THE PEAK
SOMMARIO
I nostri MIGLIORI AUGURI 3
Sommario 5
La politica in controluce: Giorgia Meloni, Biancaneve 7
La Sinistra che deve fare la Destra 8
ANNO 8 - DICEMBRE 2022
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Notizia del mondo: il Brasile del dopo Bolsonaro 10
Politica e territorio: piccoli comuni grandi problemi 13
Il personaggio: Gios Bernardi e i suoi primi cento anni 15
In treno fra le vette innevate 19
Essere con l’Africa e non per l’Africa 20
Per non dimenticare: Auschwitz 22
La festa di Natale tra storia e leggenda 25
Natale con i tuoi, ma ama anche gli altri 26
La befana: tra storie e misteri 27
Il personaggio: Francesco Moser 28
Il senso religioso: come funziona la coscienza 30
I nostri romanzieri: Gabriele Biancardi 32 Europa, giovani e società: Visioni d’Europa 34
Sor’acqua e Fra sole 36
Un posto in prima fila per la fine del mondo 39
Il Coro Lagorai, quarant’anni di storia 40
Per non dimenticare: il Comandante Pietro Moriconi 42
Facciamo rinascere Mariupol’ 44
Carlo Primo, il Beato Imperatore 46
L'amicizia intergenerazionale 51
Società oggi: la festa dell’albero 52
Coppie che scoppiano: quando arriva la castità 54 Uomo, natura, ambiente: professione vetrinario 56
Il concerto di Natale della Cassa Rurale Alta Valsugana per il CIAD 59
La Cassa Rurale Alta Valsugana vince il primo premio 61
La letteratura per il BenEssere 62
Architettura in controluce: il cappotto made in Italy 64
Noi e il territorio: tracce di castagne 66
La natività nell’Arte: la magia del presepe 68
Italo Calvino, poliedrico scrittore 70 Marcello Baldi, una vita per il cimena 73 Uomo, natura ambiente 75
Medicina & Salute: il dolore attraversarlo per superarlo 76 Medicina & Salute: le fatiche di essere mamma 78
Castello Tesino in cronaca: adotta un grifone 81 Salute & Benessere: il freddo d'inverno 83
La storia dell’Officina elettrica del Tesino 84
La vite sul colle di Tenna 86
Monsignor Pasquale Bortolini 89
I cani soldato della Prima Guerra Mondiale 90 Che tempo che fa 92
Le leggende della Valsugana: le belle Vivane 94
ABBIGLIAMENTO E INTIMO DA 0 A 99 ANNI
La politica in controluce
di Laura MansiniIl presidente Giorgia LA MELA DI BIANCANEVE
Il 25 Ottobre 2022 è diventata Presidente del Consiglio Italiano l’Onorevole Giorgia Meloni. Un evento che ha sconvolto l’opinione pubblica internazionale, e natural mente, soprattutto quella italiana, che ha visto “rompere il tetto di cristallo”, da una donna della Destra, di destra -centro.
Devo dire che è stata brava, davvero brava ad imporsi all’interno di partiti notoriamente maschilisti, mentre la nostra Sinistra, alla quale vanno ascritte importanti battaglie per i di ritti sociali, antifascista, democratica, non è riuscita mai a trovare la forza di guardare alle donne , grandi compa gne di battaglie civili, come possibili Presidenti del Consiglio e tanto meno di Presidenti della Repubblica. Giorgia Meloni ha davvero un’altra storia, si è imposta con la sua forza e la voglia di riscatto sociale. Nata nel 1977 alla Garbatella, un quartiere periferico di Roma, è davvero molto preparata e quando l’ho ascoltata durante il suo discorso di insediamento sono rima sta sorpresa. Sono stata per trent’an ni critico teatrale e ho insegnato quest’arte ch’è fatta di oratoria, come raccontano i classici greci e romani, di impostazione della voce, di prossemi ca, linguaggio del corpo. E’ stata quasi perfetta, qualche cedi mento al romanesco, un “ qui famo le tre”, come ci raccontano i colleghi che c’erano, rubato dai microfoni, un’occhiata di troppo, qualche mezzo sorriso. Un leggero cedimento ironico con Conte. Per il resto chapeau! Da donna a Presidente, complimenti! Lei, una giovane donna, piccola, fra gile, bionda, in mezzo a maschi Alfa come Salvini e Berlusconi ha vinto.
Ben impostata la voce, con i giusti toni, le pause ad effetto, i momenti di storia personale intensi, coinvolgenti, per 70 minuti mi ha affascinato. Lo ha fatto subito iniziando a ringraziare grandi figure femminili del passato e del presente come Tina Anselmi, Nilde Iotti, Samantha Cristoforetti elencandole esclusivamente con i loro nomi. Parlando del suo rapporto con la politica, nato in seguito alla notizia dell’uccisione da parte della mafia di Paolo Borsellino, quindi giù duri con la malavita organizzata. Rassicurato il ceto medio, rintuzzato ogni sospetto su aumenti delle tasse; tranquillizzati i più deboli con l’a pertura alla mobilità sociale, largo ai meriti quelli acquisiti a scuola e non per conoscenze, porti sicuri anche se non inaccessibili. Un panettone di Natale costruito
con determinazione, applicazione ed intelligenza.
Insomma un percorso “coerente” come dicono i suo ammiratori e fra loro quei maschi alfa che ho visto spesso sogghignare, anche nella mia esperienza di Sindaco pensando “mandiamola avanti” che poi...E poi nulla, poi scoprono che esiste la don na Alfa che non ha etichette ideolo giche e se le ha sono solo sovrastrut ture. La donna alfa è in competizione costruttiva con chi, di qualunque genere, la ostacola e, a chi si crede più forte, serve la famosa mela di Biancaneve. Bella fuori ma dentro non ha miele, bensì fiele. Gli uomini sono avvisati, loro, la nostra “metà del cielo”, devono collaborare per il bene comune. Chi forse aveva in mente di usare il sesso debole ha già mangiato una parte della mela di Biancaneve.
Democrazia e partiti
LA SINISTRA CHE DEVE FARE LA DESTRA
Sui giornali, in occasione della vittoria del Centro Destra alle Politiche di fine settembre ed a seguito dell’ampia fiducia avuta dal nuovo governo il 26 ottobre scorso,
due temi di Politica sono ora pre ponderanti in un dibattito politico altrimenti animato un protago nismo assolutamente modesto e fine a sé stesso e, come sempre, da troppi “benaltrismi”.
Uno è quello della ripresa del cammino delle riforme sulle de leghe ai territori previste al Titolo V della Costituzione che, grazie alla presenza nel Governo di un senatore Calderoli circondato da stima unanime, potrebbe andare oltre lo strappo creatosi con la approvazione a maggioranza della legge costituzionale n° 3 il 18 ottobre 2001. .
L’altro, su cui invece mi soffer merò, trova la sua radice nel modo nuovo in cui venne a declinarsi in Italia il Progressismo di Sinistra dopo che, con Tony Blair nel Regno Unito prima e con Gerhard Schröder in Germania poi, la rinuncia da parte di quella Sinistra Europea che si preten deva globale dell’ambizione a “superare” il Capitalismo ed a rifugiarsi in un più pragmatico e forse profittevole Riformismo. De legando così una volta di più alla Chiesa Cattolica di Roma la pre tesa di portare un messaggio che fosse rivoluzionario ed universale. In Italia, tramontate il 24 mar zo 1999 in Kosovo le residue ambizioni dell’Ulivo prodiano, nato poi nel 2007 al Lingotto di Torino, simbolo del Capitalismo Industriale Italiano, il PD del “ma anche” di Valter Veltroni per “Riunire l’Italia, farla sentire di nuovo una grande nazione, cosciente e orgo gliosa di sé”, come dice anche oggi
Giorgia Meloni che a quel PD oggi si contrappone con successo, con la vittoria di Renzi alle Primarie del dicembre 2013 e quelle promesse di rottamazione si aprì quel Congresso
Democrazia e partiti
Permanente che forse si concluderà nel 2023 o forse no. Nel frattempo un PD che ha fatto delle divisioni la sua cifra distintiva ci ha regalato l’ingresso nel PSE, la scommessa perduta di fare dei Diritti Individuali lo sfondo progressista per l’abbandono di quei Diritti Sociali su cui si fonda la Costituzione, una dein dustrializzazione del Paese costruita nella convinzione che la gestione del tempo libero e l’erogazione di sussidi fossero il fine delle politiche sociali, la demolizione di un sistema scolastico e formativo che in passato aveva permesso al Paese di competere con successo sui Mercati Internazionali con un 60% di (buoni) diplomati ed infine il ritorno in campo dei Social democratici con il duo Renzi & Calen da, che in quel PD han costruito tutto il loro percorso e a cui non lesinano i consigli.
Eppure l’autocastrante rinuncia ad elaborare e conseguire un qualche percorso per il superamento di quel Capitalismo Anglosassone che nel frattempo ha sconfitto quel Capi talismo Mercantilistico Renano e si appresta allo scontro con il Comu nismo Cinese, la passione per il dire delle belle cose anziché far delle cose giuste, l’ambizione a piacere alla gente che piace anziché di inseguire e servire i bisogni di chi poi quelli scontri tra sistemi ideologici ed economici li paga sulla pelle, sem brano essere ormai una condizione ineludibile di quella Sinistra destinata a vincere solo facendosi Destra, forte della forza delle Istituzioni piuttosto che del consenso delle classi popo lari. Una “Sinistra Sindacale” che in una fase postindustriale trova il suo bacino in quei pensionati che del Progresso sono oggettivamente l’an
titesi, il continuo confondere i Diritti Individuali con i Diritti Civili per non impegnarsi sui Diritti Sociali che lo Stato dovrebbe garantire, farlo nella finzione che il costo dello Stato sia un costo sociale anziché un elemen to di una più ampia dinamica redistri butiva, il pretendere che le logiche della “Borghesia Compassionevole”, poi sconfitta sulla ghigliottina da Robespierre, possano avere una loro attualità nella postmodernità relega no quella Sinistra “quasi riformata” a rifugiarsi nella Nostalgia. E costringe il Popolarismo Cattolico a riprendere il tema del Progresso Sociale. Con modestia di ambizioni e disponibilità al confronto. Con la Capacità di immaginare quel Futuro che in tanti speriamo trovi nel Capita le uno Strumento e non un Padrone. Padrone cui altri si son piegati senza fatica.
Notizie dal mondo
di Guido TommasiniBRASILE: L’AMAZZONIA DEL DOPO BOLSONARO
Qualche anno fa, in un mon do preoccupato per il peri colo del surriscaldamento globale, percorso dagli ammonimenti di Greta Thunberg, sottoposto alle iniziative simboliche di Greenpeace, le notizie sulle attività incendiarie nei confronti dell’Amazzonia del presi dente sovranista brasiliano di estrema destra Bolsonaro erano sembrate all’inizio degli scherzi di cattivo gusto. Eppure non era così perché quel presidente aveva ripescato certe linee politiche instaurate ancora negli anni Settanta quando in quel paese c’era la dittatura, aumentandole in modo esponenziale e difendendo il suo operato contro i leader mondiali a favore del salvataggio dell’Amazzonia, definendoli come colonialisti. Purtroppo non è la prima volta che il mondo corre pericoli del genere e non sarà l’ultima. Per esempio in Indonesia si attuano
da anni immense deforestazioni che passano praticamente inosservate. Già nel 1970 era stato accertato che nel corso di poco più di un secolo, lungo la costa nordamericana del Pa cifico dove un tempo si estendevano ottomila kmq di foreste vergini di sequoia, almeno seimilaottocento di essi erano già stati disboscati per uso commerciale. Per non andare lontani nel tempo Ronald Reagan in un in contro con un’associazione ambien talista che perorava la salvaguardia delle ultime sequoia aveva risposto candidamente: ”Sequoia? Quando ne hai vista una le hai viste tutte” Tornando al Brasile, alle ultime ele zioni l’ex sindacalista Lula, dopo un ballottaggio serratissimo è riuscito ad ottenere il 50,90% dei voti contro il 49,1% di Bolsonaro, ma ormai tanti danni all’ambiente sono stati fatti. A cominciare dal pronunciamento di Bolsonaro di livellare l’Amazzonia le
operazioni sono state quindi condot te con estrema rapidità, dato che era stato addirittura istituito – Il giorno del Fuoco - nel Parà del sud dove rancheros, lobbysti e accaparratori di terre assieme alla compagnia minera ria Gana Gold lo incentivavano, dato che la maggior parte del corrispon dente elettorato non considerava un problema la distruzione della foresta amazzonica. Nel cosiddetto Arco di Deforestazione situato ai margini delle autostrade Belem-Brasilia e Cuyaba – Porto Vehlo, Bolsonaro può tuttora contare su 256 municipalità che da sole sono state capaci di con tribuire all’attuazione del settantacin que per cento della deforestazione generale.
Nel caso specifico si tratta in generale di una popolazione che è il risultato di un processo di immigrazione inter na in quanto incentivata allora dalla dittatura militare a spingersi in quelle località all’inizio degli anni Settanta per eliminare le foreste(e gli indios come nel film – L’ultimo grido della Savana -) al fine di ottenere terreni agricoli ed attualmente la Chiesa Evangelica, schierata con Bolsonaro si è aggregata a queste tendenze formando una sorta di fronte politico religioso.
In questa sola frase si potrebbe concentrare l’indirizzo politico pre dominante di Bolsonaro: “E’ un errore affermare che l’Amazzonia è patrimo nio dell’umanità ed è un malinteso confermato dagli scienziati dire che le nostre foreste amazzoniche sono i polmoni del mondo”
Di fatto Bolsonaro ha completamento
Notizie dal mondo
sovvertito il ruolo protettivo del go verno federale nei confronti dell’am biente. Tutta la rete giuridica per la protezione dell’Amazzonia è sparita attraverso una riforma che ha fuso i Ministeri dell’Agricoltura e dell’Am biente. Lo smantellamento di quelle garanzie ambientali ha promosso così una logica di occupazione delle foreste con un ciclo – boom and bust -(alti e bassi), che ha avuto la conse guenza di produrre, dopo un breve boom, l’esaurimento delle risorse naturali per cui uno sviluppo sosteni bile diventa una mera utopia. In sintesi le attività minerarie, le indu strie legate al legname e l’allevamen to hanno spinto gli indios autoctoni ad abbandonare i loro territori con una spiazzamento che sa un po’ di pulizia etnica. Certo ci sono organizzazioni di tutto il mondo, soprattutto tedesche e
norvegesi che mirano a ridurre questi squilibri ambientali e sociali. Intanto l’ Amazzonia continua a bruciare sotto gli occhi cinici di coloro che causano gli incen di, ovvero le imprese minerarie illegali e quelle che si finanziano con la distruzione delle foreste per creare praterie adatte all’allevamento.
Aver concesso l’ Amaz zonia a Bolsonaro è stata una decisione che ha indebolito tutto il pianeta. Certo, il nuovo Presidente Lula ha già dichiarato che difenderà l’ Amazzonia, ma per tutta la serie di motivi succitati, non sarà un’impresa facile.
PICCOLI COMUNI, GRANDI PROBLEMI
Amministrare oggi in un territorio dove l’Autonomia dei piccoli comuni è sempre minore
Quando c’è qualcosa che non va, in un paese, come in una grande città, la colpa è sem pre dell’amministrazione comunale e, più frequentemente, del Sindaco. Ed in fondo è vero, perché è il Sindaco che ci mette la faccia, che si spen de in prima persona, che accoglie i cittadini e ascolta i loro problemi, che prova a trovare soluzioni e che spesso è costretto a dire dei no. Questo lo sa bene chi si assume il compito di governare un territorio, di immaginare quale sarà il futuro della terra in cui vive. Ma un buon ammi nistratore non è mai solo, perché ha con sé una squadra di persone che gli hanno dato la fiducia e lo aiutano nel compiere le scelte, spesso adope randosi ben oltre i propri doveri per mantenere viva la Comunità.
L’origine del Comune va cercata in quella prima istituzione organizzata di cittadini che nell’antica Grecia prendeva il nome di Polis, la città stato, laddove gli abitanti decisero di organizzarsi attorno ad un sistema di leggi che regolamentava il vivere all’interno dello stesso territorio, il riconoscersi all’interno di un gruppo organizzato con idee differenti, ma con la volontà di trovare una media zione nell’interesse di tutti. Ed è qui che è nata la parola “politica”, nel suo senso più alto e importante. Il Comune è dunque la cellula fonda mentale dell’amministrazione pubbli ca, il primo riferimento per i cittadini che devono risolvere piccoli e grandi problemi della propria quotidianità, la linea del fronte dell’amministrare. Ed è da qui che si deve partire per immaginare il Trentino di domani, il
futuro delle prossime generazioni. O meglio, si dovrebbe. Oggi viviamo una situazione di grave emergenza economica e sociale e sono pro prio i Comuni a dover rispondere in primo luogo alle istanze sul territorio. Ma questo è diventato sempre più difficile, a fronte di bilanci comunali sempre più risicati e alla mancanza di fondi.
Se per i Comuni grandi o con parti colari situazioni, come Trento, Rove reto, Pergine o Riva del Garda, esiste un gettito fiscale tale da garantirne una parziale autonomia decisionale, quelli più piccoli hanno un cordone ombelicale che li lega alla Provincia, che ne deve, o ne dovrebbe garantire la sopravvivenza attraverso una equa distribuzione di fondi. Fino a qualche anno fa, a ciascun Comune veniva dato dalla provincia un budget di inizio legislatura che consentiva di programmare le attività non solo per l’anno a venire, ma anche per quelli futuri. Oggi non è più così: i Comuni devono attendere di anno in anno, e sempre più in ritardo, che la Provincia stabilisca con manovra finanziaria il budget assegnato per gli investi menti, sperando che vi sia, oppure andare a parlare con il Presidente o
l’Assessore di turno sperando che un determinato progetto possa essere finanziato. Ed oggi c’è persino chi, inseguendo la facile demagogia, vorrebbe togliere anche quell’unica risorsa propria rimasta che consiste nel gettito IMIS sulle seconde case. Certo, a qualche cittadino può far piacere, ma quando non ci saran no più i soldi – e data la particolare contingenza non siamo lontani – per pagare l’illuminazione pubblica, la colpa sarà del Sindaco.
E se da una parte questo è anche positivo, perché obbliga gli ammini stratori a ragionare in modo diverso, a pensare a nuove forme di partena riato e di coinvolgimento del privato, dall’altra è tempo di ridare autonomia ai Comuni, di ripensare il sistema di finanziamento pubblico, di dare la possibilità concreta ai Comuni più piccoli di programmare il futuro, non attraverso momentanei finanziamenti ad personam che rispecchiano il mar ciapiedismo della politica, ma con un programma serio che dia nuova mente indipendenza a chi si assume l’incarico di amministrare.
Altrimenti accadrà come a Lona Lases e fuori dai paesi si appenderanno cartelli: “Sindaco Cercasi”.
GIOS BERNARDI I SUOI PRIMI CENTO ANNI
La ricetta: amore per la scienza e la vita
“S
cusami Laura, avevo an ticipato l’ora del mecca nico per farmi cambiare le gomme all’automobile ed essere a casa alle 15, ma è in ritardo, fa lo stes so se spostiamo l’appuntamento alle 16..” Certamente si. Niente di strano se non fosse stato il dott Gios Bernardi a farmi questa richiesta; un signore del nostro tempo che testimonia un secolo di vita e che l’iconografia corrente vorrebbe in poltrona davanti alla televisione.
Gios Bernardi, figura carismatica della medicina trentina, una delle personalità più eclettiche ed illustri della città di Trento, compirà il primo gennaio 2023, cento anni. Una vita intensamente vissuta, difficile da riassumere in poche righe, difficile pensare all’età anagrafica, data la vitalità, la vivacità del pensiero, l’ironia elegante che sa esprimere. Intervistarlo è stato semplice anche se la mia prima domanda è stata indiscreta ed un po’ interessata ; gli ho chiesto infatti la ricetta per arrivare alla sua età così in forma. Una risata e poi “Un po di fortuna, ma soprattutto una vita sana, ho sempre temuto di ingrassare, anche perché adoro i dol ci, che evito. Ma direi il movimento, non fumare, e soprattutto una dieta equilibrata povera di grassi animali, ricca di frutta e verdura. E poi la lettu ra, ho sempre letto molto” Una vita spartana? “No un modo di vita”.
Inizia così quest’intervista, dalla quale è uscito un mondo trentino fatto di gente un po schiva, con una grande
cultura mitteleuropea, che ha cono sciuto il mondo dell’emigrazione e sapeva guardare oltre le mura della città.
La famiglia Bernardi, nel tempo ha dato i natali a persone straordinarie quali intellettuali, politici, filosofi, avvocati, poeti e religiosi, profonda mente legata alla propria terra ma desiderosa di valorizzarla ed ha trova to in Gios la sintesi fra arte, cultura e scienza.
Figlio di Carlo, pittore e docente, ha ereditato dal padre la passione per l’arte, che esprime con la Fotografia, tuttavia sempre a causa del padre nel 1947 si è laureato in medicina “Io avrei preferito studiare legge, ma mio padre ha voluto così ed aveva ragione”.
La sua carriera medica è stata folgo rante, specializzato in chirurgia ha esercitato la professione per circa 5
anni presso la clinica privata Villa Igea: “ In quella casa di cura eravamo solo in due medici ,oltre il primario: io ed il dottor Marchesoni. Il mio primario, il dottor Merler è stato spiacente quando ho lasciato la chirurgia a causa dello stress che provocava non solo a me, ma anche a mia moglie Franca. Allora non esistevano i cellulari e dovevo la sciare un recapito ovunque fossi, anche al cinema, quindi mi sono specializzato in radiologia e diagnostica. Pensa che per un periodo della mia vita ho diretto anche il piccolo ospedale di Levico”. Sposato con Franca Rigoni, ha tre figli: Anna (grafica nata nel 1951), Marco (regista già direttore del Teatro Stabile di Bolzano, nato nel 1955), e Paola (editor nata nel 1962). Proviamo pertanto a riassumere la sua carriera medica : Dopo aver lasciato Villa Igea è passato alle dipendenze dell’Ospe dale Santa Chiara dove ha lavorato
Il personaggio
come assistente di radiologia a fianco del prof. Alessio Pezcoller, primario di Chirurgia. fortemente impegnato nella ricerca della cura del Cancro. E proprio per inserire la città di Trento nel mondo della medicina internazio nale , nel 1980 il prof. Pezcoller chiese al dottor Bernardi, che accettò, di entrare nel consiglio di ammini strazione del Premio da lui istituito. Il fine dell’Associazione era ed è promuovere e supportare la ricerca sul cancro. Il dottor Bernardi rimase nella Fondazione per più di 30 anni, curando la parte scientifica, diventan done anche presidente per 10 anni. Fu lui ad indirizzare il premio verso la ricerca oncologica molecolare. Contemporaneamente Bernardi per più di dieci anni ha diretto il reparto di radiologia all’Ospedale regionale. Ha creato e diretto lo stesso reparto nell’ex Cassa Malati dal 1965 al ‘90. Ha diretto dall’ 80 al 90 Villa Bianca è stato anche dirigente dal 1980 della Casa Circondariale in via Pilati:” E lì, dice, ho scoperto le prime persone che avevano i tatuaggi.” Durante la sua lunga vita, ricca di interessi culturali, fondamentale è
stata ed è la Fotografia della quale parla con entusiasmo e che rivela la sua straordinaria umanità nel saper cogliere l’attimo. La prima importante mostra fotografica (1950) fu presso la galleria Salto di Milano ed è stata pre sentata dallo storico dell’arte Alberto Vitali. Ci piace ricordare il suo libro fotografico, in bianco e nero, dato alla stampa nel 1967, curato assieme a
don Mario Bebber.
Ma la città di Trento, deve moltissimo al dottor Bernardi anche cultural mente, infatti nel 1969 fu chiamato a candidare per il Municipio dal Sindaco uscente Edo Benedetti (1922 /2019). Venne eletto con un grandis simo numero di voti : “ Mi presentai come Indipendente del governo di centro-sinistra. Fu un’esperienza entusiasmante. Divenni Assessore alla Cultura, alla Sanità ed all’Istruzione. Come assessore alla Cultura portai a Trento la prima Stagione di prosa in collaborazione col Teatro Stabile di Bolzano diretto da Maurizio Scaparro (1969/ 1975). Affittai il Teatro Socia le della proprietà Stefani e Lazzeri ed il primo spettacolo abbastanza sconvolgente per la città di Trento, fu il “Chicchignola” di Petrolini, per la regia di Maurizio Scaparro, interprete straordinari Mario Scaccia, . Questa amara commedia venne contestata dal pubblico tradizionale, ma quando uscimmo dal teatro io e Franca fum mo sorpresi dalla bella accoglienza fatta dai giovani della città”.
