Azione 7 del 13 febbraio 2023

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MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5

SOCIETÀ

Amori lontani: un libro spiega come trasformare la distanza in una preziosa opportunità

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Chi

TEMPO LIBERO

Fotomontaggi, scatti con lunghe pose, frammenti di realtà; giochi di specchi, mise en abîme…

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è davvero in salvo?

ATTUALITÀ Pagina 17

A Berna si discute una riforma da 770 milioni di franchi per favorire la conciliabilità famiglia-lavoro

Beatamente e beotamente distratti

Carlo Silini

Rilassarsi? Magari! A dispetto dei continui appelli a trovare calma interiore ed equilibrio mentale da parte di psicologi, guru di varia ispirazione e infiniti coach dell’anima e del corpo, basta accedere ai media in qualsiasi momento della giornata per finire sommersi da una carriolata di stress.

Lunedì scorso la radiosveglia si attiva annunciando che l’Anatolia si è spostata di 5 metri e migliaia di persone sono rimaste schiacciate dal soffitto o dalle pareti di casa mentre dormivano. Già ci pareva indigesto il ping pong delle bombe tra Russia e Ucraina, gli anni claustrofobici della pandemia e tutto il balletto di iniquità e malesseri mondiali e locali che ci siamo sorbiti negli ultimi tempi, ma ogni mattina spunta una nuova tragedia: un naufragio di fuggiaschi in mare, l’esecuzione di un dissidente in un Paese crudele, l’ennesimo femminicidio, l’ultima

strage sulle strade della movida. Senza contare le spine personali che pungono, più o meno in profondità, ognuno di noi. Hai voglia di placare i morsi dell’ansia e della tristezza!

Certo, a stanarle col lanternino, ci sono anche le belle notizie. La storia della prima fusione nucleare controllata, annunciata un paio di mesi fa, per esempio, che però, a ben guardare, nasconde qualche aculeo. Lo sapevate, per dire, che questo mirabile progresso scientifico nasce dalla ricerca militare, dove «gli esperimenti servono per simulare le esplosioni di ordigni nucleari proibite dai trattati internazionali» (come spiega un nostro collaboratore in un servizio a pag. 7)? Complicato, in queste condizioni, mantenersi zen.

E così, se appena ne abbiamo occasione, ci tuffiamo nelle gioie effimere dell’intrattenimento grezzo e ruspante, che va dalla fruizione delle

kermesse sportive, alla sacra celebrazione in pigiama e sul divano del rito annuale di Sanremo, alla baldoria caciarona e birraiola dei carnevali fatti apposta per rompere la mestizia penitenziale di quell’eterna Quaresima che è il pauroso mondo che si degrada là fuori.

Semel in anno – dicevano gli antichi – licet insanire: una volta l’anno è lecito darsi alla pazza gioia. Solo che tendiamo a farlo non una ma cinquanta volte l’anno, contando i fine settimana, dove ognuno cerca di rigenerarsi come meglio crede e può. Anzi, lo facciamo in ogni attimo libero. La sera, immergendoci col telecomando nei mondi paralleli di Netflix o nei programmi più o meno trash e disimpegnati della tv. E lungo la durata del giorno, alla fermata del bus o in pausa pranzo, calati mentalmente nel pozzo ipnotico del telefonino e dei suoi tentacoli social. Vero che esistono alternative nobili a queste

CULTURA Pagina 27

Un tuffo nel grande amore del Maestro per la sua Margherita al centro del capolavoro di Bulgakov

che sono a tutti gli effetti «armi di distrazione di massa», tipo leggere un libro o passeggiare nei boschi. Ma i nostri giorni sono grami e preferiamo non giudicare con troppa sufficienza o ipocrisia i passatempi più fatui della quotidianità. Abbiamo tutti bisogno di riequilibrare il male del mondo con qualche ora di vacuità. Purché poi – spenta la tele, il computer o il telefonino – rigenerati da un pizzico di spasso mentale, torniamo a ricordarci che là fuori c’è un pianeta che brucia, si sbriciola e s’affanna. E che le nostre oasi di leggerezza non sono un alibi per diventare indifferenti, cinici e superficiali come certi intrattenimenti dai quali spesso ci lasciamo risucchiare beatamente e beotamente, ma una chance – che moltissime altre persone non hanno – per ritrovare il bandolo della felicità. E magari, pensa un po’, anche per sostenere chi non può permettersi il minimo svago.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 Cooperativa Migros Ticino
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● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione
Romina Borla Pagina 21
2 Keystone
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Una lunga storia fatta di numeri

Speciale

90esimo ◆ Le casse registratrici hanno subito nel corso dell’ultimo secolo un’evoluzione incredibile, fino a diventare il fulcro dell’attività commerciale di tutta l’azienda

In un articolo pubblicato sul nostro settimanale il 9 ottobre del 1952, si racconta, con toni da parabola curiosa, la storia del registratore di cassa. Nato a metà dell’800 negli Stati Uniti per opera di un commerciante di nome Patterson, lo strumento si era affermato inizialmente con grande difficoltà, nonostante i suoi pregi fossero indiscutibili. Parlando della sua diffusione in Svizzera, l’articolista annotava: «Il commercio vero e proprio delle calcolatrici cominciò a svilupparsi solamente nel 1900, e a poco a poco, l’idea del registratore di cassa si diffuse nel nostro Paese. Ancora nel 1920 la sede principale a Zurigo (della ditta Patterson) occupava locali primitivi e dava pane a poche persone. Nel 1935 l’agenzia svizzera fu trasformata in una Società Anonima svizzera. Da quegli scoraggianti inizi a oggi, più di 35 mila registratori di cassa sono stati venduti in Svizzera, dei quali circa 1200 nel Cantone Ticino».

La presenza di casse registratrici è sempre stata garanzia di innovazione e affidabilità nella storia del mondo Migros

Naturalmente anche nella storia di Migros Ticino, la presenza di efficienti casse registratrici è sempre stata una garanzia di innovazione e di affidabilità. In occasione ad esempio dell’apertura della nuova filiale di Mendrisio, nel gennaio del 1947, insieme alle varie misure che denotavano la modernità della sede si decantavano le «casse registratrici nuovissime con indicazione al cliente della somma spesa». Col passare degli anni è possibile seguire proprio attraverso i nostri articoli l’evoluzione della loro fisionomia. Nel 1952, ad esempio, in occasione dell’apertura della filiale di Molino Nuovo scrivevamo: «Le nuove macchine registratrici meritano di essere descritte al pubblico. Sono di ultimissimo modello: una speciale composizione isolante, simile a spugna, attenua il rumore quando si batte la cassa: cosa che è sommamente importante ove si consideri che nei momenti di punta tutte e tre le macchine calcolatrici marciano ininterrottamente». Un’altra miglioria, in quegli anni, era la presenza di «casse registratrici con sedile per le cassiere».

È evidente che l’introduzione di questi strumenti di lavoro si adattasse principalmente al nuovo modello di vendita del negozio «servisol», una novità che all’inizio aveva suscitato una certa resistenza da parte dei consumatori. Per i clienti, la possibilità di scegliere da soli i prodotti, senza passare dai banchi di vendita è stata un’innovazione non da poco, di cui oggi fatichiamo forse a renderci conto. Nel 1965 si osservava: «Si può ritenere che il 50 per cento di tutte le vendite nel commercio alimentare

del nostro paese (panettiere, latterie e macellerie escluse) è effettuato in negozi a sistema servisol completo. Si tratta di una quota primato per l’Europa, dove soltanto Svezia e Germania sono prossime a questo risultato».

Un momento fondamentale dell’evoluzione è stato rappresentato dalla centralizzazione nazionale dei dati di vendita

Nel frattempo, il sistema delle casse evolveva, fino al portare ad esempio a una situazione curiosa, nella filale di Chiasso, aperta nel 1965: «Cinque sono le casse registratrici, una con resa automatica della moneta, mentre una di queste casse è riservata al pagamento in lire italiane e una per gli acquisti espresso (da uno a tre articoli)».

Le casse con la resa automatica (qualcuno se le ricorda?) devono essere state una grande novità, che sollevava le cassiere dal compito difficile e anche rischioso di maneggiare correttamente la moneta per il resto.

Le casse dei supermercati però ponevano anche problemi. Vale la pena di leggere questo trafiletto che contabilizzava con molta precisione il processo del pagamento: «Nei nostri negozi i punti deboli sono le strozzature davanti alle casse registratrici. Siamo dunque obbligati a mettere tutto in funzione per facilitare il lavoro delle cassiere e per evitare gli errori. Pensiamo al fatto che ben un milione e duecentomila clienti acquistano giornalmente nei negozi Migros ciò che rappresenta oltre dodici milioni di battute sulle nostre casse registratrici, ossia oltre tre miliardi e seicento milioni in un anno. Un solo secondo che si possa economizzare per battuta di cassa rappresenta in un anno 3,6 miliardi di secondi ossia un milione di ore di lavoro per il nostro personale o di attesa per i nostri clienti. Anche se non si trattasse che di un decimo di secondo, si economizzerebbero già centinaia di ore».

Il problema dello smaltimento delle code alle casse diventa un tema che viene sollevato spesso e che porta nel 1974 alla creazione di un nuovo sistema, cioè «la prima cassa registratrice elettronica sulla quale né la cassiera né il cliente devono più operare manualmente (…). Il dipartimento Datatronic della ditta Zellweger di Uster ha messo a punto, in stretta collaborazione con la Migros, un sistema automatico di casse registratrici denominato APOSS. Gli esperti la considerano la più grande realizzazione nel settore della vendita al dettaglio dall’introduzione dei negozi a libero servizio».

A questo punto dell’evoluzione, siamo a un passo dalla centralizzazione dei dati di vendita a livello nazionale: partendo da quel sistema infatti sarebbe poi stato possibile creare un controllo al dettaglio che influenzasse i processi di acquisto nel magazzino centrale dell’azienda. «Il sistema di registrazione elettronica dei prodotti alla cassa del negozio permette di determinare immediatamente gli articoli che si vendono bene e quelli il cui smercio va a rilento. La soppressione di questi articoli è del resto nell’interesse del consumatore, perché il prezzo degli articoli che acquista comprende spesso anche una parte delle spese di deposito delle merci che si vendono meno bene», si scriveva al proposito nel nostro settimanale nel 1983.

L’annotazione si riferiva all’entrata in uso delle casse registratrici automatiche in grado di leggere il codice a barre sui prodotti, una novità assoluta che all’epoca aveva destato interesse e interrogativi, e che oggi è alla base della nostra vita quotidiana. Nel 1986 Migros Ticino aveva partecipato con Migros Zurigo al progetto pilota per l’uso di questi nuovi sistemi di registrazione. Casse dotate di scanning erano state installate in un primo tempo nelle succursali MM Biasca, MMM Lugano e nel centro MMM S. Antonino. In seguito il loro uso diventerà normalità.

In alto: commessa ticinese con una delle prime casse scanner in una foto scattata a Biasca negli Anni 80; sopra: il nuovo sistema di pagamento in autoscan «subitoGo».

Gli acquisti oggi: le corsie preferenziali «subito»

Gli ultimi sviluppi nel settore vanno nella direzione di una sempre maggiore libertà di movimento per il cliente, il quale può scegliere un percorso individualizzato, secondo i propri tempi e le proprie necessità, rendendo più veloce il momento del pagamento. Le nuove possibilità sono offerte dal sistema «subito», che si declina in tre diverse varianti.

La prima (e per certi versi vicina alla modalità tradizionale) è quella del «Self-check out». Il cliente, al termine del percorso di acquisti, può utilizzare un terminale in autonomia, scansionando da solo i prodotti. Può presentare (o meno) la propria

carta Cumulus per usufruire dei relativi vantaggi. Dopo aver registrato i suoi acquisti può pagare elettronicamente con carta o cellulare (o ancora con carta prepagata Migros).

La seconda variante si chiama «Self scanning»: occorre che il cliente sia possessore di una carta Cumulus, e che si munisca di uno dei lettori appositi che sono presenti all’entrata della filiale. Gli acquisti effettuati vanno registrati sullo scanner: il vantaggio per il cliente è che sul display può sempre verificare il totale della spesa e le offerte promozionali, mentre i prodotti possono essere riposti direttamente

nelle proprie borse. Giunto alla fine del percorso di acquisto, deposita lo scanner in una stazione di restituzione comune e poi presenta la propria carta Cumulus a una qualsiasi delle casse previste per questo scopo, e conclude la procedura con il pagamento.

L’ultima possibilità si chiama «subitoGo»: per sceglierla non sono necessarie altre infrastrutture se non il proprio telefono cellulare. All’entrata del negozio basta inquadrare con il telefono un QR Code apposito; poi, sempre con il cellulare, si scansionano i codici dei vari prodotti scelti. Per il pagamento si usa lo stes-

so cellulare. Tutto il processo avviene all’interno dell’App di Migros, in cui sono già registrati ad esempio i buoni sconto collegati alla Cumulus e gli estremi della carta su cui addebitare l’acquisto.

Per tutti e tre i sistemi sono previsti da parte del personale controlli a campione, che verificano la correttezza della procedura.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2
MONDO MIGROS

Aneurisma cerebrale e prevenzione

Il neurochirurgo di Ars Medica Centro Colonna Vertebrale, Thomas Robert, spiega la pericolosità della subdola patologia

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Che cos’è la fusione nucleare controllata Due mesi fa il successo di un esperimento del Lawrence Livermore National Laboratory è stato definito epocale, lo è veramente?

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Aiutano resistenza fisica e psichica

In fitoterapia sono note come «adattogene» quelle piante che rinforzano le nostre difese e combattono la stanchezza

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Gli amori lontani possono brillare come stelle

Sentimenti ◆ Le relazioni a distanza sono sempre più frequenti. A volte difficili da portare avanti, hanno anche dei vantaggi, come raccontano le psicologhe Valentina Iadeluca e Antonella Montano in un nuovo libro

Dell’amore a distanza si è occupata, per secoli, la letteratura. Uno degli aforismi più citati è del romanziere canadese Gilbert Parker, vissuto tra la seconda metà del 1800 e l’inizio del secolo scorso: «L’amore non conosce distanze; non ha continente; i suoi occhi sono le stelle». Un’altra massima – ripresa dal cantautore italiano Domenico Modugno in una canzone del 1970 – è stata scritta nel Seicento dal francese Roger de Rabutin: «La lontananza fa all’amore quello che il vento fa al fuoco: spegne il piccolo, scatena il grande».

L’importante nei rapporti d’amore è armonizzare il bisogno di autonomia personale e la spinta a essere insieme all’altro

Molti rapporti, ai giorni d’oggi, nascono in rete attraverso app di dating o via social, creando legami tra persone che non si sono mai incontrate e che vivono in città, Paesi o continenti diversi. Ma le relazioni a distanza possono davvero funzionare? Le psicologhe Valentina Iadeluca, che lavora tra Italia, Spagna e Stati Uniti, e Antonella Montano, fondatrice e direttrice dell’Istituto A.T. Beck di Roma e Caserta, hanno cercato di rispondere a questa domanda. Hanno scritto Amori lontani. Esercizi per imparare a conoscere e vivere al meglio le relazioni a distanza (FrancoAngeli), una breve guida che alterna approfondimenti teorici, suggerimenti pratici ed esercizi.

Valentina Iadeluca e Antonella Montano, per cominciare, ci potete dire che cos’è, secondo voi, l’amore?

L’enciclopedia Treccani scrive: «L’amore è un sentimento di viva affezione verso una persona, che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia». Secondo noi l’amore romantico, di cui tutti parlano, è un sentimento incredibilmente soggettivo. L’innamoramento rappresenta la prima fase, quella in cui veniamo inondati da una vera e propria cascata di ormoni e vogliamo solo perderci tra braccia del nostro amato o della nostra amata. L’amore vero e proprio inizia alla fine di questa luna di miele, quando impariamo a vedere l’altro per quello che è, con le sue luci e le sue inevitabili ombre, e lo scegliamo comunque. Ci assumiamo la responsabilità delle nostre reazioni, accogliamo, da una posizione di comprensione, anche gli aspetti del

partner che non necessariamente ci piacciono, e sappiamo farne il nostro compagno di viaggio.

Le relazioni a distanza sono più frequenti rispetto a una volta?

Se è vero che gli amori epistolari sono sempre esistiti, è indubbio che oggi le relazioni a distanza sono probabilmente più frequenti. Ci sono due ragioni di base. Innanzitutto, in parte siamo diventati tutti più «mobili»: ci si può incontrare durante una vacanza studio, un viaggio o comunque fuori dal perimetro del nostro quartiere o della nostra città. In secondo luogo, l’uso dei social media e delle applicazioni di dating fa sì che Cupido possa scoccare la sua freccia anche tra persone che vivono in realtà e luoghi fisicamente molto distanti tra di loro.

Queste relazioni possono funzionare bene?

Gli amori lontani hanno grandi potenzialità sia a livello personale sia di coppia. A livello personale insegnano molto rispetto all’imparare a stare da soli e, nello stesso tempo, a essere in

relazione con qualcuno. Queste due abilità sono fondanti per la crescita personale di ognuno di noi. Funzionano quando entrambi i partner sono disponibili a farsi spazio a vicenda, affinché l’altro, dall’essere un’immagine sfumata su uno sfondo, diventi una realtà concreta nella propria vita.

Nel libro scrivete che esistono cinque «dimensioni» per gli amori a distanza. Quali sono?

Abbiamo definito le cinque dimensioni attraverso l’immagine di una stella: futuro; comunicazione; fiducia; erotismo; impegno. Quando si prodiga la giusta dose di attenzione a ciascuno di questi aspetti, gli amori a distanza brillano e spandono nel cielo la propria luce, per rischiarare le notti buie di solitudine.

La lontananza rende i rapporti più stimolanti?

La separazione, soprattutto nelle relazioni che esistono già, fa male al cuore ma porta il sapore della riscoperta, perché ogni incontro è voluto e desiderato. È come immettere nuova

linfa nel rapporto. Ci si incontra perché lo si vuole veramente e in queste occasioni si tende a dare il meglio di sé. Gli appuntamenti possono essere in diverse parti del mondo e, generalmente, il lavoro e gli impegni di tutti i giorni vengono tenuti alle porte. Attraverso la mancanza dell’altro ne ritroviamo il valore.

Un po’ di distanza, quindi, potrebbe giovare anche alle coppie di lunga data?

Come diciamo nel nostro libro, amarsi significa sempre accorciare una distanza emotiva, psicologica, esistenziale oppure valoriale. E tutti gli amori – lontani e non – devono trovare la strada per interpretare e risolvere una tensione che è intrinseca a ogni rapporto: quella tra il bisogno di autonomia personale e la spinta a essere insieme all’altro. Non è tanto la distanza fisica a far bene all’amore quanto piuttosto la capacità di armonizzare la dimensione individuale accanto a quella dell’intimità. Le relazioni a distanza obbligano a intraprendere questo percorso.

Come si fa a superare la gelosia e a mantenere la fiducia?

La fedeltà è una scelta, sempre e comunque. Questo significa che davanti a un’occasione capace di portarci altrove, siamo noi a decidere se onorare o meno il nostro patto d’amore, se abbiamo un mutuo accordo di esclusività. Le situazioni che portano all’infedeltà si presentano anche quando si abita nella stessa città. Sicuramente la lontananza può farci sentire molto soli, a momenti, e a volte può farci vacillare e renderci più fragili. In generale, c’è confusione sul concetto di fiducia. Quando si ama si corre sempre un rischio. Ed è inevitabile ferirsi, perché siamo persone con storie di vita, convinzioni e aspettative diverse. È impossibile che l’altro corrisponda sempre ai nostri bisogni. Se ci pensiamo bene, l’atto di fiducia più profondo che si possa fare in amore consiste nel credere che noi – come coppia – ce la faremo a superare le difficoltà e gli ostacoli che inevitabilmente incontreremo. Inclusa la distanza.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
Oggi le relazioni a distanza nascono anche grazie all’uso dei social e delle applicazioni di dating. (Pexels.com) Stefania Prandi

Happy Valentine’s Day

San Valentino ◆ Domani è la festa degli innamorati: perché non stupire la dolce metà con un bel mazzo di fiori consegnato in un’ora?

Il 14 febbraio è un’occasione imperdibile per dimostrare il proprio amore alla persona che ci sta più a cuore. Per farlo, oltre agli auguri di rito, non può mancare un regalo che sottolinei degnamente la ricorrenza. E in questo caso i fiori sono sicuramente tra i prodotti più gettonati. Presso i reparti fiori Migros è disponibile un ampio assortimento di composizioni floreali per ogni desiderio e budget. Accanto alla possibilità di recarsi direttamente nel proprio negozio Migros di fiducia facendosi consigliare il bouquet personalizzato più adatto, c’è anche la possibilità di ordinare online su Smood.ch una completa selezione di fiori per San Valentino e farli consegnare all’indirizzo desiderato entro un’ora, allegando un bel biglietto d’auguri (info e condizioni su Smood.ch). Inoltre, con un acquisto di almeno CHF 20.-, la consegna avviene in modo gratuito. La scelta spazia dalle rose sostenibili Max Havelaar ai diversi mazzi misti multicolori, dalle orchidee fino alle composizioni con bellissime decorazioni ad hoc.

Smood.ch: spesa online facile e veloce Ricordiamo che l’accesso a Smood è assolutamente semplice e intuitivo e possibile da qualsiasi dispositivo: basta accedere al sito Smood.ch o direttamente dal proprio telefonino tramite la relativa app per Android o iOS. Una volta effettuata l’iscrizione, indicate l’indirizzo di consegna, la data e l’orario di fornitura desiderati. Premete sulla sezione «Fiorai» e selezionate «Migros Florissimo». Scegliete il vostro arrangiamento preferito, il biglietto d’auguri da accludere, terminate l’ordine e pagate comodamente tramite carta di credito, Twint o criptovalute. Più facile di così!

Marrons Glacés di nuovo disponibili

Attualità ◆ Le celebri specialità ticinesi della Sandro Vanini sono tornate sugli scaffali di Migros Ticino

A causa di difficoltà di approvvigionamento delle materie prime, purtroppo da qualche settimana le apprezzate delizie a base di castagne candite a firma Sandro Vanini non erano più disponibili nei negozi Migros. Per la gioia di tutti i golosoni nei prossimi giorni le dolci tentazioni saranno di nuovo in vendita. La gamma include i Marrons Glacés nella scatola regalo da 6 e 12 pezzi, come pure la variante a pezzi in vasetto. Prodotto di punta dell’azienda di Rivera, queste specialità sono preparate ancora oggi con perizia artigianale seguendo la ricetta originale utilizzata da nonno Vittorio Vanini nel 1871. Per produrre i Marrons Glacés ticinesi vengono selezionati solo i frutti migliori, i quali sono lavorati accuratamente applicando i più elevati standard igienici e qualitativi. Ricordiamo che Migros Ticino nel suo assortimento propone anche altri prodotti classici della Sandro Vanini, nella fattispecie le mostarde di frutta classica e forte in vasetto, come pure quella in purea, ingredienti ideali per accompagnare formaggi, salumi e carni bollite.

Impossibile resistere a questi dolcetti croccanti a forma di cuore con squisito ripieno di lamponi e vaniglia. Rinomate specialità della pasticceria francese, i macaron sono delle piccole tentazioni colorate dal caratteristico guscio di meringa e cuore di morbida crema. Insomma, una vera opera d’arte dolciaria che conquisterà ogni palato.

San Valentino da OBI

Attualità ◆ Gioca anche tu con la ruota della fortuna

Anche presso il negozio di bricolage OBI di S. Antonino si celebra la festa degli innamorati. Per l’occasione è previsto uno spazio dedicato con molte idee regalo floreali e non solo. Oltre a questo, il 14 febbraio dal-

le 9.00 alle 18.00, tutta la clientela potrà partecipare al gioco «La ruota della fortuna di San Valentino», il quale dà la possibilità di vincere fantastici premi per la casa e il giardino. Vi aspettiamo!

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Cuori di Macarons ai lamponi e vaniglia 90 g Fr. 5.55 Nelle maggiori filiali

Alici in salsa piccante Rizzoli

Novità

L’assortimento di conserve di pesce si arricchisce di una nuova specialità firmata dal noto marchio italiano

Solo alici del Mar Cantabrico e Mediterraneo pescate in modo sostenibile e lavorate ancora oggi artigianalmente secondo la ricetta originale del 1906: questo è il segreto del successo delle storiche alici in salsa Rizzoli, disponibili da subito nei maggiori supermercati Migros nell’iconica latta dorata con apertura a strappo raffigurante i tre caratteristici gnomi dalla barba lunga. Nel rispetto del «patto» di famiglia, la ricetta della salsa non è mai stata scritta, ma viene tramandata al primogenito solo oralmente. È infatti esclusivamente Massimo Rizzoli, esponente della quarta generazione della famiglia Rizzoli, a conoscere le esatte dosi e i tempi di cottura della salsa. Quest’ultima viene quindi lasciata maturare per sei mesi in botti di legno che contenevano Marsala per ottenere un risultato dal gusto inimitabile, un autentico simbolo della cucina italiana. Ideali per esaltare moltissime preparazioni, le alici Rizzoli sono un alleato prezioso in cucina: deliziose su pizza, pane e crostini, ottime per accompagnare verdure e insalate, ma anche capaci di trasformare i condimenti per la pasta in qualcosa di assolutamente irresistibile.

Alici in salsa piccante Rizzoli

50 g Fr. 3.90

In vendita nelle maggiori filiali Migros

KIDS

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Patologia seria che non dà sintomi

Medicina ◆ Conoscere l’aneurisma cerebrale – una disfunzione che si manifesta per caso – evita l’emergenza

Non dà segnali premonitori, non si fa annunciare da sintomi specifici. Stiamo parlando dell’aneurisma cerebrale che si presenta «come una dilatazione di un’arteria del cervello (ndr. come fosse un piccolo palloncino) la cui parete ancora più fragile e debole, crea un rischio di rottura che può portare a condizioni cliniche piuttosto gravi», così lo spiega il neurochirurgo di Ars Medica Centro Colonna Vertebrale, Thomas Robert. Quando si palesa «è per caso: durante indagini alla ricerca di altre patologie come mal di testa o giramenti di testa, o perché si è rotto e provoca un serio sanguinamento nel cervello». Se da un lato vi sono persone portatrici inconsapevoli di questa patologia, d’altro canto solo su una piccola parte della popolazione (1-2 per cento) quando lo si scopre è perché si è rotto e lo si deve affrontare in estrema emergenza con tutte le conseguenze di ciascun singolo caso. In un simile frangente, diventa necessario rivolgersi immediatamente alle urgenze del Pronto soccorso, per un’immediata e adeguata presa a carico.

