Annali della Fondazione Ugo La Malfa Storia e Politica
Comitato di direzione: Corrado Scibilia (direttore, Fondazione Ugo La Malfa, Roma) Lorenzo Mechi (Università di Padova) Francesco Petrini (Università di Padova) Andrea Ricciardi (Università di Milano) Gabriele Rigano (Università per stranieri di Perugia) Paolo Soddu (Università di Torino) Comitato scientifico: Luisa La Malfa (Fondazione Ugo La Malfa, Roma) Paul Arpaia (Indiana University of Pennsylvania) Francesco Atzeni (Università di Cagliari) Romeo Aureli (Roma) Giovanni Belardelli (Università di Perugia) Daniele Caviglia (Università Kore di Enna) Augusto D’Angelo (Università La Sapienza di Roma) Filippo Focardi (Università di Padova) Jean-Yves Fretigné (Université de Rouen) Sara Lorenzini (Università di Trento) Guia Migani (Université François Rabelais de Tours) Luciano Monzali (Università di Bari) Amedeo Osti Guerrazzi (Deutsches Historisches Institut in Rom) Daniele Pasquinucci (Università di Siena) Roberto Pertici (Università di Bergamo) Giovanna Procacci (Università di Modena e Reggio Emilia) Stijn Smismans (Cardiff University) Giancarlo Tartaglia (LUISS Università Guido Carli, Roma) Pierre Tilly (Université Catholique de Louvain) Comitato di redazione: Gabriele Rigano (caporedattore) Daniele D’Alterio (vicecaporedattore), Carlo Verri, Paolo Borruso Fondazione Ugo La Malfa Via S. Anna, 13 - 00186 Roma – Tel. 0668300795, 0668301567 – Fax 0668211476 e-mail: annali@fulm.org Sito internet: pagina degli Annali nella sezione Historica in www.fulm.org Direttore responsabile: Giancarlo Tartaglia Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 563 del 18/12/1985 La sottosezione L’Italia e la rivoluzione d’Ottobre è stata sottoposta a peer review. “Storia e politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa” sottopone gli articoli proposti o commissionati per la pubblicazione alla peer review. Il testo viene prima vagliato dalla redazione per assicurare i requisiti minimi di scientificità. Successivamente il testo, in forma anonima, viene inviato a due valutatori qualificati esterni alla rivista, che riempiono un modulo. Giunti alla redazione, i due moduli, in forma anonima, vengono inviati insieme all’autore dell’articolo, che non è informato dell’identità dei due valutatori. Solo la direzione conosce entrambi i nomi dei valutatori, su cui è tenuta a mantenere il segreto. La decisione finale in merito alla pubblicazione viene presa dalla direzione, soprattutto in caso di giudizi fortemente contrastanti tra i due valutatori.
Annali della Fondazione Ugo La Malfa
STORIA E POLITICA Direttore Corrado Scibilia
XXXI 2016
EDIZIONI UNICOPLI
Prima edizione: giugno 2017 Copyright © 2017 by Edizioni Unicopli, via Andreoli, 20 - 20158 Milano - tel. 02/42299666 http://www.edizioniunicopli.it Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.
INDICE
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CARLO AZEGLIO CIAMPI (1920-2016)
11 Filippo Focardi La sfida del patriottismo repubblicano: la “guerra della memoria” del Presidente Ciampi 30 Paolo Savona Il modello economico di riferimento implicito nell’azione di Carlo Azeglio Ciampi da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del Tesoro 43 L’ITALIA E LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE. Masse, classi, ideologie, miti tra guerra e primo dopoguerra a cura di Giorgio Petracchi 45 Nota del Curatore 49 L’Italia e la rivoluzione d’Ottobre 51 Giorgio Petracchi L’impatto della rivoluzione russa e bolscevica in Italia tra guerra e primo dopoguerra 85 Roberto Bianchi Soviet, guardie rosse e rivoluzione nell’Italia del primo dopoguerra 109 Andrea Mariuzzo L’emergere dell’antibolscevismo nell’opinione pubblica italiana 126 Roberto Morozzo della Rocca Cattolici italiani e Russia rivoluzionaria 144 Danilo Breschi Il vario liberalismo italiano e la rivoluzione d’Ottobre
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p. 167 Santi Fedele La Sinistra non marxista e la Rivoluzione russa: anarchici e repubblicani 185 Giuseppe Bedeschi I socialisti riformisti italiani e la rivoluzione bolscevica in Russia 196 Franco Andreucci Il bolscevismo nella mentalità della Sinistra italiana e la nascita del PCI 217 Marco Bresciani Tra “guerra civile europea” e “crisi eurasiatica”: Benito Mussolini, la rivoluzione russa e il bolscevismo 242
Antonello Venturi La lotta per l’immagine della rivoluzione: i socialisti-rivoluzionari russi in Italia tra il 1917 e la nascita del PCdI
260 Stefano Garzonio La letteratura russa in Italia negli anni della Rivoluzione. Il ruolo degli emigrati 274 Guido Carpi I marxisti russi nel 1917 (dal Febbraio all’Ottobre) 286 Olga Dubrovina Politica estera e/o rivoluzione? I primi passi della Russia bolscevica in Italia: protagonisti, strumenti, sovrapposizioni 307
La rivoluzione d’Ottobre in prospettiva storica
309 Vittorio Strada Un centenario anomalo 320 Ettore Cinnella Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica 333 Luciano Pellicani Gramsci e Mondolfo di fronte alla Rivoluzione bolscevica 340 Andrea Panaccione Sotto gli occhi dell’Occidente
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INTERVENTI
361 Daniele D’Alterio “Disillusione socialista” e delusione storiografica: a proposito d’un libro sulla storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia
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Abstracts
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Notizie sugli autori
CARLO AZEGLIO CIAMPI (1920-2016)
Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
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Filippo Focardi
La sfida del patriottismo repubblicano: la “guerra della memoria” del Presidente Ciampi* La presidenza Ciampi, dopo quella di Einaudi, è stata probabilmente la più autorevole, prestigiosa ed efficace della storia repubblicana. Ha rappresentato l’elemento unificante, l’unico riconosciuto e riconoscibile, di una nazione solcata da fratture politiche profonde. Ha preservato il tessuto connettivo del paese da lacerazioni altrimenti irreparabili, esercitando un ruolo di mediazione istituzionale e culturale insostituibile, anche se, suo malgrado, insufficiente. Massimo Giannini
La valutazione sul settennato di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale (1999-2006) espressa dall’ex vicedirettore di “Repubblica”, Massimo Giannini1, può ritenersi largamente condivisibile. Non c’è dubbio infatti che il Presidente Ciampi abbia rappresentato se non «l’unico», certo il principale fattore di coesione nazionale per un paese lacerato in quegli anni da una virulenta contrapposizione fra schieramenti politici antagonisti – la Casa delle libertà e l’Ulivo – restii a riconoscersi l’un l’altro una piena legittimità democratica, espressione e motore, ad un tempo, di divisioni socio-culturali altrettanto radicate e diffuse. Volendo precisare il giudizio, si può affermare che il successo, almeno temporaneo, dell’azione svolta da Ciampi per preservare il «tessuto connettivo» del paese sia stato il frutto di un impegno costante e mirato, che si è svolto sul terreno privilegiato di una politica della memoria assai dinamica, giocata in chiave di pedagogia civile nazionale. È su questo terreno infatti che Ciampi ha agito con maggior vigore e tenacia, investendo tutte le «risorse culturali e simbolico-rituali della sua carica»2, conseguendo una popolarità crescente rilevata dagli indici di gradimento dei sondaggi d’opinione3. Il ruolo svolto dal Presidente della Repubblica risulta dunque strettamente legato a quella che è stata efficacemente definita la sua «guerra della memoria»4. Un’espressione con cui si intende l’energica azione intrapresa fin dai giorni successivi all’elezione al Quirinale nel maggio 1999 per elaborare e promuovere contenuti, simboli e forme di una memoria nazionale inclusiva che fosse in grado di superare gli strappi prodotti dallo scontro politico bipolare.
Presentiamo qui il testo dell’articolo Präsident Ciampis “Krieg um die Erinnerung”, pubblicato in tedesco sulla rivista “Neue Politische Literatur”, n. 52 2007, pp. 11-24. L’autore ha provveduto ad un aggiornamento bibliografico e ad alcune modifiche nel testo. 1 Massimo Giannini, Ciampi. Sette anni di un tecnico al Quirinale, Einaudi, Torino 2006, p. 256. 2 Cfr. Maurizio Ridolfi, Storia politica dell’Italia repubblicana, Bruno Mondadori, Milano 2010, p. 103. 3 Vedi Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente. Gli anni di Carlo Azeglio Ciampi, 19992006, Diabasis, Reggio Emilia 2011, pp. 126 e 136. 4 Cfr. C. Romano, La “guerra della memoria” del presidente Ciampi, “l’Unità”, 6 giugno 2000. *
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L’operazione di Ciampi si è inserita in un quadro caratterizzato da un profondo sovvertimento delle tradizionali basi di legittimazione del sistema politico italiano e di riformulazione delle coordinate dell’identità nazionale. Fino all’inizio degli anni Novanta era stato l’ancoraggio ai valori dell’antifascismo e all’esperienza della Resistenza a costituire, pur attraverso fasi diverse e contrastate, il fondamentale fattore di legittimazione politica nel paese e il principale, ancorché non esclusivo, patrimonio di riferimento identitario5. La Costituzione “nata dalla Resistenza” aveva rappresentato l’indiscusso patto fondativo dello Stato, generato dall’intesa fra le forze che avevano animato la lotta di liberazione e partecipato alla Costituente. Quel patto aveva, dunque, definito il perimetro della legittimazione politica, il cosiddetto “arco costituzionale”, che andava dal PCI alla DC, con l’esclusione del Movimento Sociale Italiano, erede del partito fascista, tollerato ma confinato ai margini del sistema. Gli anni Novanta hanno visto il radicale mutamento di questa cornice. L’Italia, dopo la Germania della riunificazione, è stato probabilmente il paese dell’Europa occidentale in cui si sono avute le ripercussioni maggiori per il crollo dell’Unione Sovietica e lo sgretolamento del sistema internazionale legato alla Guerra fredda6. Alla traumatica trasformazione nel 1991 del PCI in un nuovo soggetto politico7, è infatti seguita fra il 1992 e il 1994 una crisi radicale dell’intero sistema, imploso dopo l’emersione del gigantesco fenomeno di corruzione, la cosiddetta Tangentopoli, rivelato e combattuto dalla magistratura. Come conseguenza, nei primi anni Novanta sono usciti di scena o sono risultati fortemente ridimensionati tutti i partiti che avevano dato vita al patto costituzionale: la DC e il PCI segnati da scissioni e cambiamenti del nome, quindi il PSI, il PLI, il PSDI, il PRI. Contemporaneamente, sono venuti alla ribalta nuovi attori politici privi di radici nella tradizione antifascista come la Lega Nord di Umberto Bossi e Forza Italia di Silvio Berlusconi, o vecchie forze come il MSI, poi Alleanza Nazionale, con radici storiche e culturali antagoniste rispetto al patrimonio dell’antifascismo e della Resistenza8. Il passaggio – a seguito della nuova legge elettorale dell’agosto 1993 – dal sistema proporzionale incentrato sui partiti dell’arco costituzionale a quello maggioritario basato sul bipolarismo, con un polo egemonizzato da forze estranee all’antifascismo o ad esso contrapposte, innescava un confronto serrato basato su un uso politico della storia senza precedenti9. Uno dei fattori propulsivi principali della lotta per la memoria divampata nel
5 Cfr. Filippo Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005. 6 Cfr. Paul Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, 1980-1996, Einaudi, Torino 1998; Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 2013; Guido Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli, Roma 2016, pp. 291-363; Agostino Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, 1946-2016, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 198-302. 7 Ricordiamo che il PCI al Congresso di Rimini nel gennaio 1991 ha preso il nome di PDS – Partito Democratico della Sinistra. In quell’occasione una parte dei delegati ha dato vita a un secondo partito: Rifondazione Comunista. Successivamente il PDS ha preso il nome di DS – Democratici di Sinistra – mentre un’ulteriore scissione all’interno di Rifondazione Comunista ha portato alla nascita d’una terza formazione post-comunista: il Partito dei Comunisti Italiani. 8 Cfr. Marco Tarchi, Le destre, l’eredità del fascismo e la demonizzazione dell’avversario, ne L’ossessione del nemico. Memorie divise nella storia della Repubblica, a cura di Angelo Ventrone, Donzelli, Roma 2006, pp. 115-135. 9 Cfr. Luca Baldissara, Auf dem weg zu einer bipolaren Geschitsschreibung? Der öffentliche Grbrauch der Resistenza in einer geschictslosen Gegenwart, “Quellen und Forschungen aus Italie-
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paese, era l’esigenza da parte dello schieramento di centro-destra di legittimare come forza di governo il MSI-AN di Gianfranco Fini dopo la vittoria elettorale del centro-destra guidato da Silvio Berlusconi alle elezioni dell’aprile 1994. Tutti i partiti della coalizione – da Forza Italia alla Lega, dal Centro Cristiano Democratico (CCD) allo stesso MSI – convergevano, pur con impegno diverso, su una linea d’azione volta a neutralizzare definitivamente l’antifascismo come fattore di legittimazione/delegittimazione politica, assumendo come nuovo punto di riferimento l’antitotalitarismo10. L’antifascismo e la memoria della Resistenza erano presentati come fattori politicamente obsoleti e anzi dannosi per la “nuova Repubblica” italiana perché viziati al loro interno dalla tara di una presunta egemonia culturale comunista, antiliberale e antidemocratica, e ritenuti per ciò divisivi, non più capaci di unire il paese, bisognoso piuttosto d’un rinnovato patriottismo. La critica alla Resistenza – mai scomparsa nel dibattito pubblico fin dal primo dopoguerra – si trasformava rapidamente nella richiesta di una memoria pubblica e istituzionale alternativa. A questo scopo da destra era sollevata una richiesta di “pacificazione” tra fascisti e antifascisti con l’obiettivo di creare una “memoria condivisa”. Tradizionale rivendicazione della destra missina, la “pacificazione” era invocata con enfasi retorica vuoi in nome del riconoscimento della «buona fede» e del «patriottismo etico»11 di quei giovani italiani – benevolmente chiamati “i ragazzi di Salò” – che dopo l’8 settembre 1943 si erano schierati con Mussolini per la “difesa dell’onore nazionale”, vuoi in nome dell’eguale rispetto dovuto alla memoria di tutti i caduti italiani nella seconda guerra mondiale al di là delle bandiere di appartenenza. Dietro l’appello reiterato alla costruzione d’una “memoria condivisa”, d’una “memoria riconciliata” svincolata dalla contrapposizione fascismo/antifascismo, ha agito in realtà il tentativo delle destre di giungere ad una “parificazione” fra le parti. Ne sono prova sia alcuni disegni di legge volti ad “equiparare” i combattenti di Salò ai partigiani, sia la richiesta esplicita, avanzata anche in sede parlamentare, di abolire come festa nazionale il 25 aprile, giorno della Liberazione12. La manovra non ha avuto successo. Tuttavia la maggioranza di centro-destra, soprattutto dopo la seconda affermazione elettorale di Silvio Berlusconi nel 2001, è riuscita ad introdurre sue commemorazioni “competitive” rispetto al 25 aprile, come ad esempio il Giorno del ricordo dedicato alle vittime italiane delle foibe e agli espulsi dai territori dell’Istria e della Dalmazia (10 febbraio), cui è seguita l’istituzione del cosiddetto “giorno della libertà”, una commemorazione dal forte significato anticomunista, celebrata in occasione della ricorrenza della caduta del muro di Berlino (9 novembre)13. A questo si è accompagnata una solerte politica toponomastica condotta in tutto il paese dalle amministrazioni locali di centro-destra, che non hanno
nischen Archiven und Bibliotheken”, n. 82 2002, pp. 599-604. 10 Cfr. Filippo Focardi, Il passato conteso. Transizione politica e guerra della memoria in Italia dalla crisi della prima Repubblica ad oggi, ne L’Europa e le sue memorie. Politiche e culture del ricordo dopo il 1989, a cura di Filippo Focardi e Bruno Groppo, Viella, Roma 2013, pp. 59 sg. 11 Per l’espressione cfr. Stuart Woolf, Introduzione. La storiografia e la Repubblica italiana, ne L’Italia repubblicana vista da fuori (1945-2000), a cura di Stuart Woolf, il Mulino, Bologna 2007, p. 45. 12 Cfr. Filippo Focardi, Il passato conteso… cit., pp. 61 e 67. 13 Vedi ibid., pp. 69-70.
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esitato a dedicare strade, monumenti ed edifici pubblici a esponenti del regime fascista, fra cui anche personaggi di spicco14. La nuova politica della memoria del centro-destra, perorata soprattutto da Alleanza Nazionale, ha interagito – e spesso sfruttato ai propri fini – il lavoro storiografico e l’impegno profusi nel dibattito culturale da storici autorevoli come Renzo De Felice ed Ernesto Galli della Loggia, considerati fra le figure più accreditate della corrente revisionista. Entrambi si sono messi in mostra come fustigatori della cosiddetta “vulgata antifascista”. De Felice, nel volume-intervista Rosso e nero15, aveva criticato l’immagine tradizionale della Resistenza come lotta di liberazione nazionale contro i tedeschi e i fascisti condotta dall’intero popolo italiano, sostenendo invece che fascisti e antifascisti fossero stati solo due “minoranze attive” che avevano agito circondate dall’indifferenza della stragrande maggioranza della popolazione, un’immensa “zona grigia” attendista, interessata principalmente a uscire indenne dal conflitto. Galli della Loggia, dal canto suo, nel fortunato pamphlet La morte della patria16, aveva vigorosamente contestato l’immagine di matrice antifascista dell’8 settembre – giorno dell’annuncio dell’armistizio – quale inizio della Resistenza e del riscatto nazionale, leggendo piuttosto quel giorno come una tragica disfatta per l’intero paese. Secondo l’autore, il sentimento della patria, allora travolto, non sarebbe risorto mai più a causa dell’inadeguatezza delle forze antifasciste, dominate dall’egemonia della DC e del PCI, ovvero due partiti legati a poteri extranazionali, il Vaticano e l’Unione Sovietica. Di segno opposto rispetto alla nostalgia neopatriottica di Galli della Loggia, ma ugualmente eversiva della memoria pubblica consolidata, era poi la polemica antiunitaria e antirisorgimentale promossa dalla Lega Nord di Umberto Bossi, espressione delle istanze federaliste diffuse nell’Italia settentrionale, approdate in una certa fase all’aperto secessionismo17. Anche in questo caso, la polemica antirisorgimentale della Lega cadeva in un humus culturale fertile, caratterizzato dalla riemersione non solo nell’Italia del nord ma anche nell’Italia del sud di vecchi temi tipici della polemica contro il Risorgimento, fra cui ad esempio l’esaltazione delle “insorgenze” antigiacobine e antinapoleoniche delle plebi cattolico-reazionarie italiane avvenute nel Mezzogiorno, in Toscana, in Piemonte18. Quando Carlo Azeglio Ciampi nel maggio 1999 viene eletto al primo scrutinio Presidente della Repubblica, è questo il panorama in cui si trova ad operare: dunque, una fase ancora di transizione dopo la crisi del sistema dei partiti dei primi anni Novanta, segnata da un’aspra contrapposizione politica e culturale che ha investito le basi stesse del patto di cittadinanza, scosso dalla contestazione della Resistenza come mito di fondazione dello 14 Possiamo ricordare in proposito il busto in bronzo dedicato sul lungomare di Bari al podestà e ministro di Mussolini Araldo di Crollalanza, o la piscina comunale che a L’Aquila era stata intitolata al Segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena. Cfr. Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 69-70. 15 Edito a Milano da Baldini e Castoldi nel 1995, a cura di Pasquale Chessa. 16 Cfr. Ernesto Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1996. 17 Si veda Roberto Biorcio, La rivincita del Nord. La Lega dalla contestazione al governo, Laterza, Roma-Bari 2010. 18 Cfr. Mario Isnenghi, I passati risorgono. Memorie irriconciliate dell’unificazione nazionale, ne La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico, a cura di Angelo Del Boca, Neri Pozza, Vicenza 2009, pp. 39-68.
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Stato repubblicano, dalla critica sempre più aperta della Costituzione “nata dalla Resistenza”, dall’aperta sfida leghista nei confronti dello Stato nazionale. Al momento dell’elezione, Ciampi ha 79 anni ed è una figura di grande prestigio in Italia. Di formazione umanistica – si è laureato in lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa e, dopo, anche in giurisprudenza – ha lavorato per quasi cinquant’anni alla Banca d’Italia di cui è stato governatore dal 1979 al 1993. Nel 1993 è diventato il primo Presidente del Consiglio di provenienza non parlamentare. Come capo del governo è restato in carica fino al 1994, contribuendo a risolvere i gravi problemi del paese scosso dagli effetti di Tangentopoli e dalla speculazione finanziaria del 1992, che aveva messo in seria difficoltà la lira portando l’Italia ad un passo dal crack finanziario. Nel 1996, come Ministro del Tesoro del governo Prodi, è stato l’artefice principale del successo italiano nell’adesione alla moneta unica europea. Un tecnico dunque, che ha diretto per anni la Banca d’Italia ma anche un uomo di Stato che ha saputo guidare il paese in alcuni passaggi particolarmente difficili19. Le modalità della sua elezione al Quirinale – frutto d’un accordo politico fra l’allora maggioranza di centro-sinistra guidata da Massimo D’Alema con la minoranza parlamentare guidata da Berlusconi – hanno condizionato senza dubbio l’azione di Ciampi, eletto al primo scrutinio con i voti d’un vasto schieramento politico, compresi quelli di AN20. Egli non ha infatti interpretato il proprio ruolo come il predecessore, Oscar Luigi Scalfaro, schieratosi in più occasioni apertamente contro il centro-destra, ma ha cercato di rimanere neutrale per tentare di regolare il conflitto politico, superare la delegittimazione reciproca dei poli, salvaguardare il tessuto istituzionale21. Obiettivo di fondo del neo-Presidente è stato fin dall’inizio quello di favorire e cementare uno «spirito di concordia» nel Paese attraverso un’intensa opera di «pedagogia civile» finalizzata ad un progetto di «rifonda-
Sulla figura di Ciampi esiste ormai una ricca bibliografia. Si vedano almeno, in ordine cronologico: Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della Democrazia, a cura di Dino Pesole, San Paolo, Torino 2005; Massimo Giannini, Ciampi... cit.; Paolo Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi. L’uomo e il presidente, Rizzoli, Milano 2007; Id., La riscoperta della Patria, Rizzoli, Milano 2008; Carlo Azeglio Ciampi, Da Livorno al Quirinale. Storia di un italiano, conversazione con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2010; Id., Non è il paese che sognavo. Taccuino laico per i 150 anni dell’Unità d’Italia, colloquio con Alberto Orioli, il Saggiatore, Milano 2010; Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit.; Bjørn Thomassen-Rosario Forlenza, Re-narrating Italy, reinventing the Nation: assessing the Presidency of Ciampi, “Journal of Modern Italian Studies”, n. 16 2011, pp. 705-725; Giuseppe Mammarella-Paolo Cacace, Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano, Laterza, Roma-Bari 2011, pp. 258-287; Antonio Puri Purini, Dal Colle più alto. Al Quirinale, con Ciampi negli anni in cui tutto cambiò, il Saggiatore, Milano 2012; Umberto Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti. Gli anni di Ciampi, 1992-2006, Laterza, Roma-Bari 2013; Maurizio Ridolfi (a cura di), Presidenti. Storia e costumi della Repubblica nell’Italia democratica, Viella, Roma 2014; Marco Gervasoni, Le armate del Presidente. La politica del Quirinale nell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 2015. 20 Ciampi ebbe 707 voti su 1.010. Si astennero i deputati e senatori di Rifondazione Comunista e della Lega Nord. 21 Come ha osservato Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., p. 2, Ciampi «si fece interprete di una specie di presidenzialismo fondato sull’equidistanza dai poli e sul dialogo con i cittadini». 19
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zione del patriottismo repubblicano»22, capace di dare nuovo credito alle istituzioni dello Stato e di rafforzare l’unità e il senso d’appartenenza nazionale. Tale progetto ha avuto il suo centro propulsivo in una incalzante politica della memoria che Ciampi ha portato avanti attraverso tutte le risorse a sua disposizione, dai discorsi commemorativi, alle visite ufficiali volte a valorizzare determinati “luoghi della memoria” in Italia e all’estero, alla rivalorizzazione di feste, monumenti e onorificenze, all’introduzione di significative innovazioni nel cerimoniale. Al centro di quella che Giannini ha chiamato la «scommessa neopatriottica» di Ciampi23, ha campeggiato lo sforzo di edificare una memoria nazionale «condivisa»24, in grado di unire tutti gli italiani, al di là delle contrapposizioni politiche forti e laceranti che dominavano il paese. La conoscenza da parte degli italiani della loro storia passata e la coscienza delle radici comuni che la tengono intrecciata a quella presente, sono state pensate da Ciampi come lo strumento principale per far rinascere e alimentare un patriottismo da anni sopito, se non – per molti – inesistente. Già un mese dopo la propria elezione al Quirinale, Ciampi affermava senza esitazioni: «Amo menzionare la parola ‘Patria’, per troppo tempo quasi bandita dai discorsi pubblici. Amo menzionarla perché ritengo che sia una parola che ci trova tutti uniti in questa comunità di sentimenti, in questo richiamarci a tradizioni che fanno del nostro popolo un popolo essenziale per l’Europa e per l’intera civiltà del mondo»25. Interpretando con grande dinamismo il ruolo riconosciutogli dalla Costituzione di rappresentante e garante dell’unità nazionale, Ciampi si è impegnato nel rilanciare innanzitutto i simboli dell’unità della nazione: l’inno di Mameli e il tricolore. Il Presidente della Repubblica ha sollecitato l’esecuzione dell’inno nazionale in tutte le occasioni pubbliche, a cominciare dai grandi eventi culturali e sportivi. La rilegittimazione del Canto degli italiani come inno nazionale ha avuto un autorevole e prestigioso “battesimo” nel novembre 2000 in occasione del centenario verdiano, quando, alla presenza di Ciampi, l’orchestra della Scala di Milano diretta dal maestro Riccardo Muti lo ha eseguito in modo coinvolgente invitando tutto il pubblico del teatro a cantarne le strofe26. Gli italiani, che mal conoscevano il testo dell’inno nazionale ascoltato soltanto in occasione delle Olimpiadi o dei mondiali di calcio, hanno cominciato a familiarizzare sempre più con esso, spronati dal loro Presidente. Lo stesso è successo per la bandiera nazionale, «la bandiera che abbiamo amato e che, fortemente, amiamo […], simbolo moderno di un popolo antico», come ha affermato Ciampi il 7 gennaio 2004 in occasione della Giornata nazionale della bandiera27,
22 Secondo l’espressione usata da Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali, Il Mulino, Bologna 2003, p. 282. 23 Cfr. Massimo Giannini, Ciampi… cit., p. 192. 24 L’obiettivo di una «memoria condivisa» è stato esplicitato da Ciampi, ad esempio, nel discorso tenuto al Quirinale il 4 novembre 2002. Vedi Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 218. 25 Dal discorso tenuto a Lecce il 29 giugno 1999, riportato ibid., pp. 236-237. 26 L’anno precedente, sempre alla Scala, il maestro Muti si era invece rifiutato di aprire la stagione lirica con le note di Fratelli d’Italia e Ciampi, presente in sala, non aveva celato la propria contrarietà. Cfr. Paolo Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi… cit., pp. 295-298; nonché Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., pp. 63-64. 27 Commemorazione istituita nel 1997 in occasione del bicentenario della nascita del Tricolore.
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in un discorso concluso con un invito appassionato rivolto ai concittadini: «Esponiamo il Tricolore nelle nostre case. Custodiamolo con cura. Regaliamolo ai nostri figli»28. Non meno importante è stata l’attenzione prestata da Ciampi ad altri aspetti simbolici. Ad esempio la scelta di andare a risiedere con la moglie al Quirinale29, ristrutturato e rifunzionalizzato come una sorta di Buckingham Palace italiano, sede di ricevimenti e concerti in occasione delle principali festività della Repubblica, e trasformato così «da palazzo del potere a casa degli italiani»30. Fortemente rivalorizzato quale simbolo dell’identità nazionale è stato anche il monumento dell’Altare della Patria, il cosiddetto Vittoriano, considerato da Ciampi non «come monumento a Vittorio Emanuele II, ma come monumento alla Patria»31. Chiusa nel 1969, l’imponente struttura in stile classicheggiante, che svetta a Roma fra Piazza Venezia e i Fori imperiali, è stata riaperta al pubblico per volere di Ciampi nel settembre 2000. Da allora il monumento non solo è stato utilizzato – come di consueto – per ospitare le manifestazioni ufficiali in occasione delle feste nazionali, ad esempio il 25 aprile o il 4 novembre Giorno dell’Unità nazionale e festa delle Forze Armate, ma è stato anche rilanciato come sede culturale e museale e valorizzato sempre più da Ciampi, ad esempio con la scelta di tenervi i suoi discorsi per l’inaugurazione dell’anno scolastico32. La riconsacrazione patriottica del Vittoriano si è avuta infine nel novembre 2003 con l’esposizione delle bare dei soldati e dei civili italiani uccisi nell’attentato terroristico a Nassiriya in Iraq. In quell’occasione Ciampi ha assunto le vesti quasi del sacerdote laico protagonista d’una liturgia del lutto nazionale. Milioni di concittadini attraverso la televisione hanno seguito, emotivamente partecipi, il Presidente aprire la camera ardente e rendere omaggio alle salme, così come pochi giorni prima – al momento dell’arrivo dei feretri all’aeroporto militare di Ciampino – avevano seguito il suo gesto di alzare le braccia e appoggiare le mani sulle bare dei “caduti per la Patria”. Un gesto reiterato da Ciampi in occasione di altre perdite subite dal contingente italiano. Accanto a simboli dell’unità nazionale come l’inno di Mameli, il Tricolore e l’Altare della Patria, un forte rilievo è stato dato da Ciampi alle forze armate, considerate simbolo per eccellenza dell’unità nazionale. Ex ufficiale dell’esercito italiano, il Presidente ha più volte manifestato i suoi sentimenti di attaccamento agli uomini e alle istituzioni militari. «Vestire l’uniforme dell’esercito italiano – egli ha detto – è sempre stata un’esperienza di grande responsabilità e dignità»33. In più occasioni, passando in rassegna le truppe, Ciampi ha indossato la sua antica “bustina” da sottotenente degli autieri o la cravatta del corpo. Si deve a lui la scelta di reintrodurre, dopo oltre dieci anni di assenza, la parata militare sui Fori imperiali per la festa della Repubblica il 2 giugno34. Una parata che, nelle intenzioni del Presidente, doveva sottolineare l’impegno delle forze armate italiane per la 28 Dal discorso tenuto a Reggio Emilia, dove il 7 gennaio 1797 i deputati della Repubblica Cispadana adottarono per la prima volta il Tricolore. Cfr. Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., pp. 239-240. 29 L’ultimo Presidente ad aver fatto tale scelta era stato Giovanni Leone negli anni Settanta. 30 Cfr. Maurizio Breda, Quirinale, da palazzo del potere a casa degli italiani, “Corriere della Sera”, 11 novembre 1999. Citato in Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali… cit., p. 283. 31 Carlo Azeglio Ciampi, Da Livorno al Quirinale… cit., p. 168. 32 Cfr. Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., pp. 18-19. 33 Si veda Aldo Cazzullo, Nassiriya un anno dopo. Ciampi: la memoria delle vittime ha rafforzato l’unità del Paese, “Corriere della Sera”, 10 novembre 2004. 34 Cfr. Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., pp. 76-91.
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pace internazionale attraverso le missioni all’estero e la collaborazione militare con gli altri Stati europei. Anche il rilancio della festa della Repubblica ha rappresentato un fattore simbolico importante nell’azione di Ciampi. Oltre alla reintroduzione della parata militare, il Presidente ha introdotto nel cerimoniale dei festeggiamenti un concerto celebrativo presso la sua residenza del Quirinale, aperta per la ricorrenza ai cittadini. E le sollecitazioni della più alta carica istituzionale hanno contribuito a spingere il Parlamento a ripristinare nel 2000 la festa del 2 giugno nel calendario ufficiale della Repubblica, dopo che una legge del 1977 ne aveva ridimensionato il valore spostandone la celebrazione alla prima domenica di giugno35. Volendo passare dal piano simbolico del neopatriottismo del Quirinale a quello dei suoi contenuti e del suo significato, occorre analizzare i principali pilastri della politica della memoria patrocinata dal Presidente della Repubblica: il Risorgimento e la Resistenza. Nei suoi discorsi e attraverso il programma delle sue visite ufficiali Ciampi ha mirato a costruire un «percorso della memoria», un vero e proprio «asse della memoria», imperniato sul patrimonio storico e morale del Risorgimento e della Resistenza, letti in chiave non solo nazionale ma anche europea36. Costante è stato il suo richiamo al Risorgimento, visto come processo di affermazione dell’unità nazionale e dei valori di libertà. Particolarmente forte nel pensiero di Ciampi è apparso l’influsso culturale della tradizione mazziniana. «Se riflettiamo sui caratteri costitutivi, sulle radici del patriottismo degli italiani – ha detto Ciampi nel settembre 2001 – la caratteristica più importante è che esso nacque fin dall’inizio aperto all’Europa». «La libertà del popolo italiano» egli ha continuato, la sua unità e indipendenza, venivano da tutti i patrioti legate strettamente alla liberazione degli altri popoli d’Europa, in una prospettiva universale di conquista dei diritti civili. Mazzini fondò insieme Giovine Italia e Giovine Europa. Garibaldi fu pronto a combattere per ogni popolo d’America, d’Europa e d’Italia che volesse conquistare la propria libertà. Camillo di Cavour e Massimo d’Azeglio furono statisti e intellettuali con visione europea37.
La raffigurazione del Risorgimento di Ciampi ha dunque contrastato decisamente con la polemica antirisorgimentale della Lega Nord, così come con le correnti revisioniste intese a condannare il processo d’unificazione nazionale come semplice “conquista piemontese” o come imposizione di un’egemonia laico-liberale ad un paese profondamente cattolico. Allo stesso tempo, la storia riscritta dal Quirinale ha omesso il carattere fortemente conflittuale del Risorgimento, segnato da numerose fratture politiche e sociali, privilegiando una visione edulcorata in cui i repubblicani mostrano di collaborare volenterosamente coi monarchici, Mazzini e Garibaldi stanno comodamente a fianco di Cavour e Vittorio Emanuele. Se da Mazzini il Presidente Ciampi ha derivato la convinzione del nesso esistente fra il Risorgimento italiano e gli altri movimenti europei per l’indipendenza nazionale, da Benedetto Croce egli ha tratto invece l’idea del Risorgimento come espressione di quella
Sulla nascita e l’evoluzione della festa della Repubblica vedi Maurizio Ridolfi, Le feste nazionali… cit., pp. 235-270. 36 Cfr. Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., pp. 8-91. 37 Dal discorso tenuto a Roma il 22 settembre 2001 presso il Vittoriano, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 2001-2002. In Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 237. 35
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“religione della libertà” che ha segnato nel profondo la storia d’Italia38, una storia che, soltanto interrotta dalla “parentesi” fascista, avrebbe ripreso e compiuto il suo corso con la Resistenza e la Costituzione repubblicana del 1948. Quest’ultima è stata infatti considerata da Ciampi come «lo sviluppo pieno degli ideali dei patrioti del Risorgimento», avendo iscritto «i diritti fondamentali del cittadino quale fondamento giuridico della vita stessa della comunità nazionale»39. Attraverso i suoi discorsi, attraverso le visite a luoghi storici delle guerre d’indipendenza dell’Ottocento come Solferino e San Martino, il Presidente ha cercato dunque di stabilire un robusto filo di continuità fra il passato e il presente. Di questo sforzo di riattualizzazione del Risorgimento è stato segno evidente la sua “riscoperta” dell’Altare della Patria. In più occasioni Ciampi ha ricordato con convinta adesione ideale le due iscrizioni principali poste sulla sommità del monumento: “Alla unità della Patria” e “Alla libertà dei cittadini”. Nel cammino che unisce il Risorgimento alla Resistenza, Ciampi ha dedicato grande attenzione a un altro evento che ha segnato a fondo la storia nazionale: la prima guerra mondiale. Anche di questo evento il Presidente ha smorzato, fin quasi ad annullarlo, il ricordo delle lacerazioni subite dal paese, aspramente diviso prima durante e dopo il conflitto fra interventisti e neutralisti, per rievocare piuttosto il significato positivo della Grande Guerra come «ultima guerra del Risorgimento, quella che compì l’unità d’Italia»40, grazie alla conquista di Trento e Trieste, le cosiddette “terre irredente”. Ciampi, presentandosi come esponente della generazione dei figli di coloro che avevano combattuto «per la Patria» sul Piave e sul Monte Grappa41, luoghi storici della memoria nazionale della Grande Guerra, si è voluto pertanto riallacciare alla tradizione dell’interventismo democratico, di quanti cioè – come ad esempio Salvemini o Bissolati – avevano caldeggiato la partecipazione dell’Italia alla guerra contro gli Imperi centrali considerandola non un conflitto imperialistico, bensì l’ultima tappa del Risorgimento, l’ultima delle guerre di indipendenza per completare l’unità nazionale. Anche dalla Grande Guerra, Ciampi ha tratto un insegnamento in chiave europeistica. A suo giudizio, infatti, da quell’immane massacro di popoli della vecchia Europa è sorta la linfa di «un appassionato europeismo, che è in primo luogo spirito di pace»42. Se sicuramente importante è stata l’azione del Presidente della Repubblica nel recuperare il retaggio di un “lungo Risorgimento”, dalle lotte per l’unità d’Italia alla prima guerra mondiale, il terreno però su cui egli ha condotto con più incisività la sua “guerra della memoria” è stato senz’altro quello della Resistenza, che egli ha considerato come il fondamentale patrimonio di ideali e di valori da recuperare e tramandare alle giovani generazioni43. 38 Lo stesso Presidente Ciampi ha sottolineato l’importanza dei volumi di Croce per la sua formazione civile e intellettuale, con riferimento soprattutto alla Storia d’Europa nel secolo decimonono e alla Storia d’Italia. Al pari di Mazzini, anche Croce è stata una fonte fondamentale per l’europeismo di Ciampi: cfr. Carlo Azeglio Ciampi, Da Livorno al Quirinale… cit., pp. 73 e 81-83; quindi Umberto Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti… cit., p. 144. 39 Dal discorso tenuto a Torino il 20 novembre 2001, in occasione della cerimonia per i 140 anni dell’Unità d’Italia. Vedi Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 238. 40 Dal discorso tenuto da Ciampi a Belluno l’8 ottobre 2003, ibid., pp. 209-210. 41 Ivi. 42 Ibid., p. 210. 43 Cfr. Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 94-107.
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La prima preoccupazione di Ciampi è stata la difesa del significato patriottico della Resistenza contro i revisionisti come Galli della Loggia, assertori della “morte della patria”. La polemica è emersa esplicitamente in occasione del discorso tenuto a Piombino nell’ottobre 2000, in ricordo della lotta antitedesca di cui fu protagonista la città toscana all’indomani dell’armistizio. «L’8 settembre – ha affermato Ciampi – non è stato come qualcuno ha scritto, la morte della patria»: nonostante la «dissoluzione dello Stato» e il venir meno di «tutti i punti di riferimento», «fu in quelle drammatiche giornate che la Patria si è riaffermata nella coscienza di ciascuno di noi». Nel richiamare il carattere patriottico della Resistenza, il Presidente della Repubblica ha sottolineato il valore della scelta compiuta da quei militari italiani, ufficiali e soldati, che dopo il «trauma spaventoso» dell’8 settembre rifiutarono di arrendersi ai tedeschi e restarono fedeli al giuramento di fedeltà al sovrano44. Il punto è stato ribadito con determinazione dal Presidente della Repubblica nel marzo 2001 in occasione dell’importante visita compiuta presso l’isola greca di Cefalonia, teatro della strage più cruenta perpetrata da mano tedesca all’indomani dell’armistizio contro reparti militari italiani45. Per Ciampi la decisione della Divisione Acqui di opporsi all’ordine di resa dei tedeschi e di affrontarli militarmente, aveva costituito «il primo atto della Resistenza, di un’Italia libera dal fascismo»46. «Decisero di non cedere le armi. Preferirono combattere e morire per la patria. Tennero fede al giuramento», così ha affermato il Presidente della Repubblica, che ha poi elogiato negli eroi di Cefalonia «la fedeltà ai valori nazionali e risorgimentali». Gli stessi valori che, a suo giudizio, dopo l’8 settembre guidarono tanti militari italiani disseminati in Italia e all’estero, compreso lo stesso Ciampi, allora giovane sottotenente dell’esercito che scelse di raggiungere il governo legittimo del Re che si era messo in salvo a Brindisi per evitare la cattura da parte tedesca: «La memoria di quei giorni è ancora ben viva in noi. Interrogammo la nostra coscienza. Avemmo, per guidarci, soltanto il senso dell’onore, l’amor di Patria, maturato nelle grandi gesta del Risorgimento»47. Per accreditare il significato patriottico del gesto dei soldati del generale Gandin a Cefalonia e di tutti gli altri militari italiani che scelsero di resistere, Ciampi ha sottolineato il valore della «continuità dello Stato», mai venuta meno anche nella drammaticità degli eventi bellici. A questo proposito – non nei discorsi, ma in alcune interviste alla stampa – egli, pur condannando in modo reciso la monarchia per aver lasciato allo sbando dopo l’armi-
Per il testo integrale del discorso vedi ibid., pp. 318-319. Cfr. Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca, 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2000 (ed. or. München 1996), pp. 74-89; Gian Enrico Rusconi, Cefalonia 1943. Quando gli italiani combattono, Einaudi, Torino 2004; Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia e gli altri crimini di guerra della 1° Divisione da montagna tedesca, Gaspari, Udine 2013; Camillo Brezzi (a cura di), Né eroi, né martiri, soltanto soldati. La Divisione “Acqui” a Cefalonia e Corfù, settembre 1943, il Mulino, Bologna 2014; Elena Aga Rossi, Cefalonia. La Resistenza, l’eccidio, il mito, il Mulino, Bologna 2016. A lungo si è parlato di 9.000 morti fra i soldati italiani, di cui 4.0005.000 fucilati dopo la resa. La storiografia più recente ha ridimensionato la cifra a un totale compreso fra i 2.500 e i 1.900 caduti. Ciò non cambia il significato della strage che resta – come ha scritto Aga Rossi – un «criminale assassinio» compiuto per vendetta contro soldati che si erano arresi. 46 Cfr. Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 213. Il testo integrale dell’intervento di Ciampi è in Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 319-322. 47 Sul viaggio a Cefalonia come «uno dei momenti centrali della presidenza Ciampi», si veda Paolo Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi… cit., p. 310. 44 45
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stizio le forze armate senza dare loro ordini precisi48, ha espresso una valutazione positiva sulla scelta di Vittorio Emanuele III di lasciare Roma e di rifugiarsi in Puglia per garantire la continuità istituzionale49. Il giudizio è andato controcorrente rispetto alla tradizionale memoria antifascista, caustica nei confronti del “re fuggiasco”. Eccetto questo punto – che, comunque, non ha modificato il giudizio di riprovazione nei confronti del comportamento complessivo dei Savoia – la raffigurazione della Resistenza tracciata da Ciampi è rimasta ancorata alla tradizionale “narrazione egemonica” elaborata nel dopoguerra dalle forze antifasciste, incentrata sulla Resistenza come guerra di liberazione nazionale. Contrariamente infatti alla nuova vulgata revisionista d’impronta defeliciana, che descriveva la Resistenza come una guerra civile fra due “attivismi minoritari”, Ciampi ha richiamato in ogni occasione il suo carattere di guerra di popolo, sottolineando in modo particolare l’importanza di quei momenti, come l’episodio della difesa di Roma a Porta San Paolo, in cui si è manifestata una collaborazione fra civili e militari, in cui si è realizzata una «unione di popolo e forze armate». Vicino alla raffigurazione di una “Resistenza allargata” proposta già alla metà degli anni Novanta dallo storico e intellettuale cattolico Pietro Scoppola50, il Presidente della Repubblica ha rivendicato dunque una dimensione corale della Resistenza come grande movimento di lotta volto alla liberazione del paese dal nazifascismo e al suo riscatto democratico. Un movimento attivo non solo nell’«Italia partigiana» centro-settentrionale, ma anche nell’Italia del sud51 e all’estero; animato dall’azione di quattro protagonisti principali: i militari che si opposero all’intimazione di resa dei tedeschi, la popolazione che si schierò spontaneamente con loro proteggendoli e sfamandoli; i seicentomila soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi che si rifiutarono – nella stragrande maggioranza – di servire la Repubblica di Salò e rimasero nei lager; infine, la «punta avanzata» rappresentata dai partigiani52. In altra occasione Ciampi ha precisato la sua visione individuando tre diverse ma convergenti dimensioni della lotta di liberazione: «la Resistenza attiva di chi prese le armi in pugno, partigiani, soldati, militari che seguirono l’impulso della propria coscienza»; «la Resistenza silenziosa della gente, dei cittadini che aiutarono, soccorsero feriti, fuggiaschi, combattenti, esponendosi a rischi elevati»; «la Resistenza dolorosa dei prigionieri nei campi di concentramento, di chi si rifiutò di collaborare»53. Lo stesso quadro caratterizzato dalla sinergia di una pluralità di Resistenze è stato ribadito da Ciampi nel 2005 in occasione delle celebrazioni del 60° anniversario della Liberazione, quando il Presidente ha invitato a non dimenticare nessuno dei «protagonisti della lotta per la libertà di tutti gli Cfr. Umberto Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti… cit., p. 175 e Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., p. 41 nota 62. 49 Cfr. Mario Pirani, “Ecco la mia idea di Patria”, “Repubblica”, 3 marzo 2001. 50 Si veda Pietro Scoppola, 25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995. Riferimenti espliciti alla sintonia di giudizio fra Ciampi e Scoppola sulla Resistenza si trovano in Umberto Gentiloni Silveri, Contro scettici e disfattisti… cit., p. 177. 51 Vedi il discorso tenuto da Ciampi a Napoli il 28 settembre 2003 per commemorare l’anniversario dell’insurrezione della città contro le truppe tedesche. I passi principali dell’intervento in Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 227. 52 Cfr. il discorso tenuto il 10 settembre 2001 a Roma a Porta San Paolo. Citato in Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., p. 96. 53 Ci riferiamo al discorso tenuto ad Ascoli Piceno il 25 aprile 2002. Il testo integrale del discorso ibid., pp. 340-342. 48
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italiani»: la «Resistenza operaia»; la «Resistenza dei militari» e quella dei soldati internati dai tedeschi – gli IMI; la «Resistenza armata» dei partigiani; la «Resistenza popolare» di «migliaia e migliaia di donne e uomini di ogni ceto» che «salvarono e protessero civili e militari alla macchia, ebrei minacciati dallo sterminio, soldati stranieri fuggiti dai campi di prigionia»; la Resistenza infine di «migliaia e migliaia di vittime delle innumerevoli, orrende stragi che insanguinarono il nostro Paese», «donne, vecchi e bambini colpevoli soltanto di sostenere chi si batteva per la libertà»54. Secondo il Presidente, comune ispirazione per tutti i protagonisti di questa lotta sarebbe stato l’«amor di patria» d’ispirazione risorgimentale, caratterizzato in senso mazziniano non come egoismo nazionalistico ma come attaccamento alla propria nazione non disgiunto dal rispetto degli altri popoli e da un più ampio sentimento di fratellanza europea. Anche la Resistenza, come già il Risorgimento, ha avuto dunque nel messaggio di Ciampi un duplice valore: nazionale ed europeo. Per l’Italia ha rappresentato la conquista della democrazia, tutelata dalla Costituzione repubblicana, considerata da Ciampi «il fondamento delle nostre libertà»55, la «Bibbia civile»56 del Presidente, «tuttora valida» e rispecchiante «in maniera piena e rigorosa» nella sua prima parte – dove sono espressi i principii di fondo della Repubblica – il sentire del popolo italiano57. Ma, al tempo stesso, la Resistenza ha avuto un significato più vasto, accomunando l’Italia e gli italiani agli altri popoli d’Europa che nel 1945 si liberarono o furono liberati dall’oppressione nazista. Soprattutto in occasione di passaggi fondamentali del processo d’unificazione europea come l’allargamento dell’Unione del 2004 e la stesura della Costituzione58, il Presidente Ciampi ha accentuato i suoi riferimenti all’Europa, legando assieme in maniera sempre più stretta Risorgimento-Resistenza-Repubblica italiana-Unione Europea. Dunque, la seconda guerra mondiale come tragica esperienza che ha insegnato una volta per sempre agli europei il valore della pace e della collaborazione reciproca: è stato questo l’insegnamento che Ciampi si è sforzato di tramandare in particolare alle giovani generazioni, invitate a fare memoria di cosa abbia rappresentato per l’Europa e per l’umanità intera un passato dominato da «nazionalismi esasperati» e «totalitarismi aggressivi e spietati»59. Un momento significativo è rappresentato, nell’aprile 2002, dalla visita congiunta fatta assieme al Presidente della Germania Johannes Rau a Marzabotto, il comune
54 Dal discorso tenuto al Quirinale il 25 aprile. Il testo è consultabile http://presidenti.quirinale.it/Ciampi/dinamico/ContinuaCiampi.aspx?tipo=discorso&key=26923. Ricordiamo che Ciampi espresse un analogo punto di vista sulla Resistenza intervenendo a Milano il giorno dopo, il 26 aprile 2005. Vedi Rosario Forlenza, La Repubblica del Presidente… cit., pp. 22-23. 55 Si veda il discorso tenuto al Quirinale il 25 aprile 2005 sopra citato. 56 L’espressione risale ad uno degli ultimi discorsi del Presidente Ciampi, pronunciato in occasione della celebrazione della festa del 25 aprile 2006. Cfr. Carlo Azeglio Ciampi, È la Costituzione la mia Bibbia civile, “l’Unità”, 26 aprile 2006. 57 Le espressioni di Ciampi virgolettate, sono tratte dal discorso tenuto nel settembre 1999 in occasione dell’incontro col Presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, Arrigo Boldrini. Vedi Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., p. 97. 58 Ci riferiamo al cosiddetto Trattato, che adotta una costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004. Il trattato fu però respinto l’anno successivo dal voto negativo dei referendum in Francia e in Olanda. 59 Da un discorso tenuto da Ciampi a Ferrara il 28 ottobre 2002. In Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 218.
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emiliano nel cui territorio ebbe luogo la più sanguinosa strage nazista in Italia60. Parlando in quell’occasione, Ciampi lanciava perentoriamente il monito: «Mai più odio, sangue, tra i popoli d’Europa»61. E pochi giorni dopo, intervenendo ad Ascoli Piceno in occasione della festa della Liberazione, tornava sul concetto con queste parole: «Dalla tragedia della guerra la mia generazione uscì con una idea chiara: costruire un’Europa sorretta da istituzioni fondate sui principii della democrazia, un’Europa generatrice di pace, l’Europa dei valori, della libertà, della giustizia, del rispetto della dignità umana, della solidarietà»62. Difesa della Costituzione repubblicana, difesa del Risorgimento e soprattutto della Resistenza, sincero e determinato europeismo erano tutti elementi poco graditi a molti settori della composita compagine culturale e politica del centro-destra, attraversata da istanze di robusto revisionismo storico e istituzionale63. Di qui lo sprigionarsi di alcune frizioni, la più eclatante delle quali prendeva la forma della lettera aperta di protesta contro la lettura della Resistenza di Ciampi pubblicata sul principale quotidiano italiano, il “Corriere della Sera”, da Ernesto Galli della Loggia subito dopo il discorso del Presidente a Cefalonia64. Ma vi erano altresì alcuni contenuti della politica della memoria del Quirinale assai apprezzati dallo schieramento berlusconiano, esclusa la Lega di Bossi. Innanzitutto il richiamo al patriottismo, sebbene declinato da Ciampi in termini democratico-repubblicani, toccava corde sensibili nella destra nazionalista, pronta a utilizzarlo a vantaggio delle proprie posizioni. Prestava il fianco in questa direzione, anche lo sforzo del Presidente per costruire una “memoria condivisa” che unisse tutti gli italiani; un obiettivo, questo, in linea con la richiesta di “pacificazione” del centro-destra dietro cui agiva in realtà, come si è visto, lo sforzo di superare l’ancoraggio all’antifascismo quale base di legittimazione del sistema politico. L’obiettivo precisato da Ciampi nell’aprile 2003 di costruire una «memoria intera» in cui trovassero posto tutte le pagine della storia nazionale «fatta di momenti esaltanti e di errori», una memoria capace di promuovere «una riconciliazione senza amnesie»65, si traduceva nei fatti nel duplice sforzo del Presidente di fare luce da un lato sulle stragi nazifasciste nascoste per anni dalla magistratura militare nel cosiddetto «armadio della vergogna»66, ma anche, dall’altro lato, di recuperare alla memoria nazionale una pagina
Cfr. Luca Baldissara-Paolo Pezzino, Il massacro. Guerra ai civili a Montesole, il Mulino, Bologna 2009. 61 Vedi Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., pp. 216-217. 62 Cfr. Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., p. 341. 63 L’unica componente del centro-destra pienamente in sintonia con il messaggio del Quirinale appariva il partito cattolico dei Cristiano-Democratici guidato da Marco Follini e Pier Ferdinando Casini, allora Presidente della Camera. 64 Il testo integrale della lettera di Galli della Loggia e quello della successiva replica di Ciampi, in Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 322-326. 65 Cfr. l’intervista concessa da Ciampi al “Corriere della Sera” in Marzio Breda, Una memoria intera, un Paese più unito, “Corriere della Sera”, 25 aprile 2003. 66 Ricordiamo che alla metà degli anni Novanta, in seguito alle indagini relative al processo Priebke, furono rinvenuti a Roma in un palazzo della magistratura militare centinaia di fascicoli giudiziari relativi a stragi compiute durante la guerra dalle truppe naziste e da fascisti italiani. Tutto il materiale risultò essere stato illegalmente archiviato nel 1960 dalla magistratura militare italiana per impedire lo svolgimento dei processi. Sulla complessa vicenda, per il cui chiarimento è stata istituita una commissione d’inchiesta parlamentare, si rimanda a Mimmo Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001, Mondadori, Milano 60
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come quella dei crimini delle foibe, ovvero delle uccisioni di italiani perpetrate nella Venezia Giulia dai comunisti di Tito fra il 1943 e il 1945, tradizionale argomento utilizzato dalla destra neofascista in chiave anticomunista, e poi ripreso dall’intera compagine di centro-destra – Lega inclusa – come cardine della propria politica della memoria. Non a caso, tutto lo schieramento di centro-destra aveva plaudito alla visita compiuta da Ciampi alla foiba di Basovizza vicino a Trieste nel febbraio 2000 – in quell’occasione, congiuntamente, Ciampi aveva visitato anche la Risiera di San Sabba, sede di un tristemente noto lager nazista67. E analoghi apprezzamenti aveva suscitato il passo d’un discorso del Presidente tenuto nell’ottobre 2001, poco dopo la seconda affermazione elettorale di Berlusconi, in cui egli aveva affermato che «molti giovani» si erano schierati dopo il settembre 1943 con Mussolini perché mossi, al pari di chi fece la scelta opposta, dal sentimento del «valore dell’unità d’Italia», «nella convinzione di servire ugualmente l’onore della propria Patria»68. Rientravano infine nella edificazione d’una «memoria intera» anche il ricordo delle vittime delle violenze sessuali perpetrate in Italia dalle truppe del corpo di spedizione francese durante la seconda guerra mondiale69, nonché il tributo concesso almeno in un paio di occasioni da Ciampi alla memoria dei soldati italiani caduti a fianco dei commilitoni tedeschi a El Alamein70. Tutte iniziative caldamente apprezzate dalla destra. All’opposto, tali iniziative del Presidente della Repubblica non hanno mancato di suscitare preoccupazione e critiche anche aspre da parte d’intellettuali antifascisti. Ad esempio lo scrittore Antonio Tabucchi interveniva con vigore sia su “Le Monde” sia su “l’Unità” per criticare le benevole parole di Ciampi sui «giovani di Salò», a suo dire espressione d’una pericolosa «deriva ideologica» e «improponibili per una Repubblica nata dall’antifascismo come l’Italia»71. Analoghe reazioni suscitava la commemorazione di Ciampi dei soldati italiani a El Alamein che, come faceva notare lo storico Sergio Luzzatto72, erano caduti combattendo per la causa nazista. In generale, ha destato riserve una certa enfasi retorica tipica del patriottismo del Quirinale. E lo stesso vale per l’interpretazione della Resistenza proposta da Ciampi, in cui il significato antifascista della lotta appariva – ed era in effetti – fortemente sacrificato alla rivendicazione del suo significato di liberazione dell’Italia dall’occupante straniero, e il contributo della lotta partigiana ridimensionato a favore della componente militar-monarchica.
2002; Franco Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004; Filippo Focardi, Giustizia e ragion di Stato. La punizione dei criminali di guerra tedeschi in Italia, in Grazia e giustizia. Figure della clemenza fra tardo medioevo ed età contemporanea, a cura di Karl Härter e Cecilia Nubola, il Mulino, Bologna 2011, pp. 489-541; Marco De Paolis-Paolo Pezzino, La difficile giustizia. I processi per crimini di guerra tedeschi in Italia, 1943-2013, Viella, Roma 2016. 67 I passi principali del discorso tenuto in quell’occasione da Ciampi in Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 212. 68 Il testo integrale del discorso tenuto a Lizzano in Belvedere il 14 ottobre 2001 in Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 333-335. 69 Cfr. ad esempio il discorso di Ciampi a Cassino del 15 marzo 2004, in Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., p. 221. 70 Ciampi visitò la prima volta il sacrario di El Alamein nel febbraio 2000 e una seconda volta nell’ottobre 2002. 71 Cfr. Antonio Tabucchi, L’Italia, un paese alla deriva, “l’Unità”, 21 ottobre 2001. Riportato in Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 335-338. 72 Vedi Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 20-21.
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Va rilevato però che dopo la seconda vittoria di Berlusconi nel maggio 2001, le critiche da sinistra all’operato di Ciampi si sono progressivamente ridimensionate e il Presidente della Repubblica è stato sempre più riconosciuto dalla compagine di centro-sinistra come il baluardo più solido contro le istanze revisionistiche della destra al potere. I testi dei discorsi ufficiali tenuti da Ciampi in occasione della festa del 25 aprile sono stati ad esempio pubblicati integralmente da “l’Unità”, il quotidiano dei Democratici di Sinistra, il partito più forte dello schieramento opposto a quello di Berlusconi. Le stesse associazioni partigiane e antifasciste hanno preso l’abitudine, nei loro messaggi, di rifarsi esplicitamente al magistero di Ciampi. Anche nelle celebrazioni di piazza del 25 aprile il messaggio patriottico del Presidente della Repubblica ha trovato un vasto consenso, come dimostra ad esempio il caso della manifestazione a Milano nel 2002, ai cui partecipanti sono stati distribuiti volantini con il testo della canzone partigiana Bella ciao da un lato e le parole dell’Inno di Mameli dall’altro. A questo riavvicinamento, trasformatosi in un saldo connubio, ha molto contribuito lo stesso Ciampi che nell’aprile 2002 ha avuto parole di esplicita condanna per l’«improponibile revisionismo»73 e si è impegnato sempre più energicamente a favore della memoria della Resistenza, come dimostra nel 2003 la decisione d’aprire per la prima volta il palazzo del Quirinale per i festeggiamenti della Liberazione e, nello stesso anno, l’ampio giro di visite compiuto nel paese per commemorare l’anniversario dell’8 settembre, interpretato come inizio della Resistenza e non “giorno del disonore” nazionale secondo la lettura revisionistica. Ha sancito infine la sintonia fra il Quirinale e il centro-sinistra l’impegno profuso con energia e fermezza da Ciampi fino alla fine del suo mandato per la difesa della Costituzione, insidiata dai progetti di radicale modifica avanzati dal governo di destra. Un impegno che senza dubbio ha contribuito alla sconfitta della riforma costituzionale nel referendum del giugno 2006. L’accentuazione del carattere patriottico della Resistenza e la sordina messa agli aspetti di trasformazione sociale più radicale promossi durante la lotta di liberazione dalla sinistra antifascista hanno corrisposto certamente ai genuini sentimenti e alle convinzioni del Presidente della Repubblica, ma anche alla necessità politica di confezionare un messaggio capace di raccogliere il massimo del consenso nel paese, negli anni in cui gli italiani avevano premiato col loro voto un governo di destra. Del resto, così facendo, Ciampi ha ripreso e riproposto la lettura tradizionale, condivisa nel suo nucleo di fondo da tutti i vecchi partiti antifascisti, della Resistenza come “secondo Risorgimento”: un’idea nazional-patriottica della Resistenza in cui ognuno potesse riconoscersi senza che nessuno potesse vantarne il monopolio. Funzionale agli scopi del Presidente della Repubblica di rappresentare tutti gli italiani, tale raffigurazione è risultata tuttavia assai parziale e reticente. Essa infatti ha glissato sulle forti differenze regionali e i contrasti spesso accesi fra le diverse componenti della Resistenza, e omesso di fare i conti col carattere anche di guerra civile della Resistenza, che era stato posto in rilievo all’inizio degli anni Novanta da uno storico antifascista quale Claudio Pavone74, coetaneo di Ciampi e come lui simpatizzante del Partito d’Azione75.
L’affermazione è stata fatta nel già citato discorso tenuto ad Ascoli Piceno il 25 aprile 2002. Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. 75 Influenzato dalle idee del filosofo Guido Calogero, che aveva avuto come professore a Pisa, Ciampi aderì al Partito d’Azione svolgendovi per un breve periodo attività politica nella Livorno 73
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Rilievi critici si possono muovere e sono stati mossi anche all’obiettivo di Ciampi di costruire una memoria nazionale «condivisa» o anche solo una «memoria intera», in cui non necessariamente si è chiamati a fare proprie le ragioni o le motivazioni altrui. Elaborare a questo fine punti di contatto fra la memoria antifascista imperniata sulla Resistenza e la memoria di quanti scelsero la parte opposta schierandosi con Mussolini, è sembrata un’operazione quantomeno azzardata, e per molti inaccettabile. Dettata dalle «ragioni della politica» per legittimare il nuovo sistema bipolare caratterizzato dalla presenza di forze anti-antifasciste, tale operazione collideva infatti con le «ragioni della storia». Ciampi, in realtà, non ha mai inteso procedere ad una «parificazione» fra antifascisti e fascisti ed è intervenuto più volte per tracciare una distinzione fra le due parti76. Tuttavia l’enfasi sui comuni valori della Patria e dell’unità nazionale attribuiti dal Presidente ai vecchi schieramenti antagonisti, ha rischiato effettivamente di stemperare e offuscare le differenze, almeno sul piano della ricezione pubblica dei suoi interventi. Circa il proposito di Ciampi di favorire la costruzione di una «memoria intera», si può osservare che tale memoria è apparsa in realtà incompleta e sbilanciata. Vi hanno trovato posto infatti solo quelle pagine, come le foibe o le stragi nazifasciste, in cui gli italiani apparivano nei panni delle vittime, vuoi dei carnefici comunisti di Tito vuoi delle SS tedesche. Nessuna presa di posizione invece da parte del Quirinale su quelle pagine della storia nazionale, come l’occupazione della Libia e dell’Etiopia o quella dei Balcani – Grecia e Jugoslavia – durante la seconda guerra mondiale, in cui furono gli italiani a rivestire i panni degli oppressori e dei carnefici nei confronti delle popolazioni civili locali. Si può solo menzionare un breve accenno fatto da Ciampi in occasione del discorso tenuto a Cefalonia, allorché aveva ricordato «le tremende sofferenze della popolazione di Cefalonia e di tutta la Grecia, vittima di una guerra di aggressione»77. Ciampi era stato invero sollecitato fin dal 2000 dal Presidente sloveno Milan Kučan ad avviare una politica di riconciliazione fra i due paesi, da attuarsi attraverso un gesto da compiere nei luoghi delle «barbarie contrapposte»78. E dopo la visita di Rau a Marzabotto, il Presidente era stato invitato da alcuni storici italiani a compiere un’azione analoga recandosi in uno dei luoghi simbolo dell’occupazione italiana in Jugoslavia, come ad esempio l’isola di Arbe – Rab in croato – sede del più duro campo di concentramento italiano per slavi79. Come ha rivelato il suo ex consigliere diplomatico Antonio Puri Purini, nel dicembre 2004 Ciampi aveva preso in effetti la decisione di svolgere «una sorta di pellegrinaggio civile» insieme al Presidente sloveno e a quello croato per realizzare una definitiva dell’immediato dopoguerra: vedi Carlo Azeglio Ciampi, Da Livorno al Quirinale… cit., pp. 56 e 6870. Pavone durante la Resistenza aveva invece aderito al Partito Italiano del Lavoro, non lontano ideologicamente dall’ala sinistra del PdA. Alla tradizione azionista, Pavone si è sempre comunque richiamato nel dopoguerra: cfr. Claudio Pavone, La mia Resistenza. Memorie di una giovinezza, Donzelli, Roma 2015. 76 Ricordiamo ad esempio la presa di posizione di Ciampi nel 2002 contro l’iniziativa dell’amministrazione comunale di Trieste, guidata dal centro-destra, che in occasione del 25 aprile aveva commemorato assieme la Liberazione e le vittime delle foibe. Vedi Filippo Focardi, La guerra della memoria… cit., pp. 102-103. 77 Ibid., p. 320. 78 Cfr. Antonio Puri Purini, Dal Colle più alto… cit., pp. 258-259. 79 Vedi ad esempio Tranfaglia: ora si scusi l’Italia, “l’Unità”, 18 aprile 2002 o anche Filippo Focardi, I crimini impuniti dei “bravi italiani”, “Contemporanea”, a. VIII, n. 2, aprile 2005, pp. 129-135.
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riappacificazione attraverso il mutuo riconoscimento dei torti e delle violenze che le parti storicamente avevano inflitto l’una all’altra80. Nel gennaio 2005, in una riunione riservata fra le autorità dei tre paesi svoltasi presso la prefettura di Trieste, erano state messe a punto le tappe di questo viaggio di riconciliazione ad alto significato simbolico: i tre Presidenti si sarebbero recati insieme prima alla Risiera di San Sabba a Trieste, sede di un famigerato lager nazista, poi a Gonars in Friuli per rendere omaggio alle vittime slovene e croate del campo di concentramento italiano, infine era prevista una visita a Basovizza per ricordare gli italiani vittime delle foibe81. Un incontro di lavoro sull’isola di Brioni avrebbe dovuto chiudere l’iniziativa ponendo le basi per una futura collaborazione politica, economica e culturale fra i tre Paesi. Alla fine tutto però fu annullato per l’intervento del Ministero degli Esteri italiano, allora guidato dal leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini, che condizionò la realizzazione del viaggio di riconciliazione alla soluzione della questione dei beni immobiliari di proprietà italiana in Croazia, intendendo con ciò difendere gli interessi degli italiani espulsi dall’Istria e dalla Dalmazia82. L’intervento del governo di centro-destra bloccò così i progetti di Ciampi. In nessuna occasione pubblica il Presidente ha comunque mai affrontato la questione delle responsabilità italiane legate alla politica antislava del regime fascista e ai crimini di guerra commessi tra il 1941 e il 1943. Più risoluto si è dimostrato Ciampi nella condanna della politica antisemita del fascismo italiano. In più occasioni egli ha denunciato l’«aberrante legislazione discriminatoria» del regime di Mussolini contro gli ebrei, definendo «vergognose» le leggi razziali del 193883. Occorre però rilevare che, espressa una simile riprovazione, il Presidente della Repubblica ha dato molto più spazio poi all’esaltazione dei meriti guadagnati dagli italiani nell’aiuto agli ebrei perseguitati che non alla denuncia dei loro persecutori in camicia nera, descritti come un’esigua minoranza di “deviati” rispetto ad un popolo italiano virtuoso e alieno da ogni antisemitismo84. Egli ha così difeso il volto degli “italiani brava gente”, un aspetto certo meritorio del comportamento italiano durante la guerra impersonato da figure come Giorgio Perlasca. Tale aspetto, però, ha rappresentato solo un lato della medaglia e ha fi-
Cfr. Antonio Puri Purini, Dal Colle più alto… cit., pp. 260-262. Ivi. 82 Secondo Puri Purini, l’intervento della Farnesina sarebbe maturato dopo la richiesta della Slovenia di inserire nel programma anche una visita al cippo che a Basovizza ricorda i quattro “martiri sloveni” fucilati dal regime fascista nel 1930 e soprattutto dopo che la Croazia aveva frenato sulla liberalizzazione del mercato immobiliare, mantenendo delle discriminazioni nei confronti degli italiani. Un articolo apparso sul “Corriere della Sera” ha richiamato la disponibilità slovena a compiere l’«atto di pacificazione» e sottolineato al contrario la risolutiva azione frenante del Ministero degli Esteri italiano, che avrebbe posto come condizione «un atto simbolico di restituzione dei beni espropriati, laddove possibile» e «l’eliminazione delle discriminazioni a danno dei cittadini italiani che desiderino acquistare proprietà in Croazia». Cfr. Roberto Morelli, Foibe, sì sloveno alla “pace” proposta da Ciampi, “Corriere della Sera”, 20 febbraio 2006. 83 Si veda ad esempio il discorso del 12 ottobre 1999, in occasione della visita a Gerusalemme al Memoriale di Yad Vashem e il discorso pronunciato al Quirinale il 24 gennaio 2003 per la “giornata della memoria” in ricordo della Shoah. Cfr. Carlo Azeglio Ciampi, Dizionario della democrazia… cit., rispettivamente pp. 211 e 219. 84 Cfr. il discorso tenuto l’11 marzo 2003 a Fossoli, sede durante la guerra del principale campo tedesco di smistamento e di transito per ebrei, ibid., pp. 219-220. 80 81
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nito per costituire un comodo alibi per non fare i conti col comportamento diffuso di tanti altri connazionali, viceversa coinvolti a più livelli nella persecuzione antiebraica85. Volendo provare a tracciare un bilancio, si può affermare che l’azione di “pedagogia della memoria” del Presidente Ciampi abbia esercitato un’influenza notevole nel plasmare il discorso pubblico sul passato nazionale costituendo un argine istituzionale efficace rispetto alle istanze revisionistiche più radicali, sia con riferimento a quelle rivolte in chiave anti-unitaria contro il Risorgimento sia a quelle, ancor più vigorose, rivolte contro la Resistenza. È grazie all’azione di Ciampi, poi ripresa dal suo successore al Quirinale, Giorgio Napolitano, che alcune richieste avanzate da destra – come la sostituzione del 25 aprile e l’equiparazione legislativa fra partigiani e combattenti di Salò – sono state alla fine respinte in modo definitivo86. E gli effetti di lunga durata della politica della memoria promossa da Ciampi si possono anche riscontrare nel muro di reazioni negative opposto da parlamento e istituzioni alla proposta avanzata in Senato nell’aprile 2011 da alcuni rappresentanti del Popolo della Libertà, di provenienza missina, d’abolire le norme costituzionali che vietano la ricostituzione del partito fascista87. In questo caso il rigetto è stato fermo anche da parte di figure istituzionali del governo di centro-destra allora in carica, come il Presidente della Camera Gianfranco Fini e il Presidente del Senato Renato Schifani. Quale punto di approdo legislativo degli sforzi del Presidente Ciampi di riaccreditare e diffondere fra gli italiani il sentimento di patria, può inoltre essere considerata la decisione presa dal Parlamento nel 2012, su iniziativa bipartisan del Partito Democratico e del Popolo della Libertà, di istituire il 17 marzo la «Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera»88. Non c’è dubbio che Ciampi abbia costituito una barriera contro il revisionismo più aggressivo e abbia promosso con successo il neopatriottismo a livello istituzionale. Critiche allarmate sono state però mosse ai contenuti e ai possibili effetti di questo patriottismo. Secondo lo storico Alberto Mario Banti tale patriottismo, pur fondato sulle migliori intenzioni democratiche, non avrebbe fatto «altro che riproporre, con minime variazioni, il blocco discorsivo del nazionalismo classico, come si è formato tra Risorgimento e fascismo»89. Avrebbe rischiato dunque di rimettere in circolo virus pericolosi, dimostrandosi per altro strumento inadeguato a fronteggiare «le sfide dell’emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo»90. Banti è arrivato a mettere in dubbio l’idea stessa che la Repubblica abbia davvero bisogno di un’identità nazionale forte. A nostro avviso che il discorso neopatriottico di Ciampi possa suo malgrado veicolare i germi del nazionalismo, non è una preoccupazione intellettualmente infondata. Vi sono, però, alcuni buoni “antidoti” nel messaggio di Ciampi contro l’eventuale reviviscenza di forme di nazionalismo potenzialmente antidemocratiche: fra questi, il richiamo reiterato 85 Vedi Simon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, Milano 2015. 86 Sulla politica della memoria svolta nel suo primo mandato da Giorgio Napolitano, cfr. Filippo Focardi, Il passato conteso… cit., pp. 83 sg. 87 Cfr. Silvio Buzzanca, “Non sia più reato il fascismo”. La proposta Pdl scatena la bagarre, “Repubblica”, 6 aprile 2012. 88 Vedi Inno di Mameli sui banchi di scuola, via libera della Camera al disegno di legge, ibid., 15 giugno 2012. 89 Cfr. Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Laterza, Roma-Bari 2011. 90 Ibid., p. 208.
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al nesso risorgimentale fra patria e libertà e l’insistenza sul legame fra la patria italiana e l’Unione Europea. Si può semmai riscontrare un limite nella visione del Presidente d’un percorso storico lineare che unisce il Risorgimento, la Resistenza e la nascita dell’Italia repubblicana. Privilegiando gli elementi di continuità, finiscono per risultare offuscati gli elementi di rinnovamento democratico dell’Italia antifascista rappresentati dal nuovo patto di cittadinanza sancito dalla Costituzione, con i suoi articoli che non solo tutelano le libertà civili ma affermano anche i diritti sociali. Nei discorsi di Ciampi la parola “antifascismo” ricorre solo in modo sporadico e non si può dire che il Presidente abbia contribuito molto a superare i confini di una memoria tendenzialmente autoassolutoria, fondata sulla celebrazione delle virtù dei «bravi italiani» e sul «paradigma vittimario»91. Sia la memoria istituzionale sia quella pubblica devono ancora fare i conti fino in fondo col retaggio del passato fascista, con l’esperienza di un progetto totalitario a base gerarchica e razzista, teso all’espansione militare, culminato nella catastrofe d’una guerra di aggressione a fianco dei “camerati” tedeschi. Solo così infatti si può pensare di superare quel «processo di defascistizzazione retroattiva» denunciato alcuni anni fa da Emilio Gentile92. I punti deboli del neopatriottismo costituzionale di Ciampi non devono far trascurare la sua funzione e il suo lascito positivi. In una situazione di laceranti tensioni politiche interne e di sfida aperta alla stessa unità nazionale, il Presidente Ciampi ha rappresentato un punto di equilibrio per il sistema politico e un punto di riferimento coesivo per i cittadini. Con la sua azione, come ha notato Paolo Peluffo, il Quirinale si è sforzato in definitiva di allontanare lo «spettro del declino» del Paese93. Tale “spettro”, rimasto sullo sfondo negli anni del settennato di Ciampi, si è però concretizzato successivamente per effetto della crisi economico-finanziaria internazionale sprigionatasi dopo il 2008, che ha colpito in pieno l’Italia ridimensionandone la ricchezza e il rango. Al tracollo economico si è accompagnata una drammatica crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni – in primis dei partiti – e delle élites politiche94. Anche l’Unione Europea è stata infine investita da sfiducia e discredito crescenti, tanto da essere reale la prospettiva d’una sua futura disgregazione. Solo il Quirinale, adesso guidato da Sergio Mattarella, sembra aver mantenuto alti indici di gradimento95, potendo contare anche sul patrimonio di credibilità e consenso accumulato da Ciampi. In un contesto ancor più difficile di allora, la lezione del patriottismo repubblicano e dell’europeismo di Carlo Azeglio Ciampi resta dunque preziosa ancor oggi, tanto più se si sapranno affrontare e superare alcuni suoi limiti.
Giovanni De Luna, La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011. 92 Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, p. VII. 93 Cfr. Paolo Peluffo, La riscoperta della Patria… cit., pp. 81 e 96-102. 94 Si vedano in proposito i risultati del sondaggio compiuto nel dicembre 2013 da Demetra e pubblicati sul numero di “Repubblica” del 30 dicembre 2013, da cui risulta una fiducia degli italiani per i partiti pari al 5,1% e per il Parlamento del 7,1%. 95 Dopo un anno di mandato, nel gennaio 2016 Mattarella risultava nei sondaggi il politico più gradito agli italiani con un indice del 59%. Cfr. https://www.forexinfo.it/Sondaggi-Politi-Mattarella. 91
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Paolo Savona
Il modello economico di riferimento implicito nell’azione di Carlo Azeglio Ciampi da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del Tesoro
La logica della ricerca scientifica insegna che la realtà si legge con una lente teorica di riferimento. In economia le teorie prevalenti sono due, quella quantitativa-monetarista e quella neoclassica-keynesiana; esse si presentano con almeno 19 varianti1. I modelli comunemente usati dagli economisti sono di tipo deduttivo; di conseguenza poggiano su ipotesi indimostrate e sovente indimostrabili, e offrono soluzioni “valide”, non la “verità”, se lo sviluppo logico è corretto, ossia rispondente alle regole del linguaggio formale2. Le “verifiche” di validità del modello interpretativo di tipo econometrico si basano su osservazioni analizzate secondo la logica delle probabilità oggettive, ma non mancano verifiche basate sulla logica delle probabilità soggettive3. Sulla base di questo metodo di analisi ho già tentato di ricostruire il modello di riferimento seguito da Paolo Baffi e Guido Carli usando le due lenti teoriche indicate4. Tenterò lo stesso per il modello al quale Carlo Azeglio Ciampi ha fatto implicito riferimento nell’esercizio delle funzioni di Governatore della Banca d’Italia e di Presidente del Consiglio e, in
1 Per questo calcolo si veda Paolo Savona, Cos’è l’economia. Cinque conversazioni, Mind Edizioni, Milano 2012, terza edizione, p. 41, dove riporto su un diagramma di Venn le 19 scuole di pensiero con sovrapposizioni che aiutano a individuare, usando il linguaggio grafico, i punti in comune e l’area di indipendenza. 2 Sul tema ho insistito in molti scritti. Tra questi suggerisco il manuale delle mie lezioni universitarie intitolate Politica economica e new economy, McGraw-Hill, Milano 2002, Capitolo 1 “Che cos’è la politica economica e di quali strumenti si avvale”, pp. 1-6. 3 Per l’Italia l’unica verifica basata sulla logica delle probabilità soggettive è, salvo prova contraria, quella sperimentata dall’ambito della mia cattedra di Politica Economica alla LUISS, ripresa poi in Confindustria nel 1977, da Gabriella Chiesa, con la collaborazione di Cliff Wymer del Fondo Monetario Internazionale; questa partecipazione fu propiziata dall’allora direttore esecutivo del Fondo, Lamberto Dini. In proposito si vedano le mie Considerazioni sullo stato della modellistica economica in Italia: note a margine dei modelli CSC, “Economia Italiana”, n. 2 1981, pp. 213-235 – versione inglese in “Review of Economic Conditions in Italy”, n. 2 1981, pp. 211-237. 4 Si veda Paolo Savona, Paolo Baffi e il canale estero di creazione monetaria, “Economia Italiana”, n. 3, settembre-dicembre 2009, pp. 833-843; Id., Il modello economico di Paolo Baffi, “Bancaria”, n. 11, novembre 2013, pp. 26-33; Id., Le radici storiche e i fondamenti logici delle Considerazioni finali del Governatore Carli, in Considerazioni finali della Banca d’Italia di Guido Carli, a cura di Paolo Savona, Treves Editore, Roma 2011, pp. 1-89.
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particolare, di Ministro del Tesoro del Governo Prodi, quando decise e guidò la confluenza della lira nell’euro. Prima di intraprendere questo impegno desidero aggiungere una precisazione del mio modo di intendere i risultati dei comportamenti analizzati. Anche le persone con un’etica e una professionalità elevate possono commettere errori, senza perciò perdere l’elevato standard culturale e civile che ha contraddistinto la loro vita pubblica. L’azione umana è esposta al rischio della fallibilità ed è dai fallimenti che emerge il progresso, se le persone sono disposte a mettere in discussione ogni loro conoscenza e ogni atto compiuto invece di difenderlo per orgoglio personale. La mia valutazione è che Carli e Ciampi abbiano operato in buona fede per entrare nell’euro, ma l’Italia era impreparata ad affrontare l’impegno che si prendeva; hanno perciò lasciato una pesante eredità dai cui effetti negativi, per motivi interni e per la cecità politica di alcuni paesi europei, l’Italia stenta ad uscire. È pur vero che Baffi raccomandò più prudenza nel cedere la sovranità monetaria, ma le vicende della vita gli hanno impedito di incidere sui contenuti di quella scelta. Il vincolo esterno accettato dall’Italia nel 1992 con la firma del Trattato di Maastricht, ribadito nel 1998 con lo straordinario impegno per entrare nell’euro, non aveva le caratteristiche di quello sperimentato positivamente con l’adesione al Fondo Monetario Internazionale, al General Agreement on Tariff and Trade e ai successivi accordi di libero scambio europeo. Siamo infatti passati da un vincolo esercitato dal mercato internazionale, che la nostra politica poteva correggere esercitando la sovranità sugli strumenti “classici” di politica economica – rapporto di cambio, spesa pubblica e tassazione, moneta e tassi dell’interesse – a un vincolo esercitato dalla burocrazia europea sulla base di clausole dei trattati divenuti “tavole della legge”, da rispettare con modesti margini di azione qualsiasi cosa fosse accaduta. Dall’adattabilità delle scelte politiche nazionali alle vicende della storia, giuste o sbagliate che fossero, siamo passati alle rigidità applicative di accordi frutto di compromessi pieni di imperfezioni5. Tra l’altro, in una tale situazione, il mancato rispetto degli accordi invita la speculazione ad agire contro i paesi che li violano e gli stessi richiami all’ordine delle istituzioni sovranazionali la rafforzano, senza tenere conto delle circostanze pratiche che le hanno indotte, ma per il solo fatto che gli accordi corrispondono a quelle che sono state definite “preferenze rivelate” e il mancato rispetto testimonia una debolezza politica del paese coinvolto, indicatore di una sua carenza di governo. Dal 1992 in poi la costruzione europea ha avuto la caratteristica di creare divisioni piuttosto che spingere all’unione politica desiderata – anche se non da tutti i firmatari. Evento dopo evento, anno dopo anno, ci troviamo sempre più immersi in scelte imposte dai vuoti di regolamento delle istituzioni europee, soprattutto di fronte a shock esterni, perché le clausole dei Trattati e i paesi “che contano” non intendono colmarli. Il vuoto maggiore è Ho sostenuto questa tesi nel mio ricordo di Carli nel centenario della sua nascita, come pure avvertii per tempo Carli, Ciampi e il Presidente della Repubblica Cossiga che gli accordi imperfetti creavano un’unione europea imperfetta e, quindi, esposta al rischio di collasso. Cfr. Carli e il vincolo esterno, Atti del Convegno per il centenario della nascita di Guido Carli organizzato dall’Università di Pisa il 28 ottobre 2014, dattiloscritto in corso di pubblicazione. Vedi inoltre Paolo Savona-Carlo Viviani, L’Europa dai piedi d’argilla: basi empiriche, fondamenti logici e conseguenze economiche dei parametri di Maastricht, Scheiwiller, Milano 1995. Ho inoltre reso testimonianza della mia azione sul Presidente Cossiga nel mio Quadrare il cerchio, ne La grande riforma mancata. Il messaggio alle Camere del 1991 di Francesco Cossiga, a cura di Pasquale Chessa e Paolo Savona, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 139-142. 5
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la mancata indicazione di una politica che avrebbe dovuto rendere coerente la sopravvivenza di un’area monetaria nella quale dovevano convivere paesi con ragioni di scambio strutturalmente diverse. Un altro vuoto non minore è la mancata attribuzione alla BCE del potere-dovere di svolgere in piena autonomia le funzioni di lender of last resort per le crisi bancarie, assolutamente indispensabile quando si permette di “trasformare” moneta in credito, come insegna il più grande studioso di crisi bancarie, Hyman Minsky. L’assenza di questo potere ha costretto la BCE a colmare la lacuna con equilibrismi interpretativi che riducono l’efficacia della sua azione di fornire “riserve” monetarie al sistema economico nei momenti di più grave crisi. Ciò nonostante, si è dato vita a un primo esperimento di unione bancaria europea senza sistemi comuni di garanzia dei depositi e meccanismi di intervento pubblico per evitare crisi sistemiche. La tesi indimostrata e indimostrabile avanzata per l’Italia – non solo da parte di Carli e Ciampi, principali protagonisti – è che, se non fossimo entrati nell’euro fin dall’inizio, non saremmo più stati capaci di farne parte. Il giudizio si può considerare fondato, ma implica che, contrariamente a quanto in molti sostengono, chi la pensava così aveva coscienza delle reali condizioni culturali e politiche del Paese, quelle che hanno finito con il prevalere negativamente sullo sviluppo italiano e tuttora in gran parte prevalgono. L’unità d’Italia non si è realizzata in forma di un contratto sociale fondato su the rule of law, il rispetto della legge. Se prima del 1946 la mancata partecipazione di tutti i cittadini poteva lasciare adito al non rispetto di leggi alla cui definizione partecipava una minoranza dei cittadini, da quando esiste il suffragio universale e tutti i cittadini hanno scelto la forma repubblicano-democratica, la regola della legge ha trovato piena legittimazione, divenendo fondamento della convivenza. Tuttavia il popolo non ha partecipato direttamente alla scelta di aderire al Trattato di Maastricht e alla rinuncia della lira, attuata proprio quando esso ha avuto coscienza che i gruppi dirigenti dell’economia e della politica non rispettavano la legge. Poiché nonostante impreparazione e difetti, «gli italiani non sono cretini», come disse Carli nel corso di una tormentata riunione del CIPE, il cittadino ha compreso che l’Europa promessa non si va realizzando e, siccome capisce che i gruppi dirigenti non pongono rimedio, si affida per protesta alle forze antipolitica (italiana) e antisistema (europeo). Invece di dare risposta ai vuoti istituzionali della costruzione europea i gruppi dominanti preferiscono praticare la denigrazione, definendo “populiste” le reazioni del popolo, così accelerando divisioni e creando i presupposti per una fine drammatica dell’Unione Europea; questa non sarà certo originata da carenze di tipo economico, che tecnicamente possono essere fronteggiate, ma da reazioni sociali, più difficili da governare. Gli storici avranno molto da fare per fare emergere un’interpretazione ragionevole delle ragioni della scelta di entrare prematuramente e impreparati nell’euro, e degli effetti che essa ha causato alla collettività. La conoscenza personale di Carli, Baffi e Ciampi, con cui ho collaborato per diversi lustri, acquisendo così molti strumenti di conoscenza sorretti da appropriate analisi del Servizio Studi, possono consentire di dare un contributo all’intrapresa di questo difficile compito, pur nei limiti dei giudizi legati alla contemporaneità. Ho infatti vissuto i fatti intercorsi dalla fine del 1963 – momento in cui l’Italia attraversò la prima seria crisi della bilancia dei pagamenti con l’estero del dopoguerra – agli inizi del 2001, data di avvio dell’euro, e partecipato direttamente ad alcune scelte. Riesaminati scritti e decisioni di Ciampi, la mia interpretazione di sintesi è che egli, da Governatore, ha ereditato il modello economico di riferimento – o lente di lettura – seguito da Baffi; esso è di tipo neoquantitativo – dove il tasso dell’interesse e il rapporto di cam-
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bio svolgono un ruolo importante – con integrazioni ispirate al modello keynesiano, dove l’intervento pubblico viene considerato necessario. Nella sua esperienza politica, invece, per raggiungere la confluenza della lira nell’euro, ha recepito il modello con caratteristiche prevalenti di tipo monetarista proprie dell’Unione Europea, percepite in modo particolare dalla Germania. Una volta raggiunto l’obiettivo, Ciampi ha propiziato il recupero di alcuni aspetti del modello keynesiano, ma ha incontrato i vincoli fiscali derivanti proprio dagli accordi europei che aveva fortemente voluto. Il risultato è stato la caduta degli investimenti pubblici, componente indispensabile del motore dello sviluppo di mercato, quando esso perde colpi o si inceppa. Entrambi i riferimenti teorici indicati sono stati usati da Ciampi con una concretezza non dominata da influenze teoriche, di cui egli non disponeva, ma di cui percepiva la differenza. Questa interpretazione sconta le difficoltà che incontra la messa a punto per Ciampi di un modello di riferimento più preciso rispetto a quelli da me proposti per i suoi due predecessori. La continuazione da parte di Ciampi, divenuto Governatore, della politica monetaria avviata da Baffi aveva come componente principale il canale estero di creazione monetaria, alla cui definizione teorica e applicazione pratica Baffi diede un contributo pratico rilevante, riconosciuto a livello internazionale6. Esso ha radici nella logica del regime monetario del gold exchange standard come interpretato dal quantitativismo cantabrigiense, secondo cui la creazione monetaria attraverso il canale Tesoro distorce o quanto meno disturba il funzionamento dell’economia; quella che si attua finanziando il sistema bancario si trasmette con lentezza e può produrre effetti distorti; l’immissione attraverso il canale estero si innesta invece direttamente ed efficacemente nel governo degli eccessi o delle carenze dell’economia reale. Nell’epoca in cui Baffi fu responsabile della gestione della lira, le condizioni in cui si trovava la bilancia estera dei pagamenti valutari, nonché l’inflazione e la crescita reale si potevano considerare, con un eufemismo, alquanto preoccupanti. La politica fiscale non era in condizione di svolgere un ruolo anticiclico, perché dominata da istanze sociali che le impedivano di condurre politiche di stabilizzazione, né tantomeno di correzione dei vincoli strutturali7; ossia quelle caratteristiche che non furono tenute in debito conto all’atto della scelta di disfarsi della sovranità monetaria per confluire in un Eurosistema dotato di minore libertà di scelta per avere omesso di dotarlo degli strumenti classici di intervento. Baffi e, soprattutto, Ciampi ebbero occasione d’impossessarsi delle innovazioni tecnico-analitiche introdotte dalla Scuola di Chicago di Milton Friedman e Anna Jacobson Questo prestigio emerge chiaramente nella disputa che, in occasione del Terzo Congresso dell’Associazione economica internazionale tenutosi a Montreal nel 1968, Baffi ebbe con Tibor Scitovsky, tenendo testa alle sue obiezioni e finendo col raccogliere elogi per le sue idee e la sua condotta da banchiere centrale. I tratti di questa disputa sono riportati nello scritto di Baffi intitolato La liquidità internazionale e la riforma del meccanismo di aggiustamento (Commento a Scitovsky), in Paolo Baffi, Nuovi studi sulla moneta, a cura dell’Associazione Guido Carli, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 63-72; la versione originale in inglese è stata pubblicata nei Proceedings dell’International Economic Relations, Macmillan, London 1969. 7 Si consideri che la creazione del sistema sanitario nazionale fu decisa alla fine del 1978, in piena crisi petrolifera, il miglioramento del sistema pensionistico voluto da Andreotti e accettato da Carli per propiziare la firma del Trattato di Maastricht e il ricorso allo strumento del pensionamento anticipato fu usato negli anni a seguire da strumento di sistemazione degli effetti sull’occupazione delle crisi aziendali. 6
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Schwartz introdotte in Italia da Antonio Fazio, divenuto Governatore dopo Ciampi8. La Banca d’Italia non ha mai accolto le prescrizioni monetariste per le sue scelte politiche, ma si è limitata ad usare l’apparato tecnico di questa Scuola, sostituendo alla distinzione dominante tra liquidità primaria e secondaria usata da Baffi, quella tra la base monetaria – high powered money, la moneta ad elevato potenziale – e il prodotto della sua moltiplicazione. Di conseguenza è stata spostata l’attenzione e l’impegno delle autorità monetarie dalla velocità di circolazione della moneta, cuore dell’equazione quantitativa in versione cantabrigiense, al moltiplicatore dei depositi e del credito. Agli inizi degli anni Settanta, nei due negoziati con il FMI per ottenere gli stand-by indispensabili per fronteggiare il deficit dei conti con l’estero creato dall’aumento dei prezzi dei prodotti petroliferi, Fazio restrinse ancor più i limiti della visione monetarista imponendo il ricorso all’indicatore del credito totale interno, che lasciava spazio alle variazioni del saldo della bilancia valutaria. Ha perciò recuperato implicitamente la concezione dell’importanza della foreign dominance nelle scelte monetarie, tanto cara a Baffi. Ciampi si è collocato in questo solco di analisi della realtà. La principale differenza tra l’impostazione del modello neoquantitativo-monetarista rispetto a quello neoclassico-keynesiano di Hicks-Modigliani non è però la distinzione di ruoli tra la banca centrale e le banche commerciali nel meccanismo di creazione monetaria, ma la diversa concezione dell’occupazione: economica per il primo e fisica per il secondo. Per i monetaristi si impiega il lavoro che conviene utilizzare per permettere al mercato di esprimere tutte le sue potenzialità di gestione razionale delle risorse e per i keynesiani si impiega tutto il lavoro disponibile per raggiungere finalità socio-economiche9. Questa seconda concezione apre la strada al governo della domanda aggregata del settore reale, soprattutto attraverso la politica fiscale – tassazione e spesa pubblica – che il monetarismo considerava una distorsione per il buon funzionamento del mercato10. Ciampi ha vissuto in un momento in cui vi è stata convergenza tra le due scuole, alimentando le sue speranze di conciliazione: i keynesiani hanno accettato le tecniche di governo della domanda di moneta e il monetarismo ha ammesso l’utilità dell’intervento pubblico per realizzare public goods che suscitano economie esterne e aumentano la produttività del sistema economico. Ciampi, tuttavia, era costretto ad effettuare aggiustamenti di bilancio pubblico necessari per rientrare nei parametri di Maastricht prima e del Patto di stabilità poi: una politica che ha causato una riduzione degli investimenti pubblici data la Per le innovazioni nell’interpretazione dei modi d’essere della moneta si veda Milton Friedman-Anna Jacobson Schwartz, Il dollaro. Storia monetaria degli Stati Uniti (1867-1960), Utet, Torino 1979 (ed. or. 1963). Per l’estensione di questa metodologia all’Italia si veda Antonio Fazio, Base monetaria, credito e depositi bancari, Tipografia Banca d’Italia, Roma 1968. 9 Chi volesse avere un quadro di queste diversità veda il settimo capitolo di Paolo Savona, Dalla fine del laissez-faire alla fine della liberal-democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016, in particolare le sinossi dei due modelli alle pp. 179-180. 10 Invero Jan Kregel, co-fondatore della Scuola post-keynesiana, ha spiegato che Keynes ha prima concentrato la sua attenzione sul meccanismo risparmio-investimenti, pervenendo alla conclusione che vi fosse uno stretto legame tra investimenti e piena occupazione, per poi integrare questo concetto con quello di una politica di governo della domanda aggregata. Credo che la sequenza logica messa in evidenza da Kregel sia quella giusta, ma non era quella che animava la politica di Ciampi da Governatore e da Ministro del Tesoro poiché, come si è detto, sacrificò proprio gli investimenti per perseguire altri obiettivi. 8
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maggiore resistenza alla riduzione della spesa corrente, fornendo la prima dimostrazione che quest’ultima è difficilmente riducibile di fronte alla larga maggioranza delle forze politiche che la difendono, un problema tuttora irrisolto. In una sua memoria, Baffi descrive l’evoluzione del suo pensiero in materia, creando similitudini con l’esperienza poi vissuta da Ciampi11. Nell’immediato dopoguerra, di fronte ai problemi della ricostruzione e delle condizioni difficili di vita degli italiani, Baffi era propenso a un maggiore intervento pubblico, peraltro sollecitato dagli americani che mal gradivano il fatto che la Banca d’Italia destinasse parte dei loro aiuti finanziari ad incrementare le riserve ufficiali. Di fronte, però, all’inflazione, egli riconobbe la necessità di una specializzazione dei compiti tra la politica monetaria, dedita alla stabilità per volontà della democrazia, e la politica fiscale, di competenza dei Governi e dei Parlamenti, dedita alla crescita reale, all’occupazione e a un’equa distribuzione dei redditi. Rispetto a Baffi e Ciampi, Carli forzò maggiormente il ruolo della banca centrale nel combattere non solo le fluttuazioni cicliche dell’economia, in linea con la filosofia di Keynes, ma anche la disoccupazione strutturale e il malcontento della popolazione. Baffi Governatore aveva ereditato una situazione economica molto difficile a seguito della crisi petrolifera, della conseguente inflazione e dell’accondiscendenza fiscale dei Governi e aveva perseguito una politica monetaria meno acquiescente rispetto a quella di Carli, che alcuni commentatori hanno considerato non in linea con i compiti propri d’una banca centrale12. La caratteristica della co-presenza di alcune componenti dei due modelli si può considerare un tratto dell’impostazione di politica economica del Servizio Studi della Banca d’Italia che Ciampi assorbì nella sua prima esperienza in questa prestigiosa istituzione, e che Carli evidenziò parlando delle due anime di Faust13. Essa si può sintetizzare come segue: se la stabilità monetaria è garantita, si può essere keynesiani, altrimenti si è costretti ad essere monetaristi. Al di là di questa semplificazione, si può verificare la dominanza dell’una o dell’altra scuola di pensiero economico verificando se il modello di riferimento condivide una delle quattro rivoluzioni fatte da Keynes nel modo di intendere il funzionamento del mercato: 1. Gli investimenti devono tendere al pieno impiego della forza lavoro; se quelli privati non sono sufficienti, provvede lo Stato; 2. Il tasso dell’interesse è un fenomeno puramente monetario; 3. L’inflazione non è un fenomeno puramente monetario; 4. Il ri-
11 Si veda Paolo Baffi, Via Nazionale e gli economisti stranieri, 1944-53, testo della testimonianza resa da Baffi in occasione del Convegno tenutosi a Firenze il 4 giugno 1983 su Keynes in Italia, riedito con integrazioni e varianti in Id., Nuovi studi sulla moneta, cit., pp. 165-221. 12 Mi riferisco in particolare a Michele Fratianni-Franco Spinelli, Storia monetaria d’Italia: lira e politica monetaria dall’Unità all’Unione Europea, Etas, Milano 2000, con una forte impronta monetarista che ha messo sotto accusa tutti i Governi dal centro-sinistra in poi per aver creato una fiscal dominance nella creazione di base monetaria. Questi autori considerano Carli il peggiore Governatore nella storia d’Italia, giudizio al quale mi sono opposto segnalando che anch’egli era un continuatore della foreign dominance che ha caratterizzato la gestione di Baffi e Ciampi, sia pure con finalità diverse: vedi Paolo Savona, Alla ricerca della sovranità monetaria. Breve storia della finanza straniera in Italia, Collana “Quadrare il cerchio”, n. 3, Libri Scheiwiller, Milano 2000, in particolare le pp. 166-170. 13 Cfr. in particolare Guido Carli, Pensieri di un ex governatore, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1988 e Id., Le due anime di Faust. Scritti di economia e politica, a cura di Paolo Peluffo, Collana Libri del Tempo, Laterza, Roma-Bari 1996.
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sparmio privato non è risultato di una scelta diretta, ma un residuo, una volta esplicitati i consumi, le esportazioni e la tassazione. Applicando questo test al modello di riferimento implicito delle scelte di Ciampi, si può affermare che nelle sue scelte: 1. gli investimenti pubblici si fanno se possibile, non sono quindi una variabile strumentale; 2. il tasso dell’interesse di mercato è influenzato, non determinato, dai tassi ufficiali posti al servizio del debito pubblico, ed è quindi un fenomeno solo in parte monetario; 3. l’inflazione è soprattutto un fenomeno avente origine in shock esogeni rispetto alla creazione monetaria, come la crescita salariale e gli aumenti dei prezzi dei beni essenziali importati, come il petrolio; 4. il risparmio è un residuo, ma anche frutto delle scelte fatte dai risparmiatori – secondo la life cycle hypothesis di Franco Modigliani importata in Italia da Ezio Tarantelli. Emergono pertanto i tratti della co-presenza delle due lenti di lettura dei modi di funzionamento dell’economia nell’impostazione di politica economica di Ciampi. In questa struttura logica ed operativa dell’economia italiana si inserisce l’obiettivo, divenuto primario in Ciampi, prima da Governatore e poi da Presidente del Consiglio e, ancor più, da Ministro del Tesoro, di aderire all’Unione Europea e all’ingresso della lira nell’euro, subordinando ad esso l’uso degli strumenti di politica monetaria e fiscale. Si è cioè perso il nesso tra realtà e politica di un suo governo, affidando alle clausole dei trattati europei la riconciliazione, che non è avvenuta perché non poteva avvenire sulla base delle regole fissate. È pur vero che la politica fiscale si dibatteva tra le pressioni provenienti dalla domanda sociale e gli squilibri di bilancio pubblico storicamente accumulati sotto forma di pressione fiscale deflazionistica – e, in particolare, di un aumento del debito pubblico – e quella monetaria era chiamata a fronteggiare l’inflazione esogena e gli squilibri valutari. Ciampi si trovò nelle strette di un viaggio “omerico” tra Scilla e Cariddi che gli ha suggerito di forzare l’uso del modello monetarista, con eccezione per il rapporto di cambio che gli accordi di Maastricht rendevano irreversibilmente rigido, mentre la Scuola di Chicago voleva flessibili. L’Europa scelse di seguire le prescrizioni valutarie del monetarismo nei rapporti tra l’euro e il dollaro, accettando di subire le fluttuazioni della moneta americana, mentre ha reso irreversibili i rapporti di cambio interni all’euroarea la cui flessibilità era più necessaria. Ancora una volta la realtà si è resa indipendente dalle prescrizioni della lunga maturazione storica della teoria, creando non pochi problemi. Il modello di riferimento di Ciampi appare con chiarezza nell’enunciato della sua “Costituzione monetaria” ideale. Essa prescrive che il sistema economico e sociale debba essere basato sulla stabilità monetaria, la coerenza fiscale e la politica dei redditi. Il fatto che parli di “coerenza” fiscale e non di “governo” fiscale indica la subordinazione di questo importante strumento di sviluppo alla stabilità monetaria, obiettivo incorporato nella creazione dell’Eurosistema. L’accordo di Maastricht lasciava agli Stati l’uso dello strumento fiscale, sottoponendolo però a vincoli quantitativi, poi ristretti con il Patto di stabilità, in un mondo in cui la flessibilità di ogni tipo è una delle principali caratteristiche per affrontare la concorrenza e orientare le scelte politiche, come gli organi dell’UE continuamente invocano, ma solo per i fattori di produzione e per l’output. La politica dei redditi è il sogno non realizzato di Ugo La Malfa, date le condizioni politiche e sociali vigenti all’epoca, che Ciampi tentò di rilanciare in misura moderata con la politica di concertazione voluta da Presidente del Consiglio; essa fu da lui riproposta come obiettivo indispensabile in qualità di Ministro del Tesoro, per sua stessa convinzione e per convincere i paesi membri dell’UE che l’Italia aveva in mente le riforme del mercato del lavoro che ci venivano sollecitate.
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A quel punto Ciampi si distingue nettamente da Baffi, che invece mostrò obiezioni tecniche ai modi in cui si andava delineando l’unione monetaria europea, avanzando critiche fin dalle prime proposte avanzate e poi esperimenti fatti all’inizio degli anni Settanta. Le obiezioni di Baffi divennero politiche quando si cominciarono a delineare i contenuti monetari del Trattato di Maastricht. In una lettera resa pubblica, diretta a Carli, sostenne che si prefigurava un futuro difficile per il Vecchio Continente e affermò che la moneta CEE era «un falso traguardo» e aggiunse: «La storia monetaria d’Europa ci rivela che, ogni qualvolta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste»14. Restano inspiegabili i motivi per cui Ciampi non stette a sentire, almeno per gli aspetti tecnici, le idee del suo Maestro, di cui ben conosceva le capacità analitiche e l’onestà di pensiero. Fu forse un atto di presunzione, improprio per il suo stile di governo, o forse perché attorno a lui si era formato un gruppo di funzionari pubblici altamente professionalizzati che sull’adesione della lira all’euro hanno costruito importanti carriere, oggi ancora oggetto di considerazione. Nel tentativo di dare una risposta a questi dubbi, porto una mia personale esperienza. Nel 1978, quando Carli cominciava ad esprimere il desiderio di non essere rinnovato alla Confindustria – per i motivi che ho descritto nella mia memoria su Carli Presidente di Confindustria – e si pensava a una sua nomina alla Confederazione delle imprese europee a Bruxelles15, accolsi la proposta che proveniva dal Governo italiano di assumere l’incarico di Direttore Generale II (DG-II) della Commissione europea diretta dal francese Xavier Ortoli; nella ripartizione degli incarichi questa importante posizione era di pertinenza dell’Italia. Il problema che incontrai ancor prima della entrata in carica fu il tentativo fatto dai tedeschi d’impossessarsi delle competenze monetarie della Direzione Generale II nel periodo di transizione del mio ingresso. Nel colloquio a quattr’occhi che ebbi con Ortoli a Bruxelles, capii che egli non poteva resistere alle pressioni tedesche e individuammo concordemente che fosse possibile attribuire la delega da parte mia al Vicedirettore Generale tedesco, riservandomi però la responsabilità di revoca della stessa nel caso di conflitto, che non sarebbe stata possibile qualora la delega fosse stata data da lui direttamente. Uscito dal colloquio, Ortoli non mantenne l’accordo verbale e sottoscrisse la delega al Vicedirettore tedesco già in carica. Mi consultai con Carli e decidemmo che avrei rinunciato all’incarico per non ledere gli interessi del Paese, cosa che feci. I giornali dell’epoca diedero ampio risalto non alla gravità dell’evento, ma al fatto che non gradivo i vice direttori con funzioni di “angeli custodi”: il tedesco per le competenze monetarie e il francese per quelle fiscali. Mi chiamò un po’ contrariato il Ministro del Tesoro Pandolfi chiedendomi se ritenevo d’essermi rafforzato con quella dichiarazione pubblica e io non ebbi esitazione nell’ammettere che la mia candidatura era “bruciata”, ma suggerii di offrire a Ortoli la mia testa in cambio del ripristino al Direttore Generale
La lettera fu pubblicata da “La Stampa” di Torino il 3 giugno 1989 ed è stata riedita con il titolo Una lettera di Baffi a Carli: Ai nostri tempi…, in Paolo Baffi scienziato e maestro, a cura di Mario Sarcinelli-Pierluigi Ciocca-Lorenzo Infantino-Paolo Savona, Associazione Guido Carli-Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 93-94. 15 Scritti e discorsi di Guido Carli. Vol. 4. Guido Carli presidente di Confindustria, 1976-1980, a cura di Paolo Savona, Bollati Boringhieri, Torino 2008. 14
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delle competenze di delega16. Pandolfi ignorò l’importanza del mio suggerimento e designò Tomaso Padoa Schioppa, che accettò la delega monetaria diretta di Ortoli al Vicedirettore tedesco che avevo rifiutato. Considero questo un errore grave sulla strada della sudditanza in cui si è posta l’Italia nelle scelte monetarie europee, pur godendo il Paese, in particolare la Banca d’Italia, di un prestigio culturale e posizionale che avrebbe potuto far pesare al tavolo delle trattative, se adeguatamente rappresentato. Negli anni che seguirono, incontrai più volte Ortoli nelle riunioni conviviali organizzate a Parma da Giorgio Orlandini, intelligente e volitivo Direttore della locale Unione degli Industriali. Chiesi a Ortoli ragione dello sgarbo fattomi e mi disse che dall’Italia gli avevano detto che ero un “pianta grane” che non doveva far accedere nell’ambito dei suoi principali collaboratori. Questo episodio è la conferma che intorno all’obiettivo dell’ingresso dell’Italia nell’euro si era formato in Italia un gruppo di potere inscalfibile e impenetrabile a ogni obiezione sui contenuti dei patti monetari, che avrebbe invece richiesto di unire le forze per cambiare il contenuto degli accordi ancora in fieri come Baffi suggeriva. La storia delle vicende che hanno condotto all’ingresso della lira nell’euro è stata descritta con dovizia di particolari, ma insufficiente analisi critica, da parte di Fabrizio Saccomanni e Paolo Peluffo17. Un contributo inquadrato in una tematica più ampia lo offre anche Curzio Giannini18. Dato il livello delle persone che hanno collaborato con Ciampi per portare la lira nell’euro fin dall’inizio – Mario Monti, Tommaso Padoa Schioppa, Mario Draghi, Vittorio Grilli, Fabrizio Saccomanni, Umberto Vattani, Roberto Nigido, Augusto Zodda – è difficile fornire una spiegazione razionale per la scelta affrettata e non ben negoziata, se non ipotizzando un personale interesse. Se ci poniamo nell’ottica della parte avversa che mosse numerose obiezioni alla scelta dell’Italia di voler aderire all’euro fin dall’inizio, capeggiata dai tedeschi, non si incontrano minori difficoltà nel dare una spiegazione razionale del perché gli oppositori abbiano alla fine deciso di sostenere la nostra candidatura; salvo considerare che i vantaggi da essa ottenibili con i vincoli posti al nostro Nella sua intervista concessa a L. Guzzetti il 24 giugno 1998 e pubblicata nella “Oral History Collection” [archives.eui.eu/en/files/transcript/15173.pdf] il Ministro Pandolfi non riferisce i motivi per cui avevo «rinunciato in maniera piuttosto brusca», mentre elogia l’accettazione senza condizioni di Padoa Schioppa all’incarico, riferendo che Ortoli era soddisfattissimo della scelta. 17 Cfr. Fabrizio Saccomanni, 1990-1999. Dialogo alla fine del millennio (fra banca centrale e cambisti) [www.ilsole24ore.com/art/.../2007/03/FOREX-50-Anniversario-31-marzo-2007] e Paolo Peluffo, Carlo Azeglio Ciampi. L’uomo e il presidente, RCS Libri, Milano 2007, in particolare il capitolo “L’Italia entra nell’euro”, pp. 238-286. 18 Cfr. Curzio Giannini, L’età delle banche centrali: forme e governo della moneta fiduciaria in una prospettiva istituzionalista, Il Mulino, Bologna 2004, in particolare il paragrafo 5 del Cap. VI, pp. 372-387. Curzio Giannini è un bravo economista, scomparso prematuramente, tenuto in grande considerazione dai suoi colleghi del Servizio Studi della Banca. Egli traccia un quadro dei motivi e degli eventi che portarono all’euro, che conferma la valutazione qui espressa: che si è giunti alla decisione con troppa superficialità, pur essendo il Servizio Studi della Banca d’Italia dotato di quelle conoscenze che avrebbero dovuto essere tenute presenti, ma che non lo furono perché «il processo di integrazione economica e istituzionale europea aveva ormai raggiunto una fase tale da rendere un’inversione di tendenza difficilmente immaginabile» (p. 376). Questo lavoro ignora la gran parte dei contributi di analisi di Baffi, di Carli e dei loro più stretti collaboratori e non presta attenzione alle analisi degli italiani, salvo alcuni tra quelli che si erano posti nel solco dell’analisi deterministica dell’ingresso della lira nell’euro, non mettendo a frutto il capitale di credibilità che la generazione successiva alla mia aveva ricevuto in eredità. 16
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Paese su cambi, moneta e tassi dell’interesse erano più elevati dei costi che avrebbe pagato se avessero lasciato fuori l’Italia; avremmo infatti avuto il potere di attivare gli strumenti classici di aggiustamento alternativi rispetto alle “riforme” che ci venivano e ci vengono richieste e alla deflazione che oggi ci viene imposta per la salvezza dell’euro, sostenendo che le une e l’altra corrispondono ai nostri interessi di lungo periodo. Ancora una volta con il sostegno della professione e dell’alta dirigenza delle istituzioni dello Stato e della politica, non facile da comprendere sul piano degli sbocchi politici del Paese. Resta per me inspiegabile anche il ruolo, a tratti passivo, svolto dal Servizio Studi della Banca d’Italia nella vicenda, che ben comprendeva le condizioni oggettive in cui l’economia italiana andava collocandosi. Fazio, da Governatore, fece qualche tentativo per spingere alla cautela e negoziare clausole più accettabili, ma anche a lui, come per Baffi, le vicende della vita impedirono d’incidere in profondità. Il Servizio Studi della Banca d’Italia era il centro di elaborazione più attrezzato dopo il depotenziamento del Centro Studi Confindustria deciso dai successori di Carli e miei alla Direzione Generale, ed era orientato ad accogliere le idee di Padoa Schioppa piuttosto che ad assegnare peso all’adeguato riguardo richiesto da Baffi; se si fosse posta maggiore attenzione ai suggerimenti del comune Maestro si sarebbero potuti correggere i termini dell’accordo evitando di condurre una battaglia per entrare nell’euro conducendo politiche monetarie e fiscali deflazionistiche, contro le quali si pronunciò anche Franco Modigliani19. Alberto Baffigi ha recentemente ricordato che Federico Caffè ha contrastato questa passiva, forse sarebbe meglio dire partigiana partecipazione alle negoziazioni per il Trattato di Maastricht con più scritti che hanno suscitato dure reazioni di Padoa Schioppa, che reagì alle accuse di «strangolamento» che sarebbero derivate dall’accettazione di «un sistema monetario a egemonia tedesca»20. Carli condusse con successo la battaglia sulla convergenza del debito pubblico, invece del rispetto puntuale del 60%, asseverando implicitamente la valutazione qui espressa che un suo impegno più ampio avrebbe sortito migliori effetti a favore di una istituzione più adatta all’eterogeneità di quelle che sarebbero state le componenti dell’Eurosistema; ma anche per lui l’ingresso nell’euro fin dall’inizio era un obiettivo prioritario. Feci un ultimo tentativo di sospingere verso una decisione più meditata operando sul Presidente della Repubblica Cossiga21. In occasione della redazione del Messaggio alle Camere del giugno
19 Franco Modigliani scrisse un articolo sul “Corriere della Sera” del 1° aprile 1997 che non era certamente un “pesce di aprile”. In esso sosteneva che i provvedimenti presi per rientrare nei parametri di Maastricht al fine d’essere accolti nell’euro fin dall’inizio «violano regole elementari di contabilità e fanno danno all’economia e, soprattutto, alla credibilità del Governo e del Paese». Modigliani rivolse anche di seguito critiche severe alla politica monetaria della BCE e a quella deflazionistica dell’UE. 20 Cfr. Alberto Baffigi, 1978, Padoa Schioppa scrive a Caffè: due visioni della democrazia e dell’Europa, “Eticaeconomia. Menabò”, n. 55, 19 dicembre 2016 [http://www.eticaeconomia. it/1978-padoa-schioppa-scrive-a-caffe-due-visioni-della-democrazia-e-delleuropa/]. 21 Nel corso del settennato della Presidenza collaborai in continuazione, ma in tutta segretezza, con Cossiga, il quale tentò di avermi ufficialmente nel suo staff come consigliere economico, non fosse altro perché doveva verificare la rispondenza degli atti legislativi che avrebbe dovuto firmare all’art. 81 della Costituzione, il “cavallo di Troia” dell’eccesso di debito pubblico che angustiava e angustia il Paese. La richiesta venne respinta dalla burocrazia interna al Quirinale e dalla DC; quest’ultima pose come condizione che il posto andasse a uno di sua fiducia e Cossiga preferì una soluzione informale. Nel messaggio alle Camere, Cossiga prese una posizione simile a quella riferita da Carli
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1991, al quale avevo collaborato per la parte economica, mi era sembrato di averlo convinto; quando incontrò Carli e Ciampi, si convinse però che non poteva seguirmi sulla strada di una sua raccomandazione alla cautela per l’ingresso immediato della lira nell’euro e, quando si prese la decisione, egli era già in posizione esterna alle grandi scelte politiche del Paese. Eppure ben si sapeva che l’Eurosistema non era un’area monetaria ottimale, ossia caratterizzata da divari strutturali nei saggi nazionali della produttività che l’avrebbero tenuta in permanente instabilità. Secondo l’insegnamento del Nobel Robert Mundell, la decisione di bloccare la flessibilità del cambio al suo interno, come implicato dalla nascita della moneta unica, avrebbe richiesto la presenza simultanea di una politica finalizzata all’eliminazione di quei divari, che fu sistematicamente respinta22. Il punto sul quale si doveva insistere usando il prestigio dell’Italia era che questa politica non fosse caratterizzata da interventi compensativi dei divari di tipo assistenziale, come in parte è stato fatto con le cosiddette “politiche di coesione”, ma operando sulle infrastrutture civili e sociali per collocare le aree arretrate su un mercato aperto alla concorrenza; ciò è stato riconosciuto decenni dopo con il Piano Juncker, ma con scarsi risultati. La realtà è che la costruzione europea ha il suo fondamento nella stabilità, piuttosto che nella crescita. Ne è conferma non solo il Trattato di Maastricht del 1992, ma anche quelli successivi, tra i quali svetta il Patto di stabilità del 1997, al quale il Presidente francese Chirac, con il sostegno di Ciampi, chiese di aggiungere «e crescita»; ma ben poco si è fatto in questa direzione, mentre sono stati introdotti condizionamenti sempre più stringenti per la stabilità fiscale con il cosiddetto Fiscal compact, sulla cui illiceità Giuseppe Guarino ha lungamente insistito23. Oggi queste rigidità hanno mostrato i loro limiti di fronte alla crisi dell’euro manifestatasi a seguito della crisi finanziaria globale del 2008 iniziata negli Stati Uniti. Solo chi legge la realtà con una lente teorica rigorosa in termini economici poteva capirlo; ma fummo in pochi a farlo e molti tra questi erano anglosassoni che, invece di ricevere considerazione teorica, subirono ingiuste accuse di voler difendere la supremazia
dopo la firma del Trattato: l’impegno preso creerà «forse» difficoltà, ma il Paese è «certamente» in condizione di superarle – i due giudizi virgolettati sono quelli usati da Cossiga. Cfr. infine il mio Quadrare il cerchio, ne La grande riforma mancata… cit., pp. 139-142. 22 Cfr. Robert Mundell, A Theory of Optimum Currency Areas, “American Economic Review”, n. 51 1961, pp. 657-665 e Id., A Plan for a European Currency, in The Economics of Common Currencies, a cura di Harry G. Johnson e Alexander K. Swoboda, Allen and Unwin, London 1973, pp. 143-72. Nel suo Mundell, the Euro, and Optimum Currency Area, del 22 maggio 2000 [khp.vse.cz/ wp-content/uploads/2010/07/McKinnon.pdf], Ronald McKinnon ha criticato la posizione favorevole presa da Mundell sull’euro, tanto da essere considerato il padre della moneta europea, sottolineando l’incoerenza con i suoi contributi seminali sulle Non-Optimal Currency Area, tra le quali va incluso l’Eurosistema. Il tentativo di negare questa condizione di partenza, di seguito accentuatasi, ha spinto la BCE a produrre lavori del suo Ufficio studi tendenti a dimostrare che la convergenza era in atto e che l’Euroarea non si poteva considerare “non ottimale”. 23 Giuseppe Guarino ha lungamente dibattuto i difetti della costruzione europea, soprattutto dal lato giuridico. Due dei suoi scritti più recenti toccano l’argomento del Patto di stabilità e del Fiscal compact. Uno è Salvare l’Europa, salvare l’euro, Passigli, Bagno a Ripoli 2013; l’altro è Saggio di verità sull’Unione e sull’euro, Polistampa, Firenze 2014.
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del dollaro24. Gli altri, con Ciampi – considerato leader di questo mutamento costituzionale dell’Italia – usavano lenti appannate da ideali europei tramutatisi in vere passioni, alimentate da speranze infondate. Anche per uno degli aspetti principali dell’azione di Ciampi da Capo del Governo, quello di aver avviato un processo di privatizzazioni delle partecipazioni statali, l’obiettivo non era lo stesso dei monetaristi – quello d’ampliare l’area del mercato sottraendola a quella dell’intervento pubblico – ma aveva lo scopo di agire in profondità nella conduzione razionale dell’economia italiana, sottoponendola a un vincolo esterno più stringente di quelli accettati in passato con l’adesione al Fondo Monetario Internazionale e alla Comunità Europea. L’intento era quello di creare un Paese “migliore”, riducendo il condizionamento della politica sulla gestione delle risorse e preparando l’economia all’integrazione europea, anche monetaria25. Come per le altre decisioni, questa valutazione conteneva un’illusione che la Scuola di Public Choice della Virginia aveva evidenziato, ossia che la burocrazia europea potesse avere caratteristiche diverse da una normale burocrazia, quella d’esercitare un potere sulla collettività, invece di mettersi al suo servizio. Eppure questa interpretazione, per esplicita ammissione di uno dei fondatori, James Buchanan, sarebbe dovuta essere “di casa”, in quanto si ispirava alla Scuola economica di Torino, dove aveva svettato l’ingegno di Luigi Einaudi, in seguito Governatore della Banca d’Italia e primo Presidente della neonata Repubblica. La conclusione dell’analisi qui condotta è che, quella che si può considerare una forzatura finalizzata al sogno europeo dei due modelli di riferimento economici usati da Ciampi, è innata nell’assetto istituzionale deciso per la sovranità monetaria europea; essa, infatti, è più vicina al neo-quantitativismo di quanto non sia al monetarismo, imprimendo alle scelte una continua oscillazione tra le finalità della stabilità monetaria e lo sviluppo reale. Essa non fa altro che ripetere l’eterno dibattito tra economisti – e quello tra loro e i policy maker – su chi determina chi e che cosa, nel quale l’Unione Europea e l’Eurosistema ancora si dibattono senza trovare una soluzione. Alcuni insistono che basti cambiare politica per consentire all’Unione Europea di rilanciarsi prima di tutto nelle coscienze; ma, se ciò accadesse, sarebbe una condizione necessaria, ma non sufficiente. Occorre modificare le istituzioni europee, dalla Banca Centrale di Francoforte, priva di uno Statuto che l’abiliti a competere con le più agguerrite colleghe del mondo; al Parlamento europeo, al quale andrebbe assegnato potere legislativo, per toglierlo dai giochi e dalle influenze dei Governi in ambito del Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo – la cosiddetta Europa intergovernativa; fino alla Commissione e alla relativa burocrazia, da porre al servizio dei cittadini europei nei limiti del possibile. Tutto ciò fu ignorato all’atto della creazione dell’Unione e dell’euro ma, nonostante gli errori allora commessi siano Cfr. Paolo Savona-Carlo Viviani, L’Europa dai piedi di argilla… cit., come pure Giorgio La Malfa, L’Europa legata: i rischi dell’euro, Rizzoli, Milano 2000 e Martin Feldstein, EMU and International Conflict, “Foreign Affairs”, n. 6, November/December 1997 [https://www.foreignaffairs. com/articles/europe/1997-11-01/emu-and-international-conflict]. 25 Ho esaminato questa scelta nella memoria presentata al Convegno organizzato dal Ministero dell’Economia e della Finanza in occasione dell’intestazione a Ciampi della Sala della Maggioranza del Ministero in Via XX Settembre 79, sotto il titolo Linee di azione del Governo Ciampi in materia di politica dei settori industriali, in corso di pubblicazione. Si veda inoltre Paolo Savona, Un disegno di politica industriale mancato. Riflessioni sulle privatizzazioni del Governo Ciampi quindici anni dopo, “Economia Italiana”, n. 3, settembre-dicembre 2007, pp. 561-596. 24
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Paolo Savona
oggi in gran parte riconosciuti, essi sono ancora strenuamente difesi da quelli che si autodefiniscono i veri europeisti, i quali volutamente ignorano che sono tali quelli che hanno raccomandato cautela e maggiore impegno per dotare la costruzione europea di basi più solide di quelle d’argilla sulla quale essa è stata fondata26.
26 In chiusura ho voluto ripetere il termine usato nel mio L’Europa dai piedi di argilla… cit., come sintesi di un giudizio che avevo espresso in una memoria preparata per Guido Carli prima della firma del Trattato di Maastricht.
L’ITALIA E LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE. Masse, classi, ideologie, miti tra guerra e primo dopoguerra a cura di Giorgio Petracchi
Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
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Nota del Curatore
C’è una contraddizione su come si vive o come si deve o dovrebbe vivere. Lev Tolstoj, Guerra e rivoluzione Doveva essere migliore degli altri il nostro ventesimo secolo Non farà più in tempo a dimostrarlo [...] Sono ormai successe troppo cose Che non dovevano succedere E quel che doveva arrivare Non è arrivato. Wisława Szymborska, Vista con granello di sabbia. Poesie 1957-1993
Già prima della crisi epocale 1989-1992 “l’eroico Ottobre bolscevico” aveva perduto il fascino con il quale la rivoluzione si era diffusa nell’immaginario collettivo europeo, prima che la propaganda ne alimentasse la retorica. A farglielo perdere aveva contribuito la letteratura assai prima e meglio dell’interpretazione storica. I poeti avevano assunto la rivoluzione d’Ottobre a materia della propria arte, ma erano naufragati sugli scogli del mare della vita – sopraffatti dal compito di trasfondere in un nuovo linguaggio il mito del progresso lineare e collettivo annunciato e promesso a tutti. I grandi scrittori continuavano ad essere dominati dal problema dell’uomo, a rispondere alle domande individuali della condizione umana. Tuttavia, chi scriveva – anche se non tutti – prima della crisi epocale del 1989-1992 doveva tener conto del fatto che la rivoluzione d’Ottobre – pur con tutti i costi umani, errori e crimini compresi – dimostrava che «il socialismo non era più un sogno» (Eric Hobsbawm). E anche chi, come Norberto Bobbio, invitava negli anni della “guerra fredda” i comunisti al dialogo, concedeva alla rivoluzione d’Ottobre il merito d’aver operato la trasformazione di un mondo feudale, socialmente ed economicamente arretrato, e riconosceva al mondo comunista, da essa creato, di essere l’erede e quindi la continuazione della rivoluzione tecnico-scientifica che caratterizza il pensiero moderno. Se, come è giusto, il presente pone i suoi quesiti alla storia, la crisi epocale del 19891992 ha liberato la storiografia dagli impacci legati a fini politici contingenti per rispondere alla domanda di cui qui interessa conoscere la risposta: quale è stato l’impatto della rivoluzione d’Ottobre in Italia? Nel titolo della sezione l’Italia ha la precedenza, essendo stata essa ad essere colpita dall’ondata rivoluzionaria. È bene precisare che per impatto qui si intende l’insieme delle reazioni immediate, di breve periodo, comprese tra guerra e immediato dopoguerra. Le domande a cui la sezione intende rispondere sono diverse dal tema dell’influenza politica esercitata dalla rivoluzione d’Ottobre nel lungo periodo, la cui rilevanza è vissuta fino alla crisi epocale del 1989-1992. Il termine ad quo della periodizzazione adottata non può che essere il 1917, il termine ad quem è lasciato indeterminato. E ne spiegherò le ragioni.
