edizione gialla a cura di
Gianluca Pasqual
Giancarlo Pontiggia Maria Cristina Grandi
Aurea dicta Storia e testi della letteratura latina
2
EDUCAZIONE CIVICA LABORATORI DIDATTICI
L’età di Augusto
MAPPE DI SINTESI
Il piacere di apprendere © Casa Editrice G. Principato
Gruppo Editoriale ELi
Coordinamento redazionale: Marco Mauri Progetto grafico: Enrica Bologni Impaginazione: Controlx Copertina: Enrica Bologni Referenze iconografiche: Archivio Principato, Gettyimages, Shutterstock In copertina: Mosaico da Pompei, Napoli, Museo Archeologico Nazionale Per le riproduzioni di testi e immagini appartenenti a terzi, inserite in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire, nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. L’impostazione e la struttura generale dell’opera sono il risultato di un’elaborazione comune. In particolare, a Giancarlo Pontiggia si devono i capitoli 1, 2, 3.5, 5.6, 6 e le Schede 3 e 5; a Maria Cristina Grandi i capitoli 3, 4, 5 nonché le Schede 1, 2, 4, 6 e il Glossario dei termini retorici e stilistici. Le nozioni di metrica e prosodia sono tratte dal volume di Francesco Schipani, Lezioni di metrica latina, Principato. L’opera è a cura di Gianluca Pasqual, a cui si devono in particolare le schede Educazione civica e Cultura e società. La prova di certificazione linguistica è a cura di Maria Belponer. Si ringrazia la prof.ssa Lucia Olini per la preziosa consulenza didattica.
Contenuti digitali Progettazione: Marco Mauri, Giovanna Moraglia Realizzazione: Alberto Vailati Canta, BSmart Labs AUREA DICTA EDIZIONE GIALLA Volume 2 ISBN 978-88-416-5129-2 Versione digitale ISBN 978-88-6706-505-9
Prima edizione: marzo 2022
Printed in Italy © 2022 - Proprietà letteraria riservata È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi (Centro licenze e autorizzazioni per le riproduzioni editoriali), corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail autorizzazioni@clearedi.org e sito web www.clearedi.org. L’editore fornisce – per il tramite dei testi scolastici da esso pubblicati e attraverso i relativi supporti o nel sito www.principato. it e www.gruppoeli.it – materiali e link a siti di terze parti esclusivamente per fini didattici o perché indicati e consigliati da altri siti istituzionali. Pertanto l’editore non è responsabile, neppure indirettamente, del contenuto e delle immagini riprodotte su tali siti in data successiva a quella della pubblicazione, dopo aver controllato la correttezza degli indirizzi web ai quali si rimanda.
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© Casa Editrice G. Principato
Aurea dicta
Exegi monumentum aere perennius
Aurea mediocritas brevitas Aequa mens Miscere utile dulci Fortuna dias in luminis oras L’ETÀ DI AUGUSTO
5. Ovidio
T 14 Il mito di Pigmalione
Carpe diem
Contenuti digitali integrativi
PERCORSO ANTOLOGICO
Est modus in rebus
LATINO
ITALIANO
Due scrittori cristiani (Clemente e Arnobio) ci informano che Filostefano di Cirene, un mitografo greco del III secolo a.C., aveva narrato in un ciclo di storie cipriote per noi perdute la vicenda di Pigmalione, il re di Cipro che si era innamorato della statua di Afrodite al punto da crederla una donna vera e da immaginare di potersi congiungere con essa. In Ovidio la vicenda viene trasformata: Pigmalione non è più un re ma un artista che si innamora della propria creazione, una bellissima statua che non raffigura la dea ma una donna mortale. Afrodite interviene solo nella conclusione della vicenda per esaudire il voto di Pigmalione, trasformando la scultura in un corpo vero. Con la vicenda, muta anche il tema centrale della favola, che non è più quello dell’amore ma quello dell’arte, di cui Ovidio spiega l’impulso originario (evadere da una realtà disgustosa: vv. 243-246) e il carattere ideale (la perfezione estetica, la purezza delle linee, che rendono la statua superiore per bellezza a ogni donna vivente: vv. 248-249). L’episodio è scandito in due tempi: il primo (vv. 250-269), soffuso di una luce ardente e malinconica, è quello della creazione e dell’illusione; il secondo (vv. 280-294) è il momento in cui l’illusione si fa realtà. Il passaggio da un tempo all’altro è reso possibile dall’intervento miracoloso di Venere (vv. 270279). L’episodio si conclude con un inserto eziologico (vv. 295297): il poeta indica infatti la «causa» per cui l’isola di Cipro viene anche detta Paphia e Pafo si chiama una delle sue città.
Nota metrica: esametri. 245
245
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PERCORSO ANTOLO GICO
Venere di Capua, II secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Quas quia Pygmalion aevum per crimen agentes viderat, offensus vitiis, quae plurima menti femineae natura dedit, sine coniuge caelebs vivebat, thalamique diu consorte carebat. Interea niveum mira feliciter arte sculpsit ebur, formamque dedit, qua femina nasci nulla potest, operisque sui concepit amorem.
Propetidi, le fanciulle di Amatunte che a causa della loro impudi-
L’aspetto è quello di fanciulla vera, e diresti che è viva, che potrebbe muov ersi, se non la frenas tanta è l’arte che se ritrosia: nell’ar te si cela. Pigmalione ne e in cuore brucia è incantato di passione per quel corpo simul Spesso passa la ato. mano sulla statua 255 se è carne per sentire o avorio, e non vuole amme La bacia e imma ttere che sia solo gina che lei lo baci, avorio. le parla, l’abbraccia, ha l’impression e che le dita affond ino nelle memb e teme che la pressi ra che tocca one lasci lividi sulla Ora la vezzeggia, carne. ora le porge doni 260 alle fanciu graditi lle: conchiglie, pietru zze levigate, piccoli uccelli, fiori di mille colori , gigli, biglie dipint e e lacrime d’amb ra stillate dall’albero delle Eliadi. Le addob ba poi il corpo le infila brillanti di vesti, alle dita e al collo 265 piccole monili preziosi; perle le pendono dalle orecchie e Tutto le sta bene, nastrini sul petto. ma nuda non appar L’adagia su tappe e meno bella. ti tinti con porpo ra di Sidone, 250
Avendole viste condurre vita dissoluta, Pigmalione, disgustato dei vizi illimitati che natura ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi, e senza una compagna che dividesse il suo letto a lungo rimase. Ma un giorno, con arte invidiabile scolpí nel bianco avorio una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna vivente è in grado di vantare; e s’innamorò dell’opera sua.
243. Quas: Ovidio ha appena terminato di narrare il mito delle
Virginis est verae facies, quam vivere credas et, si non obstet reverentia, velle moveri: ars adeo latet arte sua. Miratur, et haurit pectore Pygmalion simulati corporis ignes. Saepe manus operi temptantes admo 255 corpus, vet, an sit an illud ebur, nec adhuc ebur esse Oscula dat, reddiq fatetur. ue putat, loquit urque tenetque, et credit tactis digito s insidere memb ris et metuit, presso s veniat ne livor in artus. Et modo bland itias adhibet, modo 260 munera grata puellis fert illi conchas terete sque lapillos et parvas volucr es et flores mille colorum liliaque pictasque pilas et ab arbore lapsas Heliadum lacrim as. Ornat quoqu e vestibus artus, dat digitis gemm as, dat longa monil 265 aure leves ia collo; bacae, redimicula pectore pendent: cuncta decent; nec nuda minus formosa videtu Collocat hanc stratis r. concha Sidonide tinctis 250
Metamorphoses X, 243-297
cizia erano state trasformate in pietre.
392
263. Heliadum: figlie di Helios (il Sole) e della ninfa na Clíme ne, pianser oceanite del fratello Fetonteo la morsulle rive dell’Erídano (il Po), dove furono
mutate in pioppi; le loro lacrime si rappresero in gocce d’ambra. La trasformazione è narrata morphoses II, 340-366 in Meta. 267. concha Sidonid e: Sidone
era una delle maggio ri Fenicia, dove, secondo città della un’antica tradizione, era stato inventato il procedimento per ricavare la porpora da una conchig lia marina.
393
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3 © Casa Editrice G. Principato
INDICE
1 L’età di Augusto Lo scenario temporale
Dalle Idi di marzo alla morte di Augusto (44 a.C.-14 d.C.)
1 Ideologia e cultura nell’età di Augusto
13 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 Dalla repubblica al principato 14 Nomi e parole degli antichi Augustus/Auctoritas 16 «Da allora in poi fui superiore a tutti in autorità» (Res gestae Divi Augusti, 34-35) IT 17
T1
2 La restaurazione dei valori morali e il ritorno agli antichi culti 18 T2
Il Carmen Saeculare di Orazio 18 Invocazione a Lucina (Orazio, Carmen Saeculare 4-6) IT 19 fontivisive La rappresentazione della gens Iulia 21
3 Il «classicismo» augusteo e il nuovo sistema dei generi 22 4 L’organizzazione della cultura: il circolo di Mecenate 25
Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA Mecenate 25 fontivisive Un luogo d’incontro e di cultura 26 5 Altri circoli culturali: Asinio Pollione e Messalla Corvino 27 6 Poeti minori di età augustea 28 7 Gli studi eruditi: Igino e Verrio Flacco 29 8 Il declino dell’eloquenza 30 T3
Il giudizio di Cassio Severo sulle declamationes (Seneca Padre, Oratorum et rhetorum sentatentiae, divisiones, colores III,1)
IT
33
TESTI • Orazio, Carmen Saeculare (testo integrale)
LEGGERE UN TESTO CRITICO • P. Zanker, Il Carmen L’origine dello stile corinzio (Vitruvio, De architectura IV, 1, 8-10) IT 36 Saeculare di Orazio e il rilievo della dea Tellus Nomi e parole degli antichi Architectus 37 nell’Ara Pacis Augustae
9 Il De architectura di Vitruvio 34 T4
COMPITO DI REALTÀ Una guida turistica della Roma augustea Bibliografia essenziale 38 Sintesi 39
38
BIBLIOGRAFIA ESTESA
MAPPA
40
Verifica finale
41
4 © Casa Editrice G. Principato
2 Virgilio
42 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 La vita e le opere 42
sulloscaffale La morte di Virgilio 45 2 Le Bucoliche 46
fontivisive Un paesaggio idillico 47 Leggere un TESTO CRITICO La «scoperta» dell’Arcadia (B. Snell) 48
3 Le Georgiche 51
Traduzioni D’AUTORE Riti campestri: le feste di Cerere 55
4 L’Eneide 57 Le parole di Virgilio 57
5 Appendix Vergiliana 65
PERCORSO ANTOLOGICO
Educazione CIVICA I motti virgiliani sullo stemma degli Stati Uniti d’America 67 Virgilio nel tempo 68 COMPITO DI REALTÀ Il lavoro dei campi 70 Le opere di Virgilio 71 Le Bucoliche 71 Le Georgiche 72 L’Eneide 72 BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 75 Sintesi 76
T1 T2 T3
T4 T5 T6 T7
Addio alle scuole di retorica (Appendix Vergiliana, Catalepton V) LAT IT 78 ONLINE Titiro e Melibeo (Ecloga I) LAT IT 78 Dialogo con i MODELLI La chiusa dell’Ecloga I 85 Un canto di palingenesi (Ecloga IV) LAT 85 LETTURA METRICA Dialogo con i MODELLI L’età dell’oro in Esiodo e nell’Eneide 95 Le FIGURE del MITO Dei ed eroi nella IV Ecloga 97 IL TESTO attraverso I SECOLI L’interpretatio Christiana della IV Ecloga 98 Una gara di canto (Ecloga VII) LAT IT 99 ONLINE I lavori di notte (Georgiche I, 287-296) LAT IT 99 ONLINE I presagi delle guerre civili (Georgiche I, 463-514) IT 99 Letture PARALLELE Plutarco e Shakespeare: presagi della morte di Cesare 100 Le lodi d’Italia (Georgiche II, 136-176) LAT 101 Educazione CIVICA
Il paesaggio e la Nazione 104
Leggere un TESTO CRITICO Le Georgiche e l’ideologia del principato (A. La Penna) 104 T 8 Lodi della vita campestre (Georgiche II, 458-540) LAT IT 106 fontivisive Un rustico santuario 110 T 9 Il vecchio di Corico (Georgiche IV, 125-146) LAT IT 112 Leggere un TESTO CRITICO Un giardino simbolico (P. Grimal) 113 T 10 La società delle api (Georgiche IV, 149-227) LAT 115
LETTURA IT
Profetiche api 117 T 11 La favola di Aristeo (Georgiche IV, 315-484) LAT IT 117 ONLINE T 12 Orfeo e Euridice (Georgiche IV, 485-506) LAT 118 CULTURA e SOCIETÀ Non voltarti! 121 fontivisive Orfeo ed Euridice 121 Le FIGURE del MITO Il mito di Orfeo nella letteratura e nell’opera in musica 122 T 13 Il proemio dell’Eneide (I, 1-11) LAT 123 LETTURA METRICA Dialogo con i MODELLI Omero e Virgilio: i proemi 125 Educazione CIVICA
5 © Casa Editrice G. Principato
PERCORSO ANTOLOGICO
INDICE
1 L’età di Augusto
Materiali ONLINE T 14 Il canto di Iopas (Eneide I, 723-756) IT 125 T 15 La morte di Laocoonte (Eneide II, 199-227) LAT 127 Le FIGURE del MITO Laocoonte 130 T 16 Il sogno di Enea (Eneide II, 250-301) LAT IT 131 LETTURA IT Le FORME dell’ESPRESSIONE Come lavorava Virgilio: la tecnica di composizione 134 Dialogo con i MODELLI Un frammento dall’Alexander di Ennio 135 T 17 Didone innamorata (Eneide IV, 1-30) LAT 135 T 18 Didone ed Enea: un dialogo drammatico (Eneide IV, 296-392) IT 139 Dialogo con i MODELLI Miserere domus labentis: Ungaretti e Virgilio 143 T 19 La morte di Palinuro (Eneide V, 835-871) LAT IT 143 Letture PARALLELE Ungaretti, Recitativo di Palinuro 146 T 20 Il ramo d’oro (Eneide VI, 124-155) LAT 146 Le FIGURE del MITO Le Sibille e il ramo d’oro 148 Leggere un TESTO CRITICO Il ramo d’oro di Frazer: una lettura antropologica del mito 150 T 21 I Campi del Pianto: l’incontro con Didone (Eneide VI, 450-476) LAT 152 T 22 La rassegna degli eroi romani: Romolo e Augusto (Eneide VI, 777-807) LAT IT 155 Letture PARALLELE Dante e Virgilio 157 T 23 Risalendo le foci del Tevere (Eneide VIII, 86-101) LAT IT 158 ONLINE T 24 La passeggiata archeologica (Eneide VIII, 337-368) LAT IT 158 fontivisive Mito e storia: una continuità fatale 159 T 25 Lo scudo di Enea: gli Actia bella (Eneide VIII, 671-713) LAT IT 160 Leggere un TESTO CRITICO Il potere delle immagini: il sidus Iulium (P. Zanker) 163 fontivisive Il tempio del Divus Iulius 164 T 26 La morte di Lauso (Eneide X, 791-832) LAT IT 164 ONLINE T 27 La morte di Turno (Eneide XII, 887-952) IT 164 Letture PARALLELE T.S. Eliot: Virgilio «è il nostro classico, il classico di tutta Europa» 167 LABORATORIO
Heu, miserande puer (Aeneis VI, 867-886)
168
MAPPA
170
Verifica finale
171
6 © Casa Editrice G. Principato
3 Orazio
172 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 La vita e le opere 172 2 La poesia “eccessiva” degli Epodi 175
Il genere LETTERARIO Due titoli: Iambi ed Epodi 176 3 La scoperta di un tono medio: le Satire e il I libro delle Epistole 177
4 Le Odi 183
fontivisive Memento mori 185 fontivisive Il vino e il convito 186 5 Il libro II delle Epistole e l’Ars poetica 190
PERCORSO ANTOLOGICO
L’Epistula ad Pisones ovvero Ars poetica 191 Le fonti FILOSOFICHE Le origini aristoteliche del concetto di “classico” 191 Orazio nel tempo 192 COMPITO DI REALTÀ Un testo teatrale: scrittori e potere 194 BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 195 Sintesi 196 T1 T2 T3
Il sangue maledetto di Remo (Epodon liber 7) LAT IT 198 Per la vittoria di Azio (Epodon liber 9) LAT IT 199 ONLINE Un’invettiva contro Mevio che parte (Epodon liber 10) IT 200 Dialogo con i MODELLI Un frammento di Archiloco 201 T 4 Est modus in rebus (Sermones I, 1) LAT IT 201 ONLINE T 5 L’educazione paterna (Sermones I, 4, 103-143) LAT IT 202 T 6 Il seccatore (Sermones I, 9) IT 204 CULTURA e SOCIETÀ Tra fan e stalker 207 T 7 Il topo di città e il topo di campagna (Sermones II, 6, 79-117) IT 208 T 8 Il ritorno della primavera (Carmina I, 4) LAT 209 Nomi e parole degli antichi Regna vini 211 T 9 A una donna dai capelli fulvi (Carmina I, 5) LAT 213 Le FORME dell’ESPRESSIONE Simplex munditiis: una callida iunctura oraziana 214 T 10 Il monte Soratte (Carmina I, 9) LAT IT 217 LETTURA METRICA T 11 Carpe diem (Carmina I, 11) LAT 219 Nomi e parole degli antichi Nefas/fas 219 Nomi e parole degli antichi Aetas 220 Carpe diem: l’attimo e l’occasione 222 T 12 Invito a pranzo per Mecenate (Carmina I, 20) IT 223 T 13 Per la morte della regina Cleopatra (Carmina I, 37) LAT 224 Gli SCRITTORI e la STORIA Trasfigurazione epico-eroica dell’impresa aziaca 229 Leggere un TESTO CRITICO Ottaviano/Apollo contro Antonio/Dioniso (P. Zanker) 229 Educazione CIVICA
Damnatio memoriae e cancel culture 230 Convito simbolico (Carmina I, 38) LAT 231 LETTURA METRICA Aequa mens (Carmina II, 3) LAT IT 232 ONLINE Il luogo ideale (Carmina II, 6) LAT IT 233 Labuntur anni (Carmina II, 14) LAT IT 235 Leggere un TESTO CRITICO Il tempo e la morte in Orazio (A. Traina) 237 O fons Bandusiae (Carmina III, 13) LAT 238 Nomi e parole degli antichi Lascivus, suboles, canicula, atrox 238 Educazione CIVICA
T 14 T 15 T 16 T 17 T 18
7 © Casa Editrice G. Principato
PERCORSO ANTOLOGICO
INDICE
1 L’età di Augusto
Materiali ONLINE T 19 Non omnis moriar (Carmina III, 30) LAT 241 Nomi e parole degli antichi Monumentum, situs, Libitina 242 T 20 Pulvis et umbra sumus (Carmina IV, 7) LAT IT 245 LETTURA IT Dialogo con i MODELLI Pulvis et umbra: dai tragici greci a Catullo 246 Le FORME dell’ESPRESSIONE Misura classica e armonia compositiva nell’ode IV, 7 247 T 21 L’età di Augusto (Carmina IV, 15) LAT IT 248 ONLINE T 22 Ad Albio Tibullo: conforti per il poeta malinconico (Epistulae I, 4) LAT 248 Le FORME dell’ESPRESSIONE Collocatio verborum 249 Un giocoso autoritratto 250 T 23 Funestus veternus: una malattia dell’anima (Epistulae I, 8) LAT IT 251 Letture PARALLELE Inquietudine esistenziale e taedium vitae 252 CULTURA e SOCIETÀ Veternus, un antico male oscuro 253 T 24 Al suo libro (Epistulae I, 20) LAT IT 253 ONLINE LABORATORIO
Rectius vives, Licini (Carmina II, 10)
254
MAPPA
256
Verifica finale
257
8 © Casa Editrice G. Principato
4 L’elegia latina
258 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 L’elegia erotica latina 258
Il genere LETTERARIO L’elegia nella letteratura greca 260
Nomi e parole degli antichi Elegos, elegia 261
2 L’elegia perduta di Cornelio Gallo 263 3
DOCUMENTI E TESTIMONIANZE Tibullo e il Corpus Tibullianum 264 • Il canone dei poeti elegiaci (Properzio, Il libro III del Corpus Tibullianum 265 Ovidio, Quintiliano)
Le parole di Tibullo 267
4 Properzio 269 276
PERCORSO ANTOLOGICO
COMPITO DI REALTÀ Frammenti di discorsi amorosi Bibliografia essenziale 277 Sintesi 278
TIBULLO NEL TEMPO PROPERZIO NEL TEMPO BIBLIOGRAFIA ESTESA
Tibullo T1
La vita ideale (Elegiae I, 1) LAT IT 280 Nomi e parole degli antichi Rus, campus, ager 281 Leggere un TESTO CRITICO La scelta della vita rustica e l’ideale dell’autosufficienza (A. La Penna) 285 Sulle rive dell’Egeo (Elegiae I, 3) IT 287 Letture PARALLELE L’età dell’oro nel mondo antico 290 fontivisive Il culto di Iside 291 Il tradimento di Delia (Elegiae I, 5) LAT IT 292 Pax arva colat (Elegiae I, 10) LAT IT 296 ONLINE Per il compleanno di un amico (Elegiae II, 2) LAT 296 LETTURA METRICA fontivisive L’altare domestico dei Lari 299
T2
T3 T4 T5
Educazione CIVICA
Genius Natalis 299
Properzio T6
L’elegia proemiale (Elegiae I, 1)
LAT IT
300
Le FIGURE del MITO Atalanta 303 Dialogo con i MODELLI Un epigramma di Meleagro 304 T7
Cinzia dormiente (Elegiae I, 3)
IT
305
Dialogo con i MODELLI Albertine dormiente nella Recherche di Marcel Proust 308 T8 T9
Cinzia tra gli ozi di Baia (Elegiae I, 11) Non sum ego qui fueram (Elegiae I, 12)
LAT IT
309
LAT 311
L’more, passione e amicizia 314 Scribant de te alii (Elegiae II, 11) LAT 314 Dichiarazione di poetica (Elegiae II, 34) LAT IT 315 ONLINE L’elegia del discidium (Elegiae III, 25) LAT IT 315 LETTURA METRICA Un esempio di poesia eziologica: la leggenda di Tarpea (Elegiae IV, 4) IT 317 LETTURA IT Le FIGURE del MITO Luoghi e figure dell’antico nell’elegia IV, 4 di Properzio 321 T 14 Il fantasma di Cinzia (Elegiae IV, 7) IT 322 T 15 La laudatio funebris di Cornelia (Elegiae IV, 11) LAT IT 325 ONLINE fontivisive Perseo e Andromeda 325 Educazione CIVICA
T 10 T 11 T 12 T 13
LABORATORIO
Servitium amoris (Tibullo, Elegiae II, 4, 1-14)
326
MAPPA
328
Verifica finale
329
9 © Casa Editrice G. Principato
INDICE
1 L’età di Augusto
5 Ovidio
330 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 La vita e le opere 330
L’esilio a Tomi: duo crimina 332
2 Amores 333
3 Heroides 334
4 Le opere erotico-didascaliche 336
5 Le Metamorfosi 338 Il proemio (I, 1-4) 338 Dal discorso di Pitagora: «Tutto scorre» (XV, 176-185) 340 Poetica antimimetica delle Metamorfosi: illusionismo e finzione 342
6 La poesia eziologica romana: i Fasti 343
Nomi e parole degli antichi Fasti, calendarium, ephemeris, feriae 344
7 Le elegie dell’esilio 345
PERCORSO ANTOLOGICO
Ovidio nel tempo 347 DOCUMENTI Ovidio, Metamorfosi 350 E TESTIMONIANZE COMPITO DI REALTÀ Gli edifici del teatro antico 348 • Lo stile di Ovidio nel COMPITO DI REALTÀ Una nuova età ovidiana? 349 giudizio di Quintiliano BIBLIOGRAFIA ESTESA Bibliografia essenziale 351 Sintesi 352 T1 T2
Ritratto del poeta elegiaco (Amores I, 3) LAT IT 354 La donna del poeta elegiaco (Amores I, 5) IT 356 Dialogo con i MODELLI Un’elegia di Goethe 357
Sessualità e consenso, tra leggi e stereotipi 357 Militia amoris (Amores I, 9) LAT IT 358 ONLINE Il pubblico del poeta elegiaco (Amores II, 1) LAT IT 358 «Il catalogo è questo» (Amores II, 4) IT 361 Dialogo con i MODELLI Il catalogo di Leporello 363 T 6 Penelope scrive a Ulisse (Heroides 1) LAT IT 363 ONLINE T 7 Ero scrive a Leandro (Heroides 19) IT 364 Le FIGURE del MITO Ero e Leandro 368 T 8 Luoghi di caccia amorosa: il teatro (Ars amatoria I, 89-134) IT 369 I LUOGHI dell’ANTICO A teatro all’epoca di Ovidio 370 T 9 Luoghi di caccia amorosa: il circo (Ars amatoria I, 135-170) LAT IT 371 ONLINE T 10 «Al mio stile di vita questa è l’epoca adatta» (Ars amatoria III, 103-128) LAT IT 371 LETTURA IT Educazione CIVICA
T3 T4 T5
10 © Casa Editrice G. Principato
PERCORSO ANTOLOGICO
T 11 Apollo e Dafne (Metamorphoses I, 452-567) LAT IT 373 Leggere un TESTO CRITICO Il linguaggio della metamorfosi ovidiana: omologia e metafora (E. Pianezzola) 379 Dialogo con i MODELLI Dall’Adone di Marino: la metamorfosi di Dafne 381 T 12 La novella di Piramo e Tisbe (Metamorphoses IV, 55-166) LAT IT 381 T 13 Dedalo e Icaro (Metamorphoses VIII, 183-235) LAT 382 Le FIGURE del MITO Dedalo e Minosse 384 Letture PARALLELE Dedalus e Ulysses di James Joyce 386 fontivisive La caduta di Icaro 390 I luoghi del MITO Il volo di Dedalo e Icaro 390 Dialogo con i MODELLI Il mito di Icaro nell’Alcyone di D’Annunzio 391 T 14 Il mito di Pigmalione (Metamorphoses X, 243-297) LAT IT 392 Leggere un TESTO CRITICO Ovidio e la potenza illusionistica dell’arte (G. Rosati) 395
Materiali ONLINE
ONLINE
Educazione CIVICA Le metamorfosi di Pigmalione 397 T 15 L’apoteosi di Romolo (Fasti II, 475-512) IT 398 T 16 Crimina e carmina (Tristia II, 1-22) LAT IT 400 sulloscaffale Il mondo estremo di Cristoph Ransmayr 401 T 17 Lettera ai posteri: la mia vita (Tristia IV, 10) IT 402 Dialogo con i MODELLI «Non gemerò come Ovidio esiliato» 406 Educazione CIVICA
Barbarus hic ego sum 407
LABORATORIO
La vicenda di Licaone, uomo e lupo (Metamorphoses I, 216-241)
408
MAPPA
410
Verifica finale
411
6 Livio e la storiografia dell’età augustea
412 Materiali ONLINE
PROFILO STORICO
1 Storici e geografi greci a Roma nel I secolo a.C. 412 2 Le Historiae Philippicae di Pompeo Trogo 414 3 Tito Livio 415
Leggere un TESTO CRITICO Livio e il programma augusteo (M. Mazza) 417 Gli SCRITTORI e la STORIA Livio e gli storici greci 420 fontivisive Il mito di Marte e Rea Silvia 421
PERCORSO ANTOLOGICO
Antiquus animus 424 fontivisive La virtù romana secondo David 427 Livio nel tempo 428 Bibliografia essenziale 430 Sintesi 430 T1 T2 T3 T4 T5
Il proemio (Ab urbe condita, praefatio) LAT IT 432 La nascita dei gemelli Romolo e Remo (Ab urbe condita I, 4) LAT 435 La fondazione di Roma (Ab urbe condita I, 6-7) LAT 438 Le FORME dell’ESPRESSIONE Lo stile di Livio nella prima decade 439 Il ratto delle Sabine (Ab urbe condita I, 9) LAT IT 441 Il tradimento di Tarpeia (Ab urbe condita I, 11, 5-9) LAT 442
BIBLIOGRAFIA ESTESA
ONLINE
Tradimento 444 La riconciliazione fra Romani e Sabini (Ab urbe condita I, 13) LAT 444 Le FORME dell’ESPRESSIONE Uno stile patetico e drammatico 445 Educazione CIVICA
T6
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PERCORSO ANTOLOGICO
INDICE T7
T8
T9 T 10
T 11 T 12 T 13 T 14 T 15 T 16 T 17 T 18 T 19 T 20
1 L’età di Augusto
Materiali ONLINE Morte e apoteosi di Romolo (Ab urbe condita I, 16) LAT IT 446 Gli SCRITTORI e la STORIA La morte di Romolo nella versione di Dionigi di Alicarnasso 448 Il regno di Numa (Ab urbe condita I, 19, 1-5; I, 21) IT 449 Le FIGURE del MITO Ianus, Egeria, Camenae 450 fontivisive La ninfa Egeria piange la morte di Numa 451 Dialogo con i MODELLI Romolo e Numa nei Discorsi di Machiavelli 451 Lucrezia: una matrona esemplare (Ab urbe condita I, 57-58) IT 452 Un exemplum di fierezza romana: Muzio Scevola (Ab urbe condita II, 12, 9-16) LAT 455 Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA Porsenna, re di Chiusi 456 La vergine Clelia (Ab urbe condita II, 13) LAT IT 458 ONLINE Esempi salutari per il genere umano: Camillo e il maestro di Faleri (Ab urbe condita V, 27) IT 458 Il saccheggio di Roma (Ab urbe condita V, 39-41) IT 460 ONLINE Le oche del Campidoglio (Ab urbe condita V, 47, 1-6) LAT IT 460 «Guai ai vinti!» (Ab urbe condita V, 48, 5-9) LAT 462 Giunge Camillo (Ab urbe condita V, 49, 1-7) LAT IT 464 Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA L’ultima impresa di Camillo 465 La storiografia ipotetica: se Alessandro avesse mosso guerra a Roma (Ab urbe condita IX, 18, 8-19; 19, 12-17) IT 467 Introduzione alla terza decade (Ab urbe condita XXI, 1-3, 1) LAT IT 469 ONLINE Ritratto di Annibale (Ab urbe condita XXI, 4) LAT 469 Le FIGURE e gli EVENTI della STORIA Annibale 471 La traversata delle Alpi (Ab urbe condita XXI, 35, 4-37) IT 473
La storia come narrazione e tradizione 476 T 21 Polibio e Livio: due storici a confronto (Ab urbe condita [a] XXVIII, 26, 13-15; 27, 1; [b] XXXIII, 33, 5-7) IT 477 Confronti INTERTESTUALI Polibio, Storie (XI, 27, 7-28, 1) 478 Confronti INTERTESTUALI Polibio, Storie (XVIII, 46, 11-15) 478 Educazione CIVICA
LABORATORIO
Un episodio di fratricidio: l’uccisione di Orazia (Ab urbe condita I, 26, 2-5)
479
MAPPA
481
Verifica finale
482
Prova di certificazione linguistica LIVELLO B1 Nozioni di metrica e prosodia latina Glossario dei termini retorici e stilistici Indice dei nomi Indice delle traduzioni Referenze iconografiche
483 488 498 508 510 512
SchedeONLINE 1 La traduzione nel mondo latino 2 La dottrina epicurea 3 Libri, lettori e biblioteche nel mondo antico
4 Retorica e oratoria nel mondo antico 5 La storiografia greca 6 La satura
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3 Orazio 1 La vita e le opere Le fonti Di tutti i poeti dell’antichità, Orazio è forse il più prodigo di notizie autobiografiche. Non pochi episodi (come quello dello scudo abbandonato durante la fuga di Filippi) sono evidentemente modellati su ben noti topoi letterari; altri sembrano esser stati sapientemente disposti in modo da tracciare una sorta di percorso biografico ideale: ma è pur vero che nessun altro poeta antico ci parla così tanto e così piacevolmente di sé e della propria vita privata come fa Orazio nelle sue opere, e in particolare in quelle non liriche (Satire ed Epistole), che vanno dunque a costituire la fonte più autorevole della sua biografia. Accanto alle notizie fornite dal poeta stesso, importante appare anche la Vita Horati, composta agli inizi del II secolo d.C. da Svetonio. Origini modeste Quinto Orazio Flacco nasce l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, una colonia romana al confine tra Puglia e Lucania. La famiglia è di umili origini: il padre, un liberto che ha raggiunto una condizione discretamente agiata, vuole che il figlio sia educato a Roma presso i migliori maestri. Orazio ne tratteggerà un ritratto affettuoso nella quarta satira del I libro [ T5]. 172 © Casa Editrice G. Principato
Al suo libro, impaziente di uscire 20
25
Ma quando il sole, mite, radunerà intorno a te molti ascoltatori, racconterai come io, nato da padre liberto e di modeste condizioni, abbia spiegato le ali assai grandi rispetto al nido, così che ciò che toglierai ai meriti della mia origine, tanti ne aggiungerai ai miei; e racconterai anche come in guerra e in pace io riuscii gradito ai grandi e fui piccolo di persona, precocemente canuto, adatto a stare al sole; e pronto all’ira, ma anche facile ad essere placato. (Epistole I, 20, 19-25)
Exegi monumentum aere perennius
Aurea mediocritas Aequa mens Carpe diem Miscere utile dulci Est modus in rebus L’episodio di Filippi Intorno al 45-44 Orazio si reca ad Atene, centro degli studi filosofici e culmine tradizionale dell’iter scolastico, allo scopo di perfezionare la propria cultura: qui studia filosofia all’Accademia, legge i poeti greci, s’infiamma alle idee di libertà. E quando viene a sapere che Bruto e Cassio stanno organizzando un esercito per difendere la res publica minacciata dalla tirannide, si arruola, giungendo fino all’alto grado di tribuno militare. Nel 42, a Filippi, si consuma la disfatta: dopo due giorni di aspri combattimenti, l’esercito dei cesaricidi sbanda; Cassio e Bruto si uccidono; Orazio, come la maggior parte dei soldati sconfitti, fugge abbandonando le armi. L’episodio sarà rievocato anni più tardi nell’epistola II, 2 e nell’ode II, 7. L’esordio poetico Intorno al 41-40, in seguito a un’amnistia, può tornare a Roma: la proprietà paterna di Venosa è stata confiscata, il padre è morto, la carriera civile ormai preclusa; Orazio lavora come scriba quaestorius, una specie di contabile alle dipendenze dei questori. Ma è proprio in questo periodo che si rafforza la sua vocazione letteraria. Molti anni più tardi, ormai divenuto celebre, confesserà che era stata la povertà a dargli l’audacia di far versi: paupertas impulit audax / ut versus facerem (Epistole II, 2, 51-52). 173 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
L’amicizia con Virgilio e l’incontro con Mecenate Conosce Vario e Virgilio, forse frequentando i circoli epicurei di Napoli e di Ercolano; ed è grazie ad essi che nel 38 viene presentato a Mecenate. Tra Orazio e l’illustre protettore nasce una grande amicizia, che verrà interrotta solo dalla morte. Nel 37 Orazio fece parte, con Virgilio e Vario, del seguito di Mecenate, impegnato per conto di Ottaviano in una delicata missione diplomatica a Brindisi. Del viaggio è testimonianza una delle più brillanti satire oraziane (I, 5), il cosiddetto Iter Brundisinum, composto sul modello dell’Iter Siculum di Lucilio. Al riparo dal mondo Negli anni successivi vive tra Roma e la villa sabina (donatagli intorno al 33 da Mecenate) difendendo gelosamente la propria indipendenza di uomo e di poeta. La ricerca di un angulus appartato e la conquista dell’equilibrio interiore costituiscono gli obiettivi ideali della vita come di tutta la poesia oraziana. Gli ultimi anni trascorrono senza importanti avvenimenti esterni. Dopo la morte di Virgilio, Orazio è ormai il poeta più rappresentativo della sua età: a lui viene affidata, nel 17 a.C., la composizione del solenne Carmen Saeculare. La vecchiaia e la morte Muore il 27 novembre dell’8 a.C., appena due mesi dopo Mecenate, undici anni dopo Virgilio, gli amici più cari. Fu sepolto, come recita la Vita svetoniana, accanto alla tomba di Mecenate, ai limiti estremi dell’Esquilino. Disturbi fisici e depressioni nervose lo avevano precocemente invecchiato. Il corpus delle opere Integralmente ci è giunto il corpus delle opere oraziane, non vastissimo ma eccezionale per varietà, intensità e altezza di risultati. Esso comprende: un libro di Epodi, due libri di Satire, quattro libri di Odi, il Carmen Saeculare, due libri di Epistole; l’Epistula ad Pisones o Ars poetica. Cronologia delle opere di Orazio Opera
Libri
Epoca di composizione
Anno di pubblicazione
Genere
Epodi
1 libro
dopo il 42-41 a.C.
30 a.C.
Poesia giambica
Satire
2 libri
dopo il 42 a.C.
35 a.C. (libro I)
Satira
30 a.C. (libro II) Odi
4 libri
dopo il 30 a.C. (libri I-III)
23 a.C.
dopo il 17 a.C. (libro IV)
14-13 a.C.
Carmen Saeculare
-
17 a.C.
Epistole
2 libri
dopo il 23 a.C. (libro I)
20 a.C.
19-13 a.C. (libro II)
postumo
dopo il 20 a.C.
-
Ars poetica
Guida allo studio
-
1.
Ricorda gli eventi più significativi della vita di Orazio, prima e dopo Filippi. 2. Paupertas impulit audax / ut versus facerem: a che cosa allude Orazio in questi versi?
Poesia lirica
Inno religioso Epistole in versi
Epistola in versi
3. Elenca i titoli, il genere poetico e l’epoca di composizione delle opere oraziane.
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PROFILO STORICO
2 La poesia “eccessiva” degli Epodi Gli anni della composizione Il libro, pubblicato nel 30 e dedicato a Mecenate, comprende 17 componimenti. La composizione degli Epòdi ha inizio intorno al 42-41 (gli anni inquieti di Filippi e delle proscrizioni) e si conclude dopo la battaglia di Azio (quando Orazio è ormai integrato nell’ambiente culturale augusteo). Discende di qui la diseguaglianza di toni e di ispirazione del libro, evidente soprattutto nei carmi di tema civile, scritti il 7 [ T1] e il 16 a ridosso dell’esperienza di Filippi, il 9 [ T2 ONLINE] appena dopo Azio. Orazio e Archiloco Orazio, in un’epistola scritta intorno al 20, affermerà orgogliosamente di aver introdotto per primo nel Lazio parios iambos, cioè i giambi di Archiloco di Paros (poeta greco del VII secolo a.C.). Archiloco aveva dato origine a una poesia animata da una forte carica polemica, irta di invettive e di attacchi ad personam, di sentimenti violenti ed eccessivi espressi con un linguaggio realistico e potente, non privo di elementi osceni e triviali. Nel dichiarare il suo modello, Orazio pone tuttavia una limitazione: di Archiloco aveva voluto infatti imitare solo numeros animosque («i ritmi e lo spirito aggressivo»), non le res («gli argomenti»), che invece appartenevano interamente al mondo romano e al dominio della sua esperienza personale, ed escludevano in sostanza gli attacchi ad personam. In un altro passo (Odi I, 16, 22-25), sempre ricordando l’esperienza giovanile degli Epodi, Orazio metteva in evidenza l’aspetto più caratterizzante dei suoi primi versi, il fervor dell’ispirazione, il ribollire delle passioni e dei risentimenti che lo avevano spinto verso i modi della poesia giambica, avvertita come la più consona ad esprimere il disagio morale ed esistenziale di quegli anni: me quoque pectoris/ temptavit in dulci iuventa/ fervor et in celeres iambos/ misit furentem («me pure tentò, nella dolce giovinezza, il ribollire dell’animo e mi sospinse furente verso i giambi veloci»). Un’ispirazione prevalentemente letteraria In realtà l’ispirazione archilochea agisce più come suggestione letteraria che non come autentica forza di sovversione polemica; ed è naturale, considerato che Archiloco era un aristocratico del VII secolo coinvolto nelle tumultuose vicende politiche e civili di una polis, mentre Orazio era un letterato di umili origini inserito in un grande sistema statale che si avviava, proprio in quegli anni, a cancellare le ultime resistenze repubblicane e libertarie. Gli attacchi di Archiloco sono sempre ad personam, astiosi e feroci; quelli di Orazio, tranne il caso dell’epodo 10 [ T3], sono diretti a figure fittizie o anonime (ad esempio un usuraio, un liberto arricchito, una maga, una donna troppo vogliosa). Archiloco è ispirato dall’attualità; Orazio dal desiderio di gareggiare su un piano meramente letterario con i propri modelli. Orazio e la poesia giambica di Callimaco Proprio l’ispirazione prevalentemente letteraria di questi epodi tradisce il profondo legame con la poesia giambica ellenistica, e in particolare con i Giambi di Callimaco, a cui Orazio allude non solo nel titolo (Iambi) ma anche nel numero dei componimenti raccolti (diciassette). Accentuando l’aspetto della varietà, Callimaco aveva fuso nel suo libro motivi eziologici, politici e favolistici. Anche la raccolta oraziana rispecchia, nei contenuti e nelle scelte formali, il canone alessandrino della poikilía o variatio. I diciassette componimenti di Orazio comprendono infatti: 175 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
•
PROFILO STORICO
una poesia dedicatoria in forma di propempticon («carme di accompagnamento»), indirizzata a Mecenate in partenza verso Azio (1); due • «scherzi» (2, 3), uno dei quali rivolto ancora a Mecenate, che lo ha costretto a mangiare una cena a base di aglio; invettive (4, 8, 10 [ T3], 12); • una poesia programmatica sul genere giambico (6); • • poesie di contenuto politico e civile (7 [ T1], 9 [ T2 ONLINE], 16); • poesie di argomento erotico (11, 14, 15); • un carme simposiaco (13); • poesie di argomento magico (5, 17). Di derivazione callimachea è anche l’alternanza dei registri stilistici e dei toni, così come il ricorso alla tecnica dell’allusione. Le poesie di contenuto politico e civile Svettano, fra i diciassette componimenti, gli epodi 7 [ T1] e 16, entrambi di contenuto politico, nei quali prevale un profondo pessimismo sui destini di Roma. Utilizzando il linguaggio profetico e ammonitorio degli antichi vati, Orazio denuncia nell’epodo 7 la colpa originaria di Roma (il fratricidio, da cui deriverebbero le guerre civili), mentre nell’epodo 16 profetizza la caduta di Roma per opera dei barbari, che la distruggeranno col fuoco e la calpesteranno con i loro cavalli. Nell’epodo 16 la soluzione di fronte alle guerre civili e alla violenza politica è di natura mitico-simbolica: il poeta esorta ad abbandonare il suolo maledetto di Roma e a rivolgere le vele verso le favolose isole Beate, miracoloso residuo dell’antica età dell’oro (e prefigurazione mitica di uno dei più caratteristici motivi oraziani, quello dell’angulus al riparo dal mondo). A questi epodi, i più antichi, precedenti l’incontro con Mecenate e Ottaviano, si contrappone l’epodo 9 [ T2 ONLINE], composto appena dopo Azio: l’angoscia per i destini della patria si scioglie qui nel nome di Ottaviano e nella promessa di un convito allietato dal vino. Collocandosi tra Filippi e Azio, gli Epodi finiscono dunque per rappresentare il passaggio dall’angoscia della catastrofe all’ottimismo liberatorio della salvezza offerta da Ottaviano; il modello giambico archilocheo, originariamente legato al circuito della polis (e strumento espressivo di un appassionato, irriducibile individualismo), si pone così al servizio del principato e dei rivolgimenti istituzionali in atto.
Il genere LETTERARIO Due titoli: Iambi ed Epodi Il titolo scelto da Orazio (come risulta da Odi I, 16, 3 e da Epistole I, 19, 23) doveva essere quasi certamente Iambi, termine che indicava sia determinate forme metriche (iambus è il piede composto da una sillaba breve e da una sillaba lunga) sia il genere letterario reso illustre in Grecia da Archiloco e da Ipponatte: una poesia di tono aggressivo e realistico, nella quale predominavano i sentimenti dell’ira e della rabies. Ma già i grammatici antichi, sottolineando un altro
aspetto metrico dell’opera di Orazio, chiamarono il libro Epodi. Letteralmente epodòs («canto che viene dopo», «canto aggiunto») indica semplicemente il verso più corto di un distico, che fa da eco al precedente. In seguito i grammatici del tardo impero finirono per designare con «epodo», per estensione, l’intero distico costituito appunto da un verso più lungo e da un altro più breve modellato sul precedente. In distici epodici (per lo più un trimetro giambico seguito da un dimetro giambico) sono composti sedici dei diciassette componimenti del libro di Orazio.
176 © Casa Editrice G. Principato
PROFILO STORICO
Lo stile Il modello giambico pretendeva naturalmente un linguaggio eccessivo ed enfaticamente teso, esuberante nell’uso delle immagini e delle figure retoriche. Può sembrare curioso che Orazio, destinato a incarnare storicamente un ideale di poesia composta ed equilibrata, esordisca come poeta dell’eccesso e dell’invettiva. Non mancano tuttavia, anche nel libro degli Epodi, momenti più misurati, e Orazio sembra piuttosto orientato a sperimentare diverse forme di linguaggio e di stile, dai termini più ricercati a quelli più crudi, dal registro enfatico ed elevato a zone tendenzialmente colloquiali, non tralasciando di ricorrere talvolta ai livelli più bassi del parlato.
Guida allo studio
1.
Illustra sinteticamente contenuti e stile degli Epodi. 2. Indica i due principali modelli greci di Orazio negli Epodi, precisando gli aspetti che il poeta latino ha imitato e gli apporti oraziani nuovi e originali.
3. La composizione degli Epodi abbraccia un decennio di eventi cruciali e di svolte decisive per la storia di Roma, che suscitano profonde risonanze all’interno del libro. In quali componimenti si avvertono più distintamente?