Sottolineando la natura insidiosa di questi aneurismi, lo specialista puntualizza: «Non tutti si rompono e quelli più piccoli presentano solitamente un rischio inferiore». La statistica è a suffragio di tale tendenza: «Il 90 per cento degli aneurismi cerebrali si presenta come asintomatico e non se ne ha traccia fino alla relativa rottura, mentre solo in alcuni casi possono comparire segnali come cefalea, dolore oculare, deficit visivi». Questo non lo rende però meno pericoloso e, d’altra parte, una singola persona può presentare contemporaneamente più di un aneurisma le cui cause possono trovare riscontro in fattori ereditari («storia famigliare di aneurismi») o acquisiti: «Essere sopra i 40 anni di età, fumare, bere alcol, usare droghe sono fattori rischio predisponenti come pure alcune patologie, ad esempio diabete o ipertensione».

Una patologia subdola per la sua natura «nascosta» e, nel contempo, per le serie e gravi conseguenze che com-

porta la sua possibile rottura. Ne è un esempio il racconto di Marzia, una paziente di mezz’età che si è d’improvviso trovata a fare i conti con una storia personale e famigliare molto emblematica: «È successo tutto in un attimo: trenta secondi prima ero al telefono con una mia cliente. Al termine della telefonata mi sono alzata in piedi, ho pensato di prepararmi il pranzo ma non ho fatto in tempo perché d’un tratto ho sentito come una fucilata alla testa. Mi sono girata per vedere se qualcuno mi avesse colpita, ma ero a casa da sola». Subito capisce che non si tratta del solito mal di testa: «Ho telefonato alla mia amica perché ho pensato che stava succedendo qualcosa di importante; ho chiamato l’ambulanza gridando ’’aiuto venite, mandate un’ambulanza a casa mia!’’ Poi ho iniziato a stare malissimo, vomitavo, e per fortuna ho lasciato la porta di casa aperta così che, dopo cinque minuti, hanno potuto entrare sia i soccorritori sia la mia amica».

Marzia viene dimessa da una prima visita al Pronto soccorso, ma le sue condizioni peggiorano rapidamente e la portano subito per la seconda volta all’ospedale dove viene presa a carico in emergenza: «Ero soporifera, dormivo tutto il tempo e le mie sorelle, preoccupate, mi hanno portata nuovamente in ospedale dove mi hanno fatto gli esami specifici e hanno trovato non uno, bensì tre aneurismi cerebrali di cui uno si era rotto, causando l’emorragia che andava operata immediatamente».

Il dottor Robert illustra il trattamento riservato ai pazienti con aneurisma cerebrale, il cui obiettivo primario è quello di fermare o ridurre il rischio di emorragia subaracnoidea: «L’intervento specifico per ogni singolo paziente è identificato sulla base delle sue caratteristiche come età, storia clinica, sintomi sviluppati, insieme alle caratteristiche dell’aneurisma per dimensioni e sede». Sostanzialmente si tratta di due tipi di operazione: «La craniotomia con clipping chirurgico che consiste nel posizionamento di

una clip metallica nella sede del colletto dell’aneurisma, o il trattamento mini invasivo che comporta l’inserimento nell’arteria femorale di un catetere che risale fino all’aneurisma dove posizioniamo dei coils (ndr: micro spirali che, inserite nell’aneurisma tramite catetere, lo riempiono)».

Tornando all’esperienza della paziente: «La prima volta sono stata operata d’urgenza dal neurochirurgo perché uno dei miei tre aneurismi si era rotto». In questi casi, la prognosi è complicata e la convalescenza si presenta ardua: «Non ricordo più nulla delle tre settimane dopo l’intervento; ma so quanta fatica e volontà ho impiegato nella convalescenza: ho dovuto reimparare a deglutire, a parlare, a camminare (ero sulla sedia a rotelle con la parte destra paralizzata)». Era il 2018. Marzia è stata poi operata degli altri due aneurismi cerebrali nel 2019 e nel 2020, questa volta programmando l’intervento prima che si rompesse-

ro e tutto è andato per il meglio: «Oggi porto la mia testimonianza anche in seno all’associazione di pazienti costituita dal dottor Robert, che raggruppa un numero importante di persone, alcune delle quali si mettono a disposizione come me ad esempio per sostenere con la mia esperienza chi deve sottoporsi a un intervento». Dal canto suo, il neurochirurgo sostiene la bontà di questi contatti votati alla sensibilizzazione: «Sia che si rompa sia che si trovi per caso, è difficile per un paziente comprendere la diagnosi di aneurisma perché tutto succede molto velocemente. Da qui nasce l’idea di mettere in contatto le persone che hanno aderito volentieri a quest’iniziativa di auto-aiuto». Nella famiglia di Marzia le indagini del caso conseguenti il suo evento hanno riscontrato pure una famigliarità che ha permesso di prendere a carico preventivamente la sorella. Un esempio, ribadisce il medico «che dimostra come,

per prevenirne l’insorgenza, è necessario tenere sotto controllo i fattori di rischio con uno stile di vita sano (controllare la pressione arteriosa, smettere di fumare, ridurre o eliminare l’alcol) e, se del caso, un’analisi della storia famigliare dei pazienti».

Conoscere questa patologia permette così di non trovarsi in una situazione di emergenza e agevola una presa a carico programmata, individualizzata ed elettiva.

Conferenza

Mercoledì 15 febbraio, alle 18.30, avrà luogo la conferenza pubblica: «Aneurisma cerebrale: cos’è e come si cura?» sotto l’egida di Ars Medica Centro Colonna Vertebrale, all’interno del Ristorante della Clinica Ars Medica a Gravesano.

Relatore: Thomas Robert (specialista in neurochirurgia). Per partecipare seguire il link: https://bit.ly/3RzHiyD

Ad Airolo un weekend sugli sci con Migros

Evento ◆ Il 4 e il 5 marzo si terrà l’ormai consueto appuntamento con il Grand Prix Migros e il Migros Ski Day 2023, manifestazione organizzata da Swiss-Ski con il sostegno di Migros

Il doppio appuntamento è per il primo weekend di marzo, e per la precisione ad Airolo-Pesciüm. Bambini e ragazzi nati tra il 2007 e il 2015 sono invitati a presentarsi il sabato alla partenza di una delle dieci gare di qualificazione del Grand Prix Migros, la più grande corsa di sci per bambini al mondo. All’insegna dello slogan «La meta è la partenza», anche i bambini nati nel 2016 o dopo potranno vivere la loro prima esperienza di gara con la Minirace e ricevere alla fine una me-

Concorso

«Azione» mette in palio 3 buoni per un Migros Ski Day a scelta per tutta la famiglia. Per partecipare all’estrazione inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Migros Ski Day») indicando i propri dati personali entro domenica 19 febbraio 2023.

daglia ricordo, pur senza alcuna classifica ufficiale.

Chi ottiene uno dei primi quattro posti nella rispettiva categoria in una delle dieci gare di qualificazione accede automaticamente alla grande finale di stagione, il coronamento del Grand Prix Migros 2023 a Les Diablerets. Come ricordo della competizione, tutte le atlete e gli atleti riceveranno anche un video personale della gara con i complimenti di due celebrità svizzere dello sport che, come molti altri professionisti dello sci, all’inizio della carriera si sono presentate alla partenza del Grand Prix Migros.

Uno Ski Day per le famiglie

Oltre al Grand Prix Migros, come consuetudine la domenica sarà dedicata alle famiglie, che potranno vivere un’indimenticabile giornata a prezzo concorrenziale sulle piste. Al Migros Ski Day di Airolo, organiz-

zato grazie allo sponsoring di Migros e giunto quest’anno all’ottava edizione, domenica 5 marzo 2023 le famiglie potranno sciare o fare snowboard per un’intera giornata, divertirsi al villaggio degli sponsor e gareggiare con altri partecipanti per soli Fr. 85.– per famiglia (offerta esclusiva per tutti i membri Famigros e Swiss-Ski, invece di Fr. 110.– per famiglia).

A partire dalle 8.45, i partecipanti potranno prepararsi per un’indimenticabile giornata nella neve ad Airolo. Sono compresi nel prezzo le giornaliere, un pranzo caldo per tutti, souvenir e diverse attrazioni sia nella zona del traguardo sia al Migros Ski Day Village. Ogni famiglia parteciperà inoltre alla corsa amatoriale per la quale sono previsti una medaglia e diversi premi.

Informazioni e iscrizioni migros-ski-day.ch gp-migros.ch

6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
Thomas Robert, neurochirurgo di Ars Medica Centro Colonna Vertebrale. (Vincenzo Cammarata)

La camera del bersaglio della National Ignition Facility dell’LLNL, dove lo scorso dicembre 192 fasci laser hanno innescato la reazione di fusione. (Lawrence Livermore National Laboratory/llnl. gov)

Le tariffe aiutano a gestire la mobilità

Istantanee sui trasporti ◆ In Svizzera sono stati selezionati cinque progetti di mobility pricing

Un piccolo passo verso la

fusione nucleare controllata

Energia ◆ Il successo annunciato due mesi fa dal Lawrence Livermore National Laboratory si inserisce in una ricerca con più di 70 anni di storia

«Una svolta storica». E altrove: «Un risultato epocale». Addirittura. Sono trascorsi due mesi: che cosa è stato di quel risultato epocale?

Il 13 dicembre scorso il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti annunciava che presso il Lawrence Livermore National Laboratory (LLNL) era stata ottenuta per la prima volta una fusione nucleare controllata dalla quale era stata ricavata più energia di quella introdotta per innescarla: circa il 50% in più. Da cui i titoli sensazionalistici sui media. Perché, se fosse vero, saremmo di fronte al primo importante passo verso… già, verso che cosa? «Verso la soluzione al problema del fabbisogno di energia, con una fonte pulita, rinnovabile e inesauribile!», rispondono gli ottimisti. «Non oggi, non domani, ma forse dopodomani». Ma non sarà un’esagerazione?

Gli esseri umani ricavano energia dai nuclei atomici dal 1942, quando Enrico Fermi a Chicago ottenne la prima reazione a catena controllata e autosostenuta. Una reazione di fissione: si prende un nucleo di un atomo massiccio, per esempio di uranio o di plutonio, gli si spara contro un neutrone per spezzarlo e se ne ricavano nuclei più leggeri, altri neutroni e parecchia energia. In 80 anni abbiamo imparato a farlo bene, e oggi tutte le centrali nucleari sfruttano la fissione. Un processo molto efficiente. E molto problematico.

Quando si parla di energia nucleare, subito vengono in mente Cernobyl e Fukushima. In realtà il rischio di un incidente in una centrale è assai modesto. I problemi sono altri: il materiale fissile e le scorie. Il primo è una risorsa finita e distribuita in maniera non uniforme. Sulle scorie poi tutti formulano il pensiero «nimby »: «not in my back yard», ovvero «non nel mio cortile». L’energia va bene, ma gli scarti pericolosi vanno scaricati lontano da casa mia.

Diverso è il caso della fusione nucleare: si prendono dei nuclei atomici leggeri, li si fanno fondere e si ottengono nuclei più massicci e parecchia energia. Con tre vantaggi e un problema. Primo vantaggio: i nuclei sono di

idrogeno, l’idrogeno si ricava dall’acqua, di acqua ne basta poca – non bisogna svuotare il Mediterraneo, per intenderci – ed è una risorsa diffusa ovunque. Secondo vantaggio: le scarse scorie sono poco radioattive. Terzo vantaggio: una centrale a fusione è sicura, perché se qualcosa va storto non esplode ma si spegne. Il problema: non siamo capaci. Anzi no: siamo capaci benissimo. Infatti a partire dagli anni Sessanta le armi nucleari si basano sulla fusione. Siamo però incapaci di produrre energia da fusione confinata e controllata.

Non che non ci si provi: il risultato annunciato si inserisce proprio in una ricerca con ormai 70 anni abbondanti di storia. Scherzando ma non troppo, i fisici affermano che «la fusione controllata è sempre quella cosa che otterremo fra 40 anni». Era vero 40 anni fa, è vero anche oggi. Perché? Perché la sfida scientifica e tecnologica è formidabile. Siccome i nuclei di idrogeno si respingono fra loro, per fonderli bisogna raggiungere e mantenere temperature di decine di milioni di gradi. Non esiste materiale che regga quelle temperature. Perciò le procedure escogitate sono due.

Con il confinamento magnetico i reattori a forma di ciambella chiamati tokamak usano i campi magnetici per contenere l’idrogeno caldissimo. La fusione si mantiene e l’energia viene prodotta con continuità. Alcuni Stati hanno dei tokamak sperimentali, ma il progetto internazionale più ambizioso e promettente è ITER, purtroppo però in ritardo sui tempi previsti per la realizzazione di un prototipo.

Con il confinamento inerziale un breve impulso di fasci laser fa implodere l’idrogeno in una piccola capsula, scatena la fusione e genera energia. Non c’è quindi produzione continua e costante. Proprio ciò che è stato realizzato alla National Ignition Facility del LLNL. Nel 2021 era stata annunciata un’efficienza del 70%: se i laser introducevano energia 100, dalla fusione si ricavava 70. Due mesi fa, il successo: un’efficienza del 150%. Infine un bilancio positivo, con più energia ottenuta di quella immessa dai 192 laser usati. Ma davvero?

Pagare tariffe differenziate per percorrere un tratto di strada, il concetto è semplice, la sua attuazione un po’ meno. Nella letteratura economica si chiama road pricing, è la tariffazione per l’uso dell’infrastruttura stradale e si basa sulla legge della domanda e dell’offerta: a ore, giorni o stagioni e in luoghi con diversa intensità di traffico corrispondono prezzi diversi. Al road pricing sono stati attribuiti diversi obiettivi: il finanziamento delle infrastrutture, una efficace gestione del traffico (per ridurre la congestione) e la diminuzione dell’impatto ambientale. Una configurazione pratica del principio per soddisfarli tutti non è per nulla scontata; ciò ne ha finora reso complessa o parziale la realizzazione. In alcuni Paesi e agglomerati urbani progetti di questo genere, declinati secondo modalità diverse, sono tuttavia realtà già da parecchi anni (Londra, Stoccolma, Milano) e sono principalmente orientati a ridurre il flusso del traffico nei centri.

una partecipazione attiva di Cantoni e Comuni. Fu sottolineato in particolare l’intento di gestire al meglio le capacità esistenti riducendo le concentrazioni della domanda nelle ore di punta. Le candidature volontarie per svolgere progetti-pilota furono poche, si concretizzò però uno studio su un’area-campione nella regione di Zugo. I risultati confermarono la bontà del concetto sul piano teorico, simulazioni con modelli ne hanno indicato il beneficio in termini di minori fenomeni di congestione stradale e sui trasporti pubblici e i notevoli progressi nel campo dell’informatica e delle telecomunicazioni ne hanno decretato la fattibilità tecnica.

Tecnicamente sì: non è una fake news, davvero nell’esperimento i laser hanno scaricato sull’idrogeno meno energia di quella ricavata dalla fusione. Però… …però, se sommiamo tutta, ma proprio tutta l’energia usata per generare i fasci laser, per alimentare l’elettronica, per raffreddare l’impianto, il bilancio continua a essere negativo. Molto negativo. Difatti si ritiene che, per arrivare a un reale guadagno, bisognerebbe produrre almeno 100 volte più energia. Non solo: ogni fusione avviene con un impulso, poi tutto l’apparato dev’essere ricaricato e per farlo servono ore.

Insomma il risultato non è né «storico» né «epocale». Tuttavia è un progresso, piccolo ma innegabile. Ottenuto peraltro in un centro consacrato alla ricerca militare, dove gli esperimenti servono a simulare le esplosioni degli ordigni nucleari, proibite dai trattati internazionali. La fusione per scopi civili è un effetto collaterale.

Dunque rimangono sempre i proverbiali 40 anni? Sì, con questi investimenti di poche decine di miliardi di euro. Rimane infatti l’impressione che, al di là di tutti gli ostacoli scientifici e tecnologici tuttora non superati, in fondo sia soprattutto una questione di soldi, ovvero di volontà politica. Due esempi storici inducono a riflettere.

Il neutrone viene osservato in laboratorio nel 1931, la prima bomba atomica viene fatta esplodere nel 1945: in mezzo, un abisso tecnologico superato in 13 anni. Lo Sputnik viene messo in orbita nel 1957, il primo uomo tocca il suolo lunare nel 1969: in mezzo, un altro abisso tecnologico scavalcato in 12 anni. Com’è stato possibile? Semplice (si fa per dire): i politici, pungolati dalle necessità belliche o dal bisogno di prestigio internazionale, hanno reclutato i migliori cervelli e hanno offerto loro finanziamenti di fatto inesauribili. Così in pochi anni hanno reso possibile quello che prima sembrava fantascienza. Sicché è legittimo chiedersi: se la stessa volontà politica fosse applicata alla ricerca sulla fusione nucleare controllata, magari invece di 40 anni ne basterebbero 20 o 15 o 10?

In Svizzera la Costituzione stabilisce che l’uso delle strade è di principio gratuito. Il Parlamento può tuttavia autorizzare eccezioni, ciò che è stato il caso con l’introduzione della tassa d’uso della galleria del Gran San Bernardo, con la vignetta autostradale e con la tassa sul traffico pesante, che possono essere considerate forme ancora rudimentali di road pricing Questo termine è entrato ufficialmente nell’arena politica elvetica agli inizi degli anni 2000 a seguito di alcuni atti parlamentari che chiedevano al Consiglio federale di valutarne una possibile introduzione. Nella risposta del 2004 il governo, nonostante ne indicasse i presumibili vantaggi dal profilo della gestione del traffico e della salvaguardia dell’ambiente, ne ritenne la concretizzazione prematura. Diede tuttavia avvio a una serie di approfondimenti tecnico-economici in collaborazione con l’Associazione svizzera dei professionisti della strada e dei trasporti (VSS), che nella sostanza ne certificarono sul piano teorico l’opportunità e la fattibilità. Il termine di riferimento fu cambiato in mobility pricing per significarne l’estensione dei principi anche ai trasporti pubblici e alla gestione dei posteggi.

Dopo un periodo di stallo nel 2015/16 il Consiglio federale riprese l’iniziativa. Lo fece dando il via a un’indagine conoscitiva su una «Bozza di Piano strategico mobility pricing », che auspicava una realizzazione a tappe della riforma sulla base di test circoscritti a contesti urbani e con

Nel 2021 si compì un passo avanti nella verifica della fattibilità politica e sociale del progetto. Nel convincimento che una riforma di questa portata dovesse fondarsi su diverse esperienze pratiche ritagliate in base alle caratteristiche di alcune regioni, il Governo ha posto infatti in consultazione una proposta di Legge federale concernente progetti pilota di mobility pricing, che fornisse una base legale per il proseguimento dei lavori. La consultazione non sembra aver incontrato favori tali da dare una spinta decisiva alla riforma, nonostante in generale siano emersi pareri di principio interessati. In termini sportivi si direbbe che sta prevalendo la melina, con il timore dei diversi attori, fondamentalmente partiti e associazioni, di essere presi in contropiede da sviluppi inattesi o indesiderati.

Intanto il traffico, superati gli effetti pandemici, ha ripreso a crescere e con esso le perturbazioni e le congestioni mentre le risposte per ampliare le capacità delle infrastrutture costano sempre di più, si concretizzano sul terreno solo decenni dopo le decisioni e, peraltro, tendono ad allontanare il problema di qualche anno ma non a risolverlo. Il Consiglio federale comunque prosegue il suo cammino. A inizio dello scorso dicembre ha comunicato di aver selezionato cinque idee di progetto per concretizzare corrispondenti esami di fattibilità, che godono del sostegno attivo di Cantoni e Comuni interessati. Si tratta delle città di Frauenfeld, di Ginevra e di Bienne nonché di comprensori nei Cantoni di Argovia e Zugo; un progetto toccherà specificatamente alcune linee e regioni servite dalle FFS. Sarà sufficiente per convincere i più, superare il Rubicone e intraprendere nuove vie nella gestione della mobilità?

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
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La forza delle piante adattogene

Fitoterapia ◆ Dalla più efficace Rodiola, all’eccitante Astralogo, passando per i più noti ricostituenti, come il Ginseng

Cambi di stagione, affaticamento fisico e mentale, stanchezza cronica, stress o esaurimento per impegni non rimandabili, stati di debolezza, convalescenza post-influenze, calo dell’umore, e a tutto ciò aggiungiamo la drammatica incertezza dell’epoca che ci è dato vivere. Non è sempre semplice reggere il tutto: le premurose offerte dell’industria farmaceutica ci vengono in soccorso con ricostituenti e quant’altro (dalle vitamine ai sali minerali). Parallelamente cresce la tendenza a rivolgersi alla fitoterapia.

Nel 1947, il farmacologo russo Nikolai Lazarev creò il neologismo «adattogeno» per definire qualsiasi sostanza, farmaco o rimedio erboristico che, senza mirare a un determinato organo, fosse in grado di aumentare sul piano fisico e psichico le funzioni dell’intero organismo.

Uno dei più potenti farmaci adattogeni fitoterapici è a base di Rodiola, (nome scientifico Rhodiola rosea L., da «piccola rosa», come il profumo della sua radice ). Di origine nordica, scandinava e siberiana, questa pianta vive sulle rupi, presso le sorgenti o nelle praterie alpine, ed è presente anche in Tibet dove è chiamata «Radice d’oro» perché, secondo una credenza popolare, promette il raggiungimento dei cent’anni a chi la beva ogni giorno.

La proprietà dei principi attivi concentrati nella sua radice è quella di elevare i livelli di endorfina, sostan-

za che può alleviare il dolore, ridurre lo stress, generare sensazioni di euforia e benessere. In forma di tintura madre, la Rodiola cura gli stati di affaticamento e tensione nervosa, depressione e riduzione della memoria; è indicata nelle persone anziane con deficit funzionali. Negli sportivi e nei convalescenti riduce i tempi di recupero neuromuscolare dopo un esercizio o uno stress psicofisico. In Himalaya è usata per alleviare i sintomi del mal di montagna; in Russia, per incrementare la resistenza degli atleti e le prestazioni degli astronauti.

Studi condotti su lavoratori notturni hanno dimostrato che migliora la capacità visiva, la memoria a breve termine e le percezioni, mentre negli studenti sotto esame ha evidenziato un migliore allenamento alla fati-

ca mentale e una riduzione della stanchezza. A livello di corteccia cerebrale produce un miglioramento della funzione cognitiva, di memoria, attenzione e apprendimento, aiuta quindi a meglio pensare, analizzare, valutare e pianificare. Non solo: è risultata essere anche un valido complemento nelle cure dimagranti, nei sintomi depressivi e nell’insonnia. Esiste in capsule, tintura madre, estratto fluido.

Un’altra pianta fortemente adattogena è l’Eleuterococco Originario dell’Asia orientale, è noto anche come «ginseng siberiano». È da millenni usato nella medicina tradizionale cinese (la radice e il rizoma) per aiutare le persone ad adattarsi a situazioni stressanti a lungo termine, nella sindrome da stanchezza cronica, nel surmenage psicofisico e nell’astenia ses-

suale. Studi clinici hanno mostrato che agisce su funzioni cognitive, memoria e umore; è usato da atleti, e persino da astronauti.

La Moringa oleifera è invece un albero indiano dal sottile tronco molto eretto, che cresce rapidamente producendo meravigliosi piccoli fiori bianchi spesso infilati dalle donne fra i loro capelli. È ricchissimo di vitamine, proteine e minerali, tanto da essere considerato un elisir nell’antica tradizione indiana per la quale le sue foglie prevengono ben trecento malattie. Le foglie di Moringa sono infatti antibiotiche e antibatteriche. Alcuni test eseguiti all’Università di Leicester in Inghilterra, hanno esaminato l’uso della Moringa per purificare l’acqua su scala commerciale.

Anche l’Astralogo, altra pianta fortemente adattogena, è un antico rimedio della medicina tradizionale cinese e ha effetti simili alle precedenti piante descritte: combatte stanchezza e stress, è inoltre un efficace depurativo del fegato (utile quando si esagera con grassi e alcolici o si sono dovuti assumere molti farmaci), è antiossidante e stimola gli organi fondamentali per la produzione di energia nel corpo: polmoni, reni, ghiandole surrenali, milza.

Stessi vantaggi sono dati dal Ginseng, (nome scientifico Panax ginseng) detto «radice uomo» perché si utilizza esclusivamente la sua radice; cresce in

Russia, Giappone, Corea e Cina, dove era già noto 5000 anni fa; era utilizzato dalle classi nobili e fu importato in Europa intorno al 1700. Su questa celebre pianta esistono innumerevoli studi: è un potente ricostituente, incrementa resistenza, capacità di recupero dell’organismo e vigilanza, addirittura, si afferma, agisce sulle capacità di calcolo e deduzione logica, migliora la funzione sessuale di uomini e donne, infonde vitalità nei più anziani e nelle persone affette da malattie croniche, ha anche proprietà cosmetiche (è un efficace antirughe e rivitalizzante come olio per i capelli). Essendo molto stimolante, se assunto in quantità eccessiva può provocare disturbi.

Un’altra pianta eccitante e che richiede prudenza perché ricca di caffeina è il Guaranà, una liana originaria delle regioni del Rio delle Amazzoni e del Rio Orinoco. Le popolazioni amazzoniche usano da tempo immemorabile la polvere dei suoi semi dispersa in acqua o in altri liquidi per ottenerne bevande tonificanti ed energetiche; è utile negli stati di affaticamento psicofisico, nelle depressioni, nelle convalescenze, come coadiuvante nei trattamenti dimagranti. Anche in questo caso avvertiamo, come ogni volta, quanto possa diventare pericoloso un uso imprudente delle piante medicinali senza prima consultarsi con il medico.

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Kassensturzhavalutato ipannolinicome «moltobuono».
Così si presenta la Rhodiola rosea in natura. (Olaf Leillinger)

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Il barocco palermitano in pochi passi Da Ballarò al Museo Internazionale delle Marionette di Antonio Pasqualino passando dal Palazzo Reale, dalla Chiesa del Gesù e dall’Oratorio di San Lorenzo

Fotomontaggi (e altre manomissioni)

Fotografia ◆ L’alterazione dell’immagine fotografica non nasce con photoshop ma inizia già nell’Ottocento

Che assolva funzioni estetiche, pubblicistiche o di mera informazione, il fotomontaggio denota una chiara volontà d’intervento sulla traccia fotografica lasciata dalla realtà. I motivi a giustificazione di questo approccio sono i più vari. Una sua analisi può indicare i diversi ed eterogenei ambiti in cui nel tempo si è situata la fotografia, se non addirittura, parlarci della natura stessa di questo mezzo e delle tensioni che l’attraversano.

Tutto ebbe inizio quando si assecondò il desiderio di far fronte ai limiti con cui la tecnologia fotografica dell’epoca era imbrigliata

L’alterazione, anche importante, dell’immagine fotografica non nasce con photoshop – che, detto tra di noi, altro non è che un applicativo destinato principalmente all’edizione di immagini (intesa come loro revisione/ correzione in vista di una pubblicazione cartacea o digitale) ma che nella parlata popolare è ormai divenuto sinonimo di ciò con cui si può modificare l’immagine del reale, in qualunque senso questo si voglia intendere.

