L’EDITORIALE Nel 2019 abbiamo scritto, stampato e distribuito quasi 95.000 copie (di cui 87.000 gratuite) grazie al contributo di 200 giovani redattrici e redattori, dei nostri lettori, partner e soprattutto, abbonati! Abir Matilde N, Adele G, Adriana C, Adriano C, Alberto B, Alberto C, Alessandra C, Alessandra R, Alessandro A, Alessandro DC, Alessandro F, Alessandro L, Alessandro M, Alessio B, Alfonso P, Alfredo S, Alice F, Alice M, Alvise S, Andrea A, Andrea C, Andrea G, Andrea LG, Andrea M, Andrea P, Andrea P, Andrea S, Andrea T, Angelo V, Anna C, Anna Maria B, Anna Rita P, Anna R, Anna Z, Annamaria H, Anna Constance CN, Antoine François M, Antonella P, Antonello A, Antonietta E, Antonio C, Antonio Luigi P, Antonio S, Arianna M, Beatrice G, Beatrice LB, Beatrice M, Beatrice P, Benedetta M, Benedetta P, Benedetta S, Benedetta T, Sofia ed Emma B, Bianca Maria C, Bruno A, Bruno Caio F, Bruno Fulvio P, Bruno M, Camilla O, Camilla R, Carla DB, Carlo B, Carlo P, Carlotta P, Carlotta R, Carmen R, Carolina P, Cecilia T, Centostorie, Chiara C, Chiara C, Chiara D, Chiara F, Christian S, Cinzia G, Cinzia IH, Clara M, Claudia C, Claudia M, Claudio C, Claudio T, Cooperativa Sociale di Psicoterapia Medica, Corrado I, Costanza M, Costanza P, Cristiana S, Cristina B, Cristiana DF, Cristina O, Giuseppe DA, Damiano A, Daniela G, Daniela S, Daniela T, Deniele T, Danilo M, Daria R, David N, Davide B, Davide C, Davide G, Davide Morpurgo, Davide R, Diana C, Diana Giaisa R, Diego G, Diletta P, Domenico M, Domenico S, Donata S, Donatella Z, Edoardo A, Edoardo F, Egle C, Elena F, Elena M, Elena P, Elena Z, Eleonora F, Eleonora P, Eleonora T, Elettra DC, Elide M, Elisa L, Elisa M, Elisa Z, Emanuele Massimo M, Emilia G, Emilia R, Emily R. Enp Costruzioni CO Amoruso Manzari, Enrica C, Enrico G, Enrico IF, Enrico M, Erica G, Erica R, Ermes S, Ernani P, Eugenio G, Ezio F, Fabio A, Fabio B, Fabrizio L, Fabrizio T, Federica B, Federica C, Federica M, Federica R, Federico C, Federico G, Federico M, Federico P, Federico S, Fiammetta P, Filippo I, Flaminia DP, Flavia O, Francesca A, Francesca A, Francesca Asia C, Francesca C, Francesca F, Francesca G, Francesca L, Francesca M, Francesca R, Francesca S, Francesca T, Francesca R, Francesca S, Francesca T, Francesco A, Francesco Gregorio A, Francesco DL, Francesco Christian DN, Francesco G, Francesco Antonio L, Francesco M, Gabriele P, Gabriele S, Gabriele U, Gabriella C, Gaetano S, Gaia C, Giacomo B, Giacomo L, Gian Carlo C, Gian Marco C, Giada DF, Gianfranco G, Gianluca F, Gianluca M, Gianluca V, Gianmichele S, Giannandrea R, Gionatan F, Giorgia DC, Giorgia F, Giorgia G, Giorgia M, Giorgia V, Giorgio F, Giovanna S, Giovanni T, Giuditta F, Giuditta P, Giulia B, Giulia DD, Giulia F, Giulia G, Giulia T, Giuliano B, Giulio P, Giulio V, Giulio X, Giuseppe B, Giuseppe C, Giuseppe F, Giuseppe M, Giuseppe Q, Giuseppe T, Giusi C, Guido B, Guido G, Iacopo G, Irene R, Irma Cesaria M, Isabella P, Lara P, Laura C, Laura C, Laura G, Laura I, Le Ali delle Notizie, Leonardo C, Leonardo R, Livio P, Lorenzo C, Lorenzo DM, Lorenzo F, Lorenzo R, Luca B, Luca C, Luca M, Luca M, Luca V, Lucia B, Lucia I, Lucia M, Luciano Antonio DA, Luciano DL, Luciano M, Ludovica DA, Ludovica M, Luigi M, Luigi C, Luigi DM, Luisa B, Luisa F, Michele M, Mara F, Mara P, Marco B, Marco B, Marco DA, Maria Giuseppina DA, Maria F, Maria Soccorsa L, Maria N, Maria Chiara R, Maria Pia R, Maria Giovanna RF, Maria Serena S, Maria S, Maria Laura S, Maria Antonietta S, Maria TDC, Mariano C, Mariasole D, Marina B, Marina E, Mario M, Mario R, Mario R, Marta F, Marta NA, Martina T, Massimiliano B, Matilde M, Matteo A, Matteo B, Matteo C, Matteo F, Matteo M, Matteo P, Maura M, Maurizio D, Maurizio V, Maurizio Z, Mauro D, Mauro Battista M, Mauro P, Michela DS, Michela LG, Michela LR, Michele G, Mila P, Milena P, Mimmo B, Mirella G, Mirjiam P, Monica D, Nadia D, Nathalie LC, Nello S, Nicola B, Nicola DA, Nicola M, Nicoletta LT, Nives Z, Nuccio R, Orietta T, Pablo R, Palma E, Paola DA, Paola DF, Paola E, Paolo B, Paolo DF, Paolo DG, Paolo L, Paolo L, Paolo V, Pasquale Lelio I, Piergiorgio P, Pierluigi S, Pierpaolo C, Pierpaolo P, Pietro B, Pietro C, Pietro R, Raffaella L, Raffaella R, Riccardo C, Riccardo F, Riccardo M, Riccardo P, Roberto B, Roberto Paolo B, Roberto C, Roberto M, Roberto S, Roberto V, Roberto Z, Rosella G, Rossana A, Sabina B, Sabina DT, Sabrina M, Samanta S, Sara D, Sara M, ScuolaZoo srl, Sergio M, Sergio N, Silvano A, Silvia P, Silvia S, Simona S, Simone S, Sinnos, Sofia A, Sofia B, Sofia T, Sonia C, Sonia S, Stefania B, Stefano C, Stefano L, Stefano LP, Stefano RC, Susan G, Susanna M, Teodora A, Teresa G, Thomas B, Thomas M, Umberto B, Umberto M, Umberto S, Valentina D, Valentina Gaia C, Valentina L, Valentina P, Valerio B, Valerio C, Valerio O, Valerio S, Vanessa M, Video 80, Vincenza DM, Vincenzo D, Vincenzo E, Vittorio Z, Ziri Luca M
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I N D I C E FOCUS 3 NEUROPSICHIATRIA INFANTILE • Una rigenerazione urbana e sociale 3 La cura psichiatrica in Italia, un allarme tra i giovani di Giovanni Tiriticco 4 Incontro con Ignazio Ardizzone e Graziella Bastelli, due esperti nel settore neuropsichiatrico di Anna Cassanelli e Ilaria Coize 6 L’incontro al Grande Cocomero: una testimonianza diretta di Daniele Gennaioli 10 Prevenzione per “una concretissima utopia” di Sara De Benedictis 12 ATTUALITÀ 14 Brexit poll di Francesca Cinone, Simone Martuscelli, Francesco Paolo Savatteri 16 Il metronomo dei processi di Andrea Calà, Lorenzo Cirino, Chiara Falcolini, Claudio Minutillo Turtur 22 Stallo all'americana di Carlo Giuliano, Elena Parrocini, Leonardo João Trento, Marina Roio, Pietro Forti 27 I CONSIGLI DEL LIBRAIO 34 Parallasse di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol 36 MOSTRI Angelo Mai di Martina Taddei e Susanna Rugghia
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Scomodo per Internazionale illustrazione di Peony Gent
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CULTURA LA COPERTINA di Enrico Milito Finché avrò voce - Intervista all'attivista afghana Malalai Joya di Alessio Zaccardini Ogni maledetta domenica di Adriano Bordoni, Cosimo Maj e Lorenzo Scotto di Carlo Terra chiama Fulci, risponde JustR3mo di Daniele Gennaioli Stereo8 di Jacopo Andrea Panno
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RECENSIONI 72 Giuseppe Tubi/Ovvero quando un cattivo di topolino si mette a fare l’artista di Luca Giordani 72 Joker /Si può ancora fare la rivoluzione con un film? di Lorenzo Vitrone 73 PLUS Raggi-Chan contro la criminalità capitolina di Luca Bagnariol e Elena Capezzone Tran-sport-ato in Italia di Emanuele Caviglia Banche Armate di Lorenzo Cirino
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Scomodo
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NEURO PSICHIATRIA INFANTILE ANALISI DI UN’EMERGENZA NAZIONALE Il settore neuropsichiatrico in Italia è sempre stato poco considerato dal dibattito socio-politico, lasciando questo settore sanitario in una condizione di emergenza. Sebbene il nostro paese sia in grado di offrire un servizio sanitario al riguardo, sono poche le eccellenze che mantengono in piedi gli altrettanti reparti disseminati per tutto il territorio.
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La cura psichiatrica in Italia, un allarme tra i giovani Un’introduzione La neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza è oggi una delle aree più complesse della medicina. In un mondo che cambia cosí rapidamente, i fattori che influenzano la psiche dei minori aumentano. Infatti il periodo della minorità è caratterizzato dalla riorganizzazione dell’identità del soggetto e rappresenta un momento cruciale per la salute mentale dell’individuo. Le malattie, in questo ambito medico, sono dette “disturbi neuropsichici”, a loro volta suddivisi in disturbi neurologici e psichiatrici. I primi sono legati a malattie genetiche o acquisite e si manifestano, nell’80% dei casi, durante l’infanzia o l’adolescenza. I secondi invece, tra cui psicosi, anoressia, iperattività, depressione, disturbi dello spettro autistico, dipendono dall’emotività del soggetto e dalla concorrenza tra fattori ambientali e biologici. Lo specchio del disagio A livello mondiale, la totalità dei disturbi neuropsichici riguarda il 20% dei ragazzi tra 0 e 17 anni e costituisce dunque una parte rilevante del Global Burden Of Disease (Impatto Mondiale delle Patologie). In particolare, i disturbi dell’apprendimento sono tra i più comuni e riguardano il 5% della popolazione infantile. Sono inoltre largamente diffusi l’ADHD (iperattività) e i disturbi dello spettro autistico. Le patologie psichiatriche possono degenerare in pesanti disabilità fisiche, arrivando eventualmente a limitare le autonomie di base del paziente (mangiare, bere, andare al bagno da soli). 4
Negli ultimi anni, la diffusione dei disturbi neuropsichiatrici è aumentata esponenzialmente. A livello mondiale la domanda di diagnosi e ricovero sta aumentando del 7% annuo. In Italia invece, la richiesta di ricovero è cresciuta del 45% negli ultimi cinque anni. E’ un incremento esorbitante, come in nessun’altra area della medicina. Nelle nostre scuole, gli studenti portatori di una disabilità dovuta a disturbi neuropsichici, sono aumentati del 40% in dieci anni. Ad oggi, su quattro bambini in sala d’aspetto dal pediatra, uno si trova lì a causa di sintomi riconducibili a disturbi mentali. Infine il suicidio è diventato una delle prime cause di morte tra i 15 e i 29 anni. I dati allarmanti riportano un’emergenza globale e raccontano un disagio giovanile che ha nuove modalità di manifestarsi, come la dipendenza da internet e l’isolamento domestico. A fronte del continuo aumento della domanda, non è presente un’organizzazione dei servizi omogenea ed è spesso assente il coordinamento tra ospedali, territorio e scuole. Nonostante la portata di un malessere diffuso, nel nostro paese il tasso di ospedalizzazione, per i ragazzi dai 12 ai 17 anni, rimane solo dell’1,9 per mille. Non bastano infatti i letti di ricovero dedicati alla neuropsichiatria infantile: poco più di 300 nell’intero territorio nazionale, 14 nel Lazio e zero in sette regioni italiane. La carenza di posti letto, costringe le amministrazioni locali ad escogitare soluzioni improvvisate, che non considerano la specificità di intervento necessaria a quella fascia d’età. La neuropsichiatria infantile richiede infatti delle conoscenze distinte, in quanto i disturbi sono spesso caratterizzati dalla comorbilità (dal latino cum + morbus, è la coesistenza di due aspetti patologici nello stesso paziente). Le patologie mentali dei ragazzi hanno inoltre la capacità di cambiare nel tempo e di trasformarsi; ad esempio i disturbi dello sviluppo possono evolversi in schizofrenia o in iperattività. Scomodo
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Purtroppo oggi, solamente il 37% dei minori con disturbi psichiatrici viene ricoverato in reparti di neuropsichiatria infantile, il resto viene assegnato a reparti psichiatrici per adulti (SPDC). All’interno di questi, non si può dare il giusto peso alle caratteristiche cliniche proprie della delicata fascia d’età. Si aggiunge poi un altro aspetto negativo: nei centri SPDC, il ragazzo/a viene isolato dai suoi coetanei ed entra in contatto con malati cronici adulti che stazionano da anni nella struttura di ricovero. E’ normale che il ragazzo/a, di fronte a tali situazioni, provi sconforto, spaventandosi e pensando: “allora finirò anche io cosí”. Succede infatti che i malati poco curabili, respinti dalle famiglie e in assenza di soluzioni alternative, trascorrano i loro giorni nei reparti SPDC che, per questo motivo, conservano la natura repressiva degli ormai chiusi manicomi. Si capisce dunque come il ricovero di minori all’interno di strutture per adulti rischi di aggravare la situazione e cronicizzare i disturbi dei giovani pazienti. Eppure solo un utente su due riesce ad accedere ai servizi di neuropsichiatria infantile. Non potendosi affidare alla presa in carico degli ospedali pubblici, le famiglie si rivolgono alle cliniche private. In aggiunta, genitori e figli finiscono per girare in cerca di risposte, spostandosi di clinica in clinica e ripetendo costose ed evitabili indagini diagnostiche. Così peggiora lo scompenso economico delle famiglie, cha appaiono inoltre sempre più frammentate e isolate. Mentre, soprattutto in quest’area della medicina, è fondamentale la partecipazione attiva dell’intero nucleo familiare durante il percorso di cura. In tutta la penisola, l’aumento dell’accesso ai servizi di presa in carico va a scapito di quelli dedicati alla riabilitazione. Dopo la terapia, il ragazzo deve essere accompagnato nel reinserimento all’interno del contesto sociale e scolastico; altrimenti c’è il rischio di “ricaderci dentro”. In questo caso, solamente un utente su tre riesce a ricevere un intervento riabilitativo adeguato. La carenza di personale qualificato e di posti per il ricovero produce liste d’attesa di mesi, o addirittura anni; i tempi d’attesa infiniti impediscono di agire tempestivamente sui ragazzi, frustrano le famiglie e inaspriscono il disagio sociale. Il problema dell’assenteismo della politica La mancanza di linee guida nazionali ha creato negli anni un’enorme disomogeneità e disuguaglianza tra le regioni. Ed ecco che assistiamo allo spostamento di famiglie, con a carico figli malati, da regioni dove l’accesso ai servizi è pressoché impossibile (Campania, Calabria) verso altre regioni come il Lazio. Scomodo
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Ad attrarre queste persone è il centro di eccellenza di Via dei Sabelli di Roma, che accoglie pazienti da ogni dove ed è per questo sempre pieno. Il centro è una delle poche stelle che, se vengono lasciate brillare da sole, finiranno per spegnersi. Infatti, in generale, nel Lazio la situazione è critica quanto nel resto del Paese. Qui la presenza di strutture territoriali di neuropsichiatria è scarsissima e le poche operanti, in assenza di collaborazione con gli ospedali, non riescono a prendere in cura i soggetti dimessi. In più il Lazio detiene un primato negativo: il numero maggiore di prescrizioni di farmaci antipsicotici e antidepressivi. Gli psichiatri, non riuscendo a gestire l’enorme accesso ai servizi, bombardano i pazienti di pasticche; la soluzione non è però a lungo termine perché i medicinali attenuano i sintomi, ma non curano le malattie. La politica nazionale e locale è sempre più assente rispetto alla sanità pubblica. Sembra anzi che i governi degli ultimi anni si siano fatti sentire a suon di tagli al Fondo Sanitario Nazionale. L’inerzia dell’attuale classe dirigente ha fatto sì che ciascun dipartimento psichiatrico tenti di utilizzare soluzioni improvvisate. Praticamente, l’organizzazione della risposta all’emergenza viene lasciata alla buona volontà dei primari. Ad esempio la ASL Roma 1, che agisce nel I Municipio di Roma, ha deciso autonomamente di creare PIPSM: “Presidio Territoriale Prevenzione Interventi Precoci Salute Mentale”. Nella ristretta area in cui opera, PIPSM si occupa di intercettare preventivamente il disagio giovanile. Il Presidio dialoga anche con i dipartimenti pubblici, favorisce in tale modo quella famosa interazione tra ospedali e territorio di cui ci sarebbe un gran bisogno in tutto lo Stivale. In altri casi sono i volontari a rimboccarsi le maniche per aiutare i ragazzi, ne è esempio Il Grande Cocomero: un’associazione che collabora con il reparto psichiatrico di Via dei Sabelli per assistere i piccoli pazienti dopo la diagnosi. Nonostante le iniziative di questo tipo riescano ad avere un impatto sul territorio, rimangono troppo poche e troppo isolate.
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di Giovanni Tiriticco
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Incontro con Ignazio Ardizzone e Graziella Bastelli, due esperti nel settore neuropsichiatrico Abbiamo intervistato uno dei medici del reparto di Neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I di Roma, Ignazio Ardizzone e la ex-caposala, nonché storica volontaria del Grande Cocomero, Graziella Bastelli. L’Umberto I è uno dei maggiori ospedali della città. Siamo stati nel quartiere San Lorenzo, in una sede dislocata, il reparto di Neuropsichiatria Infantile, in via dei Sabelli. Graziella Bastelli ha contribuito a fondare e dare forma a questo reparto, quando dopo la riforma sanitaria e la legge 180 furono effettuati grandi cambiamenti nel mondo della neuropsichiatria, lasciando non esplicitati i destini dei minori. Oltre a Graziella Bastelli, Giovanni Bollea e Marco Lombardo Radice furono i personaggi principali dell’inizio di una nuova sperimentazione e della nascita di questo reparto. Il dottore Ardizzone è entrato in questo mondo in un secondo momento, dopo aver incontrato Franco Basaglia. È un reparto di avanguardia e innovativo poiché fonde psicologia, psichiatria e neuropsicologia ed è l’unico in Italia a riuscire in questo intento. Il fine dell’intervista è stato quello di avvicinarsi alla tematica affrontata non solo attraverso i documenti, ma anche attraverso due testimonianze che vivono la vita nel reparto come diretti responsabili di questo. 6
Legge Basaglia La legge Basaglia del 1978 ha portato alla chiusura dei manicomi, luoghi in cui venivano confinati ed emarginati i malati mentali. L’intento della Legge era quello di restituire dignità umana ai malati, che prima di allora venivano considerati socialmente pericolosi e incurabili. Lo psichiatra Basaglia aveva in mente un nuovo modello di presa in carico dei malati, che garantisse loro accoglienza, ascolto e l’instaurazione di un rapporto umano con i medici. Nel 2019 la Legge appare più avanzata del contesto reale: ci sono ancora apparati segregativi e repressivi nei confronti dei malati e la necessità di presa in carico totale del paziente rimane lontana dalla sua completa realizzazione.
Marco Lombardo Radice: neuropsichiatra infantile, viene chiamato giovanissimo a dirigere il reparto dell’istituto di via dei Sabelli, quello riservato agli adolescenti. Compì una vera “rivoluzione”, aprendo le porte del reparto, organizzando uscite con i giovani pazienti e richiedendo il coinvolgimento pieno di tutti gli operatori, infermieri compresi. Tra le sue opere: “Porci con le ali” e “Una concretissima utopia”
Giovanni Bollea: padre della neuropsichiatria infantile in Italia. Fondatore del reparto di via dei Sabelli.
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Qual è il ruolo del neuropsichiatra e dello psicologo e le due figure collaborano per curare la patologia? Qual è, invece il ruolo di una caposala in questo reparto? Ardizzone: “La prima grande differenza sta nel corso di studi: lo psicologo è laureato in psicologia, il neuropsichiatra è un medico specializzato, questo porta ad una differenza brutale: lo psichiatra può dare i farmaci, lo psicologo no. Diciamo che lo psichiatra lavora su una malattia reale causata da diversi fattori, lo psicologo lavora su un malessere di vita non definibile come malattia. Seppure le cause di una malattia psichiatrica sembrerebbero essere psicologiche, spesso vi è un problema genetico che, in correlazione con fattori ambientali, porta al disturbo. Quello che è sicuro è che le due figure devono collaborare per aiutare l’adolescente, l’una senza l’altra non sussiste” Bastelli: “Il mio ruolo è stato fondamentalmente coordinare e controllare. In un reparto di questo tipo è essenziale la comunicazione tra infermieri e dottori, nessuno da solo è in grado di guarire un paziente. Inoltre, sono diversi i disturbi psichiatrici che portano il paziente a voler mettere uno contro l’altro i medici curanti o gli infermieri. La mia idea era di creare una gestione collettiva in modo tale che il reparto diventasse autonomo, con l’esperienza ho imparato che serve anche autorevolezza, nel senso lato di coinvolgimento, da non confondere con semplice autorità. Il mio ruolo era anche di insegnare a lasciare i propri problemi alla porta per non contaminare il reparto ed i pazienti, è il ragazzo e la ragazza a stare in primo piano, il resto deve essere uno sfondo”. In questo momento storico quali sono le patologie più frequenti tra gli adolescenti? Ardizzone: “C’è una grande differenza tra i maschi e le femmine. Tra le seconde autolesionismo e tentato suicidio, nei maschi l’isolamento e lo sparire dalla società. Vi è un aumento di esordi psicotici legati all’abuso di sostanze e di dipendenze in generale: alcol e ludopatia. Una costante sono i disturbi alimentari, soprattutto tra le ragazze, anche se per un periodo erano scomparsi perché vi erano modi diversi di trattare la malattia, ma poi sono tornati. Altra malattia molto frequente sono i disturbi di personalità”. Quale potrebbe essere una strategia vincente per arginare ed evitare l’insorgere di disturbi psichiatrici? Perché in Italia non c’è? Scomodo
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Ardizzone: “La prevenzione esiste, bisognerebbe lavorare sul bambino o sull’adolescente appena si manifestano i primi sintomi di un disturbo psichiatrico, ma non è possibile effettuarla. La verità è che i posti letto per il ricovero sono per le emergenze. I fondi non sono sufficienti, i posti letto sono contati. Però lavorare sulla malattia quando è in evoluzione e non, quindi, sul paziente adulto, può prevenire la cronicizzazione della malattia stessa ed è questo che mi piace del lavoro che faccio”. Bastelli: “Sono d’accordo, il problema è che nel campo medico si cura l’emergenza e non si lavora sulla prevenzione. Non importa quanti calcoli siano stati effettuati per dimostrare che prevenire una malattia costa meno allo stato che curarla, i posti letto sono quelli e sono per le emergenze”. Ci sono disturbi che è possibile guarire senza l’uso dei farmaci? In questo caso la terapia risulta più lunga? Ardizzone: “Il discorso è controverso. Secondo molti l’uso di farmaci non dovrebbe riguardare bambini e adolescenti, ma piuttosto gli adulti, io personalmente non sono d’accordo, purché la terapia farmacologica sia accompagnata da una psicologica. Qui entra in gioco la psicoterapia, ma il discorso diventa complesso. Lo psicoterapeuta si concentra o su uno studio bidimensionale “cognitivo-comportamentale” o su uno tridimensionale come la psicoanalisi che integra lo studio della mente e del comportamento con lo studio dell’inconscio. La prima non si avvale di farmaci e prevede quindi ricoveri molto lunghi anche di sette o otto anni”. Si può effettivamente guarire da un problema psichiatrico? Ardizzone: “Difficile parlare di guarigione, la diagnosi di disturbo psichiatrico è un’etichetta pesante di cui difficilmente il paziente si libererà. Diciamo che si può parlare di guarigione quando il ragazzo supera la sofferenza e riesce a riavvicinarsi alla società e all’altro da cui la malattia lo aveva isolato, deve avere voglia di riaffrontare il contatto con l’altro per quanto potenzialmente doloroso”. 7
Che tipo di comunità si crea all’interno di un reparto? Bastelli: “Nell’immaginario comune, a lavorare in un reparto ci sono i medici e gli infermieri, non è la realtà. In un reparto come questo ci sono moltissime persone dai portantini agli specializzandi e tutti in un modo o in un altro influenzano il paziente”. Che tipo di rapporto mantiene il paziente con l’istituto dopo la dimissione? Bastelli: “Dipende. Alcuni vogliono tenere le distanze, mentre altri tornano con ancora più affetto e senso di comunità di quando la loro vita era in questo istituto. Altri, purtroppo, tornano proprio quando stanno male. Le ricadute sono possibili, e vanno tenute in conto quando si affronta una terapia. Spesso i ragazzi, anche una volta reinseriti in società, perdono il fascino della relazione con l’altro. Bisogna garantirgli la possibilità di non farsi del male e non fare del male. La malattia psichiatrica toglie il libero arbitrio, ciò che noi cerchiamo di fare è restituirglielo”. La famiglia è fondamentale per il percorso terapeutico? Quando si procede all’allontanamento familiare? Bastelli: “Un figlio va apprezzato sempre, soprattutto quando sbaglia. L’allontanamento familiare si rivela necessario soprattutto quando i genitori mostrano di avere a loro volta grosse patologie o problematiche. Per un effetto domino, i ragazzi possono sentirsi in colpa credendo di aver deluso le aspettative della madre o del padre. D’altro canto però questo posto non deve essere considerato un’oasi lontana dalla famiglia e dalla vita che il ragazzo ha visto così terribilmente oppressiva; vedere in questa chiave l’assistenza che noi forniamo, potrebbe non aiutare il paziente a reintegrarsi nel tessuto sociale una volta reintrodotto nella società. Inoltre, un rapporto troppo amicale da parte del personale con la famiglia, può creare ostilità da parte del giovane verso l’equipe medica: potrebbe sentire che non può fidarsi, perché gli sembra un’alleanza distruttiva nei propri confronti. 8
Spesso infatti, chiediamo un certo distacco da parte delle famiglie, per evitare che il ragazzo percepisca un’amicizia che va oltre l’interesse di cura dello stesso. Proprio a causa di questi fraintendimenti spesso si va incontro a delle “crisi”, talvolta anche di natura violenta. Il paziente non odia il medico in sé, ma ciò che egli, in caso sia molto intimo con la famiglia, rappresenta: un personaggio della vita o dell’infanzia del ragazzo, che quest’ultimo ha vissuto come un nemico”. Questo istituto copre un territorio maggiore di quello romano, se sì quale? Ardizzone: “Ci arrivano pazienti da tutto il Centro-Sud: non esistono altri punti di ricovero come questo, a livello pubblico. Il nostro metodo, che consiste nel trattare i ragazzi basandoci su un saldo lavoro di equipe, viene apprezzato da molte altre cliniche che non hanno il nostro stesso approccio. È capitato che medici più giovani o che volessero rivoluzionare il proprio approccio con i pazienti, venissero da noi per imparare. A livello nazionale questa è una struttura unica nel suo genere”. Quanto gravano le limitazioni economiche sul trattamento del paziente? Bastelli: “La carenza di sovvenzioni statali è altamente deleteria per il ricovero a lungo termine dei pazienti.Spesso ci si trova a dover dimettere prima del tempo necessario al trattamento di un disturbo a causa del deficit di finanziamenti. Questo problema può essere certamente ovviato rivolgendosi alle cliniche private. Il punto è proprio questo: chi non può permettersi un trattamento del genere, da chi dovrebbe essere aiutato se non da noi? Ma noi, come possiamo farlo se mancano i fondi?” Quali sono i principali stereotipi da sfatare riguardo le patologie psichiatriche? Ardizzone: “Innanzitutto, la credenza diffusa “che siano una cosa bella, positiva e creativa”. La diffusa corrente dell’Antipsichiatria è stata anche alla base di un movimento culturale. Questo non è minimamente concepibile: un disturbo psichiatrico, in prima battuta, porta tanta, troppa sofferenza. Non ha nulla di positivo. Certo, con la guarigione si può arrivare ad una nuova concezione del “sé”, ma il disturbo, in quanto tale, non porta mai nulla di buono. Non è trascurabile la paura nei confronti di chi è “diverso”, chi appare “strano”. Scomodo
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Quando chiedevamo all’amministrazione di portare fuori i ragazzi, ci era proibito di farlo il sabato e la domenica, per non “turbare” i residenti. Di stereotipi ce ne sono ancora tantissimi, e la paura della patologia non è stata ancora sconfitta, né con il dialogo né con la cinematografia. Il disturbo si teme perché non lo si capisce. Circa la pericolosità di un paziente, le apprensioni possono però essere legittime: noi tutti siamo stati addestrati ad affrontare la violenza anche attraverso corsi di autodifesa. Ciò che però innesca la reazione violenta, è la vergogna. Il paziente può vergognarsi, può sentirsi a disagio rispetto alla propria malattia psichiatrica. Il meccanismo “Furia-Vergogna” si basa proprio su questo: non ci si rende conto di aver umiliato la persona che si ha davanti, fosse solo con una sola parola sbagliata”. Bastelli: “Ad esempio, anche i bambini, quando sono violenti, spesso lo sono perché si sentono messi all’angolo”.