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Nota del Curatore
Ma, giunti a questo punto, è bene presentare come sia strutturata la sezione. Essa si compone di due sezioni distinte. La sezione dal titolo L’Italia e la rivoluzione d’Ottobre ospita una serie di contributi affidati ad Autori che sono specialisti nel loro settore di studi. Alcuni saggi sono vere e proprie ricerche condotte su fonti archivistiche, altri fanno il punto sul dibattito storico-critico nel campo della storia delle idee. Tutti i contributi presentano caratteri di originalità e novità interpretative. La sezione dal titolo La rivoluzione d’Ottobre in prospettiva storica ospita le riflessioni di alcuni studiosi sulle categorie d’analisi che si erano dimostrate sbagliate, o avevano dato luogo a rimozioni pregiudicandone la comprensione, prima di essere sconfitte dalla storia, tenuto conto che tutto ciò avviene sotto gli occhi dell’Occidente. E queste riflessioni sono svolte alla luce della crisi epocale del 1989-1992, richiamata insieme alla coeva interpretazione della nuova storiografia russa. L’articolo che apre la sezione si deve intendere come un’introduzione generale al tema. Ciò ne giustifica la lunghezza. Esso serve a dare continuità all’impatto prodotto dal 1917 russo in Italia. L’ondata della rivoluzione di Febbraio, eminentemente politica, si abbatté sulla condotta della guerra e sulla politica estera del governo italiano; l’ondata della rivoluzione d’Ottobre, prevalentemente sociale, investì masse e classi dirigenti in cerchi concentrici sempre più ampi, suscitò ideologie e miti politici. In ciò sta l’universalità della rivoluzione d’Ottobre. I contributi che si sviluppano su questa traccia per così dire “assiale” contribuiscono a creare – metaforicamente – le diramazioni dell’albero frondoso che abbiamo voluto piantare, in altri termini a rendere conto della complessità del fenomeno che abbiamo voluto rappresentare. Il bolscevismo alimentò tanto le identificazioni – il bocci-bocci, o “bolscevismo all’italiana” – quanto le contrapposizioni, cioè l’antibolscevismo militante, anteriore al fascismo. Sviluppò tanto la lotta per fondare in Italia l’immagine della nuova Russia, quanto stimolò la produzione letteraria degli emigrati russi. Si innestò nel dibattito politico italiano, costringendo le diverse culture politiche dell’Italia prefascista a fare i conti con il nuovo pensiero: i liberali nelle loro varie articolazioni, la sinistra non marxista – anarchica e repubblicana – quindi i cattolici e la stessa Santa Sede. Mussolini per primo ne subì il fascino e la repulsione. E soprattutto il bolscevismo piegò alla sua cifra le varie anime del partito socialista. La polemica sviluppata sull’esistenza delle condizioni rivoluzionarie in Italia si rispecchia sullo sfondo dello scontro – allora ignorato in Italia – che tra il febbraio e l’ottobre 1917 impegnò le correnti del marxismo russo sugli sbocchi della loro rivoluzione. La varietà dei contributi della sezione monografica non deve essere scambiata per eterogeneità. Tutti concorrono ad un unico centro: a dimostrare l’impatto determinante giocato dalla rivoluzione d’Ottobre sul corso della politica italiana nel primo dopoguerra. Non solo in virtù d’un gioco di specchi e della pedagogia dimostrativa. I bolscevichi non erano dei socialisti filosofici, ma uomini d’azione acquisiti al leninismo. I loro agenti diffusero in Italia la prassi scientifica della politica del proletariato tesa con tutti i mezzi a conseguire il fine – la conquista del potere – incuranti della gradualità delle conquiste. Ciò segnò la rottura storica con il riformismo. I riformisti, gli allora dileggiati “Turati e soci”, capirono che la posta in gioco in Italia, a prescindere da come si presentava in Russia, era tra la democratizzazione dello Stato liberale e la restaurazione autoritaria. Le incertezze dei riformisti, il nullismo dei massima-
Nota del Curatore
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listi e la scissione dei comunisti fecero fallire l’unica prospettiva possibile ed auspicabile presente nella coscienza politica dell’epoca. Per questo ho consapevolmente evitato il riferimento ad quem, al 1921: avrebbe comportato trattare diffusamente il problema della scissione di Livorno. La sezione ne contiene la premessa concettuale – il mito della rivoluzione d’Ottobre crea il partito comunista, non è il partito comunista a creare il mito della rivoluzione d’Ottobre. La scissione di Livorno esorbita da questa indagine: proviene da una storia in parte interna al partito socialista, che non si risolve senza residui nella sola rivoluzione d’Ottobre. E avrebbe avuto bisogno di essere completata nei suoi effetti. I comunisti rompendo l’unità del movimento operaio, con l’illusione di forzare i rapporti di forza tra le classi, non avrebbero poi fatto la rivoluzione, ma inconsapevolmente fecero da levatrice ad un fenomeno nuovo, fondato sul rifiuto del liberalismo come dell’esperienza sovietica, con un seguito di massa, passivo o meno, alla edificazione di un nuovo totalitarismo. Tutto ciò aspetta il prossimo centenario per essere trattato compiutamente – ammesso che interessi a qualche storico ricostruire la guerra civile all’interno della sinistra italiana, che infiniti addusse lutti agli italiani. Lo scheletro, o meglio lo schedario dei temi della sezione, qui anticipato, non ha certo la pretesa di abbracciare tutto il fenomeno e presenta alcune lacune. Di una in particolare mi sono reso conto e riguarda la “rivoluzione e le false notizie” – tanto per parafrasare Marc Bloch – su cui si costruirono i miti e gli anti-miti sovietici. Per questa parte non ho trovato l’interprete. Chiudendo questa nota, non mi resta che ringraziare ciascuno degli Autori, il Direttore degli Annali della Fondazione Ugo La Malfa, la Redazione, per il contributo da loro dato alla realizzazione della sezione. Giorgio Petracchi Pistoia, aprile 2017
L’Italia e la rivoluzione d’Ottobre
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Giorgio Petracchi
L’impatto della rivoluzione russa e bolscevica in Italia tra guerra e primo dopoguerra
Il 6 novembre 1917, un martedì, erano convenuti a Rapallo, oltre a Vittorio Emanuele Orlando – Presidente del Consiglio dal 30 ottobre – e al Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, i primi ministri di Francia e Gran Bretagna, Painlevé e Lloyd George, con un seguito numeroso di generali e d’esperti. Per due giorni il Consiglio interalleato, in riunione d’emergenza, esaminò la situazione italiana e quella più generale dell’Intesa alla luce del disastro di Caporetto e della Russia di Kerenskij. Sotto l’incubo della rotta di Caporetto, Sonnino accettò la costituzione del Supremo Consiglio di Guerra alleato. Su un punto, però, Sonnino e Orlando s’irrigidirono, là dove l’art. 1 prevedeva la possibilità per la Russia di partecipare al Consiglio supremo: «Bisogna guardare le cose in faccia – esordì Sonnino – Possiamo fidarci nelle presenti torbide circostanze del governo russo? [...] Possiamo noi predisporre dei piani di guerra alla presenza, per esempio, di un delegato del Soviet?»1. É bene precisare che la Russia a cui si riferiva Sonnino, non era la Russia bolscevica. Si trattava – e la puntualizzazione non è senza significato – della Russia di Kerenskij. Nessuna informazione era giunta a Rapallo il 7 novembre – 25 ottobre secondo il calendario russo vecchio stile – della riuscita occupazione del Palazzo d’Inverno da parte dei bolscevichi, né il giorno dopo al convegno di Peschiera, alla presenza di Vittorio Emanuele III. Nessuno ancora sapeva del cambiamento di regime in corso in Russia. Soltanto dopo il loro ritorno a Roma, i ministri italiani raccolsero notizie frammentarie sugli avvenimenti decisivi a Pietrogrado. Ma gli elementi raccolti non bastavano a farsi un’idea della nuova situazione. L’ambasciata italiana comunicava ad intermittenza, tacque addirittura per diversi giorni. La corrispondenza fra Pietrogrado e Roma ritornò a farsi più regolare soltanto dopo il 17 novembre. La stessa incertezza aleggiò sui ministri francesi e inglesi. Fintanto che furono assenti dalle loro rispettive capitali, nulla seppero dei giorni decisivi a Pietrogrado. Il governo francese, inoltre, era dimissionario dal 28 ottobre e da Parigi non venne nessuna apprezzabile reazione fino al 15 novembre. La prima risposta alla rivoluzione d’Ottobre venne, infatti, dalla nomina a Presidente del Consiglio e a Ministro della Guerra di Georges Clemenceau, il più risoluto avversario dell’estrema Sinistra sia interna sia internazionale2. In Inghilterra, il Gabinetto non ebbe notizie precise sui fatti di Pietrogrado fino al 9 novembre 1 Luigi Aldrovandi Marescotti, Guerra diplomatica. Ricordi e frammenti di diario, 1914-1919, Mondadori, Milano 1938, p. 165. 2 Maxime Mourin, Les relations franco-soviétiques, 1917-1967, Payot, Paris 1967, p. 58.
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e anche dopo non fu fatto alcun serio tentativo per interpretarli. Quel giorno Lord Milner aveva annotato sul suo diario che le notizie in arrivo dalla Russia e dall’Italia erano cattive e complicavano la guerra dell’Intesa3. Crisi e rottura delle relazioni tra l’Italia e la Russia di Kerenskij Nei verbali del Consiglio alleato colpisce sicuramente l’anacronistico riferimento ad una Russia che ormai il 7 novembre 1917 aveva cessato d’esistere dopo il colpo di Stato attuato da Lenin e Trockij. Ma colpisce ancora di più la circostanza che gli uomini di governo e i generali alleati concordassero tutti nel riconoscere che l’apporto della Russia alla guerra era passivo. Il generale boero Smuts, membro del Gabinetto di guerra britannico, ammise, candidamente, che la Russia cercava un’occasione per uscire dal conflitto. Nessuno di essi, però, voleva per il momento formalizzare una tale rottura, né offrire a Kerenskij l’occasione che andava cercando. Eccetto gli italiani. Sonnino e anche Orlando considerarono la rottura con la Russia rivoluzionaria come intervenuta di fatto. In fondo, l’Italia aveva già scontato i frutti della “defezione” russa prima dell’Ottobre4. E nel corso della conferenza i ministri italiani motivarono, senza giri di parole e cautele diplomatiche, i danni e i contraccolpi subiti dall’Italia: diplomatici, sociali, militari. Prima che Lenin e Trockij prendessero il potere a Pietrogrado, il governo italiano aveva richiamato, senza nominare il sostituto, l’ambasciatore Andrea Carlotti di Riparbella, in Russia dal 1913. Il quale, ironia della sorte, lasciò Pietrogrado il 7 novembre 1917 – 25 ottobre secondo il vecchio calendario russo. Sonnino gli imputava di tutto: d’aver letto la rivoluzione secondo i canoni del «modello liberale», di non aver seguito il conflitto interno alla rivoluzione aperto dal manifesto del 27 marzo del Soviet di Pietrogrado, di non aver capito che la pace e il pane erano le aspirazioni del popolo russo, di aver dato di Lenin l’immagine sfocata di un utopista senza seguito5. E, tra le due Russie in lotta, di aver sposato la tesi «Kerenskij (ordine)-Lenin (disordine)», a conclusione del fallito moto bolscevico del luglio 1917 a Pietrogrado6. Insomma gli imputava gli indirizzi sbagliati presi dal governo in politica interna ed estera. E anche i propri errori. Come l’aver sostenuto alla Camera, nella tornata del 16 marzo 1917, che la rivoluzione, agli effetti della guerra, era diretta non
3 Richard H. Ullman, Anglo-Soviet Relations, 1917-1921. Intervention and the War. Vol. 1, Princeton University Press, Princeton 1961, p. 19. 4 Cfr. Giovanna Procacci, Dalla Russia notizie sempre peggiori, “La Fiera Letteraria”, marzo 1967, p. 12. 5 «Lenin è qui arrivato avantieri accolto da un migliaio dei suoi aderenti con entusiasmo. Recatosi al Consiglio operaio vi pronunziò un discorso di carattere massimalista che agli stessi suoi adepti apparve esagerato»: Carlotti a Sonnino, telegramma n. 301, Pietrogrado, 18 aprile 1917, Archivio Centrale dello Stato (ACS), Carte Boselli, b. 9, fasc. 84 – il telegramma non è riprodotto nella raccolta dei Documenti Diplomatici Italiani (DDI), Serie V, Vol. VIII. D’altra parte, anche il “Corriere della Sera” dette di Lenin un’immagine negli stessi termini. Cfr. Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffrè, Milano 1976, p. 100. 6 Carlotti trasmise – per corriere n. 1316/328, 8 agosto 1917 – l’istruttoria del tribunale di Pietrogrado relativa alle accuse rivolte a Lenin quale agente al soldo della Germania, pubblicata dal giornale pietrogradese in lingua francese “l’Entente”, L’affaire des Leninistes, il 26 luglio 1917: cfr. Archivio Storico Ministero Affari Esteri (ASMAE), Russia Affari Politici (A.P.), 1915-1918, b. 172.
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verso «un rallentamento ma verso una sempre più intensa e più energica prosecuzione delle operazioni belliche»7. Sotto l’incalzare dell’interrogativo “che faranno i russi?”, erano stati versati in Italia fiumi d’inchiostro e intere colonne di piombo andarono fuse, senza particolare cognizione di causa. Di tante opinioni generiche e coloristiche formulate, la più improbabile risultò l’interpretazione sostenuta da “Il Fronte Interno”, l’organo dei Comitati d’Azione interventisti, secondo la quale se il popolo italiano aveva fatto «le sue giornate di maggio», il popolo russo faceva ora «le sue giornate di marzo»8. Dietro tante narrazioni contraddittorie non stava la realtà. La rivoluzione si alimentava da circostanze che lavoravano per la rivoluzione, non per la guerra. E mentre fiaccava quel che rimaneva dell’efficienza bellica della Russia, creava una serie di nuovi problemi che avrebbero cambiato le basi alla politica di guerra dell’Italia e tolto sicurezza a Sonnino e a tutti gli interventisti. I problemi nuovi posti dai fatti russi iniziarono con la ricostituzione della Polonia, che spalancò le porte alla politica delle nazionalità; continuarono con la formula “né indennità, né annessioni”, che demoliva la piattaforma diplomatica con cui l’Italia era entrata in guerra, il Patto di Londra; culminarono con l’additare all’Europa l’esempio d’un paese che muoveva «guerra all’ordine politico e sociale interno, per instaurare la pace col nemico»9. Sulla Russia rivoluzionaria si appuntarono gli sguardi dei socialisti italiani, i quali si attivarono per aprire le porte dell’Italia alla sua influenza. Il 12 luglio 1917, l’on. Treves tenne alla Camera un ampio discorso nel corso del quale raccomandò a Sonnino, in procinto di recarsi alla conferenza interalleata di Parigi, di appoggiare le proposte avanzate dal governo provvisorio russo e di rivedere gli accordi che avevano preceduto guerra. E concluse il suo discorso con la voce che saliva da tutte le trincee come un ultimatum: «il prossimo inverno non più in trincea»10. La censura lasciò che i giornali pubblicassero il discorso e la frase ebbe una vasta ripercussione anche nelle trincee. Intanto, nelle officine torinesi si gridava alternativamente, come fossero sinonimi, “fare come in Russia” e “Viva Lenin!”. Nell’agosto gli inviati dei Soviet, gli “argonauti della pace” Josif Petrovič Gol’denberg, Vladimir Michajlovič Smirnov, Nikolaj Sergeevič Rusanov, Henryk M. Erlich, arrivarono in Italia dalla Francia, dove avevano ricevuto accoglienze piuttosto fredde. Orlando, all’epoca Ministro degli Interni, ne aveva favorito l’ingresso, considerandoli rappresentanti del “marxismo blando”. Li aveva forse scambiati, sulla base delle contraddittorie informazioni di Carlotti11, per riformisti bissolatiani e, come Bissolati, amici dell’Intesa e favorevoli alla continuazione della guerra. «Amici dell’Intesa?», aveva replicato Cadorna,
7 Sidney Sonnino, Discorsi Parlamentari. Vol. III, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1925, Tornata del 16 marzo 1917, p. 557. 8 Gian Francesco Guerrazzi, Evviva il popolo russo, “Il Fronte Interno”, 18 marzo 1917. Cfr. Giorgio Petracchi, Diplomazia di guerra e rivoluzione, Prefazione di Rodolfo Mosca, il Mulino, Bologna 1974, p. 95. 9 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917, dall’Isonzo al Piave, Libreria d’Italia, Milano-Roma s.a. [ma 1930], pp. 48-49. 10 Alberto Malatesta, I socialisti italiani durante la guerra, Mondadori, Milano 1926, p. 147. 11 Nel telegramma del 2 luglio, Carlotti li aveva presentati come appartenenti alla maggioranza del Soviet; quattro giorni dopo come «minoritari e in principio favorevoli al governo provvisorio» – DDI, Serie V, Vol. VIII, NN. 524, 561.
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Giorgio Petracchi
Ma che favola è questa? Perché dobbiamo ingannarci solo per il piacere d’ingannarci? Bisogna essere pazzi per credere ad una Russia ancora amica dell’Intesa. Se la Russia fosse amica dell’Intesa comincerebbe a combattere. Manderebbe generali per studiare insieme con noi il modo di portare la guerra a buon fine. Invece calano a Torino i messaggeri della pace bolscevica per incontrarsi con quell’analfabeta di Barberis, con Serrati, con Maria Giudice e compagnia12.
Alla frontiera italiana questi “argonauti” vennero presi in consegna dai socialisti ufficiali e accolti da manifestazioni popolari entusiastiche. Il 5 agosto 1917 dal balcone della Casa del Popolo di Torino, Smirnov e Gol’denberg tennero «una confusa concione alla fine della quale una marea di quarantamila persone (il comizio all’aperto era stato vietato, ma la polizia, ligia ai suggerimenti del Ministro dell’Interno, chiuse un occhio) vociarono il loro entusiasmo per la rivoluzione russa e per Lenin»13. In realtà, commentò Colajanni sarcastico, si mostravano poco dissimili dai Lenin, dai Trockij e da tutti gli altri disfattisti14. Lo stesso Gol’denberg, perduto il treno delle ore 15.00 per Roma, fu invitato a parlare alla Camera del Lavoro. Alla presenza di 100 militanti del PSI «confidò che il vero scopo del loro viaggio [era] quello di sommuovere i compagni, affinché capeggino il moto per l’abbattimento dei troni e degli altari»15. I due delegati tornarono ancora a Torino il 13 agosto. Gol’denberg tenne un concitato comizio in francese. Giacinto Menotti Serrati, che lo tradusse assai liberamente, trasformò l’impostazione genericamente pacifista del russo in un invito ad intensificare l’azione proletaria per porre fine alla guerra: «benzina sparsa in un pagliaio»16. Non senza ragione, Sonnino avrebbe accusato i delegati del Soviet di essere stati «propagandisti di pacifismo ad oltranza e di tradimento militare»17. E rimproverò a se stesso l’eccessiva condiscendenza verso gli Alleati e verso la blanda condotta dell’ordine pubblico in Italia: «Restar ministro anche con Orlando è stato eroico», confessò a Ferdinando Martini dopo l’armistizio18. Lo stesso Orlando avrebbe poi ammesso che «in quell’occasione si lasciò correre»19. Nello stesso mese di agosto del 1917 seguirono altri fatti che suscitarono nel governo le più gravi apprensioni. L’iniziativa diplomatica che Benedetto XV aveva rivolto ai capi dei popoli belligeranti, con la lettera papale del 1° agosto, per indurli a una pace di compromesso, era fallita. E cosa rimase presso il grande pubblico di quella Nota papale, quando se
12 Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave. Lettere clandestine di un corrispondente di guerra, Mondadori, Milano 1966, pp. 131-132. Rino Alessi era il giornalista de “Il Secolo” accreditato presso il Comando Supremo dell’Esercito Italiano a Udine. 13 Mario Silvestri, Isonzo 1917, Einaudi, Torino 1965, p. 201. 14 Cfr. Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, p. 45. 15 Gol’denberg aveva parlato in francese e in russo, tradotto da un professore non identificato, ma non sovversivo, invitato per l’occasione come interprete. Il documento è riprodotto in “Storia e Dossier”, inserto redazionale allegato al n. 16, marzo 1988, p. 50. 16 Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1972, p. 412. 17 Sidney Sonnino, Carteggio. Vol. 2: 1916-1922, a cura di Piero Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 355. 18 Ugo Ojetti, I taccuini, 1914-1943, Sansoni, Firenze 1954, p. 79. 19 Vittorio Emanuele Orlando, Memorie, a cura di Rodolfo Mosca, Mondadori, Milano 1960, p. 515.
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ne conobbe il contenuto? Solo una frase. Quella che condannava quella guerra tremenda, «la quale ogni giorno più apparisce una inutile strage»20. Perfino l’“Avanti!” esultò e scrisse: «Benedetto XV parla il linguaggio di Zimmerwald»21. Il 21-22 agosto Torino insorse per la momentanea mancanza di pane. Le forze dell’ordine non riuscivano a ripristinare l’ordine. Dovette intervenire l’esercito. E a Torino, diversamente che cinque mesi prima a Pietrogrado, dove i reparti militari solidarizzarono con gli insorti, i tentativi dei rivoltosi di far partecipare la truppa all’insurrezione fallirono e i soldati italiani collaborarono attivamente a riportare l’ordine nella città. I gravi scontri, protrattisi per diversi giorni, causarono 41 morti, di cui tre donne e tre militari, e 151 feriti22. Il comportamento dei reparti italiani fu diverso da quello dei reparti russi in circostanze, apparentemente, analoghe. Questa aporia viene spiegata in chiave psicologica: si dice che sui soldati italiani avesse agito il risentimento fortissimo del «fante contadino» contro l’«operaio imboscato»23. Tuttavia, ogni relazione che tra i due fenomeni si volesse stabilire, in chiave sociologica o psicologica, deve tener conto della dimensione storica, ossia della diversità profonda tra la storia russa e quella italiana. Anche negli anni seguenti, come vedremo, per quanto la lettura ideologica della realtà abbia teso ad omologare i contesti russo ed italiano, premesse in apparenza analoghe avrebbero prodotto conseguenze diverse od opposte. Tuttavia, più di tutte le novità politiche e psicologiche provenienti dalla Russia, fu la crisi dell’esercito russo a rendere la situazione dell’Italia assai delicata: perché materializzò la debolezza strutturale del fronte italiano. In quella congiuntura, Sonnino acquisì lucida consapevolezza d’una responsabilità del tutto soggettiva: quella d’aver precipitato l’intervento dell’Italia sul presupposto che la decisione della guerra continentale sarebbe dipesa dall’esercito russo24. E gli sarebbe stato rinfacciato che la fiducia nella Russia era la causa principale della bancarotta della sua politica25.
20 La lettera, fu spedita a Londra, in via riservata, mentre gli alleati erano in congresso. Ma giunse solo il 9 agosto, a congresso concluso e nei giorni seguenti fu comunicata dal Foreign Office ai governi alleati. Il 14 agosto arrivò al governo italiano. Indiscrezioni raccolte dalla stampa, la trasformarono in un documento pubblico e quindi il 17 agosto fu pubblicata dall’“Osservatore Romano” per fare chiarezza. Cfr. Enrico Serra, La nota del 1° agosto 1917 e il governo italiano: qualche osservazione, in Benedetto XV e la pace, 1918, a cura di Giorgio Rumi, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 50-51. Sulle risposte alleate alla Nota, si veda Angelo Martini, La Nota di Benedetto XV alle potenze belligeranti nell’agosto 1917, in Benedetto XV, i cattolici e la prima guerra mondiale, a cura di Giuseppe Rossini, Edizioni Cinque Lune, Roma 1963, pp. 380 sg. 21 Emilio Faldella, Caporetto. Le vere cause di una tragedia, Cappelli, Bologna 1967, p. 82. 22 Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista… cit., p. 432, nota 2. 23 Cfr. Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana tra il 1917 e il 1920, relazione al VI Convegno degli storici italiani e sovietici (Venezia, 2-5 maggio 1974), s.e., s.a., p. 12. Con questo titolo la relazione è, a mia conoscenza, inedita. 24 Sonnino lo “confessò” a Salandra nel momento in cui la Russia cominciava ad essere «la grande incognita». Cfr. Antonio Salandra, Il diario di Salandra, a cura di Giambattista Gifuni, Pan, Milano 1969, p. 95. 25 Comitati segreti sulla condotta della guerra, giugno-dicembre 1917, Archivio Storico della Camera dei Deputati, Roma 1967, intervento dell’on. Giuseppe Emanuele Modigliani, socialista, nella seduta del 14 dicembre 1917, pp. 159 sg.
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Fino al crollo militare della Russia, l’Austria-Ungheria schierava sul fronte italiano soltanto il 40% del proprio esercito; il 60% era schierato sul fronte russo e romeno, là dove anche la Germania schierava 90 divisioni. Dieci offensive sull’Isonzo erano state lanciate da Cadorna potendo contare sul fatto che l’esercito austro-ungarico era prevalentemente impegnato sul fronte orientale. Durante la preparazione dell’undicesima offensiva sull’altipiano della Bainsizza – 17-30 agosto 1917 – Cadorna ricevette informazioni d’un movimento di truppe austro-ungariche dal fronte russo-romeno a quello italiano. Il 6 giugno ne quantificò il numero in una lettera a Boselli: tre divisioni e mezzo già trasferite, altre cinque in viaggio, altre otto probabilmente in corso di trasferimento26. Il 7 giugno avrebbe informato anche Foch e Robertson, aggiungendo che si erano rese disponibili anche 18 divisioni tedesche e, prevedibilmente, alcune di esse avrebbero potuto essere impiegate sul fronte italiano27. Ciononostante continuò alacremente i preparativi dell’offensiva. Nessuno, né il Ministro della Guerra, né il Presidente del Consiglio, né Sonnino, pur essendo contrari all’offensiva, osò opporvisi: «C’è di che rimanere stupefatti»28 è il commento dello storico. Successivamente, per non aver cambiato sistema e per non aver assunto allora un atteggiamento difensivo, Cadorna fu accusato di tardiva valutazione del crollo russo29. Il collasso dell’esercito russo divenne evidente – ed inarrestabile – il 3 settembre 1917, dopo la presa tedesca di Riga. Cadorna fu visto sbiancare in volto alla notizia che il generale Kornilov aveva fallito nell’impresa di restaurare la disciplina nell’esercito e l’ordine nel paese: «Era sulla porta del palazzo, gli giunse il telegramma; impallidì; disse: abbiamo perduto ogni speranza. Era il 18 settembre»30. Allora diramò alla II e alla III Armata l’ordine di assumere un atteggiamento nettamente difensivo. Aveva acquisito la certezza che l’Italia sarebbe stata il nemico principale dell’Austria-Ungheria31. Il Capo di Stato Maggiore austriaco, generale barone von Arz, aveva chiesto l’aiuto tedesco per lanciare un’offensiva sul fronte dell’Isonzo, divenuta necessaria dopo la presa dell’altopiano della Bainsizza con l’undicesima battaglia32. La richiesta venne accolta dal governo tedesco per mantenere l’Austria-Ungheria in guerra dopo i sondaggi di pace intercorsi tra Vienna, Parigi e Londra. L’accordo tra la Germania e l’Austria-Ungheria fu sottoscritto il 22 ottobre 191733. Due giorni dopo scattò l’offensiva a Caporetto. La rotta dell’esercito italiano a Caporetto affonda le sue premesse nello spostamento – e svuotamento – dal fronte russo a quello italiano delle truppe austro-tedesche, che costituirono la massa offensiva della XIV Armata, al comando del generale germanico Otto von Luigi Cadorna, La guerra alla fronte italiana (24 maggio 1915-9 novembre 1917). Vol. II, Fratelli Treves, Milano 1921, p. 87. 27 Emilio Faldella, La grande guerra. Vol. I. Le battaglie dell’Isonzo (1915-1917), Longanesi, Milano 1978, p. 309. 28 Ibid., p. 316. 29 Cfr. Vittorio Emanuele Orlando, Memorie, cit., pp. 133 sg. 30 Angelo Gatti, Caporetto. Diario di guerra, il Mulino, Bologna 1997, p. 210. 31 Cadorna comunicò il suo convincimento alla figlia Carla e alla moglie Ninetta in due lettere, datate 16 e 18 settembre 1917: vedi Luigi Cadorna, Lettere famigliari, a cura di Raffaele Cadorna, Mondadori, Milano 1967, pp. 220, 222. 32 Cfr. Gerhard Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna. Vol. 3. Il sopravvento del militarismo e il crollo dell’impero: 1917-18, tr. it., Einaudi, Torino 1973, p. 46. 33 Cfr. Fritz Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, tr. it., Einaudi, Torino 1965, p. 547. 26
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Below e del suo Capo di Stato Maggiore Konrad Krafft von Dellmensingen: 6 divisioni germaniche ritirate da Riga, più l’Alpenkorp, 8 divisioni austro-ungariche, tra rincalzi e riserve, insomma il fior fiore dei due eserciti. L’attacco concentrato sulla destra dell’Isonzo, da Plezzo e da Tolmino, e la nuova tattica d’infiltrazione del generale von Hutier, fanno di Caporetto essenzialmente «un fatto militare»34, anche se, concludiamo con Piero Pieri, «un fenomeno come Caporetto è troppo complesso perché si possa spiegare con una sola causa, e della depressione morale del momento non si può non tener conto, salvo a considerare a quale categoria di disfattisti – socialisti, giolittiani, clericali – essa spetti soprattutto, e se non vi abbia avuto parte anche il cattivo governo del soldato al fronte»35. Il ripiegamento sul Piave, d’altronde, «era la classica linea di resistenza per l’esercito italiano, nel pensiero del suo Stato Maggiore. Saletta aveva stabilito sul quel fiume lo schieramento, in caso di guerra con l’Austria»36. Purtroppo, la ritirata dall’Isonzo al Piave fu precipitosa e si verificò in modo caotico, senza che «alle strade, ai ponti, ai bivi spesso non ci [fossero] gli incolonnatori»37, di modo che le truppe rimasero talvolta senza ordini. Caporetto e rivoluzione bolscevica: “disfattismo”, “passività”, “resistenza” La crisi di Caporetto conteneva sorprendenti analogie – e straordinarie implicazioni rivoluzionarie – con la precedente esperienza russa. Dalla primavera all’autunno del 1917 si era discusso molto di rivoluzione in Italia. Numerose, seppure confuse – e anche sanguinose – erano state le dimostrazioni popolari contro la guerra. Gli interventisti ad oltranza temevano la diffusione di sentimenti disfattisti ed erano esacerbati per la blanda gestione dell’ordine pubblico praticata dall’uomo della transigenza con i socialisti e con i giolittiani, il Ministro Orlando. Alle prime notizie del colpo di Stato leninista, il nuovo governo mise in quarantena tutto ciò che arrivava dalla Russia, nel tentativo di circoscrivere la diffusione dell’«insidioso contagio delle parole». La censura intervenne pesantemente. Le notizie furono limitate ai soli comunicati dell’agenzia Stefani, ampiamente purgati38, dopo che i bolscevichi si furono impadroniti dell’agenzia ufficiale telegrafica. Le notizie trapelarono comunque in vari modi. Circolarono anche false notizie che trasmettevano l’impressione che il governo bolscevico fosse sempre sull’orlo del collasso. Esse andrebbero, perciò, analizzate per ciò che rivelavano delle attese profonde d’una nazione in guerra. Sarebbero occorsi mesi al formarsi di un quadro anche solo approssimativo della rivoluzione d’Ottobre e dei suoi sviluppi.
Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit., p. 8. Piero Pieri, La prima guerra mondiale, 1914-1918. Problemi di storia militare, Gheroni, Torino 1947, p. 264. 36 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit. p. 85. Il generale Tancredi Saletta era stato nominato Capo di Stato Maggiore nel 1896. 37 Angelo Gatti, Caporetto… cit. p. 264. 38 Una prima circolare proibì qualsiasi commento e qualsiasi evidenza tipografica che accentuasse la gravità dei fatti; la seconda consentì commenti sulla situazione russa purché intonati a criteri non allarmistici. Cfr. Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche, 1917-1925, Prefazione di Renzo De Felice, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 294, nota 98. 34 35
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Il disastro di Caporetto poteva travolgere tutto e tutti e precipitare l’Italia in una “situazione alla russa”, anzi peggiore, perché avrebbe condotto il Paese alla fame. Era la preoccupazione di Nitti. L’Italia infatti doveva ricevere dagli Alleati 30 milioni di quintali di grano all’anno, 60 milioni di quintali di carbone e prestiti ingenti di cui Nitti conosceva l’entità39. Il Ministro del Tesoro sosteneva da tempo che la rivoluzione in Italia non avrebbe potuto verificarsi «senza che [avvenisse] la più terribile jacquerie che la storia ricordi»40. Il Comando Supremo era informato dall’Arma dei carabinieri sull’attività sotterranea che, nei centri industriali dell’alta Italia, andavano svolgendo «i più scalmanati socialisti, appartenenti alla corrente massimalista, e ad un nascente filocomunismo di marca bolscevica»41. I disordini di Torino erano stati sedati, ma «il fuoco cova sotto la cenere», scriveva Cadorna alla figlia Carla42. Il Comando Supremo era preoccupato che scioperi e sabotaggio creassero profonde incrinature nello spirito pubblico. Cadorna aveva cercato di tener separato il fronte militare dalle influenze del fronte interno; ma per sua stessa ammissione la chiusura non era stata ermetica. Il 31 ottobre, ancora sotto lo stato d’animo della disfatta, scrisse di getto alla sorella Maria: «Caporetto è stato un vero fenomeno di leninismo alla russa. I soldati obbedendo evidentemente ad una parola d’ordine, non si rivoltano, ma buttano le armi e si sbandano. Insomma, è stata una vera catastrofe prodotta dagli infami che hanno avvelenato il paese e l’esercito»43. Bissolati, in preda allo stesso sconforto, avrebbe parlato di «sciopero militare»44. Entrambe le versioni, espresse a caldo, nell’ignoranza di tanti risvolti della battaglia, fornirono, poi, una copertura agli errori e alle insufficienze degli alti comandi. Cadorna sarebbe andato assai più vicino alla verità se avesse indicato nello stato d’animo delle truppe in ritirata il terreno favorevole all’innesto d’un fenomeno leninista. L’Italia era davvero sull’orlo della catastrofe. Qualche giorno dopo Bissolati sarebbe ritornato sulla sua prima versione, correggendola. Le ragioni della sconfitta gli apparvero più complesse del semplice sciopero militare. Parlando con Olindo Malagodi cercò d’interpretare la stupefacente mentalità dei fuggiaschi: «Pareva che ai soldati fosse dato di volta il cervello; cantavano l’Inno dei Lavoratori, ed una nuova canzone: Addio mia bella addio, la pace la fo’ io [...]. Vi furono episodi disgustosi […]. Sono in una condizione morale che non avrei mai immaginata: niente rivoltosità [sic], ma qualche cosa tra lo stupido e l’astuto [...]. Che sia proprio questa l’Italia delle masse, e noi dei poveri Don Chisciotte in cerca di avventure ideali?»45. Lo sfaldamento dell’esercito spiegato in termini psicologici, non esclusivamente militari, aiuta a comprendere come la guerra fosse percepita dagli interventisti non solo come uno scontro armato, ma anche come un confronto d’energie morali. La disfatta di Caporetto, perciò, prima che come un fatto puramente militare fu vissuta e sentita come una Comitati segreti sulla condotta della guerra… cit., p. 190. Intervento dell’on. Marcello Soleri, liberale giolittiano, nella seduta del 17 dicembre 1917. 40 Alberto Monticone, Nitti e la grande guerra (1914-1918), Giuffrè, Milano 1961, p. 124, nota 29. 41 Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave… cit., p. 130. 42 Luigi Cadorna, Lettere famigliari, cit., p. 217, alla data del 29 agosto 1917. 43 Ibid., p. 236, alla data del 31 ottobre 1917. 44 Mario Silvestri, Isonzo 1917... cit., p. 467. 45 Olindo Malagodi, Conversazioni della guerra, 1914-1919, Vol. I. Da Sarajevo a Caporetto, a cura di Brunello Vigezzi, Ricciardi, Napoli 1960, pp. 193, 194, 196. Cfr. anche Ugoberto Alfassio Grimaldi-Gherardo Bozzetti, Bissolati, Rizzoli, Milano 1983, pp. 229 sg. 39
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sconfitta “morale” della Nazione. «Quasi che proprio questa non fosse una diagnosi ancor più terribile per noi» avrebbe commentato un altro interventista democratico, Gaetano Salvemini. E proseguendo sulla stessa falsariga, egli considerò la resistenza dell’esercito italiano opposta al nemico sul Piave, prima che una vittoria militare, una vittoria morale del popolo italiano, che «si è rivelato a se stesso e al mondo capace di resistere nel suo insieme a qualunque più duro disastro»46. Giovanni Spadolini avrebbe poi rafforzato lo stesso concetto scrivendo che «l’unità italiana si cementò a Caporetto molto più che a Vittorio Veneto»47. Caporetto fu, dunque, un trauma, ma anche una scossa salutare. La sconfitta provocò un sussulto che richiamò la maggioranza del ceto politico – e forse la maggioranza degli italiani – all’unità e alla resistenza. E un’occasione per un esame di coscienza. Un gruppo di noti intellettuali costituì il Comitato del riesame nazionale e si propose d’interpretare tutta la storia nazionale alla luce di quell’avvenimento48. «La pigliavano di lontano» ironizzò Gioacchino Volpe, «e rivangavano tutta la storia d’Italia, presentandola quasi come teologicamente [sic] orientata verso Caporetto»49. In quest’esame di coscienza una vecchia Italia bruciò, un’altra meno provinciale emerse, quella che aveva una visione meno “egoistica” della guerra. Un centinaio di deputati si costituì «in un fascio di difesa nazionale»50 per combattere quello che essi chiamavano il disfattismo parlamentare. L’opinione pubblica interventista, ma anche cattolica e giolittiana, fino a comprendere il riformismo socialista, alzò una barriera psicologica ad ogni altro avvenimento che non avesse carattere nazionale e patriottico. La sconfitta di Caporetto e la rivoluzione bolscevica segnarono anche la progressiva conversione di Mussolini – e di una parte dei sostenitori della tesi della “guerra rivoluzionaria” – su posizioni nettamente antisocialiste e patriottarde. La reazione provocata dal trauma di Caporetto si può cogliere nella sdegnosa risposta che, nel marzo 1918, Giuseppe Lombardo Radice – un uomo descritto da Arturo Carlo Jemolo come veramente buono, veramente comprensivo – dette dal fronte al giovane Antonio Gramsci che lo invitava, in modo cortese, quasi ammirativo, ad una pacata discussione sui problemi etici e sociali posti dalla guerra: «Il mio posto è quassù, per l’Italia, per l’umanità che non vuole servire la Germania. Mala fede dei socialisti o cieca loro astrattezza, certo è che essi hanno collaborato più o meno coi tedeschi! Oggi non è l’ora delle accademie pedagogiche, ma dell’azione per la Patria e per le Patrie! Viva l’Italia e non dimentichiamo Mazzini!»51. Ancora per mesi, soldati e ufficiali avrebbero continuato a parlare di Lenin e Trockij. Erano perfettamente ragguagliati dalla propaganda nemica delle trattative di pace a Brest-Litovsk. Migliaia di manifestini, inneggianti alla pace e alla fraternizzazione, venivano lanciati ogni giorno dagli aeroplani nelle trincee italiane. Lo stile adottato era quello Beniamino Finocchiaro (a cura di), L’“Unità” di Gaetano Salvemini, Neri Pozza, Venezia 1958, p. 528. Le citazioni sono tratte dall’articolo L’ultima battaglia del 20 novembre 1918. 47 Giovanni Spadolini, La stagione del “Mondo”, 1949-1966, Longanesi, Milano 1983, pp. 25-26. 48 Cfr. Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, 1915-1918, Mondadori, Milano 1998, p. 428. 49 Gioacchino Volpe, Ottobre 1917… cit., p. 212. 50 Ferdinando Martini, Diario, 1914-1918, a cura di Gabriele De Rosa, Mondadori, Milano 1966, pp. 1087 sg. 51 Citata in Arturo Carlo Jemolo, Anni di prova, Passigli, Firenze 1991, p. 138. 46
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bolscevico. I soldati austriaci si rivolgevano direttamente ai soldati italiani e spiegavano: «Noi siamo stanchi della guerra al pari di voi; seguiamo l’esempio del fronte russo; ribellatevi ai vostri ufficiali; passate di qua e riabbracciamoci come fratelli; è giunto il momento in cui i popoli debbono ribellarsi a chi li ha portati al macello per i propri interessi»52. Purtroppo, commenta Rino Alessi, questa propaganda faceva presa. Poco a poco, tuttavia, il morale dell’esercito cominciò a rinsaldarsi grazie a un concorso di circostanze, tra cui l’adozione di misure migliorative dell’esistenza materiale e morale del soldato, nonché l’azione della propaganda indiretta, svolta fra le truppe dagli ufficiali di collegamento. Ancora si sarebbe discusso con passione dei fatti di Russia, ma in una prospettiva rovesciata. Ai fanti fu spiegato che le trattative di Brest-Litovsk non aprivano speranze di pace generale e rinnovamento sociale, ma rappresentavano per loro un inasprimento e un allungamento della guerra53. Le conseguenze della defezione russa, che si scaricavano sui fanti, rovesciarono in negativo il mito della rivoluzione bolscevica. Lo conferma Giuseppe Lombardo Radice, quando scrive: «L’idea che la sconfitta di Caporetto era il prodotto di vaste cause si faceva strada in tutti i cervelli. Chi non arrivava a questa idea semplificava dando la colpa ai Russi: la Russia era maledetta come cagione di ogni rovina»54. L’inizio della primavera segnò la fine della fase ascendente della rivoluzione bolscevica tra i soldati al fronte; il wilsonismo, l’ideologia alternativa al leninismo, consapevolmente diffusa dalla propaganda americana, e abbracciata con convinzione dai repubblicani per contrapporre Wilson a Lenin55, riassorbì le tendenze disfattiste sul fronte interno. Mentre il fronte interventista si rinsaldava e scivolava su posizioni nazionalistiche, il partito socialista era lacerato dalla polemica tra riformisti e intransigenti sulla “resistenza” o sulla “passività” del proletariato di fronte alla crisi di Caporetto. Turati e Treves invitavano il proletariato ad essere solidale con lo spirito di resistenza che si levava dal paese, sia per sensibilità patriottica, sia perché non avrebbero voluto che, estraniandosi dal paese in un’ora tragica, il partito socialista si precludesse la possibilità di collaborazioni politiche future. Serrati, Lazzari, Bombacci, al contrario, non ammettevano nessuna altra forma di resistenza se non contro il capitalismo e nessun’altra lotta che quella di classe. A dividere, in fondo, le due tendenze del socialismo italiano era il diverso giudizio sull’“Ottobre rosso”. I riformisti ritenevano la rivoluzione d’Ottobre una sorta di tentativo blanquista, che non aveva niente a che fare con il socialismo e rischiava, in mancanza di basi oggettive, di trasformarsi in una immensa macchina militare. L’“Avanti!” e la Direzione socialista, all’opposto, leggevano il “febbraio” e l’“ottobre” russi nella sequenza ideologica rivoluzione-borghese-rivoluzione proletaria e consideravano abbreviati – e conclusi – i tempi dell’evoluzione storica56. In quest’ottica, ritennero di non dover cambiare l’atteggiamento d’intransigente avversione alla guerra e, congiuntamente alla frazione rivoluzionaria, riaffermarono le immutate direttive classiste internazionaliste delle conferenze di
Rino Alessi, Dall’Isonzo al Piave… cit., p. 211. Si veda, a questo proposito, Piero Melograni, Storia politica della grande guerra… cit., pp. 464-465. 54 Traggo la citazione dalla relazione di Piero Melograni, Rivoluzione russa ed opinione pubblica italiana… cit., p. 31. 55 Cfr. Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe… cit., p. 111. 56 Si veda l’articolo di C. Bertani, L’esperimento socialista russo, “Avanti!”, 17 dicembre 1917. 52 53
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Zimmerwald e Kiental57. Perché aderire alla guerra dal momento che la rivoluzione bolscevica avrebbe potuto determinare la pace generale e insieme la rivoluzione? La maggioranza del PSI non ebbe, perciò, esitazioni a schierarsi a fianco della rivoluzione d’Ottobre – anche se, in realtà, si trattava d’un colpo di Stato contro un governo formato dagli altri partiti socialisti – così come ad ergersi a difesa del socialismo di Lenin, dittatura d’una minoranza, contro il socialismo dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi, in maggioranza nell’Assemblea costituente. Il 17 dicembre l’“Avanti!” commentò polemicamente le dichiarazioni di Martov, che aveva accusato il carattere utopista del movimento leninista, offrendo un sostegno indiscusso all’esperimento bolscevico58. E censurò, con esplicita deliberazione della Direzione, le corrispondenze giornalistiche che Junior, cioè il socialista russo Sukomlin, spediva da Stoccolma e nelle quali criticava duramente l’operato di Lenin e compagni. Bombacci motivò la censura in questi termini: «Desideriamo che nulla di tutto ciò che può essere di danno ai bolscevichi parta da noi. Bisogna aiutare Lenin con tutte le forze senza polemiche, senza attenuazioni. Se il socialismo si consoliderà, come desideriamo, vedremo poi se vi furono atti e metodi riprovevoli. Oggi i socialisti che non difendono i commissari del popolo sono traditori dell’Internazionale»59. In conclusione, il partito socialista mancò ancora una volta l’occasione per “nazionalizzarsi”: nel 1914 per un’incrollabile fedeltà alle dottrine tradizionali; nel 1917 per intransigente passività, aspettando «che la rivoluzione internazionale e la pace perpetua arrivassero dalla Russia senza sforzo di pensiero e senza sacrificio di sangue in chi le aspettava»60. Eppure, come scrive Leo Valiani, «il solo istante in cui, durante la guerra, un moto rivoluzionario sarebbe stato obbiettivamente possibile in Italia si ebbe solo con Caporetto»61. La mano ferma del governo nel vietare, indagare, reprimere – nella seconda metà del gennaio 1918 Lazzari e Bombacci, Segretario e Vicesegretario del partito, furono arrestati con l’imputazione di attività disfattista, Serrati per la parte avuta nei fatti di Torino – ebbe certamente il suo peso nel bloccare la diffusione dell’esempio russo.
57 I documenti sono in Alberto Malatesta, I socialisti italiani... cit., pp. 271-272. Sulle ripercussioni della rivoluzione d’Ottobre sul socialismo italiano, si veda Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano, 1917-1921, Nistri-Lischi, Pisa 1974, pp. 97 sg. 58 Julius Martov, noto esponente menscevico, aveva smentito le voci d’un preteso accordo fra lui e Lenin, «accordo – precisò – reso impossibile a causa del carattere utopista del movimento leninista, che cerca di introdurre il collettivismo in una Russia arretrata economicamente, contro la volontà della maggioranza del popolo, con la forza armata dei soldati, stanchi della guerra e pronti a sostenere qualsiasi partito che prometta la pace immediata». Cfr. La lotta delle tendenze nel socialismo russo. Una dichiarazione di Martov, “Avanti!”, 25 dicembre 1917. All’“Avanti!” rispose Claudio Treves, Lenin, Martov e... noi, “Critica sociale”, 1-15 gennaio 1918, p. 4. La polemica, ampiamente rimbalzata sulla stampa “borghese”, è integralmente riprodotta in Guido Donnini, Il 1917 di Russia… cit., pp. 396-415. 59 La lettera di Nicola Bombacci, indirizzata a Gustavo Sacerdote, corrispondente dell’“Avanti!” da Zurigo e che fungeva da tramite con Junior, fu sequestrata dall’Ufficio militare di Milano. Il documento è nel già citato “Storia e Dossier”, inserto redazionale allegato al n. 16, marzo 1988, p. 50. 60 Gaetano Salvemini, Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Documenti della politica estera che non fu fatta, Piero Gobetti Editore, Torino 1925, p. XIV. 61 Leo Valiani, Il partito socialista italiano dal 1900 al 1918, “Rivista storica italiana”, n. 2 1963, p. 322.
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Ma le misure prese dal governo non spiegano tutto. Il fatto è che le masse italiane non avevano una coscienza rivoluzionaria, né preparazione ideologica alla rivoluzione. Le manifestazioni popolari andavano verso la pace, non verso la rivoluzione. I bigliettini gettati dalle donne sui treni militari francesi in transito da Torino incitavano alla pace62. E anche l’impulso dei soldati sbandati in seguito alla rotta di Caporetto fu verso la pace e non verso la rivoluzione. Le testimonianze raccolte sono concordi: «nessun atto di violenza si verificò contro gli ufficiali; piuttosto si notò uno stranissimo comportamento: nella generale indisciplina, remissività e sostanziale rispetto, anche se non sempre manifestato con forme esteriori»63. Ha ragione Lucio Ceva quando osserva che fu solo una frazione minoritaria della cultura marxista «che a suo tempo si trastullò con l’dea di una Caporetto rivoluzione mancata per l’assenza di un partito cosciente in grado di guidare le masse»64. «La guerra italiana si decise militarmente sul Piave», ma dopo Caporetto si decise anche il dopoguerra?65 Renzo De Felice ne è convinto e lo afferma, recisamente, senza punto interrogativo. Certamente Caporetto prefigurò – e lo si poteva vedere già nel novembre 1917 – lo sfondo della futura guerra civile, dove si sarebbero scontrati, l’uno contro l’altro, un nuovo tipo di socialismo italiano, il massimalismo, e un nuovo tipo di antisocialismo, l’antibolscevismo. Tuttavia, il finale non era stato scritto. Soprattutto non era allora chiaro se lo scontro avrebbe portato soltanto a un cambiamento del sistema politico o se la parte vincente avrebbe assunto il potere totale. L’impatto della rivoluzione d’Ottobre sulla politica estera dell’Italia Nelle prime settimane che seguirono la rivoluzione d’Ottobre, le notizie inviate al Ministero degli Esteri dall’Incaricato d’Affari a Pietrogrado e gerente l’ambasciata, Giuseppe Catalani, e dal Console Cesare Majoni da Mosca riflettevano della situazione russa un quadro fluido ancora suscettibile di radicali mutamenti66. Il fatto che i bolscevichi esercitassero per alcune settimane il controllo solo su una piccola parte di territorio dette modo ai rappresentanti alleati a Pietrogrado di prender tempo e ignorare il nuovo governo. Il 20 novembre, Trockij, fresco Commissario agli Esteri, prese possesso del Ministero e riuscì a farsi consegnare dai vecchi funzionari zaristi – con le buone o con le cattive – cifrari e archivi. Nello stesso giorno informò gli ambasciatori alleati dell’avvenuto cambio di governo, comunicò loro il decreto sulla pace e consegnò una Nota diretta a tutti i belligeranti. Essa conteneva la proposta di armistizio su tutti i fronti. Gli ambasciatori alleati, riunitisi 62 Sidney Sonnino, Diario 1916-1922. Vol. III, a cura di Piero Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1972, p. 205 (alla data del 3 novembre 1917). 63 Emilio Faldella, La grande guerra. Vol. II, cit., p. 330. 64 Lucio Ceva, Parliamo ancora di Caporetto, “Nuova Antologia”, n. 2206, aprile-giugno 1998, p. 103. 65 Si veda Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, 1883-1920, Einaudi, Torino 1965, p. 365. 66 L’incertezza della situazione si può seguire attraverso i concisi telegrammi di Catalani pubblicati nei DDI, Serie V, Vol. IX, NN. 520, 529, 537, 550, 577, ecc. I riferimenti all’Italia contenuti nei discorsi di Trockij e le sue note dirette all’ambasciata italiana, si trovano in una serie di rapporti spediti a Roma da Catalani per corriere e non pubblicati nei DDI. E ad essi, in quanto più completi, si riferiscono le note archivistiche che seguono.
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il 22 novembre a “conclave”, decisero di non rispondere alla Nota, ma di considerarla una semplice dichiarazione di partito, non un atto di governo. Decisero anche di non entrare in rapporti ufficiali con il Consiglio dei Commissari del popolo, non rappresentativo del popolo russo, ma di limitarsi a trasmettere ai propri governi le note ricevute. Catalani si adeguò alla decisioni dei suoi più esperti colleghi, l’inglese George Buchanan e il francese Joseph Noulens. Sennonché lo stesso giorno Trockij, parlando al Comitato Centrale del Soviet, fece dichiarazioni che non potevano più essere ignorate. Egli dichiarò che i trattati segreti, stipulati durante la guerra dalle grandi potenze, erano ormai nelle mani del potere sovietico, che avrebbe cominciato a pubblicarli nei giorni seguenti. Proseguendo il discorso, parlò dello sconcerto e dell’ostilità con cui era stata accolta la rivoluzione bolscevica dai governi dei paesi belligeranti, ma non dai popoli. E venendo all’Italia così si espresse: «In Italia le notizie del nostro colpo di Stato [sic!] sono state accolte con entusiasmo, giacché in Italia la disillusione per la politica di conquista si accentua di giorno in giorno»67. In pratica Trockij presentò la situazione italiana come se la contrapposizione fra popolo e governo fosse sul punto d’esplodere. Il giorno dopo indirizzò al reggente dell’ambasciata italiana la Nota della sospensione delle operazioni militari per una settimana e, per una stessa durata di tempo, la sospensione delle trattative dell’armistizio con gli austro-tedeschi. Ancora una settimana venne concessa ai popoli e ai governi dell’Intesa, dopo di che «o dessero il loro consenso o il loro rifiuto a partecipare alle trattative per l’armistizio e per la pace; e in caso di rifiuto possano apertamente decisamente e fermamente dichiarare innanzi a tutta l’umanità in nome di quali intendimenti i popoli d’Europa debbano spargere sangue durante il quarto anno di guerra»68. Tre giorni prima, il 20 novembre, il Commissario alla Guerra, l’aspirante sottotenente Krylenko, aveva ordinato al comandante in capo dell’esercito russo, generale Dukhonin, di diramare alle truppe l’ordine di fraternizzare col nemico. Dukhonin si era rifiutato d’eseguire l’ordine, sostenuto dalle missioni militari alleate. Krylenko, allora, prese il suo posto; Dukhonin fu esautorato, poi arrestato e quindi linciato a morte dalla soldataglia a Mohilev, sede della Stavka (Comando Supremo). Falliti gli sforzi degli ambasciatori e delle missioni militari alleate di utilizzare la Stavka come base per la costituzione d’un contro-governo, Buchanan si risolse a faire bonne mine a mauvais jeu69. E aprì uno spiraglio al dialogo col nuovo governo. Senza impegnare l’Intesa in trattative di pace sulla base delle proposte sovietiche, suggerì al Foreign Office di lasciare la Russia libera d’accettare le pesantissime condizioni tedesche, oppure di continuare a combattere. In pratica consigliava di sciogliere la Russia dalla convenzione di Londra del 5 settembre 1914, che impegnava i firmatari a non concludere pace separata. Lo spiraglio aperto da Buchanan venne subito richiuso dalla pubblicazione dei trattati segreti. Come è noto, tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1917 uscirono sulle colonne della “Pravda”, delle “Izvestija” e della “Novaja Žizn” un centinaio di documenti
Catalani a Sonnino, Pietrogrado, 30 novembre 1917 (per corriere), N. 1712/438, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 172. 68 Il Commissario del Popolo per gli affari esteri all’Ambasciatore d’Italia per visione, Pietrogrado, 23 novembre 1917, ivi. 69 George Buchanan, My Mission to Russia and Others Diplomatic Memories. Vol. II, Cassell and Company, London 1923, p. 225. 67
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diplomatici. Lo smascheramento delle mire imperialistiche delle potenze belligeranti era parte della predicazione rivoluzionaria messa in campo da Lenin e Trockij per inquinare i rapporti tra i popoli e i governi, tra gli eserciti e i comandi, dei paesi belligeranti. «L’ingiustificata e ingiustificabile violazione di fede commessa dai bolscevichi»70 provocò la reazione dei governi dell’Intesa, che fino a quel momento erano «stati sul chi vive», in attesa degli eventi. Clemenceau considerò la pubblicazione dei trattati una vera e propria rottura dell’alleanza. La reazione del governo italiano fu ritardata dalla crisi militare di Caporetto. La prima replica alla rivoluzione d’Ottobre si ebbe il 18 novembre con la nomina di Pietro Tomasi della Torretta a reggere l’ambasciata italiana a Pietrogrado. La scelta d’inviare in Russia un esponente della corrente filorussa della “carriera”, farebbe supporre «nonostante tutto, il convincimento di Sonnino che ancora fosse possibile conservare alle relazioni fra Roma e Pietrogrado un carattere amichevole»71. Tuttavia la pubblicazione dei trattati segreti impresse da subito una curvatura non “amichevole” alla missione della Torretta. La violazione del segreto diplomatico aveva messo in grande difficoltà la politica estera dell’Italia sul piano interno ed internazionale. La stessa posizione personale di Sonnino era uscita scossa dal dibattito parlamentare della Camera, riunita in dicembre in comitati segreti72. Il 15 dicembre, quando della Torretta giunse a Pietrogrado, l’indirizzo della politica russa dell’Italia era ormai voltato nel senso della chiusura verso la Russia bolscevica. L’intera vicenda della pubblicazione dei trattati segreti era stata seguita a Roma con particolare apprensione. Sonnino insistette con Catalani per avere la trascrizione precisa dei testi. Il 28 novembre uscì sulle “Izvestija” un primo lungo articolo che spiegava la genesi del Patto di Londra insieme ad altra corrispondenza segreta inviata dall’ambasciatore Girs da Roma73. Qualche giorno dopo fu pubblicato il testo completo. Il contenuto del trattato fu divulgato dai giornali tedeschi e austriaci per denunciare presso la propria opinione pubblica, ma soprattutto presso quella croata e slovena, le mire annessionistiche dell’Italia nei confronti degli slavi del Sud. E se ne servirono per inquinare la resistenza dei soldati italiani, facendo piovere dal cielo sulle loro trincee migliaia di opuscoli. La stampa italiana dette ampiamente notizia della pubblicazione dei trattati, ma la censura impedì, per qualche mese almeno, che l’opinione pubblica sapesse dell’esistenza, fra i documenti divulgati, di un patto che riguardava l’Italia. Tuttavia il segreto non resistette a lungo. Il “Manchester Guardian” prese a pubblicare integralmente i singoli testi con metodo e regolarità dal mese di dicembre. Il testo integrale del Patto di Londra apparve
70 L’espressione è di Sidney Sonnino, Discorsi Parlamentari. Vol. III, cit., Tornata del 16 febbraio 1918, p. 581. 71 Mario Toscano, L’inizio della rivoluzione sovietica visto dall’ambasciata d’Italia a Pietrogrado, “Nuova Antologia”, n. 2 1968, p. 185. 72 Comitati segreti sulla Condotta della guerra… cit., Comitato segreto del 17 dicembre 1917, pp. 193 sg. 73 Catalani a Sonnino, rap. N. 1723/444, Pietrogrado, 30 novembre 1917, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 172, fasc. rap. pol. Russia. Insieme alla traduzione dell’articolo, era anche tradotto il telegramma di Girs che, a nome di Sonnino, chiedeva con urgenza al proprio governo d’iniziare, se non un’offensiva, almeno «una dimostrazione militare sul fronte russo». E insisteva: l’Italia «ha posto tutte le sue maggiori speranze su di noi», perciò ha bisogno di essere sostenuta.
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nell’edizione del 18 gennaio74. Venne così ad essere conosciuta anche la clausola relativa all’esclusione della Santa Sede dalla futura conferenza della Pace. «Il Vaticano la sospettava, ma non ne era sicuro. Altro bel servizio che la Russia ci rende»75 fu il commento di Ferdinando Martini. Intanto, era bastata la notizia della pubblicazione dei trattati segreti perché la stampa diffondesse presso l’opinione pubblica l’immagine dei bolscevichi “agenti della Germania” e, in quanto tali, organizzatori del tradimento. Vladimiro Zabughin fu il primo in Italia a diffondere la teoria conosciuta come Revolutionierungspolitik (politica della sovversione). La diffuse prima negli ambienti di governo sotto forma di relazione riservata, poi al vasto pubblico in un apposito volume. Fu anche il primo testimone a tornare in Italia dalla Russia, dove era stato, dal 16 giugno al 15 novembre 1917, ad illustrare la guerra dell’Italia per conto dell’Ufficio della Propaganda76. Secondo la sua testimonianza – egli era a Pietrogrado in quei “dieci giorni che sconvolsero il mondo” – la presa del potere da parte dei bolscevichi si svolse «con un programma prestabilito, con un’accuratezza tedesca e con disciplina idem [...]. Verso sera s’iniziò l’assedio del Palazzo d’Inverno, condotto per circa sei ore, sembra, sotto il comando di ufficiali germanici»77. Nel volume, Zabughin avrebbe attenuato l’immagine di Lenin e Trockij «impiegati del Kaiser»78. Essi erano innanzitutto «paladini dell’Internazionale», che si servivano per i loro fini dei denari del Kaiser, ma confermò la partecipazione degli ufficiali tedeschi al colpo di Stato. D’altra parte anche Buchanan raccolse la voce che il colpo di Stato fosse pianificato da ufficiali tedeschi e che almeno sei di costoro facessero parte dello staff di Lenin allo Smolny79. Nelle cancellerie, insomma, la collusione, se non la cospirazione germano-bolscevica era data per scontata. L’opinione pubblica dell’Intesa non faceva questo distinguo: condannava sommariamente la lâcheté dei russi, il loro tradimento80. Il servizio d’informazioni americano intese accreditare la tesi della cospirazione al punto da documentarla attraverso la raccolta e la pubblicazione di 68 – sessantotto! – documenti probatori81. Si trattava d’illazioni – è bene sottolinearlo – nate insieme agli avvenimenti. Tuttavia l’esistenza d’un «fattore germanico nella rivoluzione bolscevica» è sempre stato oggetto
Tutti i trattati pubblicati dal “Manchester Guardian” furono raccolti in opuscolo da Charles Albert McCurdy, The Truth about the “Secret Treaties”, W.H. Smith & Son, London 1918. Il Patto di Londra è alle pp. 19-21. 75 Ferdinando Martini, Diario 1914-1918, cit., p. 1057 (alla data del 28 novembre). 76 L’Ufficio per la Propaganda all’estero e la stampa, istituito con decreto il 1° novembre 1917 e soppresso il 4 gennaio 1919, fu retto dal Sottosegretario all’Interno, Romeo Gallenga Stuart. Cfr. Luciano Tosi, La propaganda italiana all’estero nella prima guerra mondiale. Rivendicazioni territoriali e politica delle nazionalità, Del Bianco, Udine 1977, p. 138. 77 Vladimiro Zabughin, Rapporto sulla missione in Russia, a S. E. l’on. Gallenga, Ufficio Propaganda, Roma s.d. [ma dicembre 1917], p. 30, in ASMAE, Russia Affari Politici, 1915-1918, b. 175, fasc. Relazioni con la Russia. 78 Vladimiro Zabughin, Il gigante folle. Istantanee della rivoluzione russa, Prefazione di Vittorio Scialoja, Bemporad, Firenze 1918, pp. 185 sg. 79 George Buchanan, My Mission... cit., p. 232 (alla data del 7 dicembre 1917). 80 Annie Kriegel, L’opinion publique française et la révolution russe, ne La révolution d’Octobre et le mouvement ouvrier européen, a cura di Marc Ferro-Victor Fay et al., EDI, Paris 1967, p. 99. 81 The German-Bolshevik Conspiracy. A Report by Edgar Sisson, “The Committee on Public Information”, n. 20, October 1918. 74
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di speculazione e la storiografia occidentale non ha mancato d’indagarlo con rigore scientifico82. Oggi su di esso si interroga anche la storiografia russa. Ed è quanto basta sapere su questo punto. Più rilevante ai nostri fini è sottolineare come Zabughin fosse tornato, dal suo lungo e istruttivo viaggio, convinto sostenitore, forse il primo in Italia, dell’intervento militare in Russia. Egli riteneva necessario, per combattere la Germania e rendere la Russia a se stessa, «un intervento rapido, energico compiuto d’accordo con le potenze dell’Intesa, ma soprattutto fra forze americane e giapponesi»83. Guerra alla Russia o al bolscevismo? I Presidenti del Consiglio e i Ministri degli Esteri dell’Intesa si riunirono a Parigi il 29 novembre 1917. La conferenza interalleata, in origine, era stata programmata per il 10 novembre, su iniziativa di Kerenskij e Tereščenko. Entrambi avevano molto insistito per ridiscutere gli scopi di guerra dell’alleanza alla luce del programma del Soviet “pace senza annessioni e senza indennità”. Il 29 novembre, però, quando i capi politici dell’Intesa si ritrovarono nella capitale francese, la rivoluzione bolscevica aveva rovesciato l’ordine del giorno. La discussione sugli scopi di guerra era passata in secondo piano. Per i capi dell’Intesa la posta in palio si presentava più alta, più urgente anche della sfida rivoluzionaria lanciata all’Europa da Lenin e Trockij. La posta in palio era diventata, per essi, geopolitica. Germania e Austria-Ungheria, dopo aver rotto l’alleanza della Russia con l’Intesa, stavano per avviare i colloqui di pace a Brest-Litovsk, cioè per riconoscere il governo bolscevico. La Russia avrebbe potuto diventare subito una colonia tedesca, oppure, in futuro, un protettorato della Germania. Lloyd George illustrò la prospettiva dell’edificazione d’un blocco germano-sovietico come si trattasse d’una questione di vita o di morte non solo per l’Intesa, ma per l’Europa intera. Evidentemente egli parlava sotto la suggestione delle teorie di Alford John Mackinder84. Nel corso della sua esposizione lesse il telegramma di Buchanan, a noi già noto, nel quale l’ambasciatore inglese suggeriva che gli Alleati restituissero la parola ai russi. Lloyd George si dichiarò favorevole a sciogliere la Russia dalla convenzione del 5 settembre 1914. Era l’unica possibilità, secondo lui, che rimaneva all’Intesa per stabilire un modus vivendi se non amichevole, almeno non conflittuale con la Russia bolscevica, prima di lasciarla Si veda, a questo proposito, Zbyněk Anthony Bohuslav Zeman (a cura di), Germany and the Revolution in Russia, 1915-1918. Documents from the Archives of the German Foreign Ministry, Oxford University Press, London 1958. La nota 3 dell’Introduzione (p. X) tratta dell’autenticità o della manipolazione dei “Sisson Documents”. 83 Vladimiro Zabughin, Rapporto sulla missione in Russia… cit., p. 33. 84 Alford John Mackinder, The Geographical Pivot of History, The London Geographical Society, London 1904 e 1969. Mackinder sosteneva che la storia era giunta alla sua terza fase, da lui definita post-colombiana, nella quale era ricomparsa la minaccia continentale. Il territorio caratterizzato dalla predominanza della forza continentale era costituito dalla Russia – Heartland – «stato pivot», e dal territorio a cavallo tra il continente e il mare – Germania, Austria-Ungheria Turchia, India e Cina – chiamato Inner crescent. Le potenze puramente marittime – Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia e Giappone – formavano l’Outer crescent. Da qui la costruzione dell’equazione: «Chi governa l’Europa dell’Est comanda l’Heartland, chi governa l’Heartland comanda l’isola-mondo [World Island], chi governa l’isola-mondo comanda il mondo» (p. 150). 82
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completamente in balìa della Germania. In altre parole proponeva di considerare la Russia bolscevica una nazione neutrale. Non era un’opinione isolata. Una soluzione simile era sostenuta in una piccola rivista italiana, “Il Monitore italo-russo”, da Achille Fumasoni Biondi, ex Console italiano in Russia, sposato a Marija Balakirsikova. «Con la eventuale pace – scriveva l’ex Console – la Russia si trasforma, per noi, in una nazione neutrale: anche non giovandoci nel diretto senso bellico, la sua neutralità può avere ancora una importanza, e durante la guerra e specialmente nelle trattative di pace»85. Era quella di Fumasoni Biondi una flebile voce, sommersa in Italia dal coro della stampa che inveiva contro i bolscevichi “traditori”. Lo stesso accadeva a Parigi. I rappresentanti delle potenze continentali, Francia e Italia, reagirono alla proposta di Lloyd George gonfiando le gote dallo sdegno. Sonnino alzò la voce quando replicò a Lloyd George: «Anche in Italia chi vede le cose andar male chiederà al governo: perché non fa come in Russia? Mi pare convenga non affrettarsi: vediamo ciò che accade in Russia». Clemenceau in preda all’ira ammonì i presenti – l’espressione colorita è riportata nel verbale italiano – «che se [anche] il cielo, la terra, i pianeti e le costellazioni saranno d’accordo nel rendere la sua parola alla Russia, dirò no!»86. Dopo quattro giorni di discussioni – 29 novembre-3 dicembre 1917 – in cui anche Maklakov, ambasciatore di Kerenskij a Parigi subito destituito da Trockij, dette ragione a Sonnino, la conferenza impartì agli ambasciatori l’ordine d’astenersi da ogni contatto col governo bolscevico e stabilì di rinviare la discussione sugli scopi di guerra al momento in cui in Russia ci fosse stato un governo rappresentativo di tutto il popolo russo. Il governo italiano si attenne ad un’interpretazione scrupolosa dei deliberati della conferenza. Vietò a della Torretta sia di stabilire contatti diretti o indiretti col governo dei Commissari del popolo, sia di riconoscere ai corrieri del governo bolscevico le stesse immunità godute da quelli degli altri paesi87. Alle ambasciate italiane fu vietato di rilasciare passaporti a cittadini russi. I governi francese, inglese e americano, invece, ci ripensarono. Considerarono un errore la mancanza di qualsiasi canale di comunicazione con il governo bolscevico. E rimediarono. Era successo che, subito dopo l’inizio dei colloqui di pace a Brest-Litovsk, Trockij si fosse reso conto che gli Imperi centrali non avrebbero trattato sulla base del principio “pace senza indennità né annessioni”. Allora cercò segretamente di conoscere l’atteggiamento dell’Intesa, nel caso fosse intervenuta una rottura delle trattative di pace. Tali sondaggi si dispersero nel vuoto diplomatico creato attorno ai Commissari del popolo. Ciò indusse Francia, Inghilterra e Stati Uniti a stabilire canali di comunicazione col governo bolscevico tramite agenti cosiddetti “irresponsabili”. Il capitano della missione militare francese Jaques Sadoul, Bruce Lockhart già Console generale inglese a Mosca, il colonnello
85 Achille Fumasoni Biondi, Con Berlino o contro?, “Il Monitore italo-russo”, a. II, 15 ottobre-15 dicembre 1917, p. 611. La rivista ebbe breve durata. Vi collaborarono esponenti di spicco dell’emigrazione russa non bolscevica. Ringrazio per le notizie la Prof.ssa Giuseppina Larocca, che si occupa da tempo di emigrazione russa in Italia. 86 ASMAE, Conferenze varie, 1917-1918, b. 3, Conferenza degli Alleati a Parigi, novembre-dicembre 1917, seduta del 30 novembre 1917, ore 16 al Quai d’Orsay. Ora in DDI, Serie V, vol. IX, N. 598. 87 Sidney Sonnino, Carteggio. Vol. 2: 1916-1922, cit., p. 355 (alla data del 25 dicembre 1917).
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Raymond Robins capo della Croce rossa americana in Russia, svolsero questo ruolo con minore o maggiore affidabilità88. Anche il governo francese, nella prima metà di dicembre, ebbe un profondo ripensamento in merito alla sua politica russa, fondata su 25 anni d’alleanza con l’Impero zarista. La commissione “Russia”, appositamente creata dal Quai d’Orsay, arrivò alla conclusione che nel breve periodo il nemico principale della Francia non fosse né i bolscevichi, né il bolscevismo, ma la Germania. L’espansione tedesca in Russia minacciava gli interessi economici e strategici francesi in Russia in una misura assai più urgente ed immediata d’un futuro contagio del bolscevismo. La questione russa, inquadrata da questa prospettiva, avvicinò il punto di vista francese a quello inglese, ragione che convinse Clemenceau a convocare una riunione franco-inglese per coordinare una comune politica in Russia. Il 23 dicembre 1917, il giorno dopo l’apertura delle trattative di Brest-Litovsk, Lord Milner, membro del War Cabinet e Lord Edgar Cecil, Segretario aggiunto del Foreign Office, si incontrarono a Parigi con Clemenceau, Pichon e il generale Foch. Al termine dell’incontro fu redatto un accordo segreto, conosciuto come Convention entre la France et l’Angleterre au sujet de l’action dans la Russie Meridionale, in base al quale la Russia meridionale fu divisa in sfere d’influenza. La zona d’azione francese includeva la parte settentrionale del Mar Nero: Bessarabia, Ucraina e Crimea; quella inglese la parte sud-est del Mar Nero: l’area dei Cosacchi del Don, il Caucaso e il Kurdistan. La convenzione, camuffata come war measure nel quadro del contenimento dell’espansione germanica in Russia, non era stricto sensu un accordo di spartizione, ma prefigurava la suddivisione in future zone d’influenza e in via di principio lo smembramento dell’Impero russo. L’integrità della Russia era percepita dal Quai d’Orsay come una minaccia potenziale per la Francia, nel senso che avrebbe avvantaggiato la Germania nel costruire il suo sistema continentale: la Mitteleuropa. La risposta dei geografi francesi, per ostacolare la formazione di questo blocco, piegò nel senso di sfruttare l’anarchia diffusasi in Russia e di favorire la nascita di Stati secessionisti, a cominciare dalla Polonia e dalla Finlandia. La ricostituzione della Polonia, perciò, fu progettata come perno del sistema delle future alleanze francesi legate alla costituenda Cecoslovacchia e alla Romania ingrandita. Il sistema doveva essere esteso all’Ucraina89 e alla Lituania. E anche agli Stati frontalieri come la Finlandia, l’Estonia e la futura Jugoslavia. Questa cintura degli Stati nazionali nell’Europa centro-orientale fu progettata per impedire ogni contiguità territoriale fra la Germania e la Russia. Il recupero dell’archetipo “Polonia antemurale dell’Europa” conteneva anche una risposta alla sfida lanciata dal bolscevismo all’Europa. La geopolitica francese recuperava in questo modo anche la diagnosi di Jean-Jacques Rousseau. In contrasto con Voltaire, il filosofo ginevrino aveva sempre sostenuto che la Polonia avrebbe dovuto adempiere alla funzione di barriera contro la Russia. Era l’unico modo per salvaguardare l’Europa dalla
Per approfondire si veda John W. Weeler-Bennett, Brest-Litovsk. The Forgotten Peace. March 1918, MacMillan, London 1956, pp. 140 sg. 89 L’8 gennaio 1918, il governo francese autorizzò il generale Tabois a riconoscere la Rada di Kiev come autorità legittima in Ucraina. Veniva così stabilito, in realtà, un protettorato sotto forma di collaborazione economica, finanziaria e militare. Cfr. Anne Hogenhuis-Seliverstoff, Les relations franco-soviétiques, 1917-1924, Publications de la Sorbonne, Paris 1981, pp. 51-52. 88
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minaccia del dispotismo russo90. In questo senso i termini “barrière de l’Est” e “cordon sanitaire” potrebbero apparire sinonimi, due facce della stessa politica orientale francese. Ma non è così. Ha ragione Kalervo Hovi, quando afferma che «the new French Eastern European alliance policy was thus during the First World War, indisputably a barrier policy, not a “cordon sanitaire” one»91. Il governo italiano venne a conoscenza dell’incontro franco-inglese del 23 dicembre a Parigi negli ultimi giorni di dicembre. Dalle frammentarie informazioni raccolte via Londra, Sonnino si rese conto che la Francia e la Gran Bretagna, con l’alibi di combattere il bolscevismo, stavano in realtà pianificando lo smembramento dell’Impero russo. La sua reazione, per usare un eufemismo, fu rabbiosa. Dopo aver visto crollare la sua interpretazione del “cordone sanitario”, sentì franare anche uno dei pilastri della politica estera italiana: l’unità della Russia. Naturalmente protestò e non approvò quella politica che il governo italiano non aveva concorso a definire. La concezione strategica dell’Italia, diversamente dalla geopolitica francese, contemplava per il dopoguerra l’integrità dell’Impero russo. E diversamente dalla strategia del governo inglese, che mirava ad indebolire la Russia, non a combattere il bolscevismo, il governo italiano puntava decisamente ad abbattere il bolscevismo, non a smembrare la Russia. Sonnino provava “orrore” alla prospettiva del vuoto geopolitico prodotto in Asia dalla frantumazione dell’Impero russo. E altrettanto catastrofico per l’equilibrio europeo considerava ogni suo smembramento: l’unità della Russia era necessaria per l’Italia onde impedire la preponderanza tedesca sul Baltico e in Europa centrale. Per quanto fu nelle sue possibilità, Sonnino cercò di contrastare la prospettiva della frantumazione della Russia. Non riconobbe la Finlandia de jure, né l’Ucraina de facto, come già aveva provveduto la Francia all’inizio del 1918. Acconsentì alla ricostituzione di una Polonia indipendente senza lo sbocco sul Baltico. E considerò il “corridoio polacco” che attraversava la Prussia una bomba ad orologeria posta nel cuore dell’Europa. L’opposizione di Sonnino alla dissoluzione dell’Impero russo presentava, oltre a quello strategico, un risvolto ideologico: l’avversione al “principio di nazionalità”. Sonnino respingeva l’ideologia liberal-democratica in nome del principio conservatore e non riconosceva ad essa alcuna forza di resistenza nel confronto con il leninismo. Il pericolo bolscevico, per Sonnino, doveva essere represso là dove si manifestava, nella Russia sovietica, non diluendone le sfide in tanti e diversi contesti statuali. Inoltre, l’opposizione di Sonnino al principio di nazionalità, nell’accezione wilsoniana del national self-government, espressa nei “14 punti” – 8 gennaio 1918 – era animata dal timore che la prospettiva della pace democratica potesse compromettere gli scopi di guerra dell’Italia e così la politica della “delenda Russia” si sarebbe tirata dietro la campagna in favore della “delenda Austria”. Ma più profondi ancora erano i fondamenti “filosofici” di quella opposizione. Sonnino era convinto che l’accettazione di quel principio avrebbe sconvolto la geopolitica dell’Europa e l’ordine internazionale. Nel processo ormai messosi in moto in Russia tra la fine del 1917
Cfr. Dieter Groh, La Russia e l’autocoscienza d’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d’Europa, tr. it., Einaudi, Torino 1980, pp. 60 sg. 91 Kalervo Hovi, Cordon Sanitaire or Barriere de l’Est? The Emergence of the new French Eastern European Alliance Policy 1917-1919, Turun Yliopisto, Turku 1975, p. 135. Ma tutto il libro è da leggere con attenzione. 90
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e l’inizio del 191892, Sonnino intravide anche la spinta che avrebbe accelerato le singole nazionalità dell’Impero asburgico a reclamare ciascuna per sé la completa separazione. E dietro tutto ciò egli vide il frantumarsi degli elementi essenziali del concerto europeo, che garantivano all’Italia il suo status di grande potenza93. La posizione di Sonnino fu presto isolata in seno all’Intesa, e anche indebolita in patria dalla diplomazia del Presidente del Consiglio Orlando, una novità e un equivoco nella politica estera italiana. Lloyd George e Clemenceau avevano confezionato un pacchetto di politiche “progressiste”. Dicevano di parlare in nome dei diritti dei popoli e progettavano frontiere strategiche. In questo modo le speranze dei popoli oppressi, nell’interesse geopolitico della Francia, entrarono nel convegno interalleato di Versailles – 30 gennaio-1° febbraio 1918. L’opposizione di Sonnino alla politica russa dell’Intesa spiega, al di là della scarsità dei mezzi e delle risorse di cui il governo poteva disporre, la partecipazione del tutto simbolica dell’Italia alla guerra civile russa. L’intervento italiano si dispiegò in due limitati settori dell’immenso fronte russo, nel Mar di Barents e in Siberia. Il 4° Battaglione del 67° Fanteria, più complementi, compagnia mitraglieri, carabinieri, genio, sussistenza, ospedale da campo, sbarcò a Murmansk nel settembre 1918 ed operò lungo la ferrovia murmanica, nella direzione di Pietrogrado, fino a Kern e a Soroka94. La cosiddetta Legione Redenti, formata da ex prigionieri giuliani e trentini in Russia raccolti nella concessione italiana di Tientsin, rafforzati da elementi metropolitani – poco più d’un migliaio di uomini – operò invece nel settore di Krasnojarsk. Il contingente collaborò con i cecoslovacchi a tenere sotto controllo le regioni tra lo Jenisej e il Kan. Il diario d’un oscuro geniere, Giuseppe Carrara, giunto in Siberia con i complementi, ci consente di guardare con l’ottica del soldato a quella strana guerra priva di battaglie, più simile a un’azione di polizia che ad un’operazione bellica, nei confronti d’un nemico di nuovo tipo: la banda partigiana, che si ritirava ma rimaneva sullo sfondo, evanescente ma presente95. L’ultimo – ed estremo – tentativo di Sonnino per colpire al cuore il bolscevismo e per salvare l’integrità dell’Impero russo fu da lui compiuto nella seduta del Consiglio dei Dieci
Per la disintegrazione dell’Impero russo – e la formazione dell’“impero” sovietico – si veda il classico volume di Richard Pipes, The Formation of the Soviet Union. Communism and Nationalism, 1917-1923, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1954. 93 Per la visione geopolitica di Sonnino, rinvio al volume di Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana… cit., pp. 50 sg. Il volume di James Burgwyn, The Legend of the Mutilated Victory: Italy, the Great War, and the Paris Conference, 1915-1919, Greenwood Press, London 1993, non coglie la stretta connessione “delenda Russia” e “delenda Austria”, ossia come la rivoluzione russa e la politica della Francia e della Gran Bretagna, rivolta allo smembramento della Russia, avesse messo in crisi tutta l’impostazione della politica estera di Sonnino – anche perché ignora la storiografia italiana sull’argomento. Egli scorge la posizione di Sonnino scossa e ridimensionata solo in seguito alle dichiarazioni e degli scopi di guerra di Lloyd George e soprattutto di Wilson – cfr. Sonnino Upstaged?, ibid., pp. 138 sg. Qualche considerazione generale sul declino della politica sonniniana, causato dagli eventi del 1917, è in Luca Riccardi, Sonnino e l’Intesa durante la prima guerra mondiale, in Sonnino e il suo tempo (1914-1922), a cura di Pier Luigi Ballini, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 66-68. 94 Una pagina, tra la storia e la letteratura, dell’attività del corpo di spedizione si trova in Massimo Campigli, Soldati italiani in Russia, “La Lettura”, n. 1 1919, pp. 35-40. 95 Giuseppe Carrara, Diario, 1918-1920, Azienda Grafica Sanfeliciana, San Felice sul Panaro 1982. 92
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della Conferenza della Pace. Era il 21 gennaio 1919. Fu in quella sessione che Sonnino, attraverso l’audizione di esperti e testimoni, introdotti in una successione che privilegiava i fautori dell’intervento – ciò che gli fu rimproverato – cercò di far prevalere la tesi secondo la quale il bolscevismo non sarebbe caduto da sé. Ma sarebbe stato possibile abbatterlo organizzando un corpo di spedizione forte di 100.000-150.000 volontari96. Soltanto poche voci si unirono alla sua. Tra queste, quella fragorosa di Winston Churchill, anche se fuori tempo. Egli fece la sua famosa apparizione al Consiglio supremo il 14 febbraio, in assenza di Lloyd George e Orlando, e mentre Wilson era sul piede di partenza. Churchill prese la parola nel corso della sessione convocata d’urgenza alle ore 18.30 della sera. E rilanciò la proposta dell’intervento contro il bolscevismo con un corpo di volontari97. Il suo discorso non modificò l’indirizzo del Consiglio dei Dieci. Isolato Sonnino, e presa la decisione di chiudere la politica dell’intervento, si pensò di rispondere all’offensiva di pace lanciata da Čičerin, che aveva sostituito Trockij al Commissariato agli Esteri. Scartata la proposta di convocare i rappresentanti bolscevichi a Parigi, il Consiglio deliberò d’indire la Conferenza di Prinkipo; di far incontrare, cioè, i governi esistenti di fatto in Russia nella nota isoletta del Mar di Marmara, già luogo di villeggiatura della nobiltà russa. Ma, avendone già scontato in anticipo il fallimento, l’Intesa tornò al vecchio metodo delle iniziative unilaterali e alla spartizione delle sfere d’influenza. Nell’ambito dell’offensiva di pace rivolta a tutti i governi dell’Intesa, Čičerin indirizzò all’Italia un apposito memorandum. Le difficoltà di far pervenire al governo italiano il messaggio furono superate ricorrendo ad un espediente non infrequente per quei tempi. Čičerin liberò dalla condizione di ostaggio, in cui si trovava, il Viceconsole Pietro Sessa, gerente di fatto del Consolato italiano a Mosca, e gli affidò il compito di rimettere il memorandum nelle mani dello stesso Sonnino. Sessa raggiunse Parigi ai primi di marzo e consegnò il documento al Ministro degli Esteri, accompagnato dal racconto della sua liberazione e del suo viaggio avventuroso. Il memorandum, redatto in francese e datato Mosca 11 febbraio 1919, segna la nascita – si può ben dire – dei rapporti diplomatici italo-sovietici. Čičerin con grande senso della realtà aveva concepito l’incipit nel solco della continuità dei rapporti italo-russi che avevano segnato l’intesa tra Italia ed Impero zarista nel 1909 a Racconigi: «nessun contrasto d’interessi può sussistere tra la Russia e l’Italia, nulla divide il popolo russo dall’italiano». Malauguratamente, continuava il documento, la cronaca di quei giorni testimoniava il contrario e Čičerin ne attribuiva la responsabilità agli errori degli agenti italiani in Russia e soprattutto alla politica dell’Intesa a cui l’Italia era legata. Il Commissario agli Esteri non sbagliava a supporre l’esistenza di un’opposizione in seno alla Conferenza della Pace circa lo smembramento dell’ex Impero russo. Probabilmente aveva avuto riscontri che Sonnino, pur militando nella trincea del nemico del bolscevismo, aveva mostrato un interesse strategico coincidente con la battaglia che Lenin e la diplomaJohn M. Thompson, Russia, Bolshevism, and the Versailles Peace, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1966, p. 107. 97 A Churchill Letter in Support of the Anti-Bolshevik Forces in Russia in 1919, “The Russian Review”, Vol. 28, I 1969, pp. 77-82. Si veda anche Richard K. Debo, Survival and Consolidation. The Foreign Policy of Soviet Russia, 1918-1921, McGill-Queen’s University Press, Montreal-Buffalo 1992, pp. 40-41. La stessa vicenda, ma solo inserita in una visione d’insieme, in Margaret MacMillan, Peacemakers: the Paris Conference of 1919 and its attempt to end war, Murray, London 2001, pp. 82 e 86. Del volume esiste anche una traduzione italiana: Parigi 1919: sei mesi che cambiarono il mondo, Mondadori, Milano 2006. 96
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zia sovietica conducevano per la salvaguardia dell’unità della Russia. Čičerin non avrebbe voluto rinunciare alla possibilità di sfruttare questa situazione per rompere il fronte dell’intervento. Non si conoscono commenti o reazioni da parte di Sonnino. Una copia del documento, dattiloscritta in un francese scorretto, evidentemente passato per diverse mani, è stata rinvenuta tra le Carte Nitti e pubblicata98. Del documento, tuttavia, oltre ad alcuni passaggi pubblicati in inglese99, esiste anche una traduzione integrale italiana100. Indubbiamente, Sonnino non tenne in debita considerazione il documento. Ciò può ricondursi – ed è documentabile – al fatto che in quello stesso periodo il proposito di Sonnino di non riconoscere neppure de facto i governi sorti dalle ceneri dell’Impero russo, si stava piegando alla prospettiva che l’Italia potesse ottenere grandi concessioni in Transcaucasia. Infatti Lloyd George ai primi di marzo avanzò la proposta di conferire all’Italia un mandato nel Caucaso: in realtà, si trattava d’un «ingrato servizio» da rendere a Londra a copertura degli interessi britannici nella regione caucasica101. Il governo italiano accettò l’offerta e impartì allo Stato Maggiore la disposizione di studiare un piano d’occupazione della Georgia. 40.000 uomini, 1.000 quadrupedi, 100 cannoni e 500 automezzi si preparavano nel maggio 1919 nelle basi pugliesi per partire con destinazione Batum. Tuttavia, il corpo di spedizione non lasciò mai l’Italia. Il governo Orlando-Sonnino cadde un mese dopo, il 19 giugno, su una questione procedurale, dopo che, tra la fine d’aprile e la prima decade di maggio, era uscito sconfitto – e isolato – alla Conferenza della Pace. Il governo Nitti-Tittoni che gli subentrò il 23 giugno – Tittoni fu sostituito nel novembre da Vittorio Scialoja – si trovò subito preso tra due fuochi. Da un lato era attaccato dalla retorica nazionalista e fascista in nome della “vittoria mutilata”; dall’altro era contestato in nome della “politica estera del proletariato”. Il PSI tesseva le fila dello sciopero internazionalista proclamato contro l’intervento militare in Russia e Ungheria. All’ultimo momento, però, Labour Party e SFIO si defilarono, per cui la manifestazione internazionalista ebbe luogo solo in Italia. La situazione fu davvero paradossale: Francia e Gran Bretagna, pesantemente coinvolte nella guerra civile russa, non furono lambite dallo sciopero, mentre si scioperò in Italia contro un governo che non manifestava nessuna intenzione di schiacciare le repubbliche socialiste. Il primo atto del governo Nitti fu di annullare la spedizione militare nel Caucaso e contestualmente di ritirare anche i contingenti italiani dai fronti dell’intervento alleato in Russia. Ma tale era lo spirito del tempo in Italia: bastava gridare “Viva Lenin!”, “tutto il potere ai soviet!”, il resto non contava. Aveva ragione Georges Sorel: lo sciopero generale era la creazione di un mito, non un’azione razionale per ottenere un obiettivo specifico. Nitti era un economista, uno degli uomini di governo più preparati dell’Italia moderna. Egli concepiva come suo impegno principale la soluzione delle gravi questioni della poliGiorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana… cit., pp. 265-273. Extracts from a Note to the Italian Government on Russian-Italian Relations, in Soviet Documents on Foreign Policy. Vol. I: 1917-1924, a cura di Jane Tabrisky Degras, Oxford University Press, London 1951, pp. 139-145. Il documento porta la data, sbagliata, del 14 febbraio. 100 Nota dell’11 febbraio 1919 indirizzata al Governo Italiano, ne Le proposte di pace del governo russo. Documenti diplomatici, raccolti dal Dott. Gino Scarpa, Istituto Coloniale Italiano-Tip. Ditta F.lli Pallotta, Roma 1920, pp. 32-43. 101 Cfr. Marta Petricioli, L’occupazione italiana del Caucaso: “un ingrato servizio da rendere a Londra”, Istituto di Scienze politiche dell’Università di Pavia-Giuffré, Pavia-Milano 1972, p. 35. 98 99
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tica interna: il problema del carovita, dell’approvvigionamento energetico, del tasso dei cambi, della conversione dell’economia di guerra nell’economia di pace. Si aspettava con ciò di ottenere l’appoggio dei socialisti e dei cattolici. In politica estera mirò a ricostruire gli elementi essenziali dell’equilibrio europeo, cominciando col recuperare al mercato europeo – nel solco della lezione di John Maynard Keynes – la Germania e la Russia sovietica. Scendendo nel dettaglio, cercò di portare l’Italia sulla via di Mosca – un passo avanti all’Inghilterra – passando per Berlino102. Il suo progetto combinava espansione economica e riconoscimento politico della Russia sovietica. Nitti doveva aver letto il memorandum di Čičerin. Induce a crederlo la versione che accreditò della politica italiana verso la Russia. Egli partiva dal presupposto che l’Italia non fosse mai stata in guerra con la Russia; neppure c’era stata una sospensione delle relazioni diplomatiche dopo l’arrivo dei bolscevichi al potere. E riduceva l’intervento italiano in Russia ad una presenza puramente di bandiera: «limitati reparti italiani che si sono trovati impegnati sul fronte di Arcangelo si sono limitati ad esplicare azione difensiva a tutela dei depositi accumulati in Arcangelo»103. Per annodare i fili del suo progetto, Nitti aveva – per così dire – “appaltato” a Filippo Turati, ossia ai socialisti riformisti, la politica tedesca e a Giacinto Menotti Serrati, ossia ai socialisti massimalisti, la politica russa dell’Italia. Se la dimensione internazionale di questa politica attirò contro Nitti l’ostilità della Francia, le implicazioni interne della stessa gli sollevarono contro lo schieramento liberale, nazionalista e fascista. Il trionfo del PSI alle elezioni politiche del 1919 aumentò l’ipoteca socialista sulla politica russa e sbilanciò il sistema delle alleanze su cui Nitti aveva fondato il proprio governo. Nelle piazze i socialisti predicavano di voler “fare come in Russia”, in Parlamento premevano per ottenere l’immediato riconoscimento della Russia sovietica. L’intreccio tra aspetti internazionali e interni della politica russa espose il gabinetto Nitti a tutti i contraccolpi delle lotte interne fra i partiti. L’aperta ostilità del governo francese fece il resto nel provocarne la caduta: Camille Barrère, ambasciatore francese a Roma, e Alexandre Millerand, Presidente del Consiglio, lavorarono di conserva per rovesciare Nitti. Il governo Giolitti-Sforza che gli succedette non poté non risentire, inizialmente, di questa eredità. Ma nell’autunno del 1920, quando la pressione del PSI sul governo e sull’opinione pubblica si allentò – sconfitta dell’Armata Rossa sulla Vistola, fallimento dell’occupazione delle fabbriche in Italia – la diplomazia poté riprendere il controllo sulla politica russa. Pochi giorni dopo la caduta del governo Nitti, era rientrato a Roma da Mosca Giovanni Amadori Virgili. Egli era il primo diplomatico dell’Intesa a visitare la Russia nella primavera del 1920. Aveva avuto, in via ufficiosa, l’incarico di svolgere un’indagine esplorativa sulle condizioni reali del “paese dei soviet”. Al Ministero degli Esteri si ignorava quasi tutto; non si avevano informazioni e quelle poche erano contraddittorie. Il rapporto redatto da Amadori Virgili consentì alla diplomazia di fornire a Sforza la base d’appoggio per tessere una “politica a rovescio” rispetto a quella di Nitti. Se il regime – come scriveva Amadori Virgili – non era vitale, non bisognava combatterlo, né riconoscerlo. Bisognava
Cfr. Giorgio Petracchi, Progetto d’intesa italo-tedesca per la ripresa commerciale con la Russia sovietica ai fini della pacificazione e del rinnovamento dell’Europa, ne La Conferenza di Genova e il trattato di Rapallo, 1922. Atti del Convegno italo-sovietico (Genova-Rapallo, 8-11 giugno 1972), Edizioni Italia-URSS, Roma 1974, pp. 215-269. 103 Ibid., p. 244. 102
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aspettare. Perciò il governo si allineò alla Gran Bretagna sulla questione russa e sulla questione tedesca si riavvicinò alla Francia. Recuperato il timone della politica russa, la diplomazia mise la barra sulla lunghezza d’onda della Gran Bretagna, mantenendola ferma fino alla presa del potere da parte del fascismo. Ma già montava in Italia, dopo la proclamazione della NEP in Russia, la cordata degli interessi industriali, mossa dalla prospettiva d’accaparrarsi, grazie al regime delle concessioni, l’unico mercato di materie prime non controllato dai gruppi anglo-francesi. Il 23 dicembre 1921 fu stipulato l’accordo preliminare della Torretta-Vorovskij, che dovette aspettare due anni per essere ratificato. Dovette, insomma, aspettare l’arrivo al potere di Mussolini, il quale riprese con nuovo vigore la politica russa di Nitti, e la portò a compimento riconducendola sotto il controllo delle strutture diplomatiche e statuali. Mistica del soviet (in generale) e ingerenze dell’Internazionale comunista (nello specifico) nell’Italia del primo dopoguerra, 1919-1920 Nel fare il bilancio del ventesimo secolo, con l’obiettivo di comprendere come siano andate le cose, è significativo che uno storico comunista come Eric J. Hobsbawm, per il quale «la rivoluzione d’Ottobre rappresentò la speranza del mondo»104, riconosca che i «bolscevichi commisero ciò che può essere giudicato oggi un errore assai grave e cioè la divisione permanente del socialismo internazionale»105. Questo giudizio recupera, attualizzandola, la polemica sollevata nell’emigrazione da Giuseppe Emanuele Modigliani e Boris Nikolaevskij contro le massicce ingerenze degli emissari del Komintern in un momento decisivo della politica italiana106. Ritorneremo sulla questione. Preliminarmente, però, occorre interrogarci sulle circostanze storiche che conferirono a Lenin l’autorità di liquidare il movimento di Zimmerwald, d’incorporare nel Komintern la sinistra rivoluzionaria, eliminando centristi e pacifisti, componenti importanti della coscienza autocritica del socialismo europeo, di forgiare il nuovo movimento comunista internazionale sul movimento d’avanguardia leninista107. Il collegamento della rivoluzione d’Ottobre e del bolscevismo con la tradizione del socialismo occidentale fu dovuto al retaggio della Grande Guerra. Julij Martov l’aveva capito perfettamente108. L’azione livellatrice della guerra aveva annullato la percezione delle differenze esistenti nei diversi contesti e cancellato ogni estraneità geografica e sociale. La
104 Eric J. Hobsbawm, Anni interessanti. Autobiografia di uno storico, tr. it., Rizzoli, Milano 2002, p. 72. 105 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, 1914-1991, tr. it., BUR, Milano 2006, p. 88. 106 Cfr. Helmut König, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921, tr. it. e a cura di Giorgio Petracchi, Prefazione di Renzo De Felice, Vallecchi, Firenze 1972, p. 79, nonché pp. 247-248, nota 56. 107 Cfr. Robert Craig Nation, War on War. Lenin, The Zimmerwald Left, and the Origins of Communist International, Duke University Press, Durham 1989, pp. 218 sg. 108 Julij Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, Introduzione di Vittorio Strada, Prefazione di Födor Dan, Einaudi, Torino 1980, pp. 4 sg. «Mistica – scrive ancora Martov, p. 24 – è già l’idea stessa di una forma politica che racchiude in sé il mezzo per superare contraddizioni economiche, sociali e nazionali, in mezzo alle quali si muove la rivoluzione generata dalla guerra mondiale».
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guerra liberò l’immaginazione rivoluzionaria dal retaggio delle leggi storiche elaborate dal socialismo teorico, con le sue distinzioni tra paesi avanzati e paesi arretrati. L’intervento del giovane delegato austriaco al congresso di fondazione del Komintern nel marzo 1919 è paradigmatico di quanto detto. Karl Steinhardt, detto Gruber, giunse a Mosca dopo un viaggio di 17 giorni attraverso l’Europa devastata. Egli non trovò la Russia diversa – o meglio, diversamente distrutta – rispetto alle regioni dell’Europa che aveva attraversato. Non ebbe perciò esitazioni a promuovere la Russia da paese arretrato a nazione guida, a riconoscere il bolscevismo come il necessario sviluppo della Ragione storica, ad assumere il bolscevismo a modello del movimento comunista mondiale109. L’impatto della rivoluzione d’Ottobre nella crisi postbellica provocò in Germania, in Francia come in Italia un generale spostamento a sinistra del quadro politico. Più precisamente, promosse la disaggregazione delle componenti di sinistra dai vari partiti nazionali, la costituzione di un’estrema Sinistra e di frange ancora più estremiste. Perché tale frazionamento, si chiede Annie Kriegel? Perché la Sinistra europea – questa la sua risposta – «è il luogo teorico dove si mescolano le acque di due grandi fiumi ideologici del XIX secolo rivoluzionario: il marxismo e l’anarchismo»110. In Germania l’eco della rivoluzione d’Ottobre giunse come il segnale che poteva «far nascere la capacità d’azione storica del proletariato tedesco»111. La Germania era percorsa da fermenti di guerra civile. Gruppi e gruppuscoli si richiamavano all’esperienza sovietica: in primo luogo la Lega Spartakista, ricostituitasi il 3 gennaio 1919 sotto il nome di Partito Comunista di Germania (KPD) e la Sinistra dell’USPD – il Partito Social-Democratico Indipendente di Germania, fondato a Gotha nel 1917 dagli espulsi dalla SPD. Tuttavia il primo Congresso pantedesco dei Consigli operai e dei soldati – Berlino, 16-19 dicembre 1918 – aveva approvato a grande maggioranza la proposta d’indire le elezioni per l’Assemblea Costituente. Albert, il delegato tedesco al primo Congresso del Komintern, ricordò che il partito socialdemocratico tedesco (SPD) riportò 11 milioni di voti e 163 deputati alle elezioni per l’Assemblea nazionale del 19 gennaio 1919, mentre l’USPD ebbe solo 2 milioni di voti e 22 deputati112. Il proletariato tedesco aveva con ciò riconfermato di preferire la democrazia di tipo occidentale in alternativa a quella di tipo sovietico113. Il programma di Rosa Luxemburg teneva conto di questa situazione e combinava azione parlamentare e azione rivoluzionaria. La maggioranza degli spartakisti, invece, inchiodò Kautsky al suo determinismo – alla mancanza delle “condizioni oggettive” – e, appellandosi all’universalismo – al volontarismo – della rivoluzione d’Ottobre, volle raccogliere, prima delle elezioni dell’Assemblea Costituente, il segnale della rivoluzione mondiale.
109 Les Congrès de l’Internationale Communiste, textes intégraux publiés sous la direction de Pierre Broué. Le premier Congrès, 2-6 mars 1919, EDI, Paris 1974: cfr. il Rapport de Gruber alle pp. 140 sg. 110 Annie Kriegel, La crisi rivoluzionaria 1919-1920: ipotesi di un modello, in Problemi di storia dell’Internazionale comunista, 1919-1939. Relazioni tenute al Seminario di studi organizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi (Torino 1972), a cura di Aldo Agosti, Fondazione Einaudi, Torino 1974, p. 29. 111 Rosa Luxemburg, Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 566. 112 Les Congrès de l’Internationale Communiste, cit, Rapport d’Albert, p. 62. 113 Cfr. Erich Eyck, Storia della Repubblica di Weimar, 1918-1933, tr. it., Einaudi, Torino 1966, pp. 55-65.
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Rosa Luxemburg e Karl Liebkneckt non erano d’accordo, ma seguirono la maggioranza per non rimanere impigliati allo stesso chiodo di Kautsky. Il ragionamento degli spartakisti, come quello di Lenin, era dialetticamente – e astrattamente – corretto: ammesso che la rivoluzione mondiale fosse ormai strutturalmente matura, poco importava da quale parte fosse cominciata. Davanti ad una prateria arida e secca poco importava stabilire dove fosse stato gettato il fiammifero, se a Nord o a Sud, per appiccare il fuoco. Anzi, in questa logica poteva risultare razionale cominciare proprio dalla Russia in quanto anello più debole, e vecchio bastione della reazione. Questo primo significato della rivoluzione sovietica, intesa quale segnale della rivoluzione mondiale, fu sostenuto dai comunisti tedeschi ancora per qualche anno, fino al 1923, allorché divenne chiaro che la Germania – come già l’Italia e la Francia – non era affatto alla vigilia dell’insurrezione. In Francia, l’Ottobre russo ruppe per la seconda volta nel corso della guerra l’equilibrio del movimento operaio francese e provocò un generale spostamento a sinistra della SFIO – Sezione Francese dell’Internazionale Operaia – al Congresso di Parigi, tra il 6 e il 10 ottobre 1918. A sinistra stavano Loriot e Souvarine, esponenti della frazione zimmerwaldista; a cerniera tra la sinistra e i centristi c’era Pierre Brizon, pacifista, autore del giornale “Vague” che tirava 300.000 copie. Ma la conoscenza della rivoluzione sovietica rimaneva confinata in ambiti ristretti, sia intellettuali sia operai, ed era vista ora in versione anarchica e anarchizzante, quale trionfo dello spontaneismo e dell’azione diretta alla Raymond Pericat, ora in versione sindacalista rivoluzionaria, che identificava press’a poco i soviet con i sindacati114, e infine in versione giacobina, diffusa nella SFIO, partito a base largamente operaia, da intellettuali, professori universitari e avvocati. Costoro cedettero spesso alla tentazione «di modellare l’interpretazione degli eventi sovietici, nel bene e nel male, sul precedente della rivoluzione francese»115. In questo senso il bolscevismo non apparve loro il primo fenomeno storico di tal genere, poiché teneva dietro al giacobinismo, il vero inventore della formula. La rivoluzione d’Ottobre fu posta così «nella discendenza della rivoluzione francese come un evento dello stesso ordine»116, il cui compito era di portare a termine la Rivoluzione. Quel capitolo, riaperto e non ancora concluso, sedusse gli intellettuali, i progressisti non meno dei rivoluzionari e, pur in diverso modo e misura, gli intellettuali radical-borghesi, socialisti e cattedratici, a motivo del ruolo storico che affidava loro. Tutti contribuirono a conferirle quel carattere di universalità, rinnovato ed arricchito sempre di nuovi contenuti. In Italia, dove la Sinistra non aveva alle spalle questa grande tradizione rivoluzionaria, i massimalisti percepirono la rivoluzione d’Ottobre nello schema millenaristico di Thomas Müntzer: una sorta di miracolo intervenuto alla fine di un’epoca d’ingiustizia ad impedire la consumazione della rovina del mondo. Ma anche la risposta data dal giovane Gramsci, al perché la rivoluzione fosse scoppiata proprio in Russia, ruppe il delicato equilibrio fra vo-
Cfr. Annie Kriegel, Aux origines du communisme français, contribution à l’histoire du mouvement ouvrier français, Flammarion, Paris 1970, p. 61. 115 Sergio Luzzatto, La “Marsigliese” stonata. La sinistra francese e il problema storico della guerra giusta, Dedalo, Bari 1992, p. 104. 116 François Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, tr. it. a cura di Marina Valensise, Mondadori, Milano 1995, p. 115. 114
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lontarismo e determinismo, che caratterizza il marxismo117, e portò a galla l’aspetto idealistico e volontaristico delle rappresentazioni politico-psicologiche del socialismo italiano118. A livello popolare, poi, l’attrazione mitopoietica della rivoluzione d’Ottobre sollevò nelle masse socialiste una potente ondata di “plebeismo”. Intendo con ciò l’emersione d’un immaginario sociale che si risolveva in un repertorio di pratiche inadeguate, moralmente e politicamente, a trasformare la società secondo nuovi principii di legittimità. Plebeismo e immaturità politica, del resto, spiegano la scalata di Mussolini ai vertici del PSI. Lo sottolinea argutamente Antonio Graziadei: i fragorosi applausi che Mussolini socialista riscosse tra i lavoratori dal 1912 al 1914 «non erano rivolti ai suoi argomenti; andavano piuttosto alle frasi paradossali, andavano alla voce, ora alta, ora cavernosa, andavano agli occhi smisurati e roteanti»119. Non si può, tuttavia, comprendere appieno l’impatto che ebbe in Italia la rivoluzione d’Ottobre prescindendo dal fatto che tra il governo italiano, che aveva voluto la guerra, e il popolo, che l’aveva subita e fatta, vi erano meno mediazioni che in altri paesi occidentali. In questo senso non è azzardato pensare che il mito della rivoluzione d’Ottobre servisse più che altrove a riempire un vuoto: quel vuoto creato dai sacrifici compiuti, dalle speranze deluse, dalle crescenti difficoltà economiche, dalle mancate promesse governative. Inoltre, alcuni tratti comuni alla tradizione politica italiana e russa facilitarono la ricezione del mito bolscevico in Italia. Entrambi i popoli erano caratterizzati da un’esperienza storica marcatamente antistatalista sboccata in atteggiamenti di ribellione “libertaria”. Basti pensare alla popolarità che ebbe in Italia, in un certo periodo, la figura di Bakunin. La diffusione dell’anarchismo in Italia, in parte d’ispirazione russa, nacque dalla convinzione che fosse impossibile, per via legale, migliorare in qualche maniera le condizioni di vita del popolo, se non a vantaggio della borghesia. E ancora, il mito sovietico nel suo più vero significato fu, in Italia, essenzialmente antiborghese, analogamente per certi aspetti all’esperienza russa. L’epiteto “borghese” nell’Italia dell’inizio del secolo – e anche oltre – ha lo stesso significato spregiativo del corrispettivo buržuj in Russia. E sarebbe un errore vedere nell’antistatalismo come nell’“antiborghesismo” un fenomeno tipico delle regioni più arretrate d’Italia. Come del resto anche Barcellona, la roccaforte anarchica della Spagna, non era certo la zona più arretrata di quel paese, né l’Ucraina, che espresse in certi momenti un imponente movimento libertario120. Tutto questo è importante per cercare di capire lo slogan “fare come in Russia”, che percorse l’Italia nel 1919. I tumulti annonari cominciati nella primavera-estate del 1919, prima in Toscana poi in Romagna, dilagati nell’Italia centrale e nei capoluoghi del Nord – ne furono coinvolte quasi tutte le province italiane – rimasero impressi nella memoria popolare toscana con il curioso – e significativo – appellativo di bocci-bocci, deformazione linguistica di “fare il bolscevismo”. Le squadre di requisizione e i componenti dei soviet
117 Si vedano, a questo proposito, le osservazioni di Robert Craig Nation, War on War… cit., pp. 228-229. 118 Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il Capitale, in Opere di Antonio Gramsci. Vol. 8. Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, p. 150. 119 Antonio Graziadei, Memorie di trent’anni, 1890-1920, Edizioni Rinascita, Roma 1950, p. 116. 120 Per uno sguardo d’insieme si veda Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1116 sg. E va ricordato il Prof. Giovanni Grassi che ha collaborato con l’Autore.
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annonari indossavano bracciali rossi e berretti con la stella rossa, i segni distintivi dei bolscevichi. Il bocci-bocci rappresentò il modo concreto di “fare il bolscevismo”: mille episodi scoordinati e ripetitivi, senza che questa rivolta trovasse uno sbocco nazionale di tipo rivoluzionario121. Nei ricordi di Fosco Maraini, bambino, è rimasto impresso il passaggio d’un corteo interminabile per Via Ripoli, popolare rione fiorentino, di gente con le bandiere rosse che il vento agitava gagliardamente e soprattutto il commento di Martino, un suo famiglio: «Quello è il futuro [...]. Tra poco vi s’ammazza tutti, e poi si diventa noi e’ padroni, capito? La terra dev’essere di chi la coltiva, no di voialtri, capito?»122. Non diversamente si esprimeva l’on. socialista Pietro Abbo nei suoi applauditi comizi in Toscana. Il repertorio dell’agitazione plebea ricalcava, in salsa italiana, gli schemi della rivolta contadina russa di tipo anarcoide che in Russia annientò, prima e dopo l’Ottobre, tutto il vecchio mondo rurale. Lenin cavalcò l’ondata plebea, le torbide forze scatenate del bakuninismo sociale, prima di ricacciarle nella oscurità123. Non è un caso, però, che quel gigantesco fenomeno di militarizzazione e accentramento che fu il “comunismo di guerra” – frutto dell’ideologia bolscevica – continuò ad essere interpretato in Italia come il suo opposto e ispirò le istanze più libertarie. Mentre in Russia gli anarchici venivano emarginati – per essere dopo annientati – dai bolscevichi, in Italia l’anarchico Malatesta veniva acclamato dalle folle deliranti come il “Lenin d’Italia” e Lenin si presentava alle masse in Italia con volto anarchico. L’Italia del 1919 era terra permeabile alla ricezione, alla permanenza e all’azione degli emissari di Mosca, i quali, confidando nella disponibilità dei compagni socialisti potevano percorrere il Paese in lungo e in largo in “libera” clandestinità124, con o senza il concorso degli esponenti filobolscevichi dell’emigrazione russa125. Alcuni di essi come Aron Wisner e Marc Šeftel entrarono in clandestinità e si impegnarono nell’attività cospirativa; qualche 121 Illuminante, a questo proposito, il volume di Roberto Bianchi, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, L.S. Olschki, Firenze 2001. 122 Fosco Maraini, Case, amori, universi, Mondadori, Milano 1999, in particolare il cap I. 9, Martino e le bandiere rosse, pp. 64-65. 123 Si veda Ettore Cinnella, Storia universale. Vol. 22. La rivoluzione russa, Corriere della Sera, Milano 2005, pp. 103 sg. 124 In “libera” clandestinità. Ricordi del lavoro clandestino all’estero negli anni 1919-21, è il titolo del volume di Vladimir Dëgot’, uno degli emissari sovietici, stampato a Mosca nel 1923 dalla Gosudartvennoe Izdatelstvo (Casa Editrice di Stato). I capitoli che riguardano il ruolo da lui svolto in Italia si possono leggere in italiano ne “L’est”, n. 1, 31 marzo 1967, pp. 177-214. Egli racconta (p. 197), ma il suo racconto è del tutto inverosimile, d’aver sventato un colpo di Stato a favore della Costituente, intentato da Nitti in collaborazione col partito socialista. Intervenendo in nome del Komintern egli avrebbe sostenuto l’inutilità della manovra: che ci fosse il re o Nitti sarebbe stato indifferente dal punto di vista rivoluzionario. Avrebbe con ciò ripetuto il vecchio pensiero di Serrati, secondo il quale la Costituente era un «vecchio arnese, Lenin la getta via. E fa bene». Cfr. Tommaso Detti, Serrati e la formazione del Partito Comunista Italiano. Storia della frazione terzinternazionalista, 1921-1923, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 9. 125 Si vedano, a questo proposito, gli approfondimenti biografici contenuti nel volume di Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie. I russi nei documenti del Ministero degli Esteri italiano, Europa Orientalis, Salerno 2013, pp. 259-300. Oltre al pionieristico volume di Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979, è utile consultare il recente volume di Valentine Lomellini, La grande “paura rossa”. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Prefazione di Georges-Henri Soutou, Franco Angeli, Milano 2015. La ricerca, condotta sulle fonti di
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altro venne allo scoperto e divenne un influente pubblicista. È il caso dell’Ing. Michail/ Michele Vodovozov. Da una lettera scritta a Zinov’ev, si apprende che egli era in Italia già prima della guerra126. Si definiva un socialista convertito dalla guerra alla causa rivoluzionaria, e dall’inizio della rivoluzione russa aveva sostenuto in tutti i modi la causa dei bolscevichi nella loro lotta contro il regime di Kerenskij sulle pagine dell’“Avanti!”, firmandosi prima Ing., poi Nado con articoli redazionali. Viene così stabilita, senza ombra di dubbio, l’identità del collaboratore russo dell’“Avanti!” che si celava sotto quelle sigle. Dopo il novembre 1917, Vodovozov cominciò a sostenere la rivoluzione d’Ottobre, il regime sovietico e la III Internazionale127. Dal 1919, la sua biografia salì di livello. Grazie alla politica di apertura del governo Nitti verso la Russia sovietica, ne divenne ascoltato consulente, al punto da accompagnare l’on. Bombacci a Copenhagen a trattare con Litvinov sia la ripresa dei traffici, sia l’accordo sul rimpatrio dei prigionieri; infine, nel 1920, nella prospettiva della ripresa degli scambi commerciali, assunse la qualifica di corrispondente per l’Italia della delegazione commerciale della Repubblica dei Soviet. Nel 1921, in seguito all’arrivo a Roma di Vorovskij, capo della delegazione commerciale, fu completamente esautorato. Il primo degli agenti sovietici ad arrivare in Italia, però, fu Nikolaj Ljubarskij. Arrivò a Milano nell’agosto 1919 proveniente dall’Austria con un passaporto intestato a Carlo Niccolini. L’aveva comprato a Vienna corrompendo un’addetta al Consolato italiano. Era prassi degli agenti sovietici in missione corrompere i funzionari dell’“Occidente marcio”. A Máthyás Rákosi, in partenza per la Germania, Lenin raccomandò di tenere a portata di mano cinque o sei milioni di marchi. Gli sarebbero serviti a corrompere gli investigatori, nel caso fosse stato arrestato128. Niccolini, arrivato a Milano, fu ospitato direttamente in casa dal direttore dell’“Avanti!” Giacinto Menotti Serrati. Il quale col concorso finanziario del suo ospite fondò il quindicinale “Comunismo”; il primo numero uscì il 1° ottobre 1919, alla vigilia del Congresso di Bologna del PSI. Almeno dall’ottobre 1919 si trovava in Italia anche Mordko A. Heller, già studente universitario a Firenze prima della guerra, conosciuto col nome di Antonio Chiarini. Ciò che li contraddistingueva entrambi era la perfetta conoscenza della lingua italiana. All’inizio del 1920, dopo l’allentamento del blocco alla Russia, divenne ancora più facile agli emissari sovietici entrare in Italia. I passaporti, naturalmente falsi, li compravano corrompendo gli impiegati dei consolati italiani. Provenienti da Odessa arrivarono
pubblica sicurezza, evidenzia l’approssimazione, la contraddittorietà delle segnalazioni e anche lo scarso controllo degli organi preposti alla sorveglianza degli stessi segnalati. 126 Era giunto a Milano nel 1914, poi si era trasferito a Roma. Cfr. Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie… cit., p. 291. Ma non risulta però nella lista dei sudditi russi residenti a Roma, inviata dalla Prefettura al Ministero dell’Interno in data 29 maggio 1918, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Min. Int., Direz. Gen. PS, Div. A.G.R., b. 116. 127 Vodovozov a Zinov’ev a Pietroburgo, Roma, 18 ottobre 1920. La lettera, dattiloscritta in russo su carta intestata «Delegazione Commerciale della Repubblica Federativa dei Soviety in Italia. Il Corrispondente per l’Italia», è in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, 19211943, Fondo 513-1-006. Ringrazio il Prof. Silvio Pons, per l’illustrazione del Fondo e per la liberalità concessami nella sua consultazione. 128 Mátyás Rákosi, Visszaemlékezések 1892-1925 [Memorie 1892-1925]. Vol. II, Napvilág Kiadó, Budapest 2002, p. 583. Ringrazio il Prof. Gianluca Volpi per la traduzione.
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Daniel Ridel, Elena Sokolovskaja e Vladimir Dëgot’129. Ridel si avvicinò al gruppo degli ordinovisti di Torino e fu mallevadore di Gramsci presso Lenin. Nell’imminenza del Congresso di Livorno arrivarono esponenti del Komintern di grosso calibro e di lungo corso: il bulgaro Christo Kabakčev, l’ungherese Máthiás Rákosi e, come osservatore, l’altro bulgaro Georgi Dimitrov. E ancora, nell’autunno del 1920, fecero la loro comparsa altri emissari che, circondati da un’atmosfera di mistero e intrigo, si dicevano comandati di “incarichi speciali”. Lo stesso Vodovozov, mezzo consulente commerciale dei Soviet e mezzo agente del Komintern, per la compenetrazione ancora persistente a Mosca tra diplomazia e rivoluzione, si sentì in dovere di chiedere spiegazioni a Zinov’ev, Presidente dell’Internazionale comunista: da me si è presentato un compagno che ha detto di chiamarsi Georghij Granovskij. Mi ha dichiarato di far parte della CEKA e che è stato mandato in Italia per organizzarvi una sezione della CEKA insieme ad un altro compagno, tale Volkonskij. Costui non aveva con sé nessun mandato definitivo. Al posto della carta d’identità mi ha mostrato un certificato del burö polacco di propaganda e di agitazione presso il comitato centrale (del 17 agosto) senza indicazione dell’anno, con il N. 2050, in cui si parla di Georghij Granovskij che è un corriere per Bialistok. Lo stesso mi ha mostrato anche una composizione su un pezzo di stoffa indirizzata al compagno L. a Milano e firmata da un certo Entin con un segno [e sulla lettera è disegnato un triangolo] senza alcun timbro130.
Lo stesso Vodovozov si permise di osservare, sommessamente, che gli sembrava prematuro impiantare una sezione della CEKA in Italia. L’osservazione toccava un punto sensibile della ramificazione – non ancora vera e propria organizzazione – kominternista in Europa. È noto che le 21 condizioni, approvate nel corso del II Congresso del Komintern – luglio-agosto 1920 – sovrapponevano un modello gerarchico alla diversità democratica delle varie sezioni nazionali. La terza condizione, quella che imponeva la creazione di organizzazioni clandestine accanto agli organismi legali, comportava la giustapposizione di organismi legali e organismi occulti, militarizzati. A quale dei due organismi sarebbe appartenuta l’autorità reale? Léon Blum sollevò la questione a Tours, nel Congresso nazionale del partito socialista francese – 25-30 dicembre 1920 – in cui fu fondato il Partito Comunista Francese (PCF). Egli parlò nella sessione mattutina del 27 dicembre e rivolgendosi ai partigiani dell’Internazionale comunista li apostrofò: Il vostro comitato occulto non potrà nascere da una deliberazione pubblica di un vostro congresso, bisogna che abbia un’altra origine. Bisogna che la sua costituzione provenga dall’esterno. Ciò equivale a dire che, nel Partito che si vuol creare, il potere centrale apparterrà in ultima analisi a un
129 I passaporti di questi ultimi erano intestati alla “falsa coppia” Vladimir ed Elena Cardoni. Cfr. Helmut König, Lenin e il socialismo italiano… cit., p. 66. 130 Nella stessa lettera chiedeva cosa fare del compagno Asev Michail, che da tre mesi stava a Roma senza che la sua presenza avesse alcun senso. Vodovozov a Zinove’v ad Halle, Roma, 18 ottobre 1920. La lettera, dattiloscritta in russo, molto più breve della precedente, è sempre scritta su carta intestata «Delegazione Commerciale della Repubblica Federativa dei Soviety in Italia. Il Corrispondente per l’Italia». Si trova in Fondazione Gramsci, Archivio Partito Comunista, 1921-1943, Fondo 513-1-006.
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comitato occulto designato – non c’è altra ipotesi possibile – sotto il controllo del Comitato esecutivo dell’Internazionale stessa. Gli atti, anche quelli più impegnativi [graves] della vita del Partito, le sue decisioni saranno prese da chi? Da uomini che voi non conoscete assolutamente131.
Negli stessi giorni gli fece eco Serrati. Al culmine della sua polemica puntò il dito contro Mosca e scrisse in tono d’accusa: «Si è costituita così nell’Internazionale comunista una specie di massoneria rossa, che opera nel silenzio e nel mistero e che giudica e manda all’infuori e al di sopra del partito; una specie di massoneria rossa tanto più pericolosa quanto è irresponsabile»132. Boris Souvarine, ripensando sessanta anni dopo alla nascita del PCF a Tours, arriva a sostenere che Lenin concepisse il Komintern come uno strumento militare. A questo proposito egli usa l’immagine che la III Internazionale fosse nata dalla testa di Lenin come un’«operazione mentale», alla stregua di Minerva, la dea armata, nata dalla testa di Zeus133. Il Komintern fu lo strumento voluto da Lenin per estendere all’Occidente l’Ottobre russo. Dai suoi quadri, gli apparati segreti sovietici reclutarono «fin dall’inizio i loro collaboratori internazionali più numerosi e degni di fiducia»134. Oramai era finito il tempo – aveva scritto Lenin nel 1919 – «del socialismo naif, utopico, fantastico, meccanicista, intellettuale in base al quale ci si figurava fosse sufficiente convincere la maggioranza della gente, tratteggiarle un gradevole quadro della società socialista in virtù del quale la maggioranza adotta il punto di vista del socialismo»135. Solo la dittatura del proletariato avrebbe fatto pervenire l’umanità al comunismo. La filosofia della prassi leninista si sovrappose, bruscamente, alla pedagogia socialista. Il caso dell’Italia fu in questo senso esemplare. In Italia, tutto il PSI aveva aderito alla III Internazionale: il 19 marzo 1919 il Comitato nazionale aveva votato l’adesione all’Internazionale comunista e il partito l’aveva riconfermata nel Congresso di Bologna dell’ottobre 1919. Tra i paesi capitalisti l’Italia offriva l’immagine d’essere sull’orlo della rivoluzione. Di più: era opinione corrente che un colpo di Stato di tipo bolscevico avrebbe avuto successo, ma non avrebbe lasciato i massimalisti al potere se non per pochi mesi in seguito al blocco navale anglo-francese. Lo stesso Lenin nell’ottobre 1919 aveva invitato i socialisti a non tentare avventure premature in attesa che la rivoluzione assumesse portata europea136. Sennonché nell’estate del 1920 l’andamento della guerra russo-polacca sembrò modificare il quadro internazionale e, con esso, la collocazione dell’Italia. Il “ponte rosso” che l’avanzata vittoriosa dell’Armata Rossa stava gettando tra Mosca e Berlino creava le condizioni per collegare l’Italia con la rivoluzione, e quindi favorire il suo slittamento di campo. In questa prospettiva, Lenin mise all’ordine del giorno lo scoppio della rivoluzione in Italia. Per favorirla, come scrisse a Stalin il 23 luglio 1920, si sarebbe dovuto sovietizzare 131 Déclaration de Léon Blum, ne Le Congrès de Tours (18° Congrès national du Parti socialiste). Texte Intégrale, a cura di Jean Charles et al., Éditions Sociales, Paris 1980, p. 417. 132 Giacinto Menotti Serrati, Di alcune altre nostre ragioni, “Comunismo”, a. II, n. 6, 15-31 dicembre 1920, p. 311. Traggo la citazione dal volume di Tommaso Detti, Serrati e la formazione del Partito Comunista Italiano… cit., p. 55. 133 Boris Souvarine, Autour du Congrès de Tours, Editions Champ Libre, Paris 1981, p. 17. 134 Ruth von Mayenburg, Hotel Lux, tr. it., Editoriale Nuova, Milano 1979, p. 113. 135 Traggo la citazione di Lenin dal volume di Leonid Heller e Michel Niqueux, Histoire de l’utopie en Russie, PUF Écriture, Paris 1995, p. 199. La citazione è tratta dall’edizione francese delle opere di Lenin, Vol. XXIX, p. 358. 136 La lettera fu pubblicata nell’“Avanti!” (ed. romana) del 5 dicembre 1919.
