Atti umbri per il futuro del libro

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GULP

GRUPPO UMBRO PER IL LIBRO PROSSIMO FUTURO

«Un libro autentico non è mai impaziente. Può attendere secoli per risvegliare un’eco vivificante»: così scriveva il saggista francese George Steiner nel suo acuto I libri hanno bisogno di noi. Ora i presenti Atti, con la giusta dose di umiltà intellettuale, si propongono in qualche modo di riprendere quella istanza per porre o tornare a porre degli interrogativi che noi tutti non possiamo aggirare: quanto oggi abbiamo bisogno dei libri? E quanto loro di noi? E poi: ma com’è fatto veramente un libro e come sarebbe potuto invece essere? Quanto viene tenuto in considerazione il lettore quando un libro nasce? Le ventiquattro voci che si sono pronunciate sulla tangibilità del libro, sulla sua produzione e distribuzione nonché sul suo ruolo di testimone della comunità, intervenendo in incontri pubblici prima a Gubbio, poi a Foligno e infine a Orvieto, non propongono certo ricette infallibili, ma avanzano coraggiosamente delle proposte. Mettendo in circolo delle idee e al contempo misurandosi con le reali esigenze e potenzialità del territorio, il Gulp – Gruppo Umbro per il Libro Prossimo Futuro si muove così su un doppio binario. Da una parte, esso recupera le migliori ‘esperienze’ da bibliosotèr che sono emerse grazie al padre putativo di questo volume, quel Fogli di carta. Scritti, editi, letti, salvati (autori Giuseppe Bearzi e Jessica Cardaioli) che non ha voluto tacere peraltro neanche le sconfitte, la parzialità di una conquista, la frustrazione di una biblioteca mai nata e, in senso lato, di un lavoro che non conosce facili successi. Dall’altra, poi, fa un sano esercizio di ‘proiezione’ su quelli che del libro saranno (o potrebbero essere) i sensi, la materialità, il potere simbolico, la resilienza, le chiavi di lettura, gli scenari, il respiro a venire. ISBN 9788831491235

Atti umbri per il futuro del libro raccolti negli incontri di Gubbio, Foligno e Orvieto 4-11-18 settembre 2021


Quaderni del volontariato 17

Edizione 2021


Con il patrocinio di Deputazioni e Organi istituzionali

Associazioni e Organizzazioni culturali

La promozione dei presenti ATTI è stata finanziata dall’Ordine Internazionale degli Anysetiers

Cesvol Centro Servizi Volontariato Umbria Sede legale Via Campo di Marte n. 9 – 06124 Perugia Tel. 075 5271976 www.cesvolumbria.org editoriasocialepg@cesvolumbria.org Edizione ottobre 2021 Coordinamento editoriale di Stefania Iacono Impaginazione di Jessica Cardaioli Illustrazione in copertina di Moreno Chiacchiera Stampa Digital Editor – Umbertide Per le riproduzioni fotografiche, grafiche e citazioni giornalistiche appartenenti alla proprietà di terzi, l’editore è a disposizione degli aventi diritto che non si sono potuti reperire. È vietata la riproduzione, anche parziale e ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzato.

Codice ISBN 9788831491235


GULP

GRUPPO UMBRO PER IL LIBRO PROSSIMO FUTURO

Atti umbri per il futuro del libro raccolti negli incontri di Gubbio, Foligno e Orvieto 4-11-18 settembre 2021



I QUADERNI DEL VOLONTARIATO UN VIAGGIO NEL MONDO DEL SOCIALE PER COMUNICARE IL BENE I valori positivi, le buone notizie, il bene che opera nel mondo ha bisogno di chi abbia il coraggio di aprire gli occhi per vederlo, le orecchie e il cuore per imparare a sentirlo e aiutare gli altri a riconoscerlo. Il bene va diffuso ed è necessario che i comportamenti ispirati a quei valori siano raccontati. Ci sono tanti modi per raccontare l’impegno e la cittadinanza attiva. Anche chi opera nel volontariato e nell’associazionismo è ormai pienamente consapevole della potenza e della varietà dei mezzi di comunicazione che il nuovo sistema dei media propone. Il Cesvol ha in un certo senso aderito ai nuovi linguaggi del web ma non ha mai dimenticato quelle modalità di trasmissione della conoscenza e dell’informazione che sembrano comunque aver retto all’urto dei nuovi media. Tra queste la scrittura e, per riflesso, la lettura dei libri di carta. Scrivere un libro per un autore è come un atto di generosa donazione di contenuti. Leggerlo è una risposta al proprio bisogno di vivere il mondo attraverso l’anima, le parole, i segni di un altro. Intraprendendo la lettura di un libro, il lettore comincia una nuova avventura con se stesso, dove il libro viene ospitato nel proprio vissuto quotidiano, viene accolto in spazi privati, sul comodino accanto al letto, per diventare un amico prezioso che, lontano dal fracasso del quotidiano, sussurra all’orecchio parole cariche di significati e di valore. Ad un libro ci si affeziona. Con il tempo diventa come un maglione che indossavamo in stagioni passate e del quale cerchiamo di privarcene più tardi possibile. Diventa come altri grandi segni che provengono dal passato recente o più antico, per consegnarci insegnamenti e visioni. Quelle visioni che i cari autori di questa collana hanno voluto donare al lettore affinché sapesse di loro, delle vite che hanno incrociato, dei sorrisi cui non hanno saputo rinunciare. Gli autori di questi testi, e di tutti quelli che dal 2006 hanno contribuito ad arricchire la Biblioteca del Cesvol, hanno fatto una scelta coraggiosa perché hanno pensato di testimoniare la propria esperienza, al di là di qualsiasi tipo di conformismo e disillusione Il Cesvol propone la Collana dei Quaderni del Volontariato per contribuire alla diffusione e valorizzazione della cittadinanza attiva e dei suoi protagonisti attraverso la pubblicazione di storie, racconti e quant’altro consenta a quel mondo di emergere e di rappresentarsi, con consapevolezza, al popolo dei lettori e degli appassionati. Un modo di trasmettere saperi e conoscenza così antico e consolidato nel passato dall’apparire, oggi, estremamente innovativo. Salvatore Fabrizio Cesvol Umbria



DAI FOGLI AGLI ATTI

Il passato era cancellato, la cancellatura era stata dimenticata e la menzogna era diventata verità. George Orwell, 1984

Se non possiamo vedere il futuro non possiamo nemmeno attuarlo. Adriano Olivetti

Fogli di carta. Scritti, editi, letti: salvati di Giuseppe Bearzi e Jessica Cardaioli non pretende di essere la soluzione ai problemi del libro. Vuole essere uno stimolo, un invito a pensare, trovare, indicare, applicare idee e proposte utili soprattutto alla classe dei lettori. Oggi, infatti, i lettori sono considerati alla stregua di consumatori che i potenti mezzi di convinzione – di cui dispongono le classi e i gruppi che, nel settore, hanno interessi particolari più o meno accettabili e giustificabili – spingono ad acquistare opere desunte dalle comparse televisive o comprate al mercato di Francoforte, così simile a quello all’ingrosso del pesce a Chioggia. Per questo, trovando sugli scaffali dei librai, opere di gradimento del marketing ma non dei lettori, i libri continuano a diminuire. Per questo subito dopo Fogli di carta è nata l’idea degli ATTI umbri per il futuro del libro. I due autori, meglio però sarebbe definirli accaniti lettori, hanno chiesto ad accademici, docenti, archivisti, bibliotecari, editori, librai e critici dalle visioni più colte, documentate e ragionate delle loro, spiegazioni e soprattutto soluzioni. E la loro richiesta è stata accolta con generosità, simpatia ed entusiasmo. Nei grigi tempi della pandemia l’iniziativa si è tradotta in realtà ed è stata attuata il mese scorso in tre luoghi simbolo della regione più italiana di tutte: l’Umbria1. A Gubbio, terra delle Tavole Eugubine, è stato affrontato il tema della “tangibilità” del libro; a Foligno, dove oltre cinquecento anni fa vide la luce l’editio princeps della Comedìa dantesca, quello della sua futura produzione e diffusione; e a Orvieto, capitale mondiale delle Cittaslow, dove il rapporto tra civitas, polis e urbs è molto sentito e documentato, alcuni dei succitati bibliofili se non numi tutelari del nostro sapere hanno espresso le loro idee e proposte per ciò che il libro potrebbe e dovrebbe essere. Tutte idee e proposte che sono state raccolte in questi ATTI. Per alcuni, forse, per chi ascolta i canali più glorificati della tivù o per chi legge le riviste più intellettuali, questi ATTI non contengono nulla di straordinario. Non è proprio così: queste idee e proposte scaturiscono da chi ai libri non chiede immagine, onori, ricchezza e gloria, ma chiede conoscenza e sapere, chiede il profondo ineguagliabile piacere della lettura. Così come è accaduto negli incontri umbri per il futuro del libro, che gli organizzatori hanno voluto dedicare non ai relatori, ma ai lettori, cioè a voi, perché solo voi potete decretarne il futuro. Ottobre 2021

1. L’Umbria è la Regione in cui si vive meglio in Italia. Lo ha decretato l’edizione 2016 di Taxpayer Italia, che in collaborazione con Il Sole 24 Ore ha stilato la classifica delle Regioni italiane in cui la qualità della vita è più alta.


SOMMARIO

GUBBIO – LA TANGIBILITÀ DEL LIBRO AUGUSTO ANCILLOTTI Le Tavole Eugubine? Un monumento alla tangibilità del libro

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ATTILIO BARTOLI LANGELI Più tangibile e materiale di così…: il libro manoscritto

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GAIA ROSSETTI Apri lo scrigno. Editoria innovativa per un rapporto inclusivo e partecipato con la lettura

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ALESSIO PASSERI La resilienza dei libri. Il caso della biblioteca “La Fornace”

23

RANIERO REGNI Con un libro in mano. I libri, mattoni per costruire la civiltà

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ALESSANDRO CABIANCA La crisi del libro è irreversibile?

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SEBASTIANO A. GIUFFRIDA La Carta Cenerentola

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GIUSEPPE BEARZI Del libro gli inesauribili sensi

30

FOLIGNO – PRODUZIONE E DIFFUSIONE DEL LIBRO ROBERTO SEGATORI Le 10n vite del libro

34

ARNALDO CECCATO Per il futuro del libro

38

ALESSANDRA PELIZZARO La traduzione luogo di incontro verso l’altro

40

JANINA HAUSER-JAKUBOWICZ Per il futuro del libro: appunti

42

MARCELLO CINGOLANI Pbv: il futuro dei libri e la vendita propositiva

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ENRICO SCIAMANNA Basta con i libri?

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GIUSEPPE BEARZI Sarebbe il caso di capirsi

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GIUSEPPE MOSCATI Congetture e auspicii di un correttore di bozze

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ORVIETO – IL LIBRO TESTIMONE DELLA COMUNITÀ PIER GIORGIO OLIVETI Dal libro alla città, dalla città al libro: alla ricerca delle qualità urbane

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DEANNA MANNAIOLI Libri e saperi. Chiavi per riscoprire e restituire alle città il loro “genius loci”

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RICCARDO CAMPINO Il futuro dei luoghi della lettura di una città: la libreria

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GIOVANNA GIUBBINI La cultura del viaggio attraverso le guide per viaggiatori e turisti

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ADRIANA CHEMELLO Inventare il futuro: dalla parte della lettrice

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MARIO SQUADRONI “L’insegnamento di Monaldo”. Le biblioteche d’autore in Umbria: problemi e prospettive 66 GIUSEPPE BEARZI Un “varietas culta” anche per i libri. La tutela del patrimonio librario esistente

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ENZO SANTESE Civitas e liber. Per una valorizzazione dei testi stampati su carta

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FRANCO PAPETTI Libri, testimoni del passato per fare il futuro: Fiume

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MAURIZIO CAMINITO E-LOV – LEGGERE OVUNQUE. Un progetto del Forum del libro in collaborazione con LiberLiber

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GUBBIO, 4 SETTEMBRE 2021 BIBLIOTECA SPERELLIANA

LA TANGIBILITÀ DEL LIBRO


AUGUSTO ANCILLOTTI Le Tavole Eugubine? Un monumento alla tangibilità del libro Le fusioni nel bronzo, come quella delle sette Tavole Iguvine, che conferivano ai testi il requisito della “tangibilità del libro” rispetto ai tipi tradizionali su materiale degradabili, erano riservate ai testi più “nobili”. Così potremmo presumere che il libro stampato sia destinato ai testi “più prestigiosi”, lasciando alla forma elettronica i testi di impiego “più ordinario”.

Al tempo in cui furono fusi nel bronzo, i testi che le sette Tavole di Gubbio contengono erano già antichissimi: gli studi degli ultimi cento anni hanno rivelato che non solo erano già stati tramandati per secoli in forma orale, ma che erano già stati da tempo fissati in forma scritta, e che il riversamento su bronzo altro non fu che la copia definitiva di testi scritti su materiale più deperibile. Le diverse informazioni che oggi possediamo sulla tradizione scritta nell’Italia preromana permettono di ricostruire la ricca gamma di materiali di supporto usati per la scrittura di testi e le diverse forme che potevano assumere i “libri” del tempo. Tito Livio, Ab urbe condita, 4,20,8, informa dell’esistenza di libri lintei, cioè libri redatti su teli di lino e conservati nel tempio della dea Moneta sul Campidoglio: riportavano degli elenchi di magistrati romani e furono utilizzati dall’annalista Licinio Macro e pubblicati da Elio Tuberone. Anche dalla Historia Augusta sappiamo dell’uso pratico di teli come supporto per la scrittura. Dall’immagine in terracotta sul cofano di un sarcofago etrusco (fig. 1) possiamo avere un’idea visiva di come dei teli di lino usati come supporto scrittorio dovevano essere impeciati e ripiegati “a fisarmonica” sotto un peso: 12

Fig. 1. Particolare di un sarcofago etrusco (foto dell’autore).

Tra gli altri materiali deperibili su cui tradizionalmente si scriveva nell’Italia preromana (e romana) va ovviamente citato il lĭbĕr, cioè la pellicola sottile che si trova sotto la corteccia dell’albero e che veniva trattata per trarne strisce. La stessa voce latina lĭber rimanda ad un’originaria base indeuropea *lŭbhero- che significa ‘scorticatura, corteccia’, da cui discendono anche l’inglese leaf ‘sfoglia’, il ted. Laube ‘tavoletta’, il lettone luba ‘scandola, tegola di legno’, l’albanese labë ‘corteccia’, ecc. E va aggiunto che, come supporto alla scrittura di testi, si sono affermate anche altre parole che hanno una storia simile, come il ted. Buch ‘libro’, che è lo stesso tema del ted. Buche ‘faggio’, e il lat. codex, che in origine era caudex e valeva ‘tavola di legno’. Le tavolette di legno, come si sa, furono perfezionate per l’uso scrittorio con un leggero strato superficiale di cera, divenendo così la base più comoda, economica


e riutilizzabile per testi di uso corrente, come quello scolastico (fig. 2):

che presentano un’intenzionale disposizione del testo tale che risultassero liberi degli spazi reciprocamente a fronte per disporvi delle grappe. L’intenzione di creare una struttura “a libro” con queste due tavole è ulteriormente dimostrata dal fatto che furono scritte solo sulle facce interne, lasciando le facce esterne al grezzo (fig. 5), in modo che fungessero da “copertine”:

Fig. 2. Tavoletta scrittoria da Pompei, Portale Numismatico dello Stato.

Per un impiego più “importante” si utilizzarono poi le membranae animali (Lettere di San Paolo), come la pergamena:

Fig. 3. Rotolo di pergamena, uno dei “rotoli del Mar Morto”.

Oltre alla forma ripiegata su sé stessa a fisarmonica (fig. 1), e quella arrotolata (in lat. volumen, fig. 3), esistevano testi nella forma “a libro” simile ai nostri (fig. 4), nel senso che le facciate iscritte potevano essere legate in costa per poter essere girate, aperte e chiuse. Questo è il caso noto delle due tavole iguvine più antiche, le cosiddette “Terza” e “Quarta”,

Fig. 5. Foto dell’autore.

Fig. 4. Foto dell’autore.

In latino, com’è noto, la parola liber ben presto conobbe un’estensione semantica tale da staccarla del tutto dal significato originale per incentrarla sul valore di “testo scritto rilegato”, come risulta da Pauli Sententiae 3.6.87:

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Libris legatis tam chartae volumina vel membranae et philyrae continentur: codices quoque debentur: librorum enim appellatione non volumina chartarum, sed scripturae modus qui certo fine concluditur aestimatur [da AAVV, Fontes iuris Romani antejustiniani, II, Firenze, 2007], che potremmo tradurre “Ai libri rilegati appartengono tanto i rotoli di carta quanto di membrana e di pellicola vegetale: anche i codici vi stanno: infatti nel termine di “libri” si intendono non i rotoli di carta, ma un tipo di scritto che si rilega per un determinato scopo”. *** Il caso delle sette Tavole Iguvine non deve essere considerato un fenomeno particolarmente raro nel mondo antico, come invece risulta ai nostri occhi per l’unicità della mole dei suoi testi, che sfiorano le 4400 parole. Complessi di norme redatte nel bronzo come questo devono essere stati frequenti nelle diverse comunità, come appare dai fortuiti resti di altre tavole in bronzo, tra cui ricordiamo la Tavola di Agnone, il bronzo di Rapino, la tabula Veliterna, quella Bantina, ecc. Il fatto è che un gran numero di reperti bronzei antichi fu rifuso e riutilizzato nei secoli che precedono l’età dell’Umanesimo… e anche dopo: basti ricordare quanto materiale antico fece fondere Leonardo a Milano per poter disporre delle 100 tonnellate di bronzo necessarie alla copertura della statua equestre progettata per Francesco Sforza, bronzo che poi servì per farne i cannoni che dovevano difendere il Ducato d’Este dai Francesi. Dunque, nell’Italia del IV-III sec. a.C. cominciò a prendere piede l’uso di fondere i testi di maggiore importanza nel bronzo con lo scopo di conferirvi il requisito della “indeperibilità eterna”, rispetto ai supporti tradizionali. Ma questa modalità di fissazione degli scritti fu necessariamente riservata a testi di natura eccezionale, sia per la complessità della realizzazione che per il costo del processo di realizzazione. Non crediamo che sia un caso che il bronzo fu sempre connesso con la sacralità, così che anche i pochi esempi sopravvissuti sono quasi tutti di carattere religioso.

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Inoltre, a complicare le cose, sta il fatto che le Tavole Iguvine non sono state redatte su bronzo con l’uso del bulino, cioè non sono state incise su delle lastre lisce, come si è creduto a lungo: sono state realizzate con il metodo della “cera persa”, come ha dimostrato il prof. Luciano Agostiniani nel 2009. Per creare tavole scritte su entrambe le facce con questo metodo, si deve preparare una matrice di cera per ogni faccia, usando delle tavole di legno incerate molto più grandi di quelle usate nelle scuole di scrittura; poi su ogni tavola incerata si scalfiscono le parole volute, e sulla tavola incerata si cola dell’argilla a freddo, prima uno strato liquido, poi uno più denso, in modo che l’argilla penetri accuratamente nei solchi delle lettere incise nella cera. Quindi si cuociono le matrici di argilla, sciogliendo la cera e producendo delle tavole di terracotta “al negativo”, cioè con le lettere in sporgenza. Le due facce al “negativo” di argilla cotta si posizionano a fronte, inscatolate e distanziate con uno spessore. Nella scatola contenente le due tavole di argilla, fissate a fronte e a piccola distanza, si cola del bronzo fuso, così che ne risulti una lastra di bronzo con le due facce scritte. Così nacquero più di duemila anni fa le nostre sette Tavole. E chissà quante altre tavole simili furono create nell’Italia prima e dopo la diffusione del controllo romano. Nonostante l’impegnativa e costosa procedura che richiedevano, le tavole rappresentano lo sforzo di quei lontani antenati di conferire una tangibilità certa, definitiva, alle parole che contavano. Ma la scrittura su bronzo non doveva contrastare solo la deperibilità dei materiali organici da scrittura, esposti ad una decomposizione molto più veloce di quella della carta moderna: alle spalle di quel problema sussisteva anche un altro rischio che andava evitato, cioè che quei contenuti fossero esposti ad una trasmissione orale parallela, con i relativi problemi di volatilità e modificazione. Il bronzo, dunque, si proponeva anche come la soluzione definitiva del più antico dilemma che opponeva la trasmissione orale a quella scritta: scrivere su bronzo, nonostante il procedimento oneroso, conferiva al testo un’indubbia tangibilità e inalterabilità, un obiettivo che troverà la sua


migliore soluzione pratica quando il supporto tangibile moderno, la carta, si combinerà con la modalità di scrittura a stampa. *** Può essere interessante rilevare che, pochi anni prima che in Italia si creassero le prime Tavole, Platone esprimeva la preoccupazione (Fedro) che la scrittura potesse uccidere la pratica di produrre impegnativi discorsi orali. A discapito dell’uso scritto, poi, sosteneva che questo è esposto a rischi ai quali l’oralità non è esposta: “una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a sé stesso.” Ma le cose sono andate diversamente, perché oralità e scrittura hanno trovato gli spazi propri e sono divenute due modalità di comunicazione entrambe indispensabili nella propria specificità: oggi sapiamo che non erano in alternativa, ma erano in parallelo, perché non svolgevano le stesse funzioni comunicative, ma funzioni specializzate diverse. Questa congiuntura verificatasi nel passato della cultura occidentale non è forse tanto dissimile da quella che sembriamo affrontare oggi, quando si pongono in alternativa l’uso del testo cartaceo e quello del testo elettronico. Se l’esempio del passato può essere utile a leggere i problemi del presente, oggi non dobbiamo pensare che siano in alternativa la fisicità del testo cartaceo e l’immaterialità (apparente) del testo elettronico, nel senso che la diffusione dell’una modalità debba comportare la scomparsa dell’altra: si può pensare invece che si selezioneranno gli spazi adeguati a valorizzare le specificità delle diverse modalità e che tutte sopravviveranno con vantaggio generale. E anche se probabilmente non tutti noi siamo in grado di cogliere al momento le future articolazioni della scrittura testuale, possiamo sperare che la nostra “storia culturale” si orienterà in modo quasi automatico.

L’orientamento non potrà comunque essere indipendente dalle caratteristiche dell’utente e dallo scopo della comunicazione, così come le differenti modalità di realizzazione dei testi fisici ai tempi delle nostre Tavole non poterono ignorare i condizionamenti provenienti dal tipo di utenza e dal tipo di contenuti: i testi nel bronzo si limitarono, infatti, a degli usi molto particolari, mentre quelli su materiale deperibile continuarono ad avere la loro ragion d’essere. Così, se è lecito immaginare che molti degli usi tradizionali del testo cartaceo saranno abbandonati perché meno agevoli ed efficaci dei corrispondenti usi affidati a forme di testo elettronico, crediamo che altri usi rimarranno sicuramente appannaggio del testo cartaceo: tra questi si propone il “libro” in senso generale, con la sua materialità, il suo impatto sui sensi del tatto e dell’odorato, la sua capacità di farsi “oggetto personale” del lettore, la sua maggiore attitudine a penetrare nell’immaginario del ricevente: si sa che, proprio per questi caratteri specifici dello scritto cartaceo, molti lettori capiscano meglio le parole su carta che non quelle elettroniche. Sembra addirittura che la lettura su schermo, pur producendo effetti meno solidi sulla memoria del lettore, consumi energie mentali maggiori della lettura su carta. E poi, si pensi all’usanza di sottolineare i passi che ci colpiscono… Tutto questo (ed altro ancora, che oggi non siamo forse in grado di cogliere) porta a pensare che solo certi tipi di testo saranno destinati a salvare l’esistenza del libro: come dire che il libro cartaceo sarà destinato ad una “testualità più nobile”, proprio come solo certi tipi di testo furono ritenuti degni del bronzo dai nostri antenati.

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ATTILIO BARTOLI LANGELI Più tangibile e materiale di così…: il libro manoscritto Da quando l’uomo lo inventò fino alla fine del millennio scorso, cioè per circa settemila anni, cinque prima e due dopo Cristo, il libro è stato cosa materiale. È stato anche cosa manuale, però per seimilacinquecento anni: nell’ultimo mezzo millennio, dall’invenzione della stampa in poi, alla mano dell’uomo è subentrata la macchina, all’ars naturaliter scribendi è subentrata l’ars artificialiter scribendi. Due modi diversi della materialità del libro.

