Azione 10 del 6 marzo 2023

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SOCIETÀ

Alcuni psicologi hanno studiato e «rivalutato» la personalità degli introversi, contro tutti i pregiudizi

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TEMPO LIBERO

Spiccare il volo sopra le piste sciando con lo snowkite

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ATTUALITÀ

Il naufragio al largo delle coste calabresi, la strage dei migranti e i miseri calcoli dei politici

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Voci da una città fantasma

Una mimosa per Nora

Simona Sala

Ammettiamolo: tutto sommato il prossimo 8 marzo, dedicato con più o meno entusiasmo da entrambi i generi alle donne, almeno noi svizzere, o residenti in Svizzera, qualche motivo per festeggiarlo ce l’abbiamo, soprattutto alla luce della legislatura che si concluderà nel mese di dicembre, e che ha visto per la prima volta un totale di 96 donne su 246 seggi nei Consigli Nazionale e degli Stati. Sono in molte/i ad attribuire questo ragguardevole risultato politico (nel 1971, anno di introduzione del suffragio femminile, le donne erano 12) fra le altre cose anche agli effetti a lungo termine del grande sciopero delle donne del 14 giugno 2019. A questo si sono aggiunti poi anche il matrimonio per tutti o il congedo paternità. Perfino la combattiva consigliera nazionale PS Tamara Funiciello, durante una recente tavola rotonda raccontata dal settimanale tedesco «Die Zeit», per una volta ha messo da parte polemiche e provocazioni (per quanto siano spesso indispensabili) per ammettere che, seppur a passetti microscopici, qui in Svizzera, finalmente qualcosa si stia muovendo.

Il lento cambiamento di mentalità e paradigmi all’interno della nostra società è ormai inesorabile, ma deve essere sostenuto e rafforzato giorno dopo giorno, e non va dato per scontato mai, come ci insegnano le immani tragedie di genere dei nostri giorni, da quella iraniana a quella inarrestabile dei femminicidi, da cui nessun Paese, indipendentemente da cultura o religione, sembra essere risparmiato.

Fossimo chiamate a farlo, oggi non sarebbe difficile individuare delle figure-chiave femminili in cui identificarci e da cui lasciarci ispirare, poiché portatrici di valori condivisibili e che molto spesso combaciano perfettamente con i «semplici» diritti umani: Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace che esorta solidarietà, fermezza e soprattutto vicinanza, verso quanto accade in Iran; Elly Schlein, che l’ha spuntata contro un concorrente maschile cavalcando il concetto di giustizia sociale e raccontando fiera la propria scelta d’amore; o ancora Jacinda Ardern, la premier della Nuova Zelanda che ha avuto il coraggio di ammettere i propri limiti, e si è ritirata in nome

di quel rispetto dell’elettorato che dovrebbe costituire la base di ogni relazione politica sana. Qui in Svizzera, questo 8 marzo, sarebbe bello mettere in luce la figura coraggiosa di Nora Scheidegger, classe 1987, la giovane giurista esperta di diritto penale svizzero che cinque anni or sono, attraverso il suo lavoro di dottorato, è riuscita a dare una sferzata a un dibattito politico che nel delicato ambito delle infrazioni contro l’integrità sessuale languiva in modo scandaloso.

Lo possiamo dire senza remore né tema di smentite: in materia di infrazioni contro l’integrità sessuale la Svizzera rappresenta un fanalino di coda rispetto a molti altri Paesi europei, e per dimostrarlo non occorre andare lontano. Le cronache giudiziarie degli ultimi mesi ci hanno offerto una serie di verdetti assai discutibili e di portata tale da suscitare boati di indignazione da parte di migliaia di donne da un lato all’altro del Paese. Nel suo lavoro di dottorato Nora Scheidegger è riuscita a mettere in evidenza quei «vuoti» giuridici che non permettono a

MONDO MIGROS

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CULTURA

Quodlibet pubblica per la prima volta il carteggio integrale tra Goethe e Schiller, spiriti affini

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molte vittime di essere tali, e sebbene affermi di essere stata aiutata dalla concomitanza con l’evoluzione del movimento Me Too o la petizione lanciata da Amnesty International nel maggio dello scorso anno, è grazie a lei se oggi discutiamo se sia meglio la soluzione «solo un sì è un sì», oppure, come auspicano le fasce più moderate e caute, «no è no».

Ma Nora Scheidegger, con la sua lucida analisi della società, e consapevole di come attraverso il solo quadro giuridico sia impossibile far fronte alle esigenze di tutte le vittime, si appella anche alla cosiddetta giustizia riparativa, un processo interpersonale da svolgersi al di là delle aule di tribunale, ma che permetta e favorisca l’interazione tra vittima e abusatore, finalizzata alla ricerca di una soluzione condivisibile. La proposta di Scheidegger rappresenta una modalità innovativa per la costruzione di un assetto sociale più solido e consapevole. Una trentacinquenne con idee tanto chiare e nuove non può che farci ben sperare, ed è un bel regalo per l’8 marzo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione 10
Francesca Mannocchi Pagina
AFP

SOCIETÀ

I ragazzi e il loro rapporto con il digitale Intervista alla psicologa e psicoterapeuta Loredana Cirillo coautrice di Figli di internet, una guida che aiuta i genitori ad accompagnare gli adolescenti nel rapporto con la rete

L’ultimo ballo di Germain

Pro Senectute Ticino e Moesano ha affrontato temi legati all’autodeterminazione e al lutto nella terza età attraverso la proiezione del film Last Dance

Le numerose virtù degli introversi

Psicologia ◆ Lo scorso gennaio è morto Luigi Anepeta, psichiatra e autore di diversi testi con i quali ha contribuito alla «rivalutazione» delle persone timide e silenziose

Timido; silenzioso; chiuso nel mondo dei sentimenti e della fantasia; diffidente; ostile. Queste sono alcune definizioni che i dizionari danno della parola «introverso». Carl Jung è stato il primo a individuare le caratteristiche degli introversi poco più di cento anni fa e nel farlo ha usato parole gentili. Lo psicologo e psichiatra svizzero, nell’opera del 1921 intitolata Tipi psicologici, li ha descritti come «rivolti verso il proprio mondo interiore». Nonostante una parte della psicologia abbia cercato di capirli e difenderli, contro di loro permane ancora una serie di pregiudizi. Come racconta Susan Cain, introversa dichiarata e autrice americana del bestseller Quiet: Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare (Bompiani) –sul tema, in rete, c’è un suo Ted Talk con 32 milioni e mezzo circa di visualizzazioni – la scuola e il mondo del lavoro svalutano l’introversione, essendo organizzati prevalentemente per gli estroversi (intesi come persone aperte, socievoli ed espansive). Inoltre, il sistema di credenze attuale non solo preferisce chi si mette in mostra senza ombra di timidezza, sul modello degli influencer, ma poggia anche sull’idea che la creatività e la produt-

tività nascano soprattutto in luoghi fortemente gregari. Rispetto ai ruoli di responsabilità e comando, inoltre, gli introversi sono spesso ignorati mentre, secondo diversi studi, sarebbero più attenti degli estroversi e più capaci di valutare e gestire i rischi.

Lo scorso gennaio è morto, a ottantun anni, Luigi Anepeta, psichiatra critico, esperto in psicoterapia dinamica, autore di diversi testi – tra questi: Timido, docile, ardente. Manuale per capire ed accettare valori e limiti dell’introversione (propria o altrui) (FrancoAngeli) – con i quali ha contribuito alla «rivalutazione» delle persone introverse. «Luigi Anepeta era un uomo intelligentissimo e generoso. Con gli anni divenne sempre più solitario e riservato, incarnando alla perfezione il prototipo dell’introverso, nella variante del “sapiente” ritirato dal mondo» ricorda lo psicologo Nicola Ghezzani (tra le sue pubblicazioni, Il dramma delle persone sensibili. Sensibilità, empatia e disagio psichico per FrancoAngeli). Per quasi cinquant’anni legato ad Anepeta che è stato il suo maestro di psicoterapia, Ghezzani lo paragona a celebri filosofi e scienziati introversi come Eraclito, Lao Tzu, Leonardo da Vinci,

Charles Darwin, Friedrich Nietzsche e Albert Einstein. Nel ripercorrere il suo pensiero, Ghezzani spiega che, a differenza di quanto sosteneva Jung che divideva la popolazione mondiale a metà tra introversi ed estroversi, «sul piano biologico gli introversi sono in realtà solo una piccola parte, tra il cinque e il dieci per cento».

Perché le persone introverse tendono a preferire la compagnia di un libro a quella di altre persone (salvo eccezioni), provano insofferenza per gli small talks, cioè le chiacchiere di circostanza, detestano i luoghi affollati e se ne stanno in disparte mentre gli estroversi tengono banco? Non è per maleducazione né per snobismo. La parola chiave è «neotenia», termine tecnico con cui si intende il prolungamento di alcuni aspetti della fase infantile nell’età adulta. Gli introversi «estremizzano» questo tratto evoluzionistico restando «cuccioli affettivi, emotivi e creativi per tutta la vita». Il pensiero di Anepeta coincide in parte con quello della psicologa americana Elaine Aron che ha coniato la definizione di «persone altamente sensibili» rintracciando queste quattro caratteristiche: profondità di elaborazione; eccessiva stimolazione; reattività emo-

tiva ed empatia; sensitività alle sottigliezze. «Chi è introverso è altamente sensibile e capace di connessioni complesse e astrazioni intellettuali» chiarisce Ghezzani. «Il tratto neotenico fa sì che sia sempre in fase di sviluppo e di apprendimento, che non smetta mai di maturare il suo potenziale mentale. Gli esseri umani mediamente dotati raggiungono, tra i venticinque e i trent’anni, un assetto di personalità destinato a restare invariato per il resto della vita. L’introverso invece evolve con tempi molto più lenti, ma con una progressione che dura fino alla morte. In nome della sua complessità mentale e dell’attività di riflessione sistematica, va spesso incontro a crisi evolutive e a straordinari salti di qualità anche in età matura».

L’attitudine a stare per conto proprio si può manifestare fin dall’infanzia. Come sosteneva Anepeta molti bambini sono «naturalmente introversi» e soffrono quando vengono gettati all’improvviso in contesti ricchi di frastuono. Occorre lasciare loro la possibilità di non omologarsi a forza. Anni fa è nata la «Lega degli introversi» che ha raccolto diverse testimonianze, mostrando la fortuna di chi è cresciuto in famiglie capaci di

Spesso gli introversi sono persone altamente sensibili e la loro attitudine a stare per conto proprio si manifesta fin dall’infanzia.

assecondare l’indole dei figli già dalla tenera età.

«Essere la persona più loquace in un certo contesto, ad esempio durante una riunione, può essere un buon modo per attirare l’attenzione degli altri, ma non significa necessariamente avere le idee migliori» ricorda Friederike Fabritius. In qualità di neuroscienziata, Fabritius ha lavorato con grandi aziende internazionali su come attrarre e trattenere i migliori talenti, scoprendo che i capi tendono a favorire gli estroversi. E ha creato una breve vademecum per creare un ambiente di lavoro adatto a tutti. Tra le regole c’è quella del rispetto dei confini con gli altri: possono servire fino a ventitré minuti per ritrovare la concentrazione dopo essere stati interrotti e quindi è bene non aspettarsi risposte immediate alle e-mail, su WhatsApp o sulle altre app di messaggistica. Un’altra buona pratica è quella di accorciare le riunioni perché, come si può intuire, gli introversi non amano i meeting e magari preferiscono mandare e-mail invece di fare delle video call. Infine, il rispetto della privacy: gli estroversi amano vedere sempre tutti, ma gli introversi hanno bisogno di uno spazio più silenzioso e tranquillo.

● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
(Pixabay) Stefania Prandi Pagina 7 Pagina 6

Il malumore di chi difende gli inquilini

Alloggio

Dare i numeri, a volte, è più utile e convincente di tante parole. Le pigioni in Svizzera, dal 2005 al 2022, sono aumentate del 22%, mentre il costo della vita solo del 7%. Sono dati dell’Ufficio federale di statistica. Un’altra fonte, il portale immobiliare Homegate.ch, in collaborazione con la Banca cantonale di Zurigo, indica che lo scorso anno gli affitti sono aumentati in media in Svizzera del 3% circa. In Ticino del 2%, nei Grigioni del 6,7%. A Lugano del 5,3%, seconda solo a Zurigo. Un terzo rilievo, proposto da Swiss Life sostiene che saranno gli affitti a spingere verso l’alto l’inflazione in Svizzera, soprattutto nella seconda parte di quest’anno.

Insomma, prendiamo pure con le pinze i dati, ma l’indicazione è chiara: gli inquilini sono spremuti come limoni e subiscono aumenti squilibrati degli affitti rispetto al costo della vita, per non parlare degli stipendi, che sono fermi al palo, o quasi.

Il presidente dell’Associazione svizzera degli inquilini (ASI), Carlo Sommaruga, denuncia questa situazione: «Per gli inquilini le pigioni pesano in maniera sproporzionata rispetto alle entrate. In particolare, per le famiglie a basso reddito, si sono ormai raggiunti i limiti sopportabili». L’Associazione sostiene che la situazione è grave e che il Consiglio federale e il Parlamento devono agire introducendo un controllo effettivo delle pigioni.

Vale la pena ricordare che la nostra Costituzione federale si preoccupa degli inquilini. L’articolo 41 afferma infatti che: «Confederazione e Cantoni si adoperano affinché ognuno possa trovare, per sé stesso e la sua famiglia, un’abitazione adeguata a condizioni sopportabili». L’articolo 108 sancisce perfino che «la Confederazione promuove in particolare l’acquisto e l’attrezzatura dei terreni per la costruzione di abitazioni, la razionalizzazione dell’edilizia abitativa, la riduzione del prezzo della costruzione di abitazioni e la riduzione dei costi abitativi». Libro dei sogni?

Adriano Venuti, presidente dell’Associazione inquilini della Svizzera italiana, ci dice che «manca un’of-

ferta immobiliare alla portata di tutti. Direi che il mandato costituzionale non è pienamente soddisfatto. A livello federale bisognerebbe rinforzare il diritto di locazione in modo da renderlo più vicino ai bisogni delle inquiline e degli inquilini che rappresentano la parte debole in un contratto di locazione. Bisognerebbe anche spingere i comuni a pianificare meglio il territorio destinando una certa parte dei terreni edificabili alle abitazioni a prezzi accessibili».

In Ticino l’associazione che difende gli interessi degli inquilini è nata poco più di cinquant’anni fa, nell’estate del 1972. Come è cambiata la situazione in questi anni? «Non è cambiata di molto, – precisa Venuti – sono diversi gli inquilini, ma la situazione è identica. Le nuove generazioni sono confrontate con gli stessi problemi. Il primo numero della nostra rivista “Inquilini uniti”, nel 1972, presentava l’elenco dei temi caldi di quel tempo e sono gli stessi di adesso. Dieci anni fa c’era il fenomeno delle disdette vendita molto più marcato. Palazzi vecchi che venivano svuotati per ristrutturazione e riaffittati a prezzi molto più alti. Le disdette ci sono ancora, ma meno frequenti. L’ultimo esempio particolarmente eclatante è quello del palazzo Carpano a Chiasso. Attualmente la casistica è cambiata. Si è costruito molto, edifici nuovi, di migliore qualità, anche di standing elevato, cosa che può avere anche aspetti positivi, ma che fa lievitare i costi. E ciò si ripercuote pure sugli alloggi esistenti, anche più vecchi, che stanno nelle zone dei nuovi edifici: tutti gli affitti aumentano perché il quartiere è diventato più attraente. Rispetto al resto della Svizzera in Ticino le pigioni sono, in media, più basse. Però sappiamo che i salari sono, indicativamente, del 23% inferiori rispetto alla media nazionale». In queste condizioni è evidente che giovani famiglie, anziani, studenti e lavoratori a medio e basso reddito facciano fatica a sbarcare il lunario.

Gli affiliati all’ASI della Svizzera italiana sono circa 6600. Ogni anno sono migliaia le consulenze offerte a chi ha problemi o contrasti con i proprietari delle abitazioni. L’anno scor-

so, per esempio, 590 casi per disdetta dell’inquilino, 718 per difetti dell’abitazione, 555 per questioni relative al subentrante, 263 per la riduzione della pigione, 387 per pretese relative a danni, solo 38 per contestare l’aumento dell’affitto.

È possibile contestare le pigioni e riuscire a farle abbassare? «È difficile, anche se vale la pena contrattare. –spiega Adriano Venuti – Posso citare il mio caso, recente. Discutendo con il proprietario dell’abitazione siamo riusciti a ottenere una riduzione della pigione. Ci è stato proposto un contratto più lungo di quanto previsto in cambio di un affitto più basso. Però non funziona sempre così, anzi è piuttosto raro. In particolare, se la casa appartiene a una società o a un investitore istituzionale, non si riesce a contrattare perché non ci sono contatti diretti con il proprietario. C’è la possibilità di contestare la pigione iniziale, subito dopo aver firmato il contratto, ma è una procedura piuttosto complicata. La proposta della nostra Associazione di introdurre un obbligo di presentare al nuovo locatore un formulario che indicasse la pigione precedente è stata bocciata in votazione. Anche a livello federale abbiamo chiesto di introdurre controlli regolari dello stato degli affitti, ma senza successo. Ora stiamo valutando la possibilità di lanciare un’iniziativa federale su questo tema, vale a dire che le pigioni vengano controllate periodicamente».

Tre anni fa, nel febbraio del 2020, il popolo svizzero è stato chiamato alle urne per esprimersi sull’iniziativa popolare «Più abitazioni a prezzi accessibili». Si chiedeva che la Confederazione e i Cantoni promuovessero maggiormente l’offerta di alloggi in

locazione a prezzi moderati. Almeno il 10 per cento delle nuove abitazioni costruite in Svizzera avrebbero dovuto appartenere a committenti di utilità pubblica, di regola si tratta di cooperative edilizie. La proposta è stata bocciata a livello nazionale dal 57,1% dei votanti. Anche in Ticino l’iniziativa è stata sconfitta anche se in misura leggermente inferiore (55,4% di no).

Fa specie che un Paese con una maggioranza di inquilini, 57,8% nella Confederazione, non riesca a sostenere proposte a loro favore. Forse anche perché fra gli inquilini meno abbienti ci sono molti stranieri.

La legge federale sulla promozione dell’alloggio è in vigore dal 2003 e dovrebbe permettere alla Confederazione di incoraggiare la costruzione o la ristrutturazione di abitazioni in affitto per famiglie a basso reddito e di utilità pubblica. Vengono investiti milioni di franchi ma l’impatto sul mercato non sembra essere efficace. Per migliorare la condizione degli inquilini va riformato il diritto di locazione, che finora favorisce le casse pensioni e i locatori istituzionali, come evidenzia uno studio dell’Ufficio federale delle abitazioni (UFAB). Solo nel 2021, indica l’UFAB, sono stati depositati in Parlamento undici tra iniziative e atti parlamentari che propongono di migliorare la protezione degli inquilini, ma non sono ancora stati trattati dalla Camera.

In Ticino la situazione non è migliore. Dal 2009 comincia la storia del Piano cantonale dell’alloggio, sulla spinta di una petizione dell’Associazione svizzera degli inquilini e di una mozione parlamentare. L’obiettivo è quello di promuovere e incrementare il parco di alloggi a pigione

sostenibile, coordinando gli interventi del Cantone e dei Comuni. Per ora il Consiglio di Stato ha deciso di dare mandato alla SUPSI per la creazione di un Centro di competenza cantonale dell’alloggio. Siamo ancora nell’ambito dello studio e non si vedono misure concrete di intervento nel mercato immobiliare.

Il Consiglio federale, in occasione della votazione di tre anni fa su «Più abitazioni a prezzi accessibili», ha ammesso che «in alcune regioni è effettivamente difficile trovare un’abitazione adeguata», però lascia al mercato la gestione del settore immobiliare e quindi gli inquilini devono fare i conti con pigioni sempre più care. Per gli anziani meno abbienti, o diciamo pure poveri, il costo della casa può raggiungere il 45% del reddito disponibile. Per le economie domestiche la quota di pigione netta, senza spese accessorie, si situa attorno al 22% del reddito. Per le fasce più deboli economicamente può rappresentare in media circa il 35% delle entrate.

Ancora due osservazioni che riguardano le storture del libero mercato. Anche di fronte a un numero elevato di appartamenti sfitti, come in Ticino fino allo scorso anno, le pigioni non diminuiscono. I grandi investitori, per esempio le casse pensioni, preferiscono tener vuota l’abitazione piuttosto che ridurre il canone. Anche le variazioni del tasso ipotecario di riferimento, fissato dall’Ufficio federale dell’abitazione, non si ripercuotono sempre sulla pigione. Quando il tasso aumenta, gli affitti vengono tendenzialmente corretti verso l’alto. Quando diminuisce, le pigioni restano congelate. Due modalità che penalizzano sempre gli inquilini.

Appello ai soci della Cooperativa Migros Ticino

Care socie e cari soci, a luglio 2024 due membri del Consiglio di amministrazione della Cooperativa Migros Ticino lasceranno la carica, a seguito del raggiungimento della durata massima del mandato (Statuto, art. 22, cpv. 2).

Il Consiglio di amministrazione e il Consiglio di cooperativa hanno perciò deciso di indire un’elezione suppletiva, con l’obiettivo di portare da 5 a 7 il nu-

mero dei membri del Consiglio di amministrazione per il resto del periodo legislativo (dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024). Nel corso della tredicesima settimana che segue questo avviso, avrà dunque luogo l’elezione suppletiva di due nuovi membri del Consiglio di amministrazione.

Le elezioni si svolgeranno secondo le disposizioni dello Statuto del 4 giugno 2022 e del Regolamento per votazioni,

elezioni e iniziative del 4 giugno 2022. Quali soci potete consultare questi documenti (presentando la vostra quota sociale o la tessera di socio) in tutti i punti vendita nonché presso la sede della Cooperativa a Sant’Antonino.

In applicazione dell’art. 30 dello Statuto, il Consiglio di amministrazione ha nominato un Ufficio elettorale, al quale i soci della Cooperativa possono presentare proposte elettora-

li, entro il 25 marzo 2023, conformemente alle disposizioni previste dallo Statuto (art. 35) e del Regolamento (art. 27). L’Ufficio elettorale, chiamato a sorvegliare lo svolgimento dello scrutinio, è così composto:

• avv. Filippo Gianoni, Bellinzona, presidente;

• Myrto Fedeli, Cadenazzo, vicepresidente;

• Edy Barri, S. Antonino, membro;

• Roberto Bozzini, Giubiasco, membro;

• Pasquale Branca, Giubiasco, membro.

Le proposte elettorali e tutta la corrispondenza destinata all’Ufficio elettorale devono essere indirizzate al suo presidente. Sant’Antonino, 6 marzo 2023

Cooperativa Migros Ticino

Il Consiglio di amministrazione

● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
◆ In Svizzera la maggioranza della popolazione vive in case d’affitto e le pigioni aumentano tre volte più del costo della vita
Secondo l’Ufficio federale delle abitazioni (UFAB) in Svizzera solo nel 2021 sono stati depositati in Parlamento undici tra iniziative e atti che propongono di migliorare la protezione degli inquilini. (Keystone)

Una borsa di vitamine super vantaggiosa

Attualità ◆ Questa settimana puoi riempire a piacimento un sacchetto di verdure per ratatouille a un prezzo speciale

Specialità provenzale originaria di Nizza, la ratatouille è una pietanza che porta in tavola i colori e i sapori delle verdure mediterranee per creare un contorno o un piatto forte che delizierà tutti i commensali, vegetariani e vegani compresi. La ricetta classica, facile e veloce da preparare, composta da peperoni, zucchine, melanzane, pomodori e cipolle, si distingue anche per la ricchezza di vitamine, sali minerali e altre sostanze vitali importanti per rafforzare il nostro sistema immunitario.