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l’Ungheria, la Cecoslovacchia e anche la Romania137. Il verificarsi di questa congiuntura avrebbe annullato la pregiudiziale dei massimalisti, i quali avevano assicurato che la rivoluzione era matura, ma temevano di perdere il potere a causa dell’isolamento internazionale dell’Italia. La geopolitica leniniana, prima d’infrangersi sotto le mura di Varsavia, trovò un ostacolo nella resistenza di Serrati a seguire le prescrizioni di Mosca. In una polemica protrattasi per mesi tra Mosca e Milano, tra il Komintern e l’“Avanti!”, Serrati rivendicò l’applicazione autonoma dei 21 punti, si oppose al cambiamento del nome del partito, e all’espulsione dei riformisti fino a quando non avessero infranto ufficialmente la disciplina di partito. Ma, in fondo, il nocciolo del contrasto fra Serrati e l’Internazionale comunista verteva sull’analisi della situazione italiana. L’Internazionale riteneva che l’Italia fosse più predisposta di altri paesi europei alla rivoluzione. I presupposti di questa diagnosi erano due: uno oggettivo, l’arretratezza economica del Paese e le condizioni sociali del sottosviluppo; l’altro soggettivo, il convincimento che il PSI fosse più rivoluzionario degli altri partiti fratelli a motivo dell’esiguità dello strato superiore dei lavoratori, l’aristocrazia operaia, base sociale del riformismo. Nel settembre 1920 l’Internazionale comunista, in una lettera firmata anche da Lenin, esortava il PSI all’azione: «Sussistono in Italia tutte le principali condizioni per una grande rivoluzione proletaria, autenticamente popolare. Bisogna rendersene conto. Bisogna assumerlo come punto di partenza. Riteniamo che da questo punto di vista il PSI abbia agito e ed agisca in modo troppo poco risoluto. Lo scontro decisivo si avvicina. L’Italia sarà sovietica»138. Serrati aveva fatto ritorno in Italia il 16 settembre, dopo aver visitato la Russia con la delegazione – politica ed economica – del movimento operaio italiano. Il giorno dopo il suo ritorno erano cominciate, sotto la presidenza di Giolitti, le trattative per lo sgombero delle fabbriche occupate. In Russia Serrati aveva osservato l’inadeguatezza dei bolscevichi nell’edificare il nuovo Stato139; tornato in Italia, subiva la loro pretesa di dettare al PSI i tempi della rivoluzione in un paese in cui – a suo giudizio – non esistevano più condizioni rivoluzionarie. Serrati lo afferma esplicitamente nella lunga lettera in italiano, su carta intestata «Comunismo» e diretta il 7 dicembre al partito comunista russo: «Certo la situazione in Italia non è più oggi quella che era mesi or sono. Noi abbiamo minacciato
137 Il telegramma, in versione inglese, è pubblicato nel volume di Richard Pipes, The Unknown Lenin. From the Secret Archive, Yale University Press, New Haven-London 1996, p. 90. Cfr. Aleksander Kolpakidi-Jaroslav Leontiev, Il peccato originale. Antonio Gramsci e la fondazione del PCdI, in P.C.I. La storia dimenticata, a cura di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Mondadori, Milano 2001, p. 35, con la data sbagliata del 23 giugno. Sull’incidenza della guerra russo-polacca riguardo allo spostamento di campo dell’Italia, si leggano le considerazioni di Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca: la diplomazia italiana in Russia, 1861-1941, Bonacci, Roma 1993, pp. 279 sg. 138 La lettera fu pubblicata in “Comunismo”, a. II, n. 2-3, 15 ottobre-15 novembre 1920, pp. 69 sg.; ed anche in “Ordine Nuovo”, n. 19, 30 ottobre 1920. 139 Serrati non rese pubbliche le sue riserve, ma le espresse in una riunione del gruppo parlamentare socialista a Trieste il 5 ottobre 1920. Un cronista dell’“Avanti!” le riassunse sull’edizione piemontese del giornale, l’8 ottobre. L’articolo è riprodotto da Piero Melograni, La Russia del 1920 in un discorso di Serrati, “Mondo Operaio”, giugno 1976, pp. 82-85. Sul viaggio in Russia della delegazione economica politica socialista e sulle sue ripercussioni in Italia, si veda Antonello Venturi, Tra propaganda sovietica ed immaginario socialista. Le impressioni italiane del viaggio in Russia nell’estate del 1920, “Movimento operaio e socialista”, Vol. VIII (n.s.), n. 3 1985, pp. 363-391.
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col fucile carico di stoppa. Ed il governo italiano – che ora è nelle mani di un uomo molto abile – ha saputo difendersi assai bene»140. Serrati riteneva perciò che il partito dovesse disporre di tutte le sue forze sia per contrastare la reazione, sia nel preparare le condizioni della rivoluzione. Serrati parlava il linguaggio della responsabilità e del realismo. L’Internazionale il linguaggio volontaristico e ideologico. E Serrati divenne il bersaglio degli agenti del Komintern. Il fine era di demolirne l’autorità agli occhi delle masse e minarne il morale. «Non è pericoloso», ma «ripugnante e suscettibile», scrisse Ljubarskij a Zinov’ev. E, avvalendosi del fatto che lo conosceva bene, spinse l’Internazionale, Lenin stesso, gli esponenti comunisti più eminenti a metterlo sotto pressione, sicuro che avrebbe cominciato a tergiversare e infine a cedere: «Teme l’isolamento attorno a lui», concluse141. Niccolini e Vitalij – altro pseudonimo di Heller? – fecero pressione sul Segretario del partito perché lo sollevasse dalla direzione dell’“Avanti!”. Ma Gennari, persona definita debole e indecisa da Vodovozov, e da Vitalj letteralmente trjapka – uno straccio, ossia uno smidollato – tergiversava142. Il linguaggio passò dalla critica all’ingiuria. C’è anche da aggiungere che l’attendismo del PSI sviluppava, a Mosca e negli agenti sovietici in Italia, fastidio psicologico, financo disprezzo per l’aspetto sentimentale e la “mentalità piccolo borghese” dei socialisti italiani. Il messaggio che arrivava al Komintern dagli “occhi di Mosca” in Italia era chiaro: bisognava che gli agenti sovietici prendessero la guida dell’ala sinistra del partito per approvare le 21 condizioni dell’Internazionale e vincere il congresso. «Noi, russi – scriveva Vodovozov a Zinov’ev – dobbiamo eliminare i difetti dei nostri compagni italiani con il nostro instancabile attivismo»143. Non aveva torto Serrati a lamentarsi che gli emissari russi in Italia non rappresentavano correttamente la situazione. Nella lettera al partito comunista russo, che abbiamo appena citato, Serrati riassunse le ragioni della sua posizione. Ricordò che il governo era ostaggio del PSI, grazie anche all’azione del gruppo parlamentare riformista, come si era visto nel corso della guerra russo-polacca. E precisò: «Doveva essere interesse nostro giocare in questa situazione particolare del governo italiano per fare dell’Italia una specie di pièd à terre della nostra azione in Europa occidentale. Perciò sarebbe stato necessario mandare
Lettera di Serrati al partito comunista russo sui rapporti tra l’Italia e la Russia, Milano 7 dicembre 1920, in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, 1917-1923, fasc. 20. La lettera fu recapitata a Mosca da Boris Vax, l’agente sbarcato nell’agosto 1920 dal vapore Pietro Calvi nel suo viaggio di ritorno da Odessa. Lo stesso 7 dicembre, Serrati scrisse una lettera in francese a Zinov’ev, chiedendogli un abboccamento, senza risultato, a Reval [Tallin] per spiegargli la realtà della situazione italiana. Questa lettera, a differenza della prima che non viene citata, è pubblicata in Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol. 1. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 104. 141 Nella stessa lettera, Ljubarskij batteva cassa. Le sue richieste d’aiuto non erano state accolte dal centro di Berlino e ciò lo aveva «molto offeso». Questa lettera, s.d. (ma ottobre 1920) si trova in Fondazione Gramsci, Roma, Archivio Partito Comunista, Fondo 513-1-006. La lettera, in un corsivo russo di difficile lettura, è stata trascritta e tradotta dalla D.ssa Irina Garjavina, mia allieva all’Università di Udine, che ringrazio anche per la collaborazione alla traduzione delle lettere in russo precedentemente citate. 142 Lettera ai “Cari compagni” [dell’Esecutivo del Komintern], scritta da Vitalj dopo il convegno della frazione comunista a Imola (28-29 novembre 1920), a cui egli aveva partecipato, ivi. 143 Vodovozov a Zinov’ev, a Pietroburgo, Roma, 18 ottobre 1920, cit. 140
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subito qui un vostro rappresentante senza fare assolutamente questione di persone»144. Ricordò che Sforza era pronto al riconoscimento della Russia sovietica, procrastinato solo dalla cocciutaggine di Mosca nel voler accreditare Litvinov: «Si giunse al punto di volere che il nostro gruppo parlamentare impegnasse Turati a recarsi da Giolitti per indurlo ad accettare Litvinoff, mentre si sapeva che il conte Sforza aveva a più riprese fatto intendere che egli non poteva accettare Litvinoff per non blesser la suscettibilità inglese e si concluse così col non concludere»145. Ricordò che le cooperative rosse detenevano il monopolio di tutti gli scambi economici con Mosca, e lamentò che tutto il traffico si fosse fermato. Perché rischiare tutto questo con la riedizione in Italia della Repubblica dei Consigli di Ungheria e di Baviera? Serrati questo non lo scrisse esplicitamente. Ma lo espresse implicitamente, sollecitando i compagni sovietici a non incorrere in altri errori, anzi ad imparare dagli errori commessi. La prospettiva di combinare guerra e rivoluzione, lungamente perseguita a Mosca e che sembrava a portata di mano nell’estate del 1920, era tramontata dopo la sconfitta dell’Armata Rossa sulla Vistola. Nessuno degli emissari sovietici valutò allora il pericolo del fascismo? Rákosi nelle sue memorie accredita la tesi che lui e Kabakčev, che vedevano per la prima volta le bande fasciste all’opera, ne valutassero la pericolosità meglio dei compagni italiani. Bordiga e Serrati – precisa – si erano abituati ad esse e ne sottovalutavano il pericolo146. Rákosi può sostenere la sua tesi avvalendosi del vantaggio storico dell’osservazione a posteriori. Gli agenti dell’Internazionale – è vero – notarono che, dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, la reazione aveva alzato la testa. Ma non si accorsero del fascismo. Per essi Giolitti rimaneva l’ultimo atout della borghesia. Né Lenin, né gli agenti del Komintern in Italia capirono che la divisione del movimento socialista potesse favorire l’affermazione di regimi ancora più a Destra e assai meno indulgenti della democrazia borghese verso il comunismo. Alla luce delle catastrofiche conseguenze per tutte le Sinistre, prodotte dal fascismo in Italia, Modigliani e Nikolaevskij, ormai nell’emigrazione, avevano freschi ricordi e possedevano buoni motivi per riesumare – e deprecare – le massicce ed indebite interferenze dell’Internazionale comunista sul PSI, e che lo avevano prima indebolito, poi diviso.
144 Lettera di Serrati al partito comunista russo sui rapporti tra l’Italia e la Russia, Milano 7 dicembre 1920, cit. 145 Ivi. 146 Mátyás Rákosi, Visszaemlékezések 1892-1925. Vol. II, cit., p. 572.
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Fin dall’immediato dopoguerra, mentre il nuovo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti annunciava l’abolizione della censura che aveva imperato durante il conflitto – e che sarebbe riemersa a più riprese nella fase successiva contribuendo ad alimentare la diffusione di notizie false e dicerie fantastiche – anche periodici e quotidiani davano voce agli interrogativi riguardanti le conseguenze della rivoluzione bolscevica e il diffondersi delle paure e del fascino suscitati dalla Russia sovietica anche in Italia, con un’attenzione particolare per quello che avveniva tra le classi lavoratrici e gli ex combattenti1. In effetti, in una fase segnata dall’esplosione d’una miriade di conflitti sociali, di movimenti urbani e rurali che intrecciavano rivendicazioni di tipo annonario con richieste d’accesso a beni considerati “comuni” e al controllo delle terre produttive, sullo sfondo di un’emergente domanda di rinnovamento e rigenerazione generale che coinvolgeva tutta la società, i tumulti nei mercati e le occupazioni di terre sembravano dare corpo allo spettro di una rivoluzione sociale che troviamo negli scritti di contemporanei appartenenti ad ambienti diversi e qualificati, e anche per questo significativi2. Lo segnalò – ad esempio – uno studioso di rilievo come Raffaele Ciasca: una delle ripercussioni che la rivoluzione russa ha avuto nei paesi occidentali d’Europa, in Italia soprattutto, è quella di aver riaccesa e resa più viva la disputa circa la destinazione economico-sociale del latifondo e delle cosiddette terre incolte. A mano a mano che dall’ex impero moscovita giungevano notizie più o meno particolareggiate e veritiere intorno alla grande rivoluzione che strappava all’aristocrazia terriera il potere politico, divideva la proprietà a furia di popolo, manometteva castelli, ville, palazzi, la stampa e i partiti conservatori si limitavano, fra noi, quasi esclusivamente a dipingere con le tinte più fosche gli eccessi e i danni immediati del movimento rivoluzionario; viceversa la stampa socialista, notando come pure in mezzo agli inevitabili eccessi, comuni del resto alle
1 Cfr. Antonio Fiori, Il filtro deformante. La censura sulla stampa durante la prima guerra mondiale, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, Roma 2001, p. 453; Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 72 sg.; Valerio Castronovo-Luciana Giacheri Fossati-Nicola Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979, pp. 300-315, 357-398. 2 Cfr. Roberto Bianchi, Voies de la protestation en Italie: Les transformations de la révolte entre XIXe et XXe siècle, “European Review of History”, n. 20/6 2013, pp. 1047-1071.
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rivoluzioni di tutti i tempi e di tutti i paesi, una secolare aspirazione del proletariato russo si compiva, l’acquisto della terra, lanciava anche fra noi il grido della “terra ai contadini”3.
Erano riflessioni che l’autore – all’epoca ancora sotto le armi e in procinto di rielaborare la tesi in Giurisprudenza per la pubblicazione d’un libro – avrebbe avuto modo di riprendere e sviluppare in seguito; in ogni caso senza mettere in discussione l’ordinamento sociale e dimenticando che sia lo slogan “la terra ai contadini” sia la retorica del carovita che aveva riportato in auge elementi di “economia morale” d’antico regime, erano stati usati dalla propaganda di guerra fin dal 1915-1916 e furono ampiamente diffusi all’indomani di Caporetto, ovvero prima del 7 novembre della rivoluzione d’Ottobre. Forse più semplici, ma sicuramente più efficaci appaiono le parole del Gran Maestro Ernesto Nathan che, in procinto di lasciare la direzione del Grande Oriente d’Italia al toscano Domizio Torrigiani, lanciò una sorta di grido d’allarme contro «l’insidioso contagio» di parole e slogan come «bolscevismo», «terra ai contadini», «opifici agli operai»: Siamo nel regno delle frasi del socialismo ufficiale per reclutare soldati nell’esercito inteso alla distruzione dell’attuale reggimento sociale ed edificarne sulle rovine l’arcadia degli irrealizzabili loro sogni; siamo sotto l’influsso del bolscevismo mitigato, giuntoci a traverso le steppe russe. […] Braccianti agricoli, […] mezzadri, taluni imprevidenti, poco inclini all’assiduo lavoro; altri, senza l’altrui energica preventiva direzione, inconsapevoli dei modi per sfruttare il loro podere. Quando […] fossero venuti in […] possesso del loro pezzo di terreno, […] gli uni, ebbri della nuova inattesa ricchezza sopravvenuta, non sapendo o volendo usarne, se la giocherebbero, per così dire, a morra, all’osteria; la venderebbero al miglior offerente. Gli altri […] incorrerebbero […] in debiti sempre crescenti […], per ritornare bracciante o vagabondo, senza mezzi di sussistenza4.
Secondo l’autorevole ex sindaco di Roma, «l’onda di bolscevismo» era destinata a svanire «dinanzi al sole del progresso»; ma in quel momento stava «rovesciando tristi grandinate» sul mondo, «lasciando tristi orme di rovine e di eccidio»5. Tra la primavera e l’estate 1919, in effetti, in Italia giungevano notizie confuse dalla Russia sovietica e dall’Ungheria della Repubblica dei Consigli – la «Repubblica dei gelati» descritta con passione da Arthur Koestler, durò dal 21 marzo ai primi di agosto; dalla Ger3 Raffaele Ciasca, La terra ai contadini, “L’Unità”, 27 novembre 1919. Una versione modificata del testo si trova in Id., Il problema della terra, Prefazione di Giuseppe Prato, Treves, Milano 1921, pp. 2-3; si veda anche la Premessa dell’Autore alla riedizione Cedam, Padova 1963, pp. V-IX. Cfr. inoltre Arrigo Serpieri, La guerra e le classi rurali italiane, Laterza, Bari 1930, p. 89 e Fabio Grassi Orsini, La “Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale”: dalla rivista di cultura al “superpartito della democrazia”, ne Il partito politico dalla Grande Guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), a cura di Fabio Grassi Orsini e Gaetano Quagliariello, il Mulino, Bologna 1996, pp. 617-695. 4 Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, “Nuova Antologia”, n. 285, maggio-giugno 1919, pp. 75-80; Id., L’insidioso contagio delle parole. I. “La terra ai contadini”, ibid., pp. 296-297; Id., L’insidioso contagio delle parole. II. “Gli opifici agli operai”, ibid., pp. 299306. Sulla massoneria italiana in quella fase, cfr. Fulvio Conti, Storia della massoneria italiana. Dal Risorgimento al fascismo, il Mulino, Bologna 2003, pp. 259-266; Fulvio Conti (a cura di), La massoneria italiana da Giolitti a Mussolini. Il Gran Maestro Domizio Torrigiani, Viella, Roma 2014. 5 Ernesto Nathan, L’insidioso contagio delle parole. Il bolscevismo, cit., p. 80.
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mania – dove la repubblica consiliare bavarese proclamata l’8 aprile finì la sua esperienza il 1° maggio – e da Vienna – ricordo l’insurrezione del 15 giugno; dalla Slovacchia – una fragile repubblica di tipo sovietico sorta il 16 giugno, che sopravvisse poche settimane – o persino da un paese rimasto neutrale durante la guerra come la Spagna, dove in Andalusia era iniziato il cosiddetto trienio bolchevique 1918-19206. Erano passati appena due anni dalla visita in Italia dei rappresentanti dei soviet russi che, organizzata tra il Febbraio e l’Ottobre – quindi con la Russia non più zarista ma ancora in armi contro gli imperi centrali – avrebbe dovuto contribuire a diffondere un messaggio di sostegno alla tenuta del fronte interno per una guerra ora sicuramente “democratica”, ma che si era tramutata in una premessa per l’insurrezione torinese dell’agosto 19177, quando in Italia il ciclo della protesta aperto nell’anno di Caporetto – che si sarebbe chiuso nell’autunno 1920 – stava giungendo a un momento di svolta proprio tra la primavera e l’estate 19198. Da allora, come è noto, sono state ampiamente discusse in ambito politico e, successivamente, studiate in ambito storico le conseguenze della rivoluzione bolscevica per le forze politiche italiane e soprattutto per i socialisti, gli anarchici, i repubblicani e, per altri versi, anche per il movimento sindacale organizzato9. Ovviamente, non è qui possibile ripercorrere nemmeno per sommi capi la storiografia sulla crisi del dopoguerra, il cosiddetto “biennio rosso”10, la nascita di nuove forze poli-
Per la citazione vedi Arthur Koestler, Freccia nell’azzurro. Autobiografia: 1905-1931, il Mulino, Bologna 1990 (1952), p. 74. Per una sintesi generale può essere ancora utile Gabriele Polo-Giovanna Boursier, Rivoluzioni e moti sociali in Europa, in Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, a cura di Aldo Agosti, Editori Riuniti, Roma 2000, pp. 660-668; ma anche l’Introduction e la Conclusion a Sortir de la Grande Guerre. Le monde et l’après-1918, a cura di Stéphane Audoin-Rouzeau e Christophe Prochasson, Tallandier, Paris 2008, pp. 13-19, 415-424. Per il tema che riguarda il presente contributo, cfr. Roberto Bianchi, Les mouvements contre la vie chère en Europe au lendemain de la Grande Guerre, ne Le XXe siècle des guerres, a cura di Pietro Causarano-Valeria Galimi-François Guedj et al., Les Éditions de l’Atelier, Paris 2004, pp. 237-245. 7 Cfr. Giancarlo Carcano, Cronaca di una rivolta. I moti torinesi del ’17, Stampatori Nuovasocietà, Torino 1977, p. 34; Paolo Spriano, Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Einaudi, Torino 1972, pp. 410-412. 8 Cfr. Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1107-1130; Roberto Bianchi, Furies, workers and organizers: Women and anti-war protest in Italy, 1914-18, in One Hundred Years of Inheriting: The First World War Phenomenon, a cura di Snezhana Dimitrova-Giovanni Levi-Janja Jerkov, SWU University Press, in 6
corso di stampa. 9 Per un inquadramento cfr. Aldo Agosti, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi
europei, Editori Riuniti, Roma 1999, pp. 21-25. Sul tema, oltre alla trilogia di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, in 3 voll., il Mulino, Bologna 2012 (1967, 1991 e 2012), cfr. almeno Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo sovietiche, 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 57-146; Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974, pp. 183-200; Santi Fedele, Una breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica, Franco Angeli, Milano 1996; Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, pp. 108 sg. 10 Per una discussione del termine vedi I due bienni rossi del Novecento: 1919-20 e 1968-69. Studi e interpretazioni a confronto (Atti del Convegno nazionale, Firenze 20-22 settembre 2004), Ediesse, Roma 2006 e, all’interno, Roberto Bianchi, La dimensione internazionale, pp. 249-262.
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tiche, le origini del fascismo, le trasformazioni dei linguaggi della protesta, l’emergere di inedite forme di violenza politica, il rapporto diretto tra vicende italiane e internazionali, il contraddittorio rapporto fra continuità e fratture tra guerra e dopoguerra: temi che è necessario affrontare per capire caratteri e conseguenze del primo anno di pace11. Va però segnalato che sembra ancora mancare un’aggiornata ricognizione analitica della diffusione, all’interno dei movimenti di protesta che segnarono l’uscita dalla guerra, di parole d’ordine, pratiche d’azione e forme d’organizzazione che si richiamavano esplicitamente all’esperienza russa e, nel pieno del 1919, anche a quella dell’Ungheria consiliare. Perciò in questa sede, più che ai dibattiti interni alle forze politiche e alle elaborazioni teoriche che intendevano confrontarsi con la rivoluzione bolscevica e la nascita della nuova Internazionale comunista – ricordo che il partito socialista aveva subito aderito al Comintern come fecero, poco dopo, l’Unione Sindacale Italiana diretta da Armando Borghi e altre organizzazioni di matrice anarchica12 – si volgerà l’attenzione sulla presenza nei movimenti e nei conflitti sociali di linguaggi e forme d’organizzazione che si richiamavano alla rivoluzione sovietica. Per farlo, saranno rilette fonti processuali, carte di polizia, corrispondenze e decreti conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato e in archivi di Stato o comunali, assieme a pubblicazioni ufficiali, periodici e memorie. Sappiamo che il 1919 non fu semplicemente una «annata rossa dell’Europa» e che in Italia il biennio 1919-1920 non fu solo rosso, ma «multiforme e multicolore»13, parte integrante e momento di svolta d’un ciclo delle proteste aperto nel 1917 e chiuso con le elezioni amministrative dell’autunno 1920 – ricalcando quasi, a grandi linee, il periodo che in Russia si era avviato con la rivoluzione del marzo 1917 ed era terminato con la sconfitta dell’Armata Rossa in Polonia14. Eppure in sede storica quel biennio è stato a lungo letto guardando soprattutto alle lotte sindacali più organizzate e alle loro ricadute politiche, 11 Cfr. Mark Jones, Political Violence in Italy and Germany after the First World War, in Political Violence and Democracy in Western Europe, 1918-1940, a cura di Chris Millington e Kevin Passmore, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2015, pp. 14-30; Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, 1918-1921, Utet, Torino 2009; Roberto Bianchi, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Odradek, Roma 2006.
Cfr. gli interventi di Serrati sull’“Avanti!”, 19 e 20 marzo 1919 e su “L’Avanguardia”, 1° maggio 1919; si veda anche “L’Ordine Nuovo”, 20 maggio 1919; “Il Soviet”, 23 marzo 1919. Vedi inoltre Luigi Cortesi, Le origini del Partito Comunista Italiano. Il PSI dalla guerra di Libia 12
alla scissione di Livorno, Laterza, Roma-Bari 1977, p. 148 (ora in Id., Le origini del PCI. Studi e interventi sulla storia del comunismo in Italia, Franco Angeli, Milano 1999). Sugli anarchici cfr. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale di Pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati (d’ora in poi: ACS, PS), 1919, K1, b. 99, ff. per provincia; Armando Borghi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), Prefazione di Gaetano Salvemini, Esi, Napoli 1954, p. 187; Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), Bfs, Pisa 2001, pp. 25-32. 13 Per le citazioni: David Mitchell, L’annata rossa dell’Europa, Club degli Editori, Milano 1972 (ed. or. 1919: the Red Mirage, Macmillan, New York 1970); indi Crimini, “La Parola dei Socialisti”, Livorno, 27 luglio 1919. Cfr. inoltre Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., pp. 7-16 e Marco Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia “nazionale”, “Storica”, n. 3 2013, pp. 77-110. 14 Cfr. Andrea Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, p. 145; Pierre Broué, Histoire de l’Internationale comuniste, 1919-1943, Fayard, Paris 1997, p. 178.
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cercando troppo spesso d’individuare le “colpe” per una presunta rivoluzione mancata e quindi le responsabilità dei dirigenti socialisti nell’ascesa del fascismo. Scissioni e nascite di partiti furono accompagnate da scontri sulle «lezioni da trarre» dal confronto tra le diverse esperienze di Russia e Italia tra guerra e dopoguerra15, e il dibattito non si esaurì tra le due guerre mondiali16. Solo in tempi più recenti si è prestata maggiore attenzione alle dinamiche interne dei più significativi movimenti sociali, al protagonismo dei reduci, delle lavoratrici e dei vari attori di tumulti e mobilitazioni che soprattutto nel primo anno di pace coinvolsero e travolsero tutta la società italiana17. Sta di fatto che anche dal punto di vista della storia dei conflitti sociali e delle trasformazioni dei repertori della protesta, la prima guerra mondiale aveva segnato un punto di frattura. L’ultima fase del conflitto e l’immediato dopoguerra furono contrassegnati da una successione di mobilitazioni, scioperi e rivolte caratterizzati dall’irruzione sulla scena pubblica di nuovi attori e nuove idealità capaci d’incidere nel processo di ridefinizione del rapporto tra Stato e società in una fase cruciale di quella crise des sociétés impériales che coinvolse vincitori e vinti della guerra18. Il fenomeno non fu solo italiano. L’ingresso delle masse sulla scena, non solo europea19, fu un evento assai diversificato al suo interno, dalle caratteristiche inedite e che può essere comparato alle rivoluzioni del 1848 o ad alcuni aspetti dei movimenti del 1968. Ma in questa sede interessa sottolineare che in quel dopoguerra riemersero antiche forme della protesta popolare intrecciate con pratiche di lotta tipicamente novecentesche. I tumulti annonari segnarono questa fase in Italia, spesso con un ruolo rilevante svolto dalle donne, e in varia misura anche in altri paesi come la Germania e i territori dell’ex impero austro-ungarico, la Russia e il Giappone, o persino gli Stati Uniti d’America, un paese rimasto neutrale come la Spagna e persino l’isola di Malta, col Bread Riot del 7 giugno 1919. In realtà, non si trattava del riemergere di forme di rivolta primitiva, ma del 15 16
Vedi Aldo Agosti, Storia del PCI, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 8. Cfr., ad esempio, i “classici” testi di Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo, a cura di
Sergio Soave, La Nuova Italia, Firenze 1995 (1938) e di Pietro Nenni, Il diciannovismo (1919-1922), Edizioni Avanti!, Milano 1962 (riedizione della Storia di quattro anni, un saggio sollecitato da Piero Gobetti, scritto nel 1925 e pubblicato a Parigi nel 1927 col sostegno di Carlo Rosselli). Per due bilanci
storiografici, tracciati negli anni di massima popolarità di questi temi, si vedano Tommaso Detti, Il biennio rosso, ne Il mondo contemporaneo. Vol. I. Storia d’Italia, a cura di Fabio Levi-Umberto Levra-Nicola Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 47; Idomeneo Barbadoro, Biennio rosso: lotte sociali e direzione socialista, in Storia della società italiana. Vol. XXI. La disgregazione dello Stato liberale, a cura di Giovanni Cherubini, Teti, Milano 1982, pp. 231-285.
17 Senza proporre un elenco in nota, rinvio a titolo esemplificativo, per situazioni e luoghi diversi, ai testi di Emilio Franzina, Il Veneto ribelle. Proteste sociali, localismo popolare e sindacalizzazione tra l’Unità e il fascismo, Gaspari, Udine 2002; Carlo Longhini, Le giornate rosse. 1919 a
Mantova. Storia di una sollevazione popolare e storie di rivoluzionari senza rivoluzione, Sometti, Mantova 2009; Francesco Di Bartolo, Terra e fascismo. L’azione agraria nella Sicilia del dopoguerra, XL, Roma 2009; Simona Salustri, La nuova guardia. Gli universitari bolognesi tra le due guerre, Clueb, Bologna 2009; infine ai riferimenti al caso italiano contenuti in Robert Gerwarth, The Vanquished. Why the First World War Failed to End, 1917-1923, Allen Lane, London 2016. 18 Cfr. Christophe Charle, La crise des sociétés impériales. Allemagne, France, Grande-Bretagne (1900-1940). Essai d’histoire sociale comparée, Seuil, Paris 2001. 19 Cfr. Alberto Caracciolo, L’ingresso delle masse sulla scena europea, ne Il trauma dell’intervento: 1914-1919, a cura di Alberto Caracciolo et al., Vallecchi, Firenze 1968, pp. 7-26.
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rinnovarsi di forme tradizionali dell’azione collettiva che avrebbero avuto una lunga storia nel corso del Novecento e sarebbero giunte fino ai giorni nostri, come hanno giustamente ricordato i curatori della recente edizione francese degli ultimi scritti di Edward P. Thompson sull’“economia morale”20. Aspetto centrale per la tenuta dei fronti interni di tutte le società in guerra, la questione annonaria subì un terremoto con lo smantellamento del sistema di controlli dei prezzi, l’abbandono dei calmieri e il rapido ritorno alla “libertà” di commercio deciso dal governo Orlando. In quel contesto le proteste nei mercati, sempre presenti durante la guerra, si intensificarono con la primavera 1919 fino ad esplodere in modo clamoroso l’11 giugno a La Spezia. Dalla città ligure l’ondata di moti si estese verso Genova e tutta la provincia, per poi allargarsi lungo la costa tirrenica e all’interno della penisola, dove s’incontrò con altre proteste che stavano montando (Fig. 2. Cronologia dei tumulti, 11-29 giugno 1919)21. Dopo una pausa, il movimento riesplose a Forlì il 30 giugno; si estese a tutta la Romagna, le Marche e la Toscana, quasi a ricalcare i percorsi seguiti dalla Settimana Rossa; ma questa rivolta aveva caratteri e obiettivi diversi da quelli che nel giugno 1914 avevano alimentato l’azione delle folle. La Grande Guerra aveva cambiato il ruolo dei municipi e il rapporto tra sudditi e Stato; la repressione delle forze neutraliste e gli scontri tra interventisti e oppositori alla guerra avevano ridisegnato profondamente le geografie politiche nazionali e locali; soprattutto, l’esperienza al fronte aveva cambiato gli uomini – da contadini a reduci – e la mobilitazione totale aveva trasformato il rapporto tra donne e autorità pubbliche. Il movimento di luglio assunse subito una dimensione nazionale e generale (Fig. 1. Mappa dei tumulti annonari, luglio-agosto 1919). Quasi simultaneamente raggiunse tutte le grandi città, al nord come al sud: Torino, Milano, Venezia, Firenze, Perugia, Roma, Napoli, Bari, le province di Calabria, Sicilia e Sardegna per vari giorni furono scenario di scioperi, marce di protesta, rivolte, insurrezioni, prese dei palazzi del potere da parte di folle in tumulto organizzate in vario modo. Soprattutto nel Lazio e nelle regioni meridionali i moti s’intrecciarono con le lotte del mondo rurale, quindi con i protagonisti del movimento di occupazione delle terre avviato a gennaio, che rilanciava con nuova forza le agitazioni del tempo di guerra22.
Vedi Jean Boutier-Arundhati Virmani, Présentation a Edward P. Thompson, Les usages de la costume. Traditions et résistances populaires en Angleterre XVIIe-XIXe siècle, Ehess, Paris 2015, pp. 9-44; Simona Cerutti, Who is below? E.P. Thompson historien de sociétés modernes: une relecture, “Annales HSS”, n. 4 2015, pp. 931-956. Su Malta, infine, cfr. Sette Giugno remembered, “Times of Malta”, 5 giugno 2009; Relevance of the June, 7 1919 riots, ibid., 7 giugno 2011; Proper site for Sette Giugno monument, ibid., 14 agosto 2016. 21 Cfr. Roberto Bianchi, Bocci-Bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001; Roberto Bianchi-Monica Pacini (a cura di), Donne “comuni” nell’Europa della Grande Guerra, “Genesis”, n. 1 2016; Maria Concetta Dentoni, Annona e consenso in Italia, 1914-1919, Franco Angeli, Milano 1995. 22 Per i dati proposti nelle carte allegate (Figg. 1-6) cfr., oltre alla stampa coeva e alle pubblicazioni ufficiali: ACS, PS 1919, bb. 61-85, 99-105 e ibid. 1920, bb. 64-71; ACS, Carte Orlando, b. 51 e Casellario Politico Centrale, ff. vari; Archivio di Stato di Arezzo, Tribunale penale, 1919 (d’ora in poi TP con indicazione dell’anno); Archivio di Stato di Firenze (ASF), TP 1919 e Corte di Assise, 1919-1920; Archivio di Stato di Grosseto, TP 1919; Archivio di Stato di Livorno, TP di Livorno e Portoferraio, 1919; Archivio di Stato di Lucca, Prefettura, 1919; Archivio di Stato di Massa, TP 1919; Archivio di Stato di Pisa (ASP), TP di Pisa e Volterra, 1919; Archivio di Stato di Pistoia, Prefettura, 1919; Archivio 20
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Il movimento toccò il suo apice ai primi di luglio (Fig. 3. Cronologia dei tumulti, 30 giugno-8 luglio 1919), proprio mentre il partito socialista e le principali organizzazioni sindacali stavano preparando lo sciopero generale internazionale in solidarietà con la Russia dei soviet e l’Ungheria dei Consigli. Ma anche dopo lo “scioperissimo” del 20-21 luglio, nuovi tumulti esplosero in province fino ad allora rimaste un po’ più calme, o ripresero forza in aree già segnate da proteste importanti (Fig. 5. Cronologia dei tumulti, 22 luglio-31 dicembre 1919). Nel corso del 1920 si sarebbero verificate altre agitazioni e moti annonari localizzati, ma le loro dimensioni furono incomparabili con quanto già avvenuto. Nel nuovo anno il baricentro dei conflitti sociali si spostò dalle piazze alle fabbriche e si modificarono i profili dei protagonisti delle azioni di protesta: al centro della scena non ci sarebbero più stati soviet annonari e “folle in tumulto”, ma organizzazioni sindacali urbane e rurali, consigli operai e, successivamente, forme di resistenza violenta contro lo squadrismo in ascesa23. In Italia non si era mai vista una mobilitazione tanto intensa, estesa, capace di coinvolgere settori sociali diversi e d’insistere nonostante la dura repressione che causò decine di morti: «oltre 80» dichiarò in Parlamento il deputato socialista ferrarese Mario Cavallari24, distribuiti in una dozzina di province, stando ai dati raccolti (Fig. 1. Mappa dei tumulti annonari, luglio-agosto 1919). Il moto, al cui interno – in molte località, ma non ovunque – i militanti rivoluzionari, le sezioni socialiste e le Camere del Lavoro svolsero un ruolo rilevante e talvolta dirigente, si esaurì solo con l’ottenimento di alcuni dei suoi principali obiettivi, sia in ambito locale – dalle amministrazioni comunali, dai negozianti, dai prefetti – sia su scala nazionale, con i decreti del governo Nitti. Non fu una rivoluzione; e quindi in Italia non ci fu una rivoluzione sconfitta, o tradita. Ma quell’ondata di tumulti, intrecciata con le mobilitazioni contadine e le lotte operaie, fu parte integrante d’una «situazione rivoluzionaria» – per riprendere le parole di Charles Tilly – segnata dalla temporanea presenza di sovranità multiple che si contendevano il controllo degli spazi pubblici, di pezzi dello Stato e delle sue articolazioni locali25. Nemmeno in questa occasione, però, l’insieme dei movimenti sociali s’incontrò col pieno sostegno di nessuna “agenzia”, di organizzazioni politiche o sindacali dotate della capacità – e della volontà – d’unificare il campo delle proteste per guidare la contesa sul piano politico generale; un po’ come era avvenuto al movimento contro la guerra nell’anno della neutralità26.
di Stato di Siena (ASS), TP 1919 e Prefettura 1919; Bibliothèque de Documentation Internationale Contemporaine, Nanterre, GF Delta 143/1-80. 23 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 150; Roberto Bianchi, Quelle che protestavano, 1914-1918, ne La Grande Guerra delle italiane. Mobilitazioni, diritti, trasformazioni, a cura di Stefania Bartoloni, Viella, Roma 2016, pp. 208-209. 24 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, XXIV Legislatura, Discussioni, Tornata del 28 luglio 1919, p. 20059. Nel corso dei tumulti, in un tabulato riassuntivo del Ministero degli Interni fu indicata la cifra provvisoria di 36 morti: vedi ACS, PS 1919, K5, b. 102, f. Caroviveri. 25 Cfr. Charles Tilly, Le rivoluzioni europee, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 19. 26 Si veda Fulvio Cammarano (a cura di), Abbasso la guerra! Neutralisti in piazza alla vigilia della prima guerra mondiale in Italia, Le Monnier, Firenze 2015, pp. 1-15.
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Come vedremo, governare i movimenti e offrire una concreta prospettiva di sviluppo ai tumulti e alle “furie”27 appare oggi un’impresa quasi impossibile, tante erano le contraddizioni e i contrasti interni, e le fratture generate da mobilitazioni che in certi luoghi colpirono anche i mezzadri, protagonisti di intense lotte proprio in quella fase. Per dirlo con altre parole, le ondate di rivolta del dopoguerra italiano ricordano poco la forza lineare delle potenti onde oceaniche che si abbattono sulle coste atlantiche con regolarità; assomigliano molto di più alle piccole, tante e trasversali onde mediterranee che smuovono le sabbie delle coste tirreniche: imprevedibili, contrastanti, pericolose e talvolta mortali, mai in sincrono nella loro frequenza. Visto il carattere ibrido dei tumulti annonari, non deve quindi stupirci che in una delle aree epicentro delle rivolte i moti del 1919 sarebbero rimasti impressi nella memoria e nel linguaggio popolare come bocci-bocci, un termine che intreccia la parola bolscevichi – o bolscevismo – con la locuzione toscana “fare i cocci”, ovvero perdere le staffe, arrabbiarsi e rompere tutto. L’espressione sarebbe sopravvissuta nell’Italia repubblicana, prima di scomparire col Novecento. In attesa di un’adeguata ricerca etimologica, qui interessa rilevare che il termine rievoca la sovrapposizione di linguaggi e pratiche della protesta che caratterizzò i moti, generalmente considerati tipici di epoche diverse e separate. Quei tumulti ebbero conseguenze rilevanti nella ridefinizione delle relazioni tra lo Stato liberale e una società che faticava a uscire dalla guerra, come nell’emergere all’interno del movimento socialista e sindacale di nuove fratture che avrebbero portato a scissioni ed emorragie, a dispetto del tentativo d’unificare i movimenti dietro le bandiere della difesa della rivoluzione russa e di quella ungherese, contro il sostegno offerto dall’Intesa alle armate bianche, con l’organizzazione dello sciopero generale internazionale per il 20 e 21 luglio, che però si chiuse con una sensazione di fallimento28. Se i tumulti assunsero una dimensione inattesa, sia per la loro estensione sia per la loro capacità organizzativa, non furono un evento completamente imprevisto. Fin dall’anno della neutralità il paese era stato segnato da proteste annonarie che nel 1917, soprattutto in alcune città industriali e in molte zone rurali più o meno industrializzate, sembrarono poter mettere in crisi la tenuta del fronte interno. Nel 1919 il movimento esplose a ridosso della firma del trattato di Versailles, con la crisi del governo Orlando e prima della formazione del governo Nitti, quando peraltro circolavano voci di sedizione militare29. Questo mentre le lotte operaie e soprattutto le rivolte contadine – con occupazioni di latifondi e terre spesso non “incolte”, scontri per il controllo di risorse considerate comuni, scioperi di braccianti e agitazioni mezzadrili – erano in piena ascesa, innervate dalla presenza dei primi reduci tornati dal fronte, e quando tutto il mondo del lavoro era in grande agitazio-
27 Cfr. Enzo Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano 2012 (2011), pp. 45-64; Arno J. Mayer, The Furies. Violence and Terror in the French and Russian Revolutions, Princeton University Press, Princeton 2000, pp. 23-44. 28 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 96; Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., p. 194; Charles S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1999 (1975), p. 132; Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. 1… cit., p. 488. 29 Vedi Giulia Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 5.
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ne, con scioperi di operai, impiegati, funzionari, insegnanti e maestri, o persino di preti e gruppi di carabinieri30. Obiettivi delle rivolte furono: l’abbassamento dei prezzi e l’imposizione di nuovi calmieri; il controllo delle merci e della loro distribuzione; la punizione di speculatori e “pescecani di guerra”; le dimissioni di sindaci coinvolti in scandali annonari, individuati come profittatori della mobilitazione totale o come pessimi gestori dei mercati cittadini; il ripristino di norme morali infrante col troppo rapido smantellamento della mobilitazione annonaria; l’imposizione di forme di controllo popolare attraverso soviet annonari, commissioni popolari o comitati denominati in vario modo che, di fatto, tendevano ad assumere i tratti d’una nuova forma di potere capace d’operare su scala locale e in un ambito d’alto valore simbolico, che rivestiva un ruolo centrale per le economie familiari. Nel movimento si affiancarono forme tipiche delle proteste d’età preindustriale e moderne forme di organizzazione della lotta; assalti ai castelli e sciopero generale; charivari e guardie rosse. Nella valle del Bisenzio, a nord di Firenze, nei pressi di Prato, fu persino proclamata una Repubblica sovietica che, nella sua brevissima vita, ebbe modo di organizzarsi con guardie dotate di fasce rosse sul braccio che eseguivano controlli stradali e rilasciavano passaporti per attraversare il territorio “liberato”, e con varie altre forme simboliche di presa del potere a livello locale. Tutto ciò mentre altrove erano presi d’assalto forni e botteghe, ma anche ville padronali e palazzi comunali31. Insomma, il termine bocci-bocci sintetizza in modo efficace la coincidenza tra gli assalti ai forni di manzoniana memoria e una possibile evoluzione dei disordini nei mercati verso un’insurrezione generale, un po’ come si diceva fosse avvenuto l’8 marzo 1917 in Russia, all’inizio della rivoluzione di Febbraio. La contaminazione e l’intreccio tra forme, repertori e pratiche diverse della rivolta emerge chiaramente osservando i linguaggi adottati dai rivoltosi e tentando di decifrare le logiche di azione della folla. Termini come “giusto”, “equo”, “legittima” erano sempre associati a parole come “prezzo”, “guadagno”, “richiesta”, per indicare le regole cui i commercianti, i proprietari, le autorità annonarie avrebbero dovuto adattarsi per evitare il tumulto. I rivoltosi non parlavano di lotta contro l’inflazione, ma di azioni contro accaparramenti illeciti, di censimento delle merci, blocco delle esportazioni dal territorio 30 In un documento del 29 gennaio 1919 firmato da «noi tutti aderitori [sic] alla protesta», un gruppo di carabinieri di Ancona minacciava uno «sciopero generale» se non fossero state migliorate le condizioni di vita e aumentati gli stipendi, perché – si legge – «siamo buoni di reprimere [sic] qualunque sommossa, ma siamo anche in grado di crearla»: vedi ACS, PS 1919, C1, b. 61 Affari
generali, f. Agitazione Carabinieri. Cfr. inoltre le carte, per il periodo marzo-settembre 1919, ivi contenute nel f. Agitazione G.G. di Città e Carcerarie; nonché Elio Giovannini, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano, Prefazione di Gaetano Arfè, Ediesse, Roma 2001, p. 98. 31 Per i riferimenti d’archivio cfr. Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit., cap. III; Id., Grande guerra, Grande dopoguerra. Lotte politiche e conflitti sociali a Pistoia (1914-1921), in Pistoia nell’Italia unita. Identità cittadina e coscienza nazionale (Atti del Convegno di studi: Pistoia, 11-13 novembre 2010), a cura di Alberto Cipriani-Andrea Ottanelli-Carlo Vivoli, Società Pistoiese di Storia Patria-Associazione culturale Storia e Città-Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Pistoia 2012, pp. 263-290; Id., Il fronte interno alla prova. Le opposizioni alla guerra a Prato e in Toscana, in Un paese in guerra. La mobilitazione civile (1914-1918), a cura di Daniele Menozzi-Giovanna Procacci-Simonetta Soldani, Unicopli, Milano 2010, pp. 105-132.
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provinciale o comunale. Al contempo era in corso uno sciopero generale, in alcune località imperavano soviet annonari e in altre comitati di salute pubblica, o gruppi di commissari del popolo impegnati a censire merci e controllare il rispetto dei calmieri, già riportati in auge durante l’ultima fase della guerra e poi spazzati via a dispetto delle aspettative di molti consumatori. Alcuni luoghi pullulavano di guardie rosse, talvolta dotate di mezzi requisiti ai proprietari e divenuti “automobili rosse”, mentre altrove erano i carabinieri che con sindaci e rappresentanti delle Camere del Lavoro, o altre strutture sindacali, applicavano regole in fin dei conti molto simili a quelle dei rivoltosi autorganizzati. Le meticolosità dei requisitori delle merci, impegnati a rilasciare ricevute che promettevano un successivo pagamento – spesso poi regolarmente effettuato – stonavano con il caos apparentemente privo di logica di molti assalti ai negozi e ai magazzini di merci; ma erano due realtà che convivevano nello stesso movimento, che si legittimavano e rafforzavano reciprocamente. Le carte bollate e firmate rilasciate dai requisitori ai proprietari delle merci sembravano dare legalità a una nuova forma di gestione del potere su scala locale. Gli obiettivi delle folle non erano mai individuati a caso; erano il risultato di scelte razionali che discendevano dal periodo di guerra. I primi assalti colpirono i commercianti che non avevano rispettato il calmiere dei prezzi, quelli che si erano rifiutati di scendere a patti con la folla o che si erano arricchiti col mercato nero, e soprattutto coloro che si erano pubblicamente opposti alla riduzione dei prezzi in qualità di rappresentanti della categoria in trattative precedenti32. Furono invece rari gli episodi di «vandalismo distruttore e ingiustificato», gli assalti alle cooperative di consumo, le irruzioni in negozi di lusso33. Riproponendo caratteristiche tipiche dei tradizionali repertori delle proteste urbane, le folle in azione intavolavano trattative coi proprietari per imporre prezzi equi e la vendita di “merci imboscate”; erano guidate da capi improvvisati – donne o uomini – oppure da militanti socialisti, sindacali o da guardie rosse – sempre uomini. Se il negoziato andava a buon fine, il commerciante otteneva una ricevuta o un rimborso immediato a prezzo concordato; in caso contrario la folla prendeva d’assalto i locali e requisiva tutto. Talvolta i negozianti si nascondevano e assistevano da lontano alla catastrofe; in altre occasioni scoppiavano risse tra gli assalitori34. Le azioni erano rapide; in molte circostanze la riuscita dell’assalto dipendeva dal numero dei partecipanti, dalla loro determinazione, ma anche 32 Si vedano ACS, PS 1919, C1, b. 75 Siena, f. Approvvigionamenti; ibid., K5, b. 102 Sciopero generale internazionale, f. Caroviveri; nonché ASS, TP 1919, f. 61; ibid., Prefettura, 1919, b. 165, f. 29; infine “Bandiera rossa-Martinella”, 12 luglio 1919. 33
Gli assalti ad alcune cooperative di Milano e in Romagna – vedi ACS, PS 1919, C1, b. 70
Milano, f. Approvvigionamenti; “L’Avvenire cooperativo”, 25 agosto 1919; “La Cooperazione italiana”, 11, 18 luglio e 1° agosto 1919; “Corriere della Sera”, 14 luglio 1919 – furono subito celebrati da Mussolini ne “Il Popolo d’Italia” del 7 luglio 1919 e da “L’Idea Nazionale” del 6 luglio 1919, poi messi in rilievo da Umberto Ricci, La politica annonaria dell’Italia durante la guerra, Laterza, Bari 1939, pp. 76-79, in cui si rielaboravano i seguenti scritti: Il fallimento della politica annonaria, La Voce, Firenze 1921; Maffeo Pantaleoni, La fine provvisoria di un’epopea, Laterza, Bari 1919, p. 299; Luigi Einaudi, La condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari 1933, p. 257 e Id., Il giusto prezzo, “Corriere della Sera”, 16 luglio 1919. Su Milano, si veda infine Ivano Granata, Crisi della democrazia. La Camera del Lavoro di Milano dal biennio rosso al regime fascista, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 22-35. 34 Per alcuni esempi cfr. ASF, TP 1919, ff. 558, 560, 595; nonché “La Nazione”, 6 luglio 1919.
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dal caso. La loro forza era data dalla minaccia di violenze; non a caso furono relativamente pochi gli episodi d’aggressione alle persone35. La violenza del moto, dunque, non era cieca. Una logica della folla era presente anche in quei giorni36, a dispetto della popolarità d’una «psicologia delle folle» definita pochi anni prima da autori che avrebbero avuto un ampio e persistente successo editoriale, come Gustave Le Bon, o che avevano delineato nuove categorie giuridiche per interpretare, giudicare e punire con criteri più moderni i delitti della «folla delinquente», come l’ingiustamente dimenticato Scipio Sighele37. Non esistevano meneurs de foules, ma all’interno delle folle emergevano figure che assumevano un ruolo particolare. Ad esempio i reduci di guerra che potevano vantare una sorta di credito morale verso la patria e la società difese in tempo di guerra, specie se mutilati o appartenenti a un corpo speciale come quello degli Arditi. Nei primi momenti dell’agitazione, sulla saracinesca di un vinaio che si era barricato in bottega, due militari – forse graduati – con una folla al seguito, furono visti vibrare colpi di sciabola38. A Firenze un Ardito classe 1895, momentaneamente in licenza ma con la divisa indosso e il pugnale in mano, dall’alto d’un barroccio improvvisò un piccolo comizio mentre la folla svuotava un magazzino di stoffe nei pressi del Duomo: «con gran gesti arringò i presenti, confortandoli col dire che si faceva bene e solo così si poteva raggiungere lo scopo»39. Furono numerosi gli episodi di fraternizzazione tra rivoltosi e militari; alcuni soldati parteciparono direttamente alla rivolta. Soldati e marinai, schierati in servizio di ordine pubblico, più volte vennero applauditi dai manifestanti, mentre i carabinieri erano accolti con ostilità. Già durante i moti di giugno molti funzionari di polizia notarono soldati e marinai che condividevano con gli «svaligiatori» vino e sigarette: «reparti truppa non sempre secondano richieste e direttive funzionari e qualcuno mostrasi passivo di fronte
35 36
Si veda ad esempio ACS, PS 1919, C1, b. 62 Ancona, f. Approvvigionamenti. Cfr. Mike Haynes, The return of the Mob in the Writing French and Russian Revolutions,
“Journal of Area Studies”, n. 13 1998, pp. 56-81; Jean Nicolas, La rébellion française. Mouvements populaires et conscience sociale, 1661-1789, Gallimard, Paris 2008, pp. 9-22; Arlette Farge-Jacques Revel, La logica della folla. Rapimenti di bambini nella Parigi del 1750, Laterza, Bari 1989. 37 Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, Introduzione di Piero Melograni, Longanesi, Milano 1980 (1895); Id., Psicologia delle rivoluzioni, M&B Publishig, Casciago 2000 (1912); Scipio Sighele, La folla delinquente, a cura di Clara Gallini, Marsilio, Venezia 1985 (1891). Sull’importanza di Sighele si veda Luisa Mangoni, Una crisi fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985, ad nomen. Nella recente e utile rilettura proposta da Emilio Gentile, Il capo e la folla, Laterza, Roma-Bari 2016, sembrano mancare riferimenti al criminologo bresciano e al suo piccolo best seller di fine ’800. L’attuale Codice penale italiano – come quello fascista – è debitore di alcune riflessioni proposte da Sighele: penso, in particolare, al comma 3 dell’art. 62, dove si fa riferimento alle attenuanti «per suggestione di una folla in tumulto». 38 “Il Nuovo Giornale”, 4 luglio 1919; ASF, TP 1919, f. 504 ed inoltre ff. 468 e 523; infine ASS, TP 1919, f. 65.
L’Ardito Iozzelli, fiorentino, sposato e con piccoli precedenti penali, prima della guerra faceva il venditore ambulante. Fu arrestato e rinchiuso in galera; riuscì a fuggire confondendosi con le guardie grazie alla divisa; riconosciuto, venne nuovamente arrestato, processato e condannato a due anni di carcere e 500 lire di multa per complicità in furto aggravato e violenza privata: vedi ASF, TP 1919, f. 468. 39
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atteggiamento dimostranti», scrisse un Sottoprefetto al diretto superiore40. Tante voci, tra giugno e luglio, parlarono d’insubordinazioni: «si sono rifiutati di sparare», «si sono ammutinati»; qualcuno avanzò la cifra di 1.500 militari puniti, solo a La Spezia, per essersi opposti agli ordini41. Due anni dopo Caporetto, tornava così ad aggirarsi il fantasma dello “sciopero militare” ma, come nell’autunno 1917, nell’estate 1919 non ci fu nessuno sciopero militare in Italia42. In realtà per tutto il tumulto il ruolo dei soldati oscillò tra un adeguamento passivo agli ordini, quindi alla gestione dell’ordine pubblico, e una simpatia attiva verso i rivoltosi. Ma a differenza di quello che era accaduto con la rivoluzione di Febbraio in Russia, in Italia le forze armate non si schierarono con l’insurrezione, se non in alcuni casi locali; si tratta di episodi da non sottovalutare e che spesso sono stati dimenticati in sede storiografica da studiosi troppo spesso abbagliati dalle luci che iniziarono a sfavillare da Fiume subito dopo la fine dei moti annonari. Insomma, nell’Italia del 1919 non funzionò quello «schema evidente» richiamato in sede storica per spiegare successi e insuccessi delle rivoluzioni nell’Europa tra 1917 e 1920: le truppe non passarono massicciamente dalla parte degli insorti43. Non era un esito scontato, come mostrano i telegrammi spediti in tutta Italia tra prefetture, stazioni dei carabinieri, questure, Direzione generale di PS, Ministero degli Interni, ora conservati all’Archivio Centrale dello Stato e in Archivi di Stato locali. Fu il risultato d’una gestione oculata delle forze militari, fatta di consegne in caserma, tolleranza e dialogo tra superiori e inferiori, spostamenti di reparti e, in una certa misura, fu anche un prodotto delle lezioni tratte dalle vicende russe che avevano stimolato la pubblicazione e la distribuzione tra i quadri intermedi delle forze armate d’istruzioni sulla gestione delle truppe nei momenti di crisi sociale44. Fu anche la conseguenza di particolari fratture interne alle forze armate che riemergevano in quell’estate, chiusa con la spedizione fiumana. Militari parteciparono alla rivolta o simpatizzarono esplicitamente con il tumulto; poteva capitare di vedere Arditi o persino sottoufficiali dell’esercito che guidavano requisizioni e tenevano comizi contro l’ingiustizia sociale. Però, negli stessi giorni, altri Arditi e altri
ACS, PS 1919, C1, b. 68 Genova, f. Approvvigionamenti-disordini: Conflitto a Spezia (11 giugno 1919); Sottoprefetto La Spezia a Prefetto di Genova, 12 giugno 1919; Relazione dell’Ispettore generale di PS a Ministero dell’Interno, 21 giugno 1919. 40
41 Ibid., Prefetto di Lucca a Ministero dell’Interno, 16 giugno 1919; Comando in Capo del Dipartimento Marittimo di La Spezia a Ministero della Marina, 19 giugno 1919.
Finito il Novecento, il mito dello «sciopero militare» è stato nuovamente riproposto da Piero Neri, Speranze rivoluzionarie, tragedia bolscevica, inganno stalinista, ne Il libro rosso del socialismo. Speranze, ideali, libertà, a cura di Dario Renzi et al., Prospettiva, Roma 1998, p. 207, là dove si rinvia a Riccardo Anfossi, Le Internazionali (1864-1943). Storia di un’idea, Prospettiva, Roma 1994, pp. 76 sg. 43 Michael Hanagan, Dalla Rivoluzione Francese alle rivoluzioni, in Storia d’Europa. Vol. 5. L’età contemporanea, a cura di Paul Bairoch-Eric J. Hobsbawm, Einaudi, Torino 1996, p. 665. O ancora, come ha scritto Lev Davydovic Trockij, Storia della rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1969 (1932), p. 143: «senza dubbio alcuno, le sorti di ogni rivoluzione, in una certa fase, sono decise da un mutamento nello stato d’animo dell’esercito». 42
44 Sull’uso oculato delle forze militari nei tumulti cfr., ad esempio, ACS, PS 1919, C1, b. 68 Genova, f. Approvvigionamenti-disordini, Specchi riassuntivi del personale impiegato da Marina ed
Esercito nelle giornate di tumulto (senza data ma 15-20 giugno 1919).
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sottoufficiali o ufficiali dell’esercito potevano ordire, con delegati di Pubblica Sicurezza, provocazioni contro i manifestanti per scatenare repressioni sanguinose, come sembra sia avvenuto a Spilimbergo e in altre località45. In generale, gli assalti della folla erano rapidi, miravano a obiettivi prossimi e conosciuti; è però vero che alcuni «svaligiamenti» durarono molte ore, altri pochi minuti; talvolta, alcuni negozi furono colpiti più volte. Le folle degli assalitori erano generalmente composte da gente del quartiere46. Quasi ogni assalto era preceduto da trattative, ma non è facile descrivere uno schema sempre valido per ogni episodio. Di fatto, i comportamenti delle folle erano dettati dalla volontà di ripristinare regole di mercato infrante47. Nelle piazze del 1919 non comparvero barricate, come era invece avvenuto a Torino nell’agosto 1917 e come si sarebbe verificato negli scontri con gli squadristi dall’inizio del 1921 in poi48. La rivolta non si militarizzò nemmeno da questo punto di vista perché non ne aveva bisogno; aveva invaso tutti gli spazi pubblici coinvolgendo una fetta maggioritaria della popolazione in moltissime località. Fu una rivolta apparentemente priva di forma, costituita da un’infinita quantità di episodi ripetitivi, solo in apparenza non organizzati; sempre codificati, dotati d’un qualche tipo di organizzazione interna o, molto spesso, strutturati con organismi di lotta creati per l’occasione e che potenzialmente avrebbero potuto rappresentare l’embrione per nuove forme di gestione del potere su scala municipale o paesana. I manifestanti avevano la convinzione di «fare cosa lecita»; alcuni gridavano «viva la rivoluzione», «il governo siamo noi»; altri cantavano arie riprese da opere di Verdi o inni politici49. Riemergeva l’antico legame tra festa e rivolta. In molti rapporti di polizia o nelle denunce di parte lesa conservate nei fascicoli processuali si trovano insistiti riferimenti a «folle ubriache», «ebbre», «donne di malaffare», «orda di popolo avida di saccheggio e distruzione»; la folla protagonista del tumulto era insomma descritta ricalcando antichi schemi e le definizioni rese celebri da alcuni studiosi delle folle di fine Ottocento. Si tratta d’una folla femminile, primitiva, istintiva o isterica, deprivata d’ogni possibile elemento di raziocinio. Per un grande studioso come Luigi Einaudi, sostenitore dello smantellamento d’ogni controllo sui prezzi e sul mercato alimentare, era tornata in scena «la medesima, la vecchia psicologia delle folle, che immagina di poter ribassare i prezzi devastando, sciupando, facendo baldoria per qualche giorno»50. L’interventista democratico Gaetano Salvemini – futuro antifascista, ma nel 1919 ancora più vicino alle varie componenti dell’interventismo, anche le più radicali, che non alle lotte popolari e sindacali – testimone dei fatti di Firenze, descrisse una città «sfiascheggiata», non «saccheggiata», da «gente bonaria, gioconda, lieta di potersi godere finalmente un fiasco a due lire o addirittura gratis», mentre sulla Si veda Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile… cit., p. 85. Cfr. per esempio ASF, TP 1919, ff. 409, 424, 427, 432, 434, 464, 467; indi ACS, PS 1919, C1, b. 66 Firenze, f. Approvvigionamenti. 47 Vedi ASP, TP 1919 Sentenze, f. 147; nonché ASF, TP 1919, ff. 469, 473, 579, 595. 48 A Pisa e altrove furono usate assi di legno e corde per bloccare la cavalleria; ma non si trattava di barricate. Sulle barricate nella storia francese si veda Alain Corbin-Jean Marie Mayeur (a cura di), La barricade, Publications de la Sorbonne, Paris 1997. 49 ASF, TP 1919, ff. 422, 468, 492, 511, 539, 579; ASF, Processi risolti dalla Corte d’Assise (d’ora in poi Assise) 1920, b. 27, p. I, f. 12. 50 Luigi Einaudi, Cronache economiche e politiche d’un trentennio: 1893-1925. Vol. 5. 19191920, Einaudi, Torino 1961, p. 73. 45
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sua “Unità” teorizzava contaminazioni tra l’agitata propaganda d’alcuni nazionalisti ed ex «interventisti rivoluzionari» col carattere turbinoso e ingovernabile d’una rivolta dotata di notevole forza centripeta51. In effetti questi giudizi si appoggiavano su aspetti reali degli eventi, come mostrano gli articoli apparsi sulla stampa nazionalista e combattentista in quei giorni52; come pure sull’evidente carattere gioioso delle azioni di folla, esplose dopo i duri anni di guerra, i lutti, la pandemia di spagnola che anche in Italia aveva causato più morti della guerra mondiale; e sulla emergente volontà di rendere operanti le promesse di rigenerazione e le speranze millenaristiche che avevano contribuito a mantenere un certo ordine sociale durante il grande conflitto. Festa e violenza erano parti integranti d’un movimento tumultuoso dai tratti rivoluzionari, dotato di obiettivi prossimi e raggiungibili, ma innervato da richieste di rinnovamento generale, dalla volontà di ripristinare norme morali infrante che avrebbero potuto diventare legge e un volano per costruire un mondo nuovo, dopo una guerra che per le sue dimensioni e il suo carattere inedito aveva dimostrato concretamente come tutto fosse possibile, anche l’impensabile. Le azioni di folla puntavano a imporre una ridistribuzione delle ricchezze, ma non necessariamente a cambiare le forme di produzione e i rapporti di classe; si indirizzarono verso espropri di obiettivi ritenuti legittimi. Le mete erano sempre merci, luoghi, oggetti; solo in rari casi persone. Le violenze sui commercianti e sui proprietari furono relativamente molto poche, considerando la situazione generale; comunque ci furono anche alcuni scontri con mezzadri che ebbero ricadute molto gravi53, nonostante i tentativi d’unificare la lotta annonaria con le agitazioni coloniche, con spirito solidale54. In generale, il carattere limitato nel tempo dell’imposizione d’un mondo alla rovescia da parte dei rivoltosi sembrò sempre presente nelle parole e nelle azioni dei protagonisti55. Va però ribadito che dalle cronache della rivolta emerge un diffuso desiderio di giustizia sociale, portato avanti da folle eterogenee, composte soprattutto da giovani uomini e donne, non raramente guidati da donne d’età più matura, provenienti da settori sociali diversi ma sempre pienamente inseriti nelle società e nelle economie locali: gente che lavorava, generalmente un po’ più alfabetizzata rispetto alla media della popolazione censita e quasi sempre senza precedenti penali, come mostra un confronto analitico tra una porzione 51 Cfr. Gaetano Salvemini, Opere. Vol. 6. Scritti sul fascismo, Tomo I, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 17, 468-478; indi “Unità”, 10 luglio e 4 settembre 1919. Per le citazioni si veda Roberto Bianchi, Pace, pane, terra… cit., passim. 52 Cfr. Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. 1… cit., p. 450. 53 Sull’incendio delle stalle di alcuni mezzadri, che in provincia di Firenze si erano barricati in casa e avevano preso a fucilate i requisitori, vedi ASF, Assise 1920, b. 27, p. II, f. 17 e b. 28, f. 24; indi ACS, PS 1919, C1, b. 66, f. Approvvigionamenti, Prefetto a Ministero degli Interni, 5 luglio 1919. Cfr. poi “La Patria”, 13 luglio 1919; “Il Lavoro”, 12 luglio e 27 dicembre 1919; “La Nazione”, 22 giugno 1920. Sulle contromanifestazioni d’alcuni mezzadri – che, armati di «vanghe e forconi» per difendersi dalle angherie di «false commissioni», «dalle rispettive aie spararono dei colpi di fucile in aria» – organizzate a Brozzi, Monsummano e nell’Aretino, cfr. ACS, PS 1919, C1, b. 69 Lucca, f. Approvvigionamenti, Prefetto a Ministero degli Interni, 10 luglio 1919; ASF, TP 1919, f. 810; “La Nazione”, 6 e 7 luglio 1919; Corrispondenze. Brozzi. Come à funzionato il Soviet, “La Difesa”, 19 luglio 1919. 54 Cfr. ACS, PS 1919, C1, b. 66, f. Agitazione caro-viveri, Consiglio direttivo Società dei lavoratori della terra, 12 luglio 1919. 55 Si veda ad esempio ASF, TP 1919, ff. 468, 492, 511, 552, 559, 588.
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significativa d’imputati – oltre 600, vagliati tenendo conto delle varie modalità d’azione delle forze di polizia, delle selezioni che portavano dall’arresto al tribunale, dell’evidente squilibrio de facto nel diritto di pari punibilità tra uomini e donne nella prassi giudiziaria – e i dati dei censimenti generali della popolazione del 1911 e del 1921 per l’area esaminata56. Questa straordinaria miscela di classi lavoratrici, urbane e rurali – ma non mezzadrili – mostrò una notevole forza d’urto nei moti di quell’estate, ottenendo molti dei suoi obiettivi, fino al varo d’una serie di provvedimenti decisi dal governo Nitti; erano conquiste importanti, sicuramente maggiori di quelle solitamente ottenute dai tumulti d’età preindustriale57. Il moto si esaurì dopo aver mostrato la propria forza, punito alcuni “pescecani di guerra”, imposto nuovi calmieri e forme condivise di controllo annonario tra rappresentanti dei Municipi e delle Prefetture e delegati degli organismi di lotta. Ma proprio con la vittoria, col suo appagamento, il moto mostrò molte delle contraddizioni che fin dall’inizio lo avevano caratterizzato. In primo luogo si deve ricordare che ovunque, nella penisola, i delegati che lo dovevano rappresentare nei nuovi organismi di cogestione dell’annona – per concordare e controllare prezzi e mercati – erano uomini adulti; restavano esclusi i ragazzi e soprattutto le donne, a dispetto del protagonismo femminile che aveva caratterizzato l’esplosione della rivolta e che in certi momenti aveva diretto la mobilitazione popolare. Va detto che nel corso dell’estate le mobilitazioni avevano assunto più forza e determinazione, rispetto alle lotte annonarie del tempo di guerra e a quelle d’inizio giugno 1919; ma erano anche divenute permeabili a forme di azione più violenta, giovandosi dell’apporto consistente e visibile di soldati e di reduci. I combattenti, col loro peso morale, guidarono la riconquista dell’egemonia maschile nelle proteste di piazza, facendo leva anche sul ruolo degli uomini nei partiti e nelle organizzazioni sindacali. In qualche modo, la storia delle proteste popolari ripropone quesiti legati al tema del rapporto tra “guerra ed emancipazione” ampiamente discusso in sede storica e rinnovato con opere uscite, o riedite, in occasione del centenario del 1914-191858. In secondo luogo va rilevato che il moto si esaurì sia per l’intelligente politica di Nitti, sia per l’atteggiamento tenuto dai dirigenti delle forze politiche che più di tutte erano coinvolte al suo interno. Gran parte dei dirigenti socialisti, anarchici e sindacali, nonostante il ruolo giocato nella rivolta dai loro militanti e dai periodici locali, presero le distanze da una mobilitazione popolare che non rispondeva alla rivoluzione immaginata e tanto teorizzata. Uomini di alto profilo come Ludovico D’Aragona, Segretario della Confederazione Generale del Lavoro, il riformista Claudio Treves o il massimalista Giacinto Menotti Serrati, periodici come l’organo della CGdL “Battaglie Sindacali”, o come quelli pubblicati dai verVedi il quarto capitolo di Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit. Cfr. Eric J. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Einaudi, Torino 1966 (1959), p. 156; George Rudé, La folla nella storia, 1730-1848, Editori Riuniti, Roma 1984 (1981), pp. 281-291. 58 Cfr. Simonetta Soldani, Donne italiane e Grande Guerra al vaglio della storia, ne La Grande Guerra delle italiane… cit., pp. 21-53; Françoise Thébaud, Les femmes au temps de la guerre de 14, 56 57
Payot, Paris 2013, p. 426; Galit Haddad, 1914-1919. Ceux qui protestaient, Les Belles Lettres, Paris 2012, pp. 125-130; Ead., La guerre de 1914-18, matrice du pacifisme féminin au XXe siècle, in Dans la guerre 1914-1918. Accepter, endurer, refuser, a cura di Nicolas Beaupré-Heather Jones-Anne Rasmussen, Les Belles Lettres, Paris 2015, p. 344; Joanna Bourke, Gender roles in killing zone, in The Cambridge History of the First World War. Vol. 3. Civil Society, a cura di Jay Winter, Cambridge University Press, Cambridge 2014, pp. 153-178.
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tici del movimento cooperativo, ma anche giornali come l’“Avanti!” e “Il Soviet”, diretto da Amadeo Bordiga, in vario modo si adoperarono per condannare o anche solo per prendere le distanze da tumulti ritenuti inconcludenti, da jacqueries primitive e azioni ritenute nefaste59. Persino l’anarchico Camillo Berneri giudicò severamente i moti, additati come una sorta di “distrazione” per le masse da obiettivi indicati come meno infantili e più importanti. Ripensando ai moti dopo qualche anno, la futura icona antistalinista della guerra di Spagna avrebbe scritto che «forse il governo vedeva di buon occhio questi tumulti sporadici e mal diretti, in quanto diminuivano la pressione insurrezionale, distraevano l’opinione pubblica dalle vere cause…»60. Dal canto suo, Serrati condannò i tumulti in nome del bolscevismo: il disordine delle folle in rivolta richiamava un metodo «nettamente combattuto in Russia dai nostri amici Lenin e Trotsky. In Russia si chiamano i saccheggiatori les requins de la révolution. In Italia i saccheggiatori non erano dei compagni, ma degli avversari»61. Con un banale gioco di parole, il dirigente massimalista trasformava i protagonisti della rivolta contro i “pescecani di guerra” in «pescecani della rivoluzione». Quasi identico fu il tono usato da “Il Soviet” di Napoli, diretto da uno dei futuri protagonisti della scissione di Livorno, che chiamò in causa addirittura «la millenaria esperienza dei popoli» per additare la «fallacia» dei «rimedi empirici»62. Ugualmente, Claudio Treves – che già all’indomani della Settimana Rossa aveva cercato di dimostrare teoricamente l’antitesi fra «la folla, la teppa» e la «rivoluzione socialista» – si premurò di spiegare che gli italiani dovevano evolversi da Masaniello a Marx; dovevano cioè abbandonare le rivolte tumultuose per prepararsi allo sciopero dimostrativo organizzato dall’alto, in solidarietà con Russia e Ungheria: «il giorno 20 e 21 di luglio, anche se non saranno così alti i rumori del successo immediato, trionferà col suo grande spirito di verità e di luce il Maestro, Carlo Marx; ossia trionferà la forza realistica della ragione sopra i miti religiosi»63.
59 Cfr. “Battaglie Sindacali”, 12 luglio 1919; “Critica sociale”, 16-31 luglio 1919; “Avanti!”, 5 e 8 luglio 1919; “L’Avvenire cooperativo”, 25 agosto 1919; “La Cooperazione italiana”, 11, 18 luglio e 1 agosto 1919. “Il Soviet” del 20 luglio 1919 si scagliava contro lo «sciopero espropriatore», un «concetto anarcoide che nulla ha di rivoluzionario». Ben diverso l’atteggiamento di quasi tutti i giornali socialisti locali, che sostennero le ragioni della rivolta in modo convinto e argomentato, con l’eccezione del ferrarese “Bandiera Socialista”, che il 12 luglio 1919 titolava I danarosi che hanno svaligiati i negozi siano inchiodati alla gogna dalla cittadinanza, proponendo una sorta d’interpretazione complottista che troviamo pure sull’“Unità” di Salvemini. 60 Camillo Berneri, Il fascismo, le masse, i capi, “Studi politici”, giugno-luglio 1923, pp. 153-157. 61 “Battaglie Sindacali”, 20 settembre 1919; l’articolo proponeva la traduzione d’una lettera già pubblicata da “La Vie ouvrière”, 13 agosto 1919, scritta in risposta a un precedente intervento dell’anarchico Borghi: vedi anche Armando Borghi, La rivoluzione mancata, Azione Comune, Milano 1964 (1925), pp. 96-98. 62 Rimedi illusori, nonché Amadeo Bordiga, Il pensiero della Sezione socialista, “Il Soviet”, 13 luglio 1919. 63 Claudio Treves, Da Masaniello a Marx, “Critica Sociale”, 16-31 luglio 1919. In Id., La teppa e la rivoluzione socialista, ibid., 1-15 luglio 1914, inoltre leggiamo: «La folla, la teppa, anzi, si impadronisce della “nostra” battaglia, la fa propria, le dà il carattere che vuole, la volge ai fini che vuole, magari diversi dai nostri, ai fini di saccheggio e devastazione […], di reazione sciovinista, superstiziosa, brigantesca».
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Insomma, con un atteggiamento mistico coloro che si proponevano di dirigere la rivoluzione riversavano le forze verso appuntamenti di tipo propagandistico e privi di mordente; mostravano così la distanza che separava i movimenti sociali del nuovo “secolo degli estremi” – innervati dalla presenza di militanti socialisti, sindacali e anarchici, che spesso li dirigevano su scala locale – dalle “agenzie”, dalle forze politiche che comunque rappresentavano un punto di riferimento ineludibile per la società in movimento: impossibilitate a comprendere il profilo ambiguo dei conflitti sociali, delle rivoluzioni e delle guerre civili del secolo che veniva, troppo diversi da quelli dell’Ottocento ormai finito. Tra luglio e agosto ai rivoltosi fu chiesto, o persino imposto, di smobilitare gli organismi di potere annonario, i soviet, i comitati di salute pubblica, le commissioni operaie, i comitati di requisizione sorti durante la lotta, per non ostacolare la preparazione del grande «sciopero dimostrativo», dicendo di dover evitare ogni forma di collaborazione con le istituzioni borghesi. La propaganda ebbe infine la meglio e contribuì a soffocare le forme d’autorganizzazione della società64. Ma per capire il bocci-bocci, questo particolare episodio di “bolscevismo all’italiana”, non sono sufficienti letture solo politiche – centrate sul ruolo e le “responsabilità” dei dirigenti, o la fondamentale reazione dello Stato e l’opera del governo – o di taglio sociologico. Una analisi interna delle azioni di folla può giovarsi dell’uso di categorie interpretative come economia morale o, meglio, come nuova economia morale, per mettersi in sintonia con un’ampia storiografia internazionale che da alcuni decenni discute e aggiorna l’opera di Edward P. Thompson65; senza però limitarsi ad applicarle in modo rigido e scolastico. Abbiamo visto il contenuto razionale dei tumulti. I rivoltosi scelsero i loro capi, selezionarono gli obiettivi, raccolsero e diffusero informazioni, imposero prezzi e norme eque in nome d’una giustizia sociale ed economica, vollero ristabilire un ordine morale nelle relazioni di scambio commerciale sentendosi legittimati nelle loro azioni di protesta dalla «convinzione di difendere, in tal modo, diritti e costumi tradizionali» e quindi «di godere della più ampia approvazione della comunità»66, lottando per il mantenimento e il miglioramento di quanto era stato concesso e pattuito da e con le autorità durante la mobilitazione annonaria del tempo di guerra. Questi aspetti, è evidente, fanno interpretare i moti nel solco della nuova economia morale. Usare il modello in modo meccanico, però, comporta il rischio di sottovalutare le trasformazioni interne ai movimenti di protesta avvenute tra guerra e dopoguerra e, soprattutto, nel corso delle lunghe settimane di primavera ed estate 1919. Nella fase più accesa dei moti, infatti, i manifestanti non si limitarono a esprimere forme di resistenza arcaica, a guardare indietro nel tempo per restaurare un ordine sociale infranto dal corso della storia, orientandosi verso «una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della co64
ACS, PS 1919, K5, b. 105, f. Torino, Prefetto a Ministero degli Interni, 10 luglio 1919.
Si veda il celebre saggio del 1971 e la rilettura proposta dall’autore vent’anni dopo in Edward P. Thompson, Custom in Common, Merlin Press, London 1991, pp. 185-258 e 259-351; ricordo che il secondo saggio non è mai stato tradotto in italiano. Cfr. inoltre Christos Efstathiou, E.P. Thompson: The Twentieth-Century Romantic, Merlin Press, London 2015; Didier Fassin, Les économies morales revisitées, “Annales HSS”, n. 6 2009, pp. 1237-1266; Simona Cerutti, Who is below?... cit. 66 Cito dalla traduzione curata da Edoardo Grendi: Edward P. Thompson, L’economia morale delle classi popolari inglesi nel secolo XVIII, in Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, Einaudi, Torino 1981, p. 59. 65
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munità»67. Questi elementi erano stati effettivamente presenti nei moti durante la guerra e fino alla prima metà del 1919, quando era stata predominante la richiesta di ristabilire un ordine infranto, prima dalla mobilitazione totale e, dopo, dalla smobilitazione liberista. Ma con i grandi tumulti di luglio le cose cambiarono; al loro interno svolsero un ruolo evidente molti reduci, comparvero forme inedite d’organizzazione e nell’ideologia della protesta gli elementi «derivati» assunsero un peso maggiore rispetto a quelli «intrinseci» e tradizionali68. I tumultuanti chiedevano il ristabilimento di norme “eque” e “giuste”, talvolta colorate da tratti millenaristici ripresi dalla retorica del tempo di guerra; però guardavano anche in “avanti”, alla possibile costruzione d’un mondo nuovo, in certi luoghi simboleggiato dai bracciali delle “guardie rosse” o dal richiamo all’esperienza bolscevica reso evidente dai soviet annonari o anche dalla piccolissima repubblica sovietica proclamata a nord di Firenze. Il bocci-bocci e l’insieme dei tumulti annonari del dopoguerra furono un fenomeno tanto ricco e ambizioso quanto ambiguo e difficile da comprendere per i contemporanei. Rappresentarono il modo concreto attraverso cui si potevano fare la rivoluzione e il bolscevismo. Furono l’affermazione di un “mondo alla rovescia” all’indomani d’un conflitto mondiale che, fin dal 1914, tanto era stato osteggiato proprio nelle zone e dai settori sociali protagonisti dei tumulti del 1919; quella guerra che per l’enormità delle sue dimensioni e caratteristiche aveva paradossalmente dimostrato che tutto era possibile, anche l’inimmaginabile. Ma per i proprietari, e anche per i piccoli commercianti e i mezzadri colpiti dalla rivolta, l’azione delle folle, i bracciali rossi degli organizzatori e il ruolo dirigente svolto in molte località dalle Camere del Lavoro, dalle cooperative e dai socialisti evocarono la forza delle masse che potevano emergere dai peggiori “ventri” delle città o da un mondo rurale che si stava risvegliando, e che mettevano in discussione ruoli sociali e una proprietà, più che privata, densa di significati e identità pubbliche. Anche per questo i moti lasciarono un segno profondo sul primo dopoguerra e la storia di più lungo periodo delle proteste sociali e dei progetti di rigenerazione politica69. Dopo il fascismo, lasciata alle spalle la nuova guerra mondiale, nell’Italia repubblicana i partiti e i nuovi movimenti avrebbero avuto la necessità di differenziarsi dai moti del 1919. La memoria dei tumulti annonari si sarebbe così trovata confinata nell’angusto recinto del diciannovismo, chiusa tra le sbarre di narrazioni storiche che avrebbero avuto bisogno di prendere le distanze dalla “sconfitta” del dopoguerra. Solo con la fine del Novecento la storiografia ha iniziato a studiare con nuovi strumenti anche questi aspetti di quella fase cruciale per la costruzione del mondo contemporaneo; ma il mito negativo di un 1919 diciannovista tarda a scomparire70.
Ibid., p. 60. George Rudé, Ideologia e protesta popolare. Dal medioevo alla rivoluzione industriale, Editori Riuniti, Roma 1988 (1980), pp. 30-31. 69 Si veda Roberto Bianchi, Bocci-Bocci… cit., p. 32. 70 Cfr., ad esempio, Lucia Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia, Einaudi, Torino 2007, il cap. V dal titolo Il “diciannovismo”: la giornalista, rievocando prese di posizione del PCI nel 1977 – quando si accusavano i movimenti estremisti giovanili e universitari di «diciannovismo» animato da «untorelli» – definisce il fenomeno del dopoguerra come una «confusa ondata di mobilitazione reducistica e massimalista che aveva favorito l’ascesa del fascismo in Italia» (p. 75). 67
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Introduzione Messa in discussione diretta della classe dirigente e dei sistemi di governo d’un paese belligerante nella Grande Guerra, il ciclo rivoluzionario russo del 1917 non poteva non essere guardato attraverso le lenti interpretative che erano state imposte dalla natura del conflitto, anche secondo meccanismi che andavano al di là dell’ovvia preoccupazione immediata delle ripercussioni che il crollo del fronte retto dalla Russia poteva avere sulle operazioni militari. Nei paesi dell’Intesa, la sovrapposizione tra l’immagine del nemico di guerra e quella di coloro che di fatto ne sostenevano l’affermazione sul campo di battaglia destabilizzando l’alleato impegnato sul fronte orientale fu profonda, e comportò il trasferimento di immagini, vocaboli, descrizioni e allusioni alla minaccia incombente, all’assoluta alterità e fin quasi alla disumanità maturati per descrivere i soldati nemici al nuovo scenario. Allo stesso modo, la prosa usata per la condanna senza eccezioni dell’orrore della guerra, della sua violenza e delle sue devastazioni da parte dei gruppi culturali e religiosi che tenevano a marcare la propria estraneità trovò rinnovato vigore nella necessità di confrontarsi con la tragedia rivoluzionaria russa. Fu quindi soprattutto attraverso giudizi e spunti mutuati dal tema più importante del discorso pubblico di quegli anni che prese corpo, nei termini di contrapposizione inconciliabile destinata a diventare una costante del confronto dialettico con l’universo comunista, la critica al nuovo regime rivoluzionario e collettivista che ne risultò. Così ebbe luogo il rinnovamento dell’arsenale polemico rispetto alle prese di posizione antisocialiste che avevano caratterizzato i decenni precedenti, quando il termine del confronto era una proposta programmatica essenzialmente teorica, piuttosto che un regime nella piena capacità operativa, alla guida di un paese sconfinato e ricco di risorse. Si muove secondo linee interpretative simili il maggiore contributo allo studio delle origini del discorso anticomunista nell’area anglosassone, British and American Anticommunism before the Cold War di Markku Ruotsila1. Per l’autore, il consolidamento dell’Unione Sovietica come modello di paese socialista e il contesto di minaccia ai fondamenti stessi della vita associata in cui ciò avvenne sancirono il passaggio da un’idea di socialismo «understood most broadly as representing almost all collective action and almost all
Markku Ruotsila, British and American Anticommunism before the Cold War, Frank Cass, London-Portland (OR) 2001. 1
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measures that were of a social kind»2 alla percezione d’una minaccia rivoluzionaria ben identificabile. La capacità di resistenza del regime comunista sovietico portò poi anche la critica anticomunista a riorganizzarsi secondo temi e schemi più generali e più facilmente rimodulabili, sempre però muovendosi secondo gli atteggiamenti di rifiuto assoluto individuati fin da subito nel corso della “febbre” antirivoluzionaria del primo dopoguerra: difesa dei valori sociali, culturali e religiosi consolidati che il comunismo rivoluzionario minacciava; denuncia della violenza e dell’oppressione attraverso le quali il nuovo modo di vivere era imposto; timore per una nuova organizzazione della vita economica e produttiva che si rivelava fallimentare. A fronte di questi tratti unitari, Ruotsila individuava la tendenza della polemica anticomunista a ricomprendere tendenze politiche e ideologiche diverse, concentrando nella comune pars destruens dell’opposizione al regime russo e ai suoi epigoni nazionali il tentativo di diverse voci contrapposte di trovare legittimazione nella «competition between conservatism and modern liberalism and socialism for the right to shape and order the direction of the twentieth century»3. Oltre ad aver attribuito maggiore spessore storico al problema dello sviluppo di un lessico e di atteggiamenti specificamente ostili all’esperienza comunista sul piano internazionale, sovvenendo al sostanziale appiattimento sull’anticomunismo di guerra fredda che in precedenza aveva caratterizzato l’interesse storiografico sul tema4, l’autore ha quindi proceduto a dare profondità alla semplice notazione della “varietà” delle tendenze di opposizione al fenomeno comunista individuando in tali differenze un carattere ricorrente d’un discorso per sua natura teso a riaffermare la propria appartenenza a un ordine sociale e a una civiltà attraverso la contrapposizione a chi per definizione intendeva minacciarla e sovvertirla, secondo un atteggiamento rimarcato anche da chi ha indagato il discorso anticomunista nell’assai diverso contesto francese5.
Ibid., p. 4. Ibid., p. XIII. 4 Dopo una prima rassegna in Peter H. Buckingham, America Sees Red. Anticommunism in America, 1870s to 1980s, Regina Press, Claremont 1987, il tema dell’anticomunismo nel discorso pubblico americano ha trovato sistemazione con M.J. Heale, American Anticommunism. Combating the enemy within (1830-1970), Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1990; Joel Kovel, Red Hunting in the Promised Land. Anticommunism and the Making of America, Basic Books, New York 1994; Richard G. Powers, Not without Honor. The History of American Anticommunism, The Free Press, New York 1995. In questi studi, però, l’indagine del discorso anticomunista appariva finalizzata alla comprensione del momento apicale in cui l’opposizione all’esperienza sovietica e all’universo di valori che era sorto attorno ad essa raggiunse il massimo dell’influenza politica, ovvero gli anni del maccartismo, tematizzati in termini di cultura politica diffusa da David Caute, The Great Fear. The Anti-Communist Purge under Truman and Eisenhower, Touchstone, New York 1979, e ripresi da M.J. Heale, McCarthy’s Americans. Red Scare Politics in State and Nation, 1935-1965, University of Georgia Press, Athens 1998. 5 Cfr. Jean Jacques Becker-Serge Berstein, Histoire de l’anticommunisme en France, 1917-1940, Orban, Paris 1987, p. 386: «À tous les moments, pour toutes le familles politiques, combattre le communisme, c’est en même temps, par opposition à lui, affirmer sa propre identité en la colorant de traits spécifiques que lui donne son rejet du parti-repoussoir». 2 3
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Fino a che punto le linee generali che la storiografia internazionale ha individuato nel farsi dell’opposizione al bolscevismo – incubazione nel clima di guerra guerreggiata, contrapposizione assoluta e inconciliabile verso una minaccia alla civiltà, competizione tra i gruppi organizzati che reclamavano la guida o finanche il monopolio del contrasto al comune nemico – possono essere utili per costruire una griglia interpretativa del discorso antibolscevico circolante in Italia fra il 1917 e l’immediato primo dopoguerra? L’esposizione alle reti di corrispondenza giornalistica e d’informazione internazionale attraverso la quale la stampa ebbe accesso per narrare le questioni russe, rodata da un triennio di guerra, rappresentò un elemento per la partecipazione dell’opinione pubblica nazionale alle tendenze di valutazione e di giudizio che si andavano sviluppando nel resto d’Europa. D’altro canto, nel tempo emersero alcuni tratti distintivi nella trattazione del tema del comunismo nel dibattito italiano, generati soprattutto dalla presenza attiva del mondo cattolico e delle sue realtà associative; dalla forza che il fascino dell’esperienza rivoluzionaria esercitò sul mondo socialista, in particolare su quello più popolare, e di conseguenza dalla necessità d’una reazione; in generale, dalle avvisaglie d’una crisi del sistema politico liberale e dall’apertura di nuovi spazi per occupare i quali poté rivelarsi decisiva la paura del sovvertimento rivoluzionario. Il bolscevismo presentato agli italiani La crisi che colpì all’inizio del 1917 un alleato nel conflitto mondiale come la Russia fu accolta in Italia, in fin dei conti, con favore, vista la diffidenza nutrita nei confronti di una potenza autocratica i cui orientamenti politico-militari erano difficilmente controllabili e la cui classe dirigente non si era mostrata preparata alla guerra. Il passaggio a un governo dagli accenti seppur confusamente liberali sembrava rendere il paese più in linea con gli atteggiamenti complessivi dell’Intesa. Emblematico il caso d’una testata quale il “Corriere della sera”, in prima fila, già nei mesi della mobilitazione interventista, su posizioni di simpatia per le motivazioni di intervento francese e britannico6. Fin dal 12 marzo il corrispondente estero più prestigioso del quotidiano milanese, Luigi Barzini7, profondo conoscitore dell’impero zarista, si sforzò di rassicurare i lettori sul «formidabile sentimento che fomentava la volontà del popolo russo […] verso la guerra» con Per la informazioni sulla vita di redazione, cfr. Glauco Licata, Storia del “Corriere della sera”, Rizzoli, Milano 1976, pp. 167-227 e Lorenzo Benadusi, Il “Corriere della sera” di Luigi Albertini: nascita e sviluppo della prima industria culturale di massa, Aracne, Roma 2012. Per un’ampia valutazione d’insieme dell’atteggiamento della stampa d’informazione italiana – al di là del caso specifico e particolarmente significativo del “Corriere della sera” – di fronte agli eventi russi, cfr. il classico Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffrè, Milano 1976. 7 Attivo in varie zone della Russia tra l’inizio del secolo e il 1914, Barzini vi aveva tenuto corrispondenze per le sue imprese più memorabili di reporter, come la copertura della guerra russo-giapponese e quella del raid automobilistico Pechino-Parigi al fianco del principe Scipione Borghese. Faceva riferimento a tali esperienze il suo libro più popolare, Dall’impero del Mikado all’impero dello Zar, Libreria Editrice Nazionale, Milano 1904. Nel 1917 Barzini si divideva tra le corrispondenze dal fronte e l’attività di editorialista. Su questa figura cfr. Domenico Corucci, Luigi Barzini. Un inviato speciale, Guerra, Perugia 1994 ed Enzo Magrì, Luigi Barzini. Una vita da inviato, Pagliai, Firenze 2008. 6
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«un sollevamento perenne di entusiasmi popolari», poiché come mostravano le sollevazioni popolari di quei giorni «dall’alleanza e la comunanza di intenti con le nazioni più civili e liberali di Europa, il popolo russo riceveva un impulso prodigioso verso una conquista di modernità», dal momento che «la fraternità di armi era [divenuta] fraternità di ideali»8. La comparsa sulla scena dei bolscevichi alla metà di aprile e la loro ascesa nei convulsi mesi successivi fu innanzi tutto un fattore di disturbo per l’impegno bellico russo. Lenin apparve nelle cronache da Pietrogrado nelle vesti di agitatore con «argomenti anarchici» e soprattutto disfattisti, sempre sul punto d’essere arrestato dalla polizia, lontano dai sentimenti della società a cui cercava di rivolgersi e da un popolo che, impegnato nella prosecuzione col miglior esito possibile del conflitto, non prestava alcuna attenzione al suo controproducente radicalismo. Questo quadro, frutto dei filtri pesanti della qualità delle informazioni disponibili in loco e della censura di guerra operante in tutta Europa, si trovò a cozzare, tra luglio e settembre, con l’emergere d’una realtà diversa, in cui il movimento bolscevico appariva uno degli attori decisivi, per capacità organizzativa, nel passaggio tra l’assunzione del potere da parte di Kerenskij e il fallito colpo di Stato di Kornilov. Fu allora che la stampa italiana individuò con maggiore decisione l’inquietante presenza dei «colpevoli di connivenza con la Germania» tra gli agitatori «leninisti», e a legare con tono sempre più insistente il ritorno in patria del leader dei «bolsceviki» e la capacità operativa del partito a «rapporti […] col nemico»9. Da questo punto di vista si erano rivelati precoci i fogli dell’interventismo radicale, come “Il Popolo d’Italia” di Benito Mussolini, per il quale il confronto coi fatti tanto del febbraio quanto dell’ottobre 1917 fu innanzi tutto l’opportunità di chiarire i termini d’un ormai irreversibile antisocialismo. Dopo aver «salutato con ammirazione devota e commossa», ancora ai primi di luglio del 1917, «le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l’insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all’assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate», simbolo dell’assenza di «soluzione di continuità tra le barricate e le trincee» e della profonda coscienza del «contadino russo, che aveva abbandonato le trincee […] per prendere possesso una volta per sempre della terra» comprendendo però «che la pace separata sarebbe stata un tradimento»10, l’energico polemista si trovò nel giro di poche settimane di fronte al possibile trionfo, a causa dell’abilità e della spregiudicatezza di Lenin nello strumentalizzarle, delle tendenze «pacifondaie»11 recuperate di peso dalle esperienze dell’antibellicismo socialista del 19141512. Quando, a settembre, le notizie da Pietrogrado confermarono una difficoltà ormai irreversibile della compagine statale a reggere l’urto dei conflitti interni, anche il “Popo8
Luigi Barzini, La verità sulla Russia, “Corriere della sera”, 12 marzo 1917.
L’energico atteggiamento del governo russo contro i colpevoli di connivenza con la Germania, ibid., 23 luglio 1917. 10 Benito Mussolini, Bandiere rosse, “Il Popolo d’Italia”, 5 luglio 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 9, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1952, pp. 26-27. 11 I primi ammonimenti sul pericolo dell’orientamento al rifiuto della guerra da parte del movimento leninista si trovavano sul “Popolo d’Italia” dal maggio 1917: cfr. gli scritti raccolti ibid., Vol. 8, pp. 277 sg. 12 Sul punto cfr. Benito Mussolini, Il tramonto di Zimmerwald, “Il Popolo d’Italia”, 7 luglio 1917, ora ibid., Vol. 9, pp. 29-32. 9
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lo d’Italia” guardò con apprensione al «processo di disgregazione» che «la propaganda e l’azione dei leninisti» avevano accelerato di fronte ai «rivoluzionari troppo comizianti di Pietrogrado», capaci di rimettere in discussione nel momento peggiore un ordine statale senza saperne imporre un altro con adeguata decisione13 e quindi di privare l’Intesa tutta dell’argine agli Imperi centrali verso oriente. L’area cattolica, dal canto suo, giungeva in alcune delle sue voci più influenti a una condanna degli eventi russi non meno severa di quella circolante nel mainstream interventista, ma si rifaceva a un quadro concettuale diverso. Fin dallo scoppio delle ostilità le gerarchie ecclesiastiche avevano espresso un rifiuto della soluzione bellica ancorato alla tradizionale interpretazione intransigente della modernità politica e sociale come ineluttabile genealogia di errori causata dall’allontanamento degli uomini da Dio, in base alla quale la catastrofe della guerra era l’ineluttabile conclusione del progressivo diffondersi dell’“apostasia” nella società europea rappresentata dalla messa in discussione della tradizionale autorità delle gerarchie e dell’ordine sociale consolidato attraverso la promozione del liberalismo politico e dell’“esasperata” libertà di coscienza14. Gli eventi che avevano condotto alla caduta dello zar, autocrate non amato per la sua ostilità al cattolicesimo ma comunque considerato legittimo sovrano del proprio paese, non erano che la conferma del carattere distruttivo del «laicismo» politico che sostituiva a un ordine pur bisognoso di correttivi l’anarchia dettata dall’assenza di un affidabile punto di riferimento. Così si esprimeva, in particolare, un editoriale della redazione della “Civiltà cattolica”, il foglio della Compagnia di Gesù che era diventato uno dei centri di elaborazione del giudizio cattolico sulla guerra, tanto da finire spesso nelle mire della censura bellica del governo italiano per alcune prese di posizione considerate lesive dell’interesse del paese15: Spodestato un potentissimo despota, il più temuto d’Europa, e fino a ieri riverito come legittimo imperante, anzi esaltato a cielo da quelli stessi che oggi lo conculcano; trascinato dal trono alla prigione […]; insediato un nuovo governo, o piuttosto data a sperare una forma nuova di democrazia e di repubblica, conforme ai gusti del popolo; ma il popolo stesso travagliato dalla fame, esasperato dagli stenti della lunga guerra, travolto alla parte [sic] di un’astuta, prepotente minoranza […]; infine soffocata l’opposizione e la lotta nel sangue […]. Pare un segno16.
Il commento, redatto nell’aprile 1917, conteneva anche un riferimento destinato poi ad essere considerato quasi profetico, poiché prefigurava l’ineluttabile passaggio dal rifiuto rivoluzionario dell’ordine tradizionale in nome dei diritti individuali al rifiuto dei valori di pacifica cooperazione tra le classi e di rispetto della proprietà privata che caratterizzava l’atteggiamento socialista: «Così i ‘proletari di tutto il mondo’ tirano le conseguenze dei
Benito Mussolini, La lezione russa, “Il Popolo d’Italia”, 10 settembre 1917, ibid., p. 176. Cfr., in generale, Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, il Mulino, Bologna 2008; nonché i recenti Daniele Menozzi (a cura di), La Chiesa italiana nella Grande Guerra, Morcelliana, Brescia 2015 e Sante Lesti, Riti di guerra. Religione e politica nell’Europa della grande guerra, il Mulino, Bologna 2015. 15 Cfr. Eva Del Soldato, Le molte guerre di padre Enrico Rosa. Gli articoli censurati della “Civiltà cattolica” durante la grande guerra, “Storia e problemi contemporanei”, n. 42 2006, pp. 37-59. 16 Il trionfo della rivoluzione sulla guerra, “La Civiltà cattolica”, 13 aprile 1917, p. 130. 13
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principii che il liberalismo, e specialmente il laicismo massonico, ha insegnato da oltre un secolo al mondo»17. In altri termini, sul piano pratico, la rivoluzione di Febbraio appariva agli occhi degli scriptores alla stregua d’una «congiura di palazzo», e quella d’Ottobre il colpo di mano d’una minoranza organizzata che traeva origine e trovava ispirazione nel blocco socio-culturale massonico-ebraico destinato ad avvantaggiarsi dal completamento del declino morale e istituzionale della cristianità18. Ma anche sul piano della dottrina l’esito della stagione rivoluzionaria di Mosca e Pietrogrado appariva prevedibile secondo schemi precostituiti, che le presunte “aperture” condotte nei decenni precedenti dai vertici ecclesiastici al mondo moderno non avevano rivisto. Il socialismo – condannato già da Pio IX come degenerazione dell’“odio contro Dio” propugnato dal laicismo massonico, che si ritorceva contro la borghesia miscredente liberando le forze delle classi oppresse dalla deferenza dovuta alle autorità civili e spirituali – era divenuto per il suo successore Leone XIII il pungolo per un rinnovato attivismo associativo in vista della soluzione della “questione operaia”, che comunque consisteva nella riaffermazione dell’autorità della Chiesa nella composizione dei conflitti sociali secondo i propri orientamenti di giustizia e cooperazione della comunità dei fedeli19. Nell’interpretazione che “La Civiltà cattolica” offriva al mondo confessionale alla luce del riduzionismo intransigente dominante nella dottrina ecclesiastica, gli eventi del 1917 si presentavano come il precipitare delle previsioni di apocalisse sociale a lungo preannunciate, e la vittoria bolscevica dell’Ottobre appariva la conseguenza del ripudio dei legittimi principii di autorità che avevano sprofondato l’Europa nella distruzione. Il nemico in casa: il bolscevismo e l’Italia di Caporetto Appena installati al potere, Lenin e Trotzki […] affermavano di voler costringere i tedeschi a badare ai casi loro e di voler liberare dalla tirannide borghese, per solo effetto della loro energia rivoluzionaria, non solo il proletariato germanico ma quello di tutta l’Intesa […]. Trotzki si presentò a Brest-Litowsk con aria di fiero antagonista e parlò forte. Il militarismo tedesco si affrettò a dargli sulla voce e gli fece perdere a poco a poco la petulanza iniziale. Le trattative finirono in una ritirata – un’altra ritirata – russa20.
Con parole come queste il “Corriere della sera” commentava il cedimento del governo leninista alla pace separata fissando un nesso interpretativo fondamentale, quello tra astratta velleità rivoluzionaria e disfatta militare causata proprio dall’impegno in rivendicazioni sociali irrealistiche, secondo uno stilema destinato a riemergere ogni volta Ibid., p. 129. Per ulteriori spunti su questa tematizzazione cfr. Giorgio Petracchi, I gesuiti e il comunismo tra le due guerre, “Nuova storia contemporanea”, n. 1 2004, pp. 15-20. Per quanto riguarda l’“onda lunga” nel confessionalismo cattolico, cfr. ancora Ruggero Taradel-Barbara Raggi, La segregazione amichevole. “La Civiltà cattolica” e la questione ebraica, 1850-1945, Editori Riuniti, Roma 1990. 19 Per un primo orientamento su un tema così complesso rinvio a Piero Barucci-Antonio Magliulo, L’insegnamento economico e sociale della Chiesa, 1891-1991, Mondadori, Milano 1996 e a Giorgio Campanini, La dottrina sociale della Chiesa: le acquisizioni e le nuove sfide, EDB, Bologna 2007. 20 Umiltà bolscevica, “Corriere della sera”, 21 febbraio 1918. 17
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che si rimarcava lo stridente contrasto tra le promesse di palingenesi rivoluzionaria e il destino sospeso del popolo russo tra una guerra non più combattuta e una pace di fatto irraggiungibile. Con questo spunto si incontrava e si confondeva, quasi sottintendendola, l’accusa ben più diretta lanciata quasi contemporaneamente coi fatti dell’Ottobre da Mussolini: «Non v’è dubbio che il movimento massimalista a Pietrogrado è inspirato, sovvenzionato, armato dalla Germania. Non v’è dubbio che la Germania difenderà con tutti i mezzi il colpo di Stato di Lenin»21. L’idea che i bolscevichi russi fossero in primo luogo «i migliori amici dei nostri nemici»22 e quindi, in ultima analisi, combattessero sul fronte avversario della guerra, era del resto rafforzata dal fatto che il loro “tradimento” sul piano bellico, ovvero l’apice degli eventi rivoluzionari dell’Ottobre, si verificasse a pochi giorni di distanza da Caporetto. Il dramma del momento contribuì da un lato a rendere la circolazione delle notizie dalla Russia ancora più frammentaria, visto che la presenza di priorità ben maggiori nell’agenda giornalistica fece passare in secondo piano l’ottobre bolscevico almeno fino ai primi mesi del 1918; dall’altro a leggere i fatti russi sempre più direttamente secondo il filtro del dibattito politico interno. Quando però la situazione si stabilizzò, da più parti si poterono tirare le somme degli spunti, prima confusi ed episodici, legati al côté nostrano della polemica sull’eversione bolscevica in Russia. Il tema della portata universale della sovversione rivoluzionaria di matrice socialista si saldava con quello della presenza di un movimento socialista italiano entusiasta per la lotta d’emancipazione del popolo russo, e si fondeva con una ormai consueta critica al pacifismo “disfattista” della cultura socialista italiana ulteriormente rimarcata e aggravata dal criminale “tradimento” dei loro omologhi russi. Sul punto, ancora una volta, l’opinione pubblica interventista più decisa giocò un ruolo di recupero immediato di stilemi polemici espressi più cautamente sulla grande stampa. Già ad agosto, Mussolini aveva commentato la visita italiana dei rappresentanti dei soviet condannando duramente le reazioni entusiastiche del PSI, a suo dire scopertosi definitivamente, con l’inneggiare dei suoi militanti a Lenin, fiancheggiatore dei bolscevichi e del loro attentato all’integrità statale della Russia in guerra. L’unica solidarietà di cui la Russia aveva bisogno era «la salvatrice solidarietà dei cannoni», che poteva essere assicurata dai soldati sul Carso, non certo da un «Partito che», nelle sue manifestazioni italiana e russa, «unico e solo al mondo si era posto ‘contro’ la Nazione, cioè dalla parte del nemico, cioè dalla parte del Kaiser, cioè dalla parte degli aggressori, dei predoni, dei criminali»23. Su questa base, pochi mesi più tardi, il “Popolo d’Italia” individuò nel proprio idolo polemico interno, il neutralismo socialista, la riproposizione d’una precisa strategia d’indebolimento del fronte interno attraverso il miraggio della sovversione sociale. Di fronte alle prese di posizione del Presidente del Consiglio Orlando rispetto alla necessità per i socialisti di compiere una precisa scelta di campo nazionale in vista del pericolo supremo, il direttore del principale organo di stampa dell’interventismo più estremista rincarò la dose, rimar-
Benito Mussolini, Avanti, il Mikado!, “Il Popolo d’Italia”, 11 novembre 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 10, cit., p. 42. 22 Sidney Sonnino all’ambasciatore James Rennel Rodd, 31 dicembre 1917, in Sidney Sonnino, Carteggio 1916-1922, a cura di Pietro Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 357. 23 Benito Mussolini, Impudenza e mistificazione, “Il Popolo d’Italia”, 13 agosto 1917, ora in Id., Opera omnia. Vol. 9, cit., pp. 109-112. 21
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cando che «colpi obliqui e criminosi dei Lenin italiani» erano la principale causa di Caporetto, che non avrebbe avuto «un bis» soltanto se il governo avesse accettato fino alle ultime conseguenze il fatto che i «leninisti nostrani […] erano nemici, e nemici infinitamente peggiori di quelli che segnano il passo da oltre un mese fra Brenta e Piave»24. In questo attacco diretto al “bolscevismo di casa” di fronte all’Ottobre e ai suoi effetti, l’opinione pubblica interventista seguiva per certi versi un solco che le gerarchie cattoliche, dal loro giudizio di partenza nettamente negativo per gli esiti più drammatici della guerra, avevano già individuato nella primavera del 1917. Gli scriptores della “Civiltà cattolica” condannarono infatti presto i «lirici encomiatori» della rivoluzione di Febbraio e delle sue conseguenze che subito apparivano in realtà atroci vista l’anarchia di fatto a cui l’abbandono dei principii di soggezione all’ordine naturale della società necessariamente aveva condotto. Nel plauso pressoché universale per la rivoluzione russa si trovava «la consacrazione del principio, una giustificazione cioè della rivoluzione medesima […], una invocazione anzi di altri simili rivolgimenti per altri paesi»; e se l’accoglienza positiva dei fatti di febbraio e marzo era «universale» e riguardava personale di ogni tendenza politica e finanche cattolici, chi poteva trarne il massimo vantaggio, e non a caso si faceva massimo cantore degli eventi russi in Italia, era la cultura socialista, rivoluzionaria per definizione e quindi destinata a trarre dalla nuova passione per la sovversione universale la propria definitiva legittimazione ad esistere e ad operare contro i fondamenti stessi dell’ordine civile. E così, se i «vecchi liberali» vagheggiavano un esito non dissimile dalla «vecchia ‘rivoluzione borghese’», ovvero dalla «repubblica massonica» che si celava dietro le fila dell’interventismo democratico, i socialisti italiani sembravano ben più pronti a cogliere gli effetti ineluttabili della china rivoluzionaria in «tutta una radicale trasformazione dell’ordinamento sociale, conforme all’intento del socialismo, del comunismo, dell’anarchismo internazionale»25. Così come l’ascesa bolscevica in Russia, nei mesi successivi del 1917 e nell’anno seguente l’immediato consenso riscontrato tra le masse socialiste e operaie italiane ed europee per tali eventi poté essere letto in sede cattolica come l’avveramento di prospettive consolidate, pur restando ancora la discriminante della tendenza ad accomunare condanna delle pulsioni rivoluzionarie e condanna della partecipazione all’evento bellico che, frutto della scossa all’ordine del mondo, le aveva provocate. All’avvicinarsi della chiusura delle ostilità simili distinzioni si dimostrarono sempre più labili. Disagio interno e suggestioni dal mondo Dal 1919, l’opinione pubblica italiana ostile all’esperimento portato avanti dal governo di Lenin dovette confrontarsi con tre spunti fondamentali: la permanenza di un regime di cui si era prevista la rapida implosione a seguito degli attacchi concentrici dell’intervento alleato su suolo russo e poi del prosieguo della guerra civile, e la sua capacità di esprimere un indirizzo politico e ideologico sempre più netto; il presentarsi in vari paesi dell’Europa centrale e centro-orientale di focolai rivoluzionari ispirati alle vicende dell’ex impero
24 Benito Mussolini, Ciò che abbiamo ottenuto, “Il Popolo d’Italia”, 25 dicembre 1917, ora ibid., Vol. 10, cit., pp. 167-168. 25 Il fatto della rivoluzione e la logica dei rivoluzionari, “La Civiltà cattolica”, 10 maggio 1917, pp. 358-371.
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zarista, che rendevano ancora più pericolosa la minaccia di un’espansione dei modelli di governo bolscevichi al di fuori dei confini a cui la guerra li aveva limitati; il crescere, nell’Italia del “biennio rosso”, dell’entusiasmo per l’esperimento rivoluzionario bolscevico da parte delle masse socialiste, destinato ad esprimersi non solo e non tanto nei pur gravi – per quanto non coordinati se non a livello locale – episodi insurrezionali, quanto soprattutto alle elezioni politiche. Particolare interesse destava una verifica dell’effettiva capacità del governo bolscevico di procedere a una riorganizzazione concreta della vita produttiva secondo le basi collettiviste impostate sul piano teorico dal passaggio rivoluzionario della “dittatura del proletariato”, prevista nelle forme più rigide e massimaliste della “volgarizzazione” del pensiero politico e sociale marxista26. Nel gennaio 1919, poche settimane dopo il ritorno della pace nell’Europa occidentale, Luigi Einaudi proponeva un giudizio su I primi risultati dell’esperimento comunista russo27, riallacciandosi alle valutazioni che aveva già espresso giusto un anno prima sulla possibilità che il crollo dell’amministrazione statale seguita alla presa del potere dei bolscevichi provocasse un’interruzione dell’esazione fiscale ordinaria e un blocco delle attività produttive dovuta al timore di confische eccezionali, col risultato del rapido svuotamento delle casse pubbliche e di «sempre più spaventevoli […] disorganizzazione e […] carestia […] provocat[e] dall’insipienza di visionari improvvisatisi uomini di Stato»28. Dopo dodici mesi, le notizie che filtravano lasciavano pochi dubbi in primo luogo sul fatto che, al primo serio esperimento di applicazione alla vita produttiva contemporanea, il socialismo avesse dimostrato tutta l’ingenua carica utopica che l’opinione politico-economica liberale paventava29. Di fronte a un evidente scollamento dal controllo del governo centrale delle realtà agricole periferiche, nelle quali il vuoto di autorità causato dai continui mutamenti di fronte della guerra civile stava favorendo soprattutto il passaggio del possesso della terra signorile a individui e famiglie senza effettivi controlli, allo stallo della produzione manifatturiera dovuto all’opera di nazionalizzazione accelerata dalle esigenze militari del nuovo governo, e alla conseguente inflazione generata dal combinato disposto della cattiva circolazione dei prodotti in commercio e dal fatto che «la macchina per stampare biglietti continuava ad essere la principale fonte di entrata del governo comunista», lo studioso torinese non esitava a confermare i propri giudizi. In primo luogo, «il nuovo esperimento finora non ha scosso le conclusioni a cui la scienza economica era stata tratta dallo studio dei molti altri esperimenti di comunismo conosciuti nella storia; essere quel sistema uno strumento assai più imperfetto di produzione e di ripartizione della ricchezza dei sistemi rivali, a cui esso pretende di sostituirsi. Produce meno, funziona con maggiori attriti, distribuisce peggio la ricchezza». Di conseguenza, la difesa dei pur imperfetti assetti acquisiti dalle società evolute, e la loro lenta riforma dovevano essere promossi come valori condivisi di fronte al fallimentare modello russo: «Neppure il sistema economico vigente nell’Europa
26 Su questo percorso cfr. Franco Andreucci, Il marxismo collettivo. Socialismo, marxismo e circolazione delle idee dalla Seconda alla Terza Internazionale, Franco Angeli, Milano 1986. 27 “Corriere della sera”, 26 gennaio 1919. 28 Luigi Einaudi, L’esperimento russo, ibid., 12 gennaio 1918. 29 Per ulteriori spunti sul giudizio generale sull’economia collettivista maturato nei primi anni del Novecento da Einaudi, rinvio a Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, Introduzione di Paolo Spriano, Einaudi, Torino 1972.
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occidentale è perfetto. […] Ma […] fa d’uopo non rompere il meccanismo, che fu costrutto con sforzi di secoli e la cui scomparsa ci piomberebbe di nuovo per secoli nella barbarie e nella miseria»30. L’editorialista continuò a seguire i fatti russi, giungendo non solo a confermare l’inefficienza – sul piano della soddisfazione del fabbisogno collettivo essenziale e della creazione e distribuzione delle risorse necessarie alla sopravvivenza – della «soppressione di un sistema» produttivo «funzionante e la sua sostituzione con un altro, non sperimentato, non cresciuto a poco a poco e dimostratosi vitale nei fatti e non nelle chiacchiere»31, ma anche a trovare nella rigidità ideologica dell’esperimento leninista la radice dell’avveramento di altri timori. Da un lato «leggendo le fredde, inesorabili, rettilinee dimostrazioni di Lenin della necessità della dittatura proletaria, dell’abolizione della libertà di stampa, della distruzione delle classi non proletarie, della eliminazione di chiunque non pensi e non viva così come pensano e vivono i puri apostoli della società comunista»32, si comprendeva come l’atteggiamento di violenta imposizione delle direttive dei vertici del nuovo governo, con lo smantellamento degli embrioni di direzione consiliare dal basso e la reazione violenta contro ogni forma d’insubordinazione, non rappresentassero semplicemente un adeguamento delle utopie emancipatrici del socialismo tradizionale alla dura realtà, ma fossero insite nella prassi rivoluzionaria. Dall’altro, l’approccio sanguinario con cui il regime bolscevico si era imposto e stava difendendo le sue posizioni – nell’ambito d’una tensione destinata a travalicare i propri confini a causa del coinvolgimento della Polonia in un conflitto armato e del manifestarsi di focolai rivoluzionari nella difficile transizione di alcuni paesi sconfitti, dalla Germania all’Ungheria – palesava agli occhi di Einaudi la preoccupante tendenza dottrinaria dei dirigenti comunisti a legittimare l’impegno militare e a ricorrervi incontrando meno ostacoli che in una società caratterizzata da un’impronta culturale individualistica. Il carattere di «fede» insito nella convinzione delle proprietà purificatrici dell’applicazione forzata delle teorie collettivistiche, e la natura centralizzatrice della direzione della vita produttiva che, una volta messa a punto, poteva facilmente essere orientata a imprese di guerra, rendevano il nuovo governo russo una forza aggressiva, che avrebbe guardato presto alla possibilità d’espandere l’influenza del proprio credo nel mondo33. Su queste basi, sul “Corriere della sera” l’economista di Carrù si impegnò di fronte alle elezioni del 1919 e poi del 1921 in una campagna di opposizione ai vertici del partito socialista e poi anche del partito comunista, ovvero di coloro che anch’egli definì presto «Lenin d’Italia», e che si illudevano di trovare nell’acritica ammirazione per le realizzazioni del collettivismo sovietico strumenti innovativi di gestione economica, limitandosi nel migliore dei casi a pretendere di dare valore permanente agli strumenti di controllo politico della scienza economica consolidatisi in tutti i paesi europei durante la guerra. E come il «grande commissariato dell’economia nazionale» attivo «nella Russia di Lenin […] aveva
I primi risultati dell’esperimento comunista russo, cit. Le confessioni del commissario Rykow, “Corriere della sera”, 19 ottobre 1920. 32 La guerra tra i due ideali continua, ibid., 23 giugno 1920. 33 Cfr. La dottrina comunista e non quella liberale conduce alla guerra, ibid., 19 agosto 1920: «Garanzie assolute contro le guerre non esistono; ma è certamente tanto più difficile che una guerra scoppi quanto meno il governo domina la vita dei cittadini, quanto meno esso ha normalmente il diritto di regolarne le occupazioni». 30 31
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ingoiato i miliardi a centinaia e li aveva restituiti ad unità»34, così tali ingerenze indebite nella libera impresa si erano rivelate da tempo strumenti di dominio del potere statale a scapito dell’efficienza sociale dai quali era necessario rifuggire35. Questo quadro interpretativo prodotto dalle punte più avanzate della pubblicistica, nutrito di una riflessione sulle dinamiche socio-economiche contemporanee, faceva da sfondo a cronache destinate a comporre un’immagine della situazione russa e dei suoi riflessi sulla politica interna meno criticamente argomentata ma decisamente più incisiva sul piano dell’immaginario collettivo. Le cronache di guerra avevano seguito fin dall’agosto 1918, per circa un anno, la spedizione dell’Intesa ad Arcangelsk e le manovre in Asia orientale, lasciando presumere che fossero prodromi d’un coinvolgimento in una reazione in grande stile al successo bolscevico, destinato poi a non aver luogo a causa dell’esaurimento di tale operazione di sostegno con la fine delle ostilità sui maggiori teatri europei36. L’apertura di simili canali informativi fu comunque decisiva per alimentare un orientamento di ostilità nella produzione delle notizie da Est destinato a perdurare negli anni successivi. Il tema delle «origini tedesche del bolscevismo russo» riapparve ciclicamente durante le conferenze di pace, al punto che anche le agitazioni che infiammarono l’Europa – come la sollevazione spartachista, che ebbe luogo proprio in Germania – furono a più riprese etichettate come tentativi tedeschi di agitare le acque con lo spauracchio della rivoluzione sociale, in vista della contrattazione d’una pace più morbida che garantisse al governo la forza e la legittimità necessaria per rispondervi37. Ciononostante, sia le pagine di cronaca della grande stampa d’informazione sia quelle dei fogli cattolici a maggiore diffusione raccolsero le informazioni sulle disastrose conseguenze della guerra civile e sul “terrore rosso” conosciuto nei mesi di pressione dell’Armata Rossa in Polonia e nelle zone dell’Europa centro-orientale interessate da tentativi di sollevazione filobolscevica, rifacendosi innanzi tutto alle corrispondenze rilasciate per la stampa europea da profughi e fuorusciti “bianchi” della guerra civile e da testimoni interessati delle fallite insurrezioni rivoluzionarie filobolsceviche. Le immagini delle popolazioni urbane e rurali decimate dalle epidemie di vaiolo e di tifo, le scene delle carestie provocate dalle requisizioni coatte destinate ad alimentare uno sforzo bellico a cui le popolazioni contadine si sentivano del tutto estranee, i racconti di terrore dei reduci delle devastazioni delle campagne oltre il confine polacco comunque – e fortunatamente, nell’ottica di chi scriveva – prontamente rintuzzate, assimilavano per larghi tratti le cronache della stampa laica, come quelle preparate per il “Corriere della sera” dall’ex reporter di trincea Arnaldo Fraccaroli nel corso del suo viaggio nell’Ungheria che stava faticosamente uscen-
Il delirio del comando è la corsa alla rovina, ibid., 26 dicembre 1919. Per una contestualizzazione della battaglia culturale di Einaudi sul valore politico eminentemente progressivo della libertà economica e sulla minaccia autoritaria rappresentata dall’eccessivo impegno pubblico nella gestione delle risorse economiche, il riferimento resta Roberto Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Un giudizio di Luigi Einaudi, saggio del 1981 ora disponibile in volume (Rubbettino, Soveria Mannelli 2011). 36 Sul punto resta valida la ricostruzione di Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche, 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, specie pp. 57-146. 37 Tra gli altri riferimenti, vedi L’origine tedesca del bolscevismo russo, “Corriere della sera”, 3 febbraio 1919. 34 35
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do dalla sollevazione di Béla Kun tra la tarda primavera e l’estate del 191938, e la Cronaca contemporanea della “Civiltà cattolica”39. L’impasto di gallerie descrittive e di giudizi, pur non rinunciando a lasciar trasparire aspetti di tradizionale condanna pregiudiziale dei leader rivoluzionari come il recupero della comune origine ebraica di molti esponenti di spicco del bolscevismo europeo, da Trockij a Béla Kun, si concentrava soprattutto sul tentativo di muovere a commozione l’opinione pubblica attraverso quel patetismo frammisto a disumanizzazione dei comportamenti attribuiti al nemico, sfociato nel tempo, attraverso l’alimento del ricordo delle tragedie della fame e delle aberrazioni della guerra civile, nel luogo comune dei comunisti “mangiatori di bambini”40. L’incontro d’immagini e di giudizi in diversi settori dell’opinione pubblica si dovette anche al comune riferimento alle più attive agenzie di stampa per la raccolta dei materiali internazionali. In particolare, per quanto riguarda il caso italiano, gli uffici giornalistici animati da monsignor Umberto Benigni, l’Agenzia Internazionale Roma (AIR), poi Urbs, ebbe contatti con l’aristocrazia russa riparata in Occidente e coi pretendenti al trono dello zar41. Mettendo in circolazione notizie a chiaro orientamento ostile al governo bolscevico, il prelato cercò di portare avanti una duplice operazione. Da un lato egli cercò di riprendere le proprie posizioni dopo che l’ascesa al soglio di Pietro di Della Chiesa aveva parzialmente emarginato il sodalizio di attiva battaglia antimodernista che egli aveva contribuito a costituire, trovando nell’opposizione al comunismo un forte canale per la riaffermazione del primato assoluto del magistero ecclesiastico sull’errore del secolo, in una implicita contrapposizione all’impegno eminentemente umanitario promosso nell’immediato dalla Curia42, e finendo per orientare l’opinione di diversi organi di stampa confessionali. D’altro canto, la disponibilità di fonti internazionali di prima mano consentì all’operazione di Benigni di travalicare i confini dell’opinione pubblica cattolica, gettando almeno in parte le basi per quella condivisione della condanna del comunismo attraverso la quale gli am-
38 Cfr. in particolare i suoi La mascherata funebre del comunismo ungherese, ibid., 7 maggio 1919; Com’è brutto il paradiso! Nell’Ungheria dei bolscevichi, ibid., 30 maggio 1919 e Documenti di orrore del bolscevismo ungherese, ibid., 21 settembre 1919. 39 Tra l’altro, il quindicinale della Compagnia di Gesù ebbe la possibilità di offrire in esclusiva ai lettori tra il novembre e il dicembre 1920 una cronaca, suddivisa in tre fascicoli, dell’occupazione bolscevica della città di Winnitza, da poco liberata dalle truppe polacche: cfr. Cinque mesi sotto il giogo dei bolscevichi, “La Civiltà cattolica”, 13 novembre 1920, pp. 379-384; ibid., 27 novembre 1920, pp. 477-480; ibid., 12 dicembre 1920, pp. 564-568. 40 Il riferimento più completo è Stefano Pivato, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda, il Mulino, Bologna 2013. 41 Nella letteratura sul ruolo di Benigni dalla battaglia antimodernista al primo dopoguerra, si veda ancora, per l’efficacia dell’analisi biografica di lungo periodo e per l’attenzione dedicata alla sua attività in ambito giornalistico, Émile Poulat, Catholicisme, démocratie et socialisme. Le mouvement catholique de Mgr Benigni de la naissance du socialisme à la victoire du fascisme, Casterman, Paris 1977. 42 Sulle missioni umanitarie nell’Ucraina e nelle aree della Russia europea più colpite da guerra e carestie, continuate per buona parte negli anni Venti fino all’espulsione da parte del governo sovietico, e destinate anche a rivitalizzare il culto cattolico e raccogliere informazioni, il riferimento migliore resta Antoine Wenger, Rome et Moscou. 1900-1950, Desclée De Brouwer, Paris 1987.