3 La scoperta di un tono medio: le Satire e il I libro delle Epistole Le Satire Parallelamente alla poesia degli Epodi, Orazio coltiva negli stessi anni un altro genere poetico, la satura, sorta in Roma con Ennio e codificata alla fine del secolo precedente da Lucilio (SCHEDA 6 «La satura» ONLINE ). Il I libro delle satire (dieci in tutto) venne pubblicato nel 35; il II (comprendente otto componimenti) nel 30; tutti i componimenti sono in esametri. Nei manoscritti a noi pervenuti le satire di Orazio vengono designate con il termine Sermones (da sermo, «conversazione alla buona», già impiegato da Lucilio). Orazio, per parte sua, si riferisce ad esse sia con il termine satura (Satire II, 1, 1; II, 6, 17) che con quello di sermo (Epistole I, 4, 1; II, 2, 60). Satura rimanda strettamente al genere letterario affrontato; sermo definisce l’ideale stilistico e umano del poeta. Entrambi i libri sono dedicati a Mecenate. Orazio e Lucilio Tre satire (I, 4, 1-13; I, 10; II, 1) richiamano esplicitamente il nome di Lucilio, al quale Orazio riconosce il primato nell’invenzione satirica e un indiscutibile magistero. Di Lucilio Orazio apprezza la componente autobiografica, l’osservazione dei costumi e la piacevolezza della narrazione; rifiuta invece lo spirito aggressivo (in particolare gli attacchi ad personam) e lo stile, che al suo gusto appare sciatto. La tesi di Orazio è che Lucilio, nel fondare il genere satirico, si sia ispirato alla commedia attica antica (di cui Eupoli, Cratino e Aristofane erano stati i maggiori rappresentanti). Riconosce dunque nell’aggressività uno degli aspetti primari del codice satirico, ma evita di assumere apertamente il ruolo di pubblico censore, convogliando il suo spirito critico in forme più attenuate e bonarie. In Lucilio, che scrive negli anni della libera repubblica, prevale la volontà di incidere 177 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
sulla vita civile contemporanea, di colpire direttamente i viziosi e i corrotti del ceto dirigente romano; in Orazio prevale l’approfondimento morale: «invece di attaccare le persone nei loro vizi, Orazio attacca i vizi – deformazioni, eccessi, cecità, stolto affannarsi – nelle persone» (Labate). PROFILO STORICO
Due tipologie Le satire di Orazio possono essere suddivise in due tipologie diverse: satire di carattere narrativo e rappresentativo (centrate sul racconto di un episodio o di un avvenimento) e satire di carattere discorsivo e diatribico (centrate sul momento riflessivo e argomentativo, spesso sviluppato attraverso dialoghi, discussioni, aneddoti esemplari). Nelle satire del primo tipo prevalgono gli aspetti autobiografici e descrittivi; nelle satire del secondo tipo quelli filosofici. Pragmatismo morale A che cosa mira il poeta? Quali sono i suoi scopi? Sviluppare un discorso di carattere morale capace di condurre l’uomo sulla via della saggezza e della felicità. Due i concetti-cardine sui quali deve orientarsi la ricerca: l’autárkeia («l’autosufficienza interiore») e la metriótes («il giusto mezzo», la «moderazione»). La virtù non consiste negli atteggiamenti eroici e grandiosi, sostiene ripetutamente il poeta, ma nell’evitare ogni eccesso: est modus in rebus, sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere rectum («c’è nelle cose una misura, ci sono insomma confini precisi, al di qua o al di là dei quali non può esserci giusto»), come viene detto in I, 1, 106-107 [ T4 ONLINE]. L’uomo è felice quando sa appagarsi di ciò che ha, senza pretendere altro dal proprio destino; l’infelicità è frutto dell’ignoranza, quando gli uomini non conoscono ciò che è giusto e non sono capaci di vivere in pace con se stessi. Eclettismo filosofico Benché nutrito di filosofia greca, Orazio non segue un preciso indirizzo dottrinale. Va osservato che i princìpi basilari cui aderisce erano da tempo bagaglio comune di tutte le scuole ellenistiche, complice anche l’eclettismo della cultura romana contemporanea. Il concetto di metriótes, ad esempio, elaborato nell’ambito della scuola peripatetica, era ormai patrimonio inalienabile dell’intera cultura greco-romana. L’epicureismo è sicuramente la dottrina a cui il poeta si sente più vicino, per il rilievo che questa scuola aveva dato ai temi della «vita nascosta» e dell’amicizia (philía); soprattutto, forse, per la lucidità priva di illusioni di una morale “laica”. Ma sarebbe improprio definire epicuree le Satire: manca ad Orazio l’ardore proselitistico e la tensione scientifica che avevano animato gli scolari dei Giardini e lo stesso Lucrezio. L’autosufficienza del saggio era anche il principio-cardine della filosofia stoica, di cui tuttavia è proprio Orazio a condannare con forza il rigorismo etico. È lo stesso Orazio, in un passo delle Epistole (II, 2, 60), a richiamarsi ai Bionei sermones, cioè alla tradizione della diàtriba ellenistica di ispirazione stoico-cinica, una forma di letteratura filosofica divulgativa nella quale due secoli prima si era acquistato fama Bione di Borìstene: ma il contatto con la tradizione diatribica non va oltre alcune affinità di genere (la commistione di serio e di comico, il ricorso alla tecnica dialogica, l’uso di materiali popolari e folclorici); manca totalmente, invece, lo spirito aspro e polemico, rude e denigratorio, delle dispute ciniche di cui la diatriba si era da sempre alimentata. Orazio tiene piuttosto a sottolineare il suo debito verso le semplici massime paterne [ T5], che ammoniscono ad esercitare con buon senso l’onestà, la parsimonia, il dominio di sé, in sostanziale accordo con i fondamenti della morale 178 © Casa Editrice G. Principato
PROFILO STORICO
italico-romana: lungi dagli eccessi della tradizione stoico-cinica o del radicalismo epicureo, la sua riflessione etica nasce dall’esperienza di vita e dall’osservazione della realtà, richiamandosi volentieri a una saggezza atavica ed empirica, fatta di precetti ragionevolmente applicabili e universalmente accettabili. La persona del poeta satirico Che cosa dà unità a questo piccolo mondo fatto di racconti, aneddoti, osservazioni, moralità? La figura del poeta satirico, che entra in scena in quasi tutte le satire senza pretendere di assumere un ruolo esemplare: Orazio non è un eroe, semmai un antieroe consapevole dei propri difetti e delle proprie debolezze, un uomo che cerca se stesso confrontandosi con la realtà della natura umana e del mondo sociale. Ironia ed autoironia sono dunque una componente essenziale di questa poesia: Orazio è disposto a prendersi amenamente in giro e a divertire i suoi lettori, come nella satira 9 del primo libro [ T6], scegliendo i toni scherzosi e un parlare alla buona. Il suo obiettivo è espresso con semplicità nella satira proemiale del I libro [ T4 ONLINE ]: «per quanto, che cosa vieta di dire la verità ridendo, come maestri amorevoli che danno pasticcini ai fanciulli, per invogliarli a imparare l’abbiccì?». Il destinatario A chi sono indirizzate le satire? Figlio della cultura alessandrina, Orazio non ha l’ambizione di rivolgersi a un vasto pubblico: «non darti pena perché t’ammiri la folla, contentati di pochi lettori» (I, 10, 73-74). Questi pauci lectores si identificano con la piccola cerchia degli amici e dei poeti: Orazio destina il frutto della propria ricerca poetica e morale in primo luogo a se stesso e poi a coloro ai quali si sente legato (secondo un’istanza che è essenzialmente epicurea) da un’affinità umana e intellettuale.
Il primo libro delle Satire Satira
Argomento
1
Est modus in rebus: esempi dell’incontentabilità umana.
2
Etica sessuale: è sconsigliabile ogni eccesso, fonte di turbamento.
3
Le colpe non sono tutte eguali, come pretendono gli stoici: invito all’indulgenza e alla tolleranza.
4
Difesa della poesia satirica, sull’esempio della commedia attica antica e di Lucilio.
5
Iter Brundisinum: vivace cronaca di un viaggio da Roma a Brindisi (37 a.C.) in compagnia di Mecenate e di Virgilio.
6
Libertino patre natus: rievoca le proprie umili origini, l’ingresso nella cerchia di Mecenate e gli insegnamenti morali ricevuti dal padre.
7
Un diverbio farsesco e spettacolare tra due litiganti dinanzi a Bruto, allora (43-42 a.C.) governatore dell’Asia, con stoccata finale al cesaricida.
8
Il dio Priàpo racconta una scena notturna di stregoneria, con finale grottesco.
9
Ibam forte via Sacra: la celebre satira “del seccatore”.
10
Nuova difesa della poesia satirica: pregi e difetti di Lucilio; indispensabile il labor limae; non bisogna curarsi dell’assenso del volgo, ma scrivere per pochi amici.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
Il libro II delle Satire A cinque anni di distanza dal I libro appare il II, che presenta elementi di continuità rispetto al precedente, ma anche sensibili differenze sul piano tonale e strutturale. Prevale intanto (sei satire su otto) la forma dialogica, mentre si riduce decisamente lo spazio riservato alla voce del poeta (sovrastata da quelle, dissonanti, dei vari interlocutori), e di conseguenza il momento autobiografico (limitato sostanzialmente alla satira 6). Al libro viene così a mancare il centro unificante costituito dalla persona del poeta satirico: il filo del discorso morale sembra smarrirsi nella pluralità delle voci e delle opinioni. È stato detto a questo proposito che rinunciando al suo ruolo di protagonista, Orazio mostra di aver perso la fiducia nella funzione della satira, nella possibilità cioè di tracciare empiricamente una linea di condotta morale a partire dall’osservazione della multiforme e contraddittoria realtà sociale contemporanea. Il poeta, che intorno al 33 ha ricevuto da Mecenate il graditissimo dono della villa sabina, sembra ora preferire l’isolamento campestre all’ambiente cittadino. La satira 6 è infatti un elogio della vita rustica, suggellato esemplarmente dall’elegante favola del topo di città e del topo di campagna [ T7]. Ma lo stesso Orazio nella satira 7 offre al lettore, per bocca del servo Davo, un autoritratto al negativo che sembra smentire d’un colpo la possibilità di una vita serena ed equilibrata: Orazio viene dipinto dal servo come un uomo collerico e inquieto, incapace di resistere alle seduzioni di banchetti sontuosi o di pericolose avventure d’amore. Orazio non si era mai vestito dei panni del moralista esemplare; ma qui sull’autoironia sembra prevalere l’amara scoperta che ogni uomo è in balìa di forze incontrollabili, e che nessuna saggezza risulta veramente praticabile.
Il secondo libro delle Satire Satira
Argomento
1
I pericoli che corre il poeta satirico non distolgono Orazio dalla propria vocazione poetica, ancora una volta sull’esempio di Lucilio.
2
Ofello, un contadino di Venosa, tesse l’elogio della frugalità, biasimando il lusso eccessivo delle mense cittadine.
3
Lunga diceria di Damasippo, il quale sostiene che tutti gli uomini, tranne il sapiens stoico, sono pazzi: Orazio gli risponde ironizzando sulla sua presunzione e sul suo eccessivo rigorismo.
4
Cazio, amico del poeta, espone minuziosamente le regole dell’arte culinaria, in una spiritosa parodia dei precetti dei filosofi.
5
Denuncia amaramente ironica dell’avidità umana, mediante una giunta parodistica alla nékya omerica: il fantasma di Tiresia istruisce Ulisse sui mezzi per recuperare i beni dilapidati dai Proci; il più sicuro è quello di farsi cacciatore di eredità.
6
Hoc erat in votis: avuta in dono la villa sabina, Orazio è al colmo dei suoi desideri; lontano dall’agitazione cittadina, potrà godere di una vita tranquilla e di semplici gioie. Nella chiusa, la favola esemplare del topo di campagna e del topo di città.
7
Un autoritratto al negativo: il servo Davo, approfittando della libertà di parola concessa durante i Saturnali, rimprovera il padrone accusandolo di incoerenza e di inquieta volubilità.
8
Cena Nasidieni: racconto del lussuoso e pretenzioso banchetto offerto a Mecenate dal ricco e volgare Nasidieno, concluso dal rovinoso crollo del baldacchino che sovrastava le mense.
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PROFILO STORICO
Lo stile Si è detto come Orazio riconosca in Lucilio l’inventor del genere, rimproverandogli tuttavia lo stile fangoso (lutulentus) e sovrabbondante. Adeguandosi ai dettami delle poetiche alessandrine, la satura oraziana acquista una misura e un rigore formale sconosciuti a quella luciliana. Raffinatezza ellenistica, naturalezza colloquiale e tono medio sono i caratteri di questa poesia che si avvicina alla prosa pur conservando le movenze eleganti del verso. «Satira nitida ed elegante è un ossimoro: la satira oraziana realizza appunto questo ossimoro nel senso che riesce a conciliare la dimensione “satirica” dell’(apparente) informalità e casualità, del senso vivo della quotidianità, con un rigoroso e raffinato esercizio di stile» (Citroni). Ritorno al sermo Fra il 30 e il 23 a.C. Orazio si dedica integralmente alla poesia lirica. Solo dopo tale data ritorna all’ispirazione giovanile dei sermones con un libro di epistole, dedicato a Mecenate, che viene pubblicato nel 20. Non c’è dubbio che le Epistole (titolo non oraziano) ripropongano il progetto di una poesia di tono medio e di carattere morale che era stato delle Satire: lo testimoniano l’uso dello stesso metro (l’esametro), l’affinità dei temi affrontati e soprattutto la definizione di sermones che Orazio stesso estende alle nuove composizioni (II, 1, 250). Ciò che tuttavia le distingue dalle satire è la forma utilizzata dal poeta: l’epistola in versi, di cui finora si erano avuti soltanto sporadici esempi in lingua latina. Varietà delle epistole Come nelle Satire, i temi delle singole lettere sono molto vari: un bigliettino di raccomandazione (I, 9), un invito a pranzo (I, 5), uno sfogo sulla propria condizione esistenziale (I, 11), una polemica letteraria a difesa della propria poesia (I, 19), richieste di consigli per un soggiorno al mare (I, 15), avvertenze su come comportarsi con i potenti (I, 17 e I, 18), lodi della vita campestre (I, 10 e I, 14), e naturalmente riflessioni di argomento filosofico e morale (ad esempio I, 6). L’ultima lettera (I, 20 [ T24 ONLINE ]), rivolta al proprio stesso libro, chiude la raccolta con il tradizionale commiato; la prima, indirizzata a Mecenate, svolge invece la funzione di proemio, spiegando le ragioni che hanno spinto il poeta a intraprendere la composizione della nuova opera. La forma epistolare L’uso della forma epistolare condiziona indubbiamente la sostanza e i toni del discorso che Orazio svolge, contribuendo in misura determinante, come si è detto, a differenziare il libro delle epistole da quelli delle satire. Il tono è più intimo: si infittiscono i momenti di riflessione e di sentenziosità morale, mentre spariscono quasi completamente non solo gli aspetti propriamente “satirici” e aggressivi ma anche quelli mimici e drammatici, così come quelli comici. I vivaci interlocutori delle Satire si trasformano ora in destinatari assenti e silenziosi, e la voce del poeta può espandersi in modo uniforme in tutte e venti le lettere. I momenti autobiografici e introspettivi acquistano più spazio e più rilievo. La ricerca della verità e della saggezza La lettera a Mecenate che dà inizio alla raccolta registra con acutezza il nuovo stato d’animo del poeta, che a poco più di quarant’anni si sente ormai vecchio e ritiene sia giunto il momento di dedicarsi integralmente alla ricerca di ciò che è vero e di ciò che è bene, al fine di conseguire la serenità e l’equilibrio interiore. Non a caso questa prima epistola è stata da vari studiosi accostata, per la forma e il tono del discorso, a un protrepticon, cioè un trattatello di esortazione alla filosofia. 181 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
Affresco con paesaggio idillico da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
PROFILO STORICO
3. Orazio
Neppure ora, tuttavia, Orazio intende affidarsi in modo esclusivo a uno specifico indirizzo dottrinale, e lo dichiara immediatamente (I, 1, 13-15): «Non mi domandare chi è il maestro, sotto quale tetto mi sono rifugiato: non mi impegnai a giurare per un credo, e così mi ritrovo, ovunque il tempo mi porti, un ospite» (hospes temporaneo, e non affiliato permanente di una setta filosofica). La ricerca oraziana della saggezza, personale ed empirica, continua così ad ancorarsi ai princìpi già enunciati nelle opere precedenti (autárkeia, virtù come giusto mezzo, autonomia intellettuale, equilibrio dello spirito). Elogio della campagna La satira si era sviluppata fin dall’età di Lucilio come un genere profondamente legato all’osservazione dei costumi e ai ritmi della vita urbana; nelle Epistole oraziane lo scenario privilegiato è invece quello agreste della villa sabina. Il motivo del contrasto città/campagna si era già annunciato con forza nella satira sesta del II libro [ T7], ma ora assume un nuovo e decisivo rilievo: «la vita rustica con le sue gioie realizza l’ideale etico comune allo stoicismo, specialmente a quello influenzato dai cinici, ed all’epicureismo, la vita secondo natura» (La Penna). Inquietudine e malinconia Il proposito oraziano di cambiare vita è destinato tuttavia a scontrarsi con l’essenza profonda di uno spirito malinconico e inquieto. Tre epistole in particolare toccano questo tema. Nella prima, indirizzata a Tibullo (I, 4 [ T22]), Orazio offre all’amico i conforti della saggezza epicurea (vv. 11-14, una variazione sul motivo del carpe diem), cercando di distoglierlo da un morboso stato di prostrazione interiore. Nelle altre due (I, 8 [ T23] e I, 11) Orazio stesso si confessa vittima di un funesto torpore, una sorta di spleen o di insoddisfazione che lo costringe a peregrinare perpetuamente da un luogo all’altro alla ricerca di un ubi consistam che in realtà non è possibile trovare fuori di sé.
Guida allo studio
1.
Sermones è il (probabile) titolo delle Satire di Orazio: che cosa significa letteralmente il termine sermo? Chi lo aveva già usato prima di Orazio per definire la propria poesia? 2. Confronta la poesia satirica di Orazio con quella di Lucilio, mettendo in evidenza gli elementi di continuità e i motivi di contrasto fra i due poeti. In particolare, esponi e commenta le critiche rivolte da Orazio alla poesia di Lucilio. 3. I libri delle Satire di Orazio sono due: ricordi quando vengono pubblicati? Quali mutamenti si registrano nel secondo libro rispetto al precedente?
4. Indica il protagonista, i temi principali e il destinatario delle Satire. 5. Le satire oraziane possono essere suddivise in due tipologie diverse: indica quali e descrivile. 6. Illustra i principi filosofici su cui si fonda tutta la poesia oraziana: a quali scuole di pensiero si richiamano? Qual è, in generale, il rapporto fra il poeta latino e le dottrine filosofiche del mondo ellenico? 7. Definisci lo stile dei Sermones oraziani. 8. Anche le Epistole rientrano nell’ambito dei sermones: che cosa distingue dunque il primo libro delle Epistole dai due precedenti libri delle Satire?
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PROFILO STORICO
4 Le Odi Quattro libri Orazio si dedica alla composizione delle Odi (Carmina in latino) dopo il 30 a.C.: nel 23 pubblica i primi tre libri; verso il 14-13 il IV; ad essi si deve aggiungere il Carmen Saeculare, che gli fu commissionato per i ludi Saeculares del 17 a.C. Una struttura architettonica Le liriche sono organizzate in modo da creare un’architettura ricca di simmetrie e di rispondenze: le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi importanti (Mecenate, Augusto, Pollione) o dedicate a questioni di poetica (ad esempio III, 30 [ T19]); la prima ode del I libro e l’ultima del III (che ha funzione di commiato) sono composte sul medesimo metro (l’asclepiadeo minore, che non ritorna in nessun’altra composizione dei primi tre libri) così da rendere ancor più significativa la loro collocazione. La struttura si fonda sulla norma ellenistica della variatio, attuata sia sul piano metrico-formale sia su quello dei contenuti. Le prime nove odi del I libro, ad esempio, utilizzano nove metri differenti. Carmi di carattere privato vengono sapientemente alternati ad altri di carattere civile; a uno stile alto segue uno stile più tenue e leggero. In un tale contesto, diventa ancora più rilevante e significativa la presenza di sequenze monotematiche: le prime sei odi del III libro, ad esempio (le cosiddette «odi romane»), affrontano temi civili e nazionali. Modelli lirici Come già negli Epodi, ellenistica è l’organizzazione strutturale e la raffinatezza compositiva dell’opera; orientata verso il mondo classico è invece la scelta dei modelli: negli Epodi Archiloco; nelle Odi Alceo e Pindaro (ma non mancano spunti da Saffo, da Simonide, da Bacchilide e soprattutto da Anacreonte). Alceo e Pindaro non rappresentano solo due diversi modi della lirica classica (monodica e corale) ma anche i due poli della lirica oraziana: Alceo per i carmi di materia e di stile tenue; Pindaro per quelli di tono e di contenuto più alto. Alceo Di Alceo (a cui si fa riferimento in numerose odi, a cominciare da I, 1 e III, 30 [ T19]) Orazio apprezza la molteplicità dei temi e dell’ispirazione (dalla poe sia civile agli inni religiosi alla poesia erotica). Restano, naturalmente, profonde le differenze fra i due poeti: Alceo era un aristocratico che aveva partecipato impetuosamente alla vita politica della sua città, mentre Orazio si limita su questo fronte a svolgere motivi di carattere celebrativo, restando ai margini degli eventi pubblici; i versi di Alceo nascevano da precise occasioni sociali (simposii, festività religiose) ed erano destinati a un’esecuzione orale per un uditorio circoscritto e ben definito, mentre la poesia di Orazio è il frutto di una civiltà cosmopolita fondata sulla scrittura e sulla circolazione del libro. Pindaro Più complesso il rapporto con Pindaro, che Orazio considera inimitabile per la potenza fantastica ed espressiva delle sue liriche: in IV, 2, ad esempio, al fiume smisurato e ribollente della poesia pindarica Orazio oppone i propri operosa carmina, composizioni costruite secondo un principio di laboriosità artigianale. Orazio si rifà al modello pindarico soprattutto nei momenti più alti e solenni della sua poesia: in I, 37 [ T13], ad esempio, nelle «odi romane» del libro III o in numerose composizioni del libro IV (si veda a questo proposito [ T21 ONLINE]), dove fa uso di uno stile grave e sublime, di metafore grandiose, di passaggi bruschi e potenti, di una sintassi ampia e in continua espansione che tende a straripare 183 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
dai confini della strofe metrica, diversamente dai moduli più semplici e misurati della poesia di stile tenue (di cui può costituire un esempio significativo l’ode di congedo dal I libro [ T14]). PROFILO STORICO
Orazio poeta-vates Pindaro rappresenta, agli occhi di Orazio, un esempio di vates, di poeta sacro ispirato da forze superiori, guida spirituale di una comunità: da lui deriva anche, non a caso, il tema dell’immortalità della poesia, sul quale si conclude la raccolta dei primi tre libri delle Odi [ T19]. È anche questo un segno del profondo mutamento di indirizzo artistico e culturale intervenuto nell’età di Augusto: Orazio, come Virgilio, è un poeta di formazione alessandrina e neoterica che si orienta verso tematiche di maggior respiro e di più alto impegno civile rispetto alla poetica ellenistica del lusus e del divertissement erudito. Alla poesia, in assenza di speranze ultraterrene, viene dunque affidato l’altissimo compito di vincere il tempo e la morte, di esprimere una forza salvifica, simboleggiando l’armonia e l’ordine universale delle cose. Rapporto con i modelli Un modello, per i poeti latini, non rappresentava uno schema vincolante da seguire in maniera passiva, ma un orizzonte, una stella polare che definiva un orientamento, senza per questo limitare la libertà compositiva dell’autore. Il rapporto di Orazio con i modelli classici ed ellenistici si sviluppa attraverso i tradizionali procedimenti allusivi diffusi in Roma dall’esperienza della poesia alessandrina e neoterica: l’imitazione si traduce allora in emulazione, in una sfida al modello preesistente, che non viene occultato bensì esibito, proprio perché il lettore sia messo in grado di verificare la novità e l’originalità delle soluzioni adottate. Giorgio Pasquali ha indicato nel «motto» uno dei procedimenti più caratteristici di Orazio lirico: alludere vistosamente nei primi versi di un carme a un componimento greco, per poi distaccarsene immediatamente prendendo una strada diversa. I versi del poeta greco funzionano come un motto, una «formula elegante» (Pasquali) che dichiara aperta la gara con il modello. Si vedano a questo proposito gli esempi di I, 9 [ T10] e di I, 37 [ T13], dove il motto, in entrambi i casi, corrisponde a una “citazione” da Alceo. Varietà di temi e motivi Le Odi, in tutto 103, svolgono temi e motivi molto vari. La preminenza che possiamo accordare agli uni piuttosto che agli altri dipende almeno in parte dal nostro gusto di lettori moderni, portati a privilegiare la poesia di ispirazione privata e autobiografica su quella di ispirazione pubblica e civile (le odi romane, le celebrazioni di Augusto, i carmi di soggetto religioso-sacrale). Gli interessi filosofici, già presenti nella produzione epodica e soprattutto in quella satirica, continuano a prevalere nella poesia delle Odi. Non mutano gli orientamenti: la ricerca dell’autosufficienza interiore (autárkeia) e della tranquillitas animi, perseguibili solo attraverso la pratica della moderazione (modus). Aurea mediocritas (II, 10, 5) chiama il poeta, con fulminante sintesi poetica, tale regola di vita: mediocritas traduce il termine greco metriótes («il giusto mezzo», dunque la moderazione); ma l’aggettivo aurea conferisce al concetto uno splendore sconosciuto al discorso filosofico. Destinata storicamente a ugual fortuna è l’espressione aequa mens (II, 3, 1-2 [ T15 ONLINE]), che designa l’animo imperturbato (aequus, cioè che non muta, che resta sempre uguale a se stesso) nella sventura come nella prosperità. L’affinità con il mondo delle satire è tuttavia solo di ordine contenutistico; cambiano invece il tono e il codice espressivo: nelle Odi «non si argomenta, 184 © Casa Editrice G. Principato
PROFILO STORICO
non si dimostra nulla, ma si enunciano in uno stile immaginoso auree sentenze di vita» (La Penna). Sentimento del tempo e carpe diem Aequus animus, equilibrio, modus definiscono un ideale di saggezza che il poeta sente tuttavia costantemente insidiato: il disagio esistenziale, il sentimento del tempo, il pensiero della morte costituiscono dunque l’altro polo, il più malinconico e struggente, della lirica oraziana. Dum loquimur, fugerit invida / aetas (I, 11, 7-8 [ T11]), leggiamo in uno dei carmi più noti. Molti prima di Orazio avevano parlato del tempo che passa e della brevità della vita umana, ma in Orazio c’è qualcosa di più: la temporalità rappresenta la condizione essenziale dell’uomo; la coscienza del tempo che fluisce e inesorabilmente si perde, il senso della finitudine segnano ogni gesto umano, anche il più piacevole. Non a caso gli aggettivi brevis e fugax, i verbi rapere, fugere e labi restano tra le occorrenze più memorabili delle Odi; sul tema della morte, della fugacità della vita e sul sentimento del tempo sono composti i carmi più intensi e profondi di tutta la poesia classica [ T16; T17; T20]. Ma proprio la coscienza del limite e la fuga del tempo determinano l’esigenza di cogliere l’attimo che fugge: carpe diem (I, 11, 8 [ T11]), espressione che ha goduto anch’essa di grande fama nei secoli, fino quasi a determinare un motivo poetico a sé stante all’interno del sistema letterario occidentale. Carpere è la risposta a rapere: se il tempo fugge e rapisce la nostra vita, all’uomo non resta che «strappare» la felicità effimera che gli è volta per volta concessa. Il motivo del carpe diem è dunque figlio dell’angoscia temporale e del pensiero della fine, con il quale costituisce un unico nodo poetico e tematico. Sottrarsi al sentimento ansioso del tempo significa salvarsi dal domani, scacciare il pensiero del futuro, un monito che il poeta ripete spesso con accenti vigorosamente sentenziosi (oltre a I, 11 [ T11], cfr. in particolare I, 9, vv. 13-15 [ T10]).
fonti
visive
Memento mori La morte, simboleggiata da teschi o scheletri, è un soggetto spesso usato per suppellettili di uso conviviale, come invito a godere, per contrasto, delle gioie della vita. Originariamente il mosaico era collocato sul piano di un tavolo tricliniare estivo, allestito nel portico di una casa pompeiana con annessa una bottega di conceria. Una squadra triangolare dalla quale pende un filo a piombo (una livella nel gergo comune) si trova collocata sopra il teschio, a indicare che la morte eguaglia il destino dei potenti (ai quali alludono la porpora e lo scettro regale raffigurati sulla sinistra) e degli umili (simboleggiati dal mantello da viaggio con bisaccia e bastone sulla destra). Sotto il teschio, in equilibrio sulla ruota della Fortuna, una farfalla, simbolo dell’anima immortale.
Allegoria della morte, mosaico proveniente dall’Officina Coriariorum in Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
Angulus e paesaggi La ricerca di una vita felice richiede un luogo protetto, un «giardino» privato dove sottrarsi alle burrasche della vita, un angulus appartato [ T16] che ha spesso i tratti di un rustico paesaggio italico. Molte delle liriche oraziane disegnano uno sfondo naturale di forte suggestione, nel quale un elemento del paesaggio assume valore simbolico, diviene il correlativo oggettivo di uno stato interiore: il ruscello e gli alberi ombrosi di II, 3 [ T15 ONLINE ], rappresentazione di un luogo ideale; le rose di I, 38 [ T14], immagine della stagione che declina; le tempeste che affaticano il mar Tirreno in I, 11 [ T11] o l’inverno gelato dell’ode a Taliarco (I, 9 [ T10]), segni di una natura ostile compensati dalle grazie del fuoco, del vino o dell’amore; la primavera fiorita di IV, 7 [ T20], presagio per contrasto della morte che tutti attende. Il paesaggio prediletto corrisponde alla tipologia del locus amoenus ellenistico: come ha scritto Giorgio Pasquali, nel paesaggio Orazio «ricerca non maestà né sublimità ma amoenitas. E conforme a questa disposizione del suo spirito egli rappresenta quasi sempre paesaggi idillici, bucolici». Gli esempi più noti, a questo proposito, restano la campagna estiva del Fons Bandusiae [ T18] o i dolci colli tarentini evocati in II, 6 [ T16]. Il convito, il vino, l’amicizia L’angulus-rifugio del poeta è il luogo deputato alle gioie del convito, momento reale e insieme simbolico in cui sembrano raccogliersi e trovare un centro tutti i principali motivi della lirica oraziana [ T10; T12; T15 ONLINE ]. Il convito è allietato dal vino che scaccia gli affanni, fonte di vitalità e di calore, e dall’amicizia ospitale. Siamo di fronte a una situazione topica, ricca di echi letterari, che derivano dalla poesia lirica greca (da Alceo in
fonti
visive
Il vino e il convito L’anfora, databile al secondo quarto del I secolo d.C., è alta poco più di 30 cm; fu ritrovata nel primo Ottocento all’interno di un edificio sepolcrale di Pompei. Era destinata, in origine, al consumo del vino durante il convito. Al centro della scena, fra tralci di vite, è visibile un letto su cui siedono un amorino intento a suonare la lira e un altro amorino semisdraiato con un calice nella mano sinistra. Due amorini vendemmianti, in piedi su alti podii, raccolgono grappoli d’uva. Vasi come questi, ispirati al motivo dionisiaco della vendemmia, e realizzati con tecnica raffinata, erano ben noti e diffusi nell’ambiente augusteo.
Anfora in vetro-cammeo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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PROFILO STORICO
particolare). Presso i Greci il convito (o simposio) costituiva un momento rituale strettamente collegato ai temi del canto e della bellezza; nel vino si esprimeva il senso di folgorante ebbrezza dell’ispirazione poetica, ma anche la gioia, pura ed elementare, della vita. Orazio ricrea questi motivi, non più legati a concrete occasioni sociali e divenuti ormai esclusivamente letterari, connettendoli in profondità alla propria visione del mondo e della vita; ne fa gli emblemi e lo scenario privilegiato di una meditazione esistenziale che presuppone l’influsso delle filosofie ellenistiche e soprattutto dell’epicureismo (si vedano, per il confronto con i modelli, [ T10 e T12]). Motivo epicureo (e oraziano) per eccellenza è la philía, l’amicizia. Non è casuale che nella maggior parte delle Odi ricorra la forma dialogica (o meglio allocutiva): il poeta si rivolge quasi sempre a qualcuno (un amico, una donna; ma talora un personaggio autorevole, una divinità, un oggetto simbolico), creando un’atmosfera raccolta di intimità e di confidenza, propizia a una situazione comunicativa che tende a risolversi nella gnome (o espressione sentenziosa). L’eros Benché numerosi e di alto livello artistico, i carmina erotici restano in fondo marginali nei quattro libri delle Odi. Orazio non canta la passione ardente e tormentosa di Catullo e dei poeti elegiaci contemporanei: nei suoi carmi l’amore si configura quasi sempre come un’esperienza piacevole, razionalmente controllata (come prescriveva la dottrina di Epicuro), un gioco eccitante e leggero sovente risolto in elementi decorativi se non addirittura in forme di elegante parodia. La distanza da un Tibullo o da un Properzio è già tutta nella folla dei nomi femminili che costellano i vari libri: manca la puella unica, sostituita da una folta schiera di liberte e di etere dalle richieste non impegnative. Situazioni ed episodi non vanno a comporre una “storia”, ma si esauriscono nel breve, nitido giro di versi del singolo componimento. Fissate per un attimo in un profilo, in un gesto leggiadro, le donne oraziane restano nella memoria come immagini fuggevoli, lievemente enigmatiche, di grazia e di armonia. Religiosità e offerte agli dèi Non pochi sono i carmi di argomento religioso, soprattutto inni e preghiere agli dèi: Mercurio (I, 10); Apollo e Diana (I, 21 e I, 31); Venere (I, 30); Fauno (III, 18); Dioniso (II, 19 e III, 25); Nettuno (III, 28). Qui il poeta delle Odi deve misurarsi con uno dei filoni più cospicui della tradizione lirica greca, assumendone le convenzioni e gli schemi compositivi, seppure con grande libertà creativa. In sé il tema non doveva essere particolarmente sentito da Orazio, educato al razionalismo e agli atteggiamenti scettici delle filosofie ellenistiche. Valore prevalentemente simbolico e letterario hanno dunque i frequenti riferimenti al mito e in particolare alle divinità infere (si leggano in particolare II, 14, 5-20 [ T17] e IV, 7, 14-28 [ T20]): spesso i nomi degli dèi valgono semplicemente a designare le forze incontrollabili della natura [ T10]. Non è facile dire se sia dato cogliere, almeno a tratti, la presenza di una religiosità autentica e più profonda in questo raffinatissimo poeta dell’ambiguità: forse un avvertimento del divino essere cosmico della natura, una sorta di animismo caratteristico del paganesimo arcaico, è sotteso all’evocazione dei rustici culti delle origini, come nell’ode al fons Bandusiae [ T18]. Ma certo, e soprattutto, il senso del sacro appare connesso nelle Odi oraziane all’ispirazione poetica e alla sublimità del canto lirico. 187 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
L’immortalità del canto Va osservato infatti che il continuo richiamo agli dèi e alla loro protezione rientrava pienamente nel progetto di una poesia di intonazione sacrale e di ispirazione sublime. Definendosi Musarum sacerdos (III, 1, 3) e legando il proprio nome all’immagine del pontefice che sale al Campidoglio cum tacita virgine (III, 30, 7-9 [ T19]), Orazio accettava l’originaria visione giuridico-sacrale di Roma: la città abitata dagli dèi e dagli uomini, stretti in un patto perpetuo di prosperità e di potenza. Per tradizione, il nome vates (un vocabolo arcaico appartenente alla sfera del sacro, ben distinto dal grecizzante poeta) presupponeva un’investitura divina e dunque un’ispirazione alta: l’affermazione dell’immortalità della poesia (motivo di derivazione pindarica) conclude i primi tre libri delle Odi e si realizza pienamente nei versi luminosi e monumentali del Carmen Saeculare. Il ciclo delle odi romane Il tema religioso si legava dunque a quello civile e agli argomenti centrali della propaganda augustea: ritorno alle antiche virtù degli avi, elogio del princeps e della sua attività pubblica, esaltazione della potenza romana e del suo ruolo nel mondo. Fra le odi di carattere civile spiccano le prime sei odi del III libro, comunemente designate come «odi romane». Il poeta le ha raggruppate intenzionalmente «per una certa affinità tematica e per il comune spirito etico, civile, religioso, patriottico di cui sono pervase, oltre che per l’identità del metro» (Cremona). C’è stato anche chi ha ipotizzato una pubblicazione inizialmente autonoma (intorno al 27-25 a.C.) dei sei carmina. Siamo in ogni caso a cavallo degli anni cruciali del mutamento istituzionale, tra il 29 (quando Ottaviano torna vincitore da Oriente) e il 25 (quando è ormai stato acclamato Augustus). Ritorna, in tutti i sei componimenti, il tema della grandezza romana: l’esaltazione della virtus, della iustitia, della clementia, della pietas e degli antichi mores, motivi della propaganda augustea ma anche oggetto di una riflessione etico-politica a cui nessun intellettuale dell’epoca poteva sottrarsi. Orazio e Augusto Nel IV libro delle Odi si accentua l’interesse per i temi civili e romani. La lirica d’esordio si presenta come un ambiguo congedo dalla poesia d’amore: evidentemente Orazio intende conferire maggior peso al proprio ruolo di poeta nazionale, cantore e vate del popolo romano. Nel carme conclusivo [ T21 ONLINE ] esalta la figura di Augusto e la felicità della nuova era di pace e di prosperità, un tema che era già stato affrontato nel maestoso e severo Carmen Saeculare. Lingua e stile Educato sui testi della cultura neoterica e alessandrina, Orazio si mantiene sempre fedele al precetto del labor limae: accuratezza formale, gusto delle rispondenze e delle simmetrie interne al testo e al libro, scelta del vocabolo più appropriato. Ma contemporaneamente si volge a un gusto più sobrio e misurato dell’espressione. Non a caso è la sua poesia a restare nei secoli l’esempio più citato di poesia classica, modello di ogni rinnovato classicismo. Orazio privilegia i valori visivi su quelli fonici: fa scarso uso delle figure di suono (fra cui l’allitterazione), mentre punta sull’immagine intensa, sulla forza incisiva e splendente del vocabolo, capace di incidersi per sempre nella memoria dei lettori: di qui il fascino delle sue sentenze poetiche, che parafrasate e ridotte al puro aspetto concettuale non aggiungerebbero nulla al tradizionale repertorio della filosofia antica. 188 © Casa Editrice G. Principato
PROFILO STORICO
Il vocabolario delle Odi è semplice ed essenziale. L’attenzione maggiore è indirizzata alla collocazione delle parole, e cioè a quella tecnica che il poeta stesso, nell’Ars poetica (vv. 47 sgg.), chiama callida iunctura: risemantizzare un vocabolo di uso comune creando nuove combinazioni espressive. Il disegno sintattico è generalmente limpido e composto, lontano da ogni complicazione strutturale; e anche quando sperimenta moduli di maggiore complessità, il poeta sa sempre evitare il rischio dell’espressione involuta ed oscura. L’ideale stilistico oraziano sembra corrispondere perfettamente ai motivi fondamentali della sua ricerca etica: equilibrio, moderazione, armonia interiore. Varietà stilistica È naturalmente uno stile più elevato di quello degli Epodi e delle Satire, e che abbraccia un’ampia varietà di registri: stile tenuis per i carmi d’amore; più sostenuto e grave per i carmi di intonazione sentenziosa; alto, fino a toccare il sublime, per i carmi di argomento civile e romano (in particolare le odi celebrative del IV libro). Ma diverse tonalità stilistiche possono coesistere all’interno di una stessa lirica, o proporsi per contrasto in due componimenti contigui (come accade al termine del I libro [ T13; T14]). Il ricorso allo stile eccelso di derivazione pindarica è comunque limitato a rare occasioni. La forma lirica cui Orazio aspira rifugge tendenzialmente dagli estremi: «complessivamente, si può definire lo stile lirico di Orazio come medio-alto: appunto, lo stile di un poeta del modus insidiato da tentazioni pindariche» (Traina). Concisione ed essenzialità, cura estrema nella disposizione delle parole, perfetta aderenza tra suono immagine e concetto costituiscono il segreto della lirica oraziana. Se ne accorse il filosofo Fiedrich Nietzsche, a cui l’ode oraziana appariva come un «mosaico di parole dove ciascuna parola, come suono come posizione come concetto, versa la sua forza a destra e a sinistra e sopra tutto il complesso, questo minimum di spazio con cui si raggiunge il maximum di energia».
Guida allo studio
1. 2. 3. 4.
5. 6.
Quanti sono i libri delle Odi? Quando furono composti e pubblicati? Che tipo di relazione istituiscono i Carmina oraziani con i modelli della poesia lirica greca? Chiarisci i concetti di aurea mediocritas e di aequa mens. Vino e convito avevano costituito uno dei nuclei ispiratori fondamentali della lirica greca: come vengono rielaborati tali motivi da Orazio? Individua le differenze più vistose rispetto ai modelli. Quale posto occupano le figure femminili e l’amore nella lirica di Orazio? Illustra il motivo dell’angulus e la rappresentazione del paesaggio nelle liriche oraziane.
7. Qual è l’atteggiamento di Orazio nei confronti del tema religioso? Quale valore e quale significato dobbiamo attribuire ai numerosi riferimenti al mito e alle divinità che si incontrano nelle Odi? 8. Quali sono i temi e gli argomenti delle «odi romane»? In quale altro componimento Orazio celebra la potenza e le virtù dello Stato romano? 9. In quale misura si può parlare di un’adesione oraziana al progetto politico e culturale di Ottaviano Augusto? 10. Illustra i caratteri linguistici e stilistici più significativi delle Odi, indicando le differenze salienti rispetto allo stile dei Sermones.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
5 Il libro II delle Epistole e l’Ars poetica PROFILO STORICO
Temi letterari Alla poesia esametrica e alla forma epistolare Orazio ritorna ancora, dopo la pubblicazione del I libro delle Epistole (20 a.C.), con tre ampi e impegnativi componimenti di argomento letterario. In quest’ultimo gruppo di epistole l’autore prende posizione su alcune questioni dibattute in quegli anni nell’ambiente culturale augusteo, e in particolare sull’auspicata rinascita del teatro latino. Augusto e Mecenate, come si sa, avevano affidato alla letteratura il compito di ricreare un’identità nazionale e di offrire un prezioso sostegno ai nuovi modelli istituzionali. Ma al princeps doveva stare a cuore soprattutto un rilancio della produzione drammatica, che appariva idonea alla diffusione e al consolidamento del programma ideologico del principato presso un vasto pubblico. Epistola ad Augusto (II, 1) Sul tema del teatro latino e sulla disputa fra antichi e moderni è impostata la prima epistola del II libro, indirizzata proprio ad Augusto. E qui Orazio manifesta tutta la sua indipendenza di giudizio: non soltanto, contro l’opinione dei più, si pronuncia a favore dei contemporanei (considerati più colti e raffinati), sottoponendo a durissime critiche gli antichi poeti romani (che giudica rozzi nelle scelte linguistiche e approssimativi nella tecnica); ma si mostra apertamente scettico riguardo al progetto di dar vita a una nuova letteratura drammatica di alta qualità artistica, destinata a sicuro insuccesso sulla scena romana, ancora troppo esposta ai gusti grossolani e mutevoli delle folle ignoranti. Epistola a Floro (II, 2) Dedicata a Floro, la seconda epistola del II libro, di tono sostanzialmente autobiografico, è una sorta di bilancio, venato di malinconico umorismo, della propria vita. Rimproverato di scrivere poco, il poeta si difende accusando l’incombente vecchiezza, la pigrizia, la confusione della vita urbana, ma soprattutto affermando l’esigenza, sempre più acutamente avvertita, di dedicarsi alla ricerca della saggezza. Epistola ai Pisoni o Ars poetica (II, 3) Un vero e proprio trattato sulla poesia è invece l’Epistula ad Pisones, meglio nota come Ars poetica (il titolo tradizionale è attestato già da Quintiliano), in 476 versi esametri, composta probabilmente dopo il 13, ma che alcuni vogliono collocare tra il 20 e il 17, poco prima del Carmen Saeculare. Scritta, come le precedenti, in forma epistolare e indirizzata all’illustre famiglia romana dei Pisoni, ben nota in Roma per gli interessi letterari e filosofici, l’opera è stata aggiunta soltanto in età moderna al secondo libro delle Epistole.
Guida allo studio
1.
Quali componimenti formavano originariamente il secondo libro delle Epistulae? Quale fu invece aggiunto al libro soltanto in età moderna? 2. Di ciascuna lettera poetica del libro indica l’epoca di composizione, l’argomento, le principali tesi sostenute dall’autore e i destinatari.
3. Commenta i seguenti termini ed espressioni tratti dall’Ars poetica: ingenium, ars, decorum, limae labor et mora. 4. Traduci e commenta le seguenti espressioni oraziane, anch’esse estratte dall’Ars poetica: a) Scribendi recte sapere est et principium et fons; b) Omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci/ lectorem delectando pariterque monendo.
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PROFILO STORICO
L’Epistula ad Pisones ovvero Ars poetica ▰ Un ordinamento sistematico Orazio si avvale
del tono più affabile e discorsivo consentito dalla forma epistolare per una trattazione teorica organizzata: la prima parte (vv. 1-41) tratta della póiesis, ossia l’invenzione e l’uso degli argomenti poetici; la seconda (vv. 42-294) riguarda il póiema, cioè gli aspetti formali (struttura, stile, genere); la terza (vv. 295-476) tratteggia il poietès, ovvero l’immagine ideale del poeta.
▰ Poesia e sapienza «L’arte ha origine e nutrimento
nella sapienza», (v. 309): nel sapere si uniscono assennatezza e cultura, che a loro volta si identificano nella virtus di ascendenza stoica. Sulle orme del motto di Catone il Vecchio rem tene, verba sequentur, Orazio al v. 311 sottolinea come i verba seguano le res, e non il contrario.
▰ Ars e ingenium Rifiutata la concezione platonica della
poesia come insania, divina follia, Orazio vede nella poesia il prodotto di ingenium («talento naturale») e ars («maestria nell’elaborazione formale»): commisurata la materia alle proprie forze, tenuto a freno il furore dell’ispirazione, il talento va sostenuto con lo studio e con un accurato lavoro di rifinitura (labor limae et mora, v. 291).