Disponibile in svariate tonalità e varietà, il peperone ha una consistenza morbida e un sapore dolce e fruttato. Si consuma crudo in insalata o con una salsina dip, ma sprigiona al meglio il suo aroma nei piatti caldi.

La zucchina è tra le verdure più amate durante tutto l’anno, di produzione indigena da maggio a ottobre. Molto versatile, si presta bene per ricette in padella, alla griglia, al forno o anche a crudo.

Buoni per natura

Novità ◆ Due nuove golose varietà di biscotti Balocco entrano a far parte dell’assortimento. Dai una svolta alla tua colazione o merenda!

«Più stile al tuo benessere naturale!»: questo è quanto promettono le due novità extra croccanti a marchio Balocco appena arrivate sugli scaffali dei supermercati Migros. L’azienda italiana leader nel settore dolciario propone i biscotti ZeroPiù Crispies di Riso Frumento & Gocce di Cioccolato e ZeroPiù 7 Cereali & Corn Flakes, con Zero Zuccheri Aggiunti e Ricchi di Fibre per contribuire alla tua alimentazione varia e equilibrata. Oltre a essere buoni per il tuo benessere, i frollini ZeroPiù Balocco sono anche buoni per la natura: sono pro-

dotti con energia elettrica proveniente dal proprio impianto fotovoltaico e da altre fonti rinnovabili, mentre le confezioni sono realizzate in cartoncino certificato FSC, per una gestione responsabile delle foreste. All’interno dell’astuccio sono contenute sei porzioni salva-fragranza da sei biscotti l’una, ideali per un consumo on-thego. Infine, ricordiamo che Migros Ticino offre anche altri apprezzati prodotti dolciari Balocco nei suoi negozi, vale a dire Girandole, Novellini, Bastoncini, Amaretti, Savoiardi e Sfogliatine.

Ortaggio originario dell’India ma oggi apprezzato e coltivato in tutto il mondo, la melanzana si caratterizza per la sua buccia brillante e la polpa bianca dal sapore delicato. Non si presta per il consumo crudo.

Ortaggio numero 1 in assoluto, il pomodoro non ha certo bisogno di troppe presentazioni. Disponibile in moltissime varietà, è apprezzato in molteplici preparazioni cotte o crude, dalle insalate alle salse, dalle zuppe alla griglia.

Ingredienti per 4 persone

• 1 cipolla

• 1 spicchio d’aglio

• 2 peperoni, giallo e rosso

• 1 melanzana

• 2 zucchine

• 3 pomodori

• 2 cucchiai d’olio d’oliva

• ¼ di mazzetto d’origano

• ¼ di mazzetto di timo

• 1 cucchiaino di sale

• pepe

Procedimento

Trita la cipolla e l’aglio. Dimezza i peperoni ed elimina i semi. Taglia a dadini i peperoni, la melanzana, le zucchine e i pomodori. Soffriggi nell’olio la cipolla, l’aglio e la melanzana per ca. 5 minuti. Aggiungi i peperoni e le zucchine e soffriggile con il resto degli ingredienti. Metti il coperchio e lascia sobbollire a fuoco medio per 10-15 minuti. Trita le erbe e uniscile alle verdure insieme con i pomodori. Continua la cottura della ratatouille per ca. 5 minuti. Regola di sale e pepe.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
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Ratatouille almeno 2.4 kg Fr. 7.40 invece di 9.25 dal 7.3 al 13.3.2023
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Una giornata tutta al femminile

Festa della Donna ◆ L’8 marzo è tradizione regalare un bel mazzo di mimose a tutte le donne

Elegante, vitale, luminosa, ma anche messaggera della primavera, non è un caso che fin dalla metà del secolo scorso la mimosa sia stata scelta per simboleggiare la Festa della Donna. Gran parte delle mimose vendute alle nostre latitudini provengono da una delle regioni italiane più importanti per la produzione di piante e fiori, la Riviera dei Fiori ligure, nei pressi della nota città di Sanremo.

Qui, grazie a un clima particolarmente mite e ben soleggiato durante buona parte dell’anno, la pianta ha trovato fin dagli inizi del Novecento le condizioni ideali per crescere rigogliosa. Le specie principalmente coltivate sono quelle con portamento arbustivo o di piccoli alberi, le quali possono raggiungere altezze fino a 8 metri e vivere anche oltre cinquant’anni. Tra queste si può ci-

tare la cultivar Gaulois, molto vigorosa e fiorifera, la cui fioritura inizia a gennaio e si protrae fino a marzo e rappresenta la varietà più affermata e diffusa per la ricorrenza dell’8 marzo. Nei reparti fiori Migros, oltre al classico mazzetto composto di sole mimose, sono disponibili anche alcuni arrangiamenti arricchiti con altri splendidi fiori, nella fattispecie rose e gerbere.

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I figli di internet in una società senza dolore

Famiglia ◆ Intervista alla psicologa Loredana Cirillo coautrice di una guida che aiuta i genitori ad accompagnare gli adolescenti nel loro rapporto con il digitale e le tecnologie

«Figli di internet» sono i ragazzi di oggi che si trovano a diventare grandi in un mondo onlife, caratterizzato dall’assenza di una distinzione netta tra reale e virtuale. Una situazione distante da quella vissuta dai loro genitori, per i quali risulta di tanto in tanto utile soffermarsi sulle questioni relative al rapporto tra i propri figli e le nuove tecnologie.

Di queste tematiche abbiamo parlato con Loredana Cirillo, psicologa e psicoterapeuta, socia dell’istituto Minotauro di Milano. Cirillo svolge attività clinica, di prevenzione e formazione relativa al disagio evolutivo ed è autrice di numerose pubblicazioni, tra cui citiamo l’ultima, scritta a quattro mani con Matteo Lancini, che si intitola proprio Figli di internet Come aiutarli a crescere tra narcisismo, sexting, cyberbullismo e ritiro sociale (Erickson, 2022).

Signora Cirillo, come è nata questa «giuda illustrata di auto aiuto»?

Si tratta di un «manuale di istruzioni per l’uso», che parte, almeno parzialmente, dalla richiesta fattaci da genitori ed editori. In realtà il libro è un «contro-prontuario», nel senso che le «regole» sono quelle dell’inquadrare i nuovi adolescenti e il contesto in cui vivono, per poi capire che la questione non si limita ai rischi che corrono in rete e ai pericoli dai quali li dobbiamo proteggere, ma va incentrata sul fatto che dobbiamo aiutarci e aiutare i nostri ragazzi a capire quali sono i drammi che li attraversano. Più che attraverso l’imposizione di limiti e il controllo delle azioni, la strada da percorrere passa per la comprensione e l’identificazione, che promuovono nei ragazzi comportamenti ragionevoli, rispettosi di sé e dell’altro.

Quali sono i principali elementi che contraddistinguono i «figli di internet» rispetto ai ragazzi della precedente generazione?

Sono precoci, precocizzati e accelerati da uno sguardo adulto collettivo; con ciò non voglio colpevolizzare genitori, insegnanti o altre categorie

di persone, ma riferirmi a un processo che concerne tutti nell’ambito del quale consegniamo ai ragazzi il mondo, chiedendo loro di essere autonomi e indipendenti, oltre misura.

Sono cambiate le aspettative nei confronti dei nostri ragazzi?

Se prima dai ragazzi i genitori si aspettavano che diventassero dei buoni cittadini, normati e obbedienti, oggi gli si chiede di esprimere sé stessi ma di farlo «a modo nostro». Una contraddizione dentro la quale loro fanno fatica a trovare la strada. La confusione è aumentata dal fatto che li riempiamo di aspettative ideali di realizzazione di sé, pensiamo a cosa sia giusto per loro e diventiamo registi di ogni loro attività. In questo modo stentano a capire chi sono davvero e che cosa vogliono, con la conseguenza che oltre che confusi, sono fragili e molto relazionali.

Come si sentono questi ragazzi nei confronti dei propri genitori?

Oggi i figli non si fanno più «per dovere» ma per amore e, per via del rapporto forte e intenso che da ciò ne deriva, i ragazzi si fanno molto carico dei genitori. Concretamente, pur

di non angosciarli si silenziano, non trasgrediscono, non fanno contestazioni, né politica attiva, scegliendo di farsi del male piuttosto che attaccare altri, i genitori, gli spazi. Hanno trasformato il modo di essere nel mondo e la relazione con i genitori nel nostro complesso sistema che non è più neanche narcisistico come si diceva qualche anno fa.

Cosa intende?

Riprendendo il tema delle aspettative, qualche anno fa si sosteneva che il problema stesse nel fatto che i ragazzi cadevano perché le spinte erano troppo forti e non erano in grado di sostenerle. Oggi non sono sempre le aspettative grandiose quelle con cui devono fare i conti ma piuttosto lo stato di confusione di cui parlavamo dovuto al fatto di dover essere come vogliono i genitori (in una modalità che però non è ben chiara) e, soprattutto, di non dover creare problemi, non soffrire, non appesantire. Gli si chiede di stare bene. Ma nella vita non si può stare sempre bene.

Come motiva questo cambiamento dei genitori? È dovuto al fatto che i genitori di

fronte a un problema vanno in una forte angoscia che paralizza la possibilità di stare vicini. Questo anche perché pensano di dover offrire una soluzione a ogni problema, mentre in realtà la cosa più difficile è «stare nel problema», ascoltare ed essere disposti a sentire il dolore dell’altro, a riconoscere le fragilità. È come se si fosse persa questa possibilità, con la conseguenza che i ragazzi dentro hanno dei dolori, delle fatiche, delle sofferenze che non riescono a chiarire perché fin dall’infanzia non hanno potuto parlarne. E questo crea problemi durante la crescita, dal momento che i ragazzi non hanno modo di integrare le fragilità, i dolori, gli inciampi nella costruzione di sé.

Abbiamo creato una società senza dolore e i social ne sono una chiara rappresentazione, poiché sono il luogo in cui è presentabile solo la parte migliore di sé; il difetto e la difficoltà non devono esistere.

Quali sono le principali criticità riguardo all’uso della rete da parte dei giovani? Una delle criticità sta nel fatto che viviamo in un mondo iper connesso, dove il confine tra virtuale e reale non è più possibile da delimitare. Abbiamo chiesto ai nostri figli di silenziarsi e rifugiarsi nella rete, gli abbiamo chiesto di lenire le nostre angosce di fronte a separazione e autonomia dandogli in mano un cellulare in età sempre più precoce. Un altro elemento di criticità coincide con la complessità del nuovo sistema organizzativo familiare e sociale, nel quale il dispositivo, nello specifico il cellulare, diventa uno strumento dove convergono le attenzioni dei genitori sul comportamento che i figli assumono in rete, dimenticandosi che questo dipende anche dal loro benessere o malessere. Quali sono le cose che cercano online o come si muovono nelle relazioni virtuali parla di loro. Quindi, quando arriva l’adolescenza bisogna impegnarsi a mantenere un canale aperto; chiedere «come va la vita online?» piuttosto che

rincorrere il tema dei divieti e delle limitazioni, con il quale i genitori cercano di semplificare una questione che in realtà è complessa.

Ce la illustri…

Tutti da adulti riteniamo che il virtuale sia una risorsa fondamentale per lavorare e stare nelle relazioni. In questa realtà, proteggere i figli dai pericoli della rete è possibile fino a un certo punto. Possiamo applicare filtri e controlli e ritardare il più possibile l’accesso, ma prima o poi la questione ci tocca. E a quel punto è come se dovessimo rieducarci ad annettere nel bilancio di crescita dei nostri figli la vita online. Cosa guardano, perché lo guardano e soprattutto chiedere loro come stanno piuttosto che litigare sui pericoli e sui malefici della rete. Se vediamo che il ragazzo è troppo rifugiato in internet non dobbiamo prendercela con il dispositivo ma capire come mai si sta chiudendo in quel mondo e fa fatica a relazionarsi e a impegnarsi nelle cose della vita reale.

Quali altri consigli si sente di dare ai genitori per aiutare i propri figli a crescere nell’era digitale?

Alla classica domanda «com’è andata oggi?» non diamo per scontato che «bene» sia sempre la risposta giusta. Capita, infatti, che sia andato male qualcosa e i ragazzi non lo dicano, né a sé stessi né a noi. Se c’è qualcosa, lo dobbiamo scovare, dobbiamo aiutarli a farci sentire abbastanza forti per poterlo tollerare. Non dobbiamo aver paura di affrontare i temi della sofferenza, anche della morte, come pensiero che può invadere la mente e a volte anche apparire come una drammatica soluzione all’esistenza. Non dobbiamo banalizzare i segnali di disagio o tristezza, magari per paura che soffermandoci su quelli li fomentiamo. Sono purtroppo tanti i ragazzi che portano carichi di sofferenza troppo pesanti per le loro spalle e hanno bisogno non che l’adulto glieli tolga – perché piccoli o grandi inciampi fanno parte della vita – ma che li aiuti a sostenerli.

Viale dei ciliegi di

Una casa

Castoro (Da 2 anni)

La lettura che l’adulto fa di un libro al bambino piccolo è sempre una lettura dialogica, condivisa. Non è mai una lettura frontale, filata, dalla prima all’ultima parola. Perché ciò che il bambino piccolo incontra e vive nella lettura di un libro è prima di tutto una relazione: io racconto a te che mi ascolti, e tu rispondi, reagisci, con piccole parole, associazioni, riverberi emotivi, o anche solo con un ditino che indica, e mi racconti a tua volta. L’adulto amplia, commenta, fa riferimento all’esperienza del bambino. Domanda, sostiene, incoraggia i suoi interventi. Non giudica, ripete ed espande. Semplicemente è lì, nel momento magico e gratuito del qui e ora, insieme al bambino. La lettura di un libro è un momento di presenza profonda, di incontro e di conversazione. L’albo di Kevin Henkes Una casa, nella sua semplicità, esplicita proprio questa modalità di lettura dialogica,

che peraltro viene spontanea a ogni adulto che si pone pienamente in relazione con il bambino durante la lettura: guarda! Quanta neve! Dove sono le pozzanghere? Cosa fa il gattino?

L’autore ci presenta una casa, semplicemente una casa, nei cambiamenti delle ore del giorno, e delle condizioni del tempo: giorno, notte, pioggia, sole, neve. La casa è sempre dentro un riquadro, come una cornice che si staglia con pacatezza sullo sfondo a colori tenui di ogni pagina. Come nei primi libri deve essere, i contorni so-

no nitidi, evidenti. Non ci sono troppi elementi ad affollare le immagini, ma solo quelli che servono, quelli su cui la conversazione si porta: «Dov’è la porta? Che colore ha?», «Dove sono le nuvole? Qual è la più piccola?»… E nelle ultime pagine la casa si anima di presenze vitali: persone (grandi e piccine) e animaletti che tornano a casa. Nel calore e nella protezione della loro casa.

Che cos’è il tempo?

Terre di Mezzo (Da 4 anni)

Che cos’è il tempo, che grande domanda. Una domanda che impegna i filosofi, sin dall’antichità. Ma se la filosofia nasce, come affermava Platone, dal senso di «meraviglia», sono proprio i bambini i primi filosofi, perché sono loro che più di tutti sanno meravigliarsi per le cose del mondo. È dal loro stupore che nascono le grandi domande, tra cui, appunto, cos’è il tempo? E allora forse l’unico modo per provare a rispondere è farlo

con un linguaggio più poetico e simbolico che concettuale: un linguaggio di metafore, che va dritto al senso del concetto. Sempre i greci sottolineavano il valore euristico della metafora: mettere insieme due termini tra loro lontani li illumina entrambi di senso e fa scattare la conoscenza.

«La metafora porta l’oggetto sotto gli occhi», scrive Aristotele nella Retorica. Questo albo scritto e illustrato dall’autrice canadese Julie Morstad parla del tempo principalmente attraverso metafore, a cominciare dal

titolo, che nell’originale non è una domanda ma un’affermazione metaforica, appunto: Time is a flower. Ma il tempo non è solo un fiore, può essere anche un albero, che cresce come cresci tu, o una ragnatela intessuta con delicatezza, una farfalla che prima era un bruco, il tempo è un ricordo, è il pane che lievita, sono i tuoi capelli che crescono, il tuo dentino che dondola. E tante altre cose, tutte legate all’esperienza dei più piccini. Nella natura, nel proprio corpo, nelle proprie emozioni. E quando le domande si fanno troppo vertiginose (il tempo è una linea? O forse un cerchio?), che bello mettere un limite e tornare alla saggezza pratica e confortante delle piccole cose quotidiane, che sono quelle che in fondo più contano: «Non lo so, ma ora… è pronta la cena!». Perfetta la chiusura sulle mani di un adulto che porgono alla bimba un piatto fumante: oltre al nutrimento spirituale c’è il nutrimento letterale, il cibo preparato, prima forma di accudimento e di amore.

6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
La psicologa e psicoterapeuta Loredana Cirillo è socia dell’istituto Minotauro di Milano.

Quando il tempo è a misura dei propri desideri

Anziani ◆ Con la proiezione del

Last Dance Pro Senectute Ticino e Moesano ha affrontato temi importanti per la terza età come l’autodeterminazione, l’elaborazione del lutto e i rapporti intergenerazionali. Ne parliamo con la psicologa Francesca

Ravera

«Mi piacerebbe cenare con gli amici», «Gradirei potermi alzare quando voglio», «Amo viaggiare e spero di continuare a farlo», «Desidero maggiori momenti in compagnia». Sono queste alcune aspirazioni personali che i partecipanti alle proiezioni del film

Last Dance organizzate da Pro Senectute Ticino e Moesano in tre località del cantone – Massagno, Mendrisio e Acquarossa – hanno espresso a fine visione. Desideri e pensieri rivolti al futuro sono stati scritti sul foglietto adesivo distribuito all’inizio dell’incontro. Con questa iniziativa l’organizzazione che opera a favore degli anziani ha voluto offrire a questa fascia di popolazione una nuova esperienza di condivisione del proprio bisogno di autodeterminazione.

Con la psicologa Francesca Ravera del Servizio promozione qualità di vita di Pro Senectute Ticino e Moesano abbiamo approfondito questa e altre tematiche che il film ha il pregio di affrontare con sensibilità e ironia.

Last Dance della regista svizzera Delphine Lehericey – vincitore del Premio del pubblico al Locarno Film Festival dello scorso anno – è un film che apre nuove prospettive per gli anziani, abbattendo pregiudizi legati all’età, al lutto, al tempo che passa. L’autodeterminazione è il fil rouge della vicenda costruita attorno al protagonista: il tranquillo pensionato Germain. Rimasto repentinamente vedovo, il padre e nonno si dibatte fra due vite, quella delle stringenti premure della famiglia e l’impegno nascosto a tutti nella compagnia di danza contemporanea della ballerina e coreografa La Ribot per onorare una promessa che i coniugi si erano fatti vicendevolmente, ossia portare a termine un progetto nel quale il partner era impegnato. Il personaggio di Germain risulta particolarmente credibile a autentico grazie al fatto che la compagnia di danza è effettivamente esistente e non frutto della finzione. Durante un’ora e mezza si assiste

all’evoluzione della storia accompagnata da una progressiva crescita dei personaggi riuniti in un finale corale.

Per la psicologa Francesca Ravera uno dei pregi del film è proprio quello di mostrare l’evoluzione dei personaggi di fronte al cambiamento generato dalla scomparsa di una donna che è moglie, madre, nonna, ma anche parte integrante di una compagnia di danza contemporanea. Aggiunge la psicologa: «I temi legati all’invecchiamento sviluppati nel film sono quelli che stanno a cuore a Pro Senectute. Fra questi troviamo l’autodeterminazione difesa dal protagonista, ma anche l’elaborazione del lutto, il rispetto delle ultime volontà, i rapporti intergenerazionali e non da ultimo il valore del tempo. Per questo motivo quando è stato visionato all’interno di un gruppo di lavoro cui spetta il compito di valutare le nuove iniziative, è stato ritenuto molto valido, oltre a essere godibile grazie alla leggerezza con la quale presenta temi in realtà fondamentali».

Partiamo quindi dal bisogno di autonomia. Francesca Ravera: «Assieme al piacere di stare in compagnia, l’autodeterminazione è il tema più sentito anche dal pubblico delle tre proiezioni che abbiamo organizzato tra fine gennaio e inizio febbraio. Nel film i figli cercano di organizzare la vita del padre con dei Post-it che si rivelano essere una gabbia per il protagonista. Noi abbiamo voluto trasformarli nell’espressione di una sorta di ribellione, di ciò che la persona, anche se anziana, desidera ancora realizzare. La possibilità di scegliere è essenziale per garantire una buona qualità di vita, ambito di cui si occupa il Servizio per il quale lavoro. Il Servizio promuove queste tematiche tramite formazioni mirate al personale curante e consulenza alle famiglie. Sovente nel settore professionale il mancato rispetto dell’autodeterminazione è dovuto a questioni organizzative o legate al senso di

fatica, mentre i familiari tendono a peccare per un eccesso di protezione. Trovare l’equilibrio tra la necessità di aiutare e proteggere la persona anziana, organizzando alcuni aspetti della sua vita quotidiana, e il suo bisogno di indipendenza è una sfida continua. Si tratta di mediare fra il controllare e il lasciar andare. In ogni caso consigliamo sempre di coinvolgere la persona anziana nelle decisioni che la riguardano evitando di sostituirsi a lei».

Nel film il lutto è vissuto in modo diverso da ogni personaggio. Scelte che vanno comprese e rispettate poiché autentiche. La psicologa precisa che «il lutto è un processo altamente individuale e non esiste un modo giusto o sbagliato di compierlo. L’essenziale è che in questo percorso ognuno possa essere sé stesso come avviene nel film, più emotivo o razionale a dipendenza della propria personalità». In effetti si vede la figlia che libera il dolore piangendo, mentre il figlio si concentra in maniera ossessiva sull’organizzazione della nuova vita del padre. Padre guidato dalle ultime volontà della moglie, da quella

Un dilemma elettrico

promessa che si erano fatti e che lui mantiene sebbene la danza contemporanea non rientri nei suoi interessi. «Assicurare la continuità fra la vita di una persona e ciò che accade dopo la sua scomparsa è un aspetto delicato che tocca non solo questioni pratiche o finanziarie, ma anche i suoi desideri», aggiunge l’intervistata. Elaborare un grave lutto danzando è forse inaspettato, ma per Germain costituisce la via che gli permette di dare continuità alla sua vita dopo la scomparsa della moglie. Smontando un altro preconcetto, nel film la distanza dovuta all’età non tende ad allontanare le generazioni, anzi contribuisce a creare complicità e comprensione. «Le figure della nipote e della ragazza alla quale Germain fornisce sostegno in ambito scolastico – spiega la psicologa – sono più aperte alle scelte personali dell’anziano.

Per Pro Senectute questo aspetto del film è importante, perché mostra come generazioni molto diverse possano essere la chiave di comprensione l’una dell’altra. I figli di Germain, chiusi forse in aspettative troppo convenzionali su come vada vissuto un lutto

Motori ◆ Le emissioni effettive di CO2 rilasciate dipendono anche dall’uso della tecnologia di bordo

In quest’era attenta all’ambiente dove la necessità di diminuire le emissioni di CO2 è fondamentale, par di capire che in Svizzera vengano ancora importate auto che di CO2 ne emettono persino più delle quattroruote vecchie.