In realtà, già dalla seconda metà dell’Ottocento c’è chi comincia a intervenire in fase di stampa assemblando immagini da più negativi, o in un secondo tempo colorandole.

L’intenzione di fondo è quella di far fronte ai limiti con cui la tecnologia fotografica dell’epoca – le capacità operative degli apparecchi e dei materiali fotosensibili – imbrigliava l’agire del fotografo nella sua ricerca di composizioni complesse, idealmente prossime a quelle pittoriche. Si era, appunto, in pieno pittorialismo, quella corrente fotografica che faceva il verso alla pittura nel paradossale tentativo, imitandola, di attestare la propria dignità e autonomia artistica.

Nobile l’intento, e pure tappezzato da virtuosi risultati, però non assecondava la natura stessa del mezzo, le sue specifiche capacità e potenzialità. Con la conseguenza di lasciare dietro di sé una scia di malintesi ancora oggi persistenti nella percezione comune del media fotografico.

L’arrivo del Novecento porta con sé profondi cambiamenti. Il sorgere e l’affermarsi della società di massa, le importanti scoperte scientifiche con gli sviluppi tecnologici che ne de-

rivano, la ridefinizione dell’Io grazie al pensiero psicanalitico, oltre all’affermarsi di nuove correnti di pensiero, sono alcuni tra i principali fattori che daranno luogo, nel campo dell’arte, all’implosione dei vecchi canoni, e a una revisione del ruolo dell’arte e degli artisti nella società. Seguiranno decenni di fertili sperimentazioni, pervase dall’euforia data dall’identificazione di nuovi orizzonti, ma anche intrise della sottile consapevolezza delle immani tragedie che incombevano.

La fotografia accolse il cambiamento riconoscendo, da un lato, la sua importante e connaturata missione documentaria, in particolare nell’ambito della comunicazione sociale. Dall’altro lato, stabilì un ricco dialogo con le nuove correnti dell’avanguardia artistica. Ed è proprio in questo contesto che ritroviamo, dotati di tutt’altra valenza, i singolari e, per certi versi, arcani giochi di manipolazione delle immagini fotografiche. Non è più questione di costruire – per assoggettamento estetico – un’immagine secondo i vecchi dettami, ovvero di rifarsi all’iconicità della pittura ottocentesca, ma piuttosto di andare a esplorare un potenziale visuale e significativo che il media fotografico porta con sé, e che oltretutto è particolarmente affine allo spirito deflagrante di quell’epoca.

Dal surrealismo, al futurismo, dal dadaismo, al cubismo, alla nuova oggettività, ognuna di queste correnti fu sensibile alla fotografia, e da questa si lasciarono impregnare, per ampliare significativamente attraverso questo strumento – o meglio, grazie a questo linguaggio – il loro campo d’azione. A posteriori possiamo riscontrare – qualificate letture critiche lo evidenziano – l’importante contributo speculativo prestato in quel momento dalla fotografia alla riflessione che l’arte portò su sé stessa e sulle proprie dinamiche, un apporto andato col tempo a consolidarsi. Al punto da poter affermare che – attenzione! – non tanto la fotografia sia divenuta un’arte – che era ciò a cui ambiva nell’Ottocento – ma che l’arte, nel ventesimo secolo, è divenuta fotografica L’iperrealismo, corrente pittorica e scultorea sorta in un secondo tempo rispetto alle precedenti, è testimonianza palese di tale affermazione. Ma non fu solo la sbalorditiva capacità della fotografia di estrarre istanti

Crea con noi il gioco dei travasi Riciclando i coriandoli di Carnevale è possibile decorare un gufo sviluppando concentrazione, motricità fine e coordinazione oculo-manuale

della realtà, con dovizia di dettagli, a incidere nella riflessione artistica. Altri aspetti strettamente legati al mezzo fotografico vennero ancor prima presi in considerazione, tanto per il loro valore formale quanto per il valore concettuale.

Fotomontaggi, costituiti da singolari sovrapposizioni di prospettive, soggetti e situazioni; scatti con lunghe pose, in cui le cose e le persone lasciano scie o vengono trascinate, fino a divenire presenze fantasmagoriche; immagini enigmatiche di frammenti di realtà; giochi di specchi deformanti e di mise en abîme; giustapposizione di testi e d’immagini con intenti poetici, politici, estetici, filosofici…; collage, solarizzazioni, fotogrammi,

e via di questo passo. Tutto questo armamentario di stretta pertinenza del media fotografico suscitò l’interesse degli artisti che colsero l’affinità espressiva di questo mezzo con i loro intenti innovatori. Oltre agli stessi fotografi operanti in tale contesto di ricerca, vi furono artisti che utilizzarono la fotografia, fino ad adottarla come loro privilegiato mezzo d’azione. Altri se ne ispirarono, applicando in tutta evidenza quelle rivoluzionarie soluzioni formali ai loro lavori. A ben vedere, anche la contemporanea arte dell’ installazione – la cui origine possiamo identificare già nell’opera di Duchamp – può essere fatta concettualmente derivare da una riflessione portata sul fotografico.

Riassumendo: se ben guardiamo, una gran parte dell’arte dal ventesimo secolo a oggi trova origine o ispirazione nella fotografia, nelle sue specifiche capacità di cogliere e tradurre la realtà in immagini che la trapassano, la trasmutano, ne sviscerano gli strati e la pongono in un fertile dialogo con le più vitali e irrinunciabili istanze intellettuali, sociali ed etiche proprie dell’uomo. È, la fotografia, un prezioso mezzo di pensiero e d’azione: facciamone uso considerandola anche nella sua portata etica oltre che estetica, partecipando con essa – parimenti a qualsivoglia altro linguaggio – a una riflessione sullo stato del nostro vasto e irripetibile mondo fisico e mentale.

● ◆ 10 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
Pagina 14 Pagina 12-13 Classica cabina del Regno Unito riconoscibile, oltre che dalla forma, dal suo colore qui messo in risalto con il b/n del contorno. (Manuela Mazzi) Stefano Spinelli

Tra le vigne affacciate sui laghi

Bacco giramondo ◆ Facciamo tappa nella zona tra Bienne e Morat ed entriamo nel canton Giura

Come fossero il naturale prolungamento del vigneto di Neuchâtel, lungo le rive del lago di Bienne si rannicchiano l’uno contro l’altro diversi villaggi vitivinicoli. Pur essendo situati sui terreni più ripidi e più difficili da coltivare, condividono il medesimo suolo e beneficiano di molte ore di sole.

Da La Neuveville sino a Bienne troviamo i villaggi di Chasselas (Schafis), Gléresse (Ligerz), Douanne (Twann), Daucher (Tüscherz), mentre sulla riva opposta, i villaggi di Cerlier (Erlach), Anet (Ins), e infine Tschugg su quello che viene chiamato «Domaine de Jolimont» e che comprende l’isola di Saint-Pierre, paradisiaco luogo che aveva conquistato ai tempi con il suo charme anche Jean-Jacques Rousseau. Antico priorato cluniacense, è di proprietà de l’Hôpital des bourgeois de Berne, e vanta una superficie totale vitata circondata dal lago di circa 225 ettari.

In questa zona, le influenze francesi e tedesche si mescolano in continuazione e lo stesso nome dei villaggi si presenta in duplice forma, per cui non sempre è facile districarci tra questi pittoreschi luoghi, dove vigne e case si fondono tra di loro, specchiandosi nelle acque del lago.

I vitigni bianchi sono in maggioranza e coprono circa il 58 per cento della superficie coltivata; è sempre lo Chasselas, il vitigno più coltivato: molto simile al cugino di Neuchâtel, è dotato di un buon corpo e una presente vivacità, diventando il giusto «compagno» per una fugace merenda con la charcuterie locale. Interessanti, pure il vivace e aromatico Sauvignon Blanc, il Pinot Grigio dal finale molto lungo, e i particolari Traminer e Riesling. La parte restante del vigneto è dedicatao alla coltivazione dei vitigni rossi, dove il Pinot Nero la fa da padrone, permettendo la produzione di buoni vini rossi – forse alle volte un po’ troppo

chiari e leggeri (per noi) – e dei profumati rosé.

Troviamo pure, visitando l’interessante Vinoteca Viniterra a Douanne, dei pregevoli Dornfelder, Gamaret, Garanoir, vinificati sia in purezza sia in assemblaggio dai produttori del lago di Bienne.

Da Bienne imbocchiamo la veloce e moderna autostrada che si inoltra a nord-est, direzione Moutier, per svoltare verso Delémont, capitale del Giura e poco prima di Porrentruy usciamo dalla nazionale per fare una deviazione a St. Ursanne, villaggio che conserva ancora un’atmosfera arcaica sul fiume Doubs, dove passeremo la notte.

Nel 1987 il Giura decise di ricostruire un antico vigneto su una superficie di circa cinque ettari nel comune di Buix (al confine con l’Alsazia) a Clos des Cantons: nulla di strano visto che già intorno al 1200 i monaci di Grandcour coltivavano la vite in questi luoghi. D’altro canto, qui, il suolo ghiaioso cosparso di rocce affioranti ha un

effetto molto favorevole nel tenere caldo il terreno e le piante di viti esposte in pieno sud, dove vengono solo sfiorate dalle nebbie sia primaverili sia autunnali.

Il Riesling-Sylvaner che accompagna (dopo essere stato usato per la loro preparazione) dei «filetti di trota al vino bianco con basilico» ci ha entusiasmato con i suoi profumi aggrumati, come pure il Pinot Gris, compagno ideale delle rosette ottenute dalla forma di formaggio Tête de Moine usando la Girolle. Al ritorno ci siamo fermati nel comune di Soyhières a due passi da Delémont, dove su circa quattro ettari, tra vigna e vivaio, opera un personaggio straordinario, famoso in tutto il mondo per le sue ricerche sui vitigni (malattie, freddo, incroci): Valentin Blattner. Nel suo vigneto abbiamo scoperto delle sorprendenti creazioni: il Réselle (Müller-Thurgau, Chasselas, Seyval ) dall’intenso profumo di pompelmo; il dolce Muscat de la Birse, ottenuto dalla congelazione del-

le uve per concentrare zuccheri e acidità; il fruttato Maréchal Foch dai sentori di lampone e ciliegia; il possente Cabernet Sauvignon – Maréchal Foch; e la splendida Cuvée Olivia in cui oltre ai due rossi citati intervengono anche di base il Léon Millot e il Regent.

Usciamo a Sugiez e raggiungiamo Praz e Môtier, tre villaggi che si affacciano sul lago di Morat ai piedi dei pendii calcarei del monte Vully, che dà il nome a questa zona viticola particolare perché è a cavallo di due cantoni, Friburgo con 107 ettari vitati e Vaud con 50 ettari. La zona conta un centinaio di produttori che sono lieti (dietro appuntamento) di accogliervi per offrire interessanti degustazioni. Ad avere tempo a sufficienza sarebbe interessante fare il giro del lago per poter provare questi vini bianchi un po’ leggeri e minerali, come i rossi Pinot Noir, Gamay, Gamaret, Garanoir dal bel colore e dal bouquet fine, magari da provare in assemblaggio.

Qui come in tutte le regioni a nord,

L’allegro e semplice anemone dei fiorai

Mondoverde

A partire da febbraio riscalda di colori le nostre case annunciando la primavera

Vi sono fiori che, con la loro semplicità, riescono subito a regalare allegria. Uno di questi è senz’altro l’Anemone coronaria, un vero e proprio annuncio di primavera: se comprato reciso dai fioristi e tenuto in vasi con acqua, ha una notevole durata, e porterà in casa una pennellata di colore nelle grigie giornate invernali.

Lo si trova in vendita soprattutto a febbraio, quando le giornate sono corte e tutti noi, ormai stanchi del freddo, cerchiamo i primi sentori della bella stagione. Ed è proprio la ragione per cui questo piccolo fiore della famiglia delle Ranuncolaceae, originario del Medio Oriente ma naturalizzato in Europa da vari secoli, fa capolino al termine dell’inverno sui banchi della Migros e nelle vetrine dei fioristi. Professione, quest’ultima, da cui prende il nome di «anemone dei fiorai».

Alte non più di 50 cm, queste erbacee perenni, hanno steli robusti e dal color verde brillante, che portano alla

sommità una rosa di foglie frastagliate, le quali accompagnano la ricca corolla di petali dai colori variopinti, che a sua volta nasconde un bottone scuro, formato da stami e pistilli. Sono proprio i loro colori caldi a riscaldare l’umore, come fanno i fiori delle varianti «Mistral Plus Fuego» o «Mistral Plus Rosso», da mischiare a «Mistral Plus Bianco» o, per chi ama i contrasti più audaci, mescolandoli con «Mistral Plus Grape», che ha petali dalla nuance glicine; un abbinamento tale da creare toni ricchi con il rosso acceso.

Per chi predilige invece i toni pastello, vi è tutta una paletta di colori che sono offerte dalle nuove varietà come «Mistral Plus Azzurro» o «Mistral Rosa Chiaro», che garantiscono sempre un sorriso sul volto di chi li riceve in omaggio: mischiati tra loro, formano bouquet multicolori.

Non va però dimenticato un vantaggio importante: questi fiori possono essere coltivati con facilità anche in

giardino o in vasi sul terrazzo. In questo caso, si presentano come bulbi piccoli e bitorzoluti – che prendono il nome di rizotuberi – da piantumare da fine ottobre in avanti, ottenendo così i primi capolini al termine di gennaio, con circa 90-100 giorni di riposo sotto terra. Ma attenzione: è buona abitudine lasciare i rizotuberi in acqua tiepida per almeno 5-6 ore prima di piantarli a 4-5 cm di profondità e a una distanza di 15 cm l’uno dall’altro.

In grado di naturalizzarsi quasi ovunque, è meglio scegliere piccoli angoli riparati del giardino, dove le gelate saranno meno frequenti; prediligono terreni ricchi e leggermente calcarei, con una buona esposizione alla luce, ma al riparo dal forte sole estivo per evitare di abbrustolire i rizobulbi a riposo sotto il solleone.

In estate infatti avranno completato il loro ciclo vegetativo: i fiori e le foglie saranno ormai spariti e si potranno estirpare per ripiantarli successiva-

come detto, lo Chasselas è il vitigno più coltivato e produce vini vellutati; il Traminer, il Pinot Grigio e il Freisamer sono generalmente ricchi di aromaticità. A Praz abbiamo provato un Sauvignon Blanc in purezza che non aveva fatto la fermentazione malolattica: con quel suo leggero residuo zuccherino e il bouquet esplosivo, ci ha costretti a infilarne qualche flacone nel bagagliaio dell’auto.

Ma la «vedette» locale è il Freisamer : lo abbiamo provato a Morat o Murten, città bilingue il cui passato appartiene alla storia della Svizzera (1474, sconfitta di Carlo il Temerario duca di Borgogna). Entrando attraverso le porte del XIII secolo, si respira la storia e il profumo di vino, che è sempre stato un compagno e grande amico della prima. Infatti, ad accompagnare il nostro ricco piatto di «filetti di persico» con una montagna di frites, è il Freisamer (Sylvaner x Ruländer = Pinot Grigio) caldo di alcol e dagli intensi profumi; sarà stata anche l’atmosfera creata dalla terrazza sul lago, ma personalmente l’ho trovato uno degli abbinamenti più azzeccati. Indimenticabile anche il plateau di formaggi (il Canton Friburgo è forse il più conosciuto per i suoi prodotti caseari) con Freisamer vendemmia tardiva, elaborato assemblando al suddetto Gewürztraminer e Müller-Thurgau, entrambi provenienti da uve passe.

Storicamente il Canton Friburgo possiede anche dei vigneti nel Canton Vaud, uno dei migliori è quello di Les Faverges e Ogoz a nord est di Saint-Saphorin del Lavaux. Questi possedimenti di origine antica comprendono pure le Domaine de l’Hôpital a Riex e le Domaine de Béranges a La Tour-de-Peilz. Mentre percorriamo la strada per queste località sul nostro lato destro scorgiamo le vestigia di Avenches, l’antica capitale degli Elvezi.

mente in autunno, oppure, se si è pigri, si potranno lasciare nel terreno per la stagione successiva, andando però incontro a una regressione dei bulbi, che porterà alla nascita di fiori sempre più piccoli anno dopo anno. Non amano l’eccesso d’acqua né

in piena terra né in vaso da recisi: nel primo caso basterà qualche pioggerellina primaverile o una leggera innaffiata ogni 10-15 giorni (se la stagione è asciutta), mentre in vaso è bene non mettere più di 4 dita d’acqua per evitare che gli steli marciscano. (Solo i primi 4-5 cm di stelo dovranno stare a contatto con l’acqua).

Già usati dagli antichi romani per decorare le tavole e le sale da pranzo, hanno avuto il loro momento di vera gloria tra il 1850 ed il 1950, quando in Olanda, Belgio e Francia, sono state selezionate le varietà di Anemone coronaria con corolle grandi e steli lunghi (raggruppati con il nome di «Caen») o con una moltitudine di petali (chiamati «St. Brigid»).

Negli ultimi decenni l’ibridazione e la creazione di nuove varietà è quasi del tutto appannaggio dei ricercatori liguri, che hanno portato a un miglioramento genetico con corolle sempre più grandi e dai colori brillanti.

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11
In località La Neuveville, il vigneto attorno al RebbauMuseum. (Ginkgo) Anemone coronaria «The Governor». (A. Barra)

Palermo, va in scena la contraddizione

Itinerari d’arte ◆ Una grandiosa sinfonia di mosaici bizantini, di marmi barocchi e di marionette siciliane tra la cacofonia quotidiana delle vie cittadine: insomma, un esempio eccezionale di sincretismo socio-culturale

Tommaso Stiano

Giuseppe Verdi nel secondo atto de I Vespri Siciliani fa cantare «O tu, Palermo, terra adorata…» e per chi s’interessa di storia, arte e architettura, proprio il capoluogo siciliano offre due corposi percorsi che impegnano su più giorni e fanno «adorare» la città. Dapprima l’« itinerario arabo-normanno» che comprende nove edifici monumentali – sette in città, più le cattedrali di Monreale e Cefalù –risalenti al XII secolo, testimonianze artistiche uniche nel loro genere tanto da diventare nel 2015 patrimonio mondiale Unesco perché «collettivamente, sono un esempio eccezionale di sincretismo socio-culturale tra le culture occidentali, islamiche e bizantine». Vi è poi l’« itinerario barocco» con la sua declinazione siciliana esibita nei luoghi sacri del Sei-Settecento distribuiti in tutto il perimetro urbano. L’immersione nelle arti dei secoli passati di Palermo è l’obiettivo della nostra calata al sud, cionondimeno il presente, l’attualità cittadina, ci tocca da vicino, a volte come un pugno nello stomaco, altre con meno spiacevoli impressioni come l’animazione serale nelle vie principali e i mercati rionali.

Su un bel treno metropolitano partito dall’aeroporto di Palermo Punta Raisi, oggi intitolato agli eroi di giustizia Falcone e Borsellino, arriviamo in meno di un’ora alla stazione centrale e a piedi raggiungiamo l’alloggio nel vicino quartiere di Ballarò, quello del famoso mercato aperto tutti giorni, sempre molto animato, colorato, profumato. Una prima triste realtà ci passa sotto i piedi a ogni

passo: sporcizia in tutte le vie, viuzze e vicoli del quartiere. Certo noi vediamo le cose con mentalità svizzera, però non ci sembra un bel biglietto da visita, e non parliamo dell’immondizia generata dal mercato (quella è ovvia e comunque viene prelevata tutte le notti prima dell’alba), ci riferiamo a quella che da più giorni staziona per le strade e nei cassonetti straboccanti, complici – ci dicono al nostro B&B –i palermitani che non pagano la tassa rifiuti e le autorità che non li raccolgono con solerzia. Un circolo vizioso, una brutta sensazione, ma poi…

Scorpacciata di barocco e pasticcini

Ma poi, a dieci minuti di marcia dalla stanza, varchi la soglia della Chiesa del Gesù (XVI-XVIII sec.), pres-

so il complesso monumentale di Casa Professa, sede dei Gesuiti ancora oggi, e resti a bocca aperta, ti dimentichi del materasso e altri ingombranti poco lontano dal sagrato. È la più bella e sontuosa chiesa barocca di Sicilia, una vertigine di marmi, stucchi e dipinti, da capogiro. La Chiesa cattolica nella sua storia bimillenaria è stata la maggiore committente di bellezze artistiche e qui ce n’è un esempio illuminante. Il barocco è un’arte in movimento, ha in sé un impeto dinamico che investe l’osservatore, allora ci sediamo nei banchi per assaporarne a lungo lo splendore alla luce filtrante del mattino. Passiamo poi di cappella in cappella fino all’altare maggiore estasiati dal tripudio dei marmi mischi, quelli di vari colori abbinati con la tecnica dell’intarsio per dare forma a figure e decori. E ci sono pure i marmi tramischi, quelli con soggetti

tridimensionali (angeli, vegetali, animali…) scolpiti nella pietra policroma, come le straordinarie allegorie dei quattro elementi della creazione, aria, acqua, fuoco e terra sui pilastri portanti dell’edificio.

La magnifica sinfonia in 3D dell’apparato decorativo e delle statue ti riempie gli occhi, il cuore, l’anima e osiamo pure accarezzare con tocco lieve tale bellezza. Percorriamo le tre navate più volte alzando anche lo sguardo sulle pitture della volta a botte, sugli stucchi dorati sotto gli archi a tutto sesto e nelle cupole delle cappelle laterali. Si può proprio dire che in questo luogo sacro l’ horror vacui non è di casa perché non c’è un centimetro di vuoto, la fluidità delle curve e l’esuberanza decorativa provocano quella sensazione di joie de vivre come ogni cosa bella. Ci avviciniamo alla balaustra centrale, varchiamo il cancelletto

I contrasti di Palermo tra vita e arte (Santiago Lopez-Pastor). In basso, aromi e sapori profusi dalle spezie al mercato giornaliero di Ballarò all’Albergheria (T. Stiano); sotto, la monumentale Fontana Pretoria (1573) nell’omonima piazza, vista dalle terrazze della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria. (T. Stiano)

di ferro battuto ed entriamo nel presbiterio, il cuore pulsante del culto cattolico dove Padre Walter ci mostra i «teatrini», veri e propri palcoscenici di pietra con un fondale di marmi mischi e statue a grandezza naturale che narrano episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento.

«Il Libro Sacro – ci spiega il padre gesuita – è sempre stato fonte inesauribile per gli artisti e tutte le raffigurazioni avevano una funzione pedagogica, erano cioè la Biblia pauperorum, la Bibbia dei poveri, non di spirito ma perché non sapevano né leggere né scrivere, quindi imparavano la dottrina e la storia sacra guardando le immagini e ascoltando le spiegazioni del sacerdote». Le chiese, le cattedrali erano dunque dei libri di pietra aperti e l’arte in tutte le sue espressioni era una forma straordinaria di comunicazione dei conte-

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 12

nuti della fede, lo si vede bene anche visitando la sacrestia di questa chiesa dove predomina il legno scolpito, il museo con stupendi paliotti lavorati a seta e con filati d’oro e d’argento, l’Oratorio del Sabato con gli stucchi bianchi e la cripta.

Dicevamo che una caratteristica fondamentale del barocco è quella di suscitare emozioni, sentimenti, partecipazione attiva come davanti a un’ouverture coinvolgente: obiettivo raggiunto, anche a distanza di secoli dalla realizzazione, la sinfonia per marmi policromi è toccante. Un’esperienza indimenticabile di bellezza che in città ha anche altri illustri esempi nell’Oratorio di San Lorenzo con i bassorilievi in stucco bianco del Serpotta e nella stupenda Chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, annessa al monastero che dal 1311 al 2014 ha ospitato le monache domenicane.

Dal 2017 questo complesso è aperto al pubblico e, oltre alla chiesa barocca, si possono visitare il chiostro, le terrazze con vista panoramica sulla città e sulla fontana Pretoria, la sala capitolare, le celle delle monache e, dulcis in fundo, la coloratissima dolceria con spaccio che una cooperativa manda avanti sulla base delle ricette ereditate dalle suore: biscotti, cannoli, torte, frutta candita… pancia mia fatti capanna! Una giornata davvero sostanziosa con una scorpacciata di barocco e di pasticcini.

Intermezzo

Tutto il centro storico – i quattro quartieri Ballarò/Albergheria, Kalsa, Capo e Vuccirìa/La Loggia che convergono verso Piazza Villena all’incrocio tra via Maqueda e via Vittorio Emanuele – è raggiungibile a piedi entro un raggio di un chilometro tenendo come punto di partenza proprio i Quattro Canti, ossia le facciate monumentali della piazza citata. Esiste comunque una rete di mezzi pubblici correttamente pianificata che comprende anche una navetta per raggiungere i siti d’interesse culturale.

Un mattino ci mettiamo quindi sotto la pensilina in attesa della navetta reclamizzata per recarci al Palazzo Reale (dei Normanni). Passano i minuti, chiediamo lumi a gente del posto che in replica ci dice che «per passare passa, ma non si sa quando e quanto spesso, tanto più che è gratis. È comunque la stessa cosa anche con i bus a pagamento, è meglio che proseguite a piedi». Come mai questo disservizio? Ce lo spiegano gli autisti stessi con una lettera aperta affissa a tutti i pali degli orari; si scusano con l’utenza (gli autisti!, non il datore di lavoro!) e affermano che i bus ci sono e gli autisti pure, già formati all’uopo, ma la Giunta (il Municipio) non li assume, perché al momento non è una priorità della città, i soldi servono per altro. Come tutti i palermitani, portiamo pazienza e andiamo avanti, a piedi, perché poi…

La bellezza del Paradiso

Poi, dopo una sgambata e controlli come in aeroporto, entriamo nel Palazzo Reale, uno dei punti salienti dell’itinerario arabo-normanno; in cima allo scalone superiamo l’ingres-

azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938

so della Cappella Palatina che si trova al centro del grande edificio storico e… ed è tutto uno scintillio d’oro, imponente, uno spettacolo meraviglioso, un mosaico da cima a fondo, incantevole! Ed è precisamente l’effetto voluto dalla committenza perché il luogo sacro doveva prefigurare la bellezza del Paradiso e, naturalmente, mostrare agli ospiti la dignità dei regnanti.

La Cappella di Palazzo – questo vuol dire «palatina» – era infatti la chiesa privata dei sovrani normanni, voluta ex novo assieme al Palazzo da Ruggero II Altavilla dopo la sua incoronazione nel 1130 a primo Re di Sicilia e continuata dal figlio Guglielmo I e dal nipote Guglielmo II, sempre nel XII secolo. Navate, pareti, colonne, presbiterio, volte, cupole sono uno splendore dei migliori mosaici in

stile bizantino, opera di specialisti venuti da Costantinopoli e dalla Grecia. Il programma iconografico che lascia incantati i visitatori è vasto: c’è la vita di San Paolo e di San Pietro a cui è dedicata la cappella; ci sono molti quadri biblici e Santi ovunque, ma noi ci attardiamo estasiati a contemplare le due cupole con il Cristo Pantocratore (Onnipotente) attorniato da Angeli, Arcangeli, Evangelisti e dalla Madonna.