▰ Unità e armonia Proporzione, equilibrio,
unitarietà sono i caratteri essenziali di un’opera poetica: lucidus ordo, «luminosa proporzione», dice il poeta al v. 41. Assimilata alla pittura, la poesia è vista come un organismo naturale, in cui ci sono omogeneità e proporzione tra le varie parti, e non un’accozzaglia di elementi eterogenei (vv. 1-9).
▰ Lo stile Il principio fondamentale è quello della
convenientia, ovvero la corrispondenza tra forma e contenuto; l’originalità del poeta sta nel proprie communia dicere (v. 128), nel significare le cose comuni con un’impronta personale. In questo senso è indicato il procedimento della callida iunctura (v. 47), «un’accorta associazione» che arricchisce di forza espressiva anche il vocabolo più convenzionale.
▰ Miscere utile dulci Questa la formula suggerita
al v. 343, che avrà grande fortuna e detterà il principio classicistico di ogni pedagogia dell’arte, considerando anche che il poeta deve prodesse e delectare insieme (vv. 333-334). Così, partendo da una nozione alessandrina di poesia come ars e doctrina, Orazio raccoglieva fino in fondo le istanze romane e augustee di una poesia di contenuti morali e di tono civile.
Le fonti FILOSOFICHE Le origini aristoteliche del concetto di “classico” Omero, i tragici, sono stati assunti nella cultura moderna a emblema di arte classica e a modelli per l’arte classicistica in quanto sono stati isolati e privilegiati certi aspetti delle loro opere; ma potevano ad altrettanto buon diritto essere assunti, e in parte sono stati assunti da altre correnti o in altri momenti della cultura moderna, a miti “romantici”, a emblema di arte primordiale-barbarica, a testimoni di istanze prerazionali o irrazionali. Anche questa arbitraria riduzione a una tipologia unitaria della grande produzione antica è attinta alla riflessione estetica antica stessa, nella quale si era già attuata una connessione tra una certa tipologia formale, affine appunto a quella poi definita “classica” (e che ha come tratti più evidenti l’armonia, l’organicità dell’opera, l’equilibrio, la misura ecc.) e un giudizio qualitativo di eccellenza, di superiorità. Vediamo nettamente affermata questa connessione da Orazio nell’Ars poetica: e dalla classicità augustea questa connessione si protenderà nel futuro verso i successivi classicismi. Orazio riprendeva questo concetto da precedenti elaborazioni greche: esse non ci sono note che in piccola parte, ma è chiaro, e ben noto, che il germe essenziale che porta agli sviluppi teorici che incontriamo in Orazio è in Aristotele. Quello stesso Aristotele che aveva dato il fondamento teoretico al principio della perfezione artistica come realizzazione
di tutte le potenzialità proprie della natura di ciascun genere letterario, aveva anche posto, sviluppando importanti premesse platoniche entro una sua originale concezione della mimesis nelle arti, una intrinseca connessione tra perfezione artistica e certi tratti tipologico-formali molto generali che egli derivava dalla analogia con quella natura di cui l’arte doveva essere imitazione. In primo luogo l’unitarietà dell’opera e la connessione organica, razionalmente riconoscibile, delle sue parti: qualità di cui è modello fondamentale l’organismo biologico naturale. Aveva dunque posto le basi teoretiche per il concetto di “classicità” sia sul piano assiologico che sul piano tipologico1, prima che iniziasse l’attività dei grammatici alessandrini, prima che una scienza della letteratura e dell’arte fortemente influenzata per secoli dal suo pensiero e dalla sua scuola, cominciasse a stilare liste e canoni di autori e a costruire una terminologia connessa a queste operazioni di selezione di qualità. (M. Citroni, I canoni di autori antichi: alle origini del concetto di classico, in Polymnia. Collana di scienze dell’antichità. Studi di filologia classica 1, Trieste 2001) 1. assiologico… tipologico: si intendono l’accezione valutativa di “classico” come eccellente e quella tipologica come armonioso, equilibrato.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
Orazio
nel TEMPO
Presso i contemporanei Grande fu la fa- onori pubblici, la riflessione sulla brevità della ma di Orazio già presso i contemporanei: dopo la morte di Virgilio (19 a.C.), egli apparve come il poeta più rappresentativo della sua epoca, e a lui, come si è visto, si rivolse Augusto per il solenne Carmen Saeculare. Alla raffinatezza stilistica della poesia oraziana rende omaggio un passo dei Tristia (IV, 10, 49-50 [ T17, cap. 5]) di Ovidio: «affascinò le mie orecchie Orazio ricco di ritmi, / mentre toccava sulla lira ausonia carmi di dotta fattura». Già nel commiato al I libro delle Epistole [ T27 ONLINE], Orazio aveva del resto immaginato la diffusione della propria opera fin nei centri più remoti dell’impero.
In età imperiale Divenuto ben presto un classico, Orazio fu studiato nelle scuole imperiali e commentato dai grammatici. Alla fine del I secolo d.C. Quintiliano (Inst. or. X, 1, 96) lo considera quasi il solo poeta lirico degno di essere letto, motivando il giudizio con precise osservazioni stilistiche: «infatti talvolta si leva in alto ed è pieno di grazia e di fascino ed è vario nelle figure e audace molto felicemente nella scelta delle parole». Petronio, sia pure attraverso la voce di un personaggio ambiguo e beffardo come il poeta Eumolpo, loda apertamente la squisitezza formale della poesia di Orazio e la sua curiosa felicitas (Satyricon 118), espressione con la quale vuole indicare una felicità espressiva frutto di accurata ricerca formale. Altrettanto grande la fortuna della poesia satirica oraziana, a cui si ispirano nel corso della prima età imperiale sia Persio che Giovenale. Quintiliano considera Orazio «satiro» molto più terso e puro di Lucilio (X, I, 94), in ogni caso il più grande (praecipuus) nel genere.
In età cristiana e nel Medioevo Con l’avvento della cultura cristiana, l’interesse si concentra sui contenuti etico-morali della poe sia oraziana. La ricerca della saggezza, la valorizzazione dell’interiorità, il disinteresse per gli
vita e sull’ineluttabilità della morte, l’aspirazione alla solitudine erano temi che potevano adattarsi pienamente ai nuovi modelli di vita cristiana. Tra le singole opere, tuttavia, sono i Sermones e le Epistulae a godere di maggior fortuna. «Orazio satiro» lo definì ancora Dante in Inferno IV, 89, rivelando implicitamente che per lui, come per i contemporanei, Orazio era il poeta dei Sermones, non dei Carmina.
In età umanistica Le Odi di Orazio ritornano ad essere lette e a influenzare in modo decisivo la poesia occidentale solo con l’età umanistica. Nel Canzoniere del Petrarca le corrispondenze riguardano i temi, fondamentali per entrambi i poeti, della morte e della fuga inesorabile del tempo: «ora mentre ch’io parlo il tempo fugge» (LVI, 3): Dum loquimur, fugerit invida / aetas (Carm. I, 11, 7-8 [ T12]); «Veramente siam noi polvere et ombra» (CCXCIV, 12): pulvis et umbra sumus (Carm. IV, 7, 16 [ T23]). Tra Cinquecento e Settecento Nel XVI secolo Orazio lirico divenne l’autore per eccellenza del Rinascimento paganeggiante, il cantore degli amori, del vino e dei piaceri. Per lo stesso motivo cadde poi in disgrazia nell’età della Controriforma, ritornando in auge nelle corti galanti del Settecento, dove fu letto come maestro di libertinaggio e di saggezza epicurea. Continuava d’altra parte la fortuna delle Satire, già imitate dai poeti satirici in lingua latina dell’età umanistica e successivamente (fra il 1517 e il 1524) in lingua volgare dall’Ariosto. Fondamentale fu soprattutto tra Cinquecento e Settecento la lettura dell’Ars poetica, che informò di sé per almeno due secoli il gusto poetico internazionale: direttamente al testo oraziano si ispira l’Art poétique di Boileau (1674), manifesto del classicismo francese (ed europeo). Ancora a metà del XVIII secolo Parini concludeva una
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PROFILO STORICO
delle sue odi di maggior impegno civile (La salubrità dell’aria) con versi che riecheggiavano il precetto oraziano di miscere utile dulci: «Va per negletta via/ ognor l’util cercando/ la calda fantasia/ che sol felice è quando/ l’utile unir può al vanto/ di lusinghevol canto».
All’avvento del Romanticismo La cultura romantica, passionale e irrequieta, bandisce d’un colpo la poetica del classicismo e il gusto oraziano. Resta celebre il giudizio del Foscolo, che nella Notizia intorno a Didimo Chierico (immaginario “doppio” del poeta) aggiunta alla traduzione del Viaggio sentimentale di Sterne, poteva scrivere: «Richiesto da un ufficiale, perché non citasse mai le odi di quel poeta [cioè di Orazio], Didimo in risposta gli regalò la sua tabacchiera fregiata d’un mosaico d’egregio lavoro, dicendo: Fu fatto a Roma d’alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo». Il Foscolo rimproverava insomma ad Orazio di essere un semplice intarsiatore di motivi poetici sottratti ad Alceo e a Saffo (entrambi nativi dell’isola di Lesbo). Per il Romanticismo tutto ciò che non scaturiva da una personale ispirazione andava considerato nient’altro che fredda e monumentale letteratura.
Nella seconda metà dell’Ottocento: Carducci e Pascoli In Italia Orazio godette tuttavia di grande fortuna nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto per merito del Carducci e del Pascoli. Non casuale che nel nome di Orazio si apra la poesia d’esordio degli Juvenilia, primo libro poetico del Carducci secondo l’ordinamento predisposto dal poeta stesso: Orazio rappresentava per Carducci, polemico nei confronti della cultura tardoromantica, l’immagine di una poesia nitidamente classica. Oraziani fin dal titolo sono poi gli aggressivi Giambi ed epodi composti successivamente dal Carducci, che nelle Odi barbare si cimentò anche nel tentativo di riprodurre nella lingua italiana i metri classici; oraziani il ricorrente motivo del vino e del convito, nonché gli stessi nomi poetici delle donne amate (Lalage, Lidia). Più sfumato e intimistico è invece l’Orazio pascoliano, rielaborato e imitato soprattutto nella produzione poetica in lingua latina (si veda ad esempio il Fanum Vacunae, nel Liber de poetis). Meno sensibile l’influenza oraziana sulla poesia del Novecento (ma si leggano gli interventi di vari poeti contemporanei sull’Ars poetica in un volume curato da Claudio Damiani e citato in bibliografia).
Edizione del 1479 delle Opere di Orazio con annotazioni di Filippo di Pietro. Biblioteca Marciana, Venezia.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
PROFILO STORICO
COMPITO di REALTÀ • Un testo teatrale: scrittori e potere 1. La consegna • Gli insegnanti di letteratura italiana, letteratura latina e storia moderna vi affidano il compito di scandagliare, con esempi appropriati riguardanti il mondo antico e il mondo moderno, la relazione – spesso, ma non necessariamente, conflittuale – fra scrittori e potere. • L’unico vincolo è quello che riguarda la vicenda di Orazio e di Virgilio, da cui dovete necessariamente partire. • Per il mondo moderno, si consiglia di appuntare lo sguardo sull’ultimo secolo, scegliendo esempi particolarmente emblematici di scrittori di area sovietica (ad esempio Majakovskij, Pasternak, Mandel’štam, Brodskij) o italiana (un caso interessante e problematico potrebbe essere quello di Pasolini). • Agli studenti viene chiesto di tradurre le conoscenze acquisite in un testo teatrale, che potrebbe essere congegnato in vari modi: ad esempio un certo numero di “stazioni” o “quadri” (come nel teatro espressionista tedesco), ciascuno dei quali incentrato su un’epoca storica; oppure un unico testo, in cui le vicende vengano evocate e si intreccino liberamente attraverso voci e figure contemporanee.
2. Gli strumenti Data l’ampiezza e la complessità del tema, risulterà particolarmente necessario progettare uno spazio unitario e ordinato, nel quale far confluire di volta in volta i materiali prodotti: si consiglia dunque di nominare uno studente che svolga questo ruolo. Fra i libri, possono essere utili: A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Einaudi, Torino 1963 (e successive ristampe); H. Broch, La morte di Virgilio, Feltrinelli, Milano 2016. Essenziali, per questo lavoro, i consueti strumenti web (WikiMedia, Google Scholar, Google libri, WikiQuote, Enciclopedia Treccani). 3. Le fasi operative Suddividete la classe in gruppi, assegnando a ciascun gruppo uno dei seguenti compiti: – coordinare il progetto nelle sue varie fasi; – selezionare le letture necessarie; – scrivere il testo che dovrà essere rappresentato; – distribuire i vari ruoli che riguardino la realizzazione dello spettacolo: regia, scenografia, luci, voci, interpreti; – allestire la rappresentazione, eventualmente aperta non solo agli insegnanti e agli studenti, ma anche a un pubblico più ampio.
AUTOVALUTAZIONE Conoscenza dell’argomento
scarso
sufficiente
discreto
buono
ottimo
Capacità di narrazione e di esposizione
scarso
sufficiente
discreto
buono
ottimo
Capacità di aggregazione
scarso
sufficiente
discreto
buono
ottimo
Competenze digitali
scarso
sufficiente
discreto
buono
ottimo
Giudizio complessivo sul progetto
coerente
esaustivo
originale
adeguato
non adeguato
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PROFILO STORICO
Materiali
ONLINE
essenziale
Bibliografia
B
BIBLIOGRAFIA ESTESA
� Edizioni complessive Con traduzione e commento: Tutte le opere, con un saggio di A. La Penna, trad. di E. Cetrangolo, Sansoni, Firenze 1968; Opere, a cura di T. Colamarino e D. Bo, UTET, Torino 1983. � Studi complessivi: indispensabile strumento di consultazione è l’Enciclopedia Oraziana, fondata da F. Della Corte, diretta da S. Mariotti, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, vol. I (1996), vol. II (1997), vol. III (1998). Inoltre: A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Einaudi, Torino 1963; D. Bo, voce Orazio, in Dizionario degli scrittori greci e latini, vol. II, Marzorati, Milano 1987, pp. 1473-1505; I. Lana, Orazio: dalla poesia al silenzio, Venosa 1993; A. Traina, Autoritratto di un poeta, Venosa 1993; M. Citroni, Poesia e lettori in Roma antica. Forme della comunicazione letteraria, Laterza, Roma-Bari 1995. Odi ed Epodi � Traduzioni: Odi ed epodi, a cura di E. Mandruzzato, introd. di A. Traina, BUR, Milano 1985; Odi ed epodi, a cura di M. Ramous, Grandi Libri Garzanti, Milano 1986; Carmina-Epodon liber-Odi-Epodi, a cura di M. Beck, Mursia, Milano 1989; Il libro degli epodi, a cura di A. Cavarzere, trad. di F. Bandini, Marsilio, Venezia 1992 (con ricchissimo commento ai singoli testi). � Studi: G. Pasquali, Orazio lirico, Le Monnier, Firenze 1920 (un classico degli studi oraziani, ripubblicato di recente con il Contributo del-
la Facoltà di Lettere del R. Istituto di Studi Superiori in Firenze, 2010); I.P. Wilkinson, Horace and his Lyric Poetry, C a m b r i d g e 1 9 6 1 ; F. Cupaiuolo, Lettura di Orazio lirico, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1976; K. Quinn, Horace: The Odes, London 1980; V. Cremona, La poesia civile di Orazio, Vita e Pensiero, Milano 1983; M. Citroni, Occasione e piani di destinazione nella lirica di Orazio, «Materiali e Discussioni» 1983, pp. 133214; A. Minarini, Lucidus ordo. L’architettura della lirica oraziana (libri I-III), Edizioni e Saggi Universitari di Filologia Classica, Bologna 1989. Satire ed Epistole � Traduzioni: Satire, a cura di M. Labate, BUR, Milano 1981 (con ottima introduzione); Le Lettere, a cura di E. Mandruzzato, BUR, Milano 1983; Epistole, a cura di M. Ramous, Grandi Libri Garzanti, Milano 1985; Satire, a cura di M. Ramous, Grandi Libri Garzanti, Milano 1987; Epistole, a cura di M. Beck, Oscar Mondadori, Milano 1997; L’esperienza delle cose (Epistole, Libro I), a cura di A. Cucchiarelli, Marsilio, Venezia 2016. � Studi: E. Pasoli, Le epistole letterarie di Orazio, Pàtron, Bologna 1964; N. Rudd, The Satires of Horace, Cambridge 1966; A. Di Benedetto, Studi su Orazio satiro, Fratelli Conte, Napoli 1979; D. Gagliardi, Un’arte di vivere (Saggio sul I libro delle «Epistole» oraziane), Edizioni dell’Ateneo, Roma 1988; R. Ferri, I dispiaceri di un epicureo. Uno studio sulla poeti-
ca oraziana delle «Epistole», Giardini, Pisa 1993; A. Cucchiarelli, La satira e il poeta. Orazio tra «Epodi» e «Sermones», Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa 2001. Orazio e i modelli � D. Gagliardi, Orazio e la tradizione neoterica, Libreria Scientifica Editrice, Napoli 1971; A. Setaiuoli, Gli influssi omerici nella lirica oraziana, «Stud. ital. filol. class.» 1973, pp. 205-222; N.T. Kennedy, Pindar and Horace, «Acta Classica» 1975, pp. 9-24; N.W. Cody, Horace and Callimachean Aesthetics, Bruxelles 1976; E. Cavallini, Saffo e Alceo in Orazio, «Mus. criticum» 1978-1979; G. Broccia, Modelli omerici e archilochei negli «Epodi» d’Orazio, «Quaderni AICC Foggia» II-III, 1982-1983, pp. 75-92; D. R. Campbell, Horace and Anacreon, «Acta Classica» 1985, pp. 35-38; A. Cavarzere, Sul limitare. Il “motto” e la poesia di Orazio, Pàtron, Bologna 1996; L. Mondin, L’ode I 4 di Orazio. Tra modelli e struttura, Loffredo, Napoli 1997; F. Citti, Studi oraziani. Tematica e intertestualità, Pàtron, Bologna 2000. Fortuna � AA.VV., Orazio nella letteratura mondiale, Roma 1936; A. Monteverdi, Orazio nel Medioevo, Roma 1938; AA.VV., Présence d’Horace, a cura di R. Chevallier, Tours 1988. L’interesse degli scrittori contemporanei per Orazio è confermato dai numerosi interventi critici compresi in: Orazio, Arte poetica, a cura di C. Damiani, Fazi editore, Roma 1995.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Sintesi
PROFILO STORICO
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Orazio Quinto Orazio Flacco nasce a Venosa nel 65 a.C. Per volontà del padre, un liberto di agiate condizioni che il poeta ricorderà sempre con affetto come suo primo maestro di moralità, compie i suoi studi a Roma. Tra il 45 e il 44 si reca ad Atene allo scopo di perfezionare la propria cultura filosofica e letteraria. Si infiamma alle idee di libertà e si arruola nell’esercito dei cesaricidi Bruto e Cassio; a Filippi (42 a.C.) si dà alla fuga abbandonando lo scudo. Intorno agli anni 41-40, grazie a un’amnistia, può ritornare a Roma; perduti i suoi beni, si impiega come scriba quaestorius, e intanto incomincia a scrivere versi. Nel 38 Virgilio e Vario lo presentano a Mecenate. Nasce una grande amicizia, interrotta solo dalla morte. Orazio dedica il I libro delle Satire a Mecenate, che verso il 33 gli fa dono di un podere nella Sabina, presso Tivoli. Nel 17 a.C. è designato da Augusto per comporre il Carmen Saeculare, un inno di natura civile e religiosa che viene cantato durante una solenne processione sul Palatino e sul Campidoglio, i luoghi sacri di Roma. Muore nell’8 a.C., due mesi dopo Mecenate. Ad Orazio, il massimo esponente con Virgilio dell’età d’oro della poesia latina, si devono un libro di Epodi, due libri di Satire, quattro libri di Odi, due libri di Epistole e il Carmen Saeculare. Il libro degli Epodi, scritto dopo il 42-41 e pubblicato intorno al 30, comprende 17 componimenti caratterizzati da una grande varietà di temi e di toni. Il modello dichiarato è Archiloco, ma Orazio lo imita nei metri e nello spirito aggressivo, non negli argomenti, escludendo in sostanza gli attacchi ad personam. Sensibile è anche l’influsso della poesia ellenistica, in particolare dei Iambi di Callimaco. Nello stile, Orazio si ispira soltanto in parte al modello giambico dell’eccesso e dell’invettiva, mentre sembra per lo più interessato alla sperimentazione di diverse forme linguistiche. Nei due libri di Satire (Sermones) in esametri, pubblicati il I nel 35, il II nel 30, il poeta si rivolge a una ristretta cerchia di amici e poeti (pauci lectores) in componimenti di tono e di stile medio, narrativi e discorsivi. Dà ampio spazio alla componente autobiografica e all’osservazione dei costumi, in vista di un approfondimento morale venato di ironia e
autoironia, senza pretendere di assumere un ruolo esemplare. Due i concetti-cardine, l’autàrkeia e la metriótes. I modelli principali sono la satira di Lucilio e la diàtriba stoico-cinica; tuttavia Orazio ne attutisce l’asprezza polemica in forme più attenuate e bonarie. Nel II libro prevale la struttura dialogica e si riduce lo spazio riservato alla persona unificante del poeta satirico, a favore di una pluralità di voci e di opinioni. Dopo il 30 a.C. Orazio si dedica alla poesia lirica: pubblica i primi tre libri delle Odi (Carmina) nel 23, il quarto tra 14 e 13; al genere lirico appartiene anche il Carmen Saeculare del 17. I componimenti sono disposti in una struttura architettonica secondo il criterio ellenistico della variatio, sia sul piano metrico-formale che su quello degli argomenti. I modelli, richiamati mediante procedimenti allusivi, sono invece classici, soprattutto Alceo e Pindaro. Grande la varietà dei temi e dei motivi: la ricerca dell’autosufficienza interiore in un angulus protetto, allietato dal convito, dal vino e dall’amicizia; il sentimento del tempo e della morte; la condizione esistenziale dell’uomo; l’immortalità del canto. Non mancano carmi di argomento religioso e civile: la sintonia con l’ideo logia augustea si esprime nell’esaltazione della grandezza romana e delle antiche virtù. Lo stile, di livello medio-alto, abbraccia un’ampia varietà di registri; è improntato alla raffinata cura formale di ascendenza alessandrina e neoterica (labor limae), ma più sobrio e misurato. L’attenzione si concentra sulla collocazione delle parole (callida iunctura) e sull’intensità delle immagini. Con il I libro delle Epistole, pubblicato nel 20 a.C., Orazio ritorna al tono medio (sermo), al metro (l’esametro) e alla poesia di carattere morale delle Satire, intesa alla ricerca della saggezza. Nuova è la forma, l’epistola in versi. Il tono è più intimo, a tratti pervaso di malinconia e di inquietudine; i momenti autobiografici e introspettivi acquistano maggiore rilievo, insieme al motivo del contrasto città/campagna. Il II libro (20-13 a.C.) consta di tre ampi componimenti: l’Epistola ad Augusto, sul tema del teatro latino; l’Epistola a Floro, di tono autobiografico; l’Epistola ai Pisoni o Ars poetica, il più importante testo teorico sulla poesia, insieme alla Poetica di Aristotele, dell’intera cultura occidentale.
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Percorso antologico Epodon liber T1
Il sangue maledetto di Remo (7)
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T2
Per la vittoria di Azio (9)
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T3
Un’invettiva contro Mevio che parte (10)
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Sermones T4
Est modus in rebus (I, 1)
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T5
L’educazione paterna (I, 4, 103-143)
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T6
Il seccatore (I, 9)
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T7
Il topo di città e il topo di campagna (II, 6, 79-117)
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Carmina T8
Il ritorno della primavera (I, 4)
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T9
A una donna dai capelli fulvi (I, 5)
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T10
Il monte Soratte (I, 9)
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T11
Carpe diem (I, 11)
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T12
Invito a pranzo per Mecenate (I, 20)
T13
Per la morte della regina Cleopatra (I, 37)
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T14
Convito simbolico (I, 38)
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T15
Aequa mens (II, 3)
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T16
Il luogo ideale (II, 6)
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T17
Labuntur anni (II, 14)
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T18
O fons Bandusiae (III, 13)
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T19
Non omnis moriar (III, 30)
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T20
Pulvis et umbra sumus (IV, 7)
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T21
L’età di Augusto (IV, 15)
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Epistulae T22
Ad Albio Tibullo: conforti per il poeta malinconico (I, 4)
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T23
Funestus veternus: una malattia dell’anima (I, 8)
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T24
Al suo libro (I, 20)
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 1 Il sangue maledetto di Remo Epodon liber 7 LATINO ITALIANO
PERCORSO ANTOLOGICO
Nota metrica: sistema epodico, composto di trimetri e dimetri giambici alternati.
Questo carme, il più veemente e appassionato degli Epodi, fu scritto con molta probabilità intorno al 41-40 a.C., appena dopo la guerra di Perugia, quando ogni speranza di pace appariva lontana e forse irrealizzabile. Rivolgendosi in tono potente e ispirato a un’immaginaria assemblea di cittadini, Orazio esprime lo smarrimento e l’orrore di un’intera generazione di fronte allo scoppio di una nuova guerra civile, riconducendola miticamente alla colpa originaria dell’uccisione di Remo. La forza della lirica è tutta affidata alla sua carica enfatica e declamatoria, alle sottolineature retoriche del linguaggio nonché al pathos intenso e impressionante delle immagini, quella del sangue, in particolare, che si impone fin dall’inizio del carme per dilagare come una macchia incancellabile negli ultimi versi.
Quo, quo scelesti ruitis? aut cur dexteris aptantur enses conditi? Parumne campis atque Neptuno super fusum est Latini sanguinis, 5 non ut superbas invidae Carthaginis Romanus arces ureret, intactus aut Britannus ut descenderet Sacra catenatus via, sed ut secundum vota Parthorum sua 10 urbs haec periret dextera? Neque hic lupis mos nec fuit leonibus numquam nisi in dispar feris. Furorne caecus an rapit vis acrior an culpa? Responsum date. 15 Tacent, et albus ora pallor inficit mentesque perculsae stupent. Sic est: acerba fata Romanos agunt scelusque fraternae necis, ut inmerentis fluxit in terram Remi 20 sacer nepotibus cruor.
1-2. cur dexteris... conditi: le spade, da poco rinfoderate dopo Filippi, vengono di nuovo impugnate per la guerra perugina. 2-10. Quo… dextera: la concitata ripetizione di quo e l’impeto violento e trascinante delle interrogative, la triplice ripetizione di ut, come anche ai vv. 9-10 le posizioni artificiosamente rilevate in fine di verso di sua e dextera, esprimono con angosciosa enfasi la violenza insensata della strage fratricida.
3. Neptuno: metonimia per mari. 7. intactus… Britannus: Cesare era già sbarcato in Britannia negli anni 55-54, ma solo per operazioni di ricognizione. La Britannia venne assoggettata all’epoca di Claudio (41-54 d.C.). 7-8. ut descenderet… via: il corteo trionfale del generale vincitore (seguito dai prigionieri in catene) partiva nei pressi dell’attuale Colosseo, attraversava la Velia (un’altura fra Esquilino e Palatino, dov’è ora l’arco di Tito) e pro-
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seguiva in leggero pendio (per questo descenderet) lungo il Foro, fino ai piedi del Campidoglio. 9. Parthorum: i Parti, ai confini orientali dell’impero, costituivano all’epoca il nemico più insidioso e inquieto di Roma. Era ancora recente l’eco della sconfitta di Carre (53 a.C.), quando Crasso fu ucciso e le insegne catturate (le recuperò solo nel 20, con un’azione diplomatica, Augusto).
PERCORSO ANTOLOGICO
Dove, dove scellerati precipitate, e perché di nuovo si impugnano le spade ringuainate? Forse troppo poco sangue latino è stato versato sulle campagne e sul mare, 5 non perché il Romano bruciasse le rocche superbe di Cartagine rivale, o perché il Britanno, ancora non domato, discendesse per la via Sacra incatenato, ma perché, secondo il voto dei Parti, questa città 10 perisse di sua mano? Né i lupi né i leoni hanno questo costume, feroci solo verso una razza diversa. Una cieca follia vi travolge? o una forza più profonda? oppure una colpa? Rispondete! 15 Tacciono, e un bianco pallore tinge i loro volti e le menti percosse smarriscono. Così è: acerbi fati perseguitano i Romani per un delitto, l’assassinio del fratello, da quando colò sulla terra, maledetto per i nipoti, 20 il sangue di Remo innocente.
Denario raffigurante un arco di trionfo con quadriga e l’epigrafe IMP CAESAR, eretto per la vittoria di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra del 31 a.C. Monaco, Staatliche Münzsammlung.
T2
Per la vittoria di Azio
Epodon liber 9
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 3 Un’invettiva contro Mevio che parte Epodon liber 10 ITALIANO
È questa l’unica invettiva degli Epodi che presenti un attacco ad personam. Bersaglio della rabies di Orazio è Mevio, un poeta di cui poco conosciamo: malevolo detrattore della poesia di Virgilio, appare qui mentre si accinge a salpare per la Grecia. Orazio, malignamente, gli aizza contro l’intera rosa dei venti, suscita un’immaginaria tempesta omerica e gli augura una terribile morte per naufragio.
PERCORSO ANTOLOGICO
Salpata con malo augurio esce la nave, portando il fetido Mevio. Ricòrdati, Austro, di sferzarne entrambi i fianchi con spaventosi flutti. 5 Il negro Euro sperda sul mare sconvolto le sàrtie e i remi infranti. Sorga Aquilone, come quando sulle alte montagne spezza le elci tremanti. Né una stella amica appaia nella cupa notte 10 là dove Orione funesto tramonta. Né viaggi essa su acque più calme di quelle che condussero la greca schiera dei vincitori, allorché Pallade dalle ceneri di Ilio volse la sua ira contro l’empia nave di Aiace. 15 Oh quanto sudore attende i tuoi marinai, e che giallo pallore per te, e quel tuo non virile piagnisteo, e le preghiere a Giove che ti è avverso, quando il mar Ionio, mugghiando sotto le raffiche 20 del piovoso Noto, ti fracasserà la chiglia! Se poi una grassa preda, sul curvo lido lunga distesa, pascerà gli smerghi, immoleremo un capro libidinoso e un’agnella alle Tempeste.
3-7. Austro... Euro... Aquilone: Orazio invoca tutti i venti contrari alle navi dirette in Oriente. L’Austro (vento del sud), che al v. 20 viene chiamato con un altro nome (Noto); l’Euro o scirocco (vento di sud-est); l’Aquilone o Borea (vento del nord). 10. Orione: costellazione che tramonta all’inizio di novembre e annuncia le tempeste. 11-14. Né viaggi essa... di Aiace: Pallade, dopo la distruzione di Troia, fece
naufragare Aiace Oileo durante il viaggio di ritorno in Grecia, per punirlo di aver osato rapire Cassandra dagli altari del suo tempio, dove la ragazza si era rifugiata. 16. giallo pallore: Mevio, negli auspici di Orazio, diventerà giallo dalla paura. 21. una grassa preda: ancora una frecciata contro Mevio, che questa volta trae spunto dalla sua pinguedine. 22. smerghi: uccelli marini noti per la loro voracità.
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24. alle Tempeste: fin dal III secolo sorgeva in Roma un tempio dedicato alle Tempeste, divinità alle quali si sacrificava, in ringraziamento di una felice navigazione, un’agnella nera. Doppio il sarcasmo di Orazio, che al contrario promette di offrire in sacrificio le vittime purché il disgraziato poeta perisca nel naufragio, aggiungendo un caprone in memoria del «fetore» (v. 2) di Mevio.
PERCORSO ANTOLOGICO
LETTURA e INTERPRETAZIONE Un rovesciamento parodistico
Lo spunto dell’invettiva era già tutto in Archiloco, ma Orazio lo rinnova facendo ricorso, parodisticamente, a un modulo caro alla poesia alessandrina, il propemptikón (carme rivolto a un amico che parte, per augurargli buon viaggio), che viene ribaltato sostituendo fosche e violente maledizioni ai tradizionali benevoli auguri. I toni enfatici e caricati rivelano la natura di esercizio letterario del carme, che non nasce da uno sdegno autentico, personalmente sentito (come in Archiloco) ma da un topos poetico rielabo-
rato con intenti ludici per una schiera ristretta di amici (come già nella poesia neoterica e catulliana).
Una struttura tripartita
Anche la distribuzione ordinata e calcolata delle parti rivela una preoccupazione formale più che uno sfogo passionale: fra l’esordio (vv. 1-2) e la chiusa (vv. 21-24), Orazio scandisce tre tempi di uguale lunghezza dedicati alla violenza dei venti (vv. 3-8), alla descrizione della tempesta (vv. 9-14) e del terrore di Mevio dinanzi all’orrendo naufragio (vv. 15-20).
Dialogo con i MODELLI Un frammento di Archiloco Da un papiro scoperto nel secolo XIX è riemerso un frammento mutilo attribuito da alcuni studiosi a Ipponatte, da altri (più verosimilmente) ad Archiloco (fr. 115 West). Al testo cui tale frammento apparteneva si è con molta probabilità ispirato Orazio. Il modello greco viene utilizzato in modo originale: in Archiloco, che dichiara con foga le ragioni del suo risentimento (l’amicizia tradita), prevale il momento dello sdegno; in Orazio, che tace le eventuali motivazioni dell’ostilità contro Mevio, il divertissement letterario.
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sbattuto dalle ondate. E a Salmidesso, intirizzito, ignudo, gentilmente lo prendano i Traci che han la chioma in cima al capo – soffrirà molti mali mangiando il pane della schiavitù – e fitte alghe lo coprano; e batta i denti, giacendo bocconi come un cane, sfinito, sulla battima, dove giunge l’onda. Così vorrei vedere chi mi ha offeso e tradito il giuramento, e mi era amico, un tempo. (Lirici greci, a cura di U. Albini, trad. di G. Perrotta, Garzanti, Milano 1976)
5. Salmidesso: era un luogo sulla costa tracica tristemente famoso per i naufragi, abitato da popolazioni inospitali e selvagge. 6. gentilmente: termine usato in chiave sarcastica.
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Est modus in rebus
Sermones I, 1
7. i Traci... capo: i barbari Traci usavano portare un solo ciuffo di capelli sulla sommità della testa. 13. sulla battima... onda: il modello letterario di Archiloco è l’approdo di Ulisse, naufrago dopo la tempesta, all’isola dei Feaci.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 5 L’educazione paterna Sermones I, 4, 103-143 LATINO
PERCORSO ANTOLOGICO
ITALIANO
Nota metrica: esametri.
109-114. Albi... Baius... Scetani... Treboni: nomi altrimenti sconosciuti.
La satira quarta del I libro espone in modo organico la poetica dei Sermones, illustrando al lettore i modelli letterari (la commedia attica, Lucilio), gli ideali stilistici (brevitas, rigore formale), i fini (non una poesia aggressiva e maldicente ma una poesia rivolta a migliorare l’uomo attraverso l’osservazione diretta dei vizi e delle virtù), il tono dell’opera (una conversazione alla buona destinata a pochi amici). Al rapporto tra poesia e moralità è riservata l’ultima parte della satira, quella che viene qui riportata. Orazio non ricorre a un’astratta enunciazione di princìpi ma ravviva il discorso con esempi concreti tratti dalla realtà quotidiana o dalla propria esperienza di vita. Le idee morali vengono ricondotte a una dimensione individuale e umana nel ricordo, vivo di affettuosa gratitudine, del padre: una persona semplice ma onesta che seppe indirizzare il figlio sulla via del bene e del vero, esortandolo a un sincero e costante sforzo di perfezionamento interiore (vv. 134137). La figura paterna appare modellata su quella del tradizionale pater familias ignaro di studi filosofici (vv. 115-119) ma saldamente legato ai precetti del mos romano-italico (v. 117). Il tono bonario e scherzoso del componimento, improntato a modi colloquiali e a un ideale di colta naturalezza espressiva, si fa, proprio nei versi dedicati al padre, più grave e commosso.
Liberius si dixero quid, si forte iocosius, hoc mihi iuris 105 cum venia dabis: insuevit pater optimus hoc me, ut fugerem exemplis vitiorum quaeque notando. Cum me hortaretur, parce frugaliter atque viverem uti contentus eo quod mi ipse parasset: «Nonne vides, Albi ut male vivat filius utque 110 Baius inops? Magnum documentum, ne patriam rem perdere quis velit». A turpi meretricis amore cum deterreret: «Scetani dissimilis sis». Ne sequerer moechas, concessa cum venere uti possem: «Deprensi non bella est fama Treboni», 115 aiebat. «Sapiens, vitatu quidque petitu
Se qualche volta dico pane al pane, se magari mi permetto qualche scherzuccio, mi vorrai pur concedere in buona pace questo poco di libertà; mi ci ha abituato quel sant’uomo del padre mio che mi sottolineava con esempi ciascun difetto perché stessi in guardia. Se voleva raccomandarmi di vivere modestamente, senza eccessi e pago di quel che egli mi aveva procurato: «Non vedi che vita grama conduce il figlio di Albio? E Baio ridotto in miseria? È la lezione migliore per non pensare a dilapidare i beni paterni». Voleva distogliermi dall’amore indecoroso per una sgualdrina? «Non fare come Scetàno». Non dovevo andar dietro alle mogli adultere, quando potevo darmi ad amori leciti? «Non è bella figura quella di Trebonio colto in flagrante (mi diceva). Un filosofo ti spiegherà per teorie che
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PERCORSO ANTOLOGICO
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123. iudicibus selectis: i membri dei tribunali: venivano scelti dal pretore in base all’onestà dei costumi.
sit melius, causas reddet tibi; mi satis est, si traditum ab antiquis morem servare tuamque, dum custodis eges, vitam famamque tueri incolumem possum; simul ac duraverit aetas membra animumque tuum, nabis sine cortice». Sic me formabat puerum dictis et, sive iubebat ut facerem quid, «Habes auctorem, quo facias hoc» – unum ex iudicibus selectis obiciebat – sive vetabat, «An hoc inhonestum et inutile factu necne sit addubites, flagret rumore malo cum hic atque ille?» Avidos vicinum funus ut aegros exanimat mortisque metu sibi parcere cogit, sic teneros animos aliena opprobria saepe absterrent vitiis. Ex hoc ego sanus ab illis perniciem quaecumque ferunt, mediocribus et quis ignoscas vitiis teneor. Fortassis et istinc largiter abstulerit longa aetas, liber amicus, consilium proprium; neque enim, cum lectulus aut me porticus excepit, desum mihi: «Rectius hoc est; hoc faciens vivam melius; sic dulcis amicis occurram; hoc quidam non belle: numquid ego illi imprudens olim faciam simile?» Haec ego mecum
cosa va evitato, e a che cosa è meglio mirare; per me, basta se riesco a conservarti nella educazione tradizionale dei nostri vecchi, e, finché hai bisogno di una guida vigile, a mantenere diritta la tua vita e intemerato il tuo nome. Quando gli anni ti avranno irrobustito nel fisico e nel morale, ti terrai a galla con le tue forze». Con questi esempi e questi discorsi educava la mia giovinezza, e, se voleva che io mi comportassi in un dato modo: «Eccoti un modello su cui fare la tal cosa» (e qui mi citava uno dei probiviri). Se si trattava di sconsigliarmi: «E mi domandi se questo è o no sconveniente, dannoso, quando il tale e il talaltro sono sotto il fuoco della maldicenza?» Come la morte di un vicino sgomenta gli ammalati intemperanti e li riduce a una dieta, così spesso il disonore altrui distoglie dal male i caratteri non ancora formati. Così io sono immune dai vizi che rovinano l’uomo, e sono soggetto a debolezze abbastanza lievi e veniali. Forse anche da codeste mi possono liberare il passar degli anni, un amico franco, il mio stesso discernimento; perché quando mi stendo sul lettuccio o entro nel portico, non do tregua a me stesso: «Questo è più onesto: facendo la tal cosa la mia condotta sarà più lodevole; in questo modo sarò caro ai miei amici. Così ha fatto il tale; e non è stata una bella figura: o che io sarò così sventato da cascarci, prima o poi, al pari di lui?». 203 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
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compressis agito labris; ubi quid datur oti, inludo chartis. Hoc est mediocribus illis ex vitiis unum; cui si concedere nolis, multa poetarum veniet manus, auxilio quae sit mihi – nam multo plures sumus –, ac veluti te Iudaei cogemus in hanc concedere turbam.
Sono i discorsi che tengo con me stesso a bocca chiusa; e se poi mi resta un ritaglio di tempo, mi diverto a metterli in carta. Ecco: questa è già una di quelle tali mie debolezze; e se tu non me la volessi passare, verrà tutta una schiera compatta di poeti a darmi man forte, perché siamo grande maggioranza, e, come fanno i Giudei, obbligheremo te a passare nelle nostre file.
PERCORSO ANTOLOGICO
(trad. di A. Ronconi)
143. Iudaei: una folta comunità ebraica si era stanziata in Roma fin dai tempi di Cesare, facendosi subito notare per l’in-
sistente opera di proselitismo: di qui la battuta scherzosa di Orazio ( Satire I,
9, 69-70 [ T6] e Tibullo I, 3, 18 [ T2, cap. 4]).
T 6 Il seccatore Sermones I, 9 ITALIANO
In una Roma descritta con realistica concretezza – vengono nominati con precisione luoghi, vie, edifici, nonché i protagonisti della vita culturale urbana – l’autore ambienta una scenetta di carattere umoristico: un tale, che Orazio conosce appena, ma che vorrebbe essere presentato a Mecenate, perseguita il poeta tallonandolo da una parte all’altra della città. La figura del seccatore è disegnata con vivacità dialogica e finezza di particolari.
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Passeggiavo cosí, senza mèta, per la Via Sacra, come uso fare, tutto assorto, meditando non so quali sciocchezze; mi viene incontro uno che conosco solo di nome, mi stringe la mano e: «Come va, carissimo?», dice. «Benone», rispondo «per ora; e ti auguro ogni felicità». Poiché non mi molla, lo anticipo: «Ti serve qualcosa?» E lui: «Dovresti conoscermi, sono anch’io un letterato». «Questo accresce la mia stima per te», di rimando. Per seminarlo, ora m’affretto, ora mi fermo di botto e parlo all’orecchio del servo; comincio a grondare sudore dalla testa ai piedi. «Come ti invidio, Bolano», dicevo tra me,
1. via Sacra: la via più antica e importante di Roma, che attraversava il Foro in tutta la sua lunghezza.
11. Bolano: evidentemente un tipo irascibile. Il senso della frase è questo: avessi anch’io un carattere come quel-
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lo di Bolano, così potrei sbarazzarmi in fretta di questo seccatore!
PERCORSO ANTOLOGICO
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«testa calda!»; mentre quello non tace un momento e tesse l’elogio e di una strada e della città; io zitto. «Crepi di voglia d’andartene, lo vedo da un pezzo», fa lui; «ma non mi sfuggi, ora t’ho preso e ti tengo, ti starò dietro ovunque tu vada». «Non c’è ragione», gli dico, «che tu faccia con me questo giro: vado a trovare uno che nemmeno conosci, che sta fuori di mano, oltre il Tevere, vicino ai giardini di Cesare». «Non ho niente da fare e amo il passeggio; andremo insieme». Abbasso le orecchie, come il povero asino troppo gravato. Attacca: «Se ben mi conosco, non potrai in minor conto tenermi di Visco e di Vario; chi supera me nello scrivere versi e anche alla svelta? Chi sa danzare meglio di me? Nel canto, poi, sono l’invidia di tutti, persino di Ermogene». La misura era colma: «Ma non hai una madre», gli dico, «un parente piú prossimo, che ci tenga al tuo stato?» «Non ho piú nessuno, li ho tutti sepolti». «Beati loro: resto io; finiscimi, dunque, ché tanto un destino mi incombe che mi rivelò, quand’ero ragazzo, una vecchia Sabina, scossa l’urna del fato: “Non saranno i veleni né spada funesta a portarti alla tomba; e nemmeno la tosse, la polmonite o la tarda podagra; sarai vittima un giorno di un chiacchierone. Da grande, sta’ attento! Schiva i loquaci”». Giunti eravamo al tempio di Vesta, ed era volato un quarto del giorno; e lui, guarda caso, doveva recarsi, perché citato, in tribunale: non presentandosi, avrebbe perso la causa. «Se mi vuoi bene», dice, «prestami un po’ d’assistenza». «Ma non ne so niente di giudici e di sentenze! E poi devo andare». «Sono in dubbio», fa, «se lasciare andar te o la causa». «Me, senz’altro». «Non sia mai», dice lui; e tira avanti. Ha vinto; col piú forte soccombi; son costretto a seguirlo. «Come vanno le cose con Mecenate?», ripiglia; «certo, è uomo di pochi amici, ma di grande cervello. Nessuno ha sfruttato meglio di lui la fortuna. Sta certo che, se a lui mi presenti, ti sosterrei bene la parte di spalla; mi prenda un colpo se, con tale
19. vicino… Cesare: quelli che Cesare aveva lasciato in eredità al popolo di Roma. Si trovavano ai piedi del Gianicolo: dalla via Sacra, dunque, almeno un’ora di cammino. 23. Visco... Vario: poeti amici di Orazio. Per Vario Rufo, uno dei maggiori letterati del suo tempo, cap. 1.6.