In molti si chiedono se sia possibile. In effetti sì, anche se vanno messi i puntini sulle i. Che mediamente le automobili moderne inquinino e consumino meno ogni anno che passa è un dato di fatto. Attenzione però, le automobili ibride ricaricabili in cui un propulsore termico (benzina o diesel) lavora in abbinamento con un motore elettrico vanno valutate bene. Hanno senso se le batterie sono cariche, ovvero se si ha la possibilità di caricarle quotidianamente e magari attraverso energie rinnovabili. Se ciò non fosse possibile, ci si mette al volante di una vettura che è solo più pesante, a causa del doppio motore e del pacco batterie, e che arriva a consumare e inquinare di più. Inoltre anche nelle elet-

triche «pure», le cosiddette full electric, va valutato il ciclo vita nella sua interezza, incluso lo smaltimento delle batterie esauste, per capire la portata inquinante dell’auto.

Ma tornando alla domanda iniziale, pare che a inizio anno alcuni automobilisti abbiano ricevuto una fattura dal Cantone per le targhe dell’auto nuova scoprendo di pagare di più rispetto all’auto precedente. Il motivo? La nuova quattroruote, appena immatricolata, produce più CO2. Lo Stato, dunque, invece di proibirne la circolazione, «tassa e incassa»? Vero, ma fino a un certo punto. La tassazione maggiorata rispetto ad auto meno inquinanti è stata pensata proprio per disincentivarne l’acquisto.

Facciamo un esempio concreto. Il signor Giovanni nel 2019 ha acquistato una vettura ibrida plug-in ovvero ricaricabile alla spina. Nel giro di tre anni si è reso conto che a causa di problemi logistici gli risulta complesso ricaricare le batterie e che alla fine in

realtà consuma e inquina di più, come ipotizzato sopra. Ecco allora che decide di sostituire la sua quattroruote con una alimentata esclusivamente dalla benzina. Chiaramente sulla carta l’auto produrrà emissioni di CO2 superiori a prima e verrà quindi

a quell’età, non riescono inizialmente a cogliere il nuovo pensiero del padre, mentre i giovani sono in grado di accettare con naturalezza lo stravolgimento, diventando la luce che permette tale cambiamento».

Un altro fil rouge del film è, non certo per caso, il lunghissimo romanzo di Proust Alla ricerca del tempo perduto al quale è legato il valore del tempo con particolare attenzione a questa fase della vita. Precisa al riguardo Francesca Ravera: «Il tempo nell’età della saggezza deve essere ricco di una progettualità presente. Va ritrovato con ritmi e aspettative differenti. Ritrovato perché riferito al tempo che ognuno di noi perde nella vita pratica di ogni giorno procrastinando la realizzazione di determinate volontà. Il tempo della terza età è più a misura dei propri desideri. Le persone sono consapevoli di ciò che le fa sentire bene e del fatto che non possono permettersi di rinviare i loro progetti».

Il successo dell’iniziativa di Pro Senectute Ticino e Moesano, con le sale delle tre località prescelte sempre al completo, dimostra l’interesse del pubblico, non necessariamente solo anziano, per questo approccio che abbina un evento ricreativo con una forma di partecipazione. Ogni proiezione è stata seguita da un momento conviviale molto apprezzato dai presenti. Appendendo il Post-it a un tabellone ognuno ha esternato la propria visione della qualità di vita che auspica nel presente e nel futuro, fornendo spunti all’associazione per ulteriori proposte di questo genere. Esplicite le richieste di riproporre appuntamenti analoghi. L’intenzione di Pro Senectute Ticino e Moesano è pure quella di riunire i numerosi foglietti in un poster. Questo affinché gli operatori, attraverso una memoria visiva, continuino a concentrare l’attenzione sulla qualità di vita degli anziani in sintonia con le loro aspirazioni.

Guarda come dondolo

Minispettacoli ◆ Con Giacomo a teatro

tassata maggiormente. La questione che andrebbe chiarita è proprio questa: ci possiamo basare solo sulla carta? Sulle emissioni dichiarate dalle case costruttrici? Corrispondono alla

realtà? No.

Le emissioni di CO2 reali possono essere ben diverse a seconda dell’utilizzo della tecnologia di bordo. In ogni caso, se la direzione presa dal mondo dell’industria automobilistica è quella che sembra, che piaccia o non piaccia, rapidamente stiamo andando incontro alla commercializzazione di automobili esclusivamente elettriche, e a quel punto il problema sarà eliminato all’origine. Non si potrà più scegliere il tipo di motore. Per incentivare questo processo sarebbe il caso, come a volte è stato fatto, di detassare l’acquisto. Perno della trasformazione epocale restano le infrastrutture (domestiche e non) per poter ricaricare le batterie. Perché un’automobile elettrica con le batterie a terra non è nulla più di un soprammobile.

Giacomo dondola quando si annoia, è irrequieto o viene sgridato. Ma, tutti gli dicono, non ci si dondola, perché è pericoloso. Un giorno glielo dice anche Fantine, che è acrobata in un circo. E proprio al circo Giacomo scoprirà che esiste un posto per ognuno di noi. Giacomo e il circo (dai 5 anni), Compagnia Comteatro, con David Bonacina e Cinzia Brogliato, è scritto e diretto da Davide Del Grosso.

Concorso

«Azione» mette in palio 5x2 biglietti per Giacomo e il circo, (19 marzo 2023, ore 16.00, Oratorio di Minusio). Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@ azione.ch (oggetto: «Minispettacoli») entro sabato 11 marzo 2023.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
film
Una scena del film della regista svizzera Delphine Lehericey nel quale il protagonista Germain, per mantenere una promessa fatta alla moglie da poco scomparsa, si ritrova a far parte di una compagnia di danza. (Box Productions) Le automobili elettriche con tutta probabilità saranno la realtà del futuro. (Wikipedia)

Carta, forbice, spasso.

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Approdi e derive

Ripensare il legame con la natura

La catastrofe umanitaria, l’immane tragedia che ha colpito la Turchia e la Siria ci ha lasciati tutti sgomenti. A distanza di qualche settimana, sentimenti e pensieri resi silenziosi, ammutoliti di fronte a tanta sofferenza e distruzione, cominciano a riaffiorare come un invito a ritrovare parole. Le parole sono la casa in cui abitiamo, il luogo comune in cui ciò che accade prende forma e realtà. Le parole di oggi risuonano come un tentativo di riflettere sul significato della nostra vita esposta a queste tragedie. Pur con la delicatezza e la discrezione necessarie per avvicinarsi a una ferita aperta e a una situazione tuttora drammatica, è proprio la violenza di ciò che è accaduto a suggerire qualche pensiero sul nostro rapporto con la natura, sul nostro sentimento di appartenenza, sul nostro modo di abitarla.

Dare parole alla natura significa pensarla. La natura che cerchiamo di conoscere nei suoi segreti, o quella con

Terre Rare

cui percepiamo il legame, a cui sentiamo di appartenere, è da sempre una natura pensata dall’uomo. Per Aristotele la natura non fa nulla invano e mentre la osserva con occhi da scienziato, ne contempla il fine e la bellezza. È la stessa madre-natura cantata dai poeti latini, a proteggerla da possibili violazioni da parte dell’uomo: un organismo vivente che nel Rinascimento si esprime come intrinseco rapporto tra microcosmo e macrocosmo. Ma la natura è anche quella descritta da Francis Bacon nel Seicento: una natura a cui si deve certamente obbedire per scoprirne i segreti con occhi da scienziato, non tanto però per contemplarla, quanto per poterla dominare. Così la natura diventa una risorsa nelle mani dell’uomo e delle sue tecniche.

L’idea ha attraversato la storia del pensiero anche per parlare di noi, per pensare la natura umana. Dalla schiavitù naturale, alla naturale inferiorità delle donne, teorizzate proprio

da Aristotele; dalla natura bellicosa dell’ homo homini lupus di Hobbes, alla naturale socievolezza, che trasforma la guerra di tutti contro tutti in benefica competizione economica; fino alla natura inconscia delle nostre azioni e alla causa naturalistica di sentimenti ed emozioni.

L’idea di natura è stata sempre, nelle sue differenti rappresentazioni, un potente punto di riferimento etico: naturale o contro natura è un criterio decisivo per scegliere le nostre azioni, per giudicarle e soprattutto per legittimarle. La complessità e la polifonia delle rappresentazioni non smettono di interrogarci sul nostro legame con la natura. Oggi nuove visioni, più consapevoli di una comune appartenenza, fanno ben sperare nella capacità di reagire al disastro ecologico di cui siamo in buona parte responsabili. Dall’astronomia alla neurobiologia vegetale, le conoscenze ci parlano di una continuità della natura: ci siamo dentro tutti. Poi però catastrofi come

Il leone spodestato da Instagram

«La televisiun la g’ha na forza da leun», ironizzava Jannacci nel secolo scorso. Osservando il colossale successo riportato dall’ultima edizione del festival di Sanremo in molti si sono stupiti e hanno gridato al miracolo. Finalmente la televisione può tornare a ricoprire un ruolo importante nel consesso dei media da intrattenimento, ecco il modello da seguire… «L’operazione in realtà è stata particolarmente complessa e intelligente: per costruire il palinsesto del programma si è badato a coinvolgere personalità con un larghissimo seguito sui social media, e questo è servito da traino alla trasmissione stessa. Tutto quello che accadeva sul palco, poi ha goduto di un eccezionale rilancio sui canali digitali, e soprattutto su un circuito di canali non istituzionali che fanno di Sanremo una narrazione alternativa ma vincente. Quindi si è tratta-

to di uno spettacolo televisivo sì, ma ampiamente supportato fin dall’inizio dai social». Questa lettura, per noi particolarmente illuminante, ce la fornisce Pablo Creti, Responsabile digitale del Dipartimento cultura e società della nostra RSI. L’azienda mediatica ticinese ha già da tempo attivato tra le sue file una sorta di task force con l’obiettivo di convogliare sui prodotti aziendali l’interesse dei giovani utilizzatori odierni. «Si tratta di un lavoro complesso. Le tendenze ci mostrano che le nuove generazioni fruiscono sempre meno o in maniera diversa dei media tradizionali, il nostro compito è quello di segnare la presenza della rete pubblica sulle principali piattaforme social, che oggi influenzano il mercato: Instagram, TikTok e Youtube». I prodotti principali dell’offerta per i giovani sul web

Le parole dei figli

Skippare più che una Parola dei figli ormai è il gesto con cui loro convivono. Dall’inglese to skip, il significato letterale del verbo è saltare. È facile sentirlo usare da chi ama gli inglesismi in contesti come skippare le pubblicità in un video; nello slang giovanile in frasi del tipo «Esci stasera?», «No, frà. Stasera skippo!»; oppure in situazioni come quando l’adolescente ha una montagna di roba da studiare e quindi decide di skippare i capitoli che gli sembrano irrilevanti, dopodiché invece la prof lo martella di brutto proprio sui capitoli che ha skippato; e ancora quando un amico parla ammorbando con un pippone e il teen che lo ascolta a un certo punto sbotta: «Oh skippa un po’ please!». Ma nell’epoca pane, YouTube e TikTok il termine si è trasformato soprattutto in un gesto in grado di condizionare il loro modo di informarsi, pensa-

re e alla fine essere: è quello che i nostri figli fanno per saltare i contenuti social che non interessano. Basta fare un giro nei commenti sotto i video di YouTube per trovare il riferimento ai secondi di una o più scene ritenute importanti così che gli altri utenti possano cliccare e saltare direttamente lì; e basta scorrere sulla barra dei video per individuare qual è il momento più visto per guardare solo quello: vista la caduta libera della soglia di attenzione dei giovanissimi utenti, sempre più spinti a uno skip selvaggio, eccoli favoriti e accontentati! E su TikTok è tutto uno scrollo continuo: se un video non interessa è immediato il passaggio a quello successivo, ossia skippo e vado oltre.

Ne Il caffè delle mamme abbiamo raccontato più di una volta come funziona l’algoritmo del social più amato dai giovanissimi: chi lo usa non sceglie i

questo violento terremoto ci mettono di fronte a una natura non più addomesticabile dai nostri pensieri né dai nostri racconti. Il devastante movimento delle placche geologiche si sottrae all’idea di una natura da contemplare nella sua bellezza ma, nello stesso tempo, insieme alla vita di tante persone, distrugge anche la nostra pretesa di riuscire a dominarla. La catastrofe è un linguaggio inequivocabile, che inghiotte ogni parola indicando in modo brutale come la natura sappia essere indifferente a ogni nostro modo di percepirla. L’indifferenza è difficile da comprendere perché siamo abituati a considerare le cose o buone o cattive. L’indifferenza ci spiazza, mette in discussione ogni legame. Come la mettiamo allora con il nostro sentimento di appartenenza, con le molteplici rappresentazioni in cui l’abbiamo guardata, dentro e fuori di noi? Dobbiamo riconoscere la sua estraneità al nostro destino di uomini? Dobbiamo per

forza accogliere le conclusioni del biologo Jacques Monod, Nobel per la medicina nel 1965, che ebbero grande risonanza negli anni Settanta del secolo scorso, secondo cui l’uomo è solo, in un universo da cui è emerso per caso?

A me pare che questa indifferenza della natura possa essere letta, al contrario, come un riconoscimento implicito della nostra comune appartenenza. Non ci siamo solo noi nell’universo, dobbiamo condividerlo con la polvere delle stelle e con i movimenti degli abissi. E con tutti gli altri esseri viventi, anche con quel virus che ci ha tanto provati negli ultimi anni, proprio perché anche lui voleva vivere. Pur nel suo manifestarsi più violento, la sua presunta indifferenza non è che il segno, seppur doloroso, del nostro comune stare al mondo; ed è anche un richiamo alle nostre responsabilità nell’abitare un cosmo che non dipende dalla nostra volontà di dominarlo.

sono tre contenitori (con i loro canali) ormai ben rodati. «Abbiamo uno spazio che apre il mattino con una serie di brevi flash informativi, Spam. Poi, tra le varie attività messe in cantiere, si è affermato nel tempo uno spazio dedicato all’umorismo, Barnum. Infine abbiamo Cult+, che propone contenuti informativi culturali con un taglio leggero e moderno». Il lavoro per questa giovane squadra è dunque di intercettare l’interesse delle giovani generazioni, quelle più abituate a nuovi formati, essenzialmente legati all’uso dello smartphone: «Ma non si tratta solo dei giovani. Basta andare una sera al grotto per rendersi conto di come tutte le persone siano collegate costantemente con i social. La piattaforma più utilizzata è sicuramente Instagram, ed è quindi anche quella su cui ci stiamo concentrando noi. TikTok ha un pubblico e un for-

mato molto diversi che non possiamo ignorare, naturalmente, ma i dati ci mostrano come il nostro seguito sia più concentrato su Instagram». Nel caso dei nuovi media, Creti ci conferma che la battaglia dell’audience è un problema quotidiano. «Il sistema di conteggio dell’audience è praticamente istantaneo e impietoso. Se un contenuto funziona, lo si vede subito, e curiosamente notiamo delle tendenze del tutto imprevedibili. Ad esempio abbiamo scoperto che seguendo alcuni trend riusciamo a ottenere interazioni altissime. Ma è sempre un terno al lotto con gli algoritmi dei social di cui conosciamo fino a un certo punto i meccanismi, può funzionare o non funzionare. Inoltre si finisce per essere tentati di usare una modalità “acchiappa like” per catturare follower, ma sarebbe limitativo, noioso e non da servizio pubblico.

Il nostro obiettivo è trovare sempre nuovi stimoli per suscitare interesse». Un settore che sembra avere la capacità di attrarre l’attenzione è quello «locale». «I nostri utenti seguono naturalmente quello che succede nella nostra regione, ma bisogna dire che col passare del tempo e con l’aumento del numero di giovani utenti anche i temi internazionali sono seguiti. Oggi, nell’epoca dei social network, i media di servizio pubblico devono reinterpretare il loro ruolo di traduttori locali di informazioni che vengono da altre parti del mondo. I giovani ormai capiscono l’inglese e sanno come andare a raccogliere informazioni direttamente. Questo rende in qualche modo più difficile il nostro lavoro, perché dobbiamo saper pensare in modo “glocale”, una parola che non mi piace molto ma che rispecchia l’ottica che dobbiamo assumere».

contenuti da vedere, ma gli vengono sottoposti automaticamente con un meccanismo che agevola la visione di contenuti simili a quelli che ha visto. L’abbiamo definita «cassa di risonanza di un messaggio», per cui un contenuto iniziale giusto o sbagliato che sia, tende a richiamarne altri dello stesso tipo, che contribuiranno sempre più ad amplificare una visione univoca e acritica su quell’argomento. Ora a tutto questo aggiungiamoci lo skip: cosa può succedere al cervello dell’adolescente, che ha sempre in mano il cellulare, sottoposto a una serie di video uno dopo l’altro di contenuti simili già filtrati da un algoritmo, di cui lui a sua volta ne prende una pillola?

Tutto avviene in pochi minuti, spesso addirittura secondi, che sommati però fanno ore di bombardamento di messaggi veloci e superficiali.

La mia giovane amica Erika Fuser,

bravissima social media manager 25enne per un certo periodo in redazione con noi a «Dataroom» del «Corriere della Sera», quando un giorno le ho chiesto come fare arrivare le nostre inchieste ai giovani su Instagram mi ha risposto prendendo in mano il cellulare: «Devi pensare a come scrollano e skippano da un reel all’altro!». Non mi sono fatta esplodere perché ho due figli! Non è un caso che un punto di riferimento dei teen per informarsi sia l’account Instagram Will dove nel sottotitolo è scritto: «Per capire ciò che ci circonda (e fare un figurone a cena)». Video brevi, post con sintesi massima: così deve essere l’informazione per funzionare tra i giovani. Gli psicologi ci dicono che il risultato del business model dei social, basato sulla cattura spinta all’estremo dell’attenzione, porta a una minore capacità di concentrazio-

ne. Il giornalista d’inchiesta del «New York Times» Johann Hari nel nuovo libro Stolen Focus fa presente che gli studenti universitari ora si concentrano su un’attività per soli 65 secondi e riflette: «Pensate a qualsiasi cosa abbiate mai raggiunto nella vostra vita: quella cosa di cui siete orgogliosi ha richiesto un’enorme quantità di concentrazione che quando si rompe – e penso che ci siano prove convincenti che si sta rompendo – la tua capacità di raggiungere gli obiettivi si assottiglia e la tua capacità di risolvere i problemi è significativamente diminuita». Ora dare ai social e allo skip la colpa di tutto ciò sarebbe oltre che da boomer anche estremamente riduttivo. Ma certo è che, in un concorso di cause, il ruolo dello skippare continuo è innegabile. Anche se la battaglia contro tutto ciò mi sembra persa in partenza. Purtroppo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 9 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Lina Bertola
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di Alessandro Zanoli
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di Simona Ravizza Skippare
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Giornate più

TEMPO LIBERO

Mondoverde

Una pianta dall’aspetto minimalista e imperturbabile: ecco l’aspidistra

Itinerari

Alla scoperta del fascinoso borgo andaluso Setenil de las Bodegas e le sue case nella roccia

A tutto gusto

Questa settimana un dessert vegetariano, una deliziosa crema al caffé

Collezionismo

Agata e la sua inesauribile passione per le borsette di ogni foggia e colore

Snowkite, quando gli sci… spiccano il volo

Adrenalina ◆ Un’attività sportiva che necessita di pochi elementi: oltre al vento a una vela e a una superficie innevata tutto quello che serve è solo un pizzico di coraggio Moreno Invernizzi

I suoi «genitori» sono il kite surf – lo sport velico nato a fine anni Novanta come alternativa al surf classico – e, scontato dirlo, lo sci. All’anagrafe si chiama snowkite, sport relativamente giovane, ma che in pochissimo tempo ha guadagnato una grande popolarità a livello internazionale.

Il nostro Paese è una meta gettonata per i cultori di questa disciplina, come dimostrano le quasi 200 «piazze» ivi dedicate

Uno sport relativamente giovane, si diceva, perché, appunto, il discendente diretto del kite surf ci ha messo una decina d’anni circa a uscire dall’acqua per… approdare sulla terra ferma (o, meglio, la neve), conoscendo altrettanto successo, se non ancora maggiore. Anche alle nostre latitudini. Sviluppatosi in particolare a cavallo delle Alpi, soprattutto in Francia, lo snowkite ha infatti messo radici (ma solo metaforiche, visto che chi lo pratica si sposta, e anche di parecchio) pure in Svizzera. Cominciando in particolare dall’Engadina: tra i primi «spot » svizzeri per la pratica di questo sport vanno sicuramente citati il lago di Silvaplana e il passo del Bernina.

Che il nostro Paese sia una meta molto gettonata per i cultori dello snowkite lo si capisce anche dall’elenco delle «piazze» ideali pubblicato nel sito internet dedicato ai cultori di questo passatempo www.letskite.ch: delle quasi duecento catalogate (197 per la precisione, aggiornate a fine gennaio), quasi tre quarti (143) si trovano infatti su territorio svizzero, mentre le altre sono ripartite tra Francia (24), Norvegia (19) e Canada (11). Restringendo il campo al Ticino e all’area a ridosso dei suoi confini geografici, il sito riporta l’area del passo del San Gottardo, quella del passo del Lucomagno, quella del Sempione e quella del San Bernardino. Proprio qui, nel 2020, Mattia Carrocciu, pioniere dello snowkite in Svizzera, ha deciso di piazzare il campo-base per la pratica di questa attività, proponendo una sorta di «snowkite experience » rivolta a chi vuole avvicinarsi a questa disciplina. «L’idea è nata un po’ per gioco, un po’ per necessità – racconta lui stesso –. Sono sempre stato un grande appassionato di kite surf (tema e sport che tratteremo in una delle prossime “puntate” di Adrenalina, ndr), e per praticarlo sono spesso e volentieri all’estero. La pandemia di coronavirus ha però limitato un po’ tutto e

tutti: confini chiusi e viaggi all’estero praticamente azzerati, almeno durante la fase acuta. A quel punto, per non stare con le mani in mano, ho cercato un’alternativa. E l’ho appunto trovata con lo snowkite. Diciamo che il passaggio… alla neve è venuto in modo quasi naturale: in fondo ciò che ho fatto è stato unire le mie due grandi passioni visto che sono anche maestro di sci, con tanto di brevetto G+S. Ho messo in gioco le mie capacità e le mie conoscenze di kite, inizialmente per imparare in prima persona questa disciplina tutto sommato nuova, e in un secondo tempo per offrire l’opportunità di provarla a tutti gli interessati, dando vita all’associazione Snowkite San Bernardino. All’inizio era una cosa per “pochi intimi”, ossia limitata al classico gruppo di amici che si ritrova per praticare assieme un’attività all’aria aperta. Ma le cose sono ben presto cambiate; praticamente fin da subito l’interesse riscontrato è stato notevole: in parecchi hanno deciso di cimentarsi con la vela, l’“aquilone” con gli sci ai piedi. Al punto che è pure nata l’idea per creare una vera e propria scuola di snowkite: il potenziale c’è, eccome!». In generale, per la pratica dello snowkite bastano pochi ingredienti: una superficie innevata (o ghiacciata)

e un pizzico di vento. Oltre, ovviamente, a una vela, che nel gergo tecnico viene anche chiamata «aquilone». In questo senso, il passo del San Bernardino, da sempre rinomato per il vento che soffia nella zona, presenta tutte le caratteristiche ideali per questo sport. A fare da sfondo al tutto, poi, è la stupenda cornice alpina che contorna il «terreno di pratica» col Pizzo Uccello dalla sua caratteristica conformazione che richiama quella di imponenti catene montuose. E, non da ultimo, i suoi ampi spazi permettono di godere al massimo del potenziale di questo sport, praticandolo in tutta sicurezza.