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bienti vaticani cercarono di superare il pericolo dell’isolamento di fronte alla ricostituzione dell’ordine internazionale dopo la Grande Guerra43. L’emergere di un antibolscevismo “militante” Lette attraverso il filtro di questo quadro interpretativo generale, le agitazioni popolari che si animavano attorno a un partito socialista sempre più affascinato dalla vittoria bolscevica – al punto da finire per emarginare le voci critiche dell’esilio russo in Italia con cui da tempo i suoi leader erano in contatto44 – si configuravano sempre più come attacchi da parte di agitatori organizzati con sostegno esterno nei confronti dell’ordine sociale e politico nazionale45. Sul piano del discorso e dei processi d’identificazione politica, simili impressioni si strutturarono attorno alle suggestioni per la chiamata alla difesa della patria che avevano caratterizzato la mobilitazione bellica, in un gioco di rimandi in cui ogni tratto dell’attentato bolscevico ai valori culturali e ai modi di produzione consolidati si riassumeva in un attentato alla comunità nazionale italiana ritrovatasi riunita e stretta attorno all’ideale della propria affermazione in occasione della Grande Guerra vittoriosa. Sintomatiche, da questo punto di vista, sono le vicende dei tentativi di costituire nelle principali città italiane i nuclei di una Unione Popolare Antibolscevica. Sorta inizialmente a Milano tra il marzo e l’aprile 1919 con l’obiettivo di consolidare la propria presenza in tutte le province italiane, l’associazione rappresentò l’esperienza se non di maggior successo, quanto meno di più ampia diffusione e durata d’una galassia di “leghe” e “fasci” di borghesi e combattenti sorti tra l’anno successivo alla fine della Grande Guerra e il 1920 per rispondere alle crescenti agitazioni “rosse”46. L’Unione si presentava come estranea a fini di parte: «Cittadino! Hai un partito? Non ti chiediamo quale sia. Sei un buon italiano? Ci basta», apriva i proclami uno dei primi volantini stampati dall’Unione47. Il fatto di essere «costituita fra quegli elementi del generoso popolo italiano […] al di sopra e all’infuori di qualsiasi partito od associazione» e con un afflato finanche riformatore, dal momento che sorgeva con l’obiettivo di «allontanare dall’Italia […] il pericolo di una rivoluzione, la quale ritardi e comprometta la pronta realiz-
43 Sul punto, cfr. Giuliana Chamedes, The Vatican and the Reshaping of the European International Order after the First World War, “The Historical Journal”, n. 4 2013, pp. 955-976. 44 È questa la tesi di Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979. 45 Per ulteriori specificazioni sul diffondersi – anche tra le autorità preposte alla pubblica sicurezza – del timore per agitazioni dirette da agenti stranieri, oltre a Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria… cit., pp. 160 sg., cfr. Valentine Lomellini, La “grande paura” rossa. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Franco Angeli, Milano 2015. 46 Per ulteriori specificazioni, cfr. la ricognizione documentaria di Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma. Vol. I, il Mulino, Bologna 1991 (1967), pp. 359-366, e Marco Mondini, La politica delle armi. Il ruolo dell’esercito nell’avvento del fascismo, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 61-71. 47 Volantino dell’Unione Popolare Antibolscevica, Milano, s.d., ACS, MI, DGPS, Div. AA.GG.RR., 1920, b. 77, fasc. Unione popolare antibolscevica (ringrazio Giorgio Petracchi per la segnalazione dei documenti).
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zazione delle giuste aspirazioni sociali»48, venne ribadito all’apertura delle principali sezioni locali dell’associazione. Tuttavia, una rapida ricognizione prosopografica dell’estrazione dei suoi dirigenti non lascia dubbi su una sua collocazione tra il combattentismo dei reduci e il nazionalismo orientato alla “difesa della vittoria” dai colpi di coda del “disfattismo” interno e internazionale. Se a Firenze, all’apertura della locale sezione dell’Unione nell’aprile 1919, l’oratore di turno «affermò la necessità che il Governo impedisca, ad ogni modo, la propalazione del bolscevismo» solo «dopo aver trattato la questione della Dalmazia, soffermandosi principalmente sull’italianità di Fiume»49, e se i termini di adesione all’istituzione giunti allora all’attenzione del Prefetto di Bologna non lasciavano dubbi sulla natura della mobilitazione – «Aderite: 1° ad opporvi come cittadino e soldato con tutta la vostra energia a qualsiasi moto rivoluzionario che in questo momento minaccerebbe le sorti della Patria? 2° a prendere netta posizione di combattimento al primo appello che vi sarà lanciato? 3° a trovarsi fusi in una forza, prescindendo da qualsiasi considerazione di partito, e a nominare, al momento opportuno, i capi che dovranno guidarvi nel momento?»50 – fu soprattutto verso la fine di quello stesso anno, in occasione della nascita della sezione romana, che si poterono chiarire alcune afferenze ideali dei componenti. Nella capitale, l’associazione «era presieduta dall’Ing. Comm. Annibale Sprega, Consigliere Comunale» e guidata in consiglio direttivo da altri esponenti politici locali come Paolo Orlando, Ausonio Levi, Arcangelo Capuano ed Edoardo Pignalosa51, figure riconducibili da un lato alla direzione degli enti di pubblico servizio attivi nel Comune, dall’altro a quel mondo di rivendicazioni di combattenti e irredentisti insoddisfatti dagli esiti della pace sul confine orientale. L’azione dei volontari dell’associazione, non casualmente, si espresse soprattutto nella sostituzione degli addetti ai servizi postali e di trasporto pubblico in occasione degli scioperi promossi dai gruppi politici e sindacali d’ispirazione socialista52, nell’ambito d’un servizio alla collettività che veniva interpretato senza mezzi termini in continuità con l’opposizione «a tutte le correnti antisociali e antipatriottiche» e al tentativo di disinnescare il pericolo dei «partiti rivoluzionari, che incitavano le masse al sovvertimento dei valori nazionali»53, fino all’emergere di alcuni episodi di violenza
Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, ivi. Prefetto di Firenze al Ministero dell’Interno, 21 aprile 1919, ivi. 50 Prefetto di Bologna al Ministero dell’Interno, 25 aprile 1919, ivi. 51 Prefetto di Roma al Ministero dell’Interno, 12 maggio 1920, relazione su Lega antibolscevica – Interrogazione on.le Monici, 11 maggio 1920, ivi. 52 Cfr. ivi: «Sia l’amministrazione ferroviaria che quella postale, si sono avvalse, in questi ultimi tempi, dell’opera volontaria dei soci, e volontari della Lega, che furono anche pubblicamente encomiati dai capi delle amministrazioni stesse e loro direttamente fornirono, d’intesa con le Autorità Militari, i mezzi (camionette e vetture automobili) per il disbrigo dei servizi affidati ai volontari postali». 53 Ivi. Cfr. inoltre il messaggio contenuto nel già citato volantino prodotto dall’Unione: «Il grido inconsulto, che già si osa lanciare per le strade, di Viva Lenin, Viva la Russia bolscevica, non deve rimanere senza pronta ed adeguata risposta. Esso, infatti, se suona atroce offesa ai nostri morti eroici, […] se conculca ed offusca le fulgide tradizioni del nostro paese e l’aureola di gloria delle antiche e recenti vittorie: infirma, del pari, il nostro prestigio nazionale ed individuale all’Estero; minaccia gravemente la pace domestica delle nostre famiglie, gli averi e il proficuo lavoro di tutti; compromette e ritarda infine le giuste rivendicazioni di ogni classe sociale». 48 49
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e intimidazione nei confronti di personale politico e amministrativo vicino al partito socialista54. Le interrogazioni che gli esponenti del PSI in Parlamento – soprattutto il deputato ferrarese Giovanni Monici, uno dei bersagli delle azioni intimidatorie – inoltrarono nel corso del 1920 per conoscere meglio un fenomeno che iniziava a farsi preoccupante, trovarono risposte per lo più tranquillizzanti da parte dei funzionari di pubblica sicurezza, generalmente pronti a confermare la buona reputazione degli “antibolscevichi” e l’utilità delle loro attività di pubblico servizio55, e con tutta probabilità propensi a condividere i timori che avevano condotto al diffondersi di tali realtà associative per «arginare e contrastare ogni manifestazione rivoluzionaria, contrapponendo agitazione ad agitazione, mezzo a mezzo, azione ad azione» intervenendo «con ogni mezzo immediato consentito»56. Atteggiamenti come questi erano l’altra faccia della medaglia di un interessamento in qualche caso diretto di alti gradi militari ed esponenti delle forze armate per questi tentativi di «levata patriottica» delle «“forze sane” contro il pericolo rivoluzionario», visti di buon occhio soprattutto dopo l’esito, per molti sconvolgente, delle elezioni politiche del novembre 191957. Fu probabilmente per questa capacità di veicolare l’impegno all’attiva reazione antisocialista attraverso il riferimento alla difesa della nazione da un pericolo esterno diffusamente percepito, oltre che per l’apertura ad «integrare e rafforzare la compagine e l’opera di altri Enti, Comitati, Associazioni, Fasci etc. che mirino agli stessi scopi politici, economici e sociali»58, che questa esperienza di antibolscevismo “militante” poté anche influenzare, negli uomini e ancor più negli orientamenti, le espressioni antisocialiste d’un movimento sorto in un brodo di coltura simile, come quello dei Fasci di Combattimento. Come ha ricordato Emilio Gentile, fin dal 1919 «fu cura assidua e costante di Mussolini» accompagnare la sua operazione di recupero politico dello spirito interventista nella fondazione e nel consolidamento dei Fasci attraverso un antisocialismo che – in continuità con quanto aveva sostenuto come leader dell’opinione pubblica durante il conflitto mondiale – impiegava giudizi netti e decisi sul fallimento di «Lenin […] nella realizzazione d’una società socialista» e la presentazione «sul suo giornale [del]le voci provenienti dalla Russia che riportavano notizie sugli insuccessi, le contraddizioni, gli sbandamenti, gli orrori della politica interna sovietica», elaborando la sua nuova collocazione ideologica come un’alternativa di rivoluzione più politica che economica, capace d’innestarsi nell’alveo del capitalismo riformandolo a vantaggio di tutti i ceti produttivi e dinamici della nazione59.
Per una prima ricostruzione del ruolo dell’Unione antibolscevica nei convulsi eventi della crisi del primo dopoguerra in città, cfr. Anthony Majanlahti-Amedeo Osti Guerrazzi, Roma divisa, 19191925: itinerari, storie, immagini, Il Saggiatore, Milano 2014. 55 Cfr. ancora Prefetto di Roma al Ministero dell’Interno, 12 maggio 1920, cit. 56 Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, cit. 57 Marco Mondini, La politica delle armi… cit., pp. 67-68. 58 Prefetto di Genova al Ministero dell’Interno, 7 giugno 1919, cit. 59 Cfr. Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, 1918-1925, il Mulino, Bologna 2011 (1975), p. 215. 54
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Conclusioni Anche per il caso italiano l’ostilità all’esperienza bolscevica e alla sua influenza internazionale è stata profondamente condizionata dal clima della Grande Guerra e dei suoi capisaldi discorsivi di carattere polemico e parenetico. Individuati a tutta prima, nel vario mondo dell’interventismo italiano, come strumenti consapevoli o inconsapevoli del nemico tedesco per la destabilizzazione del fronte interno delle potenze dell’Intesa, i comunisti russi furono gradualmente caratterizzati per i contenuti della loro proposta politica e per il loro comportamento nell’edificazione d’un modello rivoluzionario che, di fatto, li accomunava al movimento socialista attivo in Italia assai più della comune opzione neutralista. Soprattutto con la fine delle ostilità, e anche a fronte dei fatti sempre più tragici della guerra civile e delle conseguenze del comunismo di guerra, nell’opinione pubblica italiana emerse una vistosa condanna delle derive autoritarie, violente e inumane della direzione politica leninista e del fallimento dei tentativi di direzione collettivista e statalista della vita produttiva. Su tali basi si poté impostare un primo incontro della pubblicistica laico-liberale con l’antibolscevismo cattolico, nutrito fin da subito dall’avversione per un conflitto armato che rappresentava la conseguenza dell’allontanamento dell’uomo da Dio, e di cui l’avverarsi delle più radicali proposte di sovversione dell’autorità e dell’ordine socio-economico “naturale” era semplicemente il risultato già annunciato dallo spirito profetico del magistero ecclesiastico. Sul piano della valutazione dell’esistente, infatti, anche da questi punti di partenza si giungeva a una netta presa di distanza dalla lotta di classe e dalla violenza rivoluzionaria, già espressa nella duratura polemica antisocialista ma ormai ancora più allarmata vista l’urgenza di opporsi a una minaccia reale e non solo teorica. Negli anni immediatamente successivi al conflitto, quindi, si dipanò rapidamente la panoplia degli argomenti di critica al comunismo che poi nei decenni successivi sarebbero stati impiegati dalle culture politiche del campo moderato e conservatore per marcare la propria assoluta alterità dal comune “nemico”60: la minaccia alla civiltà si manifestava nell’attacco ad alcuni capisaldi condivisi come la dignità, i diritti e doveri dell’individuo, il rispetto di valori morali e religiosi comuni, il sostegno alla libera iniziativa economica in vista del benessere collettivo, la difesa della nazione dall’aggressività straniera. Tuttavia, il confondersi dell’allarme bolscevico con l’impasto retorico nazional-patriottico – o Oltre ad Andrea Mariuzzo, Divergenze parallele. Comunismo e anticomunismo alle origini del linguaggio politico dell’Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010 e a Franco Andreucci, Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda, Bononia University Press, Bologna 2006, specie pp. 83-104, concentrati sul secondo dopoguerra, è disponibile una ricostruzione di più ampio respiro cronologico in Roberto Pertici, Il vario anticomunismo italiano (1936-1960). Lineamenti di una storia, in Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, a cura di Loreto di Nucci ed Ernesto Galli della Loggia, il Mulino, Bologna 2006, pp. 263-334. Intendeva presentare uno sguardo più completo su tutta la parabola storica del confronto col comunismo in Italia – pur risultando eccessivamente sintetico in alcuni passaggi – Aurelio Lepre, L’anticomunismo e l’antifascismo in Italia, il Mulino, Bologna 1997. Per ulteriori riferimenti, più generali, sul tema della delegittimazione incrociata nel dibattito pubblico italiano, cfr. infine Angelo Ventrone, Il nemico interno. Immagini, parole e simboli della lotta politica nell’Italia del Novecento, Donzelli, Roma 2005 e Andrea Baravelli (a cura di), Propagande contro. Modelli di comunicazione politica nel XX secolo, Carocci, Roma 2005. 60
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apertamente nazionalista – che accompagnò il pubblico italiano all’uscita dal primo conflitto mondiale, portò ad intrecciare strettamente le ammonizioni sul destino della società occidentale con l’allarme per l’indipendenza e la sopravvivenza della nazione italiana, e condusse l’emergente antibolscevismo “militante” ad assumere un carattere di “difesa nazionale”, destinato a diventare un’eredità di cui beneficò il primo fascismo.
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Roberto Morozzo della Rocca
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Nell’accostarsi ai rapporti fra cattolicesimo italiano e Russia rivoluzionaria va tenuta a mente una storia pregressa di sostanziale inimicizia tra Chiesa romana e Russia. L’identità della Russia zarista era connessa alla confessione cristiana ortodossa: nelle terre russe il cattolicesimo era considerato un elemento antistatuale e antinazionale. Inoltre il cattolicesimo era la fede dei polacchi, ovvero di tradizionali Erzfeinde che a loro volta, specularmente, disprezzavano l’ortodossia – graeca fides nulla fides. Limitazioni e divieti al cattolicesimo erano sempre stati drastici in Russia. Allorché le spartizioni settecentesche del grande Stato polacco-lituano fecero sì che nuovi territori ucraini e bielorussi fossero incorporati nei domini dei Romanov, fu precipitevole cura degli zar procedere a sopprimere le Chiese cattoliche di rito orientale presenti in quelle zone e a porre ostacoli alle attività dei cattolici latini1. Solo l’ortodossia aveva diritto alla protezione statale essendo la religione dell’impero – beninteso non era solo la religione dell’etnia russa ma per l’appunto la religione di Stato, essendo l’impero multinazionale e multietnico. Da secoli nei palazzi apostolici vaticani si guardavano Mosca e San Pietroburgo come avversarie e rivali sugli scenari dell’Europa orientale. E proprio alla vigilia della rivoluzione russa, nel 1916, la Santa Sede aveva eccezionalmente derogato alla sua linea di rigorosa neutralità nel conflitto europeo, col chiedere in segreto al kaiser tedesco d’impedire militarmente che la Russia riuscisse a impossessarsi di Costantinopoli. Si temeva che la Russia, assommando nei suoi
1 Su questo aspetto e sulla situazione del cattolicesimo nella Russia zarista del primo Novecento cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono. Russia rivoluzionaria, Polonia indipendente e Santa Sede, Il Mulino, Bologna 1992; Antoine Wenger, Rome et Moscou: 1900-1950, Desclée de Brouwer, Paris 1987; Laura Pettinaroli, La politique russe du Saint-Siège (1905-1939), École Française de Rome, Rome 2015; nonché gli atti dei due convegni organizzati dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche e dall’Istituto di Storia Universale dell’Accademia Russa delle Scienze a Mosca nel 1998 e a Vienna nel 2001: Santa Sede e Russia da Leone XIII a Pio XI. Vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002 e (a cura di Massimiliano Valente) Vol. II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006. Sul cattolicesimo nell’impero zarista dopo le spartizioni settecentesche della Polonia, che accrebbero enormemente il numero dei cattolici sudditi dei Romanov, si vedano le opere dei due gesuiti Pierling e Boudou e, per contrasto, quella del procuratore del Santo Sinodo dell’ortodossia russa, Tolstoj: Paul Pierling, La Russie et le Saint-Siège: etudes diplomatiques, 5 voll., Plon-Nourrit, Paris 1896-1912; Adrien Boudou, Le Saint-Siège et la Russie. Leurs relations diplomatiques au XIX siècle, 2 voll., Librairie Plon, Paris 1922 e Editions Spes, Paris 1925; Dmitrii A. Tolstoj, Le Catholicisme romain en Russie, 2 voll., Dentu, Paris 1863-1864.
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domini la Terza Roma – Mosca – e la Seconda Roma – Costantinopoli – prevalesse sulla Prima Roma2. I vertici vaticani, è stato giustamente osservato, lavoravano sin dall’inizio del conflitto a scenari di pace basati «su un accordo di massima fra i belligeranti sul fronte occidentale ed una netta affermazione austro-tedesca su quello orientale», ciò che rispondeva ai particolari interessi della Chiesa cattolica. Una pace negoziata ad ovest avrebbe rappresentato la salvaguardia degli equilibri fra il blocco franco-inglese e la Germania, mentre la parziale realizzazione degli obiettivi di guerra italiani non si sarebbe risolta in un’umiliazione per l’Austria-Ungheria. Per contro una vittoria schiacciante sulla Russia eliminava i pericoli dell’espansionismo ortodosso e consentiva la formazione di un Regno polacco unito alla corona asburgica o inserito nell’orbita tedesca. L’impero zarista appare come il vero ‘nemico’ della Santa Sede o comunque il belligerante di cui si augurava il maggior ridimensionamento possibile, certo quello a cui far pagar il peso delle compensazioni territoriali che dovevano inevitabilmente servire a trovare una via d’uscita soddisfacente e onorevole per tutti gli altri. Alle vessazioni inflitte da decenni al cattolicesimo polacco e al ferreo giogo imposto alle comunità cattoliche russe, si erano aggiunte di recente le persecuzioni religiose nella Galizia invasa, tese a sradicare la chiesa uniate e ad imporre il passaggio dei fedeli all’ortodossia, subito dichiarata religione di Stato3.
I sentimenti russofobici caratterizzavano specificamente gli ambienti della Santa Sede ma il cattolicesimo italiano, cattolicesimo papale assai più di altri cattolicesimi nazionali, tanto da non conoscere episcopalismi e gallicanesimi, ne era fortemente influenzato. Conviene dunque, prima di parlare di cattolici italiani e Russia rivoluzionaria, trattare di Santa Sede e Russia rivoluzionaria. Il barone Carlo Monti, ufficioso ambasciatore italiano presso la Santa Sede durante la prima guerra mondiale, munito nel suo delicato compito di un’antica amicizia con Giacomo Della Chiesa, registra passo passo nei suoi diari gli umori vaticani nei confronti della Russia rivoluzionaria. Annota Monti il 19 marzo 1917, allorché giungono a Roma da Pietrogrado – come San Pietroburgo era stata rinominata per essere meno germanica nel nome – notizie meno frammentarie di quelle avutesi nei giorni precedenti: Il cardinale [Gasparri, Segretario di Stato,] quanto [alla] rivoluzione russa, dopo avermi fatto constatare l’esattezza, la lealtà delle informazioni datemi, dice che, per parte della Santa Sede, non si può che presagire bene per la religione cattolica: la situazione dei cattolici era intollerabile in Russia e la libertà, quindi, proclamata dal nuovo governo, non può che giovare ai cattolici. Teme che il movimento vada più in là e che, eliminata la dinastia, si vada alla repubblica4.
2 Cfr. Gabriele Paolini, Offensive di pace. La Santa Sede e la prima guerra mondiale, Fondazione Spadolini Nuova Antologia-Edizioni Polistampa, Firenze 2008, pp. 111-113 e Roberto Morozzo della Rocca, Benedetto XV, Costantinopoli: fu vera neutralità?, “Cristianesimo nella Storia”, n. 14 1993, pp. 375-384. 3 Gabriele Paolini, Offensive di pace… cit., pp. 105-106. 4 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti incaricato d’affari del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922). Vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997, p. 56.
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Analogo giudizio positivo sugli eventi rivoluzionari in Russia per la Chiesa romana, insieme a rilievi politici e militari contingenti, ribadisce Gasparri a Monti pochi giorni dopo: Sua eminenza dice che la Russia anelava certamente alla pace separata e che, quindi, Inghilterra e Francia, anche per mezzo dei loro ambasciatori, hanno lavorato per effettuare il movimento rivoluzionario, che in fondo si deve all’opera loro. Gli eventi però hanno preso loro la mano e, se non si provvede, sembra difficile che le cose non precipitino e non si vada alla repubblica, a meno che le popolazioni rurali, devote allo zarismo, non insorgano: l’arresto dello czar e della famiglia imperiale, secondo il cardinale, è stato un errore. Per quanto riguarda la Santa Sede, il cambiamento avvenuto in Russia non può che essere favorevolmente considerato: la libertà religiosa che è stata proclamata toglierà [quei] vincoli che hanno reso insopportabili le condizioni dei cattolici in Russia, cui non era consentito neppure di erigersi una cappella; senza poi dire che il cambiamento rende sempre più problematica l’annessione di Costantinopoli, che il Vaticano auspica possa diventare città libera. Sua eminenza ritiene quindi che, per quanto riguarda la guerra, il nuovo stato di cose non può che giovare all’Italia, non essendo improbabile che la Germania ne approfitti per attaccare a fondo la Russia5.
Il Segretario di Stato riceveva in quei giorni le prime informazioni e impressioni dai cattolici nel mondo russo, il cui tenore può ben essere espresso dal giudizio che si leggeva ad esempio in una memoria del domenicano Jean Joseph Schumpp da Pietrogrado: «Quale sarà il risultato di questo cambiamento? È ancora troppo presto per dare una risposta definitiva, ma si può dire sin d’ora che per la Chiesa cattolica le cose non possono essere peggiori di quanto lo sono state sotto l’impero»6. Per Gasparri, la rivoluzione russa era un «soffio aures»7, una grazia improvvisa e inattesa per le sorti del cattolicesimo nell’Oriente europeo. Secondo il Segretario di Stato, l’impero russo si sarebbe avviato «al suo disfacimento, locché è del resto naturale, essendo esso troppo grande»8. In ogni caso, i rivolgimenti in Russia erano occasione per Gasparri per ritornare più volte con Monti su un punto con lui già ampiamente trattato negli anni precedenti, ovvero quello che era stato il cauchemar del Vaticano, l’impegno dell’Intesa
5 Ibid., p. 61. Gasparri avrebbe sempre mantenuto fermi i suoi primi giudizi sulla Russia rivoluzionaria. Da lui, alla fine del suo mandato, il 4 gennaio 1922, Monti raccoglierà un’ultima valutazione positiva degli eventi rivoluzionari. A quest’epoca già c’erano state persecuzioni religiose nella Russia bolscevica, e non solo ecclesiastici e fedeli ortodossi erano stati messi a morte ma anche cattolici. Eppure Gasparri ancora si rallegrava della caduta dello zarismo: «Per attrarre la Russia, le era stato promesso tutto ciò che voleva: rettifiche naturali dei confini nella parte occidentale, Francoforte etc. Costantinopoli colla padronanza degli stretti: condizioni queste che avrebbero portato un colpo durissimo al cattolicesimo in Oriente, tanto da eliminarlo, in pochi anni, col trionfo dell’ortodossia […]. Ma la Provvidenza ha vegliato, ed il governo czarista, persecutore del cattolicesimo, è caduto e il mostruoso progetto è andato in fumo» (ibid., p. 570). 6 Memoria conservata negli archivi vaticani e precisamente in Segreteria di Stato, Sezione per i Rapporti con gli Stati, Archivio Storico, Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, Russia, s.d., Pos. 935, Fasc. 315, f. 82v. 7 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 89. 8 Ibid., p. 71.
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con la Russia circa Costantinopoli, affinché motivasse al governo italiano l’opportunità di annullare definitivamente tali impegni9. Più pensoso era il giudizio sulla Russia rivoluzionaria di Benedetto XV, che accanto alle prospettive favorevoli per il cattolicesimo non nascondeva, parlando con Monti il 5 aprile 1917, timori per le vicende politiche del grande paese slavo: «Ritiene che il movimento russo gioverà alla libertà della chiesa cattolica fin qui conculcata. Se le cose si manterranno sulla via della moderazione. Ma chi può prevedere cosa uscirà dalla costituente: il ritorno dei Romanov e del governo assoluto? La repubblica?»10. Nell’insieme, la Santa Sede ha un giudizio favorevole sul governo provvisorio scaturito dalla rivoluzione di Febbraio, che fra l’altro libera il metropolita Szeptyckyj, capo dei greco-cattolici ucraini con speciali facoltà pontificie per i territori russi11, e consente ai cattolici latini di colmare i vuoti di governo nelle loro diocesi, col ritorno di vescovi esiliati o nuove nomine consentite senza intromissioni, ciò che era inimmaginabile sotto il potere zarista. Sia i cattolici di rito orientale sia i cattolici di rito latino ricostituiscono così la loro gerarchia sul territorio russo, premessa per una rinnovata presenza pubblica. Sa bene, la Santa Sede, che la situazione politica in Russia è fluida, e non a caso il governo si chiama “transitorio”. Pertanto si affretta a profittare della inedita libertà religiosa. A Roma l’avvenire russo appare di difficile gestazione e decifrazione. Si nota la crescente anarchia, e anzi Gasparri, a inizio giugno, definisce in privato la situazione in Russia come di «completa anarchia»12, formula che tra varie sfumature d’ora in poi farà da sfondo all’interpretazione vaticana della Russia rivoluzionaria. Ma intanto ci si rallegra dello scampato pericolo di una Russia vittoriosa e padrona di Costantinopoli. Si osserva nel luglio 1917 in una ponenza per l’esame congiunto della situazione russa da parte della Segreteria di Stato e di Propaganda Fide: Certo, se il tramontato impero degli Czars, fosse riuscito ad ottenere il dominio di Costantinopoli, esso avrebbe nominato un Patriarca per detta città, il quale, con nome di Patriarca di Bisanzio, sarebbe divenuto il capo supremo di tutte le Chiese orientali ed il temibile antagonista del Romano Pontefice: in tal caso, il titolo ed il prestigio storico degli antichi patriarchi di Bisanzio avrebbe supplito al valore personale del patriarca nominato. Sembra, ad ogni modo, che la Provvidenza divina abbia sventato per ora tale disegno, che anzi il momento attuale è l’unico – a giudizio di molti – per ottenere dei vantaggi a favore della Chiesa cattolica13.
Il dato che domina le analisi romane è il collasso zarista. Il resto, ossia quanto viene interpretato come caos, anarchia, enigmatico avvenire, sembra secondario rispetto a quello 9 Ibid., p. 74. Gasparri tornava su questo punto pochi giorni dopo, prendendo spunto dal fatto che il governo provvisorio russo aveva dichiarato di non essere interessato a Costantinopoli, atto di cui l’Intesa avrebbe dovuto a suo avviso profittare per cancellare gli accordi presi sulla questione. 10 Ibid., p. 64. 11 Cfr. Cyril Korolevskij [J. F. J. Charon], Métropolite André Szeptyckyj, 1865-1944, s.n., Rome 1964 e Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit. 12 Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 109. 13 Ponenza a stampa su Russia. Interessi religiosi, della Congregazione mista della Propaganda Fide per gli affari di rito orientale e degli Affari Ecclesiastici Straordinari del luglio 1917, p. 29, in Segreteria di Stato, S.RR.SS., Archivio Storico, AA.EE.SS., Rapporti delle Sessioni, 1917, Sessione 1207, Stampa 1044, foglio 7 della stampa.
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che pare l’avvenimento epocale. Non aveva Pio X confidato a von Pastor di considerare la Russia zarista «comme la plus grande ennemie de l’Église»?14. Tanta era l’avversione per la Russia dei Romanov da non immaginare che nell’immenso paese potessero installarsi poteri peggiori, per la religione cattolica, di quelli appena tramontati. Del bolscevismo, e tanto meno dello stalinismo, non si poteva ancora avere cognizione. Durante l’estate del 1917 tuttavia un’ombra si posa sulle relazioni fra Santa Sede e nuova Russia post-zarista. Con ogni evidenza, le visioni internazionali della Santa Sede non possono farsi modificare d’improvviso da un evento rivoluzionario che doveva ancora dimostrare di non essere accidentale e contingente. Parimenti può dirsi per la geopolitica europea nel suo complesso. Accade così che nelle proposte di pace di Benedetto XV la Russia venga trattata come lo sarebbe stata nei precedenti anni di guerra, cioè come una potenza da ridimensionare, alla quale, come già si è accennato, far pagare il prezzo della pace sul fronte occidentale15. Nella Nota di pace del pontefice del 1° agosto 1917, preparata anche con richieste all’incaricato d’affari russo presso la Santa Sede di far valere presso l’Intesa il «desiderio di pace» del governo di Pietrogrado16, mancano accenni alla Russia. In una prima bozza c’era un riferimento alla restituzione del territorio russo occupato dai tedeschi. Questo cenno cade nel documento definitivo dove esiste invece un richiamo alla «sistemazione» secondo «spirito di equità e giustizia» delle questioni «territoriali e politiche» relative ai «paesi facenti parte dell’antico Regno di Polonia», termine a indicare non solo la Polonia etnica ma una vasta parte dei territori occidentali della Russia già zarista. Con questo la Santa Sede diceva che tali territori non erano destinati a restare sotto il governo russo quale esso fosse. Di fatto, la Nota costituiva una presa di posizione netta contro la restaurazione del potere russo in Lituania, Lettonia, Polonia, Bielorussia, Ucraina occidentale. Naturalmente il governo di Pietrogrado fu deluso e amareggiato dalla Nota. Il piano di pace del pontefice prevedeva che gli Imperi centrali facessero concessioni territoriali e politiche all’Intesa affinché questa accettasse di stipulare la pace. Non era detto esplicitamente nella Nota cosa gli Imperi centrali avrebbero ricevuto in cambio ma era evidente che le loro compensazioni, nell’inevitabile do ut des per chiudere le ostilità, erano da trovarsi nell’Est europeo. Alla data della Nota di pace già prevaleva a Roma l’immagine di una Russia preda di anarchia e conati rivoluzionari e di cui occorreva attendere la fine per avere un’idea chiara della situazione e di cosa fare per il cattolicesimo sugli scenari del grande paese. Questa impressione di caos, in realtà, si prolunga per anni, almeno sino al 1920. Lo dicono a Roma le varie fonti di cui la Santa Sede dispone. Il vescovo di Minsk elenca «la fame, la violenza, il disordine ed il terrore»17. Il visitatore apostolico in Polonia, Achille Ratti, asserisce che «a Pietrogrado dev’essere Babilonia completa»18. Un prete francese dalla Russia meridioLudwig von Pastor, Tagebücher, Briefe, Erinnerungen (1854-1928), Kerle, Heidelberg 1950, p. 584. 15 Cfr. la citazione di cui alla n. 3. 16 Cfr. i materiali in Archivio della Segreteria di Stato vaticana, Stati Ecclesiastici, b. 216 (I), tra cui una nota di Gasparri sul colloquio con l’incaricato d’affari russo presso la Santa Sede del 17 luglio 1917, in Segreteria di Stato, S.RR.SS., Archivio Storico, AA.EE.SS., Stati Ecclesiastici, 1917, Pos. 1317, Vol. I, f. 3v. 17 Cfr. dispaccio di Ratti del 29 giugno 1918 con notizie dal vescovo di Minsk, Sigismondo Lozinski, ibid., Polonia, 1918, Pos. 70, Fasc. 44, ff. 46r-51v. 18 Dispaccio di Ratti del 5 settembre 1918, ibid., Pos. 78, Fasc. 51, ff. 53r-57v. 14
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nale avvisa che il popolo russo è «un popolo in delirio senza distinzioni di opinione», cioè indipendentemente dall’essere a favore dei rossi o dei bianchi19. E così via. Una profluvie di notizie e commenti che insistono sulla crudeltà e barbarie bolscevica giunge a Roma da fonti polacche, con chiaro intento propagandistico antirusso. Nel gennaio 1918 Eduard de Ropp, aristocratico baltico-polacco, arcivescovo della sterminata diocesi di Mohilev20, virtualmente il primate cattolico latino di Russia, descrive a Benedetto XV la disparition complète de tout ordre moral, la négation de toute loi divine et par suite, l’anarchie, qui non seulement a envahi l’état, mais qui envahit de plus en plus les âmes de notre pauvre peuple, peu éclairé et mené presque de force à faire l’injustice et le mal! […] Les quasi loix émises par les comunards tâchent de détruire dans le peuple toute notion de propriété et le poussent à des actes de vol, de pillage et destruction.
De Ropp conclude: «Un pays, où la civilization occidentale portée par la Pologne reigne encore, est laissé à la destruction des sauvages orientaux»21. De Ropp guardava al mondo russo con il disprezzo del patriota polacco. Ma anche Ratti, provvisoriamente incaricato da Roma di supervisionare gli affari religiosi russi, non era confortante: la Russia era «tenebrosa e impenetrabile» come sempre era stata22. Per tre anni, le informazioni che giungono a Roma, oneste, strumentali o manipolate che siano, parlano di un paese russo alla deriva. La fase rivoluzionaria bolscevica viene interpretata a Roma – non diversamente, va detto, che nel resto dell’Occidente – come l’ennesima agonica convulsione del tormentato mondo russo, cui altre sarebbero seguite. Pertanto non si spendono sull’Ottobre russo le tante parole del precedente Febbraio. A Roma il crollo dello zarismo aveva suscitato emozione, l’avvento di Lenin avviene invece nell’indifferenza. La presa del potere bolscevica non pare affatto, alla Santa Sede, un evento preconizzante nuovi sviluppi storici. A Roma si supponeva che il regime dei soviet fosse un altro governo provvisorio, che a sua volta sarebbe caduto vittima dell’anarchia. I bolscevichi giunti al potere erano visti inizialmente come folli utopisti e banditi senza Dio, inabili a governare, senza radici nell’anima russa. Per questo, oltre che per oggettive difficoltà logistiche, i contatti diplomatici con il potere bolscevico sono scarni e rari23. Né, per contrappunto, si cercano intese con i controrivoluzionari bianchi. Questi erano partigiani del vecchio regime persecutore del cattolicesimo. Cosa fare allora? Si attende. Si raccolgono informazioni. Si cerca di garantire le attività religiose sul territorio russo come meglio si può. D’altra parte ciò che a Roma interessa non è in ultima analisi la sfera politica – la Russia scelga pure il governo che le piace, che sia di L’vov, di Kerenskij o di Lenin non importa. Ciò che preme è piuttosto una stabilizzazione della libertà religiosa.
Relazione di Ferdinand Renaud dell’11 aprile 1919, ibid., 1919, Pos. 977, Fasc. 346, ff. 62r-71v. L’arcidiocesi di Mohilev, la cui curia era tradizionalmente a San Pietroburgo, guidava come sede metropolitana una provincia ecclesiastica che copriva le immensità dell’impero russo, eccetto le terre polacche degli zar, provviste di un’altra provincia ecclesiastica. Che Mohilev fosse una cittadina bielorussa lontana dai centri del potere indicava l’emarginazione del cattolicesimo in Russia. 21 Lettera di de Ropp, 14/27 gennaio 1918, ibid., 1918, Pos. 979, Fasc. 347, ff. 34r-37r. 22 Dispaccio di Ratti del 30 novembre 1919, ibid., 1919, Pos. 1010, Fasc. 365, ff. 44r-45r. 23 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit. 19
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Un certo grado d’attenzione per i bolscevichi si ha quando essi, a fine 1917, rendono pubblici i termini del Patto di Londra, comprensivi all’art. 15 dell’esclusione della Santa Sede dai negoziati di pace postbellici. Nei palazzi apostolici s’inizia a pensare che i bolscevichi non sono dei dilettanti e le loro mosse hanno un peso nella politica internazionale. Ma deve passare ancora un anno prima che Gasparri, il 12 gennaio 1919, rilevi «che la questione russa è preoccupante e che il bolscevismo è più forte di quanto comunemente si ritenga»24. Fino ad allora in Vaticano si era ritenuto inimmaginabile, secondo il corso naturale delle cose, che le rivoluzioni durassero e non si trasformassero in regimi più o meno moderati e ragionevoli. E dunque a commento delle convulsioni russe vi sarebbe stato solo da osservare la necessità d’attenderne l’esaurimento, prima di riflettere con cognizione di causa sui destini della Russia e della sua vita religiosa. In ogni caso, nei cinque anni del pontificato di Benedetto XV coincidenti con l’epoca rivoluzionaria in Russia, Roma non coltivò grandi sogni sull’immenso paese, non progettò una sostituzione dell’ortodossia col cattolicesimo, non si lanciò nel proselitismo. Non mancavano voci che chiedevano la conquista religiosa della Russia, specie provenienti dagli ambienti cattolici latini polacchi e da quelli greco-cattolici ucraini, rappresentativi di linee rivali sul proselitismo in Russia, e del resto polacchi e ucraini si fronteggiavano allora bellicosamente per il possesso di Leopoli e della Galizia orientale, o Ucraina occidentale. Ma Roma preferiva procedere cautamente a risollevare e rincuorare le disperse comunità cattoliche esistenti nel mondo russo, ricostituendo le strutture canoniche e ristabilendo legami diretti di comunione, piuttosto che lanciarsi in una crociata confessionale fondata sul crollo della rivale Chiesa ortodossa. D’altra parte una crociata avrebbe avuto necessità di condottieri e truppe che invece mancavano: le comunità cattoliche nel mondo russo, tra l’altro composte da genti non russe, erano frammentate e deboli. La linea vaticana è già tracciata nell’esame collegiale che la Curia romana dedica alla Russia il 15 luglio 1917, avvertendo il «momento unico» in cui si trova il cattolicesimo in Russia per «ottenere vantaggi»25. Questa espressione, «ottenere vantaggi», è da sottolineare: si è lontani da sogni di conquista cattolica del grande paese slavo. Semplicemente le circostanze storiche sembrano improvvisamente favorevoli al miglioramento delle condizioni della Chiesa romana in Russia. Vari fattori spingevano Roma a una politica religiosa la più cauta possibile. I cambiamenti politici si palesavano vieppiù radicali mentre il comunismo rivelava gradualmente la sua forza e il suo disegno d’egemonia. Le lotte di nazionalità infiammavano l’Oriente europeo, e scontri e guerre si susseguivano senza posa in tutto l’ex impero degli zar. Sembrava a Benedetto XV, pur idealmente legato all’unionismo di Leone XIII, non fosse tempo di pensare a epocali riconciliazioni religiose nel segno dell’unico ovile e unico pastore, né tantomeno a conversioni di massa come taluno chiedeva di favorire. Si trattava piuttosto, secondo il papa, di pacificare gli animi, e di concentrare realisticamente l’azione religiosa sul riordino di quelle strutture ecclesiastiche che era possibile restaurare grazie alla libertà religiosa, sostanziale o formale che fosse. Soltanto in seguito sarebbe stato possibile passare a progetti organici per determinare nuove sorti religiose di questa parte dell’Europa. Fase ulteriore che non sarebbe mai venuta. Il bolscevismo infatti prevaleva nella guerra
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Antonio Scottà, La conciliazione ufficiosa… cit., p. 421. Secondo la già citata ponenza a stampa su Russia. Interessi religiosi, cit.
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civile e si consolidava anche nel segno della lotta antireligiosa. E Benedetto XV moriva il 22 gennaio 1922. Ma intanto il cattolicesimo italiano, così papale, cosa pensava degli eventi russi? La stampa cattolica di questi anni, pur diversificata nelle ispirazioni, non presenta ambiguità. Le sue analisi, esatte o meno esatte che siano, non tradiscono emotività. La Russia è lontana, gli interessi cattolici vi sono marginali. Ciò che preme capire, sin dai rivolgimenti di febbraio, sono innanzitutto le ripercussioni sulla guerra. La Russia resta un’alleata? Intende continuare a combattere con vigore? Successivamente, con l’avvento dei bolscevichi non più disposti a continuare la guerra, vengono a porsi questioni d’altra indole, meno contingenti, sulle sorti interne del grande paese e sui suoi destini religiosi. Infine nel 1919, a conflitto concluso, la rivoluzione russa diviene un mito del socialismo massimalista che influenza la lotta politica interna, in Italia come in altri paesi, e come tale viene confutato dai cattolici. Nel marzo 1917, sin dalle prime informazioni provenienti da Pietrogrado, nessun foglio cattolico rimpiange lo zar, anzi è generale il compiacimento per la sua caduta. “La Civiltà Cattolica” rinfaccia ai governi dell’Intesa e all’opinione liberale le lodi fino al giorno prima rivolte a Nicola II, che renderebbero incongruente il plauso ora rivolto alla rivoluzione, interpretata come scossa patriottica foriera di più incisivo impegno bellico. La polemica è in certo senso fine a se stessa: il Padre Enrico Rosa che si occupa degli eventi russi non può non comprendere le ragioni strategiche sottese alle precedenti lodi allo zar. Il gesuita ammette del resto di non voler discorrere «dei casi della rivoluzione russa che non conosciamo ancora, se non parzialmente», bensì di quanto se ne dice nei paesi dell’Intesa26. Gli preme in effetti soprattutto affermare un principio, e cioè che ogni rivoluzione è un male, derivato da altri mali: «lo scoppio inesorabile delle rivoluzioni è preparato ora, da lunga mano, nella ribellione preparata dal liberalismo, socialismo, radicalismo e dalla massoneria dominante, sfruttatrice di tutti i partiti nemici di Dio e della Chiesa»27. Sarebbero i «principii di laicismo» a fomentare le rivoluzioni, e la verità sull’ultima di esse, quella russa, stava nelle colpe degli zar: la dinastia caduta segnò la presente sua condanna – oltreché mediante la persecuzione religiosa, di tempo in tempo inasprita fino alle crudeltà di Nicola I, e la politica subdola, ingannatrice di tradizione – sopra tutto con l’approvazione, la partecipazione o l’acquiescenza al regicidio di Belgrado, ed ultimamente a quello di Sarajevo che fu la miccia esiziale della guerra. Dalla Russia mosse poi la scintilla prima, della mobilitazione28.
Padre Rosa scagionava gli Imperi centrali dall’aver provocato la guerra. Non era, sia detto per inciso, la linea ufficiale della Santa Sede che sulle origini del conflitto non intendeva esprimersi. Tanto giudizio negativo sulla rivoluzione russa, vista come inesorabile conseguenza dei «falsi principii» degli Stati moderni e della loro «apostasia sociale da Dio e dalla sua Chie-
Enrico Rosa, Il trionfo della rivoluzione nella guerra, “La Civiltà Cattolica”, 21 aprile 1917, pp. 129-142, articolo raccolto dall’autore nello stesso anno con altri suoi interventi sulla rivoluzione russa nell’opuscolo La rivoluzione e la guerra, Civiltà Cattolica, Roma 1917. 27 Enrico Rosa, Il trionfo della rivoluzione… cit. 28 Ivi. 26
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sa»29, era tuttavia in contraddizione con fatti concreti come la concessa libertà religiosa e la liberazione di ecclesiastici cattolici prigionieri sotto lo zar, o le critiche del governo provvisorio alla politica espansionista di Nicola II. Padre Rosa se ne doveva fare una ragione, ed infatti il 30 giugno 1917 su “La Civiltà Cattolica” plaudiva improvvisamente ai «despoti democratici» che in Russia andavano riconoscendo errori e misfatti del passato regime, offrendo a tutti i governi una lezione di sincerità: il nuovo governo, sia pure per rappresaglia contro l’antico ordine di cose, riconosce i torti della Russia, come nazione e come governo, e ne denunzia le ingiuste pretensioni su Costantinopoli agognata, su l’Armenia dissanguata, su la Polonia oppressa e via via. La sincerità si mostra tanto più lodevole, quanto più singolare, anzi unica in tempo di guerra. Questa lezione ha un grande valore morale ed un valore storico di prim’ordine, massime per i belligeranti più ritrosi alle simili confessioni […]. Conseguente a questa prima lezione, di sincerità storica, è quella che potremo dire di lealtà morale, se verrà confermata dai fatti: la rinunzia o il proposito di rinunzia della nuova Russia a tutte le ingiuste pretensioni imperialistiche del precedente governo […] specialmente con la vibrata formula della “pace senza contribuzioni e senza indennità” […]. Assai meglio ci giova sperare, ove sia sincera, dalla terza lezione, che è di libertà religiosa, promessa anche alla vera Chiesa di Cristo. In questo la rivoluzione russa, se pure non ci giungono troppo monche o falsate le notizie, dà finora un buon esempio all’anticlericalismo e al giacobinismo di certi governi e si avvantaggia di gran lunga su le precedenti rivoluzioni, massimamente su quella francese. [Essa] non esclude dal diritto comune, dall’uso delle libertà, il cattolicismo e i cattolici, non li perseguita finora coi bandi, con le stragi, con le calunnie, come in Francia; e poiché i cattolici, in quanto tali, prescindono dalla forma di governo, sia monarchico o popolare, e possono adattarsi a tutte le necessarie condizioni sociali, sia di affrancamento politico sia di rivolgimento economico dei popoli, il nuovo ordine di cose potrà anche preludere ad un vivace rinnovamento religioso30.
Meno ideologica, più compenetrata dei fatti reali, patriottarda e intesista, “La Rassegna Nazionale”, espressione del conservatorismo cattolico di tendenza transigente31, a inizio aprile ’17 inquadra lucidamente il contrasto fra il governo provvisorio, liberal-borghese, e i comitati degli operai e dei soldati a guida socialista, o soviet. Prevarrà la moderazione? Questa la domanda che la rivista si pone per settimane, accentuando via via una prospettiva pessimista sulla tenuta dei moderati a fronte degli «elementi più rivoluzionari». Analogo scetticismo manifestava la rivista sull’altro aspetto degli eventi russi d’interesse maggiore, ossia la capacità del governo provvisorio di mantenere i livelli prerivoluzionari di mobilitazione bellica. Il 16 giugno 1917 la rivista ritiene non si debba fare ancora soverchia illusione […] sulla presunta organicità e combattività delle truppe. Lo spirito belligero di queste ci sembra tutto confidato all’energica propaganda del Kerensky;
29 Enrico Rosa, La rivoluzione russa e le sue lezioni politiche, “La Civiltà Cattolica”, 30 giugno 1917, pp. 22-33. 30 Ivi. 31 Cfr. Ornella Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La “Rassegna Nazionale” dal 1898 al 1908, Il Mulino, Bologna 1971; nonché Glauco Licata, La “Rassegna Nazionale”: conservatori e cattolici liberali italiani attraverso la loro rivista (1879-1915), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1968.
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ma per grande che sia l’eloquenza di questo ministro socialista, dubitiamo assai che le sue parole, appunto perché di un socialista ministro, abbiano sulle masse rivoluzionarie il prestigio necessario32.
Fallita l’offensiva di Kornilov in luglio, “La Rassegna Nazionale” osserva: Il partito estremista russo più che colle intimidazioni e coi torbidi che facilmente si possono reprimere, ha fin da principio preso il sopravvento sul governo provvisorio strappandogli la promessa della pace senza annessioni e contribuzioni, e della revisione dei fini di guerra degli alleati. Finché il popolo russo e l’esercito reclameranno questi due postulati, Kerensky non potrà essere né il Dittatore né il capo di un comitato di salute pubblica33.
Non stupisce siano i conservatori de “La Rassegna Nazionale”, spesso d’estrazione nobiliare, a lanciare in settembre una diversa percezione della sorte dello zar e della famiglia imperiale prigioniera, invocando a loro riguardo un «sentimento di umanità»34. Senza modificare il giudizio storico negativo sull’autocrazia zarista, Nicola II e familiari vengono via via presi a cuore dall’opinione cattolica, saldamente monarchica. Quasi un anno dopo, nell’agosto 1918, la Santa Sede, ignara delle già avvenute esecuzioni di Ekaterinburg, ne chiederà il rilascio alle autorità bolsceviche, non ottenendo che derisione35. A inizio ottobre “La Rassegna Nazionale” nota come Kerensky sia stretto fra «le tendenze controrivoluzionarie di certi capi militari e le imposizioni sempre più accentuate del partito operaio»36. Il 16 novembre si registra il successo bolscevico e pare quasi vana, al periodico, ogni nuova analisi del processo rivoluzionario: è sopravvenuta la nuova crisi russa con l’avvento del ‘Soviet’ ossia del massimalismo al potere. Non sappiamo il retroscena di questo movimento che compie il ciclo della rivoluzione, né sappiamo qual base esso sia per avere nell’intero paese. Si è parlato tanto di dissidî, di minacce, di reazione, di conseguenti moti convulsivi, che non sappiamo ormai spogliarci di un’impressione fondamentale, che cioè tali dissidî e tali lotte siano più apparenti che reali37.
Per aggiungere due settimane dopo, con pari rassegnazione interpretativa, che dopo il prevalere dei soviet «l’eco degli avvenimenti russi ci giunge così incompleta e confusa che ancora non è lecito farsi nessuna idea concreta sullo svolgimento ulteriore della azione rivoluzionaria in merito alla guerra e alla pace», tema cui più ansiosamente guardano i lettori del periodico38. Interessanti sono i commenti alla rivoluzione russa de “L’Azione”, il quotidiano cattolico cremonese che esprime le vedute del movimento cattolico delle leghe bianche di Miglioli e più in generale del cattolicesimo militante antiliberale. Le prime notizie su Pietrogrado senza lo zar insistono sull’insoddisfazione del popolo russo per come la guerra era condot-
“La Rassegna Nazionale”, 16 giugno 1917, p. 328. Ibid., 1-16 agosto 1917, p. 273. 34 Ibid., 1 settembre 1917, p. 71. 35 Cfr. Roberto Morozzo della Rocca, Le nazioni non muoiono… cit., pp. 110-114. 36 “La Rassegna Nazionale”, 1 ottobre 1917, p. 238. 37 Ibid., 16 novembre 1917, p. 156. 38 Ibid., 1 dicembre 1917. 32 33
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ta dal deposto governo. I russi si sarebbero ribellati all’autocrazia per la sua «debolezza di fronte ai bisogni molteplici e ineluttabili della guerra», anzi per il boicottaggio dell’impegno bellico: «Il Governo frapponeva continui ostacoli alla vittoria, rifiutando macchinari e fondi, provocando la chiusura di stabilimenti», mandando soldati soltanto armati di bastoni contro artiglieria pesante e micidiali mitragliatrici germaniche. A questo riguardo “L’Azione” echeggia la stampa dei paesi dell’Intesa che inizialmente, come accennato, in una prospettiva di propaganda bellica, trascura il rigetto della guerra da parte dei soldati e della società russa e invece accoglie la rivoluzione come un sussulto di volontà belligerante del popolo, rovesciando sul passato regime l’accusa del peggiore disfattismo39. Il giornale, che lavora su notizie di agenzia, riesce però a distinguere nella rivoluzione di Pietrogrado «due moti»: il popolare causato dalle privazioni e dalla fame, il borghese causato dalla fiacca condotta della guerra. Quindi rileva che la rivoluzione è «venuta a un compromesso tra l’elemento borghese e l’elemento popolare», che solo l’annunciato esercizio del suffragio universale, cui si plaude come democratica premessa di un «luminoso destino», potrà sciogliere nell’uno o nell’altro senso40. Il quotidiano lombardo non tace, nell’insieme, le simpatie per quanto sta avvenendo a Pietrogrado, vedendo romanticamente nella rivoluzione la vittoria della Russia di Tolstoj, della letteratura vibrante di misticismo, dei figli dei nobili fattisi populisti, delle donne sacrificatesi per l’istruzione popolare, dei generosi da mezzo secolo intenti a sfidare l’autocrazia in nome della giustizia. Significativa la polemica con Filippo Crispolti che sul “Cittadino” di Genova aveva paragonato la rivoluzione russa alla rivoluzione francese: «Diciamolo pure: i motivi ideali ed etici della rivoluzione russa appaiono più alti e più puri di quelli di molte rivoluzioni occidentali»41. Con certa vena di profezia il giornale ritiene in aprile che la rivoluzione russa, della quale taluni predicevano un consolidamento, «rivela, invece, come agiscano in Russia delle forze formidabili e profonde che manifestamente sospingono le cose verso un indirizzo assai più radicale. Anzi dobbiam dire che chi ha preparata ed ha fatta la rivoluzione non ha ancora manifestato tutto il suo intimo pensiero e tutta la sua verace volontà»42. In giugno “L’Azione”, con sguardo retrospettivo, osserva che tante precedenti notizie diffuse sulla Russia rivoluzionaria erano false o ispirate da intenti propagandistici. Senza subire interventi della censura, il quotidiano accenna alle manipolazioni informative, tra l’altro facendo il caso di Lenin, il cui ritorno in Russia era stato giudicato dalla stampa come maldestro, privo di successo, oggetto di ripulse e fischi da parte dei suoi stessi seguaPiù volte “L’Azione” torna, nei mesi successivi, sulle false notizie, cioè sulla disinformazione, attuata nei paesi dell’Intesa a proposito della rivoluzione russa. Cfr. Verità russe, “L’Azione”, 19 giugno 1917: «L’opinione pubblica, almeno da noi, ha potuto, attraverso le manchevolezze di un servizio telegrafico reticente, dare importanza ad avvenimenti che non ne avevano e giudicare alla leggera uomini e cose della rivoluzione russa»; indi Mentre passano i delegati russi, ibid., 12 agosto 1917, in cui s’ironizza sulla visita in Italia di delegati dei soviet, festeggiati come pacifisti nelle Case del Popolo e come fautori della guerra a oltranza dagli esponenti interventisti; infine Gli avvenimenti in Russia. Confessioni, ibid., 5 dicembre 1917, ove si criticano gli abbagli del «tempo in cui si proclamava ai quattro venti dai giornali liberali e interventisti che la rivoluzione russa era avvenuta per intensificare la guerra e che la Russia sarebbe stata pronta ad una formidabile offensiva». 40 Cfr. per quanto sopra Dalle rivelazioni alle previsioni, ibid., 20 marzo 1917. 41 L’anima di una rivoluzione, ibid., 1 aprile 1917 (a firma Eleuterio). 42 Ivi. 39
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ci. «L’ottimismo ufficioso – si scrive – ci ha ingannato dichiarando senz’altro la rivoluzione favorevole alla continuazione della guerra […]. Non è buona politica presentare al pubblico uomini e cose di avvenimenti gravi truccati secondo i propri desideri come in una turlupineide da palcoscenico»43. La considerazione per le mosse di Lenin è costante ne “L’Azione”. In settembre si giudica «folle» il tentativo di Kornilov d’impadronirsi del potere, perché i soldati sotto il suo comando «i quali non hanno alcun desiderio di battersi contro i tedeschi, non avranno certamente il gusto di battersi contro i loro fratelli rivoluzionari. E poi, non sono certamente i generali battuti quelli che possono darsi il lusso di tentare un 18 brumaio»44. Per concludere: «Tutto lascia credere, dunque, che unica conseguenza di questo colpo di testa sarà un nuovo gran passo verso la applicazione del programma di Lenin: un Governo schiettamente socialista con tutte le sue conseguenze»45. L’esattezza della predizione va correlata, in questo caso, alla tendenza del giornale a osservare più i popoli che le élites, più gli umori delle masse che le manovre dei capi. Un angolo visuale confermato dall’editoriale che il 10 novembre commenta la presa del potere da parte dei bolscevichi: La notizia, per chi segue un po’ gli avvenimenti in Russia, era prevedibilissima […]. Kerenskj si illuse di resistere, di vincere contro il sangue stesso che gli aveva dato la vita. Ma a lungo non si regge contro natura […]. Il massimalismo, cioè l’impeto irrefrenabile di una massa che sente la propria riscossa, procede travolgendo ancora. S’arresterà; ma quando? La storia di questa Russia nuova, nella sua intima e profonda anima, non ci è ben nota. Non si può quindi prevederne il corso. Ma è certo che essa non torna indietro [all’antico regime]. Il massimalismo avrà pure la sua crisi; ma quando questa avverrà, la Russia sarà già più avanti d’oggi verso la meta della sua sistemazione popolare.
Sistemazione auspicata come democratica, che evidentemente piace a “L’Azione” se conclude: «Così la rivoluzione completa la guerra che la ebbe a nutrire nel suo seno. Tutto il mondo in guerra subisce crolli immensi ed impreveduti; e cerca invano fuori di sé la forza di tanta distruzione. Ma la Provvidenza dalle rovine trae anche la vita: destruam et aedificabo»46. “Vita e Pensiero” è un periodico milanese espressivo di quella corrente cattolica clerico-moderata discendente dall’intransigentismo ottocentesco e però trascorsa su posizioni conciliatoriste e collaborative con la classe dirigente liberale. Su di esso appare il 10 aprile 1917 uno dei primi articolati commenti cattolici alla rivoluzione del Febbraio, per la firma autorevole del giornalista e scrittore Ernesto Vercesi. Questi muove dai citati commenti internazionali secondo cui la rivoluzione russa sarebbe dovuta allo scontento sociale interno per il debole impegno bellico. Lo zar avrebbe visto nella vittoria un pericolo per l’autocrazia. Vercesi sposa tale tesi per affermare che la rivoluzione era del tutto prevedibile e sicura nella sua deflagrazione: «La burocrazia aveva pure compreso che la rivoluzione sarebbe stata inevitabile con una guerra vittoriosa. Volendo tenere in piedi il vecchio regi-
Verità russe, ibid., 19 giugno 1917. Gli avvenimenti in Russia, ibid., 12 settembre 1917. 45 Ivi. 46 Gli eventi della rivoluzione russa. Deposto!, ibid., 10 novembre 1917. 43
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me, bisognava, più o meno apertamente, sabotare la guerra, rendere impossibile e difficile la vittoria»47. Meno azzardate sono tuttavia le conclusioni, in cui si mettono a fuoco i due confliggenti poli del movimento rivoluzionario e si auspicano tempi migliori per il cattolicesimo: V’ha un governo provvisorio che comprende che non bisognerebbe precipitare gli avvenimenti e che la moderazione sola potrebbe render duratura la vittoria della rivoluzione; ma accanto al governo provvisorio si stabilisce il comitato degli operai che chiede la Costituente, il suffragio universale, il voto delle donne ed altre cose ancora. Tutto si dovrebbe fare il più rapidamente possibile. La riorganizzazione dell’esercito dovrebbe operarsi in base ai criteri che prevalgono in una camera del lavoro. È un nuovo periodo turbinoso che si attraversa, di cui non abbiamo, né possiamo avere che una vaga nozione […]. Si riuscirà a combinare il governo provvisorio col comitato operaio? La rivoluzione russa sarà saggia abbastanza da mostrarsi davvero matura per un regime di libertà? Tutta la questione sta qui […]: s’aprirebbero orizzonti nuovi pel cattolicismo che in Russia non aveva avuto che ceppi. Fate che il sole della libertà risplenda anche in Russia. Colla libertà entrerà la corrente cattolica, contro cui nulla possono né la corrente protestantica, d’importazione tedesca, né l’ortodossia soffocata dall’amplesso statale48.
Simili cenni al tema confessionale sono rari nel 1917 sulla stampa cattolica italiana, i cui lettori sono più interessati, come si è detto, agli sviluppi politici e strategici della rivoluzione russa, con riferimento alla guerra in corso. Un’eccezione è rappresentata da Aurelio Palmieri, personaggio estroverso, erudito slavista, sodale di Ettore Lo Gatto, grande viaggiatore, religioso assunzionista e poi agostiniano per rinunciare infine all’abito ecclesiastico49. Palmieri scrive su periodici di cultura ma i suoi articoli, a mezzo fra scienza e divulgazione, influenzano le visioni cattoliche. Da unionista, Palmieri vorrebbe che l’ortodossia russa andasse all’unità con Roma e sotto Roma. Singolare la sua considerazione positiva dei cristiani ortodossi, fin denominati fratres, allorché nell’opinione cattolica erano visti come scismatici od eretici. La rivoluzione, sostiene Palmieri, rappresenta la rivincita del clero bianco, parrocchiale, sull’alto clero, i vescovi e i monaci legati al vecchio regime di cui erano i massimi beneficiari. Diverse tendenze si contendevano il primato nella Chiesa russa: la tendenza conservatrice, e la tendenza rivoluzionaria; la tendenza cattolica e la tendenza protestante. Da una parte, un episcopato ligio all’autocrazia, ed un monachesimo investito di privilegi che gli assicuravano il governo supremo della Chiesa; dall’altra, la turba immensa del basso clero, famelica, umiliata, schiava di vescovi burocratici, e una turba non meno numerosa di laici che, se istruiti, volevano foggiare una nuova Chiesa
Ernesto Vercesi, La rivoluzione russa, “Vita e Pensiero”, 10 aprile 1917, pp. 305-311, 306. Ibid., p. 310. 49 Su Palmieri, prolifico autore di libri e saggi, cfr. Angelo Tamborra, Chiesa cattolica e Ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo: dalla Santa Alleanza ai nostri giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, pp. 377-381; nonché Sergio Mercanzin, Aurelio Palmieri e il suo contributo alla conoscenza dell’Oriente cristiano e in particolare della Chiesa russa. Un pioniere dell’ecumenismo, Dissertazione presso il Pontificio Istituto Orientale, s.e., Roma 1989. 47
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conforme ai loro ideali; se ignoranti, parteggiavano per il clero miserabile che amministrava loro i sacramenti50.
Timore di Palmieri è che l’ortodossia russa cada sotto l’influenza del protestantesimo, col che la distanza da Roma s’accrescerebbe e ogni speranza unionista sarebbe vanificata. Dell’ortodossia russa Palmieri rileva le colpe nel «servaggio» innanzi allo zarismo e nella complicità col passato regime, ma anche le prospettive di riscatto: «La libertà è venuta; e quale libertà! La Chiesa che aveva assistito passiva all’agonia dello Czarismo, la Chiesa che aveva non solo tollerato, ma eziandio accarezzato Gregorio Rasputin, il dissoluto corifeo della più orgiastica delle sette russe, la Chiesa è stata sciolta dai suoi ceppi»51. Sicché il futuro religioso della Russia sembra a Palmieri impregiudicato e aperto a qualsiasi sviluppo: Non siamo in grado di tirar l’oroscopo per l’avvenire. Le condizioni politiche della Russia sono così incerte ed instabili che anche il lavorio interno della Chiesa russa procede a sbalzi, senza una meta fissa […]. Checché ne sia, noi cattolici non dobbiamo perder di vista il movimento religioso russo. La Russia democratica apre le sue frontiere all’influenza cattolica […]. La Russia è un serbatoio immenso di energie religiose. Il popolo russo è religioso anche nei suoi istinti anarchici, e anche nel suo nihilismo politico. Queste energie religiose vivificate e dirette dal cattolicismo potrebbero infondere nuovi elementi di vigoria alla cristianità52.
Scomparsa, con il successo bolscevico, ogni residua illusione d’un potere rivoluzionario impegnato a combattere i tedeschi, dallo scorcio del 1917 nei paesi dell’Intesa si guarda alla rivoluzione quale essa si presenta nei fatti, in primo luogo per decifrarla, avendo preso atto della difficoltà d’utilizzarla nella guerra in corso. Presto si parlerà di rivoluzione bolscevica. Il 1918 è quindi l’anno in cui Lenin e i suoi seguaci rivelano di non rappresentare l’ennesima convulsione rivoluzionaria, come sulle prime si tendeva a ritenere in Occidente e anche nell’opinione cattolica italiana. Di Lenin si riconosce la forza, l’energia e anche la spietatezza. Impressiona la determinazione bolscevica nelle lotte contro i socialisti rivoluzionari, i resti dei partiti borghesi, la vecchia società e i bianchi insorgenti. “La Rassegna Nazionale” scrive di «regime del terrore» bolscevico e di «terrore bolscevista»53. “La Civiltà Cattolica”, nel marzo 1918, riprende il filo delle questioni russe per qualche tempo passate sotto silenzio, per rilevare «il pianto dei giornali dell’anticlericalismo e della massoneria», e della stampa interventista in generale, dinanzi al definitivo abbandono russo del fronte belligerante contro gli Imperi centrali in forza dell’accordo di Brest-Litovsk. Da parte dei gesuiti della “Civiltà Cattolica” è tutto un dire d’aver avuto ragione sulla stampa laica nel giudicare la rivoluzione russa come un evento appunto rivoluzionario, e pertanto negativo in se stesso, che non poteva dare alcun affidamento quanto agli interessi dell’Intesa. Della Russia in sé poco si dice, se non che
Aurelio Palmieri, Lo spirito della rivoluzione nella Chiesa ortodossa russa, “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, 30 novembre 1917, pp. 193-202, 195. 51 Aurelio Palmieri, Sulle rovine della Russia. Il tramonto dell’ortodossia ufficiale russa ed il concilio nazionale di Mosca, “Vita e Pensiero”, 20 marzo 1918, pp. 136-145, 138. 52 Aurelio Palmieri, Lo spirito della rivoluzione… cit., p. 202. 53 Cfr. le rassegne politiche dei numeri dell’1 settembre e 1 ottobre 1917. 50
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i rivoluzionari d’Oriente sono figliuoli legittimi e discepoli ingenui dei nostri rivoluzionari d’Occidente. Noi li diremmo quasi migliori dei loro padri e maestri, perché più alieni dagli eccessi a cui quelli trascorsero a loro tempo, come si sa dalla storia veritiera della rivoluzione francese, che fece scorrere tanti fiumi di sangue, da quella dei molti rivolgimenti del secolo susseguente, particolarmente dal 1848, ed infine dalla stessa Comune di Parigi54.
È lo stile usuale della rivista, cui l’uscita dalla scena bellica della Russia sembra non dispiacere, e non è dato sapere se per avversione alla causa dell’Intesa considerata anticlericale e massonica o per il ridimensionamento della potenza russa costretta con la resa agli Imperi centrali a rinunciare alla conquista di Costantinopoli. A fine anno, terminata la guerra, “La Civiltà Cattolica” commenta la situazione russa in un giro d’orizzonte europeo caratterizzato, al dire della rivista, dal prevalere della rivoluzione sulla pace. Il tono è sarcastico verso i vincitori, portatori di una pace che pare consistere in maggior disordine e rovina della guerra appena finita, o per meglio dire di una pace che non sembra esser pace. La rivoluzione russa è presa ad esempio di «orrori» e «fallimenti» dai quali si auspica possano scampare tutti i paesi ora preda della rivoluzione. Come di regola, “La Civiltà Cattolica” svolge un discorso ideologico e polemico, per cui tutte le rivoluzioni finiscono per essere uguali, non essendo altro che rivoluzioni, discendenti tutte dal rinnegamento dello spirito d’ancien régime avvenuto con la rivoluzione francese. Le rivoluzioni non sono cioè accadimenti storici specifici dell’una o dell’altra società bensì un fenomeno unico, obbediente al medesimo paradigma. Non ci sono le rivoluzioni ma soltanto la rivoluzione, al singolare, ovunque segnata dal medesimo «spirito». I cui effetti sono sempre disastrosi e illimitabili: «Come la guerra, così la rivoluzione: è un torrente che altri può facilmente scatenare, ma rotti gli argini, non può più contenere»55. Più che la storia, a “La Civiltà Cattolica” interessa la filosofia della storia, a fini di controversistica e apologetica. Diversamente altri fogli cattolici cercano di entrare nel merito delle vicende russe per trovarne una chiave interpretativa che non sia soltanto quella teologica dello stare con Dio o contro Dio. La “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, fondata da Toniolo come rivista d’alta cultura sociologica, si affida per spiegare la rivoluzione russa al migliore esperto della Russia che vi sia in campo cattolico, il citato Palmieri. Nel marzo 1918 questi presenta le cause ultime della rivoluzione russa rinvenendole nella questione agraria: «La rivoluzione russa s’identifica con la questione agraria. Tutta la potenza economica, la fortuna nazionale della Russia dipende dal suolo. L’immenso tratto di pianure, di boschi, di paludi, di pascoli che si estende dalle rive dell’Oceano glaciale sino a quelle del mar Nero, è continuamente smosso dalle braccia di milioni di uomini ai quali la Russia deve la sua grandezza politica»56. L’analisi di Palmieri non è romantica: Osserviamo anzitutto che il fattore precipuo della rivoluzione russa è un fattore economico. Volgarmente si è detto che lo stomaco porta la responsabilità di molte guerre e di molti rivolgimenti
Rivista della stampa. Intorno alla rivoluzione russa. Consensi e dissensi, “La Civiltà cattolica”, 8 marzo 1918, pp. 535-544, 535. 55 L’armistizi degli eserciti e le rivoluzioni dei popoli, ibid., 13 dicembre 1918, pp. 452-468, 456. 56 Aurelio Palmieri, Il problema agrario in Russia e la sua soluzione socialistica, “Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliari”, 31 marzo 1918, pp. 181-193, 184. 54
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sociali. L’idealismo umanitario e nazionale è merce assai rara […]. Può darsi che nei leaders della rivolta russa, l’esaltazione umanitaria e patriottica sia stata una leva possente di azione. Uomini di genio e di coltura, come Paolo Miliukov, sono anche uomini d’idealismo. E fuor di dubbio, se i sobillatori e gli autori morali della levata di scudi contro lo czarismo non si fossero trovati in presenza di gravissimi problemi economici che da secoli travagliarono il colossale organismo russo, la rivoluzione russa sarebbe stata il trionfo di nobilissime rivendicazioni sociali. Sventuratamente, ripetiamo l’espressione volgare di poc’anzi, lo stomaco russo, lungi dall’essere sazio, era affamato. E gli stimoli della fame aguzzano gl’istinti perversi. L’idealismo rivoluzionario russo ha ceduto il posto al realismo teppistico. Le sorti della Russia sono cadute nelle mani di audaci mestatori, che di russo hanno solamente il nome, e fors’anco il battesimo ortodosso, e l’atavismo anarchico, che, secondo Nicola Berdiaco [Berdiaev], forma il sostrato della psiche russa […]. Il problema agrario è stato il fattore principale della rivoluzione russa; che può dirsi una rivoluzione agricola, l’insurrezione dei contadini contro i latifondisti, siano questi lo stato, o la chiesa, o i privati57.
Dopo pagine di citazioni dotte e dati statistici a dimostrazione del suo assunto, Palmieri conclude con tratto drammatico doversi ora attendere in Russia l’assoluta abolizione della proprietà privata, il monopolio statale sui prodotti agricoli, i prezzi fissati dal governo, l’abolizione delle differenze di ceto sociale, la separazione della chiesa dallo stato, l’elezione popolare dei giudici e altro ancora, secondo i programmi di quel socialismo rivoluzionario radicale che confligge con la «costituzione stabile di qualsiasi consorzio sociale e apre un’era di anarchia, di delitti, di ladronecci, di orrori che non la cederà a quella di Stenka Razin e di Pugacev». «A riguardo di Mosca si rinnova la tragedia di Bisanzio. I nuovi turchi sono i socialisti rivoluzionari»58. Lo stesso Palmieri, alcuni mesi dopo, sentiva di dover spiegare come le origini agrarie della rivoluzione russa dovessero interpretarsi alla luce delle idee socialiste estreme da sempre vive nel paese degli zar, anche quando lo stesso termine socialismo non era stato ancora coniato. E proprio alla luce della ricostruzione del passato socialismo russo, andando dall’una all’altra rivolta contadina, da Sten’ka Razin a Radiščev, dai Murav’ëv a Herzen, da Bakunin a Plekhanov, lo slavista cattolico indicava come del tutto autoctona la rivoluzione russa, accreditandola di originalità: Si è asserito che il socialismo il quale si trova come sostrato in tutti i movimenti rivoluzionari russi, è stato un’importazione tedesca, che i russi, secondo il carattere della loro razza, spinsero agli estremi. Altri, all’opposto, sostengono che il socialismo è un prodotto genuino dell’evoluzione sociale della Russia. Le sue crisi ed il suo processo rivestono, per così dire, un carattere nazionale, serbano l’impronta schiettamente russa. “Il progresso del nostro pensiero rivoluzionario – scrive Giorgio Nevzorov – presenta un processo organico, una serie di manifestazioni che mutuamente si collegano, una catena di deduzioni che logicamente derivano le une dalle altre. Ogni passo in avanti è intralciato da errori e traviamenti; i suoi metodi o sono unilaterali o esagerati; ma gli estremi finiscono per ricongiungersi. Gli elementi spuri sono eliminati e i veri regolarmente si svolgono. La vita funge da critico. La sua critica è senza viscere di pietà; la sua esperienza è il frutto che matura col sangue di molte vittime; ma le lezioni della vita sono necessarie. Passando attraverso il crogiuolo dell’esperienza della vita, l’idea si ringagliardisce, e si trasforma in convinzione incrollabile”. Il socialismo russo
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Ibid., p. 183. Ibid., pp. 192-193.
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si è quindi svolto in virtù di un processo interno, il cui carattere eminentemente russo è superiore ad ogni dubbio59.
L’asserzione è rilevante allorché molte voci qualificavano la rivoluzione russa come frutto di una trama germanica oppure di un “complotto giudaico”. Per Palmieri erano i russi stessi ad aver voluto la rivoluzione. Lo ribadiva nelle conclusioni, utilizzando la seguente citazione di Herzen a proposito del carattere nazionale russo: «Il pensiero, la scienza, la convinzione, il domma, non restano mai fra di noi allo stato di teoria o di astrazione. Essi non si rinchiudono nei confini angusti di un consorzio accademico, né si nascondono negli scaffali di un erudito, o nelle celle di una prigione; al contrario, senza aspettare la maturità, si lanciano nella vita pratica con una precipitazione eccessiva». Secondo Palmieri, i russi rifiutavano ogni dualismo fra teoria e vita. Le idee non potevano restare idee: «L’Herzen qui parla da profondo psicologo. I dottrinari russi presero dai tedeschi o francesi le loro teorie; ma non si arrestarono ad esse. Nella loro vita speculativa le svolsero sino al nihilismo sociale; nella loro vita pratica inaugurarono il periodo del terrorismo e seminarono rovine nella loro patria». La stessa congiunzione fra pensiero e vita s’aveva ora nella rivoluzione russa. Palmieri si professava conservatore, vedeva la rivoluzione russa marchiata negativamente dal socialismo, dall’anarchia, dal nichilismo, nondimeno riteneva che quanto accadeva in Russia era da prendersi sul serio come un fenomeno storico di ampia portata. Sul finire del 1918, col ritorno alla pace, la rivoluzione russa acquista un ulteriore significato. Da evento lontano le cui ripercussioni si svolgono sul piano bellico, e del quale si attende una chiarificazione politica, diventa un termine di confronto per le società ferite e inquiete che fuoriescono dal conflitto. Paesi in cui per quattro anni la dialettica politica è stata sacrificata all’union sacré necessaria alla belligeranza vedono accendersi le lotte politiche non appena la pace libera da censura e disciplinamento bellico. Anche in Italia, Lenin e Trockij diventano personaggi non più esotici ma popolari, e la rivoluzione bolscevica entra nelle questioni politiche interne. Il mondo cattolico italiano, a differenza del socialista, non sembra attratto dagli eventi russi, identificati con la matrice socialista che è matrice rivale. L’entrata in scena del Partito Popolare Italiano (PPI) di Sturzo, nel gennaio 1919, avviene in concorrenza con la vigorosa crescita del partito socialista: bianchi e rossi costituiscono i due partiti che inevitabilmente si contendono le masse. Gli uni fanno riferimento alla Rerum Novarum e al programma sturziano, gli altri a Marx e Lenin, e quindi al cambiamento russo che diventa il simbolo del socialismo ancora per poco unito in un PSI riformista e rivoluzionario al contempo. A scorrere la stampa cattolica italiana dell’immediato dopoguerra si nota la costante polemica antisocialista oltre che antiliberale. La rivoluzione russa, ormai chiarificatasi in rivoluzione socialista massimalista, diventa un tutt’uno con il socialismo di casa che si vuole fronteggiare. E laddove si teme che qualche buon elemento, magari giovanile, si lasci attrarre dalla propaganda socialista sulla Russia, si provvede a sbarrare la strada.
Aurelio Palmieri, Le fasi storiche del socialismo rivoluzionario in Russia, ibid., 31 ottobre 1918, pp. 99-116, 101-102. 59
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Come fa “Studium”, il periodico degli universitari cattolici, che affida a Francesco Aquilanti una prima messa in guardia nel febbraio 1919, cui altre seguiranno60: L’idea socialista procede rapida e logica nel suo sviluppo in Russia […]. È arduo orientarsi nel groviglio di notizie, che pervengono dai luoghi ove la colossale esperienza si sta realizzando. Da una informazione di fonte socialista si desume che a Pietrogrado il popolo si diverte, frequenta grandi spettacoli, ama la musica prediletta dai nuovi pedagogisti, fila il perfetto idillio con il potere integrale che detiene. Mai pittore fiammingo concepì un disegno di più squisita ed allettatrice intimità. Da altre fonti più autorevoli e concordi si colgono indicazioni assai diverse: la Russia appare roggia come la città di Dite e tra baratterie, abusi, vergogne somiglia davvero alle Malebolge di Dante. Occorre per ora muovere da una constatazione sicura: il socialismo integrale russo, come quello germanico, è il prodotto di sconfitte clamorose; non quindi la creatura che nasce da una società in pieno vigore di sviluppo produttivo ed è erede di beni a lungo tempo accumulati e destinati a convertirsi in felicità collettiva, ma l’aborto, il mostriciattolo, Calibano generato dal disastro nazionale e dal fallimento del programma d’un popolo […]. Il bolscevismo si mostrerà per quello che è realmente, un istinto di cupidigia, un imperialismo scoronato ed a rovescio, il polverizzamento della lotta nella individualità del delitto61.
Ma, giova ripeterlo, sono soprattutto la nascita del PPI e la concorrenza col socialismo avviato al biennio rosso, a spegnere l’attrazione del modello bolscevico ove mai si fosse manifestata. Non c’è mito bolscevico per i cattolici perché il partito di Sturzo convoglia e concentra le energie politiche cattoliche in un partito sostanzialmente confessionale – per quanto non si dichiari tale. Anche l’ala sinistra del movimento cattolico entra nel PPI, sentendo diversità dal movimento socialista sebbene sul piano sindacale vi siano affinità. La ripercussione in Italia della rivoluzione d’Ottobre e della vittoria bolscevica si faceva sentire nel mondo socialista specie con la creazione dei consigli di fabbrica sul modello dei soviet russi. Non così avveniva nel mondo cattolico. La concezione sturziana era quella di un PPI sì interclassista ma anche rappresentativo del polo contadino italiano a fronte del polo operaio del PSI, che ci si augurava quanto più possibile riformista e non massimalista. Non stupisce che De Gasperi nel 1921 – ma questa è ormai un’altra storia – saluterà la scissione di Livorno come un felice alleggerimento del PSI dalla «zavorra rivoluzionaria», a segno dell’irriconciliabilità cattolica con quanto proveniva dal bolscevismo e dal suo modello62.
60 Cfr. Giampietro Dore, Cattolici e socialisti, “Studium”, luglio-agosto 1919, nonché gli interventi al riguardo di Giuseppe Corazzin e Amor Tartufoli, ibid., settembre 1919, infine di Albino Uggé, Enrico Falck, Giuseppe Andreucci, ibid., ottobre 1919, cui sarebbe seguita la replica di Giampietro Dore. 61 Francesco Aquilanti, Esperienza socialista, ibid., febbraio 1919, pp. 17-19. 62 Cfr. Nicola Antonetti, Movimento cattolico e comunismo, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia. Vol. I. Tomo 2. I fatti e le idee, a cura di Francesco Traniello e Giorgio Campanini, Marietti, Casale Monferrato 1981, pp. 29-43, 35.
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Danilo Breschi
Il vario liberalismo italiano e la rivoluzione d’Ottobre
Probabilmente il titolo promette troppo rispetto a quanto può essere mantenuto nello spazio di un breve saggio. Qui sono stati presi in considerazione soltanto alcuni tra i più significativi esponenti del liberalismo italiano; esclusivamente figure di intellettuali, filosofi, giuristi o giornalisti, eccezion fatta per Giovanni Amendola, che da intellettuale raffinato divenne il «leader del liberalismo democratico italiano nei primi anni del regime fascista»1. Sono autori i cui giudizi sugli effetti provocati dalla rivoluzione d’Ottobre fanno emergere alcune considerazioni utili per una riflessione più generale su come la cultura politica liberale si pose di fronte alle sfide interne innescate dal successo bolscevico in Russia: la deriva massimalista e rivoluzionaria del socialismo nostrano e la risposta piccolo e medio-borghese che avrebbe favorito l’ascesa del fascismo, costola del vario sovversivismo sorto a Sinistra nei primi vent’anni del Novecento. Premessa teorica e metodologica, tanto ovvia quanto necessaria, è che il liberalismo italiano, al pari di altri contesti nazionali, presentava all’epoca – e tuttora – una diversificazione, talora divaricazione, interna di posizioni tra una Destra e una Sinistra, nonché tra filogovernativi e antigovernativi, ossia tra chi considerava come genuinamente – o passabilmente – liberale la classe politica al governo e chi, invece, tale la riteneva poco o per niente, e perciò la incalzava ad esserlo dalle file dell’opposizione, sovente extraparlamentare, quando non ne auspicava la completa sostituzione. Un dato che accomuna gli autori qui passati in rassegna è la prevalenza di posizioni avverse – a diversa gradazione – all’establishment politico dell’Italia pur detta “liberale”, quasi sempre riassunto nella figura di Giolitti. Posizione peraltro prevalente tra le file del liberalismo italiano, come conferma anche il giudizio espresso sul bolscevismo, nella sua versione tanto russa quanto italiana. Si tratta di una posizione che affonda le proprie origini nella travagliata fase relativa all’ingresso dell’Italia in guerra tra 1914 e 1915. Tra interventismo e neutralismo si spacca l’apparente unità del liberalismo italiano, e prevale l’antigiolittismo2. Sarà l’immediato dopoguerra a confermare tale prevalenza. Per alcuni, i conservatori soprattutto, il liberalismo giolittiano 1 Paolo Bonetti, La democrazia liberale di Giovanni Amendola, in Id., Breve storia del liberalismo di sinistra. Da Gobetti a Bobbio, postfazione di Dino Cofrancesco, Liberilibri, Macerata 2014, p. 41. Cfr. Elio D’Auria, Liberalismo e democrazia nell’esperienza politica di Giovanni Amendola, Società Editrice Meridionale, Salerno-Catanzaro 1978. Si veda anche la recente biografia sul leader antifascista di Alfredo Capone, Giovanni Amendola, Salerno Editrice, Roma 2013. 2 Nella vasta letteratura esistente sull’argomento, si vedano i recenti lavori di Luigi Compagna, Italia 1915. In guerra contro Giolitti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2015; Giorgio Petracchi, 1915.
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si era spento nell’assecondare i processi di democratizzazione senza governarli, per altri, definibili come filo-democratici o più “progressisti”, esso si era ridotto a trasformismo, clientelismo, affarismo e perdita dell’anelito innovatore che avrebbe dovuto essere proprio di chi professava il valore della libertà3. In questa rassegna, pur necessariamente parziale, ci soffermeremo sui giudizi di alcuni intellettuali liberali a proposito del bolscevismo. Il periodo preso in considerazione è quello a ridosso del fatidico ottobre 1917. Man mano che ci si allontana da quella data, per l’Italia si farà infatti sempre più pressante la questione fascista. Come vedremo, il giudizio sul bolscevismo è in questi autori espresso soprattutto in termini di preoccupazione per lo scenario politico e sociale interno, per la stabilità dell’ordine istituzionale, e ben presto si mescolerà con il giudizio sul fascismo che rapidamente incarnerà agli occhi di molti di loro la più efficace reazione al “pericolo rosso”. Del resto, tra estrema lontananza geografica, difficoltà di comunicazioni e una scarsa e debole tradizione di studi sulla Russia, oltre agli inevitabili interventi di censura e di propaganda, «tutto concorse fin dall’inizio a rendere vaghi e oscuri i quadri della realtà russa che l’Europa venne creandosi»4. Quel che però trova conferma, come vedremo, è l’antigiolittismo quale denominatore pressoché comune tra molti liberali nostrani5. In tale prospettiva, non si può non prendere le mosse da Benedetto Croce. Per questo filosofo, come per molti altri pensatori e scrittori suoi contemporanei, il punto di partenza era il Risorgimento e in particolare la sua eredità, da recuperare piuttosto che da conservare, visto che era stata travisata o, peggio, corrotta dall’età giolittiana, come già i contemporanei cominciavano a definire il lungo periodo di governo dello statista piemontese. Nel 1907, in un articolo dedicato al pensiero di Georges Sorel, di cui nel 1909 avrebbe introdotto in Italia le Considerazioni sulla violenza per i tipi della Laterza6, Croce affermava che la costruzione del socialismo doveva «prendere esempio» dalla realizzazione della «unificazione d’Italia» e aggiungeva: È certo che se i rivoluzionari italiani si fossero accordati, come da taluno si tentò, coi vecchi governi, transigendo sulle rispettive pretese e congegnando riforme e temperamenti, l’unità d’Italia non si sarebbe attuata; e che ad attuarla giovò in primissimo ordine l’educazione mazziniana all’intransigenza. Il proletariato, se vuole imitare davvero la borghesia nell’abbattere una vecchia società, deve avere la forza e la capacità d’imitarla altresì nei metodi severi dell’abbattimento e della riedifi-
L’Italia entra in guerra, Della Porta Editori, Pisa 2015; Antonio Varsori, Radioso maggio. Come l’Italia entrò in guerra, il Mulino, Bologna 2015. 3 Sulla distinzione di stampo crociano – del Croce ormai apertamente antifascista – tra liberali giolittiani, considerati quali autentici liberali, e liberali di Salandra, ritenuti solo dei conservatori, si vedano le riflessioni di Antonio Jannazzo, L’eredità di Giolitti, in Id., Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003, pp. 11-39. 4 Antonello Venturi, Postfazione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, p. 231. 5 «L’ostilità delle masse era tanta e il discredito per la democrazia liberale (cioè l’antigiolittismo) non risparmiava uomini e ambienti di democrazia liberale», in Luigi Compagna, Italia 1915… cit., p. 43. 6 Georges Sorel, Considerazioni sulla violenza, con una Introduzione di Benedetto Croce alla prima edizione, Prefazione di Enzo Santarelli, Laterza, Bari 1970.
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cazione. Tali condizioni pone la storia, e con l’osservanza di esse il socialismo è tanto poco pauroso quanto è poco pauroso ciò che è necessario7.
Croce prendeva dunque a modello l’Unità d’Italia, il modo in cui essa sarebbe avvenuta, ovvero col contributo fondamentale di «rivoluzionari» educati da Mazzini all’intransigente devozione verso ideali di libertà vissuti in modo religioso. Evidenti, poi, nel ragionamento crociano di quegli anni una netta avversione nei confronti del riformismo e una certa inclinazione benevola verso il socialismo rivoluzionario. Non va dimenticato che, parlando di Croce, ci riferiamo a colui che fino alla vigilia della prima guerra mondiale può essere descritto come uno dei principali esponenti dell’opposizione intellettuale al governo e al più complessivo “sistema” giolittiano8. La scelta neutralista segnò un cambio di direzione, poi maturato fino al punto che il filosofo accettò di assumere il dicastero della Pubblica Istruzione nel quinto ed ultimo governo presieduto da Giolitti tra il 1920 e il 19219. Nel caso di Croce, oltre alla Grande Guerra, a spezzare il nesso, a lungo fascinoso ed attraente, tra l’idea di libertà e quella di rivoluzione – con cui veniva aggiornato il concetto di “Risorgimento” – avrebbe contribuito non poco il successo dei bolscevichi in Russia. L’avvento al potere di Lenin rilanciò dentro e fuori l’Europa la parola e il concetto di “rivoluzione”, trasfigurati e ricaricati nella loro valenza palingenetica. In tempi non sospetti Croce si era accorto di questa deriva irrazionalistica, che in Italia era stato esito non voluto dell’affermazione del nuovo idealismo. Già in una lettera del 12 aprile 1912 si lamentava infatti con Alessandro Casati della «nuova generazione» di letterati italiani, del fatto che fosse «neurastenica, ed aspetta l’impossibile, e io adempio il mio ufficio che è di richiamarla sul terreno della storia e della pratica. Anche la “Voce” mi ha seccato: speravo che con gli anni migliorasse e si facesse sempre più seria, e diventa invece sempre più ragazzesca»10. L’irrazionalismo nostrano avrebbe finito per incontrarsi o affiancarsi a quello slavo. Sui fatti di Russia nel corso del 1917, Croce si mostrava già allarmato ben prima dell’Ottobre11. Grande preoccupazione suscitarono già nel filosofo napoletano i fatti di Torino del 21-25 agosto 191712, che gli suggerirono come fosse concreta la possibilità d’una saldatura tra protesta popolare contro la guerra e politica rivoluzionaria ad opera d’un PSI a guida massimalista. In sostanza, anche negli anni immediatamente successivi, Croce rimproverò sempre molto aspramente al socialismo italiano la scelta filobolscevica, in quanto signi-
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mio.
Benedetto Croce, Conversazioni critiche. Serie Prima, Laterza, Bari 1942, p. 313. Il corsivo è
Su natura ed evoluzione del liberalismo crociano, resta lettura penetrante quella di Norberto Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo, in Id., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, pp. 211-268. 9 Sulle ragioni della scelta infine neutralista di Croce, avverso soprattutto all’irrazionalismo volontaristico che pervadeva un po’ tutto lo schieramento interventista, si vedano le interessanti argomentazioni di Nicola Matteucci, Benedetto Croce e la crisi dell’Europa (1967), ora in Id., Filosofi politici contemporanei, il Mulino, Bologna 2001, pp. 25-53. 10 Benedetto Croce, Lettere ad Alessandro Casati (1907-1952), Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1969, pp. 10-11. 11 Sul giudizio crociano in tema di bolscevismo cfr. Roberto Pertici, Benedetto Croce e il socialismo italiano fra guerra e dopoguerra (1914-1922), “Annali dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici”, XXIX 2016, pp. 245-277. 12 Sui quali si rinvia, per notizie generali e bibliografia, a Piero Melograni, Storia politica della grande guerra, 1915-1918, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 337-342. 8
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ficava spingere fino alle estreme conseguenze quell’internazionalismo proletario che era lesivo dell’unità nazionale, peraltro in un momento quanto mai critico per la tenuta dello Stato italiano13. In una lettera a Giovanni Castellano del 17 novembre 1918, azzardava qualche previsione: Io credo che il mondo vada verso il socialismo. La disfatta della Germania è la fine dell’ultima possanza che rappresentava l’ideale storico, antidemocratico, autoritario, tradizionalistico: ed è la vittoria della democrazia, e democrazia estrema significa socialismo. D’altronde, la guerra ha creato le condizioni, che ancora mancavano, pel socialismo. Il dubbio non è questo: è invece se il socialismo procederà organicamente o se non vi sarà un periodo anarchico, che ora si dice bolscevistico [sic]. A me pare che questo pericolo sia attenuato da più fatti: 1) che i popoli vincitori non tendono all’anarchia; 2) che la Germania stessa ha forze di resistenza nella sua salda cultura e disciplina, e già par che non voglia sapere di bolscevismo; 3) che Wilson cerca di assicurarsi di ciò, ponendo a condizione del vettovagliamento della Germania, che ubbidisca alle autorità costituite; 4) che l’Intesa è stata tradita dal bolscevisti [sic], ed è creditrice della Russia. E taccio il resto14.
Nel complesso, comunque, Croce, pur non lesinando critiche ai vertici sindacali e deplorando lo stato d’agitazione permanente in atto in Italia tra 1919 e 1920, non si lasciò andare ad alcun eccesso d’allarmismo e, dalla lettura delle sue pagine, tanto pubbliche quanto private, non si ricava «quella sensazione di essere sull’orlo del baratro e quindi quell’aspirazione a un ordine quale che sia, che si ritrovano in molte testimonianze contemporanee»15. Come avrebbe scritto il 21 gennaio 1920 in una lettera a Carlo Miraglia, con la quale declinava l’invito a contribuire alla nascita di un’associazione anti-socialista a Napoli, per lui il pericolo era «più nella paura che nella realtà»16. Fra gli intellettuali italiani tra loro “diversamente liberali”, se così possiamo denominarli, la posizione crociana di cautela ed equilibrio di fronte a una possibile bolscevizzazione della situazione politica e sociale nazionale fu anche, come vedremo, di Guglielmo Ferrero e Francesco Ruffini. Ciononostante, il giudizio crociano sul bolscevismo russo e le sue più ampie conseguenze sul clima politico e culturale europeo fu sin da subito assai severo, e nella sua Storia d’Europa, pubblicata nel 1932, avrebbe ribadito che il comunismo, che era stato, sotto nome di socialismo, immesso nella vita della politica e dello stato e nel corso della storia, è ricomparso nella sua scissione e crudezza, nemico acerrimo anch’esso del liberalismo, che irride dicendolo ingenuamente moralistico; e, al pari dell’attivismo, col quale si fonde, quel comunismo è sterile o soffocatore di pensiero, di religione, di arte, di tutte queste e altre cose che vorrebbe asservire a sé e non può se non distruggere17. Benedetto Croce, Tre socialismi, “Il Giornale d’Italia”, 2 ottobre 1918, ora ne L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Laterza, Bari 1965, pp. 285-289. 14 Benedetto Croce, Lettere a Giovanni Castellano, 1908-1949, a cura di Pio Fontana, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1985, p. 91. 15 Roberto Pertici, Benedetto Croce e il socialismo italiano… cit., p. 260. 16 Benedetto Croce, Epistolario. Vol. I. Scelta di lettere curata dall’autore, 1914-1935, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1967, p. 44. Cfr. Raffaele Colapietra, Napoli fra dopoguerra e fascismo, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 99-100. 17 Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, cit., p. 308. 13
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Con il bolscevismo e la rivoluzione sovietica, inoltre, si era definitivamente confutato nei fatti l’aspetto utopistico, del tutto irrealizzabile, del comunismo: «l’abolizione dello stato, il “trapasso dal regno della necessità a quello della libertà”, che il Marx teorizzava, non solo non è accaduto e il comunismo non ha abolito (e non poteva, né alcuno potrà mai) lo stato, ma per ironia delle cose, ha foggiato il più pesante degli stati che sia possibile mai concepire»18. Tra le nuove leve intellettuali dell’immediato dopoguerra, spicca senz’altro la figura di Piero Gobetti. Questi, dichiarandosi liberale, sia pur di nuovo e diverso conio, manifestò profonda ammirazione per l’azione di Lenin e compagni. Furono premesse filosofiche di stampo idealistico a forgiare in misura consistente il pensiero del giovane Gobetti, e a predisporlo per una ricezione entusiastica d’ogni evento che potesse configurarsi, o quanto meno percepirsi, come una rottura radicale dell’assetto politico esistente, e soprattutto un rovesciamento dell’odiato sistema giolittiano. In una parola: come rivoluzione. Stante ciò, risulta evidente come il colpo di mano bolscevico e il tentativo torinese e ordinovista di emularlo nella tarda estate del 1920, assumessero agli occhi di Gobetti i contorni della grande occasione storica di tradurre in termini pratici il proprio afflato idealistico e volontaristico. Non si dimentichi che, tra i professori di liceo, Gobetti aveva avuto Balbino Giuliano19. Insegnante di filosofia, Giuliano aveva avuto una formazione di stampo gentiliano20. Più in generale, va aggiunto che “Energie Nove”, la prima impresa editoriale di Gobetti, al pari di molte altre coeve «espressioni di gruppi di studenti o di ex-combattenti […], si situa in un fermento giovanile nazionale suscitato dalla battagliera “Unità” salveminiana»21. Gaetano Salvemini, infatti, fu il maestro dichiarato, il riferimento esplicito che 18 Ibid., p. 312. E così proseguiva: «Con che non si vuol detrarre nulla né alla necessità nella quale i rivoluzionari russi si sono trovati di seguire quella via, e non altra; […] né all’entusiasmo mistico, e sia pure di un misticismo materialistico, che li anima e che solo può farli reggere all’immane pondo che si sono messo sulle braccia e dar loro il coraggio di calpestare, come fanno, religione e pensiero e poesia, tutto quanto riveriamo come sacro, tutto quanto amiamo come gentile. Ma si vuol ribadire con ciò che essi, per ora, hanno bensì assertoriamente negato con le parole e con atti di violenza e metodi di compressione, ma non hanno risoluto […] il problema fondamentale dell’umana convivenza che è quello della libertà, nella quale solamente l’umana società fiorisce e dà frutti, la sola ragione della vita dell’uomo sulla terra […]» (ivi). 19 Di «una particolare, momentanea, influenza sul Gobetti per il fatto d’esser stato suo professore di filosofia al liceo: d’esser stato cioè il maestro da cui per la prima volta il giovane ha sentito pronunciare quelle parole, enunciare quei concetti, porre quei problemi a cui dedicherà in seguito sempre più intensamente la propria intelligenza e la propria vita», ha scritto Paolo Spriano nella sua Introduzione alla raccolta, da egli stesso curata, degli scritti politici gobettiani: Piero Gobetti, Scritti politici, Einaudi, Torino 1969 (prima ristampa della prima edizione del 1960), pp. XVIII-XIX. Balbino Giuliano sarebbe stato anche uno degli iniziali collaboratori della prima creatura editoriale di Gobetti, il quindicinale “Energie Nove”. 20 Cfr. Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Laterza, Bari 1966, p. 43, nota 21 e, soprattutto, la voce appositamente dedicata da Roberto Pertici nel Dizionario Biografico degli Italiani. Vol. LVI, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2001, pp. 770-776. Vedi anche Id., Il “ritorno alla patria” nel sovversivismo primonovecentesco e l’incontro con Mazzini, in Mazzini e il Novecento, a cura di Andrea Bocchi e Daniele Menozzi, Edizioni della Normale, Pisa 2010, pp. 65107 (in particolare pp. 68-69). 21 Piero Gobetti, Scritti politici, cit., p. XIX.
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funse da modello per il giovane studente torinese che intendeva ingaggiare analoghe battaglie culturali tramite lo strumento del periodico. Sulla rivista si esaltava Mazzini nella stessa misura in cui si attaccava violentemente Giolitti, accusato d’essere un corruttore, tanto che politicamente questi era sempre e comunque «quello della malavita elettorale»22, secondo appunto l’insegnamento salveminiano. Ma una forte influenza idealistica, indirettamente gentiliana, la si ritrova anche nell’interesse che sin da subito il Gobetti di “Energie Nove” dedicò al problema della scuola, alla necessità d’una sua riforma secondo un vasto programma pedagogico che rispondeva esattamente ai criteri generali introdotti da Croce ma soprattutto da Gentile, il quale avrebbe poi fornito un proprio contributo ad un numero unico della rivista – ottobre 1919 – dedicato specificamente alla scuola, assieme ad Ernesto Codignola, Manara Valgimigli, Francesco Severi e Luigi Galante23. Nel febbraio 1920, sempre con Gentile, sarebbe stato promotore del Fascio di Educazione Nazionale24. La rivoluzione bolscevica irruppe nel processo di maturazione intellettuale del giovane Gobetti e ne condizionò lo sviluppo ideologico al punto che egli si applicò con grande fervore al difficile studio della lingua russa, per cui tradusse alcuni testi di scrittori come Čechov, Kuprin e soprattutto Leonid Nikolaevič Andreev – peraltro intellettuale critico degli eccessi del bolscevismo. Inoltre presso la Società di Cultura tenne una serie di conferenze sulla Russia, nelle quali, come ricordava Carlo Levi in uno scritto commemorativo uscito nel 1956, «aveva dato una sua interpretazione della Rivoluzione come espressione di libertà e ne ricercava nella letteratura, nella storia e nella cultura, le tradizioni e gli antecedenti»25. Attestatone già nel 1919 il sostanziale fallimento sul piano economico per limiti intrinseci alla stessa dottrina marxista, l’esperimento bolscevico era apprezzato per le capacità di leadership di Lenin e Trockij, giudicati da Gobetti gli artefici, come ha scritto Marco Scavino, di «uno Stato moderno (e quindi liberale, perché
Piero Gobetti, Giolitti, giolittismo e antigiolittismo, “Energie Nove”, serie II, n. 5, 5 luglio 1919, p. 95, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 128, dove si legge anche: «Giovanni Giolitti non ha potuto, non potrà mai essere un grande statista, proprio per assenza di indipendenza e di libertà. Egli è solo il capo di una maggioranza parlamentare». A chiosa dell’articolo, Gobetti citava come fonte autorevole e ancora indiscutibile, pur a distanza di quasi dieci anni, il noto e polemico volume curato da Gaetano Salvemini, Il ministro della malavita, Edizioni della Voce, Firenze 1910. 23 Cfr. Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XX. Spriano sottolinea, a ragione, come il tema della riforma scolastica non fosse affatto estraneo anche all’“Unità” salveminiana, ma, al tempo stesso, sottolinea come vi fosse, all’epoca, «un elemento nuovo, gentiliano, nella concezione aristocratica della scuola che Gobetti manifesta», il che non toglie il fatto che poi «l’affinità con Gentile si rivelerà presto un equivoco: e sul più vasto terreno ideale, e su quello specifico, scolastico». Resta comunque degno di nota «questo primo accento gentiliano, pieno, altresì, di passione autobiografica» (ibid., pp. XX-XXI). Di un «gentiliano Gobetti» scriveva nel 1944 anche Aldo Garosci, il quale – come sottolinea Antonello Venturi nella Postfazione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo, cit., p. 244 – «attraverso la mediazione di Carlo Levi aveva incarnato la più diretta filiazione torinese del pensiero gobettiano». Vedi inoltre a tal proposito Un liberalsocialista di G.L. [A. Garosci], Eredità gobettiana da respingere e da accettare, “Nuovi quaderni di Giustizia e Libertà”, maggio-giugno 1944, p. 83. 24 Cfr. Dina Bertone Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma 1958, pp. 203-204. 25 Citato in Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XXIII, nota 1. 22
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espressione della volontà di elevazione delle masse)»26. Un volontarismo non più velleitario ma vittorioso. Ad aggiungersi a quanto stava accadendo in Russia giunse, nel settembre 1920, l’occupazione delle fabbriche, il cui cuore strategico pulsò proprio a Torino grazie all’azione del gruppo socialista filoleninista radunato attorno al settimanale “Ordine Nuovo”, di cui Gramsci era il principale animatore. Lo stesso Gobetti confessò più tardi, nel 1923, da dove sorgessero le fonti d’ispirazione della sua rivoluzione liberale: Nel 1920 io interruppi le “Energie Nove” perché sentivo bisogno di maggior raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell’occupazione delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell’esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall’altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo27.
Altra conferma di questa svolta si trova in una lettera coeva a quei decisivi eventi, indirizzata all’amata Ada Prospero: Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo. Non sento in me […] la forza di seguirli nell’opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia ideale del secolo. Allora il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione oggi si pone in tutto il suo carattere religioso. […] Il movimento è spontaneo e tutto altro che diretto a scopi materiali. […] Siamo davanti a un fatto eroico. Certo può darsi che venga soffocato col sangue: ma sarebbe l’inizio della decadenza28.
Siamo alla definizione di quel che il comunista Spriano ha definito l’«operaismo liberale gobettiano», i cui tratti distintivi sono riassumibili come segue: «l’élite contrapposta alla massa, la volontà di sacrificio agli scopi materiali, la preminenza data al moto spontaneo sulla direzione dei capi»29. L’obiettivo era rifondare lo Stato cercando di sfruttare le energie ideali e morali presenti nella classe operaia in quel dato momento storico, per compiere
26 Marco Scavino, Piero Gobetti, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà. Il comunismo nella riflessione liberale e democratica del Novecento, a cura di Franco Sbarberi, postfazione di Bruno Bongiovanni, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p. 106: «In questo i bolscevichi si stavano rivelando infinitamente superiori a tutte le correnti rivoluzionarie precedenti, astratte e inconcludenti, ferme a un idealismo romantico e di carattere quasi messianico, espressione dell’assoluta vacuità politica e sociale dell’intelligencija russa». 27 Piero Gobetti, I miei conti con l’idealismo attuale, “La Rivoluzione Liberale”, anno II, n. 2, 18 gennaio 1923, p. 5, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 445. 28 Piero Gobetti ad Ada Prospero, 7 settembre 1920, in Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, a cura di Ersilia Alessandrone Perona, Einaudi, Torino 1991, pp. 375-376. 29 Paolo Spriano, Introduzione, cit., p. XXVI.
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un ricambio radicale di élites30. Di elitismo operaio, pertanto, bisognerebbe parlare, più che di operaismo liberale31. Il nemico di Gobetti era la borghesia italiana, a cui imputava di essere stata incapace negli ultimi decenni di partorire dal suo seno una classe dirigente all’altezza dei compiti di uno Stato laico moderno32. Le sofferenze di operai e contadini stavano lì a dimostrarlo, ed è proprio da loro che il giovane intellettuale torinese auspicava una maturazione politica tale da farne i due partiti su cui incardinare la propria idea di liberalismo. Un liberalismo che, come indicava in conclusione il Manifesto inaugurale della nuova rivista “Rivoluzione Liberale”, si costruisse politicamente attorno al «mito della rivoluzione contro la borghesia», ovvero una «rivoluzione antiburocratica», alimentata dalle rivendicazioni autonomiste tanto della classe operaia quanto di quella contadina tenute dialetticamente in tensione creatrice da uno Stato finalmente e compiutamente unificato33. Per questo motivo già il 25 luglio 1919, su “Energie Nove”, egli aveva salutato nell’«opera di Lenin e Trotzki» addirittura «la negazione del socialismo e un’affermazione e un’esaltazione di liberalismo»34. Trockij aveva compreso che «una rivoluzione anarchica» sarebbe stata la sola «capace di distruggere i limiti di una schiavitù secolare e di promuovere un’attività sociale», dal momento che «non si poteva affermare nulla fuorché la volontà di
«La folla operaia non è diversa affatto dalla folla borghese che hai tu intorno; quella si ubbriaca di barbera, questa di champagne e di svenevolezze. La rivoluzione che oggi si prepara non muterà, non può mutare nulla negli uomini, che saranno seri solo se si faranno tali nella loro intimità. Il solo problema che la rivoluzione può risolvere è dare o meglio preparare in parte una nuova classe dirigente. Si tratta di rinnovare lo Stato, non la nazione. E si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure che erano si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione»: Piero ad Ada Prospero, 13 settembre 1920, in Piero e Ada Gobetti, Nella tua breve esistenza… cit., p. 385. I corsivi sono nel testo. 31 Sull’elitismo gobettiano, cfr. Norberto Bobbio, Democrazia ed “élites”, in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Roma-Bari 2001 (edizione accresciuta), in particolare pp. 221-234. «La teoria pessimistica di Mosca sembrava fatta apposta per piacere a coloro che non erano disposti a dare un giudizio benevolo sullo sviluppo della democrazia in Italia. In secondo luogo, Gobetti, e sulla sua scia il movimento gobettiano […], furono sempre ispirati da una fiducia illimitata nelle minoranze eroiche, creatrici, battagliere, rivoluzionarie, brevemente negli eretici che, rompendo i vincoli di ogni ortodossia, contribuiscono alla creazione, se pure a lunga scadenza, di nuovi valori, gettano semi che fruttificheranno, sono il sale della storia» (ibid., p. 224). 32 Cfr. Piero Gobetti, Dal bolscevismo al fascismo. Note di cultura politica, postfazione di Pietro Polito, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015. Il saggio, che raccoglie due articoli usciti ne “La Rivoluzione Liberale”, è pubblicato nella primavera del 1923. Come sottolinea Pietro Politico nella sua Postfazione, «la visione della politica quale emerge dal saggio Dal bolscevismo al fascismo non sembra immediatamente riconducibile a una concezione liberal-democratica della lotta politica. Anzi, per la centralità del concetto di mito risente di una forte influenza soreliana» (p. 39). Ciò detto, Gobetti tenne in quel suo scritto a precisare come «il richiamo a Sorel non ci deve mettere in sospetto di rigoristiche premesse o di misteriose iniziazioni mitiche», come a volerne marcare la distanza ideologica e l’utilizzo soprattutto in chiave polemica nei confronti del «movimento socialista nelle sue degenerazioni riformistiche e utilitarie» (p. 13). 33 Piero Gobetti, Manifesto, “La Rivoluzione Liberale”, anno I, n. 1, 12 febbraio 1922, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 240. 34 Ibid., p. 151. 30
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autonomia come tale, la responsabilità»35. Nella prima fase, che secondo Gobetti era stata guidata in prevalenza da Trockij, il popolo russo era insorto e «negando l’egoismo czarista gli individui afferma[va]no l’egoismo proprio», premessa necessaria alla «libertà vera»: L’arbitrio diventerà poi libertà, necessità, organizzazione sociale: ma deve prima essere arbitrio, volontà, azione, come tale, vuota. L’anarchia è il primo momento, ed anarchia perché tutti gli uomini affermino la volontà loro. Così, negato lo czarismo, incomincia l’esperienza popolare. Il secondo problema di Trotzki […] era di promuovere la formazione di una nuova classe dirigente che durante il movimento anarchico si presentasse come vera erede dello Stato, come ordine nuovo. […] Poi venne Lenin […]. E allora dopo l’anarchia – dopo la dittatura – si prepara[va] la democrazia (agricola). […] Così il ciclo è compiuto e la Russia è rinnovata36.
È qui facile rinvenire il possibile punto di contatto tra Gobetti e Gramsci: l’attivismo e il volontarismo intesi come i figli più genuini d’un idealismo ben inteso, e dunque corretto rispetto agli insegnamenti di Gentile e Croce37. Basta, a tal proposito, ricordare il celebre articolo con cui Gramsci forniva la propria originale lettura degli eventi dell’Ottobre 1917: Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono “marxisti”, ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche38.
La lezione gramsciana in Gobetti risulta evidente dalla convinzione sempre più ferrea che le sole forze nazionali su cui era possibile impostare e condurre a termine una autentica “rivoluzione liberale” in Italia fossero gli operai del Nord e i contadini del Sud. Tra i riferimenti intellettuali di Gobetti, assai influente fu il ruolo svolto da Luigi Einaudi. Non, evidentemente, nel giudizio sulla rivoluzione russa e i suoi possibili effetti in Italia. Gobetti dava però al liberalismo il significato di dinamismo antiburocratico e movimento teso alla dissoluzione dello stato di cose esistente, così da leggerlo come sinonimo di “rivoluzione”39. Un compito a cui la borghesia italiana era venuta meno. Per comprendere
Piero Gobetti, La Russia dei Soviet, “Volontà”, 15 febbraio 1921, ora ibid., p. 201. Ivi. Corsivo mio. 37 Cfr. Giuseppe Amoretti, Gramsci, Società Editrice “l’Unità”, Roma 1945: «Gramsci svolgeva [nei mesi successivi all’occupazione delle fabbriche] un gran lavoro tra gli intellettuali: tra i quali soprattutto uno veniva continuamente a lui: Gobetti»: citato da Paolo Spriano, Introduzione, p. XXVII, nota 1. Nell’autunno del 1920 Gobetti «moltiplica le sue visite alla redazione dell’“Ordine Nuovo”, i suoi contatti con l’ambiente operaio che frequenta il giornale e la Camera del Lavoro» (ibid., p. XXVII). Si veda anche Giancarlo Bergami, Il giovane Gramsci e il marxismo, 1911-1918, Feltrinelli, Milano 1977, in particolare pp. 82-84, 100-120. 38 Antonio Gramsci, Scritti politici. Vol. I., a cura di Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 131. 39 Un recente lavoro in area angloamericana sottolinea le peculiarità del liberalismo gobettiano, ribadendo come il giovane pensatore torinese cercasse di coniugare il principio-valore della libertà con le masse italiane e, in tal senso, quanto accaduto in Russia gli apparve, sorelianamente, un mito mobilitante. Per altri aspetti, il lavoro in questione intende dichiaratamente attualizzare il tentativo 35
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appieno l’accezione gobettiana di liberalismo, risultano quanto mai esplicative alcune considerazioni svolte dal giovane antifascista torinese proprio in merito alla dottrina politica einaudiana: E il marxismo non è esso pure, come il liberalismo inglese, una fede formale, un’interpretazione del mondo, un metodo che si oppone validamente ai vari comunisti utopistici appunto in quanto nega le formule moralistiche?... Avendo identificato il movimento operaio con le sue statiche formule collettivistiche, l’Einaudi lo ha discusso come una forma di socialismo di Stato. Ciò gli poteva essere consentito dall’esame di alcuni risultati empirici, ma gli era contestato dallo spirito autonomistico e antiburocratico che presiede al risveglio operaio40.
A conferma del perdurante riconoscimento del magistero einaudiano, pur nella profonda diversità di vedute sul piano politico concreto e di valutazione del momento storico, si tenga conto che nel 1923 Gobetti giunse a proporre ad Einaudi la stesura d’un volume che potesse costituire una sorta di libro-manifesto e, insieme, un libro-memoria per la nuova casa editrice a cui aveva appena dato vita come ulteriore strumento di lotta contro il fascismo. Ne venne fuori Le lotte del lavoro, una raccolta di scritti editi a cui lo stesso Einaudi premise una breve Introduzione intitolata La bellezza della lotta. Qui l’economista piemontese ricordava quanto segue: Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova […], fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente41.
Quel che per Gobetti era autonomismo operaio, liberazione dal basso, ad opera della classe fino ad allora subalterna e sottomessa, per Einaudi era l’esatto opposto, ossia ritorno ad un assolutismo statale e burocratico faticosamente rintuzzati nel secolo precedente da un liberalismo politico ed economico non ancora pienamente trionfante, né in Europa né, ancor meno, in Italia. La rivoluzione d’Ottobre mostrava già a pochi mesi di distanza il fallimento di ogni progetto collettivista, che aveva fatto regredire una Russia che, con fatica, si era pur avviata da qualche tempo sulla strada della modernizzazione industriale. Così Einaudi commentava in un articolo del 28 aprile 1919 sul “Corriere della Sera”:
ideologico di Gobetti, e ciò finisce per inficiare non poca parte dell’intera analisi. Cfr. James Martin, Piero Gobetti and the Politics of Liberal Revolution, Palgrave Mac Millan, New York 2008. 40 Piero Gobetti, Il liberalismo di Luigi Einaudi, “La Rivoluzione liberale”, I, n. 10, aprile 1922, ora in Id., Scritti politici, cit., p. 329. I corsivi sono miei. 41 Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, Introduzione di Paolo Spriano, Einaudi, Torino 1972, p. 5. Sul pensiero politico di Einaudi e, in particolare, sul rapporto col socialismo economico e politico, cfr. Gianfranco Pagano, Luigi Einaudi e il socialismo, Bibliopolis, Napoli 1993; Alberto Giordano, Il pensiero politico di Luigi Einaudi, Name, Genova 2006, pp. 58-69, 126-146; Paolo Silvestri, Il liberalismo di Luigi Einaudi o del Buongoverno, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008.
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Di questa morte muore oggi la Russia cittadina. Un pugno di visionari, impadronitisi con la forza del potere e sicuro di conservarlo con il torchio dei biglietti e con la guardia rossa armata, si è divertito a scomporre, a guardarci dentro per vedere come era fatto e ad applicare le formulette scolastiche per rimetterlo insieme. […] Quelle miserie sono la conseguenza necessaria della vittoria degli uomini della scienza politica ed economica imparata sui libri sacri del socialismo; sono la forma in cui si attuano i sogni visionari di taumaturgiche ricostruzioni sociali42.
Forse perché ormai maggiormente preoccupato della nuova minaccia fascista, fattasi concreta con la nomina di Mussolini a Presidente del Consiglio, lo stesso Einaudi del 1923 consentiva una lettura eterodossa del rapporto fra liberalismo e socialismo, se la definizione che egli dava di «liberale» era la seguente: Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano; l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore43.
La sottolineatura relativa all’uso o meno della forza non era, né è a tutt’oggi, secondario nel segnare il discrimine tra metodo liberale e non, ma la complessiva vaghezza dei contorni della definizione einaudiana lasciava indubbiamente spazio a chi, come Gobetti, avesse anteposto, sempre e comunque, l’esigenza del mutamento, inteso come processo di liberazione da vincoli e privilegi. Un’esigenza accresciuta dopo il 1920 dall’ascesa del movimento fascista e dal rapido concretizzarsi della minaccia da questo rappresentata. Sotto il titolo L’esperimento russo, Einaudi raccoglieva nel volume edito da Gobetti cinque articoli originariamente apparsi nel “Corriere della sera” tra il gennaio 1918 e il marzo 1919. Basandosi sui molti dati forniti dal corrispondente da Stoccolma dell’“Economist” di Londra, egli riproduceva il riepilogo dei tre ultimi bilanci preventivi del governo bolscevico. Dalla voce delle spese del bilancio si notava, ad esempio, che «la piccola guardia rossa, su cui il governo dei Soviet poggia la sua forza, sta invero trasformandosi in un grande esercito di 3 milioni di uomini, destinato a conquistare il mondo all’ideale comunista»44. Ma se fallimentare era il bilancio sia economico sia politico di quanto si stava attuando in Russia, a dir poco irresponsabile e pericolosa era, a giudizio di Einaudi, la condotta dei leader del Partito Socialista Italiano: Quella che non è logica è la condotta dei socialisti odierni, di coloro che dominano nella direzione del partito, se non sulle colonne della “Critica sociale”; essi vogliono la rivoluzione per la rivoluzione, il disastro per il disastro, la distruzione dell’ordine economico esistente a scopo di pura distruzione; e chiamano ciò “realizzazione del socialismo”. Finora, in Russia, ciò che sovra
Luigi Einaudi, La dittatura del proletariato e l’interesse dei lavoratori, “Corriere della Sera”, 28 aprile 1919. Sul tema cfr. Roberto Marchionatti, Luigi Einaudi e il comunismo. La critica di un liberale, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 81-101 e in particolare pp. 84-90. 43 Luigi Einaudi, Le lotte del lavoro, cit., p. 6. 44 Ibid., p. 118. 42
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tutto è stato realizzato, ciò che si vede massimamente e ben da lontano è un enorme, gigantesco, spaventevole edificio di carta45.
In fondo, sin dai suoi esordi, l’esperimento sovietico stava confermando quanto la teoria aveva insegnato da molto tempo ad Einaudi, così come l’osservazione del modo in cui il massimalismo socialista aveva operato nell’Italia d’anteguerra. In un articolo del 1911 per il “Corriere della sera”, egli non aveva esitato ad affermare che «la morte del socialismo nel mondo delle idee è ben certa. Il Capitale di Carlo Marx è un vangelo su cui più nessuno giura, una fortezza le cui mura furono ad una ad una smantellate»46. Non solo: «I socialisti sono venuti al mondo con un ben altro programma specifico; con il programma ben netto e ben reazionario, di distruggere le conquiste di secoli di sforzi compiuti contro la tirannide dei governi assoluti, delle corporazioni medioevali, dei privilegi e delle comunità di classe»47. Il 14 novembre 1919 Gaetano Mosca, il teorico della “classe politica” nonché fondatore della scienza politica in Italia, in una lettera all’amico Guglielmo Ferrero esprimeva nei seguenti termini il proprio punto di vista: Tu sei pessimista e credo che abbia ragione. La situazione in Italia, come più o meno in tutta Europa, continua ad essere grave e le classi dirigenti ancora non l’hanno capito abbastanza. Nelle imminenti elezioni si dilaniano fra di loro invece di stringere le fila contro il pericolo comune. Io credo poi che il pericolo bolscevico sia aggravato dalla psicologia degli ex-combattenti. Fra gli antichi soldati prevale il malcontento e fra gli ex-ufficiali al malcontento si unisce una strana presunzione per la quale essi soli si stimano capaci di guidare la nazione e salvare il mondo, senza avere naturalmente alcuna seria preparazione per il difficile carico che vorrebbero assumere. Negli uni e negli altri è radicata la convinzione che la patria ha contratto un immenso debito verso di loro e che lo deve pagare. Naturalmente questi sentimenti, questi modi di vedere si manifestano con più forza in quelli che durante la guerra cercarono con tutti i mezzi di imboscarsi e più o meno vi riuscirono perché il rammarico per le sofferenze sofferte e la cupidigia per le ricompense sono sempre proporzionate all’egoismo di colui che ha sofferto e che delle sofferenze vuole essere ricompensato, egli infatti applica sempre in questi casi a sé il motto evangelico, per il quale chi dà uno deve ricevere cento. Dopodomani vedremo cosa uscirà da questo guazzabuglio elettorale48.