25. Ermogene: ballerino e cantante alla moda. 31. l’urna del fato: dall’urna divinatoria, convenientemente agitata, venivano estratte delle piccole lamine di piombo, con incise le profezie. 35. al tempio di Vesta: piccolo e rotondo, si trovava all’estremità del Foro,
tra il Campidoglio e il Palatino, vicino al tribunale del pretore. Nel tempio ardeva costantemente la fiamma sacra di Roma. 35-36. un quarto/ del giorno: fra le nove e le dieci del mattino.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
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PERCORSO ANTOLOGICO
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rinforzo, non faresti fuori d’un tratto i rivali». «Non è fatto cosí Mecenate: non c’è casa piú pura di quella e lontana da tali miserie; non m’importa, sta’ certo, se qualcuno è piú ricco e piú colto di me: lí c’è posto per tutti». «Gran cosa mi narri, da crederci appena». «Eppure è cosí». «Mi accresci la voglia di stargli vicino». «Basta volere: il tuo merito è tale che potrai conquistarlo. Si sa vulnerabile, e per questo rende l’approccio difficile». «Non importa: riuscirò a corromper la gente di casa; respinto oggi, non mollerò l’impresa; troverò il momento opportuno; gli andrò incontro per strada; lo seguirò. Nulla concede la vita agli uomini se non a prezzo di grandi fatiche». Mentre discorre cosí, mi viene incontro Aristio Fusco, un caro amico che doveva conoscere bene il nostro. Ci fermiamo. «Da che parte vieni?», e: «Dove vai?»: le solite domande e risposte. Qui comincio a tirargli la veste e a dargli di gomito (ma lui fa finta di niente), a strizzargli l’occhio per farmi cavare d’impiccio. Quell’atroce burlone, ridendo, fa il nesci. Il fegato mi bruciava di bile. «Non volevi parlarmi», gli dico, «di qualcosa in privato?» «Ricordo, ma troveremo un momento migliore: è sabato, oggi, ed è luna nuova; non vuoi rispettare i Giudei?» «Non ho questi scrupoli», dico. «Ma io sí, ho questi problemi, come tanti. Ne riparleremo». Proprio una brutta giornata! Se ne scappa il vigliacco, e mi lascia sotto il coltello. Per fortuna, ecco viene diritto verso di noi l’avversario e: «Dove fuggi canaglia?», gli grida a gran voce; e a me: «Mi vuoi fare da teste?» Porgo senz’altro l’orecchio; lo trascina in tribunale: strepito, gente che accorre da tutte le parti. Fui salvo, grazie ad Apollo. (trad. di G. Manca)
61. Aristio Fusco: grammatico e commediografo, tra i più cari amici di Orazio. 69-70. è sabato… i Giudei?: si tratta di un sabato, giorno festivo per gli Ebrei, che per di più coincide col novilunio, primo giorno del mese lunare (altra ricorrenza importante della religione
ebraica). La battuta è ovviamente ironica: non a caso Orazio risponde di non avere «questi scrupoli», cioè di non credere a tali superstizioni. Questa e altre testimonianze indicano la presenza di una cospicua comunità ebraica a Roma ( T5, nota al v. 143 di Satire I, 4). 73. sotto il coltello: come una vittima
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che sta per essere immolata sull’altare. 76-77. Porgo… l’orecchio: si poteva trascinare a forza un avversario in tribunale solo in presenza di un testimone, al quale si toccava con un gesto rituale il lobo dell’orecchio, per rammentargli l’impegno; Orazio accetta insomma di far da testimone.
PERCORSO ANTOLOGICO
LETTURA e INTERPRETAZIONE Un registro ironico e malizioso
Lungi dal ricorrere a commenti moralistici e severi, Orazio fa uso di un registro narrativo maliziosamente ironico. Tra le presunte virtù artistiche dell’invadente seccatore, emerge ad esempio quella di scrivere «alla svelta» una grande quantità di versi (vv. 23-24), un peccato imperdonabile agli occhi del poeta (che in Sermones I, 4 aveva accusato Lucilio di scrivere duecento versi all’ora).
Autoritratto del poeta
Parallelamente, in modo svagato e spiritoso, quasi senza che il lettore se ne accorga, Orazio costruisce il proprio autoritratto. Fin dai primi due versi, ad esempio, si mostra nella posa di un uomo qualsiasi che passeggia «così, senza meta, per la via Sacra» (v. 1): meditans, secondo un’immagine tradizionale del poeta, ma anche immerso in «non so quali sciocchezze» (v. 2). Si rassegna docilmente all’inevitabile seccatura come il povero asinello «troppo gravato» (v. 21).
Sballottato per la città dall’irriducibile rompiscatole, giocosamente tradito dall’amico Aristio Fusco, che lo abbandona al suo destino (vv. 60-73), Orazio si dipinge insomma come una sorta di anti-eroe in balìa degli eventi.
Uno scioglimento parodistico
Comico è anche il finale, con quella battuta pronunciata intenzionalmente in tono solenne: «Fui salvo, grazie ad Apollo» (v. 78). Il lettore della satira, con il quale Orazio ha istituito un rapporto di spiritosa complicità, è subito in grado di interpretare la battuta come una giocosa parodia del mondo epico: il dio dei poeti (Apollo) soccorre il suo protetto (Orazio) come gli dèi di Omero soccorrevano gli eroi prediletti durante la furia dei combattimenti. Lo scioglimento buffo della satira, con il seccatore punito e l’anti-eroe Orazio salvo, risponde perfettamente al programma satirico del poeta, che è quello di correggere i vizi umani con l’arma del riso.
CULTURA e SOCIETÀ Tra fan e stalker Seccatore, scocciatore, arrivista, arrampicatore sociale: al personaggio di Satire I, 9 dobbiamo riferirci così, perché Orazio, tanto prodigo di nomi propri nelle sue Satire – anche in questa – non ce ne dice il nome, vendetta poetica nei confronti di un ambizioso nullafacente. Tipo sociale memorabile, di cui i narratori ottocenteschi avrebbero tracciato una vera e propria “fisiologia”, un identikit fisionomico e comportamentale: tra essi ricordiamo Carlo Lorenzini, in arte Collodi, che in un articolo pubblicato nel 1855 sul giornale fiorentino «Lo Scaramuccia» tratteggiava aspetto fisico e modo d’agire dell’«Uomo-Colla», poi ribattezzato «Uomo-Mastice», e già presentato altrove come «Uomo che fa le cinque», cioè che importuna chiunque gli capiti per tirare l’ora di cena. Nel racconto Un’antipatia, contenuto nel volume Macchiette (1880), l’Uomo-Colla spingerà il protagonista a farsi arrestare per una notte, pur di sfuggire alle sue grinfie. Nel Novecento il racconto di Dino Buzzati Il seccatore (pubblicato nella raccolta Il colombre e altri racconti nel 1966) insiste sull’iperbolica tenacia del personaggio, che, dopo aver indotto le sue vittime
umane a dargli denaro pur di liberarsi di lui, estorce persino la benevolenza ai santi, a furia di preghiere moleste. Un altro scrittore satirico (e misogino) come Carlo Emilio Gadda ebbe a osservare: «Una profonda e felice esperienza della vita mi induce ad escludere che esista il seccatore-femmina», e fu uno dei pochi difetti che lo scrittore lombardo negò alle donne. “Seccatore” perché asciuga le nostre energie, “scocciatore” perché, da una voce dialettale, frantuma le “cocce” cioè i gusci, il nostro anonimo è il contrario del modello oraziano di discrezione, moderazione e saper vivere, idealizzato nella stessa satira ai vv. 49-54 e antenato della figura del “cortigiano” del nostro Rinascimento. Un fan (anglismo che deriva da fanatic, «invasato») al contempo adulatore e vanitoso, che rischia di avvicinarsi allo stalker (letteralmente «colui che cammina furtivamente», facendo la posta a potenziali prede), il persecutore che assedia le sue vittime fino alla minaccia, o addirittura alla violenza: che il suo accusatore, pronto ad accaparrarsi Orazio come testimone a processo, non lo avesse denunciato proprio come persecutore seriale?
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 7 Il topo di città e il topo di campagna Sermones II, 6, 79-117
PERCORSO ANTOLOGICO
ITALIANO
1. farro e loglio: il farro è una varietà di frumento tradizionalmente poco pregiata; il loglio un’erba che infesta i campi di grano. 2. molossi: cani da guardia di forza straordinaria.
Nella prima parte della satira, Orazio ringrazia Mecenate per il dono di un podere in Sabina, grazie al quale egli ha potuto realizzare la massima aspirazione della sua vita: «un pezzo di terra non tanto grande, dove ci fosse un orto e una fonte di acqua perenne vicina alla casa e un po’ di bosco oltre a questo» (vv. 1-3). Successivamente, ai fastidi della vita di città viene opposto un quadro di vita semplice nella campagna sabina, trascorsa tra letture e conversazioni con i vicini. Proprio uno di questi vicini narra la favola del topo di campagna e del topo di città, sulla quale la satira si conclude. Radicato nella più remota cultura orale (la cui eco si ritrova già in Esiodo e in Archiloco), il patrimonio favolistico era approdato in Grecia a forma letteraria autonoma solo con Esopo, intorno al VI secolo a.C. A Roma le favole avevano trovato una prima accoglienza, pur episodica, nelle saturae di Ennio e di Lucilio, genere aperto alle suggestioni della cultura popolare. Nello schema consueto dell’apologo morale con animali parlanti, Orazio introduce alcuni dei motivi-cardine di tutta la sua poesia: la «vita nascosta», al riparo degli eventi della storia; l’autosufficienza del saggio, che si accontenta di quello che ha; la brevità della vita e l’invito al carpe diem.
Una volta un topo campagnolo ebbe ospite, nella sua povera tana, un topo di città, come tra vecchi amici che si fanno visita: taccagno e attaccato alle provviste, ma non tanto da non sgranchire la tirchieria ai doveri dell’ospitalità. In poche parole, non gli fece mancare né i ceci mesi in serbo, né l’avena dalle lunghe reste; gli offrì anche, portandoli in bocca, acini secchi e pezzetti di lardo rosicchiati, e cercava così, con una cena variata, di vincere le smorfie dell’ospite che spilluzzicava qua e là di malavoglia facendo boccucce; mentre il padron di casa, sdraiato sulla paglia fresca, rodeva farro e loglio1, lasciandogli i bocconi migliori. Alla fine il topo di città: «Che gusto ci trovi, amico, a viver di stenti su queste pendici scoscese e boscose? Perché non lasci il selvatico per la vita del mondo e la città? Dammi retta: prendi la strada insieme a me, visto che gli esseri della terra hanno una vita breve, e non c’è scampo alla morte né per i signori né per i poveri; e però, amico mio, finché sei a tempo, goditi le gioie del benessere, e ricordati quanto hai poco da vivere». Questo fervorino persuase il campagnolo, che balzò agile dalla sua tana; di lì percorrono insieme tutto il loro itinerario con la premura di infilarsi a notte sotto le mura della città. E già la notte era a mezzo del suo corso celeste, quando entrambi mettono piede in una casa signorile, dove una coperta tinta di rosso scarlatto faceva bella mostra di sé sui letti di avorio, e molti piatti avanzavano ancora di una ricca cena, messi da una parte il giorno prima in canestri ricolmi. Dunque, accomodato che ebbe il campagnolo lungo disteso su un bel tappeto di porpora, l’anfitrione si dà gran moto come avesse le vesti tirate su ai fianchi e fa seguire le portate una all’altra, e mentre fa gli onori di casa serve insieme anche da valletto, assaggiando prima tutto quello che mette in tavola. L’altro, comodamente adagiato, si bea nella sua nuova condizione, e, fra tutta quella grazia di Dio, si dà arie di convitato soddisfatto, quando a un tratto un gran fragore di porte li buttò tutti e due di soprassalto giù dai letti. E via a correre impauriti per la stanza, e scappare affannosamente mentre i latrati dei molossi2 rintronano il palazzo. Allora il campagnolo: «Questa vita non fa per me; addio; il mio bosco e la mia tana sicura dai pericoli mi compenseranno delle mie povere lenticchie». (trad. di A. Ronconi)
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 8 Il ritorno della primavera Carmina I, 4 LATINO
Nota metrica: sistema archilocheo terzo; nella strofe di quatto versi un archilocheo maggiore si alterna a un trimetro giambico catalettico.
Riprendendo un motivo ricorrente nell’epigramma ellenistico, il poeta canta il gioioso ritorno della bella stagione nell’ode a Sestio, probabilmente uno dei componimenti più antichi della raccolta. Alle immagini di luminosa vitalità primaverile subentrano improvvise, con un effetto di contrasto tipicamente oraziano, desolate visioni di tenebra e di morte. Ma già nella strofa centrale si era affacciato l’invito a godere del presente, inscindibile dall’avvertimento della fuga inesorabile del tempo; esortazione che verrà sviluppata nei versi conclusivi, così da ricondurre le violente antinomie in perfetto equilibrio. Orazio ritornerà sul motivo nella settima ode del IV libro [ T20].
Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni trahuntque siccas machinae carinas, ac neque iam stabulis gaudet pecus aut arator igni, nec prata canis albicant pruinis. Iam Cytherea choros ducit Venus imminente luna, iunctaeque Nymphis Gratiae decentes alterno terram quatiunt pede, dum gravis Cyclopum Volcanus ardens visit officinas. 5
[1-4] Si scioglie l’aspro inverno al gradito ritorno della primavera e del Favonio e gli argani tirano [giù in mare] le carene [delle navi che erano] in secco, e ormai non gode più delle stalle l’armento, né l’aratore del focolare, né i prati biancheggiano di candide brine. Solvitur: presente indicativo passivo con valore mediale di solvo, ĕre («si scioglie», «si dilegua»). All’inizio del verso e dell’intero componimento, il verbo, che evoca il disgelo, lo «sciogliersi» delle nevi e del ghiaccio, annuncia la fine dell’inverno «aspro», «pungente» (acris hiems, femminile) e lo schiudersi della dolce stagione con un moto gioioso di sollievo e quasi di sorpresa. – vice: ablativo temporale-causale del sostantivo vicis o vices, is (lett. «l’avvicendarsi», nel ciclo delle stagioni). – Favoni: genitivo singolare di Favonius, nome latino del vento tiepido che soffia da Occidente annunciando la primavera; detto anche, con nome greco, Zephirus. – machinae: soggetto di trahuntque, che apre la
serie delle quattro proposizioni coordinate alla principale (Solvitur... hiems). Le navi che durante l’inverno erano tenute all’asciutto, venivano tirate nuovamente in mare per mezzo di argani, facendole scorrere su rulli cilindrici di legno (kýlindroi o phalanges, in latino phalangae); Orazio, a differenza degli epigrammisti greci, evita il termine tecnico a favore del generico machinae, più consono allo stile elevato dei Carmina. – carinas: sineddoche per naves; la carena è la parte dello scafo che resta immersa nell’acqua. – stabulis: ablativo retto da gaudet, seguito dal soggetto pecus; il costrutto si ripete nella coordinata aut arator (gaudet) igni, in un’elegante disposizione a chiasmo. Si ricordi che aut in frase negativa vale «né». – albicant: verbo raro e ricercato, regge l’ablativo pruinis, cui si riferisce l’aggettivo canis. [5-8] E già Venere Citerea conduce le danze sotto la luna alta nel cielo, e le Grazie leggiadre, unite per mano alle Ninfe, battono col piede la terra a ritmo alterno, mentre Vulcano ardente
visita le faticose officine dei Ciclopi. Cytherea: è appellativo di Afrodite-Venere, che secondo una delle varianti più diffuse del mito nacque sulle rive dell’isola di Citera, a sud del Peloponneso. – imminente luna: lett. «sovrastante [= sovrastando] la luna», ablativo assoluto formato con il participio presente di immineo, ˉere («pendere sopra», «incombere»). – iunctaeque... pede: costruisci et decentes Gratiae iunctae Nymphis quatiunt terram alterno pede. – iunctae: lett. «unite» (da iungo, ĕre); ma il participio-aggettivo, riferito a Gratiae, ha qui verosimilmente il significato più specifico di «unite con le mani», ossia «tenendosi per mano». – Nymphis: dativo retto da iunctae. – alterno terram quatiunt pede: lett. «scuotono la terra con piede alterno», «ora con un piede ora con l’altro». – dum... officinas: costruisci dum Volcanus ardens visit gravis (= graves) officinas Cyclopum. La congiunzione dum introduce una proposizione subordinata temporale, il cui soggetto è Volcanus (o Vulcanus).
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Nunc decet aut viridi nitidum caput impedire myrto aut flore terrae quem ferunt solutae; nunc et in umbrosis Fauno decet immolare lucis, seu poscat agna sive malit haedo. 10
PERCORSO ANTOLOGICO
Pallida Mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turris. O beate Sesti, [9-12] Ora conviene cingersi il capo lucente di verde mirto, o dei fiori che la terra, dischiusa dal gelo, fa sbocciare; ora conviene anche immolare a Fauno nei sacri boschi ombrosi un’agnella, se la richiede, o, se lo preferisce, un capretto. Nunc decet ... solutae: costruisci Nunc decet impedire caput aut viridi myrto aut flore quem terrae solutae ferunt. – Nunc: l’avverbio di tempo, ripetuto in anafora all’inizio di ciascun distico della strofe, scandisce l’invito a godere «ora», senza rinviare all’incerto domani, della dolce stagione primaverile e delle gioie che porta con sé (cfr. I, 9, vv. 18 e 21 [ T10 ]). – decet: «è conveniente», «è bello»; anche l’espressione verbale ritorna nel secondo distico, esortando a dedicarsi alle attività più consone alla rinascita della natura. – impedire: «avvolgere», «cingere»; da impedio (in + pes, pedis; etimologicamente «porre i ceppi ai piedi»), ricercata variazione rispetto ai più comuni vincıˉre o implicare. – nitidum caput: oggetto di impedire; il capo è «lucente» (nitidum, aggettivo da niteo, ˉere, «splendere», «brillare») perché cosparso di unguenti profumati. – viridi... myrto: ablativo strumentale come flore, singolare collettivo (v. 10). Il mirto è la pianta sacra a Venere, e ben si addice alla stagione dell’amore; il verde è il colore delle foglie nuove e della giovinezza (cfr. virenti in I, 9, 17 [ T10]). Coronarsi di fiori e di fronde, così come cospargersi di profumi, era usanza conviviale derivata dal rituale greco del simposio. – terrae quem: anastrofe (= quem terrae). – solutae: «disciolte», «liberate»; participio-aggettivo (da solvo; cfr. Solvitur al v. 1). – nunc et ... lucis: costruisci nunc decet et immolare Fauno in ombrosis lucis. – Fauno: dativo di vantaggio retto da immolare. – seu poscat ... haedo: costruisci seu poscat (sibi immolari) agna sive malit (sibi immolari) haedo. La traduzione letterale dei vv. 11-
12 è la seguente: «ora conviene sacrificare a Fauno nei sacri boschi ombrosi, sia che richieda (che gli si sacrifichi) con un’agnella, sia che preferisca (che gli si sacrifichi) con un capretto», dove agna e haedo sono ablativi strumentali. [13-15] La pallida Morte batte con piede imparziale alle capanne dei poveri e ai palazzi turriti dei re. O Sestio beato, la breve durata della vita ci vieta di concepire una lunga speranza. Pallida Mors: personificazione. La Morte è detta Pallida per la tinta cadaverica del suo volto spettrale. – aequo ...
pede: ablativo strumentale. Gli antichi usavano bussare alle porte con il piede, anziché con la mano. – pulsat: da pulso, aˉre (intensivo-frequentativo di pello, ĕre); il verbo rende espressivamente l’insistenza e l’inesorabilità del cupo richiamo, sottolineate dall’ossessiva allitterazione in p che ritma il verso 13. – pauperum ... regumque: l’imparzialità della morte (già espressa mediante l’aggettivo aequo) che non fa differenza alcuna tra ricchi e poveri è luogo comune in ogni tempo. Si veda anche l’ode oraziana II, 14, 11-12 [ T17]. – tabernas ... turris:
Flora, affresco dalla Villa di Arianna a Stabiae, fine I secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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PERCORSO ANTOLOGICO
vitae summa brevis spem nos vetat inchoare longam. Iam te premet nox fabulaeque Manes 15
et domus exilis Plutonia; quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis, nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventus 20 nunc omnis et mox virgines tepebunt.
oggetti di pulsat. Tabernas, che designa le umili capanne dei poveri, è vocabolo “basso” e prosastico; turris (= turres), sineddoche per i magnifici palazzi ornati di torri dei ricchi e dei potenti, è termine poetico. – O beate Sesti: solo ora viene pronunciato il nome del destinatario, subito dopo la riflessione di sapore gnomico sul comune destino di morte dei ricchi e dei poveri. Infatti beatus significa «felice», «fortunato», a designare colui al quale non manca alcun bene morale né materiale. – vitae ... longam: costruisci: summa brevis vitae vetat nos inchoare spem longam, dove summa brevis vitae, lett. «la somma breve della vita [= la somma breve, il numero limitato degli anni, dei giorni che ci è concesso di vivere]», è soggetto di vetat, da cui dipende l’infinitiva oggettiva nos... inchoare (lett. «che noi incominciamo», «intraprendiamo»; nos è accusativo soggetto dell’infinitiva); spem longam è oggetto di inchoare. Implicita l’esortazione (carpe diem) espressa nell’ode I, 11 a Leuconoe, dove ricorrono analoghi concetti, termini-chiave e immagini, e in particolare i medesimi aggettivi in antitesi (et spatio brevi / spem longam reseces, vv. 6-7 [ T11]). [16-20] Presto su di te incomberà la notte, e i Mani, [vuote] favole, e l’incorporea dimora di Plutone; e là, quando vi sarai entrato, non trarrai a sorte coi dadi il regno del convito, e non contemplerai il tenero Licida, per cui ora tutti i giovani ardono, e fra poco si scalderanno le fanciulle. premet: futuro di premo, ĕre, singolare con tre soggetti (nox ... Manes ... domus Plutonia). Il verbo esprime potentemente l’angoscioso senso di oppressione, di chiusura degli spazi, di costrizione che si immagina afferri colui che è precipitato nel regno dei morti. Non si dimentichi peraltro che alle immagini mitiche e poetiche corrisponde, sul piano filosofico-razionale, secondo la dottrina
epicurea professata da Orazio, il puro e semplice annientamento (ne è spia fabulae). – nox: secco monosillabo; è probabile che agisca qui la memoria del carme 5 di Catullo (v. 6). La «notte», oscurità dell’oltretomba sotterraneo e metafora della morte. – fabulaeque Manes: fabulae, nominativo plurale, è apposizione di Manes («i Mani [che sono] favole», leggende prive di fondamento); secondo altri è genitivo singolare («i Mani della favola»), senza sostanziale mutamento di significato. – exilis: «esile», «sottile», inconsistente come le ombre che l’abitano, è attributo di domus ... Plutonia. Sono state proposte altre interpretazioni di exilis: «misera», «squallida»; o ancora «angusta», «ristretta». – quo simul mearis: quo simul = simul quo, per anastrofe; quo, avverbio di moto a luogo, funge da nesso relativo; simul, avverbio di tempo, è qui impiegato come congiunzione temporale a introdurre il predicato meaˉris (= meavĕris), futuro anteriore di meo, meaˉre («passare», «entrare» in una via tracciata), arcaismo. – nec ... nec: anafora. – regna... talis: regna vini (lett. «i regni [= il regno] del vino») è oggetto di sortieˉre (= sortieˉris), seconda persona singolare del futuro di sortior, ˉıri (deponente), che
regge l’ablativo plurale strumentale talis – tenerum Lycidan: nome greco di un ragazzo con desinenza greca dell’accusativo, oggetto di mirabere; l’aggettivo tener allude insieme alla delicata bellezza e alla giovanissima età dell’efebo. – mirabĕre: futuro (= mirabĕris), da miror, aˉri, deponente. – quo: ablativo causale del pronome relativo, riferito a Lycidan. – iuventus: metonimia per iuvenes (l’astratto per il concreto), con cui concorda il nominativo femminile singolare omnis. – calet: da caleo, ˉere («ardere di passione», come flagrare), presente indicativo; il soggetto è iuventus. Si fa riferimento al costume ellenico degli amori efebici, diffuso ormai da tempo in Roma soprattutto nelle cerchie intellettuali e aristocratiche. – mox: «ben presto», «fra poco», cioè quando Licida non sarà più un fanciullo e incomincerà a suscitare il desiderio delle ragazze (virgines), mentre perderà di attrattiva per i giovani; si contrappone a nunc. – tepebunt: futuro di tepeo, ˉere (lett. «esser tiepido»; per traslato «innamorarsi»). Il finale dell’ode, che evoca immagini di vita mondana e schermaglie amorose, sortisce un effetto piuttosto marcato di alleggerimento rispetto a quanto precede.
NOMI e PAROLE degli ANTICHI Regna vini: l’espressione oraziana (letteralmente «i regni [= il regno] del vino») si riferisce a un’usanza importata dalla Grecia, secondo la quale nei conviti si sorteggiava, gettando i dadi, il rex convivii («re del convito»), detto anche arbiter o magister bibendi («arbitro», «reggitore del bere»), in greco symposíarchos («simposiarca»).
Al rex designato dalla sorte i convitati dovevano obbedienza; egli imponeva le sue “leggi”, che regolavano la quantità e i modi del bere, la proporzione in cui il vino doveva essere mescolato con l’acqua, e così via, vigilando che non sorgessero contese tra i commensali.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
LETTURA e INTERPRETAZIONE
PERCORSO ANTOLOGICO
Datazione e destinatario dell’ode
Il componimento occupa nella raccolta dei Carmina oraziani un posto d’onore, il quarto, subito dopo le odi dedicate a Mecenate (I, 1) ad Augusto (I, 2) e a Virgilio (I, 3): è indirizzata infatti al console del 23, anno di pubblicazione dell’opera, Lucio Sestio Quirino. Quest’ultimo, fervente seguace di Bruto, prese parte come Orazio alla guerra di Filippi (42 a.C.) a fianco dei cesaricidi; il poeta potrebbe averlo conosciuto già a quel tempo. In seguito Augusto gli perdonò la giovanile militanza repubblicana e ne favorì la carriera politica, coronata dalla dignità consolare. A lui Orazio si rivolge con un vocativo (O beate Sesti, v. 14) che lo rappresenta come uomo ricco e fortunato. Non è improbabile tuttavia che l’ode risalga a diversi anni prima: lo attesterebbe il metro epodico, che secondo alcuni studiosi contrassegna i testi più antichi della raccolta (fra questi I, 7); inoltre, è abbastanza evidente che a Sestio il poeta attribuisce qui implicitamente anche il dono della spensierata giovinezza.
Armonia strutturale
Forti contrasti di luce e di colore
Alla ripresa delle attività umane dopo la lunga sosta invernale (vv. 1-4), il poeta fa seguire immaginosamente una sorta di analogo “risveglio” nel mondo degli dèi, rappresentando due scene mosse e animate, in forte contrasto luministico e coloristico: all’armoniosa danza di Venere, delle Grazie e delle Ninfe nella fresca luce argentea della luna, si contrappongono le forge infuocate dei possenti Ciclopi e di Vulcano nelle oscure caverne sotterranee, rischiarate soltanto dai rossi bagliori delle fiamme (vv. 5-8). Ai vividi colori e all’atmosfera gioiosa dei versi precedenti (segnalata anche a livello metrico-ritmico dal predominio dei dattili, veloci e leggeri, nel v. 9) si contrappone violentemente l’incipit del v. 13, con l’irrompere improvviso della Morte personificata con il suo cadaverico pallore, cui seguono angosciose immagini di tenebra e d’oltretomba (vv. 16-17).
Perfetto equilibrio tra cupe visioni di morte e luminosa vitalità primaverile
La struttura dell’ode è limpida, armoniosa e classicamente bilanciata: a una sezione d’esordio, coincidente con le prime due strofe, che descrive il ritorno della primavera (vv. 1-8), segue la strofa centrale, con l’invito ai rituali festeggiamenti in onore della bella stagione (vv. 9-12); le due ultime strofe segnano il brusco passaggio alla meditazione sulla morte sempre in agguato e dunque alla constatazione della brevità della vita e della fugacità di ogni gioia (vv. 13-20).
Ma le visioni cupe e desolate della notte perpetua e delle dimore di Ade non prevalgono sulle immagini luminose e sulla vitalità gioiosa delle strofe primaverili, lasciando filtrare, sia pure in forma negativa e indiretta (nec ... nec, vv. 18-19) una rinnovata esortazione a godere nel presente dei piaceri del convito e dell’amore, che prende forza e necessità, in un perfetto equilibrio, proprio dalla riflessione sulla fuga inarrestabile del tempo e sull’ineludibile richiamo della morte eguagliatrice.
Analizzare il testo
5. Per quale ragione troviamo mearis, futuro anteriore, al v. 17?
1.
Dal punto di vista strutturale (e tematico), è possibile dividere l’ode in parti o sezioni chiaramente distinte? Si può parlare di un’architettura bipartita o tripartita? 2. Il testo è palesemente costruito su un gioco di immagini antitetiche. Individua, analizza e commenta le immagini di vitalità e rinascita, e per contro quelle di morte. 3. Ai forti contrasti che si instaurano fra le immagini corrisponde una chiara contrapposizione di piani temporali: individuali, analizzando le forme verbali e gli avverbi di tempo presenti nel testo. 4. Qual è la funzione logico-sintattica degli ablativi stabulis, igni (v. 3) e pruinis (v. 4)?
Confrontare e interpretare i testi
6. Sviluppa un confronto tra l’ode I, 4 a Sestio e la I, 11 a Leuconoe [ T11], con particolare riguardo ai seguenti aspetti: a) il motivo del carpe diem; b) la meditazione sul tempo e sulla morte; c) le strutture antitetiche, in particolare la contrapposizione fra presente e futuro (tempi verbali; avverbi di tempo). 7. Dopo aver letto l’ode IV, 7 [ T20], rintraccia gli elementi comuni e le differenze sul piano tematico e stilistico-espressivo.
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 9 A una donna dai capelli fulvi Carmina I, 5 LATINO
Nota metrica: sistema asclepiadeo terzo, composto di due asclepiadei minori seguiti da un ferecrateo e da un gliconeo.
Orazio si rivolge a Pyrrha, forse la più enigmatica e fascinosa tra le tante figure femminili che fanno la loro fuggevole apparizione nelle liriche oraziane. In quest’ode il poeta si rappresenta, come accade in altri celebri testi della raccolta (I, 9 [ T10]; I, 11 [ T11]) quale personaggio maturo ed esperto, di contro a un puer improvvido e ingenuo, cui profetizza le cocenti quanto inevitabili delusioni che lo attendono. Riprendendo con arte e profondità incomparabili il tradizionale tópos della donna incostante e infida come il mare, Orazio tesse un raffinatissimo intreccio di metafore marine in una lirica apparentemente limpida, in realtà sfuggente e misteriosa nella sua persistente ambiguità.
Quis multa gracilis te puer in rosa perfusus liquidis urget odoribus grato, Pyrrha, sub antro? Cui flavam religas comam, simplex munditiis? Heu! quotiens fidem mutatosque deos flebit et aspera nigris aequora ventis emirabitur insolens, 5
[1-5] Chi è lo snello giovinetto, tutto cosparso di unguenti profumati, che si stringe a te su un giaciglio di rose, o Pyrrha, nella grotta deliziosa? Per chi annodi la chioma bionda, semplice nella tua eleganza? Non è facile, in verità, definire con esattezza la situazione delineata in questa prima strofe: un’immaginazione del poeta, il quale forse, s’intuisce, aveva intrecciato una relazione amorosa con Pyrrha, e ora è certo di essere stato sostituito da un nuovo amante? un’ironica profezia, senza personale coinvolgimento? oppure la rappresentazione di un evento reale? La forma interrogativa dei vv. 1-5 rende ancora più arduo dare una risposta. – Quis multa... sub antro?: costruisci Quis gracilis puer perfusus liquidis odoribus te urget, Pyrrha, in multa rosa sub grato antro? – Quis... gracilis te puer... urget: lett. «Quale snello giovinetto ti stringe [= ti abbraccia con passione]». Quis, aggettivo interrogativo maschile singolare, concorda con puer e introduce la prima delle due interrogative dirette che si susseguono nei vv. 1-5. L’aggettivo gracilis non allude, come invece in italiano, a una magrezza eccessiva che denota debolezza fisica o ritardo nello sviluppo, ma alla figura sot-
tile e slanciata, alle forme efebiche del giovanissimo amante. – multa... in rosa: sineddoche (singolare per il plurale) per in multis rosis, lett. «su» o «fra molte rose»; «tra le rose sparse a profusione». È probabile che si alluda a un letto o giaciglio cosparso di petali di rose. – perfusus: «inondato», «stillante»; participio perfetto di perfundo, ĕre (per, che indica abbondanza, + fundo, «versare»). – liquidis... odoribus: ablativo strumentale; odoribus per metonimia indica le essenze odorose emulsionate con olii, balsami profumati dei quali era usanza cospargersi i capelli e il corpo durante i conviti o gli incontri amorosi. L’aggettivo significa «fluidi», oppure «limpidi», o ancora «lucenti»; l’abbondanza con cui l’inesperto amante si è «inondato» di profumi viene sottolineata non senza un lieve tocco di ironia. – grato... antro: non è necessario immaginare un’ambientazione boschereccia o campestre; si tratterà piuttosto di una di quelle grotte artificiali di cui i ricchi romani amavano ornare i loro giardini, luoghi appartati d’ombra e di frescura, propizi agli svaghi e al riposo, così come ai convegni d’amore. – Pyrrha: nome greco, molto probabilmente fittizio, dall’aggettivo pyrrhós («colore di fuoco», «biondo-ros-
so») a sua volta derivato del sostantivo pýr («fuoco»), allusivo al colore dei capelli della donna e insieme al fulgore della sua bellezza. – Cui: dativo di vantaggio. – religas: presente indicativo di II persona singolare da relı̆go, aˉre («legare dietro», «annodare»), che indica il gesto, in apparenza spontaneo e naturale, in realtà carico di sensualità e di malizia, di raccogliere indietro la chioma in un nodo o intreccio sulla nuca; un’acconciatura davvero molto semplice, ma che proprio per questo denuncia un’ancor più studiata, raffinatissima arte della seduzione. [5-12] Ahimè! quante volte piangerà la fede [tradita] e gli dèi mutati, e – inesperto – guarderà stupefatto la distesa del mare sconvolta dai foschi venti, egli che ora gode, fiducioso, di te splendida, egli che si aspetta di trovarti sempre libera, sempre amabile, ignaro della brezza ingannatrice. Con l’interiezione esclamativa di dolore e deplorazione (Heu!) ha inizio la sequenza centrale dell’ode, nella quale il poeta, dall’alto della sua esperienza, profetizza, aprendo la serie delle metafore marine che continuerà fino alla conclusione del componimento, le cocenti delusioni che attendono il
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
qui nunc te fruitur credulus aurea, qui semper vacuam, semper amabilem sperat, nescius aurae fallacis. Miseri, quibus
PERCORSO ANTOLOGICO
10
giovinetto inesperto (insolens), troppo fiducioso (credulus) e ignaro (nescius) della tempesta che si prepara, cioè della volubilità amorosa di Pyrrha. – quotiens… insolens: costruisci quotiens flebit fidem mutatosque deos et insolens emirabitur aequora aspera nigris ventis. – flebit: futuro di fleo, eˉre («piangere») usato transitivamente, ha per oggetti gli accusativi fidem/ mutatosque deos; il soggetto è ovviamente il puer (v. 1), così come dell’altro futuro emirabitur (v. 8), che regge quale complemento diretto aspera... aequora, accusativo neutro plurale. – fidem... deos: fides, nel lessico della poesia erotica, indica il patto di reciproca fedeltà tra gli amanti (il catulliano foedus amoroso). Con l’espressione mutatos... deos il poeta sembra sottolineare ulteriormente l’ingenuità dell’inesperto amante, che di fronte agli immancabili tradimenti vorrà attribuirli alla capricciosa volubilità degli dèi d’amore. Nigris... ventis è ablativo di causa, da connettere ad aspera. È detto niger il
vento apportatore di tempesta; albus o candidus, per contro, il vento che spira nel cielo sereno. – emirabitur: da emiror, aˉri, deponente (e/ex intensivo + miror) – insolens: «non avvezzo», «non solito» (in, prefisso negativo, + soleo, ˉere), dunque «inesperto» – qui nunc... aurea: l’aggettivo credulus è predicativo del soggetto, espresso dal pronome relativo qui; fruitur, presente indicativo del deponente fruor, fruitus e fructus sum, frui («usufruire», «godere»; qui evidentemente in accezione erotica), regge l’ablativo te, concordato con aurea. Quest’ultimo aggettivo, riferito a Pyrrha, oltre a formare paronomasia con aurae (fallacis; v. 11), evoca nuovamente il fulgore della bellezza di lei e insieme, con raffinata variazione, il colore dei suoi capelli; ma già in Omero è un epiteto della divinità, e in particolare dell’«aurea Afrodite», dea dell’amore. – qui semper... sperat: costruisci qui sperat (te) semper vacuam, semper amabilem. Due aggettivi in funzione predicativa dell’oggetto sottinteso
(te): vacuam, lett. «vuota», ossia «libera», «disponibile»; amabilem, nello specifico significato potenziale-passivo degli aggettivi in -bilis, «che può essere amata», «che si lascia amare». [12-16] Miseri, quelli cui ancora ignota risplendi! Quanto a me, la sacra parete [del tempio] indica con una tavola votiva che ho dedicato le [mie] umide vesti al dio signore del mare. Miseri: nel lessico della poesia erotica miser è termine “tecnico” a designare l’innamorato infelice, tradito o comunque preda del tormento amoroso. – qui bus: sott. ii, concordato con il nominativo esclamativo Miseri. – intemptata: lett. «non sperimentata» (in prefisso negativo + participio perfetto di tempto, aˉre); «senza che ti abbiano sperimentata», «quando ancora non ti conoscono». – nites: «risplendi» (da niteo, ˉere). – Me tabula... maris deo: costruisci paries sacer tabula votiva indicat me suspendisse uvida vestimenta deo potenti maris. – Me: pronome personale in accusativo,
Le FORME dell’ESPRESSIONE Simplex munditiis: una caratteristica callida iunctura oraziana ▰ Che cos’è la callida iunctura L’espressione callida iunctura, che si può tradurre con «accostamento sagace», designa uno degli stilemi più originali e caratteristici della scrittura oraziana: il poeta ricerca inedite combinazioni espressive risemantizzando vocaboli di uso comune, che grazie all’inconsueta collocazione sprigionano nuovi e imprevisti significati.
▰ Simplex munditiis L’aggettivo e il complemento
formano un ricercato ossimoro: simplex indica ciò che è genuino, schietto, non artefatto; munditiis è ablativo plurale del sostantivo munditia, che invece rinvia agli artifici e alle raffinatezze dell’eleganza, specialmente femminile (nell’abbigliamento, nell’acconciatura, nelle maniere). L’ambiguità dell’accostamento ossimorico viene accentuata dalla non facile determinazione
dell’esatto valore sintattico dell’ablativo munditiis, che può essere di limitazione o di causa, ma anche concessivo («semplice, nonostante la tua eleganza»). In ogni caso l’espressione, pressoché intraducibile nelle sue sottili sfumature, allude a una perfetta fusione di semplicità e di eleganza, e al tempo stesso vale a definire in una memorabile sintesi le caratteristiche dell’arte di Orazio, del suo gusto classico.
▰ Altri esempi di callidae iuncturae Sempre nell’ode a Pyrrha, ai vv. 6-7 aspera... aequora forma, mediante l’accostamento ossimorico, un’altra callida iunctura tipicamente oraziana; infatti aequora, dall’aggettivo aequus («eguale», «liscio») indica una distesa tranquilla e piana, mentre aspera denota una superficie increspata, mossa e ineguale (le acque marine improvvisamente sollevate dal moto ondoso); e ancora potremmo citare l’ode a Taliarco, dove troviamo virenti canities (Carmina I, 9 [ T10]; cfr. la nota al v. 17).
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PERCORSO ANTOLOGICO
intemptata nites! Me tabula sacer votiva paries indicat uvida 15 suspendisse potenti vestimenta maris deo.
è soggetto dell’infinitiva oggettiva dipendente da indicat, il cui predicato è suspendisse, infinito perfetto attivo di suspendo, ĕre, propriamente «appendere». In posizione di rilievo e in forte antitesi con Miseri, il pronome di I persona vale a contrapporre energicamente, secondo una movenza stilistico-espressiva ricorrente in Orazio (me-Stil) l’atteggiamento e le scelte del poeta a quelli altrui (cfr. I, 7, 10). – tabula... votiva: ablativo strumentale. Si tratta, secondo un’usanza antichissima, perdurata nei secoli e ancor oggi diffusa, di un ex voto: «I naufraghi scampati alla morte, mantenendo un voto fatto al dio del mare nel momento del pericolo, gli offrivano un quadretto che indicava le circostanze del voto esaudito, e i vestiti che portavano durante il naufragio» (La Penna). Fuor
di metafora, il poeta, fatta esperienza dell’incostanza di Pyrrha (e forse delle donne in generale), dichiara con garbata ironia di essersi sottratto appena in tempo alle insidiose attrattive di lei, e di trovarsi ormai in condizione di evitare, o di aver saggiamente rinunciato ad affrontare, il rischio di ulteriori, amari
disinganni. – uvida: «umide», «bagnate»; aggettivo neutro plurale (uvidus, a, um) concordato con vestimenta (v. 16). – potenti: non è aggettivo ma sostantivo, concordato con il dativo deo; lett. «che ha, che esercita il potere», dunque «signore». Il «dio signore del mare» è ovviamente Poseidon-Nettuno.
Ritratto femminile, particolare di un affresco della Villa dei Misteri a Pompei.
LETTURA e INTERPRETAZIONE Complessità strutturale e stilistica dell’ode
A Pyrrha, la donna dai capelli fulvi, d’oro e di fuoco, si rivolge il poeta in quest’ode di squisita eleganza, nitidamente semplice in apparenza, in realtà complessa, sia dal punto di vista strutturale e stilistico, sia sul piano interpretativo.
Strofa I: un quadretto di gusto ellenistico
Il componimento si apre con un raffinato quadretto di gusto ellenistico, nel quale si fondono armoniosamente grazia, sensualità e sottile ironia: in una grotta deliziosa, su un giaciglio di rose, un giovinetto profusamente cosparso di unguenti odorosi
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
si stringe alla bellissima donna. Splende al centro della scena la chioma biondo-rossa di Pyrrha, simplex munditiis: nella callida iunctura, così caratteristicamente oraziana, si racchiude l’essenza del fascino seduttivo di questa figura femminile, enigmatica e distante nel suo splendore, volubile e insidiosa come il mare.
PERCORSO ANTOLOGICO
Strofe II-III-IV: metafore marine
Nelle strofe successive, legate fra loro mediante un gioco di forti contrasti, si sviluppa infatti una serie di metafore marine: l’inesperto puer ben presto piangerà, allo scatenarsi dell’impreveduta tempesta (i tradimenti, il discidium; strofa II), lui che ora gode dei piaceri d’amore fidando ciecamente che durino per sempre, come la dolce, ingannevole brezza che spira sul mare calmo (strofa III); invece il poeta, naufrago miracolosamente scampato ai flutti scatenati, dedica, ormai salvo e al sicuro, un ex-voto al dio del mare quale rendimento di grazie (strofa IV).
La donna e il mare: una lunga tradizione nel segno di Afrodite
La raffigurazione della donna come forza della natura, e in particolare l’immagine del mare mutevole e pericoloso quale metafora dell’incostanza femminile, ha dietro di sé una lunga tradizione nella letteratura antica, dai giambi misogini di Semonide di
Analizzare il testo 1.
Il poeta si rivolge a una donna di nome Pyrrha. Si tratta di un “nome parlante”? Che cosa significa? Vi sono altre espressioni e immagini nel testo che si connettono allusivamente a questo nome? 2. Al v. 9 Pyrrha è detta aurea. Spiega il significato e le implicazioni di questo aggettivo nel contesto dell’ode. 3. Chi sono i “personaggi” dell’ode? Come vengono rappresentati? In particolare, il poeta si sofferma sul puer, caratterizzandolo mediante numerosi aggettivi e forme verbali fra loro coerenti e
Amorgós a Plauto; in particolare, le metafore marine ricorrono diffusamente negli epigrammi erotici dell’Antologia Palatina, che giocano con ingegnose variazioni sulle mitiche prerogative di Afrodite, la dea dell’amore nata dalla schiuma del mare. E anche qui, infatti, dietro la figura dell’aurea Pyrrha splende quella della dea (v. 9). Ma Orazio va ben al di là della ludica leggerezza alessandrina, così come della tradizionale misoginia.
Il personaggio-poeta e il giovane ingenuo
Come accade in altre, famose odi, il poeta ama rappresentarsi come un uomo maturo, esperto e consapevole, di contro a figure di giovanissimi ingenui (qui il puer; altrove saranno Taliarco o Leuconoe), cui somministra, con distacco ironico e insieme con umana partecipazione, non senza un’ombra di malinconia, insegnamenti di disincantata saggezza.
Una sottile ambiguità
Nondimeno, l’atteggiamento del personaggio-poeta sfugge a una così precisa determinazione: alcuni interpreti ritengono infatti che il sentimento dominante nell’ode a Pyrrha sia la gelosia, e che vi affiorino i segni di una passione non del tutto superata. Così, una sottile ambiguità pervade l’intero componimento, non ultima ragione del suo fascino.
funzionali a darne un “ritratto” piuttosto preciso: quali? 4. Analizza il testo dal punto di vista strutturale, dividendolo in sequenze, a ciascuna delle quali dovrai assegnare un breve titolo-didascalia, e osservando se le parti individuate corrispondono, più o meno esattamente, alle singole strofe. 5. Individua le metafore presenti nell’ode I, 5 e spiega a quale campo semantico appartengono, illustrandone il significato.
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 10 Il monte Soratte Carmina I, 9 LATiNO ITALIANO
LETTURA METRICA
Nota metrica: sistema alcaico, composto di due endecasillabi alcaici seguiti da un enneasillabo e da un decasillabo alcaici.
La poesia inizia (vv. 1-8) con la descrizione di un raggelato paesaggio invernale, cui il poeta oppone una scena d’interno domestico allietata dal fuoco e dal vino. «Piove, e dal cielo grande tempesta scende/ e sono gelate le correnti dei fiumi… Scaccia il freddo ammucchiando gran fuoco e mescendo senza risparmio vino dolce», aveva scritto il poeta greco Alceo in un frammento giuntoci in cattive condizioni (fr. 338 Lobel-Page). Orazio rinnova lo spunto alcaico con l’immagine del Soratte innevato, un paesaggio al contempo familiare e interiore. Seguono tre strofe (vv. 9-18) di carattere gnomico, che svolgono motivi caratteristicamente oraziani: la brevità della vita, l’esortazione a godere del presente (come in I, 11 [ T11]) prendendo atto con lucida, rassegnata consapevolezza che tutto «il resto» (v. 9) è in mano agli dèi, cioè alle forze ignote e possenti che governano quanto sfugge al controllo umano. Nell’ultima parte dell’ode ci spostiamo dalla campagna alla grande città (e dall’inverno alla primavera): in una Roma galante e notturna si svolge una graziosa scena di gusto realistico e alessandrino (la ragazza nascosta che ride e poi si lascia sfilare, fingendo ritrosia, un braccialetto o un anello, pegno d’amore per il prossimo appuntamento).