Le tessere policrome delineano fin nei particolari il volto di ogni figura umana a cui si aggiungono animali e vegetazione. Con il naso all’insù ammiriamo anche lo straordinario soffitto ligneo arabeggiante i cui cassettoni sono finemente scolpiti e dipinti e quindi i marmi del pavimento e del registro basso dell’edificio di culto; è

I pupi di Pasqualino

Con un bus e una scarpinata arriviamo al Museo Internazionale delle Marionette intitolato al suo fondatore Antonio Pasqualino ed è un tripudio di pupi siciliani e di tutto il mondo che ci lascia col fiato sospeso dalla meraviglia. L’«Opera dei Pupi» è una peculiarità della Sicilia nata all’inizio del XIX secolo per raccontare al ceto popolare storie del repertorio epico-cavalleresco medievale, poemi italiani, vite di santi e avventure di banditi locali. Un patrimonio immateriale, solitamente gestito da famiglie di burattinai, che ha ricevuto il beneplacito dell’Unesco nel 2008 per la grandezza (fino a 130 cm quelli catanesi) e la bellezza delle marionette scolpite, dipinte e dal vestiario molto curato e per l’originalità degli spettacoli.

Con estremo interesse, passiamo in rassegna i locali che espongono marionette provenienti anche da paesi lontani come Giava, Birmania, Sri Lanka, Giappone e quelle mos-

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

Simona Sala

Barbara Manzoni

Manuela Mazzi

Romina Borla

Natascha Fioretti

Ivan Leoni

se sull’acqua del Vietnam. C’è anche la sala delle rappresentazioni perché ogni settimana i pupi palermitani entrano ancora in scena, hanno ancora qualcosa di eroico da narrare a grandi e piccini, lo abbiamo potuto speri-

Sede

un vero sincretismo armonico di varie arti che non ha rivali in tutta Europa per quel periodo, un appagamento per l’animo umano che ci fa dimenticare il mal di gambe. Nel Palazzo dei Normanni, oggi sede politica della Regione Sicilia, si visitano anche i giardini, gli appartamenti reali (non sempre aperti) e altri ambienti dagli stili architettonici variegati.

Il doppio volto della città

Molte altre cose ci sarebbero da raccontare, soprattutto belle come la vita cittadina e l’arte culinaria che attenua di molto le disfunzioni quotidiane; tra queste il complicato tentativo di acquistare in anticipo un biglietto per Cefalù, che conserva un gioiello del-

lo stile bizantino, la Cattedrale, uno dei nove punti della passeggiata arabo-normanna. Per raggiungerla passiamo dalla stazione centrale a comprare in anticipo un biglietto. Allo sportello non possono servirci perché il sistema centrale è bloccato e non emette biglietti; andiamo all’automatico che però non prende le banconote e nemmeno certe carte di credito; andiamo da due funzionari di Trenitalia che hanno aperto un banchetto per i poveri malcapitati ed emettono biglietti online, ma non hanno moneta di resto e ci chiedono di fare il «titolo di trasporto» direttamente sul treno. Sopportiamo un po’ sconcertati, come una palla da biliardo che rimbalza da una sponda all’altra, perché poi… In questi quadri di un’esperienza barcollante tra sinfonia e cacofonia, possiamo ben concludere di aver trovato una Palermo dai molti volti, contraddittori ma conviventi; stando alle parole del giovane che gestisce il B&B, ci sono però essenzialmente due facce della città riassunte dal binomio dentro/fuori: tutto ciò che sta all’interno delle case, chiese, musei, ristoranti, è sempre ben tenuto, si presenta bene; tutto ciò che appartiene all’esterno (strade, piazze, servizi) invece manifesta diverse lacune e un buon margine di miglioramento. Con il cambio di Giunta magari le disfunzioni sono state risolte senza nuovi Vespri siciliani come qualche cartellone di denuncia auspica.

mentare con piacere una sera, non qui, ma nella sala del Teatro dei pupi di Mimmo Cuticchio: c’erano più adulti che bambini. Una bella esperienza di un’arte che sopravvive sia pure tra mille difficoltà.

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Insomma, Palermo come un Giano Bifronte con un passato ricco d’arte che attira uno stuolo di visitatori e un presente-futuro a disposizione per rendere più splendida la città siciliana dove ritorneremo volentieri perché la musica dei suoi tesori ci allieta: «O tu, Palermo, terra adorata… il tuo ripiglia, primier splendor».

Informazioni

Su www.azione.ch trovate una più ampia e variegata galleria fotografica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 13
L’esplosione del barocco seicentesco sull’altare maggiore della Chiesa del Gesù di Casa Professa nel quartiere di Ballarò-Albergheria. (T. Stiano)
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T. Stiano

Il gioco dei travasi con i coriandoli

Crea con noi ◆ Dopo il Carnevale, finiti i cortei mascherati, ecco un’idea per usare i variopinti pezzetti di carta in altro modo

In Ticino è ormai tempo di Carnevale e le piazze dei nostri comuni si colorano di variopinti coriandoli. Con questo tutorial vediamo come riciclarli e dare loro un utilizzo anche dopo il corteo mascherato.

Il principio è quello del gioco dei travasi ideato da Maria Montessori, un’attività che piace sempre molto ai bambini e che in maniera ludica li aiuta a sviluppare concentrazione, motricità fine e coordinazione oculo-manuale.

Qui andremo a travasare coriandoli per colorare un simpatico gufo, aggiungendo a piacere anche elementi naturali.

Procedimento

Stampate il cartamodello (lo trovate su www.azione.ch), ritagliatelo e unite le due parti con del nastro adesivo quindi con una matita riportate i contorni al centro della vostra base 50x38 cm.

Dal cartone, ritagliate anche diverse strisce larghe 2 cm. Per via della sua struttura se volete ottenere delle strisce flessibili dovrete tagliare il cartone perpendicolarmente alle onde. Vi basterà provare a piegarne una per capire se state tagliando nel senso corretto!

Con la colla a caldo, incollate le strisce alla base seguendo il perimetro

Giochi e passatempi

Cruciverba

Come si chiama questa conchiglia e quale particolarità ebbe per la sua bellezza? Troverai le risposte a cruciverba ultimato leggendo le lettere evidenziate.

(Frase: 5 - 2, 2, 5, 6, 5, 6)

ORIZZONTALI

1. Spiccano salti di nove metri

7. Esprime noia e impazienza

8. Le prime delle ultime...

9. Otorinolaringoiatra in breve

10. Le allevò Aristeo

11. Ne ha due Roberto

12. Un gruppetto

13. Amano incondizionatamente

17. Particella atomica

18. Una miscredente

19. Unità territoriale greca

21. Articolo spagnolo

22. Un carburante

che avrete tracciato a matita seguendo il cartamodello. La colla a caldo tende a seccarsi molto in fretta quindi fate piccoli pezzi alla volta e lavorate velocemente.

Gli occhi del gufo potranno essere fatti con due bicchieri di carta tagliati a 3 cm d’altezza. Per il becco potete usare una striscia continua andando a incidere il cartone, senza tagliarlo, laddove serve che si pieghi.

Costruite ora un contenitore che possa contenere i coriandoli. Tagliate un rettangolo da 50x24 cm, quindi incidetelo verticalmente a 6 cm dal bordo (vedi fotografia) in modo da poterlo piegare e ottenere una struttura a U con base 12 cm e i lati di 6. Tagliate ora 4 rettangoli da 12x6 cm e incollatene due agli estremi del contenitore, in modo da chiuderlo e con i due restanti create delle separazioni in modo da ottenere 3 vani distinti. Se desiderate potete rifinire il vostro «quadro» con una cornice anch’essa di cartone. Vi basterà tagliare delle strisce di 4,5 cm e tagliare gli angoli a 45°. Preparate ora l’attività riempiendo i vani con i coriandoli, infine aggiungete cucchiai di varie dimensioni, pinze, o piccoli bicchierini che possano prestarsi all’attività di travaso.

Idea in più Avete tanti coriandoli e volete riciclarli in più modi? Riportate il cartamodello su un foglio A3 bianco o colorato e fate divertire i vostri bambini

Materiale

• Coriandoli in vari colori

• C artone di riciclo. Per la base 1pz da 50x38 cm

• 2 bicchieri di carta

• Forbici/taglierino/righello

• nastro adesivo

• Colla a caldo

• Stampante per il cartamodello (I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

con un bel collage. Vi basterà spalmare sui vari settori della colla vinilica e cospargerla con i coriandoli. Una volta completato il disegno passate un’ulteriore mano di colla affinché si conservi nel tempo. Buon divertimento!

Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

24. Le iniziali di Mammuccari

25. Tonnellate inglesi

26. «Il» tedesco

27. Aiuto in poesia

28. Un periodo di tempo

VERTICALI

1. Si stringe per la commozione

2. Relativo all’Africa

3. National Football League

4. Le ha in testa Gastone

5. Monete indiane

6. Osso del bacino

10. Nome maschile

12. È impegnativo leggerlo...

13. La sua capitale è La Valletta

14. Corpuscoli di materia

15.

16. Fa coppia con se

17.

19.

20. Pronome personale

22. Le iniziali dell’attore Oldman

23.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente UN PICCOLETTO NELL’OCEANO – Nome del cetaceo:

DEL GOLFO DI CALIFORNIA.

I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 14
Mie a Monte-Carlo Il padre del biblico re Davide In, in francese Pari nei vitelli 25. È finita in fondo...
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
FOCENA
1 234 5 6 7 8 9 10 11 12 13 1415 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 F O CA L E NT A A D ERA LOOP G O L AF FETTO GRAN ARN O S IAR DA AA MT T I C SI A E L D IES N F O R I EDE N I A 3 7 21 8 97 2 9 4 5 7 6 9 6 3 5 86 7 731 82 5172 893 64 6395 412 78 2847 639 51 8 4 5 9 1 7 6 3 2 3968 251 47 1724 368 95 9 5 1 6 7 8 4 2 3 7283 945 16 4631 527 89

Viaggiatori d’Occidente

In ricordo della vecchia regina dei cieli

Seattle, sulla costa pacifica degli Stati Uniti, non è tra le mete abituali del viaggio americano, ad eccezione di qualche nostalgico del grunge, il genere musicale lanciato negli anni Ottanta da Kurt Cobain e dai Nirvana. E tuttavia, se mancano le consuete attrazioni turistiche legate alla storia o all’arte, a Seattle puoi capire molto del nostro presente. Qui due compagni di scuola, Bill Gates e Paul Allen, hanno fondato Microsoft. Qui Jeff Bezos ha aperto la prima sede di Amazon. Qui è stato inaugurato il primo Starbucks.

Sempre a Seattle, già nel 1916, Boeing comincia a progettare i suoi primi aerei. E nel 1966 la società costruisce il più grande stabilimento industriale del mondo a Everett, quaranta chilometri più a nord. In quell’anno Pan American commissiona a Boeing venticinque Jumbo Jet 747, impegnandosi a pagarli 525 milioni di dollari (circa cinque miliardi di oggi). È una

scommessa al buio. In soli ventotto mesi cinquantamila tra ingegneri, meccanici e amministrativi (saranno chiamati gli incredibili) progettano e realizzano un aereo mai visto prima, a cominciare dalle dimensioni: settanta metri di lunghezza, sessantacinque di apertura alare, la coda alta come un palazzo di sei piani.

Nel 1965 i 25 milioni di arrivi internazionali del 1950 sono diventati 115 milioni e l’Assemblea delle Nazioni

Unite proclama il 1967 Anno internazionale del turista. Ma si cerca invano un aereo adatto alle dimensioni crescenti e alla nuova geografia del turismo internazionale.

Poco prima della Seconda guerra mondiale per i voli a lungo raggio ancora si puntava su giganteschi idrovolanti, come il Boeing 314 Clipper, forse l’aereo più lussuoso di ogni tempo. Gli idrovolanti tuttavia erano lenti, costosi e richiedevano piloti

Passeggiate svizzere

L’Hôtel du Bœuf a Delémont

Il primo segno, camminando lungo rue de la Préfecture un mattino freddo di inizio febbraio, è la sagoma di un bue in aria. Sospesa, in ferro battuto, è un’insegna antica risalente forse al 1728. Quando, secondo la prima traccia di questo ritrovo storico, un certo Jacques Studer, macellaio, riceve dal principato vescovile di Basilea, l’autorizzazione a vendere del vino all’insegna del bue. Un bovino è anche al centro del dipinto murale agreste postcubista che ricopre l’intera facciata dell’Hotel du Bœuf (422 m) a Delémont. Al suo fianco, una contadina con falcetto e grano in grembo e un contadino con baffi e basco che affila la falce. Agli angoli, in basso, una gallina e una carriola rovesciata. In cima, due isolate fattorie triangolari stilizzate al punto da sembrare ufo, luna, nuvole. L’opera realizzata nel 1960 dal pittore-ferroviere Pierre Michel (1924-

2009), nell’impatto con il passante senza fretta, è rafforzata, al pianterreno, dalle due vetrate decorate all’acido. Fregi floreali con fogliame si evolvono – lasciando lo spazio per due scritte: restaurant, brasserie – ricamando con grazia, il vetro, come brina. Ossobuco c’è scritto, con il gesso, sulla lavagnetta appesa all’entrata. Monumentale, un tempo, qui, pare, il puré di patate della signora Ida Ludwig-Bürki (1921-2019), conosciuta da tutti come «la Ida du Bœuf». Il figlio Herbert, seduto lì in sandali allo Stammtisch a chiacchierare con due clienti, continua la gestione famigliare di questo bistrò popolare iniziata nel 1931 con i suoi nonni, Christian e Ida Bürki, la prima Ida «del Bœuf». Solo «le Bœuf», è così infatti che tutti chiamano questo bistrò rustico di tradizione socialista per via del nonno Christian, deputato socialista al

Sport in Azione

molto esperti. Anche il loro principale vantaggio, ovvero la possibilità di decollare e atterrare in qualunque specchio d’acqua, divenne meno interessante quando la Seconda guerra mondiale lasciò in eredità numerose lunghe piste utilizzate dai bombardieri pesanti.

Alla fine del conflitto i primi turisti internazionali attraversano l’Atlantico a bordo dell’elegante quadrimotore Lockheed L-049 Constellation, affettuosamente soprannominato Connie; trasporta però solo quaranta passeggeri, alla velocità di quasi cinquecento chilometri all’ora. In alternativa si impiega un altro quadrimotore, il Douglas DC-4. Vennero poi i primi aerei a reazione, il DC-8 e il Boeing 707. E tuttavia, sin dal suo primo volo nel 1969, il Boeing 747 fece sembrare superati tutti questi modelli, ancora legati a soluzioni tecniche sviluppate nella Seconda guerra mondiale.

Il nuovo gigante dei cieli era spinto da quattro potenti motori a reazione e poteva trasportare oltre cinquecento passeggeri, riducendo radicalmente i costi e spianando la via al turismo internazionale di massa. La cabina di pilotaggio era collocata sopra il ponte principale, disegnando una caratteristica gobba nel profilo, per lasciare spazio a un portellone anteriore nei voli cargo. E dietro la cabina fu ricavato un bar riservato ai passeggeri di prima classe, raggiungibile con una scala a spirale.

Tra il 1970 e il 2017 oltre tre miliardi e mezzo di passeggeri hanno volato su questo aereo, con pochi incidenti di rilievo, anche se il 27 marzo 1977, nel peggiore disastro della storia dell’aviazione, proprio due 747 si sono scontrati sulla pista di Tenerife, consumando tra le fiamme 583 vittime.

Ora il tempo della «regina dei cieli»

si è compiuto, anche se quasi cinquecento esemplari sono comunque ancora in servizio e ci resteranno per un pezzo (il più famoso naturalmente è l’Air Force One, l’aereo del presidente degli Stati Uniti). Poche settimane fa l’ultimo esemplare di Boeing 747 prodotto, il numero 1574, è stato consegnato nella versione cargo. Si chiude un’epoca e inevitabilmente ci si chiede se siamo di nuovo a un punto di svolta nello sviluppo dell’aviazione civile. Di certo nel tempo del cambiamento climatico servono aerei più efficienti, di dimensioni minori, con due soli motori. L’erede designato, il Boeing 777, è ancora troppo grande. Ma forse gli adattamenti non bastano. Come in quel lontano 1966, c’è bisogno di un’idea radicalmente nuova, combinando «matematica, estetica e un’intera visione geopolitica del mondo» (J.G. Ballard). I cieli attendono la loro nuova regina.

Gran Consiglio bernese. E dove poco meno di due mesi fa, hanno festeggiato fino a tardi la prima consigliera federale giurassiana della storia del più giovane cantone svizzero. Ma qui in realtà se ne vedono un po’ di tutti i colori. Sette tavoli rettangolari grandi, in frassino laccato, i piedi in ghisa. Due stamm rotondi, due panche in corrispondenza dei due tavoli-nicchia all’entrata, vicino alle finestre ricamate con l’acido fluoridrico. Una delle due panche, a sinistra, continua per tutto il locale. Mentre trentotto sedie da bistrò di campagna, su una delle quale sono seduto a sorseggiare un caffè e sfogliare distrattamente «Le Quotidien jurassien». Un vecchietto in training, appena arrivato dall’entrata secondaria di place Roland Béguelin, ordina «un galopin» poi però cambia subito idea guardando l’orologio e affermando riflessivo che «sono già le dieci e venti», perciò

Salari da nababbi e club indebitati

Cristiano Ronaldo non è ancora un ex calciatore. Tuttavia, all’età di 38 anni, sembra non più essere in grado di fare la differenza, come ha fatto per lungo tempo con la maglia del Manchester United, del Real Madrid e della Nazionale portoghese.

Già il suo soggiorno torinese, sponda Juventus, non era stato all’altezza della sua fama e della sua classe cristallina. Il ritorno, la passata stagione, a casa dei Red Devils, è stato ancora meno lusinghiero. Anzi, dato che ci stiamo occupando di CR7, e non di un ex terzino della Pergolettese, potremmo tranquillamente parlare di disastro.

Perbacco, aveva segnato diciannove reti in quaranta partite. Ma sono briciole rispetto alle ottantuno siglate in novantotto incontri in bianconero, o le trecentoundici firmate con Los Merengues in duecentonovantadue sfide. Ronaldo, nel suo

secondo passaggio in Premier League, aveva persino dovuto subire lo smacco di essere spedito in tribuna dal tecnico dello United, Erik ten Hag, con il quale pare non corresse buon sangue. E anche Fernando Santos, il CT della Selezione portoghese, in occasione della recente Coppa del Mondo in Qatar, gli aveva sbattuto in faccia l’onta della panchina. A lui, l’Eroe nazionale, colui che negli ultimi quindici anni aveva scritto le pagine più esaltanti del calcio portoghese. Con grande professionalità, Cristiano Ronaldo aveva accettato questo cambiamento di paradigma senza battere ciglio. Forse perché era già al corrente di ciò che bolliva nel faraonico calderone arabo. Chissà, magari il gesto dell’ombrello ai danni del Selezionatore lo faceva la sera, in camera, anzi nella suite. Immaginando che Santos avrebbe presto fatto le vali-

gie e lui, CR7, avrebbe firmato di lì a poco, il contratto più lucrativo e sfavillante della storia dello sport: un miliardo tondo tondo di dollari. In cambio avrebbe dovuto vestire per due stagioni la maglia della squadra saudita dell’Al Nassr, allenata dall’ex tecnico della Roma, Rudi Garcia, e fungere da testimonial per la candidatura che l’Arabia Saudita intende proporre alla FIFA per la Coppa del Mondo del 2030.

Mentre a Doha si tessevano le trame di questa intesa finanziariamente stellare, Lionel Messi, il grande rivale di CR7, trascinava la Nazionale argentina verso la conquista della Coppa del Mondo. Dimostrando di essere ancora vivo, attivo, performante. Era giunto finalmente quel tanto agognato trionfo, che si aggiungeva all’oro olimpico del 2008 a Pechino, ai sette Palloni d’Oro, ai numerosissimi successi conquistati

(sottintendendo che l’ora dei birrini è passata) prende un rosé. «Febbraio è un piccolo mese e poi c’è il carnevale» dice fiducioso Herbert Ludwig ai suoi compagni di tavolo. Il signore del rosé parte in quarta, racconta di un capriolo finito nel cimitero di Courtételle a mangiare le corone funebri recenti. Aveva proprio ragione Georges Pélégry, detto Jojo, poeta sconosciuto dei dintorni, scrivendo tra le pagine di Les dits de Saint-Marcel (1989), a proposito del Bœuf: «Una taverna per surrealisti, il nostro Cabaret Voltaire». Sopra il mio tavolo, un quadretto raffigura, distorta un po’ alla Soutine, la facciata fuori dal comune di questo luogo alla buona. Dalla firma risalgo a uno degli ultimi veri pittori bohémien di Montmartre, impressionista populista nato in Normandia e di passaggio, per sei anni, in Svizzera: Roland Dubuc. Ignoto è invece l’au-

tore dell’affresco verso l’uscita secondaria ma usata spesso, di fronte alle toilettes: un altro bovino in un ovale, attorniato di fiori. Su quasi tutti i tavoli, foglietti con i nomi di chi ha riservato per pranzo. Apprendistato come cuoco al prestigioso Grand Hôtel Les Trois Rois di Basilea, classe 1950, Herbert Ludwig, baffetto a manubrio e t-shirt, propone una cucina semplice, alla mano, sincera: le sue specialità sono il cordon bleu con rösti o frites allumettes, l’insalata di cervelat, la fondue. Affiancato dalla moglie Claudine e il figlio Renaud in cucina, una sala da pranzo sopra, per banchetti o altro, otto camere ancora più sopra, riesce a mantenere intatta, in questo locale, l’atmosfera dell’universo bistrotiero che sta svanendo quasi del tutto. Salta fuori ora, in una storia allo stamm , un cervo bianco in giro da secoli non ho capito dove.

con la maglia blaugrana del Barcellona e alla Coppa America del 2021. Alzare al cielo la Coppa del Mondo è stato sinonimo di consacrazione definitiva. Di beatificazione. Significava aggiungere al mosaico di pietre preziose la tessera che fino a quel giorno lo discriminava nei confronti del suo fenomenale predecessore, Diego Armando Maradona. Ma, di grazia, come è possibile che un calciatore con queste doti e con questo palmares possa guadagnare un sesto di quanto incassa il suo rivale portoghese, per altro già avviato sul viale del tramonto? Non sia mai detto. Ecco che l’Al Hilal, squadra saudita, grande avversaria dell’Al Nassr, propone alla Pulce atomica un biennale da trecento milioni l’anno. Cifre da paura. O da vergogna.

Valutate voi. Anche se non c’è nulla di definivo: pare che Leo abbia rifiutato l’offerta, per prolungare almeno

fino al 2024 il contratto che lo lega al Paris Saint Germain. Continuerebbe a guadagnare trenta milioni di euro l’anno. Bruscolini. Il dieci per cento di quanto incasserebbe in terra araba. Probabilmente preferisce palcoscenici prestigiosi come la Ligue 1 e la Champions, al desolante campionato saudita che nessuno si fila. Ma la vera questione è altrove. È morale prima che finanziaria. Sta nel continuo pompare denaro in un fenomeno come il calcio, che succhia risorse senza mai pareggiare i conti. I grandi club sono tutti pesantemente indebitati. Come lo sono gli Stati, che però si sobbarcano sanità, formazione, socialità, mobilità, giustizia, e molto altro ancora. Chissà, si potrebbe provare col merchandising e vendere le T-Shirt con l’effigie di Alain Berset o Viola Amherd. Ma dubito che possa essere un buon affare.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 15 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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ATTUALITÀ

Economia elvetica e stranieri

Il ricorso alla mano d’opera estera è indispensabile, ma ci sono questioni da considerare. Ecco quali

Le miserie prima del sisma Povertà, guerra e cataclismi sono di casa nelle aree siriane e turche devastate dal terremoto

«Stato sovietico criminale»

Le riflessioni della storica russa e premio Nobel Irina Scherbakowa, cofondatrice di Memorial

Se USA e Cina non si parlano Il caso del pallone-spia cinese si innesta in un contesto di crescente tensione a livello globale

Come facilitare la vita professionale delle donne?

Berna ◆ Il Consiglio nazionale discuterà una riforma da 770 milioni di franchi per migliorare la conciliabilità tra famiglia e lavoro

A volte ci sono notizie di peso che non lasciano traccia, semplicemente perché si palesano al momento sbagliato. È quello che è capitato a una modifica di legge destinata a dar nuova linfa alla politica famigliare del nostro Paese. Una riforma varata da una commissione parlamentare lo scorso 8 dicembre, il giorno dopo l’elezione in Consiglio federale di Elisabeth Baume-Schneider e di Albert Rösti. E il giorno stesso in cui il Governo si è incontrato per decidere della nuova ripartizione dei Dipartimenti. In quel momento c’era insomma altro di cui parlare. Eppure quella Commissione del Consiglio nazionale – che si occupa di scienza, educazione e cultura – ha messo sul piatto ben 770 milioni di franchi per migliorare la conciliabilità casa-lavoro e per facilitare la vita professionale delle donne e delle mamme. In terra elvetica una cifra del genere in questo ambito non si era mai vista, non per nulla il nostro Paese arranca costantemente nei bassifondi nelle classifiche internazionali elaborate su questa tematica. Basti pensare che nel 2021 una ricerca pubblicata dall’Unicef, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, assegnava alla Svizzera il terz’ultimo posto, in una graduatoria composta da quarantuno Paesi.

Ora però le cose potrebbero cambiare, anche perché la riforma approvata in dicembre è sostenuta da una solida maggioranza, perlomeno a livello di Commissione. Si tratta in particolare di accrescere le capacità di accoglienza degli asili nido, in modo da garantire un servizio il più possibile uniforme su scala nazionale. «Il problema si pone sostanzialmente in questi termini: negli asili nido i posti a disposizione sono davvero pochi e il loro costo è troppo elevato. Ci sono Cantoni in cui questa fattura è tutto sommato sopportabile e altri dove invece questa spesa raggiunge persino il 25% del bilancio famigliare», ci dice Fabien Fivaz, consigliere nazionale neo-castellano dei Verdi e presidente della Commissione del Nazionale che ha approvato il cambio di marcia dello scorso dicembre. In questo ambito la competenza è essenzialmente in mano ai Cantoni, con un mosaico di ventisei sistemi diversi nella gestione scolastica dell’infanzia, asili nido compresi. L’obiettivo principale di questa riforma consiste nel ridurre del 20% su scala nazionale le tariffe degli asili nido, indipendentemente dal reddito dei genitori. A questo scopo verranno stanziati 710 dei 770 milioni previsti. Gli altri 60 serviranno invece per finanziare programmi specifici, come ad esempio dei progetti pilota. Toccherà poi ai Cantoni, alcuni già lo fanno, aggiungere delle proprie sovvenzioni per alleggerire il carico di

questi costi che oggi pesano così tanto sulle famiglie.