Quali sono invece le conoscenze tecniche o i requisiti fisici per poter praticare questo sport? Non molti: lo snowkite è una disciplina fondamentalmente facile da imparare e da praticare. L’unico requisito richiesto per cimentarsi con la vela sui pendii innevati è infatti quello di una buona padronanza degli sci o dello snowboard (perché, appunto, lo si può praticare tanto con gli sci classici quanto con la tavola da snowboard). Il resto ce lo mette la natura. «Basta un po’ di vento, ma anche meno rispetto a quanto ne necessiti la pratica del kite surfing – tiene a sottolineare il nostro interlocutore –. Ragion per cui anche fisi-

camente non occorre una particolare predisposizione o una specifica preparazione. Proprio per questo la fascia di età in cui lo si può praticare è assai ampia».

E pericoli, ce ne sono? «Fino a 4-5 anni fa qualche rischio di incidenti, seppur relativo, sussisteva. Finché ci si spostava su una superficie piana, senza ostacoli, come può essere un lago ghiacciato, di problemi non ve n’erano; quando però si andava da un punto all’altro su un terreno, coprendo parecchi metri di dislivello, c’era un certo rischio di essere strappati verso l’alto da un’improvvisa folata di vento. Con il tempo la tecnologia, e in particolare quella della costruzione delle vele, ha fatto importanti progressi, rendendo lo snowkite uno sport altamente sicuro e per tutti: in caso di raffiche violente, si attiva uno speciale sistema di sicurezza che fa richiudere la vela “a pacchetto”, di modo che non tiri più». Non tutti gli snowkiter, a ogni buon conto, prendono… il volo: «Chi non vuole, può restarsene tranquillamente con gli sci piantati per terra, ma c’è anche chi preferisce librarsi nell’aria, cullato dal vento: ognuno può scegliere il tipo di pratica che più gli si addice. Basta sostituire la vela con una più grande e il gioco è fatto».

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11
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Aspidistra, placida e imperturbabile

Mondoverde ◆ Una pianta recentemente tornata di moda per il suo aspetto minimalista e per le poche cure che richiede

Mia nonna Carolina aveva gerani meravigliosi coltivati in vasi di fortuna: secchi, contenitori di cemento e qualche terracotta ampia ma sbeccata dall’usura del tempo. Durante le estati assolate li spostava sul portico, in pieno sole, dove tutti potevano ammirarli per via dei colori brillanti, delle grosse e carnose foglie e dei boccioli pieni.

Le aspidistre possono durare molto a lungo, soprattutto se il loro habitat è situato in un luogo ombreggiato e fresco

Accanto a loro, in un angolo più ombroso, sotto le fronde di un glicine, crescevano placide e imperturbabili delle aspidistre: erbacee perenni sempreverdi, caratterizzate da lunghe foglie verdi, lanceolate e appuntite, che raggiungono i 50 cm d’altezza, formando fitti cespi. Esse, a differenza dei vicini gerani, non ricevevano esclamazioni e complimenti, ma il tempo, con le sue stagioni, è riuscito a dare lustro a queste anonime aspidistre (Aspidistra elatior).

E così, dopo qualche lustro, i gerani hanno completato la loro vita terrena, mentre le aspidistre fanno ancora mostra di sé, diventando enormi, riempiendo ampi vasi dal diametro di

50, 60 e 70 cm e guardando quotidianamente la vita che si evolve nel loro angolo di cortile all’ombra. È infatti questa la loro unica esigenza: le aspidistre temono il sole diretto e il caldo estivo, che causa loro bruciature sulle foglie.

Resistentissime a vento e a inverni gelidi, si lasciano all’aperto, poiché fino a –27°C non subiscono danni e anche le varietà più nuove, che vedremo tra poco, si conservano senza problemi fino a –10°C.

Le aspidistre amano vivere in vasi stretti e alti, ed è necessario provvedere a cambiarli solo quando le radici avranno riempito tutto il contenitore.

Al momento del rinvaso, da eseguirsi all’inizio della primavera, tra marzo e aprile, si può procedere anche a una divisione delle radici: si svasano, e con un coltello affilato, o semplicemente con le mani, si creano due o più porzioni di radici (rizoma), con almeno un paio di foglie. Interrate nuovamente con un composto fresco e drenato, esse si bagnano e in un mese compariranno le nuove foglie.

Chiamate anche «piante di piombo», erano molto usate nel periodo che va dagli anni ’50 fino agli anni ’90, quando si trovavano molto frequentemente su balconi rivolti a nord, sui pianerottoli e negli androni dei palazzi.

Recentemente sono tornate di mo-

da grazie al loro aspetto minimalista e alle scarse cure di cui hanno bisogno: vanno bagnate circa ogni dieci giorni e prevedono una buona concimazione in marzo, con un prodotto a lunga cessione, e qualche doccia sotto l’acqua piovana nel corso dell’anno per pulire le lunghe foglie dalla polvere.

Dal colore verde scuro intenso nel-

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la pagina superiore e leggermente più chiaro in quella inferiore, hanno nervature evidenti e piccoli fiori bianchi o color porpora che sbocciano a fine primavera dalla base delle foglie. Non appariscenti, questi fiori hanno la particolarità di venir impollinati dalle lumache e dalle chiocciole.

Originarie dei boschi dell’Hima-

laya, di Cina e Giappone e appartenenti alla famiglia delle Asparagaceae, queste piante sono state oggetto di studio e negli ultimi anni alcuni floricoltori hanno isolato specie e varietà dalle caratteristiche particolari, per via del colore delle foglie.

Aspidistra elatior «Milky Way» ricorda realmente la Via Lattea grazie alle numerose puntinature bianche sulle foglie, molto simili a quelle di Aspidistra daibuensis «Totaly Dotty», con macchie bianche ma più grandi, mentre, cavalcando ancora l’onda dei puntini, troviamo in vendita la varietà Aspidistra guangxiensis «Kunming Starlet» dalle lunghe foglie verdi spruzzate di macchioline giallo brillante.

Tra le oltre 160 specie di Aspidistra riconosciute nel globo, troviamo anche quelle leopardate (A. linearifolia «Leopard» sinonimo di A. minutiflora «Leopard») che ha foglie nastriformi, sottili e puntinate, proprio come il manto di un leopardo.

Per chi predilige le strisce ai puntini, ci si può orientare su Aspidistra elatior «Variegata», che ha lunghe pennellate longitudinali bianche, di larghezza variabile, creando cromie molto appariscenti ed è per questo che la reputo una delle mie preferite, insieme ad Aspidistra elatior «Asahi», dalle foglie ampie e alte fino a 90 cm, con punte totalmente bianche.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 13
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Un bell’esemplare di Aspidistra eliator. (Wikipedia)

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L’imprendibile (o quasi) Setenil de las Bodegas

Itinerari ◆ Più volte assediato dai cristiani, il borgo andaluso ha conservato le tipiche abitazioni ricavate fra gli strati geologici

Simona Dalla Valle, testo e foto

Septem nihil (in latino: «sette volte niente»). Il nome del borgo andaluso di Setenil de las Bodegas farebbe riferimento al numero di volte in cui fu assediato dai cristiani senza successo, mentre le bodegas rimandano alla tradizione vinicola locale.

Numerosi siti archeologici risalenti al periodo neolitico furono ritrovati nei pressi del canyon creato dal fiume Guadalporcún, le cui grotte e anfratti naturali diedero rifugio ai primi coloni.

Come riportato dallo storico Andrés Bernáldez (1450-1513), la conquista della città era essenziale per il regno di Castiglia nella sua avanzata verso Granada. Ma l’assedio del 1407 non portò i frutti sperati e da quel momento Setenil fu considerata quasi inespugnabile, una porta fondamentale per la conquista del regno nazarí. Il 21 settembre 1484 l’ultimo dei sette tentativi di assedio, iniziati sotto il regno di Giovanni II di Castiglia, portò finalmente alla vittoria cristiana. Tra le leggende di Setenil si narra che, durante l’attacco, la regina Isabella la Cattolica diede alla luce un bambino che morì poche ore dopo la nascita. Il suo nome era Sebastián, per cui la prima chiesa del villaggio fu consacrata all’omonimo santo, patrono del villaggio. Sotto la nuova dominazione Setenil fu dichiarata città reale e nel 1501 ricevette dai monarchi la Carta de Privilegios, con la quale furono concesse franchigie e benefici. Durante l’età moderna la città continuò a godere della sua posizione privilegiata tra i villaggi degli altopiani.

Tra il Settecento e l’Ottocento, illustri personalità francesi (come il barone di Bourgoing e la baronessa d’Aulnoy) e britanniche (il Maggiore William Dalrymple) descrissero la ricchezza del bestiame e il rigoglioso bosco di lecci e querce da sughero che popolavano i dintorni di Setenil de las Bodegas. L’antica strada per Osuna era una delle vie commerciali più importanti nei secoli XVIII e XIX, in quanto collegata alla Strada Reale che univa Siviglia al centro del Regno di Spagna. Il percorso assicurava il collegamento di Setenil alle principali città andaluse e testimonia la fioritura della

città in quel periodo. L’inizio del XIX secolo fu segnato dalle lotte di guerriglia con le quali i villaggi dell’altopiano di Cadice resistettero agli invasori francesi.

Le case qui non sono scavate nella roccia, ma è la roccia stessa a essere utilizzata come parete o come soffitto

All’incrocio tra la Serranía de Ronda e la Sierra de Cádiz, a un’altitudine media di 640 metri sul livello del mare e a 134 km dal capoluogo Cadice, il borgo offre una ricca gastronomia a base di piatti come le sopas cortijeras (a base di asparagi), migas a base di pane raffermo, chachinas (salsicce) artigianali e batatas con miel (patate dolci con miele), che hanno come ingrediente fondamentale il prodotto più rappre-

sentativo della gastronomia e dell’economia setenilese: l’olio extravergine di oliva. Degna di nota è anche l’industria vinicola della città, specialmente per quanto riguarda i vini rossi. Passeggiando nelle centrali Calle Cuevas del Sol e Calle Cuevas de la Sombra o, più a nord, in Calle Mina e Calle Herrería, tra le tante, si distinguono le tipiche case di Setenil, le cui peculiarità sono dovute all’orografia del terreno. A differenza di altri villaggi andalusi, qui le case non sono scavate nella roccia, ma è la roccia stessa a essere utilizzata come parete o soffitto. Questa particolare architettura è nota come «abrigo bajo las rocas» (rifugio sotto le rocce). Le abitazioni tipiche hanno una facciata che chiude l’imboccatura sotto la roccia del canyon, mentre è la roccia stessa a fungere da tetto per la maggior parte di queste costruzioni. Fino a pochi anni fa le grotte erano le abitazioni di

famiglie di bassa estrazione sociale, mentre oggi ospitano locande tipiche o sono state convertite in garage e magazzini. A livello municipale è attivo da diversi anni un tentativo di recupero di questi spazi per utilizzarli come case o negozi tipici evitandone il deterioramento. Intorno alla Plaza de Andalucía vi sono per lo più le abitazioni della classe media, più spaziose e a dotate di maggiori comfort.

Il municipio del paese, in origine una torre di guardia di fronte alla fortificazione, è risalente all’inizio del XVI secolo. L’antico Torreón, un torrione raggiungibile salendo fino in cima le ripide stradine del centro, è la migliore testimonianza dell’antica fortezza di epoca almohade che ebbe la funzione di proteggere la rocca di Setenil dal XII secolo e fu più volte attaccata. Alcuni resti del muro che circondava la rocca sono ancora visibili. Sotto il livello del suolo si trova l’an-

tica cisterna araba (aljibe), un deposito scavato nella roccia la cui funzione era quella di rifornire d’acqua la fortezza. È costituita da due volte a botte, sostenute da due pilastri centrali e tre archi in mattoni. Nelle immediate vicinanze si trova il belvedere di El Lizón, da cui si gode di un’ottima vista su tutta la città di Setenil. Legata alle origini del borgo è anche la Casa de la Damita, vicina al Torreón, al cui interno si trova un piccolo museo che ripercorre la storia di Setenil grazie ai ritrovamenti archeologici fatti in diversi scavi effettuati nel 1997. Uno dei più importanti è la cosiddetta «Damita de Setenil», una venere risalente a cinquemila anni fa, testimonianza della presenza umana nell’area urbana almeno dall’Età del Rame. Realizzata in terracotta e con un’altezza di circa 6 cm, fu rinvenuta nel 1996 nel corso di lavori archeologici in Calle Calcetas. Le comunità locali alternavano agricoltura e allevamento a caccia e raccolta, il che portò a una maggiore complessità sociale. La statua testimonia anche il mondo spirituale, religioso e simbolico di queste comunità. Setenil continua a svilupparsi secondo modelli tradizionali fondamentalmente agricoli, insieme allo sfruttamento del potenziale turistico grazie all’eccezionalità della conformazione del territorio, la bellezza dei dintorni e la singolarità delle sue feste. Oggi il borgo è parte dell’itinerario dei «Pueblos Blancos», i villaggi bianchi della Sierra di Cadice, oltre ad appartenere all’associazione dei «Pueblos más bonitos de España» e a essere classificato come Sito Storico-Artistico.

Informazioni

Su www.azione.ch si trova una più ampia galleria fotografica.

azione Settimanale edito da Migros Ticino

Fondato nel 1938

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Qui sopra, veduta di Setenil, che appartiene all’Associazione «Pueblos mas bonitos de Espana»; in basso, a sinistra, la centrale Calle cuevas del Sol, a destra, vicolo di Setenil.
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Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano

Ricetta della settimana - Crema al caffè

Ingredienti

Dessert vegetariano

Ingredienti per 4 persone

2,5 dl di panna intera

60 g di zucchero

50 g di chicchi di caffè

2,5 dl d’acqua

3 c di caffè istantaneo in polvere

20 g d’amido di mais

1 uovo

250 g di mascarpone

40 g di amaretti

Preparazione

1. Portate a ebollizione la panna con la metà dello zucchero e i chicchi di caffè, quindi lasciate sobbollire per 3 minuti. Filtrate il latte in una scodella e lasciate raffreddare in frigorifero.

2. Scaldate l’acqua con il caffè in polvere finché non si è sciolto.

3. Sbattete l’uovo con l’amido di mais e il resto dello zucchero con una frusta fino a ottenere una massa chiara. Incorporate lentamente il caffè all’uovo. Versate tutto in pentola e, mescolando continuamente, scaldate fin quasi al punto di ebollizione (circa 85 °C), quindi continuate a mescolare per circa 2 minuti, finché la crema si addensa.

4. Versatela in una scodella filtrandola con un setaccio. Coprite con la pellicola trasparente a contatto. Lasciate raffreddare in frigo per circa 2 ore.

5. Montate un po’ la panna aromatizzata (alla fine deve risultare semi montata). Aggiungete il mascarpone e montate ben fermo il composto. Servite entrambe le creme al caffè, bianca e scura in scodelle o bicchieri. Sbriciolate gli amaretti e distribuiteli sulla crema.

Consigli utili Servire con dulce de leche.

Preparazione: circa 30 minuti; raffreddamento: circa 2 ore.

Per persona: circa 11 g di proteine, 57 g di grassi, 30 g di carboidrati, 670 kcal/2800 kJ.

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Borsette, la passione di una vita

Collezionismo ◆ Un tripudio di forme e colori per raccontare la storia della raccolta infinita di Agata

Borse e borsette: c’è chi possiede una borsa dalla quale non si separa mai, sempre quella o sempre lo stesso genere, e c’è chi desidera possedere tutte le varianti di colore di un determinato modello. Chi colleziona le borse vintage, chi quelle rigorosamente firmate e chi quelle microscopiche. E poi c’è Agata che colleziona borse e basta. Tante, tante, tante borse: «Penso di averne di ogni sorta, di ogni colore e dimensione; qualcuna mi è stata regalata, ma per la maggior parte le ho comprate un po’ dappertutto secondo come mi sentivo in quel momento, o seguendo la moda, oppure semplicemente innamorandomi della forma che in quel momento mi faceva sentire bene».

Agata ci riceve nella sua casa con la promessa di mostrarci «una grande collezione di borse e borsette di ogni genere, e le uso tutte!». Ma, onestamente, mai avremmo pensato di trovare tutta questa varietà e soprattutto questa quantità a dir poco incredibile. «Forse, il vero problema è che non riesco a buttarne via nemmeno una. Non so quante siano, per la verità, ne ho un po’ dappertutto», racconta mentre mostra quattro scatoloni che ne contengono non sappiamo quante ciascuno, ma che nel complesso potrebbero essere almeno un centinaio se non di più.

Alquanto stupiti dal tripudio di colori, forme e soprattutto dal nume-

Cruciverba

Il telefono del vento è una sorta di monumento che si trova in… e simbolicamente serve…. Termina le frasi leggendo a cruciverba ultimato le lettere nelle caselle evidenziate.

(Frase: 8 – 1, 7, 3, 1, 7)

ro imprecisato, non facciamo a tempo a chiederle quando ha iniziato a collezionarle e se mai ne ha buttata via qualcuna, magari vecchia o forse rotta, che lei inizia a mostrarcele spiegandoci il perché e il per come di questa sua passione. Tirandole fuori una a una da uno dei quattro scatoloni, Agata ci mostra quella di rafia azzurra, con il bordino bianco: «Questa è la mia prima borsetta che mi hanno regalato quando avevo tre anni, ce l’ho ancora e qualche volta la uso come micro-bag che oggi è nuovamente di grande moda». Non ci nasconde la sua età: «Ho 56 di anni e ce l’ho ancora qui con me, la prima, insieme a

quasi tutte quelle che ho comprato o che mi hanno regalato durante la mia vita». No, non ne ha gettate via molte e dinanzi all’evidenza della cospicua collezione che ci troviamo dinanzi non fatichiamo a crederle. Secondo lei: «Per noi donne la borsa è la nostra amica più fedele, conosce la nostra storia, ci accompagna sempre e sa contenere tutti gli oggetti che amiamo portarci dietro, un po’ come la casetta della lumaca». Però lei ne ha davvero un’infinità e spiega di non sapere bene quale sia il vero impulso che l’abbia portata a collezionarne così tante. Dice che in qualche modo sente che tut-

te la rappresentino, ed è in linea con l’interpretazione psicologica che gli esperti danno del significato simbolico di questo importante accessorio paragonato a una sorta di «contenitore del nostro sé». Sempre meravigliati dalla quantità, ascoltiamo la storia di ciascuna borsetta che le passa per le mani, a partire da circa una quindicina di borse molto colorate e originali, con paillettes, raso e catenelle dorate: «Queste rigide sono delle mini-borse da sera, quelle “glamour” per intenderci». Poi passa a quelle (saranno una decina) che definisce «da lavoro»: «Sono capienti, squadrate così da essere “autorevoli” e contenere tutto quanto mi serve: computer, bottiglietta d’acqua, astuccio, agenda e telefonino». Passiamo a quelle di stoffe cangianti e coloratissime, piene di perline o conchiglie: «Sono etniche: in un certo periodo mi andava di essere un po’ zingara e casual; ci sta dentro qualsiasi cosa e fanno tendenza; hanno un loro stile, anche solo per portare il cane a spasso». Non manca un discreto numero di borse iconiche, delle firme più note: «Quando posso, mi permetto anche una Saint Laurent o una Karl Lagerfeld: mi fanno sentire chic in occasioni particolari». Però confida il sogno di una Chanel o di una Birkin Hermes: «Sono davvero tanto care, anche se so che fanno parte delle borse di design che diventano sempre più preziose, ma insom-

ma: un sogno nel cassetto bisogna pur averlo!». Così ci spiega che una borsa Birkin Hermes, che purtroppo non può annoverare fra tutte le sue, abbia un valore che aumenta ogni anno del 14 percento.

Ciò che Agata racconta sulla sua collezione ci spinge a indagare sull’interpretazione psicologica non tanto della certificata cospicua collezione, quanto del valore simbolico della borsa: pare sia paragonata a «un’arma competitiva, polo di attrazione e messaggio verso le altre donne»; si dice compensi «la distanza tra come si è e come si vorrebbe essere» e via dicendo. Poi, la psicologia pone l’accento sul fatto che «le borse ci rassicurano mostrando coerenza».

E possiamo dire che la coerenza di collezionarne un’infinità lungo tutta la sua vita non manchi proprio alla nostra interlocutrice che ci regala un ultimo suo sogno: «Un giorno vorrei avere una borsa come quella della regina Elisabetta: una Launer. Pensi che la regina madre e la regina Elisabetta acquistavano entrambe queste borse da una ditta anglosassone che le ha servite per tutta la vita, e pare che Elisabetta abbia ricevuto in regalo la sua prima Launer dalla regina madre negli anni ’50. A me basterebbe riceverla per i miei 60 anni!». A questo punto, non le chiediamo quante saranno le borse della sua collezione se e quando questo suo sogno si dovesse avverare.

Soluzione

ORIZZONTALI

1. Capo di vestiario

6. Canta «Su di noi»

9. Eroe troiano

10. La famosa de’ Tolomei

12. Le iniziali di Leoncavallo

13. Davanti al nome del Principe

14. Fiume egiziano senza il finale

15. I vicoli di Venezia

16. Un dio greco

18. L’attore Schreiber

19. Immagini sacre

20. Organo linfatico addominale

21. Una signora... in gioco

22. Piccola insenatura

23. Le iniziali di Totti

24. Dentro all’astuccio...

25. È nero a Ginevra

27. Manifestano insoddisfazione

VERTICALI

1. Si accorciano scrivendo

2. Desinenza di diminutivo femminile

3. Relativo all’aviazione

4. Le iniziali dell’attore Amendola

5. Toro sacro agli egizi

6.

7.

8.

11.

14.

15.

17.

18.

20. L’uomo inglese

21. Prefisso che vuol dire dieci

22. Preposizione articolata

23. È adatto a Londra...

26.

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Iniziali del regista Avati Pregate... in francese Hanno il carnato colorito Un articolo Il padre di Sem e Cam Massiccio della Bulgaria sudoccidentale Simbolo chimico del radon La sua buccia si gratta nei dolci Si ripetono nella confusione
i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
Sudoku Scoprite
AAA CERCASI – Cercasi socio per apertura gioielleria, richiedesi…
della frase: …PASSAMONTAGNA E PIEDE DI PORCO. 1 234 5 6 7 8 9 1011 12 13 14 15 1617 18 19 20 21 22 23 24 2526 27
1 17.02.2023 15:30:10 P A SC AL S AL M I O N TR AM GAIE ETA AN IMO C N T ARA EMI P IA A EGO OR CIO ANICE ERA D EVA RO D IN NO RE P ALI O IO R ONCE O RME TS SA CRO ESIMI O 5 43 1 6 8 9 5 3 4 1 2 95 87 9 4 69 7 3 8329 517 64 9657 841 32 1473 269 58 2 1 6 4 7 5 3 8 9 5896 324 17 4731 985 26 6 5 1 2 4 9 8 7 3 7248 136 95 3985 672 41
passatempi
della settimana precedente
Resto
ai167664421013_10_Cruciverba.pdf
Giochi e
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Alcune delle borsette della collezione di Agata. (Vincenzo Cammarata)

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ATTUALITÀ

Le sfide di Elly Schlein

Un ritratto della nuova segretaria del PD decisa a risollevare il partito dal declino, un’ardua missione

Pagina 21

Nell’inferno di Bakhmut Reportage da una città assediata dai russi dove chi è restato attende rassegnato il suo destino

Pagina 23

Pillola abortiva: è battaglia

I conservatori USA si mobilitano dopo l’approvazione della vendita del farmaco nelle farmacie

Pagina 24

«L’atomica? Un’opzione»

Il saggista Luca Ciarrocca parla del rischio di un’escalation nucleare nel conflitto tra Russia e Ucraina

Pagina 25

La strage dei migranti e i calcoli dei politici

Prospettive ◆

Il naufragio al largo delle coste calabresi riporta l’immigrazione al centro del dibattito, non solamente in Italia.