Di che cosa si occupa l’associazione “Grande Cocomero”? Bastelli: “Si tratta di un’associazione di volontari con continuo ricambio e alcuni elementi fissi. Al suo interno, si cerca di dare una nuova dimensione di sé al paziente, una prospettiva di vita. Ci sono laboratori di musica, teatro e giornalismo, tutti gestiti da professionisti dei rispettivi settori e precedentemente testati su i volontari. Le famiglie vengono costantemente coinvolte, ma questo non basta ad arginare la condizione di continuo sfratto dell’associazione. Questa storica struttura, nasce fra cinema e psichiatria. Si tratta infatti della ex sede dell’Istituto LUCE, e tutt’oggi la collaborazione tra psichiatri ed attori risulta vincente. In questo momento, il “Grande Cocomero” è anche uno spazio per la comunità, situato accanto al primo asilo Montessori, crea un ambiente tranquillo per i bambini, restituendo serenità al quartiere di San Lorenzo. L’obiettivo del centro è quello di dare un senso alle cose che si propongono, attraverso mostre mercato ed esposizioni dei lavori degli stessi ragazzi. La cosa importante è non restare mai soli”.
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di Anna Cassanelli e Ilaria Coizet
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L’incontro al Grande Cocomero: una testimonianza diretta
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Il secondo incontro che abbiamo avuto, sulla scia di voler capire come viene affrontata la vita quotidiana dai pazienti ora dentro, ora fuori dal reparto, è stato nel complesso di Via dei Marsi a San Lorenzo, Roma. Qui si è formata la realtà di aggregazione giovanile del Grande Cocomero, ispirandosi all’omonima pellicola del 1993, dove viene rappresentata fedelmente la vita all’interno del reparto di Neuropsichiatria Infantile, sempre a San Lorenzo. Partendo da una associazione il cui scopo era quello di proporre attività ricreative e extra-ordinarie ai bambini e agli adolescenti del reparto, abbiamo tracciato con una piccola intervista la vita di uno di questi, una ragazza che qualche anno fa è stata ricoverata e poi dimessa e ha iniziato a collaborare con questa realtà. Attraverso il racconto della sua esperienza, siamo riusciti ad entrare nello spirito dell’associazione, che mira tra le tante cose proposte anche a reinserire nel tessuto sociale quei casi clinici che continuano a fronteggiare la loro patologia o che, anche se superata, hanno bisogno di una spinta per poterlo fare. Una realtà che, nascendo no-profit e composta da persone di tutti i tipi, che siano infermieri, dottori, artisti, attori o semplici volontari, riesce nel suo piccolo a migliorare le giornate delle persone che la visitano. Naturalmente il Grande Cocomero non è solo in tutto questo, nel corso degli anni si è sviluppata una rete di associazioni di volontariato e/o Onlus (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale) nel territorio laziale, risultando Roma come centro nevralgico delle medesime. Per individuarle è possibile consultare il Registro Regionale delle Organizzazioni di Volontariato della Regione Lazio alla Sezione Servizi Sociali: La Voce Della Luna, in zona Giardinetti, o l’associazione Riconoscere, con sede a Viterbo, così come Matemù, in zona viale Manzoni, più dedicata alla crescita artistica dell’individuo, sono solo alcune delle collettività dedite alla reintegrazione sociale per via culturale della persona. La scelta della realtà del Grande Cocomero è stata dettata dal direttissimo collegamento dei uno dei principali volontari, Graziella Bastelli, che, intervistata in qualità di ex-caposala nell’articolo precedente, ci ha direzionato verso la nostra testimonianza, per avere una descrizione della vita all’interno della struttura di via dei Marsi. Nello specifico allora, possiamo evidenziare i passaggi positivi nell’essersi avvicinati ad un’associazione di questo stampo. Scomodo
Dicembre 2019
Nel caso intervistato, la collaborazione nei confronti del collettivo viene vista essa stessa un proseguimento del percorso terapeutico personale. La conoscenza di nuovi pazienti che non ti hanno accompagnato precedentemente nel reparto aiuta a sviluppare sempre di più il senso di solidarietà che è alla base del processo di reinserimento. Direttamente dal reparto i pazienti ogni mercoledì tradizionalmente scendono ad assistere alle nuove attività della settimana: dai laboratori di teatro alle passeggiate per il quartiere, dai laboratori di scrittura a quelli di pittura, per la quale è presente un’intera stanza dedicata solo a questo, dove le pareti removibili sono tempestate dagli sfoghi artistici di chi l’ha visitata. Anche i genitori, che molto spesso sono presenti e vengono alle esibizioni, come ad esempio gli spettacoli teatrali a piazza dell’Immacolata, si ritrovano vicendevolmente. Oltre alla conoscenza reciproca, incontrando volontari, artisti e esperti del settore, il genitore si sente più sicuro, a volte migliorando il modo di rapportarsi alla condizione del proprio bambino, a volte trovando anche un’aspettativa lavorativa, entrando nel mondo dei servizi per la persona e risultandone un valido consulente. Proseguendo con il racconto, ci è stato illustrato come anche la scelta del cambio di residenza in un’altra città non ha minimamente scalfito il rapporto con la realtà. Bensì, data anche la scarsa presenza di questo genere di collettività in tutta Italia, è un ulteriore motivo per contribuire a formarne di nuove, in modo da poter allargare la rete costruitasi inconsapevolmente in tutti questi anni. Un’inconsapevolezza che, come si vedrà più avanti, è dovuta da un certo rapporto delle istituzioni nei confronti di questa problematica, che adesso è considerabile, come precedentemente dimostrato, come una vera e propria emergenza. Soffermandosi sempre sul caso principe della dissertazione, il Grande Cocomero è ad esempio anche un luogo dove puntualmente si ritrovano i giovani del quartiere, i bambini per fare le loro feste di compleanno e gli artisti per per avere una struttura dove trarre ispirazione. Questi luoghi non hanno quindi l’obiettivo di rinchiudere in un altro spazio le persone che si avvicinano, vogliono invece essere il vaso comunicante di tutto il quartiere, di tutto l’ecosistema urbano che rimane fumoso e disorientante ai più. La vicissitudine che abbiamo incontrato è stata un exemplum nel suo anonimato, una testimonianza che ha dell’efficace per le scelte delle istituzioni, dallo stanziare i fondi all’organizzare e approvare al meglio questa rete, non di sportelli, ma di ponti levatoi. Scomodo
Dicembre 2019
di Daniele Gennaioli
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Prevenzione per “una concretissima utopia” Il disturbo psichiatrico in adolescenza è oggi un’emergenza. Sta diventando una vera e propria epidemia, le strutture di cura e riabilitazione scarseggiano e hanno liste di attesa lunghe mesi. I fondi per le strutture ed i servizi vengono tagliati continuamente. Le strutture pubbliche specialistiche in Italia sono poche e in pochi le conoscono. Il reparto di Neuropsichiatria infantile di Via dei Sabelli del Policlinico Umberto I di Roma è una struttura di avanguardia, unica e centrale per tutto il Centro-Sud Italia. L’unico posto dove è presente un reparto apposito per la malattia psichiatrica in adolescenza, ragazzi dagli 11 ai 18 anni, ricoverati in degenza e in diurno. C’è bisogno di più strutture come queste, che siano in grado sia di gestire i ragazzi nell’emergenza, sia di creare progetti di riabilitazione personalizzati nel lungo periodo. Attualmente arrivano continuamente nei pronto soccorso ragazzi in emergenza psichiatrica e psicologica che vengono o parcheggiati nei reparti per adulti, perché i posti nelle strutture specialistiche non ci sono, o rispediti al mittente dopo aver risolto momentaneamente la crisi. L’assistenza statale al paziente in una situazione non emergenziale è quasi assente. I ragazzi che necessitano una psicoterapia devono provvedere privatamente, questo genera necessariamente una divaricazione sociale tra coloro che possono permettersi un terapeuta privato e coloro che non possono farlo. Nelle scuola è raro trovare uno “sportello di ascolto” che funzioni e nei consultori la specificità per l’età evolutiva è inesistente.
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In sintesi: se hai bisogno di aiuto, devi essere in emergenza per avere accesso ad un primo sostegno. Farmaci, diagnosi e poi di nuovo a casa. Con una bella etichetta stampata addosso ed una famiglia traumatizzata. Dopo tutte queste analisi e questioni la domanda che sorge spontanea è se è possibile fare un lavoro a monte del problema, sbilanciandosi fino ad arrivare a chiamarlo spaventosamente prevenzione. Una scelta di priorità che investe anche la politica, nella definizione di spazi, investimenti e dibattito pubblico. La questione qui si divide su due piani: uno pratico e uno teorico. Nel primo, quello più concreto, c’è l’inevitabile necessità di formare una rete. Specialistica ed individualizzata per ognuno, che colleghi tutte le strutture e le istituzioni: ospedale e territorio, scuola ed equipe medica, tra la famiglia ed il neuropsichiatra infantile, il neuropsichiatra e lo psicoterapeuta, lo psicoterapeuta e la scuola, la scuola e l’adolescente e fondamentalmente tra l’adolescente e la famiglia. Senza omettere nessuno degli elementi qualificanti del processo quali la tempestività, l’appropriatezza e la specificità per età e per disturbo, la condivisione e la personalizzazione, la globalità e l’integrazione, mantenendo continuità, centralità della persona e della famiglia. Ovvero creare dei percorsi individualizzati per ciascun caso a trecentosessanta gradi, sempre e costantemente di integrazione tra struttura e famiglia e possibilmente anche con il paziente. Partendo dalla prima visita, che si spera sia in età infantile così da poter intervenire anticipatamente, passando per la diagnosi e poi per tutto il percorso riabilitativo. Tuttavia, il concetto più importante da premettere è che la diagnosi non è mai il punto di arrivo e spesso nemmeno quello di partenza, specialmente durante l’infanzia e l’adolescenza. Fare una diagnosi ad un bambino o ad un adolescente è come mettergli un timbro a vita e molto spesso è anche controproducente per la terapia, Scomodo
Dicembre 2019
poiché è difficile staccarsi dall’idea che il ragazzo sia solamente la malattia, sia per il paziente che per il medico. Ed è per questo stesso motivo che è indispensabile che anche la famiglia sia sostenuta ed accompagnata durante il percorso, formata strategicamente dagli operatori senza però sottrarsi al proprio ruolo. Insomma creare delle linee guida che coprano tutto l’ambiente sociale in cui il ragazzo vive, oppure, in cui ha bisogno di essere reinserito. Per questo è fondamentale che soprattutto le scuole siano coinvolte in questa rete, perché molto spesso sono il centro poliedrico della vita dell’adolescente e sbilanciandosi è necessario che collaborino anche le attività ricreative, sportive ed artistiche. Tutto questo però non è esattamente il concetto di prevenzione ma la descrizione di quella che dovrebbe essere l’assistenza post-esordio. Ma è possibile evitarlo ed in un certo senso anticiparlo? Prima di ipotizzare quale potrebbe essere una strategia efficace per fare prevenzione, è necessario interrogarsi su quanto la malattia psichiatrica sia una questione culturale. Trent’anni fa per una ragazza andare al consultorio era necessariamente essere una “poco di buono”, oggi invece le madri accompagno le proprie figlie dal ginecologo. Perché non dovrebbe essere così anche per lo psicologo? Per prevenire bisogna iniziare a sfatare tutta una serie di stereotipi, primo tra tutti che il disagio mentale sia da considerarsi una vergogna. Quindi: l’interpretazione, i contenuti e la cura sono una questione culturale mentre le cause sono di natura sociale e politica. Qui si ritorna al secondo piano della questione. La parte teorica, vergognosamente presente nella realtà, è che viviamo in una società in cui l’individuo non è tutelato. Se si vuole parlare di prevenzione non si può omettere questa evidenza: per prevenire un disagio mentale e personale è necessario creare una società in cui sentirci accettati ed integrati. Una collettività in cui comunicare non terrorizzi e che non costringa a scappare, a chiudersi in una propria realtà. Per prevenire il disagio è necessario cambiare la mentalità a favore di una società in cui non si provi vergogna, favorendo un dialogo concreto ed intergenerazionale tra le parti che la compongono. Esiste una possibilità di cambiare profondamente questo sistema facendo una sorta di Scomodo
Dicembre 2019
“prevenzione pratica”: fare informazione e formazione. Sensibilizzare le famiglie al tema, insegnargli a non respingere o sorvolare il problema ma ad affrontarlo. Lo stesso va fatto soprattutto nelle scuole che dovrebbero smettere di istruire ed iniziare ad educare facendo formazione a riguardo, come dovrebbe essere per l’educazione sessuale e affettiva. Fare informazione, in modo tale da poter realizzare, come avrebbe detto Marco Lombardo Radice, tutte queste “concretissime utopie”. di Sara De Benedictis
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di Davide Antoniotto 13
AT T UA L I TÀ
Brexit poll Boris Johnson ha ottenuto un risultato storico alle elezioni del 12 dicembre. Ma non è tutto merito suo.
I risultati delle elezioni del 12 dicembre hanno segnato una svolta nella politica inglese dopo circa tre anni e mezzo di impasse. Parte del merito va sicuramente a Boris Johnson che ha dimostrato di saper aspettare il momento giusto, ma ciò che ha aiutato è anche l’assenza di una costituzione scritta insieme a un sistema elettorale che in nome della governabilità sacrifica le proprie divisioni interne. L’unica evidenza per il momento è il ritratto che viene fuori dalle analisi del voto: un Paese frammentato sia socialmente che geograficamente, preda di pulsioni indipendentiste e conflitti generazionali. E che nel 2021 sarà fuori dall’Unione Europea.
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Brexit poll -------------------------------------------------------------------------------------------------------Boris Johnson ha ottenuto un risultato storico alle elezioni del 12 dicembre. Ma non è tutto merito suo.
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Scomodo
Dicembre 2019
Val più un paziente che un forte Sono le 23.25 del 12 dicembre, e sugli account social di Boris Johnson compare una foto: vi è ritratto il Primo Ministro inglese insieme a un gruppo di uomini in tuta da lavoro, e uno di loro regge un cartello con la scritta in rosso “We love Boris”. Questa immagine sarebbe emblematica dei cambiamenti in corso in Regno Unito negli ultimi tempi, e in particolare in occasione delle ultime elezioni. Ma per capirla bisogna fare un passo indietro di circa tre anni e mezzo, tornando al giugno del 2016. Il Regno Unito vota a sorpresa per lasciare l’Unione Europea, e David Cameron si dimette dall’incarico di Primo Ministro. Per la successione, gli occhi sono tutti su Boris Johnson, l’eclettico ex sindaco di Londra e fervente sostenitore della Brexit. Ma a tre ore dalla chiusura delle candidature, Johnson viene “pugnalato alle spalle” da Michael Gove uno dei suoi principali sostenitori della vigilia, il quale annuncia di voler partecipare alla corsa al ruolo di leader dei Conservatori e, quindi, di Primo Ministro. A questo punto “BoJo” decide di ritirare la sua candidatura, facendo la scelta che oggi, a più di tre anni di distanza, spiega più di tutte il suo recente successo elettorale. Innanzitutto, Boris ha dimostrato di saper aspettare. Il Regno Unito nel 2016 era un paese che mostrava i ripensamenti tipici di chi prende una decisione epocale, per di più con una maggioranza esigua e frastagliata al suo interno: le posizioni radicali di Boris Johnson, inevitabilmente, spaventavano l’elettorato e la classe dirigente britannici. Oggi, invece, il paese di Sua Maestà appare logorato da anni di dibattito politico occupato in maniera totalizzante dalla Brexit, Scomodo
Dicembre 2019
che altro non ha fatto che rassegnare i cittadini ad un’uscita dall’Unione Europea vista ormai come inevitabile e da mandare in porto nel tempo più breve possibile. Boris Johnson ha lavorato la nazione ai fianchi: nominato ministro degli Esteri nel nuovo governo di Theresa May, più per tenerlo impegnato e lontano da Londra che per effettivi meriti o competenze, si dimette nel luglio 2018 per preparare al meglio il suo “ritorno in campo” e per lasciare che il governo May vada a sbattere su una Brexit impossibile da attuare con la risicata maggioranza parlamentare allora disponibile. Boris Johnson ha reso evidente, una volta di più, che i tempi in politica sono tutto. Una lezione che ha imparato, a
“Non è solo a Jeremy Corbyn che può essere imputato l’esito dei tre anni e mezzo di totale schizofrenia che ha vissuto il Regno Unito.” sue spese stavolta, anche l’altro grande protagonista di queste ultime elezioni: Jeremy Corbyn ha fallito nel suo intento di portare il Regno Unito fuori dalla logica binaria di “Remain or Leave”, perdendo persino i voti operai nei quartieri che avevano votato per il Leave. Nei dibattiti preelettorali il leader del Labour Party era dato perdente con Johnson su tutti i temi che non fossero quello della sanità pubblica, risultando particolarmente inefficace sulla sicurezza (55%-34%) e, soprattutto, sulla Brexit (62%-29%). Ma al di là delle analisi gros-
solane degli esponenti politici nostrani, e dell’hashtag #CorbynOut che è impazzato sui social britannici nei minuti successivi alle pubblicazioni degli exit poll, non è solo a Jeremy Corbyn che può essere imputato l’esito dei tre anni e mezzo di totale schizofrenia che ha vissuto il Regno Unito. Un Regno per nulla Unito La Brexit è una realtà che divide il Paese, che lo spacca letteralmente in due: da un lato persistono i “remainers” che avrebbero voluto continuare a far parte della comunità europea, dall’altro emerge il “leave” degli attuali vincitori. Un risultato che sicuramente sconvolge e scardina l’Europa, ma che disgrega innanzitutto il Regno Unito nel suo interno e ad un livello più profondo: quello generazionale. Stando all’analisi del voto effettuata dall’Economist, il 60% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 34 anni ha dato piena fiducia ai Laburisti votando contro l’uscita dall’Europa e vincendo sul 20% ottenuto dai Conservatori. Tra i “remainers”, scrive The Christian Science Monitor, vi è una società variegata, in larga parte composta da studenti preoccupati per l’aumento della xenofobia e turbati dalle restrittive politiche di contenimento della migrazione che metterà in atto la Brexit nella loro terra. Viceversa, l’elettorato over 65 è stato in larga percentuale johnsoniano, assolutamente favorevole all’uscita. La considerazione necessaria che ne scaturisce è, in parte, angosciante: il futuro di questo Paese rischierà di non riflettere le visioni politiche o i bisogni socioeconomici delle classi giovani che lo abiteranno. 17
Con pochi giri di parole, gli individui che d’ora in avanti nasceranno, cresceranno e lavoreranno nel Regno Unito, saranno parte di una manovra - e di un nuovo status - in larga parte non scelta da loro. Il voto, tuttavia, non ha diviso la società britannica solamente dal punto di vista generazionale. A pesare fortemente in questo scontro tra “resta” ed “esci” è stato anche il dato geografico: è qui che il Regno “Unito” ha mostrato la sua più profonda ferita. Innanzitutto, quella della Scozia. Il Partito Nazionale Scozzese (SNP) guidato dalla premier Nicola Sturgeon aveva giocato da subito le sue battaglie sull’opposizione alla Brexit e sull’indipendenza: fermento, quest’ultimo, mai sopito e che con i risultati del 12 dicembre è tornato ad essere più forte di prima. Dopo il referendum perso nel 2014, oggi gli indipendentisti, forti dei 48 seggi su 59 ottenuti alle recenti elezioni, ben 13 in più rispetto alle precedenti, chiedono un nuovo referendum per l’indipendenza dal Regno, a 312 anni dal Trattato di Unione. Intanto, la Prima Ministra Sturgeon, come riportato dal Sole24Ore, non ha abbassato la guardia e ha tenuto a precisare che i suoi elettori filoeuropeisti «vogliono che la Scozia possa determinare il suo futuro, e non debba sopportare un Governo conservatore per il quale non ha votato e che non debba accettare di vivere fuori dall’Unione Europea». Sturgeon sa bene quanto sarà difficile strappare a Johnson il consenso, ma è convinta anche che egli non possa sottrarsi, per dovere di democrazia, ad assecondare la richiesta in pieno diritto di gran parte dei cittadini scozzesi.
Oltre la Scozia, poi, vi è la questione irlandese. Le elezioni hanno portato alla luce un risultato inaspettato per l’Irlanda del Nord, da molti definito quasi un “momento storico”: il DUP, Partito Unionista Democratico, storicamente conservatore e sostenitore dell’appartenenza al Regno Unito, ha perso due seggi passando da 10 a 8, probabilmente scontando l’alleanza antieuropeista stabilita con Boris Johnson.
Di sicuro, la Brexit ha contribuito non poco al riaccendersi del fervore nazionalistico irlandese, aprendo le porte ad una possibilità fino ad ora remota: quella della riunificazione delle due Irlande tramite - anche qui - un referendum. Johnson sembra dunque non aver fatto i conti con tutti i componenti del Regno Unito, bensì solamente con quella parte di Inghilterra (Londra esclusa) e di Galles che lo hanno appoggiato nella sua battaglia e su cui ora detiene il controllo. Londra è rimasta roccaforte dei Laburisti, mentre tutto intorno, nella restante Inghilterra delle campagne e delle piccole città, la vittoria conservatrice è stata netta. In particolar modo, il colpo più duro da accettare è rappresentato dal crollo dei luoghi storicamente labour, dalle aree settentrionali del paese ai quartieri operai. Tra i tanti, Workington e Blyth Valley. Workington, bastione Laburista sin dal 1918, è stato il primo “muro rosso” veramente crollato: simbolo indiscusso di una classe media fieramente europeista che evidentemente sta iniziando a sfaldarsi. Johnson è riuscito a premere sugli euroscettici conquistando il 61% con il suo candidato Tory Mark Jenkinson e scardinando la candidata Labour di spicco Sue Hayman. Infine, il tracollo di Blyth Valley. Ancora nel 2015 e nel 2017 i Laburisti vincevano con numerosi punti di scarto sui Conservatori in questo collegio, eppure le carte in tavola si sono rovesciate in soli due anni. Ian Levy, deputato conservatore battuto nelle elezioni del 2017, quest’anno è riuscito a rifarsi e a superare il divario di voti, ottenendo solamente 2 punti in più dei Labour.
“A pesare fortemente in questo scontro tra “resta” ed “esci” è stato anche il dato geografico: è qui che il Regno “Unito” ha mostrato la sua più profonda ferita.”
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Di contro invece, i Repubblicani, sostenitori della riunificazione dell’Irlanda, hanno ottenuto più seggi, mentre il Sinn Féin ha mantenuto i 7 vinti due anni fa. Tutto ciò non è casuale, dato che i cittadini si sono dichiarati esplicitamente sfavorevoli all’uscita dall’UE e hanno ribadito la loro antipatia per il leader dei Tories.
Scomodo
Dicembre 2019
La sconfitta è sottilissima, ma la proiezione era inimmaginabile. Il completo capovolgimento a cui abbiamo assistito, in queste terre e in queste ore, è il sintomo e al contempo il risultato di problematiche più profonde e sicuramente al di là di Europa o non-Europa. Anche qui, inoltre, l’analisi dei voti è stata chiara, e ha confermato che a fare da ago della bilancia sono stati i cittadini anziani e di condizione socioeconomica medio-bassa, sicuramente legati al concetto e al valore dell’Europa molto meno di quanto lo fosse tutta il resto dell’elettorato e della popolazione. Marco Mancassola scrive così per Internazionale: «Tutto questo conferma ciò che è stato sempre evidente: la Brexit è una trappola tossica, un’equazione a risultato unico. Nel profondo, corrisponde a una disperata domanda inconscia (”chi vogliamo essere come nazione?”) cui sembra impossibile dare una risposta univoca, oggi, in una democrazia matura e complessa».
Secondo diverse previsioni, l’intero processo di ratifica dell’accordo si concluderà intorno a metà gennaio. Accordo che a ottobre è rimasto bloccato in Parlamento (visto che i Tories non avevano la maggioranza dei seggi) e che è stato alla base della scelta di indire nuove elezioni.
tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna per la stipulazione di nuovi accordi commerciali. È il cosiddetto “transition period”, durante il quale i legami tra le due parti rimangono gli stessi anche se formalmente l’Inghilterra sarà già fuori dall’Unione. La scadenza per questa fase è il 31 dicembre 2020: data in cui, se non si sarà arrivati ad alcun accordo commerciale, le relazioni tra l’Inghilterra e i vari Paesi dell’Unione diventeranno quelle “standard” dettate dalla World Trade Organization. Nonostante nel Withdrawal Agreement fosse inizialmente menzionata la possibilità da entrambe le parti di richiedere un’estensione fino a uno o due anni, l’intera campagna elettorale dei Tories si è basata sulla promessa di un’uscita definitiva dalla UE entro la fine del 2020. Ed è stato proprio in virtù di questo che Nigel Farage, leader del Brexit Party, l’11 novembre scorso ha deciso di non dividere il fronte del “leave”, accettando di non presentare alcun candidato in 317 seggi che alle scorse elezioni erano stati vinti dai Tories. Oltrepassare la scadenza vorrebbe dire quindi deludere gran parte dell’elettorato inglese, insieme a qualche alleato politico. Anche per questo probabilmente BoJo ha deciso di rendere la sua promessa “vincolante” a livello legale non appena possibile: il 17 dicembre il governo ha confermato, dopo che la notizia era già stata diffusa dalle indiscrezioni dei media britannici, di aver inserito una nuova clausola nel Withdrawal Agreement con cui viene eliminata la possibilità di estendere il periodo delle trattative oltre il 2020.
“La temuta ipotesi del “No Deal” si potrebbe ancora concretizzare e un periodo di transizione così breve ne acuisce ancora di più il rischio.”
Brexit, finally Nelle 60 pagine che costituiscono il programma elettorale dei Conservatori, lo slogan “Get Brexit Done” viene ripetuto per 23 volte. Il risultato principale del voto del 12 dicembre infatti è che ─ come scrive l’Economist ─ “per la prima volta dal referendum del 2016, è chiaro che la Gran Bretagna lascerà l’Unione Europea”. La maggioranza schiacciante del partito di Boris Johnson all’interno del Parlamento ha infatti permesso al Primo Ministro inglese di ottenere dalla Camera dei Comuni la prima approvazione del Withdrawal Agreement dall’Unione Europea, senza troppi problemi, il 20 dicembre. Scomodo
Dicembre 2019
Serve a definire “le modalità di recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione Europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom)”, come si legge nel documento ufficiale dell’Unione Europea. Ma è adesso che inizia la grande sfida di BoJo. A partire dal 1° febbraio inizieranno le trattative
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Il tempo a disposizione per portare a termine le trattative è, quindi, di undici mesi. Per avere un termine di paragone, basti pensare che l’accordo CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) tra il Canada e l’Unione Europea ha richiesto sette anni di trattative. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in un discorso di congratulazioni a Boris Johnson all’indomani delle elezioni, ha definito le tempistiche della nuova fase “very challenging”. Ma il poco tempo disponibile sembra essere un fattore capace di mettere in difficoltà più i Tories che il blocco dodecastellato. Se da un lato infatti l’imposizione di una tabella di marcia ferrea ha fruttato bene in politica interna, dall’altro rischia di indebolire la posizione di Londra nei confronti di Bruxelles. Secondo un articolo del New York Times del 13 dicembre, infatti, il messaggio dall’Europa è che “le trattative possono essere veloci se l’Inghilterra accetta di mantenere le proprie tariffe e norme simili a quelle dell’Unione”. Nel caso BoJo voglia assicurarsi una maggiore libertà economica, i tempi si allungheranno inevitabilmente. Dopotutto, è comprensibile che Bruxelles non voglia lasciare facilmente campo libero a un potenziale grosso avversario, molto vicino e con condizioni economiche favorevoli. Ivan Rogers, ex-delegato dell’Inghilterra in Unione Europea, ha dichiarato all’Observer che le strette tempistiche promesse da Johnson potrebbero obbligare Londra ad accettare maggiori compromessi. Per poi proseguire spiegando che a Bruxelles, probabilmente, avranno l’impressione che gli inglesi siano “in qualche modo con l’acqua alla gola”.
Supposizioni che in parte trovano conferma nelle dichiarazioni di Ursula Von der Leyen del 13 dicembre, che secondo quanto scrive il Guardian ha espresso la volontà di dare la priorità ai punti più importanti, come lo scambio di merci e l’attività di pesca, lasciando il resto a dopo il 2020. “Un tale processo a tappe sarebbe però sgradito a Downing Street, e anche molto difficile da completare”, fa notare il quotidiano inglese. In pratica, si tratterebbe di concludere un accordo iniziale lasciando però fuori alcuni punti meno urgenti come il settore dei servizi finanziari e i diritti di atterraggio dei corrieri aerei inglesi.
Il che vorrebbe dire gravi conseguenze sull’economia inglese, o quantomeno incerte. In un’analisi dell’Independent di metà dicembre, il No Deal viene presentato ai lettori in questi termini: “immagina cosa comporterebbe per te una diminuzione del 10% del tuo stipendio netto e della qualità dei servizi pubblici”. Non è un caso se, non appena si è diffusa la già citata notizia della nuova clausola nel Withdrawal Agreement, il valore della sterlina è calato a picco rispetto ai valori appena post-elezioni, quando il pound aveva gioito per la mancata vittoria dei Laburisti e della loro politica economica da “hard-left”, come la definiscono i tabloid britannici. Nel frattempo, la prospettiva di un’uscita definitiva dall’Unione Europea - con o senza deal - ha fin da subito attirato le mire di un altro importante giocatore delle partite mondiali. Non appena diventata chiara la vittoria elettorale di Boris Johnson, Trump ha pubblicato un tweet in cui, oltre alle congratulazioni, ha fatto notare che “USA e UK saranno libere di stipulare un nuovo, massivo accordo commerciale dopo la Brexit. Questo accordo ha la possibilità di essere ben più vantaggioso di qualsiasi accordo con l’UE”. Proprio l’accordo tra i due Paesi anglofoni è stato al centro di numerose polemiche: soprattutto per quanto riguarda l’NHS, la sanità pubblica inglese. Quest’ultima è stata infatti l’altro grande argomento del dibattito pre-elezioni, nonché uno dei punti forti della campagna dei Laburisti, i quali hanno ripetutamente accusato i Tories di averla trascurata negli anni e di volerla “svendere” alle industrie farmaceutiche americane una volta chiuso il capitolo Brexit.