Ha lavorato per dare spazio alle scuo le, non c’erano aule abbastanza, ha aperto la prima Biblioteca Comunale.
una sorta di sala di lettura. Ha inoltre aperto la prima sede a Trento dell’Università della Terza età e del tempo disponibile” nel 1979, che ebbe subito un grande successo. Naturalmente il “Premio Pezcoller” del quale Gios Bernardi è Pre sidente onorario rappresenta il fiore all’occhiello della sua lunga carriera:” Fra i 23 premiati ricorda quattro di loro hanno ottenuto, dopo il nostro premio, il Nobel”. Una vita cento vite, grandi riconoscimenti locali, nazionali ed internazionali. Dal 2010 è Cavaliere della Repubblica, ora Commendatore. E’ stato insignito anche dell’Aquila di San Venceslao. Ma il riconoscimento che maggiormente lo inor goglisce è quello ottenuto a Cichago nel Aprile del 2012 dall’AACRA (American Association for Cancer _lo stesso luogo dove Obama ha fatto il suo discorso prima dell’insediamento: Stiamo parlando del premio speciale “Special Award for Distinguished Public Service: motivazione “Per il forte impegno ed affermata leadership assoluta mente determinante nell’incrementare la ricerca internazionale sul Cancro”. Grazie Gios..
IN TRENO FRA LE VETTE INNEVATE
Guai se non ci fossero i sogni non ci sarebbe futuro perché il futuro è fatto dai sognatori.
Il Ring delle dolomiti è il grande sogno che unisce Bolzano, Belluno e Trento di cui si discute fra gli indu striali delle tre province in attesa dei giochi olimpici invernali del 2026. Si parla di ferrovie e binari contro lo smog e a vantaggio dell’ambiente del turismo.
Il primo sogno è l’aggiunta di 90 chilometri di binari ai 280 esistenti con cui si collegherebbe Dobbiaco a Calalzo di Cadore passando per Corti na d’Ampezzo e poi Feltre, Primolano, la Valsugana fino a Trento. Un circuito ferroviario che ripristinerebbe la cen tenaria ferrovia Dobbiaco Calalzo. A volte il nuovo è solo la riedizione di qualcosa che già c’era, ma bisogna ammettere che qualcuno ha sbaglia to. Dobbiaco e Calalzo erano infatti state unite dalla ferrovia fin dal 1915 quando l’esercito austriaco doveva
portare armi e soldati sul fronte dell’I sonzo. La Ferrovia delle Dolomiti era lunga 65,379 chilometri con binari a scartamento ridotto. Finita la guerra la ferrovia venne potenziata e fun zionò con alti e bassi economici fino al 1964 quando i binari lasciarono spazio all’asfalto. Nel 1929 era stata perfino elettrificata realizzando il sogno odierno, ma già stantio, per la Valsugana.
Il secondo è il Sogno dei sogni, anco ra un collegamento ferroviario di 83 chilometri con cui collegare Bolzano a Cortina, attraverso 20 chilometri in galleria, passando da Ortisei e la ferrovia della valle dell’Avisio che da Trento porta a Canazei, passando da Cavalese, con 87 chilometri di traccia to di cui 37 in galleria. Ve lo ricordate? anche questa c’era già. Tutto già visto: tutti tracciati già costruiti all’inizio del 900 e poi dismessi.
Quello che da 70 anni alcuni si ostina no a sognare è di approfittare del tracciato per Cavalese per liberare la
ferrovia della Valsugana dalle gallerie di Povo, dove oggi s’infrangono i sogni di potenziamento perché tra curve e pareti s’incaglierebbero i pe santi locomotori elettrici. La soluzione potrebbe essere quella di portare i bi nari elettrificati fino a Civezzano e da qui proseguire per Levico, Borgo...... Venezia. L’attuale tracciato ferroviario resterebbe di tipo turistico e servizio per le scuole e lavoratori attorno al lago di Caldonazzo.
Già che si sogna parliamo anche di turismo. C’è il Sogno di Avia Nova... Una funivia da Levico- Caldonazzo fino a Luserna alleggerendo il traf fico stradale e poi una ferrovia che dal comune cimbro trasporti turisti e lavoratori fino a Folgaria, Lavarone... Asiago. Il modello, senza scomodare la Svizzera, potrebbe essere quello del Renon sopra Bolzano. Certo qualcuno i soldi deve pur metter celi e non solo l’ente pubblico che piange ma continua a finanziare rattoppi.
“Essere con l’Africa e non per l’Africa”
I 70 anni di “CUAMM – Medici con l’Africa” celebrati a Roma con Papa Francesco.
Molti i volontari trentini all’Annual Meeting tenutosi nell’Aula Paolo VI del Vaticano.
Tra le migliaia di convenuti da tutta Italia c’eravamo anche noi trentini nell’Aula Paolo VI in Vaticano a Roma per celebrare, con Papa Francesco, i 70 anni di attività di una associazione, “CUAMM – Medici con l’Africa”, che nella nostra terra conta decine e decine di volontari. Circa cento, tra medici e associati, hanno deciso di festeggiare l’anniver sario dell’Associazione, nata nel 1950 nel Collegio Universitario di Padova, grazie all’intuizione del professor Francesco Canova e del vescovo di Padova Mons. Girolamo Bortignon, con lo scopo di accogliere e prepa
rare studenti di medicina italiani e stranieri desiderosi di dedicare un pe riodo della loro attività professionale al servizio degli ospedali missionari e delle popolazioni più bisognose nei paesi in via di sviluppo. Un incontro atteso da tempo, che non ha deluso le aspettative di chi ha potuto ascoltare le parole di Papa Francesco: “ Quando preghiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, dovremmo pensare bene a quello che diciamo, perché tanti, troppi uomini e donne, di questo pane, ricevono solo le briciole, o nemmeno quelle, semplicemente perché sono
nati in certi luoghi del mondo. Penso a tante mamme, che non posso no avere un parto sicuro e a volte perdono la vita; o a tanti bambini, che si spengono già nella prima infanzia” - ha detto Papa Francesco - “L’Africa ha voce, ma non si sente; voi dovete aprire possibilità perché si senta la voce dell’Africa; continuare a dare voce a quello che non si vede, alle sue fatiche e alle sue speranze, per smuovere la coscienza di un mondo a volte concentrato troppo su sé stesso e poco sull’altro. Infine, vi invito ad avere un’attenzione speciale per i giovani: a favorire in ogni modo,
nelle vostre attività, l’inserimento lavorativo della gioventù locale, così desiderosa di vivere il proprio futuro da protagonista soprattutto nei Paesi di origine”. Ad avviare la seconda parte della mattinata, condotta dal giornalista Piero Badaloni, il direttore del CUAMM, don Dante Carraro, che ha raccontato al pubblico presente che: “L’Africa sta tornando indietro, dalla pandemia alla guerra, fino alle speculazioni energetiche e finanzia rie, stanno pesando in modo dram matico. L’impegno per la formazione dei giovani africani è stato uno dei temi principali del meeting: “Le risorse umane sono il patrimonio più importante per il CUAMM e per l’Africa – ha spiegato Giovanni Putoto, responsabile della Programmazione. L’investimento in formazione va fatto a tutti i livelli, dagli ospedali alle scuo le fino alle università che formano medici, specialisti e manager, come nel caso del Master in Neonatologia di alto livello avviato in Mozambico, con la collaborazione dell’Università di Padova, quella di Maputo e quella Beira”.
A guidare la delegazione trentina, il Presidente del CUAMM - Trentino, il pediatra Carmelo Fanelli, attivo in Alta Valsugana rientrato recentemente dall’Africa come altri medici volon tari trentini fra i quali Fabio Battisti, Alberta Valente, Pietro Scartezzini, Giulia De Bertolis, Nadia Quaglia, Rossella Romano che si son fatti carico della missione di portare aiuto ai più piccoli e alle loro mamme in Africa. Il Gruppo Medici con l’Africa CUAMM – Trentino è nato nel 1993 dall’unione di alcuni medici trentini rientrati in Italia dopo aver trascorso un periodo di volontariato in Africa. Nel corso di questi anni, ormai quasi trenta, l’associazione ha maturato una profonda conoscenza del contesto africano e dei meccanismi di gestione ed implementazione di progetti di Cooperazione allo Sviluppo in campo
sanitario avvalendosi di contributi pubblici in special modo della Pro vincia Autonoma di Trento, partners e donatori privati. Medici con l’Africa CUAMM Trentino ha per scopo princi pale quello di promuovere e sostene re progetti di cooperazione sanitari nei Paesi con risorse limitate privile giando i programmi in cui operano volontari trentini.
Oltre che in Africa, l’attività del grup po è fortemente indirizzata anche ad iniziative di carattere solidale, cultu rale, sensibilizzazione, informazione, educazione alla globalità a livello scolastico sul territorio trentino per
Tra volontariato e solidarietà
promuovere una cultura di solidarietà e presentare, oltre le problematiche, una immagine positiva dell’Africa come un continente in movimento dalle straordinarie potenzialità e valori.
L’associazione collabora con la Provin cia Autonoma di Trento per promuove re e sostenere progetti di cooperazione in campo sanitario con i Paesi in via di sviluppo. Particolare attenzione viene data ai programmi in cui sono impe gnati volontari trentini, promuovendo così una cultura di solidarietà in ambito locale.
Per non dimenticare
di Emanuele PaccherPROMEMORIA AUSCHWITZ STA PER RIPARTIRE
Nostro dialogo con Ambra Dalmaso, Tutor di Castel Ivano
Come e perché ricordare certi orrori del passato? È da questa domanda che parte il progetto “Promemoria – Auschwitz 2023”, organizzato da Deina Trentino APS in collaborazione con Arci. Le pre-iscrizioni, possibili per i ragazzi e le ragazze tra i 17 e i 25 anni, sono aperte fino all’11 dicembre. La volontà è quella di non dimenti care, per capire ciò che è avvenuto in passato, per comprendere meglio il presente e per progettare il futuro in modo che certi orrori non si ripetano. I partecipanti faranno veramente “a schiaffi con la storia”, come dice An tonio Trombetta, presidente di Deina Trentino. Si soffrirà, ci si interrogherà sul come l’essere umano possa essere stato un simile mostro. E se ne uscirà arricchiti, più maturi e consapevoli. Anche molto diversi forse. Molti ex partecipanti sono concordi nel dire che “Una volta saliti sul treno non si scende più”.
Un percorso impegnativo, con 4 incontri di preparazione, 2 visite sul territorio (una a Trento e una alla sina goga di Merano) e 6 giorni di viaggio. Con destinazione finale il campo di concentramento di Auschwitz – Bir kenau, luogo in cui la perfidia umana toccò il suo apice e riuscì a massacra re milioni di vite.
Andando più nel dettaglio, i quattro incontri di preparazione si svolgono sotto la direzione e supervisione di alcuni “tutor”, ossia ragazzi e ragaz ze che decidono di dedicare il loro tempo all’insegnamento di ciò che è
stato, cercando di stimolare lo scam bio di opinioni all’interno del gruppo. Visto l’imminente avvio del progetto, abbiamo deciso di scambiare qual che parola con una di loro: Ambra Dalmaso, 22enne di Castel Ivano,
tutor ormai da 3 anni.
Cosa significa fare memoria? E perché è giusto ricordare ancora degli avvenimenti che sono così lontani nel tempo?
Ambra: “Fare memoria è importante perché permette di comprendere meglio il nostro presente. E permette di guardare alla quotidianità con un occhio più critico. Non siamo immuni da ciò che è successo 80 anni fa. Tut to si trasforma, e tutto ciò che è stato può tornare, magari in altre forme e con altre sfumature. È quindi importante imparare a vivere in maniera più attenta e consapevole, e credo che il viaggio di promemoria in questo senso sia molto importante. È un progetto di alcuni mesi che dà tanta consapevolezza”.
Perché hai deciso di dedicare il tuo tempo per questa attività? Cosa ti spinge a farlo? Ambra: “Lo faccio perché Promemoria è un progetto in cui credo molto. A livello personale, e un po’ egoistico, ci dedico il mio tempo perché ogni
volta mi insegna e mi regala molto. Sono curiosa, mi piace sorprendermi, scoprire nuove sfumature e riscoprir mi ogni volta. Dall’altro lato mi piace vedere quanto lasci anche a tutti i partecipanti, mi fa sentire parte di qualcosa di bello e grande.
Poi dentro di me ho una convinzione, che sa anche un po’ di speranza: un mondo fatto di persone uscenti da progetti come questi è un mondo migliore”
Cosa pensi e speri che rimanga ai ragazzi che fanno questa espe rienza?
Ambra: “Penso che ad ogni ragazzo ri mangano nel cuore dettagli e ricordi diversi. L’auspicio è che, aldilà dei bei momenti, rimanga anche la consape volezza di quello che questo percorso rappresenta, in modo da vivere la realtà sempre con un occhio critico.
Potrei sintetizzare il tutto dicendo che mi auguro che ogni ragazzo si porti a casa almeno una parte di quello che questa esperienza significa per me”.
Credi che sia un’esperienza adatta a tutti?
Ambra: “Personalmente non credo ci siano requisiti fondamentali se non curiosità e tanta voglia di mettersi in gioco. È un percorso, come dicevamo prima, che dura alcuni mesi, e quindi è sicuramente un investimento in termini di tempo. Poi, per il resto, mi piace ricordarmi e ricordare che non c’è un modo giusto e un modo sba gliato per vivere e sentire un posto come Auschwitz. Ognuno è fatto in modo diverso e ha dei vissuti perso nali diversi. Credo che questo faccia parte del gioco, permetta di scoprirsi e che quindi non sia altro che un valore aggiunto all’esperienza”.
Presso
Lunedì: 15.00 - 19.30
Martedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
Mercoledì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
Giovedì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
Venerdì: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
Sabato: 9.00 - 19.30 (continuato)
Domenica: 9.00 - 12.30 / 15.00 - 19.30
Centro Commerciale “Le Valli” di Borgo Valsugana
I nostri migliori Auguri per un Buon Natale e un Felice Anno Nuovo
Borgo Valsugana
Natale per noi
di Waimer PerinelliLA FESTA DI NATALE TRA STORIA E LEGGENDA
Quanto sono importanti le cattive compagnie nell’apprendere i segreti della vita? Molto ! E non parlo solo di quando ti raccontano la verità sulla nascita dei bambini, ma anche delle cose più semplici come il Natale. Ero in prima elementare quando credevo che Gesù fosse nato il 25 dicembre, in una stalla al freddo e gelo. Questo mi aveva insegnato mia madre e mi aveva confer mato il parroco. Abitando nel nord Italia e vedendo le montagne bianche non ho mai dubitato della neve e del freddo che circondavano stalla e mangiatoia di Bet lemme. Questa è stata la prima certezza a vacillare perché la maestra, che pure era una suora, ci raccontò di come fosse bella la Palestina, calda e luminosa. Mi consolo oggi pensando che, nel convenzionale anno zero che divide il prima dal dopo Cristo, l’inverno dev’es sere stata una stagione particolarmente fredda anche per i monti della Giudea, le cui vette non superano i mille metri di altitudine. In questa fede mi confortò il catechista. Ma il cattivo compagno era in agguato e l’amico un po’ più grande del liceo, nato proprio il 25 dicembre, aveva approfondito la cosa affermando che in realtà quel giorno era dedicato dai romani al Sole Invictus. Nulla di male se non che, in seguito a diverse congetture, l’amico in sinuava il sospetto che la sovrapposizione fosse un’ operazione della Chiesa ideata per far dimenticare la festa pagana. L’idea reggeva ma, potendo affidarmi per sonalmente alla ricerca e approfondendo le informazioni, scoprii che non c’era una reale sovrapposizione, inoltre nei giorni del solstizio d’inverno, i romani celebra vano i saturnali, riti di ringraziamento e propiziatori per l’agricoltura. Infine fattore decisivo fu che la Chiesa in realtà non aveva punto gradito la sovrapposizione
della giornata ma l’aveva dovuta soppor tare perché nel 200 d.c. il giorno della Dies Natalis Solis Invictus, la festa introdotta dall’imperatore Eliogabalo (218-2022) ufficializzata da Aureliano nel 274, era troppo famosa e apprezzata per essere contrastata.
Come dicevano gli antichi romani: se un nemico non puoi sconfiggerlo, alleati. La filosofia ci insegna poi quanto sia relativa la stessa concezione del tempo e la questione ha perso importanza. La so ciologia ci conferma infine che l’uomo per affrontare le difficoltà della vita necessita di alcune feste convenzionali: il Carnevale, le sagre di paese, le ricorrenze sacre. A volte non è sufficiente e allora nascono le favole e leggende. Una di queste, la più nota e diffusa, viene dal Nord dalle terre ricche di abeti e neve. Parlo della leggen da di Babbo Natale. Con le sue renne e la slitta colma di doni. Come faccia con quel trippone che si ritrova a passare per i camini per depositare i doni sotto l’albero di Natale è un vero mistero. A parte il fatto che oggi fatica a trovare pure i camini. Babbo Natale non è l’unica leggenda. Anzi fior di scrittori si sono cimentati nell’ideare favole per grandi e piccini.
Fra loro merita un posto in prima fila il grande Charles Dickens con il suo "Libri di Natale" una collezione di racconti fra i quali primeggia - Il canto di Natale -, scritto nel 1843. La favola è molto cono sciuta anche perché se n’è occupato Walt Disney con un bellissimo e commovente cortometraggio di animazione uscito nel 1983, nel quale c’era Topolino nei panni del povero impiegato Bob Cratchit e Pa peron de’ Paperoni, già avaro di suo, nelle vesti dello strozzino Ebenezer Scrooge dal cuore di ghiaccio. La fiaba è nota: lo Spiri to del Natale riuscirà a convertire il tirchio affarista che compirà il bellissimo gesto
di aiutare il suo maltrattato dipendente a curare il figlio. Sulla festività si è cimentato anche Carlo Collodi.
Lo scrittore, che ha ideato Pinocchio, ha scritto il racconto La Festa di Natale nel quale i protagonisti sono due fratellini e la loro sorella. I ragazzini, centesimo su cen tesimo, riempiono i rispettivi salvadanaio che sono autorizzati a svuotare il giorno di Natale. Per tutto l’anno i bambini pensano a come utilizzare le poche lire accumulate. Ognuno di loro possiede un gioco e lo vuole arricchire: la bimba vuole compe rare nuovi abiti per la bambola, e i fratelli dotare di orpelli vari un cavallo di legno ed altro. Nel giorno di Natale la madre scopre che due di loro hanno realizzato il sogno mentre il terzo ha preferito donare la somma, modesta ma importante, ad una famiglia povera. Il suo sacrificio, sve lato dalla beneficiata, sarà ricompensato dall’affetto materno. Morale della favola il Natale è il giorno adatto a fare qualcosa di buono, di essere generosi, di occuparci maggiormente di chi ci vive accanto. La ricompensa non mancherà: Sereno Natale.
Un Natale diverso
NATALE CON I TUOI MA AMA ANCHE GLI ALTRI
Che bello! Dicembre, il mese del Natale, dove tutti siamo ovviamente più buoni, più umani più...tutto. Ovviamente viene scongelato Michael Bublè con la solita strenna natalizia e siamo tutti contenti. Ci saranno i black friday, giorni in cui compreremo a tonnella te convinti di fare gli affari del secolo. Riunioni familiari in cui anche i cugini che non vedi per 364 giorni saranno generosi di baci e abbracci. Insomma Natale.
Mi sono sempre piaciuti gli “storti”, quelli magari da non frequentare, insomma i “diversi”. Prima categoria, la mia. Da ex grande obeso ho ricordi netti di quello che vuol dire subire battute sul peso, sul cibo che non avanza se sei nei dintorni e quell’at teggiamento di finta comprensione che non fa altro che innervosirti allo stremo. Nessuno capisce che il cibo diventa un rifugio, un luogo sicuro dove solo quello che hai nel piatto di fronte è tuo amico.
Nessuno capisce che non si tratta solo di golosità. Dietro questo c’è una richiesta di aiuto nemmeno tanto ve lata. Essere grassi a Natale. Forse per questo mi è sempre piaciuto il prima, i giorni precedenti con quell’atmosfe ra fantastica. La tavolata con sopra di ogni da una parte era ipnotica, dall’al tra sapevo che avrei dovuto pagare il prezzo degli scherzi e delle cattiverie. Sì, lo sono, perché chi le fa non sa se le spalle di chi le riceve sono abba stanza grosse da sopportarle. Non siete simpatici, ma nemmeno un poco. Ad ogni frecciata cerchi rifugio e l’unico è il cibo. Non puoi vincere. Avete mai notato che non sono mai
quelli grassi che fanno battute su altri come loro? Chissà perché...
Ma noi diversamente magri siamo alla luce del sole, essere grassi non puoi nasconderlo, si vede. Punto. Ma tra i “diversi” ci sono coloro che celano una seconda vita. Il Natale è anche quel momento in cui si tirano le fila di un anno di vita. “Ma la fidanzata? An cora niente? Passano gli anni eh..” non c’è nessuna fidanzata e non ci sarà nemmeno in futuro. Hai ventuno anni e ancora non sei riuscito a dire alla tua famiglia che sei gay. Già proprio questo. Tuo cugino Andrea ha pre sentato la futura moglie proprio quel giorno. Tu no. Eppure sei innamorato, eppure stai vivendo una bellissima storia. Ma le storie che leggi sul gior nale sono spesso diverse. Bullismo, pestaggi, omicidio quando si rasenta il fondo. Tutto questo perché non ami secondo una certa società. Oggi crediamo che non ci siano più sacche di violenza, che i gaypride abbiano messo a posto tutto. Ma non è così. Le cronache sono impietose in que
sto. Siamo ancora indietro anni luce confronto ad altri Stati dove hanno capito che l’amore non ha contorni regole o limiti. La diversità fa anco ra tanta paura. Quando magari da genitore dovresti solo preoccuparti della felicità di tuo figlio o figlia. Certo che se poi sei obeso e gay hai fatto bingo! Natale può e dovrebbe essere un momento di felice condivisione, di complicità e contentezza.
Non è così per tutti. Il giorno di Natale da tempo immemorabile mi metto in palinsesto radio. Adoro pensare che per qualcuno quel giorno vorrebbe che fosse normale, addirittura feriale e quindi sentire in diretta chi di solito fa quel turno.
Mi piace pensare a tutti quelli che lavorano il 25 dicembre e sono tan tissimi.
Buon Natale a tutti, di cuore. Ovviamente con Bublè in sottofon do! Il noto discografico, 75 milioni di dischi venduti, canadese con nonno trevisano, farà sicuramente un grande Natale.
Natale con noi di
Patrizia RapposelliLA BEFANA, TRA STORIE E MISTERO
Ogni anno, nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, una vecchina- piuttosto povera e bruttina- viaggia su una scopa, in lungo e in largo, portando doni a tutti i bambini. Nell’immaginario collettivo, vola sui tetti e, calandosi dai camini, riem pie le calze vuote lasciate dai bimbi. Caramelle, cioccolatini, noci e man darini. Giocattoli e piccoli pensieri. Carboni per i più monelli. Sotto il peso di un sacco colmo di regali chiude tutte le feste natali zie. Molte storie aleggiano intorno a questa vecchina, il cui nome non è altro che Befana.