Mosca si riferiva, evidentemente, alle elezioni politiche nazionali del 16 novembre 1919, nelle quali si registrò una forte avanzata dei socialisti, che ebbero 156 seggi nei confronti dei 48 precedenti, e dei popolari, che ebbero ben 100 seggi e furono la vera novità eclatante di quella consultazione. Fu sconfitto l’ancora eterogeneo e frammentato schieramento liberale, che si trovò con 235 seggi rispetto ai precedenti 380. Dal canto loro, le formazioni politiche intermedie furono quasi eliminate. Purtroppo mancano le lettere di commento di Mosca e Ferrero ai risultati elettorali, ma nel giudizio espresso in questa lettera lo studioso
Ibid., p. 122. Luigi Einaudi, Sono nuove le vie del socialismo?, originariamente apparso nel “Corriere della sera” del 29 marzo 1911, ora ibid., p. 92. 47 Ibid., p. 94. 48 Opere di Gaetano Mosca. Vol. 6. Gaetano Mosca-Guglielmo Ferrero, Carteggio (1896-1934). Tomo I, a cura di Carlo Mongardini, Giuffrè, Milano 1980, pp. 289-290. Il corsivo è mio. 45
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siciliano fornisce una spiegazione esauriente della genesi del fascismo e della sua ascesa, indissolubilmente legata alla paura del «pericolo bolscevico». Intervenendo l’anno dopo, nel luglio 1920, nel dibattito sul programma presentato dal nuovo governo, Gaetano Mosca sottolineava la gravità della crisi che stava investendo il Paese per opera di una «minoranza audace» che tentava d’usare il malcontento sociale per instaurare la «dittatura del proletariato» e invitava perciò il Presidente del Consiglio ad un’azione energica, volta a dimostrare alla maggioranza della popolazione quanto le forze di resistenza sociale fossero superiori a quelle della dissoluzione49. Come acutamente osservato da Alessandro Passerin d’Entrèves, se è vero che Mosca «fu e rimase per tutta la vita» un «conservatore nel senso migliore della parola», è altrettanto indubbio quanto avesse maturato da tempo una posizione inequivocabilmente liberale rispetto ai propri esordi da scienziato della politica e soprattutto alle tesi espresse nell’opera giovanile Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, pubblicata nel 188450. Nel primo dopoguerra, comunque, la sua posizione si configurava come liberale ma antidemocratica, anzi antidemocratica «appunto perché… liberale», secondo quanto ebbe a dire egli stesso in un’intervista del 190451. Dal confronto tra Ferrero e Mosca, così come dal carteggio fra Luigi Albertini e Francesco Ruffini, emerge quel che accomunò parte significativa del vasto ed eterogeneo fronte dell’intellettualità liberale, ossia una sostanziale difficoltà a pensare come naturale e rapidamente praticabile un compromesso operativo e virtuoso fra liberalismo e democrazia. Fu proprio il repentino passaggio dalla minaccia bolscevica a quella fascista, e il concretizzarsi di quest’ultima, a indurre ad un ripensamento complessivo la teoria politica di molti intellettuali che, fino ad allora, erano stati o liberali scarsamente democratici o democratici scarsamente liberali. D’altronde, va detto che la liberaldemocrazia di massa fu pienamente compresa e accettata da ampi strati dell’intellettualità europea soltanto durante o all’indomani del secondo conflitto mondiale e per non secondaria influenza del modello americano, anche in virtù del decisivo ruolo svolto dalla potenza statunitense nella vittoria militare sul nazifascismo. Esemplare del caso del democratico che non seppe cogliere i molti elementi di liberalismo presenti nel giolittismo – giudicato al contrario un fenomeno di degenerazione insieme politica e morale – è la figura di Gaetano Salvemini, campione dell’antigiolittismo che non intendeva essere né antidemocratico né tantomeno illiberale. Come è stato ben colto da Norberto Bobbio, Salvemini giungerà ad una precisa definizione di che cosa debba intendersi per democrazia soltanto di fronte all’avvento del fascismo, nel momento stesso in cui della democrazia, o meglio del passaggio dal liberalismo oligarchico alla democrazia liberale, si constatava la sconfitta52. Cfr. “Corriere della sera”, 14 luglio 1920, citato in Francesco Margiotta Broglio (a cura di), Diritti delle coscienze e difesa della libertà. Ruffini, Albertini e il “Corriere”, 1912-1925, Fondazione Corriere della Sera, Milano 2011, p. 433, nota 265. 50 Alessandro Passerin d’Entrèves, Gaetano Mosca e la libertà (1961), ora in Id., Potere e libertà politica in una società aperta, il Mulino, Bologna 2005, p. 152. 51 Ivi. 52 Cfr. Norberto Bobbio, Salvemini e la democrazia, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini: Firenze, 8-10 novembre 1975, a cura di Ernesto Sestan, Il Saggiatore, Milano 1977, pp. 113-138. L’antigiolittismo salveminiano non sarebbe comunque mai venuto meno, come confermato in una serie d’articoli pubblicati ne “Il Ponte” del 1952, nei quali si stabiliva una sorta d’equazione fra gio49
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L’antigiolittismo intransigente faceva scrivere a Salvemini – in una lettera indirizzata a Giacinto Panunzio datata 22 ottobre 1920, nella quale azzardava previsioni circa le possibili conseguenze dell’imminente congresso del PSI, che si sarebbe poi effettivamente tenuto nel gennaio successivo: «Se prevalgono i comunisti, e Turati si ritira a vita privata, noi dovremo ritirarci a casa e lasciare che le masse vadano al comunismo. La porca borghesia dei nostri paesi non merita che lavoriamo a salvarla»53. D’altro canto, la scarsa fiducia nei socialisti riformisti rendeva Salvemini insensibile a qualsiasi soluzione che implicasse una coalizione tra giolittiani e socialisti in funzione antifascista. Opzione, quella d’una collaborazione tra giolittiani e turatiani, su cui insistette, come parlamentare e uomo di partito, l’azione di Giovanni Amendola, il quale, da un antigiolittismo di gioventù, risultò nel primo dopoguerra uno dei pochi ad aver compreso come la strada verso una compiuta liberaldemocrazia passasse anche attraverso il riformismo dell’anziano statista piemontese54. Il fallimento di quest’ultimo non ne cancellava i meriti, ma soprattutto non doveva indurre a ripudiare le istituzioni parlamentari soltanto perché inceppate da un contesto materiale e psicologico in preoccupante ebollizione55.
littismo e fascismo: cfr. Luigi Compagna, Italia 1915… cit., p. 77. Sulla figura di Salvemini, si veda inoltre il recente lavoro di Andrea Frangioni, anche se per lo più dedicato ai temi della politica estera, Salvemini e la Grande Guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica della nazionalità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 53 Gaetano Salvemini, Carteggio 1914-1920, a cura di Enzo Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 554. 54 «Amendola aveva capito, dopo qualche esitazione e al contrario del vecchio ceto dirigente, che lo Stato nazionale e liberale, di origine risorgimentale, aveva bisogno, per sopravvivere, di uscire da una concezione oligarchica del liberalismo e di aprirsi agli interessi dei ceti sociali emergenti, diventando davvero la casa comune, garante dei diritti di tutti i cittadini, e “supremo moderatore delle forze sociali”», come asserisce Paolo Bonetti, La democrazia liberale di Giovanni Amendola, cit., pp. 46-47. 55 Cfr. Giovanni Amendola, Una battaglia liberale. Discorsi politici (1919-1923), Piero Gobetti Editore, Torino 1924. Si veda, in particolare, il discorso tenuto alla Camera all’indomani delle elezioni del maggio 1921: «L’on. Giolitti ha tentato un notevole esperimento politico nella vita nazionale. […] Quando l’on. Giolitti giunse al Governo, l’estrema socialista si faceva interprete della reazione violenta contro la guerra che partiva da alcuni strati profondi dell’anima popolare, la quale chiedeva provvedimenti che, comunque, apparissero sanzioni contro i profitti di guerra, contro la ricchezza che si credeva nata esclusivamente dalla guerra; sanzioni, vorrei dire, contro l’ingiustizia sociale connessa alla guerra. L’on. Giolitti andò incontro a questa domanda dell’anima socialista con la mira di dominare e di disarmare la reazione popolare; e presentò alcune leggi di carattere finanziario. Ebbene, onorevoli colleghi, l’on. Giolitti credeva, in tal modo, di giungere a disintossicare l’anima del Paese, a riacquistare il dominio morale della situazione italiana; e di potere, perciò, tranquillamente pagare il caro prezzo che queste leggi rappresentavano per l’economia e la finanza del nostro Paese. Che cosa accadde invece? Accadde che quelle leggi non disintossicarono affatto l’animo del nostro popolo dal veleno della reazione postbellica: infatti, appena chiusa la Camera che le aveva approvate, noi vedemmo profilarsi il più grandioso tentativo rivoluzionario che si fosse mai tentato da parte comunista in Italia – e cioè quello connesso all’ostruzionismo metallurgico ed all’occupazione delle fabbriche: i quali fatti ci avvertirono che le leggi finanziarie non soltanto non avevano raggiunto il loro fine, ma avevano lasciato in piena rivolta l’anima popolare donde partiva l’appello ad una risposta rivoluzionaria alla guerra»: Dopo le elezioni del ’21. Per la “risoluzione” e contro la “rivoluzione”, ibid., pp. 137-138.
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Il problema, secondo Amendola, era che lo spirito pubblico dell’Italia postbellica faticava a smobilitare, dopo essersi con altrettanta difficoltà mobilitato per una guerra affrontata con coraggio e dignità ma in cui il Paese era entrato sostanzialmente impreparato: Vi è una corrente di scetticismo e vi è una corrente di fanatismo, le quali si avvicendano nella storia dei nostri secoli, e che, in questi anni della guerra mondiale, hanno generato tra noi, col loro strano connubio, correnti impetuose, intransigenti, intolleranti di opinione, che hanno diviso il paese, che hanno scavato solchi profondi negli animi nostri, proprio negli anni in cui l’anima nazionale aveva bisogno di unità, di serenità, di compattezza perché era portata al cimento del conflitto mondiale. Questa situazione dello spirito italiano noi abbiamo risentito durante tutto il corso della guerra – cominciando dal 1914, quando il paese fu diviso nei due campi avversi, anzi nemici, dei neutralisti e degli interventisti, fino al periodo della pace durante il quale diverse ed egualmente legittime concezioni dell’interesse italiano hanno diviso irreparabilmente, e fatto quasi nemici uomini che amavano ugualmente il proprio paese, e fino al periodo più recente del dopo guerra, quando, volta a volta, la speranza bolscevica, l’illusione messianica del comunismo e poi la reazione del fascismo hanno dominato siffattamente le energie morali del nostro paese da dividerle in fere [sic] fazioni armate le une contro le altre: le quali credono di colpire il nemico della patria, mentre non fanno altro che indebolire altre parti della patria, peggiorando le condizioni di tutto l’organismo56.
A differenza di molti intellettuali d’area liberale, Amendola compreso, il democratico-radicale Salvemini non si mostrò particolarmente allarmato dal biennio rosso, ma dopo il gennaio 1921 espresse una forte e crescente preoccupazione nei confronti dei comunisti e della furia sovversiva che a Sinistra sarebbe stata fatta esplodere una volta fallita la parentesi fascista, precaria e necessariamente provvisoria, come ancora per molti anni egli pensò – e sperò – finisse per essere. Scriveva a Bernard Berenson, il 4 novembre 1922, dunque a pochi giorni dalla marcia su Roma e dall’incarico governativo conferito dal re a Benito Mussolini: Quanti fatti nuovi e dolorosi, cari amici! B.B. ricorderà che nel febbraio del 1919 io gli dicevo a Parigi che in Italia pericolo di rivoluzione bolscevica non ce n’era. E questo pericolo non c’è mai stato: perché non era bolscevismo la inquietudine prodotta dalla guerra e dalla cattiva pace. Ma oggi il pericolo del bolscevismo di sinistra, come controspinta al bolscevismo di destra, mi pare spaventoso. Oggi siamo nella luna di miele. Che cosa sarà in primavera? Quando Mussolini sarà discreditato dalla mancanza del miracolo promesso, e sarà travolto dal Super-Mussolini di Gardone [cioè D’Annunzio], e l’Italia si troverà di fronte alla mancanza di grano e di carbone, che cosa avverrà? Dove trovare allora una organizzazione capace di resistere al bolscevismo di sinistra?57
Dello stesso tenore, persino più allarmata, una lettera di poche settimane dopo, indirizzata ancora una volta a Giacinto Panunzio, il 22 novembre 1922: Nell’ottobre scorso abbiamo avuto in Italia “un colpo di stato militare dissimulato sotto la maschera di una pseudo-rivoluzione civile”. Il movimento fascista, dopo essere stato antisovversivo nel 1919-20,
Ibid., pp. 139-140. Gaetano Salvemini, Carteggio 1921-1926, a cura di Enzo Tagliacozzo, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 110. 56 57
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è diventato antiparlamentare nel 1921-22. E deve sfociare, in un modo o in un altro, nella soppressione del suffragio universale: la lotta contro la proporzionale è il primo passo: la prima Camera del nuovo regime dovrà sopprimere il suffragio universale. […] In tutti i modi, la crisi di politica estera porterà allo sfacelo del fascismo, ad una ripresa del movimento di sinistra con notte di San Bartolomeo antifascista, con uno sfacelo anarchico del paese. Queste sono le mie poco allegre previsioni.
«Che cosa dobbiamo fare noi?» si chiedeva allora Salvemini, che proseguiva il proprio ragionamento nei seguenti termini: Se ci fosse un movimento di opposizione socialista, in cui potessimo aver fede, il nostro posto sarebbe segnato. Ma questo movimento non c’è. I rivoluzionari comunisti sono rimasticatori [sic] di frasi fatte, e buoni a nulla. Il giorno in cui sentiranno venir meno il giogo fascista, riprenderanno coraggio per cianciare di rivoluzione: ma le masse contadine ed operaie, maltrattate dai fascisti, si scateneranno a far vendette sanguinose; e questo disordine di vendette sarà chiamato bolscevismo dai pappagalli serratiani; sarà chiamato bolscevismo dalla borghesia impaurita; sarà chiamato bolscevismo all’estero; provocherà quasi certamente l’intervento estero, riducendo l’Italia a quel che era la Turchia prima della guerra europea. Che cosa abbiamo a fare con questa gente noi? Nulla, nulla, nulla. Possiamo capire le vendette e sentire che non abbiamo il diritto, e non avremo la possibilità di opporci ad esse. Possiamo prevedere che esauritasi questa fase di vendette, verrà forse per noi l’ora di salvare quel che è salvabile dalla scempiaggine serratiana. Ma metterci con questa gente, no, come non possiamo metterci coi fascisti. Quanto agli unitari, io credo che chi sente lo stomaco forte abbastanza per mettersi in quella compagnia, e chi spera di trascinarli su una nuova via, faccia bene ad entrare in quel partito. Io non ho quello stomaco e non ho quella speranza. Il discorso di Turati è stato abbietto; quello di D’Aragona anche peggiore. Quella gente non domanda che di vendersi a Mussolini, come si era venduta a Giolitti. Si duole di essere stata bastonata, ma è pronta a dimenticare le bastonate, non appena Mussolini offra un po’ di lavori pubblici ai disoccupati, cioè alle cooperative. Che cosa mai sperare da quella gente là? […] Candidature? Elezioni? Non avete ancora capito che nelle prossime elezioni saranno eletti solamente i candidati accetti alle prefetture? Siete ancora così ingenui da credere alle elezioni?58
Ancora una volta, l’antigiolittismo conduceva ad una valutazione così disincantata e cinica delle istituzioni politiche vigenti da considerare l’intero sistema parlamentare come un esperimento fallimentare, almeno per come realizzato dalla classe politica liberale post-risorgimentale. Ovviamente, Salvemini sapeva distinguere la teoria dalla prassi ma nel fuoco della polemica la distinzione finiva incenerita e non si teneva conto di come una prassi autenticamente liberale e democratica sporcasse inevitabilmente la purezza della teoria59. Sempre Bobbio ha riportato l’attenzione su alcune significative pagine del Diario, vergate il 28 gennaio 1922, esattamente a tre mesi dalla marcia su Roma, nelle quali Salvemini mostrava di aver intuito il punto debole della critica che amava definirsi intransigentemente rivoluzionaria, e dunque anche ostile all’ordine parlamentare vigente:
Ibid., pp. 149-151. I corsivi sono presenti nel testo. Per una piena maturazione di questi temi si veda la raccolta – edita in italiano soltanto di recente – di testi di lezioni, conferenze, contributi ad opere collettanee che Salvemini scrisse dal 1934 al 1940 durante il suo esilio americano, docente alla Harvard University: Gaetano Salvemini, Sulla democrazia, a cura di Sergio Bucchi, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 58 59
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È moda, oggi in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la “democrazia” quanto e più che non facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici, ed anche uomini come Prezzolini, Gobetti, ecc., dimostrano per la “democrazia” è documento della incultura politica e della incapacità ad analizzare le proprie idee, che è la malattia fondamentale dei “democratici” italiani e non italiani60.
La presa di distanza da Gobetti era netta, anche se non fu resa pubblica, come non poteva esserlo nel fuoco della comune lotta antifascista. Nonostante ciò, ancora tra 1922 e 1923 la principale preoccupazione salveminiana restava legata al fatto che la caduta – a suo avviso assai probabile – del fascismo potesse provocare come controspinta un “bolscevismo” che, anche se tale nei fatti non era, avrebbe comunque nuociuto alla causa democratico-radicale. Con lo pseudo-bolscevismo dei massimalisti si sarebbe tutt’al più trattato di un’insurrezione dal sapore anarchico, ma soprattutto d’una sommossa innescata da sentimenti d’odio e vendetta per i soprusi subìti nelle campagne e nelle città ad opera dello squadrismo fascista. Eppure questa sollevazione sarebbe stata salutata come una sorta di rivoluzione di stampo bolscevico dai leader massimalisti, secondo quella stessa linea di verbalismo rivoluzionario adottata all’epoca degli scioperi e dei tumulti più o meno spontanei sorti per il caro-viveri nell’estate del 191961. L’antigiolittismo fu appannaggio anche del gruppo dei liberal-conservatori gravitanti attorno al “Corriere della sera”. Lo si evince bene dal carteggio tra Luigi Albertini, senatore del Regno e storico direttore del quotidiano milanese, e Francesco Ruffini, insigne giurista e uno dei padri del diritto ecclesiastico italiano. Il 21 aprile 1921, ad esempio, Ruffini rivendicava a sé il ruolo di «solo uomo politico piemontese che non abbia mai parlato a Giolitti (non escluso Einaudi) e che si propone di portare almeno questa verginità nella tomba»62. In una lettera di quasi un anno prima, sempre indirizzata al direttore del “Corriere della sera”, stroncava le preoccupazioni antibolsceviche di Mosca bollandole come fobie dettate «dalla sua tremarella catastrofica»63, mostrando così quanto diviso fosse anche il fronte intellettuale d’area liberale, e non soltanto quello politico-partitico.
60 Gaetano Salvemini, Memorie e soliloqui (18 novembre 1922-24 settembre 1923), in Id., Scritti sul fascismo, Feltrinelli, Milano 1966, pp. 101-102. 61 Cfr. Roberto Bianchi, Bocci-bocci. I tumulti annonari nella Toscana del 1919, Olschki, Firenze 2001. Per un giudizio a posteriori di Salvemini sul “bolscevismo italiano”, cfr. Gaetano Salvemini, Le origini del fascismo in Italia. Lezioni di Harvard, a cura di Roberto Vivarelli, Feltrinelli, Milano 2015 (1961), cap. XVI, in cui la minaccia viene ulteriormente minimizzata: «Se si controllano i riflessi psicologici della crisi post-bellica con gli indici oggettivi della vita economica e sociale, ciascun ricercatore spregiudicato dovrà pervenire alla conclusione che il cosiddetto “bolscevismo” italiano del 1919-20 non era niente di peggio di un insorgere di agitazione incomposta in larghi settori del popolo italiano, alla quale i peggiori elementi della classe dirigente risposero dando prova di una vigliaccheria e di uno stato di scoraggiamento del tutto sproporzionato alla reale entità del pericolo» (ibid., p. 270). Per un più generale esame, pur sintetico, del rapporto salveminiano con comunismo e marxismo, cfr. Sergio Bucchi, Salvemini e il comunismo, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 301-312. 62 Francesco Margiotta Broglio (a cura di), Diritti delle coscienze e difesa della libertà… cit., p. 324. 63 Ibid., p. 313.
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Eppure lo stesso Ruffini aveva ben chiaro, come testimonia la sua prolusione del 1919 presso l’Università di Torino, quanto la guerra avesse «con un brusco colpo di spada invertiti i poli della orientazione politica», tanto da indurre i popoli a rivolgersi speranzosi verso l’Oriente della rivoluzione bolscevica, «promettitrice delle più fantastiche conquiste», mentre in precedenza avevano guardato alle «storiche e gloriose democrazie liberali dell’Occidente» come modelli da imitare64. Dal canto suo Albertini, l’esponente forse più autorevole della borghesia liberale che era stata interventista, dato anche il ruolo pubblico di cui era investito per via della direzione del “Corriere della sera”, aveva sperato nei primi mesi postbellici che l’Italia potesse mettere pienamente a frutto la vittoria conseguita. Il suo antigiolittismo d’anteguerra si era radicalizzato, se possibile, a causa della scelta neutralista del vecchio statista piemontese. L’antiparlamentarismo, sia pure da posizioni liberali, restava nelle sue corde, così come l’avversione, condivisa da Einaudi, per una borghesia ministeriale e parassitaria, burocratica e improduttiva, che vedeva risorgere nel dopoguerra. Inoltre, come ricorda il suo maggiore biografo, «nei primi del dopoguerra l’antisocialismo […] torna a costituire un Leitmotiv del “Corriere della sera”», e «di fronte alle agitazioni sociali dei primi mesi del 1919 ritornano, nelle sue discussioni negli editoriali del “Corriere”, i “noi” e i “loro” che in seguito […] finiranno col riassumere le antiche posizioni di difensori e oppositori dello stato costituzionale del 1861»65. I nuovi aspiranti distruttori della faticosa costruzione statual-nazionale diventavano così per Albertini i socialisti definitivamente spintisi su posizioni ultra-massimaliste, filo-bolsceviche. Ma non solo, perché la spedizione dannunziana a Fiume avvertiva d’un pericolo proveniente anche da Destra. Scriveva infatti in un articolo del 22 settembre 1919, che il Paese «corre[va] pericoli mortali se v[eniva] consentito di moderare il rispetto delle sue istituzioni con criterio contingente, a seconda che le violino degli ortodossi per fini nazionalistici o degli eterodossi per fini di dittatura proletaria»66. Ancora il 22 luglio 1920 Albertini mostrava, almeno pubblicamente, di non nutrire timori eccessivi dal “lato sinistro”: «Non hanno l’anima eroica, no, questi rivoluzionari che non vogliono la rivoluzione, che oggi spingono ad essa il popolo e domani lo trattengono, oggi vogliono spegnere la borghesia e domani urlano perché la borghesia non li difende abbastanza nelle loro imprese»67. Ma a spostare l’ago della bilancia sulla minaccia “bolscevizzante” in quanto la più concreta fu, anche nel caso di Albertini, l’occupazione delle fabbriche nel settembre di quello stesso anno. E il 10 del mese scriveva: «la sensazione che si sia arrivati all’estremo limite è ormai generale. Ma l’ha il governo? Se l’ha, non sciupi
Francesco Ruffini, Guerra e riforme costituzionali. Suffragio universale, principio maggioritario, elezione proporzionale, rappresentanza organica (1920), ora in Id., Guerra e dopoguerra. Ordine internazionale e politica delle nazionalità, a cura di Andrea Frangioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006 (stampa 2007), p. 171. 65 Ottavio Barié, Luigi Albertini, UTET, Torino 1972, pp. 394 e 396. 66 Luigi Albertini, La libertà di Fiume e la libertà d’Italia, “Corriere della sera”, 22 settembre 1919, citato ibid., p. 404. 67 Ibid., p. 409. Sul «doppio fronte (non il doppio gioco!)» della posizione politica propria di Albertini sin dal suo esordio giornalistico, insiste Paolo Alatri, Luigi Albertini, “Belfagor”, n. 1 1953, ora in Id., Le origini del fascismo, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 345-374. 64
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altro tempo: intervenga, dica agli industriali quel che devono fare, si assuma direttamente la responsabilità o della resistenza o della resa»68. La scelta giolittiana di non intervento riaccese l’antigiolittismo albertiniano e pose all’attenzione, non solo sua, l’alternativa secca tra conservazione borghese e rivoluzione proletaria: La guerra mondiale ha molto affievolito le forze di resistenza della borghesia e accresciuto quelle del proletariato, più, naturalmente, nei paesi vinti che in quelli vincitori e più nei paesi poveri che in quelli alleati tanto di noi più forti. Di qui uno smarrimento della classe dirigente che può essere fatale se non ci assistono le supreme risorse della misura e del buon senso e le nostre virtù di adattamento69.
Da allora in poi, il direttore del “Corriere della sera” avrebbe cominciato a cercare alternative alla vecchia classe dirigente, sempre con l’obiettivo di preservare il patrimonio politico-istituzionale e culturale dello Stato nato dal Risorgimento. In altri termini, Albertini leggeva la crisi del liberalismo italiano come incapacità di leadership e corruzione d’un sistema di governo che aveva il suo perno in Giolitti, che, dopo il discorso programmatico di Dronero dell’ottobre 1919, in cui aveva proposto una patrimoniale progressiva e la nominatività dei titoli, era ormai bollato dalla Destra, liberale o nazionalista che fosse, come «il bolscevico dell’Annunziata», essendo stato insignito dell’omonimo collare, massima onorificenza di Casa Savoia70. Da parte di liberali come Albertini si sarebbe colto a pieno come il quinto governo dello statista piemontese intendesse colpire gli interessi di quella grande industria che nel 1915 gli aveva voltato le spalle e, arricchitasi nel periodo bellico, non intendeva tornare allo status quo ante, sottraendosi ad inchieste sulle spese di guerra od osteggiando provvedimenti come l’abolizione della nominatività dei titoli di Stato, tutte proposte avanzate da Giolitti al momento del suo ritorno al governo nel 1920. Secondo alcune recenti letture storiografiche, le “aperture a sinistra” del quinto governo giolittiano avrebbero dunque preoccupato ambienti come quelli del “Corriere della Sera” ben più di un “pericolo bolscevico” già in via di esaurimento. Ma, con ciò, si condannò al fallimento l’ultimo, estremo tentativo di portare a compimento la parlamentarizzazione del regime monarchico-liberale, tentativo peraltro effettuato nel momento di sua massima debolezza71.
Ottavio Barié, Luigi Albertini, cit., p. 411. Ibid., p. 412. 70 Cfr. Luigi Ambrosini, Il bolscevico dell’Annunziata, “La Stampa”, 6 luglio 1919. A detta di Arrigo Cajumi, Ambrosini era all’epoca l’unico vero giolittiano a “La Stampa”, oltre al proprietario e direttore Alfredo Frassati. Si veda Luigi Ambrosini, Cronache del Risorgimento. Con appendice di nuovi scritti, Prefazione di Giovanni Spadolini, Boni, Bologna 1972, pp. 385-398; ed inoltre Luciana Frassati, Un uomo, un giornale. Alfredo Frassati. Vol. III. Parte Prima, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1982, pp. 853-856. 71 Si veda la tesi di dottorato di Duccio Chiapello, L’autunno di Giovanni Giolitti (1918-1928), Dottorato in “Teoria e storia delle costituzioni moderne e contemporanee” (XXVI ciclo), coordinatrice Isabella Rosoni, tutor Roberto Martucci, Università degli Studi di Macerata, a.a. 2014, cap. I, in particolare pp. 211-225, là dove si esaminano nel dettaglio le crescenti ed infine insanabili tensioni fra governo Giolitti e mondo industriale, causa d’ulteriore alienazione di consensi per lo statista piemontese e per la sua linea politica da parte di settori importanti dell’opinione pubblica liberale. Il lavoro di Chiapello aveva già preso forma di pubblicazione in un volume più sintetico dal titolo Il ritorno del “vero Re”. L’ultima rentrée di Giovanni Giolitti, Aracne, Roma 2012. 68 69
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Certi giudizi direttamente espressi sul “pericolo bolscevico” confermano però un’autentica preoccupazione per possibili esiti politici “come in Russia”. La minaccia incombente sullo Stato liberale orientò Albertini, in questa sua ricerca di ripristino dell’autorità statale e stabilità governativa, inizialmente a Sinistra, verso una soluzione che vedesse coinvolti Turati e i socialisti riformisti, e successivamente a Destra, verso il fascismo, in corrispondenza del mutamento tattico-strategico operato tra autunno 1920 e primavera 1921 dal movimento mussoliniano: da forza sovversiva a baluardo della conservazione72. Tanto da scrivere nell’editoriale dell’8 aprile 1921 che il fascismo rappresentava «l’espressione più esasperata della coscienza nazionale risorta […], l’ala estrema di un grande partito nazionale che ha voluto il sacrificio della guerra per il bene dell’Italia e non vuole che l’Italia perisca soffocata da una stolida e, presso le genti più civili, ormai superata utopia»73. Dalla comparazione dei giudizi espressi nei confronti tanto della minaccia bolscevica quanto di quella fascista, si comprende come per molti assertori dell’idea liberale, spesso anche suoi strenui difensori in chiave antifascista, il giolittismo non fosse nemmeno lontanamente assimilabile ad una forma teorica e pratica di liberalismo. Al più, ne rappresentava la perversione. Tale giudizio, largamente diffuso, finì per creare convergenze di fatto anche là dove le distanze e le divergenze erano abissali. Sotto il mantello dell’antigiolittismo si ritrovarono e si confusero posizioni ideologiche le più diverse, e l’esito fu l’erosione pressoché totale di consenso nei confronti del parlamentarismo, giudicato alla stregua d’una patologia morale nonché politica74. Un altro dato che sfuggì ad una parte significativa della cultura variamente liberale, come a quella di orientamento democratico-radicale, fu che gli anni Dieci avevano segnalato come in atto fosse un tipo di transizione ben diversa da quella che dall’ottobre 1917 ci si illuse poi potesse – o addirittura dovesse – essere. Interessante a tal proposito quanto constatava, sia pur avvantaggiato dal senno del poi, un allievo di Salvemini. Nel 1930 Carlo Rosselli addebitava agli intransigenti del PSI di non essersi resi conto che nell’Italia antecedente al 1914 «il problema non consisteva nell’avviamento al socialismo, ma nell’avviamento al capitalismo e alla vita moderna»75. Ma dopo l’ottobre 1917 questa errata comprensione non poté che rafforzarsi e addirittura tramutarsi nella persuasione assoluta
Cfr. Ottavio Barié, Luigi Albertini, cit., pp. 419 sg. Luigi Albertini, L’appello al Paese, “Corriere della sera”, 8 aprile 1921, ora in Corriere della sera 1919-1943, antologia a cura di Piero Melograni, Cappelli, Bologna 1965, p. 65. 74 Oltre ad Amendola, tra le pochissime eccezioni ci fu Filippo Burzio (1891-1948), liberale antifascista ed intimo amico di Gobetti, ma anche giolittiano convinto, che nel 1921 pubblicò un saggio in lode di Giolitti e della sua politica pragmatica e realistica, senza essere per questo immorale né tanto meno corruttrice: «La politica non è pedagogia, né apostolato, non implica fede in tutto quel che si dice, né in tutto quel che si fa. Fra Rabagas e Mazzini c’è posto per un altro tipo umano. […] Il valore, direi culturale, di Giolitti in questo campo è stato soprattutto negativo: è stato cioè di aver funzionato da reagente dello spirito italiano, precipitando in una opposizione concreta contro la sua forma mentis molti imponderabili sentimentali in cui si concretano le tare nazionali»: Filippo Burzio, Giolitti, “La Ronda”, n. 8-9, agosto-settembre 1921, ripubblicato in Id., Dalla liberazione alla Costituente, Edizioni Palatine, Torino-Parma 1946, p. 187. L’impostazione elitista – o “demiurgica” – di fondo non impedì al liberalismo burziano d’apprezzare sin da subito le virtù liberali del giolittismo e di muoversi in direzione schiettamente liberal-democratica. Cfr. Norberto Bobbio, Democrazia ed “élites”, cit., in particolare pp. 234-241. Cfr. anche Paolo Bagnoli, Le idee di Filippo Burzio, Sansoni, Firenze 1982. 75 Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1973, pp. 380-381. 72 73
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che si fosse entrati nell’era dell’Avvento, del farsi carne del verbo rivoluzionario tante volte evocato e annunciato a parole. Una persuasione che si diffuse sia tra coloro che si erano posti da tempo in stato di attesa e speranza, sia tra coloro i quali avevano in passato ritenuto alquanto improbabile potesse mai giungere un simile momento di palingenesi sociale e politica. Oppure lo avevano rimosso, temendolo fortemente. All’interno dell’esigua schiera degli intellettuali liberali filo-giolittiani Luigi Salvatorelli spicca come colui che con maggiore acutezza seppe analizzare e comprendere per tempo molti aspetti del nascente movimento fascista. Colse già nei primi mesi del 1920 il velleitarismo del socialismo italiano sovraeccitato dagli eventi dell’Ottobre bolscevico, tanto da parlare d’un «nullismo massimalista» che «reclama il potere ed invoca la rivoluzione; ma teme, in realtà, l’uno e l’altra, e si guarda, quindi, dal compiere una qualunque azione positiva per raggiungere l’effettuazione del suo programma ufficiale»76. Anche per Salvatorelli, che era stato neutralista nel 1915, giungevano al pettine nodi irrisolti formatisi alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale. Le classi dirigenti liberali avevano fallito nell’educazione politico-culturale della piccola borghesia umanistica, che, per il tipo di istruzione classica ricevuta, era tradizionalmente gonfia di retorica e, in quanto tale, era divenuta nel primo decennio del nuovo secolo la facile preda della propaganda nazionalista. L’instabilità del primo dopoguerra era da addebitarsi quasi più a cause interne che esterne, e il massimalismo comunista, «il feticcio bolscevico», risultava come il «legittimo figlio» di quell’ideologia – Salvatorelli la chiama «mentalità» – che era sorta in Italia con lo scoppio della guerra nell’estate del 1914: l’«intesismo italiano», che aveva prodotto «la tedescofobia cieca, le radiose giornate, il guerrafondaismo [sic], e, in parte, il fascismo stesso»77. Scriveva infatti il liberale giolittiano, quasi a cogliere nella deriva antigiolittiana della classe dirigente la responsabilità maggiore: Bombacci e Gennari non sono se non gli eredi spirituali di coloro che, per spingere l’Italia nel conflitto e per mantenercela, annunciarono alle turbe la guerra a fondo e la distruzione della Germania come la via per giungere infallantemente al regno di Dio. Qual meraviglia che le turbe, percorsa quella via sino in fondo, e di regno di Dio non scorgendo traccia, sognino ora di arrivarci attraverso una qualunque imitazione italica della Russia di Lenin? Dato pure che Lenin, in Russia, non abbia compiuto se non distruzioni, esse non agguaglieranno mai quelle che si vedranno in Italia se continuerà per molto tempo ancora questo urto di forze cieche, che, movendo da opposte parti, percuotono, a colpi alterni, le fondamenta dello Stato e della stessa società civile78.
A soccombere, infine, per il contagio di questa «malattia della violenza politica» sarebbero state le stesse istituzioni liberali, che si pensava di salvare favorendo la reazione fascista in funzione antisocialista79. La posizione di Salvatorelli, favorevole da tempo ad una convergenza tra forze liberali e forze democratiche, nonché ad un’apertura verso i ceti
Luigi Salvatorelli, Nullismo massimalista, “La Stampa”, 10 marzo 1920, ora in Id., Nazionalfascismo (1923), Prefazione di Giorgio Amendola, Einaudi, Torino 1977, p. 29. 77 Luigi Salvatorelli, Radiosomaggismo, “Il Resto del Carlino”, 18 ottobre 1920, ibid., p. 28. 78 Ivi. 79 Luigi Salvatorelli, Antiliberalismo, “La Stampa”, 8 luglio 1921, ibid., p. 68. 76
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popolari per favorirne l’inclusione e così dare nuova linfa all’intera classe politica, rimase minoritaria sul fronte intellettuale – e politico – liberale80. Per comprendere a pieno l’atteggiamento di gran parte degli intellettuali fin qui presi in esame nei confronti della rivoluzione russa, e soprattutto di ciò che ne apparve come l’immediata conseguenza politica in Italia, se non la sua vera e propria traduzione nostrana, è efficace sintesi quanto ebbe a scrivere Antonio de Viti de Marco nel luglio 1929, nella nota Al lettore di un’antologia che ripubblicava molti suoi scritti usciti nel trentennio precedente. Vi è un passaggio che merita d’essere riportato nella sua interezza, dal momento che conferma la seguente tesi: da parte liberale l’iniziale sostegno, più o meno diretto, più o meno entusiasta, al fascismo fu direttamente proporzionale al grado di paura suscitato dalla minaccia bolscevica e dalla sua possibile importazione in Italia. Dopo la guerra, che fu per l’Italia uno sforzo gigantesco, del tutto sproporzionato al consolidamento politico del giovane Stato e alla consistenza economica del paese, attraversammo un periodo pauroso di completa anarchia, come se il nostro fosse stato un paese vinto. L’impero della legge era passato dal potere dello Stato all’arbitrio dei singoli gruppi, anzi all’istinto distruttore dei bassifondi e dei violenti di ogni singolo gruppo. I funzionari pubblici erano contro lo Stato che li pagava; i ferrovieri si consideravano quali padroni a titolo privato delle ferrovie che non sapevano esercitare; i postelegrafonici agivano come padroni delle poste e dei telegrafi arrestandone il funzionamento; il deficit dei servizi pubblici e nelle private era[no] diventat[i] uno sport politico e un metodo di intimidazione del pubblico, e, poiché si componevano regolarmente a condizione che fossero pagate le giornate non lavorate, crescevano all’infinito; i senzatetto occupavano le case dei privati; lo svaligiamento dei negozi veniva compiuto impunemente sotto gli occhi della polizia e, molti dicevano, organizzato dalla stessa polizia; e gli operai industriali invasero le fabbriche che non sapevano gestire; le leghe dei lavoratori agricoli invasero le terre che non potevano ripartirsi. Contro il caos sorse il fascismo, organizzazione privata di resistenza, segno non dubbio di vitalità del paese. Con lo squadrismo si ebbero fenomeni tipici di guerra civile. Il partito vincitore ristabilì l’ordine pubblico e sostituì lo Stato, praticamente scomparso; e poi lo plasmò poco a poco a sua immagine: Stato antiliberale e antidemocratico; l’individuo è soppresso di fronte alla volontà assoluta dello Stato, cioè del gruppo governante. Sono due momenti distinti: nel primo il fascismo affronta il socialismo degenerato in bolscevismo; nel secondo è contro coloro che pongono le libertà dell’individuo a base dello Stato. Noi avemmo in comune col fascismo un punto di partenza: la critica e la lotta contro il vecchio regime. La nostra critica, però, intesa a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rappresentativo, aveva pur sempre di mira la difesa e il consolidamento dello Stato liberale e democratico. Così il nostro gruppo fu travolto81. 80 Cfr. Marco Scavino, Dal neutralismo alla democrazia liberale. Politica e storia in Luigi Salvatorelli di fronte alla prima guerra mondiale, “Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa”, XXIX 2014, pp. 150-159; nonché Gian Biagio Furiozzi, Liberalismo moderato e liberalismo radicale in Luigi Salvatorelli, “Rassegna storica del Risorgimento”, XCIII, fasc. 1, gennaio-marzo 2006, pp. 66-70. 81 Antonio de Viti de Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), a cura di Antonio Maria Fusco, Giannini Editore, Napoli 1994, pp. L-LI (il corsivo è mio). Sulla figura e l’opera di de Viti de Marco, si veda Antonio Cardini, Antonio De Viti De Marco. La democrazia incompiuta (1858-1943), Laterza, Roma-Bari 1985. Cfr. anche Flavio Felice, Il liberalismo radicale dei primi del Novecento in Italia: Maffeo Pantaleoni e Antonio de Viti de Marco, in Storia del liberalismo in Europa, a cura di Philippe Nemo e Jean Petitot, Rubbettino, Soveria Mannelli 2013, pp. 553-581.
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La scelta massimalista e filobolscevica del PSI di Giacinto Menotti Serrati e Nicola Bombacci al grido di «fare come in Russia»82, non favorì altro che una radicalizzazione della pregiudiziale antisocialista di molti liberali. Ad essere travolto non fu però il solo gruppo dei cosiddetti liberisti83, ma l’intera tradizione politica e culturale del liberalismo italiano che, stretta nella morsa fatale dell’alternativa secca tra comunismo e fascismo, rimase intrappolata se non strangolata a morte. Si sarebbe riaffacciata nel secondo dopoguerra, ma oramai stremata e senza fiato. Nonostante le residue speranze espresse da un altro liberale antigiolittiano come Guido De Ruggiero sulle possibilità di liberalizzazione del socialismo italiano e, di conseguenza, sulla possibilità di salvezza del sistema84, la paura del bolscevismo favorì una soluzione autoritaria che, ipotizzata come parziale e temporanea, si sarebbe rivelata totale e duratura. In definitiva, tra il 1917 e il 1925 si consumò la fine delle fortune del liberalismo in Italia. «Per poter sormontare vittoriosamente la crisi sociale e politica del dopoguerra, il Partito socialista avrebbe dovuto giungere il più presto possibile al potere. […] Ma soprattutto questi rivoluzionari dicono di voler “fare come in Russia” e ciò si riduce al ripetere, come allucinati, le formule che il successo dei bolscevichi ha messo in circolazione. Invece di partire dai problemi della rivoluzione italiana per cercare di “scoprire” le parole d’ordine che le corrispondono, essi partono da formule già fatte e male assimilate per arrivare alla rivoluzione, e così non metton capo a nulla. […] Nell’Italia del 1919 la classe operaia resta senza programma e senza capi»: Angelo Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L’Italia dal 1918 al 1922. Vol. I, Premessa di Renzo De Felice, Laterza, Bari 1972, pp. 2425; i corsivi sono presenti nel testo. 83 Difficile risulta poter inserire il pensiero maturato da Vilfredo Pareto negli anni tra guerra e dopoguerra all’interno di un pur vario, e per alcuni tratti acerbo, liberalismo italiano. Lo conferma, a mio avviso, proprio un articolo in cui l’economista e sociologo delle élites affronta il fenomeno del bolscevismo. Cfr. Vilfredo Pareto, Il fenomeno del bolscevismo, “Il Tempo”, 14 aprile 1919, ora in Id., Scritti sociologici minori, a cura di Giovanni Busino, UTET, Torino 1980, pp. 791-804. Basti dire che per Pareto «il bolscevismo si avvicina alla realtà, quando respinge il mito della maggioranza e quello che vieta l’uso della forza per governare» (ibid., p. 802), a conferma d’un realismo politico spinto fino al limite estremo dell’antiliberalismo e dell’antidemocrazia, posizioni per le quali il sostegno al fascismo non avrà nemmeno bisogno della paura d’una minaccia bolscevica in versione italiana. Pareto associava, inoltre, l’universalismo bolscevico e quello wilsoniano che avrebbe inteso sfociare nella Società delle Nazioni. Universalismo avversato e condannato da Pareto, beninteso. Ancora nel 1921, egli vedeva nelle violenze operaie compiute durante l’occupazione delle fabbriche nel settembre dell’anno precedente, l’eterna vicenda dell’alternarsi di élites al potere: «contrasto tra il potere che sorge e quello che tramonta»: Vilfredo Pareto, Appendice, in Id., La trasformazione della democrazia, a cura di Mario Missiroli, Cappelli, Bologna 1966, p. 140. L’allarme per il fenomeno lo spingeva a chiedere una reazione borghese per ripristinare l’ordine perduto. Diverso discorso andrebbe probabilmente fatto per il Pareto degli anni Ottanta dell’Ottocento, secondo quanto sosteneva già a suo tempo Roberto Vivarelli nel celebre saggio Liberismo, protezionismo, fascismo. Per la storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini del fascismo, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, il Mulino, Bologna 1981, pp. 189-193. Sul rapporto con l’ideologia socialista e il «disincanto nei confronti dell’ideologia vincente negli anni della sua formazione e comunque egemone fra le forze sociali innovatrici del secolo XIX: il liberalismo», si veda il saggio di Pier Paolo Portinaro, Pareto e il canone della critica al socialismo, ne La forza dei bisogni e le ragioni della libertà… cit., pp. 227-243 (citazione a p. 230). 84 Cfr. Guido De Ruggiero, Storia del liberalismo europeo (1925), prefazione di Rosario Romeo, Laterza, Roma-Bari 1995. Preparato tra il 1921 e il 1924, questo classico della storia del pensiero politico liberale fu pubblicato nel 1925 e ristampato integralmente nel 1941 e nel 1943. Sull’antigiolittismo di De Ruggiero, accenni illuminanti nella suindicata prefazione di Rosario Romeo. 82
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La Sinistra non marxista e la Rivoluzione russa: anarchici e repubblicani
Le due principali, storiche componenti della Sinistra italiana non marxista, anarchici e repubblicani, condividono l’entusiasmo per la rivoluzione di Febbraio che ha rovesciato l’aborrita autocrazia zarista; accolgono con reazioni opposte la notizia della conquista bolscevica del potere, che per i primi segna l’avvio della fase “sociale” della rivoluzione, mentre per i secondi prelude alla pace separata della Russia con gli Imperi centrali; avviano una riflessione critica sull’esperienza del comunismo sovietico che proseguirà nei decenni successivi e che, soprattutto nel caso del movimento anarchico, ne influenzerà gli sviluppi politici. Se vi è una peculiarità nell’atteggiamento degli anarchici italiani di fronte alla rivoluzione russa, essa va fuor di dubbio ricercata nella straordinaria precocità con la quale, in virtù della loro spiccata sensibilità libertaria, percepirono e denunciarono senza esitazioni i pericoli d’involuzione autoritaria cui va soggetta una rivoluzione che si faccia Stato. Infatti se da un lato gli anarchici condivisero, al pari delle altre componenti del movimento operaio italiano ed europeo, lo spontaneo moto d’entusiasmo per l’evento grandioso prodottosi, in piena tormenta di guerra, nel Paese di Bakunin e Kropotkin, prima con il rovesciamento dell’autocrazia zarista e quindi con la conquista del potere da parte delle frazioni estreme del proletariato rivoluzionario, dall’altro prima e più di ogni altro manifestarono aperte riserve sull’indirizzo accentratore impresso dai bolscevichi alla rivoluzione e sulla loro gestione manifestamente autoritaria del potere. Eppure la notizia dello scoppio della rivoluzione di Febbraio aveva ingenerato tra i libertari italiani una corrente d’interesse e d’entusiasmo tale da spezzare le rigide catene dell’opprimente censura di guerra, per esprimersi in giornali improvvisati quale per l’appunto il numero unico “Eppur si muove!” che, a cura d’un non meglio specificato circolo operaio, appare a Torino nell’aprile 1917 con ambedue le pagine dell’unico foglio di cui si compone occupate dall’articolo senza firma – ma con certezza attribuibile a Luigi Fabbri – La Rivoluzione in Russia. «Finalmente», si leggeva in esso, un fascio di luce viva e sfolgorante ha rotto all’improvviso la fitta e buia nebbia di dolore e di sangue, di menzogna e di morte, che da ormai tre anni avvolge e uccide l’umanità. È la luce d’un sublime incendio, che fa tremare sui troni tutti i potenti e infonde il desiderio della rivolta in tutti gli oppressi; un fuoco di purificazione e di liberazione, che illumina le menti assetate di verità e riscalda i cuori anelanti giustizia. È la rivoluzione! La rivoluzione è scoppiata e ha trionfato in Russia. Ecco la
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grande notizia, che ci ha inebriati di gioia e ha rianimate tutte le nostre speranze. Esultiamo, o amici, o compagni, o lavoratori. […] La rivoluzione ha rovesciato il colosso dello zarismo. Più di cento milioni di uomini hanno infranto le catene di un’obbrobriosa tirannide; le prigioni sono state aperte, la Siberia ha restituito le sue vittime […]1.
L’immediato e spontaneo moto d’entusiasmo e la trepidante attesa per gli ulteriori sviluppi, le speranze e i timori che agitano i militanti anarchici nei giorni e nelle settimane immediatamente successivi all’arrivo delle prime, incomplete, confuse e talvolta contraddittorie notizie relative agli avvenimenti di Russia, oltre che nel numero unico che ospita l’articolo di Fabbri, trovano modo di esprimersi nelle pochissime pubblicazioni periodiche anarchiche superstiti, come “L’Avvenire Anarchico” di Pisa, che ospita un articolo di Virgilio Mazzoni dal suggestivo titolo Aurore boreali nel cielo di Russia. In esso l’immagine della rivoluzione russa a guisa di astro che sorge ad oriente a fugare le tenebre dell’oppressione, o della sollevazione rivoluzionaria simile a lampo che squarcia il manto plumbeo della guerra, preannuncia un elemento comune, un tema che ricorrerà costante in tutti i giornali anarchici che riporteranno notizie e commenti relativi alla sollevazione di Febbraio2. Non sono soltanto i non molti organi di stampa anarchici che si pubblicano in Italia nel corso della prima metà del 1917 a far registrare una sostanziale omogeneità di vedute nelle analisi e nelle valutazioni della situazione russa. Ampi elementi di convergenza è dato verificare anche in due tra i maggiori giornali anarchici in lingua italiana che si pubblicano all’estero al momento del prodursi della rivoluzione di Febbraio: “Cronaca Sovversiva”, diretto da Luigi Galleani, che si stampa a Lynn nel Massachusetts e “Il Risveglio comunista anarchico”, comunemente inteso come “Il Risveglio”, uno dei maggiori organi del movimento anarchico internazionale, edito a Ginevra dal 1900 in edizione bilingue italiana e francese sotto la direzione di Luigi Bertoni. Galeani, in un articolo dal significativo titolo Baleni precursori, mentre riconosce l’indubbio fatto positivo rappresentato da una «rivoluzione politica che caccia in bando i Romanoff […], cancella le sanguinose vergogne della Siberia orrenda […], torna in patria […] la pallida e tenace legione di proscritti e di esuli che della libertà non disperò», paventa che le forze moderate tentino di raffreddare l’incendio rivoluzionario in una repubblica borghese-parlamentare fautrice della continuazione ad oltranza della guerra a fianco delle potenze occidentali3. “Il Risveglio”, dopo aver salutato nella rivoluzione di Febbraio la «fiamma di distruzione che è nello stesso tempo una fiamma altrice [che] si è accesa anche in mezzo al cupo tenebrore della guerra» a dare il segnale e l’impulso «delle tante rivo-
1 L’attribuzione a Fabbri è stata avanzata come probabile da Pier Carlo Masini, nel suo studio su Gli anarchici italiani e la rivoluzione russa, “Rivista storica del socialismo”, a. V, n. 15-16, gennaio-agosto 1962, p. 136 e, sempre in forma ipotetica, da Leonardo Bettini nella sua Bibliografia dell’anarchismo. Volume I. Tomo 1. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia (1872-1971), CP Editrice, Firenze 1972, p. 274. Riteniamo che la paternità dell’articolo sia fuor di dubbio da attribuire a Fabbri, stante le evidenti analogie, e financo le ripetute coincidenze nell’uso delle medesime espressioni verbali, riscontrabili tra l’articolo in questione e le prime pagine del saggio di Luigi Fabbri, Dittatura e Rivoluzione, Libreria Editrice Internazionale Giovanni Bitelli, Ancona 1921. 2 Virgilio Mazzoni, Aurore boreali nel cielo di Russia, “L’Avvenire Anarchico”, 23 marzo 1917. 3 Mariuzza [Luigi Galleani], Baleni precursori, “Cronaca Sovversiva”, 24 marzo 1917.
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luzioni che fra poco dovranno scoppiare per salvare il mondo da una completa rovina»4, manifesta la convinzione che il moto rivoluzionario russo potrà sconfiggere i suoi tanti nemici interni ed esterni solo a condizione che «alla Russia immensa, generosa ed audace in rivolta» vada la «fraterna e solidale partecipazione alla battaglia contro il nemico comune» del proletariato degli altri paesi5. Con il filtrare di ulteriori, seppur parziali e confuse informazioni sugli avvenimenti russi che segnalano, a lato dell’operato del governo provvisorio, il costituirsi e quindi il consolidarsi d’un contropotere rivoluzionario imperniato sul Soviet degli operai e dei contadini di Pietrogrado, l’iniziale speranza degli anarchici nelle potenzialità del moto russo tende a trasformarsi nella fiduciosa convinzione che in conseguenza dell’alleanza rivoluzionaria venutasi a determinare tra proletariato industriale, contadini e soldati, e in virtù dell’energia e delle capacità dimostrate dalle correnti estreme della rivoluzione, depositarie e interpreti della gloriosa tradizione del sovversivismo russo, la dinamica degli eventi possa determinare il trapasso da trasformazione politico-istituzionale in rivoluzione sociale. Mancano invero al momento notizie precise sugli anarchici russi e sul ruolo da essi svolto nei giorni cruciali dell’abbattimento dell’autocrazia zarista e nelle settimane immediatamente successive. Tuttavia troppo luminosa è la tradizione eroica dell’anarchismo russo, troppo grande il tributo da esso offerto alla lotta contro la sanguinaria tirannide zarista, perché non abbia necessariamente a ritenersi dai compagni italiani che gli anarchici russi si trovino in prima fila a sostenere la «Comune rivoluzionaria» di Pietrogrado. E tutto ciò in una situazione in cui non solo la frammentarietà, la sporadicità e financo la contraddittorietà delle informazioni sugli avvenimenti russi che giungono in Italia in una situazione dominata dall’inasprirsi della censura di guerra e dal permanere di gravi difficoltà nei collegamenti internazionali, rende problematica la conoscenza dei reali rapporti che intercorrono tra le diverse componenti che operano sullo scenario russo tra i due eventi rivoluzionari di Febbraio e di Ottobre, ma, sulla scorta di quanto appare sulla stampa anarchica italiana nel corso dell’estate del 1917, si può addirittura ipotizzare che manchi una cognizione precisa delle differenze esistenti in Russia tra anarchici e «massimalisti», come alternativamente a «leninisti» vengono definiti i bolscevichi. Così “L’Avvenire Anarchico” accomuna «leninisti» e anarchici nella qualifica di «massimalisti», cioè di coloro i quali vogliono spingere la rivoluzione fino alle estreme conseguenze con l’abolizione immediata del sistema capitalista e la proclamazione della Comune libertaria6, mentre Galleani, commentando dalle colonne di “Cronaca Sovversiva” gli avvenimenti di luglio, associa «maximalisti», cioè bolscevichi, e anarchici nello schieramento di forze rivoluzionarie fatte oggetto dal governo provvisorio di quella reazione che si è indirizzata «contro Lenin, contro i massimalisti, contro gli anarchici»7. Si comprende pertanto come nell’ultimo scorcio del 1917 – allorché pervengono in Occidente le prime ancora confuse e approssimative notizie su quanto si è prodotto a Pietrogrado con la presa del Palazzo d’Inverno da parte di Lenin e dei suoi – la reazione degli anarchici sia sostanzialmente positiva, quando non incondizionatamente entusiastica, sia pure in una situazione in cui non è dato ancora conoscere, se non in maniera alquanto ap-
La Rivoluzione russa, “Il Risveglio”, 24 marzo 1917. Ieri, oggi, domani, ibid., 9 giugno 1917. 6 Gusmano Mariani, Massimalisti!, “L’Avvenire anarchico”, 27 luglio 1917. 7 “Cronaca Libertaria”, 23 agosto 1917. 4 5
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prossimativa, le modalità attraverso le quali si è prodotta l’ascesa dei bolscevichi al potere, e soprattutto senza che sia assolutamente chiaro che tipo di “potere” sia stato instaurato in Russia in sostituzione del governo Kerenskij. Ma, per quanto istintivamente forti possano essere diffidenza e avversione anarchiche verso qualsiasi forma d’autorità costituita, il Lenin giunto al potere è pur sempre colui che, esaltando il momento volontaristico della lotta politica e teorizzando il “salto della storia” da un regime ancora semifeudale alla rivoluzione sociale e così contravvenendo ai logori luoghi comuni del determinismo positivista imperante nella Seconda Internazionale, si è imposto come il più energico, deciso e capace capo rivoluzionario; è colui il quale – come si esprime “La Favilla” alla vigilia dell’assalto al Palazzo d’Inverno – «vuole l’immediata assunzione degli organismi della vita sociale da parte del proletariato, l’immediata soppressione della società borghese, l’immediata attuazione dell’assetto socialistico, e soprattutto l’immediata cessazione della guerra»8. Si è per Lenin nella misura in cui egli, secondo la pertinente notazione di Gino Cerrito, rappresenta la Rivoluzione stessa e in una situazione nella quale, data la scarsità e la frammentarietà delle notizie sugli avvenimenti di Russia, a ciascuno è dato quella rivoluzione raffigurarsela a suo modo9. Si guarda con simpatia e financo con ammirazione ai bolscevichi, tanto più che – come si è visto – non sono del tutto chiare le discriminanti politiche e ideologiche tra essi e le altre frazioni dello schieramento rivoluzionario, anarchici inclusi. Sul verificarsi d’un fenomeno siffatto vi è la lucida testimonianza che Luigi Fabbri renderà due anni dopo, notando che fu per l’appunto al momento della rivoluzione d’Ottobre che si sentì per la prima volta parlare dei bolscevichi e della dittatura rivoluzionaria, che prima si conoscevano, come fatto e come teoria, solo dai cultori di storia sociale […]. E poiché erano i bolscevichi che apparivano i più audaci e i più fortunati condottieri della rivoluzione, e la rivoluzione stessa avveniva sotto la forma e col nome di “dittatura del proletariato”, la classe operaia di tutti i paesi simpatizzò coi bolscevichi e con la formula dittatoriale della rivoluzione10.
Analogamente Galleani: Il linguaggio che parlavano era nuovo, inaspettata l’audacia, trionfale la rivincita: il nome esotico, soffuso di mistero, corrusco di ricordi impetuosi soggiogava tutte le simpatie: bolsheviki. Nessuno sapeva di preciso cosa volesse significare, ma perché nessuno poteva sgiungerlo dalle prime vittorie dell’insurrezione che aveva dall’anarchico al socialista coscritte le più fervide energie d’avanguardia, tutti furono bolsheviki11.
Né diversamente Armando Borghi:
S. S., Il trionfo di Lenine, “La Favilla”, 1° novembre 1917. Gino Cerrito, Il ruolo dell’organizzazione anarchica, RL, Catania 1973, p. 52. 10 Luigi Fabbri, Dittatura e Rivoluzione, cit., pp. X-XI. 11 Luigi Galleani, Heute geth eine neue Epoche der Weltgeschichte aus, “Cronaca Sovversiva”, marzo 1919. 8 9
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Il moto di ottobre si chiamò tuttavia bolscevico e noi tutti ci svegliammo un giorno bolscevichi. Era un’accusa borghese, quindi non faceva né ripugnanza né paura. Noi però non eravamo bolscevichi, nel senso vero, politico, programmatico della parola, secondo cioè il significato particolare di partito. Questa parola nel senso borghese voleva dire malfattori, apologisti della rivoluzione, e noi l’accettammo12.
Tutto ciò non risulta tuttavia d’impedimento che nelle settimane immediatamente successive alla conquista del Palazzo d’Inverno, da settori tutt’altro che marginali dell’anarchismo italiano – singole personalità, gruppi, giornali – vengano espresse riserve puntuali e considerazioni critiche in ordine non soltanto alla dittatura del proletariato – questione che s’imporrà all’attenzione del movimento nei mesi successivi, quando si avranno notizie più precise in merito alla gestione leniniana del governo – ma al fatto stesso dell’assunzione del potere in quanto tale e della sua istituzionalizzazione in governo dello Stato da parte d’una forza rivoluzionaria. In tale contesto un ruolo d’assoluto rilievo occupa Fabbri, autore, sin dai primi giorni del 1918, dalle colonne de “L’Avvenire Anarchico”, d’una presa di posizione nei confronti del nuovo governo bolscevico dei Commissari del popolo tanto equilibrata nella cautela con cui si evita di esprimere giudizi definitivi su situazioni che si è consapevoli di conoscere per mezzo di fonti giornalistiche tutte da verificare, quanto rigorosa nella riaffermazione dei postulati ideali che costituiscono la ragione stessa d’esistenza del movimento anarchico internazionale. Così, se da un lato Fabbri mette in guardia dalla «vergognosa malafede», «palesemente ingiusta e maligna», con cui la canea giornalistica al servizio degli interessi reazionari tende a presentare Lenin e Trockij alla stregua di agenti del governo tedesco, lamentando al contempo la grave carenza di notizie attendibili su aspetti importantissimi della situazione russa, a cominciare dallo sviluppo assunto dal moto rivoluzionario fuori Pietrogrado negli altri centri urbani e soprattutto nelle campagne; dall’altro il pensatore anarchico, dopo aver operato un generico ma pur sempre significativo accenno al fatto che, a detta di alcuni, «gli elementi anarchici della capitale russa sono di molto impaccio ai massimalisti», cioè ai bolscevichi, avanza nei confronti di questi ultimi riserve e osservazioni critiche ben precise. «Noi», scrive Fabbri, ci guardiamo bene dall’emettere un giudizio qualsiasi sulle loro intenzioni, che crediamo oneste. Ma constatiamo ancora una volta la contraddizione insanabile fra i principi ideali del socialismo e la conquista del potere politico. Allo stesso modo, constatiamo ancora una volta, malgrado che il governo di Pietrogrado tenti alcune delle realizzazioni più audaci del socialismo, la contraddizione fra i principi di libertà (senza di cui il socialismo sarebbe un non senso) e le necessità pratiche di un governo, anche rivoluzionario, per mantenersi al potere. Se le notizie dei giornali non sono completa menzogna, si ripete a Pietrogrado l’errore della Comune di Parigi contro la libertà di stampa, e l’errore della prima rivoluzione francese, della persecuzione dei rivoluzionari non del tutto d’accordo col governo […]13.
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Una conferenza sulla Russia dei Soviet, “Umanità Nova”, 25 ottobre 1921. Quand-même [Luigi Fabbri], I fatti di Russia, “L’Avvenire Anarchico”, 25 gennaio 1918.
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La straordinaria importanza dell’articolo di Fabbri sta nel fatto che in esso sono enunciati con grande chiarezza, ad appena alcune settimane di distanza dall’avvento di Lenin al potere, due capisaldi di quella che sarà la critica avanzata dal movimento anarchico italiano e internazionale nei confronti dell’esperimento bolscevico, man mano che esso avrà modo di svilupparsi e venire meglio conosciuto: l’inscindibilità del binomio libertà politica-rivoluzione sociale e l’ineluttabilità dello scivolamento su posizioni autoritarie e di negazione delle ragioni stesse che l’hanno determinata e ne hanno reso possibile l’esito vittorioso, da parte d’una rivoluzione che si faccia governo e, come nel caso della Russia, Stato. L’istintiva avversione a qualsiasi autorità costituita, sia pure essa sedicente espressione del proletariato rivoluzionario, che ispira l’analisi di Fabbri, è parimenti alla base delle prime reazioni de “Il Risveglio” alla conquista bolscevica del potere. Un articolo che appare sul numero del 19 gennaio 1918 – senza firma ma che tutto lascia intendere essere opera dello stesso direttore Bertoni – esprime con chiarezza e decisione forse ancora maggiori di quanto non faccia il contemporaneo articolo di Fabbri su “L’Avvenire Anarchico”, alcuni irrinunciabili punti fermi del modo di porsi degli anarchici a fronte di qualsiasi evento rivoluzionario: Anarchici, noi diventiamo immediatamente avversari di chiunque giunga al potere. In periodo di rivoluzione possiamo appoggiare eccezionalmente un governo provvisorio contro un tentativo di restaurazione del vecchio regime, ma quanto ci viene imposto da ineluttabili necessità del momento, non può implicare rinuncia da parte nostra al principio d’eliminazione di ogni autorità […]. Conquista del potere politico e dittatura del proletariato sono formule da noi sempre combattute, come quelle che preconizzano gli stessi mezzi della tirannia e del privilegio per realizzare la libertà e l’uguaglianza14.
Comprensibile che all’assunzione di un ancora più vigile atteggiamento critico nei confronti di Lenin e dei suoi, contribuisca l’arrivo in Occidente della notizia che, a seguito delle crescenti manifestazioni d’insofferenza degli anarchici russi verso la gestione centralizzata, burocratica e autoritaria del potere messa in atto dal governo bolscevico, quest’ultimo, rotto ogni indugio, ha dato l’avvio nella primavera del 1918 alla repressione decisa degli anarchici, come d’ogni altro gruppo d’opposizione, procedendo all’arresto di numerosi esponenti libertari di Pietrogrado, Mosca ed altri centri minori, nonché sopprimendo alcuni dei maggiori organi di stampa del movimento. «Vi è certo una ragione di stato», è il commento de “Il Risveglio”, che autorizza e giustifica la persecuzione del governo russo contro gli anarchici: la semplice ragione di conservazione propria; e noi opiniamo essere legittima la violenza adoperata da esso contro gli anarchici per salvaguardare la propria stabilità. Quel che non potremo mai ammettere è che il governo russo rappresenti la rivoluzione russa. Un governo […] non è mai rivoluzionario. Un governo rivoluzionario è un non-senso, una contraddizione in termini. […] Il bolscevismo, rappresentato al potere da Lenin e compagni, si è trasformato da forza rivoluzionaria, qual era nell’opposizione ai governi Miljukov e Kerenskij, in forza di conservazione appena al governo15.
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[Luigi Bertoni], Una discussione di attualità, “Il Risveglio”, 19 gennaio 1918. Contro gli anarchici, ibid., 22 giugno 1918.
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Non meno deciso “L’Avvenire Anarchico” nel solidarizzare con gli anarchici russi, fatti oggetto d’una repressione violentissima per essersi schierati «contro l’ormai insopportabile giogo dei bolsceviki». È, a giudizio degli anarchici pisani, «l’antico dissidio fra la libertà e l’autorità che riprende con maggior furia il sopravvento […]». Spinto dalla logica inesorabile del mantenimento del potere a tutti i costi, il governo bolscevico non potrà che percorrere fino in fondo la strada della repressione d’ogni opposizione popolare e libertaria ai suoi metodi. Ma un regime – conclude il settimanale – «che per reggersi deve inaugurare l’era dei massacri, è condannato a perire»16. Per gli anarchici pisani, che al pari degli altri hanno in precedenza simpatizzato per Lenin, la delusione è cocente. Il dittatore, come viene ora esplicitamente definito il capo del governo russo, ha dimostrato ancora una volta che «il potere guasta l’uomo, qualunque uomo. Anarchici, noi non possiamo accontentarci di combattere e rovesciare un qualunque sistema d’assoggettamento per poi erigere sulle sue rovine un altro sistema forse peggiore. Come ci ribellammo a quello, è logico che ci ribelliamo a questo. La nostra solidarietà e simpatia va oggi tutta agli anarchici russi, non più all’Ul’janov»17. Stando così le cose, come sarà possibile che di lì ad alcune settimane la decisa condanna del governo dei Commissari del popolo ceda il passo a un atteggiamento che, mentre mette decisamente la sordina alle punte più aspre della critica, manifesta simpatia e solidarietà per la Russia rivoluzionaria? Non basta richiamare la distinzione, sempre presente negli anarchici italiani, tra il momentaneo arresto e cristallizzarsi della rivoluzione nelle forme del governo bolscevico e la Rivoluzione valore assoluto, evento di proporzioni grandiose, svolta epocale nella storia dell’umanità come solo può esserlo una rivoluzione che per la prima volta, dopo l’esempio glorioso ma isolato della Comune di Parigi, ha fatto concretamente intravedere la possibilità del passaggio dalla fase puramente “politica”, comune a tutte le altre che l’hanno preceduta, alla dimensione “sociale” vagheggiata dagli anarchici. Un’altra considerazione s’impone: se quella che ha preso l’avvio a Pietrogrado nel marzo 1917 è – come afferma “L’Avvenire Anarchico” – la «Rivoluzione Sociale Universale»18, allora è comprensibile che l’evento rivoluzionario così inteso e il popolo che ha avuto il merito di farsene l’iniziatore vengano da parte anarchica fatti oggetto di ammirazione sì grande da sconfinare in toni di quasi mistica esaltazione, come avviene, per fare un solo esempio, nelle pagine de “Il Martello” di New York19. Ma come esaltare il popolo rivoluzionario, l’opera gigantesca da esso intrapresa, la sua eroica resistenza nel difendere, a prezzo di sacrifici immani, la rivoluzione minacciata dai suoi tanti nemici, prescindendo dal dato di fatto rappresentato dalla realtà “statale” della Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa e del governo che la regge in un difficilissimo frangente come quello dell’epoca? Come difendere incondizionatamente la rivoluzione in lotta per la sua stessa sopravvivenza, senza solidarizzare apertamente con l’entità statale – e il relativo governo – in cui essa si è incarnata? Più d’una volta negli anarchici italiani il tentativo di trovare una via d’uscita da questa contraddizione finisce con l’assumere i toni paradossali di un’assurda negazione volontaristica dell’esistente.
Uno della vecchia guardia, Gli anarchici di Russia alla riscossa, “L’Avvenire anarchico”, 24 maggio 1918. 17 Virgilio Mazzoni, Il discorso del dittatore, ibid., 28 giugno 1918. 18 Il solito [Renato Siglich], La Rivoluzione Sociale è l’ordine, ibid., 7 maggio 1919. 19 “La Guardia Rossa”, supplemento a “Il Martello” del 1° maggio 1919. 16
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È il caso, per fare solo qualche esempio, dei redattori de “L’Avvenire Anarchico” che nel marzo 1918 inneggiano alla «Comune di Pietrogrado»20; in ciò imitati dai compagni di “Volontà” che nel giugno 1919 per indicare la Repubblica russa minacciata dall’intervento dell’Intesa, l’appellano «la grande Comune di tutte le città e i villaggi di Russia»21; per finire con “Il Libertario” di Livorno che nel marzo 1920 trova motivo di parziale conforto alla sconfitta della rivoluzione in Germania, in Ungheria e in tutta l’Europa centro-orientale, nella constatazione che «una Comune è in piedi, viva e gloriosa, salda ed invitta: la Comune Russa»22. Dietro l’artificio verbale di definire «Comune rivoluzionaria» lo Stato russo, si cela tutto il dramma di chi – come gli anarchici italiani – si trova nella difficilissima situazione di non poter operare una netta distinzione tra la rivoluzione in marcia e l’assetto statale in cui essa, provvisoriamente per quanto si voglia, è incardinata. Un assetto che, se per i libertari italiani non è l’anarchia realizzata, costituisce però un momento importantissimo di superamento deciso dell’illusione fallace della democrazia rappresentativa e un esempio rilevantissimo d’esercizio diretto del potere, per il mezzo dei soviet, qualitativamente diverso rispetto ad ogni altra precedente esperienza. Non solo, ma la speranza è che nella Russia rivoluzionaria imperniata sul sistema dei soviet esistano tutte le premesse perché, superata la fase critica della lotta senza quartiere contro la reazione interna e internazionale, la situazione si evolva nel senso d’un progressivo superamento dell’istanza statale e di un’affermazione integrale dell’autonomismo libertario. Né si può non tenere conto della forza di suggestione esercitata in molti ambienti anarchici dal mito di Lenin. Questi, a partire dal 1919, è per gli anarchici italiani, al pari che per i socialisti, il condottiero della Rivoluzione, l’artefice del passaggio di essa dalla fase politica a quella sociale; è il simbolo della Rivoluzione, se non la Rivoluzione stessa, che a sua volta tende a caricarsi di valenze salvifiche, quali si manifestano nelle immagini della «marea rossa» che «corre, precipita, si dilaga, né più si contiene»23, oppure nella raffigurazione della Russia nuova che, sconfitti i suoi nemici interni ed esterni, «non si ferma più» e «invaderà il mondo»24. In un contesto in cui il radicalizzarsi – in Italia come altrove – delle opinioni sulla Russia rivoluzionaria in due fronti contrapposti d’entusiastici sostenitori e avversari irriducibili, “brucia” irrimediabilmente qualsiasi altra posizione, comprese quelle dei critici di “sinistra” del bolscevismo, non deve destare meraviglia che da parte degli anarchici italiani si tenda a confinare in un recesso della memoria, se non a rimuoverle del tutto, le notizie a suo tempo apparse in alcuni organi di stampa del movimento in ordine alla repressione antilibertaria e alle sempre più spinte tendenze accentrartici ed autoritarie manifestate dal governo bolscevico. Né può sorprendere la tendenza prevalente della stampa anarchica prima ad aderire, all’insegna del «viva Lenine» – in una fase in cui, come è stato opportunamente ricordato, il leader carismatico Errico Malatesta veniva invocato e acclamato
Virgilio Mazzoni, Dal Congresso di Londra alla difesa di Pietrogrado, “L’Avvenire Anarchico”, 1° marzo 1918. 21 Nota redazionale a Robert Mirror, Il Bolscevismo e la Rivoluzione, “Volontà”, 16 giugno 1919. 22 “Il Libertario”, 25 marzo 1920. 23 Pompeo Barbieri, Marea Rossa, ibid., 6 marzo 1919. 24 La Russia e Noi, “La Frusta”, 31 gennaio 1920. 20
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come «il Lenin d’Italia»25 – alla parola d’ordine del «facciamo come in Russia»26, quindi ad invitare il proletariato rivoluzionario a mobilitarsi e a battersi in difesa del Paese dei soviet minacciato, a partire dalla metà del 1918, dalla reazione bianca sostenuta dall’intervento dell’Intesa. Premessa e fondamento ideale di tale battaglia è non solo che la rivoluzione russa rappresenti un valore assoluto, una svolta epocale nella storia della lotta degli oppressi di tutto il mondo per il loro riscatto, ma che il Paese della rivoluzione “sociale” vittoriosa, indipendentemente dagli indirizzi di governo impressi dai bolscevichi, costituisca un esempio formidabile, un punto di riferimento, una leva per il rilancio dell’azione rivoluzionaria in Europa, un «faro luminoso», come si esprime Malatesta27, che la reazione internazionale ha ottime ragioni di voler spegnere a tutti i costi, soffocando in esso la speranza dei lavoratori di tutto il mondo. Occorre difendere a tutti i costi la «Russia rossa santa». La Comune rivoluzionaria di Pietrogrado è, come affermano i redattori de “L’Avvenire Anarchico”, «la Patria del mondo operaio»28. La nostra «patria in pericolo» – gli fa eco “Volontà” – che come tale bisogna difendere e salvare a costo di qualunque sacrificio29, giacché – siccome argomenta “Il Libertario” – «la causa della Russia rivoluzionaria è la nostra causa. Chi è contro la Russia è contro di noi»30. Da qui non solo l’adesione degli anarchici allo sciopero internazionale di protesta del luglio 1919 a sostegno delle repubbliche sovietiche di Russia e Ungheria, ma soprattutto l’attiva presenza degli anarchici, a fianco dei socialisti, nelle manifestazioni pro Russia che negli ultimi mesi del 1919 si svolgono in numerose località italiane, con un impegno particolare nella promozione d’iniziative di mobilitazione e di lotta in quelle località di più radicata presenza anarchica, come Genova e La Spezia, dai cui porti si teme possano partire forniture militari per le armate “bianche”. Attenuatasi tra la fine del 1919 e l’inizio dell’anno successivo, contestualmente all’affievolirsi della minaccia portata alla rivoluzione dalle armate “bianche”, la mobilitazione pro Russia riprende forza e vigore al momento dello scoppio della guerra tra la Russia e quella Polonia, militarmente foraggiata dall’Intesa e dalla Francia in particolare, che i libertari italiani considerano strumento dell’aggressione dell’imperialismo internazionale contro il Paese della rivoluzione. La mobilitazione cesserà solo quando l’Armata Rossa avrà definitivamente allontanato, nell’autunno del 1920, la minaccia rappresentata dall’esercito polacco, mentre le superstiti guarnigioni “bianche” operanti nel Sud della Russia vengono definitivamente sconfitte ed annientate. 25 Giorgio Petracchi, L’immagine della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, in Nemici per la pelle. Sogno americano e mito sovietico nell’Italia contemporanea, a cura di Pier Paolo D’Attorre, FrancoAngeli, Milano 1991, p. 471. 26 Sull’incidenza del “fattore Russia” nel movimento anarchico, si veda Luigi Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal biennio rosso alla guerra di Spagna (1919-1939), Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2001, pp. 55-57. 27 Errico Malatesta, La questione del riconoscimento ufficiale del Governo russo, “Umanità Nova”, 2 settembre 1920. 28 La Comune proletaria di Pietrogrado pericola, “L’Avvenire Anarchico”, 14 marzo 1919. 29 La Rivoluzione in pericolo, “Volontà”, 1° novembre 1919. 30 El rebelde, Nel II anniversario della proclamazione dei Soviet in Russia, “Il Libertario”, 6 novembre 1919.
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La guerra civile è finita e il pericolo della controrivoluzione armata ha cessato d’incombere sulla Russia rivoluzionaria. Gli anarchici possono a questo punto riassumere in pieno la loro libertà di critica. «Come rivoluzionari», afferma “Umanità Nova”, noi ci rallegriamo delle vittorie della Russia contro i suoi nemici […]. Solidali con la Rivoluzione russa […], rimaniamo tali qualunque indirizzo la rivoluzione abbia, non importa se lontana più o meno da ciò che noi crediamo il meglio. Questo senso di doverosa solidarietà, superiore a ogni spirito di parte, ha fatto tacere ogni nostro dissenso, ogni critica o riserva nei vari momenti in cui la Rivoluzione era o ci appariva in pericolo. Contro la calunnia borghese, contro gli attentati violenti degli Stati capitalisti, noi eravamo tra i difensori della Rivoluzione e dei bolscevichi. Ma tutto ciò non annullava i nostri dissensi, le nostre critiche e le nostre riserve. Staremmo per dire che queste erano ragioni di più per desiderare la vittoria della Repubblica russa contro i suoi nemici; perché mentre la sua sconfitta ci avrebbe imposto un riserbo necessario, la vittoria rivoluzionaria soltanto poteva sciogliercene, e noi tornare moralmente liberi di dire senza peli sulla lingua il nostro parere iconoclasta e spregiudicato. Questa libertà di critica riacquistiamo oggi tanto più completamente quanto più completa è la vittoria del Governo rivoluzionario russo31.
Invero autonomia di pensiero e libertà di critica mai avevano cessato d’essere tra i più avveduti e culturalmente attrezzati militanti anarchici. Valga per tutti l’esempio di Fabbri, che già nel 1919, a fronte del fenomeno della diffusione, in settori tutt’altro che marginali del movimento anarchico italiano, d’un atteggiamento sostanzialmente favorevole a quella dittatura del proletariato assunta a sinonimo e garanzia di difesa della rivoluzione vittoriosa, non aveva esitato a condurre sull’argomento un’energica azione di chiarificazione e riaffermazione decisa di taluni postulati irrinunciabili dell’anarchismo. Lo aveva fatto non solo ricorrendo all’autorevolezza e al prestigio indiscusso di Malatesta, perché il grande esule, in una lettera a Fabbri pubblicata su “Volontà” del 16 agosto 1919, sgombrasse il campo dai pericoli di commistione capaci di snaturare il movimento anarchico, ma anche intervenendo egli stesso per il tramite di tutta una serie d’articoli pubblicati sul medesimo settimanale dall’autunno del 1919 alla primavera dell’anno successivo. Fabbri dimostra come la dittatura del proletariato, nel suo storico prodursi in Russia, lungi dall’essere sinonimo d’azione diretta rivoluzionaria e di rivolta vittoriosa di minoranze audaci, tende a risolversi in un nuovo potere statale, anzi nel potere statale nella sua espressione più accentratrice e incontrollata: nella migliore delle ipotesi, dittatura d’una minoranza di lavoratori sulla maggioranza di altri lavoratori; nella realtà effettuale dello Stato sovietico, la dittatura d’un partito se non addirittura del ristretto nucleo dirigente del partito. Ma Fabbri non si limita a una brillante dissertazione dottrinale sulla questione della dittatura del proletariato. Il tema è dibattuto anche, se non soprattutto, con riferimento specifico alla Russia di Lenin, a una realtà cioè di cui Fabbri, con lucidità ed acume critico straordinari, percepisce i sintomi premonitori dei processi degenerativi insiti nella pratica bolscevica della dittatura del proletariato: l’esasperato dirigismo economico che assolutizzando il modello costituito dalla grande impresa industriale ignora le potenzialità produttive di altre e diverse forme d’organizzazione del lavoro e mortifica l’autonomia creatrice dei produttori liberamente associati; la conseguente sottomissione della classe operaia alla «disciplina di caserma» d’un comunismo di Stato assommante in sé «le due 31
Le vittorie della Russia, “Umanità Nova”, 24 novembre 1920.
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tirannidi attuali del governo e del proprietario»; lo svuotamento progressivo dei soviet – iniziali protagonisti della rivoluzione ed interpreti autentici della sua anima libertaria – e la loro riduzione a strumenti inerti d’un potere di cui il governo dei Commissari del popolo e del partito che lo esprime sono gli esclusivi detentori32. Gli articoli di Fabbri saranno raccolti dal loro autore nel volume Dittatura e Rivoluzione, opera ultimata nell’agosto 1920 ma pubblicata solo a metà dell’anno successivo. Qualche settimana prima si era prodotto l’avvenimento che ben si presta ad essere assunto come termine ad quem di questa nostra trattazione: la sollevazione di Kronstadt del marzo 1921, repressa nel sangue dall’Armata Rossa di Trockij e ben presto assurta a simbolo, nel movimento anarchico italiano ed europeo, dell’estremo quanto disperato tentativo delle forze libertarie presenti nella rivoluzione russa per rovesciare la tendenza accentratrice ed autoritaria impressa ad essa dai bolscevichi, il cui furore persecutorio nei confronti di noti militanti anarchici arrestati e deportati nei lager, testimonierà di lì a poco della degenerazione estrema del sogno di libertà originatosi dall’Ottobre rosso33. Con non minore entusiasmo degli anarchici, la notizia del moto rivoluzionario che ha prodotto il rovesciamento dell’autocrazia zarista viene accolta dai repubblicani italiani. L’organo ufficiale del PRI, il settimanale “L’Iniziativa”, nell’annunciare che La sovranità popolare trionfa in Russia34, pubblica infatti nel numero del 24 marzo 1917 la mozione votata dalla Commissione esecutiva del partito, che «esulta per il trionfo della rivoluzione con la quale il popolo russo prende possesso di sé medesimo e dei propri destini accentuando il carattere democratico e rivoluzionario della presente guerra contro la criminosa oligarchia tartaro-tedesca minacciante l’Europa; invia al popolo russo i più cordiali auguri, le più sentite felicitazioni»35. Nella convinzione, o forse sarebbe meglio dire nella speranza che l’evento rivoluzionario accentui «il carattere democratico e rivoluzionario della presente guerra», ben si riasSu Fabbri si veda Santi Fedele, Luigi Fabbri. Un libertario contro il bolscevismo e il fascismo, Edizioni Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2006. 33 Per il periodo successivo si veda Santi Fedele, Una breve illusione. Gli anarchici italiani e la Russia sovietica, 1917-1939, FrancoAngeli, Milano 1996. 34 La sovranità popolare trionfa in Russia, “L’Iniziativa”, 24 marzo 1917. 35 Per la rivoluzione russa, ivi. In termini più “pacati” ma sostanzialmente analoghi si esprime il mazziniano Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, Ettore Ferrari, nella riunione del Consiglio dell’Ordine del marzo 1917: «Prima che si inizi la discussione sugli argomenti sui quali la Giunta richiama più specialmente il vostro esame, io sono profondamente convinto di interpretare il vostro pensiero invitandovi a mandare un saluto, un augurio e un plauso alla Russia che, col suo magnifico rivolgimento, ha spezzato i vincoli che le impedivano di cooperare, con le Potenze dell’Intesa, alla vittoria per la civiltà, pel diritto, per la giustizia, si incammina con passo franco e sicuro sulle vie delle libertà democratiche e suggella i concetti della sua rivoluzione proclamando la indipendenza della Polonia, aspirazione antica e non mai dimenticata di Giuseppe Mazzini e dei maggiori interpreti in ogni tempo del genio e del pensiero del nostro Ordine». A firma dello stesso Ettore Ferrari viene inviato un telegramma al Presidente del governo provvisorio di Pietrogrado, col quale il «Grande Oriente d’Italia esprime Vostra Eccellenza vivo compiacimento Massoneria Italiana pel grandioso rinascimento politico e sociale del Popolo Russo, augurando che l’esaltazione dello spirito nazionale nella luce delle libertà conquistate raggiunga più rapidamente le alte finalità della vittoria contro le autocrazie imperialiste, assicurando il progresso libero, civile e pacifico della Umanità». Per il resoconto dell’Adunanza del Consiglio dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia e il testo del telegramma, vedi “Rivista Massonica”, marzo 1917, pp. 99-100. 32
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sume l’interpretazione che i repubblicani danno del sommovimento prodottosi in Russia, dove «la rivoluzione è scoppiata non in nome del salario ma della libertà, non per soffocare la guerra della borghesia, ma per alimentare e rinvigorire la guerra nazionale contro le paure, gli egoismi e i pacifismi dello Stato autocratico»36. E se «la libertà russa, spezzate le catene dello czarismo, getterà a terra anche le corone insanguinate degli imperi tedeschi», ne uscirà confermata l’intuizione dei repubblicani, ritenuta assurda dai socialisti, che la guerra avrebbe potuto avere una portata rivoluzionaria; che, per dirla in una parola, «la guerra è rivoluzione»37. Col trascorrere dei giorni l’iniziale speranza che la crisi russa, dopo l’esautoramento della monarchia zarista, possa evolvere in senso repubblicano38, si trasforma nella convinzione che il movimento repubblicano in Russia sia destinato presto a trionfare: Il sogno dei nostri grandi si realizza: Mazzini fondatore dell’Alleanza Repubblicana Universale esulta; un libero accordo di popoli redenti sta per fasciare la terra. Dal Baltico alla Cina, dalla Cina all’America nel nome della Repubblica, il progresso segna le sue insopprimibili tappe. I repubblicani d’Italia salutano il grande movimento repubblicano russo bene augurando. Viva la Russia repubblicana!39
Né deve destare preoccupazione che a fianco del governo provvisorio sia sorto in Russia un altro potere, il «Comitato operaio», cioè a dire il Soviet di Leningrado: Questi operai sono in gran parte socialisti, e sono diretti da deputati socialisti. Essi però hanno capito che la loro sorte dipende dalla forma che il governo nuovo assumerà in Russia, e anziché abbandonarsi a pure rivendicazioni economiche e ad un pacifismo che per essere di classe non cesserebbe di essere enormemente stupido, hanno deciso di accettare la continuazione della guerra fino alla vittoria ed hanno proclamata la necessità di dare alla Russia istituzioni repubblicane. Certamente i nostri socialisti boches si aspettavano dagli operai russi ben altro atteggiamento. Essi speravano che questi operai avessero piantata sulla fortezza di Pietro e Paolo la bandiera dell’internazionale… tedesca, che le truppe al fronte avessero disertato dando campo al Kaiser di arrivare fino a Mosca e Pietrogrado. Ma mai come in questo episodio si pone tutta la profonda significazione nazionale e al medesimo tempo rivoluzionaria della guerra40.
Nel mese di aprile, “L’Iniziativa” non nasconde il timore che col ritorno in Russia dei leader bolscevichi esuli in Svizzera cui il Kaiser ha consentito il libero passaggio in territorio tedesco, «la minoranza marxista», inoculando a Pietrogrado «il veleno della disorganizzazione nazionale», riesca ad «arrestare il gran palpito del cuore rivoluzionario nella contrazione spasmodica della miope lotta di classe»41. E tuttavia si vuole continuare a credere che dopo l’avvento della rivoluzione che in Russia «ha scardinato alle basi la rocca forte del monarchismo», non solo «il colossale disegno della repubblica federale russa è tracciato»,
Girondin [Alfredo De Donno], Guerra e rivoluzione, ivi. Ivi. 38 Verso la Repubblica?, ivi. 39 Santa Russia, ibid., 31 marzo 1917. 40 Vaste conseguenze, ivi. 41 Il cattivo genio di Marx, ibid., 21 aprile 1917. 36 37
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ma libertà e nazionalità sono i principii per cui l’esercito russo non cessa di battersi42. Con la rivoluzione russa e l’intervento in guerra d’una grande potenza repubblicana quale gli Stati Uniti, argomenta Giovan Battista Pirolini, «la guerra europea, già rivoluzionaria fin dal suo nascere», ha assunto un’ancor più spiccata caratterizzazione repubblicana, preludio al trionfo del principio repubblicano a livello globale43. Concetto che sarà ribadito qualche settimana dopo nei deliberati votati al Convegno repubblicano di Firenze, con riferimenti espliciti sia al «largo respiro repubblicano» assunto dalla guerra con l’intervento statunitense, sia alla ferma intenzione della Russia rivoluzionaria di continuare la lotta sino alla definitiva sconfitta del «militarismo prussiano»44. Non sfuggono invero ai repubblicani le difficoltà del governo provvisorio russo, stretto tra la necessità di continuare la guerra a fianco degli Alleati e una sempre più forte e diffusa volontà di pace a soddisfare la quale ci si vuole ancora illudere possa bastare la linea d’una pace «senza annessioni e senza indennità», che “L’Iniziativa” attribuisce a quel Soviet di Pietrogrado che «si guarda bene di chiedere la pace separata»45 e pur sempre rimane forza a sostegno d’un governo che «rappresenta un popolo in armi contro il dispotismo tedesco, la rivoluzione operaia in guerra contro il blocco degli imperi centrali»46. Ma da lì a qualche settimana comincia ad insinuarsi tra le file repubblicane il timore che la rivoluzione russa possa «tradire» venendo a patti «col suo più mortale nemico: il militarismo [tedesco]»47, timore a fugare il quale non sono certamente sufficienti i pronunciamenti di chi, come Romualdo Rossi, ritiene che «la Russia rivoluzionaria non disarma» ma fervidamente opera per «sfondare le porte che conducono alla Confederazione degli Stati Uniti d’Europa»48, o d’Innocenzo Cappa che ha parole d’esaltazione «per l’immensa, nobile Russia, che ha giurato con Kerenskij di non tradire e non tradirà»49.
Ogni imperialismo è morto, ibid., 7 aprile 1917. Giovan Battista Pirolini, Sulle ali della vittoria, ibid., 21 aprile 1917. 44 Il convegno di Firenze, ibid., 1° maggio 1917. 45 L’organizzazione della libertà, ibid., 11 maggio 1917. 46 Il Governo rivoluzionario della Russia libera, ibid., 25 maggio 1917. 47 La rivoluzione russa tradisce?, ibid., 16 giugno 1917 48 Romualdo Rossi, Russia Rivoluzionaria, ibid., 7 luglio 1917. 49 Innocenzo Cappa, La Russia non tradirà, ibid., 4 agosto 1917. Qualche mese prima il Comitato Centrale del PRI aveva incaricato il deputato Cappa, «designato a far parte della missione politica che si recherà presto a Pietrogrado», di «portare il saluto dei repubblicani d’Italia alla grande Repubblica russa che sorge» (cfr. Il nostro saluto al popolo russo portato da Innocenzo Cappa, ibid., 11 maggio 1917). Con Cappa, componevano la missione i socialisti Giovanni Lerda e Orazio Raimondo e il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola. Seppure in assenza di riscontri documentari probanti, la notoria appartenenza di tutti e quattro i componenti della delegazione al Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, avvalora l’ipotesi che si trattasse di un’iniziativa promossa, operando di concerto con le altre Massonerie dei Paesi dell’Intesa, dai vertici della più numerosa ed internazionalmente accreditata Comunione massonica italiana. Scopo della delegazione era principalmente quello d’incontrare il massone, non ancora capo del governo provvisorio ma già Ministro della Guerra, Kerenskij, al fine di rafforzarne la determinazione a continuare il conflitto a fianco dell’Intesa. Su questo episodio e più in generale sul contesto in cui si colloca, si veda il pioneristico lavoro di Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana, 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 14-15 e, più di recente, il pregevole studio di Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, pp. 33 sg. 42 43
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L’ascesa di Kerenskij al Governo e l’iniziale quanto effimero successo che arride all’offensiva da lui voluta, con «i reggimenti della libera Russia [che] marciano vittoriosamente dietro la bandiera rossa donata da Kerenskij per le strade insanguinate della Galizia»50, generano una nuova ondata d’entusiasmo tra i repubblicani, che non solo salutano con gioia la proclamazione della Repubblica da parte del governo provvisorio, che annienta le residue speranze degli elementi controrivoluzionari, ma esprimono la fiducia che il governo Kerenskij, repressi sia il tentativo rivoluzionario dei bolscevichi in luglio sia la rivolta capeggiata da Kornilov, «potrà occuparsi più energicamente della lotta contro l’invasore straniero e della causa comune a tutti gli alleati»51. Sono speranze che, qualche settimana dopo, sarebbero state spazzate via da quella conquista bolscevica del potere le cui implicazioni di politica estera in generale e in termini di prosecuzione del conflitto o ricerca d’una pace separata in particolare, non sfuggono certo ai repubblicani. Già prima che si abbiano notizie precise delle trattative di pace con gli Imperi centrali intavolate dal nuovo governo dei Commissari del popolo, quest’ultimo è stato etichettato da “L’Iniziativa” come «una banda di tedeschi travestiti», che non avrebbe certo «potuto operare con successo in un paese più civile e a forte coscienza patriottica»52 ma la cui affermazione, imperniata su «due forme di governo: armistizio in politica estera e ghigliottina in politica interna»53, si è resa possibile in «un paese primitivo che la guerra e i contatti anticipati e sproporzionati della civiltà stanno dissolvendo»54. Ma l’Intesa non può e non deve abbandonare la Russia, consentendo che essa diventi un’immensa colonia di sfruttamento da cui la Germania possa trarre risorse per continuare la guerra. «Sbarchino in Russia Giapponesi e Americani, diano all’intervento l’aspetto e la sostanza della liberazione» dall’oppressione bolscevica55, ma ancora meglio se, sostiene “L’Iniziativa” – che pure non ha remora alcuna a manifestare le sue simpatie per le forme varie e diverse in cui nell’immenso territorio russo si esercita la resistenza militare delle forze avverse al governo di Lenin – più che a inviare in Russia eserciti si riesca a «suscitarvi e organizzarvi le forze indigene capaci sia di rovesciare il governo attuale quanto di sostituirlo con uno degno della Russia e dell’Intesa»56. Ancora qualche settimana e un articolo che appare sull’organo ufficiale del PRI il 6 luglio 1918 dà l’esatta misura del livello d’esasperazione parossistica raggiunto dai repubblicani nella loro avversione al governo bolscevico, che ha “tradito” gli Alleati consentendo agli Imperi centrali di concentrare sul fronte francese e su quello italiano il loro potenziale bellico: Se una restaurazione czarista, modificata profondamente da influenze democratiche, ridarà alla Russia ordine, dignità, indipendenza, libertà e pane, Lenin è responsabile della rinascita del principio monarchico nella terra da lui voluta follemente matura per il comunismo pseudomarxista. Con la scorta degli avvenimenti riteniamo che per ridare vita a questo immenso corpo martoriato sia pro-
Bandiera rossa!, “L’Iniziativa”, 7 luglio 1917. La proclamazione della Repubblica in Russia, ibid., 22 settembre 1917. 52 Faber, La catastrofe russa e le sue cause, ibid., 2 dicembre 1917. 53 Girondin [Alfredo De Donno], Armistizi leninisti, ibid., 15 dicembre 1917. 54 Faber, La catastrofe russa e le sue cause, cit. 55 L’Intesa può aiutare la Russia!, “L’Iniziativa”, 15 maggio 1918. 56 L’Intesa e il problema russo, ibid., 29 giugno 1918. 50 51
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prio necessario un punto d’appoggio cui facciano capo tutte le forze rivoluzionarie antimassimaliste; e se questo punto d’appoggio deve essere un trono democratico e costituzionale, emanazione della Costituente, onore a lui57.
Tra i socialisti che inneggiano all’Ottobre rosso e i repubblicani che tutto pensano sia preferibile alla tirannide leninista dissolvitrice – financo, incredibile a dirsi, una monarchia riveduta e corretta – il contrasto non potrebbe essere più radicale e lo scontro più aspro. Né la conclusione vittoriosa del conflitto colmerà il solco che la guerra ha scavato tra neutralisti ed interventisti. Emblematici, sotto questo aspetto, i rapporti che nel corso del 1919 intercorrono tra i socialisti e i repubblicani: i primi rimproverano ai secondi d’aver infranto – con l’adesione alla guerra voluta dalla Corona – le tradizioni antimilitariste ed antimonarchiche del movimento repubblicano, d’aver tradito le reali aspirazioni pacifiste della loro base popolare e d’essersi alleati durante la guerra con i peggiori elementi del nazionalismo antidemocratico; i repubblicani replicano rinfacciando ai socialisti l’infamia della propaganda antinazionale e disfattista condotta durante il conflitto in combutta coi preti e coi giolittiani, ed accusandoli di voler sfruttare a fini di parte il malcontento che le difficili condizioni del dopoguerra hanno ingenerato in larghi strati della popolazione, quindi di condurre alla rovina il proletariato italiano additandogli quale supremo obbiettivo di lotta la pedissequa imitazione di modelli rivoluzionari stranieri assolutamente inadeguati alla specificità della situazione. Tale, per l’appunto, il bolscevismo, contro il quale non è il solo Napoleone Colajanni a scagliarsi ripetutamente con grande vigore polemico58, ma sono diversi i pubblicisti repubblicani ad esprimersi con articoli che per livore antisocialista ed ossessione antibolscevica, non hanno nulla da invidiare a quelli che contemporaneamente appaiono su “L’Idea Nazionale” o “Il Popolo d’Italia”59. Nonostante non manchino di levarsi nella stampa repubblicana le voci di coloro i quali paventano che la conclamata opposizione repubblicana al bolscevismo si risolva in un’attenuazione dello slancio innovatore che deve invece continuare ad animare il partito60 o, peggio ancora, in uno scivolamento del medesimo su posizioni di Destra61, bisognerà attendere il ricambio al vertice che si produce nella primavera del 1920 con l’elezione a Segretario di Fernando Schiavetti – espressione del gruppo dirigente che con Giovanni Conti, Oliviero Zuccarini, Egidio Reale ecc., già prima del conflitto, ispirato da Arcangelo Ghisleri, aveva avviato una proficua azione di rinnovamento del PRI – perché si produca un’inversione di tendenza nei rapporti tra i due partiti storici della Sinistra italiana. Ma, nell’immediato, una così accesa polemica antineutralista in generale ed antisocialista in particolare, non può non avere ripercussioni sulla linea politica del PRI nei confronti della Russia, fino al punto da indurlo ad assumere talvolta posizioni poco lineari se non addirittura contraddittorie.
Resurrezione russa?, ibid., 6 luglio 1918. Della polemica antibolscevica di Colajanni, tratta per esteso Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe… cit., passim. 59 A titolo esemplificativo, Contro il più enorme crumiraggio del mondo, “La Libertà”, 19 aprile 1919; Che cos’è il bolscevismo, “Etruria Nuova”, 6 aprile 1919. 60 C. Piermei, Verso la rivoluzione sociale, “L’Iniziativa”, 19 aprile 1919. 61 Contro il bolscevismo e il nazionalismo, “L’Alba Repubblicana”, 10 maggio 1919. 57
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È il caso per l’appunto dello sciopero internazionale di solidarietà con le repubbliche sovietiche di Russia e d’Ungheria minacciate dall’intervento militare delle potenze dell’Intesa, proclamato dal PSI e dalla CGdL per il 20-21 luglio 1919. Dapprima il Comitato Centrale del PRI decide l’adesione allo sciopero62, motivando tale presa di posizione con la radicata avversione dei repubblicani italiani a qualsiasi interferenza straniera che leda il diritto d’autodeterminazione dei popoli63; salvo poi, di fronte al parziale insuccesso fatto registrare dalla manifestazione, a definire la stampa repubblicana lo sciopero stesso una «mascherata leninista» che avrebbe evidenziato il sostanziale fallimento della «predicazione bolscevica» del PSI64. L’avversione al «bolscevismo» e la contestuale, accesa polemica antisocialista è del resto anche alla base del fenomeno per cui nell’immediato dopoguerra, da parte di considerevoli settori del PRI, si guarda all’esperimento in atto nella Russia sovietica con manifesta incomprensione del significato storico della rivoluzione d’Ottobre65. Una rilevantissima eccezione è però costituita da Oliviero Zuccarini. Il dirigente marchigiano, denunciando l’aberrazione di quanti all’interno del suo partito vorrebbero che per timore del bolscevismo il PRI rinunciasse alla propria vocazione rivoluzionaria, opera un approfondimento d’analisi sul fenomeno bolscevico, pervenendo a conclusioni del massimo interesse. «Noi non possiamo disconoscere», scrive tra l’altro Zuccarini, il valore storico immenso che il bolscevismo rappresenta ed è destinato a rappresentare. Esso segna definitivamente l’inizio di un’epoca nuova. Faticoso inizio, e si capisce. Il sistema bolscevico così come è stato concepito e attuato non è destinato a restare. Costituisce, però, il fermento fecondatore di tutti gli esperimenti, di tutte le iniziative rivoluzionarie. Il proletariato mondiale ha avuto, solo attraverso di esso, il senso che la sua ora è scoccata. Che importa se l’esperimento bolscevico si trascina di errore in errore, e ripete più duramente il male che voleva sanare? Ciò interessa secondariamente: ogni inizio rivoluzionario ripete sempre le forme, i mezzi, i metodi della società in dissoluzione. Ma il privilegio capitalistico è vulnerato a morte. Le ultime classi della gerarchia sociale salgono al primo posto. In tutto il mondo l’utopia si sostanzia di realtà. E il lavoro si prepara a prendere funzioni direttive nella produzione sociale66.
Allo stesso modo in cui ne riconosce tutto il valore storico, Zuccarini intuisce con grande acutezza l’esistenza d’alcune gravi contraddizioni nell’esperimento bolscevico in atto nella Russia, a cominciare da un profondo contrasto d’interessi tra ceti rurali e ceti urbani, ed evidenzia i primi sintomi del processo di degenerazione del bolscevismo da dittatura del proletariato a dittatura sul proletariato. Da qui l’avversione repubblicana al bolsceviIl testo dell’ordine del giorno di adesione allo sciopero ne “L’Iniziativa”, 12 luglio 1919. L’anima del Partito repubblicano è col popolo russo e ungherese, ibid., 19 luglio 1919. 64 Alfredo De Donno, Perché è fallito lo sciopero, ibid., 26 luglio 1919, M. P. [Mario Pistocchi], Fallimento, “Il Popolano”, 26 luglio 1919; Il funerale dello sciopero rivoluzionario, “La Libertà”, 26 luglio 1919; Un viaggetto nello sciopero generale, “La Sveglia Repubblicana”, 26 luglio 1919. 65 Significativi in tal senso gli articoli Caricaturisti, ibid., 8 febbraio 1919; Due incoscienze, “L’Italia del Popolo”, 25 marzo 1919; Mario Pistocchi, La forza e il progresso, “Il Popolano”, 1° marzo 1919. 66 Oliviero Zuccarini, Pro e contro il bolscevismo. Che cosa vogliamo, “L’Alba Repubblicana”, 1° maggio 1920. Questo articolo, cui si riferisce anche la successiva citazione, e altri scritti sul medesimo argomento saranno rifusi dall’autore nell’opuscolo Pro e contro il Bolscevismo, Libreria Politica Moderna, Roma 1920. 62 63
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smo; non perché quest’ultimo sia troppo rivoluzionario ma, al contrario, perché nessuna rivoluzione può dirsi tale se non fondata sui valori essenziali della libertà e dell’autonomia: «mentre riconosciamo tutto il valore storicamente rivoluzionario del bolscevismo», è la conclusione di Zuccarini, mentre ci rifiutiamo di aderire come che sia a qualsiasi manifestazione antibolscevica che, comunque mascherata, è sempre una forma di esasperazione conservatrice, siamo contro il bolscevismo come sistema di organizzazione politica e sociale. E lo siamo, si ponga bene mente alle parole, non in quanto desideriamo conservare qualche cosa dell’ordinamento presente, ma appunto per la ragione opposta: siamo contro il bolscevismo perché il bolscevismo è conservatore. Proprio così! Il bolscevismo conserva gli stessi sistemi di governo della società borghese. Come ordinamento interno è lo stesso, fondato sullo stesso principio: più complicato, più esteso, più burocratizzato, sì, ma il medesimo. Quello che era giudicato odioso, infame nel regime zarista, non può avere mutato natura perché sono cambiati gli uomini che sono a capo dello Stato. Come sistema economico: è l’intervenzionismo, il monopolismo, lo statalismo quale abbiamo avuto modo di sperimentare in tutti gli Stati nelle sue forme ridotte e pur disastrose, portato al massimo sviluppo. Come emancipazione del lavoro, non realizza la libertà dell’operaio, ma perpetua la schiavitù del salario che non cessa di diventare schiavitù solo perché al padrone si è sostituito lo Stato. In questo senso siamo antibolscevici67.
Un approfondimento d’analisi critica, quello operato da Zuccarini, destinato non soltanto ad avere un’immediata ricaduta nel favorire all’interno del PRI la maturazione d’un più articolato ed equilibrato giudizio sull’esperimento in atto nella Russia sovietica68, ma ad influenzare anche nei mesi successivi la riflessione e l’elaborazione politica dei repubblicani italiani sul tema. Ne sono testimonianza i numerosi articoli sulla situazione russa che appaiono nell’organo quotidiano del partito “La Voce Repubblicana” nel corso del 1921. Vi troviamo certamente la denuncia della sanguinosa repressione bolscevica della sollevazione di Kronstadt69 e la constatazione dello svuotamento progressivo dei soviet sempre più subordinati al potere centrale70; la simpatia manifesta per gli esponenti del partito socialista rivoluzionario russo costretti all’esilio e alla clandestinità71 e la consapevolezza dell’entità dello scontro che si verifica nelle campagne tra i contadini che si oppongono alla requisizione forzata del grano e gli emissari del governo bolscevico che non esitano a scatenare rappresaglie cruente contro interi villaggi72, mentre ormai da mesi la carestia semina vittime in larghe zone dell’immenso Paese73. E, tuttavia, la consapevolezza delle gravi responsabilità di quel regime bolscevico che rappresenta la dittatura dispotica d’una esigua minoranza sulla stragrande maggioranza del popolo russo privato delle libertà civili e dei diritti politici, non cancella del tutto la convinzione – largamente diffusa in ampi settori del gruppo dirigente che, col Congresso
Ivi. Ad esempio Bolscevismo, “La Riviera”, 22 maggio 1920; od anche L’incanto svanito, “L’Azione”, 9 ottobre 1920. 69 L’offensiva bolscevica contro Kronstadt, “La Voce Repubblicana”, 20 marzo 1921. 70 Come si svolgono le elezioni in Russia, ibid., 21 maggio 1921. 71 La riorganizzazione delle forze rivoluzionarie, ibid., 21 settembre 1921. 72 La situazione nella Russia meridionale, ibid., 31 agosto 1921. 73 La carestia in Russia, ibid., 4 febbraio 1921. 67
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di Ancona del settembre 1920, ha consolidato la sua leadership all’interno del PRI – che pur nella tragedia della Russia ridotta letteralmente alla fame, la rivoluzione russa, che «è stata il primo tentativo in grandi proporzioni di emancipare dalla servitù capitalistica un popolo intero», ha «un valore storico incalcolabile»74. Una posizione certamente critica ma mai pregiudizialmente ostile nei confronti della Russia di Lenin, e che continuerà a caratterizzare l’atteggiamento dei repubblicani anche negli anni immediatamente successivi75.
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La Russia muore di fame. Il dovere dell’Italia, ibid., 6 agosto 1921. Si veda Santi Fedele, I repubblicani di fronte al fascismo (1919-1926), Firenze, Le Monnier
Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
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Giuseppe Bedeschi
I socialisti riformisti italiani e la rivoluzione bolscevica in Russia
Per intendere il lacerante dibattito che la rivoluzione bolscevica attuata in Russia suscitò in tutti i partiti e in tutti i movimenti che, nell’Europa occidentale, si richiamavano al marxismo, è opportuno rifarsi a Karl Kautsky. Questi, infatti, che sino ad allora era stato considerato da tutti, Lenin compreso, come il massimo teorico marxista, assunse subito una posizione nettamente critica – destinata a diventare con gli anni opposizione intransigente – verso la presa del potere da parte dei bolscevichi. Ritroveremo diversi elementi di tale critica negli esponenti del riformismo socialista italiano. Kautsky aveva guardato sempre con grande interesse alla Russia e in occasione della rivoluzione del 1905 aveva svolto un’analisi che presentava diversi punti di contatto con quella di Lenin. In Russia, diceva Kautsky, la chiave di tutto era il problema contadino. I contadini russi volevano la terra, volevano investimenti e mezzi tecnici per coltivarla, infrastrutture, ecc. Senonché, non solo l’assolutismo, ma nemmeno la borghesia liberale era in grado di soddisfare tali richieste dei contadini, perché essa non voleva violare la legalità e non concepiva la riforma agraria senza indennizzo, che però sarebbe stata un onere impossibile per i contadini poveri. La confisca della terra era quindi una misura che poteva essere presa soltanto dal proletariato rivoluzionario, cioè dal proletariato urbano diretto dai partiti socialisti. E d’altra parte solo il proletariato rivoluzionario poteva prendere misure atte a reperire le enormi somme necessarie alla sopravvivenza dell’agricoltura russa dopo la confisca della terra: l’abolizione dell’esercito permanente, la confisca dell’intero patrimonio della famiglia imperiale e dei monasteri, la requisizione dei grandi monopoli – miniere, pozzi petroliferi, officine siderurgiche, ferrovie, ecc. Il futuro della rivoluzione russa era dunque affidato all’alleanza fra il proletariato rivoluzionario e i contadini. Anche per Kautsky, quindi, la peculiarità della rivoluzione russa consisteva nel fatto che essa non poteva essere una rivoluzione borghese in senso stretto, in quanto non sarebbe stata diretta dalla borghesia bensì dal proletariato. Al tempo stesso, però, Kautsky teneva ben fermo il convincimento che la rivoluzione russa non avrebbe potuto essere in alcun modo una rivoluzione socialista, a causa della grande arretratezza della Russia, arretratezza che si rifletteva anche sul proletariato russo, il quale era ancora troppo debole e troppo poco sviluppato. Sicché l’obiettivo del proletariato – che non avrebbe potuto vincere senza l’appoggio dei contadini – doveva consistere nel migliorare le proprie condizioni sia materiali che politiche, nel soddisfare le aspirazioni dei contadini poveri, rinunciando
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quindi ad interventi di carattere socialista in agricoltura: in una parola doveva consistere nell’edificazione d’una repubblica democratica avanzata1. Ho detto che l’analisi di Kautsky presentava diversi punti di contatto con quella svolta da Lenin in Due tattiche2: ma, posso aggiungere ora, senza le ambiguità dello schema leniniano. Nel senso che Kautsky non aveva dubbi sul fatto che la socialdemocrazia russa avrebbe dovuto proporsi obiettivi democratico-borghesi avanzati e, almeno in una prima fase, non avrebbe dovuto superarli in alcun modo. A questo convincimento Kautsky tenne sempre fermo, sicché quando Lenin e Trockij presero il potere sulla base d’un programma socialista, incardinato sulla dittatura dei bolscevichi, egli si vide costretto ad esprimere sempre più il proprio dissenso verso la loro azione, dovuto al fatto che la Russia non era matura per un esperimento socialista: come peraltro l’instaurazione della dittatura d’un partito dimostrava ampiamente. Il primo grande attacco contro Lenin e i suoi compagni fu sferrato da Kautsky nel 1918, con due saggi: Demokratie oder Diktatur e Die Diktatur des Proletariats. Kautsky rilevava che Marx aveva parlato sì di “dittatura del proletariato” quale fase intermedia tra la società capitalistica e la società comunista: ma dittatura del proletariato significava appunto dittatura ovvero predominio di una classe, non già potere assoluto d’un singolo individuo o d’un partito, ovvero dispotismo. Ciò era tanto vero, diceva Kautsky, che la Comune di Parigi – indicata da Marx come la forma politica della dittatura del proletariato – non solo non aveva abolito la democrazia, bensì si era basata sul suffragio universale, sull’esistenza di diversi partiti e raggruppamenti politici che poterono eleggere liberamente i propri rappresentanti nella Comune, sul concorso di tutte le tendenze socialiste, nessuna delle quali fu esclusa3. All’opposto, il partito socialista che governava la Russia era giunto al potere lottando contro altri partiti socialisti – menscevichi e social-rivoluzionari – ed esercitava il proprio dominio con l’esclusione di altri partiti socialisti e con l’esercizio del più assoluto dispotismo4. Certo anche Kautsky, in polemica con Bernstein, aveva fatta propria l’idea della dittatura del proletariato: ma essa significava per lui la conquista, attraverso lotte sociali e politiche, della maggioranza dei consensi da parte del proletariato e dei suoi alleati. Perciò essa non poteva significare soppressione della democrazia, bensì sua ferma e intransigente difesa. Infatti – diceva Kautsky – un regime che abbia con sé le masse, farà uso della violenza unicamente per tutelare la democrazia, non per sopprimerla: «Esso commetterebbe un vero suicidio se volesse sopprimere la propria base più sicura, il suffragio universale, fonte profonda di una potente autorità morale»5. D’altro canto, aggiungeva Kautsky, fra socialismo e democrazia c’è un legame organico e inscindibile, poiché il primo non si deve intendere solo come un’organizzazione sociale della produzione, ma anche un’organizzazione democratica della società, sicché Karl Kautsky, Triebkraefte und Aussichten der russischen Revolution, “Neue Zeit”, XXV 1906, Vol. 1, p. 324. Cfr. la buona analisi di questo scritto fatta da Massimo L. Salvadori, Kautsky e la rivoluzione socialista. 1880-1938, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 96-99. 2 Cfr. Vladimir I. Lenin, Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1978. 3 Karl Kautsky, Die Diktatur des Proletariats, Wiener volksbuchhandlung-I. Brand & Co., Wien 1918 (trad. it. La dittatura del proletariato, SugarCo, Milano 1977, pp. 23, 55-56, 59). 4 Ibid., p. 23. 5 Ibid., p. 60. 1
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non c’è socialismo senza democrazia6: «Quindi democrazia e socialismo non differiscono in quanto l’una sia mezzo e l’altro sia fine: entrambi sono mezzi per un medesimo fine»7. Ma democrazia non significa solo dominio della maggioranza; ma anche, e non meno, protezione della minoranza o delle minoranze, in quanto «uguaglianza di diritti, uguale partecipazione di ciascuno a tutti i diritti politici, a qualunque classe o partito egli appartenga»8. Se non vengono tutelati e garantiti i diritti delle minoranze – in primo luogo il diritto d’esprimersi liberamente – viene gravemente compromesso il progresso, e la vita di ogni organismo ristagna e muore9. Kautsky, inoltre, mettendo in guardia contro l’identificazione della dittatura del proletariato con la dittatura d’un partito, richiamava l’attenzione su alcuni concetti elementari di scienza politica. Partiti e classi, egli diceva, non hanno bisogno di coincidere. Una classe può scindersi in diversi partiti, può riconoscersi ora in questo ora in quello, se la maggioranza di essa ritiene che il metodo di governo sia inadeguato e quello d’un altro partito sia più rispondente allo scopo10. Ciò non vale solo per la borghesia, ma anche per il proletariato. Quest’ultimo, infatti, può scindersi, e in molti casi si scinde, in diverse formazioni politiche. In tal caso, la dittatura d’uno di questi partiti non è più la dittatura del proletariato, ma quella d’una parte del proletariato sull’altra. La situazione, poi, si complica ancor più se un partito proletario giunge al potere attraverso un’alleanza con i contadini: allora la cosiddetta dittatura del proletariato diventa non soltanto la dittatura di proletari sopra altri proletari, ma anche di proletari e contadini sopra proletari. E in tal caso la dittatura del proletariato assume forme molto strane11. In realtà, sottolineava Kautsky, occorre ben capire che una classe può dominare ma non governare, poiché una classe è un insieme di ceti, di gruppi, di organismi, di partiti: di fatto, soltanto una organizzazione politica ovvero un partito può governare. Ma un partito non è la stessa cosa d’una classe, benché ogni partito rappresenti sempre un interesse di classe12. In Russia, la dittatura del proletariato aveva assunto una «forma molto strana», in quanto era la dittatura d’un partito operaio – quello bolscevico – alleato dei contadini, contro altri partiti operai e contadini: i menscevichi, i socialisti rivoluzionari di centro e di destra. Per mantenersi al potere, il partito bolscevico aveva soppresso la democrazia e privato dei diritti politici tutti i suoi avversari, che non erano certo solo la corte, la nobiltà e la grande proprietà borghese e terriera, ma interi strati sociali proletari e piccolo-borghesi, nonché le loro organizzazioni politiche. La dittatura del proletariato in Russia era in realtà il dispotismo spietato d’un partito politico, che per conquistare il potere e conservarlo aveva soddisfatto le aspirazioni dei contadini. Un fatto, quest’ultimo, certo di grandissima importanza e tuttavia da analizzare e da valutare nei suoi termini reali. Infatti in Russia l’espropriazione della grande proprietà terriera e la distribuzione della terra erano avvenute al di fuori di qualsiasi programmazione
Ibid., pp. 27-28. Ibid., p. 26. 8 Ibid., p. 127. 9 Ibid., p. 49. 10 Ibid., pp. 47-48. 11 Ibid., p. 58. 12 Ibid., p. 46. 6 7
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e di qualsiasi controllo. Non era stata data nessuna disposizione su chi dovesse ricevere la terra; semplicemente fu emanato un decreto che autorizzava i contadini a prendersi la terra. Il risultato fu che, dove dominavano i contadini ricchi, o per il loro numero o soltanto per la loro influenza, essi fecero la parte del leone nell’appropriarsi della terra, a scapito dei piccoli contadini e dei contadini poveri13. Sotto questo profilo in Russia si era realizzata l’ultima delle rivoluzioni borghesi, non la prima di quelle socialiste14. Ed era facile prevedere che a questo punto sarebbe venuta meno la solidarietà fra il proletariato urbano e i contadini, e che sarebbe sorto il loro antagonismo, poiché l’interesse dei contadini sarebbe stato d’ora in poi quello di conservare, rafforzare e ampliare la proprietà della terra, contro qualunque misura di socializzazione15. Kautsky rilevava che in un certo senso tutto ciò non era dovuto ad un errore dei bolscevichi, ma era il risultato necessario della rivoluzione russa, cioè delle condizioni d’un paese arretrato, assolutamente non maturo per il socialismo. L’estrema arretratezza della società russa, soprattutto nelle campagne, lo sviluppo insufficiente del proletariato, che costituiva di gran lunga la minoranza della popolazione: tutto ciò aveva costretto i bolscevichi a sopprimere la democrazia e a rinunciare al loro obiettivo storico di convocare le elezioni per la Costituente, a mantenersi al potere con misure poliziesche e terroristiche. Inoltre essi avevano dovuto promuovere una rivoluzione borghese nelle campagne, una rivoluzione che in futuro avrebbe bloccato o reso assai arduo qualunque intervento di tipo socialista. Tale esito della rivoluzione era stato inevitabile, poiché la dittatura del proletariato praticata ed esercitata dai bolscevichi non era altro che un grandioso ma vano tentativo di saltare o abolire le fasi naturali dello sviluppo economico-sociale. Essi avevano pensato che il metodo più rapido per giungere al socialismo fosse la dittatura ma, così facendo, si erano comportati come una donna incinta che, per abbreviare la durata della gravidanza, si metta a fare pazzi salti; l’unico risultato poteva essere un aborto o una creatura immatura e non sana16. Inoltre i bolscevichi avevano fatto di necessità virtù; cioè pretendevano che la loro esperienza e la loro prassi, che nulla avevano da spartire col marxismo – e che, incontrando l’opposizione della maggioranza della popolazione, avrebbero probabilmente generato una forma di bonapartismo17 – costituissero invece la quintessenza del marxismo. In questo modo essi danneggiavano grandemente il pensiero e il movimento socialista, ed era dovere di ogni buon marxista prendere posizione contro tale adulterazione18. Ho richiamato i punti essenziali di questo celebre saggio di Kautsky, perché esso ebbe una grande importanza per i socialisti europei che si richiamavano al marxismo, e influì notevolmente anche sui socialisti riformisti italiani. È il caso di Rodolfo Mondolfo, nel quale ritroviamo diverse argomentazioni di Kautsky, arricchite di nuove analisi. In un articolo pubblicato su “Critica sociale” nel febbraio 1919, Leninismo e marxismo, Mondolfo mise in guardia in primo luogo verso gli entusiasmi di coloro che applaudivano alla rivoluzione bolscevica in quanto «convulsione sociale». La rivoluzione, diceva Mondolfo, non è semplicemente una convulsione sociale: questa
Ibid., p. 108. Ibid., p. 100. 15 Ibid., pp. 113-115, 116-117. 16 Ibid., p. 100. 17 Ibid., pp. 60 e 62-63. 18 Ibid., pp. 130-131 e 136-137. 13
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comporta sconvolgimenti e conflitti sanguinosi, ma non è affatto detto che produca una trasformazione permanente, un rinnovamento sociale, un superamento reale e definitivo delle vecchie forme e dei vecchi rapporti di produzione19. Per Marx, nella storia, soprattutto quando si tratti di rivoluzione, non c’è posto per azioni e creazioni arbitrarie; l’ora della rivoluzione è segnata da una intrinseca necessità, la quale, allo stesso modo che rende inevitabili le rivoluzioni quando esse siano mature, le rende impossibili quando manchi la pienezza delle loro condizioni: «Una formazione sociale – ha scritto infatti Marx – non tramonta prima che siano sviluppate tutte le forze produttive che essa è capace di dare, e nuovi rapporti sociali non si sostituiscono ai vecchi, prima che le loro condizioni materiali di esistenza non si siano schiuse precisamente in seno all’antica società» (Marx, Per la critica dell’economia politica). Che cosa rimaneva di tutto ciò, che costituiva l’essenza del marxismo, nella prassi leninista? Era forse giunta l’economia capitalistica in Russia al pieno sviluppo di tutte le forze produttive che era capace di dare? Poteva quindi Lenin avviare in Russia una trasformazione socialista? Certo, diceva Mondolfo, le informazioni su quel che avveniva in Russia erano scarse e contraddittorie, ma una cosa era certa: la terra non era stata affatto socializzata e acquisita dallo Stato per la collettività, bensì divisa e distribuita individualmente fra i contadini. La spartizione si era compiuta anteriormente alla presa di possesso del governo da parte di Lenin, ma questi aveva accettato il fatto compiuto. Dunque Lenin aveva lasciato – e non aveva potuto fare diversamente – che tutta la massa dei nuovi piccoli proprietari, che costituiva l’enorme maggioranza della popolazione russa, restasse estranea al regime socialista, dal quale anzi forse i piccoli proprietari dell’epoca erano più distanti che non fosse il proletariato rurale del passato di ieri20. Mondolfo ricavava dalla sua analisi la seguente conclusione: L’azione del leninismo rimane pertanto grandemente limitata, restringendosi alle città e alle industrie: e, poiché le città dipendono per la sussistenza dalla campagna, il regime socialista, che forma le isole nel persistente mare della proprietà privata, si trova costretto a fare i conti col regime di questa, e ad adattarsi alle sue esigenze, e a subire tutto l’impero delle leggi economiche proprie degli scambi commerciali, col rapporto fra la domanda e l’offerta, e le oscillazioni nel valore della moneta, e via dicendo21.
Pertanto, continuava Mondolfo, le aziende socializzate non dovevano preoccuparsi solo della intensità della produzione per corrispondere ai bisogni degli associati, ma anche dei costi della produzione, poiché gli associati dovevano produrre merci per lo scambio con i contadini, dai quali dipendevano per il nutrimento. La stessa “Pravda”, organo ufficiale dei bolscevichi, dava il consuntivo di fabbriche socializzate, in cui la produzione di merci, vendute per tre milioni di rubli, ne era costata quattro. E Muchanov, delegato del Soviet, dichiarava che la produzione delle fabbriche socializzate dava in media un valore che raggiungeva soltanto la metà o un terzo del costo di produzione. Uno stato di cose, questo, che
19 Leninismo e marxismo è riprodotto in Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, a cura e con introduzione di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino 1968, pp. 146-151. 20 Ibid., pp. 148-149. 21 Ibid., p. 149.
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poteva essere mantenuto solo artificiosamente e con i mezzi più violenti, e non certo per un tempo indefinito. A tutto ciò Mondolfo aggiungeva: Tanto più che gli effetti si fan già risentire direttamente sullo stesso proletariato, giacché il governo leninista, che spende due o tre per avere uno, colma il vuoto con la fabbricazione continua di carta-moneta, il cui valore quindi precipita, in guisa che non è sufficiente a farvi fronte l’aumento dei salari agli operai. E, quando gli operai tendono per ciò ad emigrare dalle città, in cui sono le fabbriche, ai luoghi ove il costo della vita è minore, il governo di Lenin si trova costretto, per il funzionamento delle fabbriche, a proibire agli operai di emigrare dalle città senza permesso del Soviet22.
Inoltre i bolscevichi si vedevano costretti a rimettere in onore metodi prima screditati come tipicamente borghesi: il cottimo, il taylorismo, la rigorosa disciplina e l’autorità dei direttori di fabbrica senza impacci e limiti di Consigli operai, ecc.23 Tutti questi fatti, sottolineava Mondolfo, giustificavano i più gravi dubbi sui benefici che la causa del socialismo potesse trarre in futuro dall’esperimento leninista, o sulla sua riuscita durevole in Russia. Una rivoluzione può trionfare a un solo patto: di rappresentare una somma di benessere maggiore di quella data dal vecchio regime, per una massa di persone più vasta rispetto a quella che trovava il proprio vantaggio nel regime precedente. Ma questo non sembrava il caso dell’atto di forza bolscevico, attuato in un paese non maturo per la rivoluzione socialista, a causa dello sviluppo inadeguato delle sue forze produttive. Di qui la tragicità della figura di Lenin. Quella tragicità che Engels aveva tracciato in una bella pagina della sua Guerra dei contadini, che Mondolfo cita per intero: Il peggio che possa capitare al capo di un partito estremo è il venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe ch’esso rappresenta e per l’attuazione delle misure che la signoria di questa classe richiede. Quel ch’esso può fare non dipende dalla sua volontà, ma dal punto che i contrasti di classi hanno raggiunto e dal grado di sviluppo delle condizioni materiali d’esistenza, della produzione e del traffico, sulle quali si fondano i conflitti di classe. Quel ch’esso deve fare, quel che il suo partito chiede da lui, nemmeno questo dipende dalla sua volontà, ma non dipende nemmeno dal grado di sviluppo della lotta di classe; esso è legato alle sue dottrine, al suo programma, i quali, a loro volta, non originano dai conflitti delle classi in quel dato momento e dallo stato più o meno casuale della produzione e del traffico, ma dalla sua maggiore o minore intelligenza e penetrazione dei risultati del movimento politico e sociale. Esso si trova così preso in un insolubile dilemma: quel ch’esso può fare, contrasta con tutta la sua condotta precedente, coi suoi princìpi e con gl’immediati interessi del suo partito; e ciò che esso deve fare non è attuabile... Chi capita in una tale disgraziata posizione è irrimediabilmente perduto24.
Lenin, chiosava Mondolfo, potrà anche, come individuo, non essere perduto; ma forse a quest’ora è già convinto che, se per introdurre un regime di terrore può bastare l’audacia e la violenza, per attuare il socialismo le cose sono un po’ più complicate25.