“La Brexit ha contribuito al riaccendersi del fervore nazionalistico irlandese, aprendo le porte ad una possibilità fino ad ora remota: quella della riunificazione delle due Irlande tramite un referendum.”
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Ma l’opzione più estrema rimane quella di un’uscita senza accordi commerciali. La temuta ipotesi del “No Deal”, infatti, si potrebbe ancora concretizzare e un periodo di transizione così breve ne acuisce ancora di più il rischio: secondo quanto scrive il New York Times, una trattativa commerciale “rapida” è considerata un ossimoro dagli esperti del settore e potrebbe benissimo non andare a buon fine, riportando la Gran Bretagna e Bruxelles nella prospettiva di un No Deal.
Scomodo
Dicembre 2019
Tra alti e bassi dei mercati, mosse politiche a sorpresa e ingerenze politiche estere, il nuovo anno per gli inglesi si prospetta non meno concitato dei precedenti. Nonostante Ursula Von der Leyen abbia definito la Brexit “non la fine di qualcosa, ma l’inizio di eccellenti future relazioni tra buoni vicini di casa”.
vera e propria crisi di sistema che sta alla base dei tormenti del Regno Unito in questo periodo storico.
in questa contrapposizione ha guadagnato (i Conservatori ovviamente, ma in misura minore anche SNP e LibDem); chi ha provato a rovesciarla o ad ignorarla ha perso: il Labour, ovviamente. Eppure, una democrazia sana non può basarsi su consuetudini di epoca normanna. E un sistema maturo non può, in nome della governabilità, fornire in Parlamento un’immagine totalmente inconciliabile con le proprie divisioni interne. L’idea che la Brexit non sia figlia di una sbornia collettiva, ma di una crisi sistematica presente già da molto tempo (oltre a pulsioni antieuropeiste mai del tutto celate), non può che farsi, lentamente, strada.
“Un sistema maturo non può, in nome della governabilità, fornire in Parlamento un’immagine totalmente inconciliabile con le proprie divisioni interne”
God won’t save the Queen anymore Lo scorso 5 settembre, il Regno Unito era nel bel mezzo della cosiddetta “prorogation crisis”: Boris Johnson aveva chiesto alla Regina (che per prassi era praticamente tenuta ad accettare) di sospendere il Parlamento per il mese di settembre, in modo tale da rendere più difficile un’opposizione alla hard Brexit che il primo ministro britannico voleva ottenere il 31 ottobre. Proprio il 5 settembre il Guardian pubblicava un editoriale, firmato da Jemma Neville, il quale argomentava che questa crisi parlamentare fosse la dimostrazione che il Regno Unito ha bisogno di una costituzione scritta. Un articolo perfettamente adeguato a ciò che, contemporaneamente, stava accadendo nella Camera dei Lords.
La camera alta aveva la possibilità di votare le mozioni in opposizione al No Deal entro le 17 di venerdì 6 settembre; ma per una tradizione risalente alla notte dei tempi, una giornata parlamentare non si interrompe finché in aula va avanti il dibattito. E così, la strategia dei Tories per fare ostruzionismo ha portato la seduta di mercoledì 4 settembre a durare circa due giorni. Scene grottesche come questa sono solo il lato ironico della Scomodo
Dicembre 2019
Basta un dato per riflettere: alle ultime elezioni i partiti favorevoli alla Brexit (Conservatori, Brexit Party, DUP) hanno raccolto in totale il 48% dei consensi circa, contro il 52% dei partiti contrari (Labour, LibDem, SNP, Verdi e nazionalisti irlandesi). Nel fronte del “Remain” hanno pesato, però, le spaccature interne ormai tipiche degli schieramenti progressisti europei. E soprattutto, in maniera netta ha influito il sistema elettorale britannico: un maggioritario secco (il cosiddetto “first-pastthe-post”) da sempre elogiato come modello di governabilità anche da chi lo vorrebbe riprodurre in Italia, “per sapere la sera delle elezioni chi ha vinto”. Ma che è anche capace di produrre storture grossolane, come assegnare ai Tories il 56% dei seggi avendo ottenuto il 43% delle preferenze. Come un cane che si morde la coda, un sistema di uno contro uno di questo tipo ha favorito una polarizzazione sul tema più divisivo e invasivo, ovviamente la Brexit. Chi ha saputo prendere posizione
di Francesca Asia Cinone, Simone Martuscelli e Francesco Paolo Savatteri 21
Il metronomo dei processi -------------------------------------------------------------------Come la riforma della prescrizione nasconde la crisi del sistema processuale italiano
La media europea dei casi finiti in prescrizione va dallo 0,1% al 2%. In Italia il dato si alza fino al 10-11%. Le cause di questa discrepanza sono diverse e si ricollegano a problemi strutturali dell’apparato giudiziario italiano. I sintomi di queste mancanze sono evidenti: carenza di organico nei tribunali, una scarsa informatizzazione e soprattutto un allungamento esponenziale delle durate dei processi. Il fatto che i riti alternativi al processo sono impiegati solo il 25% delle volte, a fronte di un loro utilizzo pari al 90% nei paesi anglosassoni, sicuramente non aiuta. Nel dicembre del 2018 il primo governo Conte ha approvato un emendamento alla legge “spazzacorrotti”, che prevedeva l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio. A un anno di distanza la questione è tornata al centro del dibattito pubblico in seguito al tentativo fallito da parte del centrodestra di bloccarne gli effetti, previsti a partire dal 1 gennaio 2020. Tuttavia il fatto che la riforma della prescrizione sia stata inserita all’interno di un provvedimento che dovrebbe limitare la corruzione, denota un errore metodologico e di interpretazione di tale istituto giudiziario. E finisce per non affrontare una reale necessità dell’Italia: una riforma strutturale dell’intero apparato della giustizia. Da garanzia sostanziale a rimedio processuale Definita dal linguaggio giuridico come “la perdita di un diritto come conseguenza del suo mancato esercizio entro un termine prefissato dalla legge”, la prescrizione, in campo penale, trova la sua ragione nella perdita di interesse da parte dello Stato e nella funzione rieducativa della pena, che verrebbe progressivamente meno con il trascorrere del tempo.
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Perché la strategia difensiva possa essere efficace, infatti, ha bisogno di ricostruire accuratamente il fatto e ad anni di distanza è difficile sia reperire le prove, che utilizzarle per la ricostruzione dell’accaduto; senza contare che una sanzione inflitta dopo un notevole lasso di tempo rispetto alla commissione di un reato, avrebbe la pretesa di operare la rieducazione di un soggetto già diverso da quando si è verificato l’evento. La prescrizione nasce, quindi, come strumento a garanzia del diritto di difesa e della funzione rieducativa della pena. Esistono casi però che la collettività ritiene di una gravità sociale tale da far prevalere sulle garanzie l’esigenza di punire; per i reati punibili con l’ergastolo, infatti, è prevista l’imprescrittibilità. La rapidità del processo non garantisce soltanto l’innocente ma anche il colpevole, per il quale è una necessità saldare il conto con la giustizia. In Italia alcuni processi sono tuttavia estremamente lunghi, sia per inefficienze interne al sistema giudiziario sia per la volontà delle parti, spesso orientata a trarre beneficio da una durata maggiore del processo. Da questa sua funzione originaria, la prescrizione si è trasformata così in metronomo dei processi: uno dei primi dati su cui cade l’occhio del giudice guardando il fascicolo è il termine di prescrizione, e su questo si baserà per scandire i tempi e fissare le udienze. Questa centralità dell’istituto è da rintracciarsi nello scarso ricorso agli strumenti dell’amnistia e dell’indulto, che fino al 1992 venivano utilizzati regolarmente per ridurre il carico giudiziario, ma che per evidente violazione del principio di uguaglianza - veniva infatti operata una inevitabile scelta su quali casi far estinguere - hanno smesso di essere impiegati, facendo sì che il loro ruolo venisse ricoperto interamente dalla prescrizione. Scomodo
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Non sorprende allora che agli occhi di larga parte dell’opinione pubblica la prescrizione appaia come un istituto che impedisce alla giustizia di fare il suo naturale corso, oltre che come una fonte di disuguaglianza. Questo perchè a venire prescritti sono molto spesso reati edilizi (nel 2018 sono stati circa 13.000) o ambientali - compiuti per lo più da multinazionali o ricchi imprenditori - soprattutto grazie alla strenua difesa assicurata loro da costosi avvocati. La prescrizione è passata dall’essere una patologia di sistema ad essere la “cura” di un diverso aspetto patologico: l’irragionevole durata del processo.
“La media europea dei casi finiti in prescrizione va dallo 0,1% al 2%. In Italia il dato si alza fino al 10-11%. ” Una storia sbagliata Il rischio di aver inserito la riforma della prescrizione all’interno di una legge volta a contrastare la corruzione, senza riformare il processo, è evidente: partire monchi può significare restare monchi, soprattutto in un paese la cui coesione strutturale delle forze governative si mette sistematicamente in discussione. È chiaro, del resto, che l’attuale instabilità della maggioranza, che sottende un elettorato particolarmente fluido, renda ormai poco realistica la possibilità di ottenere la riforma del processo tanto auspicata, la quale avrebbe senz’altro inserito il provvedimento all’interno di una cornice legislativa che ne avrebbe ottimizzato l’efficienza, riducendone i margini di disfunzionalità.
Le radici del problema sono profonde: numerose forze politiche nel corso degli ultimi decenni hanno ostacolato la possibilità di un dibattito sistematico e costruttivo sul tema. Non è un caso che la crisi del sistema processuale penale si sia molto aggravata dopo Tangentopoli, quando una parte della classe dirigente ha utilizzato il potere legislativo per ridurre al minimo il rischio penale rispetto a determinati reati, creando falle catastrofiche nel sistema processuale. Emblematica in merito la riflessione del PM Paolo Ielo, contenuta nel libro Diritti e castighi: storie di umanità cancellata in carcere: “Il Palazzo di giustizia di Milano rappresenta alla perfezione le diverse velocità del processo penale, che viaggia su un doppio binario a seconda dei reati: al piano terra si trattano gli arresti in flagranza, i “reati di strada”, droga, rapine, violazione della Bossi-Fini. Il processo è rapido e ogni giorno vengono comminati svariati anni di galera. La prescrizione, in questo piano, non esiste. Una delle principali ragioni della rapidità è la condizione di povertà degli imputati, che non possono permettersi un avvocato di fiducia e spesso ricorrono al gratuito patrocinio e alla difesa d’ufficio. Al terzo piano, la giustizia ha tempi diversi. È il piano dei reati di aggiotaggio, corruzione, falso in bilancio, per i quali non è previsto l’arresto in flagranza. Gli imputati non sono “i meno abbienti” del piano terra. Gli anni di galera che vengono comminati ogni giorno sono di gran lunga inferiori. Il processo è più garantito, molti reati vanno in prescrizione anche perché la legge ex Cirielli ne ha ulteriormente diminuito i tempi”. Ielo concludeva: “La differenza tra i piani del Tribunale rispecchia una diversa giustizia e si riflette nel carcere. È ovvio che con questo sistema, in galera ci va la carne da cannone”. 23
Tentativi falliti Questa situazione malsana del processo penale ha portato negli ultimi anni a più tentativi di riforma. Dapprima la legge ex Cirielli del 2005 è intervenuta riducendo i termini prescrizionali vincolandoli alla pena in concreto stabilita per ogni tipo di reato, modificando così la precedente disciplina che suddivideva i termini della prescrizione in fasce a seconda della gravità del reato. L’evidente rischio, di fatto realizzatosi, di questa riforma era quello di ricollegare il termine di prescrizione non alla più stabile parte generale del Codice penale, ma alle singole fattispecie, la cui disciplina è in balia della politica sanzionatoria delle maggioranze governative che si succedono. Con la naturale conseguenza di un generale inasprimento delle pene al fine di concedere tempi più lunghi alla magistratura. Il comunicato dell’Associazione Nazionale dei Magistrati del 2014 mostra l’interesse dei giuristi ad un confronto con la politica per trovare soluzioni a evidenti limiti del sistema. “L’ANM è pronta a fornire al Governo e al Parlamento il proprio contributo per una riforma radicale che, inserita in un più ampio progetto di revisione del processo e del sistema delle impugnazioni, permetta di coniugare il diritto delle parti con una ragionevole durata del processo e con l’interesse della collettività alla repressione dei reati”. Al tentativo del 2005 ha fatto seguito nel 2017 la legge Orlando, la quale ha previsto la sospensione della prescrizione per un anno e sei mesi, sia dopo la sentenza di primo che di secondo grado. 24
La riforma è stata accolta di buon grado dalla magistratura, che comunque l’ha ritenuta ancora insufficiente. Gli eventuali effetti positivi che ne sarebbero potuti scaturire, però, non possono essere valutati, data la modifica intervenuta circa un anno e mezzo dopo ad opera della “spazzacorrotti”.
“La prescrizione è passata dall’essere una patologia di sistema ad essere la “cura” di un diverso aspetto patologico: l’irragionevole durata del processo.” Come prevedibile, questo ha generato non soltanto un acceso dibattito tra i tecnici del diritto, ma anche una certa agitazione politica che fatica a dipanarsi. Giochi di forza Il 3 dicembre scorso è stata una giornata di messa alla prova della tenuta del governo, che ha mostrato tutta la propria instabilità e mancanza di visione programmatica.
Il rischio che la maggioranza in Parlamento venisse meno è arrivato dopo la richiesta di procedura di urgenza presentata da Forza Italia - partito che, d’altronde, ha spesso ostacolato le riforme per il corretto funzionamento del processo - che chiedeva il rinvio dell’entrata in vigore della riforma e il ripristino della normativa attuale. Per comprendere il dibattito nazionale ad altissimo grado di valenza politica scatenato dall’emendamento, è utile prima avere una percezione reale del problema: secondo il Ministero della Giustizia nel 2018 sono stati definiti per prescrizione 117.367 processi, di cui 57.707 nelle fasi iniziali del processo davanti al Gip, 27.747 davanti ai tribunali, 2.550 dinanzi al giudice di pace, 29.216 in corte d’appello e 626 in Cassazione. Dunque, poiché la riforma si limita ad interrompere il decorso della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, restano fuori da questa azione tutte le fasi del processo antecedenti, nelle quali si concentra più del 65% dei casi di prescrizione. Il dibattito politico sviluppatosi attorno al provvedimento ha sfumature fatte di luci e ombre, con oscillazioni considerevoli dell’asse del discorso da un clima di tensione e di spaccatura della maggioranza ad un uno, invece, di dialogo e di lealtà governativa. Infatti, in occasione del vertice del 3 dicembre a Palazzo Chigi, il PD assieme agli uomini di Italia Viva aveva già annunciato la possibilità di votare con Forza Italia a favore della controproposta di Costa, a meno che non si fossero aperti dei margini di dialogo. Controproposta che, se fosse passata, avrebbe ripristinato la normativa allo stato attuale, annullando di fatto la nuova riforma grillina sulla prescrizione. Scomodo
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D’altra parte, già prima di questa occasione, i toni erano stati duri, lasciando presagire una plausibile spaccatura della maggioranza di Governo proprio sul tema della giustizia. “Riforma Bonafede senza senso ed incostituzionale” aveva dichiarato il 2 dicembre Bordo (vice capogruppo PD) ai microfoni del Fatto Quotidiano. Il Ministro della Giustizia Bonafede, prima del voto del progetto di legge Costa, aveva mostrato incredulità, sfidando le dichiarazioni ostili degli alleati: “Se volete, fate pure, vi assumerete le vostre responsabilità. Sappiate che così mettete a rischio il governo”. Minaccia esorcizzata il 3 Dicembre in aula parlamentare dai 269 no vincenti sui 245 sì, che hanno bocciato così, in via definitiva, la proposta di Forza Italia, cestinata in extremis anche dai dem, perché definita “strumentale”. Dal canto suo Italia Viva, dichiaratamente contraria dal principio, si è mostrata più volte pronta a votare la legge Costa. Tuttavia, alla fine del colloquio con il premier Giuseppe Conte, mediatore di fatto, ha finito per mollare la presa sul tema, portando con sé al termine della votazione 28 determinanti assenti che, con i numeri alla mano, sarebbero stati in grado di ostacolare definitivamente l’iniziativa del governo. “Assenti per non dividere la maggioranza” ha dichiarato Italia Viva: una forza politica che è nata accompagnata da questi propositi di non ostacolo ma che, come dimostrano questi stessi numeri, riveste un ruolo decisivo sulla scacchiera politica. Il partito di Renzi, nonostante la decisione di non partecipare alla votazione,
in seguito ha palesato esplicitamente il proprio dissenso in piazza, protestando assieme alle camere penali davanti alla Corte di Cassazione. A votare a favore del progetto di legge Costa sono stati, oltre a Forza Italia, Fratelli d’Italia e la Lega, mentre a votare contro Pd, M5s e Leu.
Con la riforma della prescrizione abbiamo la possibilità di mettere la parola fine all’era Berlusconi che ha fatto solo del male al nostro Paese. Siamo certi che il PD farà la scelta giusta pensando all’interesse dei cittadini”. PD che, d’altra parte, alla fine ha dimostrato di essere leale, ma che ha sentenziato senza mezze misure che la riforma è inaccettabile senza garanzie sulla durata dei processi, come ha spiegato Zingaretti dopo il voto di bocciatura in Parlamento. Le proposte sulla riforma del PD, secondo quanto dichiarato dal dem Bordo, sarebbero numerose a tal punto da offrire ampio margine di dialogo e manovra. Il Ministro Bonafede dichiara all’entrata del Parlamento ed ai microfoni della stampa nazionale di aver già pronta una proposta da ottobre e di esser pronto al dialogo quando si parla di certezza dei processi, ma dichiarandosi al contempo non disposto ad introdurre una prescrizione mascherata in altre vesti, né ad accettarne una specifica per ogni grado di giudizio e processo: proposta peraltro già mossa dai dem, che avrebbero nel cassetto delle opzioni quella del passato Ministro della Giustizia, Orlando. Secondo Bordo, non c’è possibilità che si verifichi crisi di governo sulla prescrizione, c’è un ventaglio di proposte su cui discutere, benché se non ci saranno aperture del M5S sul tema diventerà difficile uscire da questo nodo. Tuttavia, è questo il compito della politica: trovare una sintesi coerente di posizioni provenienti da diversi orizzonti sociali e ideali.
“Nel dicembre del 2018 il primo governo Conte ha approvato un emendamento alla legge “spazzacorrotti”, che prevedeva l’interruzione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio.”
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Il voto si è dimostrato quindi, di fatto, una grande prova di lealtà e coesione per le forze di governo, con il M5s che grida alla “trappola fallita” e dichiara “con le minacce non si va da nessuna parte. È opportuno, invece, dimostrare chiaramente di essere leali e andare avanti in maniera compatta.
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Dibattiti interni La posizione ufficiale dell’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) vede con favore l’abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, richiesta avanzata già dal 2012, ma richiede interventi strutturali che possano garantire una maggiore efficienza del processo penale, nonché una sua ragionevole durata. A detta di molti magistrati, tra cui l’ex componente del CSM oggi GIP di Palermo Piergiorgio Morosini e il Presidente della Corte d’Appello di Lecce Roberto Tanisi, eliminare la prescrizione significherebbe in ogni caso risolvere un primo problema, in quanto ogni processo per cui matura è un fallimento per lo Stato, che non è in grado di pronunciarsi nel merito e eventualmente punire i responsabili. Se Piercamillo Davigo - membro del Consiglio Superiore della Magistratura - ritiene che “tale misura, risultando utile a scoraggiare strategie dilatorie, possa costituire un primo passo verso il recupero di efficienza del processo penale”, l’Unione Camere Penali Italiane (UCPI) è di tutt’altro avviso. L’avvocato Eriberto Rosso, segretario dell’UCPI, ha espresso alla redazione di Scomodo le sue preoccupazioni circa la lunghezza dei procedimenti: “Chiaramente se la prescrizione rimane come riferimento del solo primo grado di giudizio, questo è destinato ad allungarsi all’infinito, non solo per l’assenza della prescrizione dopo il primo grado, ma perché tutto il tempo della prescrizione sarà utile a concludere la sola prima fase di giudizio. Se oggi ad esempio alla prima sentenza si giunge in 3 anni, per tener conto delle possibili impugnazioni, ora si avrà a disposizione tutto il tempo della prescrizione per il solo primo grado di giudizio. 26
Quindi la scommessa che l’ordinamento fa è sull’imputato colpevole.” Senza considerare la presunzione di innocenza infatti, si inserisce una riforma che o condanna alla detenzione o condanna al processo a vita. Ad ogni modo gli effetti di questa riforma si potranno verificare solo a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti puniti fino a sei anni di reclusione. In questo lasso di tempo c’è lo spazio per elaborare proposte di riforme che si affianchino all’abolizione della prescrizione per bilanciarne gli effetti: su questo punto sembrano convergere tanto l’ANM quanto l’avvocatura che ritengono prioritario garantire un processo di ragionevole durata. Piani per il futuro Un primo passo, ritenuto essenziale da entrambe le parti, consiste in una massiccia depenalizzazione - molte contravvenzioni potrebbero essere trasformate in illeciti amministrativi, conservando un’idea di diritto penale minimo, ossia come ultima possibilità risolutiva - e un incremento dell’organico giudiziale. E’ parimenti ritenuto essenziale un massiccio investimento nei riti alternativi così da diminuire drasticamente i carichi giudiziali; si pensi che la Cassazione riceve oltre 55.000 ricorsi l’anno. Una riforma organica che va in questa direzione è stata intrapresa nel processo civile e gli effetti sono stati innegabilmente positivi: una riduzione da 4,5 milioni a 3 milioni di pendenze negli ultimi dieci anni. Lo sfoltimento del carico giudiziario non è comunque sufficiente, deve essere accompagnato da adeguate garanzie che agiscano attenuando le conseguenze di un processo eccessivamente lungo.
Delle valide ipotesi sono ad esempio forme di attenuazione della pena, come ad oggi avviene in Germania, dove più si allunga il processo più si riduce la pena, fino ad arrivare in alcuni casi limite ad una non inflizione della sanzione, a partire dalla constatazione che il fatto stesso di essere sotto processo è di per sé una sofferenza e, in un certo senso, una “forma di pena”. Il dibattito e le proposte da parte dei giuristi quindi ci sono, ciò che manca è la volontà politica di discuterle. Per Eriberto Rosso è mancato il confronto produttivo tra politica e tecnici del diritto in senso stretto, avvocati, magistrati e accademici: “Questa riforma non ha visto nessun dialogo, è stata inserita con un emendamento alla “spazzacorrotti”, ennesima ridefinizione dei reati contro la Pubblica Amministrazione, peraltro con una definizione giuridica zoppicante. Il dibattito c’è stato dopo, con una divisione in seno alla maggioranza, che ha diversi orizzonti, anche culturali, dicendo che era necessario accompagnare la norma con una riforma del processo incidente sulla durata, fino a quel punto da renderla inutile. L’obiezione è chiara: perché fare una riforma che poi renderai inutile? Detto ciò la riforma del processo non c’è, non ci sarà, e non è assolutamente in programma. Ci sono state delle proposte ai tavoli ministeriali, ma resta il fatto che dal primo gennaio ci sarà la nuova disciplina della prescrizione senza prima aver riformato il processo”.
di Andrea Calà, Lorenzo Cirino, Chiara Falcolini e Claudio Minutillo Turtur Scomodo
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STALLO ALL’AMERICANA
-------------------------------------------------------------------I Democratici statunitensi stanno andando all-in sull’impeachment. Intanto, però, il Partito dell’asinello è profondamente frammentato, e ciò si riflette sulle primarie.
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È lunga e tortuosa la strada delle primarie democratiche, che ogni quattro anni sfoltisce il campo dei molti concorrenti allo scranno dello Studio Ovale. Una maratona fatta di continui sorpassi, passi falsi e infarti lungo il percorso, in confronto alla quale lo scontro rosso-blu nel finale a due sembra piuttosto una corsa da velocisti. Fra sondaggi resi altalenanti da ogni nuovo dibattito o debole folata di vento, che sembra invece lasciare inviolato il ciuffo del Donald, e il campo dei suoi avversari frammentato come non mai nella storia delle primarie, previsioni sui possibili esiti di queste ultime risulterebbero quanto mai fallimentari. Senza considerare poi il rimescolamento di carte cui si assisterebbe se il fattore impeachment risultasse effettivamente decisivo, oltre alla difficoltà nel presagire le mosse di una mina vagante non inquadrabile come Donald J. Trump. E come sconfiggere un nemico talmente sconclusionato e imprevedibile, da apparire a tratti addirittura imbattibile? Facendo fede a un vecchio proverbio da carpentieri e alcolisti che recita così: “Il chiodo si estrae con il chiodo”. Se la sbornia si affronta con ciò che si è bevuto la sera prima, nella fattispecie elettorale un duello di questo genere va combattuto ad armi pari. Ma capire chi possa impugnarle, fra i quattro grandi volti dem rimasti ad aspirare alla Casa Bianca, non è cosa facile. Sul piano nazionale, il 5% dell’ultimo arrivato Bloomberg – in svantaggio di cinque punti rispetto allo stallo all’ex sindaco di South Bend, Pete Buttgieg, che l’Economist vede prossimo al declino – già spaventa gli altri candidati, fosse anche per i fondi inesauribili a cui il miliardario può attingere per la sua campagna. 27
Ma se per Trump poteva funzionare – in barba alle sue quattro bancarotte – il buon vecchio argomento populista secondo cui un abile imprenditore possa rinfoltire le tasche statali tanto quanto le proprie, difficilmente Bloomberg può aspirare a far leva su un elettorato che vede già nell’attuale Presidente il portabandiera di questa consolante menzogna. E anzi l’aura da sperperatore potrebbe rivelarsi fatale, viste le reazioni disgustate del senatore del Vermont Bernie Sanders alla notizia dei massicci investimenti propagandistici del beniamino di New York. Il risultato è uno stallo alla messicana (in questo caso, più genericamente “all’americana”). All’indomani della vittoria di Trump su Hillary Clinton, il panorama giornalistico statunitense si convinse che, nella retrospettiva di uno scontro diretto con una figura anti-establishment come Sanders, il tycoon non avrebbe riscosso lo stesso successo, perché incapace di incanalare i voti di quella grande fetta di indecisi e disillusi che invece gli assicurò la vittoria. Di contro, l’ancora fresca Segreteria di Stato della Clinton mal si prestava all’abitudine USA al ricambio amministrativo. Una situazione che si ripropone oggi pressoché immutata con l’ex Vicepresidente Joe Biden, il quale ha avuto la lungimiranza di rifiutare a priori l’endorsment di Obama sapendo di avere già l’appoggio dell’elettorato afroamericano, ma non ha saputo resistere a quello del già Segretario di Stato John Kerry. Sul versante opposto però, la concorrenza di Elizabeth Warren si aggiunge come elemento
di disturbo all’ascesa di Sanders che ha dalla sua uno zoccolo elettorale di fedelissimi che difficilmente confluirebbero in un altro candidato in caso di una sua sconfitta. Quest’ultimo negli anni ha saputo attestarsi, “rigando dritto” come scrive il New York Times, lungo una vincente linea mediana fra outsider e pro-establishment.
come cantava Johnny Cash, che tenere d’occhio da vicino quel suo povero cuore e continuare a ripetersi: “I walk the line”. Campo minato Il Guardian afferma in modo netto: “I candidati Democratici del 2020 sono Joe Biden, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Chiunque altro è irrilevante”. Una considerazione forte, a fronte di una delle corse alla nomination più partecipate di sempre nel campo dem, ma d’altronde i sondaggi sembrano confermare questa visione. I tre sono i candidati più “forti” e decisamente quelli con più esperienza, ma sono davvero così solidi? Joe Biden: l’ex vicepresidente è probabilmente l’ultimo della sua specie, un superteam di centristi che ha occupato la testa del Partito Democratico per quasi tutto il ventunesimo secolo dopo la sconfitta di Al Gore. E non è un caso che John Kerry (candidato ’04, poi Segretario di Stato ’13-’17), Hillary Clinton (candidata ’16 e prima Segretario di Stato ’09-’13) e Barack Obama facciano tutti il tifo per lui. In particolare il 44esimo Presidente è largamente considerato il più progressista del gruppo, se non altro per la mancanza di gaffe e miopie (come quelle che garantirono la sconfitta alla Clinton) e per posizioni forti su temi caldi (l’assenza delle quali rese inevitabile la rielezione di Bush contro Kerry). Biden, seppur relegato per otto anni alla posizione di VP (Vice President), un ruolo più simbolico che altro tranne che in casi arcinoti come quello di Dick Cheney, rimane dopo la Clinton l’unica “star” in grado di correre.
Il Guardian afferma in modo netto: “I candidati Democratici del 2020 sono Joe Biden, Elizabeth Warren e Bernie Sanders. Chiunque altro è irrilevante”.”