Non tutti sanno che, questa vecchietta famosa in tutto il Paese, ha un retaggio culturale che uni sce sacro e profano. La sua storia ha inizio nella notte dei tempi e discende da tradizioni magiche precri stiane. La figura cristiana dei doni portati dai Re Magi alla grotta del bambino Gesù incontra la rappresentazione laica medievale che trae origine da Madre Natura, che si fa cenere e si rigenera, e prima di morire distribuisce gli ultimi omaggi. L’immagine della Befana è nata forse da antichi riti propiziatori pagani, poi ereditati dai romani. La tradizione popolare, nella dodicesima notte dopo il Natale, celebra la rinascita della natura. Un tempo era usuale
credere che misteriose figure femmi nili volassero sui campi per propiziare i futuri raccolti, guidati dalla Dea della caccia e della vegetazione -Dianavestite di stracci a segnare la poca generosità della natura invernale. Altri narrano di una Madre Natura, rinsecchita e imbruttita, che volava da sola nei cieli elargendo le sementi -doni- che sarebbero fiorite nell’an no successivo. Secca, poteva essere bruciata e rigenerarsi con la luna nuova. Ancora oggi, in alcuni Paesi,
è tradizione bruciare scope vecchie e fantocci di paglia raffiguranti la vecchietta bitorzoluta.
I miti attorno alla figura della Befana, narrano il legame con la tradizione cristiana. Infatti, alcune credenze popolari cri stiane raccontano che i re magi chiesero ad una vecchietta, quale fosse la strada per giungere alla grotta di Betlemme e di seguirli nel cam mino verso il bambino Gesù. La donna rifiutò l’invito, presto se ne pentì. E da allora vaghe rebbe di casa in casa, consegnando dolciumi e doni agli altri bambini, sperando di espiare la sua colpa. L’abitudine di portare del carbone ai fanciulli più monelli, sarebbe legata al perso naggio di Babbo Natale, o, per alcuni, alla divinità romana Stenia, sim bolo dell’anno nuovo, celebrata con lo scambio di omaggi augurali durante i Saturnali – ciclo di festività della religione romana dedicate al dio Saturno-. L’esistenza di questa vecchina, dal naso adunco e lo scialle nero sulle spalle ricurve, è il frutto di credenze pagane che incon trano le leggende popolari cristiane. Le storie sono tante, ma di sicuro la Befana lascia ciò che le sta intorno avvolto nel lenzuolo indecifrabile di ciò che si chiama mistero.
Il personaggio
di Emanuele PaccherFRANCESCO MOSER
Nostra intervista esclusiva
“U
n uomo, una bicicletta”. È così che si intitola il libro dedicato a Francesco Mo ser. Ma forse si sarebbe potuto intito lare “Un uomo, una leggenda”, perché è difficile trovare un altro nome per il ciclista italiano più vincente di sem pre. Il suo libro è stato presentato in numerose località del Trentino (e non solo). In occasione di una di queste serate, abbiamo scambiato qualche parola con Francesco sulla Valsugana e sui suoi ricordi da ciclista.
Hai mai corso qui in Valsugana?
Moser: “Tantissime volte. Sono arriva to anche a Sella Valsugana una volta con il Giro, nel 1974. Ma in questa valle si correva anche per il trofeo Baracchi e per tantissime altre tappe del Giro. Ricordo poi con piacere il trofeo Degasperi, a cui partecipai due volte: la prima con arrivo a Trento, e la seconda con arrivo a Bassano”.
Anni fa dopo una gara dicesti: “L’importante è vincere, il resto non conta niente”. Lo pensi anco ra?
Moser: “Se uno fa il mestiere del cor ridore deve cercare di vincere. Tutti si allenano, fanno le gare e tengono una dieta specifica al fine di trovare la condizione per vincere. È questa la condanna degli sportivi. Chi fa sport lo fa per arrivare primo. C’è chi dice che l’importante è partecipare, ma io dico che è meglio vincere. È molto più facile perdere che vincere comunque: molte volte prepari una corsa e sei convinto di vincere, e poi puoi perderla per un miliardo di ra gioni. La corsa in bicicletta è una cosa molto complessa: in altre discipline
contano solo la forza e i tempi, mentre qui tra 200 corridori tutti sono avversari, anche i compagni di squadra a volte. Non basta avere solo la velocità, conta molto la tattica: stare a ruota, studiare gli avver sari, tenersi le energie e scattare nei momenti decisivi”.
Come ti è nata la passione per la bici?
Moser: “Non è che sia venuta una pas sione improvvisa di correre. Verso i 18 anni Aldo, mio fratello, tornò a casa dopo il Giro d’Italia e mi disse “Devi provare a correre anche te”. Ma io non avevo mai pensato di correre. Co munque ad un certo punto, nel 1969, presi una bicicletta e cominciai. Da lì non ho più smesso per tanti anni”.
Come è cambiato il ciclista mo derno rispetto ai tuoi tempi?
Moser: “Credo che oggi ci sia più spe cializzazione. Corridori che riescono a vincere in più specialità, ossia su strada, su pista, nelle corse a tappa, in volata, ce ne sono sempre meno. Poi ovviamente di campioni ce ne sono anche oggi, Pogacar e Evenepoel sono degli autentici fenomeni per esempio”.
Ti hanno mai rubato la bicicletta?
Moser: “Sì, capitò nel primo anno da corridore, neo 18enne, mentre ero impegnato a prendere la patente.
Per andare a lezione a Trento andavo in bici, e questa di solito la lasciavo fuori dalla scuola guida. Una sera, finita la lezione, tornai fuori e non la
trovai più. Io all’inizio pensavo ad uno scherzo, chiesi agli amici dove me l’avessero nascosta. Ma in realtà me l’avevano proprio rubata…
Il problema è che quel giorno era un sabato, la domenica avrei dovuto correre e io non avevo una bici di scorta. Per fortuna un conoscente mi avvisò che a Lavis era stato avvistato un ragazzo con una bici che sembra va fosse la mia… corsi là e la ritrovai presto. Fu facile riprenderla: quel ragazzo era un mio vecchio compa gno di scuola delle medie, il quale mi disse: “Ma accidenti, avessi saputo che era tua non l’avrei mai presa!”. Il suo soprannome era “Barabba”, ti lascio immaginare il perché”.
Potrà esserci un altro corridore della dinastia Moser?
Moser: “Per adesso direi di no. C’è il figlio di Francesca (figlia di Francesco, ndr) che ha cominciato quest’an no con i giovanissimi, ma è troppo presto. È lunga prima di arrivare in fondo. Io ho cominciato a 18 anni, e da una parte penso che sia stato un bene. Correre, quando hai il numero sulla schiena, meno lo fai meglio è. Io ho fatto in fretta la carriera. Nel 1968 ero andato a vedere l’arrivo del Giro alle tre cime di Lavaredo con Merckx che gareggiava, e nel 1973 mi sono trovato a corrergli contro”.
Il senso religioso
COME FUNZIONA LA COSCIENZA
Che cos’è la coscienza? E come funziona? Se non è possibile, e forse mai lo sarà, rispon dere alla prima domanda, anche se rimaniamo convinti la coscienza sia la cosa più evidente che si possa immaginare; l’attributo che definisce tutti i nostri stati di veglia, i nostri stati d’animo e sentimenti, i nostri ricordi, pensieri, attenzioni, e volizioni; la base dei concetti, dell’apprendi mento e del ragionamento, del pen siero e del giudizio, poiché registra e immagazzina le nostre esperienze man mano che si verificano, così che possiamo esaminarle e imparare da esse a nostro arbitrio all’interno di qualche coacervo di neuroni situato da qualche parte nel nostro cervel lo - la coscienza rimane un mistero insondabile, un abisso che chiama l’abisso al fragore delle sue cascate (Sal 42) -, possiamo però rispondere alla seconda domanda.
È possibile a tutti, soprattutto se si vive fino in fondo l’impatto con la realtà, avere il senso della propria coscienza, percependo insieme l’energia e la vibrazione della propria ragione. Ce ne parla don Luigi Gius sani nel capitolo 10 del testo “Il senso religioso” che seguiamo in questa rubrica. Con intuizione di insegnante, Giussani descrive in modo geniale i fattori che entrano in gioco nel “meccanismo” della coscienza, quello strumento appunto che ci mette nella possibilità di “impattare” la realtà tutta intera.
Siamo quindi invitati dal nostro auto re a usare l’immaginazione per chie derci quale sarebbe il nostro primis simo sentimento, reagendo di fronte al reale, nell’istante in cui potessimo
uscire dal ventre di nostra madre caricati di tutto lo sviluppo di coscienza che abbiamo in questo momento.
«Se io – scrive Giussa ni – spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla mera viglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”. Sarei investito dal contrac colpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario cor rente della parola “cosa”. Le cose! Che “cosa”! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola “esse re”. L’essere, non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone», un dono!
«Lo stupore – continua Giussani -, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe, è all’origine del risveglio dell’umana coscienza. È questo stupore che desta la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, ma meraviglia gravida di attrattiva, come una passività in cui nello stesso istante viene concepita l’attrattiva».
Osservare come funziona la coscien za ci fa dunque scoprire come sia superficiale e insensato quel preteso atteggiamento scientifico verso la religione e l’umano in genere, che dà per assodato il fatto che la religio ne sia nata dalla paura. È piuttosto
«l’attaccamento all’essere, alla vita, è lo stupore di fronte all’evidenza. La religiosità è innanzitutto l’affermarsi e lo svilupparsi dell’attrattiva. La me raviglia della presenza mi attira, ecco come scatta in me la ricerca».
Limpidissima la conclusione di questo capitolo tutto da leggere e rileggere: «il mondo, questa realtà in cui ci impattiamo, è come se nell’im patto sprigionasse una parola, un invito, facesse sentire un significato. Il mondo è come una parola, un logos che rinvia, richiama ad altro, oltre sé, più su».
Chiamati ad alzare lo sguardo, ritenia mo comunque molto arricchente la lettura di un capolavoro della scienza psicologica, il testo di Julian Jaynes, “Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza”, che sonda in maniera magistrale, anche se “solo” orizzontale, ma senza inibire rilanci nell’”oltre”, quel teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri che si chiama coscienza.
Gabriele Biancardi... SCRIVERE CON L’ANIMA USANDO LA TESTA
Nulla mi da gioia maggiore come lo scoprire la bellezza dell’arte; gli è pari solo, la scoperta di un nuovo artista, ovvero la creatività.
Ha detto Picasso che i maestri inse gnano, i mediocri copiano, i geni, rubano. Il suo aforisma, forse ruba to ad Eliot e citato da Jobs, spiega perché due libri di Gabriele Biancardi “Il mio nome è Aida”, marzo 2016 e “Il respiro dei ricordi” marzo 2018, siano capaci di incuriosirmi e coinvolgermi, nonostante l’autore non appartenga ad alcuna di queste categorie. Non è un maestro anche se ha la capacità di rappresentare con le parole la storia di generazioni di uomini e donne. Non è un mediocre e infatti non imita, non è ancora un genio, ma non ha nulla da rubare: è uno scrittore per caso. “Perché, dice, sono venuto a conoscenza di una bella storia, quella di mia nonna Albertina e ho creduto fosse importante condividere le azioni di una donna dell’inizio del secolo scorso che ha affrontato giudizi e pregiudizi e ne è uscita a testa alta.” Parliamo de “Il mio nome è Aida” la storia di una donna forte quanto sfortunata. Vive a Suzzara, paese rurale del mantovano e a soli 19 anni in un unico amplesso, rimane incinta di un rubacuori bullet to e vile. Aiutata dalla madre, donna forte e dal mite e generoso padre, riesce a realizzare piccole cose fino a che, anni dopo incontra l’amore. Un romanzo dove il lieto fine è nella persona e non nei fatti. La vita è una tempesta interrotta da brevi sprazzi di sereno.
Nel “Respiro dei ricordi” ci sono ge nerazioni di sfigati, con l’emigrazione in America e un omicidio che vor remmo giustificare.
C’è però un ampio spazio sereno, sufficiente a farci sperare in tempi migliori.
Si può essere scrit tori perché il caso ci porta a raccontare, ma l’originalità con siste nel come si usa la parola scritta.
La scrittura è la for ma che distingue la scarsa genialità della “razza” umana da quella animale. Il modo in cui si scrive distingue gli scrittori.
Nei suoi romanzi, nel crogiolo di umanità spiccano le donne per forza e coraggio: “Questo dice, perché sono cresciuto in una famiglia estremamente matriarcale.
Ho un grande rispetto per loro, e non smetterò mai di appoggiarle nelle lotte che noi le abbiamo costrette ad iniziare. Gli uomini? adoro gli eroi sfigati, non mi piace il supermacho che risolve tutto e non si spettina nemmeno.”
Era un ragazzino quando, nel 1985, entrò a Radio Dolomiti dove da diret tore giornalistico gli proposi un posto nella mini redazione ma l’editore, che
egli cita ne “Il Respiro dei ricordi”, ave va altri obiettivi e lo stesso Gabriele declinò, senza rimpianti, l’invito. Ora è Dj, musicista e scrittore. Bravo. Gabriele, dello scrittore-giornalista ha la curiosità storica. Ama leggere Francesco Filippi, che con il libro pro vocatorio “Mussolini ha fatto anche qualcosa di buono,” ha conquistato lettori di tutto il mondo; Stefano Ben ni, autore satirico, ispiratore di tante scenette di comici illustri. Fra gli stranieri predilige Chuck Palaniuk che con Fight Club, viaggio in immaginari
circoli clandestini di lotta, è un mito, non sempre positivo, fra i millennium. Gabriele Biancardi è spontaneo, la sua scrittura è scorrevole, coinvol gente, leggera. Tanto più apprezza bile quanto sono importanti, a volte sconvolgenti i temi che affronta. Anche con un testo teatrale come “Avete mai provato ad essere donne e Diversi da Chi?” descrive le difficol tà dell’essere “qualcuno” al di là del genere. Dal teatro prende avvio il suo più recente romanzo dal titolo “Emi liano” dove abbandona le storie vere per descrivere la realtà attraverso un sogno. Sogna di assistere alla recita della poesia “ A livella” di Totò e di essere invitato sul palcoscenico dallo stesso principe de Curtis. Affascinante tema di conflitto fra classi sociali di viventi e gente seria che appartiene alla morte. Scrivere è come piantare un seme: crescerà.
Europa, società e giovani
VISIONI D’EUROPA:
IL PROGETTO DELLA FONDAZIONE
TRENTINA ALCIDE DE GASPERI
Cosa significa essere europei? Domanda banale, risposta complicatissima. Perché di Europa si parla spesso, ma ognuno ha un’opinione differente. Ed è in questo contesto multiforme che si inserisce il progetto “Visioni d’Europa”, promosso dalla fondazione trentina Alcide De Gasperi, che vede coinvolti 17 ragaz ze e ragazzi valsuganotti e non solo. Si parla di “visioni”, non di visione, proprio perché non vi è un’unica pro spettiva. L’Europa non è un modello statico, bensì un modello dinamico, sempre pronto a cambiare. Ci sono però elementi comuni, strut turali. Primo tra tutti la pace. L’Unione Europea non conosce la guerra dal lontano 1948. Nel mezzo ci sono stati degli inconvenienti, le ferite della Ju goslavia sono ancora aperte, un po’ di sangue sporca ancora i nostri vestiti. Ma non si può nemmeno dire che il sogno pacifista abbia perso: Francia, Germania, Italia (e per lungo tempo anche Inghilterra) hanno discusso e discutono di politiche comuni, di frontiere aperte, di libero mercato, di condivisione, di fratellanza. È un passo avanti straordinario. È con queste idee in testa che i 17 “visionari” hanno visitato la Casa –Museo di De Gasperi a Pieve Tesino, primo centro insignito del marchio del patrimonio europeo, riconosci mento volto a valorizzare il patrimo nio culturale comune e a migliorare la conoscenza reciproca fra i cittadini europei.
In Tesino i giovani hanno visitato la casa natale dello statista, e hanno po tuto analizzare da vicino la sua vita, il
suo costante impegno politico, volto sempre verso un ideale di pace. È riuscito a malapena a vederla nascere l’Eu ropa il caro Alcide, ma aveva la mente di un brillante: lui, Adenauer e Schuman hanno dato il via a qualcosa di straordinario. Potrem mo dire che loro sono stati tra i primi visionari d’Europa. Terminata questa prima visita, si è passati alla seconda tappa: Ostia antica. Questo antico centro, periferia di lusso dell’impero romano, ha ottenuto il marchio del patrimonio europeo grazie ad un modello di inclusione sociale che ispirò tanto i romani quanto l’odier na Unione Europea. Il futuro ha bisogno di tolleranza, di scambio culturale e sociale. I ro mani in alcuni contesti lo capirono, e oggi sta a noi non disperdere la saggezza degli antichi. Terminata la visita all’antico borgo, si è preso un traghetto per giungere a Ventotene. L’isola, centro di deten zione e di confino du rante il periodo fascista, ha visto calpestare il
Europa, società e giovani
suo suolo da uomini come Spinelli, Hirschmann, Colorni, Rossi. Sono pro prio questi gli uomini e le donne che diedero vita al manifesto “Per un’Eu ropa libera e unita”, passato alla storia come “Manifesto di Ventotene”. Il regime fascista utilizzava il confino per soffocare le idee, non tollerava il dissenso. Ma come canta Vecchioni: “Le idee sono come le farfalle, non puoi togliergli le ali”. Spinelli, Hirsch mann, Colorni e Rossi dialogarono, discussero, sognarono anche sull’i sola, e posero veramente le basi per un’Europa unita.
Purtroppo non tutti riuscirono a ve derne la riuscita: Colorni con la mente era capace di scappare lontanissimo, ma questo non fu sufficiente per fuggire dai nazisti.
L’ultima tappa per i ragazzi e per le ragazze è stata forte Cadine. Il forte, perfettamente conservato, anche
grazie ai restauri, è simbolo di popo lazioni diverse che devono convivere, di un dialogo nella diversità culturale. Simili luoghi in passato erano usati per difender si dall’altro, visto come nemico.
Oggi è tempo di cambiare pro spettiva. Ripren dendo un passo del manifesto di Ventotene: “Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge, così diverso da tutto quello che si era immaginato”. Terminate le visite nei luoghi simbolo
I nos i Migli i Aug i di Bu Natale e Felice Anno Nu o
dell’integrazione europea, ai ragaz zi tocca ora la restituzione. Questa avverrà con l’organizzazione di una serie di incontri aperti agli studenti e alla cittadinanza, in modo tale che, come desiderava De Gasperi, l’Eu ropa rimanga sempre all’ordine del giorno.
Clima e
stagioni
di Waimer PerinelliSOR’ ACQUA E FRA SOLE GODIAMOLI CON GIUDIZIO
Così parlava san Francesco nel Cantico delle Creature scritto, si crede nel 1224. In questi tempi di grande siccità, che le presenti e future nevicate non potranno cancellare rapidamente, stiamo perdendo una fondamentale “sorella”. Ma è colpa nostra?
Luca Mercalli il famoso e televisi vo climatologo dice che “E’ colpa dell’uomo perché le emissioni di gas serra continuano a salire”. Ecco che l’uomo è come Dio, ci volle il creatore per scatenare il diluvio universale. L ‘uomo è più lento e può perfino ripensarci, ma temo non accadrà. Moriremo di sete? Non solo, l’acqua non è solo sorella è la vita stessa. L’acqua è presente nel nostro corpo per il 94 per cento nei neonati e fino al 50 per cento negli anziani, con funzioni specifiche di idratazione e nutrimento. L’acqua è humile non si segnala in modo particolare ma noi sappiamo quanto è indispensabile e cerchiamo di non farla mai mancare, perché come scrive san Francesco è anche preziosa. Sul casta qualche
Laudatosi’,mi’Signore, persor’Acqua, laqualeèmultoutile ethumileepreziosaecasta.
dubbio ci viene. E’ vero che alla sorgente è cristallina, bianca come la purezza, ma poi nella discesa verso il mare perde via via la brillantezza e si
contamina di schifezze. E’ di ottobre la pesante sentenza dei giudici, tre anni di reclusione e multa salata, contro un allevatore che ha inquinato con i liquami delle stalle il rio di San Romedio. Per non parlare del mare dove tonnellate di plastica e scarichi industriali sterminano le “creature”, le altre sorelle. Altro che casta e pura. La purezza si perde anche nei mo
derni acquedotti. A Levico Terme in novembre l’acqua sgorgava da molti rubinetti di colore marroncino, forse dovuto al ferro, forse ad altri inqui nanti. Chi l’ha bevuta ha detto che non aveva proprio un buon gusto. L’acqua di cui parla san Francesco è perciò una sorella ideale, quella che nel suo medioevo aiutava l’uomo nel le attività più pesanti. Ad esempio fa ceva girare la ruota del mulino e con essa la macina per la produzione di
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farina. L’acqua, con lo stesso principio, azionava le seghe delle segherie dette veneziane molto presenti sia in trentino che nel bellunese. Esempi di segheria veneziana e ruota a pale del muli no, a grandezza naturale si pos sono ammirare al Museo degli Usi e Costumi della gen te trentina che sul rapporto fra l’ac qua e l’uomo ha organizzato visite e un convegno. Come abbiamo visto si tratta di un rapporto compli cato dove accade spesso che alla generosità inconsape vole dell’acqua l’uomo risponda con lo sfruttamento predatorio. Anche le cose pensate bene a volte diventano dannose, mortali. Una diga e una turbina imprigiona no la forza del fiume e trasformano l’energia potenziale in elettricità. Ma qualche volta l’incuria, l’avidità, l’im perizia hanno trasformato un bacino imbrifero in una bomba. Nel 1963
Clima e stagioni
l’acqua a causa di una frana impre vista tracimò dalla diga del Vajont e travolse i paesi sottostanti causando la morte di oltre duemila persone.
Nel 1966 le piogge di novembre trasformarono i fiumi Po, Piave, Arno, Adige, Tevere a cento altri in distrut tori di vite e opere d’arte.
L’acqua è indispensabile al raffred damento delle centrali nucleari che qualcuno vuole alternativa a quella idroelettrica o da idrocarburi. Ma l’acqua non basta serve la sicurez za come insegnano i disastri di di Chernobyl in Ucraina e Fukushima in Giappone.
Se trattata bene l’acqua con il suo len to correre è un’eccellente autostrada.
In Germania il fiume Reno è un’arteria vitale per il trasporto interno e verso i porti del mare del Nord ; in Italia il Po è poverello, il fratello minore, impie gato come autostrada solo in alcuni tratti, e poi abbandonato a se stesso.
Il fiume Adige in Trentino Alto Adige e nel Veneto, dove primeggia anche il Piave, fino all’estuario, è stato la via d’acqua per il trasporto dei tronchi da trasformare in palafitte per le case di Venezia o alberi per le sue navi. L’acqua è perciò umile ma non docile. Per questo, aspettando le piogge di primavera, ringraziamo per Fratello Sole che ci ha regalato un delicato autunno e fatto risparmiare sulle bollette della luce e del gas.
currunt
UN POSTO IN PRIMA FILA PER LA FINE DEL MONDO
Era la fine degli anni Sessan ta quando l’insegnante di lettere, anziano comunista convinto, disse: “Tutti i paesi devono avere la bomba atomica”. Da poco più di vent’anni era terminata la Guerra Mondiale, finita anche quella di Corea mentre in Vietnam infuriava la batta glia. L’amico centenario Gios Bernardi, medico-radiologo co fondatore del Premio Pezcoller, intervistato da Laura Mansini in altra parte del giornale, ha detto: “ Siamo fortunati, siamo vissuti in un’epoca d’oro”. Per lui, nato nel 1923, la parentesi d’oro, era iniziata male e proseguita peggio, ma dobbiamo am mettere che dopo il 1945 pur essen doci una cinquantina di guerre qua e là, dal Canale di Suez al Sud America, dal Laos ai Balcani, almeno in Italia non ce la siamo passata male e so prattutto non abbiamo mai sospetta to che potesse scoppiare una guerra mondiale. Tanto meno atomica.
Ci voleva Putin, con il suo delirio di onnipotenza e le smanie di mag giore ricchezza di chi non riuscirà a spendere un miliardesimo dei propri soldi prima di morire, per gettare sul mondo il vero incubo di una guerra nucleare. Le parole del professor De Marco, erano per questo un ammo nimento e profezia. Egli pensava che alle due potenze Stati Uniti e Unione Sovietica che l’atomica l’avevano e la prima pure già usata, si dovessero unire le altre nazioni, specialmente le più piccole, così che ognuna fosse capace di bloccare l’altra e l’atomica diventasse un deterrente contro la prepotenza dei grandi. Egli, essendo già anziano, certamente non sarà arrivato a gioire per l’avverarsi del suo progetto e leggere che Cina, Gran Bretagna, Francia, Israele, Pakistan, Corea del Nord , Sudafrica e India, si sono fatti il proprio arsenale atomico. La prima parte della sua profezia si è
avverata e l’atomica ha funzionato da deterrente. Ma noi tutti non abbiamo calcolato un fattore umano prepon derante: la follia. Solo chi ha perso la ragione può scherzare con la minac cia atomica: è noto che la bomba nu cleare è democratica, non è razzista, non distingue buoni dai cattivi.... Una guerra atomica metterebbe fine per sempre alle schermaglie delle guerre convenzionali ma al prezzo di distruggere il pianeta o almeno la razza degli uomini “sapiens”. Uno scenario inimmaginabile, terribile con un copione in corso d’opera e qual che squilibrato che lo sollecita. Mala tempora dunque e nel XVI secolo un altro profeta, William Shakespeare, nel dramma Re Laear ha scritto: Che tempi sono questi quando un pazzo guida dei ciechi. Il pazzo sceglietelo voi, i ciechi siamo purtroppo noi con un Posto in prima fila per vedere la fine del mondo.
