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Oristanese in fiamme, l’apocalisse in terra
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ile interminabili di camion e autoarticolati carichi di foraggio e mangimi attraversano la principale arteria stradale della Sardegna, la statale 131 Carlo Felice. Arrivano da ogni dove e tutti si dirigono verso l’oristanese. Da giorni ormai, se ne incrociano ovunque. Sono diretti verso il Montiferru, nel tentativo di dare sostegno agli allevatori della zona dopo il terribile incendio iniziato il 23 luglio e durato quasi una settimana. Pochi numeri per dare le dimensioni del più grande fuoco che l’isola abbia conosciuto negli ultimi 100 anni. Non è stato facile domarlo, ci sono voluti 22 mezzi aerei, compresi dei Canadair di provenienza francese e greca, migliaia di uomini, molti volontari, squadre a terra del Corpo forestale, della Protezione civile, dei Vigili del fuoco. Oltre ai numerosissimi allevatori e persone
comuni. La conta dei danni è ancora provvisoria e ufficiosa: più di 20.000 ettari tra bosco, pascolo, vigne e altre zone coltivate, rase al suolo. E ancora, 150.000 ulivi bruciati, 1.300 aziende tra imprese agricole, artigianali e commerciali in ginocchio; 30 milioni di api coinvolte, di cui la metà sparite e l’altra metà senza un luogo dove più posarsi. Perché ci sono chilometri e chilometri ormai completamente privi di vegetazione e di forme viventi di qualunque tipo. Tredici tra località e comuni sfollati a turno nei diversi giorni e nelle diverse notti che hanno distrutto la più grande montagna dell’oristanese. Animali selvatici, domestici e da allevamento inghiottiti dall’inferno. Migliaia tra pecore, mucche, cavalli morti carbonizzati o asfissiati. Ma anche volpi, cerbiatti, mufloni, cinghiali, uccelli. Un patrimonio naturalistico di rara bellezza che
Animali selvatici, domestici e da allevamento sono stati inghiottiti dall’inferno (photo © Alessandro Tocco/LaPresse).
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aveva impiegato secoli a costituirsi e che dal 23 luglio scorso e per alcuni giorni, è stato inghiottito da fiamme alte oltre 30 metri, visibili a distanza di decine di chilometri, che hanno generato una coltre di fumo e di cenere giunta sino a Sassari, a ben 80 chilometri di distanza, complice il forte vento. Il danno complessivo ipotizzato è di 1 miliardo di euro circa. Ma ci preme, di questa vicenda, descrivere soprattutto quale macchina della solidarietà abbia messo in moto. In Sardegna è “sa paradura”. Un termine che pian piano, e purtroppo per occasioni mai felici, sta diventando sempre più noto anche in ambito nazionale. In senso stretto significa rinnovamento di un gregge. Quel riallevamento che i pastori fanno a sostegno dei colleghi che hanno perso il proprio bestiame. Può essere a causa di un evento climatico, di un furto, di una detenzione carceraria, quando un allevatore perde i suoi animali, vanno in soccorso tutti gli altri, ognuno ad offrire una pecora, in modo che il gregge si possa riformare, appunto. Questo termine, nato con un’indicazione ben precisa, ora estende il suo significato, per analogia, a quelle forme di solidarietà a cui sempre più spesso siamo abituati ad assistere a seguito di eventi tragici. Questo vogliamo vedere: una macchina della solidarietà senza precedenti nella storia recente della Sardegna. Singoli cittadini, singole imprese, allevatori, agricoltori, autotrasportatori, associazioni religiose e non, sindacati, ordini professionali, confederazioni datoriali, l’elenco è lungo e non esaustivo e richiama tutti coloro che si sono messi in marcia verso l’oristanese per dare un sostegno e un contributo concreto.
Eurocarni, 9/21