Da notare che il meccanismo elaborato da questa riforma prevede un «malus»: i Cantoni che non fanno nulla per migliorare le condizioni di accoglienza dei bambini perderanno una parte delle sovvenzioni federali, a partire dal 2029. «Se vogliamo che anche le donne possano trovare spazio e soddisfazione nel mondo del lavoro – fa notare ancora Fivaz – con interruzioni limitate nel tempo dovute alla maternità, e con tempi di lavoro non solo parziali, allora il nostro Paese deve impegnarsi maggiormente rispetto a quanto fatto finora». E qui occorre sottolineare come anche una parte del mondo economico si sia mossa in favore di questo cambio di marcia. Da tempo l’Unione padronale svizzera, l’associazione mantello degli imprenditori, chiede uno sforzo in questo senso. Con un obiettivo di fondo che si può leggere in un comunicato stampa pubblicato lo scorso mese di settembre dalla stessa Unione padronale: «L’economia non può più fare a meno dell’apporto sostanziale di manodopera rappresentato dalle mamme».

Insomma, c’è sempre più bisogno di migliorare la conciliabilità tra impegni casalinghi e professionali, anche perché il padronato è spesso in difficoltà nel trovare i dipendenti di cui ha bisogno, in un contesto segnato da una penuria di personale da primato. Sono ormai addirittura 250mila i posti di lavoro vacanti nel nostro Paese, stando a quanto rilevato all’inizio di questo mese dall’agenzia di collocamento zurighese X28. Un dato a cui va aggiunto quello della disoccupazione che nel 2022 è stato del 2,2%, il valore più basso degli ultimi vent’anni.

«Ci sono Cantoni dove la spesa per gli asili nido raggiunge persino il 25 per cento del bilancio famigliare»

Certo, non tutte le associazioni che rappresentano il mondo economico si muovono in favore di questo sostegno alle famiglie. E non c’è unanimità nemmeno tra i partiti politici. La riforma varata a dicembre, che verrà discussa dal Consiglio nazionale

nella prossima sessione primaverile, è avversata dalla destra – in particolare dall’UDC – scettica soprattutto a causa della cifra che si intende stanziare. «La critica principale è proprio quella che riguarda i costi, i 770 milioni previsti, e questo perché già oggi i conti della Confederazione sono piuttosto sofferenti. Non per nulla il Dipartimento federale delle finanze sta impostando una serie di risparmi per cercare di riequilibrare i conti pubblici», osserva Fivaz. E così in discussione in Parlamento ci saranno anche delle proposte meno costose. «Personalmente sono fiducioso e spero che la discussione in Consiglio nazionale permetta di mantenere questa cifra di 770 milioni. Al Consiglio degli Stati, la Camera dei Cantoni, sarà invece più complicato.

C’è la questione, che ritorna costantemente, della sussidiarietà. A Berna molti parlamentari ritengono che la competenza in questo ambito debba rimanere esclusivamente nelle mani dei Cantoni, senza interventi da parte della Confederazione. E poi c’è una visione di fondo con cui si dovrà fare i conti: l’idea che i bambini debbano

essere cresciuti in famiglia, con l’aiuto dei nonni ad esempio, dei parenti o dei vicini di casa. In questa ottica la presa a carico dei bambini è vista come una questione privata. E anche di questo sentiremo parlare durante i dibattiti parlamentari sulla riforma che abbiamo proposto».

Discussioni in cui emergerà di certo anche un altro tema: quello demografico. Nel corso del 2023 la Svizzera supererà i 9 milioni di abitanti, una soglia che verrà raggiunta soprattutto grazie all’immigrazione in arrivo dall’Unione Europea. Persone di cui ha bisogno il nostro mercato del lavoro, visto la carenza di personale di cui soffre il Paese. E anche qui, se fosse più facile per le donne e in generale per le famiglie conciliare gli impegni di casa con quelli professionali, forse l’immigrazione non sarebbe così importante. Ma qui si apre un altro capitolo, e di certo questo argomento – legato alla libera circolazione delle persone e alle nostre relazioni con l’Unione Europea – sarà tra i più dibattuti nella campagna politica che porterà alle elezioni federali di ottobre.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17
Pagina 21 Pagina 22 Pagina 23 Pagina 19 Roberto Porta L’obiettivo principale della riforma consiste nel ridurre del 20% su scala nazionale le tariffe degli asili nido. (Keystone)

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L’apporto degli stranieri all’economia svizzera

La notizia della popolazione terrestre che ha superato gli 8 miliardi di abitanti ha destato un certo scalpore. Più vicina a noi, quella che la Svizzera supererà quest’anno i 9 milioni di abitanti, ha pure suscitato qualche allarme. Scrivevamo all’inizio dell’anno che la Svizzera continua, però, a manifestare un tasso di natalità molto basso e, quindi, non in grado di garantire un rinnovo generazionale. Per cui l’aumento di popolazione è dovuto essenzialmente all’immigrazione. Il bilancio demografico dato dal numero di nascite in rapporto al numero di decessi sarebbe quindi negativo senza questo apporto dall’estero, per cui la popolazione dovrebbe diminuire. In Svizzera, dopo la crisi della pandemia da Covid, la ripresa dell’economia ha messo in evidenza una penuria di mano d’opera in parecchi settori. L’immigrazione ha quindi contribuito ad attenuarla.

La SECO (Segreteria di Stato dell'economia) ne deduce, nel 18esimo rapporto dell’Osservatorio sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’Unione europea, che l’immigrazione ha quindi sostenuto la crescita dell’economia. E per supportare questa tesi prende l’esempio del settore informatico. Un ambito che ha avuto una crescita molto forte, in questi ultimi anni, e che ha praticamente esaurito il potenziale di mano d’opera nazionale, con un tasso di attività del 92,2% e un tasso di disoccupazione dell’1,6%. Settore in cui i salari sono superiori alla media. In questo campo, la mano d’opera estera raggiunge già quasi un terzo delle persone attive, mentre, per l’insieme dell’economia, la proporzione di attivi stranieri è del 26%, sul totale dei posti di lavoro nell’economia generale.

L’apporto in questo settore non è dato solo dagli immigrati dei Paesi dell’UE, ma in buona parte anche dall’India, dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. Questa quota è particolarmente significativa in un settore come quello informatico che è in forte crescita. Questo significa però anche che l’immigrazione dovuta alla libera circolazione con l’UE ha praticamente esaurito il suo potenziale per alcuni profili professionali specifici. Le considerazioni della SECO hanno dato luogo a un ampio dibattito, in parti-

colare dopo che la NZZ ha pubblicato un articolo dal titolo significativo: «La Svizzera cresce in larghezza», a causa di un livello di produttività debole. La crescita economica, a cui contribuisce l’immigrazione, è dovuta in gran parte al miglioramento delle prestazioni per salute e formazione e a un aumento delle attività dello Stato per l’infrastruttura e aiuti ai cittadini. Una crescita «in larghezza», senza effetti tangibili sul benessere della popolazione.

A queste critiche rispondeva il capo della Direzione del lavoro della SECO con un’analisi del PIL tra il 1971 e il 2021. In questo periodo la crescita è stata del 48,9%, ma nel contempo la popolazione è aumentata da 6,8 a 8,7 milioni di abitanti, cioè del 24,2%, quasi la metà del PIL. Anche in rapporto alla popolazione attiva (+23,3%) la proporzione cambia di poco. Se però si considera il PIL in rapporto alla popolazione attiva (+12%) la crescita del PIL sale al 36,9%. Quindi i tre quarti del PIL so-

no dovuti al volume globale del lavoro utilizzato e quindi a una migliorata produttività del lavoro. Non solo, ma se consideriamo il rapporto con tempo lavorato – che è diminuito di 134 ore annuali per lavoratore – si deve concludere che la produttività del lavoro è effettivamente aumentata. In realtà negli ultimi 20 anni è diminuita, in particolare dal 2008: si è passati dal 1,45% all’1,015% nel 2021 e questo proprio in concomitanza con la libera circolazione delle persone.

Un’indagine recente dello studio Sotomo di Zurigo conferma la tendenza a ridurre le ore di lavoro fra i lavoratori in Svizzera. Crescono le richieste di orario ridotto e si fa strada l’idea della settimana lavorativa di quattro giorni. E questo nonostante il fatto che l’orario di lavoro sia stato ridotto da 43,2 ore nel 1991 a 41 ore settimanali. Tenendo conto dei numerosi tempi ridotti, l’orario medio di lavoro si ridurrebbe dalle 35 ore nel 1991 a 31,7 ore nel 2019. Oggi oltre un terzo degli occupati lavora a ora-

rio ridotto. Per sostituire la minore propensione al lavoro si deve per forza ricorrere alla mano d’opera estera, che contribuisce così alla produzione di ricchezza nel Paese. Ovviamente la forte immigrazione comporta incisivi cambiamenti economici e sociali. Cambiamenti che suscitano reazioni in alcuni strati della popolazione e anche della politica. Integrandosi nel sistema svizzero anche gli immigrati ne assumono pregi e difetti. Si può quindi dire che il contributo è pari più o meno a quello degli svizzeri, tenendo comunque presente che l’immigrazione è indispensabile per l’economia svizzera. Sul piano politico, l’immigrazione di quasi 75’000 stranieri, anche nel 2022 (da gennaio a novembre), suscita qualche reazione. Sul piano economico non si può però dimenticare che vi sono 252’000 posti di lavoro non occupati. Ma è appunto mettendo a confronto questi dati che può nascere l’impressione che la Svizzera stia creando posti di lavoro per gli stranieri.

«Quanto è sicuro effettuare pagamenti tramite smartphone?»

Alcuni economisti attribuiscono questa situazione paradossale ancora agli effetti della politica tendente a stabilizzare l’economia, in particolare durante la pandemia. Misure che però hanno creato le basi per una super-congiuntura e impedito un sano rinnovo delle strutture produttive. C’è perciò chi teme che la Svizzera possa diventare una specie di Lussemburgo, dove la popolazione locale si limita a gestire una ricchezza che viene prodotta da chi arriva dall’estero. Tesi di questo tipo potrebbero trovare conferma nel fatto che una gran parte della mano d’opera estera trova posto nelle professioni della cura della salute, che però, a loro volta, soffrono di mancanza di personale. Tuttavia, anche altre professioni nell’industria e nel terziario mancano di personale specializzato. Un problema difficile da risolvere, se non – come suggerisce qualche economista – rallentando questa fase di sviluppo che sembra aver superato i limiti della normalità.

La consulenza della Banca Migros ◆ Saldare il conto dal dispositivo mobile offre una buona tutela della sicurezza

Sempre più persone pagano in negozi e ristoranti per mezzo dello smartphone. Ma il mobile payment è sicuro quanto la carta di debito e di credito?

Sì. Oltre al fatto che lo smartphone è spesso più a portata di mano, e quindi più pratico, della carta di debito o di credito, il pagamento tramite dispositivo portatile offre anche una maggiore sicurezza. Il merito è della sofisticata tecnologia che c’è dietro.

Per utilizzare il servizio, è necessario inserire i dati relativi a una carta di credito o di debito nella app

di pagamento prescelta, ad esempio Apple Pay o Google Pay. Tuttavia non è il numero di carta originale a essere memorizzato sullo smartphone o nella app, bensì un numero alternativo e criptato, il cosiddetto «token». Se lo smartphone cade in mani sbagliate, il «token» non permette di risalire alla carta corrispondente. Inoltre può essere utilizzato solo sul dispositivo su cui è stato creato.

Quando si effettua un pagamento, al terminale di cassa del negozio vengono trasmessi i dati di pagamento necessari e il «token», senza

alcun dato personale. La transazione ha luogo solo se il «token» corrisponde al numero originariamente inserito sullo smartphone. In caso contrario non viene autorizzata.

Provider come Apple Pay, Google Pay, Samsung Pay o Twint offrono poi un’ulteriore sicurezza per i pagamenti tramite dispositivo portatile: prima di ogni transazione è necessario dimostrare di essere il legittimo titolare della carta. L’autenticazione sullo smartphone si serve spesso delle caratteristiche biometriche, come la scansione del volto o delle impronte digita-

li, in alternativa bisogna inserire una password. La tecnologia dei «token» e l’autenticazione fanno del mobile payment un metodo di pagamento più sicuro.

Suggerimento

Oltre alla sicurezza, i metodi di pagamento tramite dispositivo portatile offrono vantaggi anche per il rinnovo o l’utilizzo della carta di credito fisica, perché il «token» rimane sul dispositivo corrispondente e non c’è bisogno di modificare alcunché nella app.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 19
Barbara Leo, Consulente alla clientela presso la Banca Migros.
Immigrazione e occupazione ◆ Il ricorso alla mano d’opera estera è indispensabile, ma forse stiamo creando posti di lavoro che rischiano di non aggiungere nulla al nostro benessere
Ignazio Bonoli
Il settore informatico in Svizzera ha avuto una crescita molto forte che ha esaurito il potenziale di mano d’opera nazionale. (Keystone)
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Che succede in Israele?

Prima puntata ◆ Viaggio tra i volti dell’ebraismo ortodosso contemporaneo

Nessuno è in salvo

Turchia/Siria ◆ Cataclismi e responsabilità umane

In Israele il Governo di Benjamin Netanyahu, tornato al potere per la sesta volta grazie ad una coalizione con partiti ultraortodossi e della destra nazionalista religiosa, si è insediato a fine dicembre. Al suo fianco spiccano tra gli altri Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, ministro della sicurezza interna, e Bezalel Smotrich, leader del partito nazionalista Sionismo Religioso, ora ministro delle finanze. Mentre Smotrich nelle interviste non ha esitato ad autodefinirsi «omofobo, razzista e fascista», a inizio gennaio Ben-Gvir, simpatizzante di Meir Kahane (estremista sionista religioso), si è presentato sulla spianata della moschea, luogo sacro per i musulmani, per una «passeggiata» che ostentava una chiara affermazione della sovranità assoluta di Israele sul territorio. Queste e altre provocazioni sempre più frequenti si accompagnano all’escalation di violenza nei territori occupati e all’inasprimento delle misure adottate dall’esercito israeliano che, solo nella giornata del 26 gennaio, ha causato a Jenin la morte di una decina di palestinesi. Naturalmente la risposta palestinese non ha tardato a farsi sentire tramite attentati e sparatorie di singoli contro i civili israeliani e la gettata di razzi da Gaza. La tensione nella regione è di nuovo alle stelle.

Forse per la prima volta in settant’anni gli israeliani temono una sorta di colpo di stato con ovvie ripercussioni sull’economia e la sicurezza dei cittadini

Pur essendo i primi a farne le spese, i palestinesi non sono tuttavia gli unici a sentirsi minacciati da questo clima di nazionalismo etnico, religioso e culturale. Dall’inizio di gennaio, infatti, decine di migliaia di ebrei, a Tel Aviv, ma anche nelle altre città, scendono in strada ogni sabato sera per protestare veementemente contro il nuovo Governo che sembra intenzionato a mutare il contratto sociale mettendo rapidamente a repentaglio le istituzioni democratiche, a cominciare dalla magistratura. In cima alla lista delle proteste vi è infatti una pericolosa riforma del sistema giudiziario che, oltre a modificare la procedura di nomina dei giudici, esautora la Corte suprema consentendo al Parlamento la possibilità di annullarne le decisioni con estrema facilità. Essendo Isra-

ele privo di una Costituzione, la Corte è di fatto l’unico organo a tutela dei diritti individuali. Forse per la prima volta in settant’anni gli israeliani temono una sorta di colpo di stato con ovvie ripercussioni sull’economia e la sicurezza dei cittadini.

D’altro canto, quella della compresenza nell’ebraismo delle componenti di nazione e religione è una questione ambigua e ampiamente dibattuta nel corso dei secoli. Se la fondazione d’Israele nel 1948, all’indomani della Shoah, sembrava aver fornito una risposta a tale spinoso dilemma identitario, oggi è evidente che l’acquisizione della sovranità ebraica all’interno dei confini di uno Stato non solo non si è tradotta affatto in una soluzione, bensì ha contribuito al sorgere di nuovi interrogativi. Tanto il protrarsi dell’occupazione ai danni del popolo palestinese, quanto il fallimento e l’inattuabilità della tanto decantata soluzione dei due Stati, stanno minando alle fondamenta la definizione di Stato ebraico democratico, ormai sfruttata all’estremo come antidoto alle critiche del resto del mondo nei confronti della dubbia condotta etica di Israele. Anche se la soluzione di uno Stato unico per ebrei e palestinesi è di fatto quella che è venuta a delinearsi, per porre fine all’apartheid è necessario conferire parità di diritti e cittadinanza a tutti i suoi residenti, implicitamente rinunciando all’esclusività della connotazione ebraica che definisce Israle dalla sua fondazione. Se già fino ad ora una simile rinuncia alla supremazia ebraica era un prezzo che gli ebrei, compresi quelli della Diaspora, non sembravano essere affatto disposti a pagare, l’esito delle ultime elezioni sembra allontanare ancora di più quest’ipotesi.

Ad uno sguardo attento non sfugge che Israele non è lo Stato laico e democratico che si presenta all’esterno, dal momento che le influenze della componente ebraica religiosa nella res publica e nei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario sono da sempre molteplici e profondamente variegate. L’inquietante operato e il percorso di soggetti come Ben Gvir e Smutritch, tuttavia, rischia non solo di creare sospetto e dissenso, favorendo l’isolamento di Israele sul piano internazionale, ma anche di trasmettere all’esterno una fuorviante immagine monolitica e riduzionistica dell’ebraismo ortodosso. Dietro l’osservanza condivisa dei precetti ebraici e presunti comuni interessi politici, si

Le

la

del Muro Occidentale, il luogo più

dove gli

possono pregare, nella Città Vecchia di Gerusalemme. (Keystone/AP Photo/Maya Alleruzzo)

cela infatti una molteplicità di mondi estremamente sfaccettati e diversi per provenienza, pensiero, tradizioni e ideologie. Non si tratta di uno, bensì di tanti ebraismi che coesistono insieme, come pianeti paralleli spesso in buona parte sconosciuti anche all’israeliano laico che vi vive accanto.

Per condurre i lettori di «Azione» alla scoperta del pluralismo delle voci e delle diverse correnti che compongono l’ebraismo osservante nell’Israele di oggi cominceremo con una mappatura. Scomporremo l’affascinante mondo ultraortodosso nelle sue componenti ashkenazite e sefardite, entreremo nelle corti chassidiche e nelle scuole rabbiniche lituane. Incontreremo i principali leader religiosi che hanno fatto la storia degli ultimi decenni, come Rav Chaim Kanievsky (1928-2022) leader indiscusso dell’ebraismo ashkenazita ultraortodosso, e Rav Ovadia Yosef (1920-2013) leader del partito Shas fondato nel 1984. Conosceremo gli ultra ortodossi moderni che si aprono al mondo di internet e del lavoro, e prestano servizio nell’esercito.

Incontreremo i cosidetti modern-ortodox di provenienza anglosassone e i sionisti religiosi, questi ultimi in particolare attraverso l’esperienza di Rav Shagar (Shimon Gershon Rosenberg 1949-2007). Parleremo di omosessualità e fecondazione assistita, ma soprattutto delle donne, grandi protagoniste di molte delle più recenti rivoluzioni interne in una società di matrice maschilista e patriarcale. Infine ci soffermeremo su una delle poche gradevoli sorprese delle ultime settimane: l’emergere di una sinistra religiosa i cui attivisti, di diversa provenienza e dalle curiose identità trasversali, si sono raccolti per la prima volta in un congresso tenutosi a Gerusalemme lo scorso 23 gennaio. Con un’agenda molto promettente che individua proprio nei valori ebraici il fondamento di quel pluralismo politico, solidarietà e uguaglianza che oggi sembrano venire minacciati, saranno forse questi ultimi a costituire un’alternativa e a fungere da collante per evitare una spaccatura definitiva della società ebraica israeliana?

Proprio nel momento storico in cui si registra un inedito spostamento ideologico e coinvolgimento pratico degli ultraortodossi a favore del sionismo, il dibattito sulla possibilità di separare sionismo ed ebraismo, «salvando» quest’ultimo, si fa più che mai attuale e necessario.

Un piccolino senza vita avvolto da una coperta rossa. Il suo volto non si vede, solo quello pietrificato dell’uomo che lo sorregge, il padre. Intorno la corsa contro il tempo per salvare chi ancora aspetta vivo sotto le macerie. In un’altra immagine, una neonata nuda tra le mani di un soccorritore, le braccia abbandonate lungo il corpicino impolverato. Un uomo getta verso di lei quella che pare un’immensa tenda verde. Per proteggerla dal freddo. È nata settimana scorsa, proprio quando lo sciame sismico devastava il suo mondo, un’area a cavallo fra Turchia e Siria (con un picco di magnitudo 7,8 della Scala Richter). L’hanno trovata a Jandairis – in Siria appunto – con il cordone ombelicale attaccato al corpo della madre morta. È l’unica sopravvissuta della famiglia.

Due bambini – le vittime innocenti per eccellenza – con un destino diverso. Una linea sottile, quella che separa la vita dalla morte. Solo questione di fortuna. Ma di che fortuna si tratta? Chi è salvo per davvero in luoghi dove povertà, guerra e terremoti sono di casa? Gli occhi sbarrati di una bimba (potrebbe avere 5 anni) estratta da quel che resta della sua casa ci fanno capire che il disastro è lontano dall’essere concluso, anzi, si tratta solo dell’inizio… «Dov’è la mamma? Chi mi proteggerà adesso?». E ancora l’istantanea di un uomo che non lascia la mano di sua figlia, 15 anni, morta sul suo letto e ancora sepolta dai detriti a Kahramanmaras, in Turchia, epicentro delle prime forti scosse. Poi le immagini di chi ancora spera in un finale diverso con gli occhi fissi sui calcinacci. Calcinacci da dove fuoriuscivano richieste di aiuto, lamenti, sms disperati. Adesso più. La carrellata di fotografie in arrivo dall’Anatolia è un pugno nello stomaco. Ci ricorda situazioni di devastazione già viste, certo, da lontano: Sumatra (2004), Fukushima (2011), Nepal (2015), Amatrice (2016). Ci spinge a riflettere sull’ineluttabilità delle catastrofi naturali ma anche – e come sempre – sulle responsabilità umane. Tra le altre voci ricordiamo anche quella – ripresa dal «Corriere della sera» – di Mustafa Erdik, docente all’Università del Bosforo, ad Istanbul, il quale spiega: «Il numero tanto alto di vittime è causato dalla scarsa qualità degli edifici». Anni di incuria e abusivismo edilizio, molto marcato nel sud-est della Turchia, hanno da sempre reso questa zona –altamente sismica – particolarmente esposta alla furia dei terremoti. Inoltre, nel Paese, si sta diffondendo il malcontento riguardo all’impiego della «tassa sui terremoti» imposta alla popolazione da Ankara dopo il sisma del 1999 che provocò la morte di oltre 17mila persone. «Come sono stati spesi i soldi raccolti finora tramite l’imposta?», chiede l’opposizione

ad Erdogan. Oltrepassiamo il confine, seguendo il filo delle responsabilità umane. Andiamo nel nord della Siria, dove infuria da tempo la guerra civile. La crisi scoppiò infatti nel 2011 – quando iniziarono le proteste contro il regime di Bashar al Assad, nel contesto delle Primavere arabe, represse con violenza dalle autorità – e non è mai finita. È solo scomparsa dalle nostre cronache. Altri drammi e conflitti l’hanno cancellata dalla nostra memoria. Guerre che, come i cataclismi, ammazzano innocenti e devastano regioni. Guerre che, al contrario dei terremoti, si potrebbero evitare. Ma com’era la situazione in quella «terra di mezzo» prima del sisma? «Dopo l’operazione militare turca “Fonte di pace”, nel 2019, la situazione sul campo è rimasta relativamente stabile, ma senza avanzamenti dal punto di vista dei negoziati», spiega Francesco Mazzucotelli che insegna Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia. «Il conflitto è stato “congelato”. Una fascia lungo il confine è controllata dal Governo provvisorio formato dalla Coalizione nazionale dei gruppi di opposizione. Di fatto è un’area amministrata dalla Turchia. Questa confina, ad ovest, con un’area controllata dal Governo di salvezza formato da diversi gruppi della galassia jihadista. Nella provincia di Idlib – dove i gruppi di opposizione si sono combattuti tra loro – si sono riversati molti sfollati in fuga dai territori sotto il controllo delle forze governative (a sud). Queste ultime dalla fine del 2019 in poi hanno cercato di riconquistare l’autostrada che collega Aleppo con il porto di Latakia, ma senza riuscirci in maniera definitiva». Si possono intuire le condizioni precarie in cui già viveva la popolazione in quell’area martoriata; le prospettive dopo il terremoto sono inquietanti.

Save the Children in particolare esprime la sua preoccupazione per i bambini che dormono all’aperto, al gelo, e vivono nel terrore che la terra tremi ancora. Manca tutto: cibo, coperte, ripari, acqua pulita e latrine. «La situazione sul terreno rende difficile immaginare la logistica degli aiuti internazionali», sottolinea Mazzucotelli. «Senza un accordo politico che coinvolga anche le potenze esterne (Turchia, Russia, Iran) è improbabile che le diverse aree possano coordinare gli aiuti, anche in maniera minima, con conseguenze disastrose per la popolazione. La razionalità dovrebbe spingere a una tregua provvisoria, ma le ostilità pregresse (Governo turco contro PKK, Governo siriano contro ribelli di entrambi i tipi) sono troppo radicate per rendere possibile questo scenario». Poche speranze, dunque, mentre un piccolino che conosciamo bene ci chiede: «Ma i terremoti arrivano anche qui da noi?».