CORO LAGORAI 1982-2022: quarant’anni di storia
Quarant’anni fa nasceva il coro di Torcegno. Oltre 100 coristi hanno cantato nel corso dei decenni e ognuno ha contributo, a suo modo, a creare la storia di questa splendida realtà. Vista l’importanza dell’avvenimento, molti sono stati gli impegni presi durante quest’anno. A partire dai concerti nelle montagne del Lagorai: al Rifugio Caldenave, in Val Campelle, all’al bergo Ruscoletta in località Musiera, al Bivacco Lasteati, presso Forcella Magna a Scurelle e in occasione di “Do pasi a Traozen” a Torcegno. La tappa più importante e impegna tiva è stata quella dei festeggiamenti del 40° di fondazione con una mostra
fotografica allestita nella palestra del Centro Polifunzionale di Torcegno e il concerto al castello di Ivano Fracena assieme al coro sardo Sos Astores. Nella palestra di Torcegno il momen to ufficiale: dopo il canto dell’“Inno al Trentino” e una breve storia del coro, ancora canti invitando sul palco tutti gli ex-coristi presenti in sala. Durane la serata sono state conferite ai fonda tori del coro, da quarant’anni ancora in attività, delle targhette per ringra ziarli e rendergli onore per l’impegno e la passione. La serata si è conclusa con una buona cena, preparata dalla Pro Loco, a cui hanno partecipato tutti i coristi, anche quelli della Sarde gna, gli ex coristi e i famigliari.
Sono ancora oggi forti, le emozioni che traspirano dai canti del robusto patrimonio popolare della Valsugana e del Lagorai. Testi semplici, parole dalle origini incerte, testimonian ze orali della vita passata, melodie intonate nelle osterie, nelle cantine, nelle stalle, in malga, canti che ora continuano ad essere vivi fra la gente, grazie all’opera della grande famiglia dei cori di montagna di cui noi fac ciamo parte. Ed è proprio fra persone semplici ed amanti del canto popo lare alpino che nel 1982, nel piccolo paese di Torcegno, prende corpo la volontà di costruire un coro. Torniamo indietro al 1953. In quell’an no Giulio Candotti venne nominato
Fatti e avvenimenti di casa nostra
maestro delle scuole elementari di Torcegno. Era un grande appassiona to di musica tanto che il parroco del paese lo nominò maestro del coro parrocchiale. Non insegnò solo canti sacri ma anche canti di montagna. Nel 1982 Remigio Furlan gli propose di riprendere in mano un coro. Can dotti accettò e la sera del 17 settem bre salì a Torcegno, dove si riunirono una trentina di potenziali cantori di tutte le età tra cui dei suoi ex alunni. Nacque così il Coro. La prima uscita ufficiale avvenne la sera di Natale, du rante la celebrazione della messa di mezzanotte nella chiesa di Torcegno. Alla direzione Giulio Candotti, come presidente Egidio Campestrin. Il Coro inizialmente nacque con il nome di ‘’ CORO DI TORCEGNO’’ per poi mutare in “CORO SASSO ROTTO”; una delle cime più importanti della catena del Lagorai che ricade proprio
all’interno del territorio comunale. Nei suoi primi 10 anni di vita ha tenuto oltre 150 concerti. Nel 1987 assunse la presidenza Guido Dalcastagné. Nel 1993, dopo 10 di guida, il maestro Candotti lasciò il coro e per un breve periodo fu diretto da Antonio Gonzo. Durante la primavera del 2002 ini ziarono le registrazioni del primo CD “Na sera in baita” che fu presentato in occasione dei festeggiamenti per il ventesimo anniversario di fondazio ne.
Nel 2003 la presidenza passò nelle mani di Giorgio Bressanini. Nell’estate dello stesso anno i coristi, dopo aver portato a spalle i materiali, ristrut turarono un ex bivacco risalente al primo conflitto mondiale nei pressi di Forcella Magna, a 2300 metri di quota nel Gruppo di Cima d’Asta. Nel 2004, i componenti provenienti non solo da Torcegno ma da diversi paesi della
Valsugana, decisero di cambiare nuo vamente nome chiamandolo ‘’CORO LAGORAI’’ e, grazie all’intervento dei vari enti pubblici, fu realizzato un filmato, un vero e proprio ‘’ video promozionale” e documentario sulla catena del Lagorai e sulla storia del posto. Il Coro, con le sue canzoni, as sunse il ruolo di ‘‘guida tematica’’. Dal novembre del 1993 ad oggi, il coro è diretto dal maestro Fulvio Ropelato. Il Coro Lagorai, continua oggi a cantare con lo stesso spirito di quarant’an ni fa, nel segno della più semplice e conosciuta tradizione popolare trentina, rifacendosi al repertorio dei canti legati alla vita contadina, alla storia della gente di montagna, con la modesta aspirazione di contribuire, assieme a tutta la famiglia dei cori trentini, a trasmettere questo immen so patrimonio, alle future generazio ni.”.
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di Francesco ZadraIl COMANDANTE PIETRO MORICONI A 10 ANNI DALLA SCOMPARSA
Una commossa serata com memorativa si è tenuta a Levico, a dieci anni dalla morte del Mar. Ten. Cav. Pietro Mori coni, per anni stimato comandante dei carabinieri di stanza nella citta dina termale. Un militare, poeta per amore, si potrebbe dire, o anche per riconoscenza, nell’impegno gene roso e amichevole, quasi fraterno, di ricambiare la bella e grande acco glienza che gli aveva mostrato la cittadinanza. Tante le poesie dell’autore scompar so, declamate nel corso della serata guidata da Umberto Uez, in collabo razione con la biblioteca comunale, in una sala consigliare gremita di pubblico, sensibile e attento. Sono stati letti anche alcuni brani dal diario di guerra di Moriconi, quando era ufficiale combattente in Ucraina, di stanza a Stalino, già colonia minera ria e industriale di Juzovka, fondata intorno al 1869, riconosciuta città nel 1917, cambiò il nome in “Stalin” nel 1924 e poi “Stalino” nel 1929, divenne presto un importante centro am ministrativo fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica distrus se completamente la città e dopo la ricostruzione, avvenuta nel dopo guerra, nel 1961 abbandonò il nome di Stalino assumendo l’attuale nome di Donec’k, in onore del fiume Donec. Uno dei testi pronunciati nel corso della serata, in particolare, riporta la memoria di Moriconi per un amico, Mario Prandel, vittima di un incidente aereo, che la sorte gli avrebbe potu
to far ritrovare poi come suo concitta dino in quel di Levico. Memorie, nomi, e luoghi, ora ritornati
sul palcoscenico del presente, impat tando nel nostro animo, con la stessa drammatica assurdità di una guerra che si vorrebbe terminata, che Mori coni riporta a supporto di una piccola luce per la coscienza di ciascuno che lo voglia ascoltare.
«Di fronte a tanta determinazione –scrive Pietro Moriconi – e visto che si trattava di fare un favore a un amico, andai dal brigadiere e lo pregai di accontentarlo. Bastava togliere dal memoriale dei servizi il nome del pre cedente incaricato sostituendolo con quello di Mario Prandel e, nell’interes se del servizio, nulla sarebbe cambia to, e così fece. Mario non stava nei panni dalla gioia, per cui mi ringraziò ripetutamente e andò via saltellando felice come non mai.
Il mattino dopo Mario salì su quell’ae roplano che poco dopo aver lasciato
lo spazio aereo di Stalino precipitò al suolo, prese fuoco e lo stesso perì nell’incendio assieme ai quattro membri dell’equipaggio.
La notizia dell’accaduto fu per me un vero dramma; infatti mi sentivo per sonalmente responsabile per averlo aiutato, anche se nella realtà dei fatti nulla era cambiato perché l’uno o l’altro doveva effettuare quel servi zio, ma per me c’era il dolore di aver perso un amico, un vero amico. La salma di Mario Prandel, come quella degli aviatori membri dell’equi paggio venne inumata con gli onori militari, nel cimitero militare di Iusso vo, al centro del quale c’era la tomba del leggendario colonnello Carretto, comandante dei bersaglieri. Subito dopo la guerra detto cimitero è stato demolito e il terreno coltivato. Nessuno, pur volendo, avrebbe potu to riportare i suoi resti a Levico.
La croce che troneggiava all’ingres so del cimitero, costruita come il cimitero stesso dai nostri militari, fu rintracciata qualche decina di anni fa
da un gruppo di reduci vicentini che si erano recati in visita ai luoghi della guerra e attualmente è conservata nel Tempio/ossario dei Caduti in Rus sia a Cargniacco vicino a Udine». Le autorità civiche e intellettuali intervenute all’evento, hanno unani memente espresso nei loro discorsi, come gli scritti e le poesie di Mori coni rappresentano già un tesoro di memorie, un prezioso riferimento per orientare pensieri e considerazioni, anche a volte con una genuina ironia d’altri tempi, ma sempre con grande rispetto e attenzione per l’altro, in grado di aiutarci a leggere e capire meglio il nostro presente, come citta dini levicensi, ma ancora di più come uomini responsabili di una convi venza solidale e positiva. La penna del poeta è come un segnale a non disperdersi e proseguire il cammino con più fiducia.
La solidarietà in cronaca
Facciamo rinascere MARIUPOL’
Tra le nefaste notizie che giun gono ogni giorno dal fronte ucraino, ci si imbatte a volte in realtà sorprendenti per la carica di umanità che testimoniano, ed è quasi impossibile fare a meno di divulgarle. È il caso di AASIB (Aiutateci A Salvare I Bambini ODV), un’associazione di Rovereto (TN) fondata nel 2001 con lo scopo di sostenere e rendere possibili le cure di bambini partico larmente bisognosi della Federazione Russa e dei Paesi dove vivono popo lazioni russofone e allo stesso tempo interessare l’opinione pubblica ita liana sui problemi dell’infanzia russa, spesso poco conosciuti.
Una associazione che si presenta con il sito aasib.org, tra le poche, se non la sola, che può considerarsi, grazie alla sua storia fin dall’evento che l’ha originata, un viaggio in Russia e l’in contro con la grande testimonianza evangelica di Padre Aleksandr Men’ che promosse di fatto il volontaria to nella società russa, un sacerdote ortodosso che visitava spesso l’Italia poiché una sua figlia viveva a Berga mo, assassinato a Mosca il 9 settem bre 1990, e la passione per il volon tariato incarnata dal suo presidente, Ennio Bordato, un concreto segnale di speranza dentro la tragedia che ha colpito due popoli in guerra, a cominciare dai più piccoli e indifesi, bisognosi di cure pediatriche. Tutte le iniziative dell’associazione sono rese possibili grazie alle raccolte di fondi da privati cittadini, associa zioni, istituzioni e imprese, e attuate in collaborazione con il Gruppo di volontariato moscovita Padre Alek sandr Men’, operante presso la Clinica pediatrica di Mosca RDKB, Ministeri
regionali della Sanità e altre associa zioni e istituzioni locali.
Tra i progetti più recenti avviati dall’associazione scegliamo di ripor tare in particolare quello denominato “Facciamo rinascere Mariupol’”.
La città di Mariupol’ è divenuta triste mente famosa a causa della deva stazione seguita agli eventi bellici della primavera del 2022 in cui oltre il 33% degli edifici della città sono stati distrutti o seriamente danneggiati.
Tra questi anche l’Ospedale N.V. Sapli na ha riportato seri danni, ma nelle ultime settimane è stato ristrutturato e riportato alla normale agibilità. Un ospedale con un bacino d’utenza re lativo a 530 mila abitanti che vedeva una natalità di 4600 neonati l’anno.
Le attrezzature del reparto Neona tologia sono però, irrimediabilmen te, andate distrutte e la dirigenza ospedaliera chiede aiuto per riaprire il reparto alle migliaia di donne che annualmente partoriranno nella struttura.
L’Associazione AASIB, sin dai primi giorni dopo la cessazione delle osti lità in città, è riuscita a raggiungere Mariupol’ donando aiuti umanitari a oltre 100 famiglie e speciali kit dedicati alle loro necessità alle donne ricoverate nei reparti di Neonatologia di fortuna, e ora vuole continuare con il progetto di donare le nuove attrezzature necessarie al reparto di Neonatologia della città, accogliendo la richiesta del Primario dell’Ospedale N.V. Saplina, che scrive:
«In relazione alla prossima riapertura del Dipartimento di Ostetricia e Gine cologia l’Amministrazione dell’Ospe dale per le cure Intensive di Mariupol’, chiede il vostro aiuto volto a disporre di attrezzature mediche necessarie al buon funzionamento del reparto ‘Neonatologia’, ciò allo scopo di poter nuovamente fornire cure mediche ospedaliere qualificate alle donne durante la gravidanza, il parto, e il periodo postpartum della città di Mariupol’ e del suo circondario».
Il personaggio di ieri tra Storia e Religione
di Waimer PerinelliCARLO PRIMO IL BEATO IMPERATORE
L’ingegner Guido Nessler nostro collaboratore e at tento cultore della storia, ci invita a riflettere sulla coincidenza fra l’appello alla pace di Papa Benedet to XV, più di cento anni fa e quello dell’attuale pontefice Francesco in favore della pace in Ucraina. Papa Benedetto XV si rivolse a tutti i bel ligeranti ma ad impegnarsi subito, anche per la grave situazione in cui si trovava l’impero asburgico, fu solo l’ Imperatore d’Austria e re d’ Unghe ria Carlo Primo. Aveva ereditato dallo zio Francesco Giuseppe, morto dopo 68 anni di regno il 21 novembre del 1916, il titolo imperiale e la Grande Guerra. La sua ascesa all’impero era stata caratterizzata da due tragiche vicende. La prima è il suicidio, ma si sospetta omicidio, del principe Rodolfo d’Asburgo trovato morto con la sua amante Maria Vetsera nel fantasioso castello di Mayerling. Il principe Rodolfo era l’unico figlio maschio di Francesco Giuseppe e la sua morte avvenuta nel 1889, aprì la strada alla successione al trono a Francesco Ferdinando d’Austria-E ste figlio di Carlo Ludovico fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe il quale, non più giovanissimo, si trovò coinvolto nel conflitto mondia le. Causa scatenante della guerra fu l’assassinio a Sarajevo di Ferdinando il 28 giugno del 1914. La storia ci racconta di un attentato, organizzato dall’associazione Mlada Bosna, che si batteva per l’indipendenza della Bosnia dall’impero, ed eseguito dal bosniaco Gravilo Princip. Due colpi di pistola misero fine alla vita dell’e
rede al trono e della moglie. E fu così che a causa di due tragedie Carlo d’Asburgo Lorena-Este, figlio dell’Ar ciduca Ottone d’Austria, si ritrovò erede al trono e divenne imperatore nel 1916 in pieno conflitto mondiale.
La guerra durava da due anni ma già nel settembre del 1914, poco tempo dopo l’elezione al soglio di san Pie tro, papa Benedetto XV aveva rivolto un appello per la pace. Il conflitto era iniziato nel giugno dello stesso anno
Il personaggio di ieri tra Storia e Religione
e nessuno apparve intenzionato a porne fine.
Il Papa rinnovò l’appello il primo ago sto del 1917 con la “ Lettera ai capi dei popoli belligeranti”. Carlo d’Au stria, visto anche l’andamento nega tivo del conflittoe le soffereze imoste alle popolazioni, accolse l’invito e pro mosse la pace separata con Francia e Inghilterra. Lo fece segretamente e questo fu un errore politico poiché il primo ministro francese Clemenceau svelò il fatto e gli alleati, Germania in testa, si sentirono traditi. La guer ra continuò fino alla sconfitta degli Imperi centrali. Carlo I lasciò l’Austria dove venne proclamata la repubblica. Gli vennero confiscati i beni di stato e visse, ospite di ricchi amici, con la rendita di alcune proprietà private. Morirà nel 1922 a soli 34 anni, esule nell’isola di Madeira dov’era confinato dopo due tentativi falliti di tornare al potere in Ungheria.
La beatitudine
Carlo primo (quarto come re d’Un gheria) aveva sposato nel 1911 la principessa italiana Zita di Borbo ne-Parma dalla quale ebbe sette figli. La principessa si adoperò perché la
Chiesa riconoscesse la “santita’ ” del marito il quale sicuramente era una brava persona ma il 24 ottobre del 1917 ordinò l’assalto alle posizioni ita liane a Caporetto con l’impiego di gas mortali. Per questo il processo di bea tificazione avanzò lentamente e solo nel 1954 si ebbe la proclamazione di Carlo a “Servo di Dio”. Grazie all’ap poggio del cardinale Schoenborn, il processo di santità proseguì e il 3 ottobre del 2004 papa Giovanni Paolo II lo proclamò Beato. Zita di Borbone Parma, ultima imperatrice d’Austria, è stata a sua volta riconosciuta “Serva di Dio”. E’ morta a 97 anni il 24 marzo del 1989 ed è sepolta nella Cripta dei Cappuccini a Vienna.
Drammatiche analogie
Guido NesslerMentre infuriava il pri mo conflitto mondia le, il papa Benedetto Quin dicesimo inviò un accorato appello a tutti i governanti delle potenze belligeranti af finché sospendessero quella che aveva definito “l’inutile strage”. Soltanto l’imperatore d’Austria e re d’Ungheria Car lo d’Asburgo aderì all’appello del papa, attivando tutti i mezzi diplomatici che aveva a disposizione per il raggiun gimento della pace. Tutti gli altri stati, Italia compresa, re spinsero l’appello del papa, che avrebbe risparmiato la vita a milioni di persone ed evitato indicibili sofferenze e devastazioni. Nel 2004, il papa Giovanni Paolo Se condo ha proclamato beato Carlo d’Asburgo per avere dedicato tutte le forze per la pace, come pure per la sua vita esemplare, terminata in esilio ed in povertà a soli trentaquattro anni. Esistono drammatiche analogie con la situazione attuale, inne scata dalla guerra in Ucraina. Papa Francesco sollecita continuamente la sospensio ne delle ostilità, ma nessuno vuole ascoltarlo. Si preferisce invece inviare sui luoghi del conflitto enormi quantitativi di armi alimentando così la guerra in modo estrema mente pericoloso.
Società oggi
di Monica ArgentaL’amicizia intergenerazionale: Un viaggio per l’anima alla portata di tutti.
Idati parlano chiaro: chi trova un amico, trova un tesoro. Ce lo ricorda, tra gli altri, il rapporto di Cigna, importante gruppo assicura tivo americano pubblicato nel 2018. La ricerca, svolta sulla salute di oltre 20.000 americani adulti, rivela che1 persona su 6 soffre di un malessere attribuibile ad una percepita condi zione di solitudine e sono soprattutto i più giovani ad esserne colpiti. Stati sticamente infatti sono proprio i così detti Millenials (i nati cioè tra il 1981 e il 1996) assieme alla Generazione Z (i nati negli anni 1997-2012) che si sentono più soli, molto più delle generazioni precedenti. Una questio ne importante questa, se si pensa che svariati studi dimostrano che la soli tudine ha un impatto sulla mortalità pari a quella del fumare 15 sigarette al giorno, un impatto maggiore a quello derivato dall’obesità. Contrariamente ai luoghi comuni, lo stato di solitudine non ha molto a che fare col vivere soli o in famiglia, col l’avere una occupazione o essere disoccupati ma pare invece che la solitudine venga percepita come la mancanza di vere amicizie. Sempre lo studio di Cigna infatti evidenzia che quasi il 60% degli intervistati ha dichiarato di non sentirsi compreso da partners e colleghi, di non avere nessuno con cui passare del tempo aprendosi veramente, di non avere amicizie profonde. Certo, la nostra società non facilita relazioni basate sull’empatia e la comprensione e, in special modo nel nostro opulento e tecnologico Occidente, oramai non si
ha più tempo per “coltivare” qualcosa che non abbia un diretto riscontro pratico ed economico. Tuttavia, l’amicizia è un vero toccasana, al pari della dieta bilanciata e dell’adeguato esercizio fisico. Trovare nuovi amici non è cosa semplice, oltre al poco tempo c’è il timore di aprirsi ed essere giudicati, non capiti, traditi. In tal senso ci può però venire in aiuto una strategia, in realtà vecchia come il mondo ma forse ultimamen te dimenticata: stringere legami con persone di età molto diversa dalla nostra. La chiamano “amicizia interge nerazionale” e psicologi e sociologi assicurano funzionare bene avendola messa anche sotto la lente d’ingran dimento in alcuni loro studi specifici in diverse nazioni occidentali. Infatti, uno dei grandi problemi della nostra società è l’aver diviso i gruppi genera zionali in veri e propri “contenitori” : i giovani frequentano solo determinati luoghi, edifici e in determinate fasce orarie che sono diversi dagli spazi e dai tempi dei cinquantenni e diversi ancora da quelli degli ottantenni o dei bambini.
Oramai le amicizie si concretizzano solo tra coetanei, facendo svanire una delle tante belle opportunità che ci offriva la vita fino a mezzo secolo fa. E’ per questo che ci sono stati e ci sono moltissimi “interventi di inclusione so ciale” dove si sono facilitate le relazio ni e le amicizie intergenerazionali e si è potuto constatare scientificamente che queste riescono a risolvere tanti piccoli e grandi malesseri. Pare infatti che il livello di diffidenza,
indifferenza, senso di “sentirsi diversi” si abbassi vertiginosamente quando interagiamo con una persona mol to lontana dalla nostra fascia di età. Le barriere che consciamente, ma soprattutto inconsciamente, non ci permettono di comunicare con un coetaneo sono facilmente abbassate con un bambino o un anziano e que sto ci permette di essere più sereni, più sinceri e quindi più predisposti a gettare le basi per una vera amicizia. La letteratura scientifica a riguardo è vasta e lascio al lettore particolar mente interessato scoprire di più su questo ambito di studi.
Qui mi limito a ricordare che anche nella nostra provincia, nei nostri pic coli paesi, le opportunità di incontro volendo non mancano come sanno bene i nostri bibliotecari o i gesto ri dei musei che spesso lanciano iniziative di questo tipo. Le amicizie intergenerazionali sono relativa mente semplici da far sbocciare e chiunque ne abbia avuto esperienza può testimoniare quanto sia bello, divertente e costruttivo. A volte basta poco per venire a contatto con prospettive diverse, avere accesso a realtà sconosciute, condividere sensibilità che credevamo perdute senza spostarci troppo da casa. Non neghiamoci dunque questo vero e proprio viaggio dell’anima e ...Buon 2023 a tutti.
Festa
dell’albero 2022: una promessa, più che una semplice ricorrenza.
Novembre è il mese dedicato agli alberi e la nostra peni sola, paradiso europeo del la biodiversità botanica, non poteva fare a meno di dedicare una giornata celebrativa ai ‘’polmoni della Terra’’. Molte scuole, di diverso ordine e grado, si sono impegnate su tutto il territorio nazionale a dare un contri buto finalizzato alla realizzazione di nuove aree verdi ed alla valorizzazio ne e cura di quelle già esistenti. L’ evento, di fatti, risulta di particola re rilievo se si considera il contesto storico in cui esso si svolge: siamo in uno dei periodi storici più critici per
quanto concerne l’ incidenza delle calamità naturali.
Esondazioni, frane, trombe d’ aria, alluvioni, aumento repentino delle temperature non sono infatti solo orridi scenari di film apocalittici, ma fenomeni abitudinari che scandisco no le nostre stagioni.