Il pensiero torna una volta in più al passato, quando i «disgraziati» alla mercé dei «malacarne» eravamo noi

Le immagini e i racconti della strage di fronte alla spiaggia calabrese di Steccato di Cutro (sul barcone che settimana scorsa si è spezzato in mare c’erano fino a 250 persone) ci ricordano – una volta di più – i quaranta milioni d’italiani (ma anche, soprattutto nell’Ottocento, i numerosi ticinesi) che fra il 1880 e il 1980 emigrarono verso gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Argentina, il Brasile, l’Uruguay, il Sud Africa, la Germania, la Svizzera, la Francia. Fino al 1930 per quanti affrontassero la traversata di un Oceano le condizioni di viaggio non erano troppo differenti da quelle che vediamo oggi per coloro in arrivo dall’Africa e dall’Asia. Alla mercé dei «malacarne» che organizzavano il viaggio, vecchie e malconce barcarole, nessun rispetto della dignità e dell’igiene, sicurezza inesistente, rischi continui fino al momento di toccare terra. Poi cominciavano le traversie della nuova vita, ma questa è un’altra storia.

Matteo Salvini continua a esser convinto che il no più bieco, più acrimonioso, più intollerante all’immigrazione riceva un tornaconto elettorale

Se c’è, dunque, un popolo che conosce le sofferenze, il dolore, le lacrime, i drammi dell’emigrazione è quello italiano (e anche i ticinesi ne sanno qualcosa…). Per decenni, in diverse Nazioni appartenenti al presunto mondo civile, gli italiani sono stati i paria dell’umanità, privi perfino dei più elementari diritti, esposti a brutali «cacce all’uomo» sulla base di semplici indizi, spesso rivelatisi fallaci. Nel 1932 Herbert Hoover, presidente degli Stati Uniti e ricandidato all’elezione, aveva promesso in caso di vittoria la pena di morte per tutti gli italiani coinvolti nella guerra di mafia, che aveva riempito di cadaveri i marciapiedi e le strade di New York. Poi, fortunatamente, vinse Franklin Delano Roosevelt grazie anche ai finanziamenti di Lucky Luciano e Frank Costello, i capi di Cosa Nostra.

Bisognerebbe quindi avere un pizzico di comprensione in più e un occhio di riguardo per le migliaia di «disgraziati» che approdano in Italia nella speranza di regalare un futuro migliore a loro stessi e ai figli. Non scappano soltanto dalla miseria e dalla corruzione, adesso scappano pure da dittature, da teocrazie asfissianti, da guerre infinite, da cataclismi. La geografia ha posto la vicina Penisola come avamposto di quell’Europa che per molti assomiglia a un sogno, che

ha assunto l’aspetto di tutto ciò che si può desiderare, che in ogni caso assicura un’esistenza migliore di quella da cui si proviene. Era così persino un milione di anni addietro quando il Mediterraneo non si era ancora formato, la Sicilia era collegata all’Africa da una placca continua e, a piedi, avvenne la prima trasmigrazione.

Purtroppo la bassa politica, quella capace di assecondare soltanto gli istinti viscerali, ha trasformato una delicata fase epocale in una giostra dei cattivi sentimenti. Si sparano numeri falsi per ingigantire un problema, che forse tale non è. Sono spesso gli imprenditori del Nord-Est a richiedere un maggior numero d’immigrati per mansioni di cui gli italiani non vogliono più occuparsi: nelle concerie, nelle imprese di pulizia, nel facchinaggio, nella raccolta degli ortaggi e della frutta, nel pascolo delle bestie, nella consegna del cibo. Basterebbero poche regole, ma circostanziate. Al contrario, si preferiscono i toni apocalittici da ultima crociata. L’assoluto protagonista è da 10 anni Matteo Sal-

vini, il segretario della Lega uscito assai ammaccato dalle elezioni politiche dello scorso settembre. Nonostante la batosta (dal 34 a meno del 9 per cento), continua a esser convinto che il no più bieco, più acrimonioso, più intollerante all’immigrazione riceva un tornaconto elettorale. L’abuso di slogan – dalla salvaguardia dei confini alla difesa dell’interesse della Patria –non è riuscito a nascondere una strategia priva di concretezza e di cuore. Anzi, ha condotto Salvini a una guerra personale con le ONG, che giustamente si sono fatte beffe dei suoi divieti e hanno proseguito nel salvare vite in mare.

Dipendesse da lui, Salvini manderebbe la flotta contro i barchini di questi «disperati». Invece, deve limitarsi a ingigantire i danni, inesistenti, dell’immigrazione selvaggia, anche se al massimo è irregolare e comunque composta da un numero di persone nettamente inferiore a quelle che poi si riversano nell’Europa settentrionale. Soltanto il 15 per cento degli immigrati si ferma in Italia, il

resto prosegue per altre destinazioni. E caso mai il contenzioso sarebbe da affrontare con le Nazioni che ne ostacolano l’ingresso. Purtroppo pesa lo sciagurato «Sistema di Dublino» comprendente la convenzione e i successivi accordi, che dal 1990 regola l’accoglienza nell’Europa comunitaria. I partiti vecchi e nuovi della prima e seconda Repubblica vi hanno recitato al peggio come pure i politici, da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi, a Enrico Letta. Tutti incapaci di proteggere la giusta richiesta dell’Italia di non esser lasciata sola.

L’insuccesso elettorale ha impedito a Salvini di pretendere la poltrona di ministro dell’Interno. Ha però ottenuto che l’occupasse il suo capo di gabinetto di quando lo fu, tra il 2018 e il 2019. Matteo Piantedosi è un sessantenne dalla lunga carriera prefettizia fino alla chiamata del suo scopritore. Fu successivamente confermato dal nuovo responsabile del dicastero, Luciana Lamorgese, e infine premiato con la nomina di prefetto a Roma.

Divenuto ministro nel Governo

loni ha superato il maestro nella contrapposizione alle ONG, sottoposte a regole comportamentali all’apparenza punitive, nella realtà ridicole. Nell’ultima tragedia, comunque, hanno sicuramente influito il maltempo e il mare grosso, che ha indotto alla ritirata le motovedette della Guardia di finanza. A pesare anche stavolta inoltre è stata la scarsissima empatia di Piantedosi. All’aspetto già di per sé lugubre, aggiunge un’evidente difficoltà espressiva. Incapace di comunicare emozioni, sembra messo lì con il solo scopo d’impaurire. Davanti a quella sequela infinita di cadaveri, la sua frase contro i padri, la cui «disperazione non giustifica i viaggi che mettono in pericolo i figli» è parsa la sintesi perfetta dell’uomo sbagliato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Per rimediare, il Governo italiano promette di rivedere rimpatri, accoglienza, asilo e ingresso fino alla disponibilità di farsi carico del viaggio per sottrarre gli emigranti agli scafisti. Nel nome dei nostri nonni.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19
Me-
Il barcone naufragato in Calabria – con a bordo migranti provenienti soprattutto da Iran, Pakistan e Afghanistan – era partito il 22 febbraio dalla Turchia. (Keystone) Alfio Caruso
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Il sogno di Elly Schlein

Italia ◆ La nuova segretaria del PD vuole risollevare il partito dal declino cui lo hanno condannato le sue ambivalenze, ma la sfida appare ardua

Se manca la lattuga

Gran Bretagna ◆ Nei supermercati del Regno scarseggiano frutta e verdura, ecco perché

Se i sudditi di Sua Maestà mangiassero rape e cibi di stagione non ci sarebbero problemi di approvvigionamento alimentare. Così Thérèse Coffey, ministra dell’Ambiente britannica, ha commentato la carenza di frutta e verdura che affligge i supermercati del Regno, dove ormai ci si azzanna per un cavolfiore o una lattuga. E ha scatenato, come immaginabile, un putiferio. Fare la spesa nei supermercati britannici negli ultimi tempi è effettivamente un’esperienza desolante: insalata, pomodori, cetrioli, broccoli, peperoni o lamponi sono diventati beni rari. Per far fronte alla scarsità dell’offerta, diverse tra le catene di distribuzione più importanti e meno dispendiose hanno iniziato a razionare alcuni prodotti, imponendo un limite di acquisto di massimo due o tre confezioni a cliente per visita. Molti scaffali, però, restano vuoti e sono destinati a rimanere tali per diverse settimane. C’è chi sostiene addirittura fino a maggio.

Una donna alla guida del Governo, una donna a capo dell’opposizione. Il risultato delle primarie del Partito Democratico, che hanno proiettato Elly Schlein (nella foto) alla segreteria nazionale, completa dopo l’avvento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi un’innovazione di non poco rilievo in un’Italia ancora alle prese con la questione femminile. Non a caso fra gli slogan vincenti figura quello che vuole «superare il patriarcato». Prende il posto di Enrico Letta una donna determinata e strettamente ancorata ai suoi valori, fino al punto di apparire ingenua ai più smaliziati fra gli osservatori della politica italiana.

L’elezione della nuova segretaria significa un recupero d’identità nella visione progressista, insomma la riscoperta e la riproposta dei valori tradizionali della sinistra. Ma in un partito come questo, giunto al punto più basso delle sue fortune elettorali, la strategia prospettata da Schlein potrebbe non bastare se non al prezzo di dolorosi ridimensionamenti programmatici. C’è infatti di mezzo una legge elettorale fatta apposta per premiare le coalizioni e ovviamente non è facile conservarsi «duri e puri», come la nuova segretaria vorrebbe, cercando di costruire alleanze. Lo hanno confermato le prime reazioni dopo l’esito delle primarie. Da una parte Carlo Calenda, che con l’ex segretario democratico Matteo Renzi guida il cosiddetto Terzo polo, dice che ormai il centrismo riformista è affar suo. Dall’altra Giuseppe Conte sostiene che Schlein ha avvicinato il PD al Movimento cinque stelle di cui è segretario.

Elly Schlein è un personaggio international minded, la sua biografia l’ha dotata infatti di una mentalità che supera le frontiere. È nata a Sorengo, in Ticino, figlia di un politologo e storico statunitense di origine ebraica e di una docente universitaria italiana di diritto pubblico comparato. Ha tre cittadinanze: italiana, svizzera, americana. Ha studiato al Liceo cantonale di Lugano e all’università di Bologna dove si è laureata in giurisprudenza con una tesi di diritto costituzionale. Ha un fratello, Benjamin, docente di matematica all’università di Zurigo, e una sorella, Susanna, diplomatica all’Ambasciata d’Italia ad Atene. Prima ancora del-

la laurea aveva partecipato a Chicago, come volontaria, alla campagna elettorale di Barack Obama del 2008, esperienza che ripeterà quattro anni più tardi per la rielezione del presidente. Poi ha fatto politica in Italia, attaccando la strategia delle larghe intese perseguita dal PD. Nel 2015 ha abbandonato il partito per protesta contro le misure sociali del Governo Renzi a cominciare dal Jobs act, la controversa legge sul lavoro che considera contraria agli interessi dei lavoratori. Un anno prima era stata eletta al Parlamento europeo.

È nata a Sorengo, figlia di un politologo e storico statunitense di origine ebraica e di una docente universitaria italiana

Nel 2020 il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, suo futuro avversario alle primarie, la nomina vicepresidente oltre che assessore con delega al welfare e al patto per il clima. Due anni più tardi, eletta alla Camera dei deputati, lascia la vicepresidenza della regione. Scontando il deludente risultato di quel voto, Enrico Letta si dimette dalla segreteria del PD: subito dopo Elly Schlein rientra nel partito e si candida alle primarie. Vuole guidare la principale forza d’opposizione verso nuovi traguardi. La sua posizione appare subito molto difficile: la voce dei circoli è tutta per Bonaccini, la sua esperienza alla presidenza dell’Emilia-Romagna lo ha reso popolare, è dunque considerato imbattibile e i sondaggi confermano la sua forza. Lei non demorde: appoggiata dalla sinistra del partito e da un padre nobile come l’ex ministro della Cultura Dario Franceschini percorre il Paese in lungo e in largo, parla con appassionato fervore delle sue priorità a cominciare dalle politiche salariali e dalle strategie di contrasto al deterioramento climatico, invoca la resurrezione e il rilancio del partito, denuncia attacchi antisemiti nei confronti della sua famiglia. Confida che le primarie aperte, al di fuori cioè dei circoli PD, siano dalla sua parte. E sarà esattamente così. Alla fine assapora un successo che la pone davanti a una sfida da far tre-

mare le vene e i polsi. Prima di tutto la sua impostazione radicale le renderà difficile tenere unito il partito. Il suo programma tipicamente di sinistra è intessuto di buone intenzioni. Vuole il consenso dal basso – «senza la base, scordatevi le altezze» – e vuole che il partito investa sulla formazione politica. Chiede che gli elettori possano scegliere le persone e non soltanto le liste di appartenenza. Propone che si investa di più sulle energie rinnovabili, che si lasci perdere il nucleare, che si adotti un sistema tributario legato alle emissioni di gas nocivi. Sul tema cruciale del lavoro vorrebbe combattere la precarietà, limitare i contratti a termine e rendere più convenienti quelli a tempo indefinito. Vorrebbe anche introdurre un salario minimo e la settimana lavorativa di quattro giorni. In materia sanitaria, intende correggere lo squilibrio fra pubblico e privato e l’altalena di competenze fra stato e regioni.

Sul tema della politica estera ribadisce il sostegno all’Ucraina ma considera necessario che l’Unione europea si attivi concretamente per una soluzione di pace che possa chiudere il conflitto. Chiede anche che l’Unione affronti il tema nevralgico dell’immigrazione riformando il trattato di Dublino e impostando la sua azione sul principio di solidarietà e su un’armoniosa ripartizione del carico umano fra tutti gli stati membri. Su questa specie di libro dei sogni Elly Schlein chiama all’azione il malconcio partito che le primarie hanno affidato alle sue cure. Ma la sua vera scommessa, davvero ardua, è proprio quella di risollevare il PD dal declino cui lo hanno condannato le sue ambivalenze. Attualmente viaggia attorno al 16-17 per cento dei consensi, non certo abbastanza per la realizzazione di un simile programma.

Potrà farlo soltanto in compagnia di altre forze politiche, inevitabilmente annacquando i decisi propositi della nuova segretaria. Lo aveva previsto il rivale Bonaccini, che non a caso aveva assunto una posizione più vicina al centro che ai Cinquestelle. Forse proprio questa era la formula vincente, ma Elly Schlein preferisce rischiare in nome dell’ideologia. Il suo entusiasmo ha avuto la meglio sulla prudenza dell’avversario.

vazione del pomodoro del 27% fra il 2021 e il 2022.

A questi fattori si aggiungono varie complicazioni nella catena di approvvigionamento dovute alla carenza di forza lavoro a seguito della pandemia e, indirettamente, anche a Brexit che ha introdotto una politica immigratoria molto più restrittiva, aumentando notevolmente la burocrazia alla frontiera. Le autorità negano con fermezza che l’uscita della Gran Bretagna dall’UE abbia avuto ripercussioni in questo senso, tuttavia si riscontrano diversi cambiamenti rispetto a prima: ad esempio, molti prodotti sugli scaffali sembrano provenire da Paesi sempre più lontani come il Marocco, ma anche l’Egitto, la Turchia o persino il Messico, mentre prima di Brexit frutta e verdura erano prevalentemente di provenienza europea.

Come mai? Il Governo Tory nega ogni responsabilità, imputando la situazione a cause che esulano dalla sua sfera di controllo, come il maltempo nei Paesi del Sud d’Europa e del Nord Africa, da cui la Gran Bretagna importa larga parte dei prodotti agricoli. Basti pensare che durante l’inverno il Regno Unito importa addirittura circa il 90% delle lattughe e il 95% dei pomodori. Quest’anno, tuttavia, temperature particolarmente rigide in Spagna e inondazioni in Marocco hanno avuto pesanti ricadute sui raccolti e conseguentemente sulle importazioni. «Non possiamo controllare il tempo in Spagna», ha chiosato la Coffey. Però le foto circolanti nei social media di supermercati spagnoli con banchi traboccanti di frutta e verdura sembrano contraddire la linea difensiva del Governo e raccontare una storia diversa.

Le condizioni climatiche avverse sicuramente hanno avuto un impatto non solo sulle importazioni, ma anche sulla limitata produzione agricola interna. L’East Anglia, ad esempio –zona agricola chiave della Gran Bretagna – continua a essere affetta da siccità: le prime tre settimane di febbraio sono state le meno piovose degli ultimi 30 anni, con inevitabili conseguenze sui raccolti. Anche il costo dell’energia schizzato alle stelle per effetto della guerra in Ucraina ha giocato un ruolo: i produttori britannici devono necessariamente coltivare insalata e determinati tipi di verdura in serra, e poiché le bollette di elettricità e riscaldamento sono quadruplicate, hanno dovuto ritardare la semina.

Secondo i dati della National Farmer Union (NFU), sindacato degli agricoltori britannici, l’inflazione energetica ha fatto salire il costo della colti-

Non c’è da stupirsi. «È molto più facile per i produttori del Sud Europa vendere i loro prodotti nel Continente invece che affrontare quattro giorni di viaggio per andare nel Regno Unito, rimanere bloccati in coda, tornare con il camion vuoto e avere ancora a che fare con una serie di scartoffie aggiuntive e dazi doganali», ha commentato Lee Stiles della Lea Valley Growers Association, associazione che riunisce larga parte dei produttori domestici di pomodori, cetrioli e peperoni.

Eppure il Governo era stato ammonito: lo scorso dicembre, l’NFU aveva lanciato l’allarme che il Paese si stava avviando silenziosamente verso una crisi delle forniture e aveva chiesto un intervento urgente per proteggere i produttori locali, assicurando ad esempio che i rivenditori li pagassero in maniera equa. In autunno, infatti, era emerso che durante le negoziazioni le più grosse catene di supermercati avrebbero acquistato all’estero i prodotti agricoli piuttosto che pagare a prezzo più alto i prodotti locali.

Ma la strategia si è rivelata fallimentare. I fornitori britannici sono vincolati a prezzi fissi pattuiti da contratti a lungo termine con i supermercati. Pertanto, se il costo dei pomodori spagnoli all’improvviso aumenta, non hanno margini per acquistarli senza ridurre i profitti, mentre nel Continente sono più diffusi contratti a breve scadenza e dunque in caso di incremento dei prezzi è più facile per i fornitori europei scaricare l’aumento sui rivenditori. Il risultato? Mancano i prodotti e quelli reperibili hanno prezzi sostanzialmente più elevati. Solo nell’ultimo mese i pomodori sono aumentati del 22%, le lattughe del 30%, i cavolfiori del 38%, i porri del 25% e le patate del 20%. Ai britannici non resta che accontentarsi delle rape, il cui prezzo invece è rimasto stazionario.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 21
Keystone Barbara Gallino Supermercato di Manchester. (Keystone)
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La lotta per Bakhmut, ridotta a cimitero

Donbass

◆ Reportage da una città assediata dai

russi dove non c’è acqua né elettricità e la gente aspetta al gelo seduta davanti a casa che la battaglia finisca, con i colpi di artiglieria e dei missili in sottofondo

In ogni guerra ci sono battaglie strategiche e battaglie simboliche. Quella di Bakhmut, la cittadina nel Donbass, a 40 chilomentri da Kramatorsk ormai ombra di sé stessa, è diventata ormai solo una battaglia simbolica. L’area intorno a Bakhmut è stata l’unico segmento del fronte in cui la Russia ha ottenuto notevoli guadagni durante un’offensiva invernale che ha visto i combattimenti più sanguinosi da quando è iniziata la guerra. Le forze russe l’hanno quasi accerchiata, resta libera una sola strada che attraversa le campagne da Chasiv Yar e raggiunge Bakhmut, una strada che taglia una pianura ed è perciò esposta al fuoco russo. Una settimana fa sul ciglio della strada, all’entrata della città, c’era la carcassa in fiamme di un van usato come ambulanza, serviva a portare via i feriti. O meglio, avrebbe dovuto farlo, se non fosse stata colpita da un razzo russo che ha disintegrato il mezzo e ucciso chi lo guidava. Il cadavere, carbonizzato, giaceva dopo giorni ancora accanto al mezzo.

Si presenta così l’entrata di Bakhmut che, prima della guerra, contava 70 mila persone. Nella laboriosa città del Donbass oggi ne resistono ancora a malapena 5 mila, per lo più anziani che non vogliono abbandonare le loro case: troppo vecchi, troppo poveri o troppo malati per pensare ad un’alternativa. E poi, certo, chi aspetta i russi, e sono loro i civili più temuti dall’esercito ucraino che tuttavia non smette di aiutarli portando cibo, acqua e medicine pur sapendo che tra i civili rimasti lì si nasconde di certo qualcuno che li tradirà.

Restano due «Punti di invincibilità». Si chiamano così i rifugi dove i volontari mettono a disposizione un generatore di corrente, la linea telefonica e il cibo

Chi è rimasto vive, nell’inverno rigidissimo dell’est Europa, a temperature che possono scendere a meno 10 gradi e a Bakhmut non c’è acqua né gas da ormai sette mesi. È diventato pericoloso anche andare a prendere le taniche ai pochi punti di distribuzione rimasti perché gli assembramenti di persone sono visibili dai droni e quindi pericolosi. Per questo i civili raccolgono la pioggia o raccolgono la neve, aspettano che si sciolga, la lasciano bollire per preparare un tè, lavare i vestiti, farsi un bagno, una volta ogni tanto. Tagliata anche l’elettricità e con essa ogni forma di comunicazione, per chiamare i parenti, accertarsi che siano ancora in vita, restano in città due «Punti di invincibilità». Si chiamano così i rifugi dove i volontari mettono a disposizione un generatore di corrente, la linea telefonica e il cibo. È il luogo della sopravvivenza e anche della comunità. Serve a provare a convincere i civili a lasciare Bakhmut prima che sia troppo tardi e a prendersi cura, finché si può, di quelli che comunque non se ne vogliono andare.

Ludmyla è una di loro. È nata in Russia e li ha studiato finché, alla fine dell’istituto tecnico, è stata inviata a Bakhmut per lavorare in fabbrica. Vive qui da 47 anni, qui si è sposata, ha avuto due figli, qui sono nati i suoi nipoti. Loro ora sono al sicuro a Leopoli, lei però non se ne va, troppo an-

ziani sia lei che suo marito – 81 e 86 anni – troppo malati e stanchi. Così Ludmyla aspetta che la battaglia finisca, seduta al freddo di fronte casa, incurante dei colpi d’artiglieria, incurante dell’edificio di fronte a lei che va a fuoco perché colpito poche ore prima, quando i missili russi non hanno risparmiato le zone residenziali.

Ma di residenziale, a Bakhmut, è rimasto poco, perché per difendere la città dall’invasione le unità dell’esercito ucraino hanno trasformato quelle che un tempo erano abitazioni civili in basi militari e costruito decine di chilometri di altre trincee per arginare l’attacco che da mesi sta devastando tutta l’area. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky il primo marzo ha accusato Mosca di non aver avuto scrupoli in battaglia e aver lanciato ondate di uomini al macello, senza riguardo per le loro vite. «È un combattimento durissimo, il più difficile –ha detto – ma la difesa della città resta essenziale». Gli ha fatto eco lo Stato maggiore della Difesa che, lo stesso giorno, in una comunicazione scritta ha sostenuto: «Il nemico continua ad avanzare, l’assalto continua ma stiamo tentando di tenere il controllo di ogni settore del fronte; le forze russe bombardano le prime linee in una campagna di terrore deliberato».

La battaglia di Bakhmut si è presentata feroce dall’inizio ma certa-

mente le ultime settimane stanno mostrando una crudeltà senza precedenti, nella quale si legge anche il senso di una partita tutta interna agli equilibri di Mosca.