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fedeli visitano sezione femminile sacro ebrei Un padre stringe la mano della figlia morta a Kahramanmaras, in Turchia. (AFP)

Dentro la storia di uno Stato criminale

Il personaggio ◆ La premio Nobel Irina Scherbakowa: «È il bisogno di libertà degli ucraini ad aver scatenato l’odio feroce di Putin»

In dicembre 2022 le è stato conferito il Nobel per la pace. La storica e scrittrice russa Irina Scherbakowa (nella foto) è stata tra le cofondatrici di Memorial. L’associazione per i diritti umani che «vuole ridare un nome a tutte le vittime dei gulag e a tutti i crimini commessi in nome dello Stato sovietivo, del partito e della dittatura comunista», spiega lei stessa. Dalla primavera scorsa l’intellettuale russa vive in Germania, a Weimar, la città di Goethe e di Schiller. Già l’anno scorso infatti il regime di Putin ha deciso di far chiudere i battenti a Memorial. «Quel che più dà fastidio al Cremlino – dice Scherbakowa – è che l’associazione, insieme al nome delle vittime dei gulag, pubblichi anche i nomi dei loro aguzzini. Una denuncia che in questa forma non era mai stata espressa in Russia». Mosca non tollera che gli attivisti di Memorial cerchino di far luce sul passato russo e sul modo disastroso in cui Stalin e i generali dell’Armata rossa hanno condotto la guerra contro l’invasione nazista. «Una guerra atroce che è costata la vita a milioni di soldati e inermi cittadini», ricorda Scherbakowa. «Ma che dal dopoguerra in poi è sempre e solo stata associata al culto di Stalin, e che ancora oggi Putin celebra esaltando il mito della grande guerra patriottica». Anche il 9 maggio scorso, in piena guerra contro l’Ucraina, Putin ha fatto di tutto nella parata ufficiale a

Mosca per esaltare il mito del patriottismo e le glorie dello stalinismo. «Il lavoro di Memorial consiste proprio nel far capire alla gente, documenti alla mano, che la storia non si fa con leggende e miti. E che quella dello Stato sovietico è la storia di uno Stato criminale, uno Stato che ci ha trattato in modo disumano». In uno dei suoi libri più suggestivi – Le mani di mio padre – Scherbakowa ricostruisce, anno per anno, una tragedia dopo l’altra, le vicende della sua famiglia e la storia dell’impero sovietico. Durante gli anni Trenta, quelli delle «purghe» di Stalin e delle liquidazioni in massa dei suoi nemici, il nonno di Scherbakowa era a Mosca uno dei dirigenti del Komintern (Internazionale comunista). Dal 1924 sino al 1945 è in due stanze del famigerato Hotel Lux (dove alloggiava tutta la nomenklatura internazionale dei partiti comunisti) che viveva sua nonna Mira. In quelle stanze di albergo è nata sua madre. «Mio nonno era un uomo sincero e generoso», afferma la storica, «con mia nonna Mira ha aiutato tante persone negli anni più duri dello stalinismo. La loro fede nel comunismo era autentica, nonostante tutto l’antisemitismo del periodo stalinista. Per questo mio nonno morì deluso e tormentato dai crimini dell’era stalinista». Come d’altronde suo padre, un giovane ufficiale ebreo, ferito gravemente dalla Wehrmacht nazista nei pressi

Attualmente

di Stalingrado. «Mio padre ha lottato per tutta la vita contro le leggende che il regime ha costruito su questa guerra micidiale. Mio padre, i dissidenti e gli scrittori degli anni ’60 e ’70 e oggi il nostro lavoro di Memorial hanno rivendicato i sacrifici immensi dei soldati e denunciato il falso mito di Stalin, come noi oggi i crimini di Putin». Il crudele, sistematico antisemitismo è una delle vergogne che dall’inizio caratterizza la storia dell’Unione sovietica, un elemento sino ad oggi rimosso nella memoria della sinistra europea. «L’Unione Sovietica – spiega Scherbakowa – ha sempre osteggiato il sionismo in quanto ideologia borghese e movimento religioso. Stalin

ha eliminato uno dopo l’altro i dirigenti ebrei dal partito». Ma è la «memoria» di Auschwitz e della Shoah il vero, profondo «buco nero» che sino ad oggi contrassegna la memoria in Russia. «Gli orrori della Shoah nell’era sovietica sono un tabù, il nome di Auschwitz sottaciuto nella storiografia ufficiale». Il famoso Libro Nero sul genocidio degli ebrei russi che lo scrittore e giornalista Vasilij Grossman scrisse, nel 1945, insieme ad Ilija Erenburg non venne mai pubblicato in era sovietica. «Nel discorso politico del Cremlino era presente invece il mito di Buchenwald, per la rivolta lì organizzata dai detenuti comunisti». Auschwitz invece non rientrava nelle

mitologie del comunismo e tanto meno l’insurrezione nel 1943 nel ghetto di Varsavia.

Ma torniamo al presente: il 24 febbraio scorso cosa ha scatenato la guerra di Putin contro l’Ucraina, e cosa spinge ancora oggi l’ex agente del Kgb contro il popolo ucraino? «È stata la rivoluzione di Maidan del 2014 a spingere Putin verso una politica sempre più aggressiva nei confronti dell’Ucraina», risponde la storica. «Gli ucraini hanno segnalato al Cremlino, dopo la loro rivolta nel 2014, di voler ripristinare la Costituzione, di tornare a parlare la loro lingua ucraina e soprattutto di orientarsi verso l’Europa e non verso la cosiddetta Madre Russia. È questo loro bisogno di libertà ad aver scatenato l’odio feroce di Putin». Dopo le annessioni nel Donbass e della Crimea e dopo la spietata guerra in Ucraina, per la Scherbakowa non ci sono più dubbi: «Il regime di Putin è una catastrofe umanitaria! E come altro possiamo definire il suo regime se non come una forma inusuale di fascismo? Putin ha scatenato guerre contro Paesi e popoli considerati dalla sua propaganda come satelliti sottomessi alla Russia, proprietà dell’uomo e della storia russa». Tutto ciò «è oggi di fatto una forma di fascismo. Come la sua ideologia secondo cui la grande Russia sia un Paese solo, un solo Stato e abbia un solo Leader».

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Se le superpotenze non si parlano

USA/Cina ◆ Il caso del pallone-spia si innesta in un contesto di crescente tensione globale

Joe Biden non lo ha mai citato esplicitamente nel discorso sullo Stato dell’Unione che ha tenuto davanti al Congresso il 7 febbraio, ma il pallone-spia cinese proiettava su quel discorso un’ombra inquietante. Il presidente ha preferito non soffermarsi su quell’incidente, poco lusinghiero per l’intelligence e le forze armate degli Stati Uniti. Dopotutto lo spazio aereo della prima superpotenza mondiale è stato violato dalla sua rivale più pericolosa, che ha potuto raccogliere immagini e informazioni per quattro lunghi giorni prima che Biden prendesse la decisione di farlo abbattere. Per di più si è scoperto, a posteriori, che le incursioni di palloni-spia cinesi in passato erano già avvenute senza che la U.S. Air Force intercettasse questi strumenti di spionaggio. Brutta storia di per sé, che si innesta in un contesto di crescente preoccupazione per il riarmo della Repubblica Popolare: è recente la notizia che la Cina ha superato l’America per il numero di piattaforme di lancio di missili intercontinentali (quelli che possono trasportare testate nucleari). Ultimo dettaglio che accentua l’allarme: si susseguono le rivelazioni sulle forniture di armi dalla Cina alla Russia, in spregio alle sanzioni occidentali e alle promesse più volte fatte da Xi Jinping di non mischiarsi direttamente nella guerra in Ucraina. Ma forse più di ogni altra cosa la vicenda del pallone-spia deve preoccupare per il modo in cui è stata gestita, o non-gestita, dalle autorità di Pechino. Chi e perché ha autorizzato questa operazione di spionaggio alla vigilia di un importante viaggio del segretario di Stato Antony Blinken, che doveva essere ricevuto a Pechino dallo stesso

Xi Jinping? L’annullamento di quella visita – che doveva contribuire ad un parziale disgelo bilaterale – era un obiettivo previsto, calcolato, desiderato? Perché dopo l’abbattimento del pallone-spia le autorità cinesi hanno continuato a propagare la menzogna secondo cui era intento a fare solo osservazioni meteorologiche? Perché avere in seguito rifiutato la telefonata del segretario alla Difesa americano e quindi aver respinto un tentativo di de-escalation?

Per capire la gravità dell’accaduto, che va ben oltre il peso del singolo pallone-spia, è utile fare un salto indietro nella storia. Spionaggio dai cieli, tensione Cina-Usa: un precedente risale a 22 anni fa. A ruoli invertiti e in un contesto profondamente diverso. Ricordare quell’incidente aiuta anzitutto a misurare quanto è cambiato il rapporto di forze; poi serve a capire i rischi che si corrono quando due superpotenze non si parlano. Il primo aprile 2001 un aereo spia americano che sorvolava l’isola di Hainan nel Mare della Cina meridionale (fuori dallo spazio aereo nazionale) venne intercettato dai caccia dell’Esercito Popolare di Liberazione. Ci fu una collisione, un caccia cinese precipitò e il pilota morì. L’aereo americano riuscì un atterraggio di emergenza, i 24 dell’equipaggio vennero detenuti. A Washington c’era George W. Bush. A Pechino Jiang Zemin, continuatore della strategia di Deng Xiaoping nell’integrare la Cina all’economia globale. Trovarono un’intesa per il rilascio degli americani in dieci giorni. Ma furono dieci giorni gravidi di tensione, in cui la situazione poteva sfuggire di mano e la crisi poteva precipitare verso esi-

ti pericolosi. Si scoprì in quel frangente che tra Pechino e Washington non esisteva un «telefono rosso» come quello attivato tra Mosca e Washington durante la guerra fredda per comunicazioni d’emergenza che evitassero una terza guerra mondiale (nucleare). Oltre al «telefono rosso» mancava tutto quello che quello strumento di consultazione veloce tra i vertici presuppone: delle regole di condotta concordate preventivamente per operare una de-escalation, ricondurre un incidente imprevisto entro limiti controllabili.

Cinque mesi dopo la crisi dell’aereo-spia abbattuto nell’aprile 2001, l’America veniva colpita dagli attacchi dell’11 settembre, la sua attenzione si rivolse al Medio Oriente, con le due lunghe guerre in Afghanistan e in Iraq. Con il senno di poi, «sprecò» un ventennio sottovalutando l’unica sfida seria alla sua leadership, quella cinese. Il riarmo della Repubblica Popolare in questo periodo è stato spettacolare, per la prima volta nella storia Pechino dispone di una flotta militare più grossa della U.S. Navy. Una parte del riarmo cinese, e del decollo economico, è avvenuto grazie allo spionaggio. Dalle università alla Silicon Valley, l’FBI ha dovuto inseguire un

crescendo di furti di tecnologie, industriali e belliche. L’ascesa di Huawei, colosso telecom fondato da un militare, è segnata dalle accuse di aver rubato tecnologie occidentali. La velocità con cui la Cina ha modificato i rapporti di forze è evidente a Taiwan. Il Pentagono ritiene che in un conflitto le probabilità di vittoria siano a favore della Cina.

Resta dal punto di vista di Xi Jinping un’asimmetria intollerabile. Gli Stati Uniti, superpotenza globale e difensori della libertà di navigazione in tutti gli oceani, hanno basi militari vicino alla Repubblica Popolare: dal Giappone alla Corea del Sud, con l’aggiunta recente di nuove basi filippine. L’Esercito Popolare di Liberazione non ha una presenza così imponente al largo della California. La vicenda del pallone crea a Pechino danni indesiderati, se è vero che Xi Jinping voleva usare la visita di Blinken per normalizzare i rapporti bilaterali. Xi deve traghettare il suo Paese dalla politica «zero Covid» verso la nuova apertura; deve rilanciare una crescita economica che l’anno scorso è stata asfittica per i troppi lockdown e quarantene; deve rassicurare gli investitori nazionali e stranieri spaventati dalla sua sterzata «socialista» che ha

Pechino strizza l’occhio ai talebani

Prospettive

Francesca Marino

◆ Il Dragone ha firmato un accordo multimilionario per lo sfruttamento dei giacimenti

Il flirt tra la Cina e i talebani continua a dispetto di tutto, anche del buon senso. La firma di un contratto multimilionario tra la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company e i talebani di Kabul viene presentata difatti da questi ultimi come la prima grande vittoria economica dal ritorno dell’Emirato islamico nell’agosto 2021. L’accordo, stimato in 540 milioni di dollari, garantisce a Pechino l’accesso al bacino dell’Amu Darya, nel nord dell’Afghanistan. Copre un’area di 4500 chilometri quadrati complessivamente nelle province settentrionali di Sarepol, Jowzjan e Faryab, e creerà, secondo il ministro delle Miniere talebano Shahabuddin Delawar, circa tremila posti di lavoro. Dilawar ha aggiunto che l’amministrazione di Kabul parteciperà al progetto con una quota del 20%, con la possibilità di aumentarla al 75%, e specificando che la lavorazione del greggio avverrà all’interno del Paese. L’Afghanistan possiede giacimenti minerari di piccole e medie dimensioni, la maggior parte dei quali rimane inesplorata, stimati in oltre mille mi-

liardi di dollari, a cui si erano dichiarati interessati un certo numero di investitori stranieri, scoraggiati dalla situazione politica nel Paese.

In realtà un accordo simile era già stato firmato dalla National Petroleum Corporation, un’altra compagnia statale cinese, con il precedente Governo afghano. Delawar ha però dichiarato praticamente nullo il contratto precedente che «presentava problemi» senza chiarire la natura di questi ultimi. La Cina ormai da molti anni cerca di mettere le mani sull’Afghanistan, regione strategicamente cruciale per molti motivi. Nel corso degli anni, difatti, Pechino ha ospitato diverse delegazioni talebane. Nel 2021, a Tianjin, pochi mesi prima della conquista di Kabul da parte dei talebani, l’allora ministro degli Esteri cinese Wang Yi ospitò Abdul Ghani Baradar, oggi vice primo ministro ad interim dell’Afghanistan. E da allora, sebbene Pechino non abbia formalmente riconosciuto i talebani, è stato uno dei pochi Paesi, assieme a Iran, Turchia, Russia e Pakistan, a tenere aperta la sua ambasciata a Ka-

bul. D’altra parte, in questo gioco, il Pakistan riveste un ruolo centrale, sia in senso economico che strategico. Legare l’Afghanistan alla Belt and Road Initiative (Nuova via della seta), continuando il Corridoio economico Cina-Pakistan, rimane difatti per i cinesi uno dei principali obiet-

allontanato o penalizzato molti imprenditori privati.

Alla luce di queste sfide, alcuni si chiedono se l’incidente del pallone-spia non sia stato un autogol involontario, magari perfino il sabotaggio interno ordito da un’ala dura delle forze armate per impedire il disgelo con gli Stati Uniti. In ogni caso tutte le reazioni successive all’abbattimento del pallone-spia hanno acutizzato le tensioni fra Pechino e Washington anziché smorzarle. Il problema è che questo incidente – a differenza di quello dell’aprile 2001 – è avvenuto quando la Cina ha un’autostima ingigantita, ha aumentato la sua potenza di fuoco, ha coltivato un’opinione pubblica nazionalista. Coincide con una fase politicamente delicata sull’altra sponda del Pacifico. La nuova maggioranza repubblicana alla Camera incalza Joe Biden denunciando il suo ritardo nell’abbattere il pallone-spia come una debolezza. Una cosa invece è rimasta identica dall’aprile 2001 ad oggi: non c’è il «telefono rosso», manca una procedura collaudata per appianare le crisi. Immaginarsi come questo possa far precipitare un incidente su Taiwan fino alla deflagrazione di un conflitto totale fa venire i brividi.

petroliferi in Afghanistan

tivi strategici, così come tenere l’Occidente il più possibile fuori dall’Asia centrale. E però, nonostante gli sforzi di Pechino per convincere i talebani, ad esempio, ad agire contro gruppi uighuri come il Turkistan Islamic Party che colpiscono obiettivi cinesi nello Xinjiang, la situazione non appare del tutto rosea. Da qualche anno, ormai, gli interessi cinesi vengono colpiti in Pakistan e, da qualche tempo, cominciano a essere colpiti anche in Afghanistan a causa, probabilmente, anche del deteriorarsi delle relazioni tra il Pakistan e i talebani ma soprattutto visto il trattamento riservato dai cinesi alle popolazioni locali. Sfruttamento economico, violazioni dei diritti umani e occupazione militare viaggiano infatti lungo i «corridoi» della Belt and Road Initiative. E, per quanto riguarda l’influenza dell’Occidente, l’invasione russa dell’Ucraina ha cambiato, e non di poco, le carte anche sul tavolo dell’Asia centrale in generale e dell’Afghanistan in particolare. Molti Stati della regione, ad eccezione del Tagikistan, hanno accettato l’arrivo

dei talebani perché non volevano alimentare conflitti ai loro confini. Oggi discutono apertamente di cooperazione regionale con Kabul.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha anche offerto agli Stati Uniti lo spazio per un nuovo impegno in Asia centrale. E nonostante Pechino si affanni a sostenere che «la Cina rispetta la scelta di indipendenza fatta dal popolo afghano e rispetta le credenze religiose e le usanze nazionali dell’Afghanistan» e che «Pechino non ha mai interferito negli affari interni dell’Afghanistan e non ha mai cercato interessi personali per le cosiddette sfere di influenza in Afghanistan» nessuno ci crede, tantomeno i talebani. Che a giocare su diversi tavoli hanno imparato, e bene, dal loro padre spirituale: il Pakistan. La Cina sembra aver preso un abbaglio non da poco se sperava, come sperava, di gestire l’Afghanistan attraverso l’ormai compromesso e instabile, economicamente e politicamente, Pakistan. E sembra pronta a diventare l’ennesima vittima della «tomba degli imperi» afghana.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
Il caso del pallone-spia cinese ha un precedente: nel 2001 un aereo spia americano (nella foto) che sorvolava l’isola di Hainan si scontrò contro un caccia cinese. (Keystone) Keystone

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Il Mercato e la Piazza

Aumenti dei salari in vista?

L’estate scorsa, quando l’evoluzione dell’inflazione ancora non era chiara, i nostri media avevano iniziato a parlare, in relazione alle trattative salariali, di un «autunno caldo». A dire il vero l’aumento dei prezzi, anche se modesto, rispetto ad altre realtà nazionali, fuori e dentro l’Europa, era tale da giustificare reazioni sindacali sostenute. Una fonte che non può essere considerata di parte, ossia l’Unione di Banche Svizzere, sosteneva infatti, nell’edizione dell’8 novembre 2022 del suo notiziario, che, per i lavoratori del nostro Paese, l’inflazione avrebbe determinato, in quell’anno, la maggiore perdita di salario reale degli ultimi 80 anni, vale a dire la peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi. La reazione sindacale all’erosione del potere di acquisto dei lavoratori si è manifestata in autunno e anche nelle prese di posizione di inizio anno dell’Unione sindacale

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svizzera e di Travail suisse, l’organizzazione mantello dei sindacati cristiano-sociali. Nel suo «Rapporto sulla distribuzione», per esempio, l’Unione sindacale svizzera metteva in evidenza, nel gennaio 2023, che, per le fasce medie e basse di salario, il salario reale di oggi era oramai inferiore a quello del 2016. A questa erosione del potere di acquisto dovuta all’aumento dei prezzi si aggiungeva lo shock dell’aumento dei premi delle casse malati. Questa evoluzione portava Daniel Lampart, l’economista dell’Unione sindacale, a rivendicare un salario mensile minimo di 5000 franchi per i lavoratori con tirocinio terminato e uno di 4500 franchi per i lavoratori senza apprendistato compiuto.

Sembra evidente che l’Unione sindacale, per il momento, intenda concentrare la sua azione nella preparazione della campagna sull’iniziativa per un salario minimo che andrà in vota-

zione il prossimo 18 maggio. Da parte sua Travail suisse rivendicava per il 2023 un aumento dei salari tra il 3 e il 5%, motivandolo con l’aumento dei prezzi e con i guadagni in produttività conseguiti dalle aziende. Come dire che gli aumenti di salario sono non solo necessari ma, in forza dei guadagni in produttività, anche possibili. In ogni caso gli aumenti dei salari vengono respinti dal padronato. In una presa di posizione che risale all’autunno scorso l’associazione svizzera dei datori di lavoro non spendeva parole per valutare se le rivendicazioni salariali fossero o meno fondate. Insisteva invece nel ricordare come il futuro dell’economia nazionale fosse incerto e certamente non tale da consentire aumenti salariali della portata di quelli proposti dai sindacati. Per i datori di lavoro l’aumento dei salari reali dovrebbe seguire quello della produttività. Stando a loro, è quan-

Il Festival di Sanremo: lo specchio dell’Italia

In Italia si sostiene che il Festival di Sanremo sia lo specchio del Paese. È abbastanza vero. Sanremo nasce prima della Tv ed ebbe fin dall’inizio un ruolo importante nell’unificazione linguistica e culturale nazionale (qualcuno dice nell’omologazione). Le prime due edizioni sono dominate da Nilla Pizzi. Figlia di contadini bolognesi, cresciuta in una sartoria, durante la guerra ha cantato per le truppe. Ha lasciato il marito, che si chiama Pizzi come lei, per legarsi al maestro Cinico Angelini, il direttore dell’orchestra più acclamata. Nel

1951 Nilla vince Sanremo con Grazie dei fiori, che venderà 36 mila dischi – un record – e arriva pure seconda con La luna si veste d’argento, cantata con Achille Togliani. Nel 1952 è addirittura prima, seconda e terza, con Vola colomba, Papaveri e papere e Una donna prega «Inginocchiata a San Giusto, prega con animo mesto, fa che il mio amo-

re torni, ma torni presto», canta Nilla Pizzi. San Giusto è il patrono di Trieste, allora ancora occupata dagli angloamericani e rivendicata dagli jugoslavi; e l’amore che doveva tornare presto era l’Italia. Ma l’anno dopo, nel 1953, la patriota Pizzi è battuta da Flo Sandon’s, in realtà Mammòla Sandon, che porta in coppia con Carla Boni un pezzo dallo stile più moderno, Viale d’autunno. Sandon è già una diva: sua la voce con cui Silvana Mangano canta «Non dimenticar» nel film Anna. Suo marito è il pioniere dello swing, Natalino Otto, che si chiama in realtà Codignotto e ha lanciato Mamma voglio anch’io la fidanzata, la canzone più popolare tra i militari di leva. In un locale di Cremona, il maestro Otto e Sandon scopriranno una voce unica, quella di Mina. E negli anni successivi, oltre appunto a Mina, andranno a Sanremo Milva, Vanoni, Orietta Berti (ma non l’hanno mai vinto) e poi Gigliola Cinquet-

Il presente come storia

È un classico da quando si vota: l’approssimarsi delle elezioni accelera il moto dello sciame partitico-politico. Congressi, assemblee, santini, aperitivi, nuove formazioni che si vogliono di protesta, partiti anti-partito né di destra né di sinistra. Il Ticino politico, pur non rappresentando un’eccezione, ha sempre dato prova di grande vitalità in questo campo: fondando, un tempo, giornali e fogli di battaglia (poi chiusi in tutta fretta all’indomani dei risultati), oggi cercando spazio e visibilità nei canali sociali, da Facebook a Twitter. Ma il Paese è piccolo e come spesso succede nei micro-ambienti, alla fine conteranno i fattori definibili come tradizionali: la conoscenza diretta del candidato, le campagne porta a porta, i suggerimenti di parenti e amici. A questa dinamica la lista senza intestazione offre una sponda perfetta.

Ancora una volta, il sistema dei partiti, così come l’abbiamo conosciuto nel XX secolo, dovrà rincorrere la cittadinanza con il piatto in mano; dovrà, in altre parole, guadagnarsi la fiducia nella cittadinanza attraverso una convincente offerta politica. L’epoca della fedeltà incondizionata alle segreterie è infatti definitivamente tramontata. Ma non è detto che la nuova era, popolata di movimenti e gruppi d’incerta identità, sia in grado di apparecchiare un futuro migliore. E questo perché i programmi proposti non scaturiscono da un’analisi solida dello stato in cui versa il Paese. E lo stato, com’è emerso dagli ultimi dati sulla situazione finanziaria (un disavanzo che veleggia verso i 220 milioni), non è affatto roseo; esigerà anzi lacrime e sangue. È molto probabile che prima del 2 aprile nessuno oserà avvicinarsi alla voragine che si è aperta dopo che

to è successo dal 2009 al 2021. Anzi, secondo il grafico riportato nella loro presa di posizione, il salario reale durante questo periodo sarebbe addirittura aumentato leggermente di più della produttività. Ma l’argomento forte dei datori di lavoro per opporsi alle rivendicazioni dei sindacati non è formulato a livello macroeconomico: è formulato a livello dei conti della singola azienda. È vero – ammette l’associazione dei datori di lavoro – che un aumento dei salari potrebbe indurre un aumento dei consumi e quindi favorire l’espansione del fatturato delle aziende che offrono i loro prodotti sul mercato nazionale. Tuttavia, a livello della singola azienda, per decidere se un aumento dei salari sia o meno possibile non è tanto l’evoluzione del fatturato che conta quanto quella del suo margine di guadagno. Ora lo stesso sembra essere sempre di più stretto nel-

ti, Nada, Claudia Mori, Alice, fino a Giorgia, Anna Oxa, Elisa: la storia della musica italiana.

Nel 1958 gli anni duri del dopoguerra e della ricostruzione sono finiti. Comincia il miracolo economico, il boom, che trova a Sanremo la sua colonna sonora: Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, più noto come Volare. Nel 1964 vince Gigliola Cinquetti con una canzone rassicurante fin dal titolo, Non ho l’età. Molti scrivono alla «candida Gigliola» sovrapponendo «di sovente l’esile figura della cantante bambina alla Madonna», ma anche a Lucia dei Promessi sposi. Una ragazza di Novara spiega di identificarsi in lei e di essere «un tipo un po’ all’antica, che non indosserebbe mai una minigonna e non si innamorerebbe mai di un capellone». Una tredicenne di Nuoro si raccomanda di «non fare come Rita Paone (sic!) e Mina». Un anziano signore di Roma celebra la sua vittoria «contro la dege-

nerazione dell’arte musicale e canora imperante in questo avvilente dopoguerra» e contro le «molteplici aberrazioni dell’odierna squinternata gioventù». Ma ancora più significativa la lettera di Lena da Boves, provincia di Cuneo, che apprezza la grazia di Gigliola e la sua «buona educazione», «cose molto rare in questi tempi di dinamismo».