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Tutto ciò nonostante l’età e un infarto, seguito subito dopo da un rally da 26.000 persone (il più partecipato delle primarie sinora) in cui ha incassato importanti endorsements. E se la lezione di Dick Cheney gli rammenta che neanche quattro infarti possono fermare un politico, a Sanders non resta,
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O quasi: a 76 anni è il secondo più vecchio tra i candidati (Sanders ne ha 79) e ha dimostrato, durante i dibattiti e durante la campagna, di fare più affidamento sulla popolarità dell’amministrazione Obama che sulle proprie abilità comunicative. E nonostante la sua popolarità non abbia granché vacillato durante tutto il 2019, la conferma della sua posizione da front runner potrebbe risentire fortemente di questo difetto alla prova del voto. Al centro, d’altronde, si è liberato uno spazio: con il ritiro di Kamala Harris dalla corsa, Biden perde un buon avversario e guadagna un potenziale alleato nella creazione di una squadra credibile. Nonostante i due non siano in ottimi rapporti (la Harris l’ha attaccato pesantemente in più di un dibattito) la “top cop” di Los Angeles potrebbe avere un ruolo sin dalla campagna, o a candidatura stabilita, andando a rafforzare il già solido rapporto tra Biden e l’elettorato afroamericano, punto di forza anche della Clinton alle scorse elezioni.
Motivo, tra l’altro, che ha spinto rappresentanti congressuali di spicco come Ilhan Omar e, soprattutto, Alexandria Ocasio-Cortez ad appoggiare Sanders, che così rafforza la sua posizione tra le donne e nelle minoranze etniche, proprio le fasce di popolazione in cui aveva riscontrato meno appoggio.
di Bernie “Medicare For All”, la più rivoluzionaria proposta di riforma del sistema sanitario americano, ma promettendo di non tassare la classe media per finanziarlo. Punto ove Sanders non aveva fatto sconti, sostenendo che in ogni caso chiunque ci guadagnerebbe risparmiando denaro sulle spese sanitarie. Ognuno di questi candidati ha il suo punto di forza: Biden tra anziani e afroamericani, Warren tra liberali e donne, Sanders tra latini e giovani. Dove si colloca la grande sorpresa dei dibattiti e, unico candidato credibile rimasto in gara dall’inizio, il giovane ex sindaco dall’Indiana Pete Buttgieg? Sicuramente non tra i liberali, tra i giovani e nelle minoranze, che sembrano quasi odiarlo: e allora, da dove viene quel 10%? E Bloomberg, il nuovo candidato, ex sindaco di New York che secondo i sondaggi si piazzerebbe addirittura al 6%? Proprio sull’entrata, effettuata quasi sfondando la porta, del miliardario Mike Bloomberg si è sollevata la questione del fundraising, rafforzata dall’uscita della Harris a causa proprio della mancanza di fondi per condurre una campagna efficace. L’ex sindaco ha speso decine di milioni di dollari in meno di un mese per lanciare la candidatura: oltre 37 milioni nella prima settimana, sforando i 100 milioni già il 10 dicembre. In una campagna che si era aperta all’insegna del rifiuto dei Super PACs (i mega finanziamenti privati) e del contributo dal basso (Sanders, da gennaio a ottobre, ha raccolto più di 60 milioni con donazioni da 20$ in media) l’entrata in corsa di Bloomberg scombina le carte.
“Ognuno di questi candidati ha il suo punto di forza: Biden tra anziani e afroamericani, Warren tra liberali e donne, Sanders tra latini e giovani.”
A sinistra qualcuno potrà semplificare la contrapposizione tra gli altri due candidati forti con due semplici descrizioni: la liberale e il socialista. Ma per quel che concerne i candidati Elizabeth Warren e Bernie Sanders la questione non è così banale. Infatti ci sono gli antecedenti del 2016 a legarli: Sanders era pronto ad appoggiare una candidatura della Warren. Con il rifiuto della Warren e il suo appoggio alla politica della Clinton si creò una frattura. Un danno che, allora, costò caro nel delinearsi della nomination, con buona parte dell’elettorato del senatore del Vermont tutt’altro che contento dell’elezione della Clinton. Scomodo
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La Warren in questa prospettiva caotica delle primarie democratiche, con più di venti candidati, propone una politica relativamente anti-establishment, seppur più moderata rispetto a Sanders: ad esempio, tentando di tenersi stretto l’elettorato liberale, ha abbracciato il piano
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Entrato troppo tardi per avere impatto nei primi stati che andranno al voto, Bloomberg ha invaso la California e altri Stati di cartelloni pubblicitari. La potenza di fuoco di Bloomberg potrebbe trasformare l’elezione del 2020, a questo punto, in uno scontro tra miliardari, oppure decretare la fine della stagione dei mega-finanziamenti nella politica democratica ove fallisse. E se il primo caso è inquietante, il secondo certamente lascerebbe una domanda sospesa: chi, dei sopravvissuti al campo minato che sono le primarie democratiche, potrebbe competere con la forza economica su cui si basa la perenne campagna di Trump? “You’re fired!” Il dibattito pubblico americano da alcuni mesi a questa parte è dominato da due elementi che proseguono ormai parallelamente: da un lato la sfida delle primarie democratiche, che ci dirà chi sarà lo sfidante finale di Trump; dall’altra le rumorose vicende dello stesso Donald, che da settembre è al centro di una vicenda ben più seria delle polemiche che si sono sollevate in passato attorno alla sua figura. Alla fine dell’estate scorsa infatti sui banchi delle commissioni Intelligence di Camera e Senato è arrivato un report prodotto da un informatore anonimo, che rendeva nota una controversa conversazione telefonica avvenuta in primavera fra il presidente Trump e il suo omologo ucraino, Volodymyr Zelensky. Dalle trascrizioni di questa conversazione sembra emergere che il presidente americano abbia chiesto a Zelensky un “favore” ben al di fuori dalla prassi istituzionale: screditare Joe Biden, il suo potenziale rivale per le elezioni presidenziali. Dopo aver ricordato al suo omologo gli ingenti aiuti militari che gli 30
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USA da anni forniscono al governo di Kiev per sostenerlo nel Donbass — regione dell’Ucraina orientale tristemente protagonista dal 2014 di un conflitto tra forze ucraine e separatisti filo-russi — Trump chiede a Zelensky di indagare sul figlio di Joe, Hunter Biden, ponendo come “contropartita” proprio gli aiuti sopracitati. Hunter siede dal 2014 nel consiglio di amministrazione della Burisma Holdings, azienda produttrice di idrocarburi che opera proprio in Ucraina, già in passato finita sotto indagini che tuttavia non hanno mai prodotto esiti contro di lui. La notizia della conversazione comincia ad occupare sempre più spazio nei media del paese, e i Democratici si trovano davanti ad un bivio: assumersi il rischio di cominciare un impeachment contro Trump, oppure non ritenere sufficienti le prove a disposizione, lasciando però Trump “impunito” e con la possibilità di riprovare ad “abusare” dei suoi poteri. Si arriva così al 24 settembre 2019, quando la Presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi, annuncia l’apertura formale della procedura d’impeachment. Un processo a cui si è ricorso solamente tre volte negli oltre duecento anni di storia del paese. Ma non è così facile. La procedura per andare in porto ha bisogno di superare il voto di Camera e Senato. Nella prima, controllata dai Democratici, è necessaria la maggioranza semplice. Al Senato invece, in mano ai repubblicani, sono necessari i due terzi dei voti favorevoli. Le possibilità di un successo finale sembrano scarse. È molto difficile che i repubblicani decidano di votare contro il proprio cavallo vincente. E come se non bastasse gli stessi Democratici non sono sembrati compatti negli scorsi mesi. Scomodo
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L’elettorato infatti è fortemente spaccato. Come racconta un reportage del NYT, molti deputati Democratici, dopo aver preso posizione a favore dell’impeachment, hanno subito l’ira di una parte del proprio elettorato. È il caso della deputata Elissa Slotkin del Michigan, che durante l’annuncio della sua posizione nella propria circoscrizione, è stata raggiunta contemporaneamente da reazioni di odio e di sostegno. Fischi e applausi si sono alternati in un comizio molto teso, che già preannuncia la difficoltà di una sua futura rielezione. Per lei e molti altri deputati la tentazione di astenersi e non prendere posizione rimane molto forte. Ciò nonostante il 19 dicembre i Democratici hanno votato compatti superando la maggioranza alla Camera e mettendo formalmente in stato d’accusa il Presidente. La domando ora è se e come sarà possibile superare il voto al Senato. Secondo quanto dichiarato dallo storico Rick Perlstein nel programma Global Public Square della CNN, solo una forte mobilitazione dell’opinione pubblica potrà scuotere i repubblicani. A suo parere, invece che concentrarsi sulla gravità del singolo episodio, i Democratici dovrebbero spiegare agli americani quanto sia scorretto l’intero modo di operare dell’amministrazione Trump, come avvenne con Nixon, che fu abbandonato dai suoi stessi senatori. Soltanto “educando” il sentimento pubblico potranno aumentare le possibilità di successo. Come Lincoln: “in this country public sentiment is everything […] whoever moulds public sentiment goes deeper than he who enacts statutes, or pronounces judicial decisions”. 32
Verso l’Iowa e oltre L’Iowa è il primo Stato ad essere toccato dalle primarie dem. La sua natura “duplice” (non troppo repubblicano né democratico) gli garantisce un ruolo di spicco. Però proprio il fatto che un candidato sia entrato in corsa e che abbia deciso di puntare tanto sugli stati del cosiddetto “Super Tuesday” gli toglie importanza: Bloomberg, di fatto, si è chiamato fuori dalla corsa in questo Stato. E tuttavia, l’andamento delle primarie qui potrebbe dare chiare indicazioni su quali candidature sono ancora forti e quali invece andranno a diminuire d’importanza con il procedere della competizione per la nomination. Ma oltre alla questione tempistica, l’Iowa è di particolare importanza in vista delle primarie anche per il fatto che è uno dei cosiddetti “swing state”: Stato “altalena”, che passa da una maggioranza democratica a una repubblicana quasi di anno in anno.
“Il 19 dicembre i Democratici hanno votato compatti superando la maggioranza alla camera e mettendo formalmente in stato d’accusa il Presidente.” Questo vuol dire che il modo in cui i candidati Democratici - e in particolare il vincitore delle primarie - saranno percepiti dai cittadini sarà di fondamentale rilevanza per le elezioni presidenziali di fine 2020.
L’analisi che segue, anche attraverso diverse testimonianze raccolte dalla redazione, potrà essere utile ad avere un’idea di come uno degli Stati più rappresentativi dell’America stia rispondendo a questo particolare momento politico. Pur avendo una popolazione composta al 90% di bianchi, l’Iowa è caratterizzato da una forte presenza sia democratica - nonostante Hillary Clinton abbia ricevuto solo il il 41.7% dei voti nel 2016 - che repubblicana (Donald Trump vinse le elezioni in Iowa con il 51.1%) figurando nei grafici proprio come mezza blu, nelle aree metropolitane e nel distretto della capitale Des Moines, e mezza rossa, nella restante parte rurale e di aperta campagna, dove vivono per la maggior parte fattori e impiegati delle varie aziende agricole. Nelle elezioni presidenziali del 2016, le uniche sei contee in cui ha vinto la Clinton erano quelle che contenevano le maggiori città, con l’eccezione di Sioux City (che però è in una situazione particolare visto che si trova metà in una contea e metà in un’altra). Quindi se le città tendono più a sinistra, i “farmers” e i lavoratori agricoli vengono in media attirati più dalle promesse isolazioniste dei governi di destra. Per cui non c’è da rimanere sorpresi dallo spuntare qua e là di cappellini MAGA (Make America Great Again) e manifesti pro-Trump quando dai cartelloni pubblicitari sorride Elizabeth Warren. Il tutto mentre Bernie Sanders tiene un rally con un’affluenza da migliaia di persone in Iowa Falls lo scorso 7 dicembre. Scomodo
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“L’Iowa è uno Stato piuttosto rosso (repubblicano) ultimamente, ora che gli ideali di sinistra riguardo le fattorie si sono spostati sulla industria agricola” spiega alla redazione di Scomodo Huston Johnson, 18 anni, originario della Pennsylvania. Huston vive in Iowa ormai da sei anni, e sta proseguendo la sua carriera di studente politicizzato e attivo (era presidente dello Student Council della sua scuola superiore) come stagista presso il governatore dell’Iowa, a Des Moines, dove trascorrerà il prossimo semestre a imparare le cosiddette ‘ropes’, le basi del mestiere. “Penso che Trump vincerà in Iowa, ma dipende anche da chi vincerà la nomina democratica. Sinceramente penso che Pete Buttigieg gli possa dare pane per i suoi denti. Non ha opinioni assurde che farebbero desistere la maggior parte dell’elettorato dal supportarlo, ha un tono di voce pacato, e poi è gay!”. Huston stesso è fieramente gay, e ciò ci dimostra come le minoranze più discriminate e talvolta ghettizzate (cosa che sono nelle comunità rurali dello Stato che stiamo prendendo in analisi) si rapportino più facilmente ai programmi in cui si rispecchiano. Ma continua: “Trump è molto popolare in Iowa al momento. Ha promesso spesso di aiutare fattori e famiglie delle classi meno abbienti, e questo ovviamente fa molto leva su una popolazione fortemente agricola come la nostra. La maggior parte degli elettori si rispecchia in uno stile di vita agricolo, per questo non amano l’idea di persone che tassano pesantemente la loro produzione in nome di alleggerimenti fiscali per una classe con cui non interagiscono affatto.”
Gemma Cope, anni 19, al primo anno di college per infermieristica, non è troppo d’accordo: “È ancora presto per dire con facilità chi potrebbe essere un buon candidato contro di lui.
Dove osano le aquile I due grandi partiti non erano più abituati ad assistere a uno scontro così ampio tra più candidati così competitivi. Le primarie del 2008 erano state sì competitive, ma tra due candidati forti e con più caratteristiche personali che programmi in lotta tra loro. La frammentazione interna campo democratico, d’altronde, non aiuta né l’egemonia centrista né la definitiva ascesa di un campo progressista quasi socialista. E se il peggior scenario sembra l’elezione di Trump, l’incursione sempre più frequente di candidati esterni, come Steyer, Bloomberg o Yang, potrebbe essere un elemento di incertezza nella costruzione di un percorso politico. E che, con Biden come ultimo papabile candidato dell’era post-Clinton, potrebbe essere un trampolino di lancio per un lungo dominio repubblicano.
“Non c’è da rimanere sorpresi dallo spuntare qua e là di cappellini MAGA (Make America Great Again) e manifesti pro-Trump quando dai cartelloni pubblicitari sorride Elizabeth Warren.”
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Io personalmente voterei per Bernie Sanders, per molte ragioni”. I due candidati di sinistra, soprattutto in vista dell’Iowa (dove Buttigieg è a sorpresa in testa ai sondaggi) si sono spesso schierati contro l’ex sindaco di South Bend, soprattutto nel dibattito di dicembre, durante il quale l’hanno preso di mira per come sta finanziando la sua campagna: Sanders ha citato il fatto che sia secondo solo a Biden per miliardari che hanno donato per la sua campagna (39, contro i 44 di Biden: Warren e Sanders ne dichiarano 0) , mentre la Warren l’ha attaccato per un incontro a porte chiuse in una cantina di vini costosissimi in California. “Ci sono ancora molti candidati (ufficialmente quindici Democratici vs tre Repubblicani, ndr) rimasti in corsa, vedremo”, conclude Gemma. Si aspettano dunque le primarie democratiche con il fiato sospeso, curiosi di vedere chi dei quindici candidati rimarrà in gara. I repubblicani intanto, con il presidente uscente ancora molto forte, in Iowa sembrano poter dormire sonni tranquilli.
di Carlo Giuliano, Elena Parrocini, Leonardo João Trento, Marina Roio e Pietro Forti 33
I CONSIGLI DEL LIBRAIO Scomodo presenta la rubrica “I consigli del libraio”, uno spazio che mira a far conoscere ai nostri lettori le librerie indipendenti della nostra città, realtà che operano e credono nell’importanza della diffusione della cultura attraverso il cartaceo. Con queste realtà iniziamo a tessere la Rete del Cartaceo: l’obiettivo è creare una piattaforma fertile in un’ottica di continuo scambio e dialogo con i luoghi della cultura, tornando a creare un fermento che sia lo spunto per realizzare una proposta culturale varia e strutturata all’interno della nostra città.
KOOB Piazza Gentile da Fabriano,16 00196 Roma RM
“Alla Radice” di Miika Nousiainen Editore: Iperborea
TEATRO TLON Via Federico Nansen, 14/16 00154 Roma RM
“Come cambiare la tua mente” di Michael Pollan Editore: Adelphi
JASMINE Via dei Reti, 11, 00185 Roma RM
Paolo consiglia: Si ride molto in questo sorprendente, emozionante e spassoso Alla radice, del finlandese Miika Nousiainen pubblicato dalla meravigliosa Iperborea, e si distruggono studi Finlandia alla Thailandia, e di qui all’Australia. Si ride, ma mai in modo sciocco, ci si commuove, ma non è mai melenso. E’ una sorpresa continua con Pekka e Esko, uno il negativo dell’altro e quando finisci il libro te ne stai lì contento, come quando hai conosciuto qualcuno che ti piace davvero. E qui ne hai conosciuti due! E infine una sfida: entrate in una libreria dove c’è un angolo Iperborea, magari disordinato (come il nostro!), copritevi gli occhi e sceglietene uno a caso. Mi mangio il cappello se ne trovate uno che non vi piace, avercene di editori così... Michele e Lucia consigliano: Un po' storia delle sostanze psichedeliche, un po' autobiografia di un materialista che entra in contatto con dimensioni trascendenti o spirituali, Come cambiare la tua mente (o Come cambiare la tua idea, sfumatura contenuta nel titolo originale How To Change Your Mind) ci conduce dritti nel cuore chimico della psilocibina, dell'LSD, dell'ayahuasca e della DMT. Con scrittura limpida e approccio divulgativo, Pollan disegna la traiettoria che dalla controcultura porta alle più recenti sperimentazioni terapeutiche, fa sfilare davanti a noi i protagonisti imprescindibili e quelli meno noti della storia psichedelica, e ci accompagna nell'esplorazione di tutti quei dubbi e interrogativi sulla coscienza che hanno il potere fecondo di incrinare certezze e automatismi. Alessandro consiglia: Una serie di racconti, Un tuffo nella Roma che oggi non c’è più, quella che nei suoi quartieri, pieni di storia, di energia dava e prendeva vita e spazio alla e dalla gente comune. Uno sguardo, quello di Moravia, che ci presenta questa “gente comune” dal suo interno, con la sua vita piena di normali stranezze in cui tutti potremmo riconoscerci.
“Una cosa è una cosa ” di Alberto Moravia Editore: Bompiani 34
Scomodo
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LIBRERIA EQUILIBRI Piazzale delle Medaglie d’Oro, 36b 00136 Roma RM
“Impossibile” di Erri De Luca Editore: Feltrinelli
ODRADEK Via dei Banchi Vecchi, 57 00186 Roma RM
“La strage di stato” di Giovanni-Ligini-Pellegrini
IL MARE LIBRERIA INTERNAZIONALE Via del Vantaggio, 19 00186 Roma RM
“Altre menti” di Peter Godfrey-Smith Editore: Adelphi Ci sostengono anche:
CLAUDIANA Piazza Cavour, 32 00193 Roma RM
TRA LE RIGHE Viale Gorizia, 29 00198 Roma RM
PUNTO SCUOLA
Viale dei Promontori, 168 00121 Roma RM
SIMON TANNER Via Lidia, 58 00179 Roma RM
LA LIBROLERIA
Barbara e Marzia: Un libro da leggere per apprezzare la precisione nell’uso delle parole che fa profondamente riflettere. Impossibile è la definizione di un avvenimento fino al momento prima che succeda. Il libro è un lungo interrogatorio tra un anziano sospettato dell’omicidio di un suo vecchio amico, compagno di lotta e poi collaboratore di giustizia, e un giovane magistrato che non crede alle coincidenze. Nello svolgersi degli interrogatori, affiorano le ragioni e i sentimenti e l’atteggiamento del magistrato che cambia e quasi suo malgrado si trova sempre più vicino all’imputato. I dialoghi con il magistrato sono alternati con lettere d’amore che mettono in luce la dimensione intima della vicenda.
Davide consiglia: Un libro fondamentale senza il quale risulta difficile la comprensione storica degli anni '70. Era il 12 dicembre 1969 quando scoppiò la bomba a p.zza Fontana. Possiamo dire che le bombe nei mercati, nelle strade e nelle piazze di matrice jihadista, in questo nostro nuovo secolo, hanno la loro genealogia in quelle di Stato negli anni '70 in Italia. Non solo abbiamo inventato il fascismo negli anni '20. Ma anche il terrore nelle piazze. La Strage è di Stato e la manovalanza è fascista. Una tragedia raccontata con un linguaggio non ideologico da alcuni Compagni del movimento che decisero di realizzare la CONTROINCHIESTA. Un libro che le nuove generazioni dovrebbero leggere e discutere con passione e impegno civile. Marco consiglia: Chi come me pratica l’attività subacquea, nella sua vita ha sicuramente un aneddoto da raccontare sul polpo. Devo ammetterlo per un periodo ho pescato i polpi, erroneamente chiamati polipi. Poi ho imparato a conoscerli e ad amarli, alcune volte accarezzandoli, ho notato che arricciavano i tentacoli quasi a dimostrazione di piacere. Altre Menti descrive come da un ramo dell'albero della vita assai distante dal nostro sia nata una forma di intelligenza superiore, i cefalopodi - ossia calamari, seppie e soprattutto polpi. La nostra visione antropocentrica ci ha portati a considerare questo pianeta come nostro e al nostro servizio in quanto dono di Dio. Altre Menti smonta questa convinzione e lo fa mostrandoci come l'evoluzione non sia finalizzata all'uomo e come quella dell'uomo non sia l'unica coscienza sviluppata, ma una delle tante. Il fatto è - ci rivela Peter Godfrey-Smith, indiscussa autorità in materia e appassionato osservatore sul campo - che i cefalopodi sono un'isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati, un esperimento indipendente nell'evoluzione di grandi cervelli e comportamenti complessi. È probabile, insomma, che il contatto con i polpi sia quanto di più vicino all'incontro con un alieno intelligente ci possa mai capitare. Ma Godfrey-Smith tocca in questo libro un altro punto capitale: nel momento in cui siamo costretti ad attribuire un'attività mentale e una qualche forma di coscienza ad animali ben distanti da noi nell'albero della vita, dobbiamo anche ammettere di non avere certezze su che cosa sia la nostra coscienza di umani. "Protendo una mano e allungo un dito, ed ecco che lentamente un suo braccio si srotola e viene a toccarmi. Le ventose mi si attaccano alla pelle, la sua presa è di una forza sconcertante. Una volta attaccate le ventose, mi abbraccia il dito attirandomi delicatamente verso !'interno. Il braccio è zeppo di sensori, centinaia su ognuna delle ventose, che sono decine. Mentre attira a sé il mio dito, lo assaggia. Pieno com'è di neuroni, il braccio è un crogiolo di attività nervosa. Dietro di esso, per tutto il tempo, i grandi occhi rotondi continuano a fissarmi».
Via della villa di Lucina, 48 00145 Roma RM
LIBRI & BAR PALLOTTA Piazzale di Ponte Milvio, 21 00135 Roma RM
OTTIMOMASSIMO
Via Luciano Manara, 16/17 00153 Roma RM
LIBRERIA TRASTEVERE Via della Lungaretta, 90e 00185 Roma RM
MINERVA
Piazza Fiume, 57, 00198 Roma RM
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Il libraio vi augura una buona lettura 35
Parallasse
-------------------------------------------------------------------la rassegna stampa di Scomodo
Lo spostamento apparente di un oggetto causato da un cambiamento di posizione dell’osservatore è un effetto ottico noto come parallasse. Si tratta di un concetto potente, utile a descrivere il relativismo generato dalla molteplicità di interpretazioni dei fatti, soprattutto nell’industria dell’informazione. Spiegare questa molteplicità è l’obiettivo di questa rassegna stampa mensile.
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Narrare le problematiche di Roma: due modelli a confronto Il 12 Novembre 2019, Il Tascabile (rivista digitale direttamente legata a Treccani) ha pubblicato un articolo intitolato “Il declino di Roma”, il cui nucleo fondante è la narrazione delle macro-problematiche della Capitale. Nei giorni seguenti, l’articolo è stato oggetto di una critica feroce da parte del Blog Roma fa schifo, attivo su Facebook nella segnalazione quotidiana di elementi critici presenti sul suolo cittadino. Questo scontro permette in questa sede di sviluppare un confronto più ampio fra le due narrazioni, sia a livello contenutistico che a livello linguistico. Il Contenuto La differenza principale fra il contenuto dell’articolo e i post del blog risiede essenzialmente nelle tempistiche di pubblicazione: Roma fa schifo pubblica più volte al giorno, per cui è necessario che i post siano brevi, concisi e di impatto per cercare di generare il maggior numero di traffico possibile per la pagina. Nel caso del Tascabile siamo dinanzi ad un vero e proprio articolo giornalistico, per cui la sua realizzazione è avvenuta in seguito a degli studi precisi e soprattutto beneficia della tecnica del “long form” per articolare al meglio le dinamiche trattate. Questa caratteristica rende palese poi la più grande divergenza fra i due modelli, ossia quella a livello contenutistico vero e proprio. Roma fa schifo è celebre per i suoi post di denuncia delle situazioni di degrado urbano che caratterizzano la città, specializzandosi dunque nella
constatazione immediata e mai cercando di strutturare discorsi di più ampio respiro sulle macro-problematiche alla base delle suddette situazioni. Una formula molto redditizia se si tiene conto del numero di reactions online che la foto di un parcheggio in doppia fila o di un cassonetto stracolmo riescono a creare, ma che rischiano di distogliere l’attenzione dei cittadini rispetto alle effettive cause di questi problemi, risultando così uno strumento di distrazione di massa (aspetto che viene oltretutto pacatamente criticato dal Tascabile, che forse per questo “attacco” è stato preso di mira dalla pagina nei giorni successivi alla pubblicazione dell’articolo). Il Tascabile nel suo articolo analizza i rapporti di causa ed effetto che sussistono fra la mancanza di una pianificazione urbanistica sensata e non mediata dagli interessi dei privati e la presenza di fenomeni di degrado, che secondo l’autore dell’articolo altro non sono che la conseguenza della mancata strutturazione di un Piano Regolatore Urbano in base alle reali necessità della città. Secondo l’autore, le ingerenze dei palazzinari romani, che nel tempo hanno portato alla creazione di quartieri privi di servizi poiché costruiti in zone non pensate per lo sviluppo di complessi abitativi, hanno portato ad un peggioramento complessivo della situazione cittadina e soprattutto dei suoi servizi, portando come esempio il default totale del trasporto pubblico, costretto a servire delle zone al limite del contesto urbano romano e sottoponendo l’intero parco mezzi (composto da autobus Scomodo
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particolarmente vecchi, questo va detto) a degli “sforzi” eccessivi che inficiano sulla longevità del loro servizio. Una prospettiva del genere non solo non viene mai effettivamente analizzata da Roma fa schifo, ma viene addirittura sbeffeggiata all’interno dei suoi post: pur affermando di esser sempre contrari alla speculazione dei palazzinari romani, le uniche volte che il termine “speculazione” appare sui post è per delegittimare il pensiero di coloro che si oppongono a grandi investimenti in questa città per la paura che i grandi potentati costruttori romani possano specularci sopra. Oltre a questi specifici casi, difficilmente sulla pagina si possono segnalare denunce con nomi e cognomi allo strapotere dei grandi palazzinari della città, se non nei commenti quando questa assenza viene chiamata in causa. Il Tascabile invece si lancia in una sempre pacata invettiva contro le grandi famiglie romane e il loro grande potere d’influenza sulla popolazione tramite il possesso dei maggiori organi d’informazione romana, come nel caso dei Caltagirone ed il Messaggero. Arriviamo così all’ultima differenza contenutistica fra i due modelli, che risiede principalmente nel fatto che Roma fa schifo non si pone come il Tascabile come una fonte d’informazione e d’analisi imparziale, ma sia il “megafono social” degli ideali politici personali del fondatore del blog, Massimiliano Tonelli. Tonelli sfrutta il proprio blog per lanciarsi in delle vere e proprie invettive contro quelli che considera i nemici della sua città e per rilanciare quello che a suo avviso è il modello urbanistico da seguire per il rilancio di Roma, ossia quello di Milano. Scomodo
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Questo aspetto è forse quello che squalifica maggiormente il contenuto dei post del blog rispetto al lavoro del Tascabile, poiché quanto viene scritto su Roma fa schifo non ha altro scopo se non rilanciare le idee di un singolo sulla città di Roma senza alcuna reale volontà d’informare il lettore in modo neutro, cosa che invece l’articolo riesce a fare (come è giusto aspettarsi da una testata d’approfondimento).
Il migliore esempio per dimostrare come Tonelli veicoli il proprio pensiero individuale sul Blog spacciandolo come informazione imparziale è osservabile nella serie di pubblicazioni che hanno seguito la manifestazione delle Sardine a Piazza San Giovanni il 14 Dicembre 2019. Il Blog si è infatti lanciato in una fortissima invettiva contro il movimento di piazza, paragonandolo alla fase di genesi del Movimento 5 Stelle, cercando di mascherare l’antipatia personale di Tonelli nei confronti delle Sardine attraverso una denuncia del “degrado” lasciato al seguito del loro passaggio (quantificabile in 2 scritte su 2 cassonetti e un cartellone abbandonato in strada).