Ibid., p. 150. Ivi. 24 Ibid., p. 151. 25 Ivi. 22 23
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Parecchi punti di questa analisi mondolfiana si ritrovano in Filippo Turati, il quale ravvisò nel leninismo un fenomeno specificamente russo, maturato nelle condizioni eccezionali della disintegrazione dell’impero zarista nel corso della guerra mondiale: un fenomeno che nulla aveva da proporre all’Occidente capitalistico e ai socialisti che operavano in esso. La critica di Turati al bolscevismo era ispirata al marxismo, di cui egli dava – come Kautsky – una interpretazione di tipo democratico-evoluzionistico, la quale escludeva l’idea di “dittatura del proletariato”, o la riduceva a una pura metafora. Per Turati la trasformazione socialista era un processo lungo e complicato, che veniva a coincidere con lo stesso sviluppo capitalistico, il quale creava, esso solo, al proprio culmine, le condizioni per la realizzazione del governo proletario. La rivoluzione bolscevica, quindi, proprio perché attuata in un paese terribilmente arretrato, non poteva essere una rivoluzione socialista e poteva essere solo una dittatura terroristica, d’ispirazione giacobino-blanquista. La critica di Turati, proprio in virtù della sua ispirazione marxista ma di tipo democratico-evoluzionistico, coglieva indubbiamente alcuni tratti fondamentali del nuovo regime sovietico, sui quali pronunciava una requisitoria molto efficace. Già nel 1919, polemizzando con Arturo Labriola – il quale sosteneva che respingere la rivoluzione bolscevica significava procedere come quei socialisti bollati da Marx, che non vollero intendere la rivoluzione operaia della Comune di Parigi perché aborrivano la violenza – Turati affermava che il bolscevismo era profondamente estraneo allo spirito del marxismo. La dottrina di Marx infatti, secondo Turati non voleva essere utopismo – «utopismo di pensiero o, peggio, utopismo di fatti» – bensì «socialismo scientifico». E dunque voleva essere non un’idea escogitata da un filosofo, da applicarsi in qualunque tempo e in qualunque luogo, bensì una previsione concreta e realistica fondata sullo sviluppo economico-sociale e politico-culturale delle società capitalistiche più avanzate. «Era l’evoluzione dello strumento tecnico della produzione – affermava Turati – che segnava il passo a questo socialismo, maturantesi mano mano con lo svolgersi della grande industria, con l’accentramento delle ricchezze, col rigoglio pieno del capitalismo, col formarsi e col crescere del proletariato moderno, divenuto enorme maggioranza, organizzato quasi automaticamente nella fabbrica e sul campo industrializzato». Questo proletariato, acquistando coscienza e combattività di classe nonché capacità tecnica e politica di gestire collettivamente la produzione, veniva a costituire a poco a poco il formidabile esercito che avrebbe prima o poi espropriato, nazionalmente e internazionalmente, i suoi espropriatori, licenziando i padroni e i proprietari diventati un peso inutile e paralizzante per la società»26. Con ciò Turati voleva mettere in rilievo due aspetti, a suo avviso assolutamente fondamentali, del marxismo: il primo consisteva nel fatto che il proletariato era un prodotto del modo di produzione capitalistico, e dalla società capitalistica ereditava tutte le cognizioni tecniche, economiche e politiche per diventare classe dirigente, cioè per essere in grado di governare una società assai sviluppata e complessa; il secondo aspetto consisteva nel fatto che il modo di produzione capitalistico non solo generava il proletariato quale nuova classe dirigente, ma faceva sì che esso diventasse una classe sempre più numerosa, fino a costituire la grande maggioranza della popolazione. Questo punto era decisivo sotto ogni profilo: perché significava che l’«espropriazione degli espropriatori» sarebbe avvenuta con Cfr. Filippo Turati, Leninismo e marxismo (1919), in Id., Socialismo e riformismo nella storia d’Italia. Scritti politici 1878-1932, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano 1979, p. 331. 26
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il minimo di violenza, e forse con nessuna violenza. Infatti essa non sarebbe stata frutto d’un colpo di Stato, ma la logica conclusione d’un lungo processo economico-sociale e politico, dunque non qualcosa che avviene in «un giorno dato», bensì in «un’epoca, come nella Genesi»27. Il socialismo non avrebbe richiesto quindi la soppressione della democrazia, ma sarebbe stato la realizzazione della più ampia democrazia politica oltre che sociale, essendo fondato sulla classe di gran lunga più numerosa della società: in Turati non aveva fatto breccia la lungimirante critica di Eduard Bernstein al marxismo, il quale aveva messo in rilievo che lo sviluppo capitalistico, lungi dal far scomparire gli strati intermedi, ne creava sempre di nuovi e di più numerosi, sicché lo schema dialettico marxista, d’ascendenza hegeliana, fondato su due sole classi sociali – capitalisti e proletari – si rivelava del tutto inadeguato a comprendere gli sviluppi delle società capitalistiche più avanzate. Turati, invece, teneva fermo al dogma marxista del proletariato in quanto classe destinata a diventare l’enorme maggioranza della società. Anche sotto questo profilo la critica turatiana del leninismo rimaneva del tutto interna al marxismo. Questi aspetti fondamentali del “socialismo scientifico” erano, secondo Turati, del tutto estranei al leninismo, il quale si configurava piuttosto come blanquismo, cioè un’ideologia elaborata per la conquista violenta del potere da parte d’una minoranza, in una società, come quella russa, ancora feudale o semifeudale e con uno sviluppo capitalistico del tutto insufficiente. Di qui i caratteri di violenza, sopraffazione, terrore nell’azione di Lenin e dei bolscevichi: «Ma noi non sospettammo mai», diceva Turati, che “conquista del potere da parte del proletariato” volesse dire usurpazione del potere e terrore sistematico da parte di una setta, soppressione degli zemstwa e della Costituente, sostituzione del Soviet ai parlamenti (che è come dire sostituzione dell’orda alla città), negazione di ogni libertà e di ogni democrazia. Né sospettammo che “abolizione delle classi”, sulla bocca di un socialista, potesse essere qualcosa di diverso dallo stesso Socialismo, che essa potesse divenire fine a se stessa, come sembra sia nel regime leninista, dove infatti ci si ingegna di sopprimere le classi avversarie corporalmente, fucilandone e carcerandone i componenti, senza togliere (perché questo vi è ancora storicamente ineffettuabile) le ragioni economiche del loro ripullulare!28
Ecco, dunque, secondo Turati, la grande lezione che si ricavava dall’operato di Lenin e dei bolscevichi: il proletariato, se è immaturo, non ha alcun interesse ad assumersi il potere direttamente, che può conservare solo con il terrore, e senza la possibilità di creare le condizioni per l’avvento del socialismo. L’unico ruolo che il proletariato poteva svolgere in un paese arretrato come la Russia era quello d’abbattere l’autocrazia, e avviare il paese verso una più rapida e più moderna evoluzione economico-sociale e politica29. A questa valutazione della rivoluzione bolscevica Turati tenne sempre fermo. Nel 1919, alla tribuna del XVI Congresso del PSI, il leader riformista denunciò la profonda adulterazione del marxismo fatta da Lenin e dai bolscevichi. Al socialismo essi sostituivano il comunismo; alla elevazione progressiva della classe proletaria, che sempre più acquista compattezza e capacità, fino a instaurare la grande, la vera democrazia, con le armi dell’in-
Ivi. Ibid., p. 332. 29 Ibid., p. 333. 27
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telligenza, della civiltà, della libertà più sconfinata, essi sostituivano «un gretto ideale di violenza armata e brutale, la cosiddetta dittatura del proletariato, che esclude d’un sol colpo dalla vita sociale tutte le altre capacità, tutti gli altri contributi, tutte le altre classi e la stessa grande maggioranza dei lavoratori», sicché era fin troppo chiaro che la “dittatura del proletariato” teorizzata e messa in pratica da Lenin e dai bolscevichi, altro non era che la dittatura di alcuni uomini sul proletariato, ossia la dittatura contro lo stesso proletariato. Sicché il partito e la classe sarebbero annegati nella fazione30. In realtà, diceva Turati, era impossibile instaurare il socialismo per un atto di volontà, con un decreto, o con un moto violento delle masse. Questa, per Marx ed Engels, era pura e semplice utopia. Il socialismo si elaborava lentamente e fatalmente nello sviluppo progressivo della stessa società borghese; la volontà degli uomini e dei partiti poteva solo agevolare e accelerare il processo, rendendolo cosciente. Soltanto quando questa elaborazione fosse compiuta in tutte le sue fasi, di cui nessuna andava soppressa, solo allora interveniva utilmente l’atto di violenza liberatore, che risolveva il contrasto fra il contenuto sociale e l’involucro politico. Veniva citata spesso e volentieri, dagli ammiratori del bolscevismo, la frase di Marx secondo cui la violenza è sempre stata la grande levatrice dei parti della storia: «Adottiamo pure questa immagine ostetrica – diceva Turati – ma essa suppone pur sempre […] che il feto sia pervenuto al nono mese, o, almeno, al settimo mese», cioè che il nuovo organismo sia già formato. E aggiungeva: La compagine sociale è un prodotto storico complicatissimo, di elementi economici, tecnici, morali, politici. Essa evolve sotto la pressione della lotta delle classi. La borghesia sostituì nel dominio il clero e la nobiltà, quando queste classi divennero inutili, anzi dannose, ed essa fu matura e capace. Lo stesso avverrà del proletariato. Esso deve addestrarsi alla gestione sociale: deve preparare l’agricoltura e l’industria del collettivismo; e tutto ciò non si improvvisa31.
D’altro canto, sottolineava Turati, il movimento operaio, come organizzazione e classe cosciente e indipendente, in Italia era giovane; esso lottava e si preparava da qualche decennio. Aveva appena conquistato le armi di lotta più necessarie, la libertà di coalizione e il suffragio universale per esempio, e non aveva ancora appreso a manovrarle bene; aveva introdotto, con gli scioperi, con i probiviri, con le leggi sociali, con le assicurazioni, con gli arbitrati, ecc., un principio di regime costituzionale nella fabbrica, al posto dell’antico dispotismo padronale; aveva conquistato migliaia di comuni, era penetrato largamente nel Parlamento. Ognuna di queste conquiste gli permetteva d’accelerare il passo con progressione geometrica32. Ma era sbagliato, secondo Turati, abbandonarsi a facili ottimismi e credere che ci fossero delle scorciatoie nella storia. Intanto la guerra aveva dimostrato l’enorme potenza, la persistente saldezza, assai maggiore di quanto si pensasse, dello Stato borghese: «Quando avete visto», egli diceva a questo proposito,
Ibid., p. 341. Ibid., p. 342. 32 Ibid., p. 343. 30 31
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per ben cinque anni, milioni e milioni di proletari armati marciare al cenno del carabiniere, dell’“ardito”, senza quasi una ribellione; quando avete visto le fucilazioni, le decimazioni, tutto ciò che di più orribile ci ha dato la giustizia di guerra, essere, in fondo, tollerato dai vari proletariati; quando avete visto una guerra, che fu la più odiosa espressione degli antagonismi cannibaleschi delle varie borghesie, non già rianimare, rafforzare, rinnovellare, ma soffocare e disperdere l’Internazionale proletaria; ebbene, voi siete onestamente costretti a tener conto di questa esperienza nelle vostre previsioni, nelle vostre valutazioni33.
Né, in Italia, erano pensabili fughe in avanti e tentativi di prendere il potere: perché l’Italia non aveva le sterminate risorse della Russia, era tributaria di tutti per il grano, per il ferro, per il carbone; un governo socialista in Italia sarebbe stato immediatamente boicottato e strangolato dagli Stati creditori: «onde avremmo la rivolta immediata delle masse affamate nei primi giorni della stessa rivoluzione socialista»34. In questo quadro si collocava l’appello accorato rivolto da Turati, durante il Congresso di Livorno del PSI nel 1921, a massimalisti e comunisti, contro la concezione dell’azione politica socialista fondata sulla violenza. La violenza per i socialisti non era e non poteva essere un programma. Allo stesso modo i socialisti non potevano perseguire l’obiettivo della cosiddetta “dittatura del proletariato”, perché essa o era dittatura di minoranza, e allora era dispotismo, il quale avrebbe generato inevitabilmente la controrivoluzione; o dittatura di maggioranza, e allora era un evidente non senso, una contraddizione in termini, giacché la maggioranza era la sovranità legittima e non poteva essere la dittatura. Inoltre i socialisti non potevano accettare la coercizione del pensiero, «la persecuzione, nell’interno del partito, dell’eresia, che fu l’origine ed è la vita stessa del Partito, la sua grande forza salvatrice e rinnovatrice, la garanzia che esso possa lottare contro le forze materiali e morali che gli si parano di contro»35. Turati sosteneva con forza che la violenza, mentre non aveva nulla a che fare con il socialismo marxista, era piuttosto un residuo della vecchia mentalità insurrezionistica, blanquista, giacobina, che sembrava definitivamente tramontata e che invece risorgeva sempre nel movimento operaio. Ma la violenza era sempre stata propria delle minoranze al fine di schiacciare le maggioranze, e non già delle maggioranze che vogliono e possono, con le armi intellettuali e con i mezzi normali di lotta, imporsi per legittimo diritto. Senonché, anche se trionfava provvisoriamente, la violenza apriva inevitabilmente la strada alla vittoria della reazione e della controrivoluzione, che diventava vittoria e vendetta dei comuni nemici. «Sì», disse Turati rivolto a comunisti e massimalisti, noi oggi lottiamo troppo spesso contro noi stessi, lavoriamo per i nostri nemici, siamo noi a creare la reazione, il fascismo, e il partito popolare. Intimidendo ed intimorendo, proclamando (con suprema ingenuità anche dal punto di vista cospiratorio) l’organizzazione dell’azione illegale, vuotando di ogni contenuto l’azione parlamentare che non è già l’azione di pochi uomini, ma dovrebbe essere, col suffragio universale, la più alta efflorescenza di tutta l’azione, prima di un partito, poi di
Ibid., p. 346. Ibid., p. 347. 35 Ibid., pp. 416-417. 33
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una classe; noi avvaloriamo e scateniamo le forze avversarie che le delusioni della guerra avevano abbattuto, che noi avremmo potuto facilmente debellare per sempre36.
Turati ribadirà sempre questo concetto: l’illusione rivoluzionaria di massimalisti e comunisti, l’infatuazione bolscevica avevano scatenato in Italia la reazione fascista e avevano trasformato un piccolo, quasi insignificante movimento di ex-combattenti, come quello di Mussolini, in un fiume in piena che aveva travolto tutto e tutti.
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Ibid., pp. 418-419.
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Socialismo e comunismo In occasione del cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, Emilio Sereni, allora direttore di “Critica Marxista”, il bimestrale teorico del PCI, oltre a dedicare l’intero numero della rivista (luglio-ottobre 1967) all’evento, scrisse un lungo ed impegnativo saggio su La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia. Il saggio aveva un forte carattere dottrinario e, proprio per il fatto di non guardare esclusivamente al rapporto fra la rivoluzione e il movimento operaio italiano, ma di pretendere di misurare l’influsso della rivoluzione su tutta l’economia e l’intera società italiane in una dimensione semisecolare – dall’andamento della produzione industriale alle trasformazioni dell’agricoltura, dai conflitti sociali al problema del “potere” – non ha molto da dirci. Per di più, esso intendeva misurarsi non tanto con gli studi dedicati al problema, ma con le Tesi del cinquantenario proposte dal PCUS, che intonavano una marcia trionfale ai successi dell’URSS, e con la tradizione togliattiana, entrambe considerate una pietra di paragone del comunismo italiano1. Si era, allora, in un momento contraddittorio della storia dell’identità del PCI: da una parte prendevano corpo i primi, notevoli studi sulla sua formazione e le prime, timide proposte di una riunificazione col PSI2; dall’altra, come dimostrano le molte pagine dedicate da “Critica Marxista” ai «grandi successi» dell’URSS in ogni campo dello scibile, continuava ad avere largo spazio la mitologia del paese guida3. Secondo quella visione, gli esiti della rivoluzione d’Ottobre conducevano sostanzialmente alla nascita del PCI, soggetto eroico e positivo della storia d’Italia. Bordiga, Gramsci e i giovani dell’“Ordine Nuovo”, la gioventù socialista, sarebbero stati illuminati fin dal 1917 dai bagliori dell’Ottobre; la loro lotta contro l’opportunismo del PSI e contro i riformisti avrebbe avuto uno svolgimento preordinato e coerente; la scissione e la fondazione
1 Emilio Sereni, La Rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Critica Marxista”, anno V, n. 4-5, luglio-ottobre 1967, pp. 3-66. 2 Cfr. Ugo Finetti, Togliatti & Amendola. La lotta politica nel PCI dalla Resistenza al terrorismo, Ares, Milano 2008. 3 Si veda, ad esempio, Giovanni Berlinguer, Medicina e società nell’Unione sovietica e Paolo Ciofi, L’edificazione dell’economia sovietica, ibid., pp. 210-224 e 159-209. Per la discussione di alcuni studi di allora sul tema, cfr. Tommaso Detti, La rivoluzione d’ottobre e l’Italia, “Studi storici”, anno XV, n. 4 1974, pp. 881-893.
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del partito comunista avrebbero concluso la versione italiana d’un processo internazionale. Si formulava, cioè, l’equazione: rivoluzione d’Ottobre, partito comunista, antifascismo, Italia repubblicana. Ne erano corollari la capacità di lotta contro il fascismo, la presenza di massa nell’Italia della guerra fredda, le vittorie degli anni ’70. L’equazione era interessante anche se, come vedremo, dimenticava la variabile del Comintern. In realtà, il processo di formazione dei partiti comunisti fu influenzato da una serie assai complessa di elementi, in parte legati agli avvenimenti successivi all’inizio della guerra: la crisi dei vecchi partiti socialisti e socialdemocratici sovrastati dai sentimenti nazionali dei loro paesi, la formazione del movimento di Zimmerwald e d’una forte minoranza internazionale di Sinistra, la rivoluzione d’Ottobre e i conflitti sociali del dopoguerra. In parte, inoltre, sarebbe impensabile il profilo identitario dei partiti comunisti e della stessa Internazionale comunista senza considerare alcune vicende dei quindici anni che avevano aperto il nuovo secolo: i conflitti all’interno del socialismo russo coi loro riflessi nella Seconda Internazionale, la rivoluzione russa del 1905 – la “vera” rivoluzione russa4 – e la formazione d’uno schieramento internazionale di Sinistra che in parte fu influenzato dai temi dello “sciopero generale” e, in parte, accompagnò una radicalizzazione del pensiero marxista. Secondo i vecchi, classici studi di Heinz Schurer, lo stesso leninismo era cresciuto nel cuore della formazione della Sinistra socialdemocratica di Rosa Luxemburg, Karl Radek, Anton Pannekoek e molti altri5. Bisogna aggiungere che il mondo socialista del dopoguerra era ormai lontanissimo da quello della belle époque. Non solo perché la guerra aveva cristallizzato nuovi radicalismi – assai meno dottrinari di quelli precedenti e assai più legati alla crisi sociale in atto – e aveva provocato nuove e drammatiche fratture, ma anche perché le rivoluzioni e i conflitti sociali che scuotevano il mondo fra il 1917 e il 1920 chiamavano a prese di posizione e a decisioni impensabili nel clima sonnacchioso del socialismo europeo anteguerra. La nomenclatura e il lessico della politica cambiarono profondamente; cambiò il sistema dei simboli e delle identità; cambiarono le culture politiche. E mutarono i nomi, le ideologie, i sistemi di valori. Cambiò, come si dice, la narrazione della politica. Di quella narrazione, il primo capitolo non può che essere quello della Grande Guerra, con la sottolineatura delle particolarità della condizione dell’Italia, che restò ai margini dei due schieramenti nell’estate del 1914 ed entrò in guerra nel maggio 1915. Per otto mesi, interventisti e neutralisti si combatterono acutamente6. Per difficile che fosse, i socialisti italiani mantennero una posizione dignitosa. Anche se nei loro stessi ranghi le differenze furono spesso radicali e insanabili. Mussolini, direttore dell’“Avanti!”, aveva “tradito” nel novembre 1914 trasferendosi anima e corpo nel campo dell’interventismo, mentre altri socialisti non nascondevano le loro posizioni favorevoli a un intervento dell’Italia contro la Germania e l’Austria-Ungheria. Per alcuni si trattava d’una specie di conclusione del Risorgimento, per altri d’un impegno per sostenere le nazionalità oppresse dell’Impero asburgico, per altri ancora, il passaggio dalla neutralità integrale
Vedi Ettore Cinnella, 1905: la vera rivoluzione russa, Della Porta, Pisa 2008. Cfr. Heinz Schurer, The Russian Revolution of 1905 and the Origins of German Communism, “The Slavonic and East European Review”, a. XXXIX, n. 93 1961, pp. 459-471; nonchè Id., Anton Pannekoek and the Origins of Leninism, ibid., a. XLI, n. 97 1963, pp. 327-344. 6 Giorgio Petracchi, 1915. L’Italia entra in guerra, Della Porta, Pisa 2015, pp. 63 sg. 4 5
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a una “neutralità attiva e operante” non sarebbe stato altro che il riconoscimento del potenziale rivoluzionario della guerra nella trasformazione della società e della politica7. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la posizione socialista si fece ancora più difficile ma la parola d’ordine “non aderire né sabotare” sembrò in grado di mantenere il partito in una posizione lontana sia dall’adesione alla guerra che dal “disfattismo”. Tanto più che il PSI divenne parte attiva dell’iniziale movimento internazionale contro la guerra. Con i socialisti svizzeri, fino dall’estate 1914, il PSI aveva cercato di far tornare a discutere i socialisti dei paesi in guerra8. Il Partito Socialista Italiano era un partito di Sinistra: almeno a partire dal 1912 la corrente massimalista ne guidava le sorti e i suoi dirigenti e i suoi scrittori – Giacinto Menotti Serrati, Costantino Lazzari, e anche Benito Mussolini – erano figure popolari anche per le loro posizioni antimilitariste9. Lo scoppio della guerra rimescolò le carte in tutte le forze politiche, e anche nel PSI. Tutto il partito condivise l’amara delusione per il fallimento dell’Internazionale, ma non tutto il partito sembrava disposto a sostenere una pura e semplice posizione neutralista, che pure fu quella voluta dalla maggioranza. I primi tentativi di convocare una riunione del Bureau Socialiste International, nel settembre 1914, non ebbero successo. Alla fine, per quanto le posizioni socialiste contro la guerra fossero resuscitate e diffuse nelle conferenze di Zimmerwald – settembre 1915 – e di Kienthal – aprile 1916 – la frattura non fu più sanata. Finì col formarsi un’ala radicale del movimento socialista, nella quale il gruppo dei rivoluzionari russi – per quanto diviso al proprio interno – era il più attivo. Essa considerava chiusa la stagione della retorica pacifista e dell’unità a tutti i costi e predicava la rottura con gli “opportunisti”10. A insistere sulla necessità d’una divisione profonda nel socialismo, e della creazione d’una nuova Internazionale, erano proprio Lenin e Zinoviev e, con loro, la Sinistra polacca, quella olandese, quella tedesca e i socialisti italiani. La critica della Sinistra zimmerwaldiana non investiva solo gli opportunisti, ma anche i centristi e i conciliatori. Non si volevano più né mediazioni né accordi. La guerra e il “fallimento” dell’Internazionale socialista avevano provocato una frattura che era difficile sanare: Kautsky non era più un teorico del marxismo, ma un “rinnegato”; la socialdemocrazia tedesca, il partito più forte dell’Internazionale, era chiamata da Lenin un partito di sciovinisti e di traditori fin dal novembre 191411. La sfida che contrappone riforme e rivoluzione, dittatura e democrazia, violenza e pacifismo, non è più un confronto, anche aspro, su questioni di principio o di dottrina: è un duello all’ultimo sangue. Per la
7 L’articolo Neutralità attiva e operante era uscito sul “Grido del popolo” il 31 ottobre 1914. Si veda ora in Antonio Gramsci, Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1975, p. 3. 8 Cfr. Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, in Id., La Terza internazionale e il Partito comunista italiano. Saggi e discussioni, con una Presentazione di Franz Marek, Einaudi, Torino 1978, pp. 79-118. Il saggio era uscito originariamente su “Belfagor”, n. XXVIII 1973, pp. 129-160. 9 Cfr. Maurizio Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976. 10 Si veda Pierre Broué, Histoire de l’Internationale comuniste, 1919-1943, Fayard, Paris 1997, pp. 17 sg. 11 Vedi La guerra e la socialdemocrazia russa, novembre 1914, in Vladimir Ilič Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965, pp. 541 sg.
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prima volta nella storia stanno, l’uno davanti all’altro, l’uno contro l’altro, la socialdemocrazia e il comunismo. “Comunismo”: la parola era antica ma il suo uso, negli anni della guerra, si era rinnovato ed era esploso in una miriade di formazioni politiche, specialmente fra il 1917 e il 1920. Erano stati i russi a recuperare la parola in un rapporto ideale con la Comune di Parigi del 1871. Già nel 1915, a Ginevra, Bucharin, Lenin, Pjatakov ed altri avevano pubblicato il periodico “Kommunist” da una costola del “Sotzial-demokrat”. È vero che alle origini della dottrina marxista stava il Manifest der kommunistischen Partei, ma è altrettanto vero che nella seconda metà del XIX secolo il termine era stato soppiantato da “democrazia sociale” e “socialdemocrazia”, parole che designavano i partiti socialisti. Ma era proprio contro questa tradizione e questa entità che Lenin e i bolscevichi intendevano combattere. Nel marzo 1918, quando fu deciso di cambiare la denominazione del partito da Partito Operaio Socialdemocratico Russo in Partito Comunista Russo (Bolscevico), Lenin spiegò al Congresso che la denominazione «partito socialdemocratico» era «scientificamente inesatta» sia perché la democrazia che veniva costruita in Russia aveva superato «il vecchio concetto di democrazia», sia perché il nome del partito doveva rendere esplicito l’obbiettivo della creazione d’una società comunista. A ciò aggiungeva che occorreva salvaguardare il carattere «bolscevico» del partito, conservando l’aggettivo fra parentesi12. Poche settimane più tardi era nato il partito comunista finlandese, poi quello austriaco, quello polacco e infine quello tedesco. In Italia, il fascino del comunismo attrasse soprattutto una generazione di giovani socialisti: sia che essi fossero organizzati nella Federazione Giovanile Socialista, sia che essi militassero con gli adulti nel partito: ma attrasse anche chi, come Gramsci e Bordiga, guardava con interesse alle nuove forme di democrazia affermatesi in Russia, i soviet. Si trattava, per la verità, d’una fascinazione internazionale e di una forma di pressione partecipativa diffusa ben al di là della rivoluzione bolscevica. In Inghilterra, ad esempio, il movimento degli shop stewards aveva avuto origini in forme di rappresentanza sindacale precedenti la guerra13. La frattura all’interno dei partiti socialdemocratici era esplosa all’inizio della guerra quando la maggior parte di essi aveva aderito alle politiche “di difesa” dei loro governi, ma aveva un retroterra abbastanza antico nella divisione fra minimalisti e massimalisti, riformisti e rivoluzionari, revisionisti e marxisti ortodossi. Dissensi precedenti, sul ruolo dei partiti nei movimenti di massa, sugli orientamenti delle politiche economiche, sulla Weltpolitik, si accentuarono a partire dal 1914 creando il panorama d’un movimento socialista in crisi profonda. Le condizioni del movimento socialista in Italia avevano caratteri speciali: in primo luogo va ricordato che gli italiani non avevano partecipato se non tangenzialmente al grande dibattito sul revisionismo che contribuì a creare uno schieramento internazionale di Sinistra con un accentuato carattere marxista e dottrinario; in secondo luogo, era stata a lungo notevole nel PSI la presenza del sindacalismo rivoluzionario, in più occasioni portatore di posizioni contraddittorie verso la guerra; infine la componente mag-
12 Rapporto sulla revisione del programma e il cambiamento della denominazione del partito, febbraio-luglio 1918, in Vladimir Ilič Lenin, Opere. Vol. XXVII, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 109 sg. 13 Cfr. James Hinton, The first shop stewards’ movement, G. Allen & Unwin, London 1973.
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gioritaria di Sinistra unificava posizioni diverse: dalla vecchia leadership massimalista, ai giovani, agli intellettuali più radicali. Zimmerwald e Kienthal erano state un importante veicolo d’internazionalismo: un internazionalismo che si presentava come un «sentimento etico» caratterizzato da una «aspirazione di fratellanza e di solidarietà fra i popoli»14 e che accompagnava le prime reazioni alle notizie della rivoluzione in Russia. Pur nell’ignoranza dei complessi dettagli che contrapponevano le litigiose formazioni socialiste russe, il PSI era all’inizio vicino alla componente menscevica e in particolare a Martov, il cui gruppo si pensava coincidesse «per dottrina e per atteggiamenti coi partiti socialisti dell’Europa civile», secondo l’opinione di Gustavo Sacerdote15. Si mischiano, nei primi echi della rivoluzione russa, la tradizionale avversione di matrice democratico-socialista verso il tirannico regime zarista, la pesantezza delle condizioni durissime imposte dalla guerra e le prime note di speranza suggerite dalla rivoluzione di Febbraio. L’influenza della rivoluzione passò soprattutto dalle pagine di Viktor Sukomlin, di Gustavo Sacerdote – che scriveva dal punto d’osservazione dei paesi di lingua tedesca – e da Angelica Balabanoff, che nel maggio 1917 era a Pietrogrado16. L’impatto della rivoluzione sull’opinione pubblica socialista è fortissimo: alla scarsa informazione sulle forze in campo si sposa l’eterna discussione sui modi, i tempi e le forme di una rivoluzione socialista. Poteva, una rivoluzione socialista, avere luogo in un paese arretrato? E la classe operaia, avrebbe dovuto aiutare la borghesia a liberarsi – come nella Francia dell’89 – dell’autorità monarchica e dell’aristocrazia? O avrebbe dovuto semplicemente assecondare il processo lasciando agli avvenimenti di fare il loro corso oppure, infine, entrare nella lotta mirando ai propri specifici interessi di classe? E questi interessi avrebbero o non avrebbero avuto la possibilità d’affermarsi in Russia? Stanno tutti qui gli interrogativi che il socialismo occidentale si poneva sugli sviluppi della rivoluzione in Russia17. Se li poneva Gramsci, che a caldo espresse un giudizio rimasto famoso come quello della «rivoluzione contro il Capitale». Era una rivoluzione, nelle parole di Gramsci, contro un marxismo «contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche»18. La rivoluzione russa aveva gli stessi tratti di originalità che avevano avuto le rivoluzioni francese e americana e nasceva dall’incontro fra le condizioni di esistenza del popolo russo e «la predicazione socialista internazionale». Essa poteva condurre, senza sperimentare i diversi stadi di sviluppo dell’economia e della società, al «socialismo immediato»19. Turati aveva una visione diversa. «Tutto il cuore nostro è con la rivoluzione» aveva scritto dopo la rivoluzione di Febbraio20, ma pensava che il proletariato russo avesse fatto Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, cit., p. 114. Ibid., p. 107. 16 Sul tema, i lavori più rilevanti restano quelli di Helmut König, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921. Il Partito socialista italiano e la Terza Internazionale, Prefazione di Renzo De Felice, Introduzione di Giorgio Petracchi, Vallecchi, Firenze 1972 e di Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974. 17 Gabriella Donati Torricelli, La rivoluzione russa e i socialisti italiani nel 1917-18, “Studi storici”, a. VIII, n. 4, ottobre-dicembre 1967, pp. 727-765. 18 Antonio Gramsci, Scritti giovanili… cit., p. 150. 19 Ibid., p. 152. 20 Noi, Primavera di rivoluzione, “Critica sociale”, a. XXVII, n. 6, 16-31 marzo 1917, p. 81. 14 15
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la rivoluzione per la borghesia – «per la Duma borghese» – e che non sarebbe stato possibile saltare lo stadio dello sviluppo capitalistico. Ma faceva anche un ragionamento critico contro la socialdemocrazia tedesca – da lui chiamata «socialismo kaizerista» – che con la caduta dell’autocrazia perdeva il suo principale «baluardo ideale […], la difesa contro lo czarismo». Si trattava di distinzioni apparentemente dottrinarie ma che caratterizzavano due visioni profondamente diverse della politica e del ruolo del partito socialista: nel caso di Turati aveva la meglio la vulgata marxista dello sviluppo necessario delle formazioni economico-sociali; nel caso di Gramsci c’era invece la forte sottolineatura del ruolo della volontà, e quindi della soggettività, nella rivoluzione. Erano distinzioni profonde ma il loro carattere restava nell’ambito di differenziazioni di partito. I riformisti erano la minoranza sotto tiro fin dal Congresso di Reggio Emilia del 1912 ma, per quanto le polemiche interne fossero intense, la loro presenza nel partito era fuori discussione. Le distinzioni fra il marxismo di Gramsci e quello di Turati subirono una fortissima accentuazione con il radicalizzarsi della rivoluzione. Nell’aprile 1918 la “Critica sociale” pubblicava l’appello menscevico contro «l’usurpazione del potere da parte di Lenin e Trotsky» e contro la proclamazione della «dittatura socialista del proletariato e dei contadini» basata su un regime «terrorista»21. Qualche mese dopo, insieme all’articolo di Sukomlin sul terrore bolscevico, la rivista di Turati traduceva il saggio di Kautsky su Democrazia e dittatura contro il quale si levarono le durissime critiche di Lenin. La narrazione dell’atmosfera della rivoluzione – ma ormai, nella seconda metà del 1918 era la guerra civile – richiama in modo inquietante lo scenario delle purghe staliniste del 1937: Nelle strade e nelle case, di giorno e di notte, gli assassinii si succedono. E non sono solo i banditi che uccidono o sono uccisi. Sono gli agenti responsabili del governo dei soviet che, sotto il pretesto di opporsi alla controrivoluzione, ammazzano cittadini pacifici, operai, contadini, studenti, senza giudizi, senza istruttorie, tranquillamente, a sangue freddo, in nome nostro, in nome del proletariato rivoluzionario! […] Dzerdzinski e Zax, presidente e vicepresidente della “Commissione straordinaria” dichiaravano a un redattore della “Novaya Dzisn”: Noi rappresentiamo il terrore organizzato, il terrore assolutamente necessario in un periodo di rivoluzione. Il nostro compito è la lotta contro i nemici del governo dei Soviet. Noi li terrorizziamo, per soffocare i delitti nella loro radice22.
Kautsky, a sua volta, richiamava la frase di Marx sulla violenza «come levatrice di ogni vecchia società che stia per partorirne una nuova» per chiarire come, nel testo di Marx, non si alludesse «alle uccisioni e ai massacri, ma alla forza concentrata e organizzata dello Stato»23. In realtà, il primo elemento d’influenza che dai bolscevichi giungeva al movimento operaio internazionale era la sottolineatura del valore della “rottura”. Il tema dell’unità o della frattura assunse un ruolo centrale quando fu chiaro che la nuova Internazionale non avrebbe fatto sconti al PSI: gli avrebbe imposto non solo d’espellere i riformisti, ma
Menscevichi contro bolscevichi. Un appello menscevico alla Internazionale, ibid., a. XXVIII, n. 7, 1-15 aprile 1918, p. 78. 22 Il terrore, ibid., n. 19, 1-15 ottobre 1918, p. 224. 23 Carlo Kautsky, Democrazia e dittatura (A proposito della dittatura bolscevica in Russia), ibid., pp. 225-227. 21
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anche di espellerli con ignominia, come traditori, piccoli borghesi illusi e ignoranti ed altri epiteti del vocabolario di vituperazione che era proprio del leninismo. Ma i socialisti erano unitari; non accettavano il diktat dell’Internazionale. Ce n’erano state avvisaglie, per la verità, già al convegno di Zimmerwald, quando Lazzari aveva ammonito Lenin sul valore dell’unità: Noi italiani, aveva detto in polemica con Radek e Lenin, ci troviamo nella fortunata situazione di essere uniti. Questa fortuna non ci è caduta in grembo senza fatica. La precedono molti anni di lotte interne dure, esasperate. Lo spirito dell’unità è la nostra arma più forte, è la radice della nostra forza; e se Lenin indica con una sorta di intimo compiacimento le divisioni esistenti presso i compagni degli altri paesi, voglio obiettargli che considero questa divisione una grande disgrazia24.
Ha scritto Ernesto Ragionieri che l’internazionalismo socialista avrebbe per l’appunto toccato il suo punto più alto nella partecipazione ai movimenti di Zimmerwald e Kienthal, ma che si trattava d’un internazionalismo solidaristico e municipale «di non troppo remota origine democratica», incapace «di fare confluire quella tradizione di solidarietà in una tendenza organizzata rivolta a rivendicare alla classe operaia l’egemonia nella lotta per la trasformazione sociale e politica della società nazionale, della quale la rivoluzione di Ottobre in Russia mostrerà la possibilità»25. Simili considerazioni possono oggi essere serenamente discusse: il vecchio internazionalismo socialista, anche per la sua origine nella democrazia ottocentesca e per le sue venature tolstoiane manteneva un genuino carattere umanitario, mentre l’internazionalismo leninista ebbe un carattere non inclusivo, dottrinario e dogmatico. In Italia, in un clima interno provato non solo dalla guerra ma anche dalle sue conseguenze negli approvvigionamenti, nell’alimentazione, nella disciplina, nel lavoro, i socialisti continuarono a non aderire né a sabotare. Ma, mentre i riformisti sottolineavano il dovere della solidarietà nazionale di fronte alla sconfitta di Caporetto, il grosso del partito era contro la guerra e non ne faceva segreto. Lazzari, Serrati, Bombacci furono arrestati per aver promosso manifestazioni per la pace, mentre si allargavano simpatie e solidarietà verso la rivoluzione in Russia. Quando si tenne il XV Congresso del PSI, nel settembre 1918, si percepiva la sfida del futuro. Non era del tutto errato il giudizio della sinistra, che rimproverò il gruppo parlamentare per aver alimentato, dopo Caporetto, «il fuoco della resistenza nazionale» e che attaccò i riformisti per le loro critiche alla rivoluzione russa. Bisognava cessare il tono di «cavalleria spagnolesca» e l’«embrassons nous» per passare all’attività rivoluzionaria come avevano fatto i compagni russi. Occorre, sostenne Salvatori, «sopraffare la borghesia nell’ora della sua debolezza»26. Non era questo che avevano fatto i bolscevichi? Non si potrebbe comprendere il carattere radicale della crisi del PSI e della formazione del PCI, la lontananza abissale dei nuovi sentimenti rivoluzionari dal tradizionale umanitarismo dei riformisti – non c’era, fra i socialisti, anche chi si diceva non violento, tol-
Cfr. Ernesto Ragionieri, Il socialismo italiano e il movimento di Zimmerwald, cit., p. 97. Ibid., p. 118. 26 Citato in Stefano Caretti, I socialisti e la grande guerra (1914-1918), in Giovanni Sabbatucci (a cura di), Storia del socialismo italiano. Vol. 3. Guerra e dopoguerra (1914-1926), Il Poligono, Milano 1980, p. 107. 24 25
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stoiano? – se non si tenesse conto dell’accelerazione prodotta nelle coscienze dal terribile binomio di guerra e rivoluzione. La fine della guerra aprì in tutta Europa una stagione di lotte sociali della cui intensità non si aveva memoria. Mentre la rivoluzione russa stentava a consolidarsi, ad Occidente le sconfitte dell’Impero tedesco e di quello austroungarico avevano dato luogo alla loro caduta e alla nascita, in Germania e in Austria, di due repubbliche. Non solo: si trattava di due repubbliche con un’identità fortemente influenzata dalla presenza socialdemocratica. La bandiera rossa sventolava a Berlino mentre a Vienna il socialista Karl Renner era Cancelliere della Repubblica. Tra la fine del 1918 e i primi mesi del 1919 non c’era città europea nella quale le strade non fossero gonfie di dimostranti. In termini immediati, l’Europa a cui guardavano i bolscevichi dalla cittadella assediata del loro potere era un’Europa che sembrava realizzare il sogno d’una rivoluzione mondiale. A Berlino, alla fine del 1918 la Lega di Spartaco e altri gruppi rivoluzionari avevano formato il partito comunista tedesco. La capitale tedesca sembrava poter cadere nelle mani dei Consigli degli operai e dei soldati da un momento all’altro. Ma, d’altra parte, la repressione non si fece attendere. E fu una repressione decisa dalle autorità di governo socialdemocratiche. Un migliaio di manifestanti finirono uccisi, e fra loro Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Seguirono scioperi, manifestazioni, occupazioni, ammutinamenti. A Monaco, in aprile, fu creata una Repubblica consiliare, mentre in Ungheria conquistava il potere il partito comunista di Bela Kun. Prendeva corpo una contrapposizione inedita: da una parte i socialdemocratici, dall’altra i comunisti, come ormai i bolscevichi si chiamavano. Nei primi giorni del marzo 1919 era stata creata l’Internazionale comunista, la Terza Internazionale. Nel corso di tutto l’anno, in diversi paesi europei, gli episodi che documentavano la trasformazione della lotta politica in conflitto armato erano divenuti parte di uno scenario quotidiano. I socialisti, che avevano tenuto il loro nuovo Congresso a Bologna ai primi d’ottobre, ed in cui la sinistra aveva addirittura ampliato la sua maggioranza raggiungendo il 70%, volevano l’adesione alla nuova Internazionale. Nei mesi convulsi alla fine del 1919 sembrava maturo il momento della trasformazione del PSI in partito comunista. La maggioranza del PSI lo desiderava, l’Internazionale lo sollecitava. Ma, anche in questo caso, le “furie” della guerra civile imposero a tutti i protagonisti netti cambiamenti di rotta. Il PSI non era stato fra i partiti fondatori dell’Internazionale comunista, ma era stato il primo partito di massa ad aderirvi, mesi prima della formulazione dei cosiddetti Ventun punti, le ventuno condizioni stabilite dalla Terza Internazionale per entrare a farne parte. Lenin aveva ringraziato Serrati per la solidarietà con la rivoluzione espressa dal partito e si era complimentato per la vittoria riportata al congresso. L’idea che i bolscevichi avevano del PSI era l’idea del partito di Zimmerwald, che aveva combattuto contro la guerra e che non aveva preso parte alla conferenza di Berna della “vecchia” Internazionale. Per questo, nell’elenco dei partiti e dei gruppi invitati a formare la nuova Internazionale comunista, il PSI risaltava come il soggetto organizzato più rilevante. Il secondo Congresso dell’Internazionale si sarebbe incaricato d’introdurre delle sgradevoli varianti a simili giudizi. I punti di contrasto che serpeggiavano in quel primo embrione di movimento comunista internazionale erano semplici e complicatissimi insieme e derivavano dal carattere imprevisto e periferico della rivoluzione russa, al di fuori degli schemi socialisti e marxisti. Quale doveva essere la tattica politica? Elezioni o violenza? Parlamenti o “soviet”? E quali dovevano essere i soggetti e i protagonisti della rivoluzione? La classe operaia da sola o
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alleata ad altre classi sociali? E che cosa erano chiamati a fare i comunisti: dovevano rompere col resto del movimento operaio o conquistarvi la maggioranza? E la rivoluzione, che si immaginava prossima, che teatro avrebbe avuto? L’Europa avanzata? L’Asia arretrata? O sarebbe stata addirittura una rivoluzione mondiale? I socialisti italiani, guidati dalla figura “comunista” di Serrati – non aveva, il leader socialista, fondato una rivista che si chiamava “Comunismo”? – erano pronti alla loro parte di rivoluzione. In Italia, essa sembrava a Serrati prossima, anche se la rivoluzione italiana non sarebbe stata radicale e cruenta come quella dei bolscevichi. L’Italia era un paese con un forte movimento sindacale, con le cooperative, con l’organizzazione elettorale socialista. E quando sarebbe scoppiata, la rivoluzione, in Italia? Presto, secondo Serrati, e proprio per questo l’unità andava, per il momento, salvaguardata. I riformisti come Turati non avrebbero accettato, probabilmente, la trasformazione del PSI in un partito di rivoluzionari. Ma un’epurazione in Italia non poteva essere decisa da Mosca. In realtà, a Mosca si voleva proprio questo. Il PSI doveva cambiare nome, doveva espellere Turati e i riformisti, doveva abbandonare l’opportunismo “unitario” e abbracciare la disciplina ferrea dell’Internazionale comunista. Bucharin, sulla “Pravda”, era stato molto chiaro nell’articolo di «benvenuto» che aveva accolto a Mosca i delegati socialisti: il PSI era pieno di «avvocatucci» riformisti che dovevano essere «cacciati». I «socialpatrioti», capaci di «opporsi alla rivoluzione armi alla mano», erano i nemici principali27. Alla complessità dei problemi e alle tragiche difficoltà del momento, deve essere aggiunto il ruolo svolto da Lenin e dal gruppo dirigente della Terza Internazionale. Essi ripetevano in modo martellante e ossessivo che nella rivoluzione ai soli comunisti spettava un ruolo dirigente. L’obbiettivo della dittatura del proletariato prevedeva la lotta senza quartiere contro i riformisti. Il processo di formazione dei partiti comunisti, ovunque nel mondo, fu preceduto, accompagnato e seguito da una campagna di contrapposizione, di aggressione, di denuncia dei riformisti, degli opportunisti, dei conciliatori, dei centristi. L’esempio della teatrale contrapposizione fra Lenin e Serrati – nell’autunno 1920 – lo documenta in modo impressionante. L’idea di Serrati era quella di procedere verso la rivoluzione comunista in Italia mantenendo integro il movimento operaio italiano. L’idea di Lenin era che i riformisti avrebbero sabotato la rivoluzione italiana. Ergo, i riformisti dovevano essere espulsi. Discussioni e contrapposizioni simili si erano svolte – e si stavano svolgendo, alla fine del 1920 – anche in Francia e in Germania. In Francia, tuttavia, la formazione del Partito Comunista Francese sarebbe stata, al Congresso di Tours del dicembre 1920, una scissione di maggioranza. In Germania, al contrario, il problema dell’unità e della frattura fra i diversi segmenti di sinistra del movimento operaio dette luogo a uno scontro molto acuto. Molti avevano espresso opinioni contrarie a una scissione anche a proposito dell’Italia. Il fatto era che in Italia esisteva una forte componente di sinistra, una frazione comunista – Gramsci, Bordiga – il cui programma fu, dallo stesso Lenin, contrapposto all’ingenuità, all’errore, alla «gretta diplomazia», alla «superficialità» di Serrati28. I comunisti, nel loro programma presentato alla Direzione del PSI di Milano, avevano formulato una linea che
27 Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Vol. 1. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1976, p. 66. 28 Vladimir I. Lenin, A proposito della lotta in seno al Partito socialista italiano [aprile-dicembre 1920], in Id., Opere complete. Vol. 31, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 361.
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prevedeva «l’azione insurrezionale del proletariato» con mezzi legali e con mezzi illegali. E immaginavano un partito caratterizzato dal centralismo, dalla disciplina, dall’espulsione dei riformisti al di sopra «dei falsi sentimentalismi unitari»29. I “comunisti puri” erano Bombacci, Bordiga, Fortichiari, Gramsci, Misiano, Polano, Terracini. Per quanto fossero portatori di visioni in parte diverse – i piemontesi pensavano allo “Stato operaio” e alla democrazia dei Consigli di fabbrica, mentre gli altri polemizzavano contro le elezioni e il parlamentarismo borghese – tutti avevano in mente le parole e l’opinione di Lenin: la rivoluzione era alle porte in Italia, e solo menti lucide e decisioni taglienti potevano garantirne il successo. Era con questo spirito che si preparava il XVII Congresso del PSI, il Congresso di Livorno. Ma, come vedremo, a Livorno non nasceva solo un partito: si consolidavano e prendevano forma organizzata delle idee, nate dal bolscevismo e dalla rivoluzione d’Ottobre, che avrebbero profondamente influenzato – nei tempi lunghi – l’ideologia comunista. Erano le idee dell’organizzazione centralizzata, dell’autorità, della gerarchia, del capo. Erano idee profondamente diverse dalla tradizione socialista con la quale si voleva a tutti i costi rompere. La cerimonia della scissione Si verificò allora un salto di mentalità che modificò profondamente alcune idee guida della sinistra: esse riguardavano in parte l’essenza stessa della politica, e cioè gli obbiettivi e la sostanza del cambiamento – la rivoluzione come atto soggettivo e la creazione di una società che, per quanto avesse una vocazione egualitaria, manifestava una gerarchia stringente attorno alla classe operaia; in parte attenevano ai mezzi e agli strumenti per la realizzazione di quegli obbiettivi – il partito con tutti i suoi corollari di organizzazione, disciplina, autorità statutarie e simboliche; in parte, infine, anche il senso comune della sinistra sembrò cambiare: il valore della rottura – e della chiarezza ideologica – sostituì quello dell’unità; la scelta della violenza, quella dell’avanzata pacifica. Secondo molti osservatori si confrontarono al Congresso di Livorno due mondi: il socialismo e il bolscevismo. Il primo era una nebulosa ampia e ricca, capace di contenere riformisti e comunisti unitari, visioni del mondo rivoluzionarie e prassi parlamentare, tradizioni popolari e sindacati di massa. Il secondo era un cerchio all’interno del quale stavano i concetti esclusivi di “rivoluzione”, “partito”, “disciplina”, “classe operaia”. Da un certo punto di vista, Livorno fu una cerimonia il cui esito era scontato. Si mescolarono ed agirono insieme confusamente ma efficacemente scelte di linee politiche contrapposte, opzioni organizzative differenti, conflitti di generazioni, contrasti personali, aspettative e previsioni del futuro. I comunisti attaccarono con durezza l’idea, anzi il “fantoccio” dell’unità del partito. E l’attaccò con parole forti anche Christo Kabakčev. Secondo il comunista bulgaro, delegato della Terza Internazionale al Congresso insieme all’ungherese Rákosi, il nemico da battere era Serrati, che non intendeva separarsi dai riformisti. Mentre Terracini e Bordiga ripetono le posizioni della frazione comunista e dell’Internazionale in interventi lunghissimi e
29 Gramsci usa spesso, nella tarda primavera del 1920, questi concetti e queste espressioni. Cfr. Il consiglio di fabbrica, in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo 1919-1920, Einaudi, Torino 1975, pp. 123 sg. nonché Il programma dell’Ordine Nuovo, ibid., pp. 146 sg.
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dottrinari, Serrati non vorrebbe nemmeno parlare, ma poi lo fa, per difendere la sua politica con passione e amarezza: «Espellere, distruggere […] è cosa facile. Abbiamo aderito alla Terza Internazionale con tutto lo slancio dell’animo nostro» e, quando i comunisti puri lo interrompono e gli unitari lo difendono, Serrati continua: «Lasciate che mi si interrompa. Non rispondete. Non voglio applausi. Preferisco il sibilo delle vipere che tante volte mi sono sentito intorno»30. La votazione sarebbe stata la seguente: comunisti unitari 98.028 voti, riformisti 14.695, comunisti puri 58.783. E i comunisti si sarebbero trasferiti al Teatro San Marco per costituire il Partito Comunista d’Italia, Sezione della Terza Internazionale. Ciò che del Congresso di Livorno sarebbe restato nell’identità dei comunisti era l’idea e l’esperienza della rottura, della scissione, cioè del loro distacco da un mondo diverso. Per quanto il lessico del comunismo attribuisca un grande valore all’unità, il concetto fondante dell’identità comunista è quello della divisione, della rottura. Ed è di qui che probabilmente deriva quell’idea costante, sotterranea, profonda – spesso un indicibile fastidio – della differenza, anzi della contrapposizione al PSI. Di questa contrapposizione sarebbero rimasti corposi detriti che, di lì a pochi anni, avrebbero fatto sentire il loro peso nel giudizio sul “socialfascismo”. Nell’immaginario dei comunisti si fissa allora l’idea del PSI come d’un universo di uomini deboli, irresoluti, sentimentali, di riformisti pronti a collaborare con la borghesia. Anche coloro che – come Serrati – sono più vicini al cuore del proletariato, sembrano ai comunisti del ’21 del tutto incapaci di capire che ormai il movimento socialista è irrimediabilmente spaccato. Ma la scissione non ebbe soltanto un profilo simbolico, essa ne ebbe anche uno politico. E, infatti, nell’idea della rottura completa ed assoluta col passato del movimento operaio è compresa la critica al PSI come soggetto politico. Le critiche che i comunisti italiani rivolgono ai socialisti italiani sono in generale le stesse che i comunisti rivolgono ai socialdemocratici in tutto il mondo, ma, almeno nelle osservazioni di Gramsci e dei suoi amici, esse convergono attorno ad alcuni punti. In primo luogo, la cultura socialista è dominata dall’improvvisazione, dall’approssimazione, dall’incapacità di maturare giudizi politici profondi ed ancorati a progetti di cambiamento altrettanto profondi: contro di essa si erge l’idea della politica come sforzo razionale e intensamente sentito. Da ciò deriva a sua volta l’idea che il partito socialista sia un soggetto estraneo alla razionalità dell’organizzazione e del centralismo, così tipici dei comunisti: esso è, nelle parole di Gramsci, «caos», «pulviscolo», «circo Barnum». Infine, proprio a causa della cultura politica povera e della struttura organizzativa debole, hanno particolare fortuna nel PSI singole personalità che non saranno mai dei veri «dirigenti», come Ferri, Mussolini, Morgari ed altri che appaiono come meteore e scompaiono subito: il «capo» – come Gramsci e Togliatti subito chiameranno Lenin – era una figura estranea sia all’organizzazione che alla tradizione socialista31. Quello che è certo, è che una simile frattura avveniva anche sulla base di alcune idee che provenivano dal leninismo. Su questa linea – che presupponeva oltre all’attacco al PSI anche la prospettiva della formazione d’un partito in grado di contrastare le adesioni al PSI e quindi, almeno tenden-
Il direttore dell’“Avanti!”, “La Stampa”, 20 gennaio 1921. Cfr. “Capo”, “L’Ordine Nuovo”, marzo 1924, s. III, I, n. 1 ora in Antonio Gramsci, La costruzione del Partito comunista, 1923-1926, Einaudi, Torino 1974, pp. 12-16. 30 31
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zialmente, largo e di massa – il PCI tuttavia si mosse con difficoltà. Bordiga sembrava applicare all’Italia un’accentuazione schematica e dottrinaria del modello di partito proposto da Lenin nel Che fare? del 1903: più che un partito d’avanguardia, un gruppo di “puri”, di militanti ideologicamente ferrati e a tutta prova. Il tema del partito, della sua organizzazione, del ruolo dei suoi dirigenti, del rapporto con i lavoratori, divenne uno dei temi centrali nella discussione interna del PCI. Ma quando il PCI dovette cominciare a “fare politica”, due problemi quasi insormontabili sembrarono minacciarne il futuro: la disciplina nell’Internazionale comunista e l’affermazione del fascismo. Nella battaglia che allora intrapresero, i comunisti italiani, certamente anche per le condizioni difficili imposte dall’avversario, considerarono la Terza Internazionale e il bolscevismo come pietre di paragone per la loro azione. Non si trattò semplicemente dell’adesione ad un’organizzazione politica, ma anche dell’acquisizione d’una serie di concetti e idee guida che per decenni avrebbero popolato il loro immaginario. Dittatura, violenza, guerra civile Accanto all’idea della “rottura”, un’altra idea guida della rivoluzione è quella della dittatura del proletariato. Ancora nel gennaio 1918, Gramsci aveva ripreso un tema che gli era caro, quello del carattere «non giacobino» della rivoluzione russa: Giacobinismo? Il giacobinismo è un fenomeno tutto borghese, di minoranze tali anche potenzialmente. Una minoranza che è sicura di divenire maggioranza assoluta, se non addirittura la totalità dei cittadini, non può essere giacobina, non può avere come programma la dittatura perpetua. Essa esercita provvisoriamente la dittatura per permettere alla maggioranza effettiva di organizzarsi, di rendersi cosciente delle intrinseche sue necessità, e di instaurare il suo ordine all’infuori di ogni apriorismo, secondo le leggi spontanee di questa necessità32.
In termini analoghi, Togliatti si sofferma più volte sul tema dello “Stato”. Ecco, riassunto in poche parole, il senso della differenza fra la tradizione socialista e il comunismo: Per il rivoluzionario quarantottesco, per il blanquista, anche, in un certo senso, per il socialista “Seconda Internazionale” è un problema di propaganda orale, di proselitismo di partito. Per il marxista, per il comunista, cioè per il socialista che è sulle direttive della Terza Internazionale è un problema di trasformazione dell’organismo sociale, cioè il problema di creare un sistema organico nel quale gli uomini siano portati a entrare in modo spontaneo, per la evoluzione stessa che vengono subendo i rapporti sociali dietro l’impulso delle forze che reggono tutto l’organismo della società33.
Prima della formazione del PCI, come si vede, vi era una sottolineatura di temi vicini a quelli dell’egemonia piuttosto che del tema della dittatura. Le cose cambiano quando la
Antonio Gramsci, Note sulla rivoluzione russa, 29 aprile 1917, ora in Id., La città futura 191718, a cura di Sergio Caprioglio, Einaudi, Torino 1982, pp. 138-142. 33 Palmiro Togliatti, La costituzione dei Soviet in Italia. Dal progetto Bombacci all’elezione dei Consigli di fabbrica, “L’Ordine Nuovo”, 14 febbraio e 13 marzo 1920, ora in Id., Opere. Vol. 1. 19171926, a cura di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 141-142. 32
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lingua e l’autorità di Lenin divengono parte del senso comune comunista: la dittatura del proletariato diviene un’espressione che esalta il paese dei soviet. Ma alla fine la tradizione, attribuendo un valore positivo al termine “proletariato”, ha finito col trasfigurare il significato del concetto di “dittatura”. Kautsky lo aveva sottolineato. Il problema non era soltanto teorico, era pratico. Lenin e i bolscevichi avevano voluto instaurare in Russia la dittatura del proletariato. Ciò aveva significato sospensione del diritto, legittimazione delle esecuzioni di massa dei nemici della rivoluzione senza processo, instaurazione di tribunali rivoluzionari, irresponsabilità dell’esecutivo per la mancanza di un vero potere legislativo, creazione della polizia segreta e arbitrio nell’uso della violenza nella repressione. Nella guerra civile e nella dittatura del proletariato la libertà e la democrazia non erano soltanto sconfitte, esse erano calpestate e derise. Esse erano solo squallidi attributi del potere borghese. Con la rivoluzione d’Ottobre, Lenin, il bolscevismo, entravano a far parte della cultura politica italiana una serie di concetti, di punti di vista, di valori che hanno rischiato di divenire senso comune in una visione della storia d’Italia a lungo dominata dalla narrazione comunista. Il tema della violenza in senso lato, anzi dell’uso consapevole della violenza per il raggiungimento di determinati fini politici, era uno di questi34. Come abbiamo visto, la tradizione socialista era ancorata all’idea che i cambiamenti necessari per la realizzazione d’una società egualitaria sarebbero avvenuti lentamente e pacificamente. Di essa, l’idea della forza dei numeri era un punto centrale: gli elettori socialisti, gli operai consapevoli, i socialisti sarebbero aumentati fino a divenire maggioranza. Allora, vinte politicamente e legalmente le forze del passato, un’economia prospera e una società sviluppata avrebbero richiesto solo la direzione politica dei processi di socializzazione. La rivendicazione occasionale e spavalda della necessità della violenza che aveva accompagnato le origini quarantottesche del socialismo, era stata nella sostanza negata dalla formazione del movimento socialista in opposizione alla tradizione anarchica. La mentalità socialista della Seconda Internazionale tendeva a rifuggire dalla dimensione della violenza35. Sin dal 1915 aveva avuto, invece, una notevole diffusione nel bolscevismo la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. Lenin ne aveva scritto in modo ossessivo, e alla fine aveva vinto. La parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile è giunta fino a noi indistintamente con tutti gli altri suoni e parole d’ordine del movimento comunista: “lotta di classe”, “classe contro classe”, “fronte unico”, “rivoluzione permanente”, in un universo linguistico che rischia di sottovalutare il vero significato dell’espressione. In particolare, nell’opposizione guerra imperialista/guerra civile, il peso negativo attribuito al primo elemento fa risaltare il secondo fino ad attribuirgli un significato positivo. In realtà, l’idea della trasformazione della guerra Cfr. Communism and Political Violence, numero speciale di “Twentieth Century Communism: a Journal of International History”, n. 2 2010, in particolare l’Introduzione di Matthew Worley, pp. 1-7. 35 Cfr. Sylvain Boulouque, The communist movement and violence in France: from the First World War to the Cold War, in Communism and Political Violence, cit., pp. 43 sg., il quale osserva: «Between the turning point of the 1890s and the First World War, the forms of political and social organisation changed and outbreaks of violence became less spontaneous in character. The majority of social actors, moreover, were becoming integrated into democratic life and renounced the use of violence». Si veda inoltre Marco Albeltaro, Italian communism and violence, 1921-48, ibid., pp. 92-113. 34
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imperialista in guerra civile, trasformò davvero la guerra in guerra civile. Nel clima imbarbarito di allora, ciò significò in primo luogo violenze inaudite e, soprattutto, una violenza indiscriminata, orientata soltanto dalle paure e dagli odii della contrapposizione politica. Mentre i socialisti dell’Occidente sognavano di fare “come in Russia”, i loro compagni russi scatenavano verso gli avversari – i generali “bianchi”, i borghesi, i controrivoluzionari – tutta la violenza di cui disponevano. Impiccagioni, esecuzioni pubbliche, uccisioni sembravano – questa è la guerra civile – i soli mezzi per garantire la vittoria d’una causa sentita come giusta. Ettore Cinnella ne ha scritto diffusamente, richiamando più volte il contorno violento e criminale, apocalittico, della guerra civile: le «selvagge vendette di classe», la «cupa e rabbiosa rivoluzione contadina»36. Il tema della violenza e quello della guerra civile facevano parte della tradizione marxista. La frase di Marx, sulla violenza come agente di cambiamento e come «potenza economica» si accompagnava alle riflessioni di Engels sulla violenza nelle rivoluzioni e nelle lotte sociali del XIX secolo. Ma, bisogna aggiungere, dopo le considerazioni di Marx e di Engels sulla guerra civile in Francia che avevano lasciato una corposa memoria nel movimento operaio, la drammatizzazione della lotta di classe come lotta violenta, sanguinosa, estrema si era progressivamente moderata se non spenta nei partiti socialisti: prima per affermare la necessità della politica contro la violenza individuale degli anarchici, poi a favore dell’idea di un’avanzata potente e sicura verso il socialismo garantita da una certa razionalità della storia. Era stato Lenin, a partire dalla rivoluzione del 1905, a considerare la violenza come una parte essenziale della lotta di classe: il rumore dei fucili sembrava esaltarlo, i fiumi di sangue accompagnavano nelle sue pagine la guerra civile per la libertà, mentre la classe operaia cantava “Libertà o morte” in uno scenario di ferro e di fuoco37. D’altra parte, si deve ricordare che il socialismo italiano era particolarmente sensibile ai temi della non violenza. È vero, come ha scritto Claudie Weill, che la posizione socialdemocratica verso la violenza era caratterizzata da orientamenti sovente contraddittori: la fedeltà a una fraseologia rivoluzionaria, la tattica politica ancorata a una visione elettoralistica e infine l’opposizione netta a ogni strategia rivoluzionaria; ma è altrettanto vero che la vocazione internazionalista del socialismo italiano lo aveva salvato da quello che Lenin chiamava «socialsciovinismo»38. Gli animi, le idee, gli atteggiamenti individuali, le dinamiche collettive, le ideologie spingono verso un crescendo di radicalizzazione e di violenza. Sentite che cosa scrive all’inizio del dicembre 1919 Antonio Gramsci, raffinato giornalista torinese, sull’“Ordine Nuovo” di Torino, una rivista appena fondata che inneggia ai Consigli di fabbrica, versione italiana dei soviet. Commentando gli scontri torinesi nei quali, fra l’altro, era stato assassinato un giovane boy-scout che aveva gridato “Viva l’Italia!”, Gramsci giustifica la violenza di classe e segue un ragionamento sul quale bisogna riflettere:
Vedi Ettore Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa 2012. Cfr. Vladimir I. Lenin, L’inizio della rivoluzione in Russia [gennaio-luglio 1905], in Id., Opere complete. Vol. 8, Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 83 sg. 38 Claudie Weill, Marxistes russes et social-démocratie allemande, 1898-1904, Maspero, Paris 1977, p. 164. 36 37
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Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente, come una razzia condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci […]. La piccola e media borghesia è infatti la barriera di umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, […] significa purificare l’ambiente sociale […]. È vero, la rivolta è fatta per gran parte di elementi imponderabili e la rivolta deve anche contare sul caso, sul gruppo di ragazzacci che vanno al di là dell’intenzione di tutti, sul teppista che due giorni dopo bisognerà forse fucilare perché si sarà dato al saccheggio e alla strage39.
Come in altri sistemi ideologici del Novecento, anche nella visione di Gramsci sembra che una parte di umanità – in questo caso la piccola borghesia, cioè persone in carne ed ossa, impiegati, bottegai, maestri… – possa e debba essere espulsa dal «campo sociale […] col ferro e col fuoco». Inutile ricordare che il ferro e il fuoco avevano un significato anche fuor di metafora e che per seguire il criterio di «purificare l’ambiente sociale» negli anni successivi sarebbero stati seguiti diversi, terribili paradigmi. Disciplina Un altro gruppo di idee che si trasferì dal mondo bolscevico a quello dei comunisti italiani corrisponde alla sottolineatura della necessità di subordinare gli interessi di ciascun movimento nazionale a quelli della rivoluzione mondiale. È l’idea tipicamente bolscevica del centralismo. Ad essa si accompagnano le convinzioni del rispetto della gerarchia e della disciplina. «Il congresso deve far nascere», dice il 14° punto del documento d’invito per il primo Congresso dell’Internazionale comunista, «in vista di un legame permanente e di una direzione metodica del movimento, un organo di lotta comune, centro dell’Internazionale comunista, che subordini gli interessi del movimento di ciascun paese agli interessi comuni della rivoluzione su scala internazionale»40. È un’idea molto forte, che non può essere trascurata anche perché costituisce nei tempi lunghi uno dei capisaldi della cultura politica del comunismo. Si tratta di un’idea tradizionalmente sottovalutata negli studi sul PCI, che le attribuiscono un posto quasi naturale nell’ideologia comunista e che non tengono conto né della legittimità delle alternative – come ad esempio autonomia, decentramento, dimensione razionale delle gerarchie, ecc.: concetti, cioè, attorno ai quali avevano ruotato e continuavano a ruotare allora soggetti politici di notevole rilievo – né del peso che il centralismo, non necessariamente democratico, ha esercitato nel profilo culturale del partito. In realtà, l’Internazionale fu sempre percepita come il partito unico della rivoluzione mondiale. Per riprendere un vocabolario largamente usato nella tradizione leninista e nel PCI, ci si doveva “inchinare”, “inginocchiare”, “annullare” di fronte alle decisioni del centro. Anche un uomo come Togliatti,
Gli avvenimenti del 2-3 dicembre, “L’Ordine Nuovo”, a. I, n. 29, 6-13 dicembre 1919, ora in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Einaudi, Torino 1975, p. 61. 40 Cfr. Lettera di invito per il I Congresso dell’Internazionale comunista, in Aldo Agosti, La Terza Internazionale. Storia documentaria. Vol. 1. Tomo I. 1919-1923, Prefazione di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 21. 39
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che negli ultimi anni della sua vita avrebbe cercato di diffondere un’immagine di sé come uomo dell’unità nella diversità, scriveva nel 1924: «Deve essere spietatamente combattuta, come liquidatrice dell’Internazionale, ogni tendenza ad attenuare la centralizzazione di essa nel nome dell’autonomia dei partiti aderenti»41. Eppure, nella fase costituente del bolscevismo, si erano presentate delle alternative e la discussione attorno ad esse segna un intero periodo di storia del movimento operaio europeo. Sul terreno della critica al “giacobinismo” dei bolscevichi, non solo fu sviluppata una intensa polemica all’interno della socialdemocrazia russa da parte dei menscevichi, ma anche nel socialismo internazionale furono espressi punti di vista diversi rispetto all’idea leninista di una specie di socialismo autoritario. Axelrod, scrivendo a Kautsky nel giugno 1904, così si sfogava: «la richiesta di “obbedienza” e di “subordinazione incondizionata” degenera nella pratica non già in “giacobinismo” o “blanquismo”, ma nella più banale e miserabile caricatura del sistema autocratico e burocratico del nostro Ministero dell’Interno»42. La discussione del 1903-1904 era nota a tutti i socialdemocratici e a tutti i comunisti. Questi ultimi intendevano la storia del bolscevismo come la storia della scienza della rivoluzione, il destino di un soggetto politico che, fin dalle sue prime azioni, si era liberato dai miti del passato, dalle scorie “democratiche” depositate dalla tradizione socialista, e che, proprio dalla sua capacità di rompere con l’“economismo”, col “populismo”, dava prova della propria vitalità. La storia del bolscevismo, avrebbe ripetutamente osservato Stalin, era una storia di fratture, di separazioni, di discussioni che avevano costantemente condotto alla scoperta e allo smascheramento dei nemici e con ciò al raggiungimento della purezza ideologica. Quest’ultima faceva sì che la disciplina e l’obbedienza fossero vissute come elementi essenziali nell’esperienza del comunismo. Il neonato PCI sente la contrapposizione con un mondo negativo definito da un’altra formula del linguaggio leninista: l’opportunismo. Al di là delle accezioni dottrinarie allora attribuite a questa parola – che è in realtà una parola legata al rapido cambiare degli orientamenti propagandistici delle formazioni politiche e dunque ha un significato assai fluido – l’opportunismo è nella fase costituente del PCI l’attributo dei vecchi partiti socialisti e si colloca agli antipodi degli attributi dei nuovi partiti comunisti. Fra il 1919 e il 1921 si erano definiti alcuni dei connotati fondamentali della cultura della Terza Internazionale che avrebbero influenzato largamente la formazione dei partiti comunisti e la loro identità: erano, in generale, i temi legati alla distinzione dei comunisti dai loro opposti. Vi erano tuttavia altri aspetti dell’identità comunista che avevano meno bisogno della presenza del loro opposto per essere definiti. Uno di questi è l’insieme dei problemi legato ai concetti di clandestinità, di segretezza, di illegalità, che proveniva al PCI dall’esperienza del bolscevismo43. L’idea stessa di un “centro estero”, proveniva dall’esem-
41 L’Internazionale come partito unico mondiale, “Lo Stato Operaio”, 15 maggio 1924, citato in Giuseppe Berti, I primi dieci anni di vita del PCI. Documenti inediti dell’archivio Angelo Tasca, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 89-90. 42 La lettera è citata in Tamara Kondratieva, Bolcheviks et Jacobins. Itinéraire des analogies, Payot, Paris 1989, p. 66. Più in generale, si veda l’ottima presentazione di Vittorio Strada a Vladimir Ilič Lenin, Che fare? Problemi scottanti del nostro movimento, Einaudi, Torino 1971, passim. 43 Se ne veda un’intelligente interpretazione in José Pacheco Pereira, A sombra. Estudo sobre a clandestinidade comunista, Gradiva, Lisboa 1993.
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pio dei bolscevichi, mentre i collegamenti con l’interno del paese, i rapporti con gli altri gruppi nell’emigrazione, la vita quotidiana fra documenti falsi, spie e agenti provocatori erano tutti aspetti di un modo di vivere la politica assai lontano dalla dimensione della conquista dello spazio pubblico nelle manifestazioni per il Primo Maggio o per il 7 novembre dei grandi partiti di massa francese e tedesco. La drammatizzazione della clandestinità che era stata propria del movimento rivoluzionario russo, e che era in parte passata in alcune cadenze del leninismo, si trasferiva nel PCI seguendo una via che sembrava del tutto naturale. Dalla Francia della fine del XVIII secolo alla Russia dei bolscevichi, l’idea e la pratica della cospirazione richiedevano una dedizione solenne e comportamenti quasi mistici. Il marxismo stesso non mancò di avere, su questo problema, delle complicate variazioni, dalla critica al blanquismo all’elogio dello “spirito rivoluzionario russo” da parte di Lenin. In ogni caso, la pratica e la teoria della clandestinità divennero due dei connotati fondamentali del bolscevismo fino alla rivoluzione d’Ottobre. Poi, la fondazione dell’Internazionale comunista cambiò la storia della clandestinità. È attraverso la Terza Internazionale che l’esperienza organizzativa clandestina dei bolscevichi oltrepassa le frontiere russe e conosce nuovi sviluppi sia tecnici che teorici. La questione della clandestinità e delle pratiche legate al funzionamento di partiti politici ai margini della legalità – una situazione di emergenza nella lotta politica – rinvia, in generale, al problema del regime interno dei partiti comunisti. In questo senso, uno dei problemi essenziali è quello che potremo chiamare “della fonte del diritto”. Cerchiamo di toccarne alcuni aspetti. Il primo dei ventuno punti previsti come condizioni di adesione alla Terza Internazionale diceva che «la propaganda e l’agitazione debbono avere un’impronta effettivamente comunista»; e ancora che «gli organi di stampa del partito debbono essere diretti da comunisti di provata fede», mentre al punto successivo si sosteneva che si dovevano espellere «gli elementi riformisti e centristi, sostituendoli con comunisti fidati». Più in generale, le formule dei documenti programmatici e le scarne norme di comportamento proposte dall’Internazionale contengono una notevole quantità di espressioni con un forte contenuto valutativo – ciò che è nell’interesse del movimento, ciò che va nella direzione della rivoluzione, ciò che è bene e ciò che è male, ecc. Ebbene, chi formula i corrispondenti giudizi di valore? Chi decide chi sia effettivamente comunista? Chi è in grado di dire chi sia di provata fede? Chi definisce fidati alcuni comunisti rispetto ad altri non fidati, non effettivi, non provati? Come si evince dalla lettura del punto 12, questa facoltà è attribuita al partito, anzi, addirittura, alla Direzione del partito. Con la motivazione della durezza delle condizioni oggettive, la fonte di ogni legalità è individuata nella leadership, come in una vera piramide rovesciata: «I partiti appartenenti all’Internazionale comunista» dice il punto 12, debbono essere strutturati in base al principio del centralismo democratico. Nella fase attuale di guerra civile acutizzata, il partito comunista sarà in grado di compiere il proprio dovere soltanto se sarà organizzato il più possibile centralisticamente, se in esso dominerà una disciplina ferrea e se la direzione del partito, sostenuta dalla fiducia di tutti i membri, godrà di tutto il potere, di tutta l’autorità e delle più ampie facoltà44.
Tesi sulle condizioni di ammissione all’Internazionale comunista, in Aldo Agosti, La Terza Internazionale… cit., Vol. 1. Tomo I, p. 289. 44
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Come si vede, l’individuazione della fonte dell’autorità e la sottolineatura del centralismo conducono al cuore di un’altra idea costitutiva della cultura comunista, che è quella della disciplina. Anche di essa deve essere messa in evidenza l’importanza, ed anche in questo caso non sarà inutile dire che essa è un tratto proprio del comunismo e che erano esistite, ed esistevano, alternative; ad esempio, in tutta la tradizione socialista – in cui restano ricche tracce di “libero pensiero” e di comportamenti anticonvenzionali – una simile sottolineatura è del tutto assente, mentre è presente il suo opposto: l’idea dell’indipendenza e dell’“autonomia”. Si trattava, in larga misura, dell’assunzione nei fluidi del PCI dell’eredità leninista. Attraverso un percorso complesso e un processo insieme drammatico e contraddittorio, le idee dominanti riguardanti il partito, la sua organizzazione, la funzione della leadership – partite dall’Occidente, dal cuore della socialdemocrazia tedesca ed emigrate in Oriente, nelle esperienze della socialdemocrazia russa – erano state profondamente trasformate da Lenin nella fase di costruzione del bolscevismo. Esso si era sviluppato nello scenario politico della Russia zarista, uno scenario di arretratezza e di rivoluzionari senza speranza, di condannati politici, di attentati e d’esecuzioni capitali. Aveva rivendicato il suo carattere di eccezionalità e aveva avuto successo contro le previsioni – e le speranze – che dominavano il movimento operaio. Ma, dopo la vittoria della rivoluzione, le condizioni di eccezionalità che avevano motivato la scelta del centralismo, quella dell’obbedienza cieca e quella dell’autorità indiscutibile del gruppo dirigente avevano finito col divenire la condizione normale di esistenza del partito. Anzi, in tutto l’Occidente si finì col pensare che quel tratto di eccezionalità fosse il segreto della vittoria, e che solo dei rivoluzionari in grado di accettare tutto il fardello della lotta clandestina – compreso il dogmatismo, il settarismo, il gusto della gerarchia, la sottomissione quasi religiosa all’autorità – sarebbero stati capaci di guidare la classe operaia verso la vittoria, seguendo le idee dell’Internazionale e i principii del leninismo. I comunisti italiani non si sottrassero a questo destino e costruirono la loro identità nell’universo dell’Internazionale. L’universo dei simboli e la figura del “capo” Accanto ai temi dell’ideologia e dell’identità politica, i comunisti italiani, anche grazie alla costante presenza a Mosca dei loro rappresentanti, assorbirono i simboli che provenivano dal nuovo Stato comunista. La complessa opera di propaganda del bolscevismo si muove lungo un percorso dominato dalla chiara volontà – fin dall’Ottobre – di accelerare e intensificare le dinamiche della tradizione comunicativa propria delle socialdemocrazie europee. Essa propone la sistemazione in una nuova cornice del patrimonio iconografico del socialismo e l’affermazione d’un sistema di simboli che sarebbe stato presto dominato dall’attivismo stalinista. Si trattava di un’iconografia che, pur avendo le sue radici nella tradizione del movimento operaio e socialista fra ’800 e ’900, aveva mostrato fino dagli anni immediatamente successivi alla rivoluzione d’Ottobre delle evidenti novità. Erano delle novità di stile e di gusto, influenzate dalla rivoluzione della grafica del primo dopoguerra, ma erano anche novità nei contenuti e nella sostanza del messaggio. La falce e il martello da una parte e il pugno chiuso dall’altra, simboli abbastanza antichi – insieme a molti altri – di identità operaie e
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socialiste, si erano progressivamente caricati di significati nuovi con la rivoluzione d’Ottobre e con la nascita ed il rafforzamento dell’Internazionale comunista. Le novità introdotte dalla cultura del comunismo consistevano sostanzialmente in tre punti: il cambiamento di valore dei simboli base, l’introduzione dell’iconografia del capo e la standardizzazione e l’omologazione del complesso delle immagini. La falce e il martello incrociati, che tradizionalmente simboleggiavano l’alleanza di operai e contadini, avevano a lungo convissuto con una ricca serie di altri simboli: simboli del lavoro come le tenaglie o l’aratro, simboli di unione come i fasci o le frecce legate assieme, e molti altri. Anche il pugno chiuso – che rinviava contemporaneamente all’unità e alla lotta – non era nuovo, ma anch’esso si collocava, prima del ’17, in un sistema simbolico che prevedeva una diversa attribuzione di significati. Alla mano, ad esempio, era attribuito piuttosto un significato d’impegno e di solidarietà che non di lotta: erano le mani che si stringevano, ad essere al centro della simbologia del movimento operaio europeo. Ogni paese in Europa ne porta le tracce. La mano e le mani – scrive uno studioso del movimento operaio austriaco – come anche la stretta di mano, svolgono un ruolo centrale nei gesti di tutte le culture. La stretta di mano può significare l’impegno nel simbolismo del diritto e nella promessa matrimoniale oppure la speranza di rivedersi dopo la morte. Tutti questi simboli sono poi strettamente uniti al valore della concordia. Per il movimento operaio l’immagine delle mani che si stringono significa solidarietà, fratellanza45. Nel movimento comunista la visione del conflitto sostituisce quella dell’unione: gli anni sanguinosi del primo dopoguerra esaltano il significato della violenza contenuto nel pugno, privilegiano le storie di Spartaco rispetto ai miti di Prometeo, mentre la falce e il martello, oltre che unire idealmente operai e contadini, sono anche, rispettivamente, la falce che taglia e il martello che schiaccia. Nonostante la sua grafica parca d’illustrazioni, “l’Unità” di Gramsci, nel 1924-1926, paga un notevole tributo all’iconografia sovietica, sia nelle vignette di Red che nei bozzetti di Giandante46. Di questo processo di sostituzione e integrazione, che corregge e ristruttura l’iconografia del movimento operaio, il nuovo, straordinario ruolo assunto dall’immagine del capo è forse il capitolo più significativo. Le immagini dei capi erano conosciute e celebrate nel movimento operaio assai prima della nascita del comunismo. Le medagliette ovali con l’immagine di Lassalle negli anni ’60 e ’70, i ritratti di Marx ed Engels, il bel profilo di Bebel – per parlare solo della Germania del XIX secolo – rinviavano a una ricca galleria d’icone che rappresentavano di volta in volta gli “apostoli”, i “profeti”, i “padri fondatori” del socialismo, le figure amate di capi che godevano di grande popolarità. Ma, con il comunismo nato dalla rivoluzione del 1917, la figura del capo diviene un vero e proprio oggetto di culto e la sua immagine, il suo ritratto, la sua fotografia non sono solo quelli d’un dirigente che si vuole sia conosciuto, sono anche icone che rinviano alla sacralità del potere.
Cfr. Josef Seiter, Vom Arbeiterwappen zur Sternenkrone Europas, in Österreichs politische Symbole. Historisch, ästhetisch und ideologiekritisch beleuchtet, a cura di Norbert Leser e Manfred Wagner, Böhlau Verlag, Wien-Köln-Weimar 1994, p. 130. 46 Si veda, in particolare, il numero del 7 novembre 1925 dedicato all’anniversario della rivoluzione d’Ottobre. 45
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La creazione del culto di Lenin, che ha nelle immagini uno strumento essenziale, è il primo passo di questo processo. Esso si svolge durante la sua vita e nasce in primo luogo dall’omaggio al suo “genio” – il genio d’un vincitore – da parte dell’organizzazione di partito e degli agitatori comunisti. Si trattò d’un intreccio fra decisioni politiche e necessità propagandistiche che richiedevano «la creazione di simboli ed immagini cariche di drammaticità per legittimare il potere bolscevico»47. Secondo Lunačarskij, già nel 1918 Lenin aveva proposto un piano per creare enormi statue di grandi figure di rivoluzionari, ma solo l’anno dopo un busto di Lenin era stato scolpito da Georgij Alekseev e le sue copie erano state collocate in ben 29 città, fra il 1919 e il 192048. Il seguito è abbastanza noto: specialmente dopo l’attentato della Kaplan, Lenin viene sempre più descritto dalla stampa di partito con una terminologia religiosa e le immagini del vozd’ (capo) finiscono con l’assecondare un percorso verso l’immortalità49, che sarà concluso con la costruzione del grande mausoleo. L’osservazione dovrebbe essere forse estesa anche ad altri contesti, perché le tradizioni iconografiche presentano spesso un accentuato carattere di continuità; progressivamente, tuttavia, al linguaggio simbolico dell’allegoria si accompagna un linguaggio più diretto, più strettamente legato alla propaganda del partito, al dover fare immediato, agli insegnamenti del capo. Presto ridotto nell’illegalità, il PCI produsse solo in parte la versione italiana della propaganda sovietica, ma i ritratti dei capi, l’iconografia della falce e del martello, il patrimonio iconografico prodotto nella Russia dei soviet sarebbero rimasti come parte integrante del suo patrimonio genetico. Si ricordi il modo col quale Gramsci commentò la morte di Lenin con il citato articolo Capo che, nei suoi riferimenti a Mussolini, sembra preconizzare il culto di Lenin. E si pensi alla straordinaria fortuna del termine nel linguaggio del PCI. Anche Gramsci, nelle parole di Togliatti, sarebbe diventato un “capo”50. Nascita del PCI, morte del PSI? Temi, suggestioni, idee nate e cresciute fra le origini del bolscevismo e gli esiti della rivoluzione d’Ottobre si diffusero in tutto il mondo grazie al ruolo svolto dall’Internazionale comunista. Se ne possono seguire i flussi dall’India al Brasile, dalla Germania al Canada. Un’intera stagione di storia del comunismo internazionale prende addirittura il nome di “bolscevizzazione”. Ma occorre sottolineare il fatto, spesso dimenticato, che si svolsero allora due differenti processi che ebbero come protagonisti – secondo l’equazione ricordata – il bolscevismo, la rivoluzione d’Ottobre e la Terza Internazionale: la formazione dei partiti comunisti e la distruzione dei partiti socialisti. Nonostante il fatto che si trattasse d’un unico ragionamento strategico e nonostante le debolezze manifestate dai partiti so-
47 Nina Tumarkin, Lenin lives! The Lenin Cult in Soviet Russia, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1983, p. 64. 48 Victoria E. Bonnell, Iconography of Power. Soviet Political Posters under Lenin and Stalin, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1999, pp. 137-141. 49 François Xavier Coquin, L’image de Lénine dans l’iconographie révolutionnaire et post révolutionnaire, “Annales. Histoire, Sciences Sociales”, n. 2, mars-avril 1989, pp. 223-249. 50 Cfr. Palmiro Togliatti, Antonio Gramsci, capo della classe operaia italiana, in Id., Opere. Vol. 4. Tomo I. 1935-1944, a cura di Franco Andreucci e Paolo Spriano, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 199.
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cialisti, nulla toglie alla realtà che i due obbiettivi vennero perseguiti con tempi e modalità distinti e precisi per oltre un decennio, dall’inizio degli anni ’20 al periodo del “socialfascismo” e che l’Internazionale comunista sembrò, almeno fino al 1933, dedicare maggiore accanimento alla lotta contro il socialismo e la socialdemocrazia che non a quella contro il fascismo. La sottolineatura dell’uno o dell’altro punto di vista ha di fatto prodotto giudizi storici spesso monchi o parziali. Spesso ottimi esempi di Rezeptionsgeschichte51, i lavori sull’influenza della rivoluzione sull’Italia dei vent’anni fra il 1957 e il 1977 sembrano condannati a dover riconoscere il primato del successo leninista e terzinternazionalista sui resti della tradizione socialista. Centro valutativo restava il “tradimento” dell’inizio della Grande Guerra, il “fallimento” dell’Internazionale socialista, il “rinnegamento” del marxismo e scarsa attenzione veniva prestata alla resistenza socialista all’autoritarismo, alla violenza, alla dittatura. Anche i lavori più seri e più distanti dalle polemiche storiografiche legate alla narrazione comunista – quelli del König e del Caretti – non rifuggono da una visione che, alla fine, riconosce la necessità della scissione di Livorno52 e la “debolezza” del PSI53. In realtà, gli esiti della rivoluzione d’Ottobre non favorirono soltanto la nascita del PCI; essi misero in moto una serie d’atti volti a sollecitare, nel tempo, le crisi del Partito Socialista Italiano. Qui non si tratta di riscrivere la storia, ma di sottolineare la complessità della sua narrazione.
Vedi, ad esempio, il vecchissimo ma dignitoso Gastone Manacorda, L’eco italiana della prima rivoluzione russa, originariamente apparso in “Rinascita”, nell’agosto 1955 e poi ripubblicato in Id., Rivoluzione borghese e socialismo. Studi e saggi, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 192-228. 52 Helmut König, Lenin e il socialismo italiano… cit., p. 206. 53 Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano… cit., p. 273. 51
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Tra “guerra civile europea” e “crisi eurasiatica”: Benito Mussolini, la rivoluzione russa e il bolscevismo
A un secolo di distanza, a nessuno ormai sfugge il valore di cesura di quella “crisi mondiale” che attraverso la guerra scoppiata nel 1914 e la rivoluzione cominciata nel 1917 inaugurò il Novecento1. Resta invece ancora aperto il dibattito intorno alle sue radici e alle sue forze motrici, alle sue conseguenze e alle sue implicazioni di medio e lungo termine. Non può però non sorprendere che la profonda trasformazione storiografica che negli ultimi decenni ha completamente ridefinito le coordinate interpretative della Grande Guerra e della Rivoluzione russa – e delle loro lunghe e persistenti eredità – in una visione più complessiva ed integrata della storia europea, abbia solo sfiorato il campo di studi del fascismo. Infatti, questi tendono tuttora ad eludere i conti con la svolta europea e globale del 19171923, la quale, legando i nodi della guerra a quelli del dopoguerra e investendo soprattutto gli spazi imperiali e post-imperiali dell’Europa centrale e orientale, continuò a dispiegare i suoi effetti, con intensità e in forme variabili, nei decenni successivi2. Il dibattito sul fascismo italiano e sulla sua possibilità di comprensione all’interno del quadro europeo è stato profondamente – anche se indirettamente – condizionato dall’Historikerstreit che lacerò la comunità degli storici tedeschi tra il 1986 e il 1988, a partire dalle discusse – e più che discutibili – posizioni di Ernst Nolte3. Lo storico conservatore tedesco si era essenzialmente focalizzato sui rapporti tra nazionalsocialismo e bolscevismo, intesi come i principali attori della «guerra civile europea» combattuta tra 1917 e 1945. In un gioco di connessioni causali del tutto arbitrario, Hitler si presentava come una reazione a Lenin, Auschwitz come una «risposta per eccesso» alla Kolyma. Contro questo schema interpretativo, in cui le intenzioni della comprensione finivano per sovrapporsi, quasi per identificarsi, con le ragioni della giustificazione, non mancò una veemente reazione da parte degli altri storici – tedeschi, ma non solo – che qui non è possibile seguire nel dettaglio.
1 Da questo punto di vista, Elie Halévy, Perché scoppiò la prima guerra mondiale, con un saggio di Marco Bresciani, La Porta Editore, Pisa 2014, offre tuttora la chiave di lettura più lucida e stimolante. 2 Cfr. John Horne-Robert Gerwarth (a cura di), Guerra in pace: violenza paramilitare in Europa dopo la grande guerra, B. Mondadori, Milano 2013. 3 Vedi Ernst Nolte, Nazionalsocialismo e bolscevismo: la guerra civile europea, 1914-1945, con un saggio di Gian Enrico Rusconi, Sansoni, Firenze 1988.
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In ogni caso, l’influenza diretta o indiretta di quel dibattito è stata pervasiva e ha costituito un potente deterrente verso ogni ulteriore, più serio e critico tentativo di contestualizzazione europea e globale delle origini del fascismo italiano. Certo, è ormai finito il tempo in cui il fascismo e il bolscevismo – o il comunismo sovietico – Lenin e Mussolini, erano posti sotto il segno esclusivo d’un reciproco e irriducibile antagonismo politico e ideologico. Tuttavia i complessi rapporti tra le due «rivoluzioni», quella bolscevica e quella fascista, ancora attendono d’essere oggetto di un’analisi comparata4. Si tratta d’un tema che è stato per lungo tempo bandito, poi spesso evocato, ma mai affrontato fino in fondo. Del tutto elusa, invece, pare finora la necessità di comprendere la nascita e l’ascesa del fascismo all’interno di contesti più ampi di quello nazionale, che siano europei e globali. La ricerca storiografica intorno a Mussolini e al suo cruciale passaggio tra socialismo e fascismo è stata per lo più filtrata attraverso la dicotomia tra Sinistra e Destra, o quella tra rivoluzione e controrivoluzione – oppure «reazione»: tutte categorie incapaci di cogliere fino in fondo la sfuggente e ambigua novità del suo percorso5. Queste posizioni erano collegate ad un impianto interpretativo generale in cui si negava l’esistenza di un’ideologia e di una cultura fasciste, o in cui queste erano ridotte ad una dimensione puramente negativa: anti-liberale, anti-democratico, anti-socialista, anti-bolscevico. Fin dagli anni Sessanta, e con forza maggiore dagli anni Settanta, si fecero strada prospettive nuove, tese a indagare le radici culturali del nazismo e del fascismo, a ricostruirne le ideologie politiche e a ricercarne la «teoria» o il comun denominatore – il «fascismo generico». Tra gli altri, George L. Mosse, Fritz Stern, Eugen Weber, James Gregor, Zeev Sternhell, Emilio Gentile, Luisa Mangoni, Piergiorgio Zunino hanno contribuito ad aprire piste di ricerca inedite, animate dal comune intento di prendere sul serio il fascismo – e il nazismo6. Tuttavia, per reazione alle tendenze precedenti, si è proceduto in una direzione opposta, volta alla ricostruzione retrospettiva d’un sistema tutto sommato compiuto e coerente di pensiero che caratterizzò l’ideologia del fascismo – così distinta dalle pratiche e dai contesti in cui si era formata e dispiegata. Come hanno ben chiarito David Roberts e Jan-Werner Mueller, occorre compiere un ulteriore passaggio nel tentativo di recuperare i nessi dinamici e contingenti tra il pensiero e l’azione del fascismo, di analizzare le stratificazioni complesse della sua ideologia quali prodotti di contesti continuamente cangianti, di re-
Cfr. Emilio Gentile, E fu subito regime, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. IX-XII. In questa direzione si vedano le indicazioni di Giorgio Petracchi, Roma e/o Mosca? Il fascismo di fronte allo specchio, in Totalitarismo e totalitarismi, a cura di Vittorio Strada, Marsilio, Venezia 2003, pp. 3-36. 5 Si veda, ad esempio, Angelo d’Orsi, La rivoluzione antibolscevica. Fascismo, classi, ideologie, 1917-1922, Franco Angeli, Milano 1985, in cui l’anti-bolscevismo fascista è posto in relazione diretta alla natura classista del movimento e del regime di Mussolini: «sconfiggere l’ipotesi rivoluzionaria e battere la classe operaia» (p. 30). 6 Si vedano, almeno, Zeev Sternhell, Fascist Ideology, in Fascism. Reader’s Guide. Analyses, Interpretations, Bibliography, a cura di Walter Laqueur, University of California, Los Angeles 1976, pp. 315-376; Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Laterza, Bari 1975; George L. Mosse, Towards a General Theory of Fascism, in International Fascism: New Thoughts and Approaches, a cura di George L. Mosse, Sage, London 1979, pp. 1-45; Roger Griffin, The Nature of Fascism, Routledge, New York-London 1993. 4
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stituire alle concrete e dinamiche situazioni storiche la sua potente capacità d’attrazione ideologica dei «soggetti fascisti»7. Questo saggio intende analizzare le percezioni, le interpretazioni e le rappresentazioni di Mussolini e del primo fascismo intorno alle rivoluzioni russe e al regime bolscevico – e i loro usi politico-ideologici – in un arco di tempo concentrato tra il 1917 e il 1922. Infatti, nel breve giro di anni che separarono la caduta dello zarismo nell’Impero russo e la conquista del potere fascista, le posizioni di Mussolini su quanto accadeva nei territori dell’ex-Impero russo si accumularono e si stratificarono, senza un ordine necessariamente coerente e senza un senso particolarmente originale. Tuttavia non è tanto la coerenza, ancor meno l’originalità, il punto di vista dal quale capire questa sequenza di posizioni, quanto la loro capacità d’afferrare e condizionare di volta in volta aspetti della realtà funzionali ad un’azione politica di tipo nuovo. Due differenti registri – uno politico-propagandistico e uno critico-analitico – si alternavano, talvolta si sovrapponevano, negli scritti di Mussolini: di entrambi la ricostruzione storica deve tener conto. In un nodo pressoché inestricabile di pregiudizi radicati e intuizioni critiche, lo sforzo di comprensione tendeva a confondersi con la propaganda, l’opera d’informazione finiva per intrecciarsi con quella di mobilitazione. Un pur parziale e selettivo confronto con le esperienze russe e sovietiche del 1917-1922 – che qui è ricondotto alle due prospettive storiografiche della «guerra civile europea» e della «crisi eurasiatica»8 – offrì a Mussolini un fondamentale repertorio di materiali per contribuire a forgiare e legittimare il progetto politico e le pratiche violente del fascismo. Mussolini e il socialismo, tra Rivoluzione francese e Grande Guerra L’evoluzione di Mussolini dallo scoppio della guerra nell’estate del 1914 e il suo passaggio dalla «neutralità assoluta» alla «neutralità attiva e operante», nell’ottobre successivo, la conseguente espulsione dal Partito Socialista Italiano e la fondazione de “Il Popolo d’Italia”, sono eventi troppo noti perché si debbano ripercorrere analiticamente. Un grumo di socialismo e nazionalismo, di populismo e combattentismo si coagulò durante la campagna interventista di Mussolini e la sua partecipazione alla guerra di trincea. Proprio queste posizioni – che tendevano a identificare la guerra con la rivoluzione tanto attesa negli anni precedenti, quando era figura prominente del PSI – costituirono lo sfondo su cui si definirono i primi giudizi verso le notizie provenienti da Pietrogrado nel febbraio 19179. In consonanza con gli ambienti interventisti di “Sinistra”, egli espresse immediata simpatia per il moto insurrezionale russo, insieme alla preoccupazione che questo implicasse il ritiro del governo provvisorio dall’impegno bellico10. A favore del cosiddetto difensivismo rivoluzioCfr. David Roberts, The Totalitarian Experiment in Twentieth-Century Europe. Understanding the Poverty of Great Politics, Routledge, New York 2006, p. 44, ripreso e rielaborato da Jan-Werner Mueller, Enigma democrazia: le idee politiche nell’Europa del Novecento, Einaudi, Torino 2012, pp. 124-174. 8 Queste espressioni non furono utilizzate, a quanto mi risulta, da Mussolini: per i rimandi storiografici si veda infra, le note 35 e 50. 9 Si vedano i saggi inclusi in Mussolini socialista, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala, GLF Editori Laterza, Roma-Bari 2015. 10 Cfr., ad esempio, La vittoriosa rivoluzione russa contro i reazionari tedescofili, “Il Popolo d’Italia”, 16 marzo 1917 e La Russia nuova, nata dalla Rivoluzione, continuerà la guerra, ibid., 15 7
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nario, ossia della volontà di combinare la guerra contro il militarismo prussiano insieme al rinnovamento democratico dell’ormai ex-Impero zarista, si pronunciò il principale teorico del marxismo russo Georgij V. Plechanov in un’intervista concessa a Giuseppe De Falco, sindacalista rivoluzionario poi redattore del “Popolo d’Italia”11. Gli eventi russi acuirono il senso d’una svolta storica in corso con la Grande Guerra. Con il crollo dell’Impero zarista, che preludeva a quello degli Imperi tedesco e austro-ungarico, si era avviato infatti il processo di «liquidazione della vecchia Europa»: al tempo delle dinastie imperiali si sostituiva il tempo dei popoli, così descritto: «Quando la Rivoluzione impugna le armi e fa tuonare i cannoni, monarchi e cortigiani sentono che il loro dominio sta per finire»12. In questo passaggio significativo, il discorso di Mussolini sulla Rivoluzione russa si sovrapponeva alla sua visione della Rivoluzione francese. È infatti noto che, tra il 1789 e il 1917, tra i rivoluzionari francesi e quelli russi, tra i giacobini e i bolscevichi si stabilirono una rete di connessioni analogiche e simboliche, che modellarono non poche interpretazioni degli eventi russi, curvandone il giudizio in senso positivo o negativo. La concezione del 1789-1794 da parte di Mussolini, maturata fin dalla giovinezza sulla linea ascendente tra Gracco Babeuf e Filippo Buonarroti e sulla lezione della Congiura degli Eguali, era soprattutto debitrice verso la tradizione blanquista, filtrata dalla memoria della Comune parigina del 1870-1871. In questa versione socialisteggiante della grande révolution Mussolini, non senza oscillazioni, sembrava trascinare Robespierre dalla propria parte. Del retaggio rivoluzionario francese, dunque, condannò l’ansia «termidoriana» e «borghese» di ritorno all’ordine e richiamò le promesse di rinnovamento socialista. Tuttavia, dopo l’adesione all’interventismo e la sostituzione della classe con la nazione quale motore del progresso storico, Mussolini rinunciò ai rimandi più palesi a Blanqui, ancorandosi piuttosto alle letture del sindacalismo rivoluzionario e del repubblicanesimo italo-francese. In particolare, le figure repubblicane e socialiste, patriottiche e anti-militariste di Benoît Malon e di Jean Jaurès assunsero un nuovo rilievo nel suo discorso, che faceva ora della Comune più un episodio di difesa della nazione, che della lotta di classe. La scelta della guerra contro gli Imperi centrali rinsaldò il legame affettivo ed elettivo con la Francia da parte di tutto l’interventismo italiano. Se gli interventisti democratici recuperarono il valore del 1789 – la presa della Bastiglia – in chiave anti-tedesca, Mussolini privilegiò il richiamo al 1792 – la battaglia di Valmy – come esempio e precedente di guerra rivoluzionaria13. Nel percorso di Mussolini e nel suo rapporto con la tradizione rivoluzionaria, l’Ottobre bolscevico rappresentò indubbiamente un tornante significativo, anche se i suoi effetti mutevoli e contraddittori si manifestarono nel tempo. La minaccia del disfattismo rivoluzionario indusse un mutamento di segno nel giudizio sul rapporto tra la Rivoluzione aprile 1917. Più in generale, si veda Giovanna Procacci, Gli interventisti di sinistra, la rivoluzione di febbraio e la politica interna italiana nel 1917, in Id., Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamento popolari nella grande guerra, Bulzoni, Roma 1999, pp. 49-83. 11 Il dovere del proletariato russo dopo la rivoluzione liberatrice. Intervista a Giorgio Plekhanoff, “Il Popolo d’Italia”, 25 marzo 1917. 12 [Benito] Mussolini, Battisti, ibid., 12 luglio 1917. 13 Si veda ad esempio Noi, L’89 di Russia, ibid., 19 marzo 1917. Più in generale cfr. Antonino De Francesco, Un sonetto di Mussolini nel fascismo sociale, in Id., Mito e storiografia della “grande rivoluzione”, Guida, Napoli 2006, pp. 171-235; ma ora si veda anche Paola S. Salvatori, Mussolini e la storia. Dal socialismo al fascismo (1900-1922), Viella, Roma 2016, pp. 71-93.
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russa – ormai identificata con quella bolscevica – e la guerra in corso. Un mutamento che parve trovare conferma nella firma del trattato di Brest-Litovsk il 3 marzo 1918, quando i bolscevichi, dopo dispute laceranti, accettarono una pace del tutto svantaggiosa a favore della Germania. La rivoluzione del 1917 era stata prima un’affermazione della democrazia, poi un’affermazione del principio nazionale. Il crollo del sistema imperiale russo era avvenuto, fin dal marzo 1917, «per disfacimento interiore, più che per urto esteriore», ma la «democrazia russa sorta dalla guerra» aveva finito per «rivolgersi contro la guerra»14. Era convinzione di Mussolini che l’occasione rivoluzionaria – in senso «leninista» – fosse stata la «crisi nazionale» del 1917 che si era sviluppata tra l’insurrezione di Torino, il 2124 agosto, e la disfatta di Caporetto, il 24 ottobre. Questa, a sua volta, era «il riflesso della grande crisi» che aveva gettato nell’abisso l’Impero russo, ma aveva portato ad esiti ben diversi in Italia. Infatti, l’esperimento russo aveva «aperto gli occhi che si ostinavano a rimanere chiusi»15. Fino alla conclusione ufficiale del conflitto, nell’autunno 1918, il nucleo fondamentale del discorso di Mussolini fu definito dall’ostilità per il disfattismo di Lenin e del suo governo, che di fatto si traduceva in un vantaggio per gli Imperi centrali contro l’Intesa: il suo antibolscevismo in questa fase era assai vicino ad un antisocialismo che identificava il socialismo col pacifismo. In questo senso, alcuni degli argomenti di Mussolini erano consonanti con quelli della pubblicistica sindacalista rivoluzionaria e nazionalista, che trovò un testo di riferimento ne La disfatta del socialismo pubblicato da Agostino Lanzillo nel gennaio 1918. Al centro della sua riflessione stava la «poliforme interdipendenza fra la guerra e la sconfitta del socialismo». Da questo punto di vista, il «fenomeno leninista» appariva «non la causa, ma l’effetto della crisi russa», «la conseguenza estrema della guerra, che avrebbe avuto «ripercussioni lontane, oggi imprevedibili, ma certo gravissime per tutta l’Europa»16. Lanzillo era uno dei più assidui collaboratori di Mussolini sulle pagine de “Il Popolo d’Italia”, e non mancò d’offrire contributi importanti alla definizione e interpretazione delle «rivoluzioni del dopoguerra». Era sua ferma convinzione che l’Italia non dovesse trasformarsi nel «teatro sperimentale delle gesta barbariche del comunismo alla russa»17. Tuttavia, in una prima fase, Mussolini continuò a distinguere con nettezza tra bolscevismo e socialismo, o meglio tra le varie specie di socialismo. In un testo scritto nell’ultimo anno di guerra, in occasione dell’anniversario della presa della Bastiglia, Mussolini aveva dichiarato tutta la sua ammirazione per il socialismo francese – «meno scientifico del tedesco, ma più umano» – che, grazie a Saint Simon, Proudhon e Sorel, aveva arricchito la «letteratura socialista mondiale». In questa chiave suggerì che il bolscevismo fosse il frutto dell’«intedescamento del socialismo», avvenuto dopo il 1870: «Il socialismo intede[Benito] Mussolini, Divagazioni, “Il Popolo d’Italia”, 31 dicembre 1917. Benito Mussolini, La vittoria fatale, discorso pronunciato al “Comunale” di Bologna, 24 maggio 1918, in Scritti e discorsi di Benito Mussolini. Vol. I. Dall’intervento al fascismo (15 novembre 1914-23 marzo 1919), Hoepli, Milano 1934, p. 318. 16 Agostino Lanzillo, La disfatta del socialismo: critica della guerra e del socialismo, Libreria della Voce, Firenze 1918, pp. 24, 225-226. Sull’importanza di questo documento del “radicalismo”, cfr. Paul Corner, Italia fascista: politica e opinione popolare sotto la dittatura, Carocci, Roma 2015, pp. 27-34. 17 Agostino Lanzillo, Quel che dovrebbe significare il congresso dei combattenti, “Il Popolo d’Italia”, 21 giugno 1919. 14 15
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schizzato marxistizzato offre al mondo lo spettacolo sommamente grottesco e parodistico del Soviet bolscevico»18. Tutt’altro che incline a mettere in relazione – in chiave legittimante – il 1793 con l’Ottobre, o a individuare in Robespierre la prefigurazione di Lenin, Mussolini ascriveva il bolscevismo all’orbita d’influenza del marxismo tedesco. Ciononostante, la sua critica del regime bolscevico si riaccostava agli argomenti antigiacobini dei socialisti francesi, i quali vedevano nel socialismo «un fatto economico» e non politico. Sulla stessa lunghezza d’onda, Mussolini contestava aspramente il socialismo sovietico che non aveva condotto all’«amministrazione delle cose» e alla «trasformazione dei rapporti economici», ma a «un governo di uomini, di pochi uomini», alla «dittatura di una fazione di politicanti» che avevano tentato d’attuare il socialismo «a colpi di leggi e di mitragliatrici». Le esperienze recenti in Ungheria come in Russia insegnavano che «l’arbitrio, le ideologie o il terrore dei politicanti» non affrettavano in nessun modo l’avvento d’un nuovo ordine economico e sociale19. Mussolini, che com’è noto fondò i Fasci di Combattimento a Milano il 23 marzo 1919, mirò a distinguersi nel variegato e magmatico mondo del combattentismo e del nazionalismo radicale, e cercò – anche attraverso le loro posizioni sulla Rivoluzione russa e sul modello bolscevico – uno spazio del tutto autonomo e irriducibile alle forze controrivoluzionarie20. In quella occasione, Mussolini enunciò il famoso programma “sansepolcrista”, che non esitava a confrontarsi con l’esperienza rivoluzionaria russa: Noi non abbiamo bisogno di metterci programmaticamente sul terreno della rivoluzione perché in senso storico ci siamo dal 1915. Non è necessario prospettare un programma troppo analitico, ma possiamo affermare che il bolscevismo non ci spaventerebbe se ci si dimostrasse che esso garantisce la grandezza di un popolo e che il suo regime sia migliore degli altri. È ormai dimostrato irrefutabilmente che il bolscevismo ha rovinato la vita economica della Russia […]. Non solo, ma il bolscevismo è un fenomeno tipicamente russo. Le nostre civiltà occidentali, a cominciare da quella tedesca, sono refrattarie. Noi dichiariamo guerra al socialismo, non perché socialista, ma perché è stato contrario alla nazione21.
Tra il 1919 e il 1920 Mussolini e “Il Popolo d’Italia” si richiamarono spesso alla pubblicistica socialista, critica del regime bolscevico, piegandola ad una doppia funzione: da un lato, era strumentale alla polemica contro la visione mitica della Grande Rivoluzione socialista d’Ottobre, coltivata dal PSI; dall’altra, era tesa a separare la classe operaia dalla lealtà al partito socialista per conquistarla al fascismo. Allora, infatti, l’“Avanti!” era impegnato in un’intensa campagna propagandistica a favore della Russia sovietica, che identificava con il campo della rivoluzione contro le forze dei Bianchi e dell’Intesa. Ad esempio, un articolo del marzo 1919 rivendicava come il regime bolscevico fosse «il punto di partenza e il punto di appoggio del socialismo che diventa[va] realtà», «il primo atto della rivoluzione universale»:
[Benito] Mussolini, Francia e Italia, ibid., 14 luglio 1918. [Benito] Mussolini, Crepuscolo, ibid., 18 ottobre 1919. 20 Si veda Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario: 1883-1920, Einaudi, Torino 1965. 21 La ripresa del nostro movimento. L’imponente “Adunata” di ieri a Milano, “Il Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919. 18 19
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Noi, che abbiamo piena fiducia nel trionfo finale del bolscevismo, vogliamo che i Governi dell’Intesa si ritraggano in disparte e lascino che l’esperimento comunista si compia. Perché siamo sicuri che l’esperimento riuscirà così bene, da servire da modello, salvo le inevitabili differenze contingenti di forma e di dettaglio, al proletariato del mondo intero. Tutto il mondo che lavora guarda oggi alla Russia con infinita simpatia e con trepida attesa. La luce, anche oggi, viene da Oriente!22
Nel corso del 1919 le pagine de “Il Popolo d’Italia” offrirono un ampio campionario di interviste e testimonianze dirette delle vicende rivoluzionarie russe, della guerra civile e del nascente regime bolscevico23. A più riprese, Mussolini ricordò come «i cervelli pensanti del socialismo internazionale, da Kautsky a Bernstein», fossero «unanimi nel negare il carattere socialista dell’esperimento russo»24. Mussolini non esitò ad attingere ai documenti del socialismo occidentale e del socialismo rivoluzionario russo per condannare il bolscevismo25. Si leggeva, ad esempio, in un suo articolo del 4 giugno 1919: C’è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c’è. Non c’è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c’è niente che somigli a un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. È il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia26.
Tra queste «teste pensanti» figuravano Irakli G. Cereteli, capo del menscevismo georgiano, e Aleksandr F. Kerenskij, politico di orientamento laburista, più volte ministro e poi capo del governo provvisorio nel luglio-agosto 1917: “Il Popolo d’Italia” intervistò entrambi, manifestando completa adesione alla loro veemente condanna del catastrofico esperimento bolscevico27. In particolare, però, nella sua denuncia del Terrore rosso come «spietato, barbarico, criminale», Mussolini apprezzò quella pubblicistica prodotta non da «elementi borghesi, ma da autentici socialisti rivoluzionari, che [avevano] lottato e soffer-
Caesar, Per la Santa Russia, “Avanti!”, 31 marzo 1919. Si vedano, ad esempio, Boris Sokoloff (deputato alla Costituente russa), Lo stato economico della Russia bolscevica, “Il Popolo d’Italia”, 22 maggio 1919; André Mazon, I fasti e nefasti del bolscevismo russo denunciati da un testimonio oculare, ibid., 13 giugno 1919; Tenax, Il “caos” russo. Terribile insegnamento (Nostra intervista con un rimpatriato), ibid., 21 giugno 1919; Gregorio Alexcinsky, L’inferno russo descritto dal rivoluzionario Alexnisky, ibid., 3 agosto 1919; M. Tverdovennoff, “Venite dunque a vedere” grida un socialista russo da Odessa, ibid., 31 ottobre 1919; Le delizie del bolscevismo. Testimonianza di uno che ha veduto (testimonianza di Paul Deker, da “La Stampa”), ibid., 21 ottobre 1919. 24 [Benito] Mussolini, Posizioni e obbiettivi, ibid., 28 marzo 1919. 25 Cfr., ad esempio, [Benito] Mussolini, Antologia di documenti, ibid., 25 marzo 1919. 26 [Benito] Mussolini, I complici, ibid., 4 giugno 1919. 27 Nicola Bonservizi, Un colloquio con Tzeretelli. “Il bolscevismo non poteva nascere che in Russia: scopritegli la faccia e farà orrore” nonché Id., Kerensky intervistato dal “Popolo d’Italia”. “Il Governo dei Soviety non esiste in Russia”, ibid., 13 aprile e 3 agosto 1920. 22 23
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to per la causa del socialismo rivoluzionario» e che ora intendevano «illuminare le masse socialiste italiane»28. Mussolini si misurò, tra gli altri, con gli esuli russi in Italia, che fuggivano dalla guerra civile nei territori dell’ex-Impero russo, che gravitavano soprattutto intorno al partito social-rivoluzionario e che criticavano la dittatura bolscevica in nome d’un socialismo non marxista, «populista» russo29. Tra questi spiccava la figura di Mark L. Slonim, giovane critico letterario nato da una colta famiglia ebraica ad Odessa nel 1894, che aveva militato nel partito social-rivoluzionario fin dall’inizio del secolo, partecipando alle attività di propaganda e d’organizzazione clandestina. Tra il 1911 e il 1915 aveva quindi studiato letteratura e filosofia all’Università di Firenze, avviando così un percorso in cui passione umanistica e politica si sarebbero sempre intrecciate, e le strade dell’Italia e della Russia si sarebbero spesso incrociate. Allo scoppio della guerra in Italia, aveva continuato i suoi studi a Pietrogrado, dove dal febbraio 1917 al 1919 partecipò attivamente alle vicende rivoluzionarie. Il suo impegno fu improntato al sostegno per lo sforzo bellico repubblicano, alla lotta in difesa della patria rivoluzionaria, alla mobilitazione e all’organizzazione delle forze popolari sul fronte della Bessarabia. Dopo essere stato deputato alla Costituente russa, sciolta nel gennaio 1918, si spostò quindi in Ucraina meridionale, dove continuò la sua appassionata battaglia politica e militare. La lotta per un socialismo rivoluzionario ma alternativo al bolscevismo e la dedizione alla causa nazionalista russa, si fusero in un’esperienza che rispecchiava le contraddizioni esplosive del dopoguerra europeo30. Giunto in Italia nell’autunno del 1919, Slonim fu in contatto con gli ambienti dei Fasci di Combattimento milanesi, collaborò al quotidiano radical-democratico “Il Secolo”, si avvicinò a personaggi del mondo reducistico e combattentistico come Virgilio Bondois e Ezio Maria Gray. Quest’ultimo non solo pubblicò nella sua collana “Biblioteca di studi rivoluzionari” l’opera di Slonim su Spartaco e Bela Kun, ma contribuì alla divulgazione delle sue analisi sulla Rivoluzione russa con un proprio opuscolo31. Mussolini scrisse a Slonim nel tentativo di ottenerne la collaborazione a “Il Popolo d’Italia”, ma invano. A colpire Mussolini fu soprattutto la lettura dell’«interessantissimo e documentatissimo» volume Il bolscevismo visto da un russo, pubblicato nel 192032. Non a caso, ne riprodusse un estratto intitolato Nel regno del terrore il 4 marzo 1920, sulla prima pagina de “Il Popolo d’Italia”33. Dal libro di Slonim traeva materiali e riflessioni per una comprensione critica dell’esperienza rivo-
[Benito] Mussolini, Le barbariche imprese dei bolscevichi assodate da un socialista rivoluzionario, ibid., 4 marzo 1920. 29 Cfr. Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia. 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 13-77. 30 Vedi Antonello Venturi, L’emigrazione russa nel dopoguerra europeo: Mark Slonim, il nazionalismo rivoluzionario e il fascismo (1914-1923), in Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Russkaja emigracija v Italii: žurnaly, izdanija i archivy (1900-1940) [Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria e archivi (1900-1940)], Europa Orientalis, Salerno 2015, pp. 131-152. 31 Cfr. Marco Slonim, Spartaco e Bela Kun, Bemporad, Firenze 1920 ed Ezio Maria Gray, Come Lenin conquistò la Russia, Bemporad, Firenze s.d. [ma 1920]. 32 [Benito] Mussolini, Le barbariche imprese dei bolscevichi assodate da un socialista rivoluzionario, “Il Popolo d’Italia”, 4 marzo 1920. 33 Marco Slonim, Nel regno del terrore, ivi. Si trattava di un capitolo estratto da Marc Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, Le Monnier, Firenze 1920. 28
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luzionaria russa e della costruzione del nuovo regime bolscevico, al fine di smarcarsi dalla propaganda sovietica e da quella socialista massimalista italiana. Scriveva infatti Mussolini: La Repubblica dei Consigli è uno Stato. Quello di Lenin è un Governo dittatoriale che si è stabilito nel più sanguinario terrore. Il camouflage della dittatura proletaria nasconde, in realtà, la dittatura di alcuni uomini appartenenti a una frazione dell’ex-partito socialista russo. Come tutti i Governi che furono, che sono e che saranno, anche quello di Russia ha una costituzione organica che poggia su questo tripode: esercito, polizia, burocrazia. Una burocrazia per l’amministrazione. E la burocrazia bolscevica ha proporzioni fantastiche34.
Nel maggio 1920, “Il Popolo d’Italia” pubblicò un’anticipazione dell’opera La sfinge bolscevica, «destinata a suscitare una profonda impressione e a completare molte delle notizie apparse nell’ultimo lavoro di Marco Slonim». Essa fu pubblicata dallo scrittore e pubblicista russo Michail K. Pervukin, che era emigrato in Italia fin dal 1907 e che viveva a Roma, dove svolgeva un ruolo di primo piano nella colonia russa. In particolare, nel capitolo riprodotto sul quotidiano fascista, Pervukin contestava l’immagine d’una società russa unanime e compatta intorno al potere bolscevico, evocando piuttosto l’impressione di Gorkij, secondo cui i bolscevichi erano «pochi», «circondati dall’odio universale, feroce e implacabile», «sperduti nel buio»35. Nondimeno in quella fase Mussolini si trovò in sintonia con la critica repubblicana del leninismo, soprattutto con quella d’Innocenzo Cappa, repubblicano, in polemica con la socialista rivoluzionaria Angelica Balabanoff, e ben presto prossimo al fascismo36. A loro volta i repubblicani, come altri segmenti dell’interventismo democratico, intrattenevano intensi rapporti con gli esuli socialisti russi in Italia: fu, in particolare, Karl R. Kačorovskij, fondatore e redattore de “La Russia” e de “La Russia Nuova”, a collaborare con la stampa repubblicana. Mussolini seguiva con passione e interesse queste due principali pubblicazioni dell’emigrazione socialista russa in Italia, ma lesse e commentò soprattutto “La Russia del Lavoro” (Trudovaja Rossia). Diretto dall’ex-sindaco socialista rivoluzionario di Pietrogrado, Grigorij I. Šrejder, questo periodico, che si avvalse anche della collaborazione di Slonim, si concentrava soprattutto sul mondo contadino e sulla vera e propria guerra che contro di esso andava conducendo il regime di Lenin. In particolare, Mussolini sottoscrisse con convinzione l’appello Ai compagni italiani, pubblicato da Šrejder nel primo numero della rivista, in cui si sollevavano fondamentali domande critiche sul bolscevismo «dal punto di vista di un socialista»37. Tuttavia nel corso del 1921 qualcosa cominciò a cambiare. Ad esempio “Il Popolo d’Italia” non lesinò informazioni sulla carestia che colpì le campagne della Volga e degli Urali, provocando milioni di morti a partire dalla primavera del 1921, ma Mussolini si limitò a
[Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, “Il Popolo d’Italia”, 25 febbraio 1920. Michele Perwouchine [Mihail K. Pervuchin], Quanti sono i bolsceviki in Russia?, ibid., 28 maggio 1920. Il testo completo era Id., La sfinge bolscevica, Zanichelli, Bologna 1920. 36 Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012, pp. 32-42, 161-162 e 194-195. 37 [Benito] Mussolini, Dedicato ai lavoratori. Socialisti e bolscevichi, “Il Popolo d’Italia”, 17 febbraio 1920. 34 35
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rifiutare il dispositivo retorico fondato sulle circostanze – in primis, la guerra internazionale e la guerra civile – con cui si giustificavano le scelte bolsceviche in materia di politica economica e di controllo politico. Se milioni di uomini muoiono di fame e di colera, la colpa risale all’esperimento orribile che i comunisti hanno tentato sul corpo enorme e lento della Russia. Questo esperimento ha provocato, lentamente e inesorabilmente, la disorganizzazione di tutta la vita russa, dalle unità alle officine, dalle città alle campagne. La Russia non ha più un sistema nervoso; è tornata un organismo rudimentale, che un pugno di fanatici, scientifici e scientifizzati s’illude di rianimare coll’applicazione di teorie che aggravano all’infinito il male38.
Svariate continuavano ad essere le fonti cui attingeva “Il Popolo d’Italia” per documentare il terrore bolscevico, la catastrofe economica, oppure il fallimento del progetto utopistico del comunismo di guerra e il “ritorno” del capitalismo. Ad esempio, si riprendeva una lettera pubblicata sul “Socialističeskij vestnik” [“Corriere socialista”], il giornale menscevico edito in esilio a Berlino, in cui Julij O. Martov rivelava come «la violenza bolscevica» non avesse saputo «modificare in maniera durevole l’attività economica della Russia»39. Inoltre sulle pagine de “Il Popolo d’Italia” si riproducevano stralci di documenti in cui gli anarchici italiani e russi, nonché i socialisti riformisti italiani, denunciavano la sistematica pratica repressiva del nuovo regime bolscevico40. Tuttavia, lo sforzo di conservare i legami tra la critica del bolscevismo e la rivendicazione d’un socialismo «altro» si smorzò fin quasi a spegnersi, in un breve volgere di tempo. Una “guerra civile europea”, e quale? In un articolo pubblicato su “Il Popolo d’Italia”, il 2 settembre 1915, all’indomani della sua chiamata alle armi, Mussolini scriveva che la guerra rappresentava «il vasto crogiolo dal quale [sarebbe uscita] modellata l’Europa di domani», il «sanguinoso e necessario urto di popoli» dal quale sarebbe forse spuntato «all’orizzonte […] l’“uomo europeo”»41. A Mussolini, dunque, come a molti altri suoi contemporanei, era chiaro che la posta in gioco era una ridefinizione dell’intero continente e che le sorti delle nazioni erano inseparabili da quelle dell’Europa – e viceversa. Non a caso, dopo il 1914, e sempre più dopo il 1917, la scena pubblica europea fu attraversata da un quadro di polarizzazioni politico-ideologiche che è stato assunto a cifra di tutto un periodo storico sotto la categoria di “guerra civile europea”. Presupposto della “guerra civile europea” è che, in varie forme e con variabili gradi d’intensità, gli Stati nazionali attraversassero una crisi profonda e che questa crisi fosse il prodotto non solo di devastanti conflitti militari, ma di laceranti scontri politico-ideologici. Però tante e diversissime furono le sue specifiche accezioni, nel
[Benito] Mussolini, Dove impera Lenin, ibid., 29 luglio 1921. Come la Russia torna al capitalismo, ibid., 6 ottobre 1921. 40 Nel paradiso di Lenin. Il feroce terrore leninista subito e documentato dagli anarchici, ibid., 22 aprile 1922; Le felici condizioni del paradiso di Lenin. Interviste e notizie di gente del P.S.U., ibid., 27 maggio 1922. 41 [Benito] Mussolini, Altre battaglie, ibid., 2 settembre 1915. 38 39
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periodo compreso tra le due guerre mondiali. La “democrazia” contro il “militarismo”, la “rivoluzione” e la “controrivoluzione”, il “bolscevismo” e l’“antibolscevismo”, il “fascismo” e l’“antifascismo” sono le polarità più appariscenti d’un campo di tensioni estreme che attraversò l’Europa nella prima metà del Novecento. Più che una realtà in se stessa, dunque, la categoria di “guerra civile europea” colleziona un insieme di diverse percezioni, interpretazioni e rappresentazioni di tipo essenzialmente dualistico, che opposero fascisti e antifascisti, bolscevichi e antibolscevichi, rivoluzionari e contro-rivoluzionari42. Il PSI, dominato dalle correnti “massimaliste” dal 1912 e forgiato dall’opposizione alla guerra dal 1914-1915, fu particolarmente sensibile al mito della rivoluzione russa. Certo, i socialisti avvertirono il richiamo della rivoluzione di Febbraio, intesa come sollevazione contro l’autocrazia zarista e per la democrazia, senza che perciò segnasse la fine della guerra dell’Intesa. Ma, soprattutto, furono attratti dalla rivoluzione d’Ottobre, che inaugurava una nuova era storica, proclamando l’avvento del socialismo e proponendo un modello che potesse essere ovunque imitato. Caso unico in Europa, il Congresso socialista dell’ottobre 1919 decretò l’unanime adesione del PSI alla Terza Internazionale, che era stata fondata qualche mese prima, a Mosca43. Uno dei suoi esponenti più spregiudicati, il socialista romagnolo Nicola Bombacci, riteneva che la «rivoluzione russa» fosse «un fatto mondiale» e che il Soviet non fosse «una istituzione russa transitoria ma internazionale, definitiva e di carattere profondamente sociale», «organo positivo di azione e di ricostruzione rivoluzionaria in tutto il mondo»44. Il contesto europeo del 1917-1922 parve restituire un significato “rivoluzionario” alle intense agitazioni e sollevazioni sociali che erano radicate nelle diverse dimensioni locali, ma che si richiamavano – a livello simbolico – all’esempio del “bolscevismo”, della Russia “soviettista”, dell’Ottobre “rosso”, di Lenin. Tuttavia, mentre l’immaginario sociale ancorato alla simbologia sovietica conservò forme più o meno stabili, il mito socialista della Rivoluzione assunse significati diversi, a seconda dei mutevoli contesti del dopoguerra. Il PSI, che fin dal 1912 era dominato dalla corrente massimalista, associò una prospettiva socialista libertaria e anti-statalista alle rappresentazioni della rivoluzione russa, cristallizzate intorno agli eventi del ’17. Lo scarto crescente tra l’immagine del Soviet come forma di potere autonomo e popolare e le esperienze storiche del “comunismo di guerra”, tra ’19 e
42 Enzo Traverso, A ferro e fuoco. Una guerra civile europea, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007, che privilegia lo scontro tra fascismo e antifascismo; Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Einaudi, Torino 2012, che mette a fuoco soprattutto lo scontro tra comunismo e anticomunismo. 43 Cfr. Helmut Koenig, Lenin e il socialismo italiano, 1915-1921, Prefazione di Renzo De Felice, Introduzione di Giorgio Petracchi, Vallecchi, Firenze 1972; Stefano Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974; Roberto Vivarelli, Rivoluzione e reazione in Italia, in Id., Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, Il Mulino, Bologna 1981; Id., Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, in 2 volumi, Il Mulino, Bologna 1991; Giorgio Petracchi, Il mito della rivoluzione sovietica in Italia, 1917-1920, “Storia contemporanea”, n. 6 1990, pp. 1107-1130. Per uno sguardo comparativo europeo, vedi Albert Lindemann, Bolscevismo e socialismo europeo (1919-1921), Il Mulino, Bologna 1977 e Bruno Naarden, Socialist Europe and Revolutionary Russia. Perception and Prejudice, 1848-1923, Cambridge University Press, Cambridge 1992. 44 Nicola Bombacci, I Soviet in Italia, “Avanti!”, 27 febbraio 1920.