Nel Donbass a combattere sul fronte russo c’è da mesi la brigata Wagner, una forza paramilitare che lavora con l’esercito russo ma non ne fa parte. Per molti versi è il più grande rivale dell’esercito per le risorse a Mosca, ed è per questa ragione che il suo fondatore e leader Yevgeny Prigozhin si mostra in numerosi video girati dal fronte lamentando di non ricevere abbastanza mezzi dal Ministero della difesa di Mosca, con cui non è in alleanza ma sempre più chiaramente in competizione per accreditarsi il titolo dell’unica vittoria territoriale che la Russia rischia di ottenere dopo mesi. Gli analisti sostengono che gli assalti di Wagner a Bakhmut erano lo strumento del gruppo per creare una narrazione secondo cui Wagner fosse l’unica forza russa ancora in grado di battere gli ucraini. Il gruppo Wagner voleva costruire la sua reputazione sul campo di battaglia in modo da portare a casa una vittoria in grado di influenzare gli equilibri politici a Mosca e Prigozhin vuole, o almeno vorrebbe, intestarsi questa vittoria per dare più forza alle strutture militari parallele a quelle della Difesa ufficiale di Mosca.

La lotta dunque, a Bakhmut, con-

Soldati ucraini a Bakhmut e, in basso, veduta di quel che resta della città. (Keystone)

tinua ma a quale costo di uomini e mezzi? Impossibile avere il conto certo dei morti in battaglia, né l’esercito ucraino né quello russo forniscono dati attendibili, quello che è chiaro, però, parlando coi soldati al fronte, è che qui si sta consumando una carneficina. Un numero di perdite che non corrisponde all’effettiva importanza della città sul piano strategico. Secondo i russi prendere Bakhmut aprirebbe la strada alla completa conquista del resto della regione industriale del Donbass, uno dei principali obiettivi della guerra. D’altro canto, l’Ucraina afferma che il valore strategico di Bakhmut sia limitato, a fronte di troppi morti, perciò negli ultimi tempi la parola «ritirata» è diventata sempre meno un tabù.

Kiev afferma che il valore strategico di Bakhmut sia limitato, perciò negli ultimi tempi la parola «ritirata» è diventata sempre meno un tabù

È convinzione di molti che sia necessario fare qui quello che è stato fatto la scorsa estate a Severodonetsk.

Ritirarsi e salvare vite e mezzi da riposizionare, per battaglie più decisive. Più facile a dirsi che a farsi. Nelle case diventate rifugio e protezione delle unità militari ucraine, i soldati – sia quelli di professione, sia i volontari delle unità di difesa territoriale – stanno attraversando i giorni

più duri dall’inizio della guerra, il 24 febbraio 2022. L’artiglieria russa non lascia tregua, pochi secondi separano l’arrivo dei missili verso le posizioni ucraine. Nella base della 93esima brigata meccanizzata Yuri, il comandante dell’unità è deciso: «Abbiamo perso troppi uomini per abbandonare il campo ora. Difenderemo la città ad ogni costo». Intanto, intorno, i suoi uomini continuano a morire per Bakhmut che un tempo era un luogo vivo, abitato da una comunità industriale e laboriosa, e oggi è solo il cimitero di un tempo che non esiste più, fatto di edifici che crollano e case incenerite e disabitate.

Lucio Caracciolo, La pace è finita: così ricomincia la storia in Europa, Feltrinelli, novembre 2022.

Daniele Ganser, Le guerre illegali della NATO, Fazi Editore, novembre 2022.

Sono passati 20 anni dalla pubblicazione del grande classico Il rischio americano di Sergio Romano. Oggi Lucio Caracciolo sembra riprenderne gli argomenti, a partire da una critica del movimento neocon americano (abbreviazione di neoconservatives, ovvero neoconservatori, quegli ex marxisti che vorrebbero esportare la democrazia sulla punta delle baionette). E, in particolare, del suo rappresentante Francis Fukuyama, il famoso autore di La fine della storia e l’ultimo uomo (1992). Secondo Caracciolo, quella che è finita non è la storia (con il trionfo delle liberaldemocrazie occidentali) bensì la tesi di Fukuyama: «L’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo».

Come già Sergio Romano nel suo In lode della guerra fredda (2015), anche Caracciolo nota come il crollo del Muro di Berlino abbia spalancato la porta a una serie infinita di guerre americane: «Non abbiamo capito che la Guerra fredda non era affatto paradigma negativo. Era l’unico equilibrio possibile per evitare la guerra calda… Prima il lungo decennio di Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il ventennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq», infine l’attuale conflitto russo-ucraino. Quindi «finita era la pace, non la storia». Così come la credibilità di un’ideologia (quella di Fukuyama), di una delle tante filosofie della storia come il marxismo o l’hegelismo.

Il 24 febbraio 2022, la data dell’invasione russa dell’Ucraina, rappresenta «l’esaurimento dell’illusione», rimpiazzata dalla minaccia che la competizione tra Stati Uniti, Russia e Cina possa «involvere in guerra mondiale». Questo è il tema principale dell’analisi dell’italiano Lucio Caracciolo che è interessante paragonare a quella dell’elvetico Daniele Ganser, direttore dell’Istituto Svizzero per la Ricerca sulla Pace e l'Energia (SIPER). Secondo questo storico, il mondo ha compiuto uno sforzo titanico per costruire una legalità internazionale, per limitare il più possibile lo scoppio di nuove guerre. Ma – secondo Ganser – chi ha maggiormente violato questa legalità internazionale sono gli USA e la NATO con le loro guerre. Guerre illegali, perché portate avanti contro le decisioni delle Nazioni Unite. Non a caso il suo libro si apre con una citazione del «Divieto del ricorso alla forza» dello Statuto ONU, statuto ripetutamente calpestato dagli USA. Le guerre NATO stanno destabilizzando il pianeta, creando ondate di profughi che hanno determinato la «crisi dei migranti». Come dire: più li bombardiamo più loro emigreranno e verranno da noi. C’è però una differenza tra l’interpretazione di Romano e Caracciolo e quella di Ganser. I primi ritengono che la guerra fredda fosse in realtà una pace. Il secondo dice invece che questo stato di cose (guerre ovunque) preceda il crollo del Muro. Chi ha ragione? Leggete e interpretate questi notevoli saggi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 23
Fra
i Libri
di Paolo A. Dossena

A rischio il diritto all’aborto farmacologico

Stati Uniti ◆ Gli ambienti conservatori continuano la loro battaglia dopo l’annullamento della storica sentenza «Roe v. Wade»

Una nuova minaccia contro il diritto all’aborto incombe sulla testa delle americane. Dopo il colpo di mano della Corte costituzionale che la scorsa estate ha spazzato via la «Roe v. Wade», la storica sentenza che tutelava l’interruzione di gravidanza a livello nazionale, l’amministrazione Biden si ritrova a dover affrontare l’attacco nei confronti dell’aborto farmacologico, dopo che la Food and Drug Administration (FDA) ha stabilito che, per la prima volta nella storia del Paese, le pillole abortive potranno essere vendute anche nelle farmacie e online (su ricetta medica).

Più in dettaglio, lo scorso 10 febbraio 67 parlamentari repubblicani hanno firmato una memoria legale (un atto mediante il quale si illustra la propria posizione sui punti oggetto della controversia) per supportare la causa di Alliance Defending Freedom, che in questo caso rappresenta quattro organizzazioni mediche anti-abortiste, nei confronti della FDA in cui si afferma che il processo utilizzato nel 2000 per valutare e approvare i farmaci utilizzati per gli aborti terapeutici era illegale e che quindi dovrebbe essere revocato. La causa, intentata lo scorso novembre in Texas, per ottenere appunto il riconoscimento dell’illegalità dell’approvazione dei farmaci abortivi, è appoggiata ora anche da 13 senatori e 54 rappresentanti della Camera, guidati dalla senatri-

ce Cindy Hyde-Smith e dal deputato August Pfluger. Questi hanno presentato una memoria scritta dalla coalizione pro-life «Americani uniti per la vita» con l’appoggio della Conferenza episcopale statunitense, sostenendo che la FDA sia andata oltre i suoi poteri e che «ha autorizzato farmaci abortivi chimici senza conoscerne l’impatto sullo sviluppo adolescenziale, in particolare il loro effetto sul sistema immunitario delle ragazze». Una richiesta depositata al tribunale distrettuale di Amarillo, in Texas, e messa nelle mani del giudice Matthew J. Kacsmaryk che, oltre a essere stato nominato da Donald Trump durante il suo mandato da presidente, ha lavorato per il conservatore First Liberty Institute ed è noto per le sue opinioni conservatrici sul matrimonio omosessuale e sull’aborto. La decisione potrebbe arrivare a breve e potrebbe aprire la strada a un divieto nazionale della pillola abortiva dato che il caso potrebbe finire davanti alla Corte Suprema e «l’accesso all’aborto farmacologico – come afferma il Center for Reproductive Rights – potrebbe finire in tutto il Paese, anche in quegli Stati in cui i diritti all’aborto sono garantiti».

Oggi, negli Stati Uniti, l’interruzione di gravidanza farmacologica è possibile fino alla decima settimana di gestazione e prevede due fasi: l’assunzione di una pillola a base di mife-

pristone che interrompe la gravidanza e, dopo 24 ore, quattro pillole di misoprostolo, un farmaco che cura le ulcere, utile per ammorbidire la cervice e provocare le contrazioni che servono a espellere il feto. I due farmaci insieme garantiscono un buon esito nel 99,6% dei casi e un rischio di complicanze dello 0,4%. Ma, anche se la FDA ha affermato che l’approvazione del mifepristone è arrivata dopo un’ampia analisi delle prove scientifiche, nella sua querela Alliance Defending Freedom chiede proprio che l’approvazione del farmaco da parte della FDA sia annullata perché trascura effetti collaterali potenzialmente dannosi. Una presa di posizione che fa paura anche perché orchestrata da Alliance Defending Freedom che, oltre a essere un potente gruppo legale cristiano conservatore contro i diritti Lgbtq e contro l’aborto, ha redatto la legislazione del Mississippi che ha fatto strada alla Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization ovvero la decisione che ha annullato la «Roe v. Wade» lo scorso anno.

Attorno a questa causa si stanno mobilitando i sostenitori dei due schieramenti in tutto il Paese. Da un lato una ventina di procuratori repubblicani definiscono l’approvazione della FDA «profondamente viziata» e la contrastano in ogni modo; dall’altra 22 procuratori democratici capeggiati da Letitia James, procu-

ratrice generale di New York, hanno depositato una memoria sostenendo che la revoca del mifepristone avrebbe «conseguenze devastanti» per le donne americane che sarebbero costrette a sottoporsi ad aborti chirurgici invasivi e costosi o a rinunciare all’aborto.

Al Dipartimento di giustizia una task force istituita dal procuratore generale Merrick Garland sta cercando vie legali per proteggere l’accesso alle pillole, ma la paura sale e alcuni membri dell’amministrazione Biden sono preoccupati perché la sentenza arri-

verà probabilmente da giudici conservatori che potrebbero sfruttare questa possibilità per limitare l’accesso all’aborto anche negli Stati a guida democratica. Un rischio che deriva da più fronti dato che, con la Camera tornata in mano al Grand Old Party dopo le elezioni di Midterm, il fronte anti-abortista potrebbe presentare un divieto federale. Un’eventualità di fronte alla quale lo stesso presidente Biden ha scritto sul suo profilo Twitter: «Se al Congresso passerà un divieto nazionale, io metterò il veto».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 24
Marcia di protesta in Texas contro il tentativo di vietare il farmaco abortivo a base di mifepristone. (Keystone)
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«Ma l’atomica può partire anche per sbaglio»

Prospettive ◆ Il saggista Luca Ciarrocca commenta il rischio di un’escalation nucleare nel conflitto tra Russia e Ucraina

Lo scorso 21 febbraio, nella sfida dei discorsi a distanza tra Putin e Zelensky in avvicinamento al primo anniversario di guerra (caduto tre giorni dopo), il presidente russo ha annunciato di sospendere la partecipazione del suo Paese dal trattato New Start che regola la limitazione delle armi nucleari e che fu firmato nel 2010 dai presidenti USA Barack Obama e russo Dmitri Medvedev. Brutta notizia, se si considera che era l’unico importante trattato bilaterale fra Washington e Mosca rimasto in piedi sul controllo degli armamenti nucleari. Un testo che limitava a 1550 il numero di testate nucleari e a 700 quello dei lanciatori nucleari strategici. Moltissimi, certo, ma comunque assai di meno rispetto agli arsenali dei tempi della guerra fredda.

Probabilmente, stando a numerosi esperti, l’annuncio di Mosca è soprattutto propagandistico e l’intento di Putin è quello di spaventare l’opinione pubblica occidentale per spingerla a boicottare l’invio di armi all’Ucraina. Ma la storia di questo conflitto ci ha insegnato che le minacce di Mosca non vanno prese sottogamba: anche la possibile invasione annunciata da Putin era considerata poco più di una provocazione. E si è visto come è andata a finire. Il conflitto atomico sembra improbabile, ma resta possibile. Se partisse un attacco simile si scatenerebbe una reazione immediata e contraria da parte della NATO. Come dire: l’inizio della Terza guerra mondiale. Già nell’agosto del 2022 il segretario generale dell’ONU aveva avvertito: «Basta un errore di calcolo per l’olocausto nucleare». Un’esagerazione? Lo abbiamo chiesto al giornalista e saggista italiano Luca Ciarrocca, che sull’incubo nucleare ha scritto un libro inquietante, Terza guerra mondiale, edito da Chiarelettere.

Partiamo da una constatazione:

Mosca non cessa di agitare il fantasma dell’attacco nucleare. Sono solo terrificanti «boutade»?

Diciamo che la Russia ha minacciato l’Europa in termini propagandistici, ha mostrato in tv la traiettoria dei missili su Londra e su altre capitali europee, spiegando che ci avrebbero messo tre minuti per distruggerle. Ora siamo di fronte a una guerra prolungata. In certi momenti il rischio immediato di utilizzo di armi nucleari sembrava caduto, ma in realtà rimane intatto.

Rispetto a qualche decennio fa il numero di testate nucleari nel mondo è molto diminuito, ma non per questo l’arsenale atomico è meno pericoloso. Come mai?

È vero, secondo la preziosissima fonte della FAS (Federation of American Scientists) le testate nucleari sono passate da un picco di circa 70’300 nel 1986 a una stima di 12’705 all’inizio del 2022. Ma il pericolo resta altissimo. Quasi 13 mila testate nucleari, la metà delle quali sono pronte ad essere lanciate nel giro di pochi minuti, sono un rischio reale di cui non si parla mai. Il numero è calato sì, ma rimane altissima la probabilità – soprattutto in una fase di scontro tra Russia e NATO – che per errore o per precisi obiettivi strategici questi missili vengano utilizzati. Inoltre va detto che la potenza dei missili nucleari è nel frattempo aumentata e ci sono nuove testate, definite «nucleari tattiche», che sono a basso potenziale

ma comunque di una potenza devastante. Essendo «tattiche» potrebbero essere usate realmente sul territorio di guerra.

Ndr.: Le «armi nucleari tattiche» hanno un potenziale distruttivo ridotto (max 50 kt), sono montate su vettori a raggio limitato (pochi km) e hanno una carica radioattiva ridotta.

Quelle «strategiche» possono colpire da un Continente all’altro e vanno dai cento kt a più di un megatone, pari a un milione di tonnellate di TNT.

Che danni può causare un ordigno nucleare «tattico»?

Dipende da dove esplode. Se esplode in piena campagna vedremmo il fungo atomico che conosciamo per le immagini storiche o dai film di Hollywood; se esplode in una città il suo danno non sarebbe inferiore a quello provocato dalle atomiche esplose finora in città per porre fine alla Seconda guerra mondiale, quelle di Hiroshima e di Nagasaki. Parliamo di decine di migliaia di morti e, per città grandi, di oltre centomila morti. E questo con le testate «tattiche», che hanno una potenza molto inferiore a quella delle testate «strategiche».

La scorsa estate, all’inizio della Decima conferenza del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha detto che «basta un errore di calcolo per l’olocausto nucleare». È possibile?

Guterres ha ragione e l’errore è possibile. Dedico un capitolo nel libro ai numerosissimi episodi in cui l’errore umano o l’intelligenza artificiale possono causare un lancio non voluto. Parto da un episodio famoso, quello del tenente colonnello Petrov che nell’autunno del 1983, agendo in base al buonsenso, salvò la Terra dalla catastrofe atomica.

Cos’era successo?

Lui era l’ufficiale in servizio nella base militare sovietica Serpukhov-15, sede del centro di comando della rete di allarme nucleare. Quel giorno il sistema di allarme, basato su una rete di satelliti in orbita, segnalò il lancio di un missile americano. Petrov mantenne la calma, sospettando un errore del computer. Ma il sistema segnalò un nuovo lancio di missili. Poi un altro e un altro ancora, fino a evidenziare sullo schermo cinque missili a testata nucleare in arrivo con

una traiettoria che puntava ai territori URSS. Pensò che un attacco preventivo, tale da scatenare la Terza guerra mondiale, non sarebbe mai potuto partire con soli cinque missili. Interpretò il segnale come un errore del satellite. Perciò non diede l’allarme evitando che partisse automaticamente la rappresaglia sovietica e quindi la Terza guerra mondiale. Aveva ragio-

Casa prefetturale della Promozione industriale di Hiroshima, epicentro dell’esplosione atomica del 6 agosto 1945. (Yu – Unsplash)

ne lui. Gli storici spiegano che ciò che il satellite sovietico interpretò come il lancio di cinque missili balistici intercontinentali dalla base nel Montana era in realtà l’abbaglio del sole riflesso dalle nuvole.

L’anno scorso, a New York, nella conferenza del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari

l’allora presidente della Confederazione Ignazio Cassis ha chiesto agli Stati nucleari di «rinunciare all’armamento nucleare e di tornare sulla strada del controllo degli armamenti e del disarmo». Bello. Ma chi garantisce che se una Nazione nucleare comincia a disarmarsi le altre o un’altra non ne approfittino per attaccarla?

Se si pensa che all’apice della guerra fredda c’erano 75 mila testate e adesso sono 13 mila, lo smantellamento progressivo è avvenuto grazie ad accordi bilaterali soprattutto tra le due potenze nucleari maggiori, USA e Russia, che possiedono il 91% di tutti i missili. Indipendentemente da tutto quello che accade sul terreno, il cambiamento dovrebbe essere concordato tra Mosca e Washington. È chiaro che adesso i rapporti sono incattiviti e la questione non è sul tavolo. C’è un terzo giocatore in termini geopolitici, la Cina, che secondo un rapporto riservato del Pentagono nei prossimi anni dovrebbe triplicare il suo arsenale nucleare. Passerà dagli attuali 350 ai mille e oltre. Resterà ben sotto Stati Uniti e Russia che ne hanno oltre 5 mila a testa. Ma dal 24 febbraio 2022 in poi lo scenario purtroppo nega l’assunto di Cassis. Un esercizio utopistico di riduzione delle armi nucleari purtroppo è negato dalla rottura degli equilibri internazionali dovuta all’invasione dell’Ucraina.

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La Casa museo di Eugène Delacroix Artista colto inserito nell’ambito culturale parigino assieme ad altri grandi del suo tempo, amante dei fiori: scopriamo la sua dimora

Pagina 29

Poetiche stanze interiori

La nuova raccolta di versi di Guido Monti racconta di universi interiori affollati di fantasmi, amici, autori amati e famigliari

Pagina 31

Julia Fischer, libera e schietta

Tra le più acclamate violiniste di oggi suonerà al LAC come solista del Concerto di Brahms con Markus Poschner che dirigerà l’OSI

Pagina 33

Goethe e Schiller, non fu amore a prima vista

Feuilleton ◆ Lo scambio epistolare integrale tra i due giganti della letteratura tedesca pubblicato per la prima volta da Quodlibet

Quante volte Goethe nelle sue opere ci ha parlato della bellezza delle affinità di spirito o della ricchezza nel trovare dei compagni d’anima. Pensiamo soltanto al Wilhelm Meister e alle Affinità elettive… Certo però avere la fortuna e la gioia di trovare in vita delle corrispondenze d’animo cosi profonde è tutta un’altra storia.

«Tanti auguri per il nuovo anno! Facciamo in modo di trascorrerlo come abbiamo terminato il precedente, prendendo vicendevolmente parte a ciò che amiamo e coltiviamo. Che fine faranno la società e la socievolezza se gli spiriti affini non entrano in contatto tra loro? Mi rallegra la speranza che l’influenza reciproca e la confidenza tra noi aumenteranno sempre più».

Goethe scrive a Schiller il 3 gennaio del 1795. Ai tempi Schiller vive ancora a Jena ma se a qualcuno di voi è mai capitato di visitare la casa del drammaturgo a Weimar an der Esplanade (dove visse dal 1802 fino alla sua morte) e quella del padre di Faust am Frauenplan 1, vi ricorderete che non ci può essere nulla di più diverso. La casa di Goethe dagli spazi ampi e luminosi è sontuosa, impreziosita sin nel più piccolo dettaglio con uno splendido giardino sul retro; quella di Schiller invece più sobria, spartana e classica. Se le case ne avessero rispecchiato gli animi potremmo dire che mai due persone furono più diverse, ma leggendo le loro lettere e diventando testimoni di un profondo sodalizio umano e professionale in crescendo non possiamo che riconoscere in loro due compagni d’anima (nella foto ritratti nel monumento di Ernst Rietschel a Weimar davanti al Nationaltheater).

Non fu però amore a prima vista come conferma Maurizio Pirro curatore insieme a Luca Zenobi del volume uscito per Quodlibet che raccoglie il carteggio integrale tra i due letterati dal 1794 al 1805. Galeotta fu la lettera di Schiller a Goethe il 13 giugno 1794 in cui si rivolge a lui con «Illustrissimo signore, Stimatissimo signor Consigliere Segreto» in cui gli chiede di collaborare alla rivista «Horen». «Goethe a quel tempo ha già una posizione sicura come uomo di potere anche nel campo culturale mentre Schiller è il classico outsider. Questa differenza si rispecchia nelle prime fasi del loro rapporto caratterizzate da reciproca diffidenza. All’inizio non si sono affatto simpatici, si evitano. Goethe vede in Schiller un giovane intemperante, un letterato privo di gusto, Schiller vede in Goethe l’uomo di potere che pratica una concezione conservatrice della letteratura e dell’arte. Le cose cambiano con l’incontro che avviene nel 1794 alla viglia del carteggio. La diffidenza iniziale tra i due viene superata dalla capaci-

tà di Schiller di toccare alcuni punti su cui Goethe era molto sensibile».

È evidente nella lettera a Goethe del 28 agosto del 1794 «nota come lettera di compleanno» in cui egli lo lusinga e traccia con mirabile sintesi il profilo di una personalità spirituale e culturale. «Goethe per la prima volta si sente profondamente compreso, sente di avere vicino un interlocutore capace di cogliere la grandezza, la molteplicità del suo disegno culturale». A soprendere del carteggio è anche la grande cura, la gentilezza, l’attenzione che i due hanno l’uno per l’altro. «C’è una grande sollecitudine. L’epistolario in Germania è stato letto come un documento significativo non soltanto dal punto di vista della storia dell’arte e dal punto di vista della storia delle idee, ma anche perché l’amicizia, la solidarietà che si sviluppa tra i due si estende a tutto il complesso della loro esistenza. C’è una continua premura, una continua cura reciproca che riguarda non soltanto le comuni imprese di carattere letterario e culturale ma tocca una profonda consonanza sul piano del gusto, tocca anche una empatica partecipazione di entrambi alle vicende della vita privata di ciascuno dei due. È un

documento culturale ma innanzitutto di una profonda affinità umana». Le lettere contengono molte sfumature della loro vita quotidiana e domestica, Schiller conclude le sue mandando a Goethe i saluti della moglie, condividono i loro acciacchi e spesso si inviano casse di legno colme di verdure appena raccolte o addirittura dei pesci appena acquistati.