Roma fa schifo in questo caso, come in molti altri, getta la propria maschera di “blog d’informazione neutra” e si mostra per quello che effettivamente è. Differenze di forma La forma di un articolo si esprime attraverso una varietà di mezzi; uno dei più efficaci per convogliare emozioni e muovere lo spirito di un lettore è il linguaggio. Il modo con cui viene elaborato un pezzo non è separato dai contenuti che esso presenta; spesso si tratta soltanto di un altro strumento per aiutare l’interpretazione che si da degli eventi. Sicuramente è il caso quando si confrontano due testate online tanto diverse quali il Tascabile di Treccani e Roma fa schifo. La differenza di forma è già palese dal nome dei due blog, dove l’obiettivo di uno è scaturire una sensazione di disgusto, attraverso un nome che è più simile ad un’imprecazione e che in realtà già contiene in sé un manifesto delle idee della pagina web. L’uso del linguaggio come strumento politico è palese poi nella critica di Roma fa schifo all’articolo del Tascabile. Una delle critiche che Roma fa schifo rivolge al Tascabile è circa la presunta difesa dei movimenti per il diritto all’abitare, che da Roma fa schifo vengono considerati come “criminali”. La prima cosa che salta all’occhio è che l’articolo criticato non contiene vere e proprie difese nei confronti dei movimenti per il diritto all’abitare e nemmeno si presenta come apologetico di questi movimenti, semplicemente vengono contestualizzati. Di sicuro però gli attacchi che invece vengono rivolti ai movimenti da Roma fa schifo sono chiari, espliciti e 37
veementi: citando l’articolo de il Tascabile i movimenti per il diritto all’abitare vengono definiti da Roma fa schifo come “nazisti”, “pro mafia-capitale”, “criminali”, “un danno per la città” e responsabili “del declino di Roma”. Nell’ultimo articolo di critica invece sono “organizzazioni politiche violente e subdole” che vogliono “depistare” l’opinione pubblica, poiché, in realtà, si tratta di “approfittatori”. Il linguaggio usato è fortemente patemico e, attraverso simboli del genere, suscita coinvolgimento emotivo nei lettori, sia che essi siano di una o dell’altra parte. Nel caso del Tascabile la situazione è diametralmente opposta. Il linguaggio usato non è uno strumento patemico (per la maggior parte dell’articolo) ma soltanto un mezzo con cui dipingere l’immagine reale della città, attraverso un’accurata ricostruzione storica. Parte di questa narrativa è costituita da un’analisi dei movimenti per il diritto all’abitare che vengono posti come un tassello in un mosaico più ampio di eventi. La forma inoltre non differisce solo nel linguaggio ma in una serie di aspetti che vanno dal posizionamento delle immagini, alla scelta delle notizie in prima pagina, alla struttura degli articoli. Roma fa schifo utilizza in maniera indiscriminata le immagini del degrado di Roma e riporta in maniera minuziosa ogni aspetto delle manifestazioni quotidiane di un disagio che ha radici ben più profonde. L’effetto è quello di generare un disgusto viscerale di fronte a quella che appare una ricerca del degrado che si spinge nelle profondità della città. Si tratta di qualcosa di ben più ampio di una semplice indignazione da click, scaturita da un anonimo post su Facebook. 38
Il fenomeno Roma fa schifo è strutturato nel tempo e diventa un archivio dei momenti del degrado della città. Da questo punto di vista ricorda un’altra pagina facebook simile sotto alcuni punti di vista: Welcome to favelas, che allo stesso modo archivia i momenti di degrado della città, tuttavia non proponendo un pozzo di indignazione dove potersi sfogare del degrado (come fa Roma fa schifo) ma uno di becera derisione. Andare oltre queste due reazioni d’istinto al degrado significa superare il linguaggio dell’immediatezza e riflettere sulle questioni che veramente rendono Roma una città difficile e che successivamente si riversano nella quotidianità delle strade. Sicuramente Roma fa schifo è tutt’altra cosa rispetto a pagine come Welcome to favelas, tuttavia le immagini del degrado necessitano di essere presentate in un contesto e con un linguaggio che convogli messaggi “costruttivi”, dando contesto ed identificando le ragioni del disagio, altrimenti o è cronaca o è qualcosa di sbagliato. La differenza nel linguaggio è un riflesso dei contenuti. Da una parte abbiamo un linguaggio che suscita emozioni e che parla alla pancia della gente, pieno di espressioni forti e violente: questo si presta bene per i contenuti che altro non sono che immagini d’impatto e critica a zero contro “l’attitudine romana” in generale (ormai diventata una rappresentazione macchiettistica e incoerente della realtà). Dall’altra il linguaggio narrativo rispecchia dei contenuti sostanziali, ricchi di contesto storico e che hanno, al contrario di ciò che dice Roma fa schifo, “il fine di spiegare” come si è sviluppata la speculazione edilizia a Roma e non solo.
di Marco Collepiccolo e Luca Bagnariol
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di Martina Taddei e Susanna Rugghia Foto di Emma Terlizzese
SCOMODO RACCONTA I LUOGHI ABBANDONATI DI ROMA
ANGELO MAI Anno di costruzione: prime tracce fine '500 Anno di abbandono: 2002 Soldi investiti per il restauro : 13 milioni (dal 2006) Superficie totale dell’area: 13.000 m² 40
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DA QUANDO NEL 2002 È SCADUTA LA CONCESSIONE STATALE DI CENTO ANNI, E UN RUDERE ABBANDONATO CHE SI AFFACCIA SULL'INCROCIO TRA VIA DEGLI ZINGARI E VIA CLEMENTINA
O 42
Nasce, si occupa, si sgombera ggi nel cuore del rione Monti c’è un edificio cha sta cadendo a pezzi. Ha un ampio cortile interno, un piccolo teatro e anche una chiesa sconsacrata. È l’Angelo Mai, dal nome del cardinale gesuita che riportò alla luce numerose sezioni del De Republica di Cicerone, andate dimenticate nel corso del Medioevo, e che nel 1829 permise la trasformazione del complesso – di cui le prime tracce risalgono addirittura alla fine del ‘500 nella pianta curata dal Tempesta – in una scuola, che è diventato successivamente l’istituto scolastico dei fratelli La Salle, uno storico convitto in cui i ragazzi si dedicavano agli studi umanistici e alla teologia. Scomodo
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Adesso, da quando nel 2002 è scaduta la concessione statale di cento anni, è un rudere abbandonato che si affaccia sull’incrocio tra Via degli Zingari e via Clementina. Mentre si discuteva su come rendere utilizzabile questo spazio, senza tuttavia ottenere nulla di concreto, alcuni senzatetto si sono rifugiati al suo interno. Hanno cominciato a stabilirvisi intere famiglie in difficoltà, seguite non molto tempo dopo da un gruppo di ragazzi che avevano visto nell’edificio dimenticato un interessante spazio adatto a realizzare e promuovere cultura, spettacolo, arte. È nato così nel 2004 il Centro sociale Angelo Mai, che conta tra i suoi ospiti più illustri artisti del calibro di Vinicio Capossela. Il collettivo ha proseguito le proprie attività culturali finché nel 2006, dopo continue sollecitazioni da parte del Comune ad abbandonare l’edificio occupato, l’associazione Angelo Mai e le venticinque famiglie che abitavano all’interno sono state sgomberate. Nel 2009 gli artisti e i ragazzi del centro sociale sono stati trasferiti dal Comune a Viale delle Terme di Caracalla 55a, in seguito alla ristrutturazione del nuovo spazio realizzata senza l’ausilio di fondi pubblici. Scomodo
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Dopo un ulteriore sgombero nel 2012, i ragazzi dell’Angelo Mai sono ritornati a reclamare i propri diritti e hanno ripreso possesso della nuova sede, seppur dovendo cedere alcuni spazi. Nel 2014 un’inchiesta portata avanti dalla Digos e coordinata dalla Procura di Roma, a seguito delle numerose proteste portate avanti dai ragazzi del collettivo, denunciava tra loro circa quaranta indagati con l’accusa di estorsione, minaccia, violenza privata, lesioni, ingiurie, percosse e furto di luce ed elettricità. Dopo il sequestro di computer e materiali di lavoro e le perquisizioni in case degli attivisti, il collettivo viene, tuttavia, scagionato dalle accuse con una sentenza storica con cui il Tribunale di Roma ha stabilito che il teatro alle Terme di Caracalla venisse riconsegnato al collettivo dell’Angelo Mai che a giugno del 2014 è rientrato nel proprio spazio, vincendo nel 2017 il Premio Ubu Franco Quadri.
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Piani di riqualificazione e fallimenti del Comune Dal 2002 le proposte di riqualificazione avanzate sono state le più disparate: dai primi progetti volti a realizzare un centro commerciale, prospettiva che, dopo aver provocato una forte indignazione negli abitanti della zona, è stata messa da parte; fino alla possibilità promossa dall’ex sindaco Walter Veltroni di rendere lo stabile una scuola media sede del Visconti, il “Viscontino”. Ma la struttura non era evidentemente abbastanza capiente da ospitare i 500 ragazzi che allora studiavano nella sede del Visconti, e la previsione di una spesa di cinque milioni di euro lasciava pensare che la ristrutturazione fosse difficilmente realizzabile. Parallelamente ai fallimentari piani di riqualificazione comunali, nel 2002 nasce la Rete Sociale Monti (RSM), a seguito dell’emergere del caso dell’ex Istituto Angelo Mai, che l’amministrazione statale aveva da poco inserito nell’elenco dei beni pubblici da cartolarizzare. La RSM, coadiuvata dalla Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi Roma Tre, si è quindi battuta per scongiurare questa possibilità: alcuni docenti del Master Progettazione Interattiva 44
Sostenibile e Multimedialità (PISM) dell’Università hanno assunto come oggetto di esercitazione progettuale il tema del recupero e riuso dell’Angelo Mai, intrattenendo inizialmente rapporti proficui con il Municipio I, dimostratosi interessato alla gestazione di proposte che vedevano la compartecipazione degli abitanti del rione e delle istituzioni universitarie. Per le diverse parti del complesso erano state proposte nuove destinazioni d’uso e nuove forme di gestione degli spazi recuperati; ma con la decisione finale di destinare il plesso ad ospitare la scuola media “Viscontino” le proposte della RSM sono rimaste inascoltate. Ciononostante, tra il 2006 e il 2007 la Rete Sociale Monti ha organizzato con la Bauhaus Universitaet di Weimar un workshop-concorso per il recupero e il riuso del giardino dell’Angelo Mai. E’ solo alla fine del 2009 che si è presentata, dopo alcuni anni di stallo, la possibilità di riavviare il processo di progettazione partecipata per il recupero degli spazi pubblici (non scolastici) dell’edificio, con l’appoggio dell’allora delegato del sindaco al centro storico, Dino Gasperini, mai più andata in porto. Scomodo
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NEL 2006 L'ASSOCIAZIONE ANGELO MAI E LE VENTICINQUE FAMIGLIE CHE ABITAVANO ALL'INTERNO
SONO STATE SGOMBERATE. Come (non) si cambia Dopo i 9 milioni di euro per restauri spesi nel 2006 per restituire al plesso l’aspetto originario e destinarlo a uso didattico, nel 2017 si torna alla soluzione originaria: vengono stanziati 4 milioni di euro per completare il restauro del terzo lotto e convertire l’edificio in una scuola; il bando di gara d’appalto è pubblicato dal Campidoglio il 28 dicembre 2017 per l’ultima tranche di lavori, finanziati grazie allo sblocco dei fondi fermi dal 2013 per il Patto di Stabilità, al termine dei quali l’Angelo Mai dovrebbe infine diventare sede della scuola media Visconti. Nathalie Naim, consigliera del primo municipio della lista Radicali che si è da sempre battuta per la riqualificazione dell’edificio, in una mail del 29 ottobre 2019 in cui si rivolge agli abitanti del quartiere spiega che “la Commissione tecnica sta esaminando le offerte delle ditte per individuare la vincitrice”. A distanza di due anni dallo sblocco dei fondi e dalla pubblicazione del bando, l’inizio dei lavori, salvo inconvenienti, è previsto per marzo 2020, con una durata complessiva di due anni. Scomodo
Dicembre 2019
Il Municipio avrebbe inoltre fatto la richiesta alla Regione di uno stanziamento per effettuare anche i lavori di recupero della cappella della scuola e del giardino, non compresi nell’appalto. Vent’anni è il prezzo da pagare, se andrà tutto liscio, per arginare una parabola di desertificazione culturale senza soluzione di continuità.
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[in-ter-na-zio-nà-le] traduzione italiana della parola inglese “international” coniata dal filosofo e giurista Jeremy Bentham. Riguarda tra le altre cose: la relazione tra stati diversi; l’interesse comune di più nazioni; ciò che si estende a più paesi e che oltrepassa i confini del proprio stato.
L'ARTISTA: Peony Gent, è una illustratrice indipendente originaria delle Cambridgeshire Fens con base a Londra. Ha recentemente conseguitp una laurea magistrale al "Royal College of Art", ed è specializzata in poesia visiva e fumetti sperimentali. L’illustrazione è ispirata ai mercati di tutto il mondo e contiene elementi presi da una grande varietà di Paesi.
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L ' A RT I STA :
Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti under 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare una parola che descrive e contiene moltissimi significati.
Internazionale è anche un settimanale italiano. Pubblicando i migliori articoli dei giornali di tutto il mondo favorisce uno scambio culturale e sociale tra le persone. Insieme a Scomodo sostiene un modello alternativo di giornalismo e d’informazione. Con queste due pagine, raccogliendo opere realizzate appositamente da artisti underOttobre 30 provenienti da tutto il mondo, proviamo a raccontare Scomodo 2019 49 una parola che descrive e contiene moltissimi significati.
CULTURA
Finché avrò voce Intervista all’attivista afghana Malalai Joya
Dopo oltre 40 anni di guerra ininterrotta, l’Afghanistan stenta a risorgere da ceneri che continuano ad accumularsi. In questo contesto cresce l’attivista ed ex parlamentare afghana Malalai Joya che, dal 2003, è costretta a vivere sotto scorta perché ha osato dire la verità: un atteggiamento che, nel suo Paese, non viene visto di buon occhio. Specialmente se è una donna a parlare. E noi siamo andati a intervistarla. continua a pag. 54
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Maria Marzano
Maria Marzano è una giovane illustratrice, o almeno alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” è questo che risponde. Entra in questa famiglia di pazzi che è Scomodo, nel gennaio del 2018 e si integra a pieno nel progetto all’interno del quale oggi ricopre il ruolo di young art director. Questo dopo aver terminato gli studi presso lo IED, Istituto europeo del Design. Ora si dedica a 360° alla parte grafica del nostro mensile, dopo che il caro Francesco Rita (in arte Frita), il nostro mentore grafico, le svela i trucchi del mestiere e la accoglie sotto la sua ala. Definisce il suo ingresso nella realtà di Scomodo come cruciale e, sebbene per ora si senta un giovane baccello in coltura con tante scintille e idee, non può fare a meno di ringraziarla per il fatto che le permetta di essere un vero illustratore e la faccia entrare in contatto col suo istinto primordiale, perché, mi confessa, quando disegna si sente un uomo primitivo che fa pitture rupestri sulle pareti delle caverne.
Una rubrica per raccontare chi ha deciso di donare la sua arte e il suo lavoro come copertina del mese 52
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A 18 anni sei venuta a Roma dalla Puglia per seguire il tuo sogno di diventare Iillustratrice e grafica, poi ad un certo punto hai incontrato Scomodo; cos'è cambiato da allora? Raccontaci di questo incontro/scontro. Sicuramente sono cambiate le abitudini alimentari, cinese d’asporto e Red Bull sono il carburante per la corretta produzione grafica editoriale. Mi sono avvicinata al progetto da gatto molto timido e curioso, ma anche molto incosciente, sia perché non avevo ancora ben chiaro cosa fosse Scomodo, essendo un fuori sede mi mancava molto il backgroud romano, e anche perché partecipare a questo progetto ti fa in qualche modo prendere coscienza su ciò che succede intorno a te. Ricordo la prima riunione alla quale ho partecipato, aspiravo a scrivere sul giornale, poi ho capito che forse non ho tanto la stoffa dello scrittore e che è tutta questione di linguaggi e così ho iniziato a disegnare per Scomodo. Sono ormai due anni che sei nella famiglia di Scomodo: tirando le somme, com’è lavorare in una realtà come la nostra? È un opportunità che dovrebbero avere tutti i ragazzi, mi è mancata molto una comunità così da studente liceale al meridione (fortunatamente stiamo lanciando il progetto al nazionale, quindi sono molto contenta che altri ragazzi d’Italia avranno quest’opportunità). È un progetto che insegna, dove si impara e ci si confronta veramente con gli altri e con se stessi e sopratutto si cresce insieme. Dove tra l’altro si acquisiscono skills inusuali per dei ragazzi, ad esempio relazionarsi con le poste, con la tipografia, gestire contabilità e rendicontazione delle spese, ordinare la giusta quantità di salsiccie per un numero x di persone previste e pensare anche ai vegetariani ecc.. Scomodo
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Questo dal punto di vista globale del progetto. Entrando nello specifico dell’attività editoriale, è una redazione davvero figa, è aperta, ogni articolo nasce da dibattiti e confronti ma la cosa che apprezzo di più è che siamo senza censura. È indubbio che il ruolo della copertina sia decisivo per quanto riguarda la lettura di un prodotto cartaceo. Cosa significa realizzare la copertina per un mensile come Scomodo e quale pensi sia l’apporto che dà al numero, alla sua diffusione e alla sua godibilità? Infatti sfatiamo il mito che un libro non si giudica dalla copertina, altrimenti il ruolo degli artisti, dei grafici e degli illustratori sarebbe vano. Realizzare la copertina di Scomodo è una grande “felicità”, sicuramente la copertina è lo specchio di qualsiasi prodotto editoriale, la prima cosa che si guarda, quindi realizzarne una è molto soddisfacente però realizzare quella di Scomodo per me ha anche un altro significato. È pensata per altri ragazzi e in qualche modo la mia piccola battaglia da aspirante grafico è quella di educare gli occhi alle belle immagini. Sono molto contenta di esserci anch’io fra gli artisti strepitosi che hanno sostenuto il progetto regalandoci la loro arte e la loro visione.
come posacenere, all’angolo del tavolo sul quale era stato disegnato in maniera perfettamente allineata una serie di pois. È sempre una commistione tra lettura dei contenuti e una libera e spontanea influenza delle vicende del quotidiano, et voilà poi l’immaginario visivo è venuto un po' da sè. Al di là del ruolo generale di ogni copertina, qual è l’impatto che vorresti avesse la tua copertina sul lettore? Cito i Pooh (o i Gemelli Diversi, de gustibus): “Dammi solo un minuto” d’attenzione in più. Siamo abituati ormai a una lettura veloce, e questo non solo per le parole ma soprattutto per le immagini, con un colpo d’occhio è bello o brutto; eppure un disegno non deve essere bello ma deve comunicare, essere chiaro, leggibile e magari anche far riflettere. Anche se a proposito della riflessione entro sempre molto in conflitto con la figura dell’artista che è vista socialmente come qualcuno che deve rappresentare la verità, in realtà bisogna solo fornire uno spunto di riflessione, essere un pungolo per il lettore.
di Enrico Milito
So che non ami spiegare il tuo lavoro, ma quali sono state le scelte che hai fatto per raccogliere e rispecchiare i contenuti di questo numero? In fondo c’era qualcosa che mi era molto familiare, la dimensione fanciullina di discussione e la decadenza. Mi è successo di recente di trovare una persona a me tanto cara in una di queste strutture psichiatriche pubbliche, e sembrava tutto molto surreale: dalle pareti sgargianti e piene di crepe, alle bucce d’arancia usate 53
Finché avrò voce -------------------------------------------------------------------Intervista all’attivista afghana Malalai Joya
Guidaci sulla retta via. Così inizia il Corano, uno dei primi versi almeno. Strane reminiscenze di esami di Storia delle Religioni, in cui non sono mai riuscito a superare il 21, tra l’altro. Non sono sicuro di sapere cosa intendesse Maometto ma, in questo momento, per me la strada corretta è Via dei Lucani, al numero 37. Che, per chi la conosce, è la sede di STALKER/ Noworking. Per chi non la conosce è un esempio fantastico di laboratorio artistico e movimentistico multiculturale all’interno di San Lorenzo. Io ero tra questi, ma sono le 19 di sera e posso facilmente vergognarmi senza essere visto. C’è da dire che non è colpa mia, ho vissuto per tanti anni lontano da Roma. Comunque sia, questa sera, ho rimediato perché la redazione di Scomodo mi ha affidato il compito d’intervistare l’attivista afghana Malalai Joya e lei sarà qui fra poco. In più ero incuriosito da come potesse essere una ex parlamentare afghana di 41 anni che, nel 2003, a soli 25 anni ha avuto il coraggio di prendere la parola nella Loya Jirga (simile al nostro parlamento) e dire testualmente: “Voglio criticare i miei compatrioti in quest’assemblea. Come potete permettere a questi criminali di essere presenti alla Loya Jirga? A dei Signori della Guerra responsabili della situazione del nostro paese? Loro opprimono le donne e hanno distrutto il nostro Paese. Dovrebbero essere processati. Potranno anche essere perdonati dal popolo Afghano, ma sarà la storia a giudicarli.” Il che, più o meno, può essere etichettato come l’ultimo discorso di Malalai nella sua terra natia, l’ultimo in cui non ha convissuto con la paura di un attentato, almeno.
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Già, perché in un Paese dove poche persone hanno il coraggio di usare l’accezione “Signori della Guerra” ad alta voce e con il volto scoperto, lei li ha indicati, guardandoli negli occhi. Non è neanche riuscita a terminare il suo intervento, è stata scortata all’esterno per evitare che fosse picchiata a morte dagli altri parlamentari. Da quel giorno, per restare in Afghanistan e, più precisamente a Kabul, è costretta a nascondersi sotto un Burqa costantemente protetta da quattro guardie armate, stipendiate dalle donazioni dei suoi sostenitori. E, fra poco, quella stessa donna sarà in Via dei Lucani 37, per concedermi un’intervista. All’entrata dello spazio del Noworking trovo ad aspettarmi Lorenzo Romito, uno dei responsabili di STALKER nonché l’intermediario con il contatto di Malalai a Roma. Mi spiega che potrebbe esserci da aspettare perché l’attivista afghana sta concludendo un ciclo di otto ore di conferenza alla Sapienza e mi mette in guardia da una possibile stanchezza (più che giusta, aggiungerei). Ad ogni modo dovremmo riuscire a trovare il tempo per intervistarla prima di cena. Neanche a farlo apposta, pochi secondi dopo spuntano dalla porta due ragazzi Afghani e, poco dietro, Malalai Joya visibilmente spossata. Da qualche parte su internet, niente Storia delle Religioni questa volta, mi ricordo di aver letto che in Afghanistan portarsi la mano destra sul cuore mentre ci si inchina nel salutarsi è un gesto molto apprezzato. Tento di eseguirlo con stile ma il risultato finale è assimilabile all’Haka Maori. Per fortuna lei è sufficientemente gentile da far finta di non notarlo. Lorenzo mi introduce e lei accetta di prendere parte all’intervista. Ci accomodiamo su due sedie una di fronte all’altra. Scomodo
Dicembre 2019
«So che ha avuto una giornata pesante, non si faccia problemi ad interrompere l’intervista quando è stanca» «La ringrazio, ma sono in Italia per questo.» Tiro fuori il registratore dalla tasca. Mi trovo davanti ad una donna alta un metro e cinquanta che ha sfidato alcune tra le persone (e organizzazioni) più influenti del pianeta a viso aperto e che ha vissuto, dei suoi 51 anni, almeno 40 anni in guerra in una delle Regioni a più alto tasso di mortalità. Il tutto mentre alcune tra le persone più pericolose dell’Afghanistan, e quindi del pianeta, hanno tra le loro priorità il suo assassinio. E mi sorride come ad un amico. Io ho preso 21 a Storia delle Religioni. Deglutisco.
“Nel nostro inno nazionale è menzionata ogni singola etnia Afghana e questo è un male” «Quindi, iniziamo dalla situazione geopolitica in Afghanistan. Oltre al governo centrale c’è l’ISIS, talebani filorussi, filoamericani, filoiraniani, pachistani e cinesi per non parlare dei diversi signori della guerra. Qual è la strada per ritrovare l’unità nazionale?» «Sai, fino alla Guerra Fredda eravamo un popolo molto unito. Ma dopo quarant’anni di guerra ininterrotta gli estremisti sono riusciti ad ottenere il potere spinti anche da una precedente politica inglese alla Dividi et impera che ha portato ad una frammentazione sempre più significativa della coscienza dell’unità nazionale. I talebani hanno imparato dai leader della Guerra Civile Afghana (dal ’92 al ’96 n.d.r.) come manipolare le emozioni della nostra gente per convincerli a
combattere l’uno contro l’altro e, al giorno d’oggi, non permettono all’unità nazionale di riformarsi, perché non gli conviene.» «Ad esempio?» «Ad esempio, nel nostro inno nazionale è menzionata ogni singola etnia Afghana e questo è un male perché la parola afghani è pronunciata soltanto una volta. Anche i linguaggi sono frammentati. Esistono differenti modi per dire “università” o altre parole. Ma il problema principale è che la maggior parte delle persone è islamica e persone come Osama Bin Laden hanno sfruttato l’Islam per le loro politiche. Questi uomini hanno avuto un ruolo fondamentale nella distruzione della nostra unità nazionale.» «Ok, ma quale potrebbe essere la soluzione?» «L’unica soluzione risiede nel far insorgere il nostro popolo. E, per raggiungere questo obiettivo, le organizzazioni degli attivisti sono importantissime. Soprattutto ora che gli americani hanno cominciato a dialogare con i talebani per raggiungere una sorta di pace… lottare per la giustizia e per una vera pace è diventato molto più difficile. Le Nazioni possono liberarsi solo autonomamente e questo, la storia, lo ha già provato. In Afghanistan abbiamo già visto che quando una forza straniera interviene con la scusa della liberazione in realtà viene per ridurre il popolo in schiavitù. Basta guardare la Siria, la Libia, lo Yemen, l’Ucraina ed in molti altri paesi. Purtroppo non ci sono altre soluzioni, le persone devono essere più unite, organizzarsi e lottare insieme.» «Eppure, spesso, ti sei definita una sostenitrice della non-violenza. Come fai a coniugare questa filosofia alla rivoluzione?» 55
«L’India, all’epoca, aveva una situazione particolare. Ogni Paese affronta una situazione differente. Se in uno Stato delle bande armate preferiscono le armi al dialogo allora devi armarti a tua volta, per difenderti. In Afghanistan le persone sono stanche della guerra ma se non c’è altra soluzione devono combattere per difendere la propria libertà. Se la situazione non cambierà forse non oggi, non domani, ma prima o poi il popolo afghano si ergerà contro gli invasori ed i fondamentalisti. Da quando ho denunciato i Signori della Guerra, la pistola è diventata una parte importante della mia vita, per proteggermi. Alcune volte, purtroppo, la non violenza di Ghandi semplicemente non funziona.» «Nel 2014 Ashraf Ghani è stato eletto presidente. Lei lo ha definito una marionetta degli Stati Uniti, vede qualche differenza tra le sue politiche e quelle del predecessore Karzai?» «Sfortunatamente no. Quello che il mondo chiama elezione noi lo chiamiamo selezione. La situazione di povertà, la disoccupazione, l’insicurezza e la violazione dei diritti umani, se possibile, è aumentata rispetto a Karzai. Ma per compararli posso dire che, quand’è venuto quel fascista di Trump in Afghanistan è stato Ghani ad andarlo ad incontrare, in mezzo ai soldati americani. Non il contrario. Un presidente non si comporta così. Da che mondo è mondo è il presidente ospite a doversi recare al Palazzo Presidenziale, non il contrario. Quando Karzai era al potere non si è mai abbassato a tanto, se proprio vogliamo comparare questi due pupazzi statunitensi.
E agli americani non interessa fare il bene del mio popolo. Ogni anno fatturano centinaia di miliardi di dollari dalla vendita di oppio, attraverso l’Afghanistan hanno accesso alle riserve di gas delle repubbliche asiatiche centrali e tutto ciò è solo per il loro tornaconto personale.
«Sono obbligati perché al loro ritorno non hanno più niente. Gli Afghani arrivano nei paesi occidentali non per godersi la vita ma perché hanno paura della loro terra. Arrivano qui solo per restare in vita un po’ di più. Per pagarsi il biglietto questi giovani perdono tutto: vendono le loro case, se ce l’hanno, lasciano i loro lavori così quando poi tornano non hanno più niente. Hanno solo due scelte: unirsi ai terroristi o ai drogati. I dati governativi sostengono che più di 3 milioni e mezzo di Afghani siano oppiomani ma in realtà la situazione è molto più grave rispetto a come la dipinge il governo. In alcuni quartieri di Kabul, ad esempio, ogni mattina passano dei camion per raccogliere i cadaveri e portarli al cimitero, specialmente in inverno. Gli unici contenti della situazione afghana sono i becchini perché la droga, gli attacchi suicidi e la situazione politica del paese favoriscono gli affari.»
Questa pace ingiusta a cui vogliono arrivare è più pericolosa della guerra perché unisce i talebani, i Signori della guerra e gli estremisti. E ora abbiamo anche l’ISIS! Prima i talebani, dopo Al Qaeda, ora l’ISIS e magari domani un altro nome. Il nome cambia e magari anche il colore della bandiera, ma è sempre la stessa cosa.»
“Lo fanno per trasformare le persone in mendicanti, per non permettergli di essere autosufficienti.”
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«In altre interviste hai denunciato come gli Afghani che venivano rispediti in Afghanistan dopo essere arrivati in Occidente venivano arruolati dall’ISIS per 600 dollari al mese…»
«Ma le Organizzazioni Non Governative? Riescono ad arginare la situazione?» «Dopo l’11 settembre le ONG in Afghanistan sono spuntate come funghi. La maggior parte sono corrotte, quelle oneste si contano sulle dita di una mano. In Afghanistan le chiamiamo NGOlords (gioco di parole con warlords – signori della guerra n.d.r.). Queste associazioni vengono utilizzate come uno strumento per occupare i paesi colonizzati, e non succede solo da noi. Lo fanno per trasformare le persone in mendicanti, per non permettergli di essere autosufficienti.»