Vides ut alta stet nive candidum Soracte nec iam sustineant onus silvae laborantes geluque flumina constiterint acuto. Dissolve frigus, ligna super foco large reponens atque benignius deprome quadrimum Sabina, o Thaliarche, merum diota. 5
Vedi come si erge candido di neve alta il Soratte, né più sostengono il peso le selve affaticate e per il gelo acuto i fiumi si sono fermati. Sciogli il freddo gettando legna sul fuoco senza risparmio, e più largamente mesci vino vecchio di quattro anni, o Taliarco, dall’anfora sabina. 5
2. Soracte: monte di modesta altezza che sorge a una quarantina di chilometri a nord di Roma. 8. Thaliarche: forse un giovane amico
del poeta; verosimilmente si tratta di un nome fittizio e simbolico, dato che in greco significa «re del convito» (nonché, al tempo stesso, «re della gioia»).
– merum: vino schietto, non miscelato (com’era costume nel mondo antico) con acqua. – diota: significa «a due orecchi », dunque un’anfora a due anse.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Permitte divis cetera, qui simul stravere ventos aequore fervido deproeliantis, nec cupressi nec veteres agitantur orni. 10
Quid sit futurum cras fuge quaerere, et quem Fors dierum cumque dabit, lucro 15 adpone, nec dulcis amores sperne puer neque tu choreas, donec virenti canities abest morosa. Nunc et Campus et areae lenesque sub noctem susurri 20 conposita repetantur hora,
PERCORSO ANTOLOGICO
nunc et latentis proditor intumo gratus puellae risus ab angulo pignusque dereptum lacertis aut digito male pertinaci. Lascia il resto agli dèi: appena hanno placato 10 i venti sul mare fervido furiosi, né i cipressi né i vecchi frassini più agitano le cime. Del domani non darti pensiero, qualunque giorno ti darà la sorte 15 contalo tra i guadagni e i dolci amori non disprezzare, e le danze, già che sei giovane e la canizie scontrosa ti è lontana. Ora il Campo e le piazze e i lievi sussurri sul far della notte 20 devi cercare all’ora convenuta, ora il gradito riso che da angolo appartato tradisce la fanciulla nascosta e il pegno d’amore strappato al braccio o al dito che finge di resistere. (trad. di A. Roncoroni) 17. virenti canities: esempio di callida iunctura oraziana, dove all’antitesi concettuale (giovinezza/vecchiaia) si ag-
giunge un vivido contrasto coloristico: virenti (da vireo) significa propriamente «a te che verdeggi»; canities deriva da ca-
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nus («bianco», «canuto»). 18. Campus: il Campo Marzio.
PERCORSO ANTOLOGICO
T 11 Carpe diem Carmina I, 11 LATINO
Rivolgendosi a una ragazza, ansiosa di conoscere il suo futuro, Orazio detta alcune semplici norme di vita in un’ideale sintesi di saggezza: alla precarietà e fugacità della vita, all’impossibilità di sapere quello che porterà il domani (gli dèi hanno posto limiti invalicabili alla conoscenza umana: scire nefas), corrisponde l’esortazione ad accettare il proprio destino (Ut melius, quicquid erit, pati) e a godere del tempo presente, a vivere come se ogni giorno della nostra esistenza fosse l’ultimo (carpe diem).
Nota metrica: asclepiadei maggiori.
5
Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati! Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam, quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
[1-3] Tu non chiedere – non è lecito saperlo – quale sorte a me, quale a te gli dèi abbiano assegnato, Leuconoe, e non tentare i calcoli babilonesi. Tu: il pronome personale, di norma sottinteso, è qui posto in forte rilievo, forse per esortare la fanciulla a non seguire l’esempio di tanti altri che ansiosamente (e vanamente, s’intende) si adoperano per conoscere il futuro. – ne quaesieris: costruzione dell’imperativo negativo con l’avverbio ne + congiuntivo perfetto; analogamente nella coordinata nec... temptaris (vv. 2-3). Il verbo quaerere («chiedere», «indagare») era d’uso corrente per la consultazione degli indovini. – scire nefas: proposizione incidentale, sott. est. L’inciso rafforza l’ammonimento già espresso mediante l’imperativo negativo, rendendolo perentorio e indiscutibile. – quem... dederint: interrogativa indiretta nel modo congiuntivo perfetto (da
do, dedi, datum, dare), introdotta dall’aggettivo interrogativo quem, accusativo di quis («quale»), raddoppiato in anafora, da unire a finem (sott. vitae); il soggetto della proposizione è il nominativo plurale di, forma dell’uso comune alternativa a dei e dii. – Leuconoe: la maggior parte degli interpreti ritiene che si tratti di un nome fittizio, probabilmente simbolico (“nome parlante”). Il significato generalmente accreditato è «dalla candida mente» (dal greco leukós, «bianco» e noûs, «mente») a indicare una ragazza inesperta, di animo semplice e ingenuo, che si preoccupa del domani e crede nell’astrologia e negli oroscopi. – nec... temptaris = temptaveris. Il verbo temptare («tentare», «provare», «saggiare»; perciò anche «interrogare») esprime con finezza uno stato d’animo inquieto e ansioso. – Babylonios... numeros: i «calcoli» (numeri) degli astrologi o mathematici babilonesi, pro-
venienti cioè dalla Mesopotamia (o che si pretendevano tali). Fin dalla più remota antichità i Babilonesi (o Chaldaei, secondo la denominazione più corrente in Roma) godevano fama di maestri nell’osservazione dei fenomeni celesti e nell’astromantica. In Roma, dopo una fase iniziale di diffidenza e di ostilità culminata con l’espulsione degli astrologi nel 139, all’epoca di Orazio erano ormai numerosissimi e riscuotevano notevole successo, trovando credito non solo in ambito popolare ma anche presso le classi sociali più elevate; non occorre aggiungere che molti di questi sedicenti indovini “caldei” erano in realtà dei ciarlatani. [3-7] Quanto è meglio accettare ciò che sarà! Sia che Giove ci abbia concesso molti inverni, o per ultimo questo, che adesso affatica il mare Tirreno sulle opposte scogliere, sii saggia, filtra il vino e tronca, poiché il tempo
invece ciò che «è lecito» secondo la stessa legge; si ricordi il verso di Catullo ille, si fas est, superare divos (51, v. 2). L’etimologia rinvia al verbo for, fatus sum, fari «dire», «pronunziare», «esprimere»; fas significa dunque «espressione», e propriamente «parola divina», «comando divino». Di qui la compilazione di un elenco, dapprima affidato ai soli pontefici,
poi reso pubblico, con la rigorosa distinzione fra giorni fasti e per contro nefasti, durante i quali era interdetta l’amministrazione della giustizia o ius civile. In seguito la lista dei dies fasti (o senz’altro dei fasti) si ampliò a poco a poco fino a comprendere tutti i giorni dell’anno, con l’indicazione delle feste e degli avvenimenti notevoli, diventando insomma il calendario romano.
NOMI e PAROLE degli ANTICHI Nefas/ Fas Il sostantivo neutro
indeclinabile nefas appartiene al linguaggio religioso-sacrale romano e indica ciò che «non è lecito» in quanto contravviene a un divieto imposto dalla legge divina, e che pertanto, secondo la visione degli antichi, va contro anche alla legge di natura e al senso morale. È composto di ne (prefisso negativo) + fas, che indica
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3. Orazio
PERCORSO ANTOLOGICO
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero. [della vita] è breve, le [troppo] lunghe speranze. Ut melius: sott. est; il soggetto è l’infinito pati. Ut è avverbio esclamativo: lett. «come è meglio». – quidquid erit: proposizione relativa (lett. «qualsiasi cosa sarà»), oggetto dell’infinito pati (da patior, deponente), che non indica qui rassegnazione passiva («subire», «sopportare»), ma la forza di una consapevole accettazione della propria sorte, secondo l’insegnamento di Epicuro. – Seu pluris... Tyrrhenum: costruisci Seu Iuppiter tribuit pluris (= plures) hiemes seu (tribuit) ultimam (hiemem) quae nunc debilitat mare Tyrrhenum oppositis pumicibus. – tribuit: indicativo perfetto (non presente) da tribuo, ĕre («attribuire», «assegnare»); secondo dottrine e credenze diffuse nel mondo antico, si riteneva che il destino di ogni uomo fosse stabilito una volta per tutte fin dalla nascita. – hiemes: sineddoche per annos, motivata dall’ambientazione invernale della lirica, come chiarisce il nunc del verso successivo. – ultimam: «come ultimo», «per ultimo»; predicativo da unire a hiemem sottinteso. – quae nunc... Tyrrhenum: lett. «che ora fiacca il mare Tirreno per mezzo delle opposte rocce». L’ablativo oppositis... pumicibus ha valore strumentale, ma nella traduzione è preferibile «contro le opposte rocce», ovvero le scogliere «che si oppongono» all’impeto delle onde, contro le quali cioè si infrangono incessantemente le onde del mare Tirreno; di
qui l’impiego del verbo debilitare, come se l’inverno «fiaccasse», «affaticasse» il mare, agitato dalle burrasche stagionali. – sapias: congiuntivo esortativo, come i successivi liques e reseces; da sapio, ĕre, «esser saggio». – vina liques: filtrare il vino con un colino (colum) o con un sacchetto (sacculus vinarius) era un’operazione necessaria, date le tecniche di vinificazione antiche, per togliere sedimenti e impurità dal vino e renderlo più limpido; liques è congiuntivo esortativo (da liquo, aˉre), vina è plurale poetico per vinum. – spatio brevi: probabilmente ablativo assoluto nominale di valore causale («poiché lo spazio [= il tempo della vita] è breve»); oppure, secondo altri commentatori, ablativo di causa o di separazione o di luogo; non manca chi lo interpreta come dativo di vantaggio. – reseces: terzo congiuntivo esortativo; da reseco, aˉre, propriamente «recidere», «tagliare». È probabile che la metafora sia debitrice al linguaggio dell’agricoltura («potare», «troncare», «accorciare» i rami troppo lunghi), come carpĕre («cogliere i frutti») al v. 8. Da notare la serie allitterante in s (sapias... liques... spatio... reseces) e l’antitesi brevi... longam (cfr. I, 4, v. 15 [ T8]). [7-8] Mentre parliamo, il tempo invidioso sarà [già] fuggito: cogli il momento presente, fidando il meno possibile nel domani. Dum loquimur, fugerit: la congiunzione Dum introduce una proposizione temporale all’indicativo presente (di lo-
quor, loqui, deponente) in dipendenza da fugerit, futuro anteriore. La fuga rapidissima e inesorabile del tempo viene mirabilmente espressa, con fine sensibilità psicologica, dalla scelta dei due diversi tempi verbali: «Questa fuga così istantanea che il poeta non appena l’ha veduta nel futuro, già era nel passato» (nota di G. Pascoli). – invida/ aetas: aetas, soggetto di fugerit, indica il tempo nella sua continuità e nel suo fluire ininterrotto, immagine enfatizzata dal forte enjambement; è detta invida, con una sorta di personificazione, quasi una forza ostile che ci sottrae con vertiginosa rapidità i momenti di piacere, come se il tempo fosse «invidioso» della nostra felicità. – carpe diem: lett. «cogli», «afferra il giorno»; dies nel significato pregnante dell’«oggi», del «presente» (spesso tradotto con «l’attimo»). Come si è accennato nella nota al v. 7 (reseces), il verbo evoca il gesto vivace di cogliere un frutto o un fiore. – credula: lo stesso che in italiano; anche «[troppo] fiduciosa». L’aggettivo, riferito naturalmente a Leuconoe, in funzione predicativa del soggetto sottinteso, ha una lieve sfumatura di affettuosa ironia. – postero: neutro sostantivato dell’aggettivo posterus («seguente», «che viene dopo») in caso dativo, retto da credula. Senza alcun mutamento di significato, si può intendere propriamente come aggettivo, con sottinteso diei («al giorno dopo», «al domani»); in ogni caso indica «il futuro» e si contrappone a diem, «il presente».
- il «tempo della vita», l’intera naturale durata di una vita umana; - il tempo di una «generazione»; - l’«età», gli «anni» di un uomo, ossia il momento della sua vita in cui presentemente si trova; - «età» nel senso di «periodo», «epoca» (aetas aurea è l’«età dell’oro»; ma anche la «generazione», la «stirpe aurea»);
- «tempo» in generale, tempo cronologico, considerato nel suo scorrere. Nell’ode oraziana è quest’ultimo il significato di invida/ aetas (v. 8), non senza l’inevitabile interferenza di «tempo [breve] della vita umana».
NOMI e PAROLE degli ANTICHI Aetas Etimologicamente il
sostantivo femminile aetas, nella lingua arcaica aevitas, deriva da aevum, sostantivo neutro il cui primo significato è «tempo senza limiti», «eternità» (cfr. il greco aión). Sia aevum sia il derivato aetas hanno il significato di «tempo» nelle più varie accezioni, che non mancano in diversi casi di sovrapporsi. Le principali: 220
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PERCORSO ANTOLOGICO
LETTURA e INTERPRETAZIONE Carpe diem: da una sentenza di Epicuro
Il concetto era epicureo, e Orazio poteva trovarlo espresso in una massima del Gnomologium Vaticanum (XIV), una raccolta di 81 sentenze di carattere etico riscoperta poco più di un secolo fa: «Si nasce una volta, due volte non è concesso, ed è necessario non essere più in eterno; tu, pur non essendo padrone del tuo domani, procrastini la gioia, ma la vita trascorre in questo indugio e ciascuno di noi muore senza aver mai goduto della pace».
Un linguaggio sobrio ed essenziale
Orazio condensa le sue ammonizioni in un linguaggio sobrio ed essenziale, che tocca i moduli della conversazione e del parlato. Ma le parole semplici,
Analizzare il testo 1.
Nel trasmettere a Leuconoe insegnamenti di saggezza, il poeta usa ora le forme dell’imperativo, ora del congiuntivo esortativo. Rintraccia nel testo e analizza dal punto di vista grammaticale tutte le forme in questione; cerca anche di spiegare le differenze che comporta la scelta dell’uno o dell’altro modo verbale sul piano espressivo. Illustra infine come si esprime in latino l’imperativo negativo, e se abbia una sola o più costruzioni. 2. Nella nota a spatio brevi (v. 6) sono state elencate varie possibilità di interpretazione a livello grammaticale del sintagma. Prendile in esame e fornisci una traduzione adeguata di ognuna; osserva poi se, e in quali casi, emergono diverse sfumature di significato.
Confrontare i testi
3. Si è visto che il poeta ha evocato nella lirica un paesaggio invernale. Da quali elementi del testo
quasi spoglie, vengono attratte nell’onda dolce e malinconica dei versi, irradiando una misteriosa intensità di significato.
Immagini simboliche
I pensieri sono fissati in immagini di forte carica simbolica tratte dall’esperienza comune di ogni giorno: le onde che si infrangono sugli scogli durante le tempeste invernali rappresentano la condizione della vita umana, sempre in balìa di eventi imprevedibili; il vino, che Leuconoe viene esortata a filtrare (accenno al consueto motivo simposiaco della poesia oraziana), è un segno di vitalità e di pienezza esistenziale. Come osserva il Traina, anche l’espressione conclusiva (carpe diem), divenuta quasi proverbiale, conserva in sé la concretezza di un semplice e gioioso gesto agreste, «come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo d’uva».
lo si evince? Quale significato assume? Ricordi almeno un’altra ode di Orazio, quasi altrettanto famosa, che presenta un’analoga ambientazione stagionale? 4. Leggi i versi qui di seguito riportati, tratti da un’ode epicurea in metro alcaico dello stesso Orazio (III, 29, 29-34) dedicata a Mecenate: Prudens futuri temporis exitum / caliginosa nocte premit deus, / ridetque si mortalis ultra / fas trepidat. Quod adest memento / componere aequus; cetera fluminis / ritu feruntur [...] («Provvido un dio nasconde in una densa tenebra gli esiti del tempo futuro, e ride se i mortali si affannano oltre il lecito. Ricordati di occuparti [solo] di ciò che è presente; tutto il resto è trascinato via come da un fiume»). Individua nel brano citato i concetti e le espressioni che si richiamano e corrispondono nei due testi (anche se con diverse parole e/o immagini), eventualmente compilando un elenco su due colonne. 221
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Educazione CIVICA
PERCORSO ANTOLOGICO
Carpe diem: l’attimo e l’occasione Lo studioso di filosofia antica Pierre Hadot, nel suo saggio Ricordati di vivere (2008), ha scritto: «Questo carpe diem di Orazio non è affatto, come spesso viene rappresentato, un consiglio da gaudente, bensì un invito alla conversione, cioè una presa di coscienza della vanità dei desideri superflui e illimitati, e una consapevolezza anche dell’imminenza della morte, dell’unicità della vita e dell’unicità dell’istante… Il segreto della gioia, della serenità epicurea, è in definitiva l’esperienza del piacere infinito dato dalla coscienza di esistere, foss’anche solo un istante». Ben diversamente, in Sull’orlo dell’abisso (2000), il filosofo Hans Jonas identificava il carpe diem oraziano, o meglio, la sua banalizzazione prevalente, con «l’immediato soddisfacimento dei bisogni», consumo di beni perseguito in maniera sfrenata e irresponsabile: in questo senso il capitalismo moderno può trovare nell’invito oraziano un appoggio al consumismo come godimento continuo di un cieco presente, fino a compromettere il fragile equilibrio del pianeta esaurendone le risorse per il futuro.
In una celebre scena del film L’attimo fuggente (titolo originale: Dead Poets Society, 1989), il professor John Keating invita gli studenti a osservare le fotografie dei loro predecessori nel collegio Welton, e immagina che da loro venga il monito «Carpe diem! Rendete straordinaria la vostra vita». Scena memorabile, che testimonia solo uno dei tanti “riusi” popolari del motto oraziano: raccomandazione di vivere pienamente il presente, urgenza di costruire una vita autentica, invito a godere i piaceri, motto motivazionale per giovani imprenditori… persino, con un capovolgimento rispetto alle intenzioni oraziane, slogan per incoraggiare a investimenti finanziari. Insomma, da un lato l’istante da afferrare, fine a se stesso, quasi fosse ogni volta l’ultimo; dall’altro, l’occasione da cogliere, in una prospettiva di crescita e di costruzione del futuro. La sfida dei nostri tempi potrebbe consistere nell’accettare l’invito oraziano a cogliere l’intensità del presente senza dimenticare chi verrà dopo di noi, a interpretare in modo “sostenibile” il denso e flessibile monito del poeta.
Una famosa scena del film L’attimo fuggente (1989) del regista australiano Peter Weir, con Robin Williams nel ruolo del professor Keating.
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 12 Invito a pranzo per Mecenate Carmina I, 20 ITALIANO
Il motivo dell’invito a cena era diffuso nella letteratura ellenistica e neoterica, come dimostrano il carme 13 di Catullo e un epigramma di Filodemo di Gadara (filosofo epicureo e poeta ancora attivo durante la giovinezza dell'autore); Orazio lo utilizza per sviluppare con garbo e delicatezza alcuni dei suoi temi più cari: il convito rallegrato dal vino; un ideale di vita semplice confortato dall’amicizia. Anche il motivo encomiastico, che occupa l’intera seconda strofa e parte della prima, è risolto con discrezione entro un clima di piacevole e scherzosa intimità. L’episodio rievocato permette di datare l’ode oltre il 30 a.C., anno nel quale Mecenate, ricomparso in pubblico a uno spettacolo teatrale per la prima volta dopo una lunga malattia, fu accolto con un caloroso applauso.
Il Sabino berrai di poco pregio in bicchieri modesti; l’ho serbato e chiuso io stesso in un’anfora greca quando in teatro, o caro Mecenate cavaliere, t’accolse quell’applauso tanto forte che l’Eco dalla riva del paterno fiume e dal monte 5
Vaticano lo ripeté scherzosa. 10 Vino di Cales, Cècubo tu bevi: io non ho vigne a Formia né a Falerno per le mie tazze. (trad. di E. Cetrangolo)
5-6. paterno / fiume: il Tevere nasce in Etruria, regione d’origine di Mecenate. 9-11. Vino di Cales, Cècubo... Falerno: tutti vini pregiati: il Cecubo proveniva dal Lazio meridionale; Cales corrisponde all’odierna Calvi, in Campania; campano è anche il Falerno, più volte ricordato da Orazio.
Natura morta da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 13 Per la morte della regina Cleopatra Carmina I, 37
PERCORSO ANTOLOGICO
LATINO
Nota metrica: sistema alcaico, composto da due endecasillabi alcaici seguiti da un enneasillabo e da un decasillabo alcaici.
L’ode testimonia del clima di esultanza e del senso di sollievo che si diffusero in Roma alla notizia del suicidio di Cleopatra (agosto del 30 a.C.), poco dopo la resa di Alessandria e la morte di Antonio, a quasi un anno di distanza dalla battaglia di Azio (2 settembre del 31). Lo spunto iniziale è già in un carme di Alceo (fr. 332 Lobel-Page), che esprime con irruenza passionale la propria gioia alla notizia della morte di Mírsilo, tiranno di Mitilene: «Ora bevete tutti, ubriacatevi, / magari a forza: è morto Mirsilo!» (trad. di G. Perrotta). Ma il tono impetuoso subito si smorza nel ricordo solenne delle antiche cerimonie sacre di Roma (vv. 2-4) e l’interesse si sposta gradatamente sulla figura drammatica di Cleopatra, caratterizzata prima dal delirio dei suoi rovinosi piani politici (vv. 6-8) e dalla depravazione dei costumi (vv. 9-14), poi dal senso di paura e di fragilità che l’assale nella sconfitta e nella fuga (le similitudini al v. 18), infine dal coraggio che dimostra nell’affrontare la morte da regina piuttosto che cadere prigioniera del vincitore (vv. 21-32).
Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus, nunc Saliaribus ornare pulvinar deorum tempus erat dapibus, sodales. Antehac nefas depromere Caecubum cellis avitis, dum Capitolio regina dementis ruinas funus et imperio parabat 5
[1-4] Ora si deve bere, ora con piede libero si deve danzare, ora è tempo di ornare il letto degli dèi con vivande degne dei Salii, o amici. Nunc ... nunc ... nunc: l’ode si apre con un impetuoso, liberatorio scatto di esultanza; la triplice anafora scandisce l’intensità della gioia evocando mimeticamente il ritmo della danza cui il poe ta invita ad abbandonarsi senza freno. Nunc si contrappone con forza ad Antehac (v. 5). – est bibendum: costruzione perifrastica passiva impersonale con il gerundio di bibo, ĕre («bere»). – pede ... tellus: lett. «si deve battere la terra con piede libero», ossia lanciarsi in una danza sfrenata. La costruzione perifrastica passiva (pulsanda [est]), come la precedente (bibendum est), non esprime una semplice esortazione, ma equivale a un imperativo ineludibile («si deve»). Il ritmo frenetico della danza viene sottolineato anche dall’allitterazione in p (pede ... pulsanda). – nunc ... tempus erat: l’imperfetto erat, unito a nunc, ha su-
scitato non poche perplessità; ma certo si tratta di un modo felicemente ardito di esprimere il desiderio di veder subito attuato ciò che si attendeva con impazienza: «ora – ed era tempo! – si deve ornare». – Saliaribus... dapibus: i banchetti dei Salii, uno dei più antichi collegi sacerdotali romani, erano proverbiali per fasto e abbondanza. Dapibus, dal femminile daps, dapis, è vocabolo di ascendenza rituale e sacrale che designa il «cibo», la «vivanda» imbandita in un banchetto sacrificale, comunque festivo, e per metonimia il banchetto o convito stesso. – pulvinar: lett. «cuscino»; per sineddoche vale lectus. Orazio allude alla solenne cerimonia religiosa del lectisternium, durante la quale alle statue degli dèi, adagiate su letti tricliniari, veniva offerto un banchetto di supplica o di ringraziamento. [5-12] Prima d’ora non era lecito trar fuori il Cècubo dalle cantine degli avi, fintanto che una regina preparava folli rovine al Campidoglio e sterminio
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all’impero col [suo] branco infetto di uomini deturpati dal morbo, sfrenata [tanto da] sperare ogni cosa ed inebriata dalla dolcezza della fortuna. Antehac: si contrappone a Nunc (v. 1); l’antitesi è rafforzata dalla collocazione simmetrica dei due avverbi di tempo in apertura di strofe consecutive. – nefas: sott. erat, da cui dipende l’infinitiva soggettiva depromere Caecubum. Il vocabolo esprime «ciò che non è lecito» secondo la legge divina, pertanto l’espressione vale «era sacrilegio», in quanto violazione di un sacro divieto. – Caecubum: vino pregiato del Lazio meridionale. La menzione del Cecubo vale a contrapporre il vino italico, da versare durante un rituale rendimento di grazie agli dèi, all’egizio, inebriante vino Mareotico (v. 14), che scatena il furor di Cleopatra (e dell’innominato Antonio [ Leggere un testo critico , p. 229]). – cellis avitis: ablativo di separazione o allontanamento. Al sostantivo femminile cellis (cella, ae; genericamente «deposito») occorre
PERCORSO ANTOLOGICO
contaminato cum grege turpium morbo virorum, quidlibet inpotens sperare fortunaque dulci ebria. Sed minuit furorem 10
vix una sospes navis ab ignibus, mentemque lymphatam Mareotico 15 redegit in veros timores Caesar ab Italia volantem
sottintendere vinariis. – regina: Cleopatra, che non viene mai nominata nel testo. Si noti che non compare qui alcun riferimento, neppure indiretto, ad Antonio: la guerra aziaca viene presentata, secondo l’impostazione ufficiale della propaganda augustea, come un conflitto fra la res publica romana e il dispotismo orientale, non già come una guerra civile. – dementis: accusativo plurale concordato per ipallage con ruinas invece che con regina, alla quale logicamente si riferisce («una folle regina»); la figura retorica, conservata nella traduzione («folli rovine»), ha una potenza espressiva che ben si addice alla ricerca stilistica oraziana in quest’ode. – Capitolio: dativo di svantaggio da collegare a parabat, in vistoso iperbato. Il colle del Campidoglio, sede dell’antichissimo e venerato tempio di Giove Ottimo Massimo, è qui assunto dal poeta a simbolo per eccellenza della civiltà romana fin dalle più remote origini, minacciata dalla distruttiva brama di dominio della regina egiziana. E si osservi infatti l’accostamento antitetico, enfatizzato dall’enjambement (vv. 6-7) Capitolio/regina, nome (come il corrispondente maschile rex) notoriamente inviso ai Romani. – funus et = et funus, anastrofe; il sostantivo neutro in caso accusativo, oggetto di parabat (come ruinas, v. 7) ha come primo significato «funerale», «sepoltura»; per estensione, «morte»; pertanto, nel contesto, «rovina», «catastrofe». – imperio: dativo di svantaggio (come Capitolio, v. 6). – contaminato ... virorum: costruisci cum grege contaminato virorum turpium morbo. Sprezzante e sarcastica l’immagine, sottolineata dalle scelte lessicali: gli eunuchi della regina sono detti ironicamente «uomini» (virorum) dopo essere
stati definiti spregiativamente «branco», «mandria» (grege). – contaminato cum: anastrofe. Il costrutto di cum + ablativo (contaminato ... grege), da collegare a regina ... parabat, esprime il complemento di compagnia. – morbo: dal punto di vista semantico, il termine può designare la perversione sessuale o, in senso più specifico, la condizione degli eunuchi, evirati che spesso acquisivano notevole influenza e venivano innalzati a posizioni di potere secondo un diffuso costume orientale, ripugnante per i Romani. – quidlibet: lett. «qualsiasi cosa», pronome indefinito neutro in accusativo, oggetto di sperare. – fortunaque dulci ebria: lett. «ebbra per la dolce fortuna»; fortuna ... dulci è ablativo di causa retto dal nominativo ebria, aggettivo (riferito come il precedente inpotens a regina) usato qui in senso metaforico, ma che già allude all’ebbrezza provocata dal vino (v. 14). Cleopatra è detta ebria sia perché incapace di cogliere la realtà effettuale e posseduta da una sorta di invasamento; sia perché dedita al vino, nello scenario degli orgiastici banchetti di corte che fornivano abbondante materia alle accuse di corruzione morale mosse dalla propaganda augustea contro la regina e contro Antonio. [12-21] Ma frenò la sua follia una sola nave a stento scampata alle fiamme, e la sua mente sconvolta dal vino Mareotico ricondusse a reali timori Cesare, incalzando a forza di remi lei che fuggiva a volo dall’Italia, come lo sparviero [insegue] le tenere colombe o il veloce cacciatore la lepre sui campi della nevosa Emonia, per dare alle catene quel fatale prodigio. Sed: l’avversativa in forte rilievo introduce la sezione centrale dell’ode, nella
quale vengono in primo piano le immagini della battaglia di Azio e la figura salvifica di Ottaviano. – minuit: perfetto indicativo di minuo, ĕre («diminuire», «reprimere», ma anche «distruggere», «spegnere»). Il soggetto è una ... navis (v. 13) – furorem: la folle frenesia di Cleo patra, anticipata da termini quali dementis (v. 7) ed ebria (nello stesso v. 12); Orazio vi insiste ancora, poco più oltre, con lymphatam (v. 14). – sospes ... ab ignibus: l’aggettivo sospes, ı̆tis («salvo», «incolume») è costruito con l’ablativo di separazione o allontanamento retto da ab. Si noti nel v. 13 il doppio iperbato incrociato. – mentem ... lymphatam: oggetto di redegit, il cui soggetto è Caesar. L’aggettivo lymphatus (o lymphaticus) deriva dal greco nýmphe («ninfa») e propriamente designa, secondo un’antica credenza, chi è impazzito per aver veduto una ninfa. – Mareotico: «per il vino di Mareia»; ablativo di causa dell’aggettivo neutro Mareoticum (sott. vinum), un vino bianco e dolce che si produceva sulle rive del lago o palude Mareotide, ove sorgeva Mareia, città non lontana da Alessandria, celebre per i suoi vini. – in veros timores: Ottaviano «riconduce», «riporta» (redegit, da redı̆go, ĕre, composto di ago) la mente di Cleopatra, in preda al delirio della follia, dalle infondate speranze alla realtà, e perciò alla paura. – Caesar: viene infine espresso il soggetto della proposizione coordinata (vv. 14-15), in realtà soggetto logico anche della principale (Sed minuit ... ab ignibus, vv. 12-13), lungamente rinviato per acuire l’attesa, con l’effetto di conferire al nome il massimo rilievo. Si noti che Ottaviano è designato con il cognomen Caesar, assunto per adozione da Giulio Cesare, il che non manca di sottolinear
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
remis adurgens accipiter velut mollis columbas aut leporem citus venator in campis nivalis 20 Haemoniae, daret ut catenis
PERCORSO ANTOLOGICO
fatale monstrum. Quae generosius perire quaerens nec muliebriter expavit ensem nec latentis classe cita reparavit oras;
ne il prestigio e la potenza guerriera. – ab Italia volantem: sott. eam (= reginam); il participio presente in accusativo è oggetto di adurgens. – remis: ablativo strumentale («con i remi»), retto da adurgens; verosimilmente sineddoche per navibus, sebbene non sia affatto da escludere la possibilità di una traduzione più vicina al significato proprio («a forza di remi»), che metta in rilievo la tempestività e l’efficacia dell’accanito inseguimento espresso dal verbo. – adurgens: participio presente in nominativo (da adurgeo, ˉere, «incalzare», «dare la caccia») riferito a Caesar, in funzione di participio congiunto dipendente da redegit (v. 15). – accipiter ... columbas: costruisci velut accipiter (adurget) mollis (= molles) columbas. – aut leporem ... venator: costruisci aut (velut) citus venator (adurget) leporem. Ellissi del verbo in entrambe le similitudini, dove inoltre i soggetti (accipiter; venator) e i complementi oggetti (columbas; leporem) si dispongono con studiata eleganza in un chiasmo; in modo altrettanto raffinato sono dosati poi gli attributi, l’uno (mollis) a qualificare il complemento oggetto della prima similitudine, l’altro (citus), all’estremo opposto del verso 18, il soggetto della seconda similitudine. – nivalis: l’aggettivo in caso genitivo concorda con Haemoniae, ma potrebbe riferirsi per ipallage a campis («nei campi innevati dell’Emonia»). – Haemoniae: antico e poetico nome della Tessaglia; da Emone, padre di Tessalo, eroe eponimo della regione. – daret ut = ut daret, anastrofe (come al v. 17 accipiter velut). La congiunzione ut introduce una proposizio-
ne finale in dipendenza da adurgens, il cui soggetto è sempre Caesar. – catenis: dativo plurale retto da daret; «per dare alle catene», ossia «per mettere in catene». Il disegno di Ottaviano era di catturare viva la regina per condurla incatenata dietro al suo carro nel corteo del trionfo. – fatale monstrum: oggetto di daret ... catenis, ovviamente riferito a Cleopatra. L’espressione, rilevata dall’enjambement, nella sua ambiguità prepara il passaggio all’ultima parte dell’ode, in cui la figura dell’egiziana viene investita di una nuova luce di tragica dignità. Infatti monstrum significa «mostro», «prodigio» in quanto fenomeno contro natura, che suscita orrore, ma anche stupore per la sua eccezionalità; soprattutto, è un «segno» degli dèi, che rappresenta, secondo etimologia, un «ammonimento» (da moneo). D’altro canto fatale designa ciò che avviene per decreto del fato, e può assumere quindi il significato di «letale», «funesto» (fatum, nel suo statuto di vox media, è anche uno dei numerosi eufemismi per «morte», «rovina»). Il sintagma dunque, nel contesto, vale «essere prodigioso voluto dal fato». [21-24] Ma essa, volendo morire più nobilmente, non ebbe paura, da donna, della spada, e neppure cercò un rifugio con la veloce flotta su lidi remoti; quae = at illa. Il pronome relativo ha valore avversativo e si riferisce al soggetto logico dominante, la regina, che viene da questo momento in poi rappresentata nella sua dignità regale. – generosius: comparativo dell’avverbio generose, dall’aggettivo generosus («nobile»,
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«magnanimo»), a sua volta derivato dal sostantivo neutro genus, ĕris («stirpe», «schiatta»; specialmente usato per indicare una «nobile origine»). Cleopatra sceglie di morire «più nobilmente», «in modo più onorevole» rispetto alla sorte che le avrebbe riservato Ottaviano. – quaerens: participio congiunto, regge l’infinito perire (costrutto poetico di quaero). – muliebriter: lett. «come una donna», ossia «con debolezza femminile»; dopo generosius (v. 21), è il secondo avverbio cui è affidato (qui mediante la forma negativa della proposizione) l’aperto riconoscimento della dignità e del virile coraggio della regina. – nec ... expavit ensem: la prima delle due proposizioni coordinate introdotte da nec in anafora; ensem, oggetto di expavit, perfetto indicativo di expavesco, ĕre («paventare», «aver paura di»), indica «la spada» di Ottaviano, metonimia che storicamente si riferisce all’avanzata delle sue legioni verso l’Egitto. – nec latentis ... oras: latentis = latentes, accusativo plurale del participio-aggettivo latens («nascosto» da lateo, eˉ re) concordato con oras, oggetto del perfetto indicativo reparavit. Si allude probabilmente a un tentativo degli sconfitti di trovar rifugio sulle rive lontane, inaccessibili (latentis ... oras) del Mar Rosso, trasportandovi la flotta dalle acque del Mediterraneo attraverso l’istmo di Suez, fallito per l’opposizione degli abitanti dell’Arabia Petraea (Plutarco, Vita di Antonio 69). – classe cita: ablativo strumentale, in allitterazione.
PERCORSO ANTOLOGICO
ausa et iacentem visere regiam voltu sereno, fortis et asperas tractare serpentes, ut atrum corpore conbiberet venenum, 25
deliberata morte ferocior: saevis Liburnis scilicet invidens privata deduci superbo non humilis mulier triumpho. 30
[25-28] anzi, ebbe anche il coraggio di guardare con volto sereno la sua reggia abbattuta, e di maneggiare da forte i serpenti irti di squame, per berne con [tutto] il corpo il nero veleno, ausa: sott. est; lett. «osò», perfetto indicativo di audeo, ausus sum, ˉere, semideponente; oppure participio perfetto con valore di presente («osando»). – et ... visere: et = etiam («anche», «persino»); è possibile che et sia invece correlativo dell’altro et al verso seguente (fortis et ... tractare, v. 26). L’infinito presente visĕre (viso, intensivo di video) è retto da ausa. – iacentem ... regiam: oggetto di visere. Il participio presente in accusativo (da iaceo, ˉere) significa che Cleopatra ebbe la forza di contemplare impassibile la sua «reggia», per metonimia la sua corte, umiliata e sconfitta, «prostrata»; ossia l’annientamento del suo potere regale. Il poeta rende qui omaggio alla regina attribuendole una stoica fermezza, qualità notoriamente ammirata dai Romani. – fortis et ... serpentes: la struttura sintattica qui è ambigua; nella traduzione proposta si interpreta come una proposizione coordinata mediante la congiunzione et posposta in anastrofe a fortis predicativo, per cui tractare dipende da ausa (est). Discussa anche l’interpretazione di asperas, aggettivo in caso accusativo riferito a serpentes (femminile), oggetto di tractare: può valere «ruvidi», «squamosi» al tatto, come sembrerebbero confermare il verbo e l’insistita allitterazione in s; oppure «terribili», «feroci»; o ancora, forse meglio, «inferociti», aizzati dalla regina stessa che, secondo una delle varie versioni della sua fine, riferita da Plutarco, irritò l’aspide nascosto in un
orcio pungendolo con un fuso d’oro. – ut ... conbiberet: proposizione finale; conbiberet, più intenso ed espressivo del verbo semplice (cum + bibo, ĕre) vale qui «assorbire». – corpore: ablativo strumentale. L’allitterazione in c lega i due termini contigui dando impressionante rilievo al deciso gesto di morte della regina, che non indietreggia e non trema di fronte all’orrore. – atrum: «nero», «fosco» è detto il veleno degli aspidi per gli effetti che provoca (annerimento e gonfiore della pelle), ma soprattutto perché il nero è il colore della morte. Per traslato, in ogni caso, atrum è ampiamente attestato nel significato di «atroce», «terribile», «funesto». [29-32] più fiera dopo aver deciso la morte, vietando – s’intende – alle spietate Liburne di condurla in qualità di privata, lei donna regale, nel superbo trionfo. deliberata morte: ablativo assoluto con valore causale-temporale, oppure ablativo di causa retto dal comparativo ferocior («più fiera per la morte [da lei] decisa»). – saevis ... triumpho: costruisci scilicet invidens saevis Liburnis deduci superbo triumpho, privata, non humilis mulier. La costruzione sintattica è discussa: in quella da noi accolta saevis Liburnis è dativo retto da invidens, mentre superbo triumpho è ablativo strumentale retto da deduci. Secondo altri saevis Liburnis sarebbe ablativo strumentale retto da deduci e superbo triumpho dativo di scopo: «rifiutando di essere condotta sulle spietate Liburne... per il superbo trionfo». – saevis Liburnis: le Liburnae, così chiamate dai Liburni, una popolazione marinara dell’Illiria, erano navi velocissi-
me e leggere particolarmente adatte agli spazi ristretti per la loro agilità di manovra, usate da Ottaviano; al contrario le navi di Antonio erano più grandi, lente e pesanti, fattore non secondario nell’esito della battaglia aziaca. Mediante l’aggettivo saevae («spietate», «crudeli»), alle navi Liburne personificate viene attribuita l’implacabilità del vincitore, ovviamente deciso a infliggere un’offesa e una degradazione intollerabili per la dignità regale di Cleopatra. – scilicet: avverbio (= scire licet, lett. «è lecito sapere»); «evidentemente», «naturalmente». – invidens: participio presente di invideo, ˉere («rifiutare», «togliere la possibilità»). – privata: «da donna privata», «come una donna qualunque», non più regina; predicativo del soggetto connesso a deduci. In latino privatus (da privo, aˉre), aggettivo e sostantivo, si contrappone a publicus; il «privato» etimologicamente designa colui che è «privo» di cariche. – deduci: infinito presente passivo di deduco, ĕre, lett. «essere condotta», retto da invidens. – non humilis mulier: litote; lett. «donna di non umile condizione». Nelle tre ultime strofe (dal v. 21, quae generosius) si registra una graduale espansione dei cola sintattici, fino al più ampio (vv. 3032) che «chiude con energica grandiosità tutta l’ode» (A. La Penna). E si noti, nei due versi conclusivi, la ricercata e complessa disposizione dei vocaboli: non humilis si colloca in antitesi con privata (v. 31), simmetricamente entrambi in principio di verso, mentre superbo corrisponde a triumpho in fin di verso; nel v. 31 privata forma un’ulteriore antitesi con superbo ai due estremi del verso, come non humilis nel v. 32 con triumpho.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
LETTURA e INTERPRETAZIONE Nunc est bibendum: la “risposta” all’Epodo 9
«Quando sarà che il Cecubo riposto per i conviti festivi, lieto per la vittoria di Cesare io beva insieme a te (se a Giove sarà grato) nella tua alta casa, o Mecenate beato, mentre la lira farà risuonare il suo canto misto a quello dei flauti, questa sul ritmo dorico, quelli sul ritmo barbarico [= frigio o lidio]?»
La figura di Ottaviano
Il riconoscimento della grandezza dell’avversario non era inconsueto nella tradizione epica e storiografica latina: d’altra parte, rendere omaggio al valore dei nemici vinti era anche un modo di esaltare la potenza dei vincitori. I furori della regina sono domati dalla risolutezza di Ottaviano, disegnato nelle strofe centrali dell’ode (vv. 15-20) come su un bassorilievo celebrativo nell’atto di inseguire la sua preda. Alla figura drammatica e mossa di Cleopatra, al pathos tragico della sua morte, fanno riscontro la solidità olimpica e la forza interiore di Ottaviano: i moduli sono quelli della propaganda contemporanea, che aveva fatto della guerra combattuta con Antonio e Cleopatra uno scontro fra l’Oriente irrazionale e mostruoso e l’Occidente romano fondato sull’ordine della legge e della ragione.
Lo stile dell’ode: il modello pindarico
Rispetto allo stile tenue e classicamente equilibrato delle Odi, qui Orazio sceglie un modello più complesso, ispirato agli epinici («canti di vittoria») pindarici: stile grandioso, potenza vigorosa delle immagini, periodo sintattico in continua espansione, con l’uso, tipicamente pindarico, di participi e di aggettivi che aprono nuove proposizioni al di là della misura composta del verso e della strofa. Nei versi 10-11, ad esempio, è particolarmente audace l’insolita costruzione del participio-aggettivo inpotens, «incapace di frenarsi» (in + possum), riferito a regina (v. 7), con l’infinito (sperare), rilevata dal forte enjambement.
Al centro dell’ode due similitudini: Omero e Callimaco
Due similitudini, immediatamente consecutive ma molto diverse fra loro (vv. 17-20), conferiscono bellezza eroica all’impresa e tensione immaginativa al motivo encomiastico. La prima è omerica: proviene da Iliade XXII, 138 sgg., con l’immagine di Achille che si slancia su Ettore tremante «come uno sparviero
Testa della regina Cleopatra, I secolo a.C. Londra, British Museum.
PERCORSO ANTOLOGICO
Orazio riprende l’esordio irruente di Alceo, citato nell’introduzione, secondo un modulo caratteristico della sua tecnica compositiva (il “motto” iniziale), ma al tempo stesso si richiama a un proprio precedente componimento, “rispondendo” finalmente, dopo un anno di ansiosa attesa, alla domanda posta nei versi d’apertura dell’Epodo 9 [ T2 ONLINE] a Mecenate per la vittoria di Azio:
sui monti, il più veloce degli uccelli, si avventa speditamente dietro una trepida colomba» (trad. di G. Tonna). Nella seconda similitudine, invece, la precisa ambientazione della scena venatoria e la scelta della nominazione ricercata, mitologicamente allusiva, nonché dell’epiteto convenzionale (la Tessaglia «nevosa») rispondono al gusto alessandrino dell’erudizione geografica; la probabile fonte del vivido quadretto è un epigramma di Callimaco (che già Orazio aveva ripreso in Sermones I, 2, 105-106).
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PERCORSO ANTOLOGICO
Analizzare il testo 1.
Individua nel testo i diversi momenti della rappresentazione oraziana di Cleopatra, segnalando i punti di svolta nell’atteggiamento del poeta verso la regina, e i mutamenti più significativi nel linguaggio e nelle immagini. 2. Chi è e come viene rappresentato l’altro “personaggio” dell’ode, l’antagonista di Cleopatra? In quale sezione del testo appare dominante la sua figura? Quali aspetti della sua personalità emergono, in modo più o meno diretto ed esplicito? In base a quali rilievi testuali è lecito affermare che il poeta si sia proposto di disegnare due personaggi (e due mondi) in antitesi? 3. Analizza il lessico impiegato nell’ode, con particolare riguardo ai motivi, insistentemente richiamati, della follia e del vino.
4. Nel delineare la figura e le azioni di Ottaviano, il poeta fa palesemente ricorso ai colori epici: da quali espressioni, immagini e allusioni letterarie lo si rileva?
Confrontare i testi
5. Confronta attentamente i versi 1-6 dell’Epodo 9 [ T2 ONLINE], citati anche nella rubrica Lettura e interpretazione, con le prime due strofe dell’ode per la morte di Cleopatra, rilevando e analizzando parole, espressioni, immagini che ricorrono in entrambi i testi o che si richiamano per significative analogie. Puoi estendere il confronto all’intero testo epodico, svolgendo per iscritto un’analisi dei punti di contatto e/o di divergenza che presenta rispetto all’ode.