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’21, fu la matrice essenziale del mito della rivoluzione russa, generalmente identificata con la rivoluzione d’Ottobre45. Nell’interazione tra il nuovo mito rivoluzionario e le esperienze europee postbelliche – la rivolta spartachista di Berlino, la Repubblica dei Consigli di Monaco, la Repubblica sovietica di Budapest, la guerra civile “russa”, l’avanzata dell’Armata Rossa verso Varsavia – si formò, tra il ’19 e il ’20, un linguaggio della “guerra civile europea” che trasformò radicalmente le parole d’ordine dell’internazionalismo socialista precedente il ’14, in sintonia con la prospettiva leniniana della rivoluzione internazionale. Mussolini e i fascisti presero sul serio il mito rivoluzionario socialista e la prospettiva della “guerra civile europea”, rispondendo con un linguaggio simmetrico, ma opposto. Fin dai primi mesi del 1919, cominciò a profilarsi un altro discorso destinato a sviluppare una nuova prospettiva rivoluzionaria, alternativa a quella socialista – “bolscevica” – in Italia. Mussolini muoveva dall’idea che la guerra fosse stata la vera “rivoluzione europea”. Ne conseguiva che chiunque vi si fosse opposto, come il partito bolscevico o il PSI, per quanto sostenesse l’esperimento di Lenin, avrebbe «lavorato per la controrivoluzione»46. Dopo il fallito sciopero generale di Roma del 10 aprile 1919, Cesare Rossi, redattore di vari fogli socialisti prima di approdare alla redazione de “Il Popolo d’Italia”, si pose il problema di lanciare un antibolscevismo che fosse uno strumento di lotta contro il partito socialista, ma al tempo stesso compatibile con l’odio per la borghesia47. In un editoriale scritto pochi giorni dopo l’assalto alla sede milanese dell’“Avanti!”, condotto il 15 aprile 1919, a meno d’un mese dalla fondazione dei Fasci di Combattimento: Noi non ci opponiamo al movimento ascensionale delle masse lavoratrici; non ci opponiamo a quella magnifica incruenta rivoluzione operaia che è in atto e che ha già, anche in Italia, toccato splendide realizzazioni; noi combattiamo apertamente e fieramente, insieme colla maggioranza dei socialisti di tutto il mondo, quel fenomeno oscuro di regressione, di contro-rivoluzione e d’impotenza che si chiama bolscevismo. Noi difendiamo la nostra rivoluzione rinnovatrice e creativa, dagli assalti proditori della contro-rivoluzione retrograda e distruttiva dei leninisti48.
Posto in diretta relazione all’evoluzione rivoluzionaria e filo-sovietica del partito socialista, l’antibolscevismo fascista è stato tradizionalmente inteso come riedizione – debitamente aggiornata – dell’antisocialismo, ridefinito attraverso la categoria – quanto mai arbitraria in questo caso – di “bolscevismo”, che identificava nel PSI il principale nemico del fascismo. I fascisti combattevano aspramente l’idea di “fare come in Russia”: questa parola d’ordine tipicamente socialista massimalista, infatti, significava disconoscere le peculiarità del contesto italiano e sciogliere il nesso tra socialismo e nazione. Rivelatore, in questo senso, fu il vivo interesse che Mussolini manifestò verso il partito socialista polacco di Piłsudski nel corso del 1920: nazionalista, favorevole alla guerra contro la Russia sovietica e fautore della ridistribuzione delle terre, esso rappresentava un contro-modello del
Si veda Antonello Venturi, Il mito della rivoluzione, in Dizionario del comunismo nel XX secolo, a cura di Silvio Pons e Robert Service, Einaudi, Torino 2007, pp. 334-338. 46 [Benito] Mussolini, Posizioni e obbiettivi, “Il Popolo d’Italia”, 28 marzo 1919. 47 Cesare Rossi, Perché l’anti-bolscevismo non sia soltanto borghese, ibid., 14 aprile 1919. 48 [Benito] Mussolini, Non subiamo violenze!, ibid., 18 aprile 1919. 45
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PSI, internazionalista pacifista e collettivista: «La Polonia è una repubblica socialista o quasi»49. L’attenzione delle opinioni pubbliche e dei partiti politici nell’estate 1920 fu rivolta tanto al II Congresso della Terza Internazionale quanto alla guerra sovietico-polacca. Dopo gli stentati inizi del 1919, il Congresso che si teneva a Mosca radunava per la prima volta un gran numero di delegazioni socialiste pronte a fondare nuove sezioni dell’Internazionale comunista, mentre in un’atmosfera effervescente d’attesa messianica si seguiva l’avanzata dell’Armata Rossa, ormai prossima a Varsavia tra la fine di luglio e i primi d’agosto. La presa della capitale polacca fallì a causa della mobilitazione della classe operaia in chiave antibolscevica, che respinse le truppe sovietiche50. Mussolini rivendicò la neutralità italiana nel conflitto sovietico-polacco come scontro tra opposti imperialismi, che si doveva concludere con la pace e col riconoscimento dell’indipendenza polacca. In uno scenario in costante e febbrile mutamento, Mussolini rigettava dunque la chiave sociale per definire lo scontro tra Polonia e «Russia», sostenendo il carattere «socialista» dello Stato di Piłsudski, fondatore del Partito Socialista Polacco. Al «ciclo delle guerre fra le nazioni borghesi» seguiva «il ciclo delle guerre fra le nazioni socialiste», inaugurato dal conflitto tra «Russia» e Polonia. In questo senso, la guerra russo-polacca insegnava che il preteso carattere socialista d’uno Stato non escludeva la sua vocazione imperialista. Respinta l’offensiva polacca in Ucraina e Lituania, la guerra sovietica si era convertita in una guerra d’aggressione, in cui «all’imperialismo territoriale» si sommava «l’imperialismo delle idee»: Non trovate un’evidente analogia tra il processus dell’universalismo democratico della rivoluzione francese e il processus dell’universalismo comunistico della rivoluzione russa? Entrambi sboccano in una guerra di conquista. Seguendo l’analogia riscontrata, è lecito prevedere che l’imperialismo rivoluzionario russo, al pari dell’imperialismo rivoluzionario francese, può concludersi, dopo i conati universalistici, in una specie di restaurazione. Ciò che si guadagna in estensione si perde in intensità. Il comunismo non può essere soltanto russo, ma, quando diventa europeo, non è più comunismo51.
Mussolini quindi sosteneva che il comunismo in quanto tale era una reazione alla crisi nazionale russa – una crisi considerata non europea, ma asiatica – che minacciava la destabilizzazione e la distruzione delle nazioni europee; al tempo stesso, però, espandendosi verso l’Europa, si trasformava in una forza europea e si traduceva in forme di socialismo nazionale, di cui la Polonia di Piłsudski rappresentava un modello. In questo senso, perciò, l’europeizzazione del comunismo costituiva il presupposto per la formazione dei socialismi nazionali in Europa. Nel frattempo era intervenuto un mutamento maggiore in seno al fascismo, che si era organizzato in squadre armate e nell’estate del 1920 era mosso all’offensiva, a partire dalle zone plurinazionali dell’Alto-Adriatico conquistate dall’Italia alla fine della Grande Guerra. In questi territori di confine i conflitti socio-politici, alimentati dalle tensioni nazionali, furono tra i più violenti e la sezione locale del PSI, ben presto passata in massa al partito
[Benito] Mussolini, La Nuova Babele, ibid., 2 giugno 1920. Cfr. Norman Davies, White Eagle, Red Star. The Polish-Soviet War 1919-1920 and “The Miracle on the Vistula”, Pimlico, London 2003 (1972). 51 [Benito] Mussolini, Bolscevismo imperiale, “Il Popolo d’Italia”, 6 agosto 1920. 49
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comunista, adottò una posizione decisamente radicale. Non a caso, la polemica di Mussolini verso la pubblicistica socialista e soprattutto verso “Il Lavoratore”, quotidiano socialista di Trieste, fu particolarmente dura. Il suo articolo del 6 agosto, Bolscevismo imperiale, costituiva una replica diretta contro l’orientamento del quotidiano “Il Lavoratore”, che il 1° agosto, di fronte all’avanzata sovietica in territorio polacco, aveva affrettatamente concluso: «La Russia non è più un mito asiatico sperduto fra due continenti e sognato fra due evi, ma è una realtà europea che ha tutta l’energia d’una falange armata e travolgente»52. La sconfitta dell’Armata Rossa davanti a Varsavia, a metà agosto, rapidamente dissolse le speranze d’esportazione della rivoluzione sovietica in Germania, e di qui in tutta Europa. In quelle stesse settimane tra luglio e settembre, Trieste e i nuovi territori di confine sull’Alto Adriatico diventarono un vero e proprio laboratorio delle pratiche squadriste, dove l’aggressione ai socialisti s’intrecciò e spesso si mescolò con quella agli «slavi» e l’antisocialismo si potenziò con l’antislavismo, in una versione inedita di nazionalismo radicale. In un noto discorso tenuto a Trieste, il 20 settembre 1920, la veemente polemica di Mussolini contro la «mascheratura bolscevica del socialismo italiano» fu condotta in nome di Mazzini e Pisacane, in nome cioè d’una tradizione rivoluzionaria italiana che tendeva a rompere i suoi legami con la Francia quale esempio di universalismo rivoluzionario. Perciò Mussolini argomentava che non fosse possibile «trapiantare in Italia» – «il paese più individualista del mondo» – il comunismo: «Questo è possibile dove ogni uomo è un numero, ma non in Italia, dove ogni uomo è un individuo, anzi una individualità»53. Questa considerazione risuonava nella riflessione d’un osservatore d’eccezione della guerra sovietico-polacca, l’ancor giovanissimo Curzio Suckert allora luogotenente di complemento di fanteria, integrato nella missione diplomatica a Varsavia tra il settembre 1919 e il settembre 1920. Non è chiaro se egli avesse assistito direttamente al «miracolo sulla Vistola», ma è certo che avesse seguito con ammirazione la lotta del popolo polacco contro l’avanzata russa54. L’anno successivo, egli consegnò alla sua prima opera Viva Caporetto – poi intitolata La rivolta dei Santi maledetti – il senso degli eventi presenti e spiegò come il bolscevismo e il fascismo – o meglio, la «rivoluzione russa» e la «rivolta di Caporetto», rispettivamente animate dal senso della collettività e dal senso dell’individualità – fossero «due movimenti paralleli» per una «nuova civiltà». Polemizzando aspramente con il «bolscevismo italiano», egli auspicava una «rivoluzione italiana», che fosse insieme sindacale e nazionale55. Questa riflessione convergeva con le considerazioni e le analisi svolte dai sindacalisti rivoluzionari, come il principale teorico dell’esperienza fiumana, Alceste De Ambris, il quale però ne enfatizzava il bilancio completamente fallimentare: a suo avviso, infatti, era impossibile compiere una rivoluzione con una classe lavoratrice priva di quadri dirigenti tecnicamente preparati, in grado di sostituire la classe borghese nella gestione e
Il nostro dovere, “Il Lavoratore”, 1° agosto 1920. Cfr. Antonino De Francesco, Un sonetto di Mussolini… cit., p. 185, il quale fa risalire la rottura della sua passione per la Rivoluzione francese al discorso di Trieste il 20 settembre 1920. 54 Si vedano Giuseppe Pardini, Malaparte. Una biografia politica, Prefazione di Francesco Perfetti, Luni, Milano 1998 e Maurizio Serra, Malaparte: vita e leggende, Marsilio, Venezia 2012. 55 Cfr. Curzio Suckert, La rivolta dei Santi maledetti [1921], in Curzio Malaparte, Opere scelte, a cura di Luigi Martellini, Mondadori, Milano 1997, pp. 100-101. Questa riflessione fu sviluppata in Id., L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, La Voce, Firenze 1923. 52 53
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nella direzione dell’industria56. Negli ambienti ex-sindacalisti rivoluzionari, la rivoluzione bolscevica descritta con la cifra apocalittica della distruzione totale finiva per rappresentare uno specchio rovesciato della rivoluzione fascista, a sua volta tesa a stringere un nesso indissolubile tra distruzione e ricostruzione, conservazione e rivoluzione57. Nondimeno il futurismo politico, proprio perché riconosceva la funzione nazionale del bolscevismo in Russia, escludeva la possibilità d’una sua esportazione in Italia. Dino Grandi, allora uno dei principali oppositori interni di Mussolini, riteneva che il 1917 avesse rappresentato «l’avanguardia della rivoluzione di tutte le nazioni povere di oriente e di occidente contro il capitalismo inglese, uscito dalla guerra tiranno e padrone assoluto del mondo». Da questo punto di vista, l’esperienza fiumana interpretava «la rivoluzione di tutto il popolo italiano sindacalista e operaio contro la Santa Alleanza di Versailles»58. Il punto focale del fascismo, come del sindacalismo nazionale, del futurismo e del fiumanesimo, stava dunque nel rapporto tra rivoluzione e nazione: il PSI era stigmatizzato perché si rifaceva ad un modello rivoluzionario mutuato dall’esperienza russa – inadatto di conseguenza ad essere trapiantato in Italia. Analogamente, il Partito Comunista d’Italia, nato dalla scissione del PSI al Congresso di Livorno del gennaio 1921, era oggetto della virulenta contestazione fascista. Costituitosi sulla base dell’adesione alle 21 condizioni di Lenin, il PCdI costituì la sezione italiana della Terza Internazionale, che faceva dell’esempio sovietico la propria indiscussa prospettiva rivoluzionaria. Nella guerra ideologica che attraversava l’Europa, i fascisti seguivano una loro propria strada, socialista nazionale e antibolscevica. A questa particolare versione della «guerra civile europea» si affiancava un altro tipo di crisi, in cui i fascisti ritenevano fosse coinvolta l’intera Europa. Antibolscevismo, antislavismo, antisemitismo nella “crisi eurasiatica” La storiografia recente ha sottolineato come le dinamiche messe in moto dalla guerra russo-giapponese e dalla conseguente rivoluzione russa del 1905 avessero incrinato il primato dell’Europa, aprendo quelle faglie sempre più profonde che avrebbero precipitato il vecchio continente nelle convulsioni della prima e della seconda guerra mondiale. Fu però soprattutto la crisi avviata dalla caduta dell’Impero zarista e dai devastanti processi rivoluzionari del 1917-1922 e poi estesasi agli Imperi austro-ungarico, tedesco e ottomano a scuotere l’ordine pre-1914 e ad innescare nuovi violenti conflitti. Infatti, combinandosi col rifiuto del «nuovo ordine» stabilito da Wilson nel 1919, la coscienza a tratti acuta, più spesso brutale e caricaturale, d’una «crisi eurasiatica» che imponeva all’Europa la ricerca d’un ordine alternativo, alimentò i nuovi movimenti politici radicali del dopoguerra, tra cui figurava a pieno titolo il fascismo italiano59. Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., p. 145. Cfr., ad esempio, Sergio Panunzio, Lettera di uno non candidato, “Il Popolo d’Italia”, 9 novembre 1919. 58 Dino Grandi, Lettera ad un socialista, “Il Resto del Carlino”, 11 settembre 1920, citato in Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., pp. 277-278. 59 Cfr. Alfred J. Rieber, The Struggle for the Eurasian Borderlands: from the rise of early modern empires to the end of the First World War, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2014; J. Adam Tooze, The Deluge. The Great War, America and the Remaking of Global Order, 1916-1931, Viking Adult, New York 2014. Ho trattato delle ipotesi interpretative di Halévy alla luce 56 57
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Le rappresentazioni fasciste tendevano a definire diversi aspetti e caratteri contraddittorii del bolscevismo. Prodotto di pregiudizi sedimentati nel tempo, la percezione della dimensione «asiatica» del bolscevismo equivaleva, nel contesto post-1917, ad una presa d’atto dell’immenso ampliamento dello scenario politico in cui si collocavano le dinamiche europee ed italiane. Mussolini riteneva che il bolscevismo fosse «un fenomeno russo e parzialmente russo»: esso non era riuscito «ad inquinare che una parte della Russia, la cosiddetta Moscovia e limitatamente alle sole città». Era sua convinzione che solo «una popolazione a fondo mongolico e tartaro» potesse «accettare o subire un regime come quello leninista»: «Il bolscevismo, fenomeno di degenerazione sociale, è comprensibile nel clima storico russo»60. In questa visione di Mussolini, l’Alto Adriatico giocava un ruolo cruciale, come propaggine estrema del «mondo slavo» e, attraverso esso, dell’influenza «russa». Perciò, che prevalessero i «Rossi» o i «Bianchi» nella guerra civile «russa», era tutto sommato irrilevante. Entrambi sembravano condividere «uno smisurato sogno di imperialismo», ossia «il grande impero dal Baltico al Mediterraneo, dal Mare freddo al Mare caldo»: questo progetto panslavo investiva direttamente i confini italiani in quanto contenevano, «prementi verso il mare Adriatico, le estreme e fameliche stirpi del mondo slavo»61. Non è un caso dunque se Trieste diventò il luogo dei discorsi chiave per la visione politica europea e globale di Mussolini, sempre più intrisa d’antislavismo: esso costituiva una sorta d’avamposto d’un immaginario spazio geopolitico che definiva insieme il nemico del fascismo e la sua missione nazionale e imperiale62. Queste idee erano tutt’altro che esclusive al pensiero mussoliniano, e circolavano con intensa frequenza negli ambienti del fascismo della “prima ora”. Un pamphlet del sindacalista rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti dedicato a Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, sosteneva che il bolscevismo, come il Cristianesimo, fosse un «socialismo asiatico», il quale, nonostante il suo preteso internazionalismo, si muoveva sul terreno della «politica strettamente nazionale» russa63. In questo senso, tendevano a moltiplicarsi le denunce del «morbo asiatico» che pervadeva l’Europa, «non risparmiando nessun popolo, confondendo vincitori e vinti in un comune pericolo»64. Nondimeno, questo orientamento emergeva da un discorso di Pietro Gorgolini, intitolato Cos’è il bolscevismo e tenuto all’Università di Camerino nell’aprile 1919, ma diffuso probabilmente attraverso altre confe-
di questa storiografia recente nel paper The “Eurasian” Origins and Outcomes of the Great War: A Re-Reading of Elie Halévy, presentato alla conferenza The Road to the Unwanted War of 1914, tenutasi all’Università di Bucharest il 9-10 ottobre 2014: gli atti sono di prossima pubblicazione. 60 [Benito] Mussolini, Ancora un ricatto? Le manovre dei “boches”, “Il Popolo d’Italia”, 24 novembre 1918. 61 [Benito] Mussolini, Tra Occidente e Oriente, ibid., 17 dicembre 1919. 62 Per un approfondimento di questo aspetto cfr. Marco Bresciani, The Upper Adriatic Space and the Post-War Ascent of Fascism, in Vergangene Räume-Neue Ordnungen. Das Erbe der multinationalen Reiche und die Staatsbildung im östlichen Europa 1917-1923, a cura di Frank Grelka, Viadrina Universitaet, Frankfurt Oder 2016, di prossima pubblicazione. 63 Angelo O. Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale, Milano 1919, pp. 16 e 26. 64 [Piero] Bolzon, Individualismo eroico contro nichilismo comunista!, “L’Ardito”, 11 aprile 1920, citato in Francesco Germinario, Fascismo 1919. Mito politico e nazionalizzazione delle masse, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2011, p. 82 (nota 29).
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renze. Egli richiamava il carattere anarchico del bolscevismo, «formulazione estremistica dell’utopia socialista»: il senso generalizzato di «sfacelo» e d’«anarchia» offriva la chiave essenziale per penetrare gli eventi russi. Il processo rivoluzionario aveva fatto emergere, «sotto la scorza già abbastanza solida e ora miserevolmente frantumata di europeismo, il fondo barbaro e orientale di un popolo rimasto schiavo e primitivo». Il ciclo di guerre e di rivoluzioni aveva arrestato «il suo processo di europeizzazione», provocando «un ritorno di barbarie» che faceva «tremare i popoli confinanti all’idea di un’invasione delle orde di Trotski»65. Nell’aprile 1922 uno dei fondatori e collaboratori de “Il Popolo d’Italia”, il fascista goriziano Enrico Rocca, argomentò che la guerra, «al pari di un immenso cataclisma tellurico», «[aveva] scosso dalle fondamenta e fatto crollare antichissimi edifici statali come gli imperi di Russia e di Austria-Ungheria», determinando così «nuove cristallizzazioni politiche ed economiche». Filtrando questa lucida consapevolezza con il suo veemente antislavismo, Rocca sosteneva che il panslavismo agiva «da forza centripeta per l’unificazione di tutti popoli slavi» in «un grande blocco […] dal Mar Baltico al Mar Nero e all’Adriatico»66. D’altro canto la crisi «eurasiatica», ben lungi dal condurre all’avvento della società socialista, era destinata a trasformare la Russia in un paese capitalista, dunque più europeo e meno asiatico. L’immensa distruzione rivoluzionaria doveva portare a un definitivo allontanamento della Russia dalle sue origini bizantine, slave, asiatiche, per consegnarla all’Occidente capitalistico. Mussolini era convinto che Lenin avesse creato «le condizioni necessarie e sufficienti perché la Russia [potesse] diventare uno dei paesi più “capitalistici” del mondo»67. Dal canto suo, Lanzillo sosteneva che «l’esperienza russa [era] fallita», e questo «fallimento» rappresentava «il più grave disinganno che mai abbia colpito la classe operaia»: «Dall’utopia si torna[va] al realistico», per quanto questa «improvvisa parentesi di periodo utopistico» avesse costituito nella storia del socialismo «un grande passo indietro»68. A sua volta, Rocca spiegava come l’«applicazione dell’utopia comunista, offendendo ogni legge economica e gerarchica», aveva provocato «un crollo spaventoso», anche se non sarebbe stato «permanente». Infatti Lenin sapeva «genialmente contraddirsi e procedere coraggiosamente dall’utopia alla realtà»: la disponibilità a «trattare con quegli Stati capitalistici che già furono fatti segno agli anatemi di Lenin», era «un segno evidente del fallimento della strombazzata palingenesi russa del mondo»: «La Russia deve provvedere prima di tutto a salvare se stessa». Esemplificato dal tramonto del mito di Lenin, il «tramonto di tutti i miti del dopo guerra» era piegato da Rocca a legittimare l’ascesa violenta del fascismo69. Questa evoluzione inattesa, che dal febbraio-marzo 1921 si rafforzò con la Nuova Politica Economica (NEP) e che creò i presupposti più generali per una reintegrazione russa nel sistema economico internazionale, spinse a stabilire accordi commerciali tra Russia e Italia, auspicati dai fascisti. In un articolo del 2 novembre 1921, Mussolini ricordava come
65 Pietro Gorgolini, Cos’è il bolscevismo, in appendice ad Angelo d’Orsi, La rivoluzione antibolscevica… cit., pp. 344-356. 66 Enrico Rocca, Il nuovo centro e le nuove tendenze del panslavismo, “Il Popolo d’Italia”, 27 aprile 1922. 67 [Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, ibid., 25 febbraio 1920. 68 Agostino Lanzillo, Lenin distruttore, ibid., 13 settembre 1921. 69 Enrico Rocca, Due miti e la realtà, ibid., 22 gennaio 1922.
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fin dal 1919 il fascismo aveva promosso una politica estera orientale che mirava «a stringere relazioni amichevoli con tutti gli Stati sorti dallo sfacelo dell’impero degli Asburgo e dei Romanoff, non esclusi quelli governati dai Soviety». Dopo aver rinunciato, almeno momentaneamente, «ai suoi piani di rivolta pan-asiatica contro l’imperialismo anglosassone», «la Russia torna[va] all’Europa, si rivolge[va] all’Occidente». Secondo Mussolini, si trattava di «un altro passo verso la pace generale europea»70. Gli accordi preliminari italo-russi furono firmati a Roma nel dicembre 1921. Poi Mussolini e i fascisti seguirono con particolare attenzione la decisione sovietica di partecipare alla Conferenza internazionale per la ricostruzione economica dell’Europa, che si tenne a Genova nel maggio 1922. In proposito Mussolini, in sintonia con quanto era stato sostenuto da Lanzillo e da Rocca, disse: «solo il capitalismo dell’Occidente può salvare la Russia»71. Mussolini spiegò quindi che – dopo il fallimento della «politica asiatica», prima degli zar, poi di Lenin – il regime comunista si risolveva in un «disperato tentativo di “occidentalizzare” la Russia», attraverso l’importazione delle tecniche e dei capitali delle economie occidentali: francese, tedesca e inglese. Paradossalmente, il comunismo diventava così il primo stadio del capitalismo: «Dietro la Russia dei Romanoff affiorava Bisanzio, con il caos, la crudeltà, il paradosso, gli squilibri, la rassegnazione di Bisanzio; dietro la Russia di Uljanov, spunta la grinta senza baffi del capitano d’industria occidentale. La Russia più che agli Urali o al Caspio, si spinge verso la Vistola e il Danubio». In questo modo la Russia comunista perdeva «ogni possibilità di diventare l’avanguardia del mondo asiatico»72. In questa paradossale visione di Mussolini, la crisi «eurasiatica» della Russia finiva per concludersi con un potente, ma devastante sforzo d’affermazione della dimensione europea su quella asiatica. Tuttavia, qual era l’agente chiave di questo epocale processo di trasformazione, equivalente a una totale eterogenesi dei fini? Certo, Lenin e i comunisti, in prima istanza. Eppure, in alcuni passaggi del discorso mussoliniano, il gruppo dirigente bolscevico era a sua volta identificato con il “complotto tedesco” e con il “complotto ebraico”. In una delle prime reazioni scritte all’Ottobre, l’articolo Avanti, il Mikado!, pubblicato ne “Il Popolo d’Italia” l’11 novembre 1917, Mussolini sosteneva: «Colla odierna rivolta dei massimalisti, la Germania ha conquistato senza colpo ferire Pietrogrado». La «tetrarchia bolscevica», composta da Lenin, «altrimenti detto Uljanov o – col vero nome di battesimo e di razza – Ceorbaum», «Apfelbaum, Rosenfeld, Bronstein» si identificava con la «piena, autentica tedescheria»73. Quest’interpretazione del bolscevismo come “complotto tedesco” era figlia dell’interventismo rivoluzionario di Mussolini, intriso di ostilità paranoica per la Germania, anche se non si può escludere un’implicita evocazione del “complotto ebraico”. A conferma di quest’ultima ipotesi si può leggere un successivo articolo del 3 dicembre 1917, in cui si faceva riferimento a Krylenco-Abram, «impasto di lettere che puzza di tedesco e di sinagoga»74. [Benito] Mussolini, Italia e Russia, ibid., 2 novembre 1921. [Benito] Mussolini, La Russia all’asta, Ibid., 12 aprile 1922. 72 Benito Mussolini, Luna crescente, “Gerarchia”, 25 settembre 1922, pp. 477-479. 73 [Benito] Mussolini, Avanti, il Mikado!, “Il Popolo d’Italia”, 11 novembre 1917. Apfelbaum era Gregorij E. Zinov’ev; Rosenfeld era Lev B. Kamenev; Bronstein era Lev D. Trockij. Ceorbaum (recte Cederbaum) non era Vladimir L. Ul’janov detto Lenin, ma Julij O. Martov. 74 [Benito] Mussolini, Il Napoleone della viltà, ibid., 3 dicembre 1917. È probabile che si tratti di Nikolaj V. Krylenko, noto fin dai tempi universitari come il “compagno Abram” e organizzatore militare di primo piano del colpo di Stato dell’Ottobre. 70 71
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In un articolo pubblicato ne “Il Popolo d’Italia” del 16 marzo 1919, Mussolini suggeriva – in forma apparentemente dubitativa, ma di fatto assertiva – che il bolscevismo fosse «la vendetta dell’ebraismo contro il cristianesimo»: Il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, sì la borghesia, o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell’oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. [...] Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza75.
Queste rappresentazioni del bolscevismo intrise d’antisemitismo circolavano nell’ambiente dell’arditismo e del suo organo “L’Ardito”76. Tuttavia, è più probabile che Mussolini fosse ispirato dalle posizioni del sindacalismo rivoluzionario, ora simpatizzanti per il fascismo, come quelle di Angelo Oliviero Olivetti, oppure dalle posizioni del nazionalista interventista poi fascista Giovanni Preziosi, traduttore in italiano, nel 1921, dei Protocolli dei Savi di Sion77. Olivetti riteneva che il bolscevismo fosse diretto da una «piccola schiera di Ebrei audaci volitivi ed intelligenti»: per una «vendetta della storia» il bolscevismo, favorendo «le grandi correnti finanziarie», avrebbe contribuito allo «sviluppo del capitalismo in Russia»78. Le radici di queste posizioni rimontavano all’antisemitismo socialista, a quel «socialismo degli imbecilli» che aveva avuto larga eco negli ambienti sindacalisti rivoluzionari d’inizio Novecento e aveva trovato in Paolo Orano il suo interprete più coerente – e inquietante79. Non stupisce in questo senso la convergenza di Mussolini con Sorel e con la sua celebre postfazione Pour Lénine, aggiunta a Les réflexions sur la violence proprio nel
Il capitano francese Jacques Sadoul, membro della missione militare francese, il quale tenne per conto del governo francese contatti con i Commissari del popolo, era definito «un ebreo, legato con vincoli di razza con gli altri ebrei che esercitano in questo momento la loro feroce dittatura a Mosca», in Benito Mussolini, Il documento Sadoul: apologia o condanna?, “Il Popolo d’Italia”, 16 marzo 1919. Le lettere di Sadoul dalla Russia rivoluzionaria erano comparse sull’“Avanti!”, 10, 13, 14 marzo 1919. 76 Cfr. Francesco Vecchi, Arditi! e [Piero] Bolzon, Crisi economica o crisi morale?, entrambi ne “L’Ardito”, 11 maggio 1919 e 4 aprile 1920, in Francesco Germinario, Fascismo 1919… cit., p. 81. 77 Richard James Boone Bosworth, Mussolini’s Italy: life under the dictatorship, 1915-1945, Penguin Books, New York 2006, pp. 147-148. Sul precoce antisemitismo di Mussolini – e in particolare sul suo rapporto con l’antibolscevismo – si veda Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano 2005, pp. 117-124 e 232-233: del dibattito suscitato da questo libro non è possibile qui rendere conto. 78 Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo… cit., pp. 23 e 75. 79 Michele Battini, Il cuore di tenebra della civiltà italiana. Il tragitto di Paolo Orano, in Id., Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri, Torino 2010, pp. 134-173. Per un’interpretazione più discutibile, troppo pronta a identificare questi ambienti col fascismo, cfr. Zeev Sternhell-Mario Sznajder-Maia Asheri, Nascita dell’ideologia fascista, Baldini&Castoldi, Milano 2002. 75
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settembre 1919. Egli riteneva plausibile che «gli ebrei entrati nel movimento rivoluzionario [fossero] responsabili degli ordini terroristi rimproverati ai bolscevichi»80. Ispirato tra gli altri proprio da Sorel, il problema della violenza assunse un nuovo rilievo a partire dall’estate-autunno del 1920, quando cominciò a manifestarsi la prassi sistematica della violenza squadrista. In particolare, dopo la strage di Palazzo d’Accursio che era avvenuta a Bologna il 21 novembre 1920, e che era l’esito del conflitto tra squadristi, guardie rosse e forze dell’ordine, Mussolini accusò il PSI d’essere «un esercito russo accampato in Italia»81. Da allora, la definizione di un modello bolscevico di violenza totale e indiscriminata servì al capo del fascismo per legittimare l’uso della violenza in chiave «antibolscevica», cioè antisocialista. A differenza del «socialismo russificato», i fascisti non l’avevano elevata «a dottrina e a metodo di battaglia»: «Noi – continuava Mussolini – non siamo bevitori di sangue, né esteti della violenza e mille volte su queste colonne abbiamo detto che di tutte le guerre possibili e immaginabili, è quella civile che più ripugna all’animo nostro. Abbiamo sempre dichiarato e dichiariamo che siamo pronti ad accettare, quando ci sia imposta, la guerra civile e a condurla con la necessaria energia e intrepidezza»82. Nel noto discorso di Udine, tenuto a poco più d’un mese dalla marcia su Roma, nel pieno dell’ultima offensiva fascista, la violenza fascista diventò «un gioco da fanciulli», se era «paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone [sic]»83. Ancora una volta, dunque, il confronto con l’esperienza rivoluzionaria russa e col modello bolscevico metteva a disposizione del fascismo un eccezionale strumento di legittimazione e insieme di auto-definizione per negazione. Distruzione e (ri)costruzione di Stati Le percezioni, interpretazioni e rappresentazioni della “guerra civile europea” e della “crisi eurasiatica” erano cariche d’implicazioni politiche, ma in quale direzione? Una delle discussioni storiografiche più rilevanti riguarda il tragitto di Mussolini, dal 1914 al 1922, quando si improvvisarono brusche torsioni politiche e si sedimentarono materiali culturali precedenti, in contesti del tutto nuovi. Renzo De Felice ha richiamato l’attenzione sull’importanza delle matrici sindacaliste rivoluzionarie del percorso di Mussolini fino al 1920 – dal socialismo al fascismo – ma ha individuato una svolta importante nel corso della Grande Guerra. Quest’ultima è stata identificata meno con il passaggio dal neutralismo socialista all’interventismo “di Sinistra” che con la disfatta di Caporetto e con la conseguente subordinazione dell’interventismo alla “Destra” nazionalista. Tuttavia, secondo De Felice,
Georges Sorel, Plaidoyer pour Lénine. Cfr., in generale, Carlo Carini, Lenin e la rivoluzione russa negli scritti italiani di Sorel, Olschki, Firenze 1974 e Shlomo Sand, Sorel, les Juifs et l’antisemitisme, “Cahiers Georges Sorel”, n. 1 1984, pp. 7-36. 81 [Benito] Mussolini, L’eccidio di Palazzo d’Accursio, “Il Popolo d’Italia”, 23 novembre 1920. 82 [Benito] Mussolini, Cose a posto, ibid., 24 novembre 1920. Per una riflessione socialista coeva sulla pratica fascista della violenza, in confronto con le tecniche bolsceviche, si veda Giorgio Petracchi, L’avvento del fascismo in un inedito di Giacinto Menotti Serrati, “Storia contemporanea”, n. 4/5 1980, pp. 635-655. 83 [Benito] Mussolini, Il discorso di Udine, “Il Popolo d’Italia”, 20 settembre 1922. 80
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il fascismo si formò su un terreno e su una prospettiva “di Sinistra”, che si spostò “verso Destra” nella seconda metà del 1920, attraverso l’innesto dello squadrismo agrario84. In dissenso con De Felice, Roberto Vivarelli ha ipotizzato che, fin dall’autunno del 1914, col passaggio dal neutralismo all’interventismo, o meglio dalla passione di classe alla passione nazionale, la posizione di Mussolini si ponesse sotto il segno di un nazionalismo “sovversivo”. Nel quadro della crisi post-bellica delle istituzioni liberali, di fronte alla minaccia rivoluzionaria del massimalismo socialista, radicata nella questione contadina, ma alimentata dal mito della rivoluzione russa, il fascismo, pur con mezzi illegali, si fece carico della difesa dello Stato nazionale85. Emilio Gentile ha seguito le molteplici stratificazioni del percorso ideologico di Mussolini, riconoscendo in particolare l’importanza del mito dello Stato nuovo, maturato sul terreno del radicalismo antigiolittiano – soprattutto “vociano” – pur senza rappresentarne l’unico esito possibile. Seguendo in parte le suggestioni di De Felice, Gentile ha ritrovato, tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, una “svolta a Destra” con cui, attraverso la mobilitazione dei ceti medi, finivano per prevalere le potenzialità reazionarie su quelle rivoluzionarie già presenti nel “fascismo sansepolcrista”86. Ciascuno di questi contributi ha illuminato aspetti decisivi del percorso culturale e politico di Mussolini – il socialismo e il sindacalismo rivoluzionario, il radicalismo antigiolittiano, l’interventismo rivoluzionario, il nazionalismo – all’interno del contesto nazionale italiano, nell’età giolittiana come durante la guerra. Come abbiamo visto fin qui, il confronto con l’esperienza rivoluzionaria russa e col modello bolscevico contribuì a ridefinire la prospettiva “reazionaria” di Mussolini nel quadro del dopoguerra europeo. A partire dal 1921, dopo aver a lungo contestato la validità e l’applicabilità della tradizionale dicotomia tra Destra e Sinistra al movimento fascista, e dopo aver a lungo predicato la necessità di distinguere il PSI dal socialismo e dalla classe operaia, Mussolini rivendicò con crescente insistenza la disponibilità a occupare lo spazio politico “reazionario”, “a Destra”. Cosa intendeva con queste espressioni il capo del movimento fascista? Per cercare una risposta si può partire da un articolo del febbraio 1920, in cui Mussolini definiva Lenin «come il più grande fra i viventi e il più vivente fra i più grandi reazionari d’Europa» – «l’unico che abbia il coraggio di essere reazionario nel senso antico ed in quello moderno (reazione, cioè, a tutte le disintegrazioni economiche, politiche, morali della vita sociale)»87. Tuttavia, solo in un successivo e ben più importante articolo del luglio 1920, L’artefice e la materia, Lenin diventò il principale ispiratore della concezione costruttivista di Mussolini, in cui la politica era assimilata a una sorta di arte plastica, a uno strumento con cui plasmare l’inerte materia umana: «Lenin è un artista che ha lavorato gli uomini, come altri artisti lavorano il marmo e i metalli. Ma gli uomini sono più duri del
Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit., in particolare pp. 40, 296, 391-392. Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. Vol. I… cit., pp. 259-336. Per il giudizio su De Felice cfr. Id., Benito Mussolini dal socialismo al fascismo, “Rivista Storica Italiana”, LXXIX 1967, pp. 438-458. Per una discussione critica sull’opera di Vivarelli cfr. Marco Bresciani, L’autunno dell’Italia liberale: una discussione su guerra civile, origini del fascismo e storiografia “nazionale”, “Storica”, n. 3 2013, pp. 77-110. 86 Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., in part. p. 273 e Id., Il mito dello stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1999 (nuova edizione riveduta). 87 [Benito] Mussolini, Crepuscoli. I templi e gli idoli, “Il Popolo d’Italia”, 25 febbraio 1920. 84 85
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macigno e meno malleabili del ferro. Il capolavoro non c’è. L’artista ha fallito. Il compito era superiore alle sue forze». Mussolini fu attratto dalla «vasta terribile esperienza in corpore vili» nella Russia rivoluzionaria, in quanto esempio di distruzione e di ricostruzione d’un nuovo Stato, un esempio attraverso il quale definire il fascismo. Il confronto con quanto avveniva sotto il regime bolscevico aiutò Mussolini a costruire un modello cui ispirare la costruzione del proprio regime, che affrontasse e risolvesse la questione della «crisi d’autorità» nell’Italia postbellica. Questa era infatti investita dal «caos politico occidentale» che aveva fatto dello Stato una nozione «elastica ed evanescente»: ovunque, «un continuo urto fra autorità vecchie e nuove», «una interferenza o coesistenza di poteri contraddittori» caratterizzava il paesaggio politico dell’Europa post-bellica. Nello specchio rovesciato della Russia di Lenin emergeva la soluzione: «Uno Stato che ha superato la sua crisi d’autorità. Uno Stato nell’espressione più concreta della parola. Uno Stato, cioè un Governo, composto di uomini che esercitano il potere, imponendo ai singoli e ai gruppi una disciplina di ferro, facendo, quando occorre, della “reazione”»88. Questa riflessione intorno al concetto di «reazione» – ben lontana dall’esaurirsi nella risposta ai nemici della nazione – era strettamente legata in Mussolini alla sua eterogenea formazione politico-culturale e alla febbrile trasformazione del movimento fascista e del suo aggressivo progetto di conquista del potere, nel corso del 1920. Il giorno precedente la pubblicazione di quell’articolo di Mussolini, a Trieste lo squadrismo organizzava la sua prima importante azione violenta, assalendo il “Balkan”, centro di aggregazione sociale e culturale sloveno, ed avviando una brutale offensiva contro gli “slavi” nell’Alto Adriatico89. Lo squadrismo organizzato nell’area di confine avrebbe costituito da modello per la diffusione, nell’autunno-inverno successivo, del fascismo squadrista nell’Italia centro-settentrionale, dove si sarebbe scatenato contro il movimento socialista, soprattutto contadino. Il discorso di Mussolini, dunque, non era tanto ispirato da una concezione astratta o teorica dello Stato, quanto dal concreto e mutevole rapporto tra caos e Stato, tra distruzione e ricostruzione dell’autorità statale, tra disintegrazione e reintegrazione dell’ordine politico e sociale post-bellico. Se la Rivoluzione russa aveva dimostrato che gli Stati «falliti» potevano essere dissolti, l’esperienza del potere bolscevico rivelava che gli Stati potevano riemergere dall’anarchia. Era una tesi che, in tutt’altro contesto e con altri argomenti, era stata proposta da Piero Gobetti e dal suo «paradosso dello spirito russo»90. Mussolini tornò a più riprese sul confronto tra l’esperienza sovietica e quella fascista nel 1922, quando l’offensiva squadrista aveva in larga misura distrutto e neutralizzato i suoi nemici – socialisti e comunisti soprattutto, ma non solo – sollevando la concreta prospettiva della conquista del potere. Dal suo punto di vista, il nuovo Stato sovietico non rappresentava tanto un modello statico – rispetto al quale nutriva dubbi, per il suo estremo
88 [Benito] Mussolini, L’artefice e la materia, ibid., 14 luglio 1920. Sull’importanza di questo testo ha già richiamato l’attenzione Emilio Gentile, Le origini dell’ideologia fascista… cit., pp. 203-205. 89 Cfr. Anna Maria Vinci, Sentinelle della patria. Il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza, Roma-Bari 2011. 90 Cfr. Vittorio Strada, Introduzione a Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo e altri scritti sulla letteratura russa, Einaudi, Torino 1976. Ringrazio Antonello Venturi per avermi consentito la lettura d’un suo testo inedito che figurerà come Introduzione a una nuova edizione del Paradosso per le Edizioni Gobettiane, di prossima pubblicazione.
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statalismo – quanto un motore d’energia, con cui alimentare la sovversione antistatale in Italia e lavorare per la presa del potere fascista. Più che la definizione d’una vera e propria teoria della sovranità statale, infatti, ai fascisti e al loro duce interessava il confronto tra la contingente situazione europea – «occidentale» – e quella della Russia: di qui derivava la rivendicazione d’un nuovo potere, identificato con la fine dello Stato di diritto, e la concezione dello «Stato fascista» come ossimoro che rivelava l’attivismo e il dinamismo intrinseco al fascismo. Invece di designare una posizione politica, la «reazione» nel discorso di Mussolini veniva a definire una svolta epocale non solo nel dopoguerra, ma nella storia europea, rispetto alle quali le forze «reazionarie» dimostravano una maggiore capacità d’adattabilità politica. Un impulso decisivo verso questa svolta fu conferito da Lenin, «più grande reazionario dell’età contemporanea»91. Questa interpretazione del dopoguerra europeo era generalizzata da Mussolini in un testo chiave, Dove va il mondo?, pubblicato su “Gerarchia” e in forma abbreviata su “Il Popolo d’Italia” nel febbraio 1922. Spiegava il capo del fascismo: All’indomani dell’armistizio, il pendolo oscillò violentemente verso sinistra: sia nel campo politico, che nel campo sociale. Due imperi crollarono: quello degli Hohenzollern e quello degli Absburgo, mentre un altro, quello dei Romanoff, li aveva preceduti. [...] Negli anni ’19-’20 tutta l’Europa centrale ed orientale è travagliata dalla crisi politica di consolidamento dei nuovi regimi, aggravata e complicata dalla crisi che chiameremo socialista, cioè dai tentativi di realizzare qualcuno dei postulati delle dottrine socialiste. [...] Non v’ha dubbio che la fine del 1920 segna in tutta Europa il culmine della crisi sociale di “sinistra”. Ma nei quindici mesi intercorsi da allora ad oggi, la situazione è cambiata. Il pendolo volge ora a destra. Dopo l’ondata della rivoluzione, ecco l’ondata della reazione; dopo il periodo rosso (l’ora rossa), ecco l’ora bianca. Come sempre accade, la nazione che più violentemente scartò a sinistra, è, quella che, da qualche tempo, cammina più velocemente verso destra: la Russia. Il “mito” russo è già tramontato.
Mussolini riconosceva un comune destino storico alle «tre nazioni», Russia, Germania e Italia, spinte da un «movimento sociale e spirituale» che si orientava «a destra», intendendo con ciò non tanto l’annullamento delle «esagerazioni estremistiche dell’immediato dopoguerra», quanto «una revisione di valori assai più vasta e radicale». Più che la storia del dopoguerra, a suo avviso, era l’intera storia europea dalla Rivoluzione francese alla Grande Guerra a conoscere una svolta radicale e duratura, che si definiva attraverso il nuovo «orientamento a destra». Il biennio 1919-1920 aveva rappresentato il culmine d’una lunga evoluzione democratica e il punto di partenza della sua reversione, consacrando il passaggio ad un’epoca dominata dalle «nuove aristocrazie», in cui le masse non potevano essere «protagoniste», ma «strumento della storia». Il 1921 aveva segnato la fine del XIX secolo – «il secolo delle rivoluzioni» – e l’inizio del XX secolo – «il secolo delle restaurazioni»: «La rivoluzione è in questa reazione. Rivoluzione di salvezza, perché evita all’Europa la fine miseranda che l’attendeva, se la democrazia avesse continuato a imperversare»92.
[Benito] Mussolini, C’è una reazione..., “Il Popolo d’Italia”, 19 marzo 1922. Questo articolo fu scritto in occasione dell’inizio del processo contro 47 social-rivoluzionari che si tenne a Mosca nel marzo 1922. Mussolini tornò sul tema ne Il processo di Mosca, ibid., 17 giugno 1922. 92 Benito Mussolini, Dove va il mondo?, “Gerarchia”, 25 febbraio 1922. La terza e la quarta parte dell’articolo sono pubblicate anche su “Il Popolo d’Italia”, 26 febbraio 1922. Questo lungo articolo di 91
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Non a caso, questo discorso sulle forme dello Stato fascista si fece più intenso con l’aggravarsi della crisi politica, nel corso del 1922, e con la conseguente, crescente disponibilità dei fascisti ad assumere una diretta responsabilità di potere. In particolare, sollecitato dal dibattito politico e pubblico seguito all’occupazione fascista di Ferrara nel maggio 1922, Mussolini riprese la domanda cruciale se il fascismo fosse «un movimento di restaurazione dell’autorità dello Stato o di sovvertimento della stessa autorità», chiarendo come fosse un falso problema: il vero problema era lo Stato nel contesto di crisi politica del momento. Lo Stato era definito come «sistema di gerarchie», ma la vitalità di queste gerarchie si nutriva dell’«anima» della «parte più eletta» della società. Nella misura in cui la «decadenza delle gerarchie» equivaleva alla «decadenza degli stati», solo una rivoluzione poteva sostituire o rinnovare «le gerarchie decadenti o insufficienti». E qui Mussolini si rivolgeva ancora una volta al modello russo, ma in una chiave nuova: L’esempio russo è là a dimostrare che “la amministrazione delle cose” provoca la creazione di uno Stato, anzi di un super-Stato, che aggiunge alle vecchie funzioni di tutti gli Stati – guerra e pace, polizia, giustizia, esazione dei tributi, scuole, ecc. – funzioni di ordine economico. Il fascismo non nega lo Stato; afferma che una società civica nazionale o imperiale non può essere pensata che sotto la specie di Stato; non va, dunque, contro l’idea di Stato, ma si riserva libertà di atteggiamento di fronte a quel particolare Stato che è lo Stato italiano.
Il fascismo che si considerava «lo Stato in potenza e in divenire», contrastava e sovvertiva «lo Stato in atto», vale a dire lo Stato liberale che accettava di difendere solo contro i suoi nemici socialisti. L’ostilità fascista per lo Stato liberale era motivata non solo dall’estensione smisurata delle sue funzioni economiche, che ne facevano uno Stato «semi-socialista» e «monopolista», ma anche e soprattutto dalla «crisi delle gerarchie» che erano «senz’anima» e che provocavano la «crisi dello Stato»93. Proprio per la sua carica eversiva, tesa a smantellare lo Stato di diritto, la «marcia su Roma» avrebbe a buon diritto potuto definirsi la «marcia contro Roma». Il dispositivo retorico legittimante la «rivoluzione fascista» era pronto ben prima dello svolgimento dell’ottobre 1922 e si dispiegò pienamente nei mesi successivi, in forma di legittimazione retrospettiva. E ancora una volta, riaffiorava il parallelo tra la «rivoluzione di Mosca» e la «rivoluzione di Roma» e l’alternativa – opposta, ma speculare – tra il metodo «russo» e quello «latino»: mentre la prima si era «gettata sulla macchina» dell’amministrazione dello Stato e l’aveva «frantumata in mille pezzi», la seconda non l’aveva demolita «tutta intera e tutta in una volta», ma «per gradi, per pezzi»94. Tuttavia l’ascesa di Mussolini al potere mutò gradualmente ma drasticamente il contesto, la natura e il ruolo del fascismo: Mussolini fu citato e acutamente commentato da Leo Valiani, Storia del socialismo nel secolo 20° (1900-1944): saggio critico, Edizioni U, Roma 1945, p. 170. 93 Benito Mussolini, Stato, anti-Stato e fascismo, “Gerarchia”, 25 giugno 1922, poi “Il Popolo d’Italia”, 29 giugno 1922. 94 Benito Mussolini, Tempo secondo, “Gerarchia”, gennaio 1923, p. 44. Interessante il fatto che Slonim seguisse le stesse linee argomentative di Mussolini nel confronto tra fascismo e bolscevismo, attraverso la metafora della «macchina statale» nella seconda parte d’un importante saggio: Prošloe i nastojaščee fašizma [Passato e futuro del fascismo] pubblicato nel gennaio e nel febbraio 1923 sul quotidiano dell’emigrazione social-rivoluzionaria a Praga, “Volja Rossii” – cfr. Antonello Venturi, Mark Slonim… cit., p. 150.
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la storia delle ulteriori percezioni, interpretazioni e rappresentazioni fasciste dell’Unione Sovietica, ufficialmente sorta nel dicembre 1922 e riconosciuta dal governo di Mussolini nel febbraio 1924, esula perciò da questo saggio. In conclusione, si può dire che la riduzione del fascismo ad una scala puramente nazionale, tipica di larghissima parte della storiografia, ha posto gravi limiti alla comprensione del suo discorso e della sua visione della crisi del dopoguerra europeo e globale. La proiezione universale del modello fascista e la sua aspirazione a un nuovo ordine europeo e mediterraneo sono state per lo più ricondotte all’influenza della crisi economica mondiale del 1929, all’ascesa al potere del nazismo e alla seconda guerra mondiale. Come abbiamo cercato di dimostrare, invece, un’attenta rilettura dei testi di Mussolini riguardanti la rivoluzione russa e il bolscevismo consente di legare strettamente il fascismo, fin dalle sue origini, al variabile ma cruciale spettro di percezioni e interpretazioni della crisi italiana, europea e globale del 1917-1922. Ovviamente, la cultura politica di Mussolini a quella data era già in larga misura formata, ed era l’esito del precedente percorso, che aveva sedimentato sindacalismo rivoluzionario, radicalismo antigiolittiano – “vociano” – e nazionalismo. Però, per cogliere significati e implicazioni di questa stratificata e ambigua cultura politica, che contribuì a elaborare il primo fascismo, occorre collocarla all’interno della contingenza post-bellica, in cui la crisi delle istituzioni liberal-democratiche e la conflittualità sociale e politica in Italia è inseparabile da un contesto più generale. Questo saggio ha cercato di documentare come il confronto con le esperienze rivoluzionarie russe e col nascente regime bolscevico avesse inciso su Mussolini e sul primo fascismo, i quali aspiravano a contenere l’Europa di Lenin e a destabilizzare l’Europa di Wilson, in nome d’un nuovo ordine nazionale e imperiale in cui l’Italia costituisse il centro e l’esempio. Ben lungi dall’esaurirsi in una forma pur radicale di nazionalismo, il progetto fascista fin da subito mirò anche a combattere una “guerra civile europea” che lacerava le nazioni del vecchio continente e a rispondere ad una “crisi eurasiatica” che sconvolgeva i rapporti tra l’Europa e il mondo. Per una tragica ironia, il carattere violento e l’esito catastrofico delle soluzioni fasciste furono radicati anche in questa ricerca d’una nuova Europa, e la loro contraddittoria – e vischiosa – eredità è durata molto più a lungo di quanto si potesse immaginare in quel primo dopoguerra.
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Antonello Venturi
La lotta per l’immagine della rivoluzione: i socialisti-rivoluzionari russi in Italia tra il 1917 e la nascita del PCdI
In un’Italia che sempre più velocemente andava allontanandosi dal vecchio mondo liberale, a partire dal 1917 emersero con forza nuove fratture politiche legate alla lettura, alla definizione e alla rappresentazione della rivoluzione russa, ancora in pieno svolgimento ma fin dall’inizio in grado di fornire alla politica italiana idee nuove e nuovi linguaggi. Scopo di questo saggio è mostrare come, nella vera e propria lotta per l’immagine della rivoluzione che ne seguì, un ruolo particolare finì per spettare allora ai socialisti-rivoluzionari russi attivi in vario modo all’interno dello spazio politico italiano, interpreti capaci talvolta di farsi tramiti efficaci delle proprie culture e della nuova realtà russa, talvolta invece inadatti essi stessi a comprendere gli avvenimenti in corso, paradossalmente a causa delle loro esatte conoscenze dell’ormai superata realtà precedente. Il lessico della rivoluzione russa servì spesso a definire aspirazioni e timori del mondo politico italiano di quegli anni, anche se in alcuni momenti la diversità delle culture e dei linguaggi politici che vennero così a incontrarsi costituì un serio ostacolo alla comprensione di quelle esperienze, togliendo efficacia anche alle più realistiche rappresentazioni. Nel contrapporsi delle più diverse immagini della rivoluzione, nel pieno della lotta per la loro affermazione, per qualche anno i socialisti-rivoluzionari russi poterono così pensare di contribuire a dar forma alle nuove forze politiche che andavano emergendo in Italia, ma in genere ne furono largamente strumentalizzati. Si trattò in ogni modo d’un incontro complesso, in cui anche le loro immagini più chiare e più forti subirono una ricezione molto selettiva da parte di un mondo politico così particolare come quello italiano in cui si trovarono ad agire, segnato da categorie che di volta in volta condizionarono o deviarono il significato delle esperienze1.
Quel che si presenta qui è un punto d’osservazione particolare su una vicenda alla quale, in forme diverse e più generali, mi sono spesso avvicinato: cfr. Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia, 1917-1921, Feltrinelli, Milano 1979; Id., L’emigrazione socialista russa in Italia, 1917-1921, “Movimento operaio e socialista”, a. X, n. 3 1987, pp. 269-297; Id., L’emigrazione rivoluzionaria russa in Italia (1906-1921), ne I russi e l’Italia, a cura di Vittorio Strada, Banco Ambrosiano Veneto-Libri Scheiwiller, Milano 1995, pp. 85-89; Id., Russkie emigranty-revoljucionery v Italii (19061922) [Rivoluzionari russi emigrati in Italia (1906-1922)], in Russkie v Italii: kul’turnoe nasledie emigracii [Russi in Italia: l’eredità culturale dell’emigrazione], Russkij Put’, Moskva 2006, pp. 4452; Id., U mifologii v plenu. Russkaja emigracija v Italii i revoljucionnaja Rossija [In balia del mito. L’emigrazione russa in Italia e la Russia rivoluzionaria], “Rodina”, n. 4 2011, pp. 136-137. 1
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Una presenza socialista russa si era radicata in Italia nel decennio precedente la guerra, a partire dalla sconfitta della rivoluzione del 1905, anche se numericamente limitata e dotata di strutture organizzative molto più fragili di quelle dei principali centri europei dell’emigrazione politica di quegli anni2. Quando scoppiò la rivoluzione a Pietrogrado, dopo più di due anni e mezzo di guerra europea, tale presenza era in realtà particolarmente ridotta per una serie di cause diverse, ma tutte concentratesi nel periodo immediatamente precedente. Vi era stata la grande amnistia del 1913 per il trecentesimo anniversario dei Romanov, che aveva ad esempio permesso anche a un bolscevico politicamente attivo come Maksim Gor’kij di lasciare l’Italia, dove la sua residenza aveva rappresentato uno dei principali centri di raccolta del mondo socialdemocratico qui emigrato. Più tardi, in vista dell’ingresso in guerra anche dell’Italia, era seguito il prudente spostamento nella neutrale Svizzera d’una parte degli internazionalisti contrari al conflitto, fino ad allora stabilmente insediati in Liguria, come il fondatore e teorico del partito dei socialisti-rivoluzionari russi (PS-R) Viktor M. Černov, e con lui d’un largo ambiente di emigrati che nel decennio precedente si era variamente sparso in quella regione. Subito dopo la rivoluzione di Febbraio del 1917, infine, abbandonarono l’Italia per tornare in Russia anche i socialisti che in odio all’imperialismo tedesco avevano accettato la guerra, come il padre del marxismo russo Georgij V. Plechanov, politicamente ormai collocatosi in campo menscevico. I socialisti russi politicamente attivi, i rivoluzionari di professione ancora presenti in Italia nei mesi successivi, risultarono essere in maggioranza membri del PS-R. Come sarebbe avvenuto anche in Francia3, per qualche anno essi lasciarono dunque sul mondo politico italiano il segno della loro specifica lettura del processo rivoluzionario, un segno comunque non univoco ed esso stesso in rapido mutamento. Fino al 1917-18, gli specifici caratteri politici e culturali del PS-R non erano del resto particolarmente evidenti ai socialisti italiani, che avevano più che altro una visione romantica e largamente tinta di esotismo dell’intero movimento rivoluzionario russo, e guardavano con un senso di paternalistica sufficienza alle sue durissime lotte interne. Alla vigilia del febbraio 1917, Giacinto Menotti Serrati, il più importante dirigente della maggioranza socialista italiana contraria alla guerra, aveva potuto scrivere che «le due frazioni principali, che scindevano prima della guerra il movimento socialista russo, sono rimaste a dispetto di tutto anche ora e si contendono con sottigliezze, con disquisizioni teoriche il campo della propaganda. […] E bisogna tenere conto di questi vecchi e dolorosi dissensi – inevitabili, pare, fra i nostri compagni russi – e saperli trattare con riguardo»4. Fra i primi e più ampi studi cfr. Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari 1977 (edizione rivista: Rubbettino, Soveria Mannelli 2002) e Anastasia Becca Pasquinelli, La vita e le opinioni di M.A. Osorgin, 1878-1942, La Nuova Italia, Firenze 1986. Ma soprattutto cfr. Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso (a cura di), Oskolki russkoj Italii. Issledovanija i materialy [Frammenti dell’Italia russa. Studi e materiali], Vikmo M-Dom Russkogo Zarubež’ja im. Aleksandra Solženicyna-Russkij put’, Moskva 2011. Il sito fondamentale a cui fare oggi riferimento è: http:// www.russinitalia.it 3 Albert S. Lindemann, Socialismo europeo e bolscevismo (1919-1921), Il Mulino, Bologna 1977; Christian Jelen, L’aveuglement. Les socialistes et la naissance du mythe soviétique, Flammarion, Paris 1984; Eric Aunoble, La révolution russe, une histoire française: lectures et représentations depuis 1917, La Fabrique éditions, Paris 2016. 4 I.O. [Giacinto Menotti Serrati], A Zimmerwald. Noterelle di uno che c’è stato, “Almanacco Socialista Italiano”, 1917, p. 192. 2
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In realtà, a partire dai primi anni del secolo, tutte le formazioni politiche del socialismo russo avevano ormai assunto una forma partitica assai moderna, basandosi sul classico modello tedesco della Seconda Internazionale, dal quale avevano anche mutuato la più tipica terminologia del marxismo di quegli anni, pur riempiendola a volte di contenuti diversi. Formatosi nella clandestinità e nell’emigrazione tra il 1900 e il 1901, attivo nell’Impero a partire dal 1902, nel 1917 il PS-R era quindi un partito relativamente giovane, pur avendo alcune radici nel movimento rivoluzionario della Russia ottocentesca, che in parte ancora ne colorava miti ed elaborazioni ideologiche. Fenomeno di sincretismo rivoluzionario, momento di sintesi tra diverse fisionomie del socialismo russo e di quello europeo-occidentale, con buona intuizione politica il PS-R aveva costruito un modello dell’imminente rivoluzione russa in cui i contadini avrebbero avuto un ruolo pari a quello degli operai, due elementi che anche sociologicamente esso tendeva a equiparare, attraverso una evidente negazione dell’unilinearità storica e una particolare attenzione alle nazioni povere del mondo, anche al di là del caso russo. Si trattava inoltre d’un partito segnato da un’eccezionale energia rivoluzionaria, da una concezione etico-volontaristica del socialismo e da una forte fiducia nel mondo intellettuale, che fin dall’inizio lo avevano portato a farsi sostenitore anche di tattiche terroristiche. Nel complesso, si trattava d’un materiale politico e umano spesso incandescente, la cui presenza nella pur liberale Italia giolittiana era sempre stata guardata con particolare preoccupazione, ma che di fronte agli avvenimenti del 1917 parve improvvisamente poter giustificare la propria specifica identità, se non altro agli occhi del socialismo italiano. Nei primi giorni successivi al crollo dello zarismo fu Vasilij V. Suchomlin – classica figura di rivoluzionario di professione vissuto negli anni precedenti in Liguria con Černov e destinato ad emergere quale uno dei principali dirigenti e teorici del PS-R nell’emigrazione degli anni ’20 – a cercare d’impostare la linea del Partito Socialista Italiano nella lotta che cominciava allora ad avviarsi per la rappresentazione della rivoluzione, per la comprensione e insieme la propaganda della sua immagine. L’“Avanti!” era ricorso alla sua consulenza già negli ultimi mesi della crisi russa, così egli fu il primo a segnalare sulle pagine dell’organo di stampa centrale del PSI la creazione del soviet operaio di Pietrogrado, che con evidente riferimento alla Commune parigina e ancora lontano dagli inconcludenti dibattiti italiani che avrebbero segnato poi la sua esplosiva mitizzazione, definì allora una «specie di Comune rivoluzionario». Allo stesso tempo, tuttavia, indicava nella decisione appena presa dalle autorità russe di convocare l’Assemblea costituente, la migliore testimonianza di quale fosse «la vera essenza e la vera potenza del movimento popolare»5. La tipica contraddizione rivoluzionaria del 1917 russo tra istituzioni sovietiche e democratiche era dunque subito impostata, mostrando fin dall’inizio quanto le immagini più realistiche della rivoluzione potessero essere anche profondamente ambigue. Più netta era la sua rappresentazione di una rivoluzione essenzialmente “proletaria”, sia pur nella tipica accezione socialista-rivoluzionaria del termine, quindi insieme operaia e contadina. Spiegando che a guidare il movimento russo non era stata «la borghesia russa [che] fino a questi ultimi anni viveva perfettamente in pace con l’autocrazia»6, egli infatti implicitamente riprendeva, sostanziandola negli ultimi avvenimenti, tutta la vecchia polemica del PS-R con il marxismo russo che, malgrado alcune parziali e reticenti eccezioni, aveva 5 6
[Vasilij V. Suchomlin], L’azione proletaria, “Avanti!”, 18 marzo 1917. [Vasilij V. Suchomlin], I precursori della rivoluzione russa, ibid., 25 marzo 1917.
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fino ad allora sostenuto che il crollo dello zarismo avrebbe assunto le forme d’una “rivoluzione borghese”. Ma si trattava anche di un’aperta polemica contro la rappresentazione della rivoluzione di Febbraio quale strumento di più efficace continuazione della guerra attraverso la modernizzazione del paese7. Era stata questa, in effetti, la prima lettura degli avvenimenti russi anche da parte dei socialisti che in Europa più si erano impegnati nel conflitto, come i maggioritari francesi e inglesi, gli interventisti italiani e persino – sul fronte opposto – la maggioranza dei socialisti tedeschi, tutti convinti che la rivoluzione desse finalmente solide fondamenta alle loro teorie sulla funzione storica progressista della lotta in corso per il potere europeo. Dal punto di vista d’un socialista-rivoluzionario russo, era quindi particolarmente grave che anche il PSI dopo le prime giornate rivoluzionarie avesse invece considerato la caduta dello zarismo nulla più che una delle tante rivoluzioni popolari sconfitte della storia europea. Serrati aveva affermato: «la rivoluzione russa è stata abilmente vinta […]. La bandiera rossa […] è stata ammainata. Al pallido sole della appena incipiente primavera sventola il vessillo della patria. […] La borghesia russa è stata abilissima […] la rivoluzione proletaria è stroncata»8. La difficoltà dei contemporanei nel dare senso agli avvenimenti in corso era del tutto evidente, ma anche nel PSI non mancava chi avesse diretta conoscenza del socialismo russo. Anna Kuliscioff – Anna Moiseevna Rozenštejn-Kulišëva – figura di primo piano del socialismo italiano d’età giolittiana, ma anche perfetta incarnazione del più classico populismo russo degli anni ’70 del secolo precedente, al quale continuava a guardare con attenzione il neopopulismo socialista-rivoluzionario della generazione di Suchomlin, il giorno stesso della pubblicazione dello scritto di Serrati commentava aspramente: «un articolo indecente, che fa veramente schifo; stamattina, leggendolo, ero furibonda, mi vergognavo di appartenere ad un partito che ha per espressione un giornale così idiota, così ignorante, così chiuso […]»9. Più diplomatica, ma altrettanto sostanzialmente critica e ideologicamente straniante, sarebbe stata la lettura degli avvenimenti data da Suchomlin. Sia pure sotto la forma particolare d’un esercito in pieno ammutinamento – spiegava – erano stati i contadini russi a portare al crollo dello zarismo, quegli stessi contadini che «ad onta di tutte le fandonie finora raccontate»10 su di loro non costituivano affatto il bastione della reazione, e avevano anzi mostrato un aperto spirito rivoluzionario già nella lotta contro «le arcaiche relazioni fra soldati e ufficiali»11, in attesa di mobilitarsi per la ripartizione egualitaria delle terre. Per i socialisti russi «era sempre la lotta, la vera unica lotta popolare»12 a restare al di sopra della guerra, e i tentativi del soviet di Pietrogrado di convocare una conferenza socialista internazionale per interrompere al più presto le ostilità, mostravano «il vero carattere
Junior [Vasilij V. Suchomlin], Gli “elementi demagogici” e i nuovi uomini d’ordine, ibid., 21 marzo 1917. 8 [Giacinto Menotti Serrati], Bandiera rossa, ibid., 19 marzo 1917. 9 Filippo Turati-Anna Kuliscioff, Carteggio. Vol. IV. 1915-1918. La grande guerra e la rivoluzione. Tomo 1, a cura di Franco Pedone, Einaudi, Torino 1977, p. 462. 10 Junior [Vasilij V. Suchomlin], La Rivoluzione russa, Libreria Editrice Avanti!, Milano 1917, p. 44. 11 Ibid., p. 51. 12 Ibid., p. 53. 7
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della rivoluzione [che] si afferma ogni giorno con una sicurezza e una pienezza sempre maggiori»13. Ma proprio l’incapacità del socialismo russo di risolvere realmente il problema della guerra in corso si rifletteva male nell’immagine della rivoluzione che veniva sempre più dettagliatamente costruendo Suchomlin. Spiegava che la decisione di «trasformare la crisi bellica in crisi rivoluzionaria»14 era maturata tra i socialisti russi già all’inizio del conflitto, ben prima degli eventi del 1917, ma la profonda frattura tra internazionalisti e difensisti rivoluzionari, sempre più lacerante sia all’interno del PS-R sia nel più generale spazio politico del socialismo russo, era in realtà quasi totalmente nascosta dalla sua rappresentazione degli eventi. Spesso gli avveniva persino di parlare d’un inesistente «Partito Socialista Russo», che ben corrispondeva alle contemporanee aspirazioni unitarie di Černov – del quale in quelle settimane riuscì anche a pubblicare qualche articolo sull’“Avanti!” – ma che aveva ben poco riscontro nella realtà politica del paese. La figura di Lenin, soprattutto, subiva nei suoi testi un particolare processo di accantonamento, di riduzione a puro elemento d’intransigente estremismo, di esempio ormai superato delle divisioni del difficile passato pre-rivoluzionario. Lo descriveva come un dogmatico, […] forse un po’ troppo astratto e non sempre preoccupato delle esigenze della vita e della realtà della evoluzione economica. È un temperamento rivoluzionario, intransigente; spesso intollerante e imperioso. […] Conoscendo però le condizioni di sviluppo del movimento operaio russo, possiamo senza difficoltà predire la prossima e forse imminente fusione di tutte le frazioni in un partito unificato. Già la guerra distrusse molti ostacoli e poche sono le differenze che dividono le varie frazioni dell’internazionalismo russo […]15.
Non erano certo rappresentazioni della realtà russa che potessero aiutare i socialisti italiani a comprendere gli avvenimenti, ma nei tre mesi successivi, fino alla sua partenza per la Russia a metà giugno, Suchomlin avrebbe mostrato sempre più nettamente i tratti originali del quadro che andava tracciando. Definire la rivoluzione, significava per lui anzitutto precisare i contenuti della politica russa, che si sforzava di presentare mescolando le proprie conoscenze del socialismo pre-rivoluzionario con le scarse notizie che poteva direttamente ricevere dalla Russia. I socialisti, impegnati nelle trattative per la partecipazione al governo, non stavano tentando di «arrivare alla socializzazione di tutti i mezzi di produzione e di ricambio», ma puntavano al «progettato profondo riordinamento della proprietà fondiaria» richiesto dai soviet contadini, quindi a realizzare «larghe riforme sociali» che portassero a «importanti conquiste sociali delle classi lavoratrici»: un programma che «rispecchia la vera essenza della rivoluzione»16. Una rivoluzione socialista, dunque, soprattutto perché dominata dalla «classe rivoluzionaria e socialista che è alla testa di tutto il vastissimo movimento»17, cioè garantita dalla forza dei soviet, presentati sempre più nettamente non come «corpi costituiti, alla stregua dei Parlamenti e dei Consigli municipali», ma come strutture in contatto permanen-
Junior [Vasilij V. Suchomlin], La politica estera del proletariato, “Avanti!”, 13 aprile 1917. Junior [Vasilij V. Suchomlin], La Rivoluzione russa, cit., p. 47 (il corsivo è nel testo). 15 Junior [Vasilij V. Suchomlin], Lenin, “Avanti!”, 25 aprile 1917. 16 Junior [Vasilij V. Suchomlin], Cominciano a dire la verità, ibid., 4 maggio 1917. 17 Junior [Vasilij V. Suchomlin], Pace senza conquiste, ibid., 15 aprile 1917. 13
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te e diretto con la larga base popolare della rivoluzione, come organismi che svolgevano un’ampia funzione egemonica – un concetto da tempo caro alla cultura politica di tutto il socialismo russo, dalla quale sarebbe passato più tardi anche a quella italiana: «al seguito della classe rivoluzionaria, intorno alla Russia del Lavoro, si raggruppano anche altri strati della popolazione […]. Non si tratta di una “dittatura” del proletariato, ma certamente il proletariato socialista e rivoluzionario in questo momento critico rappresenta gli interessi e le aspirazioni della grandissima maggioranza della popolazione»18. In un contesto così partecipativo e controllato dal basso, tra fine maggio e inizio giugno Suchomlin poté infine rappresentare il primo ingresso in un governo di coalizione dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, con l’esclusione delle loro ali internazionaliste, come un atto estremamente innovativo e rivoluzionario, «non rassomigliante per nulla alle altre partecipazioni socialiste alle quali la guerra europea diede il triste inizio»19. Tra i nuovi ministri vi era anche Černov, del quale per l’occasione vennero ripresentate anche alcune specifiche definizioni del socialismo europeo, vittima dell’«addomesticamento» subito dai rappresentanti del legalismo marxista e dai dottrinari della fatale evoluzione verso il socialismo, che attribuendo al proletariato «una innata virtù socialista» avevano largamente peccato d’un unilaterale «industriocentrismo», fino a sviluppare una tale fiducia nei risultati dell’introduzione del capitalismo nei paesi agrari più arretrati da dare origine a un vero e proprio «social-imperialismo», che solo la rivoluzione russa aveva cominciato a spezzare20. Era una visione titanica ed estremamente ampia degli avvenimenti russi di quei mesi, che nel complesso rilanciava il tipico volontarismo socialista-rivoluzionario anche su un più largo piano storico, attribuendogli una forza e una decisione ben maggiori di quanto effettivamente possedesse. Non stupisce perciò che un intellettuale socialista inquieto come Antonio Gramsci, particolarmente sensibile al valore attivo dell’azione rivoluzionaria e nutritosi in quei mesi anche della lettura di questi testi, potesse largamente riprenderne idee e definizioni nella stampa socialista torinese cui allora collaborava21. Nell’estate del 1917 il mito della rivoluzione russa si identificò in Italia soprattutto nell’idea della pace, e fu quindi intorno a questo tema che i socialisti russi vicini al PSI ripresero a costruire la loro immagine della rivoluzione. La repubblica democratica che stava affermandosi nell’ex-Impero continuava infatti la guerra, ma attivamente suscitando al proprio interno – e in parte anche in Europa occidentale – agitazioni d’ogni genere, scioperi sempre più radicali, tentativi di riconvocare l’Internazionale socialista. Michail Vodovozov, un ingegnere di evidente formazione socialista-rivoluzionaria che aveva lavorato negli anni precedenti la guerra in diverse aziende elettriche francesi e italiane, divenne allora il più attento costruttore di quell’immagine sull’“Avanti!”, al quale avrebbe continuato a collaborare in forme diverse fino al 1920. Il tema era in realtà fortemente divisivo, e tale da rendere molto difficile la continuità – che pure inizialmente vi fu – con la principale eredità politica lasciata da Suchomlin
Junior [Vasilij V. Suchomlin], Plekhanoff, Miliukoff e Lenin, ibid., 5 maggio 1917. Commento a Una dichiarazione del “Soviet” sulla partecipazione dei socialisti al governo, ibid., 16 giugno 1917. 20 Junior [Vasilij V. Suchomlin], Tre ministri zimmerwaldisti, ibid., 20 maggio 1917. 21 Antonio Gramsci, Scritti (1910-1926). Vol. 2. 1917, a cura di Leonardo Rapone, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2015. 18 19
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al socialismo italiano: l’idea d’una sostanziale unità del socialismo russo post-rivoluzionario. Vodovozov mancava largamente della forza intellettuale e dell’esperienza politica del suo predecessore, e le sue costanti simpatie per Černov e per una politica del soviet di Pietrogrado che immaginava molto più internazionalista di quanto realmente fosse, lo portarono in realtà, nel giro di pochi mesi, a costruire rappresentazioni piuttosto confuse degli avvenimenti russi. Il bolscevismo, in particolare, attraverso lui continuò ad essere rappresentato in modo incerto, come «il nemico più temibile della borghesia capitalistica, […] pur non essendo una lotta per la vita – non ammettendo Lenin giunto il momento della rivoluzione sociale e della soppressione del capitalismo». Più chiara, invece, era la sua lettura del leninismo quale intransigente politica d’opposizione alla guerra, quella che più stava conquistando consensi anche in Italia: «I bolsceviki hanno affermato ripetutamente che vogliono la pace per tutti i popoli, le cui masse lavoratrici devono unirsi tutte, anziché combattersi, ed il solo nemico che devono combattere – diceva proprio questo Lenin nei suoi scritti che lor signori non hanno mai letto – è il capitalismo imperialistico e militarista internazionale»22. Alla fine dell’estate del 1917, Vodovozov cominciò a unire diversi elementi della sua rappresentazione della rivoluzione in un’unica immagine, particolarmente accattivante per l’opinione socialista italiana, in cui identificava la politica bolscevica con il progetto d’un governo provvisorio esclusivamente socialista che garantisse la convocazione della Costituente, fondando su questa base l’aspettativa della realizzazione d’un largo fronte comune socialista che governasse finalmente il paese in pieno accordo col soviet di Pietrogrado. Non erano i bolscevichi, dunque, ma la borghesia russa che «provocava, amplificava ed acutizzava in ogni modo l’opposizione fra il governo ed il soviet»23, e anche il tentativo controrivoluzionario armato di Kornilov non era che «un nuovo passo in avanti verso l’applicazione del programma di Lenin: un governo schiettamente socialista con tutte le sue conseguenze»24, che affidasse la guida «della nave barcollante ad una direzione unica sia del capitale, sia del lavoro»25. Un programma che comunque, ancora seguendo la linea interpretativa ereditata da Suchomlin, non veniva presentato come esclusivamente bolscevico: anche Černov, «che fu uno dei primi sostenitori dell’alleanza con la borghesia in un governo di coalizione, ha mutato con il mutare della situazione stessa per arrivare in prima linea fra i difensori del governo di classe»26. Il colpo di Ottobre, la creazione del nuovo governo da parte del partito bolscevico – giunto ormai ad avere la maggioranza sia all’interno del soviet di Pietrogrado sia nei nuovi municipi di quartiere della capitale eletti su più larga base democratica – non aveva quindi bisogno di particolari spiegazioni. Ma la rappresentazione che ne dava allora Vodovozov – per quanto attraverso le maglie d’una censura italiana particolarmente dura nei giorni della disfatta di Caporetto – continuava a distorcere alcuni punti fondamentali della situazione russa, peraltro senza incontrare particolari obbiezioni da parte della direzione del socialismo italiano. La sua immagine dell’Ottobre era tutta costruita sull’idea d’una fondamentale unità del movimento socialista internazionalista russo, e quindi sostanzialmente
ING. [Michail Vodovozov], Leninismo, “Avanti!”, 22 agosto 1917. ING. [Michail Vodovozov], La borghesia al lavoro in Russia, ibid., 26 agosto 1917. 24 [Michail Vodovozov], Nuovi grandi avvenimenti in Russia, ibid., 11 settembre 1917. 25 ING. [Michail Vodovozov], La conferenza democratica, ibid., 2 ottobre 1917. 26 ING. [Michail Vodovozov], La conferenza democratica, ibid., 6 ottobre 1917. 22 23
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disinteressata alle notizie che subito iniziarono a giungere – anche da un menscevico internazionalista come Martov – sul nuovo governo di Pietrogrado, che si reggeva non solo sul soviet ma anche sui soldati armati, sugli arresti degli avversari e sulla soppressione della libertà di stampa e di riunione. La sua immagine apertamente conciliatrice, figlia d’una cultura politica non rigidamente partitica, era particolarmente adatta ad essere recepita da un socialismo italiano allo stesso tempo aprioristicamente schierato a favore del nuovo governo e in gran maggioranza del tutto estraneo alle rigidità e alle durezze del bolscevismo. Anche le elezioni per la Costituente, che si tennero nelle due settimane successive, per Vodovozov furono solamente un’occasione per confermare che gli eletti socialisti-rivoluzionari non potevano essere considerati contrari al nuovo governo, e che questo non aveva nessun «malvagio proposito» contro l’assemblea: Conosciamo Cernoff, sappiamo che è un zimmerwaldiano [internazionalista] convinto e fermo, il cui programma è sostanzialmente eguale a quello dei bolsceviki. […] l’opposizione di Cernoff al governo di Lenin non verte che sulla forma dell’attuazione della dittatura della democrazia rivoluzionaria […]. Un accordo fra lui e Lenin, cioè fra i loro rispettivi partiti, non è che questione di giorni: ne siamo sicuri27.
Idee in parte simili circolavano in quei giorni anche all’interno della più ristretta direzione bolscevica – persino pubblicamente, attraverso Zinov’ev e Kamenev – ma qui esse sembrano piuttosto rappresentare l’interessante costruzione d’un socialista russo molto sensibile a una cultura politica tipica della più generica sinistra socialista, e molto insistente nell’elaborare una rappresentazione che continuasse a dare un senso unitario a quel che andava avvenendo in Russia. Nelle ultime settimane del 1917, infine, la consonanza tra questa immagine della rivoluzione e la tradizione politica del socialismo italiano tendente a mescolare volontà unitarie e aspirazioni rivoluzionarie, contribuì a impedire che il PSI si confrontasse con una diversa costruzione della realtà russa, figlia dell’ultimo governo socialista di Kerenskij ma realizzata da un gruppo di socialisti russi che vivevano in Italia già prima del 1914-15 e che nelle condizioni dell’Europa in guerra vi erano rimasti anche dopo la rivoluzione di Febbraio. Il 2 dicembre 1917 iniziò ad uscire a Roma il settimanale “La Russia”, pubblicato con fondi giunti – attraverso l’ambasciata russa – dal governo e direttamente dal PS-R. Sotto la direzione d’un socialista-rivoluzionario da tempo dedito allo studio della comune rurale russa contemporanea – Karl Romanovič Kačorovskij – e d’un filosofo vicino al PS-R e traduttore di Croce – Boris V. Jakovenko28 – il giornale si proponeva soprattutto di rafforzare i legami italo-russi e di diffondere in Italia la tradizione politica e culturale del populismo russo, ma divenne subito strumento importante anche per la costruzione di un’immagine degli avvenimenti del 1917 pienamente inserita nella tradizione culturale e politica socialista-ri-
ING. [Michail Vodovozov], La Costituente, ibid., 19 dicembre 1917. Per un quadro complessivo della sua azione in Italia cfr. Tommaso dell’Era, Političeskie proizvedenija B.V. Jakovenko: ital’janskij period [Opere politiche di B.V. Jakovenko: il periodo italiano], in Boris Valentinovič Jakovenko, a cura di Aleksandr Aleksandrovič Ermičev, Rosspen, Moskva 2012, pp. 402-428. 27
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voluzionaria, ma dai tratti molto diversi da quella diffusa fino ad allora da Suchomlin o da Vodovozov. Jakovenko, che tra i due direttori de “La Russia” più identificava la rivoluzione con la guerra contro il militarismo imperialista tedesco, ne diede subito una visione fortemente epica: «Come si compì la Riforma, come trionfò la Grande Rivoluzione Francese, così oggi, in questa guerra, si svolge la Grande Rivoluzione Europea»29. Ma anche Kačorovskij non fu da meno: «La rivoluzione russa è tanto enorme e complessa, quanto è enorme e complessa la Russia. Da un gigante è nato un gigante»30. La loro contrapposizione al nuovo potere bolscevico, e soprattutto alla sua volontà di abbandonare la guerra contro gli Imperi centrali, era fortissima, ma fin dall’inizio “La Russia” si sforzò di darne una rappresentazione di lungo periodo, in modo da farne un «episodio», una «malattia», l’inevitabile «periodo negativo» d’un grandioso processo ancora lontano dal «compiere il suo ciclo storico»31. Con l’ormai prossima vittoria alleata sulla Germania, sarebbe crollato il governo emerso dal colpo di Ottobre, insieme anarchico e antidemocratico: «Già non è più il partito organizzato dei bolsceviki che sta al potere, bensì il “bolscevismo”»32, un sistema demagogico ed esclusivamente distruttivo che il popolo russo avrebbe spazzato via appena avesse potuto esprimersi «più liberamente e più interamente»33. Dal gennaio 1918 lo scioglimento per via militare della Costituente a larga maggioranza socialista-rivoluzionaria, ad opera del governo bolscevico, avvenuta la sera stessa della sua convocazione, ammutolì per più di due mesi Vodovozov. Quando tornò a collaborare all’“Avanti!”, sia pure con un diverso pseudonimo, la lettura della rivoluzione che egli continuò a proporre riprese però il tratto fondamentale di quella precedente: l’immagine d’una sostanziale unità del socialismo internazionalista russo. Furono le prime notizie d’un intervento straniero a spingerlo a confermare quella rappresentazione così lungamente costruita: in Russia la «democrazia rivoluzionaria» era «bensì divisa – e ciò costituisce il nostro più grande dolore – in due campi che si combattono accanitamente», ma sarebbe stato «fare ingiuria ai partiti socialisti di Russia» ammettere che essi potessero appoggiare una politica d’intervento «a favore di una delle due parti; le quali finiranno in fin dei conti, e quasi certamente, per mettersi d’accordo»34. Neanche la pace separata con gli Imperi centrali – firmata in marzo dal governo di Lenin a costo d’una rottura anche con i socialisti-rivoluzionari di sinistra che lo avevano effettivamente appoggiato – lo spinse a riconsiderare la sua rappresentazione della realtà russa. Vi aggiunse, piuttosto, un ulteriore elemento di contraddizione sottolineando, con atteggiamento molto socialista-rivoluzionario, che comunque «la democrazia rivoluzionaria dovrà prepararsi ad una lotta
Editoriale anonimo e senza titolo, “La Russia”, 2 dicembre 1917, anche ripubblicato in Boris V. Jakovenko, Articoli su avvenimenti politici in Russia, 1917-1921, D. Jakovenk, Woodend 1984, pp. 1-6. 30 C. Caciorovsky [Karl Romanovič Kačorovskij], La Grande Rivoluzione Russa. I. La rivoluzione e la guerra, “La Russia”, 2 dicembre 1917. 31 Boris V. Jakovenko, La Russia e la stampa alleata, ibid., 7 dicembre 1917. 32 C. Caciorovsky [Karl Romanovič Kačorovskij], I bolsceviki e il “bolscevismo”, ibid., 21 dicembre 1917. 33 Editoriale anonimo e senza titolo, ivi. 34 Nado [Michail Vodovozov], E la Russia?, ibid., 16 marzo 1918. 29
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inevitabile col kaiserismo […] e questa non sarà solamente una lotta difensiva, ma può darsi che abbia anche un carattere offensivo»35. Con il sopraggiungere dell’estate, mentre la direzione del PSI proibiva esplicitamente la pubblicazione degli articoli anti-bolscevichi che a nome del PS-R da Stoccolma inviava Suchomlin, divenuto intanto deputato della Costituente e membro del Comitato Centrale del suo partito, apparve però evidente che la realtà russa andava ulteriormente smentendo l’intera costruzione di Vodovozov. Dopo aver affermato ancora una volta che il programma del PS-R era «quasi identico a quello dei bolscevichi, i quali d’altronde, per la parte agraria accettarono il programma di Cernoff»36, egli avrebbe quindi interrotto nuovamente la sua collaborazione all’“Avanti!”, questa volta per più d’un anno. Nel frattempo, a sottolineare ancora la durezza politica dei tempi, la direzione de “La Russia” si spaccò e nel giugno 1918, con l’appoggio dell’ambasciata russa e direttamente di Kerenskij da Parigi, diede vita a “La Russia nuova”, guidata ormai solo da Jakovenko dopo l’espulsione di Kačorovskij, che meglio ne aveva rappresentato l’anima più direttamente legata alla maggioranza del PS-R. Ma la nuova linea, sostanzialmente d’appoggio a qualsiasi intervento militare anti-tedesco in Russia e conseguentemente di alleanza con le forze russe più apertamente controrivoluzionarie, durò solo i pochi mesi che ancora mancavano alla fine della guerra europea, per altro convivendo sulla nuova rivista con una serie di rappresentazioni della guerra civile, d’immagini della violenza rivoluzionaria, che con una simile alleanza erano invece del tutto inconciliabili. Da questo punto di vista, l’esempio forse più impressionante è il modo in cui “La Russia nuova” lesse e definì l’esecuzione dello zar e di tutta la sua famiglia, avvenuta nel luglio di quell’anno. «Nicola Romanov» – veniva infatti spiegato – era morto senza aver potuto assistere «al tramonto di Nicola Lenin»: era scomparso così solo «uno dei grandi colpevoli dello sfacelo russo», ma si poteva intanto cominciare a festeggiare la scomparsa di chi aveva fatto fucilare migliaia d’innocenti «e s’illudeva, colla sicurezza beota degli imbecilli, che l’ordine politico e sociale si poteva acquistare a prezzo di sangue». La logica della storia, «ferrea e feroce», aveva «vendicato gli impiccati di Stolypin», né vi sarebbe stata «anima viva» a rimpiangere lo zar, caduto «in uno spaventoso vuoto, ove trascina con sé la sua dinastia»37. Anche in Italia, tutti dovevano capire che la rivoluzione russa «non può volgersi indietro ed essa non mercanteggia mai, se essa fa delle follie essa stessa le rifiuta, così avvenne ora col bolscevismo, ma mai una rivoluzione viene a patti con il regime del passato»38. Non stupisce quindi che nel 1918 “La Russia nuova” riuscisse a diffondere le sue rappresentazioni della rivoluzione solo negli ambienti dell’interventismo socialista e democratico – da Bissolati a Salvemini e Zanotti Bianco – e nella più frammentata area del socialismo non ufficiale – dai socialisti riformisti ai sindacalisti rivoluzionari interventisti, fino anche al Partito Repubblicano – senza però riuscire ad entrare in contatto col PSI, che avrebbe potuto fornire alle sue immagini della rivoluzione una ben più ampia platea.
Nado [Michail Vodovozov], Il pensiero del Congresso dei Soviets, ibid., 25 marzo 1918. I corsivi sono nel testo. 36 Nado [Michail Vodovozov], Gli avvenimenti di Mosca, ibid., 28 luglio 1918. 37 V.[ladimir] Zabughin, …Nemesi, “La Russia nuova”, 2 luglio 1918. 38 A.[nna] Kolpinska [Anna Nikolaevna Mislavskaja-Kolpinskaja], Con chi?, ibid., 17 settembre 1918. 35
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Nell’estate, la rivista fece anche un diretto tentativo di convincere pubblicamente l’“Avanti!” – e direttamente Vodovozov, per «la buona conoscenza delle cose russe che possiede evidentemente» – a difendere in Italia non la «rivolta bolscevica» e la sua «disastrosa politica», ma «la rivoluzione russa, che nonostante la fase oscura del leninismo conserva il suo valore politico-sociale incondizionatamente rilevante»39. Ma proprio allora la maggioranza del socialismo italiano stava invece completando la sua svolta filo-bolscevica, figlia di un’antica ansia d’intransigenza rivoluzionaria e non d’una chiara visione della realtà russa, alla quale per altro Vodovozov non aveva certo contribuito. Qualche mese più tardi, quando con la fine della guerra europea venne meno lo stimolo politico dell’occupazione tedesca dell’Ucraina e in Siberia l’ammiraglio Kolčak poté quindi effettuare il colpo di Stato che lo portò alla guida del più ampio apparato di governo anti-comunista impegnato nella guerra civile, anche i governi dell’Intesa – liberi dagli impegni di guerra – lanciarono la loro politica di diretto, debolissimo intervento militare sul suolo russo e s’impegnarono ad isolare in ogni modo il paese. Ma, come notò già alla fine del 1918 “La Russia nuova”, il rafforzarsi della reazione militare interna non poteva non provocare «lo scisma nella coalizione tanto naturale finora delle forze antileniniste» russe, e «respingere i suoi circoli democratici-rivoluzionari verso la sinistra orientandoli così nella direzione del bolscevismo»40. Nel febbraio 1919, la rivista dichiarò così di ben comprendere «i veri rivoluzionari» che in Russia preferirono allora «gettarsi nelle braccia del bolscevismo»41 per opporsi alla «guerra a tutto il popolo russo» che, per reazione, stava riunificando tutti i «socialisti, democratici, bolsceviki, socialisti rivoluzionari e socialisti popolisti»42. La prospettiva era completamente cambiata, e il settore socialista che più direttamente incarnava l’eccezionale continuità con l’emigrazione precedente il 1917 offriva ormai al mondo politico italiano un’immagine della rivoluzione ben più radicale ed orientata molto diversamente verso i governi russi in lotta. Come sempre nei suoi momenti di svolta e di crisi politica, la rivista interruppe allora le pubblicazioni per qualche mese, riprendendole poi nell’aprile 1919 senza più nessun appoggio dell’ambasciata kerenskiana a Roma, in un primo tempo semplicemente tornando alle sue origini socialiste-rivoluzionarie ma infine avvicinandosi apertamente al governo sovietico. Nel pieno della guerra civile, la sua rappresentazione del processo rivoluzionario divenne sempre più apertamente quella d’un largo movimento ancora in pieno sviluppo, in cui già prima della fine dell’anno, però, la funzione del partito al potere a Mosca assumeva più ampie dimensioni e funzioni storiche: Il bolscevismo è la creazione, è il prodotto autenticissimo del movimento rivoluzionario russo. Secondo le sue realtà esso è altamente e veramente ideale. La sua sfortuna e tutta la sua inaccettabi-
Anna Kolpinska [Anna Nikolaevna Mislavskaja-Kolpinskaja], Il leninismo, la Russia e la guerra. Una risposta al Sig. Nado dell’“Avanti!”, ibid., 6 agosto 1918. 40 La minaccia di reazione, ibid., 10 dicembre 1918. 41 Commento redazionale a Un appello dei socialisti-rivoluzionari, ibid., 7 febbraio 1919. 42 Anna Kolpinska [Anna Nikolaevna Mislavskaja-Kolpinskaja], Disperazione, ibid., 6 giugno 1919. 39
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lità per un democratico rivoluzionario derivano dalla sua tattica, dai metodi e mezzi che esso ha preferito, anzi fu costretto di scegliere. Il bolscevismo usa mezzi bassi per raggiungere uno scopo alto43.
Fu un’evoluzione politica assai caratteristica, in cui sia per ragioni di tipo patriottico sia per un più netto ritorno ai principii rivoluzionari, intellettuali vicini al PS-R che per primi in Italia si erano battuti contro il nascente mito sovietico finirono invece per rimanerne parzialmente soggiogati. Un simile discorso sulla rivoluzione russa, per altro, piacque subito alla direzione del PSI e nella seconda metà del 1919 non solo l’“Avanti!” ripubblicò alcuni articoli de “La Russia nuova”, ma il partito cominciò persino a finanziarne in parte la pubblicazione, sebbene in misura appena sufficiente a farla sopravvivere stentatamente solo fino al febbraio 192044. Superata così in gran parte la vecchia contrapposizione degli anni di guerra tra socialisti difensisti e internazionalisti, nel 1919 anche all’interno della piccola ma politicamente assai attiva emigrazione socialista-rivoluzionaria in Italia emersero dunque nuove linee di divisione, tutte ormai incentrate esclusivamente sul tema dell’atteggiamento verso il governo centrale russo e la sua identità comunista. La rappresentazione che avevano finito per darne gli emigrati de “La Russia nuova” era arrivata a mostrare numerosi elementi di oggettiva convergenza con quella proposta nei due anni precedenti da Vodovozov, capitoli diversi ma paralleli della storia della trasformazione d’una parte dell’eredità socialista-rivoluzionaria in un nuovo atteggiamento sostanzialmente filo-sovietico, sia pur pieno di distinguo e contraddizioni. Alla fine di quell’anno, negli stessi mesi in cui si concretava l’ultima svolta politica de “La Russia nuova”, anche Vodovozov riprese del resto a scrivere sull’“Avanti!” ricominciando a mostrare un quadro della Russia rivoluzionaria non molto diverso da quello che egli stesso aveva elaborato negli anni precedenti, fondato sull’attesa d’un governo d’unità socialista su base sovietica: «Non sarebbe da escludersi […] l’entrata nel governo dei Commissari del popolo di Martoff […] e di qualche esponente dei social rivoluzionari di sinistra e di centro»45. Si trattava, questa volta, d’una fantasiosa forzatura di notizie molto propagandate dal governo comunista, circa accordi che esso andava effettivamente prendendo con alcuni spezzoni del PS-R ancora attivi in Russia. Attraverso Vodovozov, parlava ormai il fascino del successo politico e militare, l’evidente forza d’attrazione esercitata dal nuovo regime al potere ormai da più di due anni, mostratosi ora anche in grado di riprendere con successo l’offensiva su ogni piano: «dobbiamo con gioia constatare che una larga concentrazione della democrazia rivoluzionaria – di cui abbiamo parlato altre volte augurandocene esito favorevole – si è effettuata sulla base del regime dei soviets». L’accordo, indebitamente enfatizzato e generalizzato, serviva Boris V. Jakovenko, La nostra tattica, ibid., 30 ottobre 1919. Jakovenko si fece allora storico della rivoluzione, ma la sua ampia opera scritta in italiano, oggi persa, rimase incompiuta. Conservata tra le sue carte, ne è stata recentemente pubblicata una ridotta versione russa, che giunge solo agli ultimi giorni del governo provvisorio: cfr. Boris V. Jakovenko, Istorija Velikoj russkoj revoljucii. Fevral’sko-martovskaja revoljucija i ee posledstvija [Storia della Grande rivoluzione russa. La rivoluzione di febbraio-marzo e le sue conseguenze], Dom russkogo zarubež’â im. Aleksandra Solženicyna-VIKMO M, Moskva 2013. Interessanti tracce della sua corrispondenza di quegli anni in Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso (a cura di), Oskolki russkoj Italii… cit. 45 Nado [Michail Vodovozov], La concentrazione socialista in Russia, “Avanti!”, 3 dicembre 1919. 43
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così a presentare un’immagine ormai veramente «sovietica» del nuovo regime, «con la piena libertà di azione nelle masse per tutti questi partiti», e quindi «la piena e generale espressione della democrazia rivoluzionaria della Russia, tale da sfidare qualsiasi parlamento e assemblea nazionale»46. Ancora l’anno successivo, in uno dei primissimi opuscoli sulla storia della rivoluzione pubblicati dal PSI, egli avrebbe rielaborato con particolare ricchezza d’analisi tutta la sua rappresentazione degli avvenimenti russi successivi al 1917, mirando ormai soprattutto a definire la differenza tra lo Stato sovietico e il partito di Lenin, che se nell’articolarsi del nuovo regime erano venuti stemperandosi l’uno nell’altro, avevano comunque visto il prevalere del primo sul secondo: «si può dire con assoluta certezza che è il bolscevismo che subisce l’influenza del sovietismo, influenza che si scorge nella trasformazione del partito comunista con una modificazione notevole dell’antico programma socialdemocratico»47. A quel punto, tuttavia, la situazione era mutata e Vodovozov si era trasformato nel più importante tramite ufficioso per l’instaurazione dei rapporti commerciali italo-sovietici, ruolo che avrebbe continuato a svolgere fino al sopraggiungere della più ufficiale missione di Vorovskij del 1921, che lo avrebbe totalmente esautorato. La sua ultima, assai ardita immagine della rivoluzione era dunque ormai funzionale anche alla nuova attività, tanto da trasformare il significato di tale rappresentazione della realtà russa in ben più banale propaganda per evitare che si confondessero «l’attività internazionale del partito comunista russo con quella dello stato stesso dei Soviety, il quale non ha e non può avere per iscopo di intervenire negli affari interni di altri stati»48. Rispetto al 1918, del resto, la situazione era cambiata anche perché gli attori in gioco erano aumentati e si erano ulteriormente diversificati, cosicché per i socialisti-rivoluzionari russi attivi in Italia si era aperta una più complessa fase, in cui la mutevolezza del quadro russo ben corrispondeva a una realtà politica italiana anch’essa in aperto movimento. In particolare, dopo la svolta elettorale del 1919 che grazie al sistema di voto proporzionale per la prima volta aveva ufficializzato la fine della rappresentatività del vecchio sistema liberale, la loro tradizionale lotta per guadagnare alle proprie posizioni il PSI era improvvisamente diventata una lotta per influire sulla parte più ampia dello spazio politico italiano. In questo quadro, tra la primavera e l’estate del 1919 erano giunti in Italia i due emigrati socialisti-rivoluzionari politicamente e intellettualmente più brillanti tra i fuoriusciti dalla Russia sovietica dopo la sconfitta socialista nella guerra civile: Mark L. Slonim e Grigorij Il’Ič Šrejder. Per quanto impegnati ambedue, anche con un preciso mandato di partito, nel diffondere un’immagine della rivoluzione che permettesse al socialismo occidentale di contrapporre le loro rappresentazioni a quelle diffuse dal governo russo, le loro attività ebbero tempi in parte diversi. Mentre Šrejder avrebbe assunto un ruolo pubblico nella nuova Italia solo a partire dall’anno successivo, Slonim s’impegnò subito in una fortunata campagna che giunse a toccare ambienti politici nuovi e la larga opinione pubblica italiana. Conosceva bene l’Italia, dove – già membro del PS-R – aveva compiuto i suoi studi letterari tra il
Nado [Michail Vodovozov], La concentrazione socialista nella repubblica dei soviet, ibid., 10 dicembre 1919. 47 Nado [Michail Vodovozov], Il bolscevismo ed il regime dei Soviety in Russia, Società Editrice Avanti!, Milano 1920, pp. 36-37. 48 Ibid., p. 52. 46
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1911 e il 1915, mentre dopo il 1917 in Russia, in Bessarabia e in Ucraina aveva combattuto la sua battaglia di difensista rivoluzionario, di volta in volta contro i tedeschi e i bolscevichi, caratterizzandosi come precocissimo sostenitore della lotta armata contro il nuovo governo e organizzatore della guerra civile sulla Volga, in qualità di più giovane deputato della Costituente russa. Incaricato dal partito di svolgere propaganda all’estero, alla fine dell’estate del 1919 iniziò a collaborare regolarmente a “Il Secolo”, il grande quotidiano radical-democratico milanese, e poco dopo suoi articoli comparvero anche sul “Fascio”, l’organo milanese dei Fasci di Combattimento, il primo fascismo sansepolcrista. Combattentismo nazionalista-rivoluzionario italiano e difensismo socialista-rivoluzionario russo trovarono così in lui per qualche mese un eccezionale punto di contatto, facendo di Slonim un emigrato molto particolare, negli anni della rivoluzione russa e della grande crisi del liberalismo europeo. Malgrado si concentrasse sempre più sulla sua attività di critico letterario, che tra le due guerre lo avrebbe portato ad essere un forte tramite fra la letteratura russa dell’emigrazione e quella in patria, all’inizio del 1923 egli sarebbe stato così uno dei primi e più interessanti analisti russi del movimento fascista, sulla principale rivista del centro emigrato del PS-R49. Al centro della sua analisi stava del resto l’inevitabile paragone con l’esperienza russa, che aveva ben conosciuto e alla cui rappresentazione avrebbe naturalmente dedicato il maggiore sforzo di definizione e descrizione, nell’Italia del biennio rosso 1919-20. Alla fine del 1919 Slonim scrisse il suo primo libro italiano sull’organizzazione dello Stato comunista, uscito nel gennaio dell’anno successivo50, seguito poco dopo da un secondo dal taglio più memorialistico che ebbe alte tirature e larga diffusione51. Se negli ultimi anni il comunismo «dai gabinetti scientifici» era sceso in piazza «per combattere i nemici non già coi ragionamenti teorici, ma con le bombe e mitragliatrici»52, tanto più era necessario comprendere cosa fosse il nuovo regime che si stava costruendo in Russia: «spetta a noi, rivoluzionari e socialisti russi, che abbiamo vissuto e lottato sotto il potere comunista, di gettare un po’ di luce»53. Giornalisticamente efficaci, descrittivi e precisi, gli scritti di Slonim colpiscono in effetti per la loro capacità di costruire immagini molto vive della realtà rivoluzionaria che un anno più tardi sarebbe stata definita “comunismo di guerra”, e tra libri e giornali la loro efficacia dovette essere notevole, anche se il socialismo italiano non diede allora alcun segno di ricezione. Il punto forse più interessante, nel quadro che veniva così offrendo, era la sua lettura molto realistica dell’istituzione sovietica propriamente detta. Suchomlin, il primo russo costruttore dell’immagine della rivoluzione per i socialisti italiani, che sarebbe diventato il più vicino collega e amico di Slonim negli anni tra le due guerre, si era visto bloccare gli articoli inviati all’“Avanti!” nel 1918 quando aveva iniziato a raccontare dettagliatamente le tecniche anti-operaie del nuovo regime e la distruzione
49 Antonello Venturi, L’emigrazione russa nel dopoguerra europeo: Mark Slonim, il nazionalismo rivoluzionario e il fascismo (1914-1923), in Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Russkaja emigracija v Italii: žurnaly, izdanija i archivy (1900-1940) [Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria e archivi (1900-1940)], Europa Orientalis, Salerno 2015, pp. 131-152. 50 Mark Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, Le Monnier, Firenze 1920. 51 Mark Slonim, La rivoluzione russa. Fatti ed impressioni, Zanichelli, Bologna 1920. 52 Mark Slonim, Spartaco e Bela Kun, Bemporad, Firenze 1920, p. 42. 53 Mark Slonim, Il bolscevismo… cit., p. VII.
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dei comitati di fabbrica e dei soviet54. Ma la descrizione di Slonim era più strettamente funzionale, e forse persino più efficace: i soviet non erano che un sotterfugio per sfuggire al controllo del suffragio universale, un sistema di organizzazione della rappresentanza centrale stratificato attraverso corpi intermedi e quindi più indiretto di quello parlamentare, organismi prodotti da sistemi di voto localmente diversi e dalla periodicità arbitraria, strumenti pre-moderni d’un partito unico sovraccarico di poteri e di giurisdizioni: «ai Soviet spetta l’organizzazione dell’esercito, come pure il permesso per avere una bottiglia di vino, il vettovagliamento della città e l’invio per punizione in un villaggio vicino»55. Nel complesso, costituivano soprattutto il trionfo d’una burocrazia «giunta ad un grado addirittura inverosimile»56. Nel 1920, mentre si andava lentamente spegnendo la guerra civile nei territori dell’ex Impero, in Italia iniziava così una vera e propria guerra di parole e d’immagini, una lotta per controllare lessico e significato degli avvenimenti in corso nella Russia sovietica, per rappresentarne in modo utile le gerarchie e le forme del controllo politico. I pochi russi attivi nello spazio politico italiano svolsero dunque il proprio ruolo confrontandosi con un mito cresciuto portando con sé elementi molto diversi, ma il cui tratto più significativo era forse proprio quello del soviet, il movimento dei Consigli che in Russia aveva ormai contenuti estremamente deboli e vaghi ma che avrebbe continuato ad alimentare una lettura della rivoluzione molto più democratica e popolare di quanto la realtà permettesse, fondando una tradizione che sarebbe sempre rimasta al cuore della più semplice e palese auto-definizione del “potere sovietico”. Naturalmente, il passaggio di tale mito all’esterno della realtà russa non fu un fenomeno esclusivamente spontaneo, e lo Stato sovietico nacque fin dall’inizio anche come un modernissimo Stato di propaganda, ma si trattò anche d’un complesso gioco d’incomprensioni in cui, accanto alla difficoltà del socialismo italiano a fare i conti con la realtà russa, ebbe un ruolo altrettanto opacizzante la contemporanea convinzione sovietica dell’imminenza e della strutturale radicalità di classe della rivoluzione europea. Nel 1920, mentre la situazione politica italiana si andava radicalizzando e apriva la strada al fascismo, la posizione dei socialisti-rivoluzionari si fece ancora più netta. Nel corso dell’anno riemerse spesso la voce di Kačorovskij, che ebbe un certo successo nella stampa democratica e radicale italiana, da “Il Messaggero” a “L’Unità” o a “La Voce repubblicana”, continuando a contrapporre al potere sovietico il tipico sogno socialista-rivoluzionario d’una «repubblica democratica contadinesca», d’una «democrazia contadinesca cooperativa» che fosse per sua essenza «avversario assoluto, mortale, così del bolscevismo, come della controrivoluzione»57. Ma, come già era successo con “La Russia” nel 1917, egli rimase troppo nel vago per svolgere pienamente il proprio ruolo di creatore d’immagini, di rappresentazioni forti della realtà russa per il mondo politico italiano.
54 Fra i socialisti riformisti, vi fu comunque chi pubblicò allora i suoi scritti anche in Italia: V. Soukhomlin [Vasilij V. Suchomlin], Le elezioni al Soviet di Pietrogrado, “La Polemica socialista”, 10 agosto 1918. 55 Mark Slonim, Il bolscevismo… cit., p. 63. 56 Ibid., p. 66. 57 Un russo socialista rivoluzionario amico dell’Italia [Karl Romanovič Kačorovskij], Italia e Russia, “L’Unità”, 11 novembre 1920. Cfr. anche i riferimenti a Kačorovskij in Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Gangemi, Roma 2012.
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Grande propagandista e suscitatore di miti si rivelò invece, sempre in quel difficile 1920, l’ex sindaco della prima Pietrogrado rivoluzionaria, Šrejder. Brillante giornalista socialista-rivoluzionario, era vissuto in Italia tra il 1906 e il 1917, dove era stato corrispondente per la stampa russa e studioso di questioni municipali, oltre che di carboneria e mazzinianesimo58. Alla guida della capitale della rivoluzione e dell’ex Impero nell’estate del 1917, e delle prime organizzazioni democratiche antibolsceviche già nel gennaio successivo, dopo le più complesse vicende della guerra civile nella Russia meridionale era infine giunto a Roma, dove nel gennaio 1920 intervenne infine attivamente nella vita politica italiana attraverso la pubblicazione de “La Russia del lavoro” (“Trudovaja Rossija”), un nuovo tentativo di «settimanale socialista italo-russo». Erano passati poco più di due anni dall’esperimento de “La Russia” ma la situazione era completamente mutata e, se anche il caso di Šrejder confermava la fortissima continuità tra emigrazione pre e post-rivoluzionaria – di lì a poco evidente, del resto, persino all’interno della prima rappresentanza commerciale e diplomatica sovietica in Italia – allo stesso tempo mostrava anche quanto la guerra civile avesse contribuito a formare una più brillante coscienza polemica nei socialisti-rivoluzionari che l’avevano direttamente vissuta. Ad aiutare l’ex sindaco nella sua missione italiana contribuì non poco suo fratello Isaak Il’ič Šrejder, anch’egli vissuto in Italia negli anni precedenti la rivoluzione e dopo il 1917 qui a capo della rappresentanza delle cooperative russe, un tempo potenti ma ora sempre più largamente esautorate dal nuovo apparato cooperativo controllato dal governo sovietico, rappresentato in Italia proprio da Vodovozov. “La Russia del Lavoro” si rivolgeva ormai in primo luogo esplicitamente al PSI. Suo compito principale era dare una lettura degli avvenimenti russi che ne evitasse un’interpretazione quale scontro senza alternative tra il governo comunista e la reazione monarchica. Non avere «nel proprio campo visuale che questi due gruppi», obbligava infatti il socialismo italiano a mettersi «risolutamente e senza esitazioni dal lato sinistro della barricata riconoscendo, ed in tal caso giustamente, nel bolscevismo l’unico fattore fermentativo della rivoluzione». Ma si trattava di un’immagine brutalmente semplificata, che portava ad attribuire al nuovo potere «ciò che rappresenta una conquista della Rivoluzione Russa in genere e di tutto il movimento socialista russo, e che non è affatto un acquisto del colpo di stato di ottobre o del novello comunismo leninista», e impediva di capire che proprio la violenza del 1917 aveva invece avuto «per conseguenza lo sfacelo del fronte socialista unico e il rafforzamento del movimento reazionario di restaurazione», che poteva essere sconfitto solo attraverso la «rivolta delle masse lavoratrici della Russia contro il falso governo socialista dei bolscevichi attuali»59. Il fronte unico socialista andava ricostruito, ma senza i comunisti, che si erano posti «da sé fuori dalle file del socialismo per aver rinunciato alla fedeltà verso i principii del democratismo», racchiusi «nella massima che la liberazione degli operai dev’essere opera degli operai stessi». Ma oltre che predicare i principii della Prima Internazionale, la rivista
Antonello Venturi, Tra neopopulismo e repubblicanesimo. Grigorij Šrejder e l’autogoverno comunale italiano, 1912-1914, in Venok. Studia slavica Stefano Garzonio sexagenario oblata. In honor of Stefano Garzonio. Vol. 2, a cura di Guido Carpi-Lazar Fleishman-Bianca Sulpasso, Department of Slavic Languages and Literatures, Stanford University, Stanford 2012, pp. 9-17. 59 I.[saak] Schreider [Isaak Il’ič Šrejder], Ai compagni d’Italia!, “La Russia del Lavoro”, 15 gennaio 1920. 58
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dava una rappresentazione della realtà sovietica d’un estremo realismo: «invece di essere una reale propaganda del socialismo, la maggior parte degli atti del Potere dei Sovietj negli occhi di masse poco coscienti possono servire solamente come una viva testimonianza contro il socialismo», essendone «una caricatura»60. La Russia era ormai il paese in cui «non si lavora perché non si mangia»61, e se la borghesia europea stava avviandosi sempre più apertamente a concludere accordi economici con il potere sovietico era perché aveva chiaramente «scorto dietro la chiassosa rettorica del bolscevismo qualche cosa non del tutto estraneo – lo spirito autoritario e la pratica della violenza dispotica»62. Il bolscevismo del 1917, del resto, dopo meno di tre anni era completamente scomparso, essendo «giunto alla negazione completa di se stesso». Nato nella lotta contro la guerra, aveva infatti creato «un esercito enorme», in cui regnava la disciplina zarista e comandavano vecchi generali «le di cui idee comuniste non possono essere prese che in ischerzo». Ma anche il lavoro operaio era stato militarizzato e veniva remunerato con «procedure finora combattute dai socialisti di ogni paese e considerate l’ultima espressione del regime capitalista», mentre il diritto di sciopero era «ricusato agli operai nella Russia dei Soviety», la giornata di lavoro era passata a 12 ore e «i consigli operai soppressi»63. Dopo l’estate del 1920, quando lo scontro tra il PSI e il Komintern sulle forme dell’adesione del partito italiano cominciò a farsi particolarmente forte, la rivista moltiplicò i propri sforzi per dare un’immagine della politica del partito russo utile a ridimensionare il mito leninista, cercando di contrastare «l’indiscutibile abilità del governo di Mosca» nel mostrare quello scontro nelle forme d’una contrapposizione ai «partigiani dell’autonomia dei partiti nazionali», mentre il vero problema era se e come accettare all’interno del Komintern un partito così ingombrante e così autoritario come quello russo. Nel resto d’Europa, infatti, «esistendo il parlamento, la libertà di parola, di stampa, di riunione, ecc. ecc., tutte le sfumature del pensiero, dell’attività, della condotta personale e politica hanno agio di manifestarsi», ma in Russia il partito comunista poteva agire senza nessuna forma di controllo pubblico, e impedire ai socialisti occidentali di avere «un’impressione giusta» della vita politica d’un paese in cui non era ammessa «neanche la critica socialista». Erano dunque i comunisti russi che avrebbero dovuto essere espulsi dal Komintern, «per la semplice ragione che la loro attività pratica è una infrazione indegna» delle regole della nuova Internazionale64. Al PSI, dai riformisti di Turati ai centristi di Serrati, “La Russia del Lavoro” rimproverava quindi di continuare a coltivare il «fatale malinteso che si racchiude nell’indebita identificazione della rivoluzione russa col bolscevismo russo». Ma era anche un’autocritica, poiché evidentemente anche i suoi redattori non erano riusciti a mostrare a sufficienza la realtà, e «la tragica sorte del popolo russo» non era «ancora abbastanza conosciuta in tutta la sua terrificante nudità». A nulla, evidentemente, era valsa la loro stessa esperienza
G.[rigorij] Schreider [Grigorij Il’Ič Šrejder], Per dissipare un equivoco, ibid., 11 febbraio 1920. G.[rigorij] Schreider [Grigorij Il’Ič Šrejder], Le decisioni di Londra, ibid., 25 febbraio 1920. Il corsivo è presente nel testo. 62 I.[saak] Schreider [Isaak Il’ič Šrejder], Il flirt borghese-bolscevico, ibid., 7 marzo 1920. 63 V.[ladimir] Zenzinoff [Vladimir Mikhailovich Zenzinov], Esiste ancora il bolscevismo?, ibid., 14 marzo 1920. 64 I.[saak] Schreider [Isaak Il’ič Šrejder], L’obbedienza all’Internazionale o agli ordini di Mosca?, ibid., 17 ottobre 1920. 60 61
La lotta per l’immagine della rivoluzione
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in Russia: «Voi adesso fate lo stesso lavoro di Sisifo, per il quale pure noi a suo tempo, alla vigilia del colpo di stato di Ottobre, abbiamo speso tanta energia»65. Neanche la scissione del PSI e la nascita del PCdI nel gennaio 1921, né due mesi più tardi la fine del comunismo di guerra e la proclamazione della NEP, si dimostrano in effetti sufficienti a mettere i socialisti italiani in contatto con l’emigrazione socialista russa anti-comunista, cosicché in quei mesi anche la campagna de “La Russia del Lavoro” dovette infine cessare. In realtà, l’ultimo lascito dei socialisti-rivoluzionati russi attivi in Italia negli anni subito successivi al 1917 fu, così, la precoce comprensione della difficilissima condizione politica dei socialisti italiani filo-sovietici, e poco dopo degli stessi comunisti italiani, nei confronti del partito comunista russo e dello Stato sovietico.
65
I.[saak] Schreider [Isaak Il’ič Šrejder], Il problema dell’ora che volge, ibid., 6 novembre 1920.
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Stefano Garzonio
La letteratura russa in Italia negli anni della Rivoluzione. Il ruolo degli emigrati
Sulla seconda pagina del settimanale “La Russia nuova” di martedì 13 agosto 1918 troviamo, a firma M. Starowierow, un articolo intitolato semplicemente Massimo Gorki. L’autore del testo, lo scrittore emigrato Michail Pervuchin (1870-1928)1, intendeva mettere in risalto l’atteggiamento ambiguo del grande scrittore nei confronti della patria, dei suoi destini, della guerra e del socialismo. Lo faceva riportando brani d’una lettera ricevuta dallo scrittore «mistico-russo», Aleksej Zolotarëv, anche costui all’epoca esule in Italia e strettamente legato all’impresa della «Biblioteca russa» di Umberto Zanotti-Bianco2. Nella sua lettera a Pervuchin, ampiamente citata nell’articolo e risalente al 1916, Zolotarëv si sfogava del comportamento di Gor’kij ancora nei primi anni della Grande Guerra, un comportamento che avrebbe messo in evidenza le «divergenze profondissime ed insanabili tra il Gorki-individuo, Gorki-russo, ed il Gorki l’uomo del partito»3. Il nostro così concludeva la sua missiva: «Gorki l’individuo, Gorki il russo, desidera la vittoria russa. Gorki lo schiavo della dottrina falsa, lo schiavo del partito, egli desidera la disfatta russa. Ed io non posso restare più suo amico». Pervuchin, anche sulla base dei dispacci pubblicati da Virginio Gayda sulla “Stampa”, constata che Gor’kij, tornato in patria, è ora osteggiato dai bolscevichi per l’orientamento del suo giornale “Novaja Žizn’”, ma allo stesso tempo ritiene che il grande scrittore, «se egli è ancora tra i vivi», sta pagando 1 Su questa figura si veda L’Italia sui giornali e i periodici dell’emigrazione russa in Lettonia (Le corrispondenze da Roma di Michail Pervuchin), “Res Balticae. Miscellanea Italiana di Studi Baltistici”, II (1996), pp. 201-218; S.M. Gučkov, Pervuchin Michail Konstantinovič, in Russkie pisateli (1800-1917) Biografičeskij slovar’ [Scrittori russi (1800-1917). Dizionario biografico]. t. 4, Izdat. Sovetskaja Ėnciklopedija, Moskva 1999, pp. 554-556; infine Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Oskolki russkoj Italii. Issledovanija i materialy. Kniga 1 [Schegge dell’Italia russa. Ricerche e materiali. Libro I], Russkij Put’, Moskva 2013, pp. 82-86. 2 Cfr. Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. 87-101; nonché le tante lettere presenti in Umberto Zanotti-Bianco, Carteggio 1906-1918, a cura di Valeriana Carinci, Laterza, Roma-Bari 1987. 3 M. Starowierow, Massimo Gorki, “La Russia Nuova”, 13 agosto 1918, p. 2. Sul complesso atteggiamento di Gor’kij nei confronti della prima guerra mondiale si veda il recente saggio di Lidija A. Spiridonova, Byl li Gor’kij poražencem? [Era Gor’kij un disfattista?], in Russkaja publicistika i periodika epochi pervoj mirovoj vojny. Politika i poetika. Issledovanija i materialy [La pubblicistica e i periodici russi dell’epoca della prima guerra mondiale. Politica e Poetica. Studi e materiali], a cura di Vadim Vladimirovič Polonskij et al., IMLI RAN, Moskva 2013, pp. 145-168.
La letteratura russa in Italia negli anni della Rivoluzione
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un castigo «ben meritato, l’espiazione dei peccati». Non seguiremo oltre il ragionamento di Pervuchin, che nel prosieguo dell’articolo criticava Gor’kij per il suo disfattismo bellico fortemente legato alla linea del bolscevismo. Per tutto questo Gor’kij, secondo Pervuchin, portava «sulle sue spalle la responsabilità dell’accaduto in Russia…». Questo breve saggio verrà di lì a poco sviluppato da Pervuchin in un ampio capitolo del volume I Bolsceviki, Zanichelli, Bologna 1918, nel quale i tratti contradittori della personalità letteraria e politica di Gor’kij venivano ulteriormente calcati: Ci sono veramente due Gorki: il Gorki numero uno e il Gorki numero due. Il Gorki gigante e il Gorki pigmeo. Il Gorki numero uno è il romanziere, lo scrittore dalla forza meravigliosa, degno d’essere messo accanto a Dostojewski, a Tolstoi. Il Gorki numero due è l’uomo politico, l’uomo di partito, il socialista democratico, il quale si trova sempre in contrasto, in conflitto col Gorki numero uno, perché quel “numero due” è tanto piccolo, quanto il “numero uno” è grande4.
È interessante notare come l’atteggiamento nei confronti di Gor’kij fosse mutato fortemente anche in Italia. Tra i numerosi esempi basta citare l’articolo di Ettore Moschino sul “Giornale d’Italia” del 29 luglio 1917, Il tramonto della gloria di Massimo Gorki. Proprio l’atteggiamento di Maksim Gor’kij nei confronti della guerra contro gli Imperi centrali – come non ricordare il celebre opuscolo di Lenin e Zinov’ev a proposito della guerra imperialistica – costituisce un antecedente della futura ricezione dell’Ottobre nella cultura italiana di stampo liberale e conservatore, ma non solo. Sarà forse un caso, ma negli anni della Grande Guerra e in quelli della guerra civile in Russia la pubblicazione delle opere di Gor’kij segnò un improvviso calo per poi riprendere, anche se non con la stessa frequenza degli anni prebellici, negli anni Venti, quando il grande scrittore tornò a vivere nel nostro paese5. Nel 1915, di Gor’kij, era apparso Bassi fondi sociali: Caino e Artemio, uno strano compagno..., dell’editore Bideri di Napoli, mentre nel 1920 uscì La rivolta degli schiavi pubblicata dalle Edizioni dell’Avanti!, che svolsero un ruolo di primo piano nella diffusione d’opere russe di contenuto rivoluzionario nel biennio rosso prima dell’avvento del fascismo. Come mostra il succitato intervento di Michail Pervuchin, gli emigrati russi furono di grande aiuto al pubblico italiano nel districarsi tra le confuse notizie d’ordine letterario e culturale che provenivano dalla Russia in fiamme. All’indomani della rivoluzione d’OttoMikhail Perwoukhine, I Bolsceviki… cit., p. 88. Il volume, con una Prefazione dello storico Evgenij Šmurlo, era stato pubblicato con finanziamenti dell’ambasciata russa. Sull’atteggiamento di Pervuchin nei confronti di Gor’kij si veda il saggio di Marina Arias, Odisseja Maksima Gor’kogo na “ostrove siren”: “Russkij Kapri” kak socio-kul’turnaja problema [L’Odissea di Maksim Gor’kij sull’“isola delle sirene”: “La Capri russa” come problema socio-culturale], “Toronto Slavic Quarterly”, n. 17 Summer 2006, http://sites.utoronto.ca/tsq/17/arias17.shtml. 5 Scriverà nel 1926 Ugo Ojetti: «Ho pranzato coi Valli e coi Papini qui alla Casina di Villa Borghese. Folla immensa, ben vestita, felice. Eleganza, anche della trattoria e del caffè all’aperto, quasi parigina. Orchestrina. Lumi rossi e blu tra le fronde degli alberi. Tramonto languido tra i pini. All’improvviso tra la folla anonima, alto, scheletrico, giallo, malinconico appare, seguito da due o tre russe, Massimo Gorki. E la folla mi s’appiattisce in un formicolio vano. Non lo saluto, non mi faccio riconoscere, la politica di questi dodici anni ci ha divisi. Ma degli scrittori, dei pochi scrittori ancora vivi, egli è dei tre o quattro che fanno vetta e che sono sicuri di non morire», in Ugo Ojetti, I taccuini (1914-1943), Sansoni, Firenze 1954, pp. 228-229. 4
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Stefano Garzonio
bre, accanto a un più ampio dibattito politico e giornalistico, si andò sviluppando in Italia anche un variegato dibattito letterario, e più generalmente culturale, sulla rivoluzione, che fin da subito – come mostrano i succitati testi di Pervuchin – fu alimentato da numerose pubblicazioni dovute alla penna di scrittori, pensatori e politici appartenenti alla diaspora russa. In una complessa sinergia e talvolta contrapposizione col mondo letterario italiano, questi autori orientarono il lettore nostrano sia attraverso interventi pubblicistici e critico-letterari – il già ricordato Pervuchin6, Evgenij Anan’in, Boris Jakovenko, Anna Kolpinskaja, Evgenij Zabugin, Mark Slonim e altri – sia attraverso una vasta opera di traduzione – Ol’ga Resnevič-Signorelli, Eva Kühn Amendola, Raissa Ol’kienickaja Naldi, Nina Romanovsky, ecc. – sia infine attraverso opere letterarie proprie originali – sarà il caso di Aleksandr Amfiteatrov, Ossip Felyne (pseudonimo di Osip Blinderman), Lia Neanova, Rinaldo Küfferle e altri7. L’ampia schiera d’intellettuali russi o russo-italiani – penso ad Andrea Caffi, Giovanni Bergamasco8 e al già citato Küfferle – attivi in Italia negli anni successivi alla rivoluzione, fornirono un contributo significativo alla diffusione della cultura russa in Italia e, allo stesso tempo, svolsero un ruolo di primo piano nell’atteggiamento che la cultura italiana andò via via formando verso la nuova realtà politica, culturale e letteraria sovietica, atteggiamento che nei diversi campi politici ora fu di critica, ora d’entusiastica accettazione. Molti profughi russi si troveranno poi in sintonia con la nuova cultura del periodo fascista – Pervuchin, Michail Semënov, Vladimir Frenkel’, Nikolaj Ževachov – mentre altri non nasconderanno la loro avversione per il regime mussoliniano ed emigreranno dall’Italia fascista – ad esempio Mark Slonim, Anna Kolpinskaja, Boris Jakovenko e Karl Veidemiller; molti si dedicheranno al nostalgico vagheggiamento della perduta Russia imperiale d’antan nel più ampio quadro della vita delle colonie russe in Europa tra le due guerre, confidando talvolta in un ruolo attivo di lotta al bolscevismo e di liberazione della Russia da parte di Mussolini. In molti scritti dell’epoca non troviamo diretti riferimenti alla coeva vita letteraria in Russia, anche per le oggettive difficoltà di comunicazione e informazione, ma, ciononostante, molti interventi più generalmente dedicati alla letteratura russa, ai suoi tratti storici e ai suoi destini, parteciparono alla formazione del complessivo atteggiamento della cultura e della letteratura italiane, degli scrittori, nei confronti della rivoluzione e delle sue prospettive in ambito letterario e artistico.