Il codice, una forma di libro Anzitutto, capiamo che cosa è libro. Un libro è un insieme di pezzi di materia morbida (i fogli ovvero pagine), scritti o destinati a essere scritti. Si hanno anche scritture su un solo foglio: per esempio, su un solo foglio sono scritti i documenti e le lettere, gli uni obbligatoriamente, le altre di preferenza su una sola facciata; su un solo foglio (di pietra) sono scritte le epigrafi. Per testi più lunghi si fa un libro. Il libro si fa con più pagine della stessa materia misura consistenza, legate insieme. I modi di unire, legare le pagine sono i più diversi. Libro è il volumen antico, con i fogli di papiro incollati l’uno accanto all’altro in orizzontale. Libro è il rotolo medievale, con i fogli di pergamena incollati o cuciti l’uno sotto l’altro in verticale. Libro è il libro a fisarmonica, antenato del tabulato di oggi (o almeno in voga fino a poco tempa fa), il modulo continuo coi fogli piegati a soffietto. Libro è il block notes, o il fascicolo ad anelli, o il libro coi fogli incollati a caldo. Eccetera. La forma dominante di libro, in uso dalla tarda antichità a oggi, è il codice, che è una forma di libro più complessa di tutti quegli altri che ho citato alla rinfusa, perché risulta da una composizione a due livelli. Primo livello, il fascicolo. Secondo livello, il codice. Il fascico16

lo è composto da più fogli piegati al centro e disposti uno dentro l’altro, cuciti con un semplice filo. Il secondo livello, il codice appunto, è formato da più fascicoli disposti uno sopra l’altro e cuciti tra loro. Il codice dunque è una delle molte forme storiche di libro; ma, ripeto, è in assoluto la forma massimamente usata per tutti i venti secoli dell’era cristiana, essendo nata in ambito romano nel primo secolo dopo Cristo come libro popolare rispetto all’aristocratico volumen, avendo dominato nel medioevo, essendosi perpetuata nel libro a stampa. Questo, infatti, libro a stampa, è il suo nuovo nome, che lascia il nome di codice solo al libro tardoantico e medievale. Ma il libro a stampa è, strutturalmente, un libro in forma di codice. Che è dunque la forma di libro più duttile e pratica di tutte le altre forme di libro. E prevale tuttora, nel mondo di carta, sulla fresatura: non c’è confronto tra la legatura a filo refe e la brossura a colla. La materia: pergamena e carta Con che cosa è fatto un codice? C’è qualche raro esempio di codice papiraceo, ma la cucitura è mal sopportata dal papiro, che preferisce la colla. C’è qualche raro esempio di


“codice” fatto di due o più, ma sempre poche, tavolette cerate, legate l’una all’altra con spago (Pompei ne ha conservati un bel po’, quelli costituenti l’archivio del banchiere Lucio Cecilio Giocondo). Ma le materie per eccellenza del codice sono due: la pergamena e la carta. La pergamena domina nel tardo antico e nel medioevo, la carta compare nel Duecento e per un po’ convive con la pergamena, dandole il cambio nel Cinquecento. La pergamena resiste, però solo per i documenti, fino agli inizi del Settecento; quanto ai libri continua per i giganteschi corali, fino al Concilio di Trento; poi scompare. La pergamena è, come a tutti noto, una pelle animale depilata, trattata, essiccata in tensione e, spesso, sbiancata con calce su entrambi i lati. L’animale che più di tutti ha dato, contro la sua volontà, la propria pelle ai libri non è la pecora, come farebbe sembrare la parola “cartapecora”, il sinonimo di pergamena; è invece la capra, almeno in Italia; c’erano poi la pergamena pecorina, la vitulina, la bovina. C’erano la pergamena “velina” (antenata della nostra carta velina) e quella “virginea”, tratte rispettivamente dalla pelle di vitelli nati morti e di capretti molto giovani. Sta di fatto che il primo attore sulla scena del libro era il macellaio, il beccaio come si chiamava allora. Il grande lascito culturale del medioevo nasce nel macello. Poi veniva la seconda fase, la trasformazione della pelle in pergamena. Allora i casi sono due: o la pergamena viene confezionata dalla stessa officina scrittoria che la utilizzerà, e questo è il caso dei centri di scrittura insediati nei monasteri e nei conventi medievali fino, diciamo, a tutto il XII secolo, all’interno dei quali lavora il monaco-pergamenario; oppure viene confezionata da officine specializzate, che la vendono ai clienti che ne faranno l’uso che vorranno. Sono le botteghe del cartolaio. Il nome, cartularius, non c’entra nulla con la carta: fa riferimento alla cartula, com’era chiamato il documento pergamenaceo scritto su un solo foglio. Quello che sarà il facitore della carta si chiama cartaio, chartarius. Dunque, la carta. Il percorso è quello solito di tante invenzioni, per mare e per terra: dalla Cina (II secolo d.C.) ai Paesi arabi (VIII seco-

lo) alla Spagna e ad Amalfi (XII secolo), dove però l’uso della carta “bambagina” (così si chiamava) fu proibito da Federico II nel 1220. Cosicché bisogna arrivare, per l’Italia, al 1276, che è il primo anno documentato di attività di un cartaio a Fabriano. La carta era fatta con gli stracci, triturati in acqua in mulini speciali detti gualchiere. Almeno si era passati dal macello al mulino, dal sangue dell’animale all’acqua del torrente. Leggo dal manuale di Petrucci: La tecnica della fabbricazione della carta europea medievale, che rimase sostanzialmente immutata sino al secolo XVIII, consisteva nella preventiva macerazione degli stracci, selezionati, lavati e sfilacciati, che, ridotti in pasta, erano posti in tini; in essi venivano poi immerse e quindi estratte le forme, cioè telai rettangolari di legno, che serravano una rete di fili metallici disposti in senso orizzontale (vergelle) e verticale (filoni), nonché la filigrana [ossia un disegno formato dai fili metallici, una sorta di marchio di fabbrica della cartiera]; le forme, nelle quali era rimasto un uniforme strato di pasta, venivano quindi svuotate e gli strati di pasta disposti ad asciugare; infine i fogli, che risultavano il prodotto di questo processo, erano sottoposti alla collatura, cioè all’immersione in colla animale, compressi, asciugati ed impaccati.

Solo col Settecento si introdusse al posto degli stracci la pasta di legno prima e le fibre di cellulosa poi. Le doti della carta, che nel medio periodo ne decretarono il successo, erano evidenti: levigatezza della superficie, leggerezza, economicità. La pergamena fece resistenza un paio di secoli, ma con l’invenzione della stampa il suo destino fu segnato; qualche prototipografo stampò dei libri in pergamena, ma senza successo e senza futuro. Per fare un libro: 1) la fornitura Quanto alla pergamena, il cartolaio forniva le pelli a misura delle esigenze del cliente. Per i libri usava tutta la zona centrale della pelle, a forma più o meno rettangolare, lasciando le zone marginali ai notai. Una pelle bastava di solito per due fogli (piegati, otto pagine) di un libro di formato medio; libri di formato più 17


grande avevano bisogno di una pelle per un foglio (quattro pagine). Per i grandissimi servivano bestioni: pensate ai grandi corali tre-quattrocenteschi, che misuravano da 65 a 70 centimetri in altezza e 50 per due in larghezza. Un libro di quelle dimensioni di seicento pagine significa la strage di centocinquanta buoi di grossa taglia. Si andava anche oltre questa misura, quando un architetto aveva bisogno di una pergamena per mettere nero su bianco (si fa per dire: bruno su giallognolo) i suoi progetti architettonici: nel 1310 Lorenzo Maitani disegnò la facciata del Duomo di Orvieto su un foglio di un metro e venti per 90 centimetri, che il notaio chiama gavantonem magnum. Un simile gavantone, che però supponiamo di forma rotonda anziché rettangolare, servì a fra’ Bevignate di Perugia, nel 1277, causa designandi fontem, “per disegnare il fonte”, cioè la Fontana maggiore. Il gavantone orvietano è conservato, quello perugino no. Con la carta il rapporto s’inverte. Non è il cliente che, avendo in mente quel certo libro, ordina al cartolaio dei fogli determinati. È il cartaio che vende i fogli di un formato prefissato (le misure del telaio rettangolare). Sarà poi l’acquirente a piegarli tante volte quante servano al formato del libro che desidera: in-quarto, in-8°, in-16° eccetera. Saltiamo la fase mediana, riservandola a dopo, e passiamo direttamente all’ultima fase, la legatura. I fascicoli, impilati dall’amanuense, vengono dati al legatore, che 1) li cuce tra loro usando o un telaio o un ago grande da cuoiaio, 2) li rifila, con un forbicione o con una sorta di sega, 3) li copre con tavole di legno o con un foglio di pergamena robusta, poi legando questa coperta al corpo del manoscritto. In mezzo tra la fornitura e la legatura c’è la scrittura del testo. Una scrittura manuale oppure una scrittura artificiale. Per fare un libro: 2) la scrittura e la composizione L’amanuense faceva tutto da solo, attrezzato con gli strumenti del caso: per rigare i fogli, il righello, la squadra e, volta a volta, il tiralinee

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o la rotella dentata o il punctorium); per scrivere, la penna e la boccetta o le boccette con l’inchiostro (fatto da lui stesso o dal chimico della bottega); e poi il coltellino per temperare la penna, il raschietto per radere gli sbagli, ma solo dopo che l’inchiostro si è asciugato, le forbici; eccetera. L’armamentario dell’amanuense è rappresentato efficacemente dai pittori, con maggiore o minore realismo, nelle immagini degli evangelisti o di santi scrittori, che scrivono comodamente seduti alla scrivania, scribania. Operazione leggera, da intellettuale, quella dell’amanuense? Niente affatto, ce lo dicono loro stessi nei colofoni, le dichiarazioni che essi scrivono al termine del lavoro (gli antenati dei titoli di coda), che sono un inno alla fatica dello scrivere. Ma lo scriptor aveva comunque la sua ricompensa: il Paradiso se era un monaco, per il quale lo scrivere era un’opera di pia penitenza; un salario abbastanza alto rispetto agli altri lavoranti di bottega, se era un amanuense alle dipendenze di un editore del tempo. C’era poi chi faceva da sé e per sé, come il notaio Francesco di ser Nardo da Barberino che, intorno alla metà del Trecento, «con ciento Danti ch’egli scrisse maritò non so quante figliuole», come scrisse due secoli dopo l’erudito fiorentino Vincenzo Borghini; i suoi codici della Divina Commedia, alcuni dei quali sono sopravvissuti, costituiscono il gruppo dei cosiddetti “Danti del cento”. Con l’invenzione della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, Magonza, 1450 circa) cambia tutto. L’invenzione consiste nei caratteri mobili, detti tipi. Tipografia significa “scrittura per tipi”. Si coniano nelle fonderie, da matrici in rilievo, tanti tipi quante sono le lettere nelle diverse forme e i segni d’interpunzione e diacritici; il tutto a rovescio, a specchio. Il compositore (che opera obbligatoriamente in piedi) raccoglie dalla cassa, uno per uno, i tipi necessari per formare le parole e le righe, disponendoli sul telaio, detto compositoio; forma così la pagina. Il tutto in negativo: il compositore, il testo da stampare lo legge da sinistra verso destra e, contemporaneamente, lo compone da destra verso sinistra. Un’acrobazia oculare e mentale. Non solo: a partire


dalla metà del Cinquecento il compositore, che prima lavorava seduto, cominciò a lavorare in piedi, perché la positura eretta lasciava più liberi il braccio e la mano. Non a caso, il mobile sul quale si componevano le righe e le pagine era detto “scriviritto” o “scrivimpiedi”. Se l’amanuense lamentava la fatica dello scrivere, che cosa avrebbe detto il compositore? Il quale, a differenza di quello, non aveva diritto di parola. Il colophon era riservato allo stampatore, non ai suoi operai. La pagina, legata strettamente con lo spago, è il blocco di composizione; il compositore ne incolonna da quattro a otto sui banconi in tante pile, disposte nell’ordine giusto. Dei blocchi di composizione si tirano col torchio una o più stampe provvisorie su fogli singoli, le bozze, che vengono controllate prima dal tirabozze, l’addetto interno a una immediata revisione, e poi dall’autore/cliente. Le correzioni da loro eseguite vengono riportate in piombo. Una volta soddisfatti del risultato, viene dato il “visto si stampi”. Per fare un libro: 3) la tiratura La tiratura ovviamente è solo del libro a stampa. Il codice manoscritto è fatto appena l’amanuense ha finito il suo lavoro. Semmai dopo di lui interviene il miniatore, quando si voglia fare una cosa elegante. Ogni codice manoscritto, anche quando riporti un testo per la millesima volta, è irripetibile, è un unicum. Un libro a stampa è un esemplare di un’edizione, di una tiratura. Nell’officina tipografica, una volta sicuri del testo, entra in azione l’operaio impaginatore, che ha il compito di dare forma di pagina regolare e precisa ai pacchetti di composizione. In particolare egli procede all’imposizione (lat. impositura), ossia dispone i pacchetti-pagina in modo opportuno su un grande telaio; è questa la “forma di stampa”, che può assemblare due, o quattro, o otto, o sedici pagine. Prima una facciata, poi la retrostante. Perciò quei numeri vanno raddoppiati per avere il conto esatto delle pagine; due forme recto-verso di otto pagine danno luogo a un sedicesimo.

A quel punto subentrano gli operai stampatori, che lavorano al torchio. Sono di solito due: il battitore, che dispone la forma di stampa sul ripiano e la inchiostra in maniera regolare e pulita; e il torcoliere o tiratore, che manovra la macchina. Appoggia un foglio sulla forma di stampa inchiostrata e aziona la barra del torchio: la forte pressione trasferisce l’inchiostro sulla pagina. Estrae il foglio di carta e lo mette ad asciugare. E via andare, tante volte quante sono le forme di stampa. Dopo di che ricomincia da capo, perché gli stessi fogli devono essere stampati sul verso. Ciascuna di queste operazioni va rifatta tante volte quant’è la tiratura stabilita dal tipografo-imprenditore. (Si è detto pressione del torchio: di qui le parole italiane ‘impressione’ e ‘impresso’ nonché quelle francesi imprimé e dintorni e, soprattutto, la parola inglese press). Come si comprende bene, la stampa non portò affatto una riduzione dei tempi, del numero degli addetti, della loro fatica. Quanto al numero degli addetti, gli unici operatori comuni ai due procedimenti erano l’amanuense e il compositore, che lavorava più e peggio dell’altro (e guadagnava meno di lui). Per il codice manoscritto, oltre all’amanuense poteva lavorare il miniatore, che era un optional. La produzione tipografica si arricchiva di tirabozze, impaginatori, battitori, torcolieri eccetera, tutti operatori sconosciuti fino ad allora. Fare un libro a caratteri mobili costava molto più denaro e molto più tempo che fare un libro “a penna”; la novità è che con i caratteri mobili di libri se ne potevano fare, da quell’un libro, tanti. L’invenzione della stampa consiste non tanto nei caratteri mobili in sé quanto nella produzione in serie di libri, per mezzo di quelli. Con tutto ciò che ne seguì: per esempio l’asservimento dei processi di produzione e circolazione culturale alla legge della domanda e dell’offerta. Per fare un libro: 4) la legatura e copertura Mentre l’amanuense compone i fascicoli e li dispone uno sull’altro, la tiratura a stampa produce i fogli di grande formato, che, stam-

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pati sulle due facciate e piegati tot volte, formano il fascicolo. I fascicoli vengono dati al legatore, che 1) li cuce tra loro usando o un telaio o un ago grande da cuoiaio, 2) li rifila, con un forbicione o con una sorta di sega, giù giù fino alla taglierina e alla macchina tagliacarte, 3) li copre con tavole di legno o con un foglio di cartone, poi legando questa coperta al corpo del manoscritto. Esegue anche la raffilatura, che è necessaria per un codice in pergamena, perché il taglio dei fogli da parte del cartolaio era approssimativo ed è lo scrittore che in fase di rigatura segna dove il legatore deve tagliare; mentre con la carta o il problema non si pone, se il tipografo lascia il libro intonso cioè coi fascicoli piegati (sarà poi il lettore a provvedere), oppure si procede appunto alla raffilatura.

la monotype compone e fonde un carattere alla volta. È da questi sistemi, per inciso, che venivano le bozze “in colonna”, ora desuete. Con la linotype e la monotype, ma specialmente con la prima, la tipografia, già risonante di suo, diventa fragorosa. Prendiamo la linotype: a ogni battuta sulla tastiera cade (fisicamente) dal magazzino un carattere, che perfora (fisicamente) il nastro corrente; il campanello avverte il linotipista, che deve spezzare manualmente le parole, dell’avvicinarsi della fine del rigo; quando la riga è completata essa precipita nel raccoglitore con un caratteristico rumore di ‘cascata’. Non parliamo poi della macchina fonditrice. Un po’ di frastuono, e basta? magari. Tutto quel piombo portava ben altro. Quanti operai delle tipografie sono morti di saturnismo, l’intossicazione da piombo? Bisognerebbe contarle, le vittime della materialità del libro.

Gli ultimi tempi Nel corso dell’Ottocento si ebbero varie innovazioni, che hanno caratterizzato la produzione tipografica fino allo spirare del millennio. Prendo le notizie che seguono da Wikipedia. Quanto alla composizione, si passa da quella a mano a quella meccanica: prima, nel 1886, con la linotype; poi, nel 1892, con la monotype. Entrambe seguitano a utilizzare caratteri-matrici metallici, ma compongono mediante una tastiera (90 tasti la prima, tra i 230 e i 270 la seconda). Il lavoro compositivo si velocizza enormemente: un bravo monotipista era uno spettacolo. Da poco si è passati alla composizione digitale: una cinquantina di tasti, poca roba. Quanto alla stampa, le novità, dopo secoli di torchio manovrato manualmente, sono molte: 1811, la macchina da stampa; 1845 circa, la rotativa; inizi del Novecento, la stampa offset. Infine la stampa digitale. Mi soffermo sulle macchine linotype e monotype. La macchina ad ogni battuta pesca dal magazzino un carattere e lo imprime su un nastro che arriverà alla macchina fonditrice. Come dicono le parole, la lynotipe compone e fonde una riga intera (la correzione di una lettera comporta la ricomposizione di tutta la riga),

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Il tempo presente: l’immaterialità del libro Oggi il libro si fa in silenzio, se non fosse per il lieve ticchettio della tastiera; e in ambienti salubri (volendo). Nessuna cosa materiale e morbifera, il mezzo è ora la luce: bisogna solo proteggere la vista. Maestranze, poche o nulle: un libro, volendo, lo si può fare da soli. Prendiamo un e-book. Basta una persona e un computer. La persona fa, per via di polpastrelli e tasti, da autore (o traduttore), da compositore, da impaginatore, da stampatore. Il computer fa il dovere suo. Questo in teoria. Nella realtà le varianti sono molte. Anzitutto, un minimo di serietà impone che un libro lo faccia una casa editrice, il che significa di per sé una pluralità di compiti. Poi, dipende da che tipo di libro si vuol fare. Si è detto dell’e-book. Già più complesso è fare un audiolibro: serve un buon impianto di registrazione, una buona voce leggente e il doppio del tempo. Si volesse, poi, fare un libro cartaceo, allora occorrerebbero materiali (la carta e il toner o l’inchiostro), macchine (il computer e la stampante, che sia offset o digitale) e due o tre officine e altrettante maestranze, l’ufficio, la tipografia e la legatoria. C’è poi


tutto il dopo del libro, la commercializzazione, le librerie, il mercato. Appartengono al passato certe pratiche della editoria materiale travolte dalla rivoluzione digitale. Per esempio le minute e le bozze d’autore. Da oggi in poi non si potrà più esercitare quella che Gianfranco Contini chiamava, difendendola da Croce e praticandola da par suo, la “filologia degli scartafacci”. Una filologia, detta più elegantemente “genetica”, che consisteva nel capire come lavoravano gli scrittori, da Petrarca a tutto il Novecento. Petrarca ha lasciato un “codice degli abbozzi” del Canzoniere (il Vaticano latino 3196). Ariosto postillò fittamente le prime edizioni del Furioso prima di arrivare alla definitiva del 1532. Notissima è la storia degli infiniti passaggi di Manzoni dal Fermo e Lucia del 1821-27 alla edizione a puntate dell’ultimo Promessi Sposi nel 1840-42, intra-

presa da lui stesso. Destinato dunque a esaurirsi è il Fondo manoscritti di autori contemporanei fondato da Maria Corti a Pavia nel 1969, autentico monumento degli autografi, minute, bozze d’autore. Mentre sembra avere più lunga prospettiva la creatura di Saverio Tutino (1984), l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, però rassegnandosi a vedere le memorie private scritte a mano superate, e infine obliterate, da quelle scritte al computer. L’editoria digitale ha ridato nuova, infinita vita al libro. A maggior ragione bisogna mantenere al libro la sua dignità di prodotto culturale alto, perfetto, bello. Troppo facile far libri, oggi, perché non avvenga di vedere brutti libri, stampati all’avventura. Il mestiere di far libri, e di farli bene, dev’essere salvato. Oggi più che mai c’è bisogno delle scuole di arti grafiche. E, inutile dirlo, di buoni editori.

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GAIA ROSSETTI Apri lo scrigno. Editoria innovativa per un rapporto inclusivo e partecipato con la lettura

Negli ultimi anni l’editoria per bambini vive una stagione di slancio e di rinnovamento in quanto si è compreso che per coltivare il piacere della lettura sin dalla più tenera infanzia, secondo le linee del Progetto Nati per leggere sostenuto da pediatri ed educatori, i libri devono coinvolgere significativamente anche l’adulto, con illustrazioni aggiornate e accattivanti. L’interazione dialogica con i piccoli viene favorita da forme particolari, inserti materici, finestrelle, dettagli che coniugano semplicità e finezza grafica. Parallelamente l’attenzione verso i portatori di bisogni speciali, ha raggiunto un livello di qualità tale da realizzare pienamente l’universalità della lettura rendendo il libro accessibile anche a coloro che non parlino la medesima lingua di edizione, che abbiano problemi di vista o specifiche difficoltà. Il connubio tra l’editoria per bambini e l’editoria per lettori svantaggiati ha portato alla produzione di libri anche per adulti dalla veste altamente innovativa: libri senza parole, pop up, 3D, in simboli, bilingui, in caratteri di rinnovata eleganza per un’alta leggibilità, tali da espandere la comunicazione oltre ogni barriera sensoriale o culturale. Prodotti di qualità da possedere e sfogliare da soli o in compagnia.

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La rassegna sulle varie forme editoriali è stata fatta attraverso esemplari della biblioteca Villa Urbani di Perugia.


ALESSIO PASSERI La resilienza dei libri. Il caso della biblioteca “La Fornace” I libri, così come gli edifici deputati alla loro conservazione e fruizione, stanno attraversando, come hanno già fatto in epoche passate, un periodo di transizione individuato nel concetto di “resilienza” tema centrale di questo lavoro: in quanto oggetti sociali la loro forma, della quale si delineano qui proposte di sviluppo in chiave pubblica e privata, rimanda di volta in volta ad una specifica determinazione comunitaria, antecedente a quella normativa.

Il libro inteso come oggetto trova nel suo inserimento all’interno della società della comunicazione, quella che caratterizza l’attuale epoca Postmoderna, la sua migliore definizione: infatti, se è vero che i due ambiti dell’oggetto e della società si compenetrano nella pagina scritta, allora la creazione dell’oggetto-libro prende le mosse a partire dalle determinazioni sociali. Questo concetto si può comprendere appieno se collocato storicamente: infatti, la forma che il libro ha assunto col passare del tempo, da quella del Codex, al codice manoscritto, per finire col testo a stampa, non è soltanto il risultato dell’attuazione di innovazioni tecnologiche, ma soprattutto il frutto del sentire sociale che ha trovato sempre nuove modalità di espressione, facendo dell’oggetto un soggetto, un corpo che evolve e progredisce. Oggi la grande distribuzione dei libri editi dalle grandi società editoriali, oltre a trovare forme codificate in maniera binaria di diffusione all’interno della realtà virtuale, anche nella sua tradizionale rilegatura a stampa riesce a raggiungere un pubblico sempre più ampio attraverso innovative tecniche mediatiche: basta pensare alle discussioni con autori cosiddetti “di cassetta” in TV in relazione alla loro ultima pubblicazione, oppure alla vendita promozionale di edizioni complete di questo o dell’altro pensatore che possiamo acquistare comoda-

mente in edicola come allegati ad un quotidiano, pratica memore dell’ottocentesco feuilleton, o infine alla comunicazione in piazza in presenza degli stessi scrittori come accade sempre più spesso durante i festival tematici. Dunque il libro cartaceo resiste all’irrompere prepotente della sua versione digitale e lo fa attraverso forme che rivelano lo spirito della società attuale, la quale, in ultima istanza, non si riduce alla mera virtualità neanche in quest’ultimo periodo di pandemia mondiale. Il concetto che meglio esprime questo fenomeno è quello di “resilienza” che definisce la caratteristica di un corpo di resistere ad una perdita e, contemporaneamente, il suo processo di adattamento all’interno del mutato assetto delle comunità sociali: questa dialettica tra innovazione e conservazione la troviamo anche nel caso del libro, diviso tra forma tradizionale e nuove determinazioni virtuali. Non soltanto i libri, ma anche i loro depositi fruibili spesso pubblicamente, hanno vissuto periodi più o meno lunghi di transizione: le biblioteche come gli oggetti che esse contengono trovano nella società attuale una loro precisa collocazione. Non è scopo di questo lavoro parlare della storia delle biblioteche, per la quale si rimanda al suggestivo testo di Luciano Canfora intitolato Per una storia delle biblioteche (Canfora, 23


2017); tuttavia un accenno al passato della biblioteca La Fornace di Maiolati Spontini, la quale è un ottimo esempio e simbolo dell’applicazione del concetto di resilienza in vista della conservazione e della nuova modalità di fruizione dei libri, è necessario al fine di trarre alcune propositive conclusioni sul tema del futuro dei libri. Il recupero della vecchia fornace, costruita nel 1915 e deputata alla produzione di laterizi, caduta in disuso a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e in stato di abbandono dagli inizi degli anni Ottanta, avviene nel 2002: soltanto alla fine del 2007 è stata inaugurata la biblioteca multimediale, nata dal recupero architettonico di quello che sarebbe diventato un reperto di archeologia industriale. La EffeEmme23 è situata in una zona periferica rispetto al centro storico della città di Maiolati Spontini (AN), e tuttavia incastonata nella zona residenziale della frazione di Moie: essa offre attualmente un servizio pubblico accessibile a tutti con tanto di punto ristoro collegato.

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L’amministrazione politica dell’Ente comunale, sempre presente in maniera sollecita ad ogni fase di vita della struttura, come dimostrano i bilanci dei numeri della cultura riportati nel periodico di informazione dal titolo Il Comune di Maiolati Spontini, non esclude, in ultima istanza, l’intervento di aziende private per il suo funzionamento, oltre che il pronto utilizzo di strumenti come l’Art bonus del 2016 come opportunità per finanziare la cultura, con l’individuazione di progetti che incentivano “attraverso un credito d’imposta, le donazioni liberali a favore del patrimonio culturale” (Ibid., A 2016, p. 8). In conclusione, i libri a stampa così come le biblioteche che li contengono, vedi il caso della EffeEmme23 di Moie, stanno attuando un processo di revisione e innovazione nel tempo che, come le antiche cattedrali medievali, non trova termine nell’attuale generazione di operatori del settore, ma, in maniera sempre più multidisciplinare, in quelle del futuro prossimo e remoto.


