeta, con un “da incubo” di tutti i tipi, cucine, ristoranti, case e perfino hotel, ma con l’imperversare della pandemia è diventato più facile leggere la realtà come un incubo dal quale risvegliarsi al più presto. Un risveglio che non sarà privo di conseguenze, e che un parroco di recente ha preconizzato in una omelia con «la Chiesa uscirà da questo tempo con le ossa rotte».
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embra che l’inganno dell’autosufficienza sia giunto per tutti a un punto irreversibile, tanto da bruciare l’anima facendone una terra arida e deserta; sarà forse però un’opportunità per una riforma di quelle “parrocchie da incubo” che il veronese Andrea Brugnoli, laurea in filosofia alla Gregoriana, fondatore di un progetto di evangelizzazione esportato in tutto il mondo, dalla Spagna a Taiwan, nonché tra i responsabili, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, del dicastero per l’educazione cattolica, aveva trattato in uno scritto di qualche anno fa, edito da “Fede & Cultura”, nel quale puntava il dito contro le piaghe che affliggono da decenni le parrocchie “d’ogni clima e d’ogni terra”. In tempi non sospetti, sognava «una Chiesa – dice Brugnoli – tutta protesa a formare evangelizzatori. Dove tu vai a Messa una domenica e senti un’aria di famiglia; e quelli che sono nuovi, lì per la prima volta, vengono accolti con un bel sorriso e comprendono subito che quella può essere la loro casa». Ora il sorriso, per via delle mascherine, si legge negli occhi di chi ti accoglie, ma il decoro esteriore rimane importante. «Non siamo fatti
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di puro spirito – spiega – ma di carne, di colori, di odori, di gusti», e l’occhio continua a volere la sua parte, come sembrano riconoscere gli stessi vescovi che con un decreto della Cei hanno concesso, dal 14 febbraio scorso, San Valentino, il segno della pace con uno scambio di sguardi. Basta alle chiese simil-sovietiche in cemento armato, bacheche in disordine, e foglietti domenicali graficamente orrendi, basta «sciatteria, improvvisazione e canzoni pop di quart’ordine», Brugnoli rivuole il fascino di quei coloratissimi mosaici, le sublimi composizioni musicali, e le luminosissime vetrate gotiche che per secoli hanno riempito il cuore dei cristiani, mentre ora le presenze domenicali, lockdown a parte, sono in caduta libera. Ma ogni nuova proposta, e il testo di Brugnoli ne è una miniera, dovrà essere adattata al contesto per non risultare controproducente, attenti sempre a non “gettare via il bambino con l’acqua sporca”. Attenzione: il manuale farà storcere il naso a chi, nella Chiesa, vive con gli occhi
foderati di prosciutto ideologico: dai progressisti sessantottini fino ai più incalliti tradizionalisti, per non parlare dei tanti don Abbondio, né carne né pesce. Ma se riuscirà a trasmettere anche a una sola persona la “vision” ne sarà valsa la pena. Perché ormai, come conclude l’autore: o si cambia o si muore.
Borgo Valsugana in cronaca di Massimo Dalledonne
I nostri migliori cittadini
È
il nuovo libro di don Armando Costa. All’età di 94 anni, compiuti nel mese di gennaio, il prelato, originario di Borgo Valsugana, ha dato alle stampe l’ennesimo lavoro dedicato alla sua comunità. All’amato Borgo. Come scrive nella prefazione “un contributo per l’arricchimento della memoria storica, senza la quale una comunità rischia di perdere il senso profondo della propria identità culturale e civile”. Ha scelto un titolo solenne, aulico: Cives Burgi Ausugi memoria digni. In ricordo dei cittadini degni di Borgo Valsugana. Il volume è stato edito dal comune di Borgo con il contributo della Cassa Rurale Valsugana e Tesino e della Pro Loco di Borgo. “Amare il Borgo significa esserne validi testimoni, responsabili dell’ieri, dell’oggi e del domani ed in questo libro – scrive il sindaco Enrico Galvan nel suo intervento di presentazione – si parla di uomini e donne che, per meriti diversi, si sono ritagliati un posto indelebile nella storia. Chi dal Borgo è partito per raggiungere traguardi importanti, chi nel Borgo ha messo radici e lasciato un segno indelebile”. Un libro e, nel contempo, un vero e proprio manuale ideale di educazione civica. Così lo ha definito l’amico ed appassionato storico Giordano Balzani, in occasione della presenta-
zione avvenuta in municipio a Borgo. Poco meno di 500 pagine, tantissimo testo. Una sola foto. In quinta di copertina, quella del fratello di don Costa, padre Cornelio, alla cui memoria è dedicato il volume. Con il sindaco e l’assessore alla cultura Mariaelena Segnana, erano presenti anche i presidenti della Cassa Rurale Arnaldo Dandrea e della Pro Loco Anna Passerella. Ancora l’autore. “La memoria storica non è solo una semplice rimembranza. È scuola di vita e la comunità civica ha il dovere di mantenere viva e riproporre la memoria di persone che si sono distinte nei campi della cultura, della scienza, della pietà così come nell’attività sociale e caritativa. Rendendo il nome del Borgo – conclude – conosciuto, apprezzato, onorato e amato”. Un volume dove trovano posto ben 123 ritratti di altrettanti personaggi che, noti e meno noti, hanno vissuto e fatto vivere la comunità dal ‘500 ad oggi. Ritratti asciutti, essenziali per raccontare e non dimenticare tanti uomini e donne degni di essere ricordati. Accanto a nomi famosi e conosciuti come quelli di Alcide Degasperi, la moglie Francesca, Pietro Romani, Francesco Ambrosi e
tanti altri compaiono ex sindaci ed amministratori, rappresentanti delle famiglie nobili del paese come i Ceschi e gli Hippoliti. Non mancano i Fiorentini, i Dordi, gli Ambrosi così come diversi sacerdoti, tra cui don Cesare Refatti, e religiose. Ci sono anche sedici donne. Maria Margherita Rigo Armellini, Teresina Battisti, Erminia Bruni Menin, Virginia Bonomo Ceschi di Santa Croce, Francesca Cipolla, Anna Divina (suor Giuditta), Giovanna Erica Klien, Maria Moggio (suor Giovanna), Maria Orsola Maichelpech Bellesini, Marcella Paternolli, Carla Orsingher, Giulia Rigo (suor Agostina), Francesca Romani Degasperi, Lorenzina Rosso, Maria Tomasi e Jolanda Zortea. “Come dicono i francesi, questo è un libro da comodino – ha ricordato nella sua presentazione Balzani – da leggere pagina dopo pagina lasciandosi trasportare dai ricordi e dalla fantasia. Uno scrigno ricco di memoria storica – prosegue l’assessore Mariaelena Segnana – dove, pagina dopo pagina, si scopre quanto il Borgo sia stato prolifico di talenti e la consapevolezza del nostro diritto ad esserne fieri”. Un vero e proprio manuale ideale di educazione civica”. Ancora don Costa. “Oggi c’è la smania di fare terra bruciata del passato, anche di quello recente. Tutto deve essere news che dura un’ora, un giorno o poco più. C’è allergia per ciò che ci ricorda le radici e la storia”. Cives Burgi Ausugi memoria digni è dedicata alla borghesanità. Un manuale ideale di educazione civica.
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Il passato in cronaca di Massimo Dalledonne
Un Santo itinerante a Borgo Valsugana
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na lapide, ancora oggi ben visibile in via Francesco Dordi 11, ricorda l’accaduto. Sono passati 244 anni da quando, presso una casa a Borgo Valsugana, per ben due volte si fermò San Benedetto Labre. Una figura a cui è stata intitolata, in tempi più recenti, lo stesso edificio sede dell’Associazione Mano Amica (Ama) e luogo di incontro, fraternità e casa di ospitalità temporanea. Un santo itinerante. Così viene ancora oggi ricordato Benedetto Labre. Della sua presenza a Borgo ne parla, nel volume “Sotto gli stracci un fuoco”, padre Silvio Menghini degli Artigianelli Pavoniani di Trento. Libro edito nel 1996 in cui si ripercorre la vita di questo uomo, vissuto nel secolo XVIII in Francia. E’ il secolo dei “lumi”, quello che segue ad anello il regno di Luigi XIV, detto “Re Sole”. Benedetto Labre nasse il 26 marzo del 1748 a Amettes, un paesino della diocesi di Boulogne, nella regione dell’Artois. I genitori erano mercanti, profondamente cristiani. Finita la scuola, a 12 anni venne accolto dallo zio paterno Francesco Giuseppe, parroco di Erin. Successivamente si trasferì a Canteville, ancora
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da un sacerdote. Era Giacomo Giuseppe Vincent, il fratello della mamma. All’età di 18 anni decise di iniziare la sua vita di pellegrino di Dio, di vivere la sua fede per le strade del mondo. Visse da postulante. La sua casa era la strada. “Errabondo, pellegrino, alla ricerca di Lui, nella totale povertà, misero, straccio itinerante e penitente. Si dice che, nella sua breve ma intensa vita – si legge nel volume – percorse 30 mila chilometri. Sempre e solamente a piedi”. Non solo in Francia. Arrivò anche in Italia, A Loreto, nella Santa Casa. Così come a Roma, a Napoli ed in tante altre città. E fu, proprio durante uno di questi suoi spostamenti che, attraversando le vallate alpine, arrivò a Borgo Valsugana. Era il 1777. “Vi arrivò da mendicante e viatore in foggia di povero pellegrino – si legge da uno scritto del tempo a firma di don Battista Frigo – con una corona al collo, con medaglia ed un piccolo crocifisso. Arrivò in casa del fu Pietro Brocco a ricercar dell’albergo, dimandando di Teresa Brocco, nata Benetti. Entrò in casa per poi andare a visitare la Santa Casa. Il giorno seguente, dopo la Messa, fece una
breve colazione e ripartì”. A Borgo ritornò alcuni mesi dopo. Era stato a Roma. Continua ancora il racconto del sacerdote Frigno. “Dopo aver cenato andò a dormire in soffitta. Non posso dire se sia stato là due o tre notti, ma so benissimo che in una delle notti ebbe un parlamento. Lo stesso Labre, alla domanda della padrona di casa su cosa fosse successo, rispose che era un’anima che aveva bisogno di orazioni. E lui lo aveva esaudito. Quando se ne andò via – conclude Frigo – lo potei vedere in piazza entrare nella bottega di Marco per comprare un po’ di lardo. Poi se ne andò giù per il Borgo”. Diversi anni dopo, dopo una serie di traversie che lo hanno portato a girare l’Italia, Benedetto Labre trascorse le sue ultime ore di vita nella casa del macellaio Zaccarelli a Roma, a pochi passi dalla chiesa di Santa Maria ai Monti. Con lui, oltre all’amico benefattore, anche due sacerdoti della Congregazione della penitenza di Gesù Nazareno. Morì il 16 aprile del 1783, all’età di 35 anni. Il 20 maggio del 1860 venne proclamato beato. Tredici anni più tardi arrivò anche la canonizzazione. Sulla facciata della casa in via Dordi a Borgo, di proprietà della famiglia paterna di don Benedetto Molinari, c’è una lapide dedicata a San Benedetto Labre. Patrono della casa in cui dimorò, per due volte, nel lontano 1777. Esattamente 244 anni fa.