Alla base di queste bizzarrie metereo logiche vi è senza dubbio il corrosivo intervento dell’ uomo, essere egoista e mercificatore, il quale basa la pro pria esistenza sull’ economia. Questo termine ha la stessa radice di ‘’ ecosistema’’: si tratta infatti rispetti vamente della ‘’ legge della casa’’ e del
‘’sistema-casa’’, che pur suonando alla pronuncia come termini affini, sono in realtà antitetici, dato che spesso l’ economia, il desiderio di lucrare e produrre profitti, porta alla distruzio ne della comune ‘’casa’’, ‘’oikia’’. L’ unico antidoto a questa involuzione dell’ umanità potrebbe essere rappre sentato, oltre che da una riduzione dei combustibili fossili che liberano anidride carbonica nell’ atmosfera, dalla cura degli alberi, veri e propri filtri capaci di ridurre il biossido di carbonio libero e di rallentare i cam biamenti climatici. Le specie arboree rappresentano infatti dei veri e propri
Società oggi
paladini, aventi come armi le foglie e le radici, come scudo varie sostanze come la lignina e la suberina, e come missione quella di difendere il nostro pianeta dalle catastrofi. Numerosi sono i vantaggi apporta ti da questi esseri viventi: oltre ad assorbire anidride carbonica, essi migliorano la qualità dell’ aria, evitano lo spreco di acqua filtrando le falde, riducono la corrosione del suolo ed il rischio frane per mezzo dell’ appa rato radicale, offrono zone d’ ombra in città, proteggono dalle raffiche di vento, ospitano varie specie in via d’ estinzione e rendono più accoglienti e rilassanti i centri cittadini. La miscela gassosa che respiriamo, infatti, viene filtrata proprio da questi giganti buoni, i quali aumentano la quantità di ossigeno ed assorbono inquinanti e polveri sottili. Non a caso sono sempre più numerosi gli
interventi atti a favorire la nascita di spazi verdi nei centri urbani, dalle ‘’ slum areas’’ ai più recenti palazzi dotati di splendidi giardini pensili, atti ad impermeabilizzare, abbellire ed ossigenare le strutture.
Tra l’ altro l’ albero, nella nostra iconografia, ha da sempre rappresen tato un legame di fede tra Dio e gli uomini, per i credenti, e lo scenario di numerose leggende, come quella delle streghe, o dei malocchi per i più superstiziosi, ma sopratutto la ca pacità di fruttificare, di generare vita. Singolare risulta anche la tendenza in voga negli ultimi anni a piantare una ‘’ capsula mundi’’, ossia un’ urna di ce neri del defunto accolta nelle radici di una specie arborea, a simboleggiare la vita eterna che passa dalla sostan za organica della salma all’ apparato radicale del longevo essere vegetale, un po’ come accade per la simbolo
gia del cipresso, albero dei cimiteri‘’ sempervirens’’, sempreverde, che rappresenta l’ immortalità delle anime dopo la dipartita dal corpo.
Se l’ albero dunque rappresenta un simbolo antico e diffuso, è pur vero che la sua importanza è particolar mente evidente negli ultimi anni, quando esso può assurgere ad un en nesimo simbolo, quello di salvatore.
Se l’ Italia può vantare ben 21 miliardi di alberi, secondo i rilevamenti GPS del corpo forestale, l’ impegno e la promessa più grande che ogni citta dino potrebbe fare per non rendere vana questa festività, accanto a quelle espresse dalle istituzioni, sarebbe quella di aumentarne il numero e di rispettare quelli già esistenti, ricor dando che valgono più come filtri che come mensole o taglieri, perché delle suppellettili si può far a meno, ma dell’ ossigeno?
ANTEPRIMA DEL PRIMO LIBRO DI LILLI ANIBALDI
AVilla S. Ignazio, sulla collina delle Laste a Trento, è stato presentato in anteprima il primo libro di Lilli Anibaldi, La scatola d’arzent. Il libro, che raccoglie 43 liriche in dialetto trentino dell’esordiente Lilli, è stato presentato in dialogo con l’autrice e l’illustratrice Anita Anibaldi, (sorella di Lilli), da Renzo Francescotti autore di notorietà naziona le, con al suo attivo oltre cinquanta libri di saggistica, narrativa e poesia, quattro dei quali tradotti all’estero. Il libro di cui Francescotti è curatore è prefatore è in corso di stampa, e si è deciso di parlarne in anteprima. Lilli Anibaldi si è iscritta lo scorso anno al 24° corso di poesia tenuto da Francescotti a Villa S. Ignazio, nella scia di sua sorella Anita. E lì ha scoperto la sua vocazione poetica, raccogliendo le 43 poesie in dialetto de La scatola d’arzent, scritte in poco più di un anno. Figura centrale della raccolta è la nonna Angela (nome nomen) invalida a letto per 18 anni, l’unica della famiglia (in cui vive anche il nonno Augusto) che parla sempre in dialetto con la nipotina. La figura della nonna, il tema dell’infanzia, i ricordi di una famiglia che vive ancora in modo patriarca le, la Trento che a un certo punto muta in modo rapidissimo sono la materia trasfigurata in versi di straordinaria originalità, che sorprendono in un’o pera prima. Quando questo libro apparirà nelle librerie o sul web sarà un’autentica rivelazione, ha concluso Francescotti.
Coppie che scoppiano
QUANDO ARRIVA LA CASTITA’
La fantasia, la storia e talvolta la cronaca ci raccontano di epoche lontane con società dai costumi sessuali liberi. I dipinti sui crateri greci, le cene di Trimalcione in Satyricon, i racconti delle Mille e una Notte, le novelle di Canterbury, le avventure di Boccaccio nei tempi della peste, sono scene di vita dove sentimenti romantici s’intrecciano con la cruda realtà descritta in modo realistico nelle poesie di Gioacchino Belli. Queste e molte altre erano le letture proibite della gioventù del Novecento che non fu emancipata nemmeno dal cinema oggetto di censure sotto la cui scure caddero i film di Fellini, Bertolucci e Pasolini. Il sesso questo sconosciuto. Ora che la censura è stata censurata, che la televisione offre film di ogni genere a qualsiasi ora, dovremmo ritrovarci in un mondo di sporcac cioni, guardoni, pervertiti. In parte è vero ma non più vero di cento anni fa quando i bordelli tenevano al “chiuso” il sesso e i giovani, scoprivano l’altro sesso dopo il matrimonio. Come accadde perfino a Romeo e Giu lietta segretamente sposati da frate Lorenzo.
E oggi, quando tutte le barriere sono cadute che cosa accade? Da una parte si diffondono modelli e com portamenti erotici. La fondazione Foresta di Padova scrive che l’89 per cento dei giovani segue influencer super erotiche e la la vendita dei sex Toy è aumentata del 227 per cento. Tuttavia proprio la sovraesposizione crea una delle previsioni dei sociologi degli anni Sessanta del Novecento: arriva la catarsi. La frequentazione delle immagini e del sesso ne riduce
l’attrazione.
Lo scandalo non fa più scandalo. Sembra che oggi siano in molti a considerare il sesso sopravvalutato. Soprattutto fra i giovani. l’Ultimo rapporto CensisBayer sul comporta mento sessuale degli italiani (2019) ha evidenziato che 1milione 600 mila persone con età compresa fra i 18 e i 40 anni, non avevano mai avuto un rapporto sessuale completo. Pare che gli asessuati siano fra l’1 e il 2 per cen to della popolazione. Sembra infine che l’eccesso di sesso abbia portato all’astensione sessuale.
Gli astenuti dal sesso ci sono sempre stati ma oggi ci sono meno problemi a rivelarlo. I testimonial non mancano.
Brad Pitt dichiara che dopo essersi lasciato con Angiolina Jolie non ha praticato sesso per un anno.(Get ty-Corriere della sera).
Adriana Lima 41 anni, dichiara di avere atteso il matrimonio per avere
di Waimer Perinelliil primo rapporto sessuale. Giulia Stabile 19 anni, ballerina, vincitrice di uno show televisivo alla domanda di quando e come ha avuto il primo rapporto sessuale risponde: “ Non non c’è ancora stato”.
Naturalmente nessuno ha intenzio ne di emulare gli impegni assunti dai religiosi cattolici, castità per i sacerdoti e verginità, cioè astensione totale per le donne che rinnovano i voti delle vestali romane. Tuttavia la castità, molto più frequente, viene scelta per motivi diversi. Come Brad Pitt quando non c’è un partner o dalle regole, vere o presunte della preparazione sportiva, oppure come abbiamo visto per motivi morali e religiosi. Un recente documento del Vaticano invia i giovani ad astenersi dal sesso prima del matrimonio. Non è una novità anzi, è uno dei principi fondanti della Chiesa Cattolica, ma ha sorpreso non poco come una “voce che predica nel deserto”. Già nell’Ot tocento il filosofo Fredrich Nietzsche dichiarava che “la castità è contro natura. Ogni disprezzo della vita ses suale, scriveva, ogni contaminazione della stessa con il concetto di impuro è il vero e proprio peccato contro il sacro spirito della vita”. Il che non era un invito al disprezzo della morale ma il suggerimento a non demonizzare quelli che in fondo sono i doni di Dio. Anzi a valorizzarli, visto che in fondo, forse ancora per poco, sono l’unico modo che le specie animali hanno per riprodursi.
In tutta questa controversia è ancora da preferire quanto avrebbe affer mato sant’Agostino, insospettabile servo di Dio, “ Signore dammi castità e continenza. Ma non subito”.
cassaforte e collegamento wifi. L'hotel come il ristorante è accessibile a portatori di handicaps. Cucina tipica e tradizionale. Possibilità di piatti vegetariani e senza glutine. Forno a legna per meravigliose pizze.
Uomo, natura e ambiente
PROFESSIONE VETERINARIO
Una tragica vicenda, di cui hanno parlato tutti i giornali anche a livello nazionale. Si tratta dell’incidente mortale avvenuto di recente nel Veronese, che è costato la vita a Chiara Santoli, trentina di Ro vereto, laureata di recente in Veteri naria presso l’Università degli Studi di Padova e, dal mese di marzo, iscritta all’Ordine dei Veterinari.
Un improvviso movimento del bovino, che stava visitando con un collega di provata esperienza pro fessionale, ha schiacciato la giovane 25enne contro il profilo metallico che separa le poste (cuccette) nella stalla. Chiara ha riportato un trauma cranico e un trauma toracico che le sono stati fatali. Il veterinario che era con lei è intervenuto immediatamen te tentando le manovre di rianima zione, ma inutilmente. I soccorritori del Suem 118, arrivati con l’elicottero di Verona Emergenza, hanno potuto soltanto constatarne il decesso.
La professione del veterinario, a contatto ogni giorno con gli animali, diventa sempre più faticosa, impe gnativa e carica di problemi e di responsabilità.
Abbiamo sentito la voce del dott. Giovanni Bernardini, classe 1963, nato a Trento ed iscritto al n. 263 dell’e lenco dei Veterinari della Provincia di Trento, che lavora nelle stalle della Val di Non e Val di Sole. Giovanni si è impegnato anche nell’Ordine dei Veterinari di Trento come Consigliere dal 2011 al 2017.
Una tragedia imprevedibile - dice Giovanni Bernardini – perché abbia mo a che fare con animali pesanti
fino a 6/7 quintali, prevalentemente docili, ma che a volte possono diven tare anche aggressivi. E’ quindi un lavoro, quello del Veterinario, che va svolto in sicurezza, prestando la mas sima attenzione e concentrazione per evitare rischi imponderabili. Ma il lavoro del veterinario, che per Giovanni riguarda la specializzazione in buiatria, ovvero la branca della
veterinaria che si occupa delle ma lattie dei bovini, è anche affascinante perché permette di stare in contatto con tanti allevatori e di operare all’a ria aperta.
Consiglierebbe oggi questa professione ai giovani trentini?
Sì, perché la mia, la nostra professio ne ci gratifica di tante soddisfazioni a fronte di innumerevoli e diversi problemi da affrontare prestando le cure non in una camera sterile, ma sulla cuccetta di una stalla, con tutto quello che comporta dal punto di vista igienico-sanitario.
Trent’anni fa, quando ho iniziato a lavorare, la realtà era diversa. Oggi ci sono due aspetti da considerare: la burocrazia sempre più pressante, che ci priva del diritto deontologico di as sumere decisioni nel mettere in atto le terapie che riteniamo più consone al caso di specie e che ci obbliga a seguire pedissequamente il “bugiardi no”. Non meno importante è l’aspetto
delle retribuzioni, che sono esigue a fronte del servizio, che è dato di prestare continuativamente per 24 ore. Oggi, con l’obbligo dell’emissione di ricette elettroniche, della conser vazione e aggiornamento quotidiano dei registri di carico e scarico delle medicine, del controllo dell’armadio farmaceutico di stalla, è diventato tutto più difficile. Siamo in una fase di passaggio e, probabilmente, i giovani sono più portati e predisposti al mon do del digitale, noi meno. E’ una professione, la nostra, comun que faticosa. Io lavoro da oltre 30 anni e, tra parti ed altri interventi sui bovini, ho dovuto sottopormi all’in serimento di protesi ad entrambe le anche, una nel 2013 e l’altra nel 2016. Le mie spalle non sono messe me glio. Dopo tanti anni il lavoro è molto impattante sul fisico. Noto, però, po sitivamente, che sono sempre di più le donne che intraprendono la nostra professione e questa è comunque una cosa importante. Da recenti ricer che, infatti, le donne sono la maggio ranza del mondo veterinario in Italia; per numero hanno superato i col leghi maschi. Tuttavia, soltanto due su dieci hanno avuto, nel corso della loro carriera, l’opportunità di ricoprire ruoli di vertice.
Da una ricerca del Censis è provato che la professione del veterinario è fonda
mentale per la gestione razionale degli allevamenti. E’ utile e tecnicamente impegnativa anche per il benessere animale. Sono questi i tratti costitutivi del lavoro del medico veterinario nell’immaginario collettivo, che vanno a delineare e a riconoscerne il lavoro come affascinante e comples so.
Come vede il rapporto degli alle vatori trentini con i loro animali?
La realtà, che seguo io, è medio-pic cola. L’allevamento più grande è di circa 150 animali. Permane ancora un’interdipendenza tra l’allevatore e i suoi animali. In molti casi ho notato anche una forma di rapporto affetti vo verso l’animale piuttosto che un approccio esclusivamente reddituale allo stesso.
Uomo, natura e ambiente
Si parla tanto di orsa F43 cosa ne pensa?
Il rapporto orsi ed allevatori è sen z’altro conflittuale. Io credo che sia necessario trovare degli equilibri e questo vale sia per gli orsi ma anche per i lupi. Chi ha la responsabilità della loro gestione deve anche indi care quale dovrebbe essere il carico massimo oltre il quale la convivenza può diventare problematica.
Secondo Lei come va tutelata la fauna?
Sicuramente in natura si raggiunge sempre un equilibrio e anche qui è necessario ottenerlo affinché ci sia lo spazio per i selvatici, arrivando ad una convivenza tra tutti, compresi gli al levatori, che vanno educati a ciò, ma anche tutelati, perché essi sono un importante patrimonio per la salva guardia del territorio montano.
Parliamo infine di questa emer genza sanitaria ovvero Covid 19. Ha avuto casi riscontrati su bovini? Non ho avuto casi di Covid 19 tra i miei pazienti. Non esiste alcuna evidenza che gli animali giochino un ruolo epidemiologico nella diffusione di SARS-CoV-2, che riconosce il contagio interumano come la via principale di trasmissione. Tuttavia, poiché la sorveglianza veterinaria e gli studi sperimentali suggeriscono che alcune specie animali (mustelidi in particola re) sono suscettibili a SARS-CoV-2, è importante proteggere gli animali da pazienti affetti da Covid-19 (operatori, proprietari, veterinari, ecc.), limitando ne l’esposizione. Nel corso della pan demia sono state notificate in diversi Paesi positività per SARS CoV-2 in ani mali sia allevati che domestici. Eviden ze epidemiologiche dimostrano che felini (gatti domestici e selvatici), visoni e cani sono risultati positivi al test per SARS-CoV-2 a seguito del contatto con persone infette. (Probabilmente si tratta di una positività passiva!).
Per un sereno e felice Natale
CHRISTMAS DREAM
IL CONCERTO DI NATALE DELLA CASSA RURALE ALTA VALSUGANA PER IL CIAD
Un concerto di Nata le all’insegna della solidarietà quello promosso dalla Cassa Rurale Alta Valsugana il 15 dicembre presso il Teatro Comunale di Pergine.
“Christmas Dream” è il titolo della serata dedicata a soste nere un progetto di aiuti a favore del martoriato Ciad, la repubblica centrafricana che conta una popolazione di circa 11 milioni e 400mila abitanti, un indice di sviluppo tra i più bassi al mondo e un’altissima mortalità infantile. Miseria e mortalità infantile. Due tristi binari su cui corre un treno di disperazione che sembra non volersi fermare mai. Per cercare di risollevare le sorti di questo Paese, don Guido Piva, un sacerdote originario di Santa Caterina che ha trascorso dieci anni da missionario proprio in Ciad, ha lanciato un progetto con azioni concrete mirato a portare sollievo e speranza in quelle aree devastate. Don Piva ha bussato a tante porte, anche a quella della Cooperazione, decidendo di portare in Trentino il suo messaggio, affinché la comunità non rimanga sorda a chi soffre ed è dimenticato. La Coope razione gli ha aperto le porte, quelle di una comunità generosa e coesa abituata a ragionare e decidere su basi solide e sostenibili. Ne è nato un progetto che si fonda su due capi
saldi: sanitario e agricolo e di conse guenza alimentare. Un progetto che vuole aiutare le persone a investire e credere nelle opportunità del loro territorio con una politica agricola sostenibile, accorta e mirata.
“Questo progetto – sottolinea il Presi dente della Fondazione Cassa Rurale Alta Valsugana Giorgio Vergot – pun ta a fornire strumenti e competenze sanitarie per salvare le vite di giovani mamme e dei loro bambini. Ma so prattutto è basato su un programma
serio di sviluppo orientato al raggiungimento della autosufficienza alimentare e concreta possibilità di far fronte agli importanti effetti dei cambiamenti climatici, verificabile nel tempo che sta già trasformando un sogno in realtà”.
Il concerto, coordinato dal Maestro Andrea Fuoli, vedrà alternarsi sul palco momenti di musica e di riflessione. Numerosi gli artisti che si esibiranno: dal violino di Teofil Milenkovic al clarinetto di Rocco Debernadis, dal piano forte di Mattia Rosati alle voci del soprano lirico Katarzyna Medlarska e della cantante Catia Borgogno al Coro della scuola primaria “Don Milani”, ai cori Abete Rosso di Bedollo, Highlight, La Tor e a quello della Scuola Musicale “Camillo Moser”, accompagnati dall’Or chestra Giovanile Trentina.
Un evento impreziosito dalla partecipazione straordinaria attraverso alcuni contributi video di personaggi dello spettacolo del calibro di Enzo Iacchetti, Sergio Muniz, Francesco Paolantoni, Cesare Bocci e Michele Mirabella impegnati ad interpretare poesie e pensieri di grandi autori del passato che hanno fatto del sogno e della speranza di un mondo migliore una ragione di vita. Una preziosa occasione per ricordare a tutti il vero e profondo senso del Natale.
Cassa Rurale Alta Valsugana vince il premio Sostenibilità cooperativa
CONFCOOPERATIVE
ATTRIBUISCE ALL’ISTITUTO TRENTINO IL PRESTIGIOSO RICONOSCIMENTO
“È
un orgoglio per tutta la comunità dell’Alta Valsugana aver ricevuto questo prestigioso premio naziona le, attribuito da Confcooperative al nostro Istituto. Siamo stati insigniti di questo riconoscimento per il pro getto “Mountain University Village Lagorai” quale unica banca di credito cooperativo in Italia e, contempo raneamente, unica cooperativa del movimento trentino.
Queste le parole del Presidente della Cassa Rurale Alta Valsugana, Franco Senesi, che ha ricevuto nella sede romana di Confcooperative lo scorso 3 novembre il Premio “Sostenibilità cooperativa”, alla presenza delle rap presentanze del mondo cooperativo italiano.
“Energia per cooperare” è il titolo della giornata della sostenibilità coopera tiva, un evento promosso da Confco operative, con il patrocinio del MiTE, e la partecipazione di Fondosviluppo – Assimoco - Cooperazione SaluteCoopermondo - Ctc – Gruppo Cassa Centrale Banca - Iccrea – Icn - Node - Power Energia, nel corso della quale sono stati consegnati i 17 riconosci menti ai vincitori del concorso sulla sostenibilità cooperativa promosso da Confcooperative e Fondosviluppo. Diciassette come gli obiettivi previsti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile.
L’evento, a cui hanno partecipato 144 cooperative di tutte le federazio ni e regioni d’Italia, ha registrato la
premiazione della Cassa Rurale Alta Valsugana, per il progetto dedicato al nuovo studentato “Mountain Univer sity Village Lagorai” che ci si propone di realizzare a Pergine Valsugana e che risponde alle crescenti esigen ze di spazi abitativi degli studenti universitari provenienti da tutto il Triveneto e dalla Regione Lombardia che hanno scelto il Trentino come meta del loro percorso di studi. Un progetto di ampio respiro promosso e sostenuto dalla Cassa Rurale Alta Valsugana con il placet del Comune di Pergine e la condivisione dell’Università degli Studi di Trento e dell’Opera Universitaria che potrà ospitare fino a quattrocento posti letto.
Muv Lagorai nasce da un’operazione di rigenerazione urbana di un’area dismessa che fu dell’industria tessile Cederna, nella quale si prevede la rea
lizzazione di un articolato comples so residenziale e relativi servizi per studenti, che comprende, oltre agli edifici, un parco urbano, attrezzature sportive e per fitness, spazi comuni, percorsi pubblici e una piazza.
La prossimità di Pergine Valsuga na con il capoluogo trentino ed in particolare con le sedi universitarie di collina, peraltro, rappresenta un ulteriore motivo per scegliere Muv Lagorai come sede abitativa per gli studenti.
“Consapevoli di aver messo, giu stamente, in campo un’iniziativa di ampio respiro – ha sottolineato in chiusura il Presidente Senesi – ci au guriamo che tutti gli attori nazionali, PNRR in primis, e locali, possano dare il necessario supporto a questa idea che rappresenta un tassello fonda mentale per lo sviluppo futuro delle nostre comunità”.
Ho Tornosbagliato?indietro!
Quante volte ci capita di imboccare la strada sbagliata, di fare una scelta di cui ci pentiamo?
A volte non ci accorgiamo neppu re dove abbiamo deviato, altre può succedere che ci rendiamo conto di sbagliare ma, in quel momento, quella ci sembra l’unica via percorribile. Quando la strada su cui stiamo viag giando si rivela non essere quella giusta, dobbiamo prendere provvedi menti. Fortunatamente sono diverse le soluzioni che possiamo vagliare. Oggi te ne propongo una, che viene sug gerita da Mattia Pascal, protagonista dell’omonimo romanzo di Pirandello. Mattia è figlio di un ricco possidente che non ha alcuna fiducia nelle sue capacità gestionali. Per questo affida l’amministrazione del suo patrimonio ad un tutore e lascia che il figlio cresca nella pigrizia. Ma quando il padre muo re, mentre Mattia continua a godersi la vita, l’amministratore, un po’ alla volta, ri esce ad impossessarsi di tutti i suoi beni. Il giovane si trova presto in miseria e con la fidanzata incinta. Si celebra quindi il matrimonio, ma la vita coniu gale diventa un inferno, perché non passa giorno senza che la suocera gli rammenti la sua inettitudine. Quando muoiono improvvisamente sia sua madre che la figlioletta, unica conso lazione della sua vita, Mattia decide di imbarcarsi per l’America. Sale sul treno alla volta di Marsiglia e fa tappa a Montecarlo. Per curiosità, gioca un po’ di denaro al casinò e, stavolta, la fortuna gli sorride tanto da vincere un capitale. Con quei soldi pensa di riacquistare una parte dei beni perdu
ti, per ritrovare la pace familiare. Ma mentre sta tornando a casa vede, su un giornale, il suo necrologio: era stata attribuita la sua identità ad un cadave re non identificato.
Dal momento che il gruzzolo è cospi cuo, decide di scappare e vivere di ren dita: indossa un nuovo nome, cambia il taglio di capelli e diventa Adriano Meis. Prima visita l’Italia poi, stanco di girova gare, si stabilisce a Roma dove trascor re un periodo sereno. Ma quando si innamora, la sua falsa identità, non gli permette di sposare la ragazza che lo corrisponde.