RANIERO REGNI Con un libro in mano. I libri, mattoni per costruire la civiltà

Che cos’è un libro? Il libro è una macchina o, meglio, è il supporto materiale di una tecnica che si chiama scrittura. Non diversamente dal computer, il libro è una tecnologia creata dagli esseri umani per conservare, trattare e trasmettere informazioni. Ogni tecnica interagisce con noi ma, a differenza di un attrezzo, ogni tecnologia dell’informazione interagisce con la mente. Ogni tecnologia può essere usata bene o male ma non è comunque neutrale perché ci mette del suo. I mezzi sono anche i messaggi, se sono veicoli del pensiero ne sono, al tempo stesso, anche il conducente. Il libro è un medium del pensiero creato in seguito alla invenzione della scrittura. Come medium ha contribuito a diffondere il pensiero scritto che ha il potere di sottrarre la risuonante parola orale all’istante di vita che le è concesso dalla voce. Una parola scritta si conserva, sta ferma di fronte al lettore, il pensiero viene spazializzato, diventa un oggetto su cui riflettere e su cui esercitare la critica. Come ogni altro mass medium crea un ambiente dell’informazione nel quale la società finisce per vivere immersa interiorizzandolo. La scrittura, attraverso le successive alfabetizzazione e scolarizzazione, ha provocato il passaggio dalla società orale alla società scritturaria. Il libro ha condiviso poi la rivoluzione silenziosa della stampa che è stata una dei propulsori del

pensiero moderno, occidentale prima, mondiale poi. Dal mondo vivo, faccia a faccia, della parola orale, si è passati progressivamente alla “galassia Gutenberg”, un mondo di carta stampata. Come la spada e l’aratro, ma diversamente da loro, il libro è un oggetto che si tiene in mano ma per il quale le mani, quegli splendidi attrezzi di tutti gli attrezzi, hanno una funzione marginale. Anche se tenuto in mano, il libro parla alla mente. Sacrifica il corpo nell’immobilità dell’atto della lettura ma apre l’immenso mondo della coscienza interiore. Il lettore riflette sulla pagina scritta, è un essere solitario e ragionatore. Senza il libro non avremmo avuto probabilmente il razionalismo e l’individualismo moderni. Il libro è un oggetto che, come il mattone, dialoga con la mano e con la mente. Come il mattone ha permesso di innalzare le costruzioni del passato e anche del presente, così il libro è uno dei mattoni che permettono la costruzione della civiltà, anche quella del futuro. Con la sua maneggevolezza è un oggetto quasi fatto a mano. Tutti i libri, anche se oggi scritti a computer, sono un lavoro fatto con amore e passione, fatti a mano, anche se prodotti in serie. Il lettore con un libro in mano compie un gesto che sta tra i sensi e il senso, che coinvolge la mente e il corpo, legame che oggi le neuro25


scienze pensano come sempre più profondo. Libri, barche, mobili, sono oggetti provenienti dal legno, la cosa più economica di valore inestimabile che sia mai esistita. A differenza della tradizione occidentale quella cinese sostiene che gli elementi del mondo sono cinque, a quelli tradizionali, terra, acqua, aria, fuoco, i cinesi aggiungono il legno. Il libro è uno dei tanti, infiniti, frutti degli alberi. Non è un caso che, in inglese, la parola tree (albero) e la parola truth (verità) derivino dalla stessa radice. “Quello che ricavate da un albero abbattuto – è stato scritto – dovrebbe essere almeno prodigioso quanto ciò che è stato atterrato”. C’è da dire che non tutti i libri pubblicati valgono la cellulosa necessaria a stamparli. Come ogni tecnologia, il libro produce sia una fisiologia che una patologia. La patologia della lettura è quella denunciata tra gli altri da Nietzsche per il quale gli unici pensieri vivi sono quelli nati camminando e non sotto la scossa della lettura di altri libri. Il libro produce l’erudito ruminatore di pensieri già pensati, la lettera che uccide lo spirito. È stato detto che il libro è uno specchio, dipende da chi vi ci specchia. Infatti non ci sono testi senza testa. Il libro è uno specchio complesso, diverso da ogni altro specchio creato dalla successiva “galassia Marconi”. Con le telecomunicazioni prima, e i nuovi media della rivoluzione digitale poi, è nata una nuova postura fisica e anche mentale, un nuovo patto con le macchine: la postura uomo-video-tastiera sostituisce quella uomo-libro-scrittura. Due diversi modi di costruire oltremondi digitali, immaginari. Gli schermi brillano di luce propria, smaterializzano il mondo in immagini e lo allontanano in una rappresentazione. È la società dello spettacolo e del narcisismo, dove i corpi scompaiono in un gioco di specchi. Il gesto della lettura conserva però una sua materialità che lo collega alla natura, prima analogica che digitale, della comunicazione umana. La lettura è un gesto, come il gesto è un precursore del linguaggio parlato e della comunicazione digitale. Come ha scritto R. Calasso, “il libro come il cucchiaio, appartiene a quegli oggetti che vengono inventati una volta per tutte – in tempi

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molto antichi o anche piuttosto recenti. Passibili di innumerevoli variazioni, ma all’interno di uno stesso gesto: attingere una piccola quantità di liquido, per un cucchiaio; leggere un testo, tenendo fra le mani, sfogliandolo e spostando con facilità l’attenzione al suo interno… tutti discordi su un eventuale soppiantamento del libro con altri mezzi ignorano un fatto elementare: il nostro repertorio di gesti è quanto mai limitato. E gli oggetti sono tentativi più o meno felici di adattarsi a certe caratteristiche inevitabili di quei gesti”. Si discute oggi sul destino del libro e dell’immensa civiltà che si è costruita con questi mattoni. A tale proposito sembra condivisibile l’opinione di A. Baricco quando scrive, all’interno di un libro dedicato paradossalmente proprio al grande “game” elettronico dell’era digitale, che “non ci perderemo mai veramente fino a quando terremo dei libri in mano. Non tanto per quello che raccontano, no. Per come sono fatti. Non hanno link. Sono lenti. Sono silenziosi. Sono lineari, procedono da sinistra a destra, dall’alto al basso. Non danno un punteggio, iniziano e finiscono. Finché sapremo usarli, saremo umani ancora”. Ma questo accadrà se troveremo dei modi per trasmettere alle nuove generazioni il piacere del testo e l’amore per la lettura. Lettori non si nasce, lettori si diventa e l’incontro decisivo tra bambini, ragazzi e libri avviene in casa e sui banchi di scuola. Se i genitori coltiveranno il rito della lettura assieme ai figli, se sapranno scegliere un libro e un momento per leggere assieme ai figli, se creeranno un ambiente per leggere, una piccola biblioteca in casa, arricchita e variata mentre il bambino cresce, dai classici alle novità. Se i genitori che leggono sapranno testimoniare il valore della lettura, anche visitando biblioteche. Se a questo lavoro in casa si aggiungerà il lavoro in classe, non come esercizio ma come accesso alla vita, allora avremo dei lettori forti che saranno anche sicuramente dei cittadini migliori. Perché i libri sono vivi, parlano della vita e fanno venire in mente di farla vivere.


ALESSANDRO CABIANCA La crisi del libro è irreversibile?

Mi è stato richiesto dall’amico Giuseppe Bearzi, tra i promotori del convegno, di guardare al futuro del libro e di avanzare delle proposte in questo senso perché sa che sono esattamente cinquant’anni che combatto per la diffusione del libro e in particolare del libro di poesia (la cenerentola tra le categorie librarie e non serve che stia a dirvi in quale stato è la poesia in Italia), ma, vi assicuro che non ho ancora capito cosa si dovrebbe fare e come per avere dei risultati. Ho organizzato presentazioni, che servono molto all’ego del poeta o dello scrittore, meno alla diffusione del libro che si vuol far conoscere (non conta la piccola cerchia di amici che acquista il libro per compiacenza); ho scritto prefazioni e recensioni per conto di alcune case editrici, che però sono piccole e non hanno una organizzazione per la comunicazione e la promozione del libro; tutto rimane affidato all’autore e al passaparola; ho organizzato con associazioni culturali (come il Gruppo90-ArtePoesia di cui ancora fa parte Giuseppe Bearzi che cura anche la minirivista Carta giunta al 76° numero) siti, blog e streaming, centinaia di performance, quasi forma di spettacolo alternativo che piace, ma, come per gli spettacoli teatrali, non porta lo spettatore ad acquistare i testi.

Non mi avventuro in analisi sulle cause della crisi del libro che trovo ampiamente esaminate in Fogli di carta da Bearzi e Cardaioli, sottolineo soltanto che il libro, ovviamente, non è una saponetta, ma sempre più spesso viene presentato come un qualunque oggetto da vendere, o da comprare, con gli stessi criteri con cui si vende un qualsiasi oggetto, senza approfondimenti e con i tempi di facebook: tre parole, titolo, autore e immagine della copertina. Proviamo a uscire da queste generalizzazioni provocatorie: mi piacerebbe che si avesse maggiore consapevolezza delle forme alternative al libro (non sembri una negazione del libro ma un suo rafforzativo) cioè delle varie esperienze che poi portano ad avvicinarsi al libro, magari a cercarlo e ad acquistarlo, sia in libreria che in internet, sia in cartaceo che in ebook: riviste, siti, presentazioni, prefazioni, biblioteche. Si dovrebbero quindi moltiplicare le possibilità di promozione: • se chi è abituato a scegliere (siamo sicuri che si tratti di scelta?) un libro per la fama dello scrittore o per le classifiche di vendita (a volte taroccate) non lo si conquista, ci si deve rivolgere al lettore curioso, che voglia trovare spunti nuovi, nuovi temi o nuovi autori;

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• si dovrebbe perciò ripristinare la credibilità del libro, che di credibilità ne ha persa molta negli ultimi decenni per l’attenzione alla quantità piuttosto che alla qualità, attraverso una dicitura, un occhiello, che confermi che un libro non è frutto di una operazione commerciale o di una scrittura in batteria (con writers vari) ma di autentica ricerca personale; • ci vorrebbe un incaricato in ogni assessorato alla cultura di città di grandi dimensioni per la promozione del libro, ma non in senso generico, bensì specifico; ogni nostra città ha una fisionomia culturale sua propria che andrebbe salvaguardata e non confusa nel mare magnum: con eventi ad hoc, oltre quelli affidati ai privati: fiere, promozioni degli autori autoctoni (e non per localismo, ma per differenziazione e specificità). Per fare un esempio concreto: Padova è da pochi giorni Patrimonio Unesco per i cicli di affreschi di Giotto e dei giotteschi nel Trecento; i siti sono otto, non solo i due più noti (Cappella degli Scrovegni e Basilica di Sant’Antonio) e andrebbero approntate otto monografie, una per sito, con documentazione fotografica in alta definizione e pubblicazione del dossier che ha permesso di ottenere il risultato; sono convinto che sarebbe un successo anche di vendite oltre che una formidabile promozione sia delle monografie che del turismo. Gli assessorati potrebbero commissionare delle opere agli autori di comprovata e specifica competenza, non per clientela, per ogni ramo dello scrivere (scienza, arte, letteratura etc.) con un vero programma di lungo termine; e farlo in collaborazione con gli editori che dovrebbero cercare accordi con le librerie del territorio per il posizionamento di questi libri in evidenza a fianco alla voluminosa e spesso inutile promozione fatta dalle grandi case editrici dei loro “prodotti”, sempre meno libri, sempre più oggetti. Infine andrebbero moltiplicate piccole bacheche in luoghi pubblici o molto frequentati dove si possano attuare scambi di libri, riviste, 28

fumetti etc., cosa peraltro già in atto in alcuni bar, ambulatori, ospedali, uffici postali… Essenziale poi per la diffusione del libro resta la scuola, ma questo richiederebbe un discorso specifico che sicuramente altri relatori affronteranno, perché si dovrebbe prescindere dai programmi ministeriali e creare dei gruppi di scoperta della letteratura, intesi sia come gruppi di lettura che come gruppi di scrittura, divisi nei vari generi dal classico al contemporaneo: narrativa, saggistica, poesia. Ad esempio portare autori noti nelle scuole e editori e attori aiuterebbe i giovani a passare dalla conoscenza astratta e libresca al concreto contatto con una persona che si occupa o che produce un libro o uno spettacolo; così per uno studente la prospettiva cambierebbe totalmente. Si dovrebbe però discutere su come superare certa burocrazia scolastica. Un’altra proposta concreta potrebbe riguardare la diffusione degli Atti del Convegno nelle scuole previo accordi con insegnanti sensibili al tema, con la presenza e presentazione delle conclusioni del Convegno da parte di uno dei relatori per averne un feedback dai ragazzi che potrebbero essere coinvolti sia in una discussione sia con un questionario con le loro idee e proposte. Mi fermo a questo, sperando di aver contribuito al tema generale del convegno.


SEBASTIANO A. GIUFFRIDA La Carta Cenerentola La migrazione del libro dalla carta al formato elettronico, iniziata nel 1971 ed esplosa nel 2007 con il lettore Kindle, ha decretato il rapido declino della cellulosa, giacché gli e-book offrono al lettore una ridda di benefici e servizi davvero inimmaginabili *.

L’uso della carta come esclusivo supporto per l’editoria è strettamente legato alla rivoluzione della stampa con caratteri mobili di Gutenberg (1455). Prima si sono utilizzati materiali diversi: pietra, argilla, corteccia d’albero, lamiere di metallo, papiri, ecc. Il dominio della carta comincia ad accusare i primi cedimenti nel 1971 quando nasce il Progetto Gutenberg (la scelta del nome del grande tipografo tedesco non è ovviamente casuale) inventato da Michael Hart con l’intento di mettere a disposizione in formato elettronico tutta la biblioteca mondiale esente da diritti d’autore. Nascono i primi e-book usati come pura e semplice archiviazione di libri che continuano a vivere di e nella carta. Nel 2000, però, esce il primo libro pensato, in quanto multimediale, per il formato e-book: si tratta del romanzo Riding the Bullet – Passaggio per il nulla di Stephen King. In un solo giorno ne vengono vendute oltre 400.000 copie. Nel 2007, Amazon fa uscire il Kindle, primo lettore e-book dedicato: è l’inizio del declino della carta che da Principessa ritorna al primitivo ruolo di Cenerentola. Kindle e affini, infatti, offrono al lettore performance e veri e propri benefit che il libro di carta non consente: inchiostro elettronico, opzionale illuminazione discreta e non irritante, ma soprattutto dizionari e traduttori

incorporati, sottolineature, segnalibri e scrittura di note, ricerche rapide sia interne al testo che a siti esterni come Wikipedia, ecc. Per non parlare della enorme trasportabilità di intere biblioteche in un solo apparecchio tascabile e del risparmio, a volte notevole, sul prezzo di copertina dei libri. E per di più l’enorme potenziale ipermediale dell’ebook è ancora quasi tutto da inventare. La carta, priva di strumenti ulteriori alla semplice lettura, viene poi accusata di aver un non irrilevante impatto ambientale in termini di consumo di alberi, di energia elettrica e, soprattutto, di acqua. Povera Cenerentola senza nessun Principe all’orizzonte!

* Questo abstract è stato ampliato anche usufruendo di una presentazione PowerPoint che può essere liberamente scaricata all’indirizzo web: giuffrida.it/cartacenerentola.pptx.

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GIUSEPPE BEARZI Del libro gli inesauribili sensi Un libro non è letto solo con gli occhi, ma con tutti i sensi. È solo grazie alla loro interazione olistica che possiamo comprenderne e apprezzarne appieno valori e contenuti: altre forme, per quanto innovative, riescono a trasmetterne tutt’al più una parte.

Ainsi font font font – les petites marionettes, ainsi font font font – trois petits tours et puis s’en vont. Facile raffrontare le marionette della canzoncina con i turisti che scendono dal torpedone, visitano questo e quello, scattano tre foto e poi se ne vanno. O con i lettori dei libridi (vulgus gli e-book), che leggono tre pagine, cercano un significato, una citazione e un concetto e poi si sentono paghi. Il libro è altra cosa. È tutto ciò che è e accade, che penetra per sensazioni ed emozioni nei luoghi della nostra psiche. Nello specifico e lento fluire dei secoli una cosa ha stimolato più di ogni altra la nostra mente e la nostra anima: il libro. Leggere la pagina di un documento o di un libro è statuire un contatto fisico e spirituale, percorrere un sentiero, entrare nel paese delle meraviglie, in un giardino a maggio, in un prato falciato di fresco, in una ‘selva oscura’, dove ci si può smarrire o cercare e trovare tutto, anche le cose, gli esseri, i pensieri di altri mondi e altre dimensioni. Il libro non colpisce un senso, li colpisce tutti. Per primo la nostra vista, essenziale per quel flusso di onde elettromagnetiche la cui lunghezza determina il colore e la forma di quanto ci circonda: è lei che traduce le parole scritte nel linguaggio del cervello e le trasforma in immagini, situazioni, misure, sentimenti, 30

emotività, espressioni, movimenti, stasi. Grazie ai nostri occhi la struttura del libro, le sue pagine, le sue misure diventano tessere di un mosaico che, nel comporsi, ci attrae o ci scontenta, sfoglia la nostra mente, ci allontana o entusiasma o lascia indifferenti. Sono cose che un librido non fa. Pure il tatto però legge il libro: la sua fisicità non raggiunge ciò che prova la madre per il proprio figlio o il naufrago per un salvifico relitto, questo è vero; procura però altre sensazioni o emozioni talora allettanti, corporee, tonificanti, talaltra mnemoniche o piacevoli, qual è il contatto del musicista con il suo strumento, dell’artigiano con i propri attrezzi pregnanti di esperienze e saperi, dello scalatore con le sue corde, i suoi chiodi, moschettoni, caschi, imbraghi. Tra il libro e il lettore si sancisce un legame fisico, che non è abuso ma senso di sicurezza, di fiducia, di pertinenza. È la certezza del pescatore che conta sulle sue reti, non su quelle altrui forse smagliate o svolte e avvolte diversamente, né su imbrocchi, tramagli, nasse, cogolli, bertovelli, arpioni, palangari che non gli sono propri. Tra libro e lettore nasce un legame che via via si consolida, si fa possesso. È l’album di foto della nonna, il Pinocchio per il bambino, La Tigre di Mompracen per l’adolescente e, per il giovane, i Sepolcri di Foscolo o


la Logica della scoperta scientifica di Popper. È un con-tatto vivo, che s’imprime e permane. Se vista e tatto ci donano due letture di uno scritto, l’udito ne offre un’altra, specie se appartiene a chi comprende ciò che legge, cosa che, com’è noto, non sempre càpita. O capita? Per cogliere appieno il significato di un libro, e la sua bellezza, occorre che la lettura – oltre che udita – sia assimilata, compresa nel profondo. Può accadere di primo acchito, oppure in un modo lento, in una rilettura con un’attenzione totale che consente di cogliere quanto sia diversa quella nostra, ad alta voce, dal fine dire di altri. Se in Rete aprite il portale “youtube” e richiamate la poesia San Martino del Carso1, detta prima da Giuseppe Ungaretti e poi da Luigi Gaudio, Antonio Chimenti o Sergio Carlacchiani, scoprirete le diversità abissali tra l’interpretazione dell’autore e quelle degli altri. La mia o l’altrui “lettura muta” non eguaglierà mai l’interpretazione del Poeta, l’unica che, per quanto imperfetta, è vera. Oggi, nello scenario elettronico, succede di rado che una lettura ad alta voce riesca a esprimere tutti i valori e contenuti di un testo né possiamo pretendere che tutti i fini dicitori siano in grado di sublimarci. Anziché ascoltare qualcuno che azzoppa un capolavoro, ferendoci di stridori, è preferibile prendere quella pagina e leggerla e rileggerla fino a capirne tutto il patrimonio di pause, intonazioni, volumi, armonie, inflessioni, respiri, sentimenti ed emozioni che racchiude. E solo allora declamarla. Degne di considerazione sono pure le suggestioni procurate dall’odorato quando, entrando nel luogo dove c’è il libro – la nostra stanza, la metropolitana, il vaporetto, la sdraio –, ne percepiamo l’aroma della carta, della colla, delle vernici di copertina; o, sfogliando le pagine, i respiri residui di un segnalibro. Lievi o intensi, sono qualcosa di intimo, di esclusivo che ci cattura, ci trasporta nella nostra isola e ci aiuta a riallacciare il flusso di un dialogo sospeso in cui vogliamo reimmergerci. 1. Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro // Di tanti/ che mi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto // Ma nel cuore / nessuna croce manca // È il mio cuore / il paese più straziato.

E c’è il gusto, non quello della gola, ovviamente: quello estetico, quello che abbraccia la miriade di accenti, colori ed espressioni dei manoscritti miniati. Penso a quelli della pergamena e della carta, ai capilettera, alle tipologie dei caratteri, al lavoro dei miniatori, degli scrivani, dei rubricatori, di chi craxava2. Quest’arte, iniziata, credo, in Egitto, al tempo del Libro dei Morti, si è sempre più perfezionata e arricchita fino al XIX secolo, lasciandoci un patrimonio incredibile di idee, capolavori ed esperienze che oggi stiamo ancora surrogando con scopiazzature di una banalità sconcertante. Pare quasi che il nostro gusto si sia atrofizzato, che la cura – ieri di ogni foglio e di ogni rigo – si limiti alla copertina, all’esterno di un’opera che spesso non sarà letta. È come se oggi si volesse trascurare il resto – la composizione delle pagine, la scelta e la dimensione del carattere, la qualità della carta –, se si barattassero quei pregi con quantità eccessive, inutili, dannose per l’ambiente e per chi lo vive. Il vero gusto non ha limiti né verso l’alto né verso il basso: si estende dalle vette del Codice Leicester di Leonardo giù, giù fino a certe edizioni economiche odierne che già alla prima lettura si sfasciano tra le dita; dove è una pretesa leggere tanto le ultime lettere a destra delle pagine a sinistra, quanto quelle a sinistra delle pagine a destra. Eppure, dalle opere di sublime perfezione e bellezza dei secoli passati l’editoria attuale potrebbe trarre tanti insegnamenti, idee e indicazioni per il futuro. Basterebbe guardare i fiori del campo di evangelica memoria o, per gli agnostici, gli abiti del gentil sesso che ogni giorno c’illumina sul valore della qualità e della bellezza e quanto meriterebbe cucirlo tra le pagine di un libro. Ai cinque sensi dei nostri organi aggiungerei l’equilibrio, oggi alquanto trascurato dagli editori che, pur di vendere i personaggi dello ‘scherno’, scusate il refuso, dello ‘schermo’, pubblicano opere nelle quali prevale il disaccordo tra i cinque sensi, quando invece tutti dovrebbero esprimere un alto livello o non essere. Come lettori, dobbiamo confessarlo, certe nostre scelte sono dovute a follia, curiosità, a un momento di debolezza, alla mancanza di un 2. Craxare: il fungere sia da miniatore sia da scrivano.

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consiglio o di equilibrio, a un incauto acquisto. Merita allora risfogliare questo e quel libro di ieri per ritrovare la pagina su cui riflettere, la frase che avremmo voluto usare in una nostra relazione, il passo da meditare e, forse, scalare. E c’è, infine, il senso della cenestèsi, la capacità del cervello di riconoscere la posizione del nostro corpo in base allo stato di contrazione dei nostri muscoli, anche senza l’aiuto della vista. Riferito alla lettura è provare un sentimento di generale benessere o malessere, di stanchezza o di energia nella mente oltre che nelle membra. Un senso che può abbracciare la biblioteca tutta, la collocazione delle opere, la loro pace, quell’armonia che ci conforta e ci appaga, ci fa entrare tra i libri con tutti i nostri sensi. In futuro, per offrire al libro tutto ciò che merita, non sarà il caso di restituirgli quella capacità, che gli è unica, di richiamare, avvincere ed appagare tutti i nostri sette sensi? Può un piccolo schermo, dove minuscoli grafemi s’inseguono ordinatamente per pagine e pagine su

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righe parallele, essere paragonato alle pagine di un libro con cui si statuisce un contatto fisico e spirituale, si percorre un sentiero, si entra nel paese delle meraviglie, in un giardino a maggio, in un prato falciato di fresco, in una antro buio, dove ci si può smarrire o cercare e trovare di tutto, anche le cose, gli esseri, i pensieri di altri mondi e altre dimensioni? Per comprendere un’opera, per donare alla nostra mente, alla nostra memoria, al nostro cuore il significato olistico o, se preferite, ermeneutico di quei fogli di carta nei quali la sua essenza s’immerge, devono concorrere tutti i nostri sensi, equilibrio e cenestèsi inclusi. Rinnoveremo così ciò che scrisse Leonardo per l’infanzia: L’inchiostro [fu] displezzato per la sua nerezza dalla bianchezza della carta, la quale da quello si vide imbrattare. Vedendosi la carta tutta macchiata dalla oscura negrezza dell’inchiostro, di quello si dole; el quale mostra a essa che per le parole, ch’esso sopra lei compone, essere cagione della conservazione di quella.


FOLIGNO, 11 SETTEMBRE 2021 SALA ROSSA, PALAZZO TRINCI

PRODUZIONE E DIFFUSIONE DEL LIBRO


ROBERTO SEGATORI Le 10n vite del libro Un libro è una cosa vivente dove il numero 10 sta ad indicare: 1) l’autore, 2) il traduttore, 3) l’editore, 4) il tecnico editor, 5) il tipografo, 6) il distributore, 7) il libraio, 8) il recensore, 9) il bibliotecario, 10) i lettori. L’apice n significa che i lettori possono essere pochi, molti o moltissimi.