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«Puoi farci il nome di qualche ONG corrotta?» «La più corrotta è l’ONU. Immagina che l’ONU ha rimosso dalla propria lista nera il nome di un noto criminale di guerra, responsabile dell’uccisione di migliaia di persone. Come mai hanno rimosso questo terrorista con le mani insanguinate dalla loro lista, mi chiedo, se l’ONU non è d’accordo con le disgustose politiche americane?» Resto un istante in silenzio, non ho la risposta. Quel secondo di pausa è fondamentale. La rabbia negli occhi di Malalai si stempera un po’, lasciando il posto alla stanchezza. Lorenzo, del collettivo STALKER, ci chiede se va tutto bene. Noi annuiamo. La passione di Malalai ci ha impedito di notare che sono arrivate altre persone per la cena. Chiedo quanto tempo abbiamo. Ancora un po’. «Cambiando argomento. La condizione delle donne in Afghanistan è tristemente nota, ma è anche vero che non mancano gli esempi di giovani donne che lottano contro la corruzione e l’ingiustizia. Come lei, ovviamente, ma penso anche alla cantante Aryanna Sayeed o alla poetessa Nadia Anjuman, picchiata a morte dal marito. In Occidente queste donne sono famose ma, in Afghanistan, è possibile conoscerle? O la censura è troppo forte?» Malalai tentenna un attimo, non sembra aver capito. Dentro di me do la colpa alla stanchezza e provo a scandire meglio i nomi. Lei mi ferma con la mano. «No, ho capito… ma non capisco qual è la connessione tra le due» Questa volta sono io a tentennare. Ho commesso un errore nelle mie ricerche?
I suoi versi contenevano dei messaggi fortissimi ed è stata uccisa dal marito ma Aryanna Sayeed (la cantante n.d.r.) sta facendo un pessimo uso della sua fama. Proprio ieri sera ho letto un report che diceva che era stata invitata ad un meeting molto importante dell’ONU. In quell’occasione ha affermato “Non lasciate l’Afghanistan altrimenti scoppierà la guerra civile”. Per questa ragione non potrà mai rappresentare le donne afghane. È solo una bellissima bambola nelle mani dell’ONU.» Ed io istantaneamente capisco che la percezione di cosa sta accadendo dall’altra parte del mondo è estremamente falsata. Tendiamo a dare per scontato che la pace a qualunque costo sia sempre la soluzione migliore, perché così ci è stato insegnato. E, magari, diamo per scontato che chiunque deve pensarla come noi. Da Occidentali, riusciamo a colonizzare anche nel pensiero. Le chiedo scusa e riformulo la domanda.
«La cercherò. Malalai, lei, invece, ha scritto un libro nel 2009 intitolato Finchè avrò voce; un’autobiografia cruda e diretta in cui ripercorre attraverso i suoi passi gli ultimi 40 anni di guerra in Afghanistan. Quando lo ha scritto era mossa dalla rabbia o è stato, in un certo qual modo, un metodo per esorcizzare il suo passato?» «Quando sono diventata famosa ho voluto utilizzare quella fama per una giusta causa. Mi sono arrivate molte richieste per scrivere una biografia e, a quell’epoca, non ero d’accordo. Un giorno, però, mentre cercavo di portare il messaggio del mio popolo negli Stati Uniti ho avuto dei problemi con il visto statunitense e non sono potuta andare ad un incontro. In quell’occasione un mio amico canadese mi chiese: “Come farai a parlare con queste persone?”. È stato allora che ho accettato di scrivere il libro, per raggiungere quante più persone possibile, ma a tre condizioni: il libro doveva raccontare la Verità, dovevamo smascherare i fondamentalisti spiegando come hanno ingannato delle brave persone per i loro sporchi interessi e avremmo dovuto parlare dell’occupazione statunitense. Solo a queste condizioni ho acconsentito. Alla fine, è stato tradotto in 14 lingue ma le persone non ascoltano. Ad esempio, alle ultime elezioni a una mafiosa come Fawzia Koofi (la prima donna in Afghanistan a collaborare con l’UNICEF nonché Vice Presidente dell’Assemblea Nazionale dell’Afghanistan n.d.r.) è stato impedito di partecipare perché ormai è chiaro che sia una mafiosa ma nel passato, quando lo dicevo io che era mafiosa, nessuno mi ascoltava. Perfino la RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan n.d.r.) ha scritto un articolo infuocato contro di lei, ma nessuno ascoltava.
“Puoi farci il nome di qualche ONG corrotta? La più corrotta è l’ONU”
«Beh… sono entrambe famose in Europa per essersi opposte ai signori della guerra…» «Nadia Anjuman è stata una grande poetessa e l’abbiamo amata molto. Scomodo
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«Puoi parlarmi di Nadia Anjuman, allora?» «Lei è molto amata. Una famosa cantante ha trasformato i suoi versi in una canzone.» «Puoi accennarceli?» Malalai si rivolge ad uno dei due ragazzi afghani, Morteza, che conosce l’italiano e gli chiede se può tradurre. «Io non sono come un debole salice piangente, che si piega al vento. Io sono una donna Afghana, e questo è il mio lamento.» «Qual è il nome della cantante?» «Shahla Zaland»
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Ormai è talmente ovvio che anche questo governo mafioso illiberale è stato costretto a cacciarla eppure è parte integrante del cosiddetto “processo di pacificazione” con i talebani. Un’altra bambola che racconta bugie.» Lorenzo mi fa cenno che è pronto in tavola e che stanno tutti aspettando noi. Purtroppo non ho tempo per approfondire. «Malalai un’ultima domanda. I nostri lettori generalmente sono giovani ragazzi e ragazze che vogliono informarsi, cercando di avere una partecipazione attiva nel mondo, ha qualche consiglio letterario da dargli per capire meglio la situazione afghana?» «I is for Infidel di Kathy Gannon, Bleeding Afghanistan di Sonali Kolhatkar e, ovviamente, puoi menzionare il mio libro (sorride). Se riescono a trovare il tempo di leggere qualunque di questi libri potranno capire quant’è problematico il ruolo negativo degli stranieri nella nostra terra. È importante sottolineare come nessuno di loro, tranne me, sia effettivamente afghano, ma affrontano la storia in maniera onesta. In pochissimi punti non sono d’accordo ma per la stragrande maggioranza hanno raccontato la vera storia della mia nazione. Posso affermare con tranquillità la loro onestà.» Il tempo è finito, ci alziamo e ci stringiamo la mano per metterci a cena insieme agli altri. Guardando i commensali vengono in mente quelle barzellette degli anni ’90 che iniziavano con “ci sono un italiano, un tedesco e un francese”; persone da ogni parte del mondo che s’incontrano per cenare insieme. Oltre agli italiani ci sono dei nigeriani, degli afghani, uno svizzero, un filippino e un ragazzo libano-statunitense solo per citarne alcuni. Un piccolo mappamondo colorato su un tavolo quadrato senza capotavola. 58
Malalai Joya, quando viene interpellata o coinvolta nella discussione, sorride apertamente. Quando, invece, le si concedono dieci secondi di tregua, ed è sicura che nessuno la stia guardando, si chiude in se stessa, fissandosi le mani, come se non riuscisse più a trattenere la tristezza. Ma non dura tanto, giusto qualche secondo, poi il suo nome viene pronunciato di nuovo e lei torna a sorridere. Una volta tornato a casa accendo il computer, c’è una cosa che devo leggere prima di mettermi a dormire: voglio cercare la canzone con la poesia di Nadia Anjuman ma il compito si rivela più complicato del previsto. Ovviamente non mi sono fatto scrivere il nome della cantante o della canzone, sarebbe stato troppo intelligente. Alla fine, compare la scritta A poem by Nadia Anjuman. È stata tradotta dal persiano all’inglese, non mi aspettavo di trovarla in italiano, forse ormai non mi aspetto più niente da noi. Non le abbiamo dedicato neanche una pagina su Wikipedia. E allora l’ho tradotta io, perché non mi costava nulla.
di Alessio Zaccardini Scomodo
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Non ho voglia di parlare Cosa dovrei cantare? Io, che sono odiata dalla vita, Non fa alcuna differenza se canto o no. Perché dovrei parlare dolcemente, Quando non provo che amarezza? Oh, l’oppressore si diverte. Mi ha colpito in bocca. Non ho un compagno nella vita Per chi dovrei essere dolce? Non c’è differenza tra parlare, ridere, morire, esistere. Io e la mia forzata solitudine. Unita al dolore e alla tristezza. Sono nata per il nulla. La mia bocca dovrebbe essere sigillata. Oh, il mio cuore, sapete, è la sorgente E il tempo per celebrare. Cosa dovrei fare con un’ala intrappolata, Che non mi permette di volare? Sono stata in silenzio troppo a lungo, Ma non dimentico la melodia, Perché in ogni momento sussurro Le canzoni del mio cuore, Ricordando a me stessa Che un giorno spezzerò questa gabbia, Volando via da questa solitudine E cantare come una persona malinconica. Io non sono un debole salice piangente Che si piega al vento. Io sono una donna Afghana, E questo è il mio lamento.
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Ogni maledetta domenica ---------------------------------------------------------------------
Lo stato attuale dell’ultras in Italia oltre l’iconografia mediatica con Giancarlo Capelli, il Barone
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Giancarlo Capelli, detto il Barone, è un veterano dello stadio. Sostiene il Milan dagli anni ’60, dall’età di 15 anni, prima ancora che nascesse il primo gruppo ultras italiano della storia, La Fossa dei Leoni. Ripercorriamo con lui 50 anni di storia ultras, dalla nascita dei primi gruppi nel contesto generale delle rivolte giovanili del ’68, al rapporto con lo stato al mutamento dell’industria calcistica con il conseguente cambiamento di approccio allo stadio, inteso come luogo di aggregazione. Il movimento ultras pone le sue radici in Inghilterra con gli hooligans. L’etimologia è estremamente significativa: gli hooligans nascono inizialmente come un fenomeno di estremizzazione della sottocultura punk. La parola deriva da Hooley’s gang, un gruppo di teppisti di origine irlandese attivo nella Londra di fine Ottocento. Già nei primi anni del Novecento comportamenti e linguaggi derivati dalla strada cominciano a riproporsi negli stadi, con invasioni di campo ed aggressioni nei confronti di arbitri e giocatori. Il movimento hooligan propriamente detto vede la sua nascita negli anni ‘60, quando il preesistente disagio sociale della working class trova la sua valvola di sfogo sugli spalti degli stadi, con la formazione veri e propri gruppi organizzati, chiamati firm o crew. Il tifo, per l’hooligan, assume il significato di una lotta di supremazia nei confronti delle altre firms, indipendentemente dal verdetto del campo. Scomodo
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Che la propria squadra vinca o meno è del tutto ininfluente. Gli scontri tra le diverse firm cominciano ad assumere, per le modalità di esecuzione e di organizzazione, delle sfumature belliche, con lanci di oggetti e invasioni di settori rivali che diventano la liturgia della domenica sportiva. In Italia il movimento ultras arriva come prodotto di importazione, filtrato da un sistema di valori culturali e sociali contraddistinto da una forte componente campanilistica. Il primo gruppo ultras italiano è la Fossa dei Leoni, nato dalla tifoseria milanista nel 1968. “Inizio ad andare allo stadio a 14-15 anni, prima della nascita della Fossa, quindi parliamo del ‘64-’65. - ci racconta il Barone - La Fossa si è formata e subito posizionata nella rampa 18 sul secondo anello arancio di San Siro”. Lo storico gruppo nasce dallo stesso contesto di disordine sociale che aveva costituito il propellente principale delle rivolte giovanili italiane di quegli anni in Italia, concretizzandosi lungo direzioni diverse da quelle delle rivendicazioni politiche: “Anche se politicizzata (a sinistra, ndr) la nostra non era una curva divisa, non ci sono mai state situazioni in cui ci siamo divisi per motivazione politica: la prima cosa era il Milan. Erano altre tifoserie che facevano politica. Allo stadio c’è ogni tipo di persona, dall’impiegato allo studente o all’operaio”. La curva si configura come il luogo di superamento di qualsiasi disparità sociale, all’insegna dell’unità del gruppo e della tifoseria in generale. 61
L’impeto giovanile che ha portato a scendere in piazza migliaia di ragazzi, diviene ora fertilizzante per riempire i settori popolari degli stadi. Tra gli spalti i giovani riescono a trovare nuovi punti di riferimento, totalmente slegati da quelli tradizionali. Lo stadio come abitudine familiare, come usanza trasmessa dalle figure paterne viene proiettata nell’ottica di gruppo, diventando così un luogo dove i tessuti sono tenuti insieme non dalla parentela, ma da nuovi valori, alienati rispetto a quelli della società civile. In scia alla Fossa iniziano a formarsi gruppi ultras in tutta Italia: i Boys dell’Inter, gli Ultras Tito Cucchiaroni della Sampdoria, i Commandos del Torino sono i primi inseguitori, tutti nati nel ‘69. La prima evidenza che simanifesta approcciandosi al mondo ultras è la potenza aggregativa della curva.
“combattere” a fianco dei propri compagni non può che rafforzare il tessuto connettivo e tenere alto il livello di adrenalina nel corpo. Nonostante il gruppo si identifichi soltanto per l’attaccamento alla maglia e ai colori, l’ideologia, dati soprattutto i tempi, rimane comunque una presenza palpabile.
Se si voltano le spalle al campo, a favore della massa che la anima, si nota un corpo unico, animato da figure che condividono l’esperienza del tifo senza distinzioni di sorta. Unita ad una progressiva diminuzione di spazi di socialità ed aggregazione questa è la ragione di fondo per cui l’ecosistema ultras ha sempre attirato e fidelizzato un grande numero di persone, offrendo loro la possibilità di identificarsi e trovare loro un posto in un gruppo. La potenza del gruppo non è solamente quella della pluralità dei suoi componenti, ma quella della loro solidarietà, uniti dalla stessa fede calcistica e dalla stessa concezione dello sport, concedendosi una legittimazione su questo nuovo stile di vita. Uno stile di vita che contempla anche, e soprattutto, lo scontro con le tifoserie nemiche;
"Allo stadio c’è ogni tipo di persona, dall’impiegato allo studente o all’operaio"
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“Le Brigate rossonere sono nate in un centro sociale, io sono stato in Brigate per vent’anni, però per dirti sono più schierato a destra. Non dico che non c’erano le ideologie, Milano poi era una piazza molto forte”. La natura politica di una curva come quella del Milan si può raccontare con l’esempio della bandiera di Che Guevara, figura che esplicita il desiderio di rivoluzione che con l’ideologia condivide i simboli ma che si muove su di un altro binario.
“Siamo sempre riusciti a mettere da parte la politica, siamo riusciti a fare questo io e le persone che lo hanno voluto. Anche perché io posso sempre proporre qualcosa e se gli altri non lo accettano la cosa non si fa. La politica divide. Ma nel caso degli ultras non mi vengono in mente esempi di casi in cui sia successo, anche perché di base in curva vale la legge del più forte, non è che ci sta molto da dividere. La cosa si basa sui leader, le figure di riferimento. Può prevalere l’ideologia, ma poi si rimescolano e ne parlano”. Dalle parole del Barone emerge quanto siano importanti le personalità nelle curve, che riescono a gestire il gruppo e a tessere alleanze con altre tifoserie: i gemellaggi. Questi vedono la loro nascita per motivazioni storiche, come quello tra tifoserie dell’Inter e della Lazio, diventate curve amiche dopo il gemellaggio tra le rispettive rivali Milan e Roma, o proprio a causa di simpatie personali tra i principali esponenti della rispettive curve in quel momento storico, come nel caso di Genoa e Napoli. Senza dimenticare che nell’emisfero ultras vige la regola del beduino: un amico di un mio amico è un amico, il nemico di un amico è un nemico, l’amico di un nemico è un nemico e così via. Il gemellaggio spesso porta le curve ad unirsi sugli spalti reciprocamente. Quando una tifoseria di una metropoli incontra quella di provincia, si innesca un processo osmotico molto forte alla base del movimento ultras. La prima può contare su grandi numeri, la seconda su un grande attaccamento al proprio territorio e alla squadra che milita in divisioni minori. Scomodo
Dicembre 2019
Un processo che si è affievolito nel tempo, con l’evoluzione dell’industria calcistica nei grandi centri urbani. Tuttavia, in uno stadio come San Siro, era ancora possibile respirare un’aria “popolare”. Difatti, quando ancora le uniche divisioni per i posti allo stadio erano tra i cosiddetti “popolari”, “distinti” e “parterre”, nei primi, i settori più economici, non si aveva un proprio posto a sedere, c’erano le gradinate. Ciò comportava code lunghissime e sgomitate per accaparrarsi il posto migliore; e sono proprio i settori popolari, le curve, a diventare i gli attori protagonisti rubando la scena al campo e portandola sugli spalti. “Sotto al settore della Fossa poco tempo dopo la fondazione si sarebbero formati i Boys dell’Inter. Una cosa del genere oggi non potrebbe mai esistere. C’erano gli sfottò, ma non ci sono mai state troppe tensioni. Poi la curva dell’Inter si è spostata definitivamente nel secondo anello verde. Ho fondato il gruppo Nobiltà Rossonera nel ‘79 che si inquadra all’interno dei Commandos Tigre al primo anello verde, sotto i tifosi interisti durante il Derby e sotto le tifoserie ospiti durante le altre partite. Ti puoi immaginare cosa succedeva ogni volta, ti lanciavano oggetti e allora tu salivi e c’era lo scontro. Questo succedeva ogni domenica”. Lo scontro fa parte dell’essere ultras. Nello status di hooligan inglese raggiunge una dimensione fortemente bellica. Nelle pagine della biografia scritta da Cass Pennant, ex leader di una delle più rilevanti firm della storia del football inglese, l’Inter City Firm dei supporter del West Ham,
si evince come ad un certo punto l’unico obiettivo del suo gruppo fosse quello di invadere il settore avversario, conquistarlo. In Italia la dimensione bellica si ripropone nell’attaccamento al luogo di provenienza, riflettendosi nei rapporti tra le curve, che si scontrano per difendere il proprio territorio e conquistare quello altrui.
I disordini all’interno degli stadi provocano nell’arco del tempo gli eventi che, tra tutti, rendono visibili gli ultras agli occhi dell’opinione pubblica e dei media. Vincenzo Paparelli, tifoso della Lazio, venne colpito in volto da un razzo sparato dalla Curva Sud della Roma durante il derby del 10 ottobre 1979. Il mondo ultras reagì in modo assolutamente contrario, poiché la dinamica della morte di un tifoso non dovrebbe far parte del mondo dello stadio: lo scontro deve avvenire solo con le mani, senza uso di armi di ogni tipo. Arrivarono, inoltre, anche le prime misure restrittive da parte dello Stato, che proibì l’entrata, in entrambe le curve romane, di striscioni, bandiere, tamburi e materiale pirotecnico. Dal caso di Paparelli fino ai primi anni ‘00 la mano dello stato si è mossa sempre più intensamente verso una forte repressione del tifo ultras allo stadio. Parallelamente la domenica si sono consumate sempre più tragedie. Il vero punto di rottura, non solo a livello italiano, ma sul piano internazionale è stato la tragedia dell’Heysel, sede della finale di Coppa dei Campioni del 1985, dove persero la vita 39 tifosi juventini dopo il crollo di un settore dello stadio, a seguito della carica degli hooligans del Liverpool. L’evento ha un impatto drastico sul rapporto tra stato e ultras. In Inghilterra la Iron Lady, Margaret Thatcher, applicò misure pesantissime nei confronti degli Hooligans. Il tragico evento fu letto negativamente dagli stessi protagonisti. Riprendendo l’opera di Cass Pennant: “La visione in tv dei tragici eventi svoltisi nello stadio Heysel, in Belgio, nel 1985, mi colpì moltissimo personalmente, un effetto molto simile alle emozioni suscitate in tutto il mondo dai fatti dell’11 settembre (...).
“Lo scontro fa parte dell’essere ultras. Nello status di hooligan inglese raggiunge una dimensione fortemente bellica.”
Scomodo
Dicembre 2019
In questo gioco di parti uno dei ruoli principali è incarnato dallo striscione, la cosiddetta pezza. “Quando alla Fossa dei Leoni rubarono lo striscione nel 2005, il gruppo si è sciolto. In questi casi è un obbligo che il gruppo si sciolga. Chi ha in mano il drappo ha una grande responsabilità, piuttosto che perderlo ti fai ammazzare. Chi lo perde va via dalla curva, è la regola principale del mondo ultras” racconta il Barone.
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Non fui l’unico a provare ciò che provai. Fu come un gigantesco risveglio per tutti noi. Da ex hooligan calcistico ho spesso pensato che gli eventi dell’Heysel ci abbiano aiutato a uscire da quel mondo pericoloso, di cui avevamo fatto parte per così tanto tempo”. In Italia venne fondata, sempre nel 1985, sotto il Governo Craxi, una commissione parlamentare sulla violenza nel mondo del calcio, ma si dovette aspettare quattro anni prima dell’arrivo di una risposta che andasse a colpire nel profondo gli ultras: la legge 401/89 che istituì il Daspo (acronimo di divieto di accesso alle manifestazioni sportive) a seguito della morte del tifoso romanista Antonio De Falchi fuori da San Siro prima di un Milan-Roma. Il Daspo, o diffida, è la misura restrittiva che non permette a chi ne è colpito ad andare allo stadio, dovendo andare in questura a lasciare la firma. È lo strumento che più di tutti lo stato utilizza per inibire la dirompenza degli ultras, in un’ottica allineata a quella che è la narrativa mediatica puntata a colpire il singolo colpevole. Per quanto se ne possa comprendere l’utilità, è innegabile quanto l’abuso di questa legge abbia creato un clima di caccia alle streghe e riducendo lo spazio di movimento fuori e dentro lo stadio, ed accrescendo il clima di tensione. “Io ho preso il Daspo per ‘camminata furtiva’ o perché ero seduto in transenna. Ci sono delle situazioni in cui le forza dell’ordine hanno delle pressioni dall’alto per le quali deve prendersela con noi, tanto il tifoso ultras è sempre malvisto, in Italia particolarmente. 64
Questo perché noi spostiamo una massa di persone provenienti da tutte le classi sociali”. Per il tifoso diffidato la principale delle conseguenze del Daspo è la separazione dall’ambiente che lo ha accolto e protettonegliannipassati,lacurva. Messo a parte dalla vita sugli spalti, la frustrazione del diffidato cresce, così come quella dei suoi vecchi compagni di curva, e si diffonde la sensazione di aver subito troppo: “poi fai svelto a mettere insieme tanta roba, tanta gente cerca solo un pretesto per fare cose che non deve fare.
La rabbia sociale degli ultimi tempi è tanto tempo che non la vedevo in giro. Io sono un pacifista, ho fermato le guerre, ma questi continui ‘No’ e questa repressione stanno portando ad una reazione da parte di tanti degli addetti ai lavori”. La gestione del risentimento dei tifosi diviene in tal modo un dato significativo, specie per gli organismi statali chiamati a tenere sotto controllo l’ecosistema ultras. Adottare un numero eccessivo di misure di contenimento, come il non adottarne affatto, conduce all’esplosione della violenza.
Ci racconta ancora il Barone: “Capisci, se queste situazioni non le controlli diventano problematiche. Quando partiamo assieme sanno che siamo un pullman, due pullman, sei controllato. Ma se della gente parte alla spicciolata, si arriva ad un autogrill e si incontra un’altra tifoseria si giunge allo scontro. Dimmi, tu pensi vogliano sciogliere i gruppi ultras? Se li avessero voluti sciogliere lo avrebbero già fatto”. Nell’arco del tempo, una serie di elementi come la pressione statale, i rapporti incrinati con le società e una fruizione sempre più impegnativa del calcio allo stadio, a causa dello sviluppo della pay tv e del progressivo aumento del caro biglietti hanno portato il mondo del calcio a non rispecchiare più quegli antichi valori, che tutt’ora costellano l’iconografia ultras. Il “No al calcio moderno” vige come leitmotiv della retorica da stadio da molto tempo a questa parte. “Con le nuove norme se tu provi a prendere il sopravvento sugli altri è lo stato che ti stronca subito. I giovani cosa pensano di fare, di usare la violenza? Ma si rovinano, e i giovani non se ne rendono conto. E’ giusto non subire, ma se pensano di andare a fare la guerra allo stato perdi sempre, devi sempre far funzionare la testa: la violenza porta violenza”: così il Barone riassume l’attuale stato dell’arte del tifo organizzato in Italia. Fuori dal contesto nazionale, laddove la giurisdizione sul calcio è meno pressante e il controllo statale meno repressivo, l’ultras ha un raggio d’azione decisamente più ampio: “In Europa la tifoseria che fa più paura è quella greca. Sono una cosa pazzesca, più di serbi, croati, rumeni e slavi. Vogliono sentire lo scontro e ciò dipende dalla loro situazione sociale. Scomodo
Dicembre 2019
Negli ultimi tempi i paesi dell’Est sono totalmente focalizzati sullo scontro, anche per le classi sociali e le situazioni che vivono da loro, mentre un tempo la violenza non era a questi livelli. Una scena come quella dell’anno scorso in Europa League del Milan ad Atene (contro l’Olympiacos, ndr) non l’avevo mai vista. In Italia una cosa del genere non sarebbe mai ammissibile oggi. Scene simili succedevano in Italia negli anni ’60 e ’70”. Sulla falsariga di quanto affermato dal Barone un altro esempio che racconta gli aspetti del tifo in Europa orientale è quello della Bulgaria, dove la violenza è concepita su delle direttrici precise, senza aspirazioni a creare scompiglio sociale: essa è regolamentata, codificata. Lo scontro è pianificato dagli ultras in modo tale che le parti si ritrovino in situazione di parità: privi di armi, in un luogo stabilito, pari numero e senza possibilità che componenti esterni possano essere coinvolti. Le condizioni sociali in cui si formano le realtà ultras più estreme riconducono alla logica del campanilismo: la retorica ultras si connette con il campo perché la maglia che indossano i giocatori è carica di valori che vengono impartiti dai tifosi. Il campanilismo, come già detto, è il principale costituente del mondo ultras, e se da una parte (evidenziando le differenze tra una tifoseria e l’altra) esso costituisce il pretesto e l’anima dello scontro, dall’altra rappresenta il collante fondamentale tra i vari gruppi che animano l’ecosistema del tifo, legati tra loro attraverso l’adesione a sistemi valoriali differenti da quelli della società civile. Se la prima condizione in Italia è stata frenata dagli interventi dello stato,
della federazione calcistica italiana e delle società stesse, la secondaè ancora ben radicata nell’immaginario del tifo organizzato. I princìpi rivendicati dagli ultras - la lealtà verso il proprio ambiente e l’attaccamento al proprio stile di vita su tutti - nel frangente della progressiva riduzione degli spazi di manovra disponibili ai tifosi, si coniugano nell’unico orizzonte di senso ancora significativo per il mondo ultras italiano, quello di una battaglia trasversale per mantenere in vita una weltanschauung messa alle corde.
Il secondo, avvenuto pochi mesi dopo la morte dell’agente di polizia Filippo Raciti nei tafferugli nel derby siciliano Catania-Palermo, ha coinvolto e colpito nel profondo il movimento. Se dopo la morte di Raciti la giornata di Serie A venne rimandata dalle istituzioni, a seguito della morte di Sandri furono gli ultras a impedire che si giocasse. In quei giorni furono protagonisti gli episodi di guerriglia urbana tra gli ultras tutti uniti e le forze dell’ordine. Ritrovare quindi la totalità di questi ambienti ultras accomunati da un unico obiettivo rappresenterebbe una nota inedita nel panorama attuale: “l’unico movimento che può far paura è il movimento ultras unito”, conferma il Barone. L’ultima questione implicata nella mutazione del codice genetico del tifo organizzato italiano è quella dell’abbattimento del sistema di simbolismi calcistici la cui punta dell’iceberg è rappresentata da quei giocatori che più di tutti riescono a trasmettere i valori propri dei tifosi in campo. La dissoluzione forzata dei giocatori-simbolo coincide con una delle più sostanziali incrinature nei rapporti tra i club e le rispettive tifoserie. L’esempio più recente di questo processo è quello dell’ex capitano della Roma, Daniele De Rossi, che dopo il forzato divorzio dal club capitolino ha finito per trovare asilo non a caso tra le mura della Gerusalemme calcistica, Buenos Aires.
“Ritrovare la totalità di questi ambienti accomunati da un unico obiettivo sarebbe una nota inedita: "l'unico movimento che può far paura è il movimento ultras unito"”
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Gli unici momenti in cui tutte le curve si sono riunite sotto un’unica bandiera, “oltre i colori” come si può leggere negli striscioni, coincidono con quegli avvenimenti drammatici che hanno sconvolto l’intero movimento ultras. Sono esempi di questo la morte di Vincenzo Spagnolo, sostenitore del Genoa, accoltellato da un tifoso milanista durante degli scontri fuori da Marassi, lo stadio di Genova, piuttosto che quella di Gabriele Sandri, tifoso della Lazio, ucciso dal pubblico ufficiale Luigi Spaccarotella nel 2007, in un autogrill dove si stavano scontrando ultras laziali e juventini. Il primo caso ha portato ad una presa di posizione unita da parte di tutte le curve italiane (escluse quella del Milan e quella del Torino), esplicata in un comunicato che rivendica il significato di essere ultras: “Basta lame, basta infami”.
di Adriano Bordoni, Cosimo Maj e Lorenzo Scotto di Carlo, con la collaborazione di Flavio Lorenzoni 65
Terra chiama Fulci, risponde JustR3mo
-------------------------------------------------------------------Come il declino del cinema horror italiano ha permesso l’ascesa dell’orrore amatoriale sul web La necessità di intrattenersi accomuna qualsiasi livello di utenza, dall’audience televisiva fino a quel residuo di affluenza nei cinema multisala. Dalla commedia al dramma romantico, passando per il film d’animazione e a quelli dell’orrore, i generi nell’audiovisivo hanno sempre costituito l’impalcatura di questa necessità: l’individuo, cosciente o meno, trova davanti a sé una rosa di possibilità e di interessi che gli consentono di passare un bel pomeriggio, che sia davanti un maxischermo o davanti al tablet di famiglia. Tutto ciò collide quando questa varietà viene a mancare con il tempo, con le mode che si azzuffano e le tendenze che si sgretolano in favore delle nuove. Oltre ad un forte ricambio nei contenuti, questo millennio ci ha anche evidenziato la fragilità dei generi stessi: prendiamo come esempio l’horror, quella sezione iconica dove i mostri di Lovecraft e i vampiri transilvani trovano dimora. Negli ultimi trent’anni il nostro paese ha avuto una fortissima de-produzione nel campo dell’horror cinematografico, film per i quali il pubblico è vegeto e spinge per mantenere su quell’anelito che è l’industria della produzione e distribuzione italiana. I titoli degli horror made in Italy, eredi di una lunga tradizione dei Bava, Fulci, Argento, Margheriti e così via, sono diminuiti tendendo a scomparire del tutto, senza una possibilità di ricambio, con piccole produzioni di film indipendenti
che rimangono rinchiusi nelle cortine dei festival regionali (fra tutti, il FiPiLi Horror Festival di Livorno o, come esempio cinematografico, lo splendido Across The River di Lorenzo Bianchini).