Il calcio in evidenza
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Ginnastica, sport e arte circense di Veronica Gianello
Cristina Micheloni e il verticalismo
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Il mondo a testa in
Cristina Micheloni, classe ’96 è nata e cresciuta a Vattaro. Un passato da ginnasta e danzatrice, un vortice di energia in costante movimento, da piccola come ora. L’appassiona la sperimentazione, il trovare forme nuove per esprimersi. La sua forma preferita è sicuramente la verticale. Mani a terra, spalle che spingono, braccia forti, gambe in aria e i pensieri che spariscono, perché il mondo a testa in giù è tutta un’altra storia. Ma che cos’è il verticalismo? Lo scopriamo proprio insieme a lei. Ciao Cristina, la verticalista. Cosa vuol dire? Che cos’è il verticalismo? Il verticalismo è una disciplina che fa parte principalmente del circo ed è l’esecuzione a corpo libero della figura della verticale, ossia l’allineamento del corpo mantenendo le mani a terra e il corpo in propensione verso l’alto. Spesso la vediamo realizzata anche su altri attrezzi, per renderla ancora più spettacolare, ma
tutto parte dall’equilibrio al suolo con entrambe o una sola mano. Essere una verticalista è dichiarare quello che faccio. Ha la dignità di qualsiasi altra professione ed è quello che io ambisco a diventare. Come ti sei appassionata a questa disciplina? Quale percorso ti ha portata fino qui? Io nasco come ginnasta, fin da quando avevo quattro anni. Poi mi sono appassionata alla danza, specialmen-
te classica e contemporanea e mi sono quindi diplomata al Liceo Coreutico di Trento. Ho capito che fare l’artista era la mia strada. Una strada difficile… ma la mia. Ho perciò continuato i miei studi unendo danza e ginnastica diplomandomi al percorso triennale professionale di Accademia Kataklò a Milano. Già al mio ultimo anno ho iniziato a sperimentare molto sulla figura della verticale: ero sempre con le mani a terra! Tornata a
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Ginnastica, sport e arte circense Trento ho frequentato un workshop di verticalismo che mi ha convinta definitivamente a volermi specializzare in quest’ambito. Ormai è più di un anno che ci lavoro e che frequento lezioni e masterclass e devo dire che sono davvero soddisfatta. Ho avuto la fortuna di formarmi con grandi maestri e di frequentare un corso di studio intensivo—non mi aspettavo nemmeno di passare l’audizione!— alla DOCH di Stoccolma, che è una vera e propria Università di Circo. Mi sono portata a casa davvero un grande bargagno che mi ha permesso di lavorare in autonomia anche in questi mesi difficili Quante ore al giorno ti alleni? Cosa prevede il tuo allenamento? Uno dei miei maestri che ho seguito in Belgio, Felipe Salas, mi ha insegnato davvero ad allenarmi in modo completo e funzionale. Mi alleno in media 3 ore al giorno. Inizio con un riscaldamento e breve potenziamento, seguito da una bella oretta almeno di tecnica della verticale. Poi passo a esercitarmi sulle varie forme che la verticale può prendere: sono davvero tante! Spesso aggiungo anche una parte di creazione personale, dato che mi piacerebbe in futuro fare anche dei miei spettacoli. Concludo sempre con un secondo potenziamento più intenso e con lo stretching finale.
Oltre a stare a testa in giù: cosa fai nella vita? Sto finendo la Laurea Magistrale in Management dello Sport, alleno squadre di ginnastica e tengo corsi di tessuti aerei e verticali. Quali sono le cose più importanti che insegni ai tuoi allievi? Che il lavoro sulla verticale richiede tempo, che la cura dei dettagli è essenziale: servono dedizione e costanza. Spero però di trasmettere tutta la passione che ho, e i riscontri che sto ricevendo, anche in questo momento difficile, mi fanno ben sperare. Spesso, soprattutto in tempi recenti, ci si butta a provare discipline che sembrano un gioco ma possono essere pericolose se non ci si affida a professionisti del settore. Cosa ne pensi? Penso che sia sbagliato. Come ci si affida a un cardiologo se si ha un problema al cuore, ci si dovrebbe affidare a professionisti anche per prendersi cura del proprio corpo. Sembra facile fare gli autodidatti, ma si rischia davvero di farsi male. Io stessa cerco di usare i social in maniera intelligente, perché è molto facile trovare contenuti dannosi. Quali progetti hai per il tuo futuro? Principalmente il mio obiettivo è quello di avere una mia attività. Non potrò farlo domani, ma sto lavorando in questa direzione. Mi piacerebbe
Ph. francesca Ianes
anche lavorare nelle scuole, per capire se mi potrebbe piacere come ambiente, ma il mio obiettivo principale è comunque creare qualcosa di mio. Com’è il mondo a testa in giù? È una bolla dove sto bene. È la mia stanza dove posso chiudere fuori tutto quello non voglio. Non è uno scappare, ma un modo per prendermi del tempo per me, per concentrarmi su quello che voglio. È una sorta di meditazione… molto faticosa!
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Quattro passi nella natura di Chiara Paoli
Il risveglio dei fiori
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i sente profumo di primavera, la bella stagione si apre e aumenta la nostra voglia di uscire. Non è solo il caldo a spingerci fuori, ma anche il piacere di godere del risveglio della natura, dei colori dei fiori, del verde che torna a rimpinguare i rami secchi. Le tonalità della nostra Valsugana sono molteplici, a partire dal candidissimo bianco dei bucaneve, che viene detto anche “stella del mattino”, perché si tratta del primo fiore a sbocciare quando la neve ammanta ancora il sottobosco. Questo piccolo e delicato fiore si può trovare nelle zone ombrose e boschive al di sotto dei 1000 metri oppure nei prati all’ombra di qualche cespuglio. I giardini si tingono dei toni del giallo grazie alle forsizie, arbusti dai piccoli fiori gialli che crescono facilmente anche con una semplice talea. Più rara da vedersi, ma diffusa anche nelle nostre città, nei parchi e nelle aree verdi, la bellissima pianta appartenente alla famiglia delle rose, chiamata Fiore di pesco o Cotogno giapponese (nome scientifico Chaenomeles). Questo è anche il tempo dello Zafferano maggiore o falso zafferano, croco selvatico o crocus vernus, nome
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che deriva dalla lingua greca e il cui significato è “filo”, in riferimento ai lunghi pistilli molto sviluppati nella specie più preziosa e coltivata, che è il Crocus sativus che fiorisce in autunno e da cui si ricava il vero zafferano per i risotti alla milanese. Vernus fa invece riferimento alla loro precoce fioritura a chiusura dell’inverno, tra febbraio e marzo. Altro simbolo intramontabile della primavera che è ormai alle porte, è il colore giallo delle primule, che tinge i prati e il sottobosco, il suo nome infatti è primula vulgaris, ma è detta anche comunemente “primaverina” o “occhio di civetta”. Non può mancare poi la violetta selvatica con il suo inconfondibile colore, ma che di tanto in tanto si trova anche nei toni del bianco o del giallo. Un luogo dove poter ammirare le fioriture primaverili è il Parco delle Terme di Levico che dal 2016 è inserito nel circuito dei Grandi Giardini Italiani e offre alla vista del visitatore corolle di narcisi, tulipani e muscari. Una passeggiata sul colle del Tegazzo, salendo verso il castello di Pergine, permette invece di ammirare in lontananza i ciliegi di Susa in fiore a cavallo tra i mesi di marzo e aprile. I fiori e gli alberi dei duroni susodri si possono ammirare anche da vicino, nelle loro sfumature che vanno dal bianco al rosa intenso, passeggiando tra le vie coltivate della frazione.
E così c’è chi parla dell’Hanami del Trentino, questo termine giapponese significa letteralmente “guardare i fiori” e si riferisce alla tradizionale usanza di questo popolo di assaporare questo magico momento dell’anno, la fioritura primaverile e soprattutto la fioritura dei ciliegi (sakura). Tra le piante da frutto che fioriscono in primavera in Valsugana, merita un posto d’onore anche il melo, con il bianco dei suoi petali, che rendono magico il paesaggio nel mese di aprile. Tra aprile e giugno poi è il periodo ideale per visitare luoghi come il giardino botanico delle Viote, il giardino della rosa di Ronzone o l’orto dei semplici di Brentonico.
Pittura e arte di Waimer Perinelli
PIETRO VERDINI Il re del bosco William Shakespeare ambienta la commedia “Sogno di una notte di mezza estate” in un bosco. Fra alberi e cespugli vivono Oberon, re delle fate, e la moglie Titania. Al loro servizio è Puck o Goodfellow, un folletto, lo spirito del bosco a cui viene affidato il fiore magico, la viola del pensiero, con il quale combinare e scombinare amori. Vittima dei suoi errori anche la regina Titania che s'innamorerà di un asino.
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erdonate l’ ardita sintesi di un lungo e divertente intreccio della celebre commedia con il quale voglio introdurvi a Piero Verdini, la cui passione per il bosco e le sue magie mi ha preso sfogliando il libro “ Il re del bosco”di Maria Luisa Clerico illustrato dal pittore trentino. Che proprio trentino non è essendo nato e vissuto a lungo in Lunigiana, sull’appennino toscano, al confine fra Liguria ed Emilia dove nel mare si getta il fiume Magra. Pietro ha disegnato una ventina di tavole dove sono racchiuse le magie, i folletti, gli spiriti del bosco. Piante, cespugli, ruscelli, circondano il mondo fatato dell’artista che, come racconta, ha trovato il vero bosco solo in Trentino, nel bellunese e nel Feltrino, ai piedi delle Dolomiti. “Sull’appennino toscano, dice, la fitta vegetazione impedisce il normale accesso e a parte la presenza di qualche quercia, non si può parlare di vero e proprio bosco”. L’incontro con il vero bosco è avvenuto quando era un giovane allievo finanziere di stanza a Predazzo. Un incontro tardivo ma affascinante. già grandicello. “ E’ accaduto, racconta, durante un’esercitazione nella zona di Paneveggio, Pale di San Martino: Fui colpito da quella foresta fatta di grandi alberi, abeti, pini, larici.” Fu una folgorazione testimoniata da sessant’anni di pittura dove grandi alberi, spogli ma non brulli, si
piegano, a corona, ai due lati di una strada, o solo un viottolo, intrecciandosi al centro: formando cattedrali. E’ stato scritto che si tratta di architetture gotiche ma, nell’interpretazione dell’artista sono solo di foreste sacre nelle quali i veri protagonisti sono gli animali. “Caprioli, orsi, lupi, gufi sono i veri e sacri abitanti del bosco, dice Verdini. Lo abitano lo possiedono e ne sono posseduti”. Il bosco impresso da Verdini sulla tela con i suoi colori originali, il nero, il blu, un po’ di bianco e qualche gocciolina di rosso, è raramente visitato da figure umane. In qualche caso le vediamo con la testa piegata, intente a rimirar le stelle. “Come per Dante Alighieri il quale nel mezzo del cammin di sua vita, che è poi la nostra, si ritrovò in una selva oscura” dice Verdini, e ne uscì proprio davanti alle stelle. Io sono convinto, aggiunge, che anche Gesù sia nato in un bosco ed è per questo che in qualche caso sopra la selva ho dipinto l’angelo che, con un dito indica la via ai pastori”. Una via irta di pericoli nella selva di piante così come in quella della vita. Pietro Verdini racconta spesso dell’esperienza del collegio dei frati francescani di La Verna in Toscana dove entrò seminarista a dodici anni. “In questa località c’è una selva impressionate, fantastica, fitta, capace di impressionare anche il poeta Dino
Fontana, dice Verdini. Il poeta, che io amo, l’ha vissuta intensamente nei pellegrinaggi fra l’Emilia e la Toscana. Vi si fermava spesso, anche per quindici giorni, cibandosi solo di foglie ed erbe. Nei Canti Orfici la descrive in tutta la sua magia e spiritualità”. Due ingredienti della vita che lo porteranno alla follia a stessa che anima il Sogno di Shakespeare nel quale alla fine tutto si risolve per il meglio. Così sono le cattedrali di Pietro ed egli realizzandole le esplora inserendo, come Puck, l’elisir di viola del pensiero nelle cui opere si riflettono immaginazione, realtà e un po’ di viola del pensiero, dona un pizzico di follia che rende sopportabile la vita.