Gli SCRITTORI e la STORIA Trasfigurazione epico-eroica dell’impresa aziaca ▰ Amplificazione epica Se la rappresentazione, mossa e cangiante, della regina Cleopatra volge con sempre maggiore intensità al clima e alle tonalità della tragedia, nella celebrazione di Ottaviano e della vittoria aziaca il poeta fa evidentemente ricorso ai colori dell’epos. Lo attestano, insieme alla similitudine omerica dei vv. 17-18, le riconoscibili alterazioni della realtà storica, che al di là delle esigenze propagandistiche contingenti, rispondono a un procedimento caratteristico del codice epico, la condensazione e l’amplificazione degli eventi. ▰ Due esempi significativi Al v. 13 leggiamo:
vix una sospes navis ab ignibus («una sola nave a stento scampata alle fiamme»). Si tratta di un’iperbolica alterazione della realtà storica in funzione celebrativa, del resto, come si è detto, caratteristica
dell’amplificazione epica; secondo il racconto di Plutarco (Vita di Antonio 66, 5-6) Cleopatra si diede improvvisamente alla fuga con sessanta navi, quando la battaglia non era ancora decisa, salvando quasi per intero la sua flotta. Poco più avanti, al v. 16, si dice che Ottaviano (Caesar) inseguì Cleopatra ab Italia volantem («che fuggiva a volo dall’Italia»). Certo, benché il combattimento avvenisse in acque greche, era l’Italia il vero obiettivo di Cleopatra. Ma, in ogni caso, ecco un’altra deformazione dei dati storici: Ottaviano non inseguì subito la flotta egiziana in fuga, ma svernò a Samo, e solo nell’estate dell’anno successivo si recò ad Alessandria. Evidente il colorito sarcastico dell’accenno all’Italia, come pure della metafora del volo: la regina fugge dalle acque di Azio, ma la meta dei suoi folli sogni era l’Italia; volantem, che evoca piuttosto una fulminea azione d’attacco, si riferisce invece a una precipitosa ritirata.
Leggere un TESTO CRITICO Ottaviano/Apollo contro Antonio/Dioniso Nella prima parte dell’ode di Orazio «la regina, avvolta in una luce cupa e fosca, è presentata come una donna ebbra, invasata da folli sogni di conquista, circondata da una corte di gente abietta e pervertita, incapace di moderazione, simbolo del furor, della libido, dell’inpotentia orientali» (Cremona). Questo genere di rappresentazione rientrava perfettamente nella
campagna di diffamazione scatenata da Ottaviano nei confronti di Antonio, contro il quale vennero rivolte le medesime accuse di vita viziosa, di ubriachezza e di immoralità. L’identificazione mitologica promossa dallo stesso Antonio con Dioniso, dio dell’ebbrezza, del vino e dell’estasi, facilitò il compito di Ottaviano e dei suoi amici, come dimostra il saggio di Paul Zanker.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
PERCORSO ANTOLOGICO
3. Orazio
Nella campagna di diffamazione che impegnava i due rivali a colpi di lettere, pamphlets e pubblici discorsi, Antonio fece ricorso ai soliti topoi della vecchia maniera aristocratica, accusando Ottaviano di vigliaccheria e di slealtà e rinfacciandogli l’oscurità delle sue origini, mentre i seguaci di Ottaviano sfruttarono senza pietà il tema della sua identificazione mitologica col dio Dioniso. Dopo la rottura definitiva, gli attacchi contro Antonio si fecero brutali: lo accusavano di essere ormai un degenerato, un effeminato e un senza dio, sempre ubriaco e succube di Cleopatra. Come spiegare altrimenti il fatto che un generale romano donasse i territori conquistati ai figli della regina d’Egitto, e disponesse nel suo testamento di essere sepolto in Alessandria al fianco di Cleopatra? Antonio non era più un Romano, e una guerra contro di lui non poteva essere una guerra civile: «Nei dipinti e nelle statue si faceva raffigurare insieme a Cleopatra come Osiride o Dioniso, mentre la regina era Selene o Iside. Fu soprattutto questo a suscitare l’impressione che Antonio fosse stregato da lei» (Dione Cassio 50, 5). Questa campagna di diffamazione volta a mobilitare l’Italia in vista della guerra ebbe naturalmente il suo punto forte nei pubblici discorsi, ma non mancano testimonianze figurative da cui risulta, anche in questo caso, un intreccio indissolubile di parola e immagine: ed è proprio dal ricorso a determinate immagini che l’attacco verbale traeva la propria efficacia. Le statue che raffiguravano Antonio nelle vesti di Dioniso si potevano vedere solo in Oriente, ma il partito di Ottaviano fece tutto il possibile per evocare il fatto scandaloso, né la cosa presentava difficoltà. Dappertutto si potevano vedere statue di Dioniso su cui richiamare l’attenzione, e i loro tratti femminei potevano suggerire facilmente l’immagine di Antonio. [...] Contro l’accusa di ubriachezza Antonio si difendeva in un’orazione, purtroppo andata perduta (ma conservatasi fino ai primi anni dell’impero), dall’eloquente titolo de ebrietate sua. Oltre a respingere le accuse ingiustificate è probabile che Antonio vi facesse anche l’elogio del suo dio, il Liberatore e il nemico degli affanni. (P. Zanker, Augusto e il potere delle immagini, Einaudi, Torino 1989, pp. 62-66 passim)
Educazione CIVICA Damnatio memoriae e cancel culture Né nell’Epodo 9 [ T2 ONLINE ] né in Carmina I, 37 [ T13] è dichiarato il nome dei due nemici, l’effeminato e dionisiaco Antonio e la pericolosa e stregonesca Cleopatra. Marco Antonio, già oggetto della violenta denigrazione ciceroniana, è probabilmente la prima vittima romana di una sistematica damnatio memoriae: per volontà di Ottaviano il senato decretò la rimozione del suo nome e delle sue immagini: perciò di lui si conserva molto poco, e le testimonianze storiche sono regolarmente ostili. Viceversa, enfatizzare la minaccia rappresentata dalla regina straniera, riconoscendone così anche la fosca grandezza manipolatrice, era funzionale alla visione propagandistica di una guerra contro una potenza orientale. Nella storia contemporanea, in particolare negli ultimi due decenni, si è presentato spesso, e in più contesti, il fenomeno della cancel culture, «cultura della cancellazione». Movimenti d’opinione negli Stati Uniti hanno richiesto l’eliminazione di nomi e opere di personaggi pubblici (del mondo universitario come di
quello dello spettacolo) coinvolti in scandali sessuali, ma anche semplicemente sospettati di comportamenti giudicati disdicevoli o non rispettosi del “politicamente corretto”. Con azioni più decisamente politiche, sono state abbattute o decapitate statue di personaggi storici coinvolti con lo schiavismo o con il colonialismo (da Cristoforo Colombo a Thomas Jefferson); in Italia è stata oggetto di vandalismo la statua del giornalista Indro Montanelli, per eventi legati al suo passato di ufficiale dell’esercito fascista nelle colonie d’Africa. Iniziative di questo tipo hanno suscitato dubbi e interrogativi: la rimozione dei simboli di un passato sanguinoso vale il rischio della perdita della memoria del male commesso? E quanto queste decisioni sono frutto di una manipolazione interessata dell’opinione pubblica? Inoltre, è sensato condannare all’oblio i meriti di personaggi storici importanti, perché essi hanno condiviso pregiudizi ed errori caratteristici della loro epoca? Più in generale, è giusto rimuovere la memoria di grandi imprese o di opere d’arte eccellenti per colpe certe o presunte dei loro autori? Con la cancellazione, insomma, ci si alleggerisce di un fardello o si apre un “vuoto di memoria”?
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 14 Convito simbolico LATINO
LETTURA METRICA
Nota metrica: strofe saffica minore, composta da tre endecasillabi saffici e un adonio.
Siamo sul principio dell’autunno (come si ricava dall’accenno alle ultime rose dei vv. 3-4), nella luce tenue e quieta di un pergolato (vv. 7-8). Il poeta si rivolge a un puer, uno schiavo giovinetto premurosamente affaccendato nei preparativi del convito, esortandolo a tralasciare ogni lusso superfluo: basteranno ghirlande di «semplice mirto» (v. 5). L’ammonimento affettuosamente ironico al ragazzo (interlocutore “ingenuo” della lirica, come Leuconoe [ T11]) tocca il cuore della poesia oraziana, rinnovando alcuni dei suoi grandi temi: il motivo simposiaco, un ideale di aurea mediocritas, la dolcezza della vita rustica. Ma l’ode è anche l’ultima del I libro, e svolge funzione di commiato, assumendo implicitamente (come accadeva spesso nei poeti ellenistici) il valore di una dichiarazione di poetica. Il richiamo alla semplicità non è solo una scelta morale ed esistenziale ma anche stilistica ed estetica: come la vita, anche la poesia deve essere improntata a un ideale di sobrietà e di equilibrio. Il vino e il mirto, i due oggetti più luminosi della lirica, acquistano così un improvviso valore simbolico, e finiscono per rappresentare la poesia conviviale (il vino) e la poesia amorosa (il mirto, da sempre Natura morta, affresco da Pompei. Napoli, Museo consacrato a Venere). Archeologico Nazionale.
Carmina I, 38
Persicos odi, puer, adparatus, displicent nexae philyra coronae; mitte sectari, rosa quo locorum sera moretur.
[1-4] Non amo, ragazzo, lo sfarzo persiano, né mi piacciono le corone intrecciate con filo di tiglio; lascia di cercare dove ancora indugi la rosa tardiva. Persicos... adparatus: lett. «gli apparati persiani»; lo sfarzo dei banchetti orientali era proverbiale. Il sostantivo plurale adparatus della IV declinazione (da adparo, aˉre, «preparare», «allestire») designa i «preparativi» del convito e indica, per metonimia, i banchetti stessi, in particolare lussuosi e magnifici. – odi: perfetto con valore di presente, dal verbo difettivo odisse; in italiano il primo significato («odiare») sarebbe troppo forte, così come suonerebbe eccessiva la traduzione letterale («mi dispiaccio-
no»), nel verso successivo, di displicent; è opportuno quindi ricorrere all’attenuazione della litote. – displicent... coronae: nexae, participio perfetto di necto, nexui e nexi, nexum, ĕre («legare insieme», «connettere», «intrecciare») è riferito a coronae, nominativo plurale soggetto di displicent (dis + placeo, ˉere); philyraˉ, ablativo strumentale da unire a nexae, è un grecismo prezioso in luogo del latino e più domestico tilia. Le ghirlande di fiori che i convitati si ponevano sul capo venivano intrecciate con un filo sottile (detto anch’esso philyra) ricavato dalla corteccia interna del tiglio. – mitte = omitte: «tralascia», «smetti»; usato correntemente in latino come formula,
lievemente eufemistica, di proibizione. – sectari: infinito presente di sector, aˉri, deponente, frequentativo-intensivo di sequor, vale «cercare alacremente», «continuamente», anche «affannosamente». L’imperativo di mittĕre (o di altro verbo dal significato analogo, come fugĕre) + infinito equivale a un imperativo negativo (cfr. fuge quaerere in Carmina I, 9, 13 [ T10]). – rosa... moretur: proposizione interrogativa indiretta dipendente da sectari, dove l’anastrofe dell’ablativo quo e l’iperbato in enjambement danno rilievo al soggetto e all’attributo rosa... sera, forse un singolare per il plurale, le ultime rose sul finire dell’estate o nei primi giorni autunnali. L’immagine del-
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Simplici myrto nihil adlabores sedulus curo: neque te ministrum dedecet myrtus neque me sub arta vite bibentem.
PERCORSO ANTOLOGICO
5
la «rosa tardiva» suscita l’idea della rarità e della ricercatezza, ma nel contempo allude forse, nel suo languore lievemente malinconico, al motivo della fuga del tempo. Il genitivo locorum ha valore partitivo (lett. «in quale dei luoghi»); moretur è congiuntivo presente di moror, aˉri, deponente («indugiare», «attardarsi»). [5-8] Non voglio che tu, premuroso, ti affanni ad aggiungere altro al semplice mirto; il mirto non è sconveniente né a te che servi a tavola né a me che bevo sotto il folto pergolato. Simplici myrto: il mirto, arbusto assai comune nei giardini mediterranei, è detto «semplice» in contrapposizione ai fiori rari e preziosi; lo conferma la posizione forte del sintagma all’inizio della strofe, in simmetrica antitesi con Persicos... adparatus (v. 1). Ma l’espressione si può tradurre anche «al solo mirto», in quanto è l’unica pianta delle cui fronde il poeta
desidera incoronarsi; non è improbabile che i due significati siano compresenti. – nihil adlabores... curo = non curo quicquam adlabores. Il pronome nihil nega curo (lett. «non m’importa», «non ci tengo») ed è nel contempo oggetto di adlabores (ad + laborare), che regge il dativo Simplici myrto; un verbo molto probabilmente coniato da Orazio, che unisce l’azione di «aggiungere» (ad) con quella di «affaticarsi»; infatti nella traduzione italiana è necessario ricorrere a due verbi distinti, per non perdere l’uno o l’altro dei significati. – sedulus: «premuroso», «zelante», con una sottintesa sfumatura di eccesso («troppo premuroso»); aggettivo in funzione predicativa del soggetto sottinteso tu, che si può rendere anche con un avverbio («premurosamente»). – neque... bibentem: costruisci myrtus neque dedecet te ministrum neque me bibentem sub arta
Analizzare il testo 1.
Che cosa significa adlabores (v. 5)? Definisci a livello sintattico la proposizione di cui è il predicato, nonché la struttura dell’intero periodo. Cerca inoltre sul dizionario i significati dell’aggettivo simplex e traduci nei diversi modi possibili.
T 15
Aequa mens
vite. – neque... dedecet = et decet, litote, che intensifica il concetto anziché attenuarlo; dedecet, come il suo contrario decet («si addice», «è conveniente») regge l’accusativo della persona a cui conviene o sconviene qualcosa (te... me). – ministrum: sostantivo maschile singolare in caso accusativo, apposizione di te; equivale a ministrantem (da ministro, aˉ re, «servire a tavola»). In taluni casi, tuttavia, minister è usato nel significato più specifico di «coppiere» (cfr. Catullo 27): «a te che fungi da coppiere», «che mesci il vino». – arta: ablativo femminile singolare dell’aggettivo artus, a, um («stretto») che nel contesto dell’ode può avere due significati: «fitto», «folto», a indicare un luogo gradevolmente fresco e ombroso; oppure «angusto», «ristretto», un altro emblema di vita semplice. – vite: ablativo concordante con arta; un pergolato formato di tralci di vite.
2. Individua gli enjambement presenti in questi versi, e osserva se pongono in rilievo parole-chiave. 3. Nel testo dell’ode compaiono vari nomi di fiori e di piante: si può darne un’interpretazione sul piano simbolico? 4. Spiega in che senso e per quali aspetti l’ode I, 38 rappresenta una dichiarazione di poetica.
Carmina II, 3
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 16 Il luogo ideale Carmina II, 6 LATINO ITALIANO
Nota metrica: strofe saffica minore, composta di tre endecasillabi saffici seguiti da un adonio.
L’ode è rivolta a Settimio e rinvia allusivamente al carme 11 di Catullo, rinnovando un topos di origine probabilmente ellenistica, quello dell’amico disposto ad accompagnare il poeta fino in capo al mondo, già impiegato da Orazio stesso negli Epodi (1, 11-13). Il motivo del viaggio immaginario in terre lontane, contenuto in un giro di versi più breve (4 contro 12) rispetto al testo catulliano, offre lo spunto alla costruzione di un discorso assai diverso, esistenziale e morale anziché emotivo e fantastico: il poeta, attraverso una serie di forti opposizioni, indica a se stesso e all’amico una scelta di vita. All’itinerario fisico-geografico si sostituisce perentoriamente un altro itinerario, verso un luogo che è una dimora dello spirito. I temi sono quelli prediletti della poesia oraziana: il desiderio di quiete e di una vita appartata (contrapposta alle fatiche dei viaggi e della milizia, vv. 7-8); la ricerca di un angulus, qui identificato con i paesaggi idillici della campagna tiburtina e tarentina (in netta antitesi con le immagini di regioni insidiose e remote evocate nella prima strofa); l’amicizia, capace di alleviare il pensiero triste della morte; il convito, cui si allude nella terza e quarta strofa con il riferimento simbolico a tre prodotti delle piane di Taranto (il miele, l’olio, il vino). Al v. 21 Orazio dà forma retorica e stilistica al proprio ideale di vita creando con raffinata eleganza una disposizione chiastica fra i pronomi designanti i due amici (te mecum) e il nucleo sostantivoaggettivo che esprime l’immagine fisica e mentale del luogo appartato (Ille... locus).
Septimi, Gades aditure mecum et Cantabrum indoctum iuga ferre nostra et barbaras Syrtes, ubi Maura semper aestuat unda, Tibur Argeo positum colono sit meae sedes utinam senectae, sit modus lasso maris et viarum militiaeque. 5
O Settimio, disposto a venire con me sino a Cadice e fra i Cantabri ancora indocili al nostro giogo, e nelle barbare Sirti, dove sempre ribolle l’onda maura: Tivoli, fondata dal colono argivo, sia la sede della mia vecchiaia, sia il termine per me stanco del mare e dei viaggi e della milizia.
1-3. Gades... Cantabrum... Syrtes... Maura (unda): Cadice (nella penisola iberica) sta a indicare nel codice letterario classico l’estremo limite del mondo occidentale; i Cantabri, abitanti delle montuose regioni nord-occidentali della Spagna, erano una popolazione fiera e ribelle (dovettero affrontarli in quegli anni sia Augusto, fra il 25 e il 24, che
Agrippa, fra il 20 e il 19 a.C.); Sirti erano dette due vaste insenature lungo le coste libiche (Syrtis maior e Syrtis minor, i golfi di Sidra e di Gabes), tradizionalmente considerate pericolose a causa dei fondali bassi e sabbiosi, delle frequenti tempeste e dei predoni costieri; a occidente delle Sirti si trovava invece la Mauritania (ma l’imprecisione geografi-
ca era un vezzo della poesia ellenistica e alessandrina, che spesso alludeva a una località o a una popolazione con il nome di luoghi e di popoli limitrofi). 5. Tibur... colono: mitico fondatore di Tivoli era considerato Tiburno, originario dell’Argolide.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Unde si Parcae prohibent iniquae, dulce pellitis ovibus Galaesi flumen et regnata petam Laconi rura Phalanto. 10
Ille terrarum mihi praeter omnes angulus ridet, ubi non Hymetto 15 mella decedunt viridique certat baca Venafro, ver ubi longum tepidasque praebet Iuppiter brumas et amicus Aulon fertili Baccho minimum Falernis 20 invidet uvis.
PERCORSO ANTOLOGICO
Ille te mecum locus et beatae postulant arces: ibi tu calentem debita sparges lacrima favillam vatis amici.
Se le Parche inique mi terranno lontano di qui, mi dirigerò verso la dolce corrente del Galeso caro alle pecore coperte di pelli, campagne su cui regnò lo spartano Falanto. Mi sorride più di tutti quell’angolo di terra, dove il miele non è inferiore a quello dell’Imetto e l’olivo gareggia con quello della verde Venafro, dove il cielo offre lunghe primavere e tiepidi inverni, e Aulone caro al fertile Bacco non ha nulla da invidiare all’uva di Falerno. Te insieme con me aspetta quel luogo con le sue beate rocche: là tu bagnerai con le dovute lacrime la cenere ancor calda dell’amico poeta. (trad. di L. Perelli)
10. pellitis ovibus: le pecore, bene prezioso dell’economia italica, venivano ricoperte di pelli di cuoio atte a salvaguardarne il vello. – Galaesi: un torrente che scorreva vicino a Taranto. 11-12. Laconi... Phalanto: ancora un riferimento prezioso alle mitiche vicende
di fondazione: secondo tradizione era stato Falanto, proveniente da Sparta (in Laconia), a fondare nel 708 a.C. la città di Taranto. 14. Hymetto: monte dell’Attica, noto nella tradizione letteraria per la qualità del suo miele.
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16. Venafro: una cittadina della Campania, rinomata per la produzione di olio. 18. Aulon: Aulo o Aulone (in greco «avvallamento»), probabilmente una località ricca di vigneti situata nei pressi di Taranto.
PERCORSO ANTOLOGICO
T 17 Labuntur anni Carmina II, 14 LATINO ITALIANO
Nota metrica: sistema alcaico, composto di due endecasillabi alcaici seguiti da un enneasillabo e da un decasillabo alcaici.
Il carme svolge alcuni dei temi dominanti della lirica oraziana: la brevità della vita, l’inesorabilità della morte, l’invito a godere degli effimeri piaceri di ogni giorno (implicito, quest’ultimo, nelle due ultime strofe). Nell’assenza di ogni forma di ironica bonomia, prevalgono i toni mesti e pensosi, cadenzati su un ritmo severo e solenne. Le immagini (in parte tratte dal tradizionale repertorio mitologico, in parte ispirate alla vita quotidiana di Roma) sono contenute ed essenziali. Orazio disegna il destino dell’uomo (di ogni uomo, come viene sottolineato ai vv. 9-12) con l’implacabile fermezza di un linguaggio che non conosce sbavature sentimentali. La tensione emotiva e gli elementi patetici sono disciplinati entro precise movenze retoriche: l’esclamazione iniziale (Eheu), la reduplicazione del nome Postumus, l’anafora dell’avverbio frustra, il rilievo sintattico dei tre gerundivi (enaviganda... visendus... linquenda), il polisindeto della penultima strofa (che sottolinea l’ineluttabilità della separazione dalla vita e dai suoi beni più cari).
Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni nec pietas moram rugis et instanti senectae adferet indomitaeque morti, non si trecenis quotquot eunt dies, amice, places inlacrimabilem Plutona tauris, qui ter amplum Geryonen Tityonque tristi 5
compescit unda, scilicet omnibus, 10 quicumque terrae munere vescimur, enaviganda, sive reges sive inopes erimus coloni. Ahimè fuggiaschi, Postumo, Postumo, scivolano via gli anni, né un animo devoto potrà ritardare l’incalzante vecchiaia, le rughe, l’inesorabile morte, neanche se tu voglia, amico, ogni giorno che passa, placare con trecento tori lo spietato Plutone che rinserra il vasto Gerione dai tre corpi e Tizio nella triste 5
onda su cui tutti noi che nutre 10 il raccolto della terra dovremo senza scampo navigare, sia se saremo re, o poveri coloni. 1. Postume: è ignota l’identità del destinatario: il nome potrebbe anche essere fittizio e simbolico.
7-8. Plutona... Geryonen Tityonque: Plutone è il dio dei morti; Gerìone è il gigante triforme ucciso da Ercole; Tizio
è un altro mostruoso gigante ucciso da Apollo per vendicare l’oltraggio recato alla madre Latona.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Frustra cruento Marte carebimus fractisque rauci fluctibus Hadriae, 15 frustra per autumnos nocentem corporibus metuemus Austrum: visendus ater flumine languido Cocytos errans et Danai genus infame damnatusque longi 20 Sisyphus Aeolides laboris; linquenda tellus et domus et placens uxor, neque harum quas colis arborum te praeter invisas cupressos ulla brevem dominum sequetur. Absumet heres Caecuba dignior servata centum clavibus et mero tinget pavimentum superbo, pontificum potiore cenis. PERCORSO ANTOLOGICO
25
Invano ci asterremo dal sanguinoso Marte e dai flutti infranti del rauco Adriatico, 15 invano in autunno fuggiremo timorosi l’Austro che nuoce alle membra. Dovremo vedere il fosco Cocito errante con torpido flusso, e la stirpe maledetta di Danao, e l’eolio Sisifo 20 condannato ad un lungo travaglio; dovremo lasciare la nostra terra, la casa, l’amata sposa: degli alberi che coltivi, nessuno, fuorché l’inviso cipresso, seguirà te, effimero padrone. Un più degno erede berrà quei vini cecubi serbati ora con cento chiavi, e bagnerà il pavimento di vino superbo, migliore che nelle cene dei pontefici. 25
(trad. di L. Canali) 13-16. cruento Marte... fluctibus Hadriae... Austrum: exempla di pericoli che il saggio deve saper evitare; l’Austro o scirocco è un vento caldo-umido del sud che soffia su Roma fra settembre e ottobre. 18-20. Cocytos... Danai genus... Si-
syphus Aeolides: il Cocito (in greco «fiume del pianto») è uno dei tradizionali fiumi infernali; le Danaidi, avendo ucciso i rispettivi mariti la prima notte di nozze, furono condannate agli inferi a riempire eternamente d’acqua dei vasi forati sul fondo; Sisifo, figlio di Eolo (perciò eolio)
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fu condannato nell’oltretomba a spingere fin sulla cima del monte un masso, che subito rotolava lungo il versante opposto. 25. Caecuba: cfr. la nota a I, 37, 5 [ T13]. 28. pontificum... cenis: cene notoriamente sontuose.
PERCORSO ANTOLOGICO
Leggere un TESTO CRITICO Il tempo e la morte in Orazio Concentrando in particolare l’attenzione sull’ode a Postumo, Alfonso Traina individua nella categoria
della temporalità il centro ispiratore di tutta la poesia oraziana.
Il tema della morte è inscindibile dal tema del tempo. È la morte che dà all’uomo l’angoscia del tempo, perché è la morte, ultima linea rerum («ultima meta»: Epist. I, 16, 79) che toglie al tempo la rassicurante ciclicità della natura per distenderlo nella breve linea della vita umana. Brevis: ecco un altro aggettivo le cui occorrenze temporali in Orazio superano la somma delle analoghe occorrenze in Lucrezio Catullo Virgilio. Nimium breves, «di troppo breve durata» sono i fiori della rosa che nell’ode II, 3, 13 sg. [ T15 ONLINE ] simboleggiano le gioie del canto e della vita in contrasto con l’eternità dell’oltretomba, iconicamente rappresentata dall’ipermetro che, alla chiusa dell’ode, prolunga oltre i confini del verso l’epiteto antonimico (aeternus) e lo salda al suo sostantivo (v. 26 sg.): in aeter[num / exilium. Brevem chiama Orazio il padrone di un giorno, spossessato dalla morte (Carm. II, 14, 24 [ T17]), con un’audacia semantica che trasferisce per la prima volta brevis, predicato a persona, dalla sfera fisica («di corta statura») a quella temporale di aevi brevis (Sat. II, 6, 97: [ T7]). È nel carme II, 14 (vv. 1-4) che si fa più esplicita la connessione del tempo e della morte: Eheu fugaces, Postume, Postume, / labuntur anni nec pietas moram / rugis et instanti senectae / adferet indomitaeque morti [ T17]. L’incalzare del tempo è reso non solo da lessemi nominali (fugaces) e verbali (labuntur, instanti), ma anche dall’affannosa geminatio del vocativo (un nome che «sa di morte», diceva il Pascoli), donde viene alla strofa un convulso dinamismo che va a infrangersi sul blocco eptasillabico della clausola indomitaeque morti. Nessuna traduzione può riprodurre tutte le connotazioni di questo latino. «Fugace», per noi, è solo un sinonimo letterario di «passeggero». Ma fugax, connotato negativamente dal suffisso -ac-, è il soldato che fugge dal suo posto di combattimento (Carm. III, 2, 14): riferirlo agli anni, con una metafora oggi logora, ma allora inedita, significa farne dei traditori che ci abbandonano a nostra insaputa (come altrove, con diversa ma sempre inedita metafora, ne fa dei banditi che ci spogliano; Epist. II, 2, 55: singula de nobis anni praedantur euntes: «gli anni portano via tutto, un bene dopo l’altro»); lo conferma il verbo, labuntur, che è uno scivolare furtivo e silenzioso (cfr. Carm. I, 13, 7: furtim labitur: «[il pianto] scivola [sulle mie guance] senza che mi accorga»). Seneca, erede del senso e del lessico oraziano del tempo, userà il medesimo verbo in De brevitate vitae VIII, 5: «il tempo non darà segno della sua velocità, scorrerà via senza rumore (tacita labetur)». Non c’è dubbio: Orazio appartiene a quel tipo d’uomini i quali «vivono più sotto gli auspici del tempo che passa e della morte che si avvicina che del tempo che progredisce e che facciamo progredire in noi» (Minkowski). Questa angoscia del tempo, questo senso del precario tradiscono un fondo d’insicurezza che potrebbe avere radici lontane, nell’assenza di una figura materna, se così deve interpretarsi il silenzio di Orazio sulla madre, sorprendente non in se stesso, ma di fronte alle tante menzioni del padre (e, una volta in Carm. III, 4, 10, della nutrice). (A. Traina, introduzione a Orazio, Odi e Epodi, trad. e note di E. Mandruzzato, Rizzoli, Milano 1985, pp. 10-11)
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
T 18 O fons Bandusiae Carmina III, 13
PERCORSO ANTOLOGICO
LATINO
Nota metrica: sistema asclepiadeo terzo, composto di due asclepiadei minori seguiti da un ferecrateo e da un gliconeo.
È il 12 ottobre, vigilia dei Fontanalia, una festa italica delle fonti a cui accenna anche Varrone nel De lingua Latina (VI, 22). Durante la festa era consuetudine offrire in dono alla sorgente delle corone di fiori, che venivano gettate nella corrente o appese a festoni intorno ai pozzi. Anche Orazio parteciperà a questi riti in onore di una piccola fonte che sgorga nei pressi della sua villa sabina. Come sempre nella poesia di Orazio, i dati affettivi e realistici della vita quotidiana vengono incanalati nelle forme della tradizione letteraria: il locus amoenus, la fonte dove gli animali e gli uomini ristorano la propria sete, la promessa di un sacrificio rientrano nella tradizione dell’epigramma ellenistico e della poesia bucolica. Ma il poeta sa dare un accento nuovo e personale a questi topoi figurativi: la piccola fonte diventa un emblema di vita semplice e pura, condotta nella quiete appartata della campagna laziale. Da questo quadro di vita semplice e serena Orazio trae anche, nell’ultima strofa, un motivo di poetica: la sua poesia è come una cristallina fonte d’acqua pura, e per questo il fons Bandusiae diventerà un giorno famoso come le grandi fonti greche sacre alle Muse e ad Apollo. Il carme presenta una tessitura elegante e raffinata: il paesaggio è risolto in pochi tratti di impressionistica immediatezza (la limpidezza delle acque; il rosso del sangue del capretto che si disperde nella corrente; il mormorio zampillante dell’onda, reso onomatopeicamente nei due ultimi versi mediante l’uso della consonante liquida l e l’abbondanza delle vocali). Il solenne vocativo iniziale e l’anafora in poliptoto dei vv. 9-13 (Te... tu... tu) ritmano la lettura sul passo di un inno religioso.
O fons Bandusiae splendidior vitro, dulci digne mero non sine floribus, cras donaberis haedo, cui frons turgida cornibus
[1-8] O fonte di Bandusia più chiara del cristallo, degna di dolce vino puro non senza [corone di] fiori, domani ti verrà offerto un capretto, cui la fronte turgida delle corna che già spuntano promette amori e battaglie. Invano: la prole del gregge vivace tingerà le tue gelide acque di rosso sangue. fons Bandusiae: c’è chi intende Bandusiae come un genitivo epesegetico (nel qual caso si tratterebbe semplicemente del nome della sorgente; come noi diciamo ad esempio «la città di Roma»), chi come un genitivo di appartenenza (e si tratterebbe allora del nome della ninfa che abitava le acque). – splendidior vitro: «più splendente», «più brillante del cristallo» oppure «del vetro». Il comparativo dell’aggettivo splendidus (da splendeo, ˉere), che loda la trasparenza luminosa di quelle acque purissime, è vocativo come fons; l’ablativo vitro costituisce il secondo termine di paragone. – digne: vocativo dell’aggettivo dignus (in latino
fons è di genere maschile), che regge l’ablativo. – dulci... mero: si tratta di libagioni di vino puro ritualmente offerte alla divinità della fonte in occasione della festa annuale. Merum è aggettivo sostantivato per vinum merum. Quanto all’aggettivo dulcis, cfr. molli ... mero di Carmina I, 7, 19. – non sine floribus: litote. Nel De lingua Latina Varrone, il grande erudito studioso di antichità romane, ricordando la festa dei Fontanalia scrive: in fontes coronas iaciunt et puteos coronant («gettano ghirlande di fiori nelle fonti e coronano i pozzi»; VI, 22). – cras: il 13 ottobre, giorno dei Fontanalia. – donaberis haedo: il soggetto di donaberis, futuro passivo di II persona singolare (da dono, aˉre), è sottinteso (tu); da sottintendere anche il complemento d’agente (a me). Il verbo donare nella forma attiva ha una doppia costruzione: l’accusativo della persona cui si dona e l’ablativo della cosa donata (donare aliquem aliquaˉ re), quella presupposta nella
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forma passiva del testo oraziano, dove haedo è appunto ablativo strumentale; oppure, come in italiano, l’accusativo della cosa donata e il dativo della persona cui si dona (donare aliquid alicui). Secondo Ovidio (Fasti III, 300), agnelli o capretti venivano ritualmente offerti alle divinità delle fonti fin dalla mitica età di Numa. – cornibus primis: lett. «per le prime corna», ablativo di causa retto da frons turgida; l’enjambement mette in rilievo con delicatezza la giovanissima età dell’animale. – et venerem et proelia: accusativi dipendenti da destinat. – Frustra: l’avverbio, dopo uno stacco di notevole effetto, introduce il pensiero, venato di pietà, della triste sorte riservata al capretto; l’inevitabile sacrificio (necessario in quanto dovuto alla fonte secondo il rito), descritto mediante l’immagine dell’acqua limpida arrossata di sangue, troncherà il suo commovente slancio verso la vita. – nam gelidos ... gregis: costruisci nam subo-
PERCORSO ANTOLOGICO
primis et venerem et proelia destinat. Frustra: nam gelidos inficiet tibi rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis. 5
Te flagrantis atrox hora Caniculae nescit tangere, tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes et pecori vago. 10
les lascivi gregis inficiet tibi gelidos rivos rubro sanguine. – inficiet: futuro di inficio, ĕre (in + facio) «mescolare», «tingere», «macchiare» (in particolare, appunto, «di sangue»); ma anche, in accezione esplicitamente negativa, «contaminare», «guastare»; è possibile che alla suggestione coloristica e visiva si aggiunga quest’ulteriore sfumatura, come se il rammarico per la sorte del capretto si estendesse anche all’inevitabile intorbidarsi delle acque cristalline della fonte. – tibi: dativo di fine, che si preferisce tradurre con il possessivo. – gelidos ... rubro san-
guine rivos: entro l’elegantissima ed espressiva disposizione a chiasmo degli accusativi e degli ablativi, i legami fra le parole-immagini sono enfatizzati dalle allitterazioni in r e in s, nonché dall’omoteleuto (gelidos ... rivos); al contrasto cromatico, visivo, si aggiunge in un intreccio complesso quello delle sensazioni tattili, fra la gelida freschezza dei rigagnoli (rivi) d’acqua sorgiva e il calore del sangue, evocato sinesteticamente dal colore rosso. – lascivi: genitivo concordato con gregis, da unire a suboles. – subŏles: soggetto di inficiet; c’è chi lo intende in-
vece come apposizione di un soggetto sottinteso (haedus). [9-16] Te la feroce stagione dell’ardente Canicola non sa toccare, tu offri deliziosa frescura ai tori stanchi del vomere, al bestiame errante. Anche tu sarai tra le fonti illustri, poiché io canto l’elce che sovrasta la grotta donde sgorgano le tue acque mormoranti. Te flagrantis ... vago: costruisci atrox hora flagrantis Caniculae nescit tangere te, tu praebes frigus amabile tauris fessis vomere et pecori vago. – nescit = nequit, «non può». – tu ... praebes: anafora in
propriamente significa «cagnolina»; per traslato è detta Canicula Sirio, la stella più luminosa della costellazione del Cane, che sorge alla fine di luglio; il suo levarsi segna dunque l’avvento del periodo più caldo dell’anno. Così, al verso 9 di Carmina III, 13, il participio-aggettivo flagrantis (da flagro, āre; «fiammeggiare», «ardere»), si riferisce sia all’ardore dell’estate al suo culmine sia all’intensa luminosità dell’astro. Come si sa, «canicola», quale nome comune, e l’aggettivo «canicolare» da esso derivato, sono tuttora di uso corrente nella lingua italiana. Atrox: l’aggettivo atrox, ōcis deriva da ater (atra, atrum), «nero», che per traslato, secondo i diversi contesti, vale «triste», «maligno», «lugubre», «funesto» (il nero è il colore della morte); anche «oscuro», in quanto difficile a
intendersi. Nel testo oraziano la stagione (hora) in cui Sirio «ardente» fiammeggia nel cielo è detta atrox, cioè «spietata», «feroce», «violenta», ossia «ferocemente torrida», in quanto coincide con i grandi calori estivi; anche «mortifera», «funesta», «fatale» (= «che porta disgrazia»), poiché nel periodo più arido dell’anno la terra soffre per la scarsità d’acqua; talora la siccità può giungere a bruciare i raccolti e a provocare morìe del bestiame. Si noti (v. 9) il sapiente accostamento dei due aggettivi flagrantis (genitivo concordante con Caniculae in iperbato) e atrox: non solo si intensificano a vicenda sul piano semantico, ma l’insistenza sui suoni aspri dei gruppi consonantici evoca a livello fonoespressivo la violenta oppressione della calura.
NOMI e PAROLE degli ANTICHI Lascivus: l’aggettivo lascivus
ha vari significati, e anche nel contesto dell’ode oraziana viene interpretato in diversi modi: «[del gregge] lascivo» nel senso di «libidinoso», propenso agli amori; oppure «scherzoso», «vivace», «spensierato»; anche «irrequieto», «sfrenato», che variamente evocano le rapide corse e i salti di questi animali sui prati, alludendo con un’ulteriore punta di rammarico alle felici speranze di vita della vittima sacrificale. Subŏles: il sostantivo femminile suboles, is significa «prole», «rampollo», «figlio». Collegato alla radice di alo, ĕre («nutrire», «far crescere»), come proles, indica tutto ciò che nasce e cresce, la discendenza degli uomini e degli animali così come i germogli delle piante. Canicula: diminutivo di canis,
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3. Orazio
PERCORSO ANTOLOGICO
Fies nobilium tu quoque fontium, me dicente cavis impositam ilicem 15 saxis, unde loquaces lymphae desiliunt tuae.
poliptòto del pronome di II persona (Te ... nescit tangere, vv. 9-10), stilema caratteristico degli inni alle divinità, che scandisce l’elencazione delle prerogative del dio celebrato e invocato (cfr. il proemiale inno a Venere di Lucrezio, De rerum natura I, 1-43). – frigus amabile: accusativo neutro oggetto di praebes; in disposizione chiastica con atrox hora (v. 9) forma un vivo contrasto, enfatizzato dall’allitterazione in a che lega i due aggettivi, vistosamente discordanti per significato e per suono (aspro e duro atrox; liquido e dolce amabile). – vomere: sineddoche per l’aratro (la parte per il tutto); ablativo di causa da collegare al dativo fessis. – fessis ... tauris ... et pecori vago: un altro chiasmo; al centro si colloca felicemente il verbo praebes, da cui i dativi dipendono. L’aggettivo vago, evocando immagini care alla poesia bucolica, si riferisce al bestiame libero di «errare» sui pascoli e nei boschi, a differenza dei tori, o meglio dei buoi (in latino taurus ha entrambi i significati), adibiti al duro
Analizzare il testo 1.
lavoro dell’aratura. – Fies: «diventerai», «sarai»; futuro di fio, fieri. – nobilium ... fontium: cioè le fonti sacre della poesia, come quelle di Castalia (a Delfi), di Aganippe e di Ippocrene (in Beozia). È genitivo partitivo da unire direttamente a fies; sottintende una. – tu quoque: il pronome di II persona riprende e continua la serie aperta ai vv. 9-10; e ancora tuae (v. 16). – Me ... desiliunt tuae: costruisci Me dicente ilicem impositam saxis cavis unde tuae lymphae loquaces desiliunt. – Me dicente: ablativo assoluto di valore causale-temporale. Il poeta vuol dire che in virtù del suo canto anche l’italica fonte di Bandusia (tu quoque) sarà d’ora in poi annoverata fra le sacre fonti della tradizione ellenica, ispiratrici di poesia e a loro volta rese illustri (nobiles) dal canto dei poeti. – cavis ... saxis: lett. «il leccio [o elce] sovrastante le rocce incavate»; ilicem (accusativo di ilex, ilicis, probabilmente un singolare per il plurale) è oggetto di dicente; la collocazione in enjambement dà rilievo all’immagine
La fonte di Bandusia cantata da Orazio è una sorgente immaginaria o reale? In questo caso, dove si trovava? 2. L’ode ha una chiara struttura bipartita. Enuncia sinteticamente il contenuto delle due parti, dopo averle identificate, illustrandone i temi e i motivi dominanti. Il componimento si può definire nel complesso unitario? 3. Qual è nella lingua latina la costruzione dell’aggettivo dignus (v. 2)? E del verbo donare (v. 3)? 4. L’ode alla fonte di Bandusia è intessuta di suggestioni letterarie, e d’altra parte di precisi richiami ad antiche tradizioni ed usanze romane e
dell’albero (forse più d’uno) che distende i rami frondosi sulla sorgente, proteggendola con la sua fresca ombra. Il participio perfetto impositam (da impoˉno, ĕre, «porre sopra») concorda con ilicem; l’ablativo semplice cavis ... saxis, retto da un verbo composto con in, esprime il complemento di stato in luogo (non manca peraltro chi lo intende come un dativo); è perifrasi per «grotta». – desiliunt: predicato della relativa introdotta da unde, è indicativo presente di desilio, ˉı re (de + salio, lett. «saltare», «balzare giù») che evoca il vivace, sonoro (loquaces) sprizzare e scorrere giù «saltellando» delle acque sorgive. – loquaces: lett. «parlanti», «chiacchierine» (da loquor, loqui). – lymphae ... tuae: soggetto di desiliunt, è un grecismo poetico. La scelta del vocabolo non è casuale: lympha (dal greco nymphe, «ninfa») indica in particolare un’acqua limpida, sorgiva; inoltre è attestato Lymphae in luogo di Nymphae, a designare specialmente le ninfe delle acque (personificazione).
italiche. Distingui nel testo i diversi spunti sui quali è costruita la lirica, facendo seguire all’analisi un breve commento.
Confrontare e interpretare i testi
5. Sebbene il poeta non lo affronti qui in modo del tutto esplicito, l’ultima strofa tocca uno dei temi oraziani per eccellenza, quello dell’immortalità (o quanto meno della perennità) del canto lirico, e più in generale della poesia. Sviluppa questo tema leggendo in particolare almeno l’ode III, 30 [ T19], estendendo ove possibile il discorso ad altri testi e ad altri autori, antichi e/o moderni, a te noti.
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 19 Non omnis moriar Carmina III, 30 LATINO
Questo celebre carme congeda il III libro e insieme i primi tre libri delle Odi, pubblicati nel 23 a.C. Composto sullo stesso metro dell’ode a Mecenate che apre il I libro, chiude retrospettivamente in compatta unità la prima raccolta dei Carmina, che certo Orazio doveva allora considerare definitiva. Tema dominante, l’immortalità del canto (unica forma di perenne sopravvivenza concessa agli uomini) che vince il tempo e la morte, insieme al legittimo orgoglio del poeta per la grande opera compiuta. Orazio rivendica un primato, quello di essere stato il fondatore di un genere nuovo, che ancora mancava alla letteratura di Roma: egli per primo (princeps) ha trasferito e ricreato nella lingua latina i modi della lirica greca classica, ispirandosi al «canto eolio» di Saffo e di Alceo (vv. 13-14). La gioia di essere ricordato nel paese natale (vv. 10-12) è un motivo ricorrente nei carmi di commiato, ma Orazio ravviva i consueti cenni autobiografici sottolineando il contrasto fra le proprie umili origini e l’altezza della gloria poetica conquistata (ex humili potens). Mediante un’unica, indimenticabile immagine di ieratica solennità (vv. 8-9), l’immortalità del canto lirico (e della propria fama) viene associata all’immortalità di Roma. Così, nel breve giro di versi dell’ode, il poeta rende plasticamente sensibile, con mirabile concentrazione espressiva, l’innesto della cultura greca sul terreno latino-italico. Orazio assume qui il ruolo sacrale del poeta vates; coerentemente, sul piano della poetica e delle forme, la ricerca si orienta verso i modelli di stile sublime, sopra tutti Pindaro e Simonide.
Nota metrica: asclepiadei minori.
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Exegi monumentum aere perennius regalique situ pyramidum altius, quod non imber edax, non Aquilo impotens possit diruere aut innumerabilis annorum series et fuga temporum.
[1-5] Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo e più alto della regale mole delle piramidi, tale che non la pioggia corrosiva, non l’impetuoso Aquilone potranno distruggerlo, né la serie innumerevole degli anni, né la fuga del tempo. Exegi: perfetto indicativo di exı̆go (ex + ago); lett. «ho compiuto», «ho portato a termine». – aere perennius: il comparativo neutro dell’aggettivo perennis, e («che dura per molti anni»; per + annus) concorda con monumentum; l’ablativo aere (da aes, aeris) esprime il termine di paragone. Nel bronzo, materiale nobile e resistente, si forgiavano le statue degli dèi e degli uomini illustri. – regalique... altius: con perfetta simmetria, che scandisce il ritmo solenne dell’esordio, il v. 2 è chiuso da un altro comparativo neutro (altius), pure concordato con monumentum e preceduto dal termine di paragone in ablativo (regali... situ) specificato dal
genitivo plurale pyramı̆dum. È detta «regale», la «mole» delle piramidi, in quanto notoriamente erano i monumenti funebri dei Faraoni, sovrani dell’antico Egitto. – quod non... possit diruĕre: relativa impropria di valore consecutivo, introdotta dal pronome neutro in accusativo quod, riferito a monumentum. Il predicato singolare possit (diruere) si riferisce a quattro soggetti (imber... Aquilo... series... fuga) introdotti da scandite e perentorie negazioni: l’avverbio non in anafora; le congiunzioni aut... et, con variatio (si ricordi che in frase di significato negativo aut vale «né»). Il verbo diruere (dis + rŭo) significa propriamente «demolire», «ridurre a rovine» (cfr. ruina, ae). – edax: da ĕdo, ĕre («mangiare», «consumare»); perciò «divoratrice», ossia, fuor di metafora, «che corrode», «che disgrega». – Aquilo impotens: l’Aquilone o Borea, freddo e tempestoso vento invernale che spira dal Nord, è detto
impotens, «violento», «impetuoso»; lett. «che non sa frenarsi» (cfr. Catullo 8, 9). – innumerabilis annorum: non solo il significato in sé, ma anche la lunghezza delle parole e la posizione in enjambement (vv. 4-5) evocano l’incommensurabile, ininterrotto scorrere del tempo. – fuga temporum: anche «la fuga delle stagioni» (tempora anni) o «dei secoli»; il plurale temporum, che vale a designare le più diverse sequenze temporali, conferisce all’espressione un’indefinita suggestione, dilatata dalla metafora (fuga). Se l’espressione precedente evocava l’immensità del tempo, qui l’accento è posto sulla rapidità della sua inarrestabile corsa. Si osservi ancora la disposizione chiastica, enfatizzata dall’omoteleuto che lega i due genitivi (annorum series... fuga temporum).