L’antesignano di quest’ultima frangia, quella più vicina all’idea di “shock movie”, è sicuramente Matteo Montesi, classe 1978. Ex-operaio di fabbrica, il content creator di Loreto diventa una vera e propria leggenda sul web per i piccoli mockumentary che carica sulla piattaforma di Youtube: preso dalla propria personalità di fanatico religioso, Montesi investiga in stabilimenti abbandonati la presenza del diavolo, che nella sua continuity prende la forma di un topo. Questo motivo del “topettìgnao”, soprannome che dà al demonio, e dell’“Orguamentale Dominio”, termine per la quale vuole intendere la dimensione di ascesi all’unico Dio nostro Signore, diventano la colonna dei suoi mediometraggi che tuttora escono, con la stessa cadenza con la quale Youtube li censura e gli chiude più e più volte il canale. La ragione è piuttosto evidente, dal momento in cui per sfidare il demonio fa vedere in camera come se lo mangia, usando cadaveri di piccoli roditori trovati per accidente sul percorso. Se quindi sono queste le umili radici di quella che poi diventerà una vera e propria exploitation, la crescita dei rami ha toccato più sottogeneri, più allegorie dell’incubo moderno. Fra tutte, spicca la carriera di Gianmarco Zagato, radiologo in un centro di chirurgia plastica che ha correlato alla sua carriera di influencer la sua attività di vittima del paranormale. Nel lontano 2016 ha iniziato a pubblicare più serie a riguardo, superando il milione di iscritti al canale con l’ausilio della sua punta di diamante, il memorabile “Stalker Della Bibbia”, una liaison horrorifica con più di 23 video a riguardo. In sintesi, un losco figuro insegue il nostro eroe nella sua vita quotidiana, nelle sue uscite con gli amici e duranti gli stessi vlog che lui gira per tutto il Veneto,
“Oltre ad un forte ricambio nei contenuti, questo millennio ci ha anche evidenziato la fragilità dei generi stessi: prendiamo come esempio l’horror, quella sezione iconica dove i mostri di Lovecraft e i vampiri transilvani trovano dimora.”
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Eppure, il pubblico il ricambio lo trova, anche quando è nolente dalla nostalgia: fra tutte, la piattaforma YouTube è stata stranamente una delle più grandi contributrici in questo processo di riassestamento dell’intrattenimento orrorifico, creando nella cultura pop-urbana figure su figure che hanno raggiunto una certa popolarità o status di culto per via della propria trascendenza. Mostri amatoriali, assassini dietro la porta della cameretta, creepypasta da salto sulla sedia e decine su decine di personaggi creati a tavolino che sfiorano l’assurdo, compiendo azioni deplorevoli e disturbanti.
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vestito con la maschera da dottore della peste e con l’unico scopo di rinchiuderlo, di “venirlo a prendere” in gergo filmico. Il tutto è magistralmente condito da enigmi, messaggi in codice e minacce per via dei versetti della Bibbia di cui lo stalker fa uso, un’idea ironica se si pensa che pittorescamente il popolo veneto ha un rapporto particolare con l’uso delle bestemmie. Ma non finisce qui: più manca l’offerta nei cinema, più salgono i numeri sul web. Ipalboy Tv, JustR3mo, Alessandro Montesi (due cognomi ma sempre un solo maestro) e Anthony Di Francesco sono solo alcuni tra quelli presi di mira dal “Killer Clown”, un mito urbano statunitense riconvertito in un amatoriale “all’italiana”. Giovani videomaker si mettono all’asta, le loro facce pullulano spaventate nei thumbnail della sezione “Tendenze” di Youtube. Alcuni di questi sono talmente estremi, da fare il giro e risultare simpatici: Charlotte M., una giovanissima ragazza immagine, che con lo zio Franco ottuagenario affronta le più iconiche creature, dalle streghe all’amico Frank di Donnie Darko, armata di clava di plastica e della forza dello zio dalla canotta militare. Ma, se si dovesse scremare il mercato dalla scarsità dei mezzi e dalla qualità delle immagini, in piedi rimarrebbero solo loro, gli onnipresenti Me Contro Te. Contando più di quattro milioni di iscritti, oramai i due fidanzati si ritrovano in un sistema di produzione e distribuzione talmente pregiato, da poter essere considerato degno rivale delle trasmissioni per i ragazzi sulla tv via satellite. Sempre in accordo all’età media dei loro fan, che oscilla tra i tre e i sette anni d’età, i due strilloni per eccellenza hanno concepito la perfetta nemesi, lo stalker talmente edulcorato da non essere definito nemmeno per intero, il “Signor S”. Scomodo
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Tutto va a dimostrare che anche quel lato dell’orrore più bambinesco, meno impressionante, quale quello di “Piccoli Brividi” o dei classici come “Gremlins”, non è dimenticato. Si sviluppa, prende nuove forme più povere in termini di qualità, ma sicuramente più immediate da consumare, potendole avere a portato di mano. Una menzione onorabile va tenuta anche ai P.I.T – Paranormal Investigation Team, dei veterani sulla rete che hanno letteralmente formato un team di acchiappafantasmi e investigano, con una cadenza quasi giornaliera, sulle storie di ectoplasmi, possessioni e altre entità gotiche.
“Tutto va a dimostrare che anche quel lato dell'orrore più bambinesco, meno impressionante, quale quello di “Piccoli Brividi” o dei classici come “Gremlins”, non è dimenticato.” La fanbase in questo caso già inizia ad essere più rarefatta, contando “solo” 350.000 iscritti al canale, colpa del fatto che l’età media dei videomaker in questione supera i trenta e quindi gli interessati guardano i loro prodotti probabilmente perché credono agli eventi che testimoniano. Anche qui, i riferimenti sono plurimi: dalla celeberrima serie di Paranormal Activity al classico pop Ghostbusters, con qualche riferimento nei movimenti di macchina al capostipite dei docu-horror: REC di Jaume Balaguerò.
Tirando le somme, la piattaforma più visitata del web, dopo le controparti pornografiche, ha a disposizione un banchetto pantagruelico di contenuti, di cui però passa la paura dopo poco, di cui non se ne può veramente essere turbati nel profondo. La metamorfosi di questo genere, che dalle più alte ambizioni artistiche ha avuto un impoverimento abissale in termini di linguaggio e sostanza, è essa stessa la prova di come ci stiamo riproducendo artisticamente: non siamo più tenuti a rappresentare il nostro periodo storico, le influenze che ha la politica su di questo e sul nostro inconscio, non siamo più perseguitati da quegli incubi che visceralmente ci attanagliano e che consequenzialmente ci guidano verso la definizione di quella che è la nostra generazione. Il genere ha preso sempre più una piega semplicistica, colpevoli non tanto chi semina le centinaia di clip che si possono trovare, nemmeno chi ci si intrattiene, giustamente affascinato dalla notifica in pop-up che gli arriva sullo smartphone. Se le cause sono evidenti, se il cinema dell’orrore non riesce a reinventarsi, scomparendo del tutto nel nostro Belpaese, allora la responsabilità sta nelle mani di chi ancora è disincantato da tutto questo, di chi conosce e vuole che le persone si spaventino, se vogliono veramente spaventarsi, come specialmente gli italiani negli anni ‘70 e ‘80 sapevano fare. Una responsabilità che non classifica i pochi come timonieri per chissà quale viaggio nelle profondità della psiche, ma li ricopre di una veste tanto sottovalutata quanto essenziale: quella di chi questa sera avrebbe da proporvi un bel filmetto.
di Daniele Gennaioli 67
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STEREO8 Negli anni '70 lo Stereo8 era un formato di registrazione su nastro, utilizzato soprattutto nelle autoradio. Oggi vuole essere una selezione musicale di otto brani che riteniamo meritevoli di un ascolto. Sette nuove uscite e una bonus track dal passato, una cassetta per dicembre da mettere in play anche su Spotify.
Oliver Tree Cash Machine Da Cash Machine Frequenze: Indietronica
Nel corso del 2019 Oliver Tree si è affermato come uno degli hitmaker meno convenzionali del panorama statunitense: un ex pilota di scooter professionista dai capelli a scodella vestito con tutoni sgargianti anni ’90, che canta e si produce da solo. “Cash Machine” non si discosta molto dai suoi pezzi precedenti e ancora una volta è un banger pulitissimo di synth e chitarre dall’attitudine pseudo-emo che resta in testa per non andarsene più.
L’Elfo – Made In Catania Da Made In Catania Frequenze: Alternative rap
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Chris Bailey, il frontman dei Do Nothing, ha avuto l’ispirazione per il loro ultimo brano vedendo l’organizzatore di un festival che prometteva ai suoi clienti premi assurdi, tra cui una cena con LeBron James. Il risultato è un atipico inno ai truffatori che trae la sua forza dal contrasto riuscito tra il parlato minimale delle strofe e il cantato più incisivo dei ritornelli.
L’Elfo è uno dei pochi freestyler italiani che è riuscito a dimostrare di avere il giusto potenziale anche dentro una sala da registrazione. “Made In Catania” prosegue sul filone gypsy caratteristico dell’artista siciliano ed è un omaggio alla sua città e alla sua terra, che spicca per un testo nel quale si ibridano dialetto e italiano, trascinato dal beat in salsa gitana creato da Funkyman.
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Dicembre 2019
KAYTRANADA, Kali Uchis 10% Da BUBBA Frequenze: Dance pop
Il binomio tra il producer haitiano-canadese e la cantante americana è la standout track di “BUBBA”, uno dei dischi più entusiasmanti dell’ultimo mese. La chimica tra i due artisti è istantanea e sfocia in un brano pieno di groove che mette in risalto la flessibilità di KAYTRANADA e la voce sinuosa di Kali Uchis, in un dialogo dinamico ed elettrizzante.
R.E.M. I R.E.M. sono uno dei gruppi che hanno plasmato più nel profondo l’evoluzione del Stand rock contemporaneo e “Green”, il loro primo album realizzato sotto major, è stato Da Green (1989) un punto di svolta fondamentale della carriera della band. Il singolo “Stand”, in parFrequenze: Alternative rock ticolare, tanto criptico quanto allegro, un po’ parodia del pop smielato anni ’60 e un po’ riflessione esistenziale, è una perculata geniale che dimostra quanto fossero eclettici e inventivi Michael Stipe e soci.
In pochi mesi Fulminacci è passato dal completo anonimato ad essere considerato quasi all’unanimità come la prossima grande cosa della canzone italiana e il suo ultimo singolo non fa che alzare ulteriormente l’asticella. “San Giovanni” è un pezzo “scritto di pancia”, come lo ha definito lo stesso cantautore romano, una storia di città spontanea e sincera da ascoltare per ripararsi dal freddo dicembrino.
Arlo Parks Paperbacks Da Sophie Frequenze: Alternative pop
Scomodo
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A soli diciannove anni Arlo Parks è già una degli esponenti più originali dell’ondata di artisti di seconda generazione britannici, capace com’è di mescolare influenze black, jazz e pop in un calderone che sembra tanto attuale quanto vicino alla tradizione. La traccia di chiusura del suo nuovo EP è una ballad suadente ed eterea come un sogno ad occhi aperti, che ricorda da vicino la SZA degli esordi.
“Heavy Is The Head” è il disco con cui si attendeva il salto di qualità di Stormzy da icona locale a star internazionale e in questo lavoro il rapper di Croydon ha deciso di rappresentare tutte le sfumature della sua personalità artistica. Uno degli esperimenti meglio riusciti dell’album è “Crown”, un brano conscious che abbandona il grime per toccare lidi più soul, in cui l’artista inglese sorprende con un timbro e una sensibilità lirica da primo della classe.
ylist Se vuoi ascoltare questa pla tify Spo su 8 cerca Stereo
di Jacopo Andrea Panno 71
Recensioni --------------------------------------------------------------------
Giuseppe Tubi / Ovvero quando un cattivo di topolino si mette a fare l’artista. Mostra
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“Giuseppe Tubi è un…” niente, nemmeno il tempo di iniziare e siamo già caduti nella sua trappola. A quell’ “un” dovrebbe seguire un apostrofo? Oppure è giusto così? Non lo sappiamo, non possiamo saperlo. Come del resto qualsiasi altra cosa lo riguardi. Nel 1992, Tubi ha infatti scelto di celare la sua identità dietro un nome d’arte, usando il termine nella sua accezione più pura, realizzando, di fatto, la sua prima opera d’arte. “Giuseppe Tubi è l’identità di copertura che ho scelto per agire nel sistema dell’arte contemporanea come presenza virtuale, conservando come unica traccia fisica quella delle mie opere (qualora la abbiano).” Questa frase ci fa capire molto del personaggio, è una dichiarazione forte, un serio e rigoroso approccio che sottende una lunga riflessione sulla propria condizione di artista e sul “sistema dell’arte”. La parentesi finale poi, tutt’altro che superflua visto che Tubi ha distrutto tutta la sua produzione iniziale, non essendo soddisfatto dei risultati ottenuti, introduce quella nota quasi ironica, certamente disincantata e pragmatica, che caratterizza il suo lavoro. Tutto questo è evidente fin dal titolo della mostra alla galleria Il Mascherino: Giuseppe Tubi: Antologica delle mostre irrealizzate. Solitamente infatti un’antologica è una selezione delle opere maggiormente rappresentative di un artista, qui invece Tubi sceglie di raccontare non la sua storia, ma un’altra, precisamente altre quattro, che sarebbero potute esserlo ma non lo sono state… almeno fino ad oggi. Ricapitolando, un’entità che non esiste presenta delle mostre che non sono esistite, eppure le opere sono lì ed è tutto dannatamente reale.
Basterebbe questo per decretare Tubi come un maestro dell’attualmente tanto di moda storytelling, ma sarebbe fargli un torto enorme, poiché questa è la condizione di partenza della sua arte, non certo l’arrivo. Come direbbe lui “il medium non è il messaggio” con buona pace di McLuhan. A chiarire questo concetto ci viene in soccorso la prima delle mostre mai realizzate: La materia di cui sono fatti i sogni. Nel 2008 Tubi decide infatti di confrontarsi con un caposaldo dell’arte contemporanea: il monocromo. Un perfetto esempio di come il mezzo, lo “strumento”, ovvero una tela interamente dipinta di un solo colore, non sia il messaggio dell’artista, o almeno non solo. Sebbene tra i più citati dai “Questo lo potevo fare anche io”, a ben guardare, pur essendo pressoché infinite le possibili declinazioni del tema, gli artisti ricordati dalla storia dell’arte per essersi confrontati con il monocromo si contano sulle dita di una mano. Pur tributando il dovuto rispetto a Kazimir Malevič, padre putativo di questa tradizione con il suo Quadrato nero su fondo bianco e successive declinazioni, è un altro artista russo di quegli anni a iniziare a tracciare il solco nel quale troviamo Tubi. Nel 1921 Aleksandr Rodčenko, con il suo trittico di monocromi dei colori primari, dichiara la morte della pittura, ma in realtà di un intero modo di intendere l’arte: gli artisti non sono importanti per l’arte, non lo sono le loro emozioni, le loro esperienze, insomma le loro vite. Vi ricorda qualcuno? Certo queste riflessioni sono figlie della rivoluzione russa, di quello che banalizzando e sbagliando potremmo definire “comunismo”.
Scomodo Ottobre 2019 Scomodo Dicembre 2019
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Una quarantina di anni dopo però un gruppo di artisti “made in USA”, quindi non esattamente comunisti, orienta la sua ricerca nella stessa direzione: forme geometriche semplici, riproducibili in serie, e monocromia, tutto pur di rimuovere la presenza dell’artista dall’opera, questa è la ricetta del minimalismo. È opinione diffusa nella storia dell’arte che a ispirare il minimalismo sia stato un movimento di una decina d’anni precedente, il Color field painting, di cui faceva parte anche un certo Barnett Newman, famoso per i suoi quadri Zip: dei monocromi divisi in due da una linea di colore diverso. Non vi racconto tutto questo per mero sadismo intellettuale, ma per rendere giustizia, o almeno provarci, alle prima due opere della mostra: monocromi argento attraversati, appunto, da bande verticali. Riproporre un’idea che ha più di mezzo secolo non sarebbe da Tubi e a una seconda occhiata ci accorgiamo infatti che c’è qualcosa di strano in queste “zip”: sono irregolari, in rilievo... ebbene sì sono peli, materiale organico dell’artista, che se esaminato potrebbe rivelarne la vera identità.
Con un semplice gesto il frutto di decenni di fatica di grandi artisti per eliminare l’autore dall’opera diventano “magicamente” l’autoritratto di un artista anonimo. Con i successivi due monocromi Tubi alza la posta e chiude il cerchio. Se i primi ricostruiscono infatti un autoritratto biologico, scientifico, questi restituiscono invece i suoi ricordi, le sue emozioni. Sfida tutt’altro che semplice, considerando che sono appunto monocromi, vinta con genio e raffinatezza dall’artista: i quadri marroni sono parti delle pellicce della madre e della nonna di Tubi, ma soprattutto, si possono toccare, diventando così simulacri di memoria tattile. La rappresentazione di un “vero” più vero del vero, ciò a cui l’arte dovrebbe sempre tendere, e a ricordarcelo è un artista con una falsa identità. E questa è solo la prima delle mostre, ma anche l’unica che vi racconterò, perché l’arte è fatta per essere vista. Prendete quindi queste come una sorta di istruzioni per l’uso, pur sapendo che Tubi le sconvolgerà ad ogni passo. Avete tempo fino al 15 febbraio, buona fortuna. di Luca Giordani
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Joker / Si può ancora fare la rivoluzione con un film? Cercare di offrire una nuova ed inedita chiave di lettura ad un film così visto e discusso come Joker di Todd Phillips - lo stesso regista della trilogia della Notte da leoni - appare come un’ardua impresa. In particolare dopo che ogni testata e ogni critico, dai social ai salotti tv, dai quotidiani alle sedi accademiche, insomma chiunque avesse a che fare con la settima arte si sia sentito in dovere di esprimersi in merito, in quei rari momenti in cui il dibattito attorno a un film travalica le sedi artistiche e finisce sulla bocca di tutti.
Forse però tornare a ragionare a freddo sulla pellicola a distanza di più di due mesi dal suo leone d’oro di Venezia, dopo che si sono calmate le acque, potrebbe offrire diversi spunti lontani da quell’infervorata partita che è continuata a lungo tra chi ha urlato al capolavoro e chi si è accanito sull’opera per partito preso. Innanzitutto al film va riconosciuto proprio questo: la capacità di aver riempito in maniera capillare le sale per oltre un mese, ma soprattutto per aver riacceso un dibattito troppo atrofizzato e relegato solo ai lavoratori del settore.
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Che Joker abbia rianimato il confronto e la questione sulle possibilità sociali dell’arte cinematografica non c’è dubbio. Entrambe le posizioni pro e contro al film si sono dispiegate in modalità esponenziali su tutto il pubblico, non solo quello cinefilo. Accendere il dibattito in sale piene fa sì che il film si discosti immediatamente da quelle considerazioni errate che lo pongono al pari del fenomeno Avengers: Endgame, che di sociale non ha saputo sollevare nulla, se non una discussione di forma accentuata dalle dichiarazioni di Scorsese su cos’è cinema e cosa non lo è. Joker è un film forte, intenso, che gravita ovviamente attorno alla mostruosa persona Joker/Joaquin: la macchina da presa lo esamina e lo indaga come un microscopio. C’è solo Joaquin Phoenix, lui è il centro nevralgico dell’intero universo del film. Una pellicola costruita interamente sul personaggio che ne rappresenta la polpa, un kammerspiel all’hollywoodiana che a tratti sembra voler imboccare l’Academy per suggerire quale sia la miglior scelta per il miglior attore di quest’anno. Ma a prescindere dalle qualità registiche ed attoriali, Joker ha fatto venire al pettine un nodo a lungo dimenticato, quello del binomio etica-estetica nel cinema. Il grande riconoscimento attribuito al film è stato quello di aver dipinto l’immagine di una società i cui valori morali appaiono oppressi ormai da uno stallo politico-sociale e dove pagare in primis gli effetti di questo disagio sono gli ultimi, gli emarginati. Basti pensare a come la maschera del pagliaccio di Gotham city si stesse insinuando sui volti dei manifestanti nelle principali piazze di rivolta in Cile, Libano, Iran e Barcellona come sentore di una nuova corrente di disordini ben tradotta da quella presente nel film.
Sicuramente Joker e il suo ghigno non ci metteranno molto ad assurgere a pseudo-icona di resistenza come già molte maschere dello schermo hanno fatto in passato (vedi V per Vendetta o più recentemente quella di Salvador Dalì de La casa di carta). Ma parlare di critica sociale non vuol dire farla. Proprio in questa mancanza va riconosciuta la natura cialtrona di un film che vuole criticare il sistema in toto senza mai calarsi in problematiche effettive. La critica sociale posticcia ridotta al “viviamo in una società” tanto presa in giro dai meme su Internet - e di cui la nostra generazione ha già imparato tanto, troppo, da film come Fight Club e da milioni altri imitatori - dà l’illusione di un cinema impegnato dal quale poi, se esaminato a freddo, non si ricava nulla. La superficialità del voler “criticare tutto” può allettare un pubblico poco educato a un cinema che voglia davvero mostrare le contraddizioni del reale, per colpa soprattutto di uno stesso cinema ormai da anni incapace di sollevare l’intera opinione pubblica a riflessioni di massa, cosa che invece Joker, tanto di cappello, ha saputo fare. Forse continuare a sbrogliare fino in fondo il tema della malattia psichica e del difficile rapporto di essa con le relazioni sociali avrebbe conferito al film una maggiore identità che non sarebbe rimasta in un vago mare magnum di problemi della “società cattiva” esposti dal film. Joker è un film che ha ragione di esistere, estremamente godibile per le performances registiche interpretative e ovviamente anche narrative, ma il cui messaggio rischia di essere idealizzato a tal punto da parlare di capolavoro. Bene riproporre il nodo etica-estetica, ma bisogna scioglierlo. di Lorenzo Vitrone Scomodo
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RAGGI-CHAN CONTRO LA CRIMINALITÀ CAPITOLINA / TRA-SPOR-TATO IN ITALIA / BANCHE ARKMATE Scomodo
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RAGGI-CHAN CONTRO LA CRIMINALITÀ CAPITOLINA COSA CI DICE IL FUMETTO SUL REGOLAMENTO DI POLIZIA URBANA VOLUTO DALLA SINDACA DI ROMA? Il 7 Giugno 2019 è entrato in vigore il nuovo Regolamento di Polizia Urbana di Roma, festeggiato dalla Giunta Raggi come uno dei più importanti risultati raggiunti nel corso di questi 3 anni e mezzo di governo cittadino. L’entusiasmo appare fondato, visto che era dal 1946 che nessun Sindaco della Capitale era intervenuto per modificare il Regolamento (al massimo si era sempre proceduto tramite norme transitorie), ma forse la Giunta si è lasciata un po’ troppo trasportare da esso. Ben 6 mesi dopo l’entrata in vigore, il 15 Novembre 2019 appare sul sito del Comune di Roma appare un comunicato che parla della nascita del progetto “Proteggi il cuore di Roma”, un libretto illustrativo da consegnare nelle scuole e i licei della Capitale per spiegare in modo semplificato le nuove normative ai giovani romani. Una decisione che ha fatto molto discutere a livello nazionale, visto che la versione anime della Sindaca Raggi ha fatto il giro dei maggiori giornali italiani. La mossa propagandistica della Sindaca offre però degli interessanti spunti sul difficile rapporto che sussiste fra la classe politica e le nuove generazioni, che cercheremo di sviluppare all’interno di questo articolo.
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ANALISI DI UN MASTERPIECE Prima di procedere con l’analisi degli spunti politici che ci offre il fumetto, è obbligatorio analizzare effettivamente l’opera nel suo essere: prendere il testo, sfogliarlo ed osservare pagina per pagina il suo contenuto, il tratto dei disegni e la trama di ogni singola tavola. Una lettura attenta, come se tra le nostre mani avessimo l’ultimo lavoro di Zerocalcare oppure un grande classico come “Watchmen” di Alan Moore. Per capire la genesi di quest’opera, bisogna per forza di cose parlare della figura alla quale la Sindaca Raggi ha deciso di affidare la realizzazione di quest’opera magna. All’interno della pletora di grandissime penne che il mondo del fumetto italiano offre, la Sindaca ha optato per uno dei più grandi vignettisti di sempre: Marione, ex fumettista ufficiale del Movimento 5 stelle (ha abbondonato il partito come azione critica nei confronti della decisione del partito di andare al governo con il Partito Democratico e fa ora parte di VOX Italia, movimento guidato dall’eccelsa mente di Diego Fusaro) e primo sostenitore in assoluto della Giunta Raggi. Una figura eccezionale, scelta azzeccatissima per insegnare ai giovani il rispetto del codice civico e le norme di convivenza cittadina, come testimoniato dalle vignette da lui pubblicato sulla sua pagina Facebook personale: l’ultima in ordine temporale, pensata per celebrare la vittoria dei Conservatori Inglesi alle elezioni nazionali, raffigurante Boris Johnson con indosso un delizioso pigiama a righe di colore grigio che fugge tutto contento dall’Unione Europea raffigurata come il campo di concentramento di Auschwitz. Una piccola svista, se non si considerano le continue litigate online che lo vedono protagonista degli insulti più variegati nei confronti di coloro che si professano non concordi nei confronti delle sue convinzioni politico-economiche. Tolti questi aspetti, Marione si presente come la figura ideale per insegnare ai giovani gli aspetti più basilari della convivenza democratica. Il genio del fumettista si mette subito in mostra nelle fasi preparatorie dell’opera: nel cercare il modo migliore per veicolare le normative del Regolamento, è stata la sua mente illuminata a optare per la decisione di tramutare la Sindaca in una poliziotta dalle fattezze giapponesi (pregevole il pragmatismo della matita di Marione, capace di adattarsi allo stile manga che di solito non gli appartiene), che pattuglia le strade di Roma alla ricerca di criminali da combattere tramite l’arma più temibile a sua disposizione, ossia il DASPO urbano. La scelta dello stile di disegno alla giapponese è stata certamente dettata dalla grande popolarità di “Meloni-Chan”, l’alter ego manga di Giorgia Meloni che dietro il suo aspetto dolce ed innocente lanciava i suoi messaggi di difesa della patria e delle tradizioni italiane. Seppur lo spunto sia palese, mentre la Meloni non ha mai costruito un universo meta-narrativo attorno alla sua versione giapponese, la Raggi si è talmente innamorata dell’idea che ha deciso di rendere “Raggi-Chan” la protagonista del fumetto, incarnando nelle sue fattezze il mantenimento dell’ordine pubblico e il rispetto delle regole. “Raggi-Chan” diviene così l’unica protagonista delle tavole che compongono l’opera, ognuna delle quali divulga ai giovani della Capitale ogni singolo aspetto del nuovo Regolamento di Polizia Urbana. Analizzare ogni singola pagina richiederebbe fin troppo tempo, per cui è giusto soffermarsi su quelle maggiormente iconiche e che offrono più spunti a livello artistico e culturale. Una delle tavole di maggior livello è certamente quella riguardante i venditori ambulanti: la scena rappresenta un criminale, armato della miglior paccottiglia da vendere a caro prezzo ai turisti (fra cui non possono mancare i mitici selfie-stick o le bottiglie
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d’acqua dalla dubbia provenienza) costretto alla fuga da Raggi-Chan, il cui odio per la criminalità è talmente forte da materializzarsi sotto forma di lingue di fuoco che partono da tutto il suo corpo. Una scena che nei giovani riporta alla mente dolci ricordi d’infanzia, vista la palese influenza dell’anime che ha maggiormente occupato la fascia oraria delle 15 del palinsesto televisivo, ossia l’immortale “Dragonball” (la Sindaca pare effettivamente sul punto di trasformarsi in Super Sayan) La tavola che meglio ci mostra l’intelligenza di Marione è certamente quella riguardante il tifo violento, in cui Raggi-Chan ammonisce un gruppo di tifosi le cui bandiere e sciarpe non a caso non rappresentano i colori sociali delle due squadre della Capitale, in modo tale da non scontentare gli ultras di Lazio e Roma. La vignetta più emozionante rimane certamente l’ultima, nella quale la Sindaca, dismessa la divisa da vigilessa, consegna ad una ragazza, il cui sguardo pieno di ammirazione è fisso su di lei, il compito di continuare a proteggere il Cuore di Roma: un passaggio generazionale da cui dipende il futuro dell’intera città. Con questa immagine poetica, si chiude il fumetto “Proteggi il Cuore di Roma” e la nostra analisi riguardo a questo capolavoro della fumettistica contemporanea italiana. A questo punto rimane solo chiederci quali spunti più generali quest’opera ci conceda.