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Ieri avvenne di Massimo Dalledonne
La rapina di “Leo” e “Lupo” alle banche di Borgo
Il primo colpo alla Cassa di Risparmio. Poco dopo toccò alla Banca Trento. Per un bottino di circa 900 mila lire. Sono trascorsi quasi 77 anni da quando “Leo” e “Lupo” svaligiarono i due sportelli degli istituti di credito di Borgo. I due protagonisti sono altrettanti garibaldini, partigiani del battaglione Gherlenda.
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ra il 27 settembre del 1944 quando i due salirono in autocorriera a Castello Tesino. Destinazione Borgo Valsugana per un ardito colpo di mano in paese. “Dopo aver preso contatto con Eugenio Veronesi per avere viveri e con una collaboratrice per informazioni, verso le 13.30 i due si recavano alla Cassa di Risparmio chiedendo del direttore. Il tutto sotto lo sguardo curioso di alcuni passanti. Parlato con il direttore – si legge nel volume – dovettero attendere l’arrivo del ragioniere per l’apertura della cassaforte. Dopo mezz’ora di lavoro per compilare gli assegni e registrare i conti di prelevamento, i due rilasciarono il buono di prelevamento della Brigata firmato da Bruno e da Cimatti”. Fecero un salto anche all’ufficio postale dove, però, non c’erano soldi in cassa. Poi fu la volta della Banca Trento. “C’erano molti clienti, si fecero riconoscere intimando il silenzio, armi in pugno, a tutti i presenti e, obbligando il cassiere
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a compilare i relativi assegni, fecero contare il denaro liquido. In quel mentre – si legge nel libro – entrarono dei tedeschi che, pur essendosi intrattenuti per parecchio tempo, non si accorsero di nulla. Finito il loro lavoro, i due intimarono nuovamente ai presenti di non parlare fino a sera, pena la vita”. Usciti dalla banca, i due partigiani si imbatterono anche in alcuni elementi del CST, fatti prigionieri a Castello Tesino. “Si stavano ripresentando e furono ammoniti a non farlo se non volevano essere passati per le armi in una eventuale cattura”. Nella ricostruzione dei fatti viene ricordato anche dell’altro. “I due si recarono poi dal negozio Solenni per comperare scarponi per i compagni sprovvisti. Da Rinaldi acquistarono due cappotti per poter ben correre in motocicletta che prelevarono, poco dopo, da un meccanico del paese. Ma la moto non funzionava ed allora, una volta abbandonata, ritornarono
per prenderne un’altra”. Nel ritorno a Castello, per strada, Leo e Lupo si imbatterono nel maresciallo comandante del distaccamento di Castello Tesino. “Durante il rastrellamento di Costabrunella era stato rilasciato per il suo comportamento. Questi, accompagnato da altri soldati, li guardò e proseguì senza far cenno alcuno. Le strade erano già bloccate dalla Polizia Trentina e, quando arrivarono ad un posto di blocco, in luogo di fermarsi alla intimazione i due proseguirono a tutta velocità con le armi in pugno fra lo stupore degli stessi soldati”. Il bottino delle due rapine fù di 900 mila lire. “L’azione scosse molto il morale dei tedeschi – conclude il resoconto della giornata – che si videro beffati in casa loro. Per i due garibaldini venne emessa una taglia per una eventuale cattura o segnalazione. Gli assegni, però, vennero in seguito bloccati e tutto il denaro raccolto non potrà essere adoperato”
Qui Pergine: “Lavoro & Società”
Alta Valsugana Smart Valley Il Coworking* vicino casa: un’opportunità di sviluppo per il territorio, oltre la crisi
Da sinistra Giorgio Vergot, Daniele Lazzeri (resp, relazioni esterne CRAV) e Paolo Campagnano
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lta Valsugana Smart Valley è un progetto - promosso dalla Cassa Rurale Alta Valsugana in collaborazione con Impact Hub Trentino - che si pone l’obiettivo di creare uno o più spazi di coworking sul territorio, cogliendo così un’opportunità di sviluppo locale, all’interno e oltre la crisi pandemica. “Il difficile periodo che stiamo vivendo ha introdotto un grande cambiamento del mondo del lavoro e degli stili di vita. Un momento di difficoltà che può rappresentare allo stesso tempo una opportunità di ricerca per nuove soluzioni imprenditoriali. Il progetto mira infatti a dare vita a una community capace di lavorare assieme per lo sviluppo economico e culturale del territorio, a partire dal gruppo che andrà a occupare lo spazio di coworking, spazi per loro natura capaci di dare vita a nuove connessioni”. Così Giorgio Vergot, Vicepresidente della Cassa Rurale. La crisi ha portato anche alla consapevolezza che in qualche modo, nel mondo di oggi, siamo tutti interconnessi e le risposte devono essere trovate insieme. Anche da queste premesse nasce
“Alta Valsugana Smart Valley”, una iniziativa che mira a mettere a disposizione degli spazi di coworking – valorizzando il patrimonio immobiliare della Cassa Rurale – e non solo per le esigenze di liberi professionisti, imprenditori e start-up ma anche per i dipendenti in telelavoro o in smart working, che potranno fruire di uno spazio dove lavorare vicino a casa, incontrarsi, collaborare e stimolare la nascita di nuove idee. Tutto nel rispetto delle norme di sicurezza vigenti. “Quest’idea – ha evidenziato Paolo Campagnano, Direttore di Impact Hub Trentino - (realtà che da oltre dieci anni si occupa d’innovazione social e coworking sul territorio) vuole stimolare le ambizioni imprenditoriali presenti sul territorio e per quegli imprenditori, giovani e meno giovani, che vogliano cogliere le opportunità di innovazione e di mercato che si stanno affacciando all’orizzonte”. Per questo, nel corso del mese di febbraio, è stato predisposto un questionario, diffuso su tutti i canali della Cassa Rurale, con lo scopo di raccogliere le manifestazioni di interesse
da parte di tutta popolazione locale: di chi ha bisogno di una scrivania o un ufficio quotidianamente, di chi cerca un punto d’appoggio per il telelavoro o per lavorare fuori di casa alcune giornate, di chi necessita di un posto per incontrare i clienti o fare le riunioni. In questo senso, la Cassa Rurale ha espresso la volontà di valorizzare il proprio patrimonio immobiliare sul territorio trasformando alcuni locali in spazi con postazioni scrivania, uffici, sale riunioni pensati per lavoratori. Nel frattempo il gruppo di lavoro sarà a disposizione delle pubbliche amministrazioni interessate, delle associazioni e dei cittadini per proseguire nella progettazione degli spazi e dei servizi che caratterizzeranno “Alta Valsugana Smart Valley”. Per approfondimenti http://bit.ly/ altavalsuganasmartvalley
* Il coworking è uno stile lavorativo che consente la condivisione di un ambiente di lavoro, spesso un ufficio, mantenendo un’attività indipendente. A differenza del tipico ambiente d’ufficio, coloro che fanno coworking non sono in genere impiegati nella stessa organizzazione
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Meteorologia oggi di Giampaolo Rizzonelli
Il gelicidio in Valsugana
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l 21 gennaio 2021 in Valsugana ma anche in altre zone del Trentino abbiamo potuto osservare un fenomeno meteorologico piuttosto affascinante ma al tempo stesso molto pericoloso, soprattutto per la circolazione stradale ma anche per chi si sposta a piedi, si tratta del gelicidio o pioggia congelantesi (in inglese freezing rain).
Solitamente questo fenomeno si verifica quando in quota entrano masse d’aria calda, mentre al suolo è presente uno strato (“cuscino”) di aria fredda con temperatura negativa, formatosi in genere grazie ad una notte serena che ha permesso alle temperature in fondovalle di scendere sotto lo zero e creare una situazione di inversione termica. Quindi, temperature negative per alcune centinaia di metri sul fondovalle/ pianura e temperature positive per diverse centinaia di metri in quota, seguito l’arrivo di masse d’aria calda. Fig.1 situazione atmosferica in cui si verifica il gelicidio
In Valsugana, in particolare a Levico Terme, il gelicidio del 21 gennaio 2021 si è verificato dopo che per ben 27 giorni consecutivi le minime erano state sempre inferiori allo zero, non solo, ma nelle 40 ore precedenti, la temperatura era sempre rimasta sotto lo zero, quindi cosa è successo? All’alba del 21 gennaio sono iniziate le prime precipitazioni, dalle nubi (poste a quote molto più elevate) la neve cadendo ha attraversato uno strato di aria calda e si è sciolta, ad un certo punto però la pioggia ha incontrato uno strato di aria fredda (a Levico ad inizio precipitazioni la temperatura era a -1,4°C) con temperatura negativa e non appena ha toccato il suolo ma anche qualsiasi altro tipo di superficie (strade, marciapiedi, automobili, cavi elettrici, rami di alberi ecc…) si è ghiacciata istantaneamente creando un suggestivo ma quanto mai invisibile ed insidioso strato di ghiaccio. Il fenomeno è spiegato nell’immagine di fig. 1, mentre è ritratto nella fotografia di fig. 2. Negli USA il fenomeno è chiamato anche “black ice”, ghiaccio nero, in quanto sull’asfalto è totalmente invisibile, proprio a causa del gelicidio nella giornata dell’11 febbraio a Fort Worth in Texas si è verificato un mega incidente stradale con 133 veicoli coinvolti, 65 feriti e 6 decessi (vedi fig. 3).