La domanda è molto semplice: a chi appartiene un libro? O meglio: di chi è la vita (l’anima) di un libro? La stessa domanda può essere formulata per un quadro, una sonata, un film, un’opera di architettura. Per il libro, una prima risposta sta nell’apice n associato al numero 10. Ma che cosa significa quell’espressione? Per scoprirlo, basterà seguire insieme il viaggio di un libro come creatura vivente. L’avvio sta ovviamente nella testa, nel cuore, nella scrittura dell’autore. Ci sono autori che fin dall’inizio del lavoro (ovvero, prima ancora della fase diretta della scrittura) abbozzano i passaggi e l’organizzazione pressoché completa del testo; ce ne sono altri che invece procedono a partire da uno spunto iniziale e poi lasciano che la storia si sviluppi da sola per associazioni successive. In ogni caso è innegabile che l’autore sia il padre, anzi la madre (perché lo partorisce), del libro. Nel caso che l’opera di un autore voglia essere diffusa in un altro Paese, ovvero che debba essere resa nella lingua ospitante, un ruolo decisivo è ricoperto dal traduttore. Tale figura tende ad essere sottovalutata, anche se non dai veri bibliofili. La sottovalutazione è un errore perché, com’è noto, tradurre è (un po’) tradire. E il successo o l’insuccesso di un libro “straniero” è talvolta decretato dalla qualità della traduzione. In altri termini, il traduttore ridà 34

la vita al libro (maternità surrogata?) al di fuori dei confini del luogo in cui è nato linguisticamente1. Il terzo passaggio si ha quando il testo (un manoscritto, un dattiloscritto, un file) viene proposto a un editore, o, nei casi più fortunati, viene richiesto da un editore. Anche costui, a modo suo, si appropria del libro, lo fa suo, decide della vita del prodotto cartaceo. La differenza rispetto all’autore sta nel fatto che per l’editore (il publisher inglese) il libro è come una tessera di due mosaici. Il primo mosaico si chiama catalogo. Quanto più l’editore è serio e persegue un’organica politica culturale, tanto più il catalogo è fondamentale. E nel catalogo il libro diviene come una perla di una collana: può essere bello e importante da solo, ma può diventarlo ancora di più se è collocato in una collana che ne impreziosisce l’immagine e il valore. In questo senso un editore particolarmente accreditato è il primo autorevole critico che riconosce – accettando di pubblicare l’opera – il valore della stessa. Il secondo mosaico (ma vale anche per i best-selleristi) è il portafoglio. Pubblicare l’Eco de Il nome della Rosa o il Camilleri del Commissario Montalbano ha fatto la 1. Si veda, in proposito, il bel libro di Anna Aslanyan, I funamboli della parola. Le traduzioni che hanno cambiato la storia, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.


fortuna dei rispettivi editori. Per tutti questi motivi, anche l’editore ha ragione a considerare il libro come cosa sua. Se l’autore e l’editore possono essere ritenuti la madre e il padre di un libro, il tecnico editor può essere assimilato a un genitore putativo o piuttosto a una babysitter. Lasciando da parte la figura dell’agente letterario usata dagli scrittori professionisti, l’editor è il curatore editoriale e redazionale che si occupa del trasferimento del testo dall’originale alla copia finale. È colui che dà all’autore consigli e suggerisce modifiche e integrazioni. Se l’autore è alle prime armi, l’editor può chiedere il cambiamento di intere parti e spesso il taglio di pagine superflue: ma tutto ciò avviene nel doppio interesse dello scrittore e dell’editore. Tra i suoi compiti rientra in genere pure la negoziazione, se non la definizione, del titolo dell’opera. Come negare dunque che, come ogni babysitter che si rispetti, egli non consideri quella creatura come un po’ sua? Da autore di numerosi libri di sociologia, ho potuto apprezzare personalmente l’ottimo lavoro di editing svolto nei miei confronti dagli (più spesso dalle) editor di Laterza e di Donzelli. Di recente, per la pubblicazione di un mio testo con Gianluca Galli, editore della Morlacchi di Perugia, ho potuto contare sul prezioso lavoro redazionale della bravissima Jessica Cardaioli. Il publisher e l’editor passano poi il dattiloscritto (oggi il file) al tipografo per il confezionamento del prodotto cartaceo. Qui la storia da richiamare sarebbe troppo lunga anche per l’Umbria. Uno dei primi e più noti casi è la stampa dell’editio princeps della Divina Commedia realizzata a Foligno l’11 aprile 1472 (almeno un secolo e mezzo dopo la redazione del testo originale) dall’orafo, incisore e medaglista Emiliano degli Orfini e dal prototipografo Johan Numeister. Nei secoli successivi le tipografie regionali si sono moltiplicate. Poi alcune sono morte, altre sono rinate. Oggi, tra le altre realtà, Città di Castello ospita un vero e proprio distretto industriale del settore cartotecnico e poligrafico. Ma – per tornare al filo rosso dell’appartenenza materiale e simbolica del libro – anche il tipografo non può non considerare i libri come propri figli. I suoi strumenti

e la sua attività ruotano infatti tutti intorno a questa “genitorialità”: dai diversi tipi di caratteri (Old e New Roman, Gothic, Bodoni, Garamond, ecc.) alle incisioni e ai disegni; dalla stampa a caratteri mobili con matrici e torchi alla stampa in offset e a quella digitale; dalla grammatura alla opacità/lucidità della carta; dalla scelta del formato a quella del colore; dal tipo di copertina all’eventuale logo (raro del tipografo, quasi sempre dell’editore)2. Alla fine del suo lavoro un bravo tipografo non può che dire orgogliosamente “questo libro è mio”. Appena esce dalla tipografia, tramite l’editore, il volume è avviato al distributore. In passato i centri di distribuzione (grandi e piccoli) erano più numerosi di oggi e dotati di rappresentanti (es. Messaggerie) che proponevano libri e raccoglievano ordini. Oggi molti grandi editori procedono tramite proprie catene (Mondadori, Feltrinelli, Giunti, ecc.). Dal distributore il libro arriva nelle librerie (bookshops) o direttamente al lettore con consegne a domicilio. Il libraio storico (figura che tende progressivamente a scomparire per lasciare spazio a commessi veloci o a ordini on line) era il primo consulente dell’appassionato di lettura e, nei confronti del libro, un vero nonno buono. Sapeva riconoscere le propensioni dei propri clienti e consigliarli al meglio. Talvolta, addirittura, si faceva venire opere rare proprio per i clienti più affezionati. Se ne trova una bellissima testimonianza in Charing Cross Road, un film del 1987, in cui Anna Bancroft, amante di libri americana, e Anthony Hopkins, libraio inglese, intrattengono una corrispondenza ventennale (1949-1969) per la richiesta e l’invio di libri, rivelando forme di fedeltà e, grazie ai testi rintracciati e recapitati, di felicità assolute. Tra l’editore e il libraio, il libro può talvolta incontrare la figura del recensore (reviewer). 2. Un esempio illuminante del mestiere di tipografo è quello di Alberto Tallone (1898-1968), che operò a Parigi presso l’officina di Maurice Darantiere e ad Alpignano in Val di Susa. Oltre al carattere Tallone, creò il carattere Palladio, mentre i suoi eredi conservano la Phoenix V, il torchio di stampa sul quale è stata tirata la prima edizione dell’Ulysses di James Joyce (Cfr. Domenico Scarpa, Fare libri, il più bel mestiere, Domenica del Sole24Ore, n. 83, 25 marzo 2018, p. 21).

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Il quale può essere un “padrino di battesimo” buono o, all’opposto, un’infanticida. Il ruolo del recensore è spesso decisivo, perché nelle migliaia di titoli che escono ogni anno, egli ha il compito di semplificare la scelta dei lettori, riducendo la complessità dell’orientarsi nella stessa scelta e indirizzando all’acquisto. La cosa è così chiara alle case editrici che, grazie a dinamiche amicali e a pressioni ben esercitate, ultimamente i casi di infanticidio del libro si sono fatti sempre più rari. Si arriva quindi alla categoria dei proprietari (acquirenti, possessori) del libro, che si divide a sua volta in gestori delle case del libro e proprietari dei singoli esemplari. Il gestore di casa del libro (non solo organizzatore, ma anche affittacamere) è il bibliotecario, che, a somiglianza dell’editore, può seguire criteri di acquisizione generalisti o specialistici. Forse l’analogia che meglio inquadra il bibliotecario è quella col banchiere. Come un banchiere, infatti, egli è responsabile di un doppio movimento: da un lato, deve accrescere il patrimonio librario della biblioteca, con fondi e acquisti mirati (dalle cinquecentine ad opere di narrativa contemporanea, dalle enciclopedie ai testi di saggistica); dall’altro deve promuovere il prestito in modo che – come fa il banchiere con gli imprenditori a cui affida i soldi raccolti – la circolazione dei libri assicuri la crescita della ricchezza culturale del contesto. Alla fine della catena ci sono i singoli lettori, il cui numero dà ragione di quel 10 elevato all’ennesima potenza. Infatti, per ogni libro, i lettori possono essere pochissimi, mille, centomila o più. Ed è qui che avviene il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: l’eco che un testo suscita in ognuno di essi può essere molto diverso, per cui, al di là dell’intenzione dell’autore (che sarebbe ingenuo se pensasse che quel “figlio” è solo suo), quel libro (ma anche qual quadro, quella sonata, quel film, quell’opera architettonica) rinasce ogni volta nuovo per quante sono le sensibilità dei diversi lettori. Per dare un’idea della moltiplicazione delle rinascite, accenno a mero titolo d’esempio alla mia esperienza personale. Come ogni lettore di lungo corso ho attraversato stagioni che mi hanno segnato: in avvio la fortuna di avere

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trovato editori attenti alla mia ristretta scarsella di ragazzo (la BUR, gli Oscar Mondadori, addirittura i libri Millelire); poi la stratificazione delle letture giovanili di narrativa (a 16 anni i nord-americani Hemingway, Scott Fitzgerald, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck; a 17 i francesi; a 18 i russi con una folgorazione per Dostoevskij; a 19 i mitteleuropei con Mann e Musil); quindi, quando ormai bussava alla mia porta la saggistica per interesse non solo professionale (sociologia, filosofia, storia, psicologia – ma questa sarebbe un’altra lunghissima storia), le ripartenze con i sud-americani alla Màrquez, i nord-americani alla Philip Roth, gli ebrei erranti alla Isaac Singer e alla Chaim Potok, con una consuetudine di letture aggiornate che non si è mai interrotta. Due accenni ancora alle mie fisime. Gli italiani contemporanei? A parte i passaggi scolastici (che sono riusciti nell’ardua impresa di complicare il mio – e di altri giovani – apprezzamento di capolavori come I promessi sposi), non li ho mai ritenuti eccezionali, divertendomi al più a farne una specie di graduatoria regionale: al primo posto i siciliani, poi in ordine sparso toscani, piemontesi, campani, laziali, veneti e così via. Tutto ciò, ovviamente, secondo me. Quindi due blocchi. Nonostante le migliori intenzioni, non sono mai riuscito ad andare oltre la ventina di pagine dell’Ulisse di Joyce, né a terminare Alla ricerca del tempo perduto di Proust (anche se, in questo caso, solo per una questione di ritmo: i miei vettori mentali, le mie sinapsi, non reggono più il passo lento della carrozza a cavalli di Marcel). Ora che ho accumulato una notevole biblioteca di volumi di saggistica e di narrativa e, soprattutto, sono avanti con gli anni, sto maturando una consapevolezza che descriverei così: si passano i tre quarti della vita ad accumulare libri e l’ultimo quarto a disfarsene. Mi viene addirittura il sospetto – capovolgendo Fahrenheit 451 in un processo funzionale al bene e non censorio – che non avesse torto l’investigatore Pepe Carvalho, creato dalla fertile penna di Manuel Vásquez Montalbán, nel riscaldare le fredde serate d’inverno accendendo ogni volta il camino con un libro debitamente selezionato. In fondo, a pensarci bene, è sempre calore quello che ci restituisce un buon volume.


Per tornare infine alle questioni sopra trattate e alle tante riappropriazioni effettuate dai nove attori della filiera e dalle migliaia di destinatari/fruitori/lettori, è il caso di aggiungere alla domanda di partenza un altro interrogativo: oggi i libri sono ancora amati? Il linguista Raffaele De Simone ha scritto che la lettura di libri è soprattutto un’abitudine degli anziani, che su di essa sviluppano un’intelligenza sequenziale, consistente della pratica di leggere una-due pagine, fermarsi a meditare, andare

in profondità. Nei giovani, esposti a cellulari e tablet, prevarrebbe invece un’intelligenza simultanea, che permetterebbe loro di essere colpiti da molti più stimoli video-sonori nell’unità di tempo, ma lasciandoli a navigare in superficie senza gli approfondimenti resi difficili, se non impossibili, dai tempi e dai ritmi della loro fruizione. Mi pare evidente che l’unica cosa da augurarsi sia che ciascuna delle due generazioni provi ogni tanto – o magari sempre più spesso – a mettersi nei panni dell’altra.

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ARNALDO CECCATO Per il futuro del libro Quali caratteristiche etiche ed estetiche, care al nostro e non all’altrui gusto, rendono il libro più attraente e ricercato ai lettori italiani. Però, almeno lettori, devono esserlo.

Analizzando la storia, si può dedurre che libri e cultura sociale sono sempre cresciuti insieme segnando il cammino di una civiltà: i libri quali memoria secolare di eventi e di pensiero, sono sempre stati un punto di partenza, apripista della cultura, radici di un albero in crescita; libri come radici, foglie come esperienza di vita. Ma per svolgere appieno la sua funzione, il libro abbisogna in primo luogo di persone che amino leggere e che l’ambiente nel quale lo si presenta sia interessato ad accoglierlo. In secondo luogo il libro deve proporsi con un aspetto immediatamente seducente. In sostanza, ambiente, tema trattato, veste esteriore e stile linguistico, determinano il successo del libro e la sua efficacia culturale. Esaminiamo l’ambiente. Il primo ostacolo alla diffusione del libro, spesso insuperabile, è la mancanza di tempo disponibile da dedicare alla lettura, all’informazione, alla riflessione, a quel godimento estetico che le incombenze della vita contemporanea sembrano negarci. Chi può avere l’interesse e la disponibilità di tempo di sostare anche occasionalmente davanti alla vetrina di una libreria, per acquistare un libro? Chi può avere, la curiosità e il piacere della lettura? L’attuale produzione libraria soddisfa le aspettative della società moderna? Non c’è dubbio che l’interesse per i libri deve essere seminato nella scuola; la scuola deve 38

fare da vivaista, in tutti i campi della cultura; e deve anche esaltare la preminenza del libro sul telefonino. Il telefonino può dare nozioni in pillole, risposte immediate a brevi curiosità, spesso futili; ma non comporta lo sviluppo dell’intelligenza, non marca la memoria, non si presta a quella ginnastica intellettuale che dispone al ragionamento, a costruire una maturità autonoma da pregiudizi. Persino i milioni di foto che si scattano oggi, non hanno un futuro se non si materializzano in un album, cioè in un libro. Circa il tema trattato, lo scrittore deve porsi sempre il problema del destinatario del suo lavoro, sia esso di narrativa, saggio, poesia o proposta commerciale e a quel destinatario deve adeguare il suo discorso, nello stile come nel contenuto. Certo, le proposte editoriali andrebbero guidate, nella direzione e nei contenuti: compito che spetta all’editore come quello della veste editoriale, cioè della scelta del titolo, dei caratteri tipografici, dell’immagine di copertina: aspetti che sono di non trascurabile importanza per il successo del libro. (Maestro nell’autopromozione è stato Gabriele d’Annunzio che si è affidato ai più grandi pubblicitari dell’epoca). Il titolo deve suggerire in estrema sintesi il mondo del contenuto; il carattere tipografico del titolo deve essere adeguato al suo genere, drammatico, sentimentale,


romantico, storico, scientifico o frivolo. Alcuni editori credono di enfatizzare l’importanza dei loro libri gonfiandone smisuratamente il titolo e l’autore con caratteri cubitali, magari in rilievo. Niente di più cattivo gusto. Poi, caratteri e immagine di copertina devono combinarsi in modo coerente. L’immagine deve poter suggerire il mondo in cui si muovono personaggi ed eventi. In sostanza una copertina valida deve avere la sua forza di seduzione, come un piccolo manifesto pubblicitario, che se non lo si interpreta in meno di tre secondi, fallisce la sua funzione. Sono molti gli editori attenti a questo aspetto ma molti si affidano, oltre che a traduttori un po’ approssimativi, ad agenzie o studi pubblicitari che non cercano prima di capire il testo, non si ispirano al suo contenuto, non hanno il senso della coerenza e fanno come certi scenografi di teatro che nascondono la loro ignoranza dietro le dichiarazioni di rinnovamento, di avanguardia, di sperimentale e sono capaci di distruggere un’opera musicale gettandola volgarmente fuori dal suo tempo. È ancora sorprendente e deludente tuttavia che persone stimate di alto rango si scoprano indifferenti alle migliori offerte editoriali1. Se le persone che contano per il loro ruolo nella

società contemporanea non hanno scienza e coscienza dei valori del libro, se le scuole non riescono a stimolare nei giovani il piacere di possedere dei libri, se le case editrici continueranno a sopravvivere sulle ambizioni di scrittori e traduttori che poco hanno da offrire alla cultura (ma che si pagano le spese), se non si scoprono e non si incoraggiano nuovi talenti, quale potrà essere il futuro del libro? Non lo so.

1. Farò un paio di esempi. Nel 2010, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ho cercato di offrire ad autorità diverse di Foligno, un mio saggio storico sulla figura del generale pontificio La Moricière, e sui retroscena della conquista piemontese delle Marche e dell’Umbria nel settembre 1860. Mi era sembrato interessante per la storia locale e per la diffusione nelle scuole sia perché il quartier generale del La Moricière era di stanza proprio a Foligno e sia perché il saggio inseriva l’evento storico in una indagine più ampia sul progredire dello stato sociale, politico ed economico del resto d’Europa. Nonostante le presentazioni personali per ottenere una sponsorizzazione e l’utile diffusione nelle scuole, il testo non ha riscosso alcun interesse ed è stato rifiutato con le scuse più banali (l’autore non è residente a Foligno). Presso il Comune di residenza invece, l’accoglienza è stata ancor più deludente. Il sindaco, incontrato per caso all’uscita del suo ufficio, di fronte all’estemporaneo omaggio che gli offrivo, non immaginando che ne fossi l’autore, così ha esclamato con arrogante sufficienza: “Ma questo chi è, che vòle, ha perso… e non je basta?” e trattenne il libro con palese sine cura. Lo stesso libro poi ha ottenuto il premio speciale della giuria (nella sezione saggistica) al premio letterario nazionale Franz Kafka, ad Udine; e ancora al premio letterario Carlo d’Asburgo, a Feltre.

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ALESSANDRA PELIZZARO La traduzione luogo di incontro verso l’altro L’atto di tradurre si fa carico di dare voce alle tracce ancestrali e perdute dai tempi di Babele e ci pone di fronte all’esigenza della traduzione come sopravvivenza. La traduzione si manifesta quindi come un incontro, una relazione che sorge dalla stessa tensione che anima ogni forma di scrittura. Da sempre l’essere umano si è messo in ascolto per comprendere linguaggi diversi con l’esigenza di superare il limite e il mistero delle parole per entrare in contatto con l’altro. In futuro la tecnologia potrà sostituire anche questa attività umana? Lo scenario immaginabile ci pone di fronte all’evidenza di una tecnologia di supporto alla traduzione ma mantenendo imprescindibile l’umanità interpretativa ad opera del traduttore per non tradire il testo e per farsi voce tra i popoli.

Tutti sappiamo quanto la traduzione sia una prerogativa imprescindibile del libro in sé. L’esigenza di tradurre nasce infatti dal desiderio di superare il confine delle parole, un limite da oltrepassare per divenire incontro. Dai tempi della Genesi l’uomo si è sempre messo alla ricerca di comprendere il linguaggio altrui. Tradurre è un desiderio totale di possedere le parole e le sensazioni vitali che emergono dall’opera. È una lotta che unisce il lettore all’autore, facendoli compagni che cercano il volto di quell’immagine originale che trapela tra le righe: la presa di coscienza non è sufficiente, viviamo in uno stato di mancanza ed esilio dai tempi di Babele1 dove il nostro limite, sempre attuale, è rappresentato dalle parole e questo limite esige e ci impone la traduzione: “Dall’origine dell’originale che verrà tradotto, c’è caduta ed esilio. Il traduttore deve salvare, assolvere, risolvere, cercando di assolvere sé stesso dal proprio debito” (Derrida, 1985, p. 17). Il traduttore diventa intermediario tra le parole e conduce il lettore verso ciò che era perduto nella confusione creata da Babele dando voce all’incomprensibile. Svelare le parole significa 1. “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro […] Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Bibbia, Genesi, 11, 8-9).

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mettersi in ascolto; togliere il velo al mistero del linguaggio presuppone entrare in relazione e tendere la mano verso l’altro per farsi dono in virtù della parola senza dimenticare la grazia attraverso la quale questo è possibile. La traduzione appare come una condizione eterna in cui viviamo sottomessi, in perenne tensione per superare l’isolamento da e tra le parole. Tradurre diventa allora un bisogno di recuperare qualcosa di perduto e questo bisogno è, secondo Ricoeur (2001a, p. 18), anche un desiderio irrefrenabile di tradurre che va oltre l’obbligo e l’utilità perché ogni traduzione sarà sempre necessariamente possibile in virtù della lingua originale perduta. Così la traduzione va più in là della mera fedeltà linguistica in cui il poeta interviene in una riscrittura intima e personale del testo. Negli ultimi trent’anni la tecnologia è approdata anche in questo campo arrivando a produrre software capaci di comprendere i linguaggi con l’obiettivo di velocizzare la traduzione di testi e certamente è venuta in aiuto al lavoro del traduttore ma non si può certo affermare che la comprensione delle strutture grammaticali, sintattiche e semantiche di una lingua possa essere un’azione da affidare ad un computer. Basti pensare alla comprensione di frasi fatte, doppi sensi, metafore e altre figure retoriche o anche solo il linguaggio colloquiale che caratterizzano ogni


lingua. Non basta certamente l’equivalenza del significato originale della parola visto che un testo poetico, letterario o anche solo una lettera possono produrre in chi legge anche un’emozione. La traduzione, quindi, si converte in un atto che implica non solo un processo linguistico ma un insieme di relazioni incatenate con la storia e con la sopravvivenza, in quanto si configura come un movimento in divenire con lo scopo di tornare ad appropriarsi del linguaggio puro del passato da cui procediamo e, per questo motivo, è già in noi. L’etimologia di traducĕre rileva il significato di “trasportare, trasferire, portare oltre”, andare più lontano per arrivare a ciò che Benjamin (1971, p. 135) chiama “lingua pura”, quella traccia che può emergere nella traduzione dando voce all’invisibile. Se quindi tradurre è passare oltre, l’interpretazione testuale acquisisce valore come testo nuovo, in simbiosi con l’originale ma con il contributo proprio del traduttore acquistando una vita rinnovata, ricreandola in perpetuo movimento. Di conseguenza l’originale e la traduzione acquisiscono una entità propria e autonoma e nella loro sopravvivenza, come tutte le cose che vivono, si trasformano. Riscoprire l’unicità attraverso la traduzione per dar

voce, rivelare e svelare la storia segnalando le possibilità di ogni lingua e le affinità di ogni parola. Così il lavoro del traduttore, secondo Benjamin, è trasmettere la voce dell’originale che non sarà mai immobile ma sempre in quel movimento che gli permette di recuperare la sua peculiarità primigenia. Il desiderio di tradurre si converte in un rischio, un’avventura per restituire questo movimento primordiale che si agita in cerca della parola in qualsiasi inimmaginabile futuro tecnologico. La sopravvivenza diventa un concetto fondamentale che permea ogni momento del nostro essere vivente, innato nella nostra natura umana, che riguarda non solo la storia e la memoria personale, ma anche quel limite rappresentato dalle parole che ci impediscono di cogliere la promessa. Questa è la legge primordiale che rende necessaria la traduzione per superare quel limite concreto che ci impedisce di avvicinarci all’altro in tutto il suo essere e in primis attraverso il linguaggio. Così nel futuro la tecnologia sarà di supporto forse per ridurre i tempi ma rimane imprescindibile la revisione, l’interpretazione e l’adattamento ad opera del traduttore per non tradire il testo e per farsi voce tra i popoli.

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JANINA HAUSER-JAKUBOWICZ Per il futuro del libro: appunti Correva l’anno 1987: mentre a Torino l’editore Guido Accornero lancia l’idea di un Salone del Libro, a Stoccolma il premio Nobel Josif Brodskij attribuisce al libro il ruolo simile a quello dell’invenzione della ruota e pochi mesi dopo, a Torino, lo stesso poeta inaugura il primo Salone Internazionale del Libro. Due idee a confronto che si incontrano per fruttare avvenire.

È una coincidenza interessante: Stoccolma, 1987 – uno dei maggiori poeti russi del XX secolo, Josif Aleksandrovič Brodskij, viene insignito del Premio Nobel per la letteratura. Torino 1987: dall’alleanza tra un commercialista laureato in economia, Guido Accornero, e un libraio, Angelo Pezzana, nasce l’idea di un Salone del Libro. Così Guido Accornero in un’intervista: […] se riuscivo a realizzare il Salone del Libro, mi sarei regalato un sogno. Non fu facile. Mi dicevano: sei pazzo, ci rimetterai un sacco di soldi. Mondadori e Rizzoli erano in crisi. Non fu facile trovare interlocutori. […] l’avvocato Agnelli prima mi chiese: Ma Accornero, perché i libri? E poi: Ma sì, facciamo anche i libri.

Così Brodskij a Stoccolma, con passione: Nella storia della nostra specie, nella storia di Homo sapiens, il libro è lo sviluppo antropologico, simile in sostanza all’invenzione della ruota. Essendo emerso per darci un’idea non tanto delle nostre origini quanto di ciò che il sapiens è capace, un libro costituisce un mezzo di trasporto attraverso lo spazio dell’esperienza, alla velocità necessaria per sfogliare una pagina […] Dal momento che non ci sono leggi che ci proteggono da noi stessi, nessun codice penale è in grado di impedire un vero crimine contro la letteratura; anche se siamo in grado di condannare la sop-

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pressione materiale della letteratura […] il rogo dei libri – siamo impotenti quando si tratta della peggiore delle violazioni: quella di non leggere i libri. Per questo reato, una persona paga con la sua vita; se l’autore del reato è una nazione, essa paga con la sua storia1.

Passa un anno: nel Teatro Reggio di Torino il 18 maggio 1988 Josif Brodskij pronuncia un discorso di esordio in occasione dell’apertura di una gigantesca libreria, Salone Internazionale del Libro: […] In generale, l’infinità è un aspetto abbastanza tangibile del mestiere editoriale, non fosse altro perché estende l’esistenza di un autore defunto oltre i limiti da lui stesso immaginati, o fornisce all’autore vivente un futuro che tutti noi preferiamo considerare infinito. Tutto considerato, i libri sono in effetti meno limitati delle persone. Anche i peggiori sopravvivono ai loro autori – principalmente perché occupano uno spazio fisico minore di coloro che li hanno scritti. Nella maggior parte dei casi stanno sugli scaffali ad assorbire polvere molto tempo dopo che lo scrittore stesso si è ridotto a una manciata di polvere. Eppure, persino questa forma di vita futura è migliore della memoria di pochi parenti superstiti o di amici sui quali non si può far conto, e spesso è precisamente la vo1. Dalla Prolusione al Nobel di Josif Brodskij, dicembre, 1987.


glia di questa dimensione postuma a mettere in moto la penna dello scrittore […]2.

Mentre a Torino il poeta pronunciava quelle parole, il Muro di Berlino era ancora in piedi – anche se lo sarebbe stato solo per poco – e il mondo dell’editoria cambiava portandosi via le nostre certezze: “Negli ultimi decenni del Novecento si è assistito alla progressiva perdita di funzione e quindi alla scomparsa di quella che possiamo definire la cortina di carta”, così il paleografo Armando Petrucci in Scrivere lettere3. La caduta della muro di Berlino, la caduta della cortina di ferro, la caduta della cortina di carta. Sono passati trentatré anni ed eccoci ormai con due piedi nel futuro di quegli anni dell’esordio del Salone del Libro, che questa volta porta il titolo che attrae la nostra attenzione: Se non provano i libri a immaginare il futuro, chi può farlo? Senza libri niente futuro…

2. Dall’intervento pronunciato all’inaugurazione del primo Salone del Libro di Torino “Come leggere un libro”, nel maggio del 1988. 3. Edizione Laterza 2008.

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MARCELLO CINGOLANI Pbv: il futuro dei libri e la vendita propositiva Dalla distribuzione alla vendita propositiva e come salvare il libro dagli artigli (o mandibole) delle multinazionali.