Negli anni Settanta, quelli della politica di strada e di piazza, Sanremo si eclissa, si riduce a una sola serata, il sabato, quasi sempre condotta da Mike Bongiorno, che la Rai trasmette malvolentieri, quasi di soppiatto. Il grande ritorno è del 1978, che nel mondo è l’anno di Grease con John Travolta e Olivia Newton John, e in Italia è l’anno dei Matia Bazar, che vincono davanti a una strepitosa Anna Oxa sedicenne che canta vestita da uomo Un’emozione da poco, e davanti a Rino Gaetano. Gli Anni Ottanta sono quelli di Vasco Rossi e Zuc-

la morsa costituita, da un lato, dalla concorrenza che diventa sempre più pressante anche sul mercato interno e, dall’altro, dal forte rincaro delle materie prime e dei prodotti semi-finiti importati. La pressione delle due ganasce di questa morsa non permette alle aziende del nostro Paese di recuperare la perdita di margine, dovuta all’eventuale aumento dei salari, con un aumento dei prezzi. Certo la situazione varia da un settore all’altro, da un ramo di produzione all’altro e addirittura da un’azienda all’altra. Ma, stando all’associazione svizzera dei datori di lavoro, lo spazio di manovra per aumenti dei salari è in generale molto limitato. Insomma, sembra che, al di là dei risultati già raggiunti nelle rinegoziazioni salariali condotte sin qui, occorrerà aspettare la primavera avanzata per vedere se la spirale prezzi-salari, dopo tanto discuterne, si metterà in movimento.

chero, che magari arrivano ultimi ma poi diventano miti internazionali. Nel 2011 l’arrivo di Roberto Benigni a cavallo e il suo monologo cambiarono la percezione dei 150 anni dell’unità d’Italia, e la vittoria di un cantautore di sinistra come Roberto Vecchioni, con una canzone antiberlusconiana, segnalò che l’era del Cavaliere stava per terminare (la caduta giunse nel novembre dello stesso anno). Anche l’edizione del 2023 è stata a suo modo un’edizione «politica». Sergio Mattarella è stato il primo presidente della Repubblica ad apparire in platea nella Città dei fiori, per applaudire il monologo ancora di Benigni in difesa della Costituzione repubblicana. Il modo meno ideologico possibile per ricordare che l’Italia ripudia la guerra e quindi in questo momento è al fianco dell’Ucraina aggredita contro l’aggressore russo; e che la libertà d’espressione, conculcata dal fascismo, è sacra.

il convento della Banca nazionale ha comunicato di avere la scarsella vuota. L’augurio è, ovviamente, che il mancato versamento (–137 milioni) rimanga un incidente di percorso dovuto alla precaria congiuntura internazionale (prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina) e non il sintomo di un’instabilità di lungo periodo. Fatto sta che da qualche parte bisognerà intervenire. Quali tagli e dove, a scapito di chi? Dopo le elezioni, Governo e Parlamento dovranno farsi coraggio e metter mano alle forbici (in gergo, manovra di rientro).

Tutte le formazioni politiche presenti nell’Esecutivo si riconoscono nella formula dell’«economia sociale di mercato»: una formula coniata nel secondo dopoguerra mirante a mitigare gli eccessi e gli effetti indesiderati del capitalismo dominato dagli «spiriti animali». Di qui l’esigenza

di introdurre nella legislazione limiti e provvedimenti che impediscano al sistema di creare disuguaglianze talmente profonde da mettere in pericolo la pace sociale e la coesione nazionale. Questa dottrina d’ispirazione socialdemocratica e cristiano-sociale è presente sia nella Costituzione federale (1999), sia nella Costituzione cantonale, di poco precedente (1997). Dice la prima «che libero è soltanto chi usa della sua libertà e che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri».

E la seconda statuisce nel preambolo che il popolo ticinese si dà la sua carta «allo scopo di garantire la convivenza pacifica nel rispetto della dignità umana, delle libertà fondamentali e della giustizia sociale», nella convinzione «che questi ideali si realizzano in una comunità democratica di cittadini che ricercano il bene comu-

ne». Sembrano, queste premesse, la trascrizione del secondo principio di giustizia enunciato dal filosofo americano John Rawls (1921-2002) nei suoi innovativi lavori sulla giustizia come equità: «Le disuguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due criteri: primo, devono essere associate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa uguaglianza delle opportunità; secondo, devono dare il massimo beneficio ai membri meno avvantaggiati della società». Detto altrimenti, la disuguaglianza è ammessa e giustificata soltanto se migliora, non peggiora, le condizioni socio-economiche di chi sta ai piedi della piramide sociale. Il Parlamento, impegnato dopo il 2 aprile a spulciare le singole voci del bilancio statale, non potrà non tener conto di questi capisaldi fissati nelle due Costituzioni, federale e cantonale.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 25 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
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di Orazio Martinetti
Le elezioni cantonali, l’economia e il sociale
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Domenico Fontana

L’architetto ticinese di Papa Sisto

V che rifece Roma è il protagonista della mostra alla Pinacoteca Züst

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Il Maestro e Margherita

L’amore di Bulgakov raccontato da tre figure d’eccezione: Ezio Mauro, Julie Curtis e Rita Giuliani

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Il violoncello magico

L’incontro con Anastasia Kobekina che giovedì suonerà al LAC con la guida di Charles Dutoit

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Un vademecum per la modernità

Giovani talenti

m4music ha portato a Lugano sul palco della Tour Vagabonde due giovani promesse della musica pop

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Pubblicazioni ◆ Gli scritti ticinesi dell’Ottocento e del Novecento in un’antologia di Tiziano Tommasini

«Mondo fermati, voglio scendere!». Il sentimento di vivere al centro di un vorticoso movimento, più acceso all’inizio di ogni nuovo anno, contraddistingue oramai da tempo le nostre giornate, al punto che se dovessimo tradurre la vita di oggi in un semplice grafico geometrico sarebbe sicuramente un’iperbole, di quelle che partono piano e di colpo si impennano verso il cielo. Cresce la complessità, crescono i numeri, i dati, gli scambi, gli allarmi, le sostituzioni… L’ipotesi stessa dello «stare al passo con i tempi», almeno per una grossa fetta della società, è divenuta addirittura velleitaria. «La nostra non è un’epoca di cambiamenti», ci metteva giustamente in guardia Papa Francesco all’inizio del suo pontificato, «ma un cambiamento d’epoca». Poi uno vorrebbe però anche le istruzioni per l’uso.

È questa infatti un’opera che ha l’ambizione di dirci chi eravamo e chi (forse) non siamo più

Simili pensieri, speriamo non troppo pessimisti, zampillano spontaneamente mentre rigiro tra le mani la nuova pubblicazione dello storico Tiziano Tommasini, edita da Armando Dadò. Un poderoso volume concepito in realtà (e per fortuna) in modo leggero, stuzzicante, quasi a voler suggerire una fruizione spontanea e sussultoria, come un uccello che salti contento di ramo in ramo. Un lavoro che deve averlo impegnato per anni, con dedizione e acribia, e che alla fine non si sa bene sotto quale cappello mettere. Viene in aiuto un sottotitolo che recita «antologia di scritti ticinesi dell’Ottocento e del Novecento»; ed è sicuramente tale, ma non si parla di letteratura, o comunque non solo, e la parte antologica non sembra nemmeno preponderante se paragonata alla lunghezza dei cappelli introduttivi, nei quali si dà ampio spazio invece alla biografia di personalità (della politica, della scienza, della cultura) del Ticino dei tempi che furono, non esclusi testimoni di assai più umile estrazione.

Dotati come siamo di una capacità di memoria sempre più scarsa e selettiva, sarei tentato di imbastire un quiz e sottoporre a bruciapelo a qualche classe del Luganese o del Locarnese il solo indice del volume, che mette in fila – rigorosamente in ordine alfabetico – un Brenno Bertoni e un Piero Bianconi, un Emilio Bossi e un Francesco Chiesa, un Felice Filippini e un Luigi Lavizzari, su su fino a Giuseppe Zoppi. Ma questi erano quelli facili: per molti altri, quasi ignoti pure a chi scrive, si potrebbe

facilmente riattivare la categoria dei Carneadi (Guglielmo Buetti, Geo Flavio Cavalli, Luigi Maggetti, e ancora Giuseppe Bonenzi, Fulgenzio Chicherio, Giuseppe Strozzi…).

Che farsene dunque di questa pletora di nomi (77) che riemergono come per incanto dalle nebbie della storia e per i quali Tommasini non teme di rispolverare l’appellativo di «maestri di casa» (fu il titolo di un celebre almanacco) in un’epoca come la nostra in cui i concetti stessi di «maestro» e di «casa» hanno subito contraccolpi non indifferenti? E come mettere in un medesimo scomparto l’artista Giocondo Albertolli, il linguista Carlo Salvioni e un curioso personaggio come il venditore ambulante Anselmo Mombelli?

E l’agronomo Alderige Fantuzzi da che parte sta? La risposta, che coincide con gli indubbi meriti di questo libro, andrebbe ricercata non tanto negli aspetti storici e culturali, bensì in quelli latu sensu civici e sociali: è questa infatti un’opera che ha l’ambizione di dirci chi eravamo e chi (forse) non siamo più. Di distinguerci dagli innumerevoli luoghi del pianeta in cui ricorrono, come qui, le stesse quattro-cinque idee che sono uguali in tutto il mondo (e lo specifico di ciascuno dove va a finire?).

Di rimetterci, in una parola, di fronte a quelle radici che troppo in fretta abbiamo segato all’altezza dei piedi.

Pur senza farne un dramma, prendiamo ad esempio le commoventi pagine di Augusto Ugo Tarabori (1891-1969), docente e alto funzionario della pubblica amministrazione, sull’importanza dello studio e sul fascino che una «metropoli» come Locarno poteva esercitare su un giovane ragazzotto dell’Onsernone: «La rivelazione di un più ampio orizzonte venne, come ho detto, soltanto il giorno in cui, girando attorno a una specie di torre rudimentale, vidi schierate all’ingiro, da ogni parte, centinaia di vette d’ogni forma e di ogni grandezza. […] E laggiù in fondo alla mia valle […] la città ch’io non conoscevo, ed era la meta dei miei sogni infantili: la città alla quale si recavano le genti del villaggio per il mercato del bestiame; la città donde essi tornavano recando meraviglie».

Oppure, questa sì una disarmante lezione di senso civico, le peripezie del conservatore Anselmo Mombelli di ritorno dalla Francia del Sud appena in tempo per le elezioni in Valle di Muggio: «Il mese di gennaio 1872 ricevo questo telegramma: – Ti aspetto domenica a Sagno per votare. Erennio Spinelli. – Non avevo tempo da perdere, la medesima sera mi sono imbarcato per Ge-

nova […]. Sono giunto a Sagno il sabato sera e la domenica sono andato a Caneggio per votare Spinelli, Fortini e Bernasconi. Pochi giorni dopo ritornai subito a Marsiglia». Noi facciamo fatica ad apporre una croce sopra un foglietto e a sigillare una busta preaffrancata.

Il risultato è un’antologia di uomini, più che di testi, entro la quale la presenza femminile è giocoforza in linea con i tempi (minoritaria)

Tra le più gustose, in bella gara con il primo viaggio in automobile descritto da Emilio Bossi nel 1907 («Francamente avevo paura…»), le esplorazioni attorno al Globo del locarnese Emilio Balli, meritevoli certo di una nuova e disincantata attenzione: «Verso mezzodì lo Stretto di Magellano si allargò e potemmo

di lontano scorgere l’Oceano Pacifico […] ed eccoci, alle due circa, vicino ad un altro canotto di selvaggi. […] Io ne vestii uno di un paio di mutande vecchie e di un gilet di flanella, gli misi davanti una scatola di “Sardines de Nantes” che divorò con ingorda avidità e ne feci oggetto de’ miei studi».

Ce n’è insomma per tutti i gusti, in questa raccolta per la quale l’autore ammette di essersi ispirato, da un lato, all’antologia di letterati ticinesi che il giornalista Angelo Nessi non era riuscito a terminare (morì nel 1932), incrociandone le intenzioni, dall’altro, con il Dizionario storico-ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino del francescano Gian Alfonso Oldelli (1733-1821). Il risultato è infatti un’antologia di uomini, più che di testi, entro la quale la presenza femminile è giocoforza in linea con i tempi (minoritaria), eppure abbastanza significativa: si inaugura con la pedagogista Angelina Bo-

naglia e si chiude con la scrittrice Anna Volonterio, senza dimenticare Alina Borioli, Teresa Bontempi, Maria Boschetti Alberti, Luigia Carloni Groppi e altre pioniere della cultura e della didattica ticinese.

Personalmente mi sarei fermato forse all’Ottocento, senza grandi sconfinamenti in epoche a noi prossime, anche soltanto per il rischio –consueto in questi casi – di stimolare il gioco del chi c’è e chi non c’è (c’è Plinio Martini, non ci sono gli Orelli; c’è Giovanni Lepori ma non il figlio Giuseppe, avvocato, giornalista, scrittore e consigliere federale). Ma va bene così, vorrà dire che ci terremo la fame per la prossima volta.

Bibliografia

Tiziano Tommasini, I maestri di casa. Antologia di scritti ticinesi dell’Ottocento e del Novecento, prefazione di Matteo M. Pedroni, Armando Dadò Editore, 2022.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 27
CULTURA
Albert Anker, La lettrice, olio su tela. (© Société du Musée des beaux-arts, Le Locle) Pietro Montorfani

Lo stuccatore che rifece Roma

Mostra ◆ La mostra in corso alla Pinacoteca Züst è un’ottima occasione per conoscere

Domenico Fontana di Melide, l’architetto di papa Sisto V

Quando nel 1563, all’età di vent’anni, Domenico Fontana partì dalla sua Melide alla volta di Roma come semplice stuccatore, probabilmente non avrebbe mai immaginato di diventare l’architetto prediletto del papa.

L’attività di Fontana

è strettamente legata al pontificato energico e determinato di papa

Sisto V, che, in soli cinque anni, dal 1585 al 1590, diede un volto nuovo alla Città Eterna

Sebbene manchino ancora alcuni tasselli per completare la conoscenza della sua formazione e dell’intreccio di relazioni che dalle rive del Ceresio lo condussero alla Città Eterna, ciò che risulta più che certo è che Domenico Fontana riuscì a imporsi sulla scena artistica romana non soltanto per la sua intraprendenza e per le sue indubbie competenze tecniche, ma anche grazie alle sue sorprendenti capacità di organizzazione e di coordinamento dei lavori, che lo hanno reso un vero e proprio impresario di maestranze complesse attive su progetti molto sofisticati.

D’altra parte, Fontana sapeva bene che per potersi affermare in un conte-

sto ricco di occasioni ma al contempo molto difficile come quello dell’Urbe non sarebbe bastato essere abili nel proprio mestiere. Serviva saper dirigere ogni opera, con le molteplici figure professionali coinvolte, come un perfetto ingranaggio in grado di muoversi con sollecitudine ed efficienza. Ed è proprio questo aspetto a rappresentare l’apporto più innovativo che Domenico Fontana ha dato alla pratica del cantiere artistico del Cinquecento.

Come per la spettacolare impresa del trasporto e dell’elevazione dell’obelisco Vaticano, alla quale si è soliti ricondurre la fama dell’architetto ticinese, l’attività di Fontana è strettamente legata al pontificato energico e determinato di papa Sisto V, che, in soli cinque anni, dal 1585 al 1590, ha dato un volto nuovo alla città di Roma. La Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, la Villa Montalto alle Terme, la Scala Santa, la Biblioteca Vaticana, l’asse viario romano, l’erezione degli obelischi nelle piazze principali delle basiliche sono soltanto alcuni dei prestigiosi incarichi che Fontana riceve da Sisto V, a testimonianza dell’interesse del pontefice marchigiano per la sua architettura solida e programmatica e per le sue inusuali doti di regia dei lavori. E anche quando, dopo la morte del suo

mecenate, lascia Roma per approdare a Napoli, Fontana riesce a mantenere nella nuova città una posizione di rilievo, operando al servizio della committenza reale spagnola per numerosi interventi di edificazione urbana.

A questa figura industriosa e volitiva, appartenente a quel novero di maestri ticinesi che hanno fatto fortuna lontano dal proprio Paese d’origine, la Pinacoteca Züst di Rancate dedica una rassegna molto ricca ed esauriente, che ha il merito di occuparsi di Domenico Fontana non come singola personalità, bensì in relazione ai tanti artisti e artigiani che hanno collaborato ai grandi lavori da lui diretti. L’attività dell’architetto di Melide viene così inserita in un più vasto contesto facendoci conoscere le dinamiche sottese alla realizzazione delle sue opere, caratterizzate proprio dalla compresenza di specialisti diversi.

Queste «storie di cantiere» ci vengono raccontate non solo attraverso disegni, incisioni e dipinti ma anche da un ottimo apparato multimediale concepito per essere al servizio dei contenuti. È così che scopriamo come i progetti fontaniani fossero tutto un brulicare di muratori e stuccatori, di pittori, scultori, bronzisti e indoratori e, ancora, di vetrai, fabbri e stagnai che operavano in perfetta sinergia

sotto la guida sicura di Domenico. Un armonioso lavoro di squadra, il loro, che aveva il suo punto forte proprio nella coralità degli apporti finalizzata all’esecuzione di un prodotto unitario di altissima qualità e per giunta eseguito in tempi tutt’altro che lunghi.

Non a caso Giovan Pietro Bellori, il più importante storiografo dell’arte del Seicento, nelle sue Vite de’ pittori scultori e architetti moderni sottolineava come Fontana fosse «occupatissimo nelle invenzioni di tante opere, che gli bisognava eseguire con celerità per l’animo ardente del Papa, che nel dubbio dell’età sua cadente, non permetteva indugio alcuno».

Il fatto poi che lo stesso Bellori abbia inserito nel suo volume Fontana quale unico rappresentante della professione di architetto, ci dà ancor più l’idea di quanto il lavoro dell’artista di Melide fosse apprezzato e, in una visione più ampia, di quanto il portato ticinese abbia contribuito all’edificazione di un patrimonio culturale europeo. Non si dimentichi che in piazza San Pietro, luogo tra i più famosi al mondo, c’è molto della nostra terra: non solo l’obelisco Vaticano innalzato da Fontana ma anche la facciata della Basilica eseguita da Carlo Maderno, nipote dello stesso Domenico che proprio grazie a lui ha mosso i primi passi a Roma fino ad arrivare a lavorare al simbolo della cristianità nel mondo.

D’altronde sappiamo bene che il fenomeno migratorio artistico ha segnato molto la storia del Ticino, e a ricordarcelo a inizio rassegna sono alcune installazioni virtuali che documentano i tanti cantieri in atto a Roma e a Napoli nel periodo in cui Fontana vi ha lavorato. Da questo materiale si scopre, ad esempio, che nella città papale erano presenti ben trentasei figure provenienti dal nostro cantone, tra scalpellini, stuccatori e muratori, a dimostrazione di quanto fossero rinomate le maestrante ticinesi.

L’approfondito percorso espositivo di Rancate ci mostra le peculiarità dei cantieri più rilevanti allestiti da Fontana, come quello della Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore, primo vero banco di prova per il maestro

ticinese all’apertura del pontificato di Sisto V. Grazie anche alla veduta immersiva dell’edificio, riusciamo a cogliere l’armoniosa unione tra architettura e decorazione che caratterizza i progetti di Fontana, capace di scandire e modellare lo spazio attraverso una profusione di affreschi, stucchi e sculture frutto di una sapiente organizzazione del lavoro.

Tanti sono anche i materiali che testimoniano l’impresa del già citato obelisco Vaticano, a cui tra l’altro Fontana dedica un volume pubblicato a Roma nel 1590. In riferimento a questo testo troviamo il prezioso fascicolo che raccoglie le bozze di gran parte delle tavole del Libro primo, corredate dalle osservazioni manoscritte del vescovo agostiniano Angelo Rocca.

Altrettanto interessante è la sezione riguardante il santuario costruito per ospitare la Scala Santa. Qui ci sono alcuni disegni di Cesare Nebbia e lo schema iconografico della decorazione a opera di Giovanni Guerra, due specialisti che hanno collaborato molto con Fontana per gli aspetti relativi agli affreschi. Sono presenti inoltre alcuni bei dipinti di artisti facenti parte delle squadre pittoriche attive nei cantieri di Fontana, come Ferraù Fenzoni, talentuoso faentino a cui fu concessa ampia autonomia nella realizzazione delle scene, e Paul Bril, anversese scelto per la sua grande abilità nell’esecuzione di paesaggi.

Ben documentati sono infine i lavori eseguiti a Napoli, Amalfi e Salerno. Nella città partenopea Fontana si cimenta in opere di idraulica, riassetto urbano, architettura, decorazione e restauro per i viceré, riuscendo a saldare l’esperienza romana al gusto dei nuovi committenti e dando prova, anche in questo contesto, delle sue ineguagliabili doti di valente e ingegnoso impresario.

Dove e quando Le «Invenzioni di tante opere». Domenico Fontana (1543-1607) e i suoi cantieri. Pinacoteca Cantonale Giovanni

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Frontespizio della Trasportatione dell’obelisco Vaticano et delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto V, Roma 1590. (Lugano, Biblioteca cantonale)

«Di qualsiasi cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono la medesima cosa», dice Catherine in Cime Tempestose pensando a Heathcliff. Per Goethe «la vista di due innamorati è uno spettacolo per gli dèi». Chi sa cosa è l’amore, alzi la mano. Io, vi confido, non lo so, ma quando lo sento risuonare nella letteratura mi illumino d’immenso: «Seguimi lettore! Chi ha detto che non c’è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo! Seguimi lettore e io ti mostrerò un simile amore!».

Lo avete riconosciuto? È l’amore del Maestro per la sua Margherita nel romanzo di Michail Bulgakov (18911940). Pubblicato postumo per la prima volta a puntate solo nel 1966 sulla rivista «Moskva», per Rita Giuliani, professoressa di letteratura russa alla Sapienza, è il più bel romanzo del Novecento «non ho letto altri testi altrettanto belli, altrettanto ricchi, altrettanto profondi e altrettanto russi. È un romanzo fantastico, è un romanzo d’amore, è un romanzo satirico, è un romanzo politico la cui profondità sta anche nella scrittura, nel cambio di registro, di stile. I capitoli ambientati a Mosca sono pieni di giochi linguistici, di calambour, di realizzazione della metafora, uno dice “va al diavolo” e quello al diavolo ci va sul serio».

A ispirare la Margherita del Maestro è stata sicuramente Elena Shilovskaya, la sua terza moglie mi racconta Julie Curtis, professoressa di letteratura russa alla Facoltà di lingue medioevali e moderne di Oxford, profonda conoscitrice di Bulgakov al quale ha dedicato molte opere. «Elena era una donna estremamente bella e affascinante, una sorta di moglie tigre che si batteva per lo scrittore e lo proteggeva. Il suo ritratto è un tributo alla loro storia d’amore. Così nel romanzo la figura di Margherita è molto più forte di quella del Maestro: è coraggiosa, prende decisioni straordinarie, senza esitare si trasforma in una strega. Era l’amore della sua vita, il romanzo è un omaggio a lei».

Basta leggere il racconto che il Maestro fa al poeta Ivan Nikolaevič Ponyrëv quando si incontrano nella clinica del prof. Stravinskij per sentirne tutta l’intensità: «Mi guardò stupita, e d’un tratto compresi – e fu una cosa del tutto inaspettata – che per tutta la vita avevo amato proprio lei… L’amore ci aveva sorpreso inatteso e violento come un assassino che sbuchi fuori d’improvviso, e ci aveva pugnalati entrambi. Cosi colpisce il fulmine…».

Margherita Nikolaevna vuole salvare l’amato dalla sua condizione e la grandezza della sua coraggiosa figura si rivela a noi al gran ballo del plenilunio che che per fasti, iperboli e fantasticherie rappresenta l’apice narrativo del racconto. Avviene di notte, come molte altre scene ma qui la dimensione surreale e fantastica raggiunge la sua apoteosi. Proprio per questo colpisce il lettore, anche un lettore speciale come Ezio Mauro, già direttore di «Repubblica», inviato e corrispondente da Mosca alla fine degli anni Ottanta che della sua opera prediletta possiede il samizdat, una copia trovata da sua figlia a Vienna. «Sembra quasi che lui scriva sotto allucinazioni. La dimensione spaziale si dilata fino all’inverosimile, ci sono queste figure che resuscitano dalla morte per andare a baciare Woland e Margherita». Una scena incredibile, mentre si legge non ci si crede, Bulgakov raccon-

ta di bare che cascano dal camino e personaggi che resuscitano «e tu te lo immagini, vedi questo spazio che diventa una reggia, vedi Margherita trasformarsi in una regina». Tuffiamoci nel testo: «Rotolò dal camino una piccola bara che s’apri e lasciò uscire un altro cadavere. L’uomo gli balzò incontro galante e porse il suo braccio. Era una donna irrequieta con scarpine nere e penne nere in testa, e insieme s’affrettarono su per lo scalone». C’è anche Margherita che davanti a tutto questo chiude gli occhi per un istante «d’un tratto le erano piombati addosso suoni, luci, odori: ecco il gran ballo. Aggrappata al braccio di Korov’ev, Margherita si trovò in una foresta tropicale. Pappagalli dal petto rosso e dalla coda verde gridavano: “Felice di conoscerla!”».

Il pensiero al Faust, alla notte di Valpurga di Goethe corre veloce «c’è già tutto nell’esergo con le forze che tendono al male e operano continuamente per il bene» dice Ezio Mauro e gli fa eco Rita Giuliani «il Faust è proprio una delle fonti immediate, quella di Bulgakov è una notte di Valpurga sovietica. Goethe è una fonte acclarata in gran parte dell’opera bulgakoviana. Lui ne fa una rivisitazione moderna e russa però mantenendo certe funzioni. Margherita non a caso si chiama Margherita e salva il Maestro proprio come Margherita salva Faust».

Julie Curtis ci indica invece come l’origine di questa scena sia collegata a un fatto di vita reale «il gran ballo si legge come una scena fantastica di assoluta forza, molto spettacolare, una scrittura di grande intrattenimento che Bulgakov si è divertito a immaginare e mettere su carta per molti anni, probabilmente decenni. Una sorta di apice barocco del romanzo. In verità si tratta di uno dei pochi passaggi

basato su esperienze realmente vissute. Sappiamo che Bulgakov prese parte al ballo organizzato dall’ambasciata americana a Mosca nel 1935 (si era insediata nel 1930, in era staliniana). Un ballo che doveva lasciare a bocca aperta tutta Mosca e al quale partecipò tutta la crème della nomenclatura russa. Agli angoli della pista da ballo c’erano piccoli animali esotici presi in prestito allo zoo, piante e uccelli, alcuni arrivati dalla Finlandia, il cibo da Parigi… Fu il ballo più stravagante che le persone potessero immaginare. Bulgakov e sua moglie entrarono in buoni rapporti con gli americani che dicevano di apprezzare le sue opere e di volerle pubblicare mentre in Russia venivano censurate».