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Fig. 2 gelicidio Levico 21 gennaio
Fig. 3 incidente per il “black ice” Texas 11 febbraio 2021
Tra storia e folklore di Andrea Casna
La licantropia e il LUPO MANNARO
Il lupo mannaro è solo fantasia cinematografica o, come nel caso del vampiro, anche questa creatura ha origini antiche? La risposta a questa domanda è sì, ha origine nel folklore. In Francia, fra il XVI e il XVII secolo non sono mancati, nel contesto della caccia alle streghe, anche processi contro i licantropi: erano uomini che, accusati di tramutarsi in lupi, furono condannati alla pena capitale. Ma andiamo per ordine.
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econdo le varie leggende il lupo mannaro sarebbe un essere umano condannato a trasformarsi in una bestia feroce a ogni plenilunio. Oggi siamo abituati, sempre grazie alla letteratura o al cinema, alla figura del lupo. Ma in molte culture l’animale in cui si trasforma l’uomo è l’orso o il gatto selvatico. Le origini di questo mito sono molto antiche, risalgono sin dall’età del bronzo. In tutte le culture del mondo antico si trovano leggende o racconti legati all’uomo lupo. Le leggende e le storie si moltiplicarono in tutta Europa a partire dal Medioevo, arrivando a raggiungere l’apice fino al XVIII secolo. A partire dal Settecento - il secolo dei Lumi - si inizierà a sconfessare la loro esistenza (come nel caso dei Vampiri). Nonostante il processo avviato dall’Illuminismo, il licantropo rimarrà forte e vivo nel folclore e nella cultura popolare. Anche nell’Italia contemporanea non sono mancati casi di licantropia. Fra le storie che circolano nella rete troviamo quella di Iolanda Pascucci “La lupa di Posillipo”, nata nel 1921 che, alcuni anni dopo il suo matrimonio, fu rinchiusa nell’Ospedale degli Incurabili perché trovata in preda ad
una forte crisi di “mal di luna”. Ma per i casi interessanti, con tanto di processo, dobbiamo fare un salto indietro di 500 anni e andare in Francia a Dôle. Correva l’anno 1572 e un certo Gilles Garnier era stato arrestato e poi processato perché accusato di essersi mutato in lupo e di aver rapito nei boschi una bambina di 10 anni per ucciderla e mangiarla. In poche parole Garnier era accusato di essere un lupo mannaro. Secondo i testimoni, nel novembre del 1572, Garnier avrebbe rapito una seconda bambina, che strangolò ma che non riuscì a mangiare a causa dell’intervento di alcune persone che lo obbligarono a fuggire nel bosco. Sempre secondo l’accusa, ci sarebbe stato un terzo rapimento a metà novembre del 1572: in questo caso Garnier sarebbe riuscito a cibarsi della sventurata. Ma fu catturato, in forma umana, durante il suo quarto e ultimo rapimento proprio mentre stava sopra il corpo di un bambino. Quello di Garnier fu un processo per stregoneria. Per l’accusa Garnier (che non era altro che un eremita che viveva nei boschi) avrebbe ottenuto il potere di mutarsi in lupo a seguito di un patto fatto con il Diavolo. Garnier, quindi, colpevole di stregoneria fu condannato al rogo.
Non fu l’unico caso. Anche nel 1521, nei pressi di Poligny, Pierre Burgot e Michel Verdun furono arrestati con l’accusa di licantropia. Nel 1584, durante una caccia alle streghe in Borgogna, il giudice inquisitore aveva “scovato” fra gli imputati ben quattro licantropi. Interessante fu il caso di Peter Stubbe (considerato il primo serial killer della storia), a Bleburg in Germania, condannato a morte nel 1589 con l’accusa di licantropia. Stubbe si macchiò di numerosi delitti: uccideva le sue vittime con morsi alla gola per poi berne il sangue. Durante il processo disse di aver ricevuto dal Diavolo una cintura con la quale poteva trasformasi in un lupo mannaro. Agli inizi del Seicento, in Francia, un certo Jean Greiner, fu catturato e arrestato sempre con l’accusa di licantropia. Nel 1610, al termine del processo, Greiner non fu mandato al rogo ma semplicemente rinchiuso in un convento perché psicolabile. Fu uno dei primi passi che portarono, nel corso del tempo, a vedere nella licantropia, non un patto con il Diavolo, ma una sorta di disagio mentale, lasciando la figura dell’uomo lupo al solo contesto del folklore e della superstizione.
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Conosciamo il territorio di Chiara Paoli
Se la passeggiata si deve fare nel Comune…
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uesto alternarsi di zone gialle, arancioni o rosse, ci costringe a ridimensionarci e le uscite per le passeggiate utili a sgranchirci le gambe e a godere del sole e dell’aria aperta, vanno fatte entro i confini comunali. Ma i perginesi non possono certo lamentarsi, perché le passeggiate nei dintorni consentono di vedere laghi, montagne e panorami di tutto rispetto. Partendo dall’abitato della frazione di Canale, si può salire al Maso Puller, dove dalla chiesetta si può ammirare il lago di Caldonazzo, per poi scendere verso maso Pianezza e quindi verso Valcanover, da dove è possibile rientrare alla partenza attraverso la pista ciclabile. Volendo si può allungare e rendere il giro più impegnativo, si tratta di una salita nel bosco con tratti a forte pendenza, salendo verso San Vito dal Maso Puller e ammirando così la grande statua del "Cristo degli Alpini” opera di Bruno Lunz, voluta dal Gruppo Alpini di Castagné nel 1991, a ricordo di tutti i caduti e inserita l’anno seguente nel Guinness dei Primati per le sue impressionanti dimensioni (12,25 metri di altezza e
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ben 9800 chilogrammi di peso). Da lì, oltrepassando la chiesa si scende passando attraverso i masi fra curve che offrono una vista mozzafiato dell’intero bacino lacustre. Ad un certo punto sulla sinistra, un gruppo di case a schiera ed una freccia in legno ci invitano a deviare, per tornare verso maso Pianezza e quindi da lì verso il Puller per poter poi tornare a Canale. Merita poi una camminata partendo da Roncogno per salire verso la cros del Zimirlo, da dove si apre una vista sulla conca perginese. Si può proseguire fino ad arrivare al forte Sella di Roncogno, per poi rientrare sugli stessi passi nella frazione perginese. Per i più allenati, amanti della montagna è possibile salire verso la Marzola, magari partendo dalla malga di Susà, seguendo la forestale e poi il sentiero SAT433, con un impegnativo dislivello di 700 metri potrete così guadagnare la vetta. Altra passeggiata panoramica è quella che conduce da Canzolino, alla chiesetta della Madonna della Neve nella frazione di Buss, o quella che partendo dal parcheggio sopra il palazzetto del ghiaccio di Pergine ci
Maso Puller
conduce lungo il Fersina, per dirigerci verso la centrale di Serso, proseguire verso gli scavi dei Montesei di Serso e proseguire per rientrare verso Brazzaniga e quindi al parcheggio. Un altro bel giro per occupare un pomeriggio è quello che da Zivignago conduce verso le pendici del Monte Orno e fino a Falesina per poi scendere verso Valar e gli Assizi per rientrare al punto di partenza attraverso la strada dietro il castello di Pergine. Se si ha meno tempo o si è poco allenati
Cristo San Vito
Conosciamo il territorio data dal verde e dai fiori e volendo soffermarsi per osservare le antiche darsene. Procedendo verso la stazione dei treni è possibile imboccare la ciclabile e rientrare verso Pergine attraverso via dell’Angi.
Vista dal Cimirlo
si possono intraprendere percorsi meno impegnativi, come quello che dal parco Tre Castagni porta al castello di Pergine per poi rientrare attraverso il percorso che con alcune scalette conduce nella storica contrada Taliana, via Maier. Partendo dalla località Fornaci è anche possibi-
le percorrere la strada che conduce verso Villa Moretta, rientrando poi dalla strada che da Roncogno, riporta al punto di avvio. Molto inflazionata è poi la ciclabile del Rastel, che permette di raggiungere San Cristoforo dove è possibile ammirare l’antica chiesetta circon-
Cros del Zimirlo
centro rottamazione veicoli
Vista Lago
alta valsugana Via al Dos de la Roda, 24 | 38057 | Pergine - Fraz. Cirè | tel. 0461 531154 | fax. 0461 539410
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Moda oggi di Laura Paleari
Decluttering :
la magia del cambiamento La primavera è ormai alle porte e, nonostante la pandemia, la voglia di uscire è tanta. Cosi come la natura, anche la nostra voglia di fare si risveglia, e arrivano non solo le classiche pulizie di primavera ma anche il temuto cambio armadio. Tra montagne di vestiti e scarpe in ogni dove, molte volte diventa difficile ed impegnativo fare ordine nel nostro armadio, ecco perché il decluttering potrebbe essere la soluzione perfetta.
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li esseri umani, a differenza degli animali, tendono ad avere e, soprattutto, accumulare oggetti di qualsiasi tipo; che sia per necessità, come l’avere scorte di cibo, o per ricordi annessi ad essi, spesso la situazione può sfuggire di mano, arrivando farci tenere anche le cose più improbabili. Ecco che, in questo caso, entra in gioco il “decluttering”. Decluttering è un termine inglese che significa “fare spazio”, ma fare spazio di cosa? Semplicemente di tutto quello che non è più necessario ed è diventato o è sempre stato superfluo. Un oggetto superfluo è tutto ciò che non ci serve praticamente e spiritualmente; è qualcosa che ha svolto la propria funzione ed ora non ci serve più o non suscita in noi un’ emozione forte come quando lo abbiamo comprato. Possiamo fare decluttering nel nostro salotto, nella borsa o nel nostro ufficio; in questo caso parleremo di come fare decluttering nel nostro armadio. Come prima cosa, e anche più importante, bisogna tirare fuori tutto dall’armadio, vestiti, accessori, scarpe, borse, e disporli su una superficie piana (come può essere il letto, ma anche il pavimento) e preparare delle
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borse per i capi che decideremo di non tenere più. Le categorie in cui un capo può rientrare sono quattro: Appendere, Buttare, Regalare/Vendere, Tenerlo da parte. Ovviamente andremo a buttare tutti quei capi rotti o troppo sporchi, invece quelli troppo grandi/piccoli, che non ci piacciono più o di cui non abbiamo più bisogno possiamo regalarli, darli in beneficenza ma anche venderli. Tuttavia buttare/regalare capi vecchi o che non si usano non è affatto semplice, lo scoglio più difficile da superare è quello emotivo, l’effetto nostalgia che subito ci pervade vedendo una camicetta che abbiamo usato tanto molti anni fa o una borsa per la quale abbiamo avuto un “colpo di fulmine”. La prima domanda da porsi è quante volte quel vestito è stato indossato negli ultimi 6 mesi, escludendo infatti tutti quei capi per occasioni speciali (matrimoni, battesimi, ecc…) se non indossiamo quell’abito da così tanto tempo, vuol dire che probabilmente ne possiamo fare a meno. Altre domande da porsi sono: mi piace veramente? Mi da gioia e mi fa sentire bene quando lo indosso? Posso farne a meno? Farebbe più felice
qualcun altro? Ovviamente fare decluttering non significa ritrovarsi con solo con due magliette e un paio di jeans, quello che bisognare lasciare andare è quello che non ci suscita più emozioni, che conserviamo quasi per “capriccio”. In generale è meglio tenere tutti quei capi Basic, ossia quelli che vanno bene in ogni occasione, in cui ci sentiamo a nostro agio e che possiamo facilmente abbinare: una t-shirt bianca, un vestito nero, un maglioncino beige… Altri outfit specifici da tenere sono quelli necessari per il lavoro e lo sport. E se non riusciamo proprio a far andare un capo, perché non sicuri di non riutilizzarlo più, si può tenerlo da parte e darsi un tempo limite: se entro sei mesi o un anno verrà utilizzato effettivamente utilizzato lo si terrà, altrimenti andrà regalato/venduto. Eliminare, o meglio, lasciar andare un oggetto vuol dire essere più flessibili e aprirsi al cambiamento, modificando i rigidi schemi mentali che molte volte ci facciamo. In generale fare decluttering ci aiuta a capire cosa ci piace di più, cosa ci dona e di conseguenza ci rende più consapevoli per i nostri acquisti in futuro.