Lo scrittore che contemporaneamente collaborava con molte testate dell’emigrazione russa, dedicò un romanzo alla rivoluzione d’Ottobre – Pugačëv-Pobeditel’ [Pugačëv il Vincitore], Mědnyj Vsadnik, Berlin 1924 – ma curiosamente non si adoperò per una sua traduzione e pubblicazione in Italia. 7 Su tutti questi personaggi, oltre alle voci biografiche presenti sul sito www.russinitalia.it, si vedano i rispettivi paragrafi del volume di Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Oskolki russkoj Italii… cit. 8 Su Andrea Caffi si veda Marco Bresciani, La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Il Mulino, Bologna 2009 e Daniela Rizzi, “L’amicizia non è una vana parola”. Lettere di Andrea Caffi a Olga Signorelli, “Europa Orientalis”, Vol. IV 2009, pp. 347-402. Su Giovanni (Ivan) Bergamasco, cfr. invece Liceo Classico Statale A. Pansini di Napoli, Storie di antifascisti napoletani. Giovanni Bergamasco, Enrico Russo, docenti coordinatori Giuseppe Aragno e Arianna Anziano, s.e., anno scolastico 2001-2002; nonché Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, Foggia 2012. 6
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Voglio brevemente riportare qualche esempio. Nel suo volume I precursori della Rivoluzione Russa, pubblicato presso la società anonima editrice La Voce di Roma nel 1919, Anna Kolpinskaja9 ricostruisce la storia dell’intelligencija russa con particolare attenzione al pensiero e all’opera dei grandi scrittori del XIX secolo, ma anche del primo Novecento, riportando spesso in traduzione brani delle loro opere. Lo scritto è preceduto da un saggio di Nikolaj Berdjaev, L’anima della Russia, che ben risponde a quell’ampio interesse per la specificità della storia spirituale russa che fu assai diffuso in quegli anni tra gli intellettuali italiani. Ovviamente la Kolpinskaja intende per rivoluzione russa il Febbraio, fornendo un giudizio negativo sul colpo di Stato bolscevico, posizione questa che era strettamente legata a quella del giornale “La Russia Nuova”, al quale costei collaborava. In appendice al volume troviamo un lungo intervento di Umberto Zanotti Bianco su La Russia e il principio di nazionalità, che peraltro ben inquadrava la posizione del volume nell’ambito del dibattito sulle nazionalità e sulla continuazione della guerra contro gli Imperi centrali, e non a caso Zanotti Bianco annota: «Per le varie nazionalità infatti il Bolscevismo è apparso un pericolo non meno grave dello Zarismo»10. Nel saggio viene perciò citata per intero una lirica di Valerij Brjusov dedicata alla fraternità russo-polacca11. Più direttamente legato all’attualità e alle questioni della letteratura negli anni della guerra civile, risulta un interessante paragrafo del volume di Mark Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, Le Monnier, Firenze 1920. Slonim, letterato e critico di grande valore, ma anche personaggio politico di rilievo nel blocco antibolscevico della guerra civile12, offre al lettore italiano una breve rassegna di quanto sta avvenendo nella letteratura russa nei primi anni della dittatura proletaria. Dopo aver ricordato la meritoria iniziativa di Lunačarskij di ripubblicare i classici della letteratura, Slonim afferma in modo assai lapidario: «Il bilancio letterario della rivoluzione bolscevica si riduce appena appena a un piccolo poema di A. Blok Dodici, dove, sotto la forma di 12 guardie rosse, macchiate di delitti e di sangue, il poeta vorrebbe rappresentare i dodici apostoli del nuovo verbo socialista che, malgrado la loro mala vita, diventano gli araldi della società futura»13. Subito dopo Slonim pone in risalto l’appoggio offerto dai bolscevichi alle arti figurative e, in particolare, ai futuristi. Infine conclude: «Certo sarebbe un errore attribuire ai bolscevichi l’odio contro l’arte e la scienza. Tutt’altro: essi tendono verso uno sviluppo artistico ed intellettuale della nazione e lavorano moltissimo a questo scopo. Ma non riescono e non riusciranno a creare
Sulla Kolpinskaja si veda Stefano Gardzonio, Stat’ja A.N. Kolpinskoj o Ju. Baltrušajtise v žurnale “Rassegna Contemporanea” [Il saggio di A.N. Kolpinskaja su Ju. Baltrušajtis sulla rivista “Rassegna Contemporanea”], in Na rubeže dvuch stoletij [Al confine di due secoli], a cura di Vsevolod E. Bagno et al., NLO, Moskva 2009, pp. 120-125. 10 Umberto Zanotti Bianco, La Russia e il principio di nazionalità, in Anna Kolpinskaja, I precursori della Rivoluzione Russa, cit., p. 247. 11 Ibid., pp. 227-228. 12 Su Mark Slonim si veda Antonello Venturi, L’emigrazione russa nel dopoguerra europeo: Mark Slonim, il nazionalismo rivoluzionario e il fascismo (1914-1923), in Emigrazione russa in Italia: periodici, editoria e archivi (1900-1940) [Russkaja emigracija v Italii: žurnaly, izdanija i archivy, 1900-1940], a cura di Stefano Garzonio e Bianca Sulpasso, Europa Orientalis, Salerno 2015, pp. 131-152. 13 Mark Slonim, Il bolscevismo visto da un russo, cit., p. 161. 9
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molto: perché la scienza e l’arte non possono fiorire senza quell’elemento primo che manca alla Repubblica sovietista: la libertà»14. Sempre Pervuchin, nella Prefazione al suo secondo volume di saggi dedicati alla rivoluzione russa – La Sfinge bolscevica, ancora pubblicato da Zanichelli, Bologna 1920 – Prefazione che significativamente è intitolata La prefazione che manca, perché sarebbe stata promessa allo scrittore da Leonid Andreev che proprio nel 1919 perì per effetto d’un bombardamento bolscevico in Finlandia, presenta al lettore italiano un testo centrale della resistenza degli intellettuali russi d’orientamento socialista alla rivoluzione bolscevica. Mi riferisco a S.O.S. “Al soccorso”, che costituisce una sorta di appello al mondo per la salvezza della Russia. Proprio l’attenzione assai ampia della cultura italiana per l’opera di Andreev si andrà rafforzando per l’immagine internazionale che lo scrittore assunse nella lotta per la libertà della Russia e della sua letteratura. In questo senso, particolarmente meritoria sarà l’opera del traduttore e curatore di molti testi di Andreev, il socialista Cesare Castelli, già legato alla colonia russa di Capri15, il quale si dedicherà anche alla diffusione in Italia delle opere di Maksim Gor’kij e George Bernard Shaw16. Di particolare interesse, in relazione ai fatti dell’Ottobre, risulta il volumetto apparso nel 1918 nella Biblioteca Universale Sonzogno – nella traduzione e con Prefazione di Castelli – di Leonid Andreev, La rivoluzione (Così fu): romanzo. Nella sua Prefazione, Cesare Castelli presenta il testo di Andreev risalente al 1907 come un’opera di «profetica chiaroveggenza» e lo scrittore come «il profeta della rivoluzione». Certo, nel presentare il testo di Andreev il Castelli tende a distinguere nettamente la rivoluzione russa dal «colpo di Stato» bolscevico. Scrive infatti: Purtroppo la rivoluzione russa ha avuto un arresto, nel caos bolsceviko, il quale appunto può considerarsi come la forma concreta di quel tale intervento straniero che la veggente penna di Andreyeff avea descritto; e la storia di quel rivolgimento non può dirsi finita, anzi si innesta in un’altra storia che pure Andreyeff ha antiveduto col suo dramma Re fame: la sollevazione dei paria, l’anarchia degli istinti brutali, la vendetta degli affamati17.
Negli anni della rivoluzione e della guerra civile, la cultura letteraria italiana è fortemente ancorata ai nomi degli scrittori del tardo realismo e del decadentismo russi e d’altra parte anche in Russia non si era ancora formata una nuova letteratura d’orientamento Ibid., pp. 163-164. Angelo Tamborra, Esuli russi in Italia dal 1905 al 1917… cit., pp. 13, 21. 16 Cesare Castelli fu il più prolifico traduttore di Leonid Andreev: vedi Laurent Béghin, Da Gobetti a Ginzburg. Diffusione e ricezione della cultura russa nella Torino del primo dopoguerra, Istituto Storico Belga di Roma, Bruxelles-Roma 2007, p. 70. Di Gor’kij, tra l’altro, egli tradusse il celebre romanzo La madre e il dramma I figli del sole. Pubblicò anche la traduzione del dramma di Evgenij Čirikov, Gli ebrei, Voghera Ed., Roma 1908 e per Sonzogno una traduzione dello scrittore contadino Stepan Skitalec, Mio padre: romanzo per la gioventù, Sonzogno, Milano 1921. Interessante notare come Ettore Lo Gatto critichi il Castelli per le sue traduzioni che, a suo parere, sarebbero state realizzate non dall’originale, ma dalla traduzione tedesca: cfr. Ettore Lo Gatto, recensione a Leonida Andreyeff. Padre Vassili, “L’Italia che scrive”, n. 11 1922, p. 206. Castelli fu rappresentante in Italia della casa editrice russa berlinese Ladyžnikov: si veda Chiara Mazzucchelli, L’editoria milanese e le traduzioni dal russo, “Archivio Russo Italiano”, V 2009, p. 284. 17 Cesare Castelli, Prefazione a Leonid Andreyeff, La Rivoluzione (così fu)… cit., p. 6. 14 15
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sovietico e nel caos regnante le diverse voci s’intrecciavano in modo confuso e contraddittorio, come confuse e contraddittorie erano le notizie provenienti dall’Impero russo in disfacimento. Noteremo inoltre che l’Italia era stata approdo e comunque fertile campo di dialogo letterario e culturale già a partire dalla rivoluzione del 1905 e gli autori, le opere, i temi letterari legati a quella stagione storico-politica erano ancora al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana. In questo senso il teatro e la prosa di Andreev, come peraltro molte opere di Gor’kij, per non parlare dell’ultimo Tolstoj e della sua produzione pubblicistica, condizionavano fortemente l’approccio della cultura italiana alla Russia e anzi avevano, per così dire, favorito un vero e proprio orientamento culturale verso la tradizione letteraria del grande realismo russo – penso a Federigo Verdinois, Matilde Serao, Giovanni Gandolfi, Gian Pietro Lucini, Innocenzo Cappa, Luigi Conforti, ma anche al Pascoli dei poemetti su Tolstoj e su Gor’kij18. Fu grazie a Innocenzo Cappa – che visitò la Russia nel giugno-luglio 1917 in una missione dell’Intesa con Arturo Labriola, Giovanni Lerda e Orazio Raimondo – che Castelli poté conoscere la posizione di Andreev sulla rivoluzione e fu proprio questa consonanza di giudizi che probabilmente lo spinse a presentare il testo d’Andreev in questo frangente19. Il racconto di Andreev narrava d’una sollevazione cruenta del popolo contro il proprio re, il «Ventesimo», e si concentrava sulla figura d’un orologiaio monocolo che dalla torre del suo grande orologio osservava le miserie e le violenze del mondo e ascoltava il pendolo ripetere in maniera monotona: «Così fu, così sarà». Dell’importanza dell’opera d’Andreev per la cultura italiana alla fine degli anni Dieci e poi negli anni Venti, è chiara testimonianza l’interesse manifestato per la sua opera da Piero Gobetti che scrisse di lui a più riprese e ne tradusse vari testi coadiuvato da Ada Prospero20. Fu ancora Pervuchin a presentare al pubblico italiano il poema I dodici di Aleksandr Blok. Nel capitolo Il giardino cinese, incluso nel già ricordato volume La Sfinge bolscevica, Pervuchin per primo riportò ampi brani del celebre poema blokiano e ne fornì un commento profondamente negativo in sintonia con le tante reazioni di sdegno che si erano levate nei circoli dell’emigrazione russa del tempo. Il giudizio di Pervuchin sull’opera di Blok è in generale lapidario, come poteva esserlo quello d’un sostenitore del tardo realismo d’orientamento vagamente populista, ma quello che colpisce è il tono violento e le esplicite accuse di collaborazionismo con il regime bolscevico mosse al grande poeta.
18 Cfr. Cesare G. De Michelis, Il “testo russo” nella narrativa italiana del XX secolo, “Toronto Slavic Quarterly”, n. 17 Summer 2006, https://www.utoronto.ca/tsq/17/michelis17.shtml. 19 Il Castelli rimanda all’articolo di Leonid Andreev dal titolo Dove andiamo a finire? e alla convinzione dello scrittore che «a furia di esperienze utopiche» la Russia, dopo l’ebbrezza della libertà quasi anarchica, sarebbe precipitata nella dissoluzione e caduta in balia completa dei nemici: vedi Cesare Castelli, Prefazione… cit., p. 7. 20 Mi riferisco ai saggi Leonida Andreiev in Italia , “Energie Nove”, serie II, n. 8 1919, pp. 166168; nonché Andreiev, Prefazione alla traduzione del Figlio dell’uomo, Sonzogno, Milano 1919, pp. 3-30; inoltre Savva, Prefazione alla traduzione di Savva (Ignis sanat), Taddei & Figli, Ferrara 1921, pp. 6-15; e ancora “Anfissa” di L. Andreiev e “Maschere nere”. Dramma di L. Andreiev, pubblicati entrambi su “L’Ordine nuovo” rispettivamente dell’8 Novembre e del 6 dicembre 1921. Come è noto Gobetti con la futura moglie Ada Prospero studiò il russo dall’autunno 1918 sotto la guida dell’emigrata russo-ebrea Rachele Gutman, moglie del noto traduttore Alfredo Polledro: cfr. Laurent Béghin, Da Gobetti a Ginzburg… cit., pp. 138-140; Bruno Bongiovanni, Piero Gobetti e la Russia, “Studi storici”, n. 3 1996, p. 727.
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Leggiamo tra l’altro: Dopo l’avvento al potere dei bolsceviki, Alessandro Block, uno dei pochi intellettuali e uno tra i pochissimi scrittori russi che hanno riconosciuto il dominio dei leninisti, passò al servizio dei bolsceviki e in ricompensa ebbe da essi il titolo onorifico di “poeta della rivoluzione proletaria”, il diritto di pubblicare le sue poesie sui fogli ufficiali e… il razionamento consentito solamente ai lavoratori utili per la Repubblica dei Sowiet degli operai, dei contadini e dei soldati21.
Pervuchin, nel riportare alcuni frammenti del testo – e questa fu certamente opera altamente meritoria, anche in considerazione della precisione e della fedeltà della traduzione – tese ad evidenziare il carattere blasfemo del testo blokiano e a condannare l’esaltazione della crudeltà e della violenza gratuita che guidano le dodici guardie rosse, apostoli della nuova religione. La traduzione parziale del poema presentata da Pervuchin anticipa di pochissimo quella dell’Anonimo uscita per i tipi di Quintieri: Canti bolscevichi, R. Quintieri Editore, Milano 1920; quella di Telesio Interlandi e Giorgio Bomstein in Poesia e arte bolscevica, Casa Editrice Rassegna Internazionale, Pistoia 1920, in una bella edizione con illustrazioni di Natalija Gončarova e Michail Larionov; infine quella parziale di Ettore Lo Gatto, basata su un testo giunto manoscritto – sic! – e apparsa sul primo numero di “Russia” del 1920 alle pp. 49-54. La prima, com’è noto, ripubblicata nel 1986 da Scheiwiller, è stata attribuita a Clemente Rebora, anche se poi si è dovuto riconoscere tale attribuzione assai improbabile; la seconda fu realizzata dal futuro direttore de “La Difesa della razza”, Telesio Interlandi, in collaborazione con l’emigrato russo Bomstein22; la terza da Ettore Lo Gatto, agli esordi della sua prestigiosa carriera di studioso e promotore della letteratura e della cultura russe in Italia. Il fatto che Interlandi avesse collaborato con un emigrato russo, Giorgio Bomstein, conferma il ruolo centrale svolto dagli esuli nella diffusione delle nuove tendenze della letteratura rivoluzionaria russa. Lo stesso caso dell’Anonimo o falso Rebora23, aveva fatto sollevare l’ipotesi d’una collaborazione del poeta con la pianista russa Lydia Natus che era stata sua amante e alla quale il poeta aveva dedicato il suo ciclo poetico Dieci poesie per una lucciola24. A questo proposito De Michelis brevemente chiarisce:
Mikhail Perwoukhine, La Sfinge bolscevica… cit., p. 153. Gregorio Bomstein, emigrato dalla Russia, tradusse in italiano anche Le ombre di Vladimir Korolenko – con Luigi Orsini su “Nuova Antologia”, Vol. 195, 1918, pp. 121-138 – e, sempre con Interlandi, Il Vendicatore di Čechov, Casa Editrice Urbis, Roma 1921. Tra il 1919 e il 1920 Gregorio Bomstein pubblicò sulla “Rassegna internazionale” un lungo saggio dedicato alla cultura letteraria della Russia bolscevica, nel quale forniva un quadro approfondito della letteratura russa negli anni della rivoluzione e della guerra civile. In particolare, si soffermava sui poeti, con riferimenti a Blok, Brjusov, Majakovskij, Severjanin, Dem’jan Bednyj, Andrej Belyj: cfr. Gregorio Bomstein, Il pensiero e le sue espressioni nella Russia Bolscevica, “Rassegna internazionale”, suppl. mensile della “Rassegna nazionale”, a. I, n. 9 1919, pp. 593-597. Egli è anche autore del saggio La Russia e le civiltà orientale e occidentale, ibid., n. 3 1919, pp. 198-207. 23 Cfr. Giuseppe Ghini-S. Amico Roxas, “Dodici” senza Rebora. Expertise sulla traduzione dei “Dodici” di Blok attribuita a C. Rebora, “Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina”, n. 12 1994, pp. 15-35. 24 Si veda Angela Donna, Il poeta e la sua lucciola. La storia d’amore di Lydia Natus e Clemente Rebora, Stampa Alternativa-Nuovi Equilibri, Viterbo 2013. 21
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L’ipotesi era stata avanzata già nel 1960 da Giovanni Giudici; e allora Scheiwiller scrisse a Lidia Natus (la Lidusa a cui è dedicata la traduzione reboriana di Lazzaro di Andreev, 1919), la quale escluse d’aver lavorato con Rebora anche alla versione blokiana, ma informò che nel 1917-18 Rebora aveva avuto modo di leggere in traduzione delle poesie di Blok, che lo avevano molto interessato. Confortato dal parere di altri, tra cui Giovanni Raboni (che ci metterebbe la mano sul fuoco), convinto che certe asprezze di linguaggio fanno ricordare quelle di Rebora e che l’anonimato stesso è nello stile del poeta dei Canti anonimi, Scheiwiller ipotizza che forse Clemente Rebora si avvalse di altre versioni letterali25.
Quali siano queste «altre versioni letterali» non è stato ancora chiarito, come anche le poesie di Blok delle quali la Natus scrisse a Scheiwiller ma, credo, bisogna tener conto dell’ambiente della “Voce”, dell’amicizia tra la Natus e Giovanni Boine26, e anche dei legami con altri emigrati russi: penso, ad esempio, a Eva Kühn-Amendola traduttrice di Juris Baltrušajtis, al salotto della Resnevič-Signorelli e ancora a Raissa Naldi27. Altrettanto non chiara risulta la provenienza del “manoscritto” utilizzato da Ettore Lo Gatto. La comparsa di queste tre traduzioni – Anonimo, Interlandi-Bomstein e Lo Gatto – segna un atteggiamento diverso in Italia verso la nuova cultura sovietica dopo alcuni anni d’indubbio caos tra la consonanza con la tradizione letteraria della prima rivoluzione russa d’orientamento socialista e più moderato, e il rifiuto delle nuove tendenze che, peraltro, ancora non si erano chiaramente manifestate nella stessa letteratura russa degli anni della guerra civile. Tra l’altro in questi anni la diaspora russa, specie nella Berlino a cavaliere dei due decenni, risultava assai più variegata e articolata, con molti dei rappresentanti di quella che sarà la letteratura sovietica degli anni Venti momentaneamente lontani dalla patria. E così la pubblicazione quasi contemporanea di tre traduzioni de I dodici segna un evidente cambiamento di direzione, mentre lo scritto di Pervuchin ci ricorda come la frattura tra le due letterature, quella sovietica e quella dell’emigrazione, è già un dato di fatto. Delle traduzioni de I dodici, tra l’altro, ebbe a scrivere Piero Gobetti su “Ordine Nuovo” del 6 marzo 1921. Egli così annotava: «Ne conosciamo tre edizioni italiane. La prima in ordine di tempo è di Ettore Lo Gatto e fu stampata nel fascicolo di ottobre (1920) della rivista “Russia”. L’edizione Quintieri (Milano 1920) è la prima che contenga tradotto per intero il canto I dodici. La versione (anonima) è un po’ incerta, rozza, con qualche errore piuttosto
25 Cesare G. De Michelis, Chi ha tradotto i Canti Bolscevichi?, “la Repubblica”, 27 marzo 1987. Sulla traduzione dell’Anonimo si veda anche Id., Nota sulle traduzioni italiane de “I dodici”, in Aleksandr Aleksandrovič Blok, I dodici, Marsilio, Venezia 1995, pp. 31-32. 26 Cfr. Giovanni Boine, Carteggio. Vol. IV. Giovanni Boine, amici della Voce, vari: 1904-1917, a cura di Margherita Marchione e Samuel Eugene Scalia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1979, p. X. 27 Su Eva Kühn-Amendola traduttrice di Baltrušajtis si veda Stefano Gardzonio, Nekotorye zamečanija ob ital’janskich perevodach iz poezii Ju. Baltrušajtisa [Alcune note sulle traduzioni italiane della poesia di Ju. Baltrušajtis], in Puti iskusstva: Simvolizm i evropejskaja kul’tura XX veka [Le vie dell’arte: il Simbolismo e la cultura europea del XX secolo], a cura di Dimitrij Michajlovič Segal et al., Vodolej Publishers, Moskva 2008, pp. 308-316. Circa il ruolo di Ol’ga Resnevič-Signorelli, vedi invece Elda Garetto-Daniela Rizzi (a cura di), Archivio russo-italiano. Vol. VI. Olga Signorelli e la cultura del suo tempo, Europa Orientalis, Salerno 2010; e, per i suoi rapporti con Papini, Raffaella Vassena (a cura di), L’epistolario di Giovanni Papini e Olga Signorelli, ibid., pp. 129-148, nonché il Carteggio Papini-Signorelli, Quaderni dell’Osservatore, Milano 1979.
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grave»28. Più oltre il Gobetti analizza il poema blokiano basandosi sulla traduzione d’Interlandi e Bomstein, e tende ad individuare gli elementi di novità in senso realistico del poema in opposizione alla produzione poetica prerivoluzionaria di stampo marcatamente «individualistico». Il volume d’Interlandi e Bomstein fu recensito anche da Corrado Pavolini, che volle individuare nella poesia rivoluzionaria di Blok una commistione tra la maniera di Aldo Palazzeschi e la poesia del crepuscolare Mario Mariani: «un mistico invasato di ferocia, un pargoleggiante che vuol tagliar la testa ai borghesi». Da notare come Pavolini critichi la stessa traduzione del testo: «Le due versioni sono abbastanza libere: in ispecial modo la seconda, dove parecchie lucciole bambinesche son prese per i soliti lanternoni delle ronde notturne»29. A latere potremmo notare come risulti almeno curiosa l’attività d’Interlandi traduttore dal russo e per di più in collaborazione con un emigrato ebreo. Da notare come l’Interlandi negli stessi anni tradusse dal russo due testi di Andreev, il primo ancora in collaborazione con Bomstein, il secondo sempre con un emigrato d’origine ebraica: Boris Gurevič30. Nel 1923 Ettore Lo Gatto dà alle stampe l’opuscolo Poesia russa della Rivoluzione, Alberto Stock Editore, Roma 1923, nel quale – come peraltro sulle pagine della rivista da lui diretta, “Russia” – il grande slavista offre un panorama critico e di testi assai più ampio ed esaustivo della nuova poesia russa: da Blok e Belyj fino a Majakovskij, appunto. Per quanto riguarda il giudizio su Blok, ma non solo, risulta importante per l’approccio scelto da Lo Gatto il contributo La poesia russa contemporanea dello scrittore emigrato Boris Zajcev, il quale, per iniziativa dell’Istituto per l’Europa Orientale, era venuto a Roma nel 1923 nell’ambito d’un ciclo di lezioni organizzate dal Comitato di sostegno all’intelligencija russa. L’intervento di Zajcev era stato pubblicato su “Russia”31. Nel 1924, Raissa Naldi Olkienizkaia dava alle stampe presso i Fratelli Treves di Milano il volume Antologia dei poeti russi del XX secolo, nel quale troviamo opere di tutti i maggiori rappresentanti del cosiddetto “Secolo d’Argento” – tra Decadentismo e Acmeismo. Molti di quegli autori si trovavano adesso nell’emigrazione – da Konstantin Bal’mont a Dmitrij Merežkovskij, da Zinaida Gippius a Ivan Bunin, da Igor’ Severjanin a Marina Cvetaeva – e di molti autori si presentavano opere appartenenti all’epoca prerivoluzionaria, ma proprio in questa prospettiva risaltavano per contrasto, tra gli altri, un lungo fram-
28 Piero Gobetti, Paradosso dello spirito russo e altri scritti sulla letteratura russa, Einaudi, Torino 1976, pp. 88-89. 29 Corrado Pavolini, rubrica Letterature straniere in Italia, “L’Italia che scrive”, n. 7 1921, p. 144. Sulla fortuna di Blok in Italia si veda il saggio di Michaela Boehmig, Blok v Italii. 1920-1930-e gody [Blok in Italia. Anni 1920-1930], in Aleksandr Blok: Novye materialy i issledovanija [Aleksandr Blok: materiali e ricerche], Literaturnoe nasledstvo, t. 92. kn. 5 [L’eredità letteraria. Tomo 92. Vol. 5], Nauka, Moskva 1993, pp. 551-563. 30 Mi riferisco a Leonid Andreieff, Il cieco. Dramma in quattro atti, La rivista letteraria, Roma 1920 e a Id., Diario di Satana, Apollo, Bologna 1922. Con Boris Gurevič, Interlandi tradusse anche Girotondo di Arthur Schnitzler. Molti anni più tardi, mosse una critica al passato «ebraizzante» d’Interlandi, Filippo Tommaso Marinetti, come risulta dal resoconto di Cornelio di Marzio sulla manifestazione al Teatro delle Arti del 3 dicembre 1938: cfr. Nunzio Dell’Erba, L’eco della storia. Saggi di critica storica: massoneria, anarchia, fascismo e comunismo, Universitas Studiorum, Mantova 2013, p. 141. 31 Boris Zajcev, La letteratura russa contemporanea (Uomini e movimenti), “Russia”, n. 3-4 1923, pp. 474-504.
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mento ancora de I dodici di Blok e tre testi di Vladimir Majakovskij, inseriti in una sezione dedicata ai «poeti bolscevichi»32. Che il tema della rivoluzione fosse comunque presente alla curatrice e traduttrice dell’antologia, risulta evidente nella scelta di alcuni dei testi tradotti, che quasi stanno in contrapposizione tra loro. Di Marina Cvetaeva viene proposto Il sogno della rivoluzione del novembre 1920, breve lirica che offre una visione apocalittica e terribile fondata sul rifiuto dei tragici eventi dell’Ottobre e della guerra civile: «In ogni finestra un ribollire di bandiere. / Una finestra è chiusa»33. Segue, come accennato, una sezione dedicata alla nuova poesia sovietica. La sezione è introdotta da una breve nota intitolata I poeti bolsceviki. In essa la Naldi affermava: La poesia non è morta nella Russia bolscevica. Nei primi anni della rivoluzione anche i maggiori poeti della “vecchia guardia”, Briussov, Blok, Bielyj e gli altri trassero dalla propria lira dei nuovi accordi. Gli altri, più giovani, esorditi prima della guerra, maturarono e crebbero sotto la tempesta; altri ancora arrivarono in folla un po’ caotica, ma non priva di cantori di schietta vena. Do in questa Antologia qualche saggio della musa ribelle, scegliendo le poesie che mi sembrano più forti, originali e caratteristiche dell’epoca34.
Nell’antologia, la Naldi inserisce due poeti contadini, Nikolaj Kljuev e Sergej Esenin, e poi si concentra su Majakovskij, del quale nella nota già inserisce la traduzione dell’Ordine all’Esercito dell’arte: «Basta con le verità da soldino: / cancella dal cuore il passato, / Le strade sono i nostri pennelli, / Le piazze le nostre palette! / Nel libro dei tempi, / dai mille fogli, / i giorni della rivoluzione / non furono cantati. / Fuori, fuori, futuristi, / Tamburini e poeti»35. Più oltre, la Naldi riporta i nomi di altri poeti attivi nei primi anni del potere dei Soviet, la cui personalità ritiene «meno originale o meno espressa», pur riconoscendone il «talento e la vena poetica». Nell’elenco troviamo, tra gli altri, Boris Pasternak, Vasilij Kazin, Rjurik Ivnev e Vasilij Kamenskij. Di Majakovskij, la Naldi presenta La nostra marcia, Poeta operaio e A se stesso – amato – queste righe l’Autore dedica. Quando compaiono in versione italiana questi testi di Majakovskij, il nome del poeta della rivoluzione russa è già ben noto in Italia e anche in questo caso il contributo degli emigrati russi o d’intellettuali russofoni è sostanziale. In particolare, un ruolo di primo piano fu svolto dall’artista d’avanguardia, architetto, fotografo, pittore e scrittore Vinicio Paladini, anch’egli italo-russo, nato a Mosca nel 1902 da padre italiano e madre russa. Costui, ben vicino alle istanze dell’avanguardia sovietica, tese a combinare le tecniche futuriste al pensiero marxista di Gramsci, in una serie d’articoli apparsi su “Avanguardia” nel 1922, vale a dire nel momento più vivo del dibattito comunista su Marinetti e il futurismo, riconducibile alle note dichiarazioni di Lunačarskij, alla lettera di Gramsci a Trockij e anche alla nascita del “Proletkult” di Torino36. Legato alla
32 Raissa Naldi Olkienizkaia in Antologia dei poeti russi del XX secolo, Fratelli Treves Editori, Milano 1924, pp. 209-234. 33 Ibid., p. 193. 34 Ibid., p. 209. 35 Ivi. 36 Da notare che su “Avanguardia” pubblicò, a proposito di futurismo russo e rivoluzione, anche Duilio Remondino. Sull’“Avanguardia” del 16 gennaio 1921 apparve la lirica di Jaroslavskij La pre-
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celebre Casa d’Arte Bragaglia, nel 1925 Paladini pubblicò Arte nella Russia dei Soviets: il padiglione dell’U.R.S.S. a Venezia, La bilancia, Roma 1925 e nel 1927, sul primo numero de “La ruota dentata”, presentò il manifesto Prima rivelazione dell’immaginismo37. Se andiamo a vedere il gruppo di giovani intellettuali raccolti intorno a Paladini nel movimento immaginista, il legame con la cultura russa risulta ancora più evidente: Paolo Flores, socialista di orientamenti anarchici, fu traduttore di Blok38; Dino Terra fu letterato d’orientamento futurista e vicino al Teatro degli Indipendenti di Bragaglia; Umberto Barbaro sarà poi traduttore di Bulgakov, Neverov e Dostoevskij; infine Elena Ferrari – in realtà Ol’ga Fedorovna Golubovskaja (1889-1938) – fu poetessa e spia sovietica, che poi perirà nel corso delle purghe staliniane. La Golubovskaja fu una figura misteriosa della cultura letteraria russa, frequentò Gor’kij, Chodasevič, ma anche Šklovskij e Il’ja Zdanevič. Nel 1923 aveva pubblicato una raccolta di versi dal titolo Erifilli a Berlino e, giunta poi in Italia come Elena Ferrari, dette alle stampe la raccolta di versi in italiano Prinkipo, dedicati alla sua permanenza a Costantinopoli39. I versi furono volti in lingua italiana con l’ausilio appunto d’Umberto Barbaro, che aveva già inserito alcuni di quei testi nella sua rivista “La Bilancia” e che, come scrive Umberto Carpi, «verosimilmente riprendeva, data la speciale passione di Barbaro per la cultura russa, quello della rivista primonovecentesca dei “decadenti” Balmont, Briussov e Ivanov»40. Da notare che la Ferrari conosceva l’italiano anche prima della sua permanenza in Italia e il 4 maggio 1923, presso la Casa delle Arti di Berlino, si era esibita in una serata poetica in coppia con Ruggero Vasari, noto esponente del secondo futurismo italiano41. Un tema del tutto specifico è quello relativo alla produzione letteraria originale in lingua italiana di scrittori d’origine russa. Alcuni di loro, in primo luogo Aleksandr Amfiteatrov e Osip Felyne, godettero d’un indubbio successo in Italia tra le due guerre. Il secondo, oggi in pratica dimenticato come autore in lingua italiana, svolse un ruolo di primo piano nella letteratura di consumo e nella commedia di genere. Nei testi di tutti questi autori il
ghiera della terra, introdotta dall’affermazione: «Noi futuristi siamo con voi. Il futurismo non è più il giocattolo della borghesia. La rivoluzione nell’arte è soltanto il preannunzio della grandiosa creazione del proletariato nella vita. Lasciate che i parassiti e i sazi corrano nel campo dei ricchi, lasciate pure che essi, per far loro piacere, deflorino la Grande Principessa Fantasia. Noi futuristi siamo con voi. Io e i miei grandi confratelli: il cosmico Whitman, il geniale Marínetti (oh!), il saggio Clebnikov, lo splendido Majakovskij e l’enigmatico cantore della morte Venedict Mart siamo col proletariato». 37 Su Paladini e poi sul movimento immaginista si veda Umberto Carpi, Bolscevismo immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni Venti, Liguori, Napoli 1981; Cesare G. De Michelis, L’avanguardia trasversale. Il futurismo tra Italia e Russia, Marsilio, Venezia 2009, pp. 43 sg.; Antonella d’Amelia, Russko-ital’janskij chudožnik na scene: Viničio Paladini [Un artista russo-italiano sulla scena: Vinicio Paladini], in “Bezpokojnye muzy”: K istorii russko-ital’janskich otnošenij [“Le muse inquietanti”. Per una storia dei rapporti russo-italiani nei secoli XVIII-XX], Europa Orientalis, Salerno 2011, pp. 227-252; Christina Brungardt, On the Fringe of Italian Fascism: An Examination of the Relationship between Vinicio Paladini and the Soviet Avant-Garde, Ph.D. City University of New York 2015. 38 Pubblicò sul giornale “Vita”, n. 2 1925, pp. 5-8, il dialogo di Blok L’amore, la poesia e lo stato. 39 Sulla Golubovskaja-Ferrari si veda Lazar Flejšman, Poetessa-terroristka [La poetessa-terrorista], in Elena Ferrari, Erifilli, Vodolej, Moskva 2009, pp. 29-71. 40 Umberto Carpi, Bolscevismo immaginista… cit., p. 26. 41 Ibid., p. 39.
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tema della rivoluzione, della guerra civile, dell’esilio dalla patria, svolse ora un ruolo di primo piano, ora di scontato sottofondo. Queste opere sono caratterizzate da una ricezione negativa, tragica, della rivoluzione e del suo mito che poi, come vedremo più avanti, nel più ampio ambito della letteratura russa della diaspora si ricollegherà alla riproposizione mitica del concetto di Santa Russia. Di questo, tra l’altro, sarà testimonianza la grande fortuna ottenuta in Italia dalle traduzioni dei romanzi del generale “bianco” Pëtr Krasnov, ampiamente diffusi dalla casa editrice fiorentina Salani. Di Krasnov scrisse in quegli anni Amfiteatrov: «Io mi sono permesso di trattenere la vostra attenzione sulla figura letteraria del generale Krasnov, perché essa riunisce in sé tutte le qualità e tutti i difetti di quella parte degli emigrati e di profughi che io definisco di “borghesia militante”»42. Lo scrittore Ettore Cozzani, responsabile della celebre casa editrice L’Eroica di Milano, presentò nel 1921 lo scritto memorialistico Negli artigli dei Sovieti di Ilaria Amfiteatroff, moglie dello scrittore Aleksandr, il quale aggiunse anch’egli una Piccola prefazione al testo. In essa egli definiva l’opera una serie di schizzi «fatti con pennellate sincere, rapide e, come il lettore vedrà da sé, molto sobrie»43. Cozzani ricostruisce la vita degli Amfiteatrov in patria e nei vari esili, ricorda i loro incontri a Fezzano e la frequentazione con i tanti esuli russi, offrendo un quadro vivo e variegato delle esperienze di arte e di vita della coppia. Il testo d’Ilaria Amfiteatrov – che, sia detto per inciso, è dedicato alla memoria di Olga Lundt, fucilata dai bolscevichi44 – non è semplicemente un resoconto di stampo giornalistico dei fatti, ma un’opera d’indubbio spessore letterario. Come accennato, Ossip Felyne ha svolto un ruolo d’un certo rilievo nella vita letteraria e teatrale, nonché editoriale, tra le due guerre. Apparentemente il tema della rivoluzione rimane lontano dai suoi interessi, quasi volesse esorcizzarlo – tale tendenza è presente anche in altri autori italo-russi del tempo. Eppure le tante storie narrate in romanzi e racconti e dedicate al mondo russo-italiano hanno come sottotesto inespresso il riferimento alla rivoluzione e alla patria lontana, quasi nel tentativo d’affermare un narrato legato alla contemporaneità e alla vita dopo la Russia45. Anche la moglie di Felyne, Lia Neanova, si dedicò alla narrativa in lingua italiana con una serie di romanzi di tematica russo-italiana. Tra le sue prime opere troviamo un racconto intitolato Quando i bolscevichi entravano in città, nel quale si narra della morte d’un uomo solitario e da tutti abbandonato nei giorni della rivoluzione. Il testo apparve sulla “Nuova Antologia”, n. 298, il 16 settembre 1921. La sua produzione successiva sembra quasi voler evitare il tema della rivoluzione. Il noto scrittore e critico Luciano Zuccoli, nella Prefazione al romanzo della Neanova Immortalità, constatava: «Sulla Russia non v’ha più da contare, specialmente da quelli che hanno dovuto abbandonarla prima o dopo la rivoluzione. E l’Italia è abbastanza sana e forte per adottare un artista che lo meriti e per compensarlo degnamente delle sue fatiche»46. Alessandro Amfiteatroff, Una letteratura in esilio, “Le opere e i giorni”, giugno 1930, p. 7. Aleksandr Amfiteatroff, Piccola prefazione, in Ilaria Amfiteatroff, Negli artigli dei Sovieti, L’Eroica, Milano 1921, p. 31. 44 Si tratta di Ol’ga Sergeevna Lund di Odessa, fucilata a Pietrogrado il 26 agosto 1921 insieme a Nikolaj Gumilëv in relazione al cosiddetto “complotto Tagančev”. 45 Su Felyne si veda Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Oskolki russkoj Italii… cit., pp. 86-90. 46 Luciano Zuccoli, Prefazione a Lia Neanova, Immortalità, Traduzione dal russo di Federigo Verdinois, Casa Editrice Alberto Stock, Roma 1925, p. 12. Su Lia Neanova si veda Stefano Garzonio-Bianca Sulpasso, Oskolki russkoj Italii… cit., pp. 90-92. 42 43
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In effetti, il tema della rivoluzione bolscevica viene spesso sottaciuto, quasi si avesse timore di evocarlo. Nella letteratura l’anti-mito si realizza solitamente con un’esaltazione totalizzante e artificiale della Santa Russia ortodossa e imperiale. Allo stesso tempo, troviamo ricostruzioni nostalgiche della Russia prerivoluzionaria oppure crude descrizioni della vita della diaspora russa. Proprio a questo ultimo tema è dedicato il romanzo di Rinaldo Küfferle Ex russi, pubblicato nel 1935, nel quale si evidenzia la disperata condizione dello sradicamento. Una delle protagoniste a un certo punto afferma: Siamo noi una “porcheria”, come si è degnato di esprimersi a proposito dell’emigrazione russa in un opuscolo polemico Alessandro Amfitheatrov, o qualcosa di peggio? A Mosca non rimane pietra su pietra della Madonna d’Iberia e sulla tomba di Cechov le lavandaie sovietiche sciorinano la biancheria, mentre qui falsi marchesi si baloccano coi versi, adornano di sé i five o’clock delle signore isteriche47.
Tra i molti pubblicisti d’origine russa attivi anche nella stampa quotidiana, vale la pena ricordare Vladimir Frenkel’, autore di numerosi interventi polemici sulla rivoluzione e l’ebraismo. In molti casi egli tende a sviluppare l’intervento polemico-pubblicistico in forme propriamente letterarie, ora narrative, ora drammaturgiche. È suo La rivoluzione russa: dialoghetto, Tip. dell’Unione Ed., Roma 1917, nel quale si sviluppa un serrato confronto sulla Russia e la sua storia tra un russo e un tedesco. Proprio negli anni della guerra civile, il nostro pubblicò il volumetto Finis Russiae? Profeti e profezie. Giganti e ostetrici. Gracchi e “vraki”. Piaghe d’Egitto. Zar e zarismo, Tipografia dell’Unione, Roma 1918, nel quale affrontava con vena polemica i temi del patriottismo russo, del pangermanesimo e dell’ebraismo. Ma in prospettiva letteraria risultano più interessanti i due volumetti pubblicati successivamente: Amore e bolscevismo. Talmud e Khamstvo, Officina Poligrafica “La Rapida”, Roma 1922 e Russi ed ebrei. Pensando a te…, Industrie Grafiche Italia Meridionale, Napoli 1923. Nel primo volume si registra la presenza d’un racconto su Konstantin Mošennikov, membro della delegazione dei Soviet in Italia guidata da Vaclav Vorovskij. Il racconto che narra dei dubbi, degli amori, del complesso rapporto con bolscevismo ed ebraismo dell’eroe e della sua amata, la contessa Potockaja, e che si sviluppa poi a Napoli tra amori e crisi esistenziali, si conclude col suicidio dell’eroe che si getta dalla rupe di Tiberio a Capri. Anche il secondo libro combina testi polemico-pubblicistici e narrativi incentrati sul tema dell’ebraismo in Russia. Tre esodi, Pogrom e Denunzia trattano il tema dell’antisemitismo in Russia, mentre il racconto Morbus saucer narra d’una giovane ebrea russa che giunge a Roma e scopre che la città non conosce l’antisemitismo. I libri di Frenkel’ furono violentemente criticati da Gobetti su “La Rivoluzione Liberale”: Gli esuli russi ci ripagano dell’ospitalità di cui godono con una miserabile produzione libraria di politicanti. Solo un rinnegato meno che mediocre quale Vladimiro Frenkel poteva scrivere un opuscolo come Amore e bolscevismo. Talmud e Khamstvo […], dove si profana la Russia e si pretende dare giudizi politici discorrendo di oscenità. In W. Frenkel c’è l’incultura di un intellettuale con una incoscienza plebea e con la meschinità di un diffamatore. Il curioso è che questi traditori della patria, che chiacchierano all’estero mentre i veri russi si sforzano con ogni sacrificio di costruire il loro Stato,
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Rinaldo Kufferle, Ex russi, Fratelli Treves Editori, Milano 1935, p. 231.
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diventano in Italia amici e ammiratori dell’“Idea Nazionale” (pag. 70): essi poi sono così analfabeti delle cose loro che vedono dei “profondi conoscitori della Russia” in Napoleone Colaianni e in Armando Zanetti! Ma neanche i lettori dell’“Idea Nazionale” leggeranno le spiritosità sgrammaticate di uno sciocco come W. Frenkel48.
Sempre su questa linea, tra gli autori che maggiormente si dedicarono al tema della Santa Russia, anche con riferimento all’opera del già ricordato generale Krasnov, ampiamente diffusa non solo nell’ambito degli emigrati russi, ma fino alla fine degli anni Venti ben conosciuta e apprezzata anche dal lettore italiano, il nome dell’italo-russo Lino Cappuccio-Treskovskij è forse quello più significativo. Editore della rivista “Viva la Santa Russia!”, portavoce del movimento nuovo-futurista italiano49, Cappuccio pubblicò il romanzo L’esagramma (1932-33), incentrato sul tema del complotto “giudaico-massonico” e la Rivoluzione bolscevica50. Il romanzo, ambientato alla vigilia dell’Ottobre, s’incentra sull’idea che la rivoluzione sia espressione d’un attacco degli ebrei al Cristianesimo. La complessa trama, tra Russia e Svizzera, si sviluppa tra colpi di scena, rapimenti e riferimenti alla storia politica del tempo, ai Protocolli dei Savi di Sion, intorno alle malefatte della «setta dell’esagramma», con la partecipazione, accanto a personaggi d’invenzione, di figure storiche quali Lenin e Trockij. In quest’ampia rassegna dedicata al mito e all’anti-mito della rivoluzione russa del 1917 in Italia, non sono presenti gli importanti dati relativi al mondo dell’arte, del teatro e della musica. Qui il ruolo degli emigrati russi, a mio avviso, fu ancor più significativo, vista l’assenza di vere e proprie barriere linguistiche, pur persistendo, ovviamente, quelle culturali e di mentalità. Gli studi più recenti sull’attività d’artisti, registi e musicisti russi in Italia nel periodo qui preso in esame hanno mostrato tutta la complessità e la radicata articolazione di quelle esperienze nella cultura italiana51. Nel nostro contributo abbiamo cercato di porre un primo tassello affrontando l’aspetto forse più complesso e contraddittorio, quello della letteratura. Sono sicuro che nell’ampia produzione saggistica e storico-critica dedicata al centenario dell’Ottobre non mancheranno i contributi relativi a questi altri decisivi momenti dello scambio interculturale tra Italia e Russia.
“La Rivoluzione Liberale”, anno 1, n. 24 1922. Cfr. Federica Millefiorini, “Bisogna creare” di Lino Cappuccio, portavoce del movimento nuovo-futurista italiano, “Rivista di letteratura italiana”, n. 3 2009, pp. 175-183. 50 Cesare G. De Michelis, Ital’janskij cenitel’ “Protokolov” Lino Kappucco [Lino Cappuccio estimatore italiano dei “Protocolli”], in Istorija. Kul’tura. Literatura. K 65-letiju S.Ju. Dudakova [Cultura. Letteratura. Per i 65 anni di S. Ju. Dudakov], Hebrew University of Jerusalem-Center for Slavic languages and literatures, Ierusalim 2004; Vincenzo Pinto, La terra ritrovata. Ebreo e nazione nel romanzo italiano del Novecento, La Giuntina, Firenze 2012, pp. 58 sg. 51 Si vedano, ad esempio, il lungo saggio di Antonella D’Amelia, Artisti russi a Roma all’inizio del Novecento tra Esposizione internazionale e avanguardia. Esposizione Internazionale. Roma 1911. Il padiglione russo. Esposizione Artisti e Amatori russi residenti a Roma, 1917, “Archivio russo-italiano”, V 2009, pp. 13-96 e ancora i saggi presenti in questo medesimo volume, dedicati all’attività di artisti, coreografi, musicisti, attori e ballerini russi in Italia tra anni Dieci e Venti. 48 49
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Guido Carpi
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1. I marxisti russi arrivano all’appuntamento di febbraio in ordine sparso e del tutto impreparati: «Non solo le vergini folli del liberalismo, ma anche le vergini sagge dei partiti di sinistra avevano dimenticato di prender con sé l’olio per le proprie lucerne» – commenta a inizio aprile 1917 il matematico e teorico marxista Pavel Juškevič sull’organo dei socialisti moderati1. Trasversali rispetto alla tradizionale dicotomia bolscevichi/menscevichi, le divergenze fra i marxisti russi dei tardi anni Dieci riguardano le questioni più diverse: 1) la forma-partito, coi “liquidatori” di Aleksandr Potresov – destra menscevica – decisi a rottamare la struttura illegale del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) per fondare una socialdemocrazia “normale” di tipo tedesco, i menscevichi centristi e di sinistra a tutela di un partito illegale ma il più possibile inclusivo, e i bolscevichi fedeli alla loro idea di partito-falange dei “rivoluzionari di professione” 2) la guerra, salutata dai “socialpatrioti” – ancora Potresov e il patriarca del marxismo russo Georgij Plechanov – come prova di maturità “nazionale” del proletariato, avversata in chiave pacifista dagli altri menscevichi, considerata da Aleksandr Bogdanov come un fenomeno entropico e da Lenin e Trockij come autodistruzione dell’imperialismo e levatrice della futura rivoluzione mondiale 3) la tattica rivoluzionaria, ovvero le lezioni da trarre dal fallimento del 1905: i menscevichi sostengono che la rivoluzione si debba fare di comune accordo con la borghesia, altrimenti quest’ultima si spaventa e svolta verso lo zarismo; i bolscevichi, al contrario, considerano la borghesia agiata una classe conservatrice e vogliono alleare il proletariato ai contadini – da loro visti come piccola borghesia dal potenziale rivoluzionario prezioso, se trainato dal proletariato. C’è poi la piccola accolita dei seguaci di Lev Trockij – detti mežrajoncy (comitato interrionale), i cui circa 4.000 membri confluiscono nelle file bolsceviche nell’estate 19172 – che teorizzano 4) la rivoluzione permanente, ossia il principio secondo cui l’innesco di un tentativo socialista è più facile in Russia che altrove – dati lo sviluppo capitalistico squilibrato e la debolezza della borghesia locale – ma il processo dovrà necessariamente estendersi al resto d’Europa, pena il soffocamento della rivoluzione nella sola Russia 5) addirittura gli assunti gnoseologici: i seguaci di Bogdanov e del suo “empiriomonismo” sono convinti che la “realtà” – tanto quella attingibile sul piano epistemologico-scientifi-
Pavel Juškevič, Tvorčeskaja revoljucija [La rivoluzione creativa], “Den’”, 6 aprile 1917, p. 3. Vedi ad esempio Nikolaj Nikolaevič Suchanov, Cronache della rivoluzione russa. Vol. 1, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 106 n. e passim. 1
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co che quella sociale – sia solo un prodotto dell’esperienza collettiva organizzata, e che il fattore che organizza tale esperienza sia il lavoro; tutti gli altri marxisti ritengono l’“empiriomonismo” una forma mascherata di idealismo piccolo-borghese e protestano contro la vanificazione di una realtà oggettiva e pienamente conoscibile. Concordi nell’impostazione filosofica, gli empiriomonisti sono sparsi però per tutte le fazioni della socialdemocrazia russa: Bogdanov era stato bolscevico, ma nel 1917 è senza partito, Juškevič è un socialpatriota potresoviano, l’economista Vladimir Bazarov è un menscevico di sinistra vicino a Julij Martov, e Anatolij Lunačarskij è un mežrajonec seguace di Trockij3. Persiste inoltre l’endemica dialettica fra i marxisti – dal punto di vista partitico, i socialdemocratici delle varie correnti – e gli eredi del populismo, organizzati nel Partito Socialista-Rivoluzionario, da cui il nomignolo di esèry: l’opzione marxista – operaista e “occidentalista” – e quella populista – rurale e “autoctona” – erano ben distinte, ma consentivano posizioni intermedie, come ad esempio quelle del marxista populisteggiante Nikolaj Suchanov o del populista marxisteggiante Viktor Černov4. 2. Crollato in pochi giorni lo zarismo e instauratasi la peculiare diarchia fra soviet e governo provvisorio5, si tratta ora di operare nette scelte di campo, tanto più che il carattere così repentino quanto tardivo della rivoluzione russa conferisce fin da subito un forte peso agli schemi retrospettivi desunti dalle analisi di Marx in merito alle rivoluzioni del 178994, del 1848 e del 1871: «Ancora non hanno fatto in tempo a inebriarsi del vino rivoluzionario» ironizza Juškevič, che già i capi dei partiti socialisti «provano tutto il doposbornia della controrivoluzione»6. Nei mesi fra il febbraio e l’Ottobre – e oltre! – i marxisti russi vivono di fantasmi storiografici: timori di una «Vandea» monarchica, di un «termidoro» borghese, di un «Bonaparte» controrivoluzionario, di un «18 brumaio», di un esito simile a quello della Comune di Parigi... Dato questo carattere «retrospettivo» della rivoluzione, «la questione cardinale del momento» è, per i leader socialisti, «la questione sul carattere del potere»7, ossia sul pericolo
3 Dopo l’Ottobre, gli ex bogdanoviani indirizzeranno in larga misura la nascente cultura sovietica e loro creatura sarà ad esempio il Proletkul’t o Movimento per la Cultura Proletaria: vedi Guido Carpi, Storia della letteratura russa. Vol. 2. Dalla rivoluzione d’Ottobre a oggi, Carocci, Roma 2016, pp. 43 sg. 4 Su queste e altre diatribe fra marxisti fino al 1917, e sulla bibliografia pregressa, vedi Guido Carpi, Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, in Storia del marxismo. Vol. 1. Socialdemocrazia, revisionismo, rivoluzione (1948-1945), a cura di Stefano Petrucciani, Carocci, Roma 2015, pp. 101145. 5 Sui momenti salienti del processo rivoluzionario, vedi soprattutto Aleksandr Rabinovič, Bol’ševiki prichodiat k vlasti: Revoljucija 1917 goda v Petrograde [I bolscevichi giungono al potere: la rivoluzione del 1917 a Pietrogrado], Progress, Moskva 1989; Ettore Cinnella, Storia universale. Vol. 22. La rivoluzione russa, Corriere della sera, Milano 2005; infine Id., 1917: la Russia verso l’abisso, Della Porta, Pisa-Cagliari 2012. 6 Pavel Juškevič, Tvorčeskaja revoljucija, cit., p. 3. 7 Ziva Galili y Garcia-Al’bert Pavlovitch Nenarokov, Krizis koalicionnoj politiki i usilenie centrobežnych tendencij v men’ševistkoj partii [La crisi della politica di coalizione e il rafforzamento delle tendenze centrifughe nel partito menscevico], in Men’ševiki v 1917 godu [I menscevichi nel 1917]. Tom 2. Ot ijul’skich sobytij do kornilovskogo mjateža [Dai fatti di luglio alla ribellione di Kornilov], Rosspen, Moskva 1995, p. 18.
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di un’involuzione controrivoluzionaria – «Vandea», «Termidoro», «18 brumaio», ecc. – e sulla tattica preferibile per scongiurarla, senza però cadere nell’avventurismo massimalista: accompagnare dall’esterno le trasformazioni borghesi, vigilando sul loro carattere progressivo? Concorrere ad esse con ruoli di governo? Rompere subito con la borghesia, impedendole di consolidarsi? E quali precise scelte in merito ai rapporti di proprietà e di produzione – tanto nelle campagne che nel settore manifatturiero – avrebbero comportato le differenti tattiche? Nei primi mesi dopo la rivoluzione di febbraio, nei rinati soviet è pressoché incontrastata l’egemonia dei menscevichi, o meglio della loro corrente centrista, rappresentata da Nikolaj Čcheidze, il Presidente del mastodontico Soviet di Pietrogrado – 850 delegati operai e 2.000 delegati soldati. Nei confronti del primo governo provvisorio, la linea di condotta dettata dai menscevichi ai soviet è di non partecipare direttamente al governo “borghese”, ma di sostenerne l’azione nella misura in cui essa sia diretta all’approfondimento della rivoluzione, al conseguimento di una pace generale senza annessioni e all’elezione di un’assemblea costituente basata sul suffragio universale, paritario, diretto e segreto. Inizialmente, tale linea di condotta soddisfa sia la sinistra menscevica – dato che l’assenza di vincoli precisi fra i soviet e il governo dà spazio a un “approfondimento”della rivoluzione in senso socialista – sia la destra, in quanto presuppone il necessario carattere “borghese” di questa fase rivoluzionaria, ove la fraseologia socialista va considerata un mero décor: «Sotto il manto degli slogan socialisti, sotto il sembiante dell’egemonia del proletariato e dei contadini, da noi si sta consolidando il dominio della borghesia», nota Juškevič tutto soddisfatto. «Nella storia, questa è la terza metamorfosi di fila, la terza maschera – e, pensiamo, l’ultima – della rivoluzione borghese: all’ideologia religiosa degli Ironsides puritani di Cromwell è seguita l’ideologia puramente razionale, egualitaria dei seguaci di Danton e Robespierre, e come ultimo anello di questa catena abbiamo di fronte i paramenti socialisti della nostra propria rivoluzione»8. Se la genericità della strategia adottata serve a tenere insieme le differenti anime mensceviche e ad assicurare al POSDR l’egemonia sui soviet, essa è però inadatta a definire le concrete mosse tattiche: nel corso dei mesi, l’ombrello da essa fornito dovrà dilatarsi a dismisura, e i menscevichi perderanno tanto la coesione interna quanto il controllo dei soviet. I primi a “tirare la coperta” sono i centristi di Iraklij Cereteli, leader menscevico emerso politicamente come capogruppo alla Duma, e dunque uno dei pochi socialisti ad avere esperienza parlamentare9: questi inizia subito un’energica campagna affinché rappresentanti socialisti dei soviet entrino nel governo. Dal canto loro, i dirigenti bolscevichi presenti a Pietrogrado – Iosif Stalin, Lev Kamenev – tentano inizialmente di smussare le polemiche con la maggioranza menscevica del soviet e di ritagliarsi il ruolo d’opposizione costruttiva. È Lenin, con le sue quattro Lettere da lontano [Pis’ma izdaleka] – scritte a Zurigo dal 20
8 Pavel Juškevič, Revoljucija i ee djalektika [La rivoluzione e la sua dialettica], “Den’”, 7 luglio 1917, p. 3. 9 Pupillo di Aksel’rod e ammiratore di Bernstein, Cereteli si era già attirato gli strali di Lenin nel 1907, quando – capogruppo alla Duma – aveva tentato di coinvolgere il partito cadetto – liberale – nella «municipalizzazione» delle terre nobiliari a favore dei contadini, secondo il programma elaborato dall’economista menscevico Pёtr Maslov. Secondo Lenin, la terra andava invece nazionalizzata senza indennizzo, e i cadetti non potevano in alcun modo essere visti come alleati.
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al 25 marzo 1917 in attesa di poter tornare in patria, e di cui solo la prima viene pubblicata sulla “Pravda” – a chiedere l’immediata rottura fra il soviet e il governo, l’unione fra tutte le forze proletarie e l’inizio d’una nuova fase rivoluzionaria: «Giunto a Pietroburgo, neanche per un minuto egli si era sentito l’ala sinistra di un fronte socialista composto da molte frazioni, ma fin dal principio si era imposto come centro decisivo degli eventi»10. Dopo le giornate di luglio, le divergenze nel gruppo dirigente menscevico si approfondiscono, soprattutto in merito alla fondamentale questione del potere: proseguire la politica di coalizione coi partiti democratici non socialisti oppure formare un governo che sia totalmente espressione dei soviet, nei quali in primavera-estate i menscevichi detenevano ancora la maggioranza. La seconda opzione pare impraticabile ai leader menscevichi, dato che un governo sovietico senza i rappresentanti della borghesia farebbe prevalere le posizioni più radicali – «da Martov a Lenin», si diceva11 – forti nel Soviet di Pietrogrado ma minoritarie nel resto del Paese, mettendo così a dura prova la stessa coesione nazionale. Come sempre, Trockij occupa una posizione a parte. Convintosi definitivamente, dopo i fatti di luglio, che il governo provvisorio e i soviet non possano costituire gli elementi di un’unica dialettica istituzionale, ma rappresentino «due diversi regimi che si appoggiano su classi diverse», egli vede nei soviet l’incarnazione delle proprie vecchie teorie, ossia l’istituto capace di «indirizzare e trasformare la vita economica nell’interesse delle masse lavoratrici», generando la reazione a catena della «rivoluzione permanente»: infatti, «la rivoluzione russa è in grado di dare al movimento rivoluzionario in Occidente un impulso tanto più potente, con quanta più decisione e coraggio essa supera la resistenza della propria borghesia»12. Di qui la rottura definitiva di Trockij coi menscevichi e la confluenza del suo gruppo nel Partito bolscevico in agosto. Quanto ai menscevichi, la frattura fra essi – che paralizza l’azione del partito e mette a dura prova rapporti umani consolidati in decenni di lotte – è frutto non solo di diverse analisi della situazione, ma anche di atteggiamenti psicologici differenti: i “difensisti rivoluzionari” come Fëdor Dan e Cereteli si sentono in primo luogo uomini di governo, portatori d’una responsabilità complessiva per l’integrità territoriale del Paese, per il mantenimento della sua ossatura istituzionale e giuridica; i menscevichi-internazionalisti, al contrario, si sentono più rivoluzionari, prosecutori del cammino iniziato dall’umanità nel 1789, e temono in primo luogo una controrivoluzione “termidoriana”. Per gli uni e per gli altri, comunque, vale il tradizionale spauracchio menscevico dell’isolamento politico della Fëdor Stepun, Byvšee i nesbyvšeesja [Ciò che è stato e ciò che non è stato]. Vol. 2, Izdat. Imeni Čechova, New York 1956, p. 45. 11 Il fatto che Martov e Lenin durante il 1917 vengano spesso considerati simili nel loro “massimalismo”, ci consente qui di marcare la loro differenza fondamentale: «Fin quasi dall’inizio della sua attività politica, Lenin fu consapevole che la conquista e l’utilizzo del potere politico rappresentavano di per sé la leva decisiva nel processo di trasformazione più profonda della struttura sociale e nei rapporti fra i diversi gruppi sociali e politici […]. Per Martov, al contrario, il potere politico di per sé rappresentava solo un riflesso di più profondi cambiamenti nell’autodefinizione, mobilizzazione e organizzazione sociale e politica dei diversi gruppi sociali», in Men’ševiki v 1917 godu [I menscevichi nel 1917]. Tom. 3\2. Ot Vremennogo Demokratičeskogo Soveta Rossijskoj Respubliki do konca dekabrja [Dal Consiglio Democratico Provvisorio della Repubblica Russa alla fine di dicembre], Rosspen, Moskva 1997, p. 57. 12 Lev Trockij, Čto že dal’še? (Itogi i perspektivy) [E poi? (Risultati e prospettive)], Priboj, Peterburg 1917, pp. 6, 7. 10
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classe operaia: tale esito – causa della sconfitta del 1905 – si deve evitare ad ogni costo, secondo gli uni coinvolgendo i partiti democratici non socialisti nell’attività di governo, secondo gli altri coinvolgendo in particolar modo i socialisti rivoluzionari e le masse contadine, e addirittura i bolscevichi meno estremisti. 3. Un compromesso ancora accettabile per entrambe le ali del menscevismo è la formazione – subito dopo l’abbandono del governo da parte dei ministri cadetti e gli scontri di luglio – di un nuovo governo a guida socialista – due menscevichi e due esery – con una minoranza di ministri “borghesi” e la presidenza data all’unica personalità che possa tutelare gli uni e gli altri: l’eser moderato Aleksandr Kerenskij. Il programma del governo appare come un’espressione della volontà dei soviet, ma era in realtà imposto a questi ultimi da quei leader socialisti che sarebbero poi entrati a far parte del governo stesso: appello all’elezione di un’assemblea Costituente, congelamento dei rapporti di proprietà nelle campagne fino alla riforma agraria che la Costituente avrebbe promosso, concertazione coi soviet nelle questioni industriali e commerciali; ma anche mano libera del governo contro “l’anarchia”, reintroduzione della pena di morte al fronte e obbligo di consegna delle armi da parte dei civili. Il 13 luglio, i soviet mondati dai bolscevichi, che dopo gli scontri di piazza erano tornati illegali, accettano tale programma, suscitando le rimostranze della sinistra menscevica e, al contrario, il vivo apprezzamento di Potresov: il governo provvisorio «deve, come il leggendario Anteo, poggiare sulla madre Terra per ottenere la forza che gli manca. Gli serve il terreno sotto i piedi, un saldo terreno rappresentato dalle forze organizzate di tutta la Russia rivoluzionaria»13. Alla conferenza di partito pochi giorni dopo, Martov dichiara che il governo sta tentando di «attaccare i soviet dietro la carrozza del potere», e che è necessaria una diretta assunzione di responsabilità di governo da parte dei soviet14. Come sempre, le diverse opzioni si basano su exempla tratti da rivoluzioni precedenti: secondo Potresov e i suoi, una Pietrogrado «ultrarivoluzionaria» guidata dai soviet rischia di staccarsi dal resto del Paese, di contrapporsi ad esso e di fare la fine della Comune di Parigi, per cui è necessario «tessere fili fra Pietrogrado e il Paese, e cercare nel sostegno organizzato del Paese [ossia in un governo di coalizione] l’antidoto ai gas venefici dell’anarchia della capitale»15. Martov, al contrario, paventa un «Termidoro» o un «18 brumaio» se i soviet non prendono direttamente il potere: «o la democrazia rivoluzionaria prende su di sé tutta la responsabilità per la rivoluzione, oppure essa perde la propria voce in capitolo per gli sviluppi futuri di questa»16. Alla conferenza menscevica di Pietrogrado, le votazioni finiscono praticamente alla pari fra i due gruppi – con una leggera prevalenza dei “difensisti” – tanto che ogni presa di posizione del partito viene rimandata. Se in marzo-aprile la maggior parte dell’intelligencija democratica vedeva nell’alleanza coi partiti socialisti la garanzia per un futuro di progresso e di pace sociale, in seguito
Aleksandr Potresov, Apelljacija k strane [Appello al Paese], “Den’”, 5 luglio 1917, p. 3. Men’ševiki v 1917 godu. Tom. 2, cit., p. 158. 15 Aleksandr Potresov, Apelljacija k strane, cit., p. 3. 16 Men’ševiki v 1917 godu. Tom 2, cit., p. 158. Si noti che gli autori socialisti del periodo utilizzano il termine «democrazia» non nel senso di uno specifico assetto istituzionale, ma in quello di esercizio del potere da parte dei ceti popolari o delle pratiche di lotta e di organizzazione volte all’ottenimento di tale potere: in tal senso, la «democrazia rivoluzionaria» coincide per molti con il soviet. 13
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i tumulti di inizio luglio, le sconfitte militari e la disintegrazione progressiva del tessuto sociale e amministrativo suggeriscono a quella stessa intelligencija che ormai il paese sia spaccato fra una minoranza colta e responsabile e una massa anarchica, e che qualsiasi forma di cooperazione coi soviet e coi partiti socialisti sia impossibile. Per quanto Cereteli insista che «gli ideali della democrazia, la politica che la persegue insieme alle forze vive del Paese sono quella bussola che ci sta di fronte e secondo la quale noi indirizzeremo la nave dello Stato»17, l’attività dei ministri socialisti nel governo è bloccata e stretta fra i due fuochi dell’ala massimalista e delle pressioni normalizzatrici che iniziano a farsi sentire da parte dei circoli industriali, commerciali e finanziari: questi ora esigono lo svincolamento del governo dai soviet, la cessazione di ogni riforma fino alla Costituente e un rapido ritorno all’ordine tanto al fronte quanto nelle retrovie. Eppure, anche se la borghesia russa si sposta verso destra, una sintesi politica va cercata con la «rappresentanza reale, non decorativa» di tale borghesia, e – insiste Potresov – la deriva controrivoluzionaria di quest’ultima può essere fermata solo «se saremo inflessibili nella nostra rinuncia al massimalismo politico ed economico di larghe masse popolari»18; in polemica coi menscevichi internazionalisti, Potresov paragona questi ultimi al Capo di Stato Maggiore russo Rennenkampf, che – ordinando attacchi irrealistici dettati da un’irrazionale smania di vittoria – aveva condotto le truppe russe a numerosi smacchi sui fronti della guerra mondiale. Qui la vecchia volpe del menscevismo moderato e “patriottico” ribadisce la propria concezione di «classe», introducendo la distinzione fra un «istinto di classe» primitivo e distruttore e una «coscienza di classe» come vettore di autentico progresso. Quest’ultima non solo ammette, ma richiede ampie alleanze sociopolitiche in nome dell’«egemonia» sull’intero corpo sociale e della realizzazione di compiti nazionali generali: Essa conosce le manovre di aggiramento. Conosce la guerra di posizione. Conosce mille combinazioni complesse, e innanzitutto ha imparato come – distinguendo fra gli uni e gli altri – si possono combinare i propri nemici in modo tale da servirsi degli uni contro gli altri, e ottenere così risultati importantissimi, che il proletariato con le sue sole forze non avrebbe ottenuto19.
Ma la dottrina potresoviana di un’ampio fronte sociopolitico che si coagula dialetticamente intorno a generali compiti nazionali e senza fretta nè scosse muove alla loro realizzazione, cozza contro la logica convulsa dei fatti: le dinamiche sociopolitiche del 1917 portano allo scontro fra «istinti di classe», non alla «coscienza di classe» e al suo pacifico dispiegamento. Nè le grane vengono solo dai bolscevichi, dato che l’intelligencija non socialista si sta posizionando sempre più a destra e percepisce ormai l’intero campo socialista come una minaccia: «La zuffa fra “moderati” e bolscevichi non deve ingannare», si appunta un noto giornalista moscovita, rappresentante della borghesia benpensante: «con tutti i loro “nella misura in cui”, i ‘moderati’ sono determinati a divorarci tanto quanto i
Ibid., p. 162. Aleksandr Potresov, Puti k soglašeniju, [Le vie verso un accordo] “Den’”, 14 luglio 1917, pp. 3, 4. 19 Aleksandr Potresov, Iskusstvo generala Rennenkampfa [L’arte del generale Rennenkampf], ibid., 18 luglio 1917, p. 3. 17
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bolscevichi. Qui si discute “non sul se, ma sul come”: sulla salsa in cui noi andiamo cucinati perché si venga più gustosi»20. 4. Nato nel 1915 grazie agli sforzi di Maksim Gor’kij, il mensile “Letopis’” – “Cronaca” – è l’unico periodico legale a rivendicare una posizione antibellica e a chiamare i marxisti russi non difensisti a un’unità d’analisi e d’azione. Particolarmente interessanti sono i pochi numeri usciti nel 1917, quando, cadute le difficoltà e le censure opposte alla rivista da parte del regime, i collaboratori di “Letopis’” poterono articolare al meglio la propria analisi della fase rivoluzionaria e i propri auspici sui suoi sviluppi. A dare il la è in aprile Bazarov, teorico di punta, insieme a Gor’kij, dei marxisti “internazionalisti” – fautori d’una linea unitaria fra i bolscevichi più cauti e la sinistra menscevica – con un’analisi delle forze sociali nel contesto rivoluzionario. Del tutto in linea con la tradizione bogdanoviana è il richiamo di Bazarov all’organizzazione del movimento rivoluzionario, un’organizzazione spontanea, dal basso, che deve tradurre le confuse aspirazioni delle masse in una cosciente opera di edificazione sociale. Non meno di Potresov, Bazarov paventa il prevalere d’un «istinto di classe» primitivo e distruttivo, ma se il leader della destra menscevica contrappone ad esso una «coscienza di classe» promotrice di larghe intese, Bazarov chiede al proletariato di superare la fase magmatica per «intensificare la differenziazione classista» e diventare ceto classe di governo: Molti vedono negli eventi dei nostri giorni un processo di intensificazione della differenziazione classista della nostra società. Purtroppo non è così. Una precisa coscienza degli interessi di classe, la traduzione di tali interessi in piattaforme programmatiche elaborate con scrupolosità e sistematicamente realizzate, significherebbe superare davvero quell’anarchia di cui attualmente ci si lamenta tanto, sia a destra che a sinistra. Nei fatti, abbiamo di fronte non un processo consapevole di organizzazione classista della società, ma aggregazioni elementari e caotiche sulla base di pulsioni istintive: l’istintiva sfiducia nei confronti dell’uomo in bombetta da una parte, l’istintivo terrore nei confronti dell’uomo col berretto dall’altra21.
Se per Potresov il superamento dello spontaneismo classista deve rendere possibile affrontare compiti di interesse generale per l’intera nazione – la difesa della patria, il ristabilimento d’un quadro istituzionale condiviso – per Bazarov il «processo cosciente di organizzazione classista della società» deve portare in primo luogo a una trasformazione dell’economia in senso collettivistico. Ma i partiti politici dell’epoca attuali non sono né possono essere il motore di tale processo – come, da punti di vista diversi, pensavano bolscevichi e menscevichi – dato che nella propria anacronistica struttura ereditata dal ben diverso contesto pre-1917 essi sono se mai un ostacolo al dispiegarsi delle potenzialità democratiche delle masse: «Uno dei passi più necessari, impellenti per consolidare
20 Vladimir A. Amfiteatrov-Kadašev, Stranicy iz dnevnika [Pagine dal diario] in “Minuvšee”, almanacco di memorialistica, Vol. 20, Atheneum, Moskva 1996, p. 464. Sul ruolo della destra menscevica nel 1917, vedi anche: Al’bert Nenarokov, Pravyj men’ševizm: Prozrenija rossijskoj social-demokratii [Il menscevismo di destra: le intuizioni della socialdemocrazia russa], Novyj chronograf, Moskva 2011. 21 Vladimir A. Bazarov, Pervye šagi russkoj revoljucii [I primi passi della rivoluzione russa], “Letopis’”, n. 2-3-4 1917, p. 385.
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la rivoluzione spingendola avanti è la riorganizzazione in senso europeo dei nostri partiti socialisti»22. Dove europeo non vuol dire “nazional-patriottico” – come per Potresov – ma “acculturatore” e “organizzatore”. Nel successivo numero di giugno, Bazarov tenta di tracciare le linee d’una possibile trasformazione socialista dell’economia. Secondo un’analisi qui non dissimile da quella leniniana, la «porta girevole» verso una nuova organizzazione dell’economia è per lui la guerra: «La guerra in corso non solo ha ‘discreditato’ l’imperialismo, non solo ha mostrato in negativo i tanti aspetti della sua inconsistenza, ma ha anche preparato in positivo l’assetto futuro, ha gettato alcuni fondamenti materiali del socialismo»2 3 . Al contrario dell’ex maestro Bogdanov – che, come accennato in apertura, considera il “comunismo di guerra” un pernicioso fenomeno di entropia sociale – e in misura anche superiore a Lenin – al tempo occupato più che altro da questioni di tattica per la presa armata del potere e per l’instaurazione della dittatura del proletariato – a metà del 1917 Bazarov teorizza il dipanarsi di una serie di forme transitorie di organizzazione economica – dal monopolio statale della distribuzione a quello del commercio, fino alla gestione statale della produzione – verso il socialismo, sotto lo stimolo dell’economia di guerra: «Regolare davvero la distribuzione diviene possibile solo a partire dal momento in cui lo Stato prende sotto il proprio controllo tutto il sistema dell’economia nazionale, fino a organizzare secondo un piano determinato i settori più avanzati della produzione»24. Il passaggio del movimento socialista dalla rivendicazione «difensiva» di diritti e tutele per i lavoratori alla realizzazione «propositiva» di nuove forme d’organizzazione del lavoro, è tanto più impellente quanto più passivo e parassitario si rivela il ceto padronale russo. Privati della tradizionale tutela dello Stato zarista, gli imprenditori si dedicano addirittura al sabotaggio della produzione, nella speranza di piegare così la controparte operaia, e contribuiscono alla disorganizzazione generale dell’economia nazionale: «Nelle condizioni russe attuali, organizzare la produzione sotto il controllo statale è innanzitutto un’esigenza proletaria, non osservarla mette in pericolo mortale non solo tutte le conquiste del proletariato, ma la sua stessa esistenza come classe»25. Classe operaia e ceto ingegneristico, dunque, devono saldarsi nella grande opera di riorganizzazione dell’industria, e soli possono trasformare i trusts dell’economia militare di Stato in una prima rete produttiva socialista, senza neanche bisogno d’espropriare formalmente il padrone. La grande utopia bogdanoviana – in una forma peraltro avversata dallo stesso Bogdanov – si ripresenta così nel contesto d’una rivoluzione in corso, come sbocco alternativo al moderatismo menscevico – lasciar fare alla borghesia, poi si vedrà – e al massimalismo bolscevico – prendere il potere, poi si vedrà. Ciò che conta è l’organizzazione del lavoro, che si darà spontaneamente in forma socialista quando le due metà del lavoro – l’ingegnere e l’operaio, non più divisi dallo scoglio insuperabile dell’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista – si fonderanno in una sola unità di produzione: «Da folla in rivolta contro gli oppressori, capace solo di avanzare ‘pretese’ e di attendere che qualcun altro le soddisfi, la classe operaia deve trasformarsi in quadri rigidamente
Ivi. Vladimir A. Bazarov, Kuda my idem? [Dove stiamo andando?], “Letopis’”, n. 5-6 1917, p. 236. 24 Ibid., pp. 236, 237. 25 Ibid., p. 239. 22 23
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organizzati di attivisti responsabili di fronte alla nazione, capaci di tradurre in vita con saldezza, coerenza e disciplina le proprie stesse direttive»26. 5. Ai grandi manifesti teorici di “Letopis’”, Bazarov affianca a partire dalla primavera una fitta serie d’interventi di carattere più specifico sulle colonne del quotidiano “Novaja žizn’” (“Vita nuova”), anch’esso patrocinato da Gor’kij27 e certo capace d’esercitare un’influenza più capillare nel contesto d’una realtà in continua trasformazione, rispetto al farraginoso mensile. Già a inizio maggio, ad esempio, Bazarov pungola il nuovo governo di coalizione liberal-socialista a muoversi verso una centralizzazione pianificata dell’economia, coinvolgendo l’intelligencija tecnica e i soviet, ma dissuade questi ultimi dal seguire i consigli della “Pravda” leninista in merito a una presa diretta del potere28. La conquista ideologica dell’intelligencija a un piano di trasformazione pianificata dell’economia – conquista che Gramsci avrebbe chiamato «esercizio dell’egemonia» – dev’essere realizzata dal proletariato e dai suoi rappresentanti, i soviet, per via graduale, sfruttando le contraddizioni fra l’intelligencija tecnica stessa e il padronato industriale, deciso a sabotare ogni riforma dell’economia in senso progressivo. Le cause oggettive del ruolo disorganizzativo dell’impresa privata in questa fase economica sono riassunte da Bazarov con un pathos che farà presa anche su Lenin: La guerra e la rovina economica e finanziaria, che ne è la conseguenza, hanno creato uno stato di cose nel quale l’interesse privato dell’imprenditore non è rivolto a consolidare e ad espandere ma solo a distruggere le forze produttive del paese. Attualmente è più vantaggioso – in attesa di un aumento dei prezzi – tenere inattive le imprese in cui il capitale è investito anziché metterle in azione; è più vantaggioso produrre, nelle condizioni più disastrose per il paese, materiale bellico che non serve a niente, anziché soddisfare coscienziosamente le necessità più urgenti delle masse popolari; e niente è più vantaggioso della costruzione di nuove fabbriche di armamenti, che non saranno mai utilizzate, perché potranno entrare in funzione solo fra due o tre anni. Ci si può allora stupire che la cosiddetta ‘economia nazionale’ sia diventata da noi una sfrenata orgia di ruberie, di anarchia industriale, di dilapidazione metodica del patrimonio nazionale?...29
La soluzione – Bazarov non si stanca di ripeterlo – è la regolazione pianificata dell’economia nazionale da parte della società e dello Stato: «del conglomerato caotico degli “interessi privati” diretti a fare a pezzi, pezzetti e pezzettoni il comparto produttivo per depredarlo, dobbiamo creare un tutto unico cementato dall’interesse comune, in grado di esercitare una vigilanza occhiuta sulle forze produttive del Paese»30. In questo contesto, Ibid., pp. 240, 241. Lo stesso Gor’kij è ben presente sulle colonne del quotidiano con una serie d’interventi che – per l’atteggiamento critico nei confronti di Lenin – verranno poi pesantemente censurati nell’edizione sovietica delle Opere. Vedi la loro traduzione italiana in Maksim Gor’kij, Pensieri intempestivi 1917-1918, testi raccolti e annotati da Germann Ermolaev, Jaca Book, Milano 1978. 28 Vladimir Bazarov, Regulirovanie proizvodstva i revoljucionnyj entuzjazm [La regolazione dell’economia e l’entusiasmo rivoluzionario], “Novaja žizn’”, 9 maggio 1917, p. 3. 29 Vladimir Bazarov, Sovremennaja anarchija i grjaduščij Napoleon [L’anarchia contemporanea e il Napoleone prossimo venturo], ibid., 24 maggio 1917, p. 3. 30 Ivi. 26 27
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gli appelli di Lenin al «controllo operaio» sulle fabbriche – ribaditi nel suo intervento alla conferenza dei comitati di fabbrica d’inizio giugno a Pietroburgo – sembrano a Bazarov inutili, se non controproducenti: i partigiani di Lenin «non propongono alcuna trasformazione radicale nella struttura stessa dell’industria, vorrebbero in buona sostanza lasciare tutto com’è e solo mettere ogni capitalista sotto il controllo di un gruppo di operai rivoluzionari». Al contrario, una lotta seria col collasso economico «richiede che il capitalista venga estromesso dal ruolo direttivo nella produzione, che venga trasformato in un redditiere»; parimenti, i comparti produttivi possono essere sottoposti a una trasformazione in senso socialista solo su scala nazionale, certo non nei limiti delle singole fabbriche31. Ma il dottrinarismo non viene solo da parte bolscevica. Occupata nei tornei retorici della Conferenza di Stato, la maggioranza moderata dei soviet rifiuta di prendere in considerazione le istanze «organizzative» del gruppo di “Novaja žizn’”, benché queste siano sostenute dalla sezione economica dello stesso Comitato Centrale dei Soviet, come riferisce lo stesso Bazarov il 20 luglio in Dottrinarismo e potere forte [Doktrinerstvo i sil’naja vlast’]. Al contrario, il Consiglio economico del Governo provvisorio – attivo da inizio agosto –è fin da subito controllato dai gruppi imprenditoriali più influenti e spinge solo al ritorno degli operai alla piena disciplina di lavoro, senza alcuna reale volontà d’una regolazione statale della produzione: «I rappresentanti delle nostre istituzioni – riconosce sconsolato Bazarov – sono ossessionati da un unico pensiero, come evitare che restrizioni eccessive facciano passare al viziato capitalista russo ogni voglia di fare l’imprenditore industriale»32. Stretto fra massimalismo bolscevico, dottrinarismo socialista-moderato e cinismo affaristico dei circoli industriali, il gruppo di “Novaja žizn’” si trova sempre più isolato. Di lì a poco, l’Ottobre, quindi il progetto bazaroviano di trasformare l’economia pianificata di guerra in socialismo per via social-ingegneristica avrebbe mostrato tutto il suo utopismo: «L’atmosfera del comunismo di guerra ha prodotto il massimalismo» spiegherà Bogdanov a un antico sodale, il bolscevico Lunačarskij – appena diventato commissario del popolo alla cultura – già in novembre: «il vostro, pratico, e quello accademico della “Novaja žizn’”. Non so quale sia meglio. Il vostro» – conclude Bogdanov citando le macchiette delle Anime morte gogoliane – «è apertamente antiscientifico; quell’altro è pseudoscientifico. Il vostro si butta a testa bassa, come Sobakevič pesta i piedi al marxismo, alla storia, alla logica; quell’altro è Manilov che si perde in sterili sogni»33. 6. Nel frattempo, in barba agli appelli ecumenici di Bazarov, nel corso del loro VI congresso semilegale (26 luglio-3 agosto), i bolscevichi – forti di un aumento generalizzato di consenso nei soviet provinciali – decidono che il periodo di sviluppo pacifico della rivoluzione è cessato. Per loro la guerra non era solo, e non tanto, l’incubatrice d’una nuova forma regolata d’economia, come preconizzavano i «quasi-bolscevichi» di “Novaja žizn’”, ma anche e soprattutto la levatrice d’una massa di proletari in armi organizzati nei soviet, che – se messa sotto la direzione del partito rivoluzionario – sarà capace d’esercitare il mo-
Vladimir Bazarov, Razrucha i konferencija zavodskich komitetov [La rovina e la conferenza dei comitati di fabbrica], ibid., 2 giugno 1917, p. 3. 32 Vladimir Bazarov, V ekonomičeskom sovete [Nel consiglio economico] ibid., 13 agosto 1917, p. 3. 33 Neizvestnyj Bogdanov [Bogdanov sconosciuto], Tom. 1, Airo-XX, Moskva 1995, p. 189. 31
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nopolio della violenza armata e d’instaurare la dittatura del proletariato, come preconizza Trockij con un notevole pathos futurologico: Tutto il precedente sviluppo, millenni di storia umana, di lotta di classe, di stratificazioni culturali, si sono ora ingorgati nell’imbuto di un solo problema: è il problema della rivoluzione proletaria. Non c’è altra soluzione né altra via d’uscita. Non è una rivoluzione ‘nazionale’, borghese. Chi la valuta in questi termini vive nel mondo dei fantasmi del XVIII, XIX secolo. La nostra ‘patria temporale’, invece, è il secolo XX34.
Intanto Lenin – meno proiettato su scenari cosmico-storici e più attento alla cucina politica corrente – persegue una linea non dissimile: messo momentaneamente da parte lo slogan di dare «tutto il potere» a soviet ormai impotenti perché controllati dagli “opportunisti” piccolo-borghesi, il capo bolscevico chiama alla «guerra civile», ossia ad abbattere il governo di Kerenskij – «paravento per coprire i cadetti controrivoluzionari e la cricca militare che detengono il potere»35 – tramite la lotta armata. La nuova tattica di Lenin – che si era dato alla macchia dopo i fatti di luglio – fu esposta al VI Congresso da Stalin, non senza resistenze da parte di alcuni delegati, che non capivano «cosa si dovesse mettere ora al posto dei soviet». La risoluzione finale risentì di queste incertezze: da una parte si dichiarava che tutte le organizzazioni di massa – e in primo luogo i soviet – andavano difese contro le forze controrivoluzionarie; dall’altra, si alludeva alla necessità che il proletariato «diriga tutti i propri sforzi all’organizzazione e all’allestimento delle forze [per la battaglia decisiva]» – le ultime parole furono poi escluse dal documento36. Se pure in forma vaga e incerta, la prospettiva insurrezionale diventava la linea guida del programma bolscevico. L’impostazione leninista – classe contro classe, presa del potere per la tutela degli interessi popolari ma anche come unica possibilità di salvezza nazionale – era del resto favorita dai processi di disgregazione economica in corso. Lenin arriva a citare la tesi avanzata da Bazarov su “Novaja žizn’” in merito all’«orgia di ruberie» innescata dal fatto che la guerra rende vantaggioso all’imprenditore «non consolidare ed espandere ma solo distruggere le forze produttive del paese». Lenin ribadisce: «Un’orgia di ruberie: non c’è altra espressione per definire il comportamento dei capitalisti nel corso della guerra. Quest’orgia sta conducendo alla rovina tutto il paese. Non si può tacere. Non si può tollerare»37. Sull’«imminenza della catastrofe», il leader bolscevico cita volentieri le analisi degli economisti menscevichi, che invocano la regolamentazione statale dell’economia, la normazione dei prezzi, la ripartizione obbligatoria delle merci a prezzi calmierati, il monitoraggio degli istituti di credito, l’introduzione dei trusts industriali38.
L. Trockij, Čto že dal’še?, cit., p. 26. Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 213. 36 Šestoj s’’ezd Rsdrp (bol’ševikov). Protokoly [Sesto congresso del Posdr (dei bolscevichi). Protocolli], Gospolitizdat, Moskva 1958, pp. 244, 249. 37 Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 24, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 531. 38 Da notare come gli economisti menscevichi direttamente impegnati nei discasteri economici – Vladimir Groman, Fëdor Čerevanin – politicamente fossero schierati con la destra di Potresov: ciò mostra quanto la catastrofe economica in corso fosse ben chiara a tutti. Vedi Al’bert Nenarokov, Pravyj men’ševizm... cit., pp. 240, 241, 318. 34 35
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Tutto giusto, conclude Lenin, ma chi fa queste proposte a nome del governo provvisorio, o meglio, a nome dei suoi rappresentanti socialisti, «sembra aver dimenticato che lo ‘Stato’ è una macchina che la classe operaia e i capitalisti cercano di spingere in direzioni opposte. Quale classe è oggi capace di esercitare il potere?»39. La questione fondamentale – elaborata proprio allora da Lenin in Stato e rivoluzione [Gosudarstvo i revoljucija] –è quella dell’esercizio del potere, secondo il principio che la macchina di oppressione sociale dello Stato borghese va spezzata e ricostruita su basi nuove: «Non è forse chiaro che il problema dell’apparato del potere statale è soltanto un piccolo aspetto della questione più generale per cui si tratta di sapere quale classe detenga il potere? [...] La ‘coercizione’ è una buona cosa, ma il punto è di sapere quale classe la eserciterà e quale classe dovrà subirla»40. Intanto, il tempo lavora per Lenin: il fallimento del putsch tentato dal generale Kornilov a fine agosto ridà centralità strategica ai bolscevichi e alle loro strutture paramilitari; anche le elezioni nei soviet (1-9 settembre) vedono un netto spostamento dei rapporti di forza in loro favore, e il fallimento della Conferenza democratica (14-22 settembre) decreta il definitivo impantanarsi del sistema politico nato in febbraio41; il nuovo e ultimo governo provvisorio non recepisce alcuna delle richieste avanzate da tutti i marxisti – dai menscevichi più moderati ai bolscevichi – in materia di regolamentazione economica, ma anzi liberalizza i prezzi e riduce il controllo statale. Il 7 novembre, la rivoluzione bolscevica. Ma la storia continua, e si deve pur fare…
Vladimir I. Lenin (Ul’janov), Opere complete. Vol. 24, cit., p. 533. Ibid., p. 535. 41 Si noti come la Conferenza democratica venisse boicottata non solo dai bolscevichi, ma anche dalla destra menscevica: secondo Potresov essa era «una forma mascherata di presa del potere da parte dei Soviet, che può portare solo alla catastrofe». Cfr. Men’ševiki v 1917 godu. Tom. 3\1, Ot kornilovskogo mjateža do Vremennogo Demokratičeskogo Soveta Rossijskoj Respubliki [Dalla ribellione di Kornilov al Consiglio Democratico Provvisorio della Repubblica Russa], Rosspen, Moskva 1996, p. 146. 39
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Politica estera e/o rivoluzione? I primi passi della Russia bolscevica in Italia: protagonisti, strumenti, sovrapposizioni
All’indomani della rivoluzione d’Ottobre il neonato governo sovietico deve affrontare le questioni di politica estera ridefinendo le proprie responsabilità in seno all’Intesa e il proprio atteggiamento verso la “vecchia” diplomazia internazionale. Nel secondo decreto pubblicato dal governo sovietico il 26 ottobre – secondo il calendario giuliano – 1917 veniva data risposta ai problemi che interessavano i governi europei sulla nuova politica estera della Russia sovietica. Vladimir Ilic Lenin, in veste di Presidente del Consiglio dei Commissari del popolo, dichiara l’immediata uscita della Russia dalla prima guerra mondiale e l’urgente avvio delle trattative con tutte le parti belligeranti. Inoltre annuncia il passaggio a un nuovo tipo di politica internazionale che prevede la trasparenza delle attività diplomatiche e «la pubblicazione di tutti i trattati segreti confermati o stipulati dal governo di latifondisti e capitalisti dal febbraio al 25 ottobre 1917»1. Tale azione non solo poneva drasticamente fine alla diplomazia tradizionale dell’epoca zarista ma annunciava anche l’avvento d’una nuova politica estera sovietica ispirata alle idee rivoluzionarie. Una volta preso il potere, i bolscevichi si aspettavano che il processo rivoluzionario avrebbe coinvolto tutta l’Europa occidentale. Insieme al Komintern la diplomazia sovietica nei primi anni rappresentava uno degli strumenti dell’esportazione della rivoluzione russa all’estero. Durante tutti gli anni ’20 i bolscevichi discutono sul ruolo della diplomazia nell’ambito dell’attività del governo rivoluzionario, trovandosi di fronte alla necessità d’elaborare propri principii sulla conduzione della politica estera2. Il “biennio rosso” italiano è stato inserito dagli storici sovietici nella mitologia rivoluzionaria comunista come un ricordo prezioso dell’azione internazionale a sostegno della giovane repubblica sovietica russa e del glorioso tentativo d’esportare la rivoluzione proletaria in Occidente3. In quel periodo il potere bolscevico si trovava ancora in una situazione
Dekret II Vserossijskogo s’ezda Sovetov “O mire” 26 oktjabrja 1917 g. [Decreto “Sulla pace” approvato dal II Congresso panrusso dei Soviet del 26 ottobre 1917], in Dekrety Sovetskoj vlasti [Decreti del potere sovietico]. Vol. 1, Moskva Izdat. Političeskoj Literatury, u.a. 1957, p. 16. 2 Timothy Edward O’Connor, Georgij Čičerin i sovetskaja vnešnjaja politika 1918-1930, Progress, Мoskva 1991, p. 16. 3 Si veda ad esempio K.V. Kobyljanskij, Zabastovka solidarnosti s Sovetskoj Rossiej 20-21 ijulja 1919 [Lo sciopero di solidarietà con la Russia sovietica del 20-21 luglio 1919], in Rossija i Italia [Russia e Italia], a cura dell’Akademija Nauk SSSR. Institut istorii., Izdatel’stvo ‘Nauka’, Moskva 1968, pp. 340-351; Kira Emmauilovna Kirova, Zapadnaja Evropa, 1917-j [L’Europa Occidentale nel 1917], 1
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di gravissimo rischio di crollo a causa dell’accerchiamento militare degli ex alleati e della guerra civile che devastava il paese. Nonostante queste condizioni critiche i sovietici progettavano la rivoluzione proletaria su scala mondiale, che avrebbe spazzato via tutti i governi capitalistici e borghesi, liberando i contadini e gli operai da una secolare oppressione. L’Italia non rimase fuori da questo ambizioso progetto, anzi il suo coinvolgimento segnò una pagina importante nella storia del comunismo internazionale. Quali sono stati i primi passi del governo sovietico nei confronti dell’Italia, il paese dove Lenin decide di poter ripetere l’esperienza bolscevica e tentare la rivoluzione? Quali informazioni arrivavano a Mosca per permettere al Politbjuro di valutare la situazione interna italiana e prendere decisioni concrete? Da quali fonti provenivano le informazioni a disposizione dei dirigenti del Komintern e del NKID4? Come si è manifestata la dicotomia fra NKID e Komintern in ambito italiano, soprattutto nel contesto delle lotte frazionistiche della Sinistra? La cospicua letteratura esistente sul doppio canale della politica estera sovietica ci permette di evitare l’approfondimento di questo fenomeno nella storia della diplomazia internazionale5. Inoltre, alcuni studiosi italiani e russi si sono occupati dell’avvio delle relazioni tra la Russia sovietica e il Regno d’Italia, basti ricordare i lavori di Irina A. Khormach, Giorgio Petracchi, Rosaria Quartararo, Antonello Venturi. Il mio contributo ha l’ambizione di descrivere, in base ai documenti conservati presso gli archivi russi, il tortuoso cammino attraverso il quale furono stabilite le relazioni fra la Russia sovietica e il Regno d’Italia, un percorso contraddistinto da una serie di scelte tra la politica estera tradizionale e l’idea della rivoluzione mondiale. Per analizzare la politica sovietica nei confronti dell’Italia saranno prese in esame le informazioni che i bolscevichi avevano a disposizione sul periodo liberale prima e fascista dopo, nella prospettiva della auspicata rivoluzione proletaria in tutta Europa. La valutazione sovietica della situazione interna italiana porta di volta in volta al prevalere di uno dei due strumenti della politica estera bolscevica: NKID e Komintern. Inoltre si cercherà di ricostruire la divergenza tra la diplomazia sovietica – rappresentata dall’istituzione capeggiata da Georgij Vasil’evič Čičerin – e il Komintern, fondato nel marzo 1919 e presieduto da Grigorij Evseevič Zinov’ev, attraverso l’attività e le posizioni di
Nauka, Moskva 1977; N.P. Komolova, Velikij Oktjabr’ i revoljucionnyj process v Italii [Il Grande Ottobre e il processo rivoluzionario in Italia], in Velikaja Oktjabr’skaja socialističeskaja revoljucija i strany zapadnoj Evropyn [La grande rivoluzione d’Ottobre nei paesi dell’Europa occidentale], a cura di V. D. Kul’bakin-Institut Vseobščej Istorij, Akademija Nauk SSSR, Nauka, Moskva 1978, pp. 94-122. 4 NKID: Narodnyj komissariat inostrannych del [Commissariato del popolo per gli Affari Esteri]. 5 Ad esempio: Arno J. Mayer, Political origins of the new diplomacy, 1917-1918, Yale University Press, New Haven 1959; Alexander Vatlin, L’attività internazionale dell’URSS: dalla rivoluzione mondiale all’espansione imperiale, in Da Lenin a Putin e oltre. La Russia tra passato e presente, a cura di Vittorio Strada, Jaca Book, Milano 2011, pp. 11-32: Silvio Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale (1917-1991), Einaudi, Torino 2012; Anna Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo. Mosca, il Komintern e l’Europa di Versailles (1918-1928), Carocci, Roma 2004; Jonathan Haslam, Komintern and soviet foreign policy, 1919-1941, in The Cambridge History of Russia. Vol. III. The twentieth century, Cambridge University Press, Cambridge 2008, pp. 636-661; Olga Dubrovina, Una istituzione della nuova diplomazia: l’ambasciata sovietica a Roma, “Il Ponte”, n. 8-9, agosto-settembre 2014, pp. 73-96.
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alcuni rappresentanti sovietici ufficiali in Italia, che si trovarono nella difficoltà di lavorare per due istituzioni con obiettivi spesso contrastanti. La Missione militare italiana e il Consolato generale italiano a Mosca Nei principali archivi russi (RGASPI6 e AVP RF7) sono conservate pochissime testimonianze delle relazioni tra le rappresentanze ufficiali italiane e il nuovo governo sovietico nei primi due anni dopo la rivoluzione d’Ottobre. Il motivo di questa lacuna ovviamente sta nella grande confusione politica e sociale che regnava nel paese: eventi drammatici come l’intervento straniero in territorio russo, la guerra civile e la fame provocata dal disastro politico, nonché le condizioni climatiche hanno reso caotici e disordinati i primi anni di vita del NKID. Tuttavia, benché il vecchio personale del Ministero degli Esteri zarista avesse rifiutato in massa di collaborare con il nuovo governo, lasciando l’istituzione senza impiegati adatti a questo delicato lavoro8, il servizio di Čičerin cercò di mantenere buoni rapporti con i rappresentanti ufficiali italiani rimasti in Russia. Si tratta anzitutto della Missione militare italiana – inviata in Russia in base alla Convenzione militare firmata tra la Russia e l’Italia il 21 maggio 19159 – e del Consolato italiano a Mosca. Nell’aprile 1916 la direzione della Missione è assunta da Giovanni Romei-Longhena, ufficiale di cavalleria. Nel marzo 1918, dopo la partenza dell’ambasciatore italiano Pietro Tomasi della Torretta per Vologda prima e Arcangelo poi10, la Missione militare italiana si trasferì da Pietrogrado a Mosca, che nel frattempo era diventata la capitale ufficiale del nuovo Stato sovietico. In questo periodo a Mosca continuò a funzionare il Consolato generale d’Italia presieduto dal Console Majoni11 che era in contatto con Čičerin già dal maggio 191812. La Missione militare continua a svolgere anche a Mosca il suo compito di osservazione e raccolta informazioni sulla «riorganizzazione militare della Russia rivoluzionaria»13, a patrocinare gli interessi dello Stato italiano e a garantire la protezione dei prigionieri ita-
RGASPI: Archiv vnešnej politiki Rossijskoj Federacii [Archivio Statale Russo di storia sociale e politica]. 7 AVP RF: Rossijskij Gosudarstvennyj Grchiv Social’no-Političeskoj Istorii [Archivio della politica estera della Federazione Russa]. 8 Sui primi anni dell’esistenza del NKID si veda Stanislav Vasil’evič Zarnickij-Anatolij Nikolaevič Sergeev, Čičerin, Molodaja Gvardija, Moskva 1975. 9 Antonello Biagini, In Russia tra guerra e rivoluzione. La missione italiana 1915-1918, Ufficio storico SME, Roma 1983, pp. 18-19. Sulla Missione italiana in Russia si veda anche Francesco Randazzo, Alle origini dello Stato sovietico. Missioni militari e Corpi di spedizione italiani in Russia (1917-1921), Stato Maggiore Esercito, Roma 2008; Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca. La diplomazia italiana in Russia, 1861-1941, Bonacci, Roma 1993, pp. 167-176. 10 Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca… cit., p. 196. 11 Si veda il diario del Console italiano a Mosca in questo periodo: Giovanni Cesare Majoni, A Mosca nell’anno rosso (agosto 1917-settembre 1918), Ispi, Milano-Varese 1936. 12 Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana. Le relazioni italo-sovietiche, 1917-1925, Prefazione di Renzo De Felice, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 71. 13 Sui rapporti inviati da Romei-Longhena a Roma e sulla sua visione della situazione nella Russia postrivoluzionaria, si veda ibid., pp. 68-69. 6
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liani, ex soldati dell’esercito austro-ungarico concentrati a Mosca14, e la loro immunità nei confronti della propaganda bolscevica15. Nonostante questa attività mascheri lo spionaggio militare e la propaganda antibolscevica, neanche ben celata, il governo sovietico si dimostra tollerante e ospitale nei limiti del possibile nei primi mesi successivi alla rivoluzione e durante la guerra civile, benché si trovi sotto l’imminente minaccia dell’intervento degli ex alleati. L’atteggiamento del governo sovietico nei confronti della missione italiana va inserito nel contesto generale e analizzato sullo sfondo della politica sovietica internazionale del periodo. Una scarsa fiducia nel trattato di Brest-Litovsk e quindi nella pacificazione con la Germania, insieme al bisogno di collaborazione militare con gli ex alleati – secondo le affermazioni di Romei-Longhena, Trockij invitò gli specialisti militari a cooperare nella costituzione dell’Armata Rossa nel marzo 1918 – costrinsero i bolscevichi a mantenere un rapporto diplomatico con i rappresentanti francesi, inglesi, italiani ed americani rimasti a Mosca16. Il Console Majoni intravedeva in questa benevolenza dei bolscevichi una politica di doppio gioco «dei massimalisti, desiderosi del riconoscimento de jure degli Alleati, sopratutto per servirsene con o contro le Potenze Centrali»17. Le condizioni del funzionamento della Missione militare italiana erano garantite dal NKID e da Čičerin personalmente. Per qualsiasi inconveniente relativo alle condizioni in cui si trovavano i militari italiani a Mosca, Romei-Longhena si rivolgeva direttamente al Commissario per gli Esteri. I membri della Missione e del Consolato erano esposti a molte delle privazioni comuni a tutta la popolazione russa in quel periodo. La «peggior sofferenza» secondo Majoni era «la coabitazione forzata, ormai imposta a tutti»18, in altre parole la minaccia di dover cedere i locali abitativi appartenenti al Consolato italiano per ordine delle autorità municipali che riorganizzavano gli alloggi. Inoltre si faceva sentire la mancanza di benzina e il bisogno di trovare cavalli per assicurare il collegamento con gli ex prigionieri stanziati in diverse parti della città; nonché la ricerca disperata di vitto e alloggio per i numerosi soldati italiani confluiti nella capitale da diversi campi di concentramento austriaci: «È da diverso tempo che a Mosca arriva un numero importante di soldati italiani fuggiti dalla prigionia austriaca. Questi soldati sono mantenuti dalla Missione in attesa del loro rientro alla patria. Fino ad oggi sono arrivati in questo modo circa 150 soldati italiani»19. L’esito delle richieste italiane da noi analizzate è stato nella maggior parte dei casi favorevole. Le autorità sovietiche – era il NKID che si occupava dei rapporti con la Missione – Sul rimpatrio di prigionieri italiani dell’ex esercito austro-ungarico si veda ibid., pp. 85-97; nonché Quinto Antonelli, I dimenticati della Grande Guerra, Il Margine, Trento 2008, pp. 155-230. 15 Antonello Biagini, In Russia tra guerra e rivoluzione… cit., pp. 131-134. 16 Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria... cit., pp. 63-65. 17 Giovanni Cesare Majoni, A Mosca nell’anno rosso… cit., p. 46. All’inizio del suo servizio presso il consolato italiano di Mosca, Majoni chiamava i bolscevichi massimalisti. Lo stesso termine lo usavano i giornalisti italiani ancora poco informati sulla situazione politica in Russia nei primi giorni della rivoluzione d’Ottobre. Si veda al riguardo Guido Donnini, Il 1917 di Russia nella stampa italiana, Giuffré, Milano 1976, pp. 432 e Italia: il diciassette nei giornali, in 1917. La rivoluzione al potere, a cura di Marc Ferro, Giunti, Milano 1988, pp. 46-48. 18 Giovanni Cesare Majoni, A Mosca nell’anno rosso… cit., p. 49. 19 Lettera del Capo di Stato Maggiore della Missione militare italiana R. Pentimalli al Commissariato del popolo per gli affari esteri, Mosca, 23 maggio 1918, AVP RF, F. 98, Op. 2, P. 1, D. 2, L. 17. 14
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annullavano gli ordini sulla restrizione degli spazi abitativi occupati dagli italiani, garantivano gli alloggi per il collocamento dei prigionieri arrivati a Mosca, rilasciavano i certificati che garantivano l’immunità dei mezzi e delle persone che li possedevano. Tra i documenti archivistici si trova addirittura la tessera rilasciata dal NKID al corriere italiano che partiva da Mosca per Vologda – dove si erano trasferiti precedentemente tutti gli ambasciatori – per esercitare il suo mestiere di corriere diplomatico per i Consolati americano, francese e italiano20. Ricordiamo che questa tolleranza fu dimostrata dal governo sovietico a sole due settimane di distanza dalla VI Conferenza interalleata di Versailles (3-5 giugno 1918), durante la quale viene deciso lo sbarco ad Arcangelo, a Murmansk e l’intervento in Siberia. Il NKID assicurava anche il servizio di comunicazione della Missione cercando di risolvere i problemi dei ritardi nel recapito della corrispondenza e concedendo il diritto di mandare telegrammi cifrati in Italia. Un atteggiamento più che favorevole traspare anche nelle diverse disposizioni del vice del Commissario degli Esteri ad interim, ad esempio nell’ordine di consegnare un grande numero di bottiglie di vino «per le necessità della Missione militare italiana»21. L’atteggiamento del governo sovietico tuttavia cambiò dopo lo sbarco del contingente inglese al porto di Murmansk nel giugno 1918, che aumentava il numero dei militari francesi e inglesi già presenti sul territorio russo dal marzo 1918. Inoltre, dopo la pubblicazione sul giornale “Naše slovo” (“Parola nostra”) dell’intervista rilasciata da alcuni diplomatici stranieri presenti a Mosca nel giugno 1918, Čičerin inviò a Majoni una lettera in cui gli chiedeva di spiegare le ragioni dell’eventuale intervento militare dell’Italia e dei suoi alleati in Russia cui accennava l’intervista. Alla fine della lettera, Čičerin espresse in russo la forte speranza che il rappresentante dell’Italia respingerà qualsiasi suo consenso al piano dell’intervento militare sul territorio della repubblica russa. In nome dei rapporti di amicizia tra i popoli della Russia e dell’Italia, sulla solidità dei quali conta la Russia, il Commissario del popolo per gli affari esteri aspetta con fiducia che il rappresentante dell’Italia dichiarerà il dissenso del proprio governo dai piani che provocano la violazione di questi rapporti di amicizia [...]22.
Non abbiamo la risposta di Majoni alla lettera di Čičerin, ma sappiamo che il Console italiano subito dopo averla ricevuta si esprime contro il disarmo del corpo di spedizione ceco, anzi dichiara «di assumere la protezione ufficiosa della colonia czeka di Mosca»23. Questa posizione del Consolato italiano insieme alla minaccia dell’intervento degli Alleati, provocò il peggioramento della situazione in cui si trovavano i diplomatici italiani e la Missione militare: «Si accentua in ogni modo l’ostilità contro l’Intesa: impossibile telegrafare ai nostri Governi, vietata la pubblicazione di qualunque smentita o comunicato. Ci è stato per di più inflitto uno speciale castigo, come ai bimbi cattivi: la sospensione del vino, che finora il monopolio statale ci aveva concesso»24. Infatti, sulla richiesta di 60 bottiglie di
20 Tessera rilasciata dal Commissario per gli affari esteri ad Achille Burlazzi, 21 giugno 1918, ibid., F. 98, Op. 2, P. 1, D. 3, L. 11. 21 Lettera del vice del Commissario degli esteri ad interim alla Direzione delle imposte sui consumi della provincia di Mosca, 29 aprile 1918, ibid., F. 98, Op. 2, P. 1, D. 3, L. 1. 22 Lettera di Čičerin a Majoni, 29 giugno 1918, ibid., F. 98, Op. 2, P. 1, D. 1, L. 3. 23 Giovanni Cesare Majoni, A Mosca nell’anno rosso… cit., p. 53. 24 Ibid., p. 56.
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vino inviata dal Console italiano alla Direzione delle imposte sui consumi della provincia di Mosca, c’era scritto a matita: «Il vino non può essere consegnato secondo l’ordine del vice del commissario del popolo»25. Infine, dopo numerose richieste del Console e le sue istanze presso il NKID, la Missione militare italiana partì da Mosca per l’Italia il 26 agosto 1918 con 53 ex prigionieri italiani, subendo dalle autorità sovietiche «ogni sorta di angheria». Il Console stesso insieme ai 274 prigionieri parte da Mosca l’11 settembre 1918. Secondo le richieste indirizzate personalmente a Čičerin, il treno doveva essere composto da «trois wagons de première classe, de 14 de troisième pour les soldats, d’un wagon pour les bagages, un pour la cuisine et deux “plate-formes” pour le transport des deux automobiles appartenant à la mission»26. Di fatto, invece, come scrive Majoni, «ad eccezione del mio sgangherato vagone di seconda classe, il resto è composto di carri merci, attrezzati con tavole... a vagone-letto e con un po’ di paglia, riscaldato con stufe portatili»27. Si potrebbe quindi ragionevolmente affermare che subito dopo la rivoluzione d’Ottobre la diplomazia sovietica non dimostrasse avversità nei confronti dei rappresentanti d’uno di quei governi “borghesi capitalistici” che secondo il programma bolscevico dovevano essere rovesciati e spazzati via per mezzo delle rivoluzioni socialiste. Anzi, ai diplomatici e militari italiani era riservato un trattamento privilegiato, probabilmente nella speranza d’evitare la collusione diretta con le potenze europee, che minacciava di capovolgere il neonato regime sovietico subito dopo la sua instaurazione. Si potrebbe ipotizzare che la politica estera sovietica abbia mosso i suoi primi passi spinta dalle necessità della sopravvivenza, che consistevano allora nell’evitare lo scontro diretto e anzi nel conservare rapporti amichevoli. Il mantenimento dei rapporti con le rappresentanze ufficiali rispettando le regole del bon ton diplomatico rivela le intenzioni dei bolscevichi di fare politica estera privilegiando, almeno subito dopo la rivoluzione, i canoni internazionali della diplomazia classica. Questo atteggiamento sarebbe stato messo a dura prova sia dalle scelte fatte dalle potenze dell’Intesa, sia dalla carica rivoluzionaria intrinseca al bolscevismo stesso. Prima missione sovietica in Italia di Mikhail Vodovozov Dopo la partenza dei rappresentanti ufficiali italiani dalla Russia nell’autunno del 1918, i rapporti tra i due governi furono interrotti a causa dell’intervento italiano in Russia insieme alle potenze dell’Intesa. Nonostante i ripetuti richiami di Čičerin al fine di cessare l’intervento militare e ristabilire i rapporti diplomatici tra i due paesi28, le autorità italiane si mostrarono esitanti. Queste esitazioni perdurarono nonostante la sempre più intensa pressione socialista in parlamento, l’allargamento degli scioperi a sostegno della rivoluzio-
25 Lettera di Majoni alla Direzione delle imposte sui consumi della provincia di Mosca, 15 luglio 1918, AVP RF, F. 98, Op. 2, P. 1, D. 3, L. 2. 26 Lettera di Majoni a Čičerin, 30 luglio 1918, ibid., F. 98, Op. 2, P. 1, D. 1, L. 16. 27 Giovanni Cesare Majoni, A Mosca nell’anno rosso… cit., p. 74. 28 Tra le carte “italiane” conservate presso l’AVP RF ci sono almeno tre radiogrammi inviati nel periodo dell’intervento da Čičerin al Ministero degli Esteri italiano a Roma: 17 gennaio 1919, 15 febbraio 1919, 31 dicembre 1919.
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ne russa e la necessità economica, avvertita con sempre maggiore urgenza, d’uno sbocco sui mercati russi. Fu necessario attendere ancora quasi due anni prima che il governo italiano intraprendesse il lungo processo del riconoscimento della Russia sovietica e l’avvio dei rapporti con il nuovo Stato socialista. Il primo passo in questo senso fu costituito dalle trattative tra il rappresentante sovietico Maksim Maksimovič Litvinov – in veste di capo della delegazione sovietica del Cetrosojuz29 a Copenaghen – e i rappresentanti delle cooperative italiane, avviate nel marzo 192030. Gli accordi raggiunti con il trattato firmato da Litvinov e dall’addetto navale italiano Gravina il 27 aprile 1920 a Stoccolma, prevedevano lo scambio di delegati in garanzia dell’attuazione dell’accordo31. Dovette passare un altro anno prima che il rappresentante sovietico Vorovskij arrivasse in Italia il 14 marzo 192132. Tuttavia non fu Vorovskij il primo rappresentante ufficiale sovietico a promuovere sul suolo italiano gli interessi del governo bolscevico. Probabilmente in veste ufficiosa agiva già Mikhail Kh. Vodovozov, la cui missione non ha goduto della dovuta attenzione da parte degli storici sovietici33, i quali pur definendolo «rappresentante ufficiale sovietico»34 non ne hanno mai fatto il nome. D’altra parte gli studiosi italiani, basando le loro ricerche solo sui documenti prodotti dalla polizia italiana, non hanno avuto a disposizione materiale utile ad approfondire il carattere della sua missione in Italia nel periodo 1919-192135. Vodovozov giunge a Milano nel 1914, da dove è allontanato durante la guerra, e si trasferisce a Roma. È sospetto alla polizia per le sue amicizie tra i socialisti italiani e la frequentazione della redazione dell’“Avanti!”36. In base alla sua attività, alla corrispondenza e ai documenti ufficiali si potrebbe presupporre che dopo la rivoluzione d’Ottobre Vodovozov diventi un rappresentante ufficioso del governo sovietico in Italia. Purtroppo fino ad oggi non è stato possibile trovare negli archivi russi un documento che attribuisca un inca29 Creato nel 1898, Cetrosojuz fungeva da organo dirigente delle cooperative di consumo russe prima della rivoluzione d’Ottobre. Dopo la rivoluzione diventò un’organizzazione parastatale, l’unica ad avere il diritto d’effettuare il commercio estero, essendo il rappresentante ufficiale del Commissariato per il commercio con l’estero. 30 I.D. Ostoj-Ovsjanyj, K istorii ustanovlenija diplomatičeskich otnošenij meždu SSSR i Italiej [Contributo alla storia dell’avvio delle relazioni diplomatiche tra l’URSS e l’Italia], in Leninskaja diplomatija mira i sotrudničestva [La diplomazia leninista di cooperazione e pace], a cura di Viktor Ivanovich Popov, [u.a.], Moskva 1965, p. 69. 31 Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria... cit., p. 170. 32 Sulla missione di Vorovskij si veda V.A. Burjakov, Missija V.V. Vorovskogo v Italii v 1921 godu [La missione di Vorovskij in Italia nel 1921], “Voprosy istorii”, n. 2 1971, pp. 131-142; Vjačeslav Kolomiez, Il bel paese visto da lontano...: immagini politiche dell’Italia in Russia da fine Ottocento ai giorni nostri, Lacaita, Manduria-Bari-Roma 2007, pp. 90-104. 33 Cfr. Irina A. Chormač, Otnošenija meždu sovetskim gosudarstvom i Italiej 1917-1924 [Le relazioni tra lo Stato sovietico e l’Italia 1917-1924], Institut rossijskoj istorii RAN, Moskva 1993; nonché I.D. Ostoj-Ovsjanyj, op. cit. e V.A. Burjakov, op. cit. 34 I.D. Ostoj-Ovsjanyj, op. cit. p. 72. 35 Sull’attività di Vodovozov in Italia si veda Antonello Venturi, Rivoluzionari russi in Italia (1917-1921), Feltrinelli, Milano 1979, pp. 83-84, 128; Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie: i russi nei documenti del Ministero degli esteri italiano, Europa Orientalis, Salerno 2013, p. 291; Valentine Lomellini, La grande paura rossa. L’Italia delle spie bolsceviche (1917-1922), Franco Angeli, Milano 2015. 36 Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie… cit., p. 291.
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rico preciso a Vodovozov in Italia. Grazie alle diverse indicazioni, testimonianze e allusioni si può comunque ricostruire passo per passo la sua attività in Italia subito dopo il cambio del regime politico in Russia. Sappiamo che, a cominciare nel 1919, Vodovozov è già attivo in Italia come «instancabile difensore degli interessi dei sudditi russi residenti in Italia» e «gode di una larga popolarità nei circoli politici italiani»37. Questa fama probabilmente era dovuta al fatto che Vodovozov era entrato in stretto contatto coi prigionieri russi inviati al campo di concentramento dell’Asinara alla fine del 191838 e si era impegnato a migliorare le loro condizioni di vita, convincendoli a scegliere il rimpatrio in Russia per combattere dalla parte dei bolscevichi: La difficoltà maggiore consisteva nell’instaurare un contatto con i prigionieri e nel sospendere il loro reclutamento39. Sono riuscito a raggiungere entrambi gli obiettivi con il viaggio all’isola dell’Asinara che mi è stato concesso con la scorta di due compagni deputati. In seguito a questa visita il contatto tra i prigionieri e la ex Missione militare è stato sospeso. Dopo una adeguata ma breve propaganda, tra i soldati si è stabilita una unione come tra compagni. […] Grazie alle sollecitazioni insistenti presso il governo è stato ottenuto un notevole miglioramento delle loro condizioni, sono state cancellate tutte le tracce e conseguenze del regime zarista militare stabilito dagli ufficiali russi reazionari40.
Nel marzo 1920 Vodovozov accompagnava a Copenaghen la delegazione socialista italiana incaricata di trattare con Litvinov e Krasin, ufficialmente come interprete del deputato socialista Nicola Bombacci41, ma in realtà come delegato per gli accordi sui prigionieri di guerra42. Ancora prima di lasciare l’Italia, Vodovozov ebbe due incontri con il Segretario Generale del Ministero degli Esteri italiano, Salvatore Contarini, e col primo ministro Francesco Saverio Nitti. Secondo le parole di Vodovozov furono proprio loro ad organizzare i colloqui affinché passassero per suo tramite le comunicazioni alla delegazione russa a Copenaghen sulla disponibilità dell’Italia a ristabilire i rapporti politici ed economici con la Russia. Alla fine del suo resoconto su questi incontri, Vodovozov si diceva fermamente convinto della necessità di «continuare [a fare pressioni sull’Italia] senza sopravvalutare gli eventuali risultati ma nello stesso tempo senza esagerare con il pessimismo»43. Secondo la ricostruzione di Antonello Venturi, basata sugli articoli dell’“Avanti!” – al quale Vodovo-
37 Lettera di un ex ufficiale della Missione militare russa a Roma, S. Tolmačevskij a Vodovozov, Roma 17 dicembre 1919, AVP RF, F. 98, Op. 3, P. 1, D. 3, L. 1. 38 Agnese Accattoli, Russkie voennoplennye v italianskich koncentracionnych lagerjach (19181920) [I prigionieri russi nei campi di concentramento italiani (1918-1920), in Pervaja mirovaja vojna - prolog XX veka [Prima guerra mondiale - prologo del ’900], a cura di Е. Ju. Sergeev, Parte 1, IVI RAN, Moskva 2014, pp 269-272. 39 Si tratta dell’irreggimentazione di prigionieri russi da parte dei rappresentanti della Missione militare russa zarista presente in Italia dall’estate 1915. 40 Rapporto di Vodovozov a Čičerin, Copenaghen, 9 aprile 1920, AVP RF, F. 04, Op. 2, P. 152, D. 2, L. 6-7. 41 In seguito Bombacci si avvicinò al fascismo e fu un esponente della Repubblica Sociale Italiana. Fu fucilato dai partigiani nel 1945 assieme agli altri gerarchi fascisti. 42 Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri (ACS, PCM), Guerra Europea, b. 206, f. 19.29.9. Russia, citato in Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie… cit., p. 291. 43 Rapporto di Vodovozov a Čičerin, 9 aprile 1920, AVP RF, F. 04, Op. 2, P. 152, D. 2, L. 6-7
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zov collabora a cominciare dall’estate 1917 – il 27 aprile 1920 egli fu designato da Litvinov quale suo rappresentante in Italia per l’attuazione d’una convenzione sullo scambio di prigionieri di guerra. Pochi giorni dopo fu nominato corrispondente della delegazione russa per l’Italia44. Infatti, tra i compiti affidati a Vodovozov dal capo della delegazione russa a Copenaghen, Krasin, c’era quello di «scoprire al suo ritorno in Italia lo stato del mercato italiano, di inviare alla delegazione il resoconto e il materiale statistico, inoltre di stabilire un contatto permanente con la delegazione [russa a Copenaghen]»45. Dopo il suo ritorno in Italia, ormai ufficialmente incaricato dalle alte autorità sovietiche, Vodovozov agisce come un vero e proprio rappresentante politico sovietico: con una lettera indirizzata personalmente a Nitti il 29 maggio 1920, tenta di convincerlo a «entrare senza ulteriore ritardo in trattative dirette col Commissario per gli Affari esteri per una rapida elaborazione di un accordo»46. A parte il ruolo d’intermediario politico tra i due governi e d’agente economico tra le cooperative italiane e il Cetrosojuiz, Vodovozov aveva l’ordine da Mosca di «acquisire le scorte di equipaggiamento militare vendute dall’esercito britannico all’est. Egli acquisì anche un grande numero di cappotti, scarpe, selle e munizioni comprati per l’esercito Rosso»47. A quanto pare il compito di Vodovozov consisteva anche nell’inviare informazioni sugli umori politici degli operai italiani e sul ruolo del PSI nell’organizzazione delle masse popolari. Riferendosi all’opinione pubblica sulla questione del riconoscimento della Russia sovietica, Vodovozov descriveva così la situazione in Italia: Dell’atteggiamento degli operai italiani non parliamo neanche. Voi senza dubbio lo conoscete bene: ogni appello ad esso in questo senso [cioè nel senso del riconoscimento della Russia sovietica] riceve la più entusiastica eco. Questo indubbiamente esercita una dovuta pressione sui circoli governativi ma purtroppo, nelle condizioni dell’attuale regime politico in Italia, la massa non può concretizzare questa sua azione che tramite il suo gruppo parlamentare [socialista]. Tuttavia questo è formato da opportunisti che nella loro grande maggioranza sono inclini a seguire le argomentazioni di carattere borghese-internazionale e ad accettare le realtà presentate dal governo italiano. Perciò sul gruppo parlamentare si deve esercitare sempre una forte pressione48.
In questo passaggio si delinea una chiara critica del rappresentante sovietico nei confronti dei dirigenti del PSI, che secondo lui non rispondono alle aspettative della classe operaia italiana e non sanno cogliere il momento per organizzare meglio le ampie masse popolari a sostegno della Russia bolscevica e del suo riconoscimento politico. Questi due aspetti dell’attività di Vodovozov negli anni 1919-1920 – diplomatica e “lobbista” nel seno del PSI – sembrano rientrare nella più ampia strategia di Lenin di far uscire la Russia
Antonello Venturi, Rivoluzionari russi... cit. p. 128. Verbale n. 1 della seduta della Delegazione con i rappresentanti delle Cooperative italiane compagno Bombacci e Vodovozov, 8 aprile 