Il libro è un prodotto che ha le stesse caratteristiche generali degli altri prodotti messi in commercio con, ovviamente, alcuni elementi peculiari. L’obiettivo principale di chi vende libri è quello di produrre un oggetto che sarà poi acquistato da colui che ci vedrà uno strumento per soddisfare una propria esigenza, non necessariamente quella della lettura. Nella mia esperienza di venditore di libri, devo ammettere che la prima esigenza a cui tengono gli acquirenti di libri è quella di confermare a se stessi e a volte anche agli altri l’immagine che hanno della propria personalità, anche solamente per distinguersi, ad esempio, dai propri colleghi di lavoro. I motivi che spingono all’acquisto di un libro non sono semplici da individuare e, soprattutto, sono spesso inimmaginabili e imprevedibili nel momento della loro progettazione. Nonostante tutti i sondaggi di mercato che si possono fare prima della stampa e nonostante la memoria/esperienza dei libri stampati in passato, sapremo soltanto dopo l’immissione nel mercato se ogni oggetto editoriale, il libro, abbia avuto o meno un successo di vendite. A volte i potenziali lettori acquistano il libro semplicemente perché contagiati dall’entusiasmo e dalla passione di chi li vende. 44

La vendita dei libri è un laboratorio in continua trasformazione ed è più facile vendere i libri in posti dove gli avventori non penserebbero mai di trovarli, come ferramenta, bar o altro; anche perché i titoli presenti avranno una maggiore visibilità e l’acquirente avrà una minore possibilità di scelta. A questo punto della narrazione il titolo Pbv di queste poche righe merita una spiegazione. Questa sigla è legata a una storia accaduta circa mezzo secolo fa e si riferisce a una trattativa sindacale tra i rappresentanti degli editori e quelli degli agenti di commercio. Dovendo gli editori prendere del tempo per accordarsi tra di loro sul da farsi, chiesero ai rappresentanti degli agenti di commercio una relazione sulle tecniche e le varie fasi della trattativa di vendita (attenzione, esposizione, resistenza dell’acquirente, superamento delle resistenze e chiusura della trattativa, assistenza post vendita), sul percorso migliore da seguire (modello margherita o a spirale?), e su altre questioni tecniche. I rappresentanti degli agenti stettero al gioco e prepararono una dettagliata relazione che venne apprezzata dagli editori. Ma uno di questi, curioso, chiese il significato di una sigla, Pbv, che era stata messa vicino ai vari titoli dei capitoli. La risposta fu: la relazione ripropone varie teorie conosciute sulle tecniche


di vendita, ma nessuna di esse si sofferma su quella principale: prendi la borsa e vai. I grandi gruppi editoriali, seguendo l’istinto darwiniano della ricerca della sicurezza, puntano a raggiungerla con la massima espansione e controllo di tutto il mercato, gestendo tutta la filiera: dalla produzione alla distribuzione e alla vendita nei vari canali (librerie fisiche e online), anche dei libri non venduti nei canali normali (gli errori nelle tirature) e ora persino il libro desiderato a chi inconsapevolmente sa di non potere fare a meno di possederlo. Ciò grazie ai famosi algoritmi che lavorano i dati raccolti su tutti noi. Chi non ha un milioncino di euro da investire ma ha la passione per il libro, la disponibilità/capacità di modificare il proprio comportamento (aggiustare il processo di individuazione per citare una categoria junghiana) e la giusta determinazione, potrà, anche in questa fase storica del capitalismo, trovare il modo per fare della vendita dei libri un’occasione di indipendenza economica. È sufficiente capovolgere il rapporto tra il libro e il mercato. Il punto di partenza deve essere il singolo libro, con le sue caratteristiche peculiari. Bisogna prenderlo in mano e leggerlo, anche solamente da un punto di vista commerciale, per individuarne le potenziali chiavi di vendita. Partire dal libro e provare a rispondere alla domanda chi può essere interessato ad acquistarlo, cercare di individuare le possibili motivazioni, che possono essere legate o non a quella della lettura. Non inserire i nuovi libri in canali di vendita già preesistenti e collaudati e aspettare quello che succederà. Individuare, per ogni singolo libro, nuove modalità e luoghi di vendita. Soprattutto è fondamentale il momento della verifica e dei successivi aggiustamenti nelle offerte. Per concludere, se un titolo rimane invenduto negli scaffali o negli scatoloni, la causa non è nel libro, ma di chi non è riuscito a trovare i potenziali acquirenti. Bisogna passare dalla vendita distributiva a quella propositiva. In quest’ottica vengono a perdere di consistenza/peso tutte le nuove tec-

nologie, internet, i social, lo sfruttamento dei dati personali, ecc. E lo stesso vale per le tecniche di vendita, più o meno aggiornate e confacenti al presente. Il pbv comporta la perseveranza nel raggiungere l’obiettivo che Felix Dahn (18341912) considerava il più difficile nella vita del libro: «Scrivere un libro è facile: occorrono soltanto una penna, l’inchiostro e la carta la quale con pazienza subisce qualunque sopruso. Stampare libri: è già più difficile perché spesso il genio si esprime con illeggibile calligrafia. Leggere libri è ancora più difficile a causa della minaccia del sonno. Ma vendere un libro è il compito più arduo al quale un essere umano possa dedicarsi».

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ENRICO SCIAMANNA Basta con i libri? La neofobia relativa alla comunicazione ha riguardato, via via, il treno, la bicicletta, la tv. Gli anziani non hanno alternative nella loro storia, ma i nativi digitali hanno un rapporto diverso con scrittura e lettura. Se qualche resistenza potrà essere opposta per il testo scritto, per quanto riguarda le immagini non ci sarà competizione. Spero di far capire che l’amore per i libri, per la sensualità che sprigionano, potrebbe non essere sufficiente per arginare la marea del digitale. Forse lo è per noi. Ma non siamo il futuro.

Cercherò di articolare nel migliore dei modi il mio pensiero a malincuore controcorrente. Anche se non è messa in discussione l’importanza della lettura, bensì del supporto. Ricordando che a proposito di libri e di scrittura, da Platone in poi, le vicende sono sempre state controverse e che le novità tecnologiche hanno avuto delle resistenze nel passato: il papiro, la pergamena, la carta, il “libro” contro il volumen, per poi affermarsi. Con il dovuto rispetto per Johan Gutenberg von Mainz e l’ammirazione per gli Orfini e Numeister che molti meriti hanno proprio qui, non va scordato che la neofobia riguardo alla comunicazione è stato un dato perenne nella storia dell’uomo, almeno quella più recente: i pericoli si sono intravisti nella bicicletta, nel treno, ovviamente nella tv, infine, per ora, nel web, quindi nella digitalizzazione dei testi. Gli anziani non hanno alternative nella loro storia, ma i nativi digitali hanno un rapporto diverso con scrittura e lettura. Se qualche resistenza potrà essere opposta per il testo scritto – alcuni ritengono che la stampa sia più durevole della digitalizzazione*1 – per quanto riguarda le immagini non 1. Alcuni sostengono che Il five dimensional data storage potrebbe essere il supporto di memoria risolutivo, quello appena messo a punto nei laboratori dell’università di Southampton, ma si diceva così anche dei floppy e oggi sappiamo che fine hanno fatto. I dischi

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ci sarà competizione: il libro verrà confinato nel ruolo di feticcio. Siamo nell’età delle immagini, ancor più, forse di quanto l’occidente lo è stato nel ’600, quando all’immagine veniva affidata la testimonianza della certezza del paradiso e la salvezza dell’anima. Nessuno pensa di intagliare utilmente le pietre con le lettere dell’alfabeto o simili, né incidere la cera o modellare l’argilla per raccontare storie. Spero di far capire che l’amore per i libri, per la sensualità che sprigionano, potrebbe non essere sufficiente per arginare la marea del digitale. Forse lo è per noi. Ma non siamo il futuro. Il regalo in danaro per il compleanno di mia nipote è stato speso in e-book, anche perché (ma non solo) non può entrare in contatto con la carta.

in vetro di quarzo in fase di perfezionamento definitivo nell’istituto del Regno Unito, il magazzino pentadimensionale dei dati promette di avere una durata ben maggiore: circa 13,8 miliardi di anni, più o meno l’età dell’universo, in un materiale capace di resistere all’erosione e a temperature di 190 gradi e possono essere letti in cinque modi diversi. Prevedranno anche situazioni estreme di altro tipo.


GIUSEPPE BEARZI Sarebbe il caso di capirsi Si sta perdendo il senso vero del libro: da soggetto è diventato oggetto e da lettore si sta trasformando in consumatore.

Il libro è soggetto unico e, se non plagiato, irripetibile dal momento in cui lo si concepisce, organizza, scrive, corregge, rifinisce, confronta, lo si presenta a quell’editore che lo accetta. Lo è da quando lo si accompagna alla pubblicazione al momento in cui è sullo scaffale di una libreria o appare sulle piattaforme di Amazon, ebay, Feltrinelli, IBS, Mondadoristore, Newton Compton, Unilibro e compagnia cantante; da quando lo si presenta e si soffre per le critiche che riceve. E dacché lo si segue passo dopo passo nella sua vita, oggi sempre più breve, fino alla sua agonia, fino a quando ingiallisce, si sfascia e scompare, prima dalla vista e poi dalla memoria. Oggi qualcosa è cambiato. Chi acquista non vuole più libri “soggetti”, ossia autonomi e indipendenti, opere di fantasia o di narrazione di una determinata realtà: vuole “oggetti”, come la cocacola e il crispy mcwrap nella fragrante tortilla, oggetti composti di tot ingredienti – aggettivi, personaggi, descrizioni, alternanza tra testo e dialoghi, centottanta o duecentoquaranta pagine… – e un preciso procedimento per impastarli – ambientazioni, rincorsa di eventi, filosofie, riflessioni, messaggi anticonformistici, amori lesbici, consigli pratici, considerazioni estetiche, avventure e disavventure, lacrime e sangue –, che non corregge ma presenta e segue nella loro durata sempre più breve.

Attenzione, però, perché da un malo intendimento possono nascere crisi anche gravi: l’adagio «non è il lettore che deve conquistare il libro, è il libro che deve conquistare il lettore», per esempio, sarebbe logico e corretto, se avesse un’anima e non un conto corrente. È accaduto per le catene di libri su Angelica, Piero Fenoglio, Sophie Kinsella, Robert Langdon, Montalbano, Harry Potter, Sandokan o Sherlock Holmes; oppure per le saghe di Andrzej Sapkowski e di John Ronald Reuel Tolkien, che mi ricordano i Massimo Boldi, le Luciana Littizzetto e gli Alvaro Vitali cinematografici del nostro cinema. Con il proprio ascendente un editore potrebbe imporre (e talora lo fa) un libro che venda, piaccia, diverta, interessi; potrebbe riproporlo per mesi come opera di livello, dichiarandolo superiore a quelli di Anna Achmatova, Boccaccio, Bruno, Vittoria Colonna, Dante, Darwin, Erodoto, Eschilo, Flaiano, Foscolo, Gončarov, Lucrezio, Morselli, Alice Munro, Omero, Pirandello, Shakespeare, Wisława Szymborska, Virginia Woolf… E, come confermano certi quarti di copertina, talvolta lo fa. Non lo vorremmo, anche se alcune opere di quelle catene le compriamo. Solo che letti due tre capitoli e capito il gioco, le lasciamo. Eppure, da lettori consumati quali siamo, dovremmo essere capaci di scegliere, di estrarre dalla 47


libreria dei diamanti: perché allora, e spesso, ci limitiamo a cogliere sassi? Eppure i libri, scelti dopo averne letto alcune pagine, riescono a conquistarci più di tante spinte, solleciti o grida, mentre con quelli imposti, la lettura s’insabbia, l’interesse s’invola, la voglia di leggere cessa. Cessa specie quando il libro non è un “soggetto”, provvisto di corpo e di spirito più o meno cosmico, di essenza talvolta divina talaltra umana, di capacità esperienze e conoscenze ricercatamente creative o ricreative. Cessa perché è un “oggetto”, plasmato con l’argilla richiesta dal mercato, dalla politica, dalla finanza; perché è un oggetto poco interessato alla grammatica, alla sintassi, al nuovo o alla scoperta, alla qualità o alla bellezza; perché è un bene più o meno raffinato di consumo che ha un unico scopo: quello di essere venduto. O svenduto. Non è sufficiente che il lettore s’immerga nella lettura: è il libro che deve penetrare nel lettore, rompere il carapace della sua diffidenza, farlo uscire dalla palude della sua pochezza, aprire la porta della sua mente e del suo cuore. È il testo a farlo, non la copertina o il commento critico del NYT, la posizione in vetrina, la pubblicità in tivù o del mezzano che lo ha suggerito, corretto o corrotto egli sia. Sono i pregi del libro, non l’invito sul carro diretto al paese dei balocchi, alle chiacchiere dei persuasori occulti più che colti, all’offerta speciale, alle ruffiane o ai paraninfi. Sono le parole, i concetti, le idee, gli insegnamenti, lo stile, il sapere, i ragionamenti, il linguaggio, le favole, le storie, le voci, i pensieri, i messaggi, le aperture, le chiavi, le ispirazioni, le licenze, le arie, le note, le formule, le speranze, la forma, le mete, le spiegazioni, le tesi, le eccellenze, la logica, la luce, gli echi, le memorie, le proposte, le vanità. È l’armonia della sua bellezza. La crisi del libro non va imputata ai lettori, bensì a chi scarica nelle librerie – sugli scaffali o impilati sui tavoli – le opere che oggi vediamo. Non va imputata nemmeno agli autori, anche se talvolta sono presenti solo sulla copertina, insieme al titolo. Vi appaiono, perché la notorietà agevola quando (addirittura e sempre più spesso) non determina le vendite.

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Per questo le case editrici o i gruppi editoriali preferiscono pubblicare personaggi della tivù, della mafia, del calcio e degli stupri: la scelta è curata da decisori più o meno occulti che, dopo un’attenta analisi delle domande più o meno lecite del mercato e sentiti gli sciamani della comunicazione, decidono di pubblicare l’oggetto di questo o quella mitomane. I lettori solitamente non sono interpellati e, uno dopo l’altro, quatti quatti se ne vanno. Non è il lettore che deve conquistare il libro, è il libro che deve riconquistare il lettore, ma se il “libro” non c’è, non può esserci nemmeno il lettore. Come sa chi ha frequentato le scuole elementari, è “soggetto” quella cosa o quella persona che è o fa qualcosa, mentre oggetto è quella persona o quella cosa cui è destinata. Oggi, non solo il libro ma anche il lettore è diventato oggetto: ha perfino la sua brava etichetta, quella di “consumatore”. E il futuro? Sarà dei libri che non sono oggetti, dei lettori che non sono consumatori: solo se i libri saranno scritti per i lettori, questi torneranno.


GIUSEPPE MOSCATI Congetture e auspicii di un correttore di bozze Quanti libri non sono mai nati? E come potrà nascere o non nascere un libro domani? Non sono pochi gli elementi che concorrono a deciderlo, non ultimo il “complesso del redattore”

«I libri sono esseri autosufficienti, non richiedono di avere nulla accanto a sé – o al massimo una tazza di tè o di caffè».

(Roberto Calasso)1

1. Come sta il libro e come potrebbe stare?1 Sarebbe piuttosto sciocco non tenere in primo piano dinanzi a noi, parlando del libro e del suo futuro, quella che è la situazione attuale, ovvero il presente della vita del libro: un presente pesantemente influenzato dagli effetti della pandemia e in generale degli esiti critici dell’emergenza sanitaria mondiale. Il nostro compito, tuttavia, in quanto “amici del libro” credo sia anche e soprattutto quello di rivolgere le nostre energie, con umiltà intellettuale, a un onesto lavoro di proiezione. La domanda più pressante, allora, non può che essere quella relativa alla ‘salvezza’ del libro: se il passato è pieno di libri mai nati – perché rimossi o bruciati sul nascere, perché destinati a non trovare le giuste risorse per nascere, perché incapaci di emergere in un fitto bosco editoriale che prevede canali preferenziali di accesso alla luce –, il futuro prevede l’esistenza del libro? Da anni si presenta ciclicamente qualcuno ad agitare, davanti ai nostri nasi e alle nostre bocche aperte, lo spauracchio del libro digitale, dell’ebook et similia; e ogni volta scopriamo poi, con un sempre più lungo sospiro di sollievo, che il libro ce la fa, rinasce, riemerge 1. R. Calasso, Come organizzare una biblioteca, Adelphi, Milano 2020, p. 125.

appunto. Perché qui parliamo del libro vero, non delle sue pallide copie (mille volte meglio l’audiolibro, a mio parere, che non a caso è tutta un’altra cosa). Con tutto il virus Covid-19 in circolazione, il mercato librario ha dato segnali discretamente significativi: il fatturato del settore “Varia”, in cui rientrano narrativa e saggistica, ha riportato un quasi-sorprendente +2,4% e, a detta di Giovanni Solimine (docente di Biblioteconomia e presidente del Premio Strega), che pure invita alla prudenza, ciò è merito in parte dei lettori – magari costretti a trascorrere più ore in casa – e in parte della “capacità di reagire dei librai”, specie degli indipendenti2. Sempre al fine di un incoraggiamento a tentare la scalata di quella notevole montagna rappresentata dalla domanda cruciale sul futuro (e dunque la salvezza) del libro, ci tengo poi a sottolineare come a godere di buona salute siano in particolare la saggistica e l’editoria culturale. Rispondendo a un’intervista di Mario Baudino, l’editore Giuseppe Laterza ha affermato che secondo lui «il libro si è rivelato un forte antidoto a quella vera e propria malattia che viene definita come un disturbo dell’attenzio2. Cfr. M. Baudino, Libri, anatomia di un miracolo. Passato il peggio, i nuovi orizzonti, la Stampa 3 febbraio 2020, p. 24.

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ne, indotta non solo dalla pandemia»3. Inoltre i dati più importanti, in tal senso, riguardano i ragazzi tra i 18 e i 35 anni che, se prendono il web come fonte privilegiata di informazione, preferiscono però rivolgersi al libro per il momento sacro della ‘lettura’. 2. Tra redattore e lettore A questo punto va fatto un passo indietro, visto che mi si ripresenta sempre un tema-ossessione, che provo a definire “complesso del redattore”. Per redattore intendo qui, in senso lato, quella figura professionale che rappresenta coloro che sono chiamati a leggere un testo-aspirante-libro ai fini o di una sua valutazione o di una correzione delle bozze o ancora di una sua manipolazione – diciamo così – editoriale, dando al testo quello che il Premio Pulitzer Jhumpa Lahiri ha chiamato Il vestito dei libri4. Nel leggere quel testo che aspira a farsi libro, il redattore vive di fatto un complesso, che sintetizzando brutalmente possiamo anche riassumere in una domanda: chi sono io per giudicare questo manoscritto, questo dattiloscritto, insomma questo testo che ci viene sottoposto nella speranza di poterlo trasformare in un libro? Ecco, siamo dunque al nodo dell’assunzione di responsabilità, quel terreno nel quale hanno da muoversi competenze e consapevolezze, razionalità e spirito di geometria, ma anche – come in ogni atto e attività umani – una sana dose di buon senso. Quel che rappresenta la sfida più ardua per il redattore, mi pare, è costituito dal dover mettere tra parentesi l’eventuale conoscenza personale dell’autore, l’eventuale esperienza pregressa di lettura di altri testi (o libri) di quello stesso autore e così anche l’eventuale idiosincrasia per un qualche tema/corda toc3. G. Laterza, «L’exploit dell’editoria di qualità non durerà per sempre, ma in parte sì». Intervista a cura di M. Baudino, ibidem. 4. Cfr. J. Lahiri, Il vestito dei libri, Guanda, Parma 2017. L’autrice inglese di genitori bengalesi arriva a scrivere molto efficacemente che, se il processo dello scrivere è il sogno, la copertina rappresenta il risveglio.

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cato da quel testo. Il redattore, in questa chiave, è e non può che essere un bel tratto di ponte tra l’autore e il potenziale lettore: la bellezza del tratto è una bellezza qualitativa e insieme quantitativa poiché quel redattore può determinare l’accesso di quel testo-poi-libro al varco dell’altra parte del ponte. Ma in mezzo, ovvero tra il redattore e il potenziale lettore, cosa c’è? C’è una massa almeno in parte informe di elementi che tendono a mescolarsi tra loro, anche nella mente del redattore stesso: i colleghi di redazione, l’editore o il gruppo editoriale, il mercato, lo stato di salute dell’editoria, il momento economico ‘glocale’… 3. Umano, troppo umano Tornando al futuro del libro, provo a percorrere due piste. Intanto non manca chi, come lo storico del libro Robert Darnton (docente dell’Università di Princeton e direttore della Biblioteca di Harvard), è certo che Google non sconfiggerà Gutenberg e addirittura che il digitale sosterrà l’editoria tradizionale5. Ma non possiamo che concordare, poi, con quanto sostiene Roberto Calasso quando individua nel “mutamento radicale nel mondo dei libri” una sorta di “contraccolpo di un mutamento ben più vasto”6. Motivo per cui, se vogliamo veramente tentare di invertire la rotta rispetto a quella che proverei a chiamare l’“egemonia degli schermi” – o quantomeno tamponare l’emorragia di lettori (per rimanere in Italia, solo quattro persone su dieci leggono almeno un libro all’anno) – va riconquistato uno sguardo panoramico. Uno sguardo, vale a dire, che sia in grado di tenere insieme fenomeni vari e preoccupanti quali la crisi culturale e quella politico-economica, la pigrizia nel ricercare e nell’informarsi, il diffondersi di un evidente atomismo sociale, la difficoltà e la disabitudine a scrivere. 5. Cfr. R. Darnton, Il futuro del libro, Adelphi, Milano 2011. 6. Cfr. R. Calasso, Come organizzare una biblioteca, cit., p. 116, ma sono da tenere ben presenti più in generale le pp. 113-126.


Tra scrittori presi (= ridotti) a “produttori di contenuti” – scrittori che Calasso, senza mezzi termini, accusa di appagarsi di tale condizione – e quella “pandemia dell’autoritarismo” che soffoca il diritto-dovere di una cultura libertaria del libro di cui parla il Nobel per l’Economia (1998) Amartya Sen7, continuo a nutrire una speranza. Quella, cioè, che alla fine dei conti possa riemergere prepotentemente quel desiderio umano, troppo umano (pulsione) di un contatto fisico con il libro. Un contatto che non si dovrebbe avere disagio alcuno a definire erotico.

7. A. Sen, Libri e libertà. Un allenamento per la ragione contro la pandemia dell’autoritarismo, la Stampa 28 gennaio 2021. Il filosofo ed economista indiano prima ammette che la propria vita sarebbe stata infinitamente più povera se la forte passione che aveva da piccolo per la lettura e per la scrittura (leggere qualsiasi cosa, scrivere ogni pensiero) «fosse stata soppiantata da qualsivoglia altra attività, per quanto piacevole»; poi ricorda l’ironico pensiero di Coleridge per il quale «è possibile leggere Shakespeare anche “alla luce dei fulmini”, ma è meglio poterlo leggere sotto la luce normale”» (ibidem).

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ORVIETO, 18 SETTEMBRE 2021 SALA CITTASLOW, PALAZZO DEI SETTE

IL LIBRO TESTIMONE DELLA COMUNITÀ


PIER GIORGIO OLIVETI Dal libro alla città, dalla città al libro: alla ricerca delle qualità urbane Della serie, prima che anche le città vadano (definitivamente) in cloud, salviamo e innoviamo il libro tradizionale o digitale come “cart(in)a al tornasole” di una storia e di una comunità.

1. Ab origine Scrittura e città viaggiano assieme fin dalle origini. Come ci insegnano a partire dal IV millennio avanti Cristo le antiche civilizzazioni, Sumeri, Egizi e poi Cinesi e Valle dell’Indo, urbanizzazione e scrittura erano inscindibili, costitutive dell’idea stessa di città. Realtà fisica ed istituzionale hanno necessitato fin dagli albori di un testo scritto convenzionale, compreso e riconosciuto dal gruppo clanico polis-poietico. Le città sono per definizione solide, si fondano con l’aratro e si edificano di norma con la pietra, il legno o il mattone, cui oggi aggiungiamo cemento, vetro e acciaio; sono anche città ideali, progetti metaspaziali e metatemporali che si nutrono dell’immaginario umano e sciamanico fin dalle origini… Il libro fino a ieri, manoscritto o a stampa che fosse, rappresentava e informava l’essere città, era testimone della communitas, del territorio ad essa sotteso, delle sue istituzioni, dell’esercizio del potere, dei riti sociali e delle regole, del rapporto col mito e la religione. Oggi la digitalizzazione planetaria ci pone nuovi quesiti, sfide e altrettante opportunità. Parliamo qui di questo “eterno” scambio biunivoco tra la città e il testo: in forma di libro solido o di “ottetti binari” alias byte, il pensiero scritto porta sempre il suo contenuto oggettivo o soggettivo, 54

sentimentale o razionale, la “de-scrizione” di fatti cose uomini e donne, monumenti o paesaggi, leggi, prescrizioni, tecniche. Ovvio che il “racconto” sia per sua natura cangiante a seconda dello spirito dei tempi e delle diverse sensibilità culturali e personali degli autori. Ma nella storia alcuni punti fondamentali ritornano e si rinnovano: ad esempio nei testi letterari dei cosiddetti elogi cittadini, le laudes civitatum, i testi encomiastici medievali che descrivevano nascita gloria e fasti di una specifica città. Essi affondano la loro ragion d’essere nell’antichità ma poi si sanno rinnovare nel Duecento e poi di nuovo nel tardo medioevo italiano. È evidente che almeno nella penisola italiana l’imprinting genetico dei classici e dell’antica Roma abbia alimentato per molti secoli la cultura letteraria (e artistica) e lasci un segno indelebile nell’identità delle città. Proprio le laudes tracciano un filo rosso che lega attraverso l’affermazione della singola “città”, Roma, Palermo, Padova, Milano, Firenze, Pavia e molte altre… Le lodi al di là del valore letterario e documentario di un’epoca e di una cultura, sono spesso uno strumento politico, giuridico e psico-sociale di auto-rappresentazione per rendere coesa una comunità che intende riaffermarsi come communitas-civitas-città… Cito tra molti Bonvensin da La Riva, autore del De magnalibus Mediolani/Le


meraviglie di Milano, che celebrò a chiare lettere la pace civile instaurata dai Visconti nella città lombarda. Nello stesso periodo a Padova Lovato Lovati fu commissionato di coltivare il mito delle origini della città, facendolo risalire ad Antenore, eroe di Troia. All’epoca la “scoperta” dell’antico ipotetico progenitore contribuì fortemente a rinsaldare la communitas patavina dilaniata da diverse fazioni alla fine del Duecento e favorì il consolidamento dello Studium, la prestigiosa università che da allora ha segnato la storia della città. Altro esempio di stretta connessione tra una laude cittadina/ laus civitatis e il destino di una città, tra parola scritta e ambiente urbano, è la Laudatio Florentine urbis scritta da Leonardo Bruni nel 1404, quasi a riaffermare il superamento dei decenni bui della Peste Nera di metà del Trecento e aprire alla nascente cultura rinascimentale che incoronò Firenze. 2. Tutto scorre Ma anche la “città descritta” nei libri come ben sappiamo cambia a seconda della congerie storica e del punto visuale dell’osservatore. Se le ragioni stesse della città c’entrano con il libro, il libro c’entra con la città. Nascono e crescono assieme. Ma dopo la fine di Roma antica le città italiane erano per lo più diroccate, cadute giù e “senza rocca”. Certo se la parentesi del monachesimo altomedievale nei conventi rurali dell’Occidente permise l’opera (inestimabile) di copiatura e conservazione dei testi classici, ciò non intacca la “supremazia” metropolitana del sapere e del “tramandare a libro” da e per la città. Questo fino ad oggi, quando distanziamenti coatti e “reciproco sospetto del corpo altrui”, una sorta di horror mundi universale, ci fanno “ri-scoprire” la prossimità, il suburbio, il contado, il villaggio, il bosco, il deserto, la montagna. Assistiamo in pochi mesi ad una progressiva riterritorializzazione, prima psicologica che reale, che porta nuova attenzione su tutto il territorio, anche quello extraurbano. Se la città e il libro “testimone” della/dalla città dominavano incontrastati nella loro biunivoca referenza a scambio,

oggi è l’intero pianeta vivibile, connettibile, conoscibile, controllabile. Il libro giocoforza cambierà aspetto, consistenza e funzione ma se raccogliamo la sfida come “prima generazione dell’Antropocene”, sapremo renderlo immortale, sperimentando nuovi linguaggi, approcci e funzioni, utilizzando soprattutto la tecnosfera. La ragion critica e l’approfondimento selettivo di sicuro sono attrezzi importanti del mestiere. Il libro cartaceo o digitale che sia, sarà sempre una “parzialità”, un’opinione, un’idea, un progetto, un’ispirazione, e quale che sia si presta ad una riflessione più approfondita e intima, meno superficiale, più qualitativa che quantitativa. Disco verde al profluvio digitale in cui siamo immersi, consapevoli però che oltre agli indubbi frutti preziosi ormai non eludibili, talvolta può lasciarci anche derivate di superficialità e inconsistenza che possono traviare “la conoscenza” o per lo meno farci perdere tempo prezioso. Proprio per questo motivo “libro e città” sono destinati a rimanere un’endiadi, «uno per mezzo di due», o, in altre parole, una fusion. 3. Leggere la città e virare “slow” Come ci ricorda Giuseppe F. Ferrari, nel suo La prossima città (Mimesis, Milano 2018), oggi “la metà degli abitanti del pianeta vive già in città e si stima che nei prossimi 10 anni questa quota raggiungerà il 75% della popolazione mondiale, tale percentuale è già stata raggiunta in Europa, dove vi sono ben 468 città con almeno 100.000 abitanti. Le città occupano solo il 2% della superficie mondiale ma consumano i tre quarti delle risorse; allo stesso tempo le prime 25 città del pianeta producono metà della ricchezza dell’umanità. Le aree urbane europee consumano il 70% dell’energia dell’intera Europa, che genera il 75% delle emissioni di gas serra. Globalmente stiamo consumando in 282 giorni le risorse che il pianeta produce in 365. La soluzione di questi problemi richiede l’adozione di un “nuovo modello di città”, di comunità locale, di fruizione della città e dei suoi servizi, che sappia coniugare innovazione, efficienza, sostenibilità, inclusione e svilup-