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Storie di casa nostra di Massimo Dalledonne
Il monastero di S. Anna a Borgo
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il 23 marzo del 1782. Dopo 109 anni, quel giorno, veniva decisa la soppressione del monastero di S. Anna a Borgo. La decisione era stata presa, con decreto, il 27 febbraio dall’Imperatore Giuseppe II. Ma è toccato al capitano di Rovereto, Giuseppe Trentinaglia da Telve, presentarsi nel refettorio e all’imperatore Leopoldo ed all’impecomunicare alle 28 monache presenti ratrice Margherita Maria ed il 18 luglio che, entro sei mesi, dovevano lasciare del 1668 papa Clemente IX concesse liberi gli spazi occupati fin dal 1673. la facoltà di erigere il nuovo monaUna storia, quella del monastero di S. stero. Il 18 novembre dello stesso Anna, che ancora oggi suscita grande anno il vescovo di Feltre Bartolomeo curiosità in paese ed in Valsugana Gierano benedisse la prima pietra dove, oltre tre secoli più tardi, venne del monastero e della nuova chiesa riaperto un nuovo monastero. Questa che sarebbe stata intitolata a S. Anna. volta sulle pendici del monte Ciolino, L’11 ottobre del 1672 ci fu la consaall’interno del convento dei francrazione della chiesa e, nell’ottobre cescani. Già nel 1664 a Borgo, dietro l’impulso di padre Maurizio Divina dei minori riformati, diversi cittadini si rivolsero a madre Giovanna Maria della Croce Floriani di Rovereto per cercare di aprire un monastero in paese. Il 17 gennaio del 1665 il via libera del consiglio comunale e nel 1666 della richiesta venne investito direttamente papa Alessandro VII. Allora, però, la diocesi dipendeva dal vescovo di Feltre che, su questa richiesta, era renitente. Ma i borghigiani si rivolsero Monastero di S. Anna - la copertina del libro di padre Marco Morizzo
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Chiesa di S.Anna
dell’anno seguente, anche il nuovo monastero era pronto. La spesa sostenuta era stata di 35 mila fiorini, frutto di diverse donazioni private, anche di principi italiani e stranieri. In paese arrivarono le prime quattro monache: Chiara Filippi e Anna Rizzardi di Rovereto, Cunegonda contessa Thun di Castel Brughiero e Sibilla Borellini di Mattarello. Negli anni a seguire in paese arrivò in visita, è il 1678, anche l’allora regina di Polonia Eleonora ed il 30 agosto del 1681 si solenizzò in S. Anna la traslazione delle reliquie del martire San Claudio. Una ricca veste ricamata in argento venne donata nel 1689 dalla regina di Polonia, per onorare la presenza nel monastero di Borgo di madre Eleonora contessa di Jerasch di Breslavia, già dama della stessa regina. Passano gli anni e nel 1764 la chiesa di S. Anna fu oggetto di un restauro generale. Notizie, quelle che abbiamo finora riportato, tratte da un volume, edito nel 1976, dalla libreria editrice Rossi di Borgo Valsugana su testi scritti da padre Marco Morizzo. I lavori, sotto l’attenta direzione di don Giambattista Rusca di Borgo,
Storie di casa nostra si conclusero tre anni dopo. Poi, in maniera improvvisa e del tutto inaspettata, arrivò la decisione della sua chiusura. Quel giorno, il 23 marzo del 1782, nel monastero erano presenti 28 religiose e parte di essere vennero trasferite presso le Agostiniane nel convento di Sacco. Alcune finirono in quello delle Servite di Arco. Da Borgo se ne andarono in quindici, le altre – come si legge nel volume – si ritirarono tutte a vivere insieme nella casa già Zanetti. Il 4 agosto del 1782 tutti i beni del soppresso monastero vennero messi all’asta, il 31 dicembre fu la volta dei mobili. Come scrive padre Marco Morizzo “i buoni borghigiani, per la gioia di riaverli, pagarono il tutto più della loro stima e nelle tasche dell’erario finirono quasi 152 mila fiorini. Monastero e adiacenze comprese finirono nelle mani della Comunità della Giurisdizione di Telvana allo scopo di collocarvi il Dinasta e i suoi offici, in luogo del medioevale Castello”. Il 19 novembre del 1798 il conte Giovannelli di Venezia, dinasta del tempo, si impossessò della nuova sede. Il monastero venne soppresso ma continuò ad essere chiamato con il nome di castello in quanto sede del
Castellano giurisdicente. In quei anni il maniero di Telvana venne distrutto dai vandali e la chiesa di S. Anna rimase aperta al pubblico a spese del comune che vi trasferì il beneficio di S. Croce. Successivamente divenne un magazzino militare, poi oratorio maschile e nel 1858 il principe Andrea Giovanelli cedette l’ex convento al comune che divenne sede delle prigioni. Il 6 luglio del 1862, in occasione del furioso incendio che distrusse il paese, anche il fabbricato dell’ex monastero e la chiesa andarono distrutti. Al posto dell’ex convento venne realizzata una grande piazza ed anche una parte del noviziato, tutta l’infermeria e la casa del Gastaldo venne demolita. Venne realizzata la nuova sede delle carceri, della gendarmeria ed una abitazione del custode. Nel 1876 si passò al restauro interno della chiesa di S. Anna ed alla sua ricostruzione. Nel 1901, come scrive ancora padre Marco Morizzo, l’ex convento divenne sede degli uffici del Giudizio e del capitanato di Borgo. Il resto è storia più recente, letta o vissuta in prima persona da molti di noi. Ma l’ex convento di S. Anna fa parte
della storia della comunità borghesana. Una storia che non deve essere dimenticata. Quella del monastero nel centro storico di Borgo Valsugana. Nei 109 anni di vita del monastero di S. Anna vennero ospitate anche diverse badesse e vicarie della Valsugana. Ecco i loro nomi: madre Anna Maria Fiorentini di Borgo, madre Barbara Giacobi di Pergine, madre Orsola Arcangela Bruni di Borgo, madre Gioseffa Violante Caterina Rusca di Borgo, madre Chiara Fortunata Rusca di Borgo, madre Maria Francesca Libardoni di Levico, madre Maria Rosalia Gennari di Civezzano, madre Claudia Luigia Ceschi di Santa Croce di Borgo, madre Maria Giovanna Nepomicena Ceschi di Borgo, madre Maria Francesca Fiorentini di Borgo, madre Maria Cristina Lucrezia Fusio di Borgo, madre Francesca Arcangela Salvadori di Pergine e madre Maria Gioseffa Dordi di Borgo. Con loro anche altre religiose provenienti da Mattarello, Castel Brughiero, Rovereto, Swaz, Hall, Sterzing. Trento, Brunico, Slesia, Vienna, Sacco, Rovereto, Ora, Bolzano, Castello di Fiemme e Innsbruck.
Monastero delle clarisse di S.Anna - da un disegno della seconda metà del 700 (Trento Castello del Buonconsiglio)
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Medicina & Salute di Laura Fratini
Gli attacchi di
PANICO L a parola panico deriva dalla mitologia greca e più precisamente dal “dio Pan”, metà uomo e metà caprone, che compariva all’improvviso sul cammino altrui, suscitando un terrore improvviso e poi scompariva velocemente. Le vittime rimanevano incredule, non riuscivano a spiegare cosa fosse successo e non erano in grado di gestire la forte emozione negativa provata. Questo è quello che succede a chi prova gli attacchi di panico: si manifestano con un improvvisa e intensa paura in assenza di un reale pericolo, accompagnata da sintomi somatici, dovuti all’attivazione del sistema simpatico, e cognitivi (paura di impazzire, di perdere il controllo, paura di morire). Generalmente raggiungono rapidamente l’apice e sono di breve durata (di solito 10 minuti). Conosciamo quali sono i principali sintomi degli attacchi di panico e cosa succede a chi ha questa spiacevole esperienza: • rossore al viso e talvolta all’area del petto; • capogiri, sensazione di stordimento, debolezza con impressione di perdere i sensi; • parestesie, più comunemente rappresentate da formicolii o intorpidimenti nelle aree delle mani, dei piedi e del viso; • difficoltà respiratoria, tecnicamente definita dispnea o soffocamento; • aumento della sudorazione oppure brividi, legati a repentini cambiamenti della temperatura corporea e della pressione; • nausea, sensazioni di chiusura alla bocca dello stomaco o di brontolii intestinali;
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• tachicardia o palpitazioni, spesso associati a dolori al torace; • tremori o scatti. Inoltre, durante questa esperienza si possono avere le seguenti sensazioni: • paura di perdere il controllo; • paura di impazzire; • non appartenenza alla realtà, derealizzazione; • osservare dall’esterno cosa accade al proprio corpo, depersonalizzazione; • non gestione di qualcosa di terribile; • paura o convinzione di stare sul punto di morire; • crisi di pianto. Dopo il primo attacco di panico che generalmente fa da spartiacque tra un prima e un dopo, vi sono dei fattori che mantengono e alimentano il problema, ostacolandone la soluzione e creando la sensazione che tutto ciò non possa avere una fine. ATTENZIONE SELETTIVA Consiste nel monitoraggio delle proprie sensazioni interne con una particolare attenzione alle situazioni temute, allo scopo di verificare la presenza di segnali che potrebbero scatenare l’attacco di panico. Ciò produce un abbassamento della soglia di percezione di queste sensazioni e contemporaneamente l’aumento dell’intensità soggettivamente percepita, facilitando così l’attivazione del circolo vizioso del panico. COMPORTAMENTI PROTETTIVI Hanno lo scopo durante il circolo del panico di prevenire l’attacco di panico. DISTRAZIONE È una forma di evitamento cognitivo
dell’ansia che implica il tenersi impegnati per non notare sintomi di ansia e la possibilità che si inneschi il circolo del panico. EVITAMENTI Le persone con attacchi di panico evitano tutte le situazioni che ritengono favorire il panico, cercando di mantenersi all’interno della propria comfort zone che però rischia, col tempo, di restringersi sempre di più. Le linee guida internazionali (NICE National Institute for Health and Clinical Excelence, 2011) indicano la psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, insieme al training di rilassamento, come i trattamenti più efficaci per la cura degli attacchi di panico. Il trattamento cognitivo comportamentale quindi prevede di aiutare il paziente in una serie di passi a: • Prestare attenzione a ciò che si prova, anche al livello delle sensazioni corporee, in un determinato momento; • identificare quali sono i pensieri relativi all’emozione, il proprio dialogo interno; • esercitarsi a mettere in dubbio i pensieri e le convinzioni disfunzionali; • sostituire i pensieri e le convinzioni disfunzionali con pensieri più vicini alla realtà e più utili per il raggiungimento dei propri obiettivi; • smettere di evitare con l’uso di tecniche comportamentali come l’esposizione enterocettiva e in vivo; • prevenire le ricadute.