Il loro scambio è un nutrimento di spirito e di cuore: «I nostri recenti incontri hanno rimesso in moto tutto il complesso delle mie idee… l’intuizione del Vostro spirito ha acceso in me una luce inattesa» (Schiller a Goethe il 23 agosto 1794); si inviano i manoscritti delle loro opere, collaborano agli epigrammi, Goethe chiede consiglio a Schiller per il suo Wilhelm Meister e Schiller a lui per il Wallenstein. Ed è proprio grazie a Schiller che Goethe decide di riprendere in mano la materia del Faust tanto che all’indomani della sua morte nel 1808 Goethe pubblicherà la prima parte della sua opera: «È evidente il debito, il legame maturato negli anni precedenti con il drammaturgo».

«Tutta la materia del Meister è pervasa nell’immaginazione di Goethe da un fittissimo, inespugnabile signi-

ficato simbolico. Il Meister che noi intendiamo come romanzo di formazione mostra progressivo sviluppo delle migliori capacità dell’individuo alla ricerca di un accordo tra le facoltà del singolo e le necessità della comunità in cui il singolo è iscritto. Ecco Schiller, in vari passaggi, trova questa costruzione simbolica, eccessivamente astratta, troppo difficile da decodificare e induce Goethe a una più netta esplicitazione della propria intenzione».

Schiller invece chiede lumi all’amico sul motivo astrologico nel suo Wallenstein «Goethe e Schiller sono innanzitutto – tra le tante altre cose – due uomini di teatro, per questo la discussione che si sviluppa tra loro riguarda soprattutto la teatrabilità della materia – la maggiore o minore efficacia della resa dello spettacolo a teatro. Goethe ritiene il motivo astrologico troppo astratto per riuscire a realizzare un effetto sicuro sul pubblico e sollecita Schiller a concretizzarlo in maniera più netta e a renderlo più facilmente comprensibile allo spettatore. Ma la discussione tra i due supera poi aspetti di carattere contingente e va a toccare la funzione complessiva che il teatro deve assumere nel pro-

getto culturale che è alla base della loro collaborazione». Nello spirito del classicismo il l teatro doveva avere una finalità pedagogica, il pubblico doveva essere educato, «doveva essere portato a sviluppare gradualmente tutte le proprie migliori capacità e a sviluppare l’intero spettro della propria umanità. Lo spettacolo teatrale doveva contribuire al perfezionamento spirituale, alla crescita morale dello spettatore».

Il Settecento europeo è il secolo delle grandi scritture epistolari, pensiamo a Pamela, o la virtù ricompensata di Samuel Richardson (1741) o a La nuova Eloisa di Rousseau (1761). «La lettera è il mezzo privilegiato della comunicazione tra dotti, tra eruditi, è il mezzo che dà corpo e sostanza a un altro grande ideale che è alla base di tutta la cultura del Settecento: la socievolezza, l’apertura degli intellettuali a una dimensione collettiva, comunitaria».

Bibliografia

J. W. Goethe, F. Schiller, Carteggio 1794-1805, Maurizio Pirro e Luca Zenobi, Istituto italiano di studi germanici e Quodlibet (Macerata), 2022.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 27
Keystone Natascha Fioretti

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L’amore di Delacroix per la musica e il suo giardino

Casa museo/8 ◆ Alla scoperta della dimora parigina del pittore in via rue Furstemberg nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés

Eugène Delacroix è un giovane elegante, delicato e pallido, capelli neri e occhi fieri, labbra sottili, baffettini; «era morbido, vellutato, carezzevole come una di quelle tigri di cui eccelleva nel rendere la grazia agile e tremenda», così lo descrive Théophile Gautier verso il 1830. In un certo senso come la sua pittura, forte, vigorosa, piena di colore e movimento, pàthos, sensualità e furore. Delacroix (17981863) è sicuramente uno dei massimi artisti del suo periodo. Charles Baudelaire, tra i suoi più grandi ammiratori, scrive che se «la Fiandra ha Rubens, l’Italia ha Raffaello e Veronese; la Francia ha Le Brun, David e Delacroix».

Il giardino comprende rose, gigli, caprifogli, nasturzi, girasoli, giacinti, narcisi, tulipani e Delacroix se ne prende cura amorevolmente

Artista molto prolifico, scrittore, lettore colto, incarna l’anima del Romanticismo. Ci ha lasciato opere iconiche come La Mort de Sardanapale del 1827 e La Liberté guidant le peuple del 1830. Quest’ultimo riprende lo schema de Le Radeau de la Meduse di Théodore Géricault del 1818-1819. Stessa impostazione compositiva verticale, stesso ammassamento dei corpi in basso; la Marianna della figura centrale nel caso de La Liberté guidant le peuple sventola la bandiera ne Le Radeau de la Meduse, l’uomo un semplice cencio. Diversa l’angolazione visiva. Nel dipinto di Géricault le figure sono di schiena e si allontanano verso l’orizzonte; in quello di Delacroix le figure sono frontali e si dirigono verso lo spettatore. Géricault si ispira a fonti italiane (Michelangelo e Caravaggio) mentre Delacroix a quelle fiamminghe (Rubens e Van Dyck). Nel 1830 l’artista è un rivoluzionario che si esprime nel dipinto dell’insurrezione di luglio contro il terrore bianco.

Poi nel 1848, quando la classe operaia insorge contro la borghesia, si «tra-

sforma» in controrivoluzionario ritirandosi in campagna.

La storica mostra del 2018 al Musée du Louvre, curata da Sébastien Allard e Côme Fabre, divide il suo lavoro in tre periodi. Il primo, dal 1822 al 1834, consiste nel superamento del sistema Neoclassico; il secondo, dal 1835 al 1855, è caratterizzato dalle monumentali opere pubbliche e infine il terzo fino al 1863, anno della morte, presenta delle nature morte e dei paesaggi. Fa eccezione il periodo di sei mesi in Marocco nel 1832 che gli ispira parecchi dipinti. I temi dei suoi lavori spaziano dall’erotismo alla guerra sino all’esotismo.

Artista colto inserito nell’ambito culturale parigino assieme ad Alexandre Dumas, Baudelaire, Victor Hugo, Eugène Delacroix è amante della musica e predilige senza riserve l’opera di Fryderyk Chopin. A proposito Léon Rosenthal sostiene proprio che la sua pittura cerca di esprimere qualcosa di irrazionale simile alla musica. Ed è lo stesso artista che nel Journal del 20 gennaio 1855 scrive: «Il n’y a rien à comparer à l’émotion que donne la musique: elle exprime des nuances incomparables. Les dieux, pour qui la nourriture terrestre est trop grossière, ne s’entretiennent certainement qu’en musique».

Nel 1857 si installa in rue Furstemberg a Parigi per avvicinarsi alla chiesa di Saint-Sulpice dove sta realizzando alcune storie sacre nella Chapelle des Saints-Anges. Prima abitava al 54 di rue Notre-Dame de Lorette, nel nono arrondissement. È già ammalato ma contemporaneamente lavora ai cicli del Louvre e dell’Hotel de Ville. Si fa affiancare da Pierre Andrieu e per le parti decorative da Louis Boulangé.

Rue Furstemberg è nel quartiere di Saint-Germain-des-Prés; zona che conosce bene e dove ha vissuto da giovane. La piazzetta di fronte alla casa è molto particolare e ha al centro due alberi di catalpa che recentemente sono raddoppiati. L’entrata è decisamente anonima e l’appartamento si trova al primo piano. Comprende un salone, una cucina, due camere e un

Le nuove povertà

salotto. Dà su di un giardino a uso esclusivo dell’artista. Scrive nel Journal del 28 dicembre 1857: «Mon logement est décidément charmant. J’ai eu un peu de mélancolie après dîner, de me trouver transplanté. Je me suis peu à peu réconcilié et me suis couché enchanté». Il giardino comprende rose, gigli, caprifogli, nasturzi, girasoli, giacinti, narcisi, tulipani e Delacroix se ne prende cura amorevolmente. Alla sua morte diversi locatari si susseguono nell’appartamento fino al 1920 quando un gruppo di artisti – Maurice Denis, Paul Signac, Edouard Vuillard – fondano la Société des Amis d’Eugène Delacroix. L’atelier viene trasformato in un museo e aperto al pubblico nel 1932. Sappiamo com’era il giardino al tempo di Delacroix grazie a una fattura dettagliata intitolata Memoire de jardinage

pour le compte de Monsieur Delacroix del 26 novembre 1857. Nel 2012 viene ristrutturato per renderlo simile all’originale e per allestirlo viene chiamato

Pierre Bonnaure, capo giardiniere de Les Tuileries.

A lato del giardino Delacroix fa costruire il suo atelier composto da un unico grande salone, orientato a Sud, con una vetrata zenitale che fino a qualche anno fa era aperta.

La facciata ricorda quelle neoclassiche londinesi e il suo amore per l’antico. Nelle tre metope realizza in bassorilievo le gesta di Teseo, eroe di Atene, dove unisce i ricordi delle vecchie visite al British Museum di Londra e al Louvre di Parigi. Nel salone oltre al grande cavalletto e alla sua tavolozza troviamo oggetti collezionati nel viaggio in Marocco come delle ceramiche di Fès, armi, strumenti

musicali. Poi dipinti, disegni, sculture. Suoi o di colleghi. Da notare due ritratti: quello di Delacroix a Thales Fielding e quello dello stesso Fielding a Delacroix. Uno splendido nudo maschile o la copia de La Mort de Sardanapale a opera di Frédéric Villot del 1845.

L’appartamento ospita esposizioni a tema, sempre dedicate all’artista e in collaborazione con il Louvre il quale custodisce moltissime sue opere a cominciare da quelle monumentali. Attualmente e fino al 18 settembre è allestita la mostra dal titolo: Delacroix e le arti: un ponte misterioso

Dove e quando Musée National Eugène Delacroix, 6 rue de Fürstenberg, Parigi. Tutti i giorni dalle 9.30-17.30, salvo martedì. www.musee-delacroix.fr

Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti

Betta sedette sull’orlo della vasca.

Si accorse che stava tremando, per lo sforzo di non aggredire Tom, a pugni, a calci, a schiaffi.

Si coprì il viso con le mani e rimase così.

L’istinto l’avrebbe portata a ribattere: e tu? Che cosa hai guadagnato tu? Ti sei fatto prestare dei soldi da un amico, io li ho accettati da uno sconosciuto. Che differenza c’è?

Ma una voce, dentro di lei, una voce che non ascoltava quasi mai, le suggerì di tacere. Di cedere.

Di farsi vedere sopraffatta. Di dargli partita vinta e lasciare il ring con la dignità degli sconfitti.

Si alzò in piedi, passò davanti a Tom che le afferrò una spalla, e la costrinse a fermarsi, a guardarlo in faccia.

«Dove scappi?»

«E dove vuoi che scappi?»

Il tono era talmente triste da impe-

dire ogni ulteriore approfondimento del tema. Qualsiasi azione potessero progettare per dare un assetto al vuoto che sentivano entrambi, era destinata a naufragare per la ristrettezza dell’ambiente in cui vivevano.

Così come ogni litigio, ogni sgarbo dell’uno o dell’altra, ogni incidente era destinato a scivolare nel ritmo ottuso dell’intimità, e trasformarsi in routine, fossero quei 15 anni (tanto era durata la loro relazione) trascorsi a viversi addosso o la condizione di povertà che impediva ogni rilancio, ogni premio, ogni fuga. Ogni celebrazione.

«Fatti una doccia», disse Betta, dopo aver annusato la felpa addosso a Tom «Io vado a dormire».

Quando sentì l’acqua scorrere nel bagno aprì il divano letto e si distese su un fianco.

In attesa. Gli occhi chiusi.

Dopo qualche minuto sentì il corpo di Tom aderire alla sua schiena. La pelle ancora umida, il sesso che spingeva contro la curva delle sue natiche, con la violenza di un desiderio contraffatto.

Non avevano voglia di fare l’amore.

Ma non erano in grado di fare altro.

Verso sera, dopo aver dormito, spossati per la fatica di consentire ai loro corpi di annullare le distanze provocate dal litigio, si vestirono con i loro abiti migliori, Tom indossò la giacca nuova e Betta un vecchio maglione di cachemire, scollato, verde mela che le lasciava continuamente scoperta una spalla, ora la destra, ora la sinistra, seguendo i movimenti del suo corpo quasi fosse dotato di vita propria.

Dovevano andare a prendere Sara, che era rimasta dai nonni e Esther li aveva invitati a cena.

«Venite insieme?» aveva chiesto a

Tom, con una sfumatura di divertimento.

Un secco «sì, certo» era stata la risposta.

Camminavano adagio verso il Ghetto, dove abitavano Esther e Candido, camminavano tenendosi per mano, stupiti di essere tornati a tenersi per mano così rapidamente.

E senza che Betta si fosse impegnata a inventare una giustificazione ragionevole ai soldi che aveva ricevuto e speso. Erano tornati a muoversi sui binari della consuetudine matrimoniale, nessuno dei due poteva scartare di lato, o tornare indietro, senza deragliare, dovevano procede adagio, appaiati, paralleli, silenziosi.

Quando arrivarono sotto il palazzo antico dove abitavano i suoi genitori, Tom impedì a Betta di suonare subito il citofono.

«Aspetta».

Dai ristoranti allineati fra il Tempio e la sinagoga, si spandeva il profumo dei carciofi alla Giudia, dai tavoli sistemati accanto alle stufe si alzava, a ondate, la rumorosa allegria del vino e del cibo. Il ghetto dove vivevano, nel secolo scorso, gli ebrei romani, era una delle attrazioni turistiche della città. Il quartiere era stato svuotato il 16 ottobre del 1943, dai tedeschi, una deportazione di massa, resa ancora più atroce dalla beffa che l’aveva preceduta: le famiglie ebree che vivevano in quell’incrocio di stradine lastricate di cubetti di porfido, avevano consegnato tutto l’oro che possedevano ai nazisti, perché li lasciassero in pace. E, subito dopo questo collettivo sforzo economico, erano stati comunque strappati, nella notte, dalle loro case.

(32 – Continua)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 29
Vista del giardino e della facciata. (© 2017 – Musée du Louvre / Olivier Ouadah)
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Le stanze del poeta sono universi interiori affollati

Pubblicazione ◆ Per peQuod è uscita una nuova raccolta di poesie di Guido Monti

Che cosa sono le stanze con cui Guido Monti intitola la sua nuova raccolta di poesie (Le stanze, editore peQuod di Ancona)? Sono da una parte le strofe che compongono i singoli componimenti: strofe che hanno un passo piuttosto regolare di tre, quattro, cinque, sei versi, strofe aperte le une alle altre, senza cesure di punteggiatura né di maiuscole, e separate solo da spazi bianchi, soglie da cui si accede da una stanza all’altra. Ma insieme sono le «stanze» entro cui il poeta convoca i suoi fantasmi, i personaggi di una vita famigliare, gli amici, gli autori amati, i vivi e i morti, gli oggetti domestici, la memoria, le memorie fragili eppure salvifiche. Si potrebbe dire che si tratta in buona parte di stanze della memoria dove la memoria, per essere almeno fragile energia vivificante, si deve di continuo confrontare con il presente e con il futuro.

Queste Stanze sono componimenti-casa entro cui si agitano tante storie e voci dialoganti tra loro, un coro di «tu» che entra in dialogo con la voce del poeta. Ma è soprattutto il dialogo tra le generazioni l’esile cuore pulsante della raccolta: protagonista una bimba, Nina, che fa capolino qua e là, con «il tuo sorriso che qui gira», portando la speranza nel «tempo senza compassioni», come viene annunciato nella poesia d’apertura: «E proprio ora intendo qual è stato l’attimo bello Nina / quel tuo andirivieni, che ha fatto nuovo il vecchio». E co-

me viene ricordato, a sigillo, nel bellissimo componimento di chiusura, dove Nina riappare ancora una volta a riaccendere la primavera inoltrata il cui verde «non è più / quella gloria di un tempo».

Sono poesie di versi lunghi (a volte oltre le venti sillabe) dal passo calmo, distesamente narrativo, che fanno pensare per certi aspetti alle «cronache» di Elio Pagliarani, per altri ancora alle prose dell’ultimo Raboni. Certamente evocano un tipo di poetica che un grande studioso come Pier Vincenzo Mengaldo ha definito «lo stilismo dell’usuale», evocando anche il Montale più anziano. L’usuale è comunque pieno di storie (e di miracoli), che sia lo «sferraglio autostradale» o siano i «casolari decollati», una «casetta del boom anni ’80», i «so-

cial fluttuanti». O siano i panorami marchigiani dipinti da Tullio Pericoli, «infiniti colli» con «colori terrosi e antichi»… Quella usuale o quotidiana convivenza di vecchio e nuovo, di incanto e disincanto, di squallore e di bellezza che è tipica delle province italiane, come quella in cui è nato l’autore.

Guido Monti, classe 1971, di San Benedetto del Tronto, critico (sul «Manifesto» e su «Azione»), autore di due raccolte poetiche precedenti promosse da un padrino come Maurizio Cucchi, redattore della rivista «In forma di parole» fondata da Gianni Scalia, suo maestro e amico, che fu sodale di Pasolini, di Fortini, di Roversi al tempo della storica impresa di «Officina». Alla memoria di Gianni, chiamato «il mio Borges» nella poe-

Un talk show per l’adozione

Teatro

Siamo quelli giusti porta in scena i risultati del progetto Luminanza

Arie di primavera

Musica ◆ Ritorna l’apprezzato appuntamento con i concerti delle Camelie

La platea gremita del Teatro di Chiasso mercoledì scorso ha accolto il debutto di Siamo quelli giusti, atto unico di Lalitha Del Parente. È il primo frutto tangibile del progetto Luminanza, un’iniziativa coordinata da Alan Alpenfelt e Mara Travella e lanciata nel 2020 con lo scopo di formare giovani talenti della scrittura drammaturgica della Svizzera italiana sotto i 32 anni.

E i risultati non si sono fatti attendere. Grazie tutta a una serie di incontri didattici sulla storia del teatro e con maestri della drammaturgia contemporanea italiana e svizzera, un gruppo di autori selezionati ha già potuto presentare estratti dei loro lavori sotto forma di lettura in occasione delle ultime due edizioni del Festival Internazionale del Teatro.

Oltre a far conoscere nuove realtà, il pregio di Luminanza è quello di creare attenzione su aspetti della drammaturgia contemporanea poco conosciuti nella nostra regione. Una sensibilità decisamente in ritardo rispetto a quanto viene fatto nelle altre aree linguistiche del nostro Paese dove vengono creati bandi di scrittura promossi a livello cantonale che premiano gli autori più interessanti dando loro un contributo per poter mettere in scena i propri lavori.

Una realtà che da noi sappiamo esistere solo in parte e dall’andamento

sporadico, una realtà che spesso rimane confinata nell’amatorialità lasciando così marciare sul posto il potenziale creativo di giovani che altrimenti potrebbero confrontarsi con dinamiche professionali più solide. Ma questo è un vecchio discorso sul quale è raro incontrare interlocutori di livello.

Lo spunto per Siamo quelli giusti Lalitha Del Parente, originaria del Bangalore e cresciuta in Svizzera, è quello dell’adozione: una misura sussidiaria di protezione del minore che viene affidato a una famiglia, come recita la definizione istituzionale. Un tema complesso e carico di ricadute sociali, psicologiche e emotive che certamente è ingiusto liqui-

sia omonima, Monti dedica affettuosi versi di gratitudine: «e spero Gianni di riveder un giorno il tuo sorriso magari / in forma di parola, proprio ora che in questo foglio si sparge / e risale come laica preghiera sul suo irreversibile silenzio».

Si sarà capito che le stanze della memoria sono anche stanze dell’ammirazione e del ringraziamento: verso i grandi poeti evocati come numi tutelari (Keats, Auden, Montale, Rodari, Zagajewski…), verso pochi semplici oggetti che diventano amuleti, verso gli amici e i maestri (non solo Scalia ma anche, tra gli altri, un professore di nome Alberto, cui il poeta deve la passione per Gadda…). E verso certe figurine (Monti ama i diminutivi affettuosi) che furono vicine e che hanno ormai preso congedo, o sono ancora per un po’ sul limite. Come nel Finale di Vittoria: «Vittoria si affaccia ora vecchia sullo stradone dove macchine / girano tra il supermarket, l’ulivo e un piccolo asilo coi giochi / sbiaditi, Vittoria gira in pochi metri, un letto, un tavolino…». Nella sua stanza, seduta «tutta storta», in una torsione del tempo e della memoria, nonna Vittoria chiede a Guido, il poeta ormai adulto, di salutare il nipotino che fu, il sé stesso bambino. Le stanze delle vertigini. Anche Vittoria, come Nina, fa nuovo il vecchio.

Bibliografia

Guido Monti, Le Stanze, peQuod, Ancona, 2022.

Quattro appuntamenti imperdibili per gli amanti della musica antica con i celebri Concerti delle Camelie. Si parte venerdì 19 marzo con Fiorenza de Donatis (violino) e Francesco Corti (clavicembalo) che presenteranno Johann Sebastian Bach e la Germania del Seicento, seguiranno gli appuntamenti di venerdì 24 marzo con il Quartetto Delfico con Operisti da camera e venerdì 31 marzo con l’Ensemble Concerto Scirocco con Masques e fantasie nell’Inghilterra del 16esimo e 17esimo secolo. La rassegna si chiuderà il 21 aprile con Gaetano Nasillo e Sara Bennici al violoncello e Anna Fontana al clavicembalo con Genio e sregolatezza (tutti gli appuntamenti sono alla Sopracenerina di Locarno alle ore 20.30).

Info: concertidellecamelie.com

Concorso

«Azione» mette in palio 5x2 biglietti per la serata di apertura del 17 marzo, Johann Sebastian Bach e la Germania del Seicento. Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Camelie») entro sabato 11 marzo 2023.

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dare con poche righe ma che l’autrice ha scelto di affrontare immaginandolo inserito in un avveniristico formato televisivo, una sorta di talent show (oggi così di moda) dove si confrontano aspiranti genitori. Il premio in palio è una silenziosa e misteriosa bimba che osserva silenziosa con in braccio un coniglio di peluche. La regia di Caterina Filogramo ha scelto attori multietnici per interpretare i candidati genitori mentre la piccola è un’occidentale. Una particolarità che aiuta a mettere in evidenza alcuni aspetti fra i più sensibili legati all’adozione. Ma soprattutto è il dialogo fra i candidati stimolato da un inquietante presentatore-guru che oltre a farci scoprire storie personali e di coppia, racconta la visione della famiglia, rivelando aspetti da sempre problematici di un’adozione come l’esigenza di colmare una mancata maternità che può nascondere egoismo e generare una larvata violenza psicologica, involontaria ma dolorosa.

Applausi per tutti al termine a partire dagli interpreti: Ashai Lombardo Arop, Livio Beshir, Luz Beatriz Lattanzi, Federico Lima Roque, Rosanna Sparapano e Arianna Gianinazzi. Replica l’11 marzo al Teatro Sociale di Bellinzona.