Comprende allora di non aver alter native: deve tornare indietro. Elimina Adriano, indossa di nuovo i panni di Mattia e riprende la via del paesello in cui era creduto morto. - In fondo - si dice - hanno sbagliato loro. Quando arriva a Miragno, lo attende però un’amara sorpresa: la moglie si è risposata e ha avuto una figlia. Si rende conto allora di quanto, quel suo ritor
nare, sia stato illusorio perché la vita va avanti, non indietro.
Pirandello ci vuole spiegare che, quan do togliamo la maschera che ci copre, poi non riusciamo più a rindossarla perché, nel frattempo, tutto cambia: la vita scorre inesorabile e non la si può fermare. La finzione può mostrare dei panorami nuovi che la realtà non conosce, ma proprio per questo, è importante poi abbracciare di nuovo la verità.
Quel tornare indietro permette infatti a Mattia di ripartire e di ritrovare la pace che aveva tanto rincorso. Dietro i vecchi libri della biblioteca del paese, il protagonista ritrova così una nuova routine fatta di piccole, autentiche soddisfazioni e, quando qualcuno gli chiede la sua identità, lui risponde ironico: Io sono il fu Mattia Pascal E quando tornare indietro è proprio impossibile? Nel prossimo articolo vedremo un’altra strategia di soluzione per i nostri inevitabili errori.
Il cappotto made in Italy
Nikolaj Vasil’evič Gogol’ ne scrisse un geniale racconto. L’eleganza italiana seppe farne un esempio scultoreo di calda lana vergine, un soprabito invernale pesante da uomo o da donna1; monu mentale e statuario il modello a doppio petto.
Tonino Guerra lo usò come elemento della poesia “in dialetto” - La casa - che lesse ad Andrej Tarkovskij (tratto da “Tempo di viaggio” di Tonino Guerra e Andrej Tarkovskij, 1983. https:// www.youtube.com/watch?v=fgeU wcEM67c) nel salone della sua, di casa.
Se fossimo tutti siciliani ne avremmo già fatto la più raffinata, incantevole, tragica e passionale pièce teatrale. Incurante delle mezze stagioni, il mercato edile contemporaneo in dossa il cappotto per ogni occasione, facendone il “reale” protagonista di qualsivoglia intervento.
Si orchestrano gli abbuoni, ma suona no distorte le parole di Umberto Eco in merito al ruolo dell’architetto quale “unica e ultima figura di umanista”, citate nello scorso numero “Concorsi”. Edificatore di umanesimo e di cultura umanistica nella più vasta e profon da accezione dell’etimo, l’architetto è chiamato oggi - più che in altre epoche – a promuovere lettere,
arti e scienze con gli ideali culturali propri dell’umanesimo stesso, affinché la disciplina dell’architettura professi l’attività che gli è propria, nel connubio di pensiero, di arte e di tecnica, per ideare, costruire ed ornare edifizi. È d’uopo la riflessione di un grande umani sta come Giulio Carlo Argan: “L’Architettura era per lui un’arte come le altre e lo era non solo per la qualità formale dei monumenti ma per essere arte della città, l’arte che per sua natura incide sulla vita quotidiana di tutti gli abitanti a qualunque classe apparten gano.” (di Paolo Portoghesi in “Giulio Carlo Argan un grande umanista”. In troduzione in Diariotre Con Giulio Carlo Argan La città, le arti e il progetto. Di Fernando Miglietta, Rubbettino Editore 2019)
La cultura del progetto architettonico è quindi anche oggi quanto mai necessaria per invertire il senso unico della produzione edilizia e te nere vivo il legame indissolu bile che l’arte dell’architettura da sempre edifica nella terra e con l’uomo, concretezza permanente e reale dell’ope ra architettonica. Principal
mente in questo legame si dipana il concetto di sostenibilità, che del riuso dei materiali e delle tecniche costruttive è chiamato a far risorsa di dialogo con gli stessi elementi della composizione e della costruzione. Di nuova figura e forma, che s’invera nel progetto, di cui il carattere costruttivo è quel modo di presentarsi che riela bora antichi rapporti e che evidenzia, nei caratteri strutturali e morfologici della costruzione stessa, la potenza ideativa del pensiero architettonico, contemporaneo quanto antico. Il progetto come costruzione quindi, per ritrovare il valore umanistico della disciplina, che nel comfort abitativo e nella ricerca di tecniche e materiali del costruire trova risorsa di preci sione e di definizione di platonica
memoria.
Pensare in termini utili e creativi all’impiego di materiali e tecniche co struttive - interpretati come elementi del processo edilizio nella vastità della disciplina dell’architettura - è risorsa contemporanea per elevare ciò che nel Rinascimento veniva interpretato come lato “puramen te” tecnico, ovvero quell’insieme di regole con cui “si recano a fine le cose, le quali mediante movimenti di pesi, congiungimenti et ammassamenti di corpi si possono accomodare allo uso degli uomini”. (Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, proemio. Tratto dalla voce ARCHITETTURA di Gustavo Giovannoni in Treccani ENCICLOPE DIA ITALIANA - 1929).
Lungo la via duplice del riuso, con aspetto pratico e tecnico unito a quello estetico, rivive stabilmente l’es senza stessa dell’architettura, luogo in
cui ha senso ricercare le leggi del suo sviluppo e quelle urgenze costruttive che rappresentano la ragione della composizione architettonica. Luogo in cui la costruzione diviene il modo e la capacità di compiere l’architettura,
L’architettura in controluce
con l’arte di riferire all’edificio l’armo nia delle forme e degli spazi, delle proporzioni e dell’ornato, conferen done espressione simbolica.
Del bello e della poesia quindi, per archiviare lo scopo pratico.
* CHI E’
Sara Mattivi (Trento, 1975). Laureata con il massimo dei voti all’Univer sità IUAV di Venezia dopo alcune esperienze universitarie internazio nali, consegue il Master di II livello - Sapienza Università di Roma - per la composizione di materiali, elementi e tecnologie sostenibili nel progetto architettonico. Svolge un periodo di stage in Tokyo per l’inte grazione della tecnologia fotovoltaica in edifici di nuova realizzazione in Giappone. Nella professione di Architetto si occupa di progetti di restauro, recu pero, riuso e ristrutturazione, anche con ampliamento, del patrimonio architettonico tra l’Alta Valsugana in Trentino e la provincia di Venezia, nel territorio delle Tre Venezie o Triveneto.
Noi e il territorio
Tracce di... CASTAGNE!
La stagione autunnale, che co lora di splendide tinte accese i fianchi delle nostre monta gne, porta nelle valli e fin nelle nostre case molti profumi legati ai prodotti della terra, che proprio in autunno hanno il momento della maturazione, che li porta sulle nostre tavole. Tra questi, la castagna, frutto dell’albero del castagno, che troviamo molto diffuso in tutta Italia nella fascia di collina e bassa montagna e che abbonda nelle valli trentine come la nostra Valsugana.
La curiosità di questa produzione che si posiziona nella migliore tradizione agricola è data proprio dal provenire da un tipico albero forestale, dato che il castagno si trova anche presente “in incognito” (cioè scollegato dalla produzione dedicata di castagne) nei nostri boschi, assieme alle altre piante che conosciamo come il faggio o l’abete rosso. Vi sarà capitato ancora, infatti, di passeggiare su sentieri nei boschi e assieme al tanto rinomato “foliage” ovvero le bellissime foglie autunnali cadute a terra che rendono
soffice il camminare tra gli alberi, e di scorgere tra le foglie anche i “ricci” delle castagne. Se si è fortunati si può avventurarsi nel tentativo di conqui starne il frutto, con un po’ di attenzio ne a non pungersi, ma se troviamo i ricci vuoti, ricordiamoci che anche qualche animaletto è ghiotto di ca stagne e probabilmente le ha rapite al riccio per portarle tra le proprie scorte preparate per sopravvivere al
lungo inverno.
Ma come mai è dunque così diffuso il castagno sul nostro territorio?
Nel tempo, il castagno è stata la spe cie d’interesse forestale più coltivata dall’uomo non solo in molte aree attorno al Mediterraneo, ma anche in tutte le zone alpine ed in parte dell’appennino. In Italia, infatti, si sono trovate evidenze della sua col tivazione risalenti all’epoca neolitica
Inizia con questo numero la collaborazione con Valsugana News della dott.ssa Martina Loss di Pieve Tesino che curerà la particolare rubrica “Noi e il Territorio” che nello specificò porterà a conoscenza dei lettori importanti temi riguardanti l'ambiente e la natura. La dott.ssa Loss è laureata in Scienze forestali ed ambientali ed è Dottore forestale di professione. Nel suo percorso lavorativo è stata componente della Cabina di Regia delle aree protette e dei ghiacciai della Provincia di Trento nonché componente della Commissione agricoltura della Camera dei Deputati. Grazie anche a queste espe rienze sarà in grado di ampliare le nostre conoscenze nelle materie dell'agricoltura e della gestione forestale, elementi chiave per meglio comprendere ed apprezzare il nostro territorio.
(4000 a.C.) anche se si attribuisce ai Romani l’espansione della pre senza del castagno nei territori via via da loro conquistati. Nel IV secolo a.C. Senofonte definì il castagno “albero del pane” rife rendosi ai frutti molto nutrienti e come tale ha assunto per secoli un ruolo strategico nelle aree più remote in collina e bassa monta gna. Si trattava, infatti, di coltiva re un albero fondamentale per la vita di molte popolazioni rurali da cui si poteva ricavare: pali per l’azienda agricola, tannino per la concia delle pelli, lettiera per il bestiame, legname per le costru zioni e, soprattutto, la castagna, alimento molto energetico che non mancava mai nella dieta popolare.
L’attuale ampia diffusione del ca stagno è quindi soprattutto legata all’azione dell’uomo fin da tempi antichi e la sua presenza storica è testimoniata ancora oggi da un grande numero di esemplari di castagno presenti nel Registro degli alberi monumentali d’Italia, come ad esempio il grande castagno di Cam pazzo a Strigno, con quasi due metri di diametro e 20 metri in altezza o quello in località Parise a Telve, con oltre 7 metri di circonferenza, alto 23 metri; e non dimenti chiamo il castagno secolare di Torcegno, che qualche anno fa si è schiantato dopo una vita lunga più di 500 anni.
Questo profondo segno di pre senza storica del castagno anche in Valsugana lo possiamo trovare rimasto fino ad oggi nella cultura e tradizione delle Feste della castagna, popolari e consuete in diversi paesi della valle, tra cui spicca quella di Roncegno Terme, che anche quest’anno ha riscosso un enorme successo di pubblico, proveniente da tutto il Trentino e non solo. Questi
appuntamenti sono anche impor tanti occasioni per ricordarci che la Valsugana è anche una zona cono sciuta e rinomata per la produzione di castagne; i boschi produttivi di castagno sono presenti da Civezza no a Samone, nell’area della Valle di Centa e nell’area dell’Altopiano della Vigolana. Le realtà meglio organiz zate sono Roncegno Terme e Centa San Nicolò dove due cooperative di castanicoltori stanno operando già da tempo per recuperare la tradizio nale castanicoltura, valorizzando così
APROFONDIMENTO
la valle non solo con un’eccellenza agricola, ma anche con il bellissimo paesaggio dato dalla presenza del castagno.
È importante allora andare alla ricerca di queste prelibatezze, caldarroste oppure marron glacè (o grappè) sono le bandiere di questa agricoltura di montagna riscoperta; e non dimen tichiamo anche i tanti altri prodotti legati alla castagna, come il miele di castagno o la birra di castagne!
Il nostro invito: scopriamo e assaggia mo il territorio!!!
I castagneti, come superficie nazionale, oggi raggiungono quasi gli 800.000 ha, ovvero circa il 9% dei boschi italiani, di cui sono una categoria molto rappresenta ta che comprende le formazioni pure di castagno o quelle in cui questa specie è nettamente dominante. Il castagno è una specie boschiva talmente diffusa in Ita lia sia come albero isolato sia come specie inserita nel bosco dove è una presenza distintiva, che lo studioso Aldo Pavari ha voluto inserirlo come “specie di riferimen to” nella sua descrizione delle “zone fitoclimatiche”. Queste indicano le caratte ristiche del clima date dalla temperatura e dalla piovosità di una certa fascia di territorio dove è possibile osservare una vegetazione-tipo, cioè, un’associazione di specie vegetali spontanee che ricorrono con costanza su quella specifica area; per la zona molto ampia che si estende dalla pianura alla fascia submontana, il Pavari ha scelto di usare il nome di “Castanetum”.
Natale con noi
di Eleonora MezzanotteLa Natività nell’arte: la magia del presepe
Nella storia dell’arte, ricchis simi sono gli esempi di pitture e sculture raffigu ranti la scena della natività, ovvero l’immagine sacra della nascita di Gesù nella capanna, tra Maria e Giuseppe, il bue e l’asinello e i tre Re magi recanti doni al Messia. L’iconografia si ispira ai versetti riportati dai vangeli di Matteo e Luca, cosiddetti “dell’infanzia”, nei quali viene descritta la nascita di Gesù a Betlemme in Giudea, al tempo di Erode.
Primi esempi di immagini sacre ripor tanti il tema della natività le troviamo nelle catacombe di epoca romana, quando i primi cristiani erano costret ti a professare la loro fede religiosa in clandestinità. Sulle pareti delle catacombe si sono conservate sem plici immagini devozionali di Maria che tiene in grembo il neonato Gesù. Dopo l’editto di Costantino del 311 d.C. che poneva fine alle persecuzio ni dei cristiani per mano dei pagani e che legittimava il Cristianesimo, i cristiani poterono venerare libera mente il proprio Dio anche attraverso la rappresentazione iconografica dei personaggi sacri: le chiese comincia rono ad essere decorate con scene della vita di Cristo e dei San La Natività, assieme ad episodi salien ti della vita di Cristo e alla Passione, è sicuramente uno dei temi mag giormente indagati dagli artisti nel corso dei secoli: dagli infiniti esempi medioevali, tratti dalla decorazione di chiese e luoghi sacri, agli esempi più recenti e più mirabili di Natività in arte. Per citarne alcuni: Giotto con la sua meravigliosa Natività nella cappella degli Scrovegni a Padova del 1304, Domenico Ghirlandaio con la
sua Adorazione del bambino del 1492, Botticelli con la sua Natività mistica del 1501, ricca di spunti iconografici e motivi allegorici, Giorgione con Natività Allendale del 1505, fino a Ca ravaggio con la sua Natività del 1600, carica di pathos cromatico e vibrante realismo. Si potrebbe andare avanti con infinite citazioni. La trasposizione del tema dalla pittura alla scultura viene anche soprattutto attraverso la pratica del presepe, con le prime rappresentazioni scultoree nel corso del XII secolo.
Come tutti sappiamo, il primo che diede vita la rappresentazione vivente del presepe fu San France
sco, il quale nel 1223 volle portare in scena la Natività, dopo aver visitato in pellegrinaggio i luoghi della vita di Gesù in Palestina, rimanendone estremamente colpito. Tornato dalla Palestina, chiese a Papa Onofrio III il permesso di poter realizzare tale rap presentazione; questi acconsentì alla richiesta con l’unico vincolo di non portare in scena la Natività all’interno della chiesa, poiché la regola di quel tempo non lo permetteva. Francesco allora riprodusse la sua idea all’aperto, per le strade di Greccio, un paesino nei pressi di Rieti. Curioso è il fatto che in questo che viene considerato il primo presepe vivente della storia,
non vi trovarono posto né Maria né Giuseppe. Solo una mangiatoia con un bambino in fasce che la leggenda vuole essere apparso mentre il santo celebrava la messa. L’intera scena era illuminata da torce tenute in mano dai frati.
Tra le prime rappresentazioni scul toree della Natività c’è il presepe di Arnolfo di Cambio, che nel 1283 scolpì le statue dei personaggi sacri, creando di fatto i presupposti per la tradizione del presepe come oggi lo conosciamo. Il presepe di Arnolfo di Cambio è tuttora visibile e conserva to nella basilica di Santa Maria Mag giore a Roma. La pratica del presepe, in seguito alla celebrazione vivente voluta da San Francesco e ai primi prodotti scultori che ne veicolarono il significato e i valori, prese sempre più piede nella penisola italiana, prima in Toscana e in Emilia, per arrivare
nel corso del XV secolo nel Regno di Napoli, fino ad uscire dai confini nazionali e trovare terreno fertile per nuove ed ulteriori interpretazioni transalpine.
La sacra rappresentazione della Na tività, soprattutto sotto forma di sta tuette di piccole dimensioni, diventò sempre più comune, prassi rispettata anche nelle case dei signori all’epoca del concilio di Trento (1545-1563), be nevolmente accettata da Papa Paolo III. Oggi il presepe è presente nelle case di tutti noi e ci accompagna fino a Natale. Il momento in cui si compo ne il presepe è un momento magico per grandi e piccini, di condivisione, di riconciliazione con la famiglia, di rievocazione di felici ricordi. D’altron de il Natale porta con sé la bellezza delle feste e delle luci, ma soprattutto ci fa capire l’importanza dello stare con i propri cari, i valori della famiglia
Natale con noi
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e dell’amicizia, il ricordo di quei Natali trascorsi con i nonni o i genitori a scartare regali, a giocare a tombola. Tutti attorno ad un focolare, tutti felici.
ITALO CALVINO poliedrico scrittore
Nel 1923, Mario Calvino, agro nomo, e Eva Mameli, botani ca, sono a Cuba e lavorano a un progetto sperimentale per la pro duzione di canna da zucchero, quando nasce il loro primo figlio. Di Sanremo lui, di Sassari lei, scelgono un nome che, in quel paese straniero, ricordi a tutti le sue origini e lo battezzano Italo. Due anni dopo quando rientrano in pa tria, il fascismo è al potere e quel nome suona profondamente nazionalista. Ma Italo, a cui viene impartita un’educazio ne laica, fedele ai valori della scienza e della pace, non è molto attratto dai valori del fascismo. Anche Calvino partecipa, come tutti i ragazzi della sua età, alle attività impo ste dal regime e diventa quindi balilla. La sua educazione lo porta però ad es sere tollerante e a porsi in ascolto delle idee altrui e a non apprezzare l’ideolo gia fascista. Finito il liceo, si iscrive alla facoltà di Agraria, per seguire le orme paterne, ma non riesce ad appassio narsi. Ama invece molto di più il teatro e la letteratura, i fumetti e il cinema. In quegli anni partecipa ai Gruppi Univer sitari Fascisti, come prescrive il regime, ma è molto più interessato ai dibattiti nei circoli antifascisti di Torino. Nel 1943, Calvino frequenta, senza passione, la facoltà di Agraria a Firenze mentre trascorre i suoi pomeriggi tra i volumi della biblioteca del Gabinetto Vieusseux. Qui, tra letture e dibattiti, le sue idee politiche si orientano verso il pensiero comunista. Quando Mussolini viene arrestato, Calvino festeggia, come molti italiani,la fine del fascismo, ma quando viene chiamato a prestare servizio di leva per la Repubblica di Salò, Italo non ha alcun
dubbio: scappa.
Per un po’ si nasconde, ma l’anno successivo, lui e il fratello si uniscono ai partigiani della brigata Garibaldi. Il giovane dichiara di aver vissuto diverse peripezie e di aver rischiato la vita più volte in quei due anni. Finita la guerra, Italo Calvino ricorda le vicende della
Resistenza nel romanzo Il sentiero dei nidi di ragno pubblicato nel 1946. Le vicende narrate sono quelle di Pin, un bambino ligure, che rievoca la tragedia della guerra con gli occhi illuminati dalla fantasia.
La fine del conflitto segna la sua scelta professionale e il suo impegno politico.
Si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino e aderisce attivamente al Partito Comu nista Italiano.
In quegli anni conosce Cesare Pavese destinato a diventare, non solo amico, ma anche consigliere e guida: Pavese è il primo a cui Calvino chiede di leggere i suoi scritti.
La sua penna scorre fluida e sono molte le opere che vengono pubblicate. Quando si laurea, nel 1947 inizia una collaborazione con la casa editrice Einaudi che gli permette di entrare nel mondo intellettuale.
Sul versante politico, Calvino continua il suo impegno con il Partito Comunista Italiano anche se esprime progressi vamente dissenso per la mancanza di libera espressione che emerge dalla politica sovietica. Ma quando l’Arma ta rossa invade l’Ungheria e quando emergono i crimini commessi da Stalin, Calvino decide di abbandonare il PCI. All’inizio degli anni Sessanta è già autore affermato, scrive opere di generi letterari molto diversi e entra in contat to con intellettuali di tutto il mondo. Nel 1985, a soli 61 anni Calvino muore, a causa di un ictus e successiva emorra gia cerebrale. In quel periodo stava pre parando delle conferenze che avrebbe dovuto tenere presso l’Università di Harvard, lezioni che sono state pubbli cate col titolo di Lezioni americane Le opere di Calvino sono tantissime e toccano diversi generi letterari: ce n’è davvero per tutti i gusti!
Chi ama viaggiare con la fantasia può divertirsi con la trilogia fantastica. Il visconte dimezzato racconta le vicende di un visconte tagliato a metà da una palla di cannone e che si trova diviso tra il bene e il male. Il romanzo indaga allegoricamente nell’animo dell’uomo, che oscilla costantemente tra questi due opposti.
Il barone rampante racconta la brillan te storia della di Cosimo, rampollo di nobile famiglia che, dopo aver litigato coi genitori, che lo obbligavano a man giare un piatto di lumache, decide di
Tra Storia, Poesia e Letteratura
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arrampicarsi su un albero del giardino di casa. Ma la protesta non è destinata a finire perché Cosimo decide di vivere tutta la vita, proprio sugli alberi. Il cavaliere inesistente racconta le vicende di un cavaliere che non esiste perché la sua armatura è vuota: mentre l’esterno appare scintillante, l’interno è vuoto. Tutti e tre questi romanzi, all’interno della cornice fantastica, raccontano, in modi diversi, il disagio esistenziale dell’uomo moderno.
Per gli amanti delle favole, nella sua opera intitolata proprio Fiabe italiane, Calvino raccoglie e riscrive, in linguag gio semplice e contemporaneo, le fiabe della tradizione popolare italiana. Ne esce una raccolta di duecento novelle in cui ricorrono molti temi della tradi zione fiabesca. Oggetti magici, bambini trasformati in bestie, ricchezze perse e guadagnate, nozze combinate e doni fantastici, sono gli ingredienti di queste narrazioni, che sanno divertire e impaurire, ralle grare e stupire. Un personaggio che è diventato famoso per le sue amene disavven ture è Marcoval do, uomo mite, operaio, padre di famiglia, che combatte con le fatiche della vita, in una grigia città italiana.
Nel romanzo inti tolato Le città invi sibili incontriamo il grande Marco Polo che descrive, all’imperatore dei tartari, le città del suo continente. Le città illustrate assomigliano più a sogni che a città reali e
raccontano di ordine e di confusione, di paura e di desiderio; sono tantissime e sono presentate, in alcuni casi, molto brevemente. Le descrizioni si snodano tra fantasia, poesia e magia. Il viaggio in queste città invisibili permette anche di riflettere su diversi temi relativi all’uomo e alla sua vita. L’opera è strutturata in modo tale da poter essere fruita senza che il lettore sia obbligato a seguire un percorso stabilito, ma possa scegliere il suo personale itinerario.
Italo Calvino è già diventato un classico della letteratura perché le sue opere sono ricche di intuizioni e di stimoli e spaziano in ambiti molto diversi, tra novelle, romanzi, saggi e lezioni. Il pros simo anno ricorre il centenario dalla sua nascita e proprio in questi giorni, a Sanremo, città che lo ha visto crescere, viene inaugurato l’Anno Calviniano, con eventi dedicati a questo grande narratore.
Felici di essere parte di questa comunità. Buone feste!
MARCELLO BALDI una vita per il cinema
La nostra Valsugana è ricca di personaggi che hanno lascia to il segno. Anzi, che hanno lasciato ben inciso il proprio nome nella storia. E in questo caso parliamo della storia del cinema italiano, e nel dettaglio del regista Marcello Baldi, classe 1923.
