Una quarantina di anni dopo però un gruppo di artisti “made in USA”, quindi non esattamente comunisti, orienta la sua ricerca nella stessa direzione: forme geometriche semplici, riproducibili in serie, e monocromia, tutto pur di rimuovere la presenza dell’artista dall’opera, questa è la ricetta del minimalismo. È opinione diffusa nella storia dell’arte che a ispirare il minimalismo sia stato un movimento di una decina d’anni precedente, il Color field painting, di cui faceva parte anche un certo Barnett Newman, famoso per i suoi quadri Zip: dei monocromi divisi in due da una linea di colore diverso. Non vi racconto tutto questo per mero sadismo intellettuale, ma per rendere giustizia, o almeno provarci, alle prima due opere della mostra: monocromi argento attraversati, appunto, da bande verticali. Riproporre un’idea che ha più di mezzo secolo non sarebbe da Tubi e a una seconda occhiata ci accorgiamo infatti che c’è qualcosa di strano in queste “zip”: sono irregolari, in rilievo... ebbene sì sono peli, materiale organico dell’artista, che se esaminato potrebbe rivelarne la vera identità.
Con un semplice gesto il frutto di decenni di fatica di grandi artisti per eliminare l’autore dall’opera diventano “magicamente” l’autoritratto di un artista anonimo. Con i successivi due monocromi Tubi alza la posta e chiude il cerchio. Se i primi ricostruiscono infatti un autoritratto biologico, scientifico, questi restituiscono invece i suoi ricordi, le sue emozioni. Sfida tutt’altro che semplice, considerando che sono appunto monocromi, vinta con genio e raffinatezza dall’artista: i quadri marroni sono parti delle pellicce della madre e della nonna di Tubi, ma soprattutto, si possono toccare, diventando così simulacri di memoria tattile. La rappresentazione di un “vero” più vero del vero, ciò a cui l’arte dovrebbe sempre tendere, e a ricordarcelo è un artista con una falsa identità. E questa è solo la prima delle mostre, ma anche l’unica che vi racconterò, perché l’arte è fatta per essere vista. Prendete quindi queste come una sorta di istruzioni per l’uso, pur sapendo che Tubi le sconvolgerà ad ogni passo. Avete tempo fino al 15 febbraio, buona fortuna. di Luca Giordani
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Joker / Si può ancora fare la rivoluzione con un film? Cercare di offrire una nuova ed inedita chiave di lettura ad un film così visto e discusso come Joker di Todd Phillips - lo stesso regista della trilogia della Notte da leoni - appare come un’ardua impresa. In particolare dopo che ogni testata e ogni critico, dai social ai salotti tv, dai quotidiani alle sedi accademiche, insomma chiunque avesse a che fare con la settima arte si sia sentito in dovere di esprimersi in merito, in quei rari momenti in cui il dibattito attorno a un film travalica le sedi artistiche e finisce sulla bocca di tutti.
Forse però tornare a ragionare a freddo sulla pellicola a distanza di più di due mesi dal suo leone d’oro di Venezia, dopo che si sono calmate le acque, potrebbe offrire diversi spunti lontani da quell’infervorata partita che è continuata a lungo tra chi ha urlato al capolavoro e chi si è accanito sull’opera per partito preso. Innanzitutto al film va riconosciuto proprio questo: la capacità di aver riempito in maniera capillare le sale per oltre un mese, ma soprattutto per aver riacceso un dibattito troppo atrofizzato e relegato solo ai lavoratori del settore.
Cinema
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Scomodo
Dicembre 2019
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