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Formazione universitaria in ingegneria con specializzazione in Facility Management MAS in Real Estate Management, corsi di specializzazione in Sicurezza e Gestione Energetica, costituiranno titolo preferenziale Almeno 5 anni di esperienza nel ramo Competenze certificate nella conduzione di un team di lavoro Ottime conoscenze dell’italiano, del tedesco e del francese (orale e scritto) Facilità di analisi, sintesi, negoziazione, creatività, problem solving, innovazione Spiccate competenze sociali, manageriali e imprenditoriali

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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 31
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La musica è condivisione

Concerto ◆ La violinista Julia Fischer suonerà al LAC giovedì 16 marzo

Controcorrente

Festival ◆ Arti e diversità si incontrano a Ginevra

Cosa ne sarebbe delle freddi serate invernali ginevrine senza il calore umano del Festival Antigel? Avvenimento imperdibile del panorama culturale della città di Calvino, tenutosi quest’anno dal 3 al 25 febbraio, Antigel è diventato con gli anni l’appuntamento di riferimento per gli amanti di esperienze artistiche controcorrente. Esigente e destabilizzante ma anche accogliente e inclusivo, Antigel soddisfa la curiosità di tutti senza scadere mai nel mainstream

Il 15 giugno entrerà negli «anta», ma Julia Fischer non è solo una delle più acclamate violiniste di oggi: la sua carriera ha ampiamente superato il quarto di secolo, toccando i palcoscenici più nobili e legandosi alle orchestre, ai direttori e ai musicisti del gotha concertistico mondiale. Ha anche dovuto superare i tanti appellativi e le tante curiosità generate dal suo essere bella oltre che giovane e talentuosissima: per lei e alcune sue colleghe come Hilary Hahn era stata coniata l’espressione «lolite dell’archetto». Lei ha sempre fatto spallucce, declinando le domande che riguardavano aspetti estetici o modaioli, così come poi ha fatto in seguito quando si è sposata ed è diventata madre di due figli.

«Anche adesso che ho aperto una mia piattaforma mediatica, non condivido che cosa mangio a pranzo, ma brani che suono, che ho ascoltato o che ho scoperto e che credo meritino di essere conosciuti» racconta la trentanovenne bavarese, attesa giovedì prossimo al LAC come solista del Concerto di Brahms, accompagnata da Markus Poschner che dirigerà l’Orchestra della Svizzera Italiana anche nella terza sinfonia Polacca di Ciajkovskij.

«Già prima avevo deciso di non incidere più per la major discografiche: non perché mi trovassi male, anzi, ma volevo essere totalmente libera, decidere che cosa, come e quando fare senza dovermi confrontare col responsabile marketing, col responsabile artistico, col responsabile logistico… Poi mi sono accorta che non stavo quasi più comprando dischi e mi sono detta: “Ma se non lo faccio io che sono musicista, immagino la gente…”, quindi ho deciso di aprire un mio canale per sperimentare un modo nuovo e più aperto per condividere la musica».

Libera e schietta, indipendente e intraprendente; Fischer lo è sempre stata, fin da quando, a dieci anni,

si esibiva in Conservatorio accompagnata al pianoforte da mamma Viera. «Ho iniziato a suonare a tre anni, non c’è stato un momento preciso in cui ho deciso che avrei fatto la concertista, ma non c’è mai stato un momento nella mia vita in cui mi è venuto in mente che avrei potuto fare qualcosa di diverso; la musica è sempre stata il mio orizzonte sul futuro». Restava da decidere semplicemente la strada da imboccare: a dodici anni si esibiva con varie orchestre, ma oltre che col violino anche al pianoforte; mostrando con gli 88 tasti una dimestichezza non meno promettente che con l’archetto; una passione mai abbandonata, visto che anche quando era ormai una stella del violino non ha rinunciato ad affrontare in pubblico pietre miliari della letteratura pianistica come il Concerto di Grieg. Più che di strumenti, per Fischer la musica è una questione di rapporti: «A me interessa condividerla ancor prima che suonarla. Per questo adoro dedicarmi al repertorio cameristico – ho fondato un mio quartetto con cui ho un’intensa attività – e amo legarmi a certe orchestre e a certi direttori con cui si è creata un’intesa profonda. Tra questi ho in mente David Zinman e la Tonhalle di Zurigo, e ricordo con piacere una tournée

Con «Azione» al LAC

«Azione» mette in palio alcuni biglietti per il concerto diretto da Markus Poschner con la violinista Julia Fischer giovedì 16 marzo alle 20.30 al LAC. Per partecipare al concorso inviate una mail a giochi@azione.ch, oggetto «Mozart» con i vostri dati (nome, cognome, indirizzo, no. di telefono) entro domenica 12 marzo alle 24.00.

che feci con l’Academy of St. Martinin-the-Fields, senza direttore: c’era un rapporto diretto tra me e gli orchestrali, alla fine delle prove venivano ora i violisti ora i violoncellisti per discutere su come avremmo suonato certi passaggi la mattina successiva».

Un altro modo di condividere è l’insegnamento: «Più passano gli anni e più il trasmettere ai giovani diventa il punto centrale del mio essere musicista. Sarà forse una questione genetica, perché in casa mia tutti sono insegnanti: mia mamma di pianoforte, mia zia di storia, mio fratello di danza classica, i miei nonni erano maestri.». La condivisione e la promozione della musica sono temi che Fischer ha sollevato anche con i media: «Durante la pandemia l’orchestra della Radio Bavarese ha comunque continuato a suonare seppur all’inizio nella sala vuota; sarebbe stato bello che la TV, come fatto da altre emittenti, trasmettesse il concerto del venerdì invece della finale dei mondiali di calcio del 1990. Perché? Pensavano che avrebbe avuto maggior audience? Ma i dati dicono che complessivamente va più gente a teatro che allo stadio!».

Poi c’è la condivisione col pubblico: «Il momento del concerto non è replicabile in prova perché il legame che si crea con chi ti ascolta non è accessorio o pura suggestione. Mi è capitato di fare prove ottime, ma che poi davanti alla gente non sortivano l’effetto immaginato; al contrario, altre volte sono arrivata sul palco perplessa di come avevamo preparato il concerto, e invece è stato splendido». Proprio a una prova è legato uno degli aneddoti della sua carriera che non scorderà mai: «Mi presentai per suonare il quarto concerto di Mozart, l’orchestra attaccò il terzo! Mi ero confusa, fortunatamente l’avevo suonato poco prima e andai a memoria; ma fu una prova per me piuttosto strana».

Grazie al dinamismo e alla passione dei cofondatori Thuy-San Dinh e Eric Linder, il festival si è evoluto e si è ampliato non trascurando però il contatto con il pubblico invitato a vivere un’esperienza artistica totale. Attraverso spettacoli di danza, performance, concerti e banchetti arty nei quali drag queen vegane e antispeciste diventano maîtraisses de cérémonie o ancora serate club che si trasformano in rituali di trance collettiva, Antigel si apre a esperienze al contempo condivise e intime, rassicuranti e destabilizzanti.

Il festival ginevrino, sempre in contatto diretto con l’attualità, parla del mondo d’oggi attraverso l’arte e la cultura. Il pubblico è spinto a partecipare a questo rituale collettivo, a riflettere insieme sul mondo sognando un futuro migliore, più inclusivo e creativo. Grazie alla cre-

scena dell’ADC (Association pour la Danse Contemporaine) in tempio del queer. Attraverso un quintetto esclusivamente maschile, la coreografa sfida il binarismo di genere e gli stereotipi legati al corpo, al male gaze e allo sguardo coloniale. Danze urbane e rituali antichi trasformano la coreografia in critica del genere inteso, per riprendere le parole della mitica filosofa statunitense Judith Butler, come performance del quotidiano. Grazie ai corpi dei suoi cinque ballerini, i codici della mascolinità stereotipata vengono stravolti, rielaborati e mostrati in tutta la loro grottesca assurdità. La danza diventa in questo senso strumento privilegiato per decostruire codici binari che non accettano deviazioni dallo standard. Nudi e di spalle, i cinque ballerini si scatenano in danze urbane composte da movimenti del bacino che diventano rivendicazioni di una fluidità di genere incarnata con orgoglio.

Nella stessa ottica di rivendicazione di una differenza vissuta con fierezza ritroviamo Cuir di Arno Ferrera e Gilles Polet e Gentle Unicorn di Chiara Bersani. Il primo mette in scena due corpi virili, tatuati e muscolosi che si uniscono e affrontano in un combattimento ravvicinato intriso di una forte carica omoerotica. Grazie a una miscela esplosiva di lotta, danza e acrobazie (non a caso Ferrera ha frequentato la Scuola Teatro Dimitri), la coppia protagonista di Cuir ci confronta con la complessità delle relazioni umane, con la paura di lasciarsi andare a una catartica tenerezza. I corpi dei due protagonisti si fondono trasformandosi in una sorta di animale preistorico, un essere ibrido e ambiguo che sfida ogni tentativo di categorizzazione. Chiara Bersani e il suo grandioso ed elegante unicorno, una figura mitologica che popola da secoli l’immaginario collettivo, lottano invece per esistere all’interno di una società che li cataloga come esseri magici e mostruosi, affascinanti e spaventosi. Bersani presta il suo corpo, la sua danza e il suo respiro a quest’unicorno, lo incarna in un atto militante che tocca nel profondo.

azione artistica è possibile viaggiare, costruire immaginari «altri» nei quali sperimentare modi alternativi di stare al mondo. Come rifugi festaioli del festival sono stati scelti l’ex centro di vaccinazione del quartiere des Eaux Vives, riabilitato e trasformato dall’artista e architetto ginevrino

Shizuka Saito, e il mitico club Motel Campo situato nel quartiere industriale di Les Acacias.

Numerosi gli astri luminosi che hanno costellato l’edizione 2023 ben calibrata tra artisti svizzeri (fra i quali i ticinesi Peter Kernel) e internazionali, alle prime armi o vere e proprie super star della scena contemporanea. Tra questi, la coreografa e interprete ivoriana Nadia Beugré che con il suo L’homme rare ha trasformato la

Decisamente intrigante e controcorrente anche Daniel Hellmann che per il suo Dear Human Animals ha indossato i panni del suo alter ego drag vegano Soya the cow. Hellmann ci propone un viaggio tra i generi e le specie che rimette in questione il concetto stesso di antropocene.

Per quanto riguarda la programmazione musicale, imperdibile è stato il concerto del leggendario John Cale, icona della cultura underground statunitense che ha infuocato la sala dell’Alhambra con la sua voce potente e la sua carica punk. Seducente è stata anche l’esibizione di Arnaud Rebotini, figura di spicco della scena elettronica francese e compositore di colonne sonore indimenticabili come quella di 120 battiti al minuto

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In fin della fiera

Andiamo oltre le apparenze, informiamoci

In Una cosa divertente che non farò mai più David Foster Wallace racconta di una signora che al secondo giorno di navigazione domanda: «L’equipaggio dorme a bordo?». Ha ragione di stupirsi, il piacere della crociera non deve essere guastato dalla vista dei marittimi che sgobbano notte e giorno per noi. In una lontana estate mi sono imbarcato su un piroscafo della Costa Crociere per fare l’animatore in cambio dell’ospitalità per me, mia moglie e la figlia più piccola. In trenta giorni di navigazione non abbiamo mai scoperto chi avesse provveduto a riordinare la nostra cabina. Sulla confezione del prezioso foie gras non ci sarà l’immagine dell’oca imboccata a forza per farle scoppiare il fegato. Il maître che ci consiglia l’aragosta non ci dirà che è stata appena infilata ancora viva nell’acqua bollente. Nel villaggio vacanze in riva all’oceano sconsigliano di oltrepassare il recinto, potremmo scoprire una realtà disturbante, una baraccopoli, un

regime dispotico e corrotto. «Tanto non possiamo farci niente». Non è vero, nel nostro piccolo possiamo sempre farci qualcosa. Almeno provare. Sono ottimista, constato che il desiderio di saperne di più sulle diseguaglianze e sullo sfruttamento della mano d’opera è in crescita, grazie alle nuove generazioni e soprattutto alle donne. Non si rassegnano, fanno domande.

È quasi sera, mia moglie sta allestendo lo strudel, all’ultimo momento scopre che le manca il burro, mi spedisce a prenderlo nella latteria sotto casa: «Prima però informati». Roberta sta tirando giù la serranda, siamo amici, riapre per darmi un etto di burro. Cosa dovrei fare? Chiederle il curriculum del contadino che ha munto il latte? Come si chiama la mucca? Indagare se il burro è stato confezionato secondo i parametri corretti? Torno a casa e m’invento tutto, prometto che è l’ultima volta. Nello sforzo di sembrare credibile

Un mondo storto

esagero, lei si commuove. Nel settore degli alimenti il patto fra produttori e consumatori alla fine è basato sulla fiducia. Non sono in grado di intervistare la gallina che ha fatto l’uovo che sto per mangiare per sapere se è stata allevata a terra come afferma il venditore oppure al piano rialzato. Però posso tenere le antenne sempre in funzione. In prossimità dello scorso Natale una rivista di gastronomia titolava un servizio: «Il Rinascimento del cappone». Davvero quei galli hanno pensato a Leonardo o a Michelangelo quando la massaia rurale si è avvicinata a loro impugnando le forbici per privarli degli attributi? I pubblicitari sono i primi ad avvertire i cambiamenti dell’umore e della sensibilità dei consumatori. Lo dimostra la diffusa pennellata green sugli slogan.

Un altro indice positivo è l’interesse crescente per le condizioni di lavoro nella nostra società. È scientificamente provato: se un’azienda è sol-

Le cose devono avere un termine

Che cosa non approvo di questo universo in cui sono capitato? Tante cose non mi vanno giù, ad esempio le distanze interplanetarie, esagerate. Però una cosa che trovo giustissima è che si muoia, non solo noi, ma che tutto abbia una data di scadenza. Il sole ad esempio fra 5 miliardi di anni si estinguerà, senza speranza di risorgere. Ed è giusto così. Noi umani altrettanto; se va bene duriamo quasi un secolo, poi come qualunque motore diventiamo talmente usurati che non passiamo la revisione e finiamo tra i ferrivecchi da demolire. Ho sentito gente che si lamenta; ma anche una scatoletta di tonno sott’olio ha una scadenza, e nessuno pensa ci sia per il tonno una vita eterna o un aldilà in cui le scatolette cantano in coro le lodi della ditta che le ha prodotte.

Le cose devono avere un termine, lo dice il secondo principio della ter-

Xenia

modinamica, di cui sono soddisfatto, un mondo immobile e infrangibile sarebbe spaventoso, sarebbe un museo vetrificato, inutile. È inutile anche questo universo, ma almeno dà spettacolo, sia sulla grande scala del cosmo, sia su questa infinitesima Terra, dove anche noi umani abbiamo una scadenza, se non l’avessimo, saremmo più di 100 miliardi. I nuclei famigliari sarebbero formati da migliaia di persone, raccolte intorno ai primi avi, risalenti al 50 mila a.C., quando sono comparsi dall’Africa in forma di sapiens ; e ogni membro manterrebbe le abitudini della sua epoca, incompatibili l’uno con l’altro, cacciatori di mammuth senza più mammuth, terramaricoli abituati alle palafitte, antichi romani parlanti latino, e poi giù giù guerrieri crociati, mercanti rinascimentali, illuministi filosofi, carbonari ottocenteschi superati ma ostinati nell’unificare la

patria che però è già unita, anarchici in cerca di un re da fare esplodere, e poi nazisti e comunisti impenitenti ecc. Come si vede, difficile in questa famiglia allargatissima andare d’accordo, si litiga anche quando si è in due, si immagini in diverse migliaia. Non oso pensare che atmosfera irrespirabile: sgarbi, male parole, obbligati a stare accanto e non soffrirsi; e poi le puzze, i fiati stantii, l’odore secolare di ascelle, i gabinetti intasati, le conseguenti maledizioni reciproche, le accuse di incontinenza fecale, di uso improprio del gabinetto, vendette con lanci di merda fresca; l’affollamento abitativo fa uscire il peggio dell’umanità. E si immagini la tensione nel tessuto sociale, 100 miliardi di persone appiccicate come fossero in scatola, peggio del tonno a lunga conservazione; i partiti politici quanti sarebbero? Beh, decine e decine di miglia-

lecita nel provvedere al welfare per i suoi dipendenti, un’aura virtuosa si trasmette ai suoi prodotti: sono più belli, durano di più. Il welfare aziendale si sviluppa in varie modalità, divise da una linea sottile. Va bene allestire una biblioteca aziendale, va meno bene se il registro dei libri presi in prestito serve per valutare i dipendenti, in base alla quantità e alla qualità delle loro letture. Da una parte ci sono imprenditori che aprono asili nido nell’azienda per aiutare le madri. Dall’altra i fondatori di un’impresa che usano il welfare per diffondere le loro scelte culturali. In teoria sei libero di dire «no grazie» alla gita aziendale per Lourdes ma è meglio di no.

Nella mia prima esperienza di lavoro in una piccola azienda, ricordo che, se il padrone iniziava dicendo «la nostra è una grande famiglia», finiva con l’annuncio di qualche sacrificio per i dipendenti. Il titolare di uno stabilimento tipografico regala una

gita in bus ai dipendenti nelle valli valdesi. Il programma prevede una sosta a una miniera di talco grafite. È stata dismessa da molti anni, è diventata un museo vivente, dove i minatori di una volta, recitano la parte di minatori a beneficio dei visitatori. Messaggio subliminare: i giornali che stampiamo tra poco saranno online, preparatevi a fare altrettanto. Brianza, domenica pomeriggio, nel cortile coperto di uno stabilimento che produce grandi rotoli di plastica si tiene un concerto di musica classica, offerto dal padrone melomane ai dipendenti e ai famigliari. Pianista e flautista suonano da grandi virtuosi, io fra un pezzo e l’altro racconto la vita di Wolfgang Amadeus Mozart. E penso all’allarme degli ambientalisti, la plastica invade i mari, una volta sbriciolata i pesci l’inghiottono scambiandola per il plancton. D’ora in avanti, prima di accingermi a mangiare del pesce, farò partire dal giradischi una musica di Mozart.

ia, a incominciare dal partito razzista anti Neanderthal, anacronistico e tuttavia perdurante, fino al partito che nega il femminile e il maschile, perché a seconda dell’umore ci si può svegliare un mattino maschio e un altro femmina, oppure una via di mezzo; esisterebbe anche questo partito purtroppo, insieme a quello dei terrapiattisti, e quello del sole che sarebbe artificiale, una lampada appesa dagli alieni per osservarci, come noi osserviamo gli insetti. E poi il partito di Carlo Magno, il partito che invoca il ritorno di Attila o di Nerone. In 50 mila anni le hanno pensate tutte. La lista dei partiti occuperebbe un volume, le votazioni e lo scrutinio dei voti impossibile. Le religioni non si conterebbero, chi crede ancora in Giove pluvio e nell’Olimpo, chi in un vitello d’oro, chi in Anubi con la testa di sciacallo, e così di seguito, con le relative

Weiblinger, spirito libero e l’incontro con Hölderlin

Nel 1827 Waiblinger si insediò a Roma, nell’appartamento di un palazzetto tutto vetri e finestre, con l’intonaco ocra appena sbiadito, a via del Mascherone 62. Esiste ancora. Il Tevere – a quel tempo privo di argini e indomabile – scorreva poco lontano, ma non so se potesse vederlo dalla finestra. Si sentì subito a casa e divenne per tutti «Guglielmo». Frequentava le osterie, le ragazze e il popolino, ma anche artisti come lo scultore danese Thorvaldsen e il poeta von Platen (che lo sostenne economicamente perché, a differenza di quanto aveva immaginato, non riusciva a mantenersi scrivendo novelle o reportage e si era riempito di debiti). A Roma trovò pure l’amore – perché, ironico, scanzonato e divertente, era bello (in un autoritratto a penna e inchiostro si raffigurò col viso coronato da

una zazzera di ricci), e maledetto come Byron, al quale del resto si ispirava. Giovane, straniero, squattrinato e spesso al limite dell’indigenza, nonostante la vita allegra e disordinata che conduceva, nonostante l’irrequietezza che lo spingeva al movimento perpetuo (si spinse da Napoli, dove raccolse canti popolari, e Paestum, fino in Sicilia, dove scalò l’Etna), trovò la concentrazione per scrivere odi ed elegie dall’Italia, reportage di viaggio, una favola (La grotta azzurra) e novelle di argomento italiano insolitamente realistiche e attente alla vita quotidiana della gente (erano un genere convenzionale e stucchevole).

Lui si interessava invece alle feste, ai riti popolari, ai canti del Carnevale, a figure originali di indigeni, come l’attrice e improvvisatrice Rosa Taddei. Nel racconto I britanni a Roma

inventò la satira del turismo. Ma in Italia Waiblinger trovò anche la malattia. Capitava a molti: per lo più era il colera. Lui invece, a Roma e nelle paludi pontine, contrasse le febbri malariche.

Poteva conviverci. Qualcuno disse che però aveva anche la tisi – morbo inguaribile. Per questo negli ultimi anni scrisse la biografia di Hölderlin – che vale ancora la pena leggere. Perché l’adolescente aveva compreso istintivamente, per affinità ed empatia, il male e il dolore del suo amico e padre spirituale: ma ora poteva raccontarlo – sperimentava la stessa condizione. Anche Hölderlin era stato condannato a una morte precoce. Infatti, se anche morì a 73 anni, ne trascorse ben 37 come un non-vivo: assente a tutto, e soprattutto a sé stesso, spettatore della vita, disperata-

mente incapace di sopportare il peso del mondo.

Don Guglielmo morì nella sua casa il 17 gennaio 1830, forse di polmonite e fu sepolto nel cimitero acattolico di Roma, il giardino all’ombra della Piramide Cestia dove riposano gli stranieri, i liberi pensatori, gli spiriti erranti. Nel primo centenario della scomparsa (1930) la città di Roma fece apporre una targa in sua memoria, all’altezza del primo piano del palazzetto. Si legge: «Il poeta Guglielmo Federico Waiblinger / Partitosi dalla nativa Germania / in questa Roma immortale / Trovò la patria dei suoi sogni / «qui solamente felice»

La sua opera fu pubblicata postuma dagli amici: oggi è considerato un brillante giornalista di costume e un tipico poeta romantico, fratello ideale di Keats (lui pure venuto a mori-

eresie. Se nessuno morisse sarebbe un disastro, soprattutto sarebbe una macedonia di culti, di credenze, di leggi: poligamia, prostituzione rituale, matriarcato, cannibalismo, schiavismo. L’umanità non è mai stata costante, anche gli usi e costumi sono nati e poi sono morti, per fortuna, se no non ci sarebbe la storia, che è una nostra specialità e porta aria fresca.

Quindi in conclusione, meglio che tutto abbia un termine, noi umani compresi, meglio se il termine è brusco, un taglio netto irreversibile, e che la durata eterna sia solo un sogno. Meglio che le cose stiano così come sono, che non venga a meno il secondo principio della termodinamica, e tutto ciò che è ordinato, come gli organismi, le civiltà, finisca, si decomponga e si disgreghi e diventi una pagina bianca, o cenere portata poi via dal vento.

re giovanissimo a Roma). Un limpido talento, però minore ed epigonale. Ma si spense a 26 anni, quando la maggior parte dei poeti non ha ancora scritto un verso degno. Waiblinger invece ne ha scritti; mi piace ricordare almeno questi: «Metà alla luce della luna, metà nel crepuscolo / Imbrunisce già il campo di macerie / E nell’oscurità ancora cammina / l’ombra di un monaco solitario…»

Gugliemo divenne romano per amore della vita, della libertà e della poesia. Roma fu per lui davvero «la patria dei suoi sogni» – ma anche l’assassina. I poeti non chiedono nient’altro che vivere scrivendo. Per questo la paradossale affermazione «qui solamente felice» è profondamente vera: il luogo in cui si viene a diventare sé stessi è il solo che è davvero nostro. (Seconda parte – fine)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 6 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 35 CULTURA / RUBRICHE ◆ ●
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