La censura procura grande sofferenza allo scrittore che, come ricorda Ezio Mauro, si rivolge agli organi dei dirigenti del partito con una supplica precisa, «tenete presente che io non sono un politico, sono uno scrittore. Non giudicatemi con i canoni della politica ma della letteratura». Disperato, poco prima del suicidio di Majakovski, nel 1930 scrive anche a Stalin, si sente perseguitato «la lettera è di tre settimane prima, Stalin guarda caso lo chiama il 18 aprile proprio dopo il funerale di Majakovskij che ha una grande presa sulla popolazione. Liquida in poche battute la sua volontà di andare via dal Paese “non credo che vi daremo il permesso. Ma siamo dunque così cattivi che ci volete lasciare?” E lui – attraversato come molti altri scrittori e intellettuali dallo stesso tormento (andare o restare?), dalla paura di perdere le proprie radici – ha subito un ripensamento. Stalin passa allora al problema esistenziale: “ma che cosa chiedete?” E lui dice “un impiego”». Bulgakov vorrebbe lavorare al teatro dell’arte ma è sta-

dirigente del teatro ma c’erano i macchinisti, i trovarobe, i tecnici delle luci, le persone che hanno lavorato con lui. Liubimov è entrato nel teatro, io gli sono andato dietro. Scendeva, saliva, girava, ad un certo punto siamo sbucati sul palco. Si sono accese le luci e lì c’è stato un episodio meraviglioso: tutti si sono fermati mentre il regista è andato in un punto preciso del palcoscenico. Si è fermato in quello che era un punto della sua memoria e ha detto “qui parlava il Maestro”. Poi ha fatto due passi a sinistra, si è raccolto, ha fatto un salto in aria con il mantello nero che si è aperto a ruota e ha detto “qui volava Margherita”. Una cosa meravigliosa, con tutta questa gente, questo popolo del teatro attorno. Bellissimo, quasi un rito di riconciliazione tra Mosca e Bulgakov. Sono felice di averlo visto».

to respinto. «A questo punto da parte dell’onnipotente c’è questa formulazione quasi paternalistica “provate a rifare la domanda, credo che avrà una buona accoglienza”». A mettere a soqquadro la rappresentazione del potere nel romanzo ci pensano Woland e i suoi aiutanti, quelle forze del male che operano per il bene. Margherita Nikolaevna sulle prime ha dei dubbi ma è disposta a tutto per il Maestro «so a che cosa vado incontro – dice al gatto ippopotamo Azazello ma sono pronta a tutto per lui perché non c’è più per me altra speranza al mondo. Ma le voglio dire solo questo: se mi rovina dovrà vergognarsene! Io mi perdo per amore!». A proposito di Margherita (che ci piace immaginare come la figura femminile nel dipinto di Chagall qui sopra dal titolo La passeggiata), Ezio Mauro ricorda un aneddoto memorabile del suo periodo a Mosca. «Nel 1977 Yuri Liubimov portò in scena Il Maestro e Margherita al Taganka di Mosca. Quando arrivai io, dieci anni dopo, in città ne parlavano ancora. Quella rappresentazione – con l’immagine degli attori che sul finale uscirono in scena un infinito numero di volte chiamati dagli applausi del pubblico (l’ultima uscirono sul palco con i ritratti di Bulgakov) - si era fissata in una leggenda. Dopo aver lasciato il Paese il regista fece ritorno a Mosca alla fine degli anni Ottanta con un breve permesso. Nessuno lo aveva annunciato, nessun giornale e nessun media aveva dato la notizia ma la gente come un atto di fede è andata ad aspettarlo al Taganka dicendo “se è a Mosca deve venire qui”. È arrivato al mattino, una signora ha tirato fuori dalla borsa sette garofani rossi e glieli ha dati. Eravamo già in piena Perestroika, ad aspettarlo non c’era un solo

Con il giornalista ricordiamo i personaggi «gli aiutanti di Woland sono un altro quadro formidabile, mezzi folletti, mezzi cartoni animati, si allungano, si vestono in modo improbabile, hanno gli occhiali rotti… Woland ha un occhio di un colore, uno dell’altro, zoppica leggermente, ha una sciarpa logora, caratteristiche tipiche del diavolo nelle rappresentazioni russe». Poi c’è la scena dell’unguento, del volo di Margherita sulla scopa sopra la città con la cameriera Nataša «Margherita spalmandosi l’unguento accetta di entrare in un’altra dimensione, in quella fase di trasformazione che può servire al Maestro, al loro amore, al loro destino. È chiaro che questo procedere surreale è completamente fuori dai canoni della letteratura di regime. Todorov durante un nostro dibattito ha detto una cosa intelligente: “Il fatto di aver scritto sapendo che non poteva rappresentarlo lo ha liberato: ha scritto quello che sentiva, non ha scritto pensando”. Pasternak dirà che va pubblicato così com’è, inaccettabile».

Quando Ezio Mauro arriva a Mosca cerca in Bulgakov una guida: «Avevo bisogno che mi aiutasse a scoprire e capire la città. L’ho letto andando a cercare i posti, guardando la città con i suoi occhi. Sono andato a cercare la sua casa, sono andato a Besarapski Rynok, il vecchio mercato di Kiev che lui descrive come una stagione di opulenza con le anatre che volano in vetrina, il dorso dello storione che sembra un pezzo di gesso. Quando ci sono andato io era un posto di povertà con le teste di maiale a quindici rubli. E a proposito della stagione dell’opulenza, nel romanzo c’è il magnifico racconto del ristorante dell’Unione degli scrittori al Griboedov. Bulgakov ci racconta di questi pranzi sontuosi in cui gli scrittori e gli intellettuali si ritrovano nella veranda mentre suona la musica dell’orchestra jazz e i cavalli dipinti sul soffitto prendono vita. Ci sono stato alcune volte con degli amici scrittori, era sicuramente un posto privilegiato dal punto di vista del cibo ma non c’era più questa opulenza».

Seduti in una bella sala del Collegio Cairoli di Pavia, dove Ezio Mauro è stato invitato a tenere un ciclo di lezioni, ci guardiamo già pensando alla prossima rilettura in cerca di nuovi significati nascosti. Il sole d’inverno bacia gli alberi del chiostro e noi – con quella gratitudine che si prova per gli scambi letterari profondi che nutrono l’esistenza – sull’onda delle parole profetiche di Margherita - «tutto può ancora accadere perché nulla può durare in eterno» - ci salutiamo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 29
«Tutto può ancora accadere, nulla dura in eterno»
Feuilleton ◆ L’amore del Maestro per la sua Margherita raccontato da Ezio Mauro, Julie Curtis e Rita Giuliani
Keystone
Natascha Fioretti

Quando il momento è magico

Enrico Parola

«Sono nata negli Urali, a Ekaterinberg; entrambi i miei genitori erano musicisti, mamma pianista e papà compositore; in casa si suonava, ma l’amore per il violoncello sbocciò quando mi portarono a un recital di Natalia Gutman: avevo tre anni e mezzo, rimasi incantata e annunciai ai miei: voglio quello! Mi comprarono un “baby cello”, a casa abbiamo un video di me, piccolissima, che mi presento con una corona di carta, agghindata con tutti i gioielli (di plastica ovviamente…) che avevo tra i giocattoli, la voce di papà che annuncia “Ed ecco a voi la vincitrice di tutti i concorsi mondiali… Anastasia Kobekina” e io che mi profondo in un lungo inchino, almeno mezzo minuto, beandomi di scroscianti applausi immaginari».

Non ha trionfato nei più importanti concorsi internazionali; alla ventottenne violoncellista russa è bastato un terzo posto al concorso Ciajkovskij nel 2019 per calamitare le attenzioni di pubblico, critica e impresari; il resto l’hanno fatto il talento e una personalità vivace e schietta, esibita non solo sul palco, mentre abbraccia l’amato strumento («Avevo quindici anni, poco prima di Natale mi chiamò Spivakov e mi disse che aveva un regalo per me: un violoncello meraviglioso, che ha cambiato tanto il mio modo di suonare. Ce l’ho ancora: è la relazione più stabile e duratura nel-

la mia vita…»), ma anche quando comunica la bellezza della musica, soprattutto ai giovani e ai giovanissimi.

«Penso che suonare per i bambini sia una vera e propria missione: a cinque, otto, dieci anni sono già pronti per vivere l’esperienza di un ascolto; sono sicura che rimanga e attecchisca nella loro memoria, e da grandi andranno ai concerti. Se venissero mossi anche solo tre-quattro bambini sui trenta-quaranta presenti in una stanza, beh, sarebbe valsa la pena suonare per loro».

Una prospettiva che ritrova esplicitata nella tradizione classica: «Studiando i trattati degli studiosi e i metodi dei musicisti di metà Settecento, si trova spesso indicato che l’aspetto principale da curare è il “muovere il pubblico”: devi ispirare sentimenti; credo sia l’unico modo perché la musica sopravviva attraverso i secoli». A quei decenni risalgono i due Concerto per violoncello di Haydn, gli unici dedicati a questo strumento da una delle glorie del classicismo; né Mozart né Beethoven scrissero un concerto solistico per lo strumento di Kobekina, ma le due perle di Haydn hanno attraversato gloriosamente e gioiosamente i secoli proprio perché capaci di «muovere il pubblico» e «ispirare sentimenti». Due capolavori, il primo dei quali viene interpretato da Kobekina questa settimana al LAC, accompagnata dall’Orchestra della Svizzera

Italiana e da Charles Dutoit, che dirigerà i professori dell’Osi anche nella suite de Il borghese gentiluomo di Richard Strauss e nella seconda sinfonia per archi e tromba di Honegger. Come tanti suoi colleghi, l’artista russa rimarca come «non sia facile la vita del concertista: quando si porta in tournée un progetto cameristico si condividono treni e aerei, hotel e ristoranti, ma quando si suona con un’orchestra ci si ritrova a viaggiare, mangiare, passeggiare nelle città completamente da soli. Cambia la percezione del tempo e delle cose attorno a me, e questo non è un fattore negativo». La solitudine è stata sua compagna già quando era una studentessa: «Frequentai una masterclass tanto selettiva quanto formativa a Kronberg: eravamo stati ammessi in diciotto, ma quasi nessuno risiedeva in città, così mi ritrovavo spesso sola; fu dura, ma i progressi più significativi non avvengono mai rimanendo in una comfort zone». Comfort zone è un concetto che lei non riesce neppure a concepire nel suo percorso artistico: «Nonostante ormai abbia tenuto tanti concerti, la tensione non passa mai perché per me salire sul palco è sempre una sfida: ogni volta bisogna ricercare, creare una connessione col pubblico, e questa connessione non è mai scontata, dovuta, ovvia: può esserci in programma un brano meraviglioso, ma tocca all’interprete farne

vibrare la bellezza nell’animo di chi ascolta. Per come vivo io il momento del concerto, è necessario sentire una sorta di scintilla che scatta, quasi una

© Julia Altukhova

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto diretto da Charles Dutoit con la violoncellista Anastasia Kobekina questo giovedì 16 febbraio alle 20.30 al LAC. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Anastasia» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro martedì 14 febbraio ore 24.00.

tensione che crea energia in sala; la gente, più ancora che capire la musica, deve rendersi conto che sta sentendo la musica. Attenzione: questo non è un livello più superficiale, anche se lo può sembrare: spesso l’emozione, il sentimento, è più radicale e intimo di un pensiero analitico, storico, intellettualmente chiaro e strutturato». Quando accade, il concerto rientra per Kobekina nella categoria «Momenti magici»: «Nella vita è semplice riconoscerli, perché se tieni gli occhi bene aperti capisci che stai vivendo un’esperienza che ti corrisponde totalmente; momenti in cui non sei distratta dai pensieri sul passato o sul futuro – sono i pensieri che occupano con maggior frequenza la nostra mente – ma vivi totalmente il presente e lo godi, perché la realtà è bella».

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Musica ◆ La violoncellista Anastasia Kobekina sarà al LAC questo giovedì
Con «Azione» al LAC

La musica pop che arriva da Zurigo

Concerto ◆ m4music per la prima volta a Lugano, ci fa conoscere due giovani promesse svizzere

Come annunciato sul nostro giornale qualche settimana fa (nel numero 05), il Festival zurighese m4music del Percento culturale Migros nato alla fine degli anni Novanta, per la prima volta è arrivato in Ticino. Un evento unico teso a rafforzare lo spirito e l’intento originario del Festival (che quest’anno si terrà il 24 e 25 marzo a Zurigo): riunire su un unico palco i giovani attori della scena musicale pop svizzera per scoprire nuovi talenti, far conoscere i professionisti del mondo della musica e dare al pubblico la possibilità di assistere dal vivo a concerti di band svizzere e straniere. Soprattutto, m4music, apre una finestra di ascolto e di attenzione privilegiata sulla musica pop svizzera e costruisce al contempo una rete di contatti e di scambio diffusa. La cornice del concerto è stata quella della Tour Vagabonde, struttura itinerante che da qualche tempo svetta a metà strada tra il cimitero monumentale di Lugano e lo stadio di Cornaredo e ricorda quel Globe Theatre londinese reso immortale dalle opere di Shakespeare.

Qualche secolo dopo le gesta del bardo, ecco che un po’ di quella bellezza, di quello spirito di festa e di vita lo si è potuto e lo si può assaporare anche qui da noi. Anche attraverso la musica che, come Nick Hornby ha probabilmente saputo dire meglio di tutti – ha il grande potere di riportarci indietro nel momento stesso in cui ci porta avanti, così da farci vivere, contemporaneamente, nostalgia e speranza. Regalandoci scintille d’euforia che nell’attimo in cui si spengono e torna il buio finiscono, non di rado, col lasciarci in bocca quello strano e inconfondibile retrogusto di malinconia.

E proprio la musica è stata protagonista sabato 4 febbraio nella serata del fitto programma de La Straordinaria. A salire sul palco, a notte inoltrata, è stata la cantautrice Mel D, la prima artista di domani che ci ha da-

Per la cultura

Iniziativa ◆ Sei milioni di franchi per le associazioni culturali svizzere

to un assaggio del suo presente. Ad ascoltarla un pubblico multiforme, di bambini e di nonni e di tutto ciò che sta nel mezzo, di occhi e orecchie disposte a lasciarsi portare per mano da Mel D e dalla sua Fender color panna. La ventisettenne grigionese, prima si scusa per aver dimenticato l’italiano imparato a scuola, poi fluttua sicura in un buio oceano-mare nel quale, in lontananza, si scorgono tutte quelle amazzoni che della chitarra hanno fatto il loro arco, sirene pronte a trafiggere il cuore di qualsiasi ignaro e sprovveduto navigante. Da Joan Baez a Jewel, passando per Joni Mitchell e mille altre ancora.

Tra sonorità vagamente jazz, e una

quasi ninnananna da intonarsi all’alba, Mel D accarezza la malinconia, la culla, ma lo fa con leggerezza e un pizzico di sana ironia. Prendendosi gioco del suo nome, manco fosse la sesta componente delle Spice Girls. Perché a quanto pare non c’è stato solo un quinto Beatles. Ci scherza su, visto che in rigoroso ordine alfabetico, prima di lei, ci sono Mel B e Mel C subito dopo. D’altra parte è figlia del più genuino pop da hit-parade anche l’unica cover di tutto il suo concerto, ossia quell’Oops!… I Did It Again di Britney Spears, un tormentone che, come neve, si squaglia nelle mani di Mel D. E la rimodella come si fa con la creta, rendendola quasi

irriconoscibile e, se possibile, inedita. Chiudendo, in un crescendo sempre più convincente e coinvolgente, con una canzone il cui titolo è, forse non a caso, Obsessed. Di sicuro dalla vita che questa creatura gentile invoca nell’incantesimo del suo ultimo verso «We need more magic everywhere»

Nella seconda parte della serata, a proporre una robusta e non scontata variazione sul tema, ci pensa la Colère. La rabbia, o la collera, traducendo alla lettera dal francese.

Del 2018 è il debutto con il suo primo EP, Surface, al quale seguirà due anni dopo La Vague. In mezzo tanti concerti e il Demotape clinic Award vinto nella categoria elettronica proprio al festival m4music di Zurigo. Cantautrice, musicista e produttrice, anche lei sale da sola sul palco della Tour Vagabonde con il suo elmo, una berretta di lana della nonna. A farle da scudo l’armamentario di tastiere, sintetizzatori, manopole e altre diavolerie in grado di cristallizzare il suono nel ghiaccio di un elettropop crepuscolare. Così vicino eppure così lontano dagli spiriti inquieti evocati da chi l’ha preceduta. La Colère, nel suo incedere ipnotico, tra melodie tanto care a certa dance anni Ottanta, ritmi esotici che invitano al viaggio e una voce che cambia sia di genere sia di colore, quando meno te lo aspetti, dedica alla memoria del fratello gemello uno dei suoi sortilegi più belli e potenti. «Tu es mort. Mais qui est vivant?» «Tu sei morto. Ma chi è vivo?» Risposta. «Tu, noi». E sicuramente chiunque si ritrovi a sfidare il presente convinto che non sia ancora il momento del grande silenzio. Mel D e la Colère. Due facce della stessa rumorosa solitudine. Un rumore necessario, perché senza musica, la vita sarebbe un errore.

Una riuscita trilogia mozartiana d’autore

Opera ◆ Tre capolavori uniti da una visione unica e nuova, raccontati come una commedia umana

Mozart. Mozart. Mozart. Il nome trino e divino del compositore Unico è stato protagonista qualche tempo fa di tre serate consecutive al Teatro Alighieri di Ravenna (Ravenna Festival), dove giungeva la produzione proveniente dal teatro della reggia svedese di Drottingholm in coproduzione con il Castello di Versailles, ripresa dai teatri di Bordeaux, Barcellona, Versailles, Ravenna, Rimini e Salerno. Tre serate che hanno messo in scena i capolavori composti su libretti, non meno sublimi della musica, dovuti a Lorenzo Da Ponte: Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787) e Così fan tutte (1790).

A distanza di tempo vale la pena soffermarsi sull’operazione perché allestire tre opere così impegnative come se si trattasse di un Trittico è un titolo di merito per qualunque istituzione operistica. Ad affascinare è stata in particolare la messa in scena: stimolava una riflessione a partire da una visione nuova che dava unità alle tre opere differenti. Spesso accusiamo i registi di stravolgere, stra-

pazzare, vilipendere i testi trattati, e anche nel mondo mozartiano, se ne vedono di tutti i colori. Questa volta, «Cosa rara», no. Perché il regista francese Ivan Alexandre, coadiuvato da scene e costumi di Antoine Fontane (vale ricordarlo è restauratore di sipari e sale antiche, decoratore di Vatel di Roland Joffé e J’accuse di Polanski e scenografo della Reine Margot di Chéreau), ha mosso tutti i personaggi intorno ad un’idea che collegava la libertà di spirito (il libertinismo) alle tre età dell’uomo. L’impianto scenico era

costruito sullo stesso quadrilatero per tutte le opere, il quale al solo muovere di tende e velari rivelava stanze e luoghi dell’azione; mentre ai lati c’erano sedie e specchi dei camerini, elementi di un raffinato gioco metateatrale, in cui i cantanti si truccavano o parlavano prima e durante lo spettacolo. Sul palcoscenico era come se lo stesso personaggio passasse da una stanza all’altra della trilogia: un adolescente libertino che si chiama Cherubino attraversava la tempesta ormonale nelle Nozze di Figaro; diventava

Martedì 7 febbraio è iniziata la grande campagna di finanziamento Sostieni la cultura promossa da Migros. L’idea è che i clienti con i loro acquisti presso Migros possano sostenere le associazioni culturali.

Il paesaggio culturale svizzero con le sue associazioni è infatti una parte importante della società perché promuove la solidarietà e lo scambio interpersonale. In quest’ottica Migros è lieta di sostenere le associazioni culturali in Svizzera insieme ai suoi clienti con questa iniziativa in corso fino al 17 aprile.

Come funziona? I clienti ricevono un buono club per ogni 20 franchi spesi. Questi buoni possono essere donati alle realtà culturali che aderiscono all’iniziativa. I buoni club sono disponibili per gli acquisti nei supermercati Migros (incluso il partner Migros VOI) e Migros online. Chi preferisce fare una donazione diretta a un’associazione culturale di sua scelta può farlo tramite la piattaforma di crowdfunding Raise now

Le associazioni culturali che hanno aderito hanno formulato ciascuna un desiderio per la campagna di sponsorizzazione, per la realizzazione del quale utilizzano la quota di sponsorizzazione raccolta. / Red.

Registrazione ancora possibile

L’iniziativa Sostieni la Cultura è partita il 7 febbraio ma le associazioni culturali che non hanno aderito possono ancora iscriversi. La campagna di finanziamento dura fino al 17 aprile 2023. Le associazioni interessate possono trovare tutte le informazioni rilevanti su migros.ch/cultura

lo sciupafemmine per antonomasia, il libertino adulto don Giovanni, per finire attempato filosofo, Don Alfonso, cui non rimane che ordire l’intrigo amoroso, cercando di testare in Così fan tutte, se la fedeltà delle donne esiste. Quasi fosse un canuto Giacomo Casanova fra le «bestie boeme» del castello di Dux (nel ricordo della presenza di Casanova accanto a Mozart alla prima praghese del Don Giovanni). Opera che non è affatto misogina come potrebbe autorizzare una lettura superficiale, perché Da Ponte & Mozart mettono in bocca al deus-ex-machina Don Alfonso, un meraviglioso recitativo accompagnato dagli archi che riassume lo spirito di libertà del loro pensiero: «Tutti accusan le donne, ed io le scuso / se mille volte al dì cangiano amore; / altri un vizio lo chiama, ed altri un uso, / ed a me par necessità del core». Questa trilogia ha reso possibile la lettura dei tre capolavori Mozart e Da Ponte come si trattasse di una commedia umana, dove tutte le età dell’uomo sono rappresentate. Ma anche le età delle donne, co-

me testimonia il fatto che una cantante può passare nel corso della trilogia tutte le stagioni della voce: dall’innocente Barbarina alla scaltra domestica Susanna, dalle volubili dame ferraresi Fiordiligi e Dorabella alla Contessa tradita (l’antica Rosina del Barbiere di Siviglia), fino alla vecchia brillante Marcellina. Un lavoro preparato «come si deve», a partire dall’apporto di tre giovani concertatori e direttori d’orchestra, perfezionati nell’Accademia Riccardo Muti: Giovanni Conti, Erina Yashima e Tais Conte Renzetti. Musicisti che sono già qualcosa di più di semplici promesse direttoriali e vanno seguiti con l’affetto e il rispetto dovuti a giovani artisti dotati.

Menzione finale a una categoria ignorata, l’aiuto regista. Causa infortunio del baritono titolare nella seconda recita di Così fan tutte, sostituito per la parte vocale in quinta da un pronto collega, Romain Gilbert ha recitato la parte di Guglielmo alla perfezione, mostrando di conoscere il libretto parola per parola, intenzione per intenzione. Così non fanno proprio tutti!

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 febbraio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 31
La cantautrice Mel D sul palco della Tour Vagabonde. (© Sarah Mathon) Un momento dello spettacolo. (Youtube)
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invece di 2.95 Zucchine bio Spagna/Italia, 500 g,
20% 1.55 invece di 1.95 Avocado bio Spagna/Repubblica Dominicana, il pezzo 20%
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Tutti da mordere Pane e prodotti da forno Offerte valide solo dal 14.2 al 20.2.2023, fino a esaurimento dello stock. Migros Ticino 4.45 invece di 5.60 Philadelphia Original, Balance o alle erbe aromatiche, per es. Original, 2 x 200 g conf. da 2 20% 4.40 invece di 6.30 Berliner con ripieno ai lamponi in conf. speciale, 6 pezzi, 420 g 30% Il nostro pane della settimana: pane bio a base di farina di segale e farina bigia con una crosta croccante che si mantiene fresco più giorni grazie al prolungato tempo di riposo dell'impasto 3.95 Pane d'altri tempi cotto su pietra bio 500 g, prodotto confezionato 1.30 Panino al mais, IP-SUISSE 90 g, in vendita sfuso 20x CUMULUS Novità Mezza panna e panna intera bio, 250 ml per es. mezza panna, 2.40 invece di 3.–20% Tutti i donut in vendita al pezzo per es. alla vaniglia, 68 g, 1.– invece di 1.20 a partire da 2 pezzi 20% 15.80 invece di 18.60 Latte intero UHT Valflora, IP-SUISSE cartone, 12 x 1 l conf. da 12 15%
il resto è contorno» Carne e salumi Migros Ticino Salame a grana fine in qualità bio 3.40 invece di 4.30 Sminuzzato di manzo, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 20% 4.40 invece di 5.50 Fettine di manzo à la minute, IP-SUISSE in conf. speciale, per 100 g 20% 3.95 invece di 4.95 Salame bio affettato Svizzera, in conf. speciale, per 100 g 20% LO SAPEVI? Allevamento rispettoso della specie, biodiversità e cicli chiusi contraddistinguono l'agricoltura biologica. Inoltre le aziende devono soddisfare requisiti sociali e la lavorazione dei prodotti avviene nel modo più naturale possibile.
i bratwurst questo significa che non contengono né fosfati né antiossidanti e neppure esaltatori di sapidità. 4.75 invece di 5.95 Bratwurst bio Svizzera, 2 pezzi, 280 g, in self-service 20% 22.90 invece di 32.75 Fettine di tacchino «La belle escalope» Francia, 2 x 360 g conf. da 2 30% 1.55 invece di 2.10 Costolette di maiale, IP-SUISSE per 100 g, in self-service 26%
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Tutto il pesce fresco MSC per es. filetto dorsale di merluzzo, selvatico/Oceano Atlantico nord-orientale, per 100 g, al banco a servizio e in self-service 20x CUMULUS

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Lenticchie, lenticchie con pancetta, fagioli bianchi o chili con carne M-Classic
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Bontà da sgranocchiare

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Frutta secca e noci bio provengono da coltivazioni controllate e sostenibili.

Vengono essiccate delicatamente e non contengono né conservanti né zuccheri aggiunti.

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Dolce e salato

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Snack al latte Kinder refrigerati per es. fetta al latte, 5 pezzi, 140 g, 1.45 invece di 1.75

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Tavolette di cioccolato Excellence e Les Grandes Lindt disponibili in diverse varietà, per es. Excellence 85% cacao, 3 x 100 g, 6.40 invece di 9.60

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Acqua minerale Aproz o Aquella disponibile in diverse varietà, 6 x 1,5 l o 6 x 1 l , per es. Aproz Classic, 6 x 1,5 l, 3.95 invece di 6.20

Dà la carica come il caffè

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Magdalenas M-Classic al cacao o al limone, per es. marmorizzate, 2 x 225 g

Biscotti Walkers disponibili in diverse varietà, per es. Chocolate Chip Shortbread, 3 x 175 g, 11.– invece di 14.85

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Fruit Mix Sugus in conf. speciale, 1 kg

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Pastiglie per la gola 220 g e 110 g, per es. ribes nero, sacchetto, 220 g, 4.65 invece di 5.80

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El Tony 12 x 330 ml

Pepsi Max, Regular o senza caffeina, 6 x 1,5 l o 6 x 500 ml, per es. Max, 6 x 1,5 l, 7.50 invece di 12.50

Bevande Offerte valide solo dal 14.2 al 20.2.2023, fino a esaurimento dello stock.
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Praticità e convenienza

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CONSIGLIO DEGLI ESPERTI

I bulbi dei fiori estivi come ad esempio le dalie spesso sono sensibili al freddo. Per questo vanno messi a dimora in giardino solo dopo le ultime gelate, tra aprile e maggio, quando la temperatura del suolo resta stabilmente sopra i 10°C. Li si può però tenere nei vasi dentro casa e trapiantarli poi a maggio in giardino.

Fiori e giardino Offerte valide solo dal 14.2 al 20.2.2023, fino a esaurimento dello stock.
La primavera a casa tua
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