* Dott.ssa Laura Fratini Psicologa-Psicoterapeuta Studio, Piazzale Europa, 7 - Trento Tel. 339 2365808
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Medicina & Salute di Erica Zanghellini
Noi e gli altri
I rapporti con gli altri non sono sempre facili, spesso più di quel che crediamo siamo noi che facciamo la differenza. Come mi approccio all’altro, quello che penso può in qualche modo influenzare l’andamento della relazione? La risposta è si.
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er relazionarsi efficacemente con gli altri dobbiamo far pace con le nostre ferite del passato, qualsiasi esse siano e soprattutto non attuarle con le nuove conoscenze. Liberarci dalla rabbia, dalle paure, dalla gelosia o dall’ansia per esempio che l’altro possa giudicarci anche in questo caso negativamente o ancora che possa pensare che non siamo meritevoli, sono degli esempi di quello che intendevo per ferite del passato o ansie del futuro. Capiamoci, queste sono tutte di per se, emozioni, paure e ansie che tutti proviamo, ma quando diventano costanti allora dobbiamo cercare di valutare se non sia il caso di pensare a un percorso di crescita personale, per far pace con queste difficoltà e gestirle senza che ci sabotino costantemente. Molte più persone di quello che pensiamo provano imbarazzo, si sentono incapaci o impacciati nelle relazioni sociali. La
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differenza è che spesso pensiamo che siamo solo noi che proviamo queste cose, invece le difficoltà le abbiamo tutti la diversità sta a come le gestiamo. Se è vero che ognuno di noi possiede delle modalità specifiche nel relazionarsi con gli altri e di reagire agli eventi che accadono: c’è chi è timidissimo, chi vede il solo il lato positivo delle cose, chi invece solo quello negativo, chi fa fatica a fidarsi, chi catastrofizza tutto , chi pensa di avere sempre ragione, chi si affida sempre all’altro perché pensa che da solo non ce la può fare, tanto per portare qualche esempio è vero anche che le abilità di relazionarsi si imparano nel tempo e possono essere sempre migliorate o potenziate. Ma quali sono le competenze che possono essere considerate la base per instaurare delle relazioni efficaci? Vediamole assieme: La prima abilità che dobbiamo
imparare è l’ascolto. Attenzione però, ascoltare è diverso da sentire. Ascoltare vuole dire essere presenti in modo attivo, vuol dire porre attenzione all’altro, bloccare qualsiasi giudizio e concentrarci sul messaggio che la persona vuole comunicarci. Due, sintonizzarci con l’altro vuol dire mettere in campo l’empatia ovvero la capacità di metterci nei panni degli altri. Cercare di sforzarci e capire anche il suo punto di vista e continuare a ricordarci che anche se è differente dal nostro modo di pensare non per forza siamo nella ragione. Cerca di trovare un punto di incontro, spesso è un tasto molto difficile questo. Mediare è un’abilità da non sottovalutare e invece da sviluppare. Il riuscire a mettersi d’accordo non deve essere visto come subire una decisione altrui, ma come andare in contro all’altro. Trovare un punto d’incontro è importante nelle relazio-
Medicina & Salute ni, indipendentemente di che natura siano. Si deve mediare nelle relazioni d’amore, con i familiari, con gli amici e anche al lavoro. No alle polemiche. Fare diatribe su quello che fanno gli altri o su come sarebbe meglio fare quella cosa, ci fa apparire esigenti, rigidi anche se poi in realtà non lo siamo, e soprattutto fa mettere l’altro sulla difensiva. Attenzione alle emozioni che proviamo, troppa ansia o anche troppa rabbia possono minare le relazioni. Cerchiamo nel caso dell’ansia di lavorare sulla nostra sicurezza personale e sul valore che ci diamo e nel caso della rabbia invece stiamo attenti a quando compare in noi, al perché si attiva e come la gestiamo. Un consiglio quando potete, provate a scrivere quello che avete dentro finchè non vi sentite svuotati e poi strappate il foglietto. La rabbia è una
di quelle emozioni per cui una gran parte delle relazioni si chiudono e quindi se vi rivedere, cercate subito di porvi rimedio. Dare fiducia. La fiducia è una pietra miliare nelle relazioni. Non esistono certezze indistruttibili, ma di certo non deve pagare l’altro per esperienze nostre passate dolorose. Dobbiamo imparare a dare fiducia, altrimenti le relazioni ne soffriranno. Pensate a una fidanzata che non riesce a fidarsi del suo partner oppure di una amica, metterà in atto continui controlli, atteggiamenti difensivi o pregiudizi che alla fine potrebbero portare ad avverare la sua paura oppure alla chiusura di quel rapporto perché l’altro si sente costantemente messo alla prova e non creduto. Ed infine sembra banale, ma non lo è, sorridete!! Un atteggiamento positivo e solare è un primo passo, la gente
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tende ad aprirsi se ha di fronte una persona così. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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Storie di ieri di Mario Pacher
Quanto è bella
l'AMICIZIA Q
uella che vi raccontiamo è una storia vera, di come accadde che tra il capitano della Wehrmacht Hermann Bais e l’alpino Riccardo Negriolli, suo prigioniero di guerra, si stabilirono una patto di pace ed una profonda amicizia. Una vicenda intessuta di angoscia, di speranza, di gioia inaspettata, di fede nella Divina Provvidenza e nel senso di umanità che riescono talvolta a farsi strada anche durante una guerra. A raccontare questo toccante episodio della seconda guerra mondiale sono sia i diari scritti da Maria Deipradi sposata Negriolli, sia le testimonianze dei figli più grandi, che gentilmente ci hanno permesso di vivere l’emozione di una vicenda avvincente. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra Italia ed Alleati, anche l’alpino Riccardo Negriolli, nella caserma del suo reggimento in Francia meridionale, fu svegliato dai Tedeschi che ottennero la resa della guarnigione alpina italiana. Riccardo fu assegnato allo smistamento di vettovagliamenti in un magazzino militare, in Provenza. Lì, come scrisse in una lettera del 15 febbraio 1944 alla moglie Maria che viveva a Selva di Levico, si trovava abbastanza bene. Scrive Maria nel suo diario: “Per fortuna Riccardo non mi chiedeva di spedirgli dei viveri, come a molti altri accadeva; per me sarebbe stata una pena non poterlo aiutare, con le modeste 17 lire al giorno del sussidio per me e per i 3 bambini. Un giorno, verso sera, udii
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salire dalla strada delle voci concitate: “ E’ arrivato il Riccardo della Maria!!” Sono corsa fuori, ho guardato verso la piazza, da prima si è visto spuntare un cappello di alpino e, sotto, la sua faccia ridente e la figura imponente. In casa, abbracci e lacrime di gioia!! Poi, una domanda : come aveva fatto a fuggire Il capitano Bais dalla prigionia? E qui Maria ed i suoi due bambini maggiori (Sofia ed Enrico, mentre Romano era ancora troppo piccolo per capire) ascoltarono stupiti e affascinati il papà che raccontava un fatto quasi incredibile per un tempo di guerra. Il comandante del campo, capitano Bais, era diventato suo amico, si stimavano molto, parlavano con nostalgia delle loro famiglie lontane e detestavano chi aveva voluto quella guerra. Finchè un giorno il capitano gli disse: “quando il treno ci trasferirà dalla Francia a Roma, tu scenderai e andrai a casa, dalla tua famiglia, per tre settimane. Ma mi devi promettere che poi ritornerai al campo di prigionia-lavoro a Roma, dove sei destinato e dove io ti aspetterò.” Riccardo lo aveva ringraziato commosso e felice. Sapeva che quel capitano rischiava la fucilazione, per quel gesto di umanità e generosità. Si avvicinava inesorabile la data
entro la quale Riccardo, per mantenere fede alla parola data al capitano tedesco, doveva rientrare in prigionia. Scriveva Maria: “ Da Trento, un treno merci l’avrebbe portato a Firenze e poi Roma. Alla stazione, ci abbracciammo muti, angosciati, pieni di dubbi. Io dovevo tornare subito dai bambini, risalivo con malavoglia, lentamente, il viale della stazione, mi sentivo triste ed impaurita. Ma ecco che, giunta davanti alla chiesetta della Madonna del Pezzo, ebbi come un’illuminazione, una forte emozione ed una voce interiore mi disse “Dio te lo ha mandato a casa e tu lo lasci andare via a morire?.. ” Corsi ansante in stazione, tutto era buio, chiamai; lui mi rispose, vidi avanzare la sua grande sagoma, mi buttai tra le sue braccia e con un soffio gli dissi:”sono venuta a prenderti, andiamo a casa. Ci avviammo verso casa, convinti che era stata la Madonna ad indicarci la
Storie di ieri scelta giusta.” Dalla testimonianza che ci ha detto Sofia, la figlia più grande, sappiamo che da quel momento Riccardo preferiva nascondersi sia dai Tedeschi che dai Fascisti ed infatti si rifugiò da certi amici in Val di Non, a lavorare e guadagnare qualche lira. La mattina successiva alla prevista partenza di Riccardo, Maria era entrata nella farmacia Romanese e aveva udito la radio trasmettere questa notizia : “ la notte scorsa, in un bombardamento alla stazione di Firenze, molti treni sono stati distrutti, con numerosi morti e feriti.” Tra quei treni era citato anche il treno che Riccardo avrebbe dovuto prendere con destinazione Roma. Il secondo figlio, Enrico, ricorda ancora: “Era un pomeriggio del giugno 1944, quando una camionetta con un ufficiale tedesco e due soldati arrivarono a Selva e chiesero in giro della famiglia di Riccardo Negriolli, mostrando una sua foto. Bussarono quindi alla porta di Maria, l’ufficiale si presentò come capitano Bais e le chiese se Riccardo era suo marito e dove era; lei disse che era nei campi a lavorare. Allora il capitano ordinò che tutti, compresi i bambini – Sofia, Enrico e Romano – salissero sulla camionetta per raggiungere Riccardo. Le donne presenti
Riccardo Negriolli e Maria
in piazza ed alle finestre temettero il peggio : “ Oh mio Dio, li portano tutti in Germania!!..” E qui Enrico ricorda con lucida precisione la scena delle sbarre della ferrovia che erano abbassate, il capitano, impaziente ordinò ai soldati di sollevarle con la forza e di far passare la camionetta subito. Quando Riccardo vide la camionetta ebbe l’impulso di fuggire, ma poi vide anche la moglie ed i bambini ed uscì dalle “piantae”, incontro a loro.
