PERCORSO ANTOLOGICO
17. Ut tu fortunam... feremus: il poeta ammonisce Celso (noto da altri luoghi per la sua presuntuosa vanità) a non insuperbire per il fatto di appartenere alla prestigiosa cohors di Tiberio.
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Romae Tibur amem, ventosus Tibure Romam. Post haec, ut valeat, quo pacto rem gerat et se, ut placeat iuveni, percontare utque cohorti. Si dicet «recte», primum gaudere, subinde praeceptum auriculis hoc instillare memento: «Ut tu fortunam, sic nos te, Celse, feremus».
nostalgia di Tivoli, quando sono in Roma, e quella di Roma quando sono a Tivoli. Dopo ciò, domandagli come sta in salute, come attende ai suoi affari e a se stesso e se è entrato nelle grazie del giovane Tiberio e del suo séguito. Se quello dirà che tutto gli va bene, ricordati di congratularti con lui e poi di sussurrargli agli orecchi questo precetto: «Come tu saprai regolarti con la fortuna, così noi, o Celso, ci regoleremo con te». (trad. di A. Gustarelli)
CULTURA e SOCIETÀ Veternus, un antico male oscuro «Nella cultura romana arcaica, la depressione era una dea», così esordiva Maurizio Bettini in un bell’articolo ancora disponibile online (A volte mi sento così depresso, «la Repubblica», 21/06/1992). Era la dea Murcia, il cui nome è legato all’aggettivo murcidus, «estremamente pigro e inattivo», che gli antichi eruditi connettevano a marcidus, «marcio»; a compensarla, in quel diffuso pantheon animistico che era la religione romana arcaica, interveniva la dea Strenia, il cui nome richiama l’aggettivo strenuus, «animoso, intraprendente». Bettini concludeva che lo stato d’animo di Orazio fosse una fusione tra i due contrari, non una loro mediazione, ma la somma di due estremi: la strenua inertia, «accidia irrequieta» di cui il poeta parla nell’Epistola I, 11 all’amico Bullazio, stato d’animo contraddittorio che vanamente si cerca di sanare viaggiando, quasi si potesse fuggire da se stessi. Un’irrequietezza interiore che ingorgava le energie sfociando in un torpore letargico, una mescolanza di irrequietezza, disinteresse e senso di inadeguatezza; quel veternus che è collegato all’aggettivo vetus, «vecchio»: un precoce invecchiamento dell’animo, tra disagio e disgusto, che anticipa anche certi aspetti dell’«inettitudine» novecentesca. Un antico commentatore di Orazio scrive che il poeta era considerato melancholicus: come, nella celebre incisione Melencolia I di Albrecht Dürer, la figura allegorica guarda con indifferenza gli strumenti del sapere che la circondano, così Orazio dichiara «non voglio imparare nulla», tutto ciò che
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Al suo libro
lo appassionava diventa insignificante. Melanconia, accidia, depressione: prevalenza della bile nera tra «umori» ippocratici del corpo secondo i medici dell’antica Grecia, insidia tentatrice dei momenti d’inerzia ispirata dal «demone del mezzogiorno» per i monaci medioevali, patologia psichiatrica che richiede un approccio terapeutico complesso nella modernità. Varianti e gradazioni di un unico male, il «male oscuro» che sembra minare la vita di tanti artisti e uomini eccellenti. Già la scuola di Aristotele si chiedeva: «perché tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti mostrano di essere dei malinconici?». Lo scrittore e saggista statunitense Andrew Solomon, lui stesso colpito da una grave forma di depressione, nel suo saggio Il demone del mezzogiorno (2001) ne dava una descrizione suggestiva, che richiama il senso di disfacimento e distruzione evocato dalla dea Murcia e dalla coppia murcidus/marcidus: «Se immaginiamo un’anima di ferro logorata dal dolore e corrosa dal disturbo depressivo minore, potremmo paragonare la depressione maggiore a un vero e proprio cedimento strutturale. […] Ci vuole tempo perché le strutture arrugginite di un edificio crollino, ma la ruggine polverizza giorno dopo giorno la materia, l’assottiglia, la snerva. Il cedimento, per quanto brusco, non è che il risultato cumulativo di un lento processo di degrado, malgrado resti un evento drammatico a sé stante. Passa molto tempo tra la prima pioggia e il momento in cui la ruggine inizia a corrodere una trave di ferro».
Epistulae I, 20
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