IL PICCO DELL’INCAPACITÀ DI DIALOGO FRA POLITICA E GIOVANI. Dopo un’analisi in chiave ironica della vicenda (poiché giusto l’ironia essa può scatenare), passiamo ora a cercare di capire come è strutturato il progetto e quali messaggi esso realmente lanci. Il Regolamento è accompagnato da una serie di 20 vignette disegnate da Mario Improta, in arte Marione, che vestono la sindaca della capitale Virginia Raggi di panni eroici, ergendola a paladina della giustizia in difesa della comunità, del rispetto e dell’educazione civica volti alla salvaguardia di spazi pubblici, monumenti e strade. Il fumetto è stato distribuito nelle circa 850 scuole elementari e medie di Roma con lo scopo di coinvolgere anche i più piccoli nella lotta contro il degrado urbano e il mancato rispetto dei beni comuni, nella speranza di rendere virali le regole della convivenza civile. Termini quali ‘’DASPO’’ e ‘’MULTA’’ campeggiano in caratteri cubitali sulle copertine delle 300.000 copie stampate. I ‘’timbri’’ in prima pagina vengono affiancati dalla figura della sindaca in missione contro writers che imbrattano monumenti e venditori ambulanti colti sul fatto e costretti a scappare in fretta e furia, per tentare di sfuggire all’ira esplosiva della vigilessa Raggi.Ad accompagnare la tavola sono presenti slogan che recitano <<I marciapiedi non sono posacenere>>, <<L’unica cosa da assumere senza limiti è l’arte>>, <<Stop adesivi e lucchetti>> o ancora «Rispetta i tuoi monumenti, sono già belli così» e poi «pulisci». Il messaggio riproposto in tutte le pagine del fumetto è chiaro: chiunque violi le norme del nuovo Regolamento potrà essere oggetto del sopra citato strumento legislativo che prevede l’allontanamento da specifici luoghi del territorio comunale. Lo stile scelto per la rappresentazione è quello del manga giapponese, la protagonista in tenuta da vigilessa a braccia conserte e con sguardo fulminante riveste la figura dell’eroina della vicenda, impersonata dalla sindaca Raggi, mentre il ruolo del ‘’cattivo’’ che vandalizza i monumenti pubblici spetta al giovane stereotipato secondo i canoni socialmente accettati e riconosciuti del ‘’piccolo criminale’’. Il giovane ‘’delinquente’’ con tanto di berretto sfoggia tatuaggi sulle braccia scoperte, catene al collo e un ghigno malefico, ancora ignaro della presenza contrariata alle sue spalle che sta per richiamarlo all’ordine ed even-
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tualmente punirlo. La strategia comunicativa utilizzata è quella di rendere chiara l’opposizione tra le due forze di Bene e Male, eroina e anti-eroe, che non è sconosciuta al tipo di audience destinataria e, probabilmente, per questo adoperata con la speranza di catturare l’attenzione dei più piccoli. L’idea della stessa Virginia Raggi di rivolgersi ad una fascia d’età bassa che partisse dai 9 anni\quarta elementare, comprendendo anche i ragazzi dei licei, è stata introdotta e giustificata con le seguenti parole “La protezione della nostra città coinvolge ognuno di noi, a partire dal rispetto dei luoghi e delle persone che ci circondano, ma la vera spinta al cambiamento proviene dai giovani che, con il loro esempio, possono innescare un circolo virtuoso di azioni positive’’ E’ possibile ottenere tutto ciò con l’antagonizzazione di soggetti stereotipati tramite accessori e indumenti? La strumentalizzazione di questi caratteri non può far altro che esacerbare i rapporti già non idilliaci fra le rappresentanze giovanili e il comune. Infatti la Raggi appare vestita da vigilessa, mentre il ragazzo della vignetta è rappresentato da un luogo comune e questo non aiuta la causa che, in realtà, potrebbe avere delle giustificazioni in quanto la capitale versa in condizioni di degrado dovute a una serie di fattori: non ultima, il comportamento incivile dei cittadini. La distribuzione del fumetto dovrebbe rappresentare una proposta mediatica strategica e funzionale con un potenziale di diffusione del messaggio non indifferente, la preoccupazione di molti, però, è che rimanga solo un cartoon, più che un sensibilizzatore delle coscienze e, che consecutivamente, non venga interiorizzato. Se non altro per la modalità di propagazione utilizzata, che non ha precedenti né eguali e si basa sul rivestimento e tappezzamento dei luoghi più frequentati della città di vignette colorate, senza che il regolamento sia effettivamente entrato in vigore. Mario Rusconi, presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma e del Lazio, si è esposto in merito a questo dubbio, dando voce al tipico scontento della capitale e ponendo l’accento su quello che potrebbe rappresentare il vero nodo della questione ‘’Il punto vero – spiega il portavoce dei presidi romani - è che il fumetto resta fumetto, perché nella realtà le cose sono ben diverse e questo regolamento sembra essere tutt’altro che applicato”. “Continuiamo a vivere in una città sporca – accusa – (...) al fumetto non seguono azioni concrete”. Tuttavia, sono diversi i punti a sfavore emersi contro l’iniziativa. Un’altra fonte di dissenso è sorta a causa della scelta di personalizzazione dei poteri sanzionatori nella figura della super-sindaca, che ha causato uno spartiacque importante nell’oceano di opinioni pubbliche, già in balìa di correnti contrastanti. L’origine del sentimento di disaccordo si trova proprio nella confusione riguardo la decisione di mostrare la sindaca di Roma in uniforme blu e in veste di super eroina. Il pericolo è che il messaggio venga inficiato dall’eccessiva personalizzazione della sindaca che appare nei manifesti travestita da vigilessa e che potrebbe scatenare antipatie e antagonismi nei suoi confronti, considerato anche il calo di popolarità della stessa giunta e del partito che la sostiene. Forse il progetto della sindaca mirava a un investimento per il futuro indirizzato ai giovani, ma l’iniziativa è stata macchiata da un modus operandi discutibile nelle applicazioni pratiche, che stride notevolmente con le parole della stessa Raggi, anche in risposta alle polemiche sul costo totale di 50.000 euro impiegati per rendere possibile l’ultimo provvedimento ‘’Proteggi il cuore di Roma’’. <<Questi non sono soldi buttati ma investiti. Se torniamo a investire sulla cultura e i ragazzi, sono certa che Roma potrà cambiare volto.>> In questo modo replica la sindaca Virginia Raggi. L’elemento che maggiormente
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preoccupa di tutta questa vicenda è proprio questo, però: per la Raggi il fumetto “Proteggi il Cuore di Roma” è una forma di investimento per e sui giovani, che però al tempo stesso vengono giudicati talmente idioti da non riuscire a comprendere un semplice Regolamento di Polizia Urbana se non semplificato in forma fumettistica. Una ragionamento del genere sarebbe sicuramente risultato più accettabile se l’iniziativa fosse stata unicamente rivolta nei confronti dei bambini delle elementari, ma il fatto che essa coinvolga persino gli istituti superiori ed i licei dimostra ancora una volta l’incapacità della classe politica di comunicare in maniera corretta con le nuovi generazioni senza cadere nell’errore di considerarli un branco di immaturi incapaci di comprendere i complessi meccanismi del vivere civile e politico di questo paese. Ragionamenti simili è possibile attenderseli da figure di una determinata età (per fare un nome, basti pensare al Patriarca della Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi, o Carlo Calenda, il quale ha indicato nei videogiochi il male supremo d’abbattere), ma è difficile da accattare che un politico relativamente giovane come la Raggi, la cui carta d’identità segna “solo” 41 anni, non riesca ad instaurare un dialogo con i giovani senza finir per dimostrare degli atteggiamenti degni dei peggior residuati politici della Prima Repubblica. “Proteggi il Cuore di Roma” deve diventare una pietra miliare per il dibattito politico di questo paese: i politici devono guardare a questo scempio, smettersi di chiedere perché i giovani non siano interessati al dibattito politico in questo paese e cercare una modalità migliore per riuscire a dialogare con loro. Solo superando simili orrori comunicativi, la vita democratica di questo paese potrà di nuovo contare sulla fondamentale presenza dei giovani. Aggiornamento del 17 Dicembre 2019: Il fumetto di Marione su Auschwitz e Johnson ha causato uno scandalo di portata nazionale, che ha costretto la Sindaca ad interrompere il rapporto di collaborazione con il fumettista. Una grande perdita per questa città, ma un buon primo passo nella ricerca di un miglior modo di parlare ai giovani.
di Luca Bagnariol ed Elena Capezzone
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T R A - S P O R T- A T O IN ITALIA
PERCHÉ LE FORZE POLITICHE PUNTANO IN MANIERA PIÙ INTENSA CHE MAI SULL’ORGANIZZAZIONE DI EVENTI SPORTIVI NEL NOSTRO PAESE COSA SIGNIFICA OSPITARE UN GRANDE EVENTO SPORTIVO “Sarebbe da irresponsabili accettare questa candidatura. Diciamo no alle Olimpiadi del mattone.” Così, il neo-sindaco di Roma Virginia Raggi glissava su tutte le critiche che tre anni fa le piovvero in testa per aver bloccato la candidatura della capitale all’evento del 2024. Si era battuta contro quest’ultima già prima durante la sua, di candidatura, in campagna elettorale; e le giovò molto. A 3 anni e mezzo di distanza, ripensando a quelle parole e agli scenari di oggi, si intuisce che le opinioni siano piuttosto cambiate. Infatti, nell’ultimo periodo la classe dirigente italiana ha modificato l’approccio alle manifestazioni sportive, vedendole non più come un potenziale pericolo, ma come un’occasione funzionale all’accrescimento della propria immagine e allo sviluppo del paese. Parlano i fatti, e si nota come il l’Italia abbia fortemente puntato su eventi di una certa rilevanza. Nell’ordine, Roma ospiterà una parte degli Europei di calcio questa estate, e si è recentemente aggiudicata anche quelli di nuoto del 2022; Torino dal prossimo anno sarà teatro delle prestigiosissime ATP Finals di tennis, e dulcis in fundo Milano-Cortina ha guadagnato la possibilità di ospitare le Olimpiadi invernali del 2026. E’ interessante notare come tre eventi su quattro siano affidate proprio alle forse politiche che, dall’opposizione, facevano campagna contro queste manifestazioni organizzate su suolo italiano. Cosa è successo nel frattempo? Ci siamo persi qualcosa per cui adesso esistono condizioni più favorevoli per il verificarsi di tutto ciò? La risposta è no, e questo svela il grande ma inosservato tema dei giochi politici dietro ai grandi eventi sportivi, dove qui la componente politica è analizzata come conseguenza dei fattori economici delle manifestazioni.
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Ospitare un evento sportivo di un certo livello, non è impresa da poco. Ci sono alcune variabili che influenzano la sua realizzazione, quali l’impatto politico, infrastrutturale e turistico, l’effetto sociale, e oggi soprattutto quello ambientale. Sono tutte armi a doppio taglio, che se usate bene possono portare a ricevere un numero importante di consensi, mentre non sono poche le insidie per chi si prende questa responsabilità, su tutte il rischio di indebitamento del paese. L’impatto economico è costituito da alcuni elementi. In primis i benefici che l’evento sportivo attira direttamente attraverso le spese degli spettatori e le risorse messe a disposizione dagli organismi internazionali, che rappresenterebbero un lascito significativo per la vita quotidiana della città ospitante. A questo si aggiunge l’impatto turistico, in sostanza ciò che porta più introiti durante e dopo l’evento tramite la riconversione dell’immagine della località, incremento dei futuri visitatori, e valorizzazione del patrimonio artistico e culturale.Sono molto importanti anche gli aspetti sociali e di immagine, perché essere al centro del mondo per una o più settimane aumenta l’orgoglio civico grazie all’impegno della collettività. Per questi motivi i partiti di governo si impegnerebbero al massimo per trasmettere un’immagine positiva dell’organizzazione, e per far sembrare la manifestazione come irrinunciabile per il paese. Come accennato prima, però, bisogna considerare anche cosa potrebbe andare storto. Nell’ultimo periodo la questione più scottante è quella ambientale, che rientra alla grande anche nell’ambito dei grandi eventi; basti pensare all’aumento di smog e dei rifiuti in quel periodo che impone la realizzazione di soluzioni “green”, aspetto che le giunte di Roma, Torino e Milano hanno sbandierato a destra e a sinistra. Questo però è un aspetto che deve essere valutato solo alla fine della manifestazione, su cui è molto facile predicare bene e razzolare male. A questo si aggiunge il serio rischio della sostenibilità economica delle spese, ossia quanto un paese è disposto economicamente ad investire sugli eventi ma anche quanto è bravo a sfruttarli. Fallire significa infrastrutture impostate e mai terminate, abbassamento della fiducia intorno allo Stato, e in sostanza il suo indebitamento. Se abbiamo parlato di tutto ciò, è perché così potremo capire meglio cosa passa nella testa delle forze politiche che si trovano davanti alla seguente decisione: prendere o lasciare? O meglio, cosa ci conviene di più?
LE SCELTE POLITICHE DIETRO LE CANDIDATURE ITALIANE Accade molto spesso che si verifichino giochi politici di una certa rilevanza alle spalle dei grandi eventi sportivi. Questi, infatti, vengono sfruttati dai partiti per mettersi a vicenda in cattiva luce a seconda delle rispettive posizioni e del ruolo che hanno, se sono al governo o all’opposizione. Prendiamo ad esempio il caso della metamorfosi del Movimento 5 Stelle, passato in tre anni dall’ostruzionismo delle Olimpiadi romane all’improvviso incanto per le manifestazioni sportive. Il caso più eclatante è quello dei Giochi invernali Milano-Cortina: nonostante il capoluogo lombardo sia governato dal Pd, e dunque il merito dell’assegnazione dovrebbe essere interamente della giunta, i 5 Stelle hanno pubblicato una foto in cui la spacciavano come la loro vittoria.
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Non che ci volesse molto a smentire i fatti, ma ciò evidenzia come il ruolo nello scacchiere politico influisca tantissimo sulla posizione da prendere. Da un punto di vista strategico eventi sportivi vuol dire visibilità al governo, dunque se sei al potere generalmente li appoggi, in caso contrario contesti.Blitzchung ha risposto su Twitter ringraziando la società per aver riesaminato il suo caso, nonostante sei mesi siano comunque troppi a suo avviso. Non è un caso se il partito pentastellato, quando ancora non era al timone della politica italiana, boicottò i Giochi di Roma, mentre ora sale sul carro dei vincitori anche quando non se lo potrebbe permettere. Tanto più che l’atteggiamento dei 5 Stelle riguardo l’evento Milano-Cortina è anche in controtendenza con il comportamento tenuto storicamente verso le ampie e costose manifestazioni internazionali, ossia da sempre contrario (come quando definì l’Expo una “speculazione insensata”) . Tutto questo dimostra che stare al governo induce a mettere da parte le rigide ideologie per lasciar spazio ai ritorni economici e di immagine. E a proposito di immagine, una che la sua l’ha dovuta proteggere e tutelare è la sindaca di Torino (anche lei M5S) Chiara Appendino. Non molti forse ricordano che inizialmente il capoluogo piemontese doveva partecipare insieme a Milano e Cortina per i giochi invernali, ma a causa di attriti tra i sindaci finì per essere tagliato fuori. Naturalmente la stampa, i cittadini, ma anche diversi colleghi non ebbero pietà della Appendino, per cui si sentì quasi obbligata a virare su un altro grande evento sportivo. Poco tempo dopo avviò le carte per poter ospitare le ATP Finals di tennis, e alla fine la spuntò su Singapore, Tokyo e Manchester. In queste storie balza subito all’occhio l’atteggiamento incoerente dei 5 Stelle, specialmente per una questione ideologica ostentata in pubblico più volte, ma è opportuno riportare alla memoria anche i modi contraddittori della Lega. Solo cinque anni fa, il suo segretario Matteo Salvini scriveva “Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa a fare le Olimpiadi! Ricoveratelooooo”. Oggi invece, in riferimento sempre ai giochi Milano-Cortina, esulta così: “Vince l’Italia, vince lo sport! Viva i giochi olimpici invernali del 2026, che significano almeno 20.000 posti di lavoro creati, tanti investimenti e 5 miliardi di euro di valore aggiunto per l’Italia. Grazie, al lavoro.” Hai capito il senatore, ma del resto è evidente che siamo migliorati davvero tanto dal 2014... In sostanza, questi repentini cambi di bandiera e i tran tran per accaparrarsi una manifestazione di livello, confermano che l’organizzazione di eventi sportivi sia diventato un fattore molto influente nel mondo politico.
UN FUTURO RICCO DI EVENTI Ma adesso è arrivato il momento di presentarli, questi grandi eventi che
hanno creato così tanta atmosfera. Abbiamo appena finito di parlare di Torino, cominciamo dalle prestigiosissime ATP World Tour Finals, un torneo che raccoglie solo i migliori 8 giocatori del ranking internazionale. A novembre, dopo 41 anni di attesa, un astro nascente del tennis italiano è tornato a rappresentarci in questa manifestazione, Matteo Berrettini. La chiamata di Torino anche per questo sembra essere arrivata al momento giusto, perché -nel caso in cui Berrettini dovesse riqualificarsi- darebbe l’opportunità agli appassionati di tennis nel nostro paese non solo di godersi un grande evento, ma anche di tifare il proprio beniamino. L’evento si svolgerà al PalaAlpiTour, realizzato all’inizio del secolo per le Olimpiadi invernali del 2006. Ma cosa ha convinto l’ATP a scegliere proprio Torino? Come detto il capoluogo piemontese non è andato per il sottile e ha de-
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ciso di sborsare fino a 78 milioni di euro di montepremi, una cifra più alta persino di quella di Londra, dove si è svolta la manifestazione per 9 anni consecutivi. I soldi dunque ci sono eccome. L’aspetto che sconvolge ancora di più, però, sono i benefici totali: tutto torna, sono le variabili economiche e turistiche di cui parlavamo prima. Torino andrebbe a guadagnare infatti ben 500 milioni di euro in cinque anni, e considerando che Londra ha portato negli ultimi nove anni 2,5 milioni di persone, una cifra simile potrebbe far toccare quota 600 milioni di guadagno. Non tanto meno rispetto a una Torino che avesse ospitato le Olimpiadi Invernali. “Alla faccia di Milano”, potrebbe pensare l’Appendino. A proposito del nuoto, invece, c’è un ritorno dei campionati europei in Italia dopo l’edizione del 1983, con 1.500 atleti a darsi battaglia nelle gare acquatiche. Sarà un mix di tradizione e innovazione: da una parte l’idea è di non costruire alcun nuovo impianto per l’evento, anche se in concomitanza con l’esordio assoluto della disciplina di immersioni subacquee e tuffi da grandi altezze, si sta considerando la possibilità di farle svolgere in un luogo iconico di Roma, come il Colosseo o Castel Sant’Angelo. Ipotesi molto teorica, ma sarebbe qualcosa di altamente spettacolare. Per l’edizione romana della kermesse continentale i costi si stimano in circa 20 milioni di euro, di cui 8 coperti dal governo, 3 da regione e provincia, mentre la restante a carico della Federazione Italiana Nuoto. Anche dal punto di vista della visibilità si prevede un bel risultato, considerando i 220 milioni di spettatori che hanno seguito in TV gli scorsi Europei a Glasgow. C’è però chi storce il naso alla manifestazione, ricordando cosa furono i Mondiali di nuoto ospitati sempre dalla capitale, a causa delle grandi opere incompiute, come la Città dello Sport di Tor Vergata e il Valco San Paolo. Scheletri mai ultimati. Quell’occasione costò a Roma la bellezza di 9 milioni di rosso in bilancio, considerando che per la costruzione dell’impianto di Tor Vergata furono spesi 240 milioni di euro. Se nonostante tutto però, si è deciso di andare avanti con la candidatura, significa che Roma ci crede, sperando magari anche di bilanciare la situazione di 11 anni fa. Passiamo adesso al fiore all’occhiello di questi eventi, le Olimpiadi Invernali Milano-Cortina, le quarte della storia su suolo italiano. Naturalmente i costi saranno ben più elevati delle altre manifestazioni dovendo intervenire su infrastrutture e anche mobilità, considerando il fatto che ci saranno diverse città ad ospitare le varie discipline (4 località in Lombardia, altrettante in Trentino e poco meno in Veneto). Su questo fronte un aspetto da tenere d’occhio è l’accesso alla Valtellina, a cui andrebbero aggiunti il completamento della Lecco-Bergamo e un miglioramento delle connessioni ferroviarie del capoluogo lombardo. In molti casi le gare si disputeranno in stadi, piste, tracciati e contesti già esistenti. Sotto il capitolo infrastrutture verranno costruiti tre villaggi olimpici, con il principale a Milano e gli altri due a Cortina e Livigno. Un aspetto delicato in questo tipo di situazioni è: ma che fine faranno dopo l’evento? Il primo dovrebbe diventare parte di un campus residenziale per studenti, il terzo riconvertito in un centro di allenamento per atleti italiani, e solo il secondo avrà una valenza temporanea. Arrivati a questo punto, è naturale quantificare le spese e soprattutto sapere chi paga. Per adesso si parla di 1,3 miliardi di euro, di cui 900 offerti dal CIO (Comitato Internazionale Olimpico), mentre i restanti gestiti dagli organizzatori per impianti e infrastrutture per la mobilità.
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Oltre al prestigio dell’organizzazione, per l’Italia ospitare le Olimpiadi Invernali potrebbe essere un colpaccio anche dal punto di vista economico: secondo uno studio dell’università Bocconi, oltre ai circa 20.000 posti di lavoro che si dovrebbero venire a creare da qui al 2026, la stima del giro d’affari complessivo è intorno a 4 miliardi. Conti in attivo che sono previsti anche per lo Stato, che oltre al contributo di 63 milioni di euro, uno studio della Sapienza ha calcolato quasi 200 milioni di entrate. L’aver ottenuto queste Olimpiadi, dunque, sembrerebbe un potenziale successo per il nostro paese. Molto meno complesso da spiegare ma comunque decisamente sentito dagli italiani, è il fatto di ospitare alcune gare dell’Europeo di calcio “itinerante” , che vedrà gli azzurri di Mancini tra i possibili protagonisti. Qui è più una questione di immagine che economica, dal momento che Roma potrà ospitare al massimo 4 match e non sono previsti così tanti introiti ulteriori al prezzo dei biglietti. Ciò nonostante anche qui vogliamo fare bella figura, e il governo infatti ha stanziato ben 10 milioni per la ristrutturazione dello Stadio Olimpico (dove avverrà la cerimonia di apertura) e la creazione di una fan zone. Anche questo ha reso piuttosto entusiasti i moltissimi appassionati di calcio italiani, e per un governo come detto prima l’aspetto sociale e psicologico è fondamentale.
DOVE STIAMO ANDANDO A PARARE Arrivati a questo punto, proviamo a tirare le somme. Nella storia recente del nostro paese, l’Italia non aveva mai puntato così tanto su numerosi eventi sportivi contemporaneamente. E il fatto che lo stia facendo “tutto insieme”, non è un caso. I politici italiani hanno capito che investire in questo genere di manifestazioni può essere d’aiuto alla nostra economia. Adesso abbiamo parlato di soli quattro eventi, ma nel prossimo decennio il nostro paese ospiterà almeno 10 tornei internazionali. Dietro a questo attivismo ovviamente c’è la politica, e piano piano tutti i partiti stanno virando in questa direzione. In primis il Pd, che dai tempi del ministro dello sport Luca Lotti si sta impegnando sia sui grandi eventi ma anche per lo sport nelle periferie e i fondi per le atlete in maternità. Persino la Lega, che ieri attaccava il Pd stesso, oggi considera un successo anche personale l’aver portato i giochi al nord. Infatti, grazie anche all’intervento dell’ex sottosegretario leghista allo sport Giorgetti, che ha dato la garanzia di governo per lo svolgimento dei giochi, tutto si è concluso in lieto fine. Per non parlare dei 5 Stelle, che avevano fatto la guerra ai giochi ma alla fine hanno strappato con le unghie le ATP Finals a Torino. La scorsa estate in Italia si sono svolte a Napoli le Universiadi, e nei prossimi anni si terranno eventi prestigiosi come la Ryder Cup di Golf e i Mondiali di sci. Ormai, quando si tratta di organizzazioni di eventi sportivi promettiamo di essere più efficienti che in passato, altrimenti non ci sarebbe così tanta fiducia nel nostro paese. Ogni volta che si tratta di candidarsi, si aprono i dibattiti e si moltiplicano le polemiche su opere e sprechi, costi e benefici. Ci si interroga se lo sport sia una priorità, se le risorse non potrebbero essere impiegati in altri settori. L’Italia però, intanto, sembra aver scelto la sua via, almeno a giudicare il calendario dei prossimi anni. di Emanuele Caviglia
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BANCHE ARMATE
IL RUOLO DELLE BANCHE NEL CAMBIAMENTO DELLA SOCIETÀ
FINANZIATORI, PRODUTTORI E VENDITORI Il tema dei finanziamenti al settore di produzione e vendita degli armamenti è tra i meno affrontati dal dibattito mediatico. Le banche, in molti casi, svolgono un ruolo centrale e, nonostante le campagne per il disarmo e la nascita di istituti etici, non sembra vogliano rinunciare agli ingenti profitti provenienti da investimenti e operazioni finanziarie in questo settore. Con il 27% del totale delle armi esportate tra il 2014 e il 2018, l’economia dell’Unione Europea è tra le leader del settore. L’Italia si colloca al nono posto per l’export globale di armi e accessori e quinta in Europa, con profitti per oltre 10 miliardi: considerando i dati riportati da Opal, Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e sulle Politiche di Sicurezza e Difesa, è possibile notare quanto siano ancora oggi importanti le forniture militari a paesi impegnati in conflitti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, principali attori della guerra in Yemen, oppure la Turchia, presente nel contesto siriano e in stato di continua tensione con il popolo Curdo. In 4 anni la Farnesina ha autorizzato l’esportazione per 890 milioni di euro di armamenti verso Ankara.
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La legge 185\1990 (normativa vigente sull’export di armi) è una delle più avanzate a livello internazionale e affida un ruolo centrale nel controllo di questo settore industriale al Ministero degli Affari Esteri. Questo stabilisce divieti di esportazione verso quei Paesi che si trovano in stato di conflitto armato o che sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani. E’ proprio sulla base di queste disposizioni che diverse organizzazioni hanno chiesto l’embargo totale dell’export verso la Turchia. Le operazioni di import-export sono estremamente complesse e pluriennali, e coinvolgono necessariamente gli istituti bancari. Per molti versi innovativa, la legge del ‘90 introduce l’obbligo di trasparenza bancaria in caso la banca decida di effettuare questo tipo di operazioni. La forza dell’Industria italiana non proviene esclusivamente dal commercio delle armi pesanti, come nella maggior parte degli altri paesi europei, ma anche da quelle leggere, delle quali siamo uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo. La legge è poco esaustiva nella classificazione dei divieti di esportazioni per questa tipologia di armamenti. E’ stato più volte dimostrato come il fine ultimo della destinazione di queste armi, la maggior parte semiautomatiche, non sia esclusivamente lo sport o la caccia; le centinaia di milioni di fatturato di Industrie come Beretta S.P.A. e i luoghi di destinazione dell’export (Arabia Saudita ad esempio), accompagnati dai numeri sull’utilizzo di armi leggere in paesi in situazioni di tensione armata, complicano la questione. Inoltre, per le banche rimangono esclusi dal monitoraggio della legge tutti i rapporti con i produttori di armi diversi da quelli per le operazioni di semplice import-export di armi: le linee di fido e altre operazioni creditizie, gli investimenti in obbligazioni, i possibili servizi di consulenza finanziaria. Molte banche dunque hanno ripudiato la nomenclatura di “Banche armate” e tuttavia mantengono scambi economici con le aziende del settore, ricavandone profitti. Banca Etica è il primo Istituto italiano che, nella valutazione integrata dei profitti proveniente dai finanziamenti, analizza il richiedente non solo sotto gli aspetti della sostenibilità economica ma anche di quella socio-ambientale. Anna Fasano, presidente di Banca Etica dallo scorso maggio, sostiene che “i principali criteri di finanziamento al commercio delle armi sono due: il finanziamento alle imprese tramite forme di credito e la promozione di investimenti finanziari in quelle stesse imprese. Le banche italiane sono altamente implicate e le acquisizioni e fusioni degli ultimi anni hanno complicato il quadro e allargato tale implicazione”.
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IL GRANDE TEMA DELLA RICONVERSIONE INDUSTRIALE Il cambiamento climatico alle porte e la prossima insostenibilità di molti settori industriali richiedono l’esplorazione di nuovi modelli per le economie delle società del futuro, partendo dalla consapevolezza dell’inadeguatezza di quelli passati. L’economia e la finanza hanno un ruolo chiave nella limitazione delle pratiche belliche e nella instaurazione di un nuovo ecosistema economico e sociale. Le strategie economiche devono salvaguardare i posti di lavoro, avviando processi che consentano alle imprese di inserirsi in settori di produzione a domanda più elevata rispetto a quelli in cui già operano e che sono destinati ad esaurirsi o ridursi drasticamente. Potranno farlo con l’introduzione di nuovi impianti o con la trasformazione di quelli esistenti: lo scopo è quello di produrre, in funzione di nuove esigenze di mercato, beni o servizi differenti rispetto a quelli precedentemente prodotti o erogati. Riconversione industriale non significa dunque ridurre i livelli occupazionali ma convertire i posti di lavoro, consentendo ai lavoratori delle industrie un percorso formativo in grado di innovare le proprie conoscenze e ristrutturare le dinamiche aziendali. Le banche hanno una funzione predominante nella creazione di questo nuovo ecosistema: la riconversione bancaria, accompagnata da una riduzione drastica dei finanziamenti alle industrie belliche o a quelle che comportano un notevole impatto ambientale, deve mirare a creare nuovi posti di lavoro e a cercare forme di profitto nei settori in via di sviluppo.
di Lorenzo Cirino
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