Riconobbe il suo amico capitano Bais, il quale di slancio lo abbracciò, commosso . Riccardo gli raccontò dei dubbi, dell’angosciante scelta, del bombardamento di Firenze dal quale si era salvato miracolosamente e si dichiarò pronto a ritornare nel campo di prigionia tedesco. Ma il capitano scosse la testa e gli spiegò che lui doveva restare con la sua famiglia che aveva bisogno di lui; la Germania invece, disse, era finita “alles kaputt”, ricorda Enrico. Il capitano aveva saputo che quasi tutta la sua famiglia era morta nel bombardamento di Amburgo. Enrico ricorda che furono riaccompagnati a casa e che, prima di andarsene, mentre tutti cercavano di nascondere la commozione, il capitano fece scaricare diverse casse e scatoloni pieni di viveri dalla camionetta perchè, disse: “questi bambini hanno bisogno di nutrirsi meglio”. Dopo la fine della guerra e per molti anni, sia Riccardo che i suoi figli tentarono l’impossibile per rintracciare quel buon capitano Bais, ma invano. Le ricerche però continuano e i Negriolli ancora non disperano di trovare un giorno i suoi eventuali famigliari discendenti.
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Girovagando di Fiorenzo Malpaga
Kenya
KENYA - SCHEDA
esperienza di volontariato e viaggio nel lontano 1979
Tramonto a Mandera
U
n viaggio per raggiungere la missione, gestita da laici, non da turista, ma da curioso e rispettoso viaggiatore, per conoscere il “vero” Kenya, le tribù, i paesaggi, i parchi, il deserto, gli altipiani, i laghi, di questo splendido ed affascinante paese africano. Un viaggio durante il quale ho coniugato l’ esperienza di volontariato presso una missione laica nell’estremo nord del Kenya, a Mandera, cittadina che dista 1200 km dalla capitale Nairobi, ai confini con la Somalia e l’Etiopia, presso un centro educativo per ragazzi orfani, con l’interesse, lo stupore e il fascino di poter vedere e conoscere una realtà così diversa dalla nostra. Tre ragazzi, io e Maria Grazia di 26 anni e la nostra amica Alida, ancora più giovane, desiderosi e motivati di fare quella esperienza
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umana e solidale, e animati dal senso dell’avventura. Già il percorso dalla capitale fino all’estremo nord, si è rivelato pieno di stimoli ed imprevisti; a bordo della Toyota, guidata dal nostro amico Luciano, che ci accompagnava e ci ospitava a Mandera; nell’attraversare il deserto del Chalbi, verso nord, il fuoristrada subì un guasto, eravamo completamente isolati, non c’erano ancora i cellulari, nessun villaggio nelle vicinanze, non si incrociava alcun mezzo lungo la pista sterrata, la paura e la tensione era massima. Luciano riuscì in qualche modo a riparare il mezzo e ci permise di ripartire. Durante il tragitto, la sosta nei pressi del lago Nakuru, il lago “rosso” ricoperto da migliaia di fenicotteri color rosa, poi il grandissimo lago Turkana (Rodolfo), lungo 300 km, popolato da
Il Kenya è un grande Stato, quasi seice ntomila chilometri quadrati, il doppio dell’Italia, è situato nell’Africa centro-orientale. La capitale è Nairobi, la popolazione al 2015 era di 41.600.00 0 abitanti, suddivisa in settanta gruppi etnic i. Nel 1963 ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna, però l’impronta e la cultura ingle se sono rimaste, si pensi che la lingua più parlata, dopo il kiswahili, è l’inglese; la guida è a sinistra, e il sistema scolastico è tipicamen te anglosassone, come l’impostazione delle città più grandi, quale appunto la capitale. Uno stato che presenta una morfologia diversissim a: si va dalla costa sull’oceano indiano, con un mare splendido ed una barriera corallina fra le più belle del mondo (si pensi a Malin di), alle savane del centro, ai deserti del nord , agli altipiani aridi, col monte Kenya alto 5.199 m, e il Kilimanjaro, confinante con la Tanzania, alto 5358 m e con la cima innevata, al lago Vittoria, al lago Turkana (Rodolfo), nei pressi della Rift Valley, la più grande spaccatura della terra . Il 10 % del territorio è destinato ai grandi parchi, si pensi al Masai Mara, allo Tsavo, popo lati da numerosissimi animali quali leoni, giraff e, gazzelle, bufali, elefanti, leopardi antilo pi, e nei laghi e fiumi ippopotami e coccodril li. La popolazione è in continua crescita, com e pure l’economia, anche se il benessere è in capo a pochi (circa il 2%), mentre la metà degl i abitanti vive sotto il livello di povertà. L’ind ustria è concentrata nella periferia della capit ale, ed i trasposti sono abbastanza efficienti.
coccodrilli; più avanti ammiriamo la Rift Valley, la enorme spaccatura della terra. Quindi attraversiamo il deserto del Chalbi, enorme distesa piatta di sabbia salata, con poca acqua al seguito, e proviamo la terribile sensazione della sete, con la lingua indurita come una banana verde. Nel percorso ci fermiamo a dormire in varie missioni e conosciamo i religiosi, anche trentini. Incontriamo diverse tribù: I Masai, con la tipiche tuniche rosse, i Baringo nella zona desertica, con indumenti variopinti e collane colorate, senza un dente davanti, per alimentarsi nel caso di tetano o altre malattie, i Turkana, i Rendile, i Kikuyu, e i Samburu nel nord. Poi passiamo per la zona della tribù dei Borana, di statura piccola, che vivono in villaggi di capanne fatte di paglia e sterco. Ci fermiamo a Vagir, e conosciamo
Girovagando Annalena Tonelli , una bella e affascinante ragazza che aveva rinunciato alla professione legale in Italia, per gestire in quella zona, assieme ad un gruppo di ragazze forlivesi, un centro per il recupero di poliomielitici e tbc. La zona è abitata da musulmani, ai confini con la Somalia. Annalena, insignita del prestigioso premio Nansen per il suo impegno umanitario, è stata uccisa nel 2003 a Borama, in Somalia. Finalmente arriviamo a Mandera, dove siamo rimasti per un mese, presso la “boys town”, il centro educativo per ragazzi. L’orfanatrofio accoglie 25 bambini, ci troviamo subito a nostro agio, aiutati dal responsabile Giuseppe, già missionario della Consolata e Agnese, una ex suora. Durante il soggiorno cerchiamo di collaborare alle iniziative ed esigenze del centro, mia moglie e Alida, aiutando in cucina nelle pulizie e nelle faccende domestiche, mentre io collaboro con piccoli lavori di imbiancatura e alla realizzazione di una condotta che capta l’acqua dal vicini fiume Dawa, per irrigare la terra arida. Nel centro, oltre che la scuola primaria, c’è un laboratorio di falegnameria e una piccola moschea. Si dorme con le zanzariere calate attorno al letto come difesa dagli insetti
Bambini della Boys Town a Mandera
Masai con le tipiche tuniche rosse
ma soprattutto dai serpenti velenosi che entrano dalle finestre sempre aperte. Spesso durante la notte gli spari ci ricordavano il conflitto in atto fra Somalia ed Etiopia (guerra dell’Ogaden). Un giorno ci invitarono in una capanna per prendere un tè, e la padrona attinse con un catino l’acqua torbida da una buca scavata nella sabbia; non ci siamo sentiti, per rispetto, di rifiutare la bevanda. E’ stata un’ esperienza umana e sociale breve ma intensa, che mi è rimasta nel cuore. Sono trascorsi oltre quarant’anni, la modernizzazione e la globalizzazione ha investito anche il Kenya, come ho potuto constatare in viaggi più recenti; purtroppo sta scomparendo quel mondo affasci-
Bambina trasporta il suo fratellino
Maria Grazia, Luciano e io, nel deserto salato del Chalbi
nante della varie tribù nomadi, fatto di usi, costumi, culture, riti, di quei popoli che vivono nelle sterminate savane e deserti.
Lavoro alla condotta d’acqua
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Girovagando in USA di Francesca Gottardi
Se Giulio Cesare avesse avuto un’ambasciata in Nord America, sarebbe stata a Chillicothe! C’è un posto in Nord America che è stato un tempo il crocevia culturale tra le popolazioni tribali nativo-americane. Questo posto si chiama Chillicothe, ed è situato nello stato americano dell’Ohio. Il sito archeologico era una volta il centro nevralgico della cultura indiana Hopewell. Oggi lo andremo a scoprire con il Sig. Bill Huebner, che per 10 anni ha lavorato presso questo centro archeologico che è in procinto di essere dichiarato patrimonio UNESCO dell’umanità.
Panoramica del Sito Archeologico di Hopewell
I
l signor Huebner ha 83 anni ma dalle sue risposte pronte e articolate pensereste che abbia 35. Bill ci racconta dell’importanza cruciale di questo sito nativo americano e di come l’unica cosa che separa il sito archeologico dalla dichiarazione a patrimonio UNESCO sia un campo da golf.
Bill cos’è il Parco Nazionale Storico della Cultura Hopewell? Il Parco Nazionale è un museo all’aria aperta composto da cinque siti arche-
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ologici, tra cui quello principale che contiene gli imponenti tumuli funerari conosciuti come “Mound Group”. A che scopo servivano questi siti archeologici? Servivano da osservatorio astronomico. Questi grandi tumoli di terreno sono disposti su punti chiave nella posizione del sole e della luna su un ciclo di esattamente 18,6 anni. Se ci pensi, è davvero sorprendente. Immagina quanto tempo devi guardare il cielo per determinare con precisione un ciclo di 18,6 anni, in un’epoca
in cui non esisteva ancora una lingua scritta e le informazioni venivano trasmesse oralmente di generazione in generazione! È geniale che qualcuno abbia trovato un modo per “registrare” queste informazioni sul terreno. Evidenzia quanto la cultura Hopewell fosse altamente sofisticata! A quando risale? I primi archeologi che hanno esaminato il sito, hanno stimato che avesse solo sui 300 anni. Con la datazione al radiocarbonio oggi sappiamo che questi siti risalgono a più 2000 anni fa!
Girovagando in USA
Bill Huebner
Sono importantissimi allora! Si, sono talmente importanti che sono in fila per l’iscrizione al patrimonio mondiale UNESCO, che probabilmente avverrà tra un paio d’anni perché ci sono alcuni problemi con uno dei siti. Che tipo di problema? C’è un campo da golf su uno dei siti. Quindi prima bisogna smantellare il campo da golf, che quello patrimonio UNESCO non ci può diventare! Sei entrato in contatto con qualche italiano in visita al Parco? Si, c’erano dei ricercatori italiani che lavoravano al Parco. Dicevo loro che se Giulio Cesare avesse avuto un’ambasciata in Nord America, sarebbe stata a Chillicothe, perché era lì che si trovava il centro della cultura nativo americana del tempo. Sappiamo chi è stato sepolto negli imponenti tumuli funerari di Hopewell?
