ALESSANDRA PELIZZARO La traduzione luogo di incontro verso l’altro L’atto di tradurre si fa carico di dare voce alle tracce ancestrali e perdute dai tempi di Babele e ci pone di fronte all’esigenza della traduzione come sopravvivenza. La traduzione si manifesta quindi come un incontro, una relazione che sorge dalla stessa tensione che anima ogni forma di scrittura. Da sempre l’essere umano si è messo in ascolto per comprendere linguaggi diversi con l’esigenza di superare il limite e il mistero delle parole per entrare in contatto con l’altro. In futuro la tecnologia potrà sostituire anche questa attività umana? Lo scenario immaginabile ci pone di fronte all’evidenza di una tecnologia di supporto alla traduzione ma mantenendo imprescindibile l’umanità interpretativa ad opera del traduttore per non tradire il testo e per farsi voce tra i popoli.
Tutti sappiamo quanto la traduzione sia una prerogativa imprescindibile del libro in sé. L’esigenza di tradurre nasce infatti dal desiderio di superare il confine delle parole, un limite da oltrepassare per divenire incontro. Dai tempi della Genesi l’uomo si è sempre messo alla ricerca di comprendere il linguaggio altrui. Tradurre è un desiderio totale di possedere le parole e le sensazioni vitali che emergono dall’opera. È una lotta che unisce il lettore all’autore, facendoli compagni che cercano il volto di quell’immagine originale che trapela tra le righe: la presa di coscienza non è sufficiente, viviamo in uno stato di mancanza ed esilio dai tempi di Babele1 dove il nostro limite, sempre attuale, è rappresentato dalle parole e questo limite esige e ci impone la traduzione: “Dall’origine dell’originale che verrà tradotto, c’è caduta ed esilio. Il traduttore deve salvare, assolvere, risolvere, cercando di assolvere sé stesso dal proprio debito” (Derrida, 1985, p. 17). Il traduttore diventa intermediario tra le parole e conduce il lettore verso ciò che era perduto nella confusione creata da Babele dando voce all’incomprensibile. Svelare le parole significa 1. “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro […] Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra” (Bibbia, Genesi, 11, 8-9).
40
mettersi in ascolto; togliere il velo al mistero del linguaggio presuppone entrare in relazione e tendere la mano verso l’altro per farsi dono in virtù della parola senza dimenticare la grazia attraverso la quale questo è possibile. La traduzione appare come una condizione eterna in cui viviamo sottomessi, in perenne tensione per superare l’isolamento da e tra le parole. Tradurre diventa allora un bisogno di recuperare qualcosa di perduto e questo bisogno è, secondo Ricoeur (2001a, p. 18), anche un desiderio irrefrenabile di tradurre che va oltre l’obbligo e l’utilità perché ogni traduzione sarà sempre necessariamente possibile in virtù della lingua originale perduta. Così la traduzione va più in là della mera fedeltà linguistica in cui il poeta interviene in una riscrittura intima e personale del testo. Negli ultimi trent’anni la tecnologia è approdata anche in questo campo arrivando a produrre software capaci di comprendere i linguaggi con l’obiettivo di velocizzare la traduzione di testi e certamente è venuta in aiuto al lavoro del traduttore ma non si può certo affermare che la comprensione delle strutture grammaticali, sintattiche e semantiche di una lingua possa essere un’azione da affidare ad un computer. Basti pensare alla comprensione di frasi fatte, doppi sensi, metafore e altre figure retoriche o anche solo il linguaggio colloquiale che caratterizzano ogni