Marcello Baldi è stato un regista italiano Nato a Telve, in Valsugana, nel 1923. Da giovane frequentò la facoltà di Lettere, abbandonandola però per dedicarsi alla sua passione: il cinema. Le sue prime esperienze furono in qualità di assistente e negli anni ‘40 lavorò presso il Centro Cattolico Cinematografico, occupandosi so prattutto di filmati di attualità. Lavorò al montaggio e alle riprese di alcune scene con Romolo Marcellini al film Guerra alla guerra del 1946. A seguito della spedizione italiana sul K2 del 1954 fu incaricato di realiz zare il film ufficiale dal titolo Italia K2. Utilizzò, per la realizzazione di questa pellicola, del materiale girato in Pakistan dall’alpinista Mario Fantin
(1921-1980), componente della spedizione. Marcello Baldi integrò il materiale di Fantin con sequenze da lui stesso girate in Italia, e realizzò il montaggio finale. Il film uscì nel 1955. ll film, che ebbe un grande successo, nel dettaglio documenta la spedizio ne italiana sul K2 del 1954, condotta dall’esploratore italiano Ardito Desio (1897-2001), che vide la conquista della vetta da parte dei due alpinisti Achille Compagnoni (1914-2009) e Lino Lacedelli (1925-2009). Il film fu proiettato in anteprima il 25 marzo 1955 alla presenza del presidente Luigi Einaudi (1874-1961) ed ebbe un buon successo di pubblico, incassan do 360 milioni di lire. Marcello Baldi negli anni successivi si dedicò soprattutto alla regia di film a soggetto religioso e didattici. Fra le sue opere troviamo Saul e Davide del 1965 con Norman Wooland nei panni di Saul e Gianni Garko nella parte di David. Il film narra la storia di Dio che sceglie David come re d’Israele suscitando l’invidia di Saul che per seguita l’eletto del Signore finché non cade combattendo contro i Filistei. Il sito https://www. comingsoon.it/ riporta una citazio ne presa dal libro «Segnalazioni cine matografiche», del 1965, dove si legge che il «film com prende le vicende narrate dalla Bibbia nel primo libro dei Re. Seguendo con
fedeltà il Testo Sacro, esso traduce con equilibrato senso dello spettaco lo, il drammatico contrasto religioso e psicologico del primo Re d’Israele con l’uomo che dovrà succedergli. Il film diretto con impegno, si avvale di una buona interpretazione e di una suggestiva fotografia a colori».
Nel corso della sua carriera Baldi si oc cupò comunque anche di altri generi cinematografici. A partire dagli anni ‘70 lavorò anche per la televisione, realizzando, tra le altre opere, il docu mentario Le evasioni celebri: Benvenuto Cellini, del 1972.
Per la televisione realizzò Sapore di gloria (1988) con Giulio Base, Cinzia De Ponti, Nanni Svampa, Fabiana Udenio, Ambra Orfei.
Negli ultimi anni di vita era ritornato in Trentino; poco prima della morte stava lavorando ad un nuovo film insieme al figlio Dario. Muore a Roma il 22 luglio del 2008.
Gli Animali e il loro diritto di esser considerati categoria a sé
In “Purezza e Pericolo” la famosa antropologa Mary Douglas dice che “è parte della nostra condi zione umana cercare linee dure di de marcazione e concetti chiari”. Inoltre sostiene che solo gli oggetti, le idee, “le cose” che soddisfano pienamente l’appartenenza ad una categoria sono considerati completi e assumono qualità morali superiori e giuste. Al contrario, “le cose” private della loro integrità divengono per la nostra mente inquinate, moralmente sba gliate ed inferiori. Potenti, spaventose magari ma pur sempre sottomesse a tutto ciò che è puro. Vorrei tenere a mente questa premessa e ripercor rere, molto sommariamente, la storia dell’ idea, della nostra definizione e categoria di “essere animale”. Nella tradizione Giudaico-Cristiana il posto dell’Uomo nella natura è sempre stato problematico. In ogni caso, la Bibbia dice chiaramente che l’Uomo è l’unico essere fatto ad immagine e somiglianza di Dio e che gli animali son stati creati per esser al suo servizio.
Nella mitologia greca la relazione tra uomini-animali-dei era un po’ più incerta: gli dei frequentemente si tramutavano in animali e/o tra sformavano gli uomini in animali, quasi sempre per punizione anche se alcuni grandi Saggi in tutta la Magna Grecia vissero come selvaggi - come animali- con lo specifico intento di contattare gli dei. Ma poi venne Aristotele che incominciò a dire che l’Uomo era l’unico Animale Politico. E allora gran parte delle migliori menti si misero a pensare a cosa fosse “quel qualcosa in più” nell’ Uomo. Il linguaggio? La Religione? Un pen
satore dei primi del 1500 disse “l’uomo è, io credo, il solo ani male che abbia una protuberan za nel mezzo del viso” riferendosi al naso... Vien da sorridere ora ma la ricerca dell’u nicità dell’Uomo è una storia triste e grottesca. Car tesio, mente geniale ed erudita era fermamente convinto che gli animali, non avendo l’Anima, erano macchine, incapaci di percezioni e emozioni, proprio come un orologio.
La verità è che nel cercare l’unicità dell’Uomo, tutti i grandi pensatori in realtà stavano modellando l’idea di Animale. Implicita, oramai da troppi secoli, era l’idea che all’animale man casse qualcosa, che fosse una catego ria difettosa e quindi inferiore rispetto a noi. Oggi oramai i grandi pensatori del nostro tempo sanno che questa visione è però solo il frutto di un deficit percettivo a cui hanno dato anche un nome: antropocentrismo. Antropocentrismo significa mettere l’Uomo sempre al centro della realtà, considerarlo come unità di misura su cui tutto il resto deve essere commi surato : Sospeso nell’istmo di uno stato intermedio, un essere oscuramente saggio e rudemente grande...in dubbio nel considerare se stesso un dio o una bestia scriveva dell’Uomo il poeta Alexander Pope. Ma l’Uomo non è in alcun stato intermedio, l’Animale non è il gradino più basso verso la divinità e non per tutti Dio è sinonimo di Per fezione. Togliersi una volta per tutte
la lente deformante dell’antropocen trismo non sarà cosa semplice ma da più di un secolo anche la scienza ci sta aiutando.
Oramai sappiamo che gli animali possiedono un linguaggio, caratte ristica per lungo tempo considerata esclusivamente umana. Hanno le proprie forme di politica, manifestate dalle complesse gerarchie sociali di tanti mammiferi e di tanti insetti. Gli animali hanno emozioni, sentimen ti, affetti e non si capisce proprio come si sia potuto associarli ad una macchina ma chissà in futuro cosa altro scopriremo su di loro grazie alla biologia e all’etologia. Sicuramente tra qualche secolo anche ai nostri discendenti sembrerà strana e limi tata la nostra percezione del mondo. Questo non significa necessariamen te che agli animali debbano essere riconosciuti gli stessi diritti che riser viamo a noi umani ma è sufficiente per riconoscer loro il diritto di esser considerati “categoria dell’essere a sé” ed innescare una riflessione pondera ta su come porci in relazione con loro anche fuori dalle aule di filosofia.
La dott.ssa Monica Argenta è antropologa, esperta in ricerche e politiche sociali
IL DOLORE: ATTRAVERSARLO
PER SUPERARLO
“Lascia che faccia male. Lascialo sanguinare. Lascia che guarisca. E lascialo andare”. Di una bellezza sconcertante l’a forisma della scrittrice Nikita Gill in cui, in queste quattro frasi vi racchiude le nostre elaborazioni davanti all’emozione primaria del Dolore.
Emozione che accompagna tutte le esperienze traumatiche di perdita come ad esempio una perdita di qualcosa di fonda mentale come la casa o la fiducia, di un nostro ruolo o di qualcuno a noi caro, il dolore provato per aver visto gli altri soffrire terribilmente. Il dolore, nonostante come esseri umani siamo disposti a fare di tutto pur di non sentirlo (usiamo sostanze, abusiamo di psicofarmaci, rimaniamo con per sone inadeguate per evitare il dolore del distacco), in realtà risulta essere un’emozione funzionale e adattiva. Emil Cioran mirabilmente sosteneva che “Il coraggio che manca ai più è quello di soffrire per cessare di sof frire”. Rinnegandolo infatti, si diventa potenzialmente più fragili e destabi
lizzabili anziché più forti e la condan na sarà quella di mantenerlo nonché di incrementarlo. Il dolore, invece, come suggerisce il grande poeta statunitense Robert Frost «Se vuoi venirne fuori devi passarci nel mezzo» va attraversato, sentito, vissuto, spe rimentato e sofferto. Il dolore si cura col dolore ed è grazie al dolore che la ferita diventa cicatrice. Pertanto, il mio intervento di evoluzione, riguar da proprio far accettare che il dolore vada vissuto, innanzi tutto, come momento fondamentale di guarigio ne accogliendolo e abbandonandosi ad esso.
E nei fatti non funzionano mai come
ad esempio quando, molto spes so, cerchiamo di “non pensare” distraendoci forzatamente oppu re, come detto sopra, cercando di sedarlo chimicamente trasforman dolo, viceversa, in un’agonia senza fine. Soltanto il dolore attraversato potrà essere sanamente superato, e solamente la ferita disinfettata con cura potrà guarire smettendo di sanguinare divenendo una bel la cicatrice da conservare e poter guardare senza che essa faccia più così tanto male.
In tal modo, sfoderando dapprima l’arsenale della sofferenza, attraver sando il proprio dolore e la propria dolorosa esperienza si potrà ristabilire chi siamo, ricostruendo Noi stessi lasciando alle spalle le macerie di una vita ormai esplosa, ricominciando ad aprire una nuova esistenza ed arrivan do ad una nuova luce recuperando, piano piano, la dimensione dell’e mozione primaria fondamentale del Piacere in maniera tale da ristabilire una condizione di vita soddisfacente ed equilibrata. “Lasciandolo andare” per continuare con serenità il proprio cammino.
LE FATICHE DI ESSERE MAMMA
Essere mamma per chi lo desidera è una di quelle esperienze più emozionanti e in alcuni momenti anche totaliz zanti, ma non è tutto oro quello che luccica. Diventare mamme è una di quelle esperienze da cui non si torna indietro, è una di quelle esperienze che ti può cambiare anche radical mente. Una donna dopo il primo anno dalla nascita del figlio spesso non si riconosce più, è cambiata lei, le sue priorità le sue attività e così via. In una parola sola, cambia proprio l’identità e questo mutamento può
essere faticoso e non così scontato. La maternità può far scaturire anche una serie di emozioni che magari non si penserebbero, di cui forse ci si potrebbe vergognare anche solo a provarle figurarsi per cui parlar ne apertamente. La maternità può portare fatica, frustrazione, rabbia e anche ma non per ultima ansia. Questa situazione può sopraffare, ci si ritrova da sole a gestire una piccola creatura che magari ci trasmette dei segnali comunicativi non così chiari. Il peso della responsabilità, nessun tempo per se e le attività piacevoli
che fino a poco tempo prima non mancavano nella propria routine set timanale sparite nel nulla. Sentirne la mancanza, o ancora sentirsi frustrate non è sbagliato è umano. Non è così infrequente anche sentire mamme che lamentano solitudine, un estremo senso di solitudine. Passa re tutto il giorno da sole, non scam biare due parole con un adulto, la società che non permette nemmeno di esternalizzare questi pensieri e per chi lo fa rimandare di essere sbagliato di sicuro non è d’aiuto.
La stanchezza si accumula pian piano
Medicina & Salute
giorno dopo giorno, notte insonni, pasti fugaci, sempre di riuscire a farli, problemi giornalieri questo è il lato “oscuro” della maternità. Dovremmo parlarne di più, perché legittime rebbe le mamme a provare queste emozioni, che anche se passeggere hanno diritto di esserci e soprattutto cercare di correre ai ripari prima di avere le batterie completamente scariche.
Ecco perché mi sento di dare qualche consiglio alle neo mamme. Innanzitutto prendetevi cura di voi, ne beneficerà anche il bambino. Riuscire a ritagliarvi anche solo una mezz’oretta in cui uscite con una amica a fare una piccola passeggiata o per bere un caffè veloce vi farà rica ricare un po’ e vi farà scariche invece un po’ di stress.
Ricordatevi che la perfezione non esi ste e quindi nemmeno una mamma
sempre accogliente, pronta a reagire a ogni bisogno del figlio e sorridente. La maternità è fatta di imprevisti, di incomprensioni di risintonizzazio ni, e avere in testa un certo tipo di modello di mamma irrealistico non farà altro che farci sentire ancora più inadeguate nonché sbagliate. Non si può fare tutto da sole, cercate di delegare se potete e datevi delle priorità. Non importa se in casa sem bra esplosa una bomba, o se la cena prevede un menu semplice e non un manicaretto.
Non badate ai consigli non richiesti, non si sa perché ma quando nasce un bambino tutti si sentono legit timati a dare consigli di qualsiasi genere. Bhe non fatevi influenzare, voi siete la persona che meglio cono sce vostro figlio, fidatevi di voi e del vostro bambino. Ed infine ricordatevi che anche la
coppia deve cambiare, si passa da una diade a una triade dove uno dei componenti ha bisogno per qualsi asi cosa di voi. Gli equilibri devono cambiare e non sempre è così facile. L’arrivo di un figlio può mettere alla prova la durata della coppia, è infatti una delle fasi in cui c’è un rischio concreto di separazione. In questo caso il consiglio è cercate di mante nete attiva la comunicazione, sinto nizzatevi, ditevi cosa provate in quel momento, le cose belle così come le vostre fatiche. Aiutatevi e condividete il più possibile le attività e se riuscite mantenete anche solo per poco il tempo per voi. Il tempo per la coppia è prezioso soprattutto in questa fase.
Dott.ssa Erica Zanghellini
Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675
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ADOTTA UN GRIFONE
Una raccolta fondi per realiz zare la nuova e maestosa scultura in legno a Castello Tesino. Prende corpo, in paese, l’ini ziativa messa in campo dal Comitato Amici del Grifone Tesino e presen tata, nelle scorse settimane, con due serate pubbliche, più o meno partecipate, presso palazzo Gallo agli amministratori locali, cittadini ed operatori economici. Come si legge in un documento “il comitato, senza scopo di lucro, persegue finalità civi che, solidaristiche e di utilità sociale. La nostra intenzione è quella di rea lizzare, in una zona già individuata in località Celado, una grande scultura in legno raffigurante il Grifone”. Ma per dare corpo al progetto servono 23 mila euro. Alla raccolta fondi tutti possono partecipare: comuni, enti ed aziende del territorio. Magari anche avviando nuovi tesseramenti
e lotterie. In altre zone del Trentino sono spuntati lupi, leoni, draghi ed altri animali.
Ma perché in Tesino è stato scelto il grifone? “Abbiamo scelto questa figura mitologica – si legge nella nota – con la testa d’aquila e il corpo del leone come simbolo di custodia e vigilanza per tutto l’altopiano del Tesino”. Una scelta che non è stata fat ta a caso. L’aquila ricorda un passato, quello dell’impero austro-ungarico, ed un presente legato al Trentino. Il leone è stato il simbolo della Sere nissima, ieri, ed oggi della Regione Veneta. Per realizzare l’opera servono, però, ben 23 mila euro. “La scelta del Celado è stata fatta di concerto con l’artista (Marco Martalar) – si legge nel documento – e potrà diventare una delle più belle come scenario, visibili tà e comodità per il suo facile rag giungimento”. Come fare per aderire
all’iniziativa “Adotta un grifone”? Sem plice. Si può dare il proprio contribu to con un versamento al seguente IBAN: IT98 R081 0234 5800 0002 0001 799. Per info comitato.tesino@gmail. com. I lavori, meteo permettendo, inizieranno nell’aprile del 2023 per concludersi a fine giugno e sfrutta re così la prossima stagione estiva. Ancora il Comitato. “Le opere finora realizzate dall’artista hanno avuto riscontri enormi dando risalto e notorietà alle località, in primis, e un ritorno eco nomico importanti per i territori coinvolti. Due dati: a Lavarone per il famoso Drago di Vaia sono state contate oltre 100 mila persone ed a Vetriolo, solo nel primo mese, si sono registrati flussi di 80-100 persone al giorno per visitare la Lupa di Vaia”. A Castello sono fiduciosi. Ce la stanno mettendo tutta per dare vita ad un’o pera che sarà realizzata interamente con scarti della tempesta Vaia. (M.D.)
Freddo e gelo d’inverno... ...nostri veri nemici
Oramai è risaputo che i mesi invernali sono motivo di molti problemi per la nostra salute quali l’influenza, raffreddore e altri “malanni” di stagione. Ed è anche in questo periodo che, purtroppo, si manifestano anche complicazioni che hanno come soggetto la no stra pelle, specialmente quella più esposta quale quella delle mani e del viso. Purtroppo il gelo e il freddo sono nemici conclamati della nostra pelle specialmente in quelle persone maggiormente sensibili o portatoti di patologie cutanee. E non è difficile, infatti, essere colpiti da fenomeni d’irritazione, secchezza, fastidiosi pru riti o addirittura screpolature anche gravi. Le basse temperature provoca no un restringimento dei vasi san guigni con una conseguente minore ossigenazione dei tessuti. Il ricambio cellulare quindi rallenta e la superficie cutanea si screpola con facilità e cau sa una fastidiosa sintomatologia. Ecco perché, con l’arrivo dei primi freddi e con gli sbalzi di temperatura, tipici del periodo invernale, è neces sario difendersi e quindi proteggere la nostra pelle. Secondo gli studiosi di dermatologia una pelle non curata
e non protetta può dare origine a ulteriori problemi quali l’invecchia mento precoce, la perdita di tono, di elasticità e poca resistenza ai fenome ni atmosferici.
Da qui la necessità di servirsi dei ritro vati che la ricerca, legata alla derma tologia, mette a nostra disposizione. E buona pratica è anche quella di coprire le parti più vulnerabili del no stro corpo con tessuti particolarmen te idonei a proteggerci dal freddo e dagli sbalzi di temperatura mentre le zone più delica te del viso, quali occhi, naso, bocca e orecchie, andreb bero protette, oltre che con le creme, anche con occhiali, cappelli, para-orec chi e quanto di utile e appropriato. Medici, farmacisti e studiosi del settore sottolineano che
nei periodi freddi e invernali è fonda mentale idratare la pelle, specialmen te quella di mani e viso, con partico lari creme o prodotti. A tal proposito è bene sapere che le creme per il viso devono essere più consistenti rispetto a quelle che normalmente si usano negli altri periodi dell’anno. Un buon consiglio, per nutrire, dare compattezza alla pelle e per meglio proteggerla, secondo pareri e consigli di studiosi, è quello di utilizzare oli e burri vegetali, soprattutto se ricchi di acidi grassi essenziali, prodotti con glicerina e anche con acido ialuroni co mentre per la secchezza cutanea posso essere usati prodotti in grado di svolgere una azione emolliente e addolcente. Anche per questi pro blemi, di apparente semplicità, è sempre da evitare il famoso “fai da te” e quindi, buona regola, è quella di rivolgersi al proprio medico o al proprio farmacista che certamente saranno in grado di dare giusti e appropriati consigli.
Conosciamo il territorio
LA STORIA DELL’OFFICINA ELETTRICA DEL TESINO
Una storia poco conosciuta. Ma che ora, grazie ad un certosino lavoro di ricer ca, è diventato un libro. Un volume tutto dedicato alla storia di una società che, per diversi anni, è stata la seconda realtà idroelettrica per potenza installata nel Trentino. Una storia iniziata oltre un secolo fa. Ben 120 anni quando sia il Tesino e la Valsugana facevano parte dell’impe ro austro-ungarico. È la storia della Officina Elettrica del Tesino ricostruita da Manfredo Marchetto. Un lavoro a quattro mani che ha coinvolto anche Maria Avanzo, per raccontare con dovizia di particolari le vicende di una società cooperativa che, a quel tempo, riuscì ad illuminare il Tesino e diversi paesi della Valsu gana. Arrivando fino a Levico Terme. Anni e anni di ricerche che hanno preso lo spunto dal diario di Emilio Buffa Giacantoni, nonno dell’autore, presidente dell’Oet dal 1929 al 1957. In tutto 130 pagine, un libro da leg gere tutto d’un fiato quello presenta to recentemente presso l’aula magna del Centro Studi Alpino della Tuscia a Pieve Tesino. Era il 1895 quando, per la prima volta, in Tesino si iniziò a pensare di utilizzare l’acqua del torrente Grigno a scopi idroelettrici: quattro anni dopo nasce un comitato promotore. Ne fanno parte Giacomo Nervo, Gaspare Sordo, Alberto Broc cato, Demetrio Avanzo, Domenico Stoffella e Pietro Sordo. Nel 1901 viene eletto il primo consi glio di amministrazione. Lo presiede Giacomo Nervo e ne fanno parte
sei rappresentanti di Pieve (oltre allo stesso Nervo anche l’allora capo comune Luigi Rizzà, Demetrio Avanzo presidente della Cooperativa del pa ese, Edoardo Buffa, Augusto Gecele e Battista Granello) ed altrettanti di Castello (il vice presidente Pietro Sordo, Anselmo Balduzzo, il capo comune Martino Braus, don Luigi Pegoretti presidente della coope rativa del paese, Gasparo Sordo ed il parroco don Domenico Stoffella). Con loro anche tre rappresentanti di Cinte Tesino: il capo comune Giovan ni Maria Ceccato, Ferdinando Buffa e Celestino Busana. Il progetto della nuova centrale e degli impianti viene affidato a Giovanni e Tullio Tommasini di Fonzaso con i lavori che iniziano il 1 agosto.
La centrale sul Grigno viene costru ita sulla sponda sinistra orografica del torrente ed in poco tempo gli impianti vengono ultimati. Domenica 14 settembre del 1902 la centrale viene inaugurata con una giornata di festa per l’intera conca. “Il rapporto di collaudo - si legge nel libro distri buito dall’Ecomuseo del Tesino terra di viaggiatori – dice che con un salto di 42 metri con i primi due gruppi installati, dei tre previsti, la potenza disponibile è di 400 CV pari a 294 Kw. La Oet costruisce una linea per la corrente alternata trifase ad alta tensione fino a Borgo con cavi in rame e le reti di bassa tensione per Castello, Pieve, Cinte. Bieno, Strigno, Borgo e Levico. Nell’ottobre del 1902 la luce elettrica arriva a Strigno, nel febbraio del 1903 a Borgo. Quasi un
anno dopo è la volta di Levico Terme (3 gennaio 1904) e nel 1906 anche a
Roncegno Terme. Per alimentare le reti che finivano nel fondovalle della Valsugana, l’ener gia “esportata” era oltre il 60% di quella prodotta. Con il passare degli anni la OET decise di amplia re la propria attività per fornire elettricità non solo alla Bassa Valsuga na e Levico, anche alla valle del Brenta, Bassano del Grappa compreso. “Purtroppo – si legge nel libro – l’attività nel campo idroelettrico, cominciata con tanto entusiasmo, capacità e successo, ha subito un durissimo colpo della Prima Guerra Mondiale che ha provocato grani danni agli impianti, disperso per anni i membri del consiglio di amministrazione, quasi tutti profughi in Italia, e svalutata drasticamente la Corona austriaca”. Con la Grande Guerra arriva anche lo sfolla mento dei tre paesi della conca e la gestio ne degli impianti passa al Comando Supremo Italiano. Impianti che, successivamente, vengono acquisiti dalla Società Anonima Veneta Impianti Elettrici. A quel tempo direttore era l’ingegnere cava liere Menotti Barbieri di Torino nominato nel 1915 commissario civile per il distretto politico di Borgo dall’Esercito Italiano. Operazio ne quest’ultima non ratificata dall’assemblea
Conosciamo il territoriodei soci, convocata a Pieve Tesino il 25 maggio del 1919. “Ne nasce una contesa con richiesta di restituzione delle centrali – si legge ancora – e, in seguito a piccoli guasti sulla rete, nel Tesino la fornitura è saltuaria e irre golare tanto da provocare malcon tento tra la popolazione. Il Comando Compagnia Carabinieri Reali di Borgo con una lettera informano il Commis sario Civile di Borgo di questo rischio: si legge che è stato messo un pic chetto di guardia a protezione degli impianti e raccomanda di porre fine alla contesa”.