Il tumulo in proporzione
Si pensa fossero sepolti personaggi di spicco importanti nella comunità. Pensa che sotto uno dei più grandi tumuli c’erano almeno 100 sepolture. Come vivevano i nativi americani di Hopewell? Vivevano in piccoli insediamenti di due o tre case, come una famiglia allargata. Pensiamo che fosse una cultura piuttosto egualitaria. Non c’erano re, né governanti. Le persone importanti erano i capi religiosi, gli sciamani. Si crede che le persone sepolte qui fossero dei leader religiosi. Come hanno fatto a costruire questi giganteschi terrapieni con rilevanza astronomica? Persone provenienti da tutti gli Stati Uniti orientali venivano qui per partecipare alla loro costruzione. Alcuni pensano che la costruzione in sé fosse un atto di adorazione. Gli oggetti rinvenuti fanno intuire vi fosse del commercio intertribale? Più probabilmente questi oggetti attribuibile alle offerte di pellegrinaggio. Quest’area era un po’come Roma per la chiesa cattolica. I pellegrini ve-
nivano e portavano dei doni. La cosa curiosa è che non troviamo oggetti appartenenti alla cultura Hopewell altrove negli USA. Era una strada a senso unico. Quindi, tutto fa pensare non si trattasse di commercio intertribale, ma di doni a sfondo religioso. Il British Museum ha pubblicato un elenco dei suoi 100 oggetti archeologici più importanti. Uno dei pezzi era proprio una pipa rinvenuta qui al
Parco Nazionale di Hopewell. Hai mai avuto visitatori italiani? Si! Un gruppo di archeologi italiani che hanno visitato il parco di recente e ne sono rimasti stupefatti! Immagina che soddisfazione vederli a bocca aperta quando in Italia non puoi mettere una pala nel terreno senza trovare qualcosa di valore storico. Gli ho raccontato tutto quello che so del sito archeologico. Sai, sono sempre il Cicerone qui al Parco! C’è questa retorica secondo cui gli Stati Uniti sono un Paese relativamente “nuovo”. Si dimentica che qui c’erano intere civiltà prima che Cristoforo Colombo arrivasse negli USA… Concordo. Per la maggior parte queste civiltà native sono state cancellate, spazzate via. Per questo uno degli obiettivi del Parco Nazionale è preservare la storia degli indiani d’America.
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Che tempo che fa di Giampaolo Rizzonelli
2020: ancora un anno caldo per il Pianeta Terra E le concentrazioni di anidride carbonica continuano ad aumentare nonostante i “lockdown”.
A
ncora un anno molto caldo a livello mondiale ma anche per l’Europa e l’Italia.
Il grafico di fig. 1 del NOAA USA (NOAA National Centers for Environmental information, Climate at a Glance: Global Rankings, published February 2021, retrieved on February 17, 2021 from https://www. ncdc.noaa.gov/cag/ ) ci dice che il 2020 è stato il 2° più caldo dal 1880 con un’anomalia di temperatura di +0,98°C rispetto al periodo 19012000. Più caldo fu solo il 2016 ma con un’anomalia di temperatura di +1,0°C, più freddo il 1904 con un’anomalia di -0,46°C. I dati sono confermati anche dal programma Copernicus Climate Change Service (C3S), che oltre per l’Europa effettua analisi anche per l’intero pianeta, la cartina di Fig. 2 mostra le differenze di temperatura per la Terra per il 2020, rispetto alla media 19812010. Fonte: ERA5. Credito: Copernicus Climate Change Service / ECMWF. Insieme a Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), C3S segnala inoltre che le concentrazioni di CO2 nell'atmosfera hanno continuato ad aumentare a un tasso di circa 2,3 ppm/annuo nel 2020, raggiungendo un massimo di 413 ppm durante maggio 2020. Sia C3S che CAMS sono implementati dal Centro europeo per le previsioni meteorologiche a medio raggio da parte della Commissione Europea, con finanziamenti dell’Unio-
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fig. 1 temperature pianeta anno 2020
ne Europea. Riassumendo i dati del report di Copernicus: Il dataset di C3S relativo alle temperature dell'aria in superficie mostra che: • A livello globale, il 2020 è stato alla pari del 2016, l’anno con temperature da record. • Il 2020 è stato di 0,6°C più caldo rispetto al periodo di riferimento standard 1981-2010 e di circa 1,25 ° C al di sopra del periodo pre-industriale 1850-1900. • Si tratta di uno degli ultimi sei anni i più caldi mai registrati. • Per l'Europa è stato l’anno più caldo mai registrato con temperature di 1,6°C al di sopra del periodo di riferimento 1981-2010 e di 0,4°C al di sopra delle temperature del 2019, l'anno precedentemente più caldo. • La più grande deviazione annuale della temperatura media del periodo 1981-2010 si è registrata nell'Artico e nella Siberia settentrionale, raggiungendo oltre 6° C al di sopra della media.
Le misurazioni satellitari delle concentrazioni globali di CO2 nell’atmosfera mostrano che: • Il massimo di CO2 della media globale ha raggiunto 413 ppm. • Il livello CO2 ha continuato a crescere nel 2020, aumentando di 2,3 ± 0,4 ppm, con un tasso di crescita leggermente inferiore all’anno precedente. Parti dell'Artico e della Siberia settentrionale hanno visto alcune delle più grandi deviazioni della temperatura annuale dalla media nel 2020, con un'ampia regione che ha registrato deviazioni fino a 3°C e in alcune località anche oltre 6° C per l'intero anno. Su base mensile, le maggiori anomalie di temperatura positive/al di sopra dello zero nella regione hanno ripetutamente raggiunto più di 8°C. La Siberia occidentale ha vissuto un inverno e una primavera eccezionalmente caldi, un andamento osservato anche durante l'estate e l'autunno nell'Artico siberiano e su gran parte dell'Oceano Artico. Inoltre, in questa regione la stagione
Che tempo che fa
fig. 2 temperature pianeta Copernicus rispetto a media 1981 2010
Fig. 3 anomalie temperatura media ITALIAanno 2020
degli incendi è stata insolitamente attiva: è iniziata a maggio ed è continuata per tutta l'estate, fino ad autunno inoltrato. Di conseguenza, al Circolo Polare Artico gli incendi nel 2020 hanno rilasciato una quantità record di 244 mega tonnellate di anidride carbonica, oltre un terzo in più rispetto al record del 2019. Durante la seconda metà dell'anno, la dimensione della calotta polare artica è stata significativamente inferiore alla media per il periodo dell'anno con luglio e ottobre che hanno registrato una bassa estensione da record.
In generale, l'emisfero settentrionale ha registrato temperature superiori alla media per l'anno, ad eccezione di una regione sul centro Nord Atlantico. Al contrario, parti dell'emisfero australe hanno registrato temperature inferiori alla media, in particolare nel Pacifico equatoriale orientale, associate alle condizioni più fresche di La Niña che si sono sviluppate durante la seconda metà dell'anno. È interessante notare che il 2020 eguaglia il record del 2016 nonostante il raffreddamento causato da La Niña, mentre il 2016 è stato un anno record che è
iniziato con un forte riscaldamento di El Niño. Vincent-Henri Peuch, Direttore di Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), commenta: “Sebbene le concentrazioni di anidride carbonica siano aumentate leggermente meno nel 2020 rispetto al 2019, questo non è motivo di compiacimento. Fino a quando le emissioni globali nette non si ridurranno a zero, la CO2 continuerà ad accumularsi nell'atmosfera e a determinare ulteriori cambiamenti climatici. Nel contesto della pandemia COVID-19, è stato stimato dal Global Carbon Project una riduzione di circa il 7% delle emissioni di CO2 fossile. “In quale misura questo sia stato un fattore nel minore aumento totale è discutibile, poiché le variazioni del tasso di crescita globale sono dominate dai processi naturali. Dobbiamo continuare gli sforzi per ridurre le emissioni nette di CO2 per ridurre conseguentemente il rischio di cambiamenti climatici”, aggiunge Vincent-Henri Peuch. “Gli straordinari eventi climatici del 2020 e i dati di Copernicus Climate Change Service ci mostrano che non abbiamo tempo da perdere. Dobbiamo unirci come comunità globale, per garantire una giusta transizione verso un futuro a zero emissioni. Sarà difficile, ma il costo del non agire è troppo alto, motivo per cui gli impegni presi nell'ambito del nostro Green Deal europeo sono così necessari", sottolinea Matthias Petschke, Direttore della direzione Spazio, direzione generale per l'Industria della difesa e lo spazio (DG DEFIS), Commissione europea. Tornando alle temperature non è andata meglio la situazione in Italia, dove abbiamo registrato il 5° anno più caldo dal 1800 con un’anomalia di +0,96°C rispetto al periodo 1981/2010 il tutto è ben evidenziato nella figura n. 3
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Altroconsumo risponde di Alice Rovati*
Il diritto di recesso
I
n data 2.2.2021 acquistavo un tappeto mediante televendita. Ricevuto il bene mi accorgevo che non presentava le caratteristiche e qualità descritte in tv (anche il colore era differente rispetto a quello ordinato). Ho quindi esercitato il recesso inviando la raccomandata a.r. il 12.2.2021. Vi chiedo, quindi, se per rispettare i termini previsti dalla normativa (14 giorni) fa fede il timbro postale di invio o la ricezione della raccomandata al destinatario. Esercitare il diritto di recesso significa semplicemente rinunciare all’acquisto. Indipendentemente dal motivo, anche semplicemente perché avete cambiato idea, è possibile inviare una lettera raccomandata con avviso di ricevimento, un fax o una e-mail (attenzione che l’onere della prova spetta a voi) al venditore entro: 14 giorni che decorrono:
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dalla data di consegna, se ho comperato un prodotto; dalla data di conclusione del contratto, se ho acquistato un servizio. Ai fini della verifica dell’effettivo rispetto dei termini per l’esercizio del diritto di recesso fa fede il timbro postale, in altre parole la lettera raccomandata dovrà essere consegnata all’ufficio per essere spedita entro il termine utile. Ricordo che le spese per la restituzione dei beni è solitamente a carico del consumatore. Nel caso in esame è configurabile anche di un difetto di conformità. Il Consumatore, quando il prodotto acquistato non rispetti quanto promesso dal venditore (o dalla pubblicità) è tutelato dalla garanzia legale, detta proprio di conformità, prevista dal Codice del Consumo (D. Lgs205/2006, articoli 128 e ss.). In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza
spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto. Il termine per la denuncia del difetto è di due mesi dalla sua scoperta. *La dott.ssa Alice Rovati, docente di diritto, rappresentante provinciale di Altroconsumo. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Trento, con una tesi sui diritti umani. Ha frequentato diversi corsi di specializzazione in materia consumeristica e ha partecipato, in qualità di relatrice, a numerosi incontri informativi e a progetti dedicati alla tutela del consumatore. Dal 2016 è membro del Consiglio di Altroconsumo Chi desiderasse avere un parere o una risposta su un qualsiasi problema o porre un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore. feltrinonew@gmail.com
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