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3. Orazio
PERCORSO ANTOLOGICO
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Non omnis moriar, multaque pars mei vitabit Libitinam: usque ego postera crescam laude recens, dum Capitolium scandet cum tacita virgine pontifex. Dicar, qua violens obstrepit Aufidus et qua pauper aquae Daunus agrestium
[6-9] Non morirò del tutto, e la più gran parte di me sfuggirà a Libitina: io crescerò continuamente rinnovato nella lode dei posteri, finché salirà al Campidoglio il pontefice con la tacita vergine. Non omnis moriar: lett. «non morirò tutto»; omnis, predicativo del soggetto sottinteso (ego), si può tradurre con un avverbio («interamente», «del tutto»); moriar è futuro di morior, mori, deponente. – multaque pars mei: l’enclitica -que ha valore avversativo («anzi»); pars è soggetto di vitabit (futuro di vito, aˉre; lett. «eviterà»); mei è genitivo del pronome di I persona singolare. – Libitıˉnam: accusativo oggetto di vitabit, è metonimia per «morte». – usque: avverbio da unire sia al futuro crescam, sia all’aggettivo recens. – postera... laude: ablativo di valore causale-strumentale («grazie alla», «per la lode»), dove l’aggettivo postera = posterorum. – recens: «recente» nel senso di «sempre nuovo», «fresco»,
«giovane»; predicativo del soggetto ego, di norma sottinteso, qui espresso in funzione enfatica. – dum... pontifex: costruisci dum pontifex scandet Capitolium cum tacita virgine; proposizione temporale dipendente da crescam. [10-14] E di me si dirà, là dove violento strepita l’Aufido, e dove Dauno povero d’acqua regnò su popoli agresti, che da umili natali divenuto illustre per primo ho trasferito il canto eolio nei ritmi italici. Dicar qua... populorum: mediante due perifrasi atte a designare l’Apulia, ove sorge Venosa, Orazio ricorda qui la terra natale, immaginando che partecipi della gloria conseguita dal figlio. Il motivo ricorre fra gli altri in Virgilio, Properzio e Ovidio. – Dicar: lett. «io sarò detto» = «si dirà di me»; costruzione personale dei verba dicendi con l’infinito (deduxisse). – qua... obstrepit... et qua regnavit: due proposizioni relative introdotte da qua, avverbio di moto per
luogo in anafora, dipendenti da Dicar. – violens... Aufidus: l’Ofanto, fiume a regime torrentizio, e perciò detto violens («violento», «impetuoso») nei periodi di piena, scorre in Apulia, attraversando anche Venosa. Il predicato obstrepit (da obstrĕpo, ĕre, «strepitare», «rumoreggiare») evoca il fragore delle acque; l’aggettivo violens è predicativo del soggetto (Aufidus). – Daunus: re leggendario di una parte della regione àpula, detta Apulia Daunia; secondo il racconto mitico, padre o progenitore di Turno re dei Rùtuli (personaggio di spicco nell’Eneide) e suocero dell’eroe omerico Diomede. A tutt’oggi una parte della Puglia conserva la denominazione di Daunia. – pauper aquae: Dauno è detto «povero d’acqua» in quanto regnava su una terra che altrove Orazio stesso definisce siticulosa («assetata», «sitibonda»; Epodi III, 16). – agrestium... populorum: genitivo plurale retto da regnavit, secondo la costruzione dei verba imperandi in
anche nelle iscrizioni di carattere politico-militare, dove magistrati e uomini di guerra affidano il ricordo della propria grandezza alla dichiarazione delle imprese compiute. Situs: tra i vari significati del sostantivo maschile situs, -ūs della IV declinazione («sito», «situazione», «posizione», «regione») vi è anche «edificio», «costruzione», che nel contesto dell’ode è appropriata consuetudine tradurre «mole»; altri preferiscono intendere «decrepitezza», «squallore», «disfacimento»; o addirittura «muffa», «ruggine», tutti significati pure attestati, che si sviluppano da quello di «posizione stabile», «immobile». Va detto peraltro che
qui il confronto con qualcosa che cade in rovina appare inopportuno; altius evoca un’immagine imponente e grandiosa, così che il paragone assume il valore di un superlativo: «l’alta e immobile mole concreta l’impressione della perenne resistenza al tempo» (A. La Penna). Libitīna: Libitina, nome di origine etrusca, era la dea romana dei funerali. Al suo tempio, situato in un bosco sacro presso l’Aventino, dove erano custoditi gli apparati e gli addobbi che servivano alla celebrazione delle esequie, si versava fin dall’età regia un obolo per ogni cerimonia; libitinarii erano detti gli impresari delle pompe funebri.
NOMI e PAROLE degli ANTICHI Monumentum: il sostantivo neutro
monumentum, -i (dalla stessa radice di moneo, memini, mens, memoria) in accezione più ampia di «monumento» nell’italiano corrente, designa tutto ciò che vale a «ricordare», a conservare la memoria di quanto è ritenuto degno di essere tramandato ai posteri, oltre gli angusti termini della vita individuale e delle singole generazioni. In particolare, l’esordio dell’ode ricalca il linguaggio degli artefici (scultori, architetti, ceramisti...) che, terminata la loro opera, ossia un «monumento» artistico, ne rivendicano il merito e vi appongono la sphraghís (in greco, «sigillo»; la «firma»). Formule del tutto analoghe compaiono
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regnavit populorum, ex humili potens, princeps Aeolium carmen ad Italos deduxisse modos. Sume superbiam quaesitam meritis et mihi Delphica lauro cinge volens, Melpomene, comam.
greco (ad es. basiléuein). – ex humili potens: sott. factus; lett. «da umile [divenuto] grande», «famoso». Il participio-aggettivo potens (da possum) assume qui il valore di clarus atque magnus, in quanto si riferisce alla grandezza poetica e al prestigio che ne deriva. Non è l’unico luogo dell’opera oraziana in cui il poeta rivendica con orgoglio il riscatto dalle sue umili origini; il motivo ricorre in un altro celebre componimento di commiato (Epistulae I, 20, 20-22 [ T24 ONLINE ]). Ma già parecchi anni prima, nell’ancor più famosa satira sesta del I libro, ne riconosceva il merito, prima che a se stesso, a suo padre e all’educazione che gli aveva impartito (Sermones I, 6, 65-88). – princeps... modos: costruisci (Dicar...) princeps deduxisse Aeolium carmen ad modos Italos. – princeps: predicativo del soggetto, da connettere direttamente a deduxisse. Da Lucrezio ai poeti augustei, ricorre insistente nella poesia latina l’aspirazione alla gloria dell’inventor (da invenio, «trovare»; traduce esattamente il greco euretés), ossia dell’«iniziatore», del «fondatore» di un genere nuovo nella letteratura di Roma, mediante la composizione di un’opera degna di emulare i modelli greci. Il motivo del “primato” compare in Lucrezio (I, 922-934), Virgilio (Georgiche II,
173-176 [ T7, cap. 2], Properzio (III, 1, 3-4). – Aeolium carmen: accusativo oggetto di deduxisse. – ad Italos... modos: moto a luogo figurato. «I modi (ritmi, metri) possono dirsi italici (qui latini) solo nel senso che sono ricreati in parole latine, con le loro quantità sillabiche: giacché i metri (indicati altrove anche con numeri) sono greci» (A. La Penna). In ogni caso, è indiscutibile che Orazio abbia operato non un semplice “trapianto” della lirica greca nella lingua latina, ma una ricreazione originale di impronta autenticamente romana; e tuttavia non è fuori luogo aggiungere che almeno per certi aspetti – non secondari – è lecito dire lo stesso della poesia di Catullo. – deduxisse: infinito perfetto di deduco, ĕre (de + duco; «trasportare», «trasferire», «trapiantare»). Secondo altri deducere va inteso nell’accezione di «elaborare con cura» (immagine connessa in origine alla filatura della lana), significato attestato in due luoghi dell’opera oraziana (Sermones II, 1, 4; Epistulae II, 1, 125). [14-16] Prenditi l’orgoglio conquistato con i meriti, e propizia cingimi la chioma, o Melpomene, con il lauro delfico. Sume superbiam: «assumi», «prendi il [giusto] orgoglio»; cioè «siine orgogliosa» (= puoi esserlo, l’hai meritato). Il
poeta rivolge l’invito alla Musa che ha ispirato il suo canto per evitare un’autocelebrazione troppo diretta, ma è ovvio che queste parole sono riferite in realtà a se stesso. Sume (= assume), imperativo che si lega enfaticamente in sequenza allitterante con l’oggetto in accusativo superbiam. – quaesitam meritis: participio congiunto (da quaero, ĕre, «cercare», «chiedere»; quindi «procurarsi», «ottenere»), e ablativo strumentale (meritis): il sintagma vale «meritato». Così il sostantivo superbia, in latino vox media, assume qui il significato pienamente positivo di «giustificata fierezza». – Delphica/ lauro: ablativo strumentale in enjambement di forte spicco; metonimia per la corona d’alloro, premio e simbolo della gloria poetica, detta Delphica in quanto il lauro o alloro era sacro ad Apollo, dio della poesia e della musica. A Delfi nella Focide sorgeva il più celebre santuario dedicato al suo culto. – volens: predicativo del soggetto, il participio-aggettivo volens (da volo, velle; lett. «volente») è termine del linguaggio cultuale che ricorre nelle formule di invocazione alla divinità, cui si chiede di mostrarsi «benigna», «propizia». – Melpomene: qui genericamente Musa della poesia; soltanto nella tradizione posteriore Melpomene verrà associata alla tragedia.
LETTURA e INTERPRETAZIONE Emblemi della grandezza e dell’eternità di Roma
Dum Capitolium/ scandet cum tacita virgine pontifex (vv. 8-9): nel breve spazio di questa frase Orazio ha concentrato i tre più eminenti simboli della grandezza e dell’eternità di Roma: il Pontifex Maximus, il collegio delle Vestali custodi del fuoco sacro, il colle capitolino con il tempio di Giove eretto dai Tarquinii, detto da Livio arcem... imperii caputque rerum («la rocca
dell’impero e il capo del mondo»; Ab urbe condita I, 55, 6); a questi potenti emblemi di perennità associa e affida la sopravvivenza della sua opera e di una «gran parte» di sé.
Una processione rituale
Ma di quale cerimonia sacra si tratta? È probabile che si alluda qui genericamente alle solenni processioni rituali cui partecipavano i pontefici e le 243
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
vergini Vestali (in questo caso virgo, come pontifex, sarebbe un singolare collettivo). D’altra parte non è escluso che Orazio faccia riferimento a una cerimonia particolare, che secondo una tarda testimonianza erudita si svolgeva ogni anno alle Idi di marzo, quando la Virgo o Vestalis Maxima (la Vestale più anziana) saliva al tempio di Giove sul Campidoglio ad implorare dagli dèi la prosperità di Roma; non è certo tuttavia se fosse o meno accompagnata dal pontefice massimo (o comunque da un pontefice).
PERCORSO ANTOLOGICO
Potenza evocativa di un verbo
Scandĕre è voce poetica ed elevata per ascendĕre; dalla Via Sacra, donde muovevano i cortei rituali, al tempio di Giove Capitolino la strada saliva in ripido pendìo. La potenza evocativa di questo verbo, atto a raffigurare un’ascesa ritmata («scandita», appunto) da un passo lento e solenne, viene rafforzata dalla collocazione in enjambement, che lo isola in fortissimo rilievo, ma ancor più dall’aggettivo tacita, che pervade tutta la scena di un silenzio ieratico.
Analizzare il testo 1.
L’ode, che conclude e congeda i primi tre libri dei Carmina, riveste particolare importanza nell’ambito della raccolta, verosimilmente considerata in quel momento definitiva dall’autore. Ripercorri il testo individuando i concetti fondamentali enunciati dal poeta in merito al significato dell’opera compiuta e della propria esperienza di poeta lirico, sottolineando i termini e le espressioni più rilevanti in tal senso. Dividi poi, per maggiore chiarezza, il testo in sequenze, apponendo a ognuna una breve didascalia esplicativa. 2. In quest’ode, dove Orazio esprime l’ormai raggiunta consapevolezza dell’immortalità della propria opera, occorre soffermarsi in particolare sui vocaboli e sulle immagini che esprimono perennità e durata: quali sono? Come si configura e come dobbiamo interpretare, in riferimento alla visione epicurea dell’autore, l’immortalità, ossia la vittoria sul tempo fugace e sulla morte, di cui qui si parla?
Aeolium carmen
Il «carme» o «canto eolio» (v. 13) designa la lirica dei poeti eolici; dell’Eolia, regione dell’Asia Minore, faceva parte l’isola di Lesbo, dove erano nati Saffo e Alceo e dove era fiorita la loro poesia. In senso stretto, l’espressione potrebbe riferirsi ai sistemi metrici dei poeti di Lesbo: tuttavia, se è vero che prima di Orazio nessun poeta latino aveva usato la strofe alcaica, è pure noto che già Catullo, nei carmi 11 e 51, aveva riprodotto il sistema saffico minore; anche se nel Liber catulliano si tratta di esperimenti isolati, il vanto di Orazio può suonare esagerato. Ma l’affermazione va intesa in un senso molto più esteso e impegnativo, che trascende l’ambito delle forme metriche: Orazio rivendica il merito di aver composto per primo, nel genere lirico, un’opera organica e di ampio respiro (un monumentum) «trasferendo» nella lingua e nella cultura di Roma anche e soprattutto i grandi modelli della lirica greca classica, non solo Saffo e Alceo ma anche, fra gli altri, Pindaro e Anacreonte, senza concentrarsi prevalentemente sulla poesia di età ellenistica come avevano invece fatto Catullo e i neóteroi.
3. È lecito affermare che anche in questo componimento Orazio tocchi il tema civile? Dove, precisamente, e secondo quali modalità? 4. Analizza parola per parola, spiegandone l’esatto significato, la dichiarazione espressa nei vv. 13-14: princeps Aeolium carmen ad Italos/ deduxisse modos. 5. Ricerca nel testo gli aggettivi che rivestono funzione predicativa. 6. Secondo quale costruzione sintattica è impiegato il verbo Dicar (v. 10)? E come si spiega il genitivo agrestium... populorum in dipendenza da regnavit?
Confrontare i testi 7.
Confronta l’ode che hai appena letto con altri due componimenti oraziani in cui il poeta affronta il tema della poesia, in modo esplicito o in chiave simbolica: il congedo del primo libro dei Carmina (I, 38) [ T14] e l’ode alla fonte di Bandusia (III, 13) [ T18], avendo cura di evidenziare i motivi dominanti e le dichiarazioni più significative in ciascuno di essi, non senza rilevare analogie e differenze.
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PERCORSO ANTOLOGICO
T 20 Pulvis et umbra sumus LATINO ITALIANO
LETTURA ESPRESSIVA IN LINGUA ITALIANA
Nota metrica: sistema archilocheo secondo, composto di esametri dattilici alternati a trimetri dattilici catalettici in syllabam.
La lirica si apre serenamente su immagini di vitalità e di rinascita: ritorna la primavera (vv. 1-4), accompagnata dal luminoso quadretto mitologico delle Grazie danzanti (vv. 5-6). Ma il grave ammonimento dei versi successivi richiama improvvisamente l’idea del trascorrere del tempo (v. 8) e dell’inesorabilità della morte (v. 7). Al ciclico avvicendarsi delle stagioni (vv. 9-13) corrisponde infatti, in malinconica antitesi, il tempo, lineare e finito, della vita umana (vv. 14-16). Anche il motivo del carpe diem (vv. 17-20), che di solito nella poesia oraziana contrappone un’intensa carica di vitalità al pensiero del tempo e della morte, appare qui solo accennato in pochi e desolati versi. Il ricorso agli exempla illustria, storici e mitologici, ribadisce l’irreversibile caducità della vita umana: Enea, Tullo Ostilio e Anco Marzio (v. 15) non hanno potuto, benché re o eroi, sottrarsi al destino di morte; Diana e Teseo (vv. 25-28), benché solleciti o coraggiosi, non hanno potuto salvare i loro protetti dalla fine; il genus, la facundia e la pietas (vv. 23-24) non restituiranno a Torquato la vita, quando gli occorrerà discendere per i cammini dell’Ade.
Danzatrice o baccante, affresco dalla Casa del Cicerone a Pompei, I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Carmina IV, 7
Diffugere nives, redeunt iam gramina campis arboribusque comae; mutat terra vices, et decrescentia ripas flumina praetereunt. Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet ducere nuda choros. Immortalia ne speres, monet annus et almum quae rapit hora diem. 5
Svanirono le nevi, tornano già le erbe nei campi, agli alberi le chiome; la terra muta vicenda, e i fiumi decrescendo scorrono fra le rive; la Grazia, con le Ninfe e le sue gemine sorelle, osa guidare ignuda le danze. Ma l’anno e l’ora che rapisce i fecondi giorni, ti ammoniscono a non nutrire speranze immortali. 5
5. Gratia... sororibus: le tre Grazie (Aglaia, Eufròsine, Talía), dee della bellezza e
della gioia serena, compagne di Afrodite. Abitavano, come le Muse, in Olimpo.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Frigora mitescunt Zephyris, ver proterit aestas interitura, simul pomifer autumnus fruges effuderit, et mox bruma recurrit iners. 10
Damna tamen celeres reparant caelestia lunae: nos ubi decidimus 15 quo pater Aeneas, quo Tullus dives et Ancus, pulvis et umbra sumus.
PERCORSO ANTOLOGICO
Il freddo si mitiga agli Zefiri, la primavera 10 cede all’estate che morrà appena il fruttuoso autunno avrà effuso i frutti, e presto torna l’inerte inverno. Il danno del cielo tuttavia riparano veloci lune; noi, come cademmo 15 dov’è il padre Enea, e dove il ricco Tullo e Anco, polvere e ombra siamo. 9. Zephyris: venti tiepidi che giungono da occidente e annunciano la primavera.
15. Tullus... Ancus: Tullo Ostilio e Anco Marzio, re di Roma, noti il primo per la
sua ricchezza (dives), il secondo per la mitezza dell’animo.
Dialogo con i MODELLI Pulvis et umbra: dai tragici greci a Catullo L’espressione pulvis et umbra sumus (v. 16) richiama un motivo tradizionale della poesia classica, sviluppato con immagini molto affini già dai poeti tragici: «noi non siamo che parvenza e vana ombra» (Sofocle, Aiace 152); «invece della persona diletta cenere e vana ombra» (Sofocle, Elettra 1158-59); «ogni uomo, una volta che sia morto, è terra ed ombra» (Euripide,
fr. 536 N). E anche in Asclepiade: «nell’Acheronte giaceremo ossa e polvere» (Antologia Palatina V, 85). Rispetto alle sue fonti, Orazio isola e rafforza l’immagine, che diventa il vero centro lirico del componimento. Ma la fonte più esplicita dell’ode sono tre versi di un famoso carme di Catullo (5, 4-6):
Soles occidere et redire possunt: nobis cum semel occidit brevis lux, nox est perpetua una dormienda.
Orazio riecheggia il passo di Catullo in due luoghi diversi: al v. 14 (nos ubi decidimus) e al v. 21 (Cum semel occideris), proponendo una clausola monosillabica di analoga intensità e suggestione fonica al v. 11 (mox). Va infine considerato che l’intero
componimento è un’evidente ripresa, con significative variazioni, di un’altra ode oraziana (I, 4): secondo una consuetudine tipica della poesia ellenistica Orazio, a dieci anni di distanza dalla precedente raccolta, istituisce un confronto diretto con se stesso.
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PERCORSO ANTOLOGICO
Quis scit an adiciant hodiernae crastina summae tempora di superi? Cuncta manus avidas fugient heredis, amico 20 quae dederis animo. Cum semel occideris et de te splendida Minos fecerit arbitria, non, Torquate, genus, non te facundia, non te restituet pietas. Chi sa se i superni dèi alla somma dell’oggi vorranno aggiungere il tempo d’un domani? Tutto ciò che avrai concesso al tuo caro cuore, 20 sfuggirà alle avide mani d’un erede. Una volta perito, quando Minosse abbia pronunciato su di te una pur splendida sentenza, la nobile stirpe, o Torquato, la facondia, la pietà, non ti restituiranno alla vita; 17-18. Quis... superi?: cfr. I, 11 [ T11]. 21. Minos: re di Creta e giudice infernale.
23. Torquate: probabilmente un discendente dell’antica e illustre famiglia dei Manlii, come conferma l’allusione
al genus. La facundia testimonia invece della sua valentia di oratore.
Le FORME dell’ESPRESSIONE Misura classica e armonia compositiva nell’ode IV, 7 ▰ Perfezione classica della struttura Nella più
bella e più intensa ode del IV libro, i temi tradizionali della poesia oraziana ritornano, modulati in toni più cupi e severi, ma ancor più nobilmente inquadrati nella misura classica ed essenziale delle immagini e nella perfetta struttura architettonica e ritmica del testo. In particolare, in questo componimento Orazio riprende il motivo centrale e numerosi spunti dall’ode “parallela” a Sestio (I, 4 [ T8]), ancora in parte debitrice al gusto alessandrino dei “quadretti” aggraziati e dei vivaci particolari descrittivi; è dunque il poeta stesso a richiedere un confronto tra l’ode giovanile e lo svolgimento più maturo ed essenziale del medesimo motivo.
▰ Perfetto dosaggio di ogni elemento La forza lirica della meditazione scaturisce dal perfetto
dosaggio di ogni elemento. Si osservi, sul piano concettuale e tematico, la concatenazione logicoaffettiva delle immagini: dall’apertura luminosa sul ritorno della primavera (vv. 1-6) al rapido susseguirsi ciclico delle ore e delle stagioni (vv. 7-12), da cui scaturisce il grave ammonimento (Immortalia ne speres...), alla constatazione della finitezza lineare della vita umana (vv. 13-16), al motivo del carpe diem (vv. 17-20), all’inesorabilità della fine (vv. 21-28). Sul piano retorico-sintattico, da notare innanzitutto gli enjambement fortissimi dei vv. 10-11 e 11-12, dove una congiunzione e un avverbio di tempo (simul, v. 10; mox, v. 11) scandiscono ed enfatizzano (si direbbe paradossalmente, con una pausa ritmica) l’inarrestabile fuga del tempo; inoltre, l’uso intensivo delle anafore dislocate nei punti patetici del discorso: quo... quo (v. 15); non... non... non... (v. 23). L’ode, nella sua armonica limpidezza, si avvale infine di una rete di citazioni allusive che amplificano il motivo lirico dominante della morte [ Dialogo con i modell, p. 246].
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
Infernis neque enim tenebris Diana pudicum liberat Hippolytum, nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro vincula Pirithoo. 25
ché neanche Diana libera dalle tenebre inferne il casto Ippolito, né Teseo riesce a spezzare i ceppi letei a Piritoo suo diletto. 25
(trad. di L. Canali)
PERCORSO ANTOLOGICO
25-26. Diana... Hippolytum: Ippolito, figlio di Teseo, si era votato al culto di Diana e viveva castamente. Fu ingiustamente calunniato dalla matrigna, di cui aveva respinto l’amore, e maledetto
T 21
dal padre, che lo fece perire con l’aiuto di Poseidone. Secondo una versione del mito, Diana scongiurò inutilmente il dio Esculapio di sottrarlo alla morte. 27-28. Lethaea... Pirithoo: il Lete è il
L’età di Augusto
fiume infernale che dà l’oblio; Piritoo, innamorato di Proserpina, discese agli inferi con l’amico Teseo per rapire la dea: catturato, fu messo in catene;Teseo riuscì invece a fuggire e a ritornare sulla terra.
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Carmina IV, 15
T 22 Ad Albio Tibullo: conforti per il poeta malinconico Epistulae I, 4 LATINO
Nota metrica: esametri.
Orazio si rivolge all’amico Albio (con ogni probabilità Albio Tibullo, il poeta elegiaco), che vive appartato nelle sue terre, in regione Pedana. Si delinea il ritratto di un giovane malinconico, incapace di godere dei beni che la fortuna gli ha elargito. Orazio lo immagina mentre erra fra le selve pensoso e solitario; come scrive La Penna, reptare «suscita non solo l’impressione della lentezza e della pigrizia, ma anche dello strisciare furtivo, lontano dagli uomini». Il ritratto prende rilievo dal confronto con l’immagine scherzosa che l’autore dà di se stesso, porcus del gregge di Epicuro (v. 16). Orazio riprende alcuni temi fondamentali della propria poesia (la fugacità del tempo, l’invito al godimento dell’oggi, lo stato di fragilità e di finitezza della vita umana), ponendoli sotto il segno dell’amicizia, tema epicureo per eccellenza.
Albi, nostrorum sermonum candide iudex, quid nunc te dicam facere in regione Pedana? Scribere quod Cassi Parmensis opuscula vincat,
[1-5] O Albio, giudice sincero delle nostre satire, che cosa posso dire che tu faccia ora nella regione di Pedo? Che tu stia scrivendo un’opera che superi i brevi carmi di Cassio Parmense, oppure che silenzioso ti aggiri fra i boschi salubri, intento a meditare ciò che è degno di un uomo saggio e onesto? Albi... iudex: il vocativo iniziale (del
nome Albius) concorda in iperbato con candide iudex, da cui dipendono i genitivi plurali nostrorum (= «delle mie») e sermonum, cioè le Satire, come intendono i più. In tal caso, le espressioni del primo verso alluderebbero forse a giudizi pronunciati da Tibullo in passato; ma, dato che Orazio designa con il termine sermones anche le Epistulae, si potrebbero rife-
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rire a queste ultime, e a tempi molto più recenti. – candide: l’aggettivo candidus, che come in italiano indica un «bianco» immacolato e luminoso, per traslato significa anche «sincero», «puro», «leale». È possibile che Orazio abbia inteso costruire un gioco di parole allusivo al nome del destinatario: Albius da albus («bianco»). – quid... facere: dall’interrogativa
PERCORSO ANTOLOGICO
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an tacitum silvas inter reptare salubris, curantem quidquid dignum sapiente bonoque est? Non tu corpus eras sine pectore: di tibi formam, di tibi divitias dederunt artemque fruendi. Quid voveat dulci nutricula maius alumno, qui sapere et fari possit quae sentiat, et cui
diretta quid... dicam, congiuntivo dubitativo («che posso», «che debbo dire?») oppure futuro («che cosa dirò?»), con la stessa sfumatura di dubbio, dipende l’infinitiva oggettiva te... facere. – in regione Pedana: fra Tivoli, Tuscolo e Preneste, non lontano da Roma, dove sorgeva l’antica Pedum, cittadina all’epoca di Orazio già scomparsa. Tibullo, nato forse a Gabii sulla via Prenestina, possedeva terre in quella regione. – Scribere... vincat: sott. dicam te. Dall’infinito Scribere dipende la relativa impropria consecutiva nel modo congiuntivo quod... vincat (lett. «ciò che superi», «qualcosa [tale] da superare»), che ha per oggetto opuscula, specificato dal genitivo Cassi Parmensis Di Cassio di Parma, intransigente nemico di Ottaviano, che perciò lo fece uccidere, ci è rimasto un solo verso. Opuscula fa pensare a una produzione di elegie ed epigrammi; una fonte antica lo menziona come autore di tragedie. – an tacitum... salubris: costruisci an (dicam
te) reptare tacitum inter silvas salubris (= salubres); an introduce il secondo membro dell’interrogativa diretta doppia disgiuntiva. L’aggettivo tacitum, accusativo, concorda con il soggetto sottinteso dell’infinitiva (te) reptare dipendente da dicam; silvas inter = inter silvas per anastrofe; salubris, accusativo concordante con silvas, sottolinea implicitamente il contrasto fra l’aria pura e salutare della verde campagna e quella malsana della città, ma certo allude anche alla pace della vita appartata nel rus, benefica all’animo. – quidquid: lett. «qualunque cosa che», pronome relativo neutro (quisquis, quidquid); soggetto di dignum... est, predicato nominale. – sapiente bonoque: ablativi retti da dignum. [6-11] Non sei mai stato un corpo senz’anima: gli dèi ti diedero bellezza, ti diedero ricchezze e l’arte di goderne. Che cosa potrebbe augurare di più la cara nutrice al suo dolce figlio di latte, se non che egli possa essere saggio ed [in
grado di] esprimere il suo pensiero, e che gli tocchino in abbondanza favore, buon nome, salute, e un decoroso tenore di vita con una borsa non sprovvista? Non... eras: il tempo verbale non implica che ora Tibullo sia mutato; in tal caso il poeta avrebbe impiegato il perfetto, mentre l’imperfetto esprime una condizione che perdura nel presente. – di tibi... di tibi: l’enfasi asseverativa dell’anafora è potenziata dalle vistose serie allitteranti (vv. 6-7). – formam: nella breve Vita svetoniana Tibullo è detto insignis forma cultuque corporis observabilis («insigne per bellezza e degno di nota per l’eleganza e la cura della persona»). – divitias: sappiamo che Tibullo era di condizione agiata, sebbene avesse perduto parte delle sue terre in seguito agli espropri di cui beneficiarono i veterani delle guerre civili. – dedĕrunt: la desinenza del perfetto di terza persona plurale con la penultima sillaba breve è un arcaismo dovuto a esigenze metri-
Le FORME dell’ESPRESSIONE Collocatio verborum Nei testi oraziani l’attenzione è rivolta in modo particolare alla sapiente collocazione delle parole, che si rivela uno degli espedienti tecnico-stilistici di maggiore efficacia espressiva messi in atto dal poeta.
▰ Omnem crede diem tibi diluxisse supremum (v. 13) In posizione forte, al centro dell’esametro prima della cesura, e ulteriormente enfatizzata dalle espressive allitterazioni, sta diem, la parola-chiave; diluxisse, il verbo che indica precisamente il sorgere del sole e l’inizio del nuovo giorno, evoca con singolare intensità anche a livello fonico e quasi irradia da sé, nelle sillabe centrali, la «luce» (lux) che è fonte concreta e insieme metafora poetica della vita, mentre con l’aggettivo che immediatamente lo segue, supremum («estremo», «ultimo») subentra il pensiero della morte.
▰ Grata superveniet quae non sperabitur hora (v. 14) Anche nel verso successivo la scelta e la
collocazione delle parole sono curate con magistrale perizia e straordinaria efficacia: all’inizio e alla fine del verso l’aggettivo (grata, predicativo) e il sostantivo (hora), esprimono la serena felicità conquistata dal saggio e insieme l’accettazione consapevole della brevità e fugacità di ogni cosa umana; al centro, legati dall’allitterazione, i due verbi nel tempo futuro, superveniet («giungerà in sovrappiù», «si aggiungerà») e non sperabitur, in antitesi, mediante la decisa negazione, con spem (v. 12).
▰ Un monito di matrice epicurea In questi tre
versi (12-14) è racchiuso il monito che il poeta rivolge all’amico Tibullo, un vero e proprio Leitmotiv oraziano di chiara matrice epicurea. Già Filodemo di Gàdara, filosofo epicureo e poeta ancora attivo durante la giovinezza di Orazio, aveva scritto che il saggio deve essere «grato per ogni istante raggiunto, come se avesse conseguito una fortuna insperata» (De morte IV, 14).
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3. Orazio
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PERCORSO ANTOLOGICO
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gratia, fama, valetudo contingat abunde, et mundus victus non deficiente crumina? Inter spem curamque, timores inter et iras omnem crede diem tibi diluxisse supremum: grata superveniet, quae non sperabitur, hora. Me pinguem et nitidum bene curata cute vises, cum ridere voles, Epicuri de grege porcum.
che. – artemque fruendi: artem, accusativo oggetto, come formam e divitias, di dederunt, regge il gerundio genitivo di fruor, frui, deponente. È la dote più importante, e l’espressione-chiave che segna il passaggio alla seconda parte dell’epistola: senza la «capacità di goderne» (o la volontà di esercitarli) i doni degli dèi sono vani, come Orazio ricorda in diversi luoghi della sua opera. – Quid... alumno: costruisci Quid maius nutricula voveat dulci alumno. – voveat: congiuntivo presente potenziale di voveo, ˉere («far voti», «augurare»). Nelle neniae che cantavano cullando i lattanti per farli dormire, le nutrici e le madri scongiuravano le forze ostili di tenersi lontane dal piccolo e invocavano per lui un felice avvenire. – dulci... alumno: dativo di vantaggio. Propriamente alumnus designa chi viene «nutrito», «alimentato» (da alo, alĕre): il «lattante», perciò anche il «figlio»; per la balia o nutrice si usava l’espressione «figlio di latte». – nutricula: diminutivo-vezzeggiativo del sermo cotidianus, soggetto di voveat. Intraducibile, richiede in italiano l’ausilio di un aggettivo («cara», «tenera»). – qui... et cui: i due pronomi introducono proposizioni relative improprie dipendenti da voveat nel modo congiuntivo, che alcuni studiosi considerano completive di valore finale (= nisi ut is possit... eique... contingat: così nella nostra traduzione); altri le ritengono proposizioni temporali
(«quando uno può... e a lui tocchino»), altri infine ipotetiche («se uno può... e se gli tocchino»). – gratia, fama, valetudo: eenumerazione per asindeto; rispettivamente la felice condizione di chi può contare su solide «amicizie», una reputazione senza macchia e una buona salute (valetudo è vox media). – contingat: il verbo al singolare si riferisce a ben quattro soggetti, enumerati nei vv. 10-11 (gratia, fama, valetudo... victus). – mundus: l’aggettivo significa propriamente «pulito», e per traslato «dignitoso», «decoroso». – non deficiente crumina: ablativo assoluto di valore causale-strumentale; la crumıˉna, altro vocabolo del sermo familiaris (attestato in Plauto), è una piccola borsa che si portava appesa al collo, ed indica per metonimia il denaro in essa contenuto. [12-14] Fra la speranza e gli affanni, fra i timori e le collere, fa conto che ogni giorno spuntato sia per te l’ultimo: gradita si aggiungerà l’ora non sperata. Inter spem... et iras: enumerazione delle passioni che turbano e affliggono la vita; spem e timores si riferiscono al futuro, curam e iras al presente. L’anafora della preposizione inter, che regge l’accusativo, esprime il dibattersi dell’uomo assalito da ogni parte e senza tregua dalle passioni; timores inter = inter timores, per anastrofe. – omnem... supremum: costruisci crede omnem diem diluxisse tibi supremum, lett. «credi che ogni
Un giocoso autoritratto Epicuri de grege porcum: la conclusione scherzosa e autoironica dell’epistola è diventata famosa e quasi proverbiale. Ma un’analisi puntuale dei versi 15-16 permette di individuare una complessa rete di richiami e di allusioni: con una movenza tipicamente oraziana il pronome Me (v. 15) si contrappone circolarmente a te (v. 2); all’aura malinconica che pervade il ritratto di Tibullo fa riscontro un autoritratto giocosamente caricaturale modellato sul tipo dell’epicureo “volgare”
giorno sia spuntato per te [come] ultimo»; supremum è predicativo del soggetto dell’infinitiva oggettiva (omnem... diem... diluxisse) dipendente da crede. – grata... hora: costruisci hora quae non sperabitur superveniet grata. [15-16] Quando vorrai ridere, verrai a trovare me, grasso e lustro con la pelle ben curata, un porcello del gregge di Epicuro. Me... voles: costruisci cum ridere voles, vises me pinguem et nitidum bene curata cute. – pinguem: habitu corporis... brevis atque obesus («di piccola statura e ben pasciuto») lo dice Svetonio nella Vita Horatii, citando poi una lettera in cui Augusto lo prendeva amichevolmente in giro per il suo aspetto (tibi statura deest, corpusculum non deest, «ti manca la statura, non ti manca la pancia»). Peraltro il biografo ricorda che così Orazio si descriveva da sé nelle sue opere (cfr. ad es. Epistulae I, 20, 24 [ T24 ONLINE]). – bene curata cute: l’ablativo causale che spiega nitidum («lucido», «splendente»), evoca cura del corpo e pinguedine, due tratti tipici dello stereotipo denigratorio dell’epicureo. – vises: futuro di viso, ĕre (intensivo di video), «visitare»; è cortese formula d’invito. – Epicuri... porcum: nei versi finali la serietà profonda dell’ammonimento filosofico si stempera in uno scherzo affettuosamente autoironico che culmina nella chiusa arguta e inattesa, un vero e proprio aprosdóketon.
costruito dagli avversari, dotti e indotti. Particolarmente efficace l’ambiguità dell’espressione de grege: infatti grex, che designa un «gregge», una «mandria» di animali, è anche termine tecnico per indicare una «scuola», una «setta» filosofica. Quanto a porcum, mentre riprende ed esaspera con spiccato sense of humour l’immagine del poeta «grasso e lustro» (v. 15), non manca di alludere ancora una volta a un luogo comune nella rappresentazione popolare degli epicurei, ossia il paragone con gli animali, e specialmente con i porci.
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PERCORSO ANTOLOGICO
Analizzare il testo 1.
Suddividi il testo in sezioni o parti strutturali distinte, assegnando a ciascuna un titolo adeguato, con una breve didascalia esplicativa. 2. Di quali elementi si compone il ritratto del poeta malinconico? Rintraccia e analizza le precise espressioni latine usate da Orazio. 3. Si può definire il componimento un’epistola consolatoria? Spiega per quali motivi, mediante puntuali riferimenti al testo. A quali argomenti ricorre Orazio per porgere conforto all’amico? 4. Individua i vocaboli che appartengono al registro colloquiale del sermo cotidianus o familiaris,
commentandoli con riferimento allo stile oraziano dei Sermones (Satire ed Epistole). 5. Anche in questo componimento il poeta fa un uso mirato e intensamente espressivo dell’allitterazione. Individua e commenta i casi più significativi.
Confrontare i testi
6. Grata superveniet quae non sperabitur hora: in quali componimenti oraziani a te noti il poeta esprime, in altri termini, il medesimo concetto?
T 23 Funestus veternus: una malattia dell’anima Epistulae I, 8 LATINO ITALIANO
Nota metrica: esametri.
Orazio risponde a Celso Albinovano, amico e poeta che nell’inverno del 21-20 sta accompagnando il giovane Tiberio Nerone (futuro imperatore e successore di Augusto) durante una missione diplomatica in Oriente. La lettera segue lo schema consueto del galateo epistolare: i saluti iniziali all’amico, cui si augura successo e felicità (vv. 1-2); notizie dello scrivente (vv. 3-12); richiesta di informazioni sulla salute e le vicende del destinatario, con l’aggiunta di un precetto finale (vv. 13-17). Il tono è giocosamente solenne: il poeta affida il compito di salutare l’amico alla Musa, che resta mediatrice di ogni messaggio fino al termine dell’epistola. All’interno di questa cornice manierata e cortese, Orazio inserisce una confessione riguardante il proprio abituale stato d’animo, dominato dall’insoddisfazione e dall’irrequietezza, da una sorta di smania e insieme di torpore esistenziale, quel taedium vitae di cui l’epicureo Lucrezio aveva già denunciato le manifestazioni in versi di impressionante forza descrittiva (De rerum natura III, 1046-1070) e che può essere accostato allo spleen di Baudelaire e alla «noia» leopardiana [ Letture parallele, p. 252]. I due avverbi del v. 4 (recte; suaviter) definiscono i due obiettivi diversi, e quasi opposti, delle due maggiori scuole filosofiche del tempo, la rettitudine stoica e il piacere epicureo, considerati fonti di felicità e di benessere spirituale: ma Orazio è costretto ad ammettere il proprio scacco, l’inefficacia della saggezza filosofica nei confronti del suo insidioso malessere, sul quale non sembrano aver potere i fidi medici del v. 9 (sia che di veri medici si tratti, sia, metaforicamente, dei filosofi «medici dell’anima»). Anche per questo suona amaramente ironica la scherzosa esortazione alla misura che conclude l’epistola.
Celso gaudere et bene rem gerere Albinovano Musa rogata refer, comiti scribaeque Neronis. Si quaeret quid agam, dic multa et pulchra minantem vivere nec recte nec suaviter, haud quia grando Musa, ti prego di dire a Celso Albinovano, compagno e segretario di Nerone, di star bene e di passarsela bene. Se ti chiederà che cosa faccio, digli che promettevo di fare molte belle cose e invece non riesco a vivere né bene, né lietamente, non perché la grandine abbia
2. comiti scribaeque: i comites erano i componenti della cohors al seguito di Ti-
berio durante la sua spedizione in Oriente. Celso era scriba, cioè segretario personale
del futuro imperatore (figliastro di Augusto e figlio di Tiberio Claudio Nerone).
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L’ETÀ DI AUGUSTO
3. Orazio
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contuderit vitis oleamve momorderit aestus, nec quia longinquis armentum aegrotet in agris, sed quia mente minus validus quam corpore toto nil audire velim, nil discere, quod levet aegrum; fidis offendar medicis, irascar amicis, cur me funesto properent arcere veterno, quae nocuere sequar, fugiam quae profore credam,
PERCORSO ANTOLOGICO
colpito le mie viti e il caldo bruciati gli ulivi, né perché il mio armento giaccia ammalato in luoghi lontani; ma perché meno sano d’animo che di tutto il corpo, non voglio imparare nulla, non voglio ascoltare nulla che possa alleviarmi il male, mi disgustano i fidi medici, mi arrabbio con gli amici perché si danno tanta premura per liberarmi di questo letargo funesto, vado dietro a ciò che mi può nuocere e fuggo ciò che penso mi gioverebbe, e, volubile come il vento, sento la 10. veterno: veternus è aggettivo sostantivato (da vetus). Indica uno stato di torpore caratteristico della vecchiaia, ma anche una sorta di indolenza accidiosa che provoca la paralisi dei centri vitali e
una forma di depressione psico-fisica. Cfr. anche Epistole I, 11, 28, dove Orazio parla di strenua... inertia. 12. Tibur: dove Orazio possedeva una villa amatissima. Roma e Tivoli rappre-
sentano due diversi modelli di vita. Si osservi l’elegante costruzione chiastica del verso.
Letture PARALLELE Inquietudine esistenziale e taedium vitae In tutte e due le epistole oraziane che proponiamo (I, 4 e I, 8), è presente il tema dell’inquietudine esistenziale e del taedium vitae. Per un ulteriore approfondimento, si può leggere anche l’epistola I, 11 insieme ad altri passi contenuti in Satire II, 7 (22 sgg. e 111 sgg.) e Epistole I, 1, 97 sgg. Significativo il confronto con il brano
lucreziano già ricordato e con diversi luoghi delle opere filosofico-morali di Seneca (ad esempio De tranquillitate animi 2, 6-15; Epistulae ad Lucilium 2; 28; 69). Il tema godrà di ampia fortuna nella lirica moderna. Scrive Leopardi, in un passo dell’epistola poetica Al conte Carlo Pepoli (78-87):
Altri, quasi a fuggir volto la trista umana sorte, in cangiar terre e climi l’età spendendo, e mari e poggi errando, tutto l’orbe trascorre, ogni confine degli spazi che all’uom negl’infiniti campi del tutto la natura aperse, peregrinando aggiunge. Ahi ahi, s’asside su l’alte prue la negra cura, e sotto ogni clima, ogni ciel, si chiama indarno felicità, vive tristezza e regna. Spleen e Ideale si intitola la prima e fondamentale sezione dei Fiori del male (1857) di Charles Baudelaire, da leggere nella classica traduzione in versi di Luigi de Nardis
(Universale Economica Feltrinelli), oppure nella versione in prosa di Attilio Bertolucci (Grandi Libri Garzanti).
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PERCORSO ANTOLOGICO
17. Ut tu fortunam... feremus: il poeta ammonisce Celso (noto da altri luoghi per la sua presuntuosa vanità) a non insuperbire per il fatto di appartenere alla prestigiosa cohors di Tiberio.
15
Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam. Post haec, ut valeat, quo pacto rem gerat et se, ut placeat iuveni, percontare utque cohorti. Si dicet «recte», primum gaudere, subinde praeceptum auriculis hoc instillare memento: «Ut tu fortunam, sic nos te, Celse, feremus».
nostalgia di Tivoli, quando sono in Roma, e quella di Roma quando sono a Tivoli. Dopo ciò, domandagli come sta in salute, come attende ai suoi affari e a se stesso e se è entrato nelle grazie del giovane Tiberio e del suo séguito. Se quello dirà che tutto gli va bene, ricordati di congratularti con lui e poi di sussurrargli agli orecchi questo precetto: «Come tu saprai regolarti con la fortuna, così noi, o Celso, ci regoleremo con te». (trad. di A. Gustarelli)
CULTURA e SOCIETÀ Veternus, un antico male oscuro «Nella cultura romana arcaica, la depressione era una dea», così esordiva Maurizio Bettini in un bell’articolo ancora disponibile online (A volte mi sento così depresso, «la Repubblica», 21/06/1992). Era la dea Murcia, il cui nome è legato all’aggettivo murcidus, «estremamente pigro e inattivo», che gli antichi eruditi connettevano a marcidus, «marcio»; a compensarla, in quel diffuso pantheon animistico che era la religione romana arcaica, interveniva la dea Strenia, il cui nome richiama l’aggettivo strenuus, «animoso, intraprendente». Bettini concludeva che lo stato d’animo di Orazio fosse una fusione tra i due contrari, non una loro mediazione, ma la somma di due estremi: la strenua inertia, «accidia irrequieta» di cui il poeta parla nell’Epistola I, 11 all’amico Bullazio, stato d’animo contraddittorio che vanamente si cerca di sanare viaggiando, quasi si potesse fuggire da se stessi. Un’irrequietezza interiore che ingorgava le energie sfociando in un torpore letargico, una mescolanza di irrequietezza, disinteresse e senso di inadeguatezza; quel veternus che è collegato all’aggettivo vetus, «vecchio»: un precoce invecchiamento dell’animo, tra disagio e disgusto, che anticipa anche certi aspetti dell’«inettitudine» novecentesca. Un antico commentatore di Orazio scrive che il poeta era considerato melancholicus: come, nella celebre incisione Melencolia I di Albrecht Dürer, la figura allegorica guarda con indifferenza gli strumenti del sapere che la circondano, così Orazio dichiara «non voglio imparare nulla», tutto ciò che
T 24
Al suo libro
lo appassionava diventa insignificante. Melanconia, accidia, depressione: prevalenza della bile nera tra «umori» ippocratici del corpo secondo i medici dell’antica Grecia, insidia tentatrice dei momenti d’inerzia ispirata dal «demone del mezzogiorno» per i monaci medioevali, patologia psichiatrica che richiede un approccio terapeutico complesso nella modernità. Varianti e gradazioni di un unico male, il «male oscuro» che sembra minare la vita di tanti artisti e uomini eccellenti. Già la scuola di Aristotele si chiedeva: «perché tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti mostrano di essere dei malinconici?». Lo scrittore e saggista statunitense Andrew Solomon, lui stesso colpito da una grave forma di depressione, nel suo saggio Il demone del mezzogiorno (2001) ne dava una descrizione suggestiva, che richiama il senso di disfacimento e distruzione evocato dalla dea Murcia e dalla coppia murcidus/marcidus: «Se immaginiamo un’anima di ferro logorata dal dolore e corrosa dal disturbo depressivo minore, potremmo paragonare la depressione maggiore a un vero e proprio cedimento strutturale. […] Ci vuole tempo perché le strutture arrugginite di un edificio crollino, ma la ruggine polverizza giorno dopo giorno la materia, l’assottiglia, la snerva. Il cedimento, per quanto brusco, non è che il risultato cumulativo di un lento processo di degrado, malgrado resti un evento drammatico a sé stante. Passa molto tempo tra la prima pioggia e il momento in cui la ruggine inizia a corrodere una trave di ferro».