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po”. Ecco l’urgenza e la necessità di inoculare anche attraverso il libro, vaccini di cultura “slow”. Se in lingua anglosassone il termine “slow” appare spesso accompagnato ad un’accezione negativa, suonando come “ritardato” o similia, in italiano che fin troppo volentieri ospita lemmi esotici il termine stanti le esperienze di Slow food prima e di Cittaslow poi, esprime oggi un concetto di “modernità riflessiva”: accettare sì certo la contemporaneità, ma con raziocinio, non in modo pedissequo e acritico. Essere “slow” oggi significa “riflettere” prima di “agire”, considerare o ri-considerare anche il passato e le esperienze storiche per costruire un futuro di qualità. Cosa c’entra col nostro ragionamento? Ebbene c’entra moltissimo, perché il libro in quanto oggetto e strumento di conservazione e riflessione è un pezzo ineludibile del “sapere locale” e della “costruzione di futuro”. Senza libro o la sua moderna trasformazione attraverso l’Information Communication Technology/ICT non sarebbe possibile se non in forme orali e per loro natura effimere il deposito dei “saperi”, del “sale di una comunità”, trasmettere l’anima di una città per tempo e per luogo. Uno degli esercizi praticati all’interno delle Cittaslow più avanzate è attraverso le scuole primarie e secondarie di primo grado l’estrazione dal proprio quartiere o città dei saperi locali, la redazione di quaderni della memoria locale da parte dei discenti. Il progetto internazionale Cittaslow Education coordinato da Orvieto, Umbria, Italia, prevede attraverso un’azione maieutica e intergenerazionale la descrizione raccontata e scritta dei luoghi e delle esperienze nei luoghi dove risiedono gli studenti. Questo favorisce il “contatto naturale” e “sociale”, e acuisce la competenza territoriale dei singoli e del gruppo, con finalità di educazione civica. Come si sa cum+munio+actio significa proprio mettersi a disposizione comunicando con qualcun’altro, creare un rapporto di collegamento con un altro da sé condividendo fusioni, informazioni, culture. La città villaggio o metropoli, riscopre oggi in modo strutturale il valore dei beni comuni, i commons, un settore da ampliare subito (non solo aria, acqua, boschi, paesaggi, oceani, ma anche mezzi di produzione,

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infrastrutture, suolo, aree, sementi, strumenti, mezzi di trasporto e biciclette, banca del tempo, finanziamenti, software o piattaforme open source, ecc.), punta sull’economia solidale o di comunità, e agisce concretamente per la sostenibilità applicando l’economia circolare. 4. Viaggio tra libro, realtà (digitale) e ritorno Al giorno d’oggi, con una velocità difficilmente immaginabile solo venti anni fa, si è creata un’intelligenza di rete intensiva capace di tesaurizzare e diffondere informazioni disponibili quasi istantaneamente a livello globale: in questo modo l’informazione è diventata l’unità di base dell’economia globale. Di conseguenza anche la condensazione di sapere in un testo su un libro o un e-book, ovviamente ha subìto e sta subendo modificazioni continue. Dal canto suo, la “città” è per sua natura in continuo divenire e ridefinizione. Il fatto inedito è, se vogliamo, che oggi sono le stesse istituzioni contemporanee a risultare “stressate” dal nuovo “permanente effettivo”. È l’ascesa turbolenta del capitalismo dei dati che di fatto mina le istituzioni democratiche: “gli strumenti digitali e i mezzi di comunicazione influenzano profondamente anche il mondo reale della produzione agricola e industriale, la circolazione globale di merci, persone e biomassa, contribuendo anche a informare la pianificazione macroeconomica e il processo decisionale politico”. Tutti siamo inoltre a conoscenza che già “dieci anni fa avevamo raggiunto un punto in cui la connettività della macchina a Internet superava la connettività umana”. In questa condizione reale, il rapporto tra città e libro nel presente e soprattutto nel futuro, sarà sempre più autoalimentante o addirittura autofecondante. Già oggi “nessuna infrastruttura computazionale può esistere senza la precedente trasformazione di materia e nessuna informazione senza la trasformazione di energia”. Esattamente come il libro e la città. Una buona notizia per il libro? Sì, saremo presto obbligati ad affrontare attraverso una scienza che chiamiamo “geo-antropologia ovvero l’interazione uomo-terra, lo studio dei


vari meccanismi, le causalità dinamiche che ci hanno portati verso l’Antropocene. All’orizzonte «nuove forme di analisi sinottica, un nuovo quadro concettuale, nuovi strumenti di ricerca e nuove pratiche di ricerca che saranno necessari per interpretare e aiutare a mitigare e guidare le grandi trasformazioni in corso. Tali ricerche dovranno superare i confini tradizionali, anche tra le scienze naturali, le scienze sociali e le scienze umane. Sono necessarie molte connessioni trasversali tra i domini della conoscenza per cogliere la situazione attuale e l’interconnessione dei fenomeni che affrontiamo».1 In questa prospettiva il libro – comunque sia matericamente composto – manterrà sempre una sua formidabile utilità e insostituibile praticità.

1. V. Solenne, Effetti della digitalizzazione e delle profonde trasformazioni: l’Antropocene, 28 dicembre 2018, in https://www.pandslegal.it/ambientale/antropocene/.

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DEANNA MANNAIOLI Libri e saperi. Chiavi per riscoprire e restituire alle città il loro “genius loci”

Libri e “saperi” sono da sempre un connubio inseparabile senza il quale non ha ragione di esistere alcuna pubblicazione. Come dice Emily Dickinson: “Non c’è nessun vascello che, come un libro, possa portarci in contrade lontane”. Ogni libro è un viaggio in terre sconosciute, un incontro con gli uomini, le loro storie, le loro conoscenze ed è quindi un arricchimento culturale. I “saperi” sono alla base dello sviluppo umano, che ci ha proiettato dall’età della pietra all’era tecnologica e continua in un perenne cambiamento. Di questa evoluzione, i libri, salvati dalla barbarie nei monasteri nel Medioevo e divulgati con l’invenzione della stampa, sono protagonisti e rappresentano la trasmissione della civiltà e dei “saperi” umani nelle varie discipline. Il libro è dunque un potente strumento di conservazione della storia e del sapere locale e come tale è da considerarsi depositario del “sale della terra” o meglio “del sale di una comunità”: consente infatti una conoscenza profonda che lega indissolubilmente l’uomo al territorio. Ogni luogo parla agli uomini con un suo preciso linguaggio. “Nullus locus sine genio” così scriveva Servio nel suo Commento all’Eneide nel V sec. d.C. 58

Non si tratta dello ‘spiritello del luogo, secondo la credenza del mondo antico che associava ai paesaggi naturali la presenza di una divinità minore che ne costituiva il nume tutelare. È come se si stabilisse una connessione spirituale, emotiva e culturale con un luogo e di conseguenza con la città in cui si è integrati. Ci sono città in cui il “genius loci” è associato a un monumento, a un personaggio, come a Lourdes o ad Assisi, dove ritroviamo la presenza di un’entità spirituale. Pensiamo ai “genius loci preconfezionati”, quelli offerti a chi si reca in luoghi come Roma, Parigi. Il Colosseo, la Tour Eiffel sono esempi classici di “fruizione collettiva” di emozioni e di suggestioni. Oggi è possibile ritrovare il “genius loci” di una città o di un intero territorio? Forse in una società globalizzata non abbiamo un’identità univoca, come un tempo, ma tante identità quante sono le forme culturali e sociali che vi si ritrovano. Ricercare il “genius loci” di un luogo è un lavoro complesso ma ciò non esclude che si possa trovare un unico attrattore culturale, appunto “lo ‘spirito del luogo’ che gli antichi riconoscevano come quell’“opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare”. Oggi l’interazione con l’ambiente e la sua storia guidano l’uomo nel-


la ricerca per evitare l’uniformarsi alle mode e alle tipologie costruttive che ripropongono uno schema abitativo che porta all’omologazione. Molti sono i libri scritti a tale proposito. Da Goethe alla filosofia naturalistica è passata l’idea che la natura deve rimanere immacolata anche al passaggio dell’uomo. Francesco Bevilacqua segue quest’idea esplorando la visione del “genius loci” come Dio e chiedendosi se, come e quando questa idea possa trovare spazio nel nostro tempo. Per Christian Norberg-Schulz il “genius loci” è “l’essenza del luogo”, il suo carattere ambientale, che l’architetto deve rispettare per costruire in maniera armonica, senza stravolgerne le caratteristiche. Duro il suo attacco alle città del ventesimo secolo sorte nella riproposizione dei modelli dei maestri come Le Corbusier. Il risultato infatti è stato quello di creare dei non-luoghi. Ecco perché Orvieto non potrà mai essere come New York. La sua storia ne fornisce le connotazioni e nei libri noi ritroviamo quel posto unico che si è ricavata nell’ambiente, quel “genius loci” che la distingue, considerando in questo caso la sua stretta connessione con l’archeologia e l’arte.

In conclusione i libri rappresentano in assoluto le “chiavi per riscoprire e restituire alle città il loro genius loci”, quell’identità culturale che deve essere assolutamente conosciuta da tutti gli abitanti, in primis, dagli operatori culturali, sociali e politici per selezionare gli interventi programmatici e guidare le scelte proiettate nel futuro. Per questo è auspicabile l’omaggio da parte delle librerie e delle istituzioni di libri di storia locale, anzi va considerato indispensabile in ambito scolastico. A tale scopo le piccole Case Editrici, che pubblicano testi su temi di storia e su argomenti locali, vanno incentivate perché contribuiscono a costruire nei lettori quella competenza territoriale necessaria per l’acquisizione di una mentalità all’insegna del bene comune. Risulta fondamentale infatti il “sapere locale”, la conoscenza delle tradizioni, dei luoghi, delle esperienze occupazionali per sviluppare uno stretto legame culturale e sociale con il territorio in cui si vive e per acquisire quell’identità culturale capace di fornire una consapevolezza che può dare frutto, se proiettata al futuro, sia sul piano sociale che economico.

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RICCARDO CAMPINO Il futuro dei luoghi della lettura di una città: la libreria Un sistema-libro cittadino per migliorare la qualità della vita di tutti.

Uno degli aspetti spesso sottovalutati da chi si occupa in ambito istituzionale di promozione della lettura, è costituito dai cosiddetti canali di vendita del libro, cioè dai luoghi deputati alla diffusione commerciale di questo particolare bene merceologico. Se fino agli anni ’80 del secolo scorso questo compito era svolto quasi esclusivamente dalle librerie tradizionali, negli ultimi 30/35 anni si è assistito ad un progressivo ampliamento del panorama degli attori in campo, con l’avvento per primi dei grandi centri commerciali e poi, con l’inizio del nuovo secolo, dei negozi online, da cui oggi transita oltre un terzo delle vendite complessive di libri del nostro Paese, oltre a costituire i pressoché esclusivi distributori dei libri elettronici, i cosiddetti e-book, che da qualche anno stanno integrando l’offerta complessiva del settore, assieme agli audiolibri. Esclusivamente in Italia, a questa situazione si è sommato il particolare fenomeno della proliferazione delle catene librarie di proprietà degli stessi editori (Mondadori, Feltrinelli e Giunti), che ha creato un’ulteriore stortura nella filiera del libro, mettendo in grandi difficoltà i librai indipendenti che, a fronte di una progressiva riduzione del loro fatturato e del potere contrattuale nei confronti degli stessi editori, si sono visti costretti, in moltissimi casi, a chiudere i loro negozi. 60

E così, con particolare rilievo nel nostro Paese, negli ultimi 20 anni si è assistito ad un progressivo e inarrestabile fenomeno di concentrazione nel settore della distribuzione del libro (fenomeno che ha peraltro riguardato la grande maggioranza del commercio), con un conseguente impoverimento del panorama delle librerie indipendenti, ed un automatico abbassamento della bibliodiversità dell’offerta libraria complessiva. I librai indipendenti italiani da alcuni decenni chiedevano a gran voce alle istituzioni governative una regolamentazione del settore e finalmente, con la legge 13 febbraio 2020 n.15, il parlamento ha emanato, per la prima volta nel nostro Paese, un importante provvedimento per la PROMOZIONE E IL SOSTEGNO ALLA LETTURA, che al suo interno contiene delle misure che potrebbero favorire nel medio periodo un ritorno alla pluralità dell’offerta libraria, anche attraverso l’incentivazione all’apertura di nuove librerie, la cui carenza, in particolare nelle regioni meridionali del Paese, contribuisce ai preoccupanti indici di lettura italiani. Va ricordato che in Europa, questi ultimi sono superiori solo a quelli della Grecia, ed enormemente più bassi di quelli scandinavi e tedeschi, ma anche francesi, inglesi e spagnoli. Ormai sappiamo con certezza che gli indici di lettura di un Paese sono strettamente cor-


relati alla sua capacità di competere, ma la lettura a ben vedere va molto oltre, crea cittadini consapevoli, in grado cioè di scegliere il futuro che desiderano, anziché subire le scelte di altri. Con il suddetto provvedimento, decisamente storico per l’Italia, oggi disponiamo finalmente di uno strumento legislativo in grado di donare un futuro più solido al libro e a tutto ciò che gli gravita intorno, a condizione che ci si impegni a farlo funzionare al meglio. Ma oltre a quanto viene deciso a livello centrale, anche nelle singole città è possibile fare molto per favorire la pratica della lettura, ad iniziare dal connettere SCUOLE, BIBLIOTECHE e LIBRERIE in un unico sistema libro cittadino, che abbia una particolare attenzione verso gli studenti, i quali potranno essere guidati dai propri insegnanti a scoprire come utilizzare questi luoghi per puro piacere, oltre che per motivi di studio. I cosiddetti PATTI PER LA LETTURA, che negli ultimi anni sono stati lo strumento di Regioni e Comuni per favorire le aggregazioni tra chi si occupa professionalmente di questo, hanno riscosso alterna fortuna a seconda dei casi; bisognerà insistere con maggiori energie e risorse in questa direzione, affinché si radichi un vero e proprio comparto cittadino destinato al libro e alla lettura. Per favorire un tale salto qualitativo dell’intero settore, è altrettanto fondamentale formare e aggiornare gli addetti ai lavori con corsi altamente professionali: questa è la strada che, ad esempio, sta seguendo la Scuola Librai Italiani, fondata proprio ad Orvieto nel 2007 e oggi con sede a Roma. Non dimentichiamo che la LIBRERIA è un luogo di fondamentale importanza in ogni città, in ogni quartiere. La sua presenza è sinonimo di qualità della vita: chi abita in quei luoghi dispone di un’oasi di sapere utile per le proprie necessità di approfondimento ma anche, più semplicemente, per trovare un luogo di armonia in cui scegliere un libro da leggere per puro piacere. A margine di queste poche considerazioni, va detto che la strada da fare è certamente ancora lunga, ma oggi possiamo guardare avanti con maggior fiducia, disponendo di un provvedimento organico che rimette il tema della

promozione della lettura al centro delle politiche nazionali e territoriali. Ricordiamoci che la fine del libro è stata profetizzata più volte, ma, guarda caso, il libro rialza sempre la testa1.

1. Si consiglia il testo Sfida al futuro. La lettura e la capacità di competere del Paese – AIE, Ediser 2019.

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GIOVANNA GIUBBINI La cultura del viaggio attraverso le guide per viaggiatori e turisti Evoluzione del modo di concepire la conoscenza dei luoghi e l’uso della guida.

Le memorie di viaggio sono state scritte sin da quando l’uomo ha esplorato il mondo. Tuttavia, quello che separa le guide moderne dai diari di viaggi vecchio stile come Il Milione di Marco Polo è l’inserimento di informazioni pratiche scritte con l’intento di incoraggiare i lettori a seguire le orme dello scrittore. Una pioniera dell’arte fu Mariana Starke, un’aspirante poetessa inglese e drammaturga che condivideva lo stesso editore di Jane Austen e Lord Byron. Il libro della Starke del 1802 Travel in Italy Between the Years 1792 and 1798 comprendeva una raccolta di diari di viaggio che mettendo da una parte le descrizioni personali dava spazio a consigli pratici. La Starke ha annotato le sue osservazioni sulle chiese italiane e le ville usando un metodo di valutazione soggettivo basato su una scala da uno a cinque punti esclamativi. Per più di due secoli, dal Seicento all’Ottocento, l’Italia è percorsa dai giovani delle famiglie dell’aristocrazia alla riscoperta della cultura classica e del nuovo umanesimo alla ricerca di un grande passato conosciuto altrimenti soltanto attraverso i libri. I primi a partire per motivi culturali furono gli inglesi, dalla seconda metà del Settecento la moda del Grand Tour si estende anche ai tedeschi, olandesi, spagnoli e nordamericani. Alla fine del secolo XVIII si assiste ad un progressivo 62

mutamento dell’idea di viaggio come percorso fondamentalmente culturale a forte valenza pedagogica in concomitanza con l’affermazione della classe borghese inglese. Questo progressivo cambiamento comporta una trasformazione delle modalità organizzative e degli strumenti di ausilio per il viaggio. Dal corredo del viaggiatore scompaiono i volumi sulla storia degli antichi Romani e i diari di viaggio del gran tour. Nell’Ottocento si diffondono con grande favore le guide che offrono oltre agli itinerari consigliati, alle valutazioni sulla qualità e l’interesse di luoghi e monumenti da visitare, anche suggerimenti sui percorsi ritenuti più sicuri, proprio in risposta a quel bisogno di sicurezza tanto presente nella seconda metà dell’Ottocento. Le guide, che raggiungono negli anni a cavallo fra l’Otto e il Novecento l’apice del successo, rispondono alle esigenze di informazioni di un numero sempre maggiore di turisti che ormai appartengono a strati sociali molto eterogenei. La prima “Murray’s Red Guide”, Handbook for Travellers on the Continent, fu pubblicata nel 1836: dedicate ai Paesi meta del Grand Tour e quindi anche all’Italia, offrendo al lettore informazioni non solo culturali ma anche pratiche, quali orari, prezzi e valore delle monete. Quando il 1° luglio 1827 Karl Baedeker


fondò la sua casa editrice a Coblenza non poteva certo immaginare che il suo nome e i suoi libri rossi un giorno sarebbero diventati sinonimo di guida turistica in tutto il mondo. Baedeker rivoluzionò la letteratura di viaggio: le sue pratiche guide dedicate a mete quali la Germania, l’Austria, l’Italia e altri Paesi europei consolidarono la fama delle Baedeker come diventare le guide compagne di viaggio precise e affidabili. Nel 1894 nasce in Italia il Touring Club Italiano che pubblicherà di lì a poco la prima Guida-Itinerario dell’Italia e di alcune strade delle regioni limitrofe. Nel 1914 fu pubblicato il primo volume della Guida d’Italia, con il titolo Piemonte, Lombardia e Canton Ticino. Al contrario delle guide Baedeker, orientate per un pubblico culturalmente di élite, le guide del Touring furono pensate per un turista medio, animato dal desiderio di conoscere le bellezze del proprio Paese e nel tempo sostituirono le guide straniere che avevano accompagnato i turisti alla scoperta dell’Italia; inoltre svolsero un’azione di promozione culturale e turistica di grande rilievo. Negli anni del fascismo venne introdotto un nuovo turismo, detto turismo di guerra, con la pubblicazione della collana Sui campi di battaglia, in cui uscì un volume dedicato a Il Monte Grappa. Dopo gli anni difficili del secondo conflitto mondiale, il Touring riprende la produzione editoriale e cartografica che conoscerà il definitivo consolidamento negli anni ’60 e ’70. Gli anni Sessanta vedono l’affermazione del “turismo di massa”, fenomeno connotato negativamente dalla standardizzazione, dalla superficialità e dalla mercificazione. Negli anni più recenti vedono la luce guide illustrate arricchite di ampi apparati fotografici, affidati – come sarà il caso della collana “Attraverso l’Italia” – ai nomi più celebri della fotografia del tempo, tra cui Gianni Berengo Gardin. Con l’esordio del turismo di massa negli anni ’60 e ’70, le guide di viaggio si moltiplicarono, soprattutto nella fetta più economica del mercato. Marchi importantissimi nacquero da umili radici fai-da-te per alimentare una nuo-

va generazione di esploratori liberi battezzati “backpacker”. La Lonely Planet fu costituita da Tony e Maureen Wheeler. Il libro iniziale dei Wheeler del 1973 Across Asia on the Cheap racchiudeva più di una dozzina di Paesi in solo 94 pagine. Entro due decenni, l’azienda aveva ridisegnato la mappa del mondo, venendo incontro alle esigenze di una nuova generazione di ventenni ricchi di tempo ma non di soldi. Come le Baedeker prima di loro, le guide Lonely Planet vennero talvolta menzionate in opere letterarie. Alex Garand nel romanzo del 1996 L’ultima spiaggia ambientato in Thailandia allude a una nuova cultura di viaggiatori. Con i ridotti tempi di attenzione del nostro mondo moderno interconnesso, l’epitaffio delle guide di viaggio è stato scritto a intervalli regolari dall’inizio del XXI secolo. Eppure, nonostante le continue minacce che provengono dal mondo digitale c’è qualcosa di fondamentale nelle guide che ha ancora un forte impatto. Resistendo alla prova del tempo, si comportano come toccanti promemoria della nostra vita in itinere, ciascuna ricordandoci una storia unica e profondamente personale. Il libro guida, a volte con le pagine un po’ stropicciate per l’uso, qualche biglietto di museo conservato all’interno, rappresenta per il viaggiatore la testimonianza di quella esperienza che insieme al patrimonio ideale di conoscenza di luoghi, di opere d’arte, di culture e di esperienze, costituisce la memoria della vita di un individuo. Le Guide di viaggio rappresentano un patrimonio che testimonia non solo la passione per il viaggio, ma il mutare dei costumi e della società nel corso dei decenni.

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ADRIANA CHEMELLO Inventare il futuro: dalla parte della lettrice Il futuro del libro si costruisce nel presente, nel qui e ora, nella coscienza civile del lettore e della lettrice, si rafforza attraverso la carica trasformativa di ogni esperienza di lettura, s’imprime indelebile nel DNA del singolo attraverso l’esperienza della relazionalità, dell’interdipendenza dell’umano. L’etica della cura che le donne praticano e hanno praticato per millenni, il loro inclinarsi verso il neonato o verso l’anziano genitore, questa soggettività relazionale che si espande dall’umano all’ambiente e ai diversi manufatti, interseca nel suo percorso anche i libri e si china su di essi non solo per leggerli ma per prendersene cura e per traghettarli verso il futuro.

In questi giorni mi torna in mente un libro di Danilo Dolci, il cui titolo mi ha sempre affascinato: Inventare il futuro. Ebbene, oggi ci troviamo nella condizione di “inventare l’ignoto”, tuttavia abbiamo un punto di forza da cui partire: sono i libri, i testi, i testimoni del nostro pensiero, del nostro immaginario, delle nostre narrazioni legate ai tempi e agli spazi, urbani e non, dei territori, delle comunità, della polis. E abbiamo una soggettività a cui nessuno finora ha dedicato la minima attenzione, pur essendo un agente importante nella filiera del libro e della sua promozione/distribuzione: la lettrice. È ormai un luogo comune affermare che le donne leggono più degli uomini, non solo, sanno essere delle “buone lettrici”, delle “lettrici scelte”, sanno dialogare con i libri facendoli diventare l’estensione di una relazione intima, ne sanno riconoscere la “funzione iniziatrice” (di cui parlava Proust agli inizi del secolo scorso nel suo saggio Sulla lettura). Prendo spunto da una riflessione di Elena Ferrante, questa «autrice invisibile» che ha prodotto molto scompiglio nel mondo editoriale e non solo, per approfondire questo concetto. Scrive Ferrante in un saggio intitolato Il libro di nessuno, del 10 ottobre 2005: «Tra il libro che va in stampa e il libro che i lettori acquistano c’è sempre un terzo libro, un libro dove accanto alle frasi scritte ci sono quelle che 64

abbiamo immaginato di scrivere, accanto alle frasi che i lettori leggono ci sono le frasi che hanno immaginato di leggere».1 Il terzo libro prefigurato da Elena Ferrante è quello a cui cooperano, accanto all’autrice, le sue lettrici e i suoi lettori. È il libro che viene inviato al futuro, il libro destinato a diventare quell’«eredità senza testamento» che deve essere condivisa da molti/molte. Le lettrici salveranno i libri perché sanno trasmettere l’amore per il libro, aiutano a diffonderlo e a farlo circolare attraverso il passa-parola, attraverso la condivisione che si incarna nella relazione. Riflettiamo, per fare un piccolo esempio, sull’importante funzione sociale e culturale che assolvono le “Librerie delle donne” sparse un po’ in tutta Italia: librerie di nicchia ma spazi insostituibili di servizio culturale e di sociabilità, prevalentemente ma non esclusivamente tra donne. Queste librerie sono luoghi vivacissimi di politica culturale, dove si fa emergere l’editoria ‘invisibile’ delle piccole imprese editoriali indipendenti, escluse dai grandi circuiti del mercato, dove gli studi ‘gender’ e le ricerche sulla storia delle donne acquistano la meritata visibilità. Sono spazi deputati a far circolare pensieri e pratiche di scambio e di cura, dove lo spirito dei 1. E. Ferrante, Il libro di nessuno, in La frantumaglia, edizioni e/o, Roma 2016, p. 185.


libri si mantiene vitale ben oltre la misura ‘breve’ dell’obsolescenza programmata della “novità”. In questi luoghi dedicati, i libri s’incarnano nelle lettrici e nei lettori e ne diventano altrettanti «momenti di essere», si fanno «ponti» lanciati verso chi legge, creando un continuum orientato verso il futuro. Il futuro del libro si costruisce nel presente, nel qui e ora, nella coscienza civile del lettore e della lettrice, si rafforza attraverso la carica trasformativa di ogni esperienza di lettura, s’imprime indelebile nel DNA del singolo attraverso l’esperienza della relazionalità, dell’interdipendenza dell’umano, nell’inclinarsi verso l’altro/a così bene inscritta nell’esperienza del materno di cui parla Adriana Cavarero.2 L’etica della cura che le donne praticano e hanno praticato per millenni, il loro inclinarsi verso il neonato o verso l’anziano genitore, questa soggettività relazionale che si espande dall’umano all’ambiente e ai diversi manufatti da conservare e valorizzare, interseca nel suo percorso anche i libri e si china su di essi non solo per leggerli ma per prendersene cura e per traghettarli verso il futuro.