Nel 1921 gli impianti vengono definitivamente venduti alla SIET (Società Industrie Elettriche Trentine) che rimette in piena efficienza le due centrali per una potenza media di 540 e massima di 680 Kw. Come ricorda l’autore “la Oet continua la sua attività, limitata però alla vendita di energia nei tre paesi del Tesino e forse anche Bieno, alla manutenzio ne degli impianti di distribuzione a bassa tensione, alla vendita di piccole apparecchiature elettriche e poco altro”. Nel 1957 le centrali sul Grigno e gli impianti dell’Officina Elettrica del Tesino passano di mano per 50 milioni di lire e diventano proprietà dell’Edison.
L’attuale proprietaria è la Dolomiti Energia. “Già oltre un secolo fa – con clude Manfredo Marchetto – diversi tesini erano in grado di elaborare pro getti tecnici impegnativi e complessi, credere nel progresso tecnologico e nella possibilità di inserirsi con suc cesso in un mercato completamente nuovo. Erano in grado di valutare le iniziative di avanguardia presenti nel mondo: dalle tecniche di incisione e stampa, all’ottica, alla fotografia fino alla produzione e distribuzione di energia elettrica”. Dopo 58 anni si chiude l’avventura di una società che per diversi anni è stata la seconda realtà idroelettrica per potenza instal lata del Trentino.
La vite sul colle di Tenna
L’Art. 15 dello statuto del Comune di Tenna, approvato nel 1371, recita “Che niuno ardisca andar con alcuna sorte di bestiame nelle chiesure d’altri, fino terminate le vendemie sotto pena di Lire tre”. I vigneti erano tutelati fin da allora, con una apposita disposizione regolamentare, a riprova che la colti vazione della vite era presente sulla collina fin dall’epoca medioevale, praticamente da quando si è costitu ita la prima comunità di Tenna, nella zona dei Masi.
La vite ha rappresentato, nel corso della storia dell’abitato, una costante che ha sempre caratterizzato l’agri coltura del territorio, al punto che sullo stemma del Comune è ripro dotto un grappolo d’uva a rimarcare e suggellare l’importanza rappresen tata dalla coltivazione della vita per la comunità. Nella ispezione del 1633 disposta dal Vescovo di Feltre cui la curazia di Tenna apparteneva, si con stata la mancanza di vino, in un paese che, fin dai tempi di Nicolò di Brenta, rientrava nella “terra vineata quam aratoria” definita così da GA Monte bell. Francesco Santini, perito di Pergi ne, nel 1785 redigendo la perizia per il dissodamento dei “Nuovi Ronchi” af fermava che “il graspato deve riuscire, se non il migliore, certamente al paro dei più buoni e migliori sitti in tutta la giurisdizione di Pergine”. nuovi Ronchi erano individuabili nella zona costiera del lago di Caldo nazzo, fra i “Feghini”e il bosco deno minato “al Gazzo”, messi a coltura nel
1675 e il maso Valdagni a Campolon go. Ad ogni membro della comunità di Tenna veniva assegnato uno staio e mezzo di terreno (circa 1130 mq); la resa, afferma il perito Santini nella sua relazione, era di 1500 “ congiale di graspatto, per 100 stari di vignale”, considerata buona. Nel 1786 il Prin cipe Vescovo di Trento, consentì di mettere in coltura la parte ripida della collina verso il lago di Caldonazzo, con l’impegno di ogni contadino, a conferire pro Chiesa una “gonziale di graspato”.
Anche il Comune di Tenna nel 1793, suddivise le proprietà in porzioni, vendendole ai privati per scopi agri coli. Alla fine del 1800 e inizi del 1900, la viticoltura registrò un notevole impulso, soprattutto sulla parte col linare verso il lago di Caldonazzo; la zona della Valsugana ed in particolare Tenna rappresentava il sud, la parte
meridionale dell’impero Austro-Un garico, e quindi il vino era richiesto soprattutto nel nord, nell’attuale Austria. Nel 1895, in occasione della progettazione della linea ferroviaria della Valsugana, il Comune di Tenna chiese venisse realizzata una stazione nella zona dell’attuale hotel Brenta, al servizio del colle di Tenna, con la mo tivazione che “ il territorio è coltivato in gran parte a viti, con un prodotto medio annuale di circa 5.000 ettolitri di graspato…e le stazioni di Pergi ne, Caldonazzo e Levico sono assai discoste..”; istanza non accolta; questo comunque per sottolineare l’impor tanza della vite per Tenna, e della necessità di assicurare il trasporto dell’uva e delle vinacce verso il nord dell’impero Austro Ungarico.
Giulio Ferrari, capostipite della famo sa famiglia originaria di Calceranica, e che coltivava i vigneti sopra Brenta,
è stato l’antesignano dello spumante col marchio Ferrari. Aveva approfon dito il metodo francese “champenoise ” che dall’uva bianca Chardonney ricavava lo spumante reso famoso nel Mondo. La posizione dei vigneti sulla collina di Tenna, in località Brenta, è sempre risultata ideale per la vite, per una serie di fattori che coesistono ed interagiscono fra loro: la vicinanza del lago, la brezza data dall’Ora del Garda” e dalle montagne che circondano la collina, l’ottima esposizione al sole. Inoltre il vino rosso, in particolare il Pavana, prodotto a Tenna era molto apprezzato in Austria e la famiglia
Malpaga era in possesso di una apposita etichetta con riportati in alto stemmi con scritte tedesche. La stra da comunale che da Tenna conduce a Campolongo denominata “ Strica” è stata costruita agli inizi del 1900, allo scopo di poter portare il vino, con un percorso agevole per i carri trainati da buoi, verso Pergine, Trento e poi l’Austria.
In una foto degli anni sessanta scatta ta da Calceranica, si nota il versante di Tenna tutto coltivato a viti, con i tipici terrazzamenti e muri a secco, che permettevano di sostenere i filari dei vitigni. La viticoltura fu molto fiorente fino agli anni sessanta del Novecento, quando molti giovani si dedicarono ad altre attività lavorative, e le poche famiglie contadine abbandonarono i ripidi vigneti che si inerpicano sopra il lago di Caldonazzo, per la frutticol tura (pere prima e poi mele) nelle
Economia e natura
campagne pianeggianti, dove era possibile lavorare con la meccanizza zione.
Una decina di anni fa il Comune di Tenna ha approvato un progetto preliminare, finalizzato al recupero dei vigneti nei pendii verso il lago di Caldonazzo, che erano stati abban donati con conseguente crescita di incolto e arbusti spontanei.Il progetto non ha avuto poi seguito, tenendo conto che la problematica maggio re consisteva nella esigenza di un riordino fondiario, atto ad accorpare le piccole porzioni e particelle, spesso intestate a molti comproprietari in molte occasioni deceduti, operazio ne complessa e difficile, per i risvolti tavolari e catastali che comporta l’accorpamento di particelle fondiarie. In questi ultimi anni qualche agricol tore ha ripreso l’attività e i contributi pubblici e la qualità aiutano.
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Il personaggio di ieri
di Massimo DalledonneMons. Pasquale Bortolini
Per oltre un ventennio fu Vicario Generale della Curia Trentina
In Valsugana monsignor Pasquale Bortolini ha esercitato per molti anni. Vi è anche nato, esattamente 130 anni fa. Esattamente il 3 aprile del 1892 a Centa. Una figura, la sua, legata fortemente anche alla Curia Trentina, visto che per 24 anni ha ricoperto l’incarico di Vicario Generale. Ma andiamo con Ordine. Ordinato sacer dote, allo scoppio della Grande Guerra lo troviamo decano di Strigno. Come scrive Antonio Zanetel nel suo volume “Dizionario biografico di uomini del Trentino Sud-Orientale” c’era anche lui in paese quando il 21 maggio del 1916 tutti i cittadini vennero fatti evacuare. “A Strigno vi ritornò nel novembre del 1918 ma solo per osservare – si legge –le desolanti macerie del paese distrutto e cooperare per la ricostruzione morale e materiale”.
A Strigno monsignor Bortolini vi rima ne per 20 anni per poi ricoprire l’inca rico di Vicario Generale nella Curia di Trento. È il 1931 quando viene chiama to dall’arcivescovo monsignor Endrici. Alla sua morte, avvenuta nel 1940, viene riconfermato dal suo successore Monsignor De Ferrari. “Furono quasi 24 anni di attività – ricorda nel suo libro Zanetel – svolta in tempi particolar mente difficili. Dotato di intelligenza superiore, di conoscenza profonda dell’animo umano, sapeva superare anche le più scabrose situazioni con un prodigioso autocontrollo e con fine diplomazia”.
Antonio Zanetel ci racconta anche un aneddoto molto interessante del Vica rio Generale Pasquale Bortolini. “Si era resa vacante la sede parrocchiale di un grosso borgo e davanti a lui si presentò
una commissione di notabili. Eravamo sotto il regime fascista e si può facil mente supporre chi fossero: volevano un parroco che fosse così.così..così…”
Con tutta calma il Vicario ascoltava ed ogni tanto apriva lentamente il primo cassetto della sua scrivania. “Uno così… vediamo – rispose – qui dentro proprio non c’è!” Guardo anche in tutti gli altri cassetti e, con una ironia scherzosa e disarmante concluse: “Uno come lo volete voi qui non l’abbiamo…provate a cercarlo in Val Gardena!”. Come andò a finire? Il parroco venne nominato seguente la prassi norma le del concorso curiale e non quella fascista abituata a decretare le nomine dall’alto. Monsignor Pasquale Bortolini rimase in Curia fino al 1955, cooperan do con i due vescovi nella tempesta della tirannia fascista, di una guerra che colpiva anche le contrade trentine e di una occupazione nazista. Ci fu da affrontare, poi, anche l’opera di rico struzione. Ma Strigno e la Valsugana
erano sempre nei suoi pensieri. “Un’oasi di ristoro che cercava sempre nei suoi fuggevoli ritorni in valle. A Strigno–scrive ancora Zanatel – aveva arricchito la chiesa decanale di un ottimo organo Mascioni, collaudato il 4 agosto del 1929 da illustri maestri dell’Augusteo di Roma, della Pontificia Scuola Superiore di Musica Sacra ed anche dai trentini Dalla Porta e Lunelli. Dette incarico di affrescare la chiesa. Se ne occupò, con un lavoro non privo di concezione, il pittore Antonio Fasal. Il suo intervento fu un connubio tra il bizantino antico e l’impressionismo moderna che arricchi va il presbiterio di una fantasmagorica gloria di colori.
L’opera rimase incompiuta per la morte del pittore, avvenuta in seguito a ferite contratte sul fronte africano. Monsignor Pasquale Bortolini muore a Trento il 31 marzo del 1963 all’età di 70 anni e la sua salma riposa nel cimitero di Strigno, accanto all’amico e confi dente don Antonio Coradello.
Non solo animali
I cani soldato della Prima Guerra Mondiale
Abbiamo sempre in mente i cavalli o i muli come animali degli eserciti del passato. In realtà si hanno testimonianze che fin dall’an tichità anche i cani furono utilizzati in battaglia e che soprattutto dalla fine del ‘800 l’uso di questo animale divenne di cruciale importanza grazie allo sviluppo di vere e proprie scuole di addestramento. Le innovative strategie militari, e non di meno anche una mutata sen sibilità nei confronti dei combattenti, spinsero verso la necessità di recuperare i feriti lasciati su sempre più va ste aree di battaglia. Tale compito difficile e pericoloso, si rivelò particolarmente adatto al fiuto e all’intelligenza canina. Tutte le potenze europee istituirono campi di addestramento specifici e l’Italia non fu da meno grazie all’attività del Capitano Ernesto Ciotola (il destino in un nome), cinofilo d’eccellenza che a Roma fondò una scuola utilizzando i suoi amati Border Collies. Nacquero così ufficialmente anche in Italia le unità dei i cani “paramedici”, ovvero veri e propri soldati a 4 zampe preparati a perlustrare gli scenari desolanti del dopo battaglia in cerca di sopravvissuti: muniti di pettorine contrassegnate dal simbolo della Croce Rossa e cor redati di acqua, cordiale e bende per offrire un primo soccorso ai feriti, furono di fondamentale importanza per recuperare migliaia di vite. Assieme a loro divenne ro celebri i Sanitatshunde tedeschi o i Mercy Dogs an glofoni, i cani della Misericordia, addestrati ad assistere e a segnalare i feriti ma, nei casi più gravi, a garantire ai soldati una presenza capace di accompagnarli verso una morte più dignitosa e meno sola. Il numero di cani impiegati durante la Prima Guerra Mondiale è incalcolabile. Non ci sono registri precisi per darne un numero, sappiamo solo che di certo furono tantissimi poiché oltre al citato ruolo paramedico, tan tissimi furono anche impiegati in altri ruoli, altrettanto strategici. Vi furono cani d’assalto, sentinella, esplora tore, staffetta. Non certo da dimenticare i “Ratter” da trincea, fondamentali per sbarazzarsi dei topi, o i cani da traino, che su certi terreni furono indubbiamente più duttili e meno dispendiosi dei muli. Alcuni cani di vennero famosi, utilizzati non solo sul campo ma anche nella propaganda se non addirittura dallo star-system hollywoodiano: è il caso del celeberrimo Rin Tin Tin,
pastore tedesco reso immortale da Lee Duncan, soldato americano che trovò in un campo di militari teuto nici in fuga dalla Francia il cucciolo e lo portò in patria per renderlo poi protagonista di film e fumetti famosi ancora oggi. O Stubby, pluridecorato Boston Terrier, promosso al grado di sergente dall’esercito americano, abilissimo tra le alte cose a fiutare in largo anticipo i gas mortali nelle bat taglie del fronte occidentale. Meno nota, ma non meno notevole, invece è una storia nostrana di un piccolo meticcio nato a Seren del Grappa che divenne una leggenda tra gli Arditi. Un vero e proprio eroe del IX reparto d’assalto “Grappa” meritò più di un articolo nelle cronache del tempo. Un cane nero, quindi Fiamma Nera tra le Fiamme Nere, era piccoli no ma capace di mordere le caviglie dei nemici, di scagliarsi senza paura in battaglia. Lui in realtà era semplice mente un “meticcio” di campagna ma che dentro a quella pazzia chiamata guerra , fu chiamato alla “causa”: cucciolo come tanti altri, quindi senza uno specifico addestramento, quando il suo padrone fu chiamato alle armi, in primis rimase a casa ma poi per necessità dell’esercito venne
arruolato. Assegnatogli dall’esercito stesso il nome “Grappa”, dopo aver dimostrato la sua tenacia in diversi attacchi, divenne leggenda quando il suo conduttore fu dilaniato sull’o monimo Monte da un’esplosione di granata. Anche “Grappa” fu ferito al collo in quell’occasione ma si aggirò non curante del pericolo nel campo di battaglia tra una membra e l’altra dell’amato amico. La leggenda, ma facile che sia una simil-verità, narra che il povero e valoroso cagnolino, trasferito per vivere serenamente
Non solo animali
nel giardino di un qualche generale a Bassano, ritornò sul Monte Grappa per ripercorrere in maniera ossessiva quegli spazi che al suo olfatto e al suo cuore potevano ricongiungerlo alla memoria del suo commilitone umano. Poi, dopo molto tempo, non si seppe più nulla neanche di lui.
Quest’articolo è stato reso possibile gra zie al prezioso aiuto del Dott. Stefano Guderzo, Direttore del Museo delle Forze Armate di Montecchio Maggiore di Vicenza, e ai suoi collaboratori.
Che tempo che fa
di Giampaolo RizzonelliLE AURORE POLARI, LE LUCI DEL NORD
In questo inizio di autunno si ve dono spesso su siti web e pagine di “social network” immagini di aurore boreali. Ma dove e perché si verificano le aurore?
Innanzitutto, perché si usa il termine boreale? L’aurora boreale è quella visi bile nell’emisfero nord, mentre quelle visibili nell’emisfero sud sono definite aurore australi, sempre di aurore pola ri stiamo parlando. Ma perché si parla di “polari”?
Il termine polare è collegato ai posti in cui sono più facilmente visibili le aurore, solitamente (vedremo poi le eccezioni) sono facilmente visibili nel le regioni a nord o più vicine al Circo lo Polare Articolo o a sud o più vicine al Circolo Polare Antartico. Quindi in Canada, Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia a nord, Patagonia o Antartide a sud.
In cosa consiste l’aurora? E’ un feno meno ottico che si verifica nell’atmo sfera, visibile a occhio nudo, caratte rizzato da bande/fasce luminose di diverse forme e colori che vanno dal verde, al rosso all’azzurro, bande che cambiano velocemente forma Le dimensioni di queste bande lumi nose sono spesso ragguardevoli, si innalzano a partire da 100 km sopra la superficie terrestre (nella ionosfera, ovvero tra i 100 e i 500 km dalla su perficie) e si estendono per centinaia di chilometri di lunghezza lungo l’ar co magnetico, lo spessore invece può essere anche di solamente qualche centinaia di metri.
L’aurora polare “nasce” dal Sole ancorché lo stesso si trovi a circa 150 milioni di km dalla terra, il Sole infatti emette delle particelle cariche, il cosiddetto “vento solare” genera
to dall’espansione nello spazio interplanetario della corona solare, questo flusso è principalmente composto da elettroni e protoni. Queste particelle sfuggono alla gravità del Sole per le alte energie ci netiche e l’elevata tempe ratura della corona solare e viaggiano nello spazio a velocità comprese tra i 400 e gli 800 km al secondo, il che vuol dire che rag giungono la terra nel giro di 50 100 ore. Una volta raggiunta la terra il vento solare interagisce con la magnetosfera creando un evento luminoso simile ad una cometa. Il campo ma gnetico terrestre funge da scudo e scherma l’arrivo di tutte le particelle cariche
che compongono il vento solare, tuttavia una parte di esse penetra e interagisce con la ionosfera terrestre, dove scarica i protoni e gli elettroni generando il fenomeno dell’aurora polare. Il fenomeno si verifica mag giormente ad elevate latitudini in quanto qui lo schermo magnetico è inferiore.
La colorazione è data dalle collisioni tra i protoni e gli elettroni e gli atomi neutri dell’atmosfera terrestre, gli elettroni di questi ultimi dopo essere stati “eccitati” tornano al loro stato inziale emettendo fotoni che non sono altro che particelle di luce. I colori dipendono dalla tipologia di gas presenti nell’atmosfera, l’ossigeno atomico genera il verde, l’ossigeno molecolare il rosso, l’azoto il blu. Le aurore solitamente sono più intense quando ci sono forti tempeste ma gnetiche conseguenti a “brillamenti”
Come eravamo
sul Sole che emettono grandi quan tità di raggi X, che oltre alle aurore polari spesso creano problemi alle telecomunicazioni sulla terra entran do nella ionosfera.
Come dicevo in apertura di articolo le aurore sono maggiormente visibili nelle zone più a nord e più a sud della Terra, tuttavia in passato ci sono state diverse eccezioni che hanno portato le aurore ad essere visibili fino al 40° parallelo, tra i vari casi una vista vicino a Udine nel 2003 e quella del 1848 visibile fino a Napoli.
Miti e leggende legati alle aurore:
I vichinghi celebravano le luci, cre dendo che fossero manifestazioni terrene dei loro dei. Altre persone norvegesi le temevano, raccontando storie sui pericoli che rappresentava no e hanno sviluppato superstizioni per proteggersi. In alcune leggen
de, si sostiene che l’aurora fosse il respiro di coraggiosi soldati morti in combattimento. In Finlandia il nome dell’aurora boreale è “revontulet”, ovvero volpe di fuoco. Il nome deriva dal mito secondo cui le volpi artiche correvano nel cielo così velocemente che quando le loro grandi code pelo se sfioravano le montagne, creavano scintille che illuminavano il cielo. Una versione simile di questa storia racconta che mentre le volpi di fuoco correvano, le loro code sollevavano fiocchi di neve nel cielo, che cattu ravano la luce della luna e creavano l’aurora boreale. Questa versione avrebbe anche aiutato a spiegare alla gente perché le luci erano visibili solo in inverno, dato che nei mesi estivi non nevicava. Il folklore legato alle aurore è ben presente anche in Islanda e Groenlandia e in genere nel la mitologia norrena.
Le belle Vivane e il paese scomparso
Viarago oggi è una frazione di Pergine all’inizio della Valle dei Mocheni. È un gruppo di case che al 2019 contava poco più di 500 abitanti. Ma è un paesino ricco di storia e..ovviamente ...ricco anche di leggende. Si narra di streghe, di santi e di draghi. E in questo grande pan theon fatto di personaggi fantastici e mitologici, troviamo anche le Vivane. E chi sono? Secondo la tradizione le Vivane sono fate buone, molto simili alle Salinghe o alle già note Anguane. Il rischio di innamorarsi di loro è molto alto. Le Vivane, per sedurre i giovinetti dei paesi, intonano canzoni che porta no i ragazzi a perdere completamente la testa. Non sono cattive. Sono solo belle donne magiche, sensuali, che si divertono, ancora oggi, a sedurre i ragazzi che si avventurano nel bosco. A Viarago in località Castagneri queste belle fate del bosco si incontrano per fare festa, danzare e ballare. Ma in passato, proprio lì, dove oggi le Vivane si incontrano, un tempo esisteva un piccolo paese. Ed è proprio qui che inizia la nostra storia.
Erano gli anni in cui in valle dei Mo cheni l’attività mineraria dominava lo scenario economico e produttivo. Si diffuse, quasi, la febbre dei cerca tori d’oro. Giorno e notte i minatori scavavano nelle profondità delle montagne in cerca di oro e d’argento. Una voce iniziò piano piano a diffon dersi per tutta la vallata. Si vociferava di un enorme tesoro nascosto e di un mondo sotterraneo fatto interamente d’oro. A Viarago, in quel periodo, pro prio nella località ai castagneri, a stra piombo sulla valle, esisteva un piccolo villaggio fatto di poche case dove la gente viveva in modo modesto. Ogni
tanto giungevano dalla valle storie che parlavano di un grande tesoro nel cuore della montagna, ma nessuno ci dava particolare peso.
Lì, ai Castagneri, la gente viveva di agricoltura e pastorizia. La vita scor reva tranquilla, tranne per una cosa: i canti notturni delle Vivane a volte rompevano la monotonia del piccolo villaggio. Ma gli abitanti stavano alla larga da quelle belle fate: «è meglio stare alla larga da quelle belle ragazze -raccontavano gli anziani. Sono le Vivane..ed è meglio non fidarsi...sono delle imbroglione...a loro piace ingan nare i ragazzi».
Una sera, però, un gruppo di giovani decise di salire sulla cima del dosso per vedere da vicino queste Vivane. Arrivati proprio sulla sommità videro qualcosa di incredibile (di incredibile per loro...intendiamoci): cinque belle ragazze, con abiti sensuali, di seta e velluto, che danzavano, cantavano e ridevano: «Ciao e benvenuti. -disse la più bella di loro. Vi stavamo pro prio aspettando». «Aspettando noi? - domandò il ragazzo più spavaldo». «Sì proprio voi. Volete vedere i nostri tesori? -chiese la più giovane in modo sensuale e misterioso». «Certo - rispo sero in coro i ragazzi. Siamo venuti
proprio per questo…per vedere i vostri tesori». A quel punto una delle Vivane, con bei capelli neri e lunghi, si alzò da terra. Si avvicinò ad una roccia e con una bacchetta aprì un varco nel la roccia. «Seguiteci – dissero in coro. Seguiteci e non voltatevi». I ragazzi, senza pensarci due volte, entrarono nella montagna e dopo qualche passo si aprì davanti a loro uno scenario mai visto prima. Era il mondo dorato e fantastico raccontato dai minatori della valle. Un mondo fatto di palazzi d’oro e di argento. «Vedete -disse la Vivana con i capelli neri- questo sarà tutto vostro. Ma ad una condizione: dovete restare per sempre qui con noi». I giovanotti si sentirono inganna ti; fecero a finta di assecondarle e alla prima occasione scapparono dal varco aperto nella roccia.
Trascorse qualche giorno e i giovani raccontarono l’accaduto agli anziani del paese. A quel punto gli uomini decisero di scavare nella montagna per mettere le mani su quel tesoro. Scavarono per mesi, ma inutilmente. Una mattina, all’alba, le cinque Vivane uscirono allo scoperto e con le loro bacchette magiche tracciarono nell’a ria strani segni e il paesino, uomini compresi, scomparve nel nulla.
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