Epistulae I, 20
ONLINE
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LABORATORIO
Nell'officina di Orazio Rectius vives, Licini Carmina II 10
Rectius vives, Lı̆cini, neque altum semper urgendo neque, dum procellas cautus horrescis, nimium premendo 4 litus iniquum.
SINEDDOCHE PER DOMUS
Auream quisquis mediocritatem dilı̆git, tutus caret obsoleti sordibus tecti, caret invidenda 8 sobrius aula.
FIGURA ETIMOLOGICA 12 COSTRUTTO PARALLELO, ANTITESI E OMOTELEUTO
Saepius ventis agitatur ingens pinus et celsae graviore casu decı̆dunt turres feriuntque summos fulgura montis.
COSTRUTTO SIMMETRICO CON DISPOSIZIONE A CHIASMO DEI DUE AGGETTIVI RISPETTO AL VERBO
POSIZIONE ENFATICA IN CESURA O IN FINE DI VERSO DEGLI AGGETTIVI CHE INDICANO ALTEZZA
Sperat infestis, metuit secundis alteram sortem bene praeparatum pectus. Informis hiemes reduˉcit 16 Iuppiter, idem summŏvet. Non, si male nunc, et olim sic erit: quondam cithăra tacentem suscitat Musam neque semper arcum 20 tendit Apollo.
VARIATIO TRA IMPERATIVO E FUTURO
COSTRUZIONE A CHIASMO E OMOTELEUTO
Rebus angustis animosus atque fortis appare; sapienter idem contrăhes vento nimium secundo 24 turgida vela.
IPERBATO
ALLITTERAZIONE CHE INTENSIFICA LA METAFORA VITA-VIAGGIO
Vivrai meglio, Licinio, senza spingerti sempre verso l’alto mare, e senza rasentare troppo, mentre cauto temi le tempeste, la costa pericolosa. Chiunque segua l’aurea via di mezzo, si mantiene al sicuro lontano dallo squallore di una casa cadente, lontano nella sua moderazione da un palazzo che desti invidia. Molto spesso l’alto pino è scosso dai venti e le torri elevate crollano con più fragorosa rovina e le folgori colpiscono le cime dei monti. Un animo ben preparato spera nelle situazioni sfavorevoli, teme in quelle favorevoli la sorte contraria. Zeus riporta gli squallidi inverni, lui stesso li ricaccia. Se ora le cose vanno male, non sarà così anche un domani: talvolta con la sua cetra Apollo desta la Musa che tace, e non sempre tende l’arco. Nelle avversità mostrati coraggioso e forte; tu stesso saggiamente ammainerai le vele gonfie per il vento troppo favorevole. 254 © Casa Editrice G. Principato
I dati
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Il carme, tratto dal secondo libro delle Odi (II, 10), fu composto probabilmente intorno al 23 a.C.
Il metro È la strofe saffica minore, composta da tre endecasillabi saffici e un adonio. Un metro che Orazio dovette prediligere: lo impiega infatti nel Carmen Saeculare e con grande frequenza nei quattro libri delle Odi.
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Le fonti «Gioisci delle gioie e non affliggerti troppo dei mali: riconosci il ritmo che regola la vita degli uomini» (Archiloco, fr. 128 West) «Ogni persona saggia fugge l’eccesso al pari del difetto, e va sempre in cerca di ciò che sta nel mezzo» (Aristotele, Etica Nicomachea II, 6, 5) Cicerone osserva come gli aristotelici in omnibus fere rebus mediocritatem esse optimam existiment (Tusculanae disputationes IV, 20) [Mediocritas] quae est inter nimium et parum (Cicerone, De officiis I, 25, 89)
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Oltre il testo 9
Passi paralleli dell'autore Est modus in rebus, sunt certi denique fines, / quos ultra citraque nequit consistere rectum (Sermones I, 1, 106-107).
Dentro il testo 1
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Il componimento presenta, già al primo verso, un dedicatario, che in questo caso è Licinio Lucio Murena, un altolocato personaggio dell’epoca. È una scelta consueta del poeta? Per ottenere quali effetti? E quali sono i suoi dedicatari privilegiati? Nella prima e nell’ultima strofa ricorre la metafora della navigazione. Ricordi altri testi, antichi o moderni, in cui tale metafora venga riutilizzata?
Si può parlare, per questo carme, di una composizione ad anello (Ringkomposition)? L’intero componimento vive di immagini concrete, spesso tratte dal mondo della natura, che ravvivano concetti ben noti da tempo alla filosofia morale antica: fai qualche esempio testuale. Procellas (v. 2): si può interpretare anche come «tempeste politiche»? L’epoca in cui vive Orazio lo autorizza? Si può definire un ossimoro l’espressione aurea mediocritas? E può essere considerato un esempio di callida iunctura oraziana? Sapienter (v. 22): «da vero sapiente». Ma Orazio si sarebbe mai definito tale? Ricerca i passi, non solo dei Carmina, in cui Orazio parla del suo rapporto con la saggezza; in particolare leggi, nel secondo libro delle Satire, i brani II, 3, 305-326; II, 6, 1-19; II, 7, 95-115. Le frasi sono costruite secondo il gusto della simmetria e della correlazione. Ad esempio, nella prima strofe: neque altum / semper urgendo neque [...] / nimium premendo litus iniquum. Spesso tali simmetrie esaltano il movimento antitetico del pensiero, come al v. 13: Sperat infestis, metuit secundis.
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Il classicismo di Orazio significa innanzi tutto saper dialogare con i maestri, utilizzare immagini e concetti già presenti nella letteratura del passato, eppure rinnovarli, rigenerarli. Quali altri poeti, in Roma, avevano già avviato questo percorso? Il latino e il greco fanno uso dei seguenti termini per parlare del «giusto mezzo»: l’aggettivo medius e i sostantivi modus, mediocritas, mesótes, metriótes. E in italiano? Qual è il significato attuale dei termini “mediocre”, “mediocrità”? La cetra e l’arco sono due degli attributi più noti di Apollo: ricerca alcuni episodi della letteratura antica in cui Apollo è protagonista come dio dell’arco o come dio della luce, delle arti e della musica. Comincia dall’episodio iniziale narrato nell’Iliade di Omero. Traduci, facendo uso del vocabolario, le seguenti coppie oppositive: aequuum / iniquuum; sobrius / ebrius; informitas / forma; contrăho / distrăho.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
MAPPA QUINTO ORAZIO FLACCO
65-8 a.C.
Epodi (42-30 a.C.)
• metri giambici • modelli: Archiloco e Callimaco • varietà tematica e stilistica: invettive,
Satire (42-30 a.C.)
• • • •
erotiche, simposiache
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• • • Odi libri I-III (30-23 a.C.) libro IV (dopo il 17 a.C.)
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Epistole libro I (dopo il 23 a.C.) libro II (19-13 a.C.)
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poesie civili,
esametri modello: Lucilio satire narrative e discorsive tono medio, talvolta ironico e autoironico, assenza di attacchi ad personam (presenti in Lucilio) ricerca dell’autarkeia e della metriotes come mezzi per raggiungere la saggezza
metri vari, in prevalenza metri lirici greci modelli: Alceo e Saffo, ma anche Pindaro varietà tematica: poesie religiose, d’amore, filosofiche, simposiache, civili tema dello scorrere del tempo e della fugacità della vita tema del valore della propria poesia poeta come vates e immortalità della poesia elogio della vita appartata e ricerca di un angulus, di un luogo ideale tema del convito come momento di condivisione filosofica e amicizia celebrazione della grandezza di Roma nelle «odi romane» stile estremamente curato (labor limae), callida iunctura
esametri forma epistolare in versi ricerca della saggezza, riflessione filosofica (I libro in particolare) elogio della campagna come luogo ideale temi di critica letteraria (II libro in particolare) Ars poetica: trattato sulla poesia
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Vero / Falso
1 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). a. La fonte più autorevole della biografia di Orazio è la Vita di Svetonio b. Orazio nacque nel 65 a.C. a Verona c. Il poeta si recò ad Atene nel 45-44 a completare i suoi studi d. In Grecia Orazio si arruolò nell’esercito dei cesaricidi e. Dopo Filippi poté ritornare a Roma grazie a un’amnistia f. In seguito alla confisca dei suoi beni Orazio si impiegò come coactor g. Vario e Virgilio presentarono Orazio a Mecenate h. Intorno al 33 a.C. Mecenate donò a Orazio la villa sabina i. Nel 17 a.C. il poeta compose il Carmen Saeculare j. Orazio morì nell’8 a.C., due mesi prima di Mecenate
V|F V|F
p._____/5 V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F
p._____/10
Quesiti a scelta multipla
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5. L’Epistula ad Pisones, meglio nota come Ars poetica, è ■ un trattato in esametri sulla poesia ■ un’epistola in distici elegiaci che illustra la poetica oraziana ■ un trattato in metri vari sulla poesia ■ un trattato in esametri sul tema del teatro latino
Indica il completamento corretto.
1. I modelli greci di Orazio negli Epodi sono ■ Archiloco ed Alceo ■ Archiloco e Callimaco ■ Alceo e Pindaro ■ Ipponatte e i poeti alessandrini 2. Il I libro delle Satire fu pubblicato nel ■ 30 a.C. ■ 33 a.C. ■ 35 a.C. ■ 31 a.C. 3. Le “odi romane” sono ■ le prime sei odi del III libro, di argomento civile e celebrativo ■ un corpus di sei odi di argomento politico, pubblicate in appendice ■ le ultime sei odi del IV libro, di argomento civile e celebrativo ■ un ciclo di odi del II libro, dedicate a Ottaviano Augusto 4. Nel IV libro delle Odi si accentua l’interesse per ■ il tema amoroso ■ la ricerca della saggezza ■ i temi civili e nazionali ■ il tema della temporalità
Vero / Falso
3 Indica se ciascuna delle seguenti affermazioni è vera (V) o falsa (F). Nelle Odi...
a. Orazio si dissocia dalla figura del poeta vates b. è dominante la tematica erotica c. ricorre spesso il motivo del ritiro in un angulus appartato d. sono presenti inni alle divinità e. il poeta si ispira soprattutto alla lirica di Saffo f. si delinea un’architettura ricca di simmetrie e rispondenze g. è centrale il motivo della fuga del tempo h. le liriche sono suddivise in due libri i. il poeta si mantiene fedele al precetto del labor limae j. c’è affinità di toni e di stile con le Satire
V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F V|F
p._____/10 Totale p._____/25
Quesiti a risposta singola
4 Svolgi in breve i seguenti argomenti (max 5/ 10 righe per ciascuno). 1. I concetti-cardine nella ricerca oraziana della saggezza. 2. L’amore nelle liriche di Orazio. 3. La callida iunctura oraziana. Trattazione sintetica
5 Sviluppa le tracce proposte (max 15/20 righe per ciascuna). 1. La figura del poeta nelle Satire. 2. Le Odi e i rapporti con i modelli. 3. Linguaggio e scelte stilistico-espressive nelle opere di Orazio. 257
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Orazio
Verifica finale
4 L’elegia latina 1 L’elegia erotica latina In origine l’elegia, che compare nella letteratura greca verso la metà del VII secolo a.C., non era caratterizzata dai contenuti e dagli argomenti, che potevano essere i più vari, ma dal metro: il distico elegiaco (élegos in greco), formato da un esametro e da un pentametro [ Nomi e parole degli antichi, p. 261]. L’elegia latina Di contro alla varietà tematica della più antica elegia greca, in Roma la poesia elegiaca fu invece soprattutto poesia d’amore. Centrata su un’esperienza autobiografica e soggettiva, essa si distingue nettamente anche dall’elegia ellenistica, proiettata in una dimensione mitica e oggettiva [ Il genere letterario, L’elegia nella letteratura greca, p. 260]. L’elegia in quanto carme soggettivo d’amore appare dunque una creazione propriamente romana, un genere dotato di una sua spiccata originalità e specificità. Al di là delle notevoli differenze esistenti tra i vari autori, nonché tra i singoli testi, l’elegia latina può essere definita una narrazione-evocazione piuttosto estesa di vicende amorose personali, o almeno che il poeta elegiaco presenta come tali; ma a questo elemento autobiografico si intreccia una fitta trama di raffinati riferimenti mitologici e letterari, che talora si dilatano in veri e propri quadri narrativi di mitiche vicende d’amore. Tali inserzioni non hanno tuttavia valore autonomo: attraverso il mito, il poeta intende illuminare il significato della propria storia 258 © Casa Editrice G. Principato
Un giudizio del retore Quintiliano Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium malint. Ovidius utroque lascivior, sicut durior Gallus. Anche nell’elegia possiamo competere da pari a pari con i Greci: il poeta più puro ed aggraziato del genere a me pare Tibullo; ma c’è chi preferisce Properzio. Dell’uno e dell’altro più manierato è Ovidio, così come Gallo è più severo. (Quintiliano, Institutio Oratoria X, 1, 93)
flebilis elegia
servitium amoris
recusatio
foedus
eros rus paupertas áition Romanus Callimachus
nequitia amentia discidium Latium vetus
militia amoris
privata, nobilitandola e sublimandola. Forte appare la tendenza all’introspezione, all’analisi psicologica, alla fantasticheria; spesso si avverte (pensiamo soprattutto a Tibullo, a Properzio; per Ovidio il discorso si fa, come vedremo, sensibilmente diverso) una nota di lamento, velata di malinconica dolcezza, quella tonalità appunto che ancor oggi chiamiamo «elegiaca». L’elegia latina nasce dalla combinazione di vari generi Un lungo e complesso dibattito critico si è sviluppato fin dal XIX secolo sulla questione delle origini e delle fonti dell’elegia latina, che presenta, come si è accennato, caratteri propri e originali rispetto alle esperienze affini della letteratura greca. In sintesi, sembra oggi corretto ipotizzare che l’elegia erotica romana nasca dalla combinazione di generi poetici diversi (epigramma ed elegia ellenistica in particolare) e dal vario influsso di molteplici altre forme letterarie (dalla commedia nuova all’epillio), secondo un principio, quello della varietas e della sovrapposizione dei generi, che era stato uno dei fondamenti delle poetiche ellenistiche, coerentemente attuato in Roma dalla cerchia neoterica. L’influenza decisiva del neoterismo Dai neoteroi, i poeti elegiaci derivano non solo l’ideale di una poesia dotta e raffinata, caratterizzata da un uso sapiente della tecnica allusiva di origine callimachea, ma anche l’aspirazione all’otium, il coinvolgimento totale nell’esperienza amorosa e poetica, considerata l’unica degna di 259 © Casa Editrice G. Principato
L’ETÀ DI AUGUSTO
4. L’elegia latina
PROFILO STORICO
essere vissuta fino in fondo. Il carme 68 di Catullo è la prima elegia in lingua latina che ci sia pervenuta, un testo di straordinaria complessità tematica e strutturale, nel quale «una situazione personale-affettiva (l’amore, l’amicizia, il lutto) era legata nell’organismo di un componimento complesso con la rievocazione di un mito d’amore tragico e appassionato» (Labate). Altre elegie scrissero sicuramente Licinio Calvo e Varrone Atacino, come testimonia il catalogo dei poeti d’amore elaborato in età augustea da Ovidio [ Il canone dei poeti elegiaci ONLINE]. Ma le elegie di questi autori erano testi in certo modo occasionali, accostati, come abbiamo visto nel Liber catulliano, ad altre forme metriche. I poeti elegiaci latini È solo con Cornelio Gallo, negli stessi anni delle Eclogae virgiliane, che nasce un libro di elegie erotiche dotato di una propria autonomia sia sul piano formale che tematico. Dell’opera di Cornelio Gallo tutto è andato perduto; resta invece quella di Tibullo, Properzio e Ovidio, tre poeti dotati di una forte personalità e di un’ispirazione sempre originale. Dopo di loro l’elegia erotica romana si spegne quasi naturalmente. Se guardiamo alle date di pubblicazione delle opere elegiache latine, ci rendiamo conto che questo genere percorre una parabola folgorante e rapidissima: gli Amores di Cornelio Gallo vengono alla luce intorno al 40 a.C.; tra il 29 e il 26 escono i primi libri di Tibullo e di Properzio (che muoiono nel decennio successivo); poco dopo il 20 a.C. esordisce Ovidio, che si spegne nel lontano Ponto nel 17 d.C. L’elegia d’amore è dunque una creazione esclusiva dell’età augustea. Un’esperienza soggettiva rigorosamente formalizzata Il poeta elegiaco romano parla in prima persona di sé e della propria travagliata esperienza d’amore con accenti che tendono a suscitare nel lettore una viva impressione di verità autobiografica. Sarebbe tuttavia un errore interpretare in chiave romantica questa poesia come diretta trascrizione di episodi realmente vissuti, riflesso immediato di una realtà psicologica e sentimentale. Il poeta-amante che dice «io» non fa della confessione privata, ma crea una persona poetica attraverso la quale “riscrive”
Il genere LETTERARIO L’elegia nella letteratura greca ▰ L’elegia greca in età arcaica I primi poeti
elegiaci si confrontano con una grande varietà di temi: Callino e Tirteo (vissuti nel VII secolo) incitano all’ardore guerresco e patriottico; Mimnermo (fine del VII secolo) canta la giovinezza, l’amore, la bellezza dei corpi, la brevità della vita, il destino umano; Solone (VII-VI secolo) affronta una tematica di carattere etico-politico; Teognide (seconda metà del VI secolo) canta l’amore efebico e i valori della tradizione aristocratica (giustizia, saggezza, lealtà assoluta nell’amicizia, odio intransigente verso i nemici).
▰ L’elegia greca in età ellenistica Dopo una
lunga fase di eclisse, parallela al fiorire dei grandi generi drammatici, l’elegia risorge in età ellenistica,
trasformandosi radicalmente: gli argomenti sono attinti al mito; il tono è narrativo; il tema prevalente è quello amoroso, sviluppato con una forte accentuazione patetica; lo stile è ricercato ed elegante. Diversi poeti dedicano le proprie opere alla donna amata: Filita di Cos (vissuto fra il IV e il III secolo) a Bìttide; Ermesianatte di Colofone (III secolo) a Leonzio. Ma non è dato sapere dai frammenti superstiti quanta parte avesse in questa poesia l’elemento autobiografico e soggettivo, probabilmente limitato alla dedica e al titolo del libro. Anche nei celebri Aitia («Cause», «Origini») di Callimaco, l’unica raccolta elegiaca alessandrina di cui restino parti considerevoli, le storie d’amore narrate con distaccata obiettività e con squisita ricercatezza dal poeta riguardano sempre figure del mito e delle leggende greche.
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PROFILO STORICO
la propria storia individuale, modellandola entro forme rigorosamente codificate, proprie del genere e del sistema letterario, cui si riferisce di continuo mediante una fittissima rete di allusioni. Sia pure con varianti e innovazioni significative, nei canzonieri elegiaci si disegna infatti una sorta di percorso “obbligato” (il che non significa lineare, né coerente) della vicenda amorosa, sostanzialmente esemplato sul Liber catulliano, che ripropone motivi e situazioni topiche della tradizione letteraria [ T3; T6; T8; T12). Una «finzione autobiografica» Il tratto distintivo più originale dell’elegia erotica latina è dunque la costruzione intenzionale di una «finzione autobiografica», che certo non esclude un sostrato di esperienze realmente vissute, ma le sottopone a un procedimento di trasfigurazione letteraria che rende pressoché vano, o meglio irrilevante, interrogarsi sull’effettiva consistenza dell’elemento biografico nei testi di poesia elegiaca. L’universo elegiaco: otium e militia amoris Eredi di Catullo, i poeti elegiaci cercano nell’eros (anche se l’accostamento può apparire a prima vista paradossale) quello che negli stessi anni Virgilio e Orazio (e prima di loro Lucrezio) cercavano nella filosofia: lo spazio separato dell’otium individuale, libero dai condizionamenti della vita pubblica, ove realizzare un ideale di autárkeia [ T1 Leggere un testo critico, p. 285]. La scelta elegiaca rappresenta infatti una variazione sul motivo dell’áristos bíos, in greco «la vita migliore» [ T1; T6]; ma l’ideale di vita che si delinea nelle elegie erotiche latine, fondamentalmente trasgressivo e anticonformista, ripropone la dissociazione catulliana e neoterica dal mos maiorum (e dunque, nell’età del principato, dall’ideologia ufficiale). Come in una sorta di mondo alla rovescia, all’impegno politico del civis, consacrato al servizio della res publica, si contrappone il servitium amoris, la sottomissione totale ed esclusiva del poeta innamorato nei confronti della donna amata (la puella-domina); alla tradizionale milizia guerresca si sostituisce provocatoriamente la militia amoris; alla costruzione di una famiglia
NOMI e PAROLE degli ANTICHI ETIMOLOGIE DI ELEGOS, ELEGIA Secondo gli antichi: «canto di lamento» L’etimologia di élegos, il
vocabolo greco che indica il metro caratteristico dell’elegia, ovvero il distico elegiaco, è stata variamente spiegata fin dall’antichità. Una delle congetture più fortunate, avanzata da autorevoli grammatici antichi, attribuiva al vocabolo il significato originario di «canto di lamento», facendo derivare l’elegia dalla lamentazione funebre. La tesi, oggi generalmente rifiutata, trovò sostegno in un passo dell’Ars poetica oraziana (vv. 75-
76): Versibus impariter iunctis querimonia primum,/ post etiam inclusa est voti sententia compos («In versi di ineguale misura, insieme aggiogati [= il distico], fu prima racchiuso il compianto; poi, il ringraziamento per il voto esaudito»). Anche Ovidio mostra di condividere la suggestiva associazione di questa forma poetica al pianto: per la morte di Tibullo invita la flebilis Elegia a sciogliere i capelli in segno di lutto (Amores III, 9, 3); e a Saffo fa dire, nelle Heroides (15, 7): flendus amor meus est: elegi quoque
flebile carmen («devo piangere il mio amore: e l’elegia è un canto di lacrime»).
Secondo gli studi più recenti: «canto accompagnato dal flauto» Secondo
la tesi oggi prevalente, il termine andrebbe invece collegato con il vocabolo armeno elegn, che significa «canna», «flauto». I testi elegiaci venivano infatti eseguiti con l’accompagnamento del flauto. Diversamente dalle forme della lirica monodica (recitate sulle note della lira), l’elegia richiedeva di conseguenza due interpreti: il recitante e il musico.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
4. L’elegia latina
legittima una libera relazione, sancita dal foedus amoris. Interessante osservare come i termini-chiave che definiscono l’ideale elegiaco si presentino quasi invariabilmente in forma negativa: inertia, infamia, amentia, nequitia. PROFILO STORICO
Poesia e scelta di vita Nequitia è il termine che designa il carattere irregolare e disordinato di questa vita dedita esclusivamente all’eros. Ma tale scelta di vita implica, inscindibilmente, la scelta, altrettanto esclusiva, della poesia tenuis, di contro alle forme poetiche “ufficiali” e celebrative, sopra tutte l’epos, non a caso oggetto di reiterate recusationes. Il poeta-amante è consapevole del carattere devastante e irrazionale della passione amorosa, che si identifica, come già in Lucrezio e in Virgilio, con uno stato morboso di furor e di amentia (cioè di follia). In varie occasioni, peraltro, è pronto a rivendicare polemicamente il carattere positivo della sua scelta esistenziale, estranea alle arti della guerra e immune dall’avaritia, votata alla pax e alla securitas. Tensione ideale e conflittualità È un fatto che il poeta elegiaco romano, come già Catullo, tenta una rifondazione (paradossale e non priva di oscillazioni, né di ambiguità) dei valori etici tradizionali “ritrascrivendoli” all’interno del codice elegiaco, dove appaiono ancorati a un patto d’amore volontario e privato (il foedus amoris), che tuttavia si rivela continuamente insidiato dal senso della precarietà, dal tradimento (la perfidia e i periuria dell’amata, dura, incostante e capricciosa), dall’infelicità in agguato. Per questo la poesia elegiaca è attraversata da una tensione impossibile verso una totale, mai raggiunta pienezza di appagamento, che si traduce nel costante riferimento a piani ideali (il Lazio rurale e favoloso in Tibullo, il mito avventuroso in Properzio e in Ovidio). Come nel Liber catulliano, la legge compositiva e psicologica dei libri elegiaci latini è quella del contrasto e della conflittualità, della tensione ideale costantemente interrotta e “degradata” dalla concreta realtà della passione.
Guida allo studio
1.
Indica le differenze fondamentali tra l’elegia greca e quella latina. Spiega in particolare l’espressione «elegia soggettiva». 2. Definisci il canone dei poeti elegiaci. 3. Quale influenza ha esercitato il neoterismo, e in particolare la poesia di Catullo, sull’elegia romana? 4. Spiega i seguenti termini ed espressioni del codice elegiaco: a) servitium amoris, militia amoris; b) fides, foedus, perfidia; c) amentia, nequitia.
Pan insegna al pastorello Dafni a suonare la siringa, copia romana da un originale greco di Eliodoro, III-II secolo a.C. Collezione Farnese, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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PROFILO STORICO
2 L’elegia perduta di Cornelio Gallo Una biografia segnata dall’esperienza politica Nato nel 69 a.C. a Forum Iulii (oggi Fréjus), nella Gallia Narbonese, Cornelio Gallo studia a Roma insieme al coetaneo Virgilio, con cui stringe una profonda amicizia e che introduce nella vita politica e letteraria della città. Durante la guerra civile combatte dalla parte di Ottaviano, dapprima con Asinio Pollione in Gallia Cisalpina, poi, nel 30, sbaragliando gli ultimi partigiani di Antonio in Oriente. Ottaviano lo nomina praefectus Aegypti, ma i suoi atteggiamenti più da sovrano che da governatore suscitano sospetti: dopo la condanna all’esilio e alla confisca dei beni, a Gallo non restò che il suicidio (26 a.C.). Damnatio memoriae Alla morte seguì la damnatio memoriae: per questo, secondo il grammatico Servio (IV-V sec. d.C.), Virgilio fu costretto a sostituire le lodi dell’amico Gallo con la favola di Aristeo nel finale delle Georgiche [ cap. 2.3]. Dell’opera di Gallo restò un solo verso, cui va aggiunto il frammento rinvenuto su un papiro nel 1978, contenente una decina di versi in condizioni non buone e di discussa autenticità. Tuttavia la condanna di Augusto non impedì a Properzio e a Ovidio di ricordarlo con commozione ed entusiasmo anche dopo la morte. Gli Amores e i loro modelli A Cornelio Gallo vengono attribuiti quattro libri di Amores, composti fra il 45 e il 40 per la bellissima Licoride, nome cifrato (come Lesbia in Catullo) sotto il quale si nascondeva la liberta Volumnia, già amante di Bruto e di Marco Antonio e divenuta una celebre mima con il nome d’arte di Citeride. I modelli di Cornelio Gallo, nel solco della poesia neoterica e alessandrina, sono Euforione di Calcide e Partenio di Nicea, al quale Gallo fu legato da un rapporto di amicizia. Euforione, poeta astruso e difficile, ispirò a Cicerone l’epiteto di cantores Euphorionis, che affibbiò ai neoteroi pensando forse soprattutto a Gallo. Partenio dedicò all’amico gli Erotikà pathémata («Sofferenze d’amore»), un repertorio di storie amorose passionali e tragiche di cui Gallo avrebbe dovuto servirsi nelle sue poesie. Un’esperienza poetica determinante per la poesia latina Dalle testimonianze virgiliane (Ecl. VI, 64-73 e X) si è voluto ricavare che Gallo avesse scritto anche carmina docta affini a quelli di Catullo e poesie pastorali di stampo teocriteo. Di formazione neoterica e alessandrina, compagno di lettere di Virgilio e protetto dai potenti Asinio Pollione e Augusto, certamente Gallo attraversa nella sua breve vita le maggiori esperienze letterarie e civili della sua epoca, costituendo un ponte tra l’esperienza dei neoteroi e quella degli elegiaci.
Guida allo studio
1.
Ricorda gli eventi più significativi della vicenda biografica di Cornelio Gallo. 2. Che cosa rimane dell’opera di Gallo? Qual era la consistenza del corpus originario?
3. Modelli e funzione storico-culturale dell’elegia di Cornelio Gallo.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
4. L’elegia latina
3 Tibullo e il Corpus Tibullianum Vita di Tibullo PROFILO STORICO
Le fonti Pochissimo sappiamo della vita di Tibullo. Le scarse notizie in nostro possesso sono per lo più ricavate dalle sue stesse opere; le fonti contemporanee si limitano ad accenni di Orazio (Epistole I, 4; Odi I, 33) e di Ovidio (Amores III, 9). In alcuni manoscritti il corpus delle opere è preceduto da un’anonima Vita Tibulli che potrebbe anche risalire al De poetis di Svetonio, e nella quale è contenuto un epigramma funebre di Domizio Marso. Le notizie Albio Tibullo nasce con tutta probabilità fra il 55 e il 50 a.C. in una piccola località del Lazio rurale e arcaico, secondo alcuni a Pedum (dove lo ritrae Orazio nell’epistola I, 4 [ T22, cap. 3]), secondo altri a Gabii, lungo la via Prenestina. Verso la fine degli anni Quaranta la famiglia, che appartiene all’ordine equestre, subisce una confisca di terre a favore dei veterani. Tibullo parlerà infatti, nella sua prima elegia (I, 1, 19 [ T1]), della propria paupertas (che non va confusa con egestas o inopia, ma indica uno stato medio di benessere). Fece parte del circolo di Messalla Corvino [ cap. 1.5], che seguì durante la spedizione in Aquitania del 30, e, un anno dopo, in Siria, dove Messalla era stato nominato proconsole: ma in questa occasione il poeta si ammalò, fu costretto a fermarsi a Corfù e a ritornare indietro, a Roma [ T2]. Qui probabilmente muore intorno al 19 a.C., poco dopo Virgilio, come ricaviamo da un epigramma di Domizio Marso: «Anche te, o Tibullo, compagno di Virgilio, un’ingiusta/ morte mandò giovane agli Elisi,/ affinché non vi fosse più alcuno che cantasse con l’elegia i teneri amori,/ o le guerre dei re con eroico verso».
Il Corpus Tibullianum Sotto il nome di Tibullo ci è pervenuta una raccolta in tre libri, il cosiddetto Corpus Tibullianum, 35 liriche in distici elegiaci più un componimento in esametri (il Panegirico di Messalla). Solo i primi due libri, in realtà, appartengono con sicurezza a Tibullo; il terzo è invece una miscellanea di componimenti attribuibili a poeti del circolo di Messalla Corvino: fra di essi Sulpicia, l’unica donna di cui siano pervenute poesie in lingua latina.
Una matrona romana si acconcia assistita dalle ancelle, mosaico, Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.
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PROFILO STORICO
Il primo libro comprende dieci elegie. Cinque (le elegie 1 [ T1], 2, 3 [ T2 [ T3], 6) sono dedicate a Delia. Il vero nome della donna era in realtà Plania, di cui Delia è non solo l’equivalente metrico ma anche un calco dal greco delos (= «chiaro», come il corrispondente latino planus). Ma Delius e Delia sono anche i tradizionali epiteti di Apollo e Diana, i gemelli divini nati nell’isola di Delo. I temi sono quelli comuni ai canzonieri elegiaci latini: passioni, tradimenti, suppliche, invettive, il tutto disposto in modo da creare un tessuto narrativo. Il tema amoroso continua nelle tre liriche per il fanciullo Màrato (4, 8, 9). L’elegia settima è dedicata a Messalla, per il suo compleanno; la decima e ultima [ T4 ONLINE] è una celebrazione della pace. Il libro fu composto approssimativamente fra il 31 e il 25 a.C.
Il libro I
ONLINE], 5
Il libro II Il secondo libro, in tutto sei elegie, rimase forse interrotto per la prematura morte dell’autore. Tre (3, 4, 6) sono dedicate a Nèmesi, un’avida cortigiana. Anche Nemesi è uno pseudonimo, e significa «vendetta»: con lei Tibullo aveva evidentemente inteso vendicarsi delle infedeltà di Delia. In realtà la ragazza appare ben più venale e capricciosamente infedele della precedente. Il poeta la definisce formosa, saeva, dura e le augura che il vento e il fuoco le rapiscano i beni accumulati grazie ai donativi dei suoi ricchi amanti. Ma alla fine deve arrendersi alla tirannia d’amore: «purché la mia Nemesi mi guardi con volto benigno» (II, 4, 59), il poeta si dice pronto a bere le più infami pozioni d’amore. Il tono si fa più cupo; i versi più crudi e realistici rispetto a quelli per Delia. Delle altre tre elegie, la prima è di argomento agreste; la seconda celebra il compleanno dell’amico Cerinto [ T5]; la quinta è dedicata a Messalino, figlio di Messalla, ed è l’unica di carattere civile e patriottico. La data di composizione si restringe agli anni dal 24 alla morte.
Il libro III del Corpus Tibullianum ▰ Il corpus comprende 20 componimenti Il terzo libro, che comprende venti liriche, si sdoppiò in epoca medievale: le liriche 1-6 andarono a costituire il terzo, le liriche 7-20 il quarto libro del corpus.
▰ Ligdamo L’autore delle prime sei è un certo
Lygdamus, nome servile sotto il quale potrebbe celarsi un noto personaggio dell’epoca. Molte le ipotesi indicate, nessuna risolutiva: forse lo stesso Tibullo, oppure Ovidio giovane, o un fratello di Ovidio; secondo altri uno schiavo di Properzio, se non lo stesso Valerio Messalino figlio di Messalla. Le sei elegie svolgono tutte il tema dell’amore per una donna di nome Neera, secondo i moduli convenzionali del genere.
▰ Panegyricus Messallae Il settimo componimento
è il Panegyricus Messallae, un testo di 212 esametri nel quale è celebrata, con epica pesantezza, la spedizione in Aquitania di Messalla Corvino.
▰ Sulpicia Le liriche 8-18 costituiscono un nuovo
gruppo: cantano l’amore della giovane Sulpicia, figlia del giurista Servio Sulpicio Rufo e di una sorella di Messalla, per un giovane chiamato Cerinthus (ma potrebbe trattarsi ancora di uno pseudonimo).
In particolare le liriche 13-18 sono degli elegidia («minuscole elegie»): quaranta versi in tutto nei quali Sulpicia parla in prima persona del suo amore. Accettando tale attribuzione, ci troveremmo di fronte agli unici versi scritti da una donna che ci siano pervenuti dal mondo latino. Delizioso il bigliettino d’amore (carme 15) con il quale la ragazza annuncia di aver scongiurato il viaggio, che li avrebbe divisi proprio nel giorno del compleanno di Cerinto: Scis iter ex animo sublatum triste puellae? Natali Romae iam licet esse tuo. Omnibus ille dies nobis natalis agatur, qui nec opinanti nunc tibi forte venit. Sai che il timore del viaggio se n’è andato dall’animo della tua ragazza? Potrà essere a Roma, per il tuo compleanno. Festeggiamolo insieme questo anniversario, che forse ti è giunto quando più non te l’aspettavi.
▰ Due componimenti attribuiti a Tibullo Le
ultime due liriche (una breve elegia e un epigramma di soli due distici per una puella innominata) vengono attribuite allo stesso Tibullo.
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L’ETÀ DI AUGUSTO
4. L’elegia latina
La poesia «classica» di Tibullo
PROFILO STORICO
L’amore L’esigua produzione di Tibullo (in tutto sedici elegie) è centrata sul tema dell’amore, che il poeta sviluppa secondo i moduli propri dell’eros elegiaco romano. Il desiderio di un amore fedele viene proiettato in fantasticherie dolcemente consolatorie: Delia che fila la lana al lume di una lucerna (I, 3, 83-92 [ T2]); Delia trasformata in massaia rurale, che si occupa di biade e di vendemmie, conta le greggi e prepara un semplice banchetto per l’ospite Messalla (I, 5, 21-34 [ T3]); Delia che piange la morte del poeta, disteso sul rogo funebre (I, 1, 59-68 [ T1]). Le visioni di morte, frequenti nella poesia di Tibullo, danno luogo in I, 3 [ T2] anche a una limpidissima rappresentazione dei Campi Elisi trasformati in un verdeggiante prato d’amore, dove è Venere stessa a condurre per mano il poeta (vv. 57-66); in attesa, si immagina, che anche Delia possa raggiungerlo al più presto. Ma accanto ai quadri di un amore sognante e fedele, si accampano le rappresentazioni, più realistiche benché sempre distanziate e trasfigurate, dell’amore tradito e umiliato. La quinta elegia del I libro [ T3] è in questo senso esemplare: vi compaiono ricchi amanti, mezzane, sfacciati antagonisti a caccia della solita Delia, che ha rinunciato al poeta, ricco solo di parole, per una vita più comoda e lussuosa. Il tormento per l’infedeltà di Delia e le umiliazioni del servitium amoroso non sono tuttavia sufficienti a distogliere il poeta, che non sa resistere al discidium («la separazione»), dal suo destino di innamorato. Le donne dell’elegia romana sono sempre, per convenzione, libertine e adultere, destinate a svolgere l’instabile ruolo di amanti, non di spose fedeli. L’aspirazione insoddisfatta a una serena vita coniugale emerge nell’elegia II, 2 [ T5]: rivolgendosi a un amico nel giorno del suo compleanno, il poeta gli augura un matrimonio felice, allietato da una turba di bambini. Il tema rientrava pienamente nella prospettiva «romana» e arcaizzante di un ritorno alla famiglia e ai valori della tradizione promosso da Augusto. Rus e paupertas La poesia erotica latina è prevalentemente ambientata in uno scenario cittadino e urbano, fatto di incontri e di pettegolezzi, di rivalità e di chiac-
Frammento di affresco con Amorini profumieri e Psiche, Pompei, I secolo d.C. Malibu, Villa Getty.
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PROFILO STORICO
chiere salottiere: così era stato in Catullo; così continuerà ad essere con Properzio e Ovidio. Tutta diversa è invece la prospettiva di Tibullo, che sposa il motivo erotico a quello bucolico, Catullo a Virgilio. La prima elegia del I libro [ T1] ha un chiaro valore proemiale. Tibullo vuole esprimere qui la sua scelta di vita, e lo fa dividendo la poesia in due parti: nella prima viene lodata la vita rustica; nella seconda l’amore per Delia, che il poeta si augura un giorno di poter condurre a vivere in campagna. Eros e rus sono per Tibullo due valori indivisibili. Solo in campagna, ripete continuamente il poeta, è possibile compiere un’autentica scelta di vita sotto il segno dell’autàrkeia e della paupertas: la vita rustica è un rifugio dalle vicende tumultuose del mondo. Il vetus Latium Sempre entro questo programma di vita, disegnato sui due valori centrali dell’eros e della campagna, vanno collocate le elegie e i versi nei quali Tibullo rievoca gli antichi riti agresti, i valori dell’umile paganesimo rustico che la grande Roma contemporanea sembrava rievocare, proprio in questi anni, con particolare intensità. Nella terza elegia del I libro [ T2] vediamo Delia compiere riti orientali in onore della dea Iside (vv. 23-32), secondo una moda che la recente conquista dell’Egitto e i favolosi racconti degli amori di Cleopatra con Cesare e con Antonio dovevano aver ampiamente diffuso. Ma Tibullo oppone a queste preghiere gli antichi culti patrii dei Penati e dei Lari (vv. 33-34), introducendo improvvisamente una deliziosa digressione sull’età dell’oro nel Lazio antico (vv. 35-46), contrapposta alla durezza e alla crudeltà della vita contemporanea (vv. 47-50). Anche la poesia dedicata al compleanno di un amico (II, 2 [ T5]) si apre sul ricordo degli antichi rituali riservati al Genius Natalis. La securitas La cultura di Tibullo appare quella di un poeta che si concentra interamente sulla propria esperienza di vita e di poesia, escludendo ogni altra realtà. Inutilmente cercheremmo, nelle sue elegie, riferimenti alla filosofia o polemiche di natura letteraria: Tibullo sembra vivere in un orizzonte chiuso e protetto, lontano
Le parole di Tibullo ▰ Eros: il motivo dell’amore, centrale in Tibullo,
è declinato nelle forme convenzionali dell’elegia erotica latina (foedus, servitium amoris, discidium) ma acquista una tonalità più sognante e malinconica, ed è strettamente associato al motivo bucolico.
▰ Paupertas: il vocabolo indica una condizione di vita
modestamente agiata e non lussuosa; dunque da non confondersi lessicalmente con termini quali indigentia, egestas o inopia. Come scriverà Seneca (Ep. ad Luc. 87, 39) paupertas est non quae pauca possidet, sed quae multa non possidet. Va dunque interpretata come un atteggiamento, una scelta etica e letteraria, che fu del resto comune ad altri poeti contemporanei. Vivere «in povertà», significa contentarsi del poco (contentus vivere parvo), limitare i consumi, scegliere un orizzonte di vita semplice e dignitosamente parca, lontano dal frastuono e dalle esibizioni della città.
▰ Rus: la campagna è il luogo idealizzato dove vivere un’esistenza appartata e felice. Nell’elegia proemiale del I libro [ T1] l’esaltazione della vita agreste viene legata a una dimensione di pietas e all’invocazione delle divinità campestri: Spes, Ceres, Priapus, Lares (vv. 9-20); nella terza dello stesso I libro [ T2] lo scenario rurale si trasfigura dapprima in un’evocazione dell’aetas aurea, poi in una raffigurazione dei beati Campi Elisi. ▰ Iners, Inertia: l’aggettivo iners, così come il sostantivo inertia che ne deriva, nella cultura romana indicava un disvalore, un atteggiamento di segno negativo (in prefisso negativo + ars), con i significati di «inettitudine», «inattività», «indolenza», «negligenza» e, come nell’italiano odierno, appunto «inerzia». Nel vocabolario tibulliano acquista un’accezione positiva: la vita iners (I, 1, 5) è la «vita tranquilla», appartata e pacifica scelta dal poeta; forma un unico complesso tematico con rus, paupertas, securitas, pax. 267
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L’ETÀ DI AUGUSTO
4. L’elegia latina
PROFILO STORICO
da ogni problematica. La scelta di vivere segnis inersque (I, 1, 58: «ozioso e indolente» [ T1]), il rifiuto della guerra e della vita militare, la regressione in una dimensione arcaica e agreste, la condanna dei viaggi, l’indifferenza stessa per la gloria (I, 1, 57 [ T1 ]: Non ego laudari curo, mea Delia) esprimono una scelta organica, che non consente variazioni né sviluppi. L’impegno costante di Tibullo sembra quello di proteggere la propria ispirazione poetica, sottraendola a ogni obbligo civile e assicurandola da ogni intrusione.
Cerere portatrice di spighe, affresco da Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Lingua e stile La poesia di Tibullo rientra pienamente nel codice espressivo del classicismo augusteo: è una poesia di forme nobili e armoniose, di tono compatto e unitario, equilibrata nello svolgimento del periodo come nell’elaborazione del verso, limpida nelle immagini e nello stile. Tibullo non ama poetismi e arcaismi: preferisce un lessico tenue e trasparente, capace di rappresentare le sottili variazioni degli stati d’animo. È assente nella sua lingua poetica l’area “catulliana” dei volgarismi, così come il vocabolario osceno e fortemente espressivo dell’eros e dell’invettiva. L’aggettivazione è sobria, con prevalenza di alcuni termini-chiave che rimandano agli ideali esistenziali e amorosi del poeta: tener, mollis, placidus. Il tono è quello medio, leggermente orientato verso l’alto. Anche l’estrema sobrietà con la quale ricorre al mito, così invadente invece nella poesia di Properzio e di Ovidio, avvicina la scrittura di Tibullo a quella di Virgilio e di Orazio, al loro senso dell’equilibrio e della misura. La tecnica poetica Il segreto di questa poesia è il suo movimento interno, la fluidità delle immagini e delle fantasie, che scorrono le une nelle altre senza passaggi bruschi. Tibullo si abbandona mollemente a questo flusso per libere catene associative, secondo quella tecnica «a onda» che gli permette di ritornare più volte sugli stessi motivi, di variarli e di arricchirli di nuove sfumature. «L’unità di ciascun componimento è di tipo musicale» (Bayet), fondata sull’iterazione a distanza di suoni, di immagini e di motivi, che al termine della poesia ritornano su se stessi, chiudendo l’elegia in un movimento circolare che collega la conclusione all’esordio.
Guida allo studio
1.
Traccia un profilo delle figure femminili che compaiono nelle elegie tibulliane, spiegando il significato dei nomi ad esse attribuiti dal poeta. 2. Nell’elegia inaugurale del primo libro [ T1], Tibullo traccia un quadro di vita ideale: sapresti individuarne gli aspetti salienti? 3. L’elogio della vita agreste e del Latium vetus
appaiono nuclei tematici fondamentali della poesia tibulliana: come si connettono al dominante tema erotico? 4. Indica i tratti distintivi dello stile di Tibullo. 5. Descrivi il Corpus Tibullianum indicandone la struttura complessiva, il numero dei libri, i nomi degli autori, i metri utilizzati, gli argomenti trattati.
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