2. A. Cavarero, Inclinazioni. Critica della rettitudine, Raffaele Cortina, Milano 2014.

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MARIO SQUADRONI “L’insegnamento di Monaldo”1. Le biblioteche d’autore in Umbria: problemi e prospettive Un insieme di libri diventa biblioteca, quando un’idea, uno spirito, un carattere, un ruolo si fondono e si trasformano in un patrimonio personale destinato, nella sua integrità, a essere un ‘bonum loci’, un bene della propria comunità.

Nel corso della mia più che quarantennale attività come funzionario e dirigente della Soprintendenza archivistica per l’Umbria prima, e archivistica e bibliografica dell’Umbria e delle Marche poi, sono venuto a contatto con tante persone che, avendo svolto un ruolo di rilievo nella Società, avevano accumulato, nel corso degli anni, o ereditato dai loro avi, un patrimonio archivistico e bibliografico di grande rilievo storico che desideravano venisse conservato dallo Stato e valorizzato.1 Troppo spazio occorrerebbe per parlare diffusamente della soluzione adottata in ogni singolo caso per mettere al sicuro questo prezioso patrimonio culturale. La prassi era comunque sempre la stessa. La Soprintendenza dichiarava l’archivio di “notevole interesse storico”, facendolo diventare un bene culturale, il proprietario lo donava allo Stato il quale si prendeva l’onere della conservazione permanente presso gli Archivi di Stato di Perugia e Terni e rispettive Sezioni, consentendone l’accessibilità. 1. «Perciò la biblioteca del palazzo, dove i due lavoravano gomito a gomito per ore ed ore, non sembrò mai a Monaldo una «prigione», ma il laboratorio necessario, il lungo tirocinio verso la gloria alla quale sentiva chiamato il figlio Giacomo». Monaldo Leopardi, Autobriografia. Edizione critica a cura di Anna Leopardi di San Leopardo, Il lavoro Editoriale, Ancona 1993, p. 10.

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A partire dagli inizi del 2016, con decreto ministeriale del 23 gennaio, sono state conferite al Ministero dei beni culturali e ambientali e del turismo anche le funzioni di tutela in materia libraria, prima affidate alle Regioni. Questo provvedimento ha comportato una modifica nella denominazione delle soprintendenze che sono diventate archivistiche e bibliografiche. Quindi le Soprintendenze, da tale data, si sono occupate non solo della tutela degli archivi privati di famiglie e di persone ma anche delle loro, significative biblioteche. In questa sede, così come richiesto dall’amico Giuseppe Bearzi, concentrerò la mia attenzione più sulla tutela del patrimonio bibliografico che su quello archivistico. La tendenza delle persone a rivolgersi alla Soprintendenza per cercare di trovare una soluzione circa la conservazione futura del loro patrimonio librario si fa sempre più frequente e insistente. Molte persone, pur essendo andato in pensione nell’ottobre del 2017, seguitano a rivolgersi anche a me per avere consigli su come “muoversi” correttamente. Nella totalità dei casi vengo contattato da persone avanti con l’età (dagli 80 ai 90 anni) le quali vorrebbero che il loro patrimonio libraio, formato da migliaia e migliaia di libri, che rappresenta anche i loro interessi e le loro passioni, non venisse disperso ma conservato


nella sua integrità e messo a disposizione degli studiosi. Perfettamente consapevoli che gli eredi diretti non hanno alcun interesse a conservare queste loro ricchissime e specialistiche Biblioteche, messe insieme con tanto amore, vorrebbero trovare, prima di morire, delle soluzioni adeguate affinché questi loro patrimoni culturali di libri, che intendono donare, non venissero smembrati, saccheggiati, scremati, dispersi o addirittura buttati, ma conservati nella loro integrità. Queste tipologie di biblioteche possono rientrare a buona ragione nella definizione di “Biblioteche d’autore”. Per Biblioteca d’autore, scrive Giuliana Zagra, si intende: Una raccolta libraria privata e personale che, per le sue caratteristiche interne, tramite i singoli documenti e nell’insieme della collezione, sia in grado di testimoniare l’attività intellettuale, la rete di relazioni, il contesto storico culturale del suo possessore. Sebbene non ne siano definiti i confini cronologici, l’espressione è nata per identificare in particolare le raccolte di autori novecenteschi che negli ultimi anni sono confluite in gran numero nelle biblioteche e negli archivi pubblici. La biblioteca d’autore è pertanto definibile tramite due indicatori: • provenienza, poiché si tratta di raccolte appartenute e prodotte da personalità che si sono distinte nella comunità culturale in ambiti diversi: scrittori, giornalisti, critici, artisti, architetti, scienziati, ecc.; • la omogeneità della raccolta, dal momento che i documenti – nel loro insieme e organicamente – sono in grado di riflettere l’impegno costante, gli interessi, il contesto storico culturale di chi l’ha costituita. Essa fornisce allo studioso uno strumento interpretativo e di conoscenza poiché documenta i percorsi di lettura, la formazione, il contesto culturale del suo possessore.

In tutta Italia il problema della conservazione e della gestione di un così importante patrimonio culturale che non deve assolutamente andare disperso, ma, al contrario, conservato nella sua totale integrità è ormai presente da anni e se ne occupa la Commissione nazionale biblioteche speciali, archivi e biblioteche d’autore dell’Associazione italiana biblioteche, che

ha prodotto sull’argomento un’importante bibliografia cui fare riferimento2. Il primo merito della Commissione è quello di aver predisposto un documento di eccezionale importanza: le linee guida sul trattamento dei fondi personali che indicano come agire correttamente, consultabili online3. La Commissione è partita, nel formulare iniziative e attività, dalle riflessioni contenute in un saggio, edito nel 2016, dall’umbra Fiammetta Sabba, docente di Bibliografia e Biblioteconomia dell’Università di Bologna che è, sicuramente, una delle più ferrate in materia4. Per un’ottima visione generale sullo stato dell’arte si deve tenere conto di quanto scrive la stessa Sabba sul tema nelle riflessioni finali al Convegno, che ha curato con Giovanni Di Domenico, e di cui sono usciti gli Atti, che è l’ultima, enorme, positiva iniziativa culturale dove si fa il punto della situazione dopo tanti anni d’impegno e studi5. Dalla lettura di questi due saggi emergono le questioni adesso più critiche, che non sono poche. Mi limito a ricordarne alcune. Il primo punto di partenza è sempre quello di una opportuna opera di costante sensibilizzazione al problema verso i detentori di questi beni documentari, poi bisogna agire, fin dai primi momenti, tenendo conto di quanto scritto nelle linee guida esistenti, con capacità di analisi. Non tutte le raccolte, infatti, sono meritevoli delle risorse pubbliche, di tenere occupati spazi e di interventi di trattamento. Altro proble2. La Bibliografia di quanto finora scritto sulle biblioteche d’autore è reperibile nel sito: https://www.aib.it/ wp-content/uploads/2019/10/Bibliografia-ver.-17-ottobre-2019-ultima-versione-pubblica-sul-sito-1.pdf. 3. https.//www.aib.it/struttura/commissioni-e-gruppi/gbaut/strumenti-di-lavoro/linee-guida-sul trattamento-dei-fondi personali/. 4. Fiammetta Sabba, Biblioteche e carte d’autore: tra questioni cruciali e modelli di studio e gestione, «AIB Studi», 56 (2016), n. 3, pp. 421-434. Su tale importante argomento vedi anche Silvia Tripodi, Biblioteche e archivi d’autore: questioni aperte e riflessioni metodologiche, in «Arabeschi», n. 12, luglio-dicembre 2018, pp. 173-178 e relativa ricca bibliografia, consultabile anche online. 5. Vedi: Il privilegio della parola scritta. Gestione, conservazione e valorizzazione di carte e libri di persona, a cura di Giovanni Di Domenico e Fiammetta Sabba, AIB, Roma 2020.

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ma da non sottovalutare è quello dei contratti di donazione e/o acquisto, i quali necessitano di attenzione alle implicazioni di tipo innanzitutto giuridico che potrebbero venire poste dalle clausole degli eredi. In Umbria, ormai da qualche decennio, l’acquisizione a qualsiasi titolo di beni bibliografici e archivistici da parte di enti statali: Archivi di Stato di Perugia e Terni e Sezioni di Archivi di Stato di Assisi, Foligno, Gubbio, Orvieto, Spoleto, Università degli Studi; di enti pubblici: Comuni, Provincia e Regione, ma anche di importanti istituzioni culturali locali come ad esempio la Deputazione di storia patria per l’Umbria, non è più possibile. Questo perché i depositi archivistici e bibliografici sono saturi. In alcuni casi, per mancanza di spazio, la documentazione è stata messa “in doppia fila” o ammassata l’una sull’altra. Gli stessi enti, anche a causa della mancanza di personale e del ricambio generazionale, a stento riescono a garantire la conservazione e la fruizione di quel che già possiedono. Non possono e non vogliono acquisire altro. Il limite massimo è stato ormai ampiamente superato. La situazione circa la conservazione fisica dei beni archivistici e librari è al limite. Gli enti pubblici e statali, in particolare gli organi periferici del MIBACT, hanno fatto miracoli, avendo messo in sicurezza e recuperato tanti beni culturali in occasione dei numerosi terremoti che periodicamente colpiscono il territorio umbro, ma ora non sono più in grado di accogliere ulteriori beni documentari. Bisogna trovare subito una soluzione al problema. Troppo spesso, infatti, questi beni cartacei, alla morte del proprietario del bene o come produttore e conservatore, o come collezionista o come semplice cultore di un hobby finiscono per disperdersi, smembrarsi; perché non interessano gli eredi; perché le case moderne sono sempre più piccole; perché viene improvvisamente a mancare l’unico esperto che ha promosso ed organizzato con cura la stessa raccolta; perché nella fretta e frenesia dei nostri giorni (molto più spesso di quanto si creda) dopo la morte del collezionista, piccoli e grandi patrimoni vengono letteralmente affidati per pochi soldi ai robivecchi, chiamati

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a svuotare e liberare in fretta garage, soffitte o interi appartamenti. Da una parte non c’è più spazio, dall’altra c’è voglia di donare. Quale soluzione trovare? Prima di rispondere vediamo cosa ha già fatto Intra “biblioteche dei libri salvati”. L’attività di Intra (a cura di Giuseppe Bearzi) L’idea delle “biblioteche dei libri salvati” si è ispirata alle biblioteche delle istituzioni pubbliche il cui scopo è “la conservazione e l’attuazione di attività sociali e giuridiche stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e gli organi centrali e locali dello Stato, sottratte all’arbitrio individuale, e del potere in generale”, ma anche a quelle private di scienziati, studiosi, ricercatori, bibliofili appassionati di una specifica disciplina. Le “biblioteche dei libri salvati” non possono né vogliono fare concorrenza alle biblioteche pubbliche né essere così accurate nella specializzazione come quelle private degli studiosi. Il loro ruolo è raccogliere e quindi documentare l’evoluzione dinamica di una tematica cara o caratterizzante un gruppo, una categoria, una comunità, una scuola, una civitas. Per deliberata scelta dell’associazione INTRA che le ha fondate, le “biblioteche dei libri salvati” sono qualificate dal fatto di essere “tematiche”, rappresentative di un focus, un unicum, un ubi consistam spesso unico e irripetibile. Esse raccolgono i libri relativi a una categoria, comunità, scuola in primo luogo per alimentare il suo pensiero e poi per approfondirlo, farlo evolvere e progredire. Sono inoltre “multilingue”, giacché oggi si scrivono e ieri si sono scritti libri su qualsiasi tema in tutte le lingue. Se Leopardi non avesse avuto a disposizione, oltre al proprio genio, la biblioteca del padre Monaldo, difficilmente sarebbe diventato il poeta che conosciamo e la sua fama si sarebbe limitata alla sua gobba. I libri che persone fisiche e giuridiche alienano, e che INTRA raccoglie, variano da qualche decina di testi a intere biblioteche che spesso, per necessità, disinteresse o disaffezio-


ne, sono prima smembrate con doni di libri a parenti, amici e conoscenti e poi con vendite tramite la Rete o con scarichi nei cassonetti o alle riciclerie. Questa mutilazione o decomposizione, successiva in genere alla morte del proprietario, a un trasferimento, a un mutamento d’interessi, fa sì che il perfetto unicum di quella biblioteca sia vanificato. Pure INTRA l’ha fatto, però oggi sa che in futuro non dovrà più accadere. Dovrà invece studiare soluzioni che evitino dispersioni e sia salvato tutto ciò che potrà essere utile in futuro tanto ai responsabili degli archivi di Stato, ai musei, alle biblioteche pubbliche e private interessate a ricevere parte di quei libri; quanto ai rapporti con le riciclerie, le biblioteche che devono alleggerire i loro scaffali, le persone fisiche e giuridiche che vogliono donare piccole o grandi quantità di libri. Il ritiro di biblioteche intere Nel vissuto di INTRA la maggior parte dei libri ricevuti è arrivata principalmente in lotti di modeste dimensioni, molto spesso quali rimanenze di biblioteche già spolpate da donazioni ad altri. Non è però mancato il ritiro di biblioteche intere anche ricche, che sono state smembrate presso il Centro Raccolta e Smistamento di Marsciano dell’associazione INTRA per la necessità di dividere per tema i libri in arrivo. Tale scelta organizzativa è stata fatta e continua per facilitare il ritiro dei libri da parte dei responsabili delle “biblioteche tematiche dei libri salvati”, sparse sul territorio. Le biblioteche ritirate per intero sono state poche e solo alcune furono fortemente tematiche: quella che costituì il primo nucleo di cinquecento libri, donata da Gigliola Casaccia, non era fortemente caratterizzata; quella di Pino Tagliazucchi (sindacalista, ricercatore, studioso, storico, scrittore, poeta, viaggiatore), che pressoché integra è ora inattiva ad Allerona, fu dedicata a Vietnam e Storia Contemporanea; quelle di David Mc Taggart (fondatore di Green Peace) e di Sidney Holt (biologo inglese fondatore della scienza della pesca), sono invece a Paciano in una dedicata con i libri for-

niti da INTRA all’Ambiente; quella romana degli eredi Giuggioli, che avrebbe dovuto andare a Foligno ed essere dedicata alla Resistenza, poi si è persa nelle beghe e nelle nebbie. E, per finire, quella di Elemire Zolla (filosofo e storico delle religioni), non fu acquisita proprio perché INTRA non riuscì a trovare un’adeguata struttura per quel patrimonio di circa diecimila libri. La gamma dei libri delle “biblioteche INTRA dei libri salvati” è tematica e basata su un’acquisizione casuale e disorganica, basata sulle donazioni, ossia sul caso che, in quanto imprevedibile, può esprimere pure testi rari e preziosi. La gamma delle biblioteche private di valore è anch’essa tematica, però è organica e rispondente alle esigenze specialistiche e finalizzate degli studiosi che l’hanno pazientemente costruita. Per tale ragione dovrebbe rientrare a buon diritto nella sfera meritevole della “conservazione e attuazione di attività sociali e giuridiche stabilite tra l’individuo e la società o tra l’individuo e gli organi centrali e locali dello Stato, da sottrarre all’arbitrio dell’individuo e del potere in generale”. Allorché uno scienziato, uno studioso, un ricercatore o un bibliofilo completa il suo cammino terrestre alla sua biblioteca dovrebbe essere riconosciuta l’appartenenza a tale sfera e chiesto o imposto ai suoi eredi di mantenerne intatto il corpus. Per far sì che quel corpus si trasformi in disponibilità e attività utili alla nazione lo Stato dovrebbe esercitare il diritto di prelazione in caso sia ceduto dagli eredi in tutto o in parte, così come accade per altri beni d’interesse nazionale ereditati o scoperti (Ringrazio Giuseppe Bearzi per questo contributo sull’attività di INTRA e per altri preziosi suggerimenti). Alcune proposte di lavoro L’attuale normativa in vigore per i beni archivistici e bibliografici che la competente Soprintendenza archivistica e bibliografica ha ritenuto essere di eccezionale interesse culturale, già prevede, a carico dei proprietari, obblighi e divieti circa la conservazione, la salva-

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guardia e la fruizione. Le norme relative alla tutela ci sono e sono sufficientemente efficaci per quella parte di patrimonio privato che si è riusciti ad individuare. Ciò nonostante esistono tante biblioteche private, ma anche archivi, collezioni o raccolte interessanti e meritevoli che spesso sfuggono all’opera di vigilanza esercitata dalla Soprintendenza con gravi rischi di manomissioni e dispersioni. In questo caso, in sintonia con le istituzioni preposte per legge, bisognerebbe studiare dei modi, delle tecniche atte a favorire interventi per prendere contatti con i proprietari, possessori o detentori di questi beni culturali per valutarne l’importanza e precostituire, con il loro consenso e nelle forme e nei tempi da concordare, la loro conoscenza e valorizzazione e, sottolineare nel contempo, il ruolo positivo di chi le ha con passione e competenza raccolte, accudite e organizzate. Si dovrà in pratica favorire e incoraggiare il passaggio dalla sfera privata a quella pubblica, di beni documentari, grandi patrimoni che in molte case private sono presenti in forma anonima da decenni, forse da secoli, qualora tali beni corrano il rischio di dispersione a causa di mutamenti di proprietà, derivanti anche da trasmissioni ereditarie. Sono proprio questi i casi in cui il nuovo proprietario del bene, non avendo la possibilità di poterlo conservare per valide ragioni, si trova a dover, anche contro voglia, disfarsene ricorrendo a volte anche al mercato antiquario o mercatini dell’usato. Questo potrebbe essere evitato qualora ci fossero strutture ricettive che si impegnino formalmente a prendere tali beni in consegna, catalogarli, schedarli e prevederne un uso pubblico. L’ente pubblico ricevente, già dall’atto della pre-donazione, si impegna a mantenere integro il fondo archivistico e bibliografico o l’insieme dei beni in via di acquisizione, che in futuro assumeranno come denominazione il nome del donatore o della sua famiglia; garantirne la buona conservazione da furti e smembramenti; renderli consultabili per facilitarne l’accesso a studiosi e ricercatori. Un punto che non può essere trascurato riguarda quello della collocazione fisica dei beni

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documentari donati che dovrà essere adeguata e coerente con la tipologia della documentazione acquisita. In altri termini la biblioteca di un archeologo, di uno storico dell’arte, di un architetto dovrebbe essere possibilmente conservata da Istituzioni che hanno a che fare con queste materie, non la metterei presso la Biblioteca della Facoltà di Agraria, dove invece collocherei volentieri le biblioteche di persone che si sono occupate di tale materia. Insomma la tipologia della Biblioteca donata dovrebbe suggerire il luogo migliore per la sua destinazione finale, fatte salve le volontà primarie del donatore. Il punto critico, come sopra si è avuto modo di dire, è quello degli spazi: infatti, la quasi totalità degli enti pubblici (Comuni, Province e Regione) ma anche di quelli statali (organi periferici del MIBACT), e le istituzioni culturali in genere non ne hanno più a disposizione e per questo non sono in grado nemmeno di accettare donazioni liberali. Senza una adeguata politica di acquisizione di nuovi e capienti contenitori si corre il concreto rischio che un immenso patrimonio documentario vada irrimediabilmente perduto. La realizzazione e la messa a punto di queste idee richiede il concorso prima di tutto del MIBACT – Soprintendenza archivistica e bibliografica dell’Umbria, ma anche della Regione Umbria, delle Province di Perugia e Terni, dei Comuni dell’Umbria, dell’Università degli Studi di Perugia, delle Fondazioni, e istituzioni culturali in genere che hanno a cuore e conoscono il valore delle biblioteche. L’Associazione italiana Biblioteche – Sezione Umbria, l’Associazione nazionale archivistica italiana – Sezione Umbria, la Deputazione di Storia Patria per l’Umbria e l’associazione INTRA sono disponibili a collaborare con gli enti interessati affinché si possano migliorare e sviluppare queste proposte che, prevedendo una maggiore fruizione dei beni documentari, potranno offrire ai cittadini nuovi mezzi e opportunità di approfondimento, sapere e conoscenza.


GIUSEPPE BEARZI Un “varietas culta” anche per i libri. La tutela del patrimonio librario esistente Oggi in Italia non esiste quanto necessario per opporsi al rifiuto generalizzato e praticato a tutti i livelli dei libri del passato, carenza che ogni anno ne determina la distruzione di centinaia di migliaia.

Molti giovani e qualche anziano si stanno accorgendo che istituzioni, imprese, partiti, affaristi e potenti si curano del presente con poco riguardo per il futuro. Questo atteggiamento mentale, benché dispiaccia a chi ama la vita, la natura, i libri, non tocca né chi dovrebbe prendere decisioni per il bene comune, impegnato com’è a governare, conservare, educare e decidere; né chi – preso dal proprio presente – spesso non vede l’altrui futuro. Forse neanche il proprio. Libri editi e inediti, corrispondenze, spartiti, studi, disegni, progetti etc. costituiscono il patrimonio cartaceo di una nazione, del quale, ogni anno, persone fisiche e giuridiche, anziché destinarlo alle istituzioni cólte dello Stato, lo scaricano nelle riciclerie dove è bruciato o lo convertono chimicamente ad altri usi. Non mi riferisco alle biblioteche specializzate degli studiosi, oggi considerate ingombri archeologici superati, ma a quelle ereditate da lettori comuni. I Cittadini più attenti denunciano questi biblicidi ormai da anni: tra le opere immolate, l’associazione INTRA che, con poche risorse ed energie, cerca di salvarle per farne “biblioteche tematiche dei libri salvati”, ne ha trovate di valore culturale, storico, documentale ed economico notevole, dimostrando così quanto sarebbe doveroso e indispensabile conser-

varle. Questo compito potrebbe essere svolto con una spesa modesta e in modo educativo, in collaborazione – da un lato – con strutture che oggi hanno il compito di distruggerle, le riciclerie soprattutto, attuando così una doverosa e indispensabile qualificazione del loro ruolo; dall’altro, beneficiando – grazie a questa civilissima iniziativa – le istituzioni e le associazioni, incaricate o dedite alla salvaguardia dei “beni comuni inalienabili”. Nel caso dell’Umbria, un lustro fa, l’associazione INTRA propose alla GESENU SpA (Gestione Servizi Nettezza Urbana) di Perugia un’idea per il salvataggio dei libri, applicabile ovunque, che allora fu accettato con entusiasmo: purtroppo, mancando allora a INTRA lo spazio dove ospitarli, non se ne fece nulla. Ora le cose sono mutate, perché il posto – almeno in Umbria e grazie al Comune di Marsciano – INTRA l’ha avuto. La stessa iniziativa potrebbe però essere attuata in tutte le Regioni, secondo una normativa dello Stato, che costituisca in ogni provincia delle entità, costituite da esperti che si occupino di Selezione e Controllo Opere destinate al Macero: chiamiamole ESCOM. Questi compiti dovrebbero essere svolti da esperti di archivistica, beni patrimoniali e culturali, musei, biblioteche, “biblioteche dei libri salvati” etc. e gestiti da professionisti eticamente e culturalmente pre71


parati a tutelare il patrimonio cartaceo. Ciascuna ESCOM dovrebbe innanzitutto redigere un disciplinare che definisca e distribuisca i compiti, stabilisca diritti e priorità, individui luoghi, ragioni e responsabili della distruzione e dispersione dei libri, istruisca le persone fisiche e giuridiche su modi e mezzi capaci di evitare lo scempio in atto. C’è un bella differenza tra il grano, ossia le opere da salvare, e il loglio, quelle effettivamente da immolare. Molte opere o loro parti non sono affatto rifiuti e tutte dovrebbero essere valutate in base ai loro requisiti – antichità, rarità, preziosità, unicità, caratteristiche estetiche, letterarie, scientifiche, economiche, stato di conservazione, data di redazione o pubblicazione, tipologia, finalità – da persone culturalmente preparate a farlo e ufficialmente delegate a svolgere tale compito. Il recupero dovrebbe tenere conto, oltre che dei valori citati, della loro possibile destinazione – sovrintendenze, accademie, università, scuole, biblioteche… –, del loro possibile utilizzo – studio, ricerca, approfondimento, collezionismo, disciplina… – e altro ancora. Chi, come INTRA, dal 2007 salva libri, sa quali e quante meraviglie ci siano tra quelli destinati al macero. In base ai loro effettivi titoli di merito si dovrà stabilire a quali istituzioni e associazioni dovranno essere assegnate: archivi di Stato, archivi locali, biblioteche pubbliche statali, biblioteche universitarie, biblioteche pubbliche, accademie, musei, Centri di Raccolta e Smistamento Libri (come quello INTRA di Marsciano), biblioteche pubbliche locali, biblioteche di enti culturali e di ricerca, “biblioteche dei libri salvati”, biblioteche private etc. Questa selezione dovrà essere affidata per i compiti più complessi a esperti di conservazione e biblioteconomia, che provvederanno anche alla formazione del personale delle riciclerie cui assegnare le fasi più semplici e operative del ciclo di recupero su campo. Al personale delle riciclerie gli esperti di conservazione libraria indicheranno quali testi o incartamenti siano veramente da macero – opere ammuffite, incomplete, in cattivo stato, libri per le scuole inferiori, dispense, fotocopie, enciclopedie da edicola… – e qua-

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li invece dovranno essere sottoposti al giudizio di ESCOM per un’assegnazione corretta delle opere da salvare. I potenziali destinatari dovrebbero provvedere almeno mensilmente all’esame e al ritiro delle opere di loro specifica pertinenza secondo un predefinito diritto di prelazione: archivi di Stato, accademie, musei, beni patrimoniali e culturali, biblioteche pubbliche, associazioni culturali, case di riposo, residenze sanitarie, insediamenti abitativi in comune, alberghi, residenze storiche, caffè, carceri, Centri Raccolta e Smistamento Libri e “biblioteche dei libri salvati”1. Dal percorso descritto si evince che le opere da immolare sono ridotte a quelle veramente inutilizzabili e a una parte di quelle scolastiche, giacché in passato l’associazione INTRA ne salvò un furgone per le scuole italiane di Timisoara in Romania e un carrello appendice di testi in lingua francese per la scuola di un’Opera Missionaria a Yopougon in Costa d’Avorio. Altre ancora le assegnò a scuole materne ed elementari del Perugino e a una residenza per Anziani a Lama (PG). L’esperienza degli enti di Selezione e Controllo Opere destinate al Macero e dell’asso1. In particolare, i libri in esubero rispetto alle scelte e capacità ricettive delle suddette entità, predestinate ad accettarli, potranno essere messi a disposizione di studiosi e bibliofili che ne faranno richiesta. A evitare ritardi, ingorghi o sottrazioni, le persone preposte a selezionare e destinare le opere salvate, al loro trasporto, al controllo delle attività da svolgere e del rispetto delle operazioni necessarie dovranno essere preparate in un breve seminario curato da ESCOM e, se non fossero già retribuite dagli enti destinatari dei libri, dovranno ricevere una giusta mercede per le prestazioni fornite. Le opere recuperate, destinate per competenza agli ESCOM che non le avranno potuto ritirate dalle riciclerie alle scadenze prefissate, saranno portate al Centro INTRA di Raccolta e Smistamento Libri di Marsciano (o di altri che sorgeranno) insieme a quelle non assegnate e da lì potranno essere ritirate successivamente, in quanto poste in un reparto riservato esclusivamente agli ESCOM. Anche tale servizio, che implica raccolta, classificazione e archiviazione temporanea, sarà ricompensato in modo proporzionale al lavoro richiesto. Le opere ritirate dagli enti e dagli istituti pubblici saranno gestite in base ai loro regolamenti, mentre le opere affidate ai Centri Raccolta e Smistamento Libri, saranno classificate secondo le tematiche stabilite dagli ESCOM locali per consentire alle “biblioteche tematiche dei libri salvati” del territorio di ritirare quelle di loro specifico interesse.


ciazione INTRA con le sue “biblioteche dei libri salvati” potrebbe essere applicata in altre regioni, avviando iniziative complementari, durevoli e non effimere, come troppo spesso accade; mentre, per le destinazioni da tempo consolidate, potrebbe essere sviluppato lo scambio tra biblioteche e biblioteche, arricchendo quelle più sprovviste, liberando spazi in quelle più votate all’attualità e specializzando quelle di paese agli specifici interessi del loro genius loci, rendendo così l’editoria meno

esposta alla speculazione finanziaria, ma anche più aderente agli interessi dei lettori. Con poca spesa e con il coinvolgimento delle istituzioni, esiste quindi non solo il modo di tesaurizzare un patrimonio che oggi si sta bruciando (o disperdendo), ma anche quello di sottrarre alla dilagante superficialità, al dilettantismo e all’improvvisazione pubblici più vasti, offrendo loro il conforto ineguagliabile della lettura e l’amore per la conservazione e la conoscenza dei libri.

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ENZO SANTESE Civitas e liber. Per una valorizzazione dei testi stampati su carta Oggi in Italia non esiste quanto necessario per opporsi al rifiuto generalizzato e praticato a tutti i livelli dei libri del passato, carenza che ogni anno ne determina la distruzione di centinaia di migliaia.

Nella riflessione è sempre bene partire da qualche punto fermo e, allora, conviene precisare che nessuno può additare l’e-book come unico responsabile per la crisi del libro. In ogni caso quello stampato ha un valido complemento in quello virtuale che, in tal modo, si afferma come una risorsa culturale e formativa aggiuntiva. Detto da me è ancor più credibile perché amo il libro di carta e non ho alcun timore di generare il minimo sospetto di tensione “feticistica” se tengo in mano un libro stampato e spesso, oltre al primario desiderio di leggerlo, colgo il senso della sua fisicità nella ricezione sinestetica della sua struttura: in un rapporto tattile con copertina e carta, nella connessione visiva, ovviamente, per la lettura, financo nella ricerca di un’identità olfattiva. Anche se le statistiche danno talora l’idea di essere addomesticate ad usum delphini, pare di poter assumere come vero, pur con il beneficio d’approssimazione, che della miriade di titoli sfornati ogni anno 6 su 10 non vendono praticamente alcuna copia, gli altri quattro si dividono la fetta esigua dei potenziali fruitori con il risultato che le vendite languono e lo sforzo pubblicitario degli editori non è compensato da una risposta adeguata. Questo è già uno dei problemi che tengono lontani e demotivano i potenziali fruitori, frastornati dal cumulo delle proposte, per la maggior parte di qualità per lo 74

meno discutibile. A ciò si aggiunge la questione dei librai che, lungi dall’essere dei venditori da mercato, dovrebbero essere dei “tecnici” competenti dei vari aspetti inerenti al prodotto editoriale; pertanto dovrebbero arrivare al loro mestiere conoscendo profondamente le interne dinamiche del rapporto autori-editori-fruitori e considerare il loro luogo di lavoro non soltanto di commercializzazione di titoli, ma anche un vero e proprio polo di servizio culturale, svolto magari nella duplice dimensione del fisico e del virtuale. Questo serve soprattutto nei centri di alto profilo artistico come Orvieto che hanno una storia scritta anche nella loro logica urbanistica, nella scansione architettonica degli spazi cittadini, nei patrimoni d’arte oltre che nelle dotazioni naturali del luogo. Respirare la città significa anche affidarsi al flusso dei suggerimenti e all’ausilio delle suggestioni che provengono dalla sua storia consegnata alle immagini e ai testi e passata nel confronto con la cronaca attuale. Lavorando con i libri immateriali per questioni di praticità imposta dal calendario degli impegni, avverto spesso la nostalgia della carta, maneggiando la quale risulta più completa e vicina alle mie abitudini la liturgia della lettura. E proprio i libri di arte (intesa nella loro estensione significante massima: pittura, scultura, architettura e, perché no, urbanistica),


hanno una loro sacralità che reclama la carta come superficie di confronto e di analisi più adatta. Le nuove tecniche viaggiano verso obiettivi di regolamentazione dei prezzi (elemento decisivo talora nella scelta dell’e-book a scapito del libro cartaceo) possibili con le nuove tecnologie di stampa digitale, cosicché il costo sarà compresso e portato a livello dei piccoli libri. In tal modo l’idea di Voltaire trova una risposta anche nel presente; infatti due secoli e mezzo or sono nell’Histoire de l’établissement du christianisme del 1776 (Edizioni Kehl) si afferma che «venti volumi in folio non faranno mai le rivoluzioni: sono i piccoli libri portatili, da trenta soldi, che sono da temere. Se il Vangelo fosse costato mille e duecento sesterzi, la religione cristiana non avrebbe mai preso piede». Come dire che anche libri di pregio, di grandi dimensioni, costando poco hanno la medesima incidenza nelle coscienze (dei lettori) rispetto agli altri. Questo serve a disattivare in parte il pericolo del “totalitarismo informatico” o “cybercollettivismo, che è in grado di fondere e mistificare tutte le informazioni dentro un pastone indefinito nei suoi componenti, dove non è più possibile riconoscere la fisionomia degli autori e isolare le emergenze di qualità. Il prodotto stampato è destinato a uno sviluppo negli anni a venire all’interno della città, proprio dentro il suo nucleo storico, in librerie a “misura d’uomo che legge davvero” e, quindi, non pachidermiche come le grandi catene di distribuzione che “inondano” i centri commerciali con l’accatastamento di migliaia di titoli. Si parla ovviamente del libro stampato con tutti i crismi dell’eleganza tipografico-editoriale e della indubbia valenza significante del contenuto. È necessario inventare una strategia dal punto di visto commerciale, pensando che il libro viaggia verso i destinatari se gli si dà il combustibile per essere scelto, accolto o, nel peggiore dei casi, “subìto”. Per i libri di narrativa, poesia e saggistica, è necessario uscire dal ristretto numero degli affezionati al libro e all’abitudine di respirare l’aria della libreria “cartacea” e promuovere le vendite collocando idealmente questo prodotto alla stregua di

tutti gli altri, con promozioni di vario genere, con richiami pubblicitari collettivi (più libri di una stessa collana, oppure più volumi di una medesima edizione), perfino con fidelizzazioni con premi finali (sempre in libri) come avviene per esempio con qualsiasi caffè oppure acqua minerale. E per questo è consigliabile contare sul nucleo più resistente ai colpi onnivori dell’editoria “immateriale”, costituito dai libri d’arte, da quelli per l’infanzia (che contengono quegli straordinari pop up che rendono il libro una sorta di gioco) e dalle graphic novel. Attorno a questi è possibile far ruotare di volta in volta i generi che la risposta del pubblico qualifica di più, secondo la tipologia dei luoghi, le abitudini dei cittadini e la storia della città.

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FRANCO PAPETTI Libri, testimoni del passato per fare il futuro: Fiume

Se chiedi ad un italiano cosa sia Fiume, le risposte saranno le più variegate: c’è chi ti risponderà, e purtroppo sono la maggior parte, che non lo sa, chi legherà il nome a D’Annunzio senza saper altro e chi, i più informati, pochissimi, diranno che è Rijeka, il più importante porto della Croazia. Ma cosa è successo a questa città posizionata sul golfo del Quarnaro che con una storia bimillenaria gli italofoni hanno sempre chiamato Fiume e ora chiamano Rijeka? E qui val la pena parlare del valore della carta stampata che ci può dare qualche indizio sul passato di questa meravigliosa città. Fiume è sempre stata una città di frontiera, si badi bene dico di frontiera, non di confine, ossia è stata una città dove si sono incontrate le culture italiane, slave, tedesche ed ungheresi dove la lingua di comunicazione era il veneto “di là da mar” come era detto. Se un turista va oggi a Fiume in quella che era la piazza delle erbe vede un busto dedicato al principale storico fiumano dell’epoca moderna Giovanni Kobler (1811-1893) che in mano ha un libro sul quale c’è scritto in italiano “Storia della città liburnica di Fiume”. Ecco questo è un indizio importante della storia di questa città che ha difeso con testardaggine e decisione la sua particolarità di essere una città multietnica “ante litteram” dove l’italiano era la lingua utilizzata. 76

Difese sempre la sua autonomia municipale nei secoli, confermata da Ferdinando d’Asburgo nel 1530; non fu mai dominata da Venezia a parte la distruzione del 1507 e 1509 e la lingua franca era l’istroveneto confermata da un documento del notaio Antonio De Reno nel 1449 con la “tariffa del mercato del pesce” che dimostra appunto che l’italiano era la lingua del popolo, la lingua di comunicazione tra tutte le nazionalità che vivevano nella città. D’altro canto era già citata da Dante nel canto IX dell’Inferno come limite dell’Italia “Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna” (Inferno, Canto IX, 113-114)”, confermando che già nel trecento al golfo del Carnaro, dove si trova Fiume, venivano posti i confini della nazione italiana. Il censimento asburgico del 1910 rileva che su un totale di 49.806 abitanti il 48,61% era di lingua italiana, 25,95 % di croati, il 13,04% di ungheresi. Con l’annessione all’Italia il 27 gennaio 1924 la maggioranza di lingua italiana salirà ancora fino a raggiungere il 70% del totale nel 1945 quando avverrà la cesura storica a seguito dell’annessione alla Jugoslavia. Nel censimento di Fiume del 1942 su una popolazione totale di 60.892 abitanti, coloro che si dichiaravano di lingua italiana erano 41.314 (67,8%). Se prendiamo il censimento jugoslavo del 1961, quando l’esodo si era con-


cluso, coloro che si dichiarano di nazionalità italiana ammontavano a 3.247. Considerando la differenza tra questi numeri e anche coloro che giunsero a Fiume dopo il 1945, i così detti monfalconesi, coloro che abbandonarono la propria città in meno di un decennio furono circa 38.000 (oltre al 90%). L’urbicidio di Fiume si stava compiendo. Cambiavano i nomi delle vie della città, veniva cambiata la bandiera della città, cancellati i simboli plurisecolari, l’aquila bicipite collocata sulla Torre civica, già decapitata di una testa dai legionari dannunziani, veniva tolta nel 1949 perché simbolo dell’Impero austro-ungarico e poi del regime fascista italiano, abolite le insegne in italiano dei negozi, abolito il bilinguismo, chiuse la maggior parte delle scuole in italiano. Ma la domanda che ci assilla è quella perché oggi gli italiani chiamano Rijeka una citta che si è chiamata per secoli Fiume? Nel 1867 lo storico croato e uno dei principali teorizzatori ottocenteschi dello jugoslavismo, nativo di Fusine nel Goski Kotar nei pressi di Fiume e fondatore con il vescovo J. J. Strossmayer delll’Accademia jugoslava delle scienze e delle arti di Zagabria, scrisse un libro nel quale voleva sottolineare la croaticità della città di Fiume che aveva il titolo Rijeka prama Hrvatskoj; Racki volle poi tradurre il suo libro in tedesco per meglio diffondere le sue teorie ma si rese conto che per identificare la città era necessario utilizzare il nome con il quale era conosciuta e scelse il titolo Fiume gegenueber von Croatien. Il nome della città che è succeduta alla romanica Tarsatica è sempre stato quello di Fiume, derivato da quello di San Vito al fiume, ed utilizzato non solo dagli italofoni ma in tutte le lingue del mondo, ad eccezione della lingua slave naturalmente. Questo è dimostrato anche da tutte le stampe dei maggiori cartografi del Seicento, Settecento e Ottocento (Mercatore, Ortelius, Magini, Blaeu, ecc.). Ancora oggi in molti Paesi del mondo il nome ufficiale della città di Rijeka è abbinato a quello di Fiume. Il nome Fiume accrebbe la sua fama e conoscenza nel mondo ed in Italia nel dician-

novesimo secolo per essere uno tra i porti più importanti del mediterraneo e nel Ventesimo secolo sia per l’epopea dannunziana che per essere divenuta provincia italiana nel 1924. Questo durò fino al 1945/1947 quando a seguito dell’inclusione di Fiume nella Repubblica socialista jugoslava il nome ufficiale divenne Rijeka che poi non è altro che la traduzione in croato del toponimo italiano. Vale la pena chiarire che i nomi delle città hanno sia una denominazione che chiameremo “ufficiale”, che è il nome che viene dato dall’autorità dominante, sia un nome che chiameremo “culturale”, frutto della tradizione e cultura di un popolo. Chiameremo quindi endonimi stranieri i nomi ufficiali delle località in aree in cui non si parla la lingua italiana ma sono utilizzati da chi parla la lingua del posto ed esonimi italiani per riferirsi ai nomi impiegati dalla tradizione e cultura dagli italofoni per riferirsi a località poste in zone in cui non si parla la lingua italiana. Facciamo alcuni esempi: all’endonimo Paris corrisponde l’esonimo Parigi, Belgrado per Beograd, Zagabria per Zagreb, e così via. Nel caso della nostra città all’esonimo Fiume corrisponde l’endomino Rijeka. È chiaro che quando non esiste una tradizione culturale esiste solo un nome che è quello che abbiamo chiamato ufficiale e quindi endonimo ed esonimo coincidono. Sono trascorsi 75 anni da quando Fiume con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 è parte prima della Jugoslavia ed ora dal 1991 della Repubblica croata. Ora sorge naturale una domanda dopo quanto abbiamo detto: perché frequentemente capita di veder utilizzato dai mass media in Italia ma anche da storici ed intellettuali l’endonimo Rijeka al posto dell’esonimo Fiume? Le motivazioni sono varie e possono essere così riassunte: • perdita di coscienza nazionale ed ignoranza; • per oltre settant’anni è stata completamente nascosta la storia del confine orientale sia da storici, intellettuali che dalla cultura in genere. Solo dopo la caduta del 77


Muro di Berlino ed il tracollo della Jugoslavia si è aperto uno squarcio sulla triste storia della Venezia-Giulia; • per una cultura specificatamente di sinistra Fiume è stata per lungo tempo considerata una conquista fascista e quindi è prevalsa l’ideologia di considerare giusto il ritorno all’uso del nome croato precedente (sic) che quindi era Rijeka; • mancanza di informazione nelle scuole, come appurato dalla studiosa Maria Ballarin nel libro Il trattato di pace del 10 febbraio 1947 nei programmi e nei testi scolastici di storia: nei libri di scuola di ogni ordine le vicende del confine orientale o sono state trattate in maniera non obiettiva oppure sono state completamente trascurate. Solo recentemente le cose sono cominciate a cambiare; • la pubblicità turistica, soprattutto da parte della Jugoslavia, ha usato sempre endonimi croati e quindi, nel vuoto causato dai punti sopra citati, ha imposto il nome Rijeka; • a tutto questo si aggiunga un vezzo tutto italiano di esterofilia che non guasta mai. Ora a questo problema che è proprio della cultura italiana in generale si innesta il fatto che esiste una minoranza italiana a Fiume. La minoranza ha dovuto negli anni Novanta, quando si è costituita la Repubblica di Croazia, lottare per far sì che fosse riconosciuta la sua autoctonia e quindi la denominazione della città in Fiume rappresenta il suo bastione culturale ed identitario. La seconda guerra mondiale ha portato – come diceva lo storico Ernesto Sestan – allo “sradicamento della quercia della cultura romana e poi veneziana dalla sponda orientale adriatica”. Molti, anzi moltissimi fiumani, esuli nel mondo tra mille difficoltà, sono riusciti ad emergere nei propri campi professionali; ne citerò con orgoglio solo alcuni: Leo Valiani, giornalista, politico, costituente, senatore a vita; Paolo Santarcangeli, scrittore e professore universitario; Giorgio Radetti, storico,

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filosofo e professore universitario; Enrico Burich, filosofo e professore universitario; Gemma Harasim, pedagogista; Marisa Madieri, scrittrice; Enrico Morovich, scrittore; Mario Dassovich, storico e scrittore; Giovanni Angelo Grohovatz, scrittore e giornalista; Diego Bastianutti, scrittore e poeta; William Klinger, storico e scrittore; Gino Brazzoduro, scrittore; Valentino Zeichen, poeta; Giovanni Stelli, filosofo e storico; Diego Lazzarich, professore universitario; padre Sergio Katunarich, scrittore e poeta… e tantissimi altri. Ma anche coloro che sono rimasti hanno dovuto affrontare la tragedia di essere diventati minoranza, esuli nella loro città natale che aveva cambiato completamente la propria stuttura etnica. “Esule a me stesso mi sento” – scrive in una poesia il poeta Osvaldo Ramous, una delle voci più alte del panorama letterario fiumano, in un contesto che “ogni giorno mi ridiventa straniero”. Si sentiva esule in patria con i pochi che come lui considerava “veterani di fughe mancate”. Quanta sofferenza. Ecco dopo questa lunga dissertazione culturale innestiamo il progetto delle biblioteche a tema di INTRA al quale come Presidente dell’Associazione fiumani nel mondo sono particolarmente interessato in quanto permetterebbe la riunione in una sola biblioteca degli scritti sia storici, sia letterari di coloro che decisero di esodare dalle terre annesse alla Jugoslavia dopo la seconda guerra mondiale, sia di coloro che decisero di restare. Termino questa mia relazione dedicando al progetto INTRA un aforisma di Gustave Flaubert: “non leggete come fanno i bambini per divertirvi, o, come fanno gli ambiziosi, per istruirvi. Leggete per vivere”.


MAURIZIO CAMINITO E-LOV – LEGGERE OVUNQUE. Un progetto del Forum del libro in collaborazione con LiberLiber

Gli obiettivi E-LOV – LEGGERE OVUNQUE rimanda ad un’offerta di lettura che viene realizzata al di fuori dei luoghi deputati (biblioteca, libreria, scuola) che abitualmente vengono frequentati da chi è già un lettore. Lo scopo principale è interessare e incuriosire i non-lettori. E-LOV – LEGGERE OVUNQUE prefigura una biblioteca urbana diffusa, collocata strategicamente nei luoghi cittadini di transito: strade, piazze, mercati, fermate degli autobus, stazioni ferroviarie e della Metro. È un invito a esplorare le città per vivere un’esperienza di “apprendimento dappertutto”. Un luogo della città, come ne esistono tanti, molto frequentato e con una sua funzione ben individuabile legata alla vita quotidiana, diventa anche una biblioteca, senza perdere ovviamente le sue caratteristiche peculiari. Una biblioteca particolare che compare in modo inaspettato e che può contribuire a rileggere un luogo della città, con uno sguardo diverso. E-LOV – LEGGERE OVUNQUE intende promuovere l’accesso libero alla lettura e alla fruizione dei prodotti culturali. Contempla al suo interno sia i diversi aspetti del multicul-

turalismo, a partire dai flussi dei migranti con cui condividere lo spazio pubblico dei nostri territori, sia nel contesto di un turismo da riconfigurare. E-LOV – LEGGERE OVUNQUE si inserisce nella mutazione in atto della pratica del leggere. La lettura in movimento, sui propri device personali, si sta affermando come una delle modalità di fruizione più diffusa di contenuti testuali, sonori e multimediali. E-LOV – LEGGERE OVUNQUE invita a considerare il web come nuovo spazio pubblico per l’apprendimento continuo, sottolineando l’aspetto della lettura «aumentata» come chiave di accesso ai contenuti digitali (dal libro al web e viceversa). E-LOV – LEGGERE OVUNQUE vuole promuovere e pubblicizzare l’attività di Liber Liber, che opera da 25 anni per la fondazione di una biblioteca telematica accessibile a tutti, gratuitamente. E-LOV – LEGGERE OVUNQUE ambisce a promuovere i classici di tutto il mondo, spesso dimenticati dal grande pubblico, in quanto fuori dai circuiti editoriali commerciali.

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Cosa contiene Tutti i titoli sono fuori diritti e sono quindi scaricabili liberamente sul proprio smartphone o tablet. I testi, gli audiolibri e i brani musicali fanno parte della libreria di LiberLiber, l’organizzazione di volontariato che ha costituito la più grande biblioteca digitale italiana accessibile gratuitamente. Le sezioni di e-LOV disponibili attualmente sono diciotto, per un totale di circa 250 titoli: Classici italiani, Classici da tutto il mondo, Classici per ragazzi, La scrittura delle donne, Poesia, Teatro, Idee dal mondo, Il viaggio, I racconti brevi, Cibo e cucina, Libri in inglese, Libri in francese, Libri in spagnolo, Libri in rumeno, Libri in bengalese, Audiolibri, Musica sinfonica e da camera, Opera. Tra gli autori presenti troviamo scrittrici notissime come Louisa May Alcott, Charlotte Brontë, Grazia Deledda, oppure autori per ragazzi come Hans Christian Andersen, Vamba, Lewis Carroll, Carlo Collodi. I grandi classici italiani sono rappresentati, tra gli altri, da Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Alessandro Manzoni, Filippo Tommaso Marinetti e quelli provenienti da tutto il mondo sono Miguel de Cervantes, Dickens, Dostoevskij, Flaubert, Goethe, Gogol, solo per citarne alcuni. Baudelaire, Belli, Boccaccio, Byron, Campana, Foscolo sono presenti nella sezione dedicata alla poesia. Mentre la sezione teatrale raccoglie, tra gli altri, testi di Goldoni, Ibsen, Pirandello e, naturalmente, Shakespeare, presente con ben cinque sue opere. Le ultime due sezioni sono raccolte musicali, quindi in questo caso si possono ascoltare brani di musica classica di Albinoni, Bach, Beethoven, Berlioz, Brahms, Čajkovskij, Chopin, Debussy, Liszt, oppure arie celeberrime da opere famose, quali “Casta diva” da La norma di Bellini dalla voce di Maria Callas od ouvertures e arie da Il barbiere di Siviglia, Aida, Turandot, oppure da L’oro del Reno e Tristano e Isotta di Richard Wagner. Come funziona La biblioteca virtuale di e-LOV si presenta con una serie di grandi pannelli (attualmente

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il formato più usato è di 200x140 cm) raffiguranti copertine di libri. Per leggere uno dei libri digitali è sufficiente selezionare il QR-Code riprodotto sull’opera scelta, inquadrandolo con il proprio smartphone o tablet. In questo modo i libri (o i brani musicali, perché ci sono anche sezioni dedicate alla musica classica e all’opera) o gli audio-libri saranno scaricabili e disponibili per la lettura o l’ascolto sul proprio dispositivo. Il numero, la grandezza e la composizione dei pannelli della biblioteca possono variare a seconda dello spazio disponibile ad essere «riconfigurato»: atrio di una scuola, lungo corridoio, grande sala, piazza, muro o pensilina all’aperto. Anche le sezioni sono modulabili a seconda del luogo in cui la biblioteca virtuale verrà fruita e in considerazione dei possibili fruitori.




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E-LOV – LEGGERE OVUNQUE. Un progetto del Forum del libro in collaborazione con LiberLiber

3min
pages 80-83

Libri, testimoni del passato per fare il futuro: Fiume

8min
pages 77-79

Civitas e liber. Per una valorizzazione dei testi stampati su carta

4min
pages 75-76

Un “varietas culta” anche per i libri. La tutela del patrimonio librario esistente

6min
pages 72-74

Il futuro dei luoghi della lettura di una città: la libreria

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pages 61-62

“L’insegnamento di Monaldo”. Le biblioteche d’autore in Umbria: problemi e prospettive

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pages 67-71

La cultura del viaggio attraverso le guide per viaggiatori e turisti

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pages 63-64

Inventare il futuro: dalla parte della lettrice

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pages 65-66

Libri e saperi. Chiavi per riscoprire e restituire alle città il loro “genius loci”

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pages 59-60

Dal libro alla città, dalla città al libro: alla ricerca delle qualità urbane

9min
pages 55-58

Congetture e auspicii di un correttore di bozze

6min
pages 50-54

Sarebbe il caso di capirsi

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pages 48-49

Basta con i libri?

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Pbv: il futuro dei libri e la vendita propositiva

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pages 45-46

La traduzione luogo di incontro verso l’altro

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pages 41-42

Per il futuro del libro

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Per il futuro del libro: appunti

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Le 10n vite del libro

10min
pages 35-38

La Carta Cenerentola

1min
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Le Tavole Eugubine? Un monumento alla tangibilità del libro

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pages 13-16

Apri lo scrigno. Editoria innovativa per un rapporto inclusivo e partecipato con la lettura

1min
page 23

Più tangibile e materiale di così…: il libro manoscritto

17min
pages 17-22

Del libro gli inesauribili sensi

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pages 31-34

La crisi del libro è irreversibile?

4min
pages 28-29

Con un libro in mano. I libri, mattoni per costruire la civiltà

5min
pages 26-27

La resilienza dei libri. Il caso della biblioteca “La Fornace”

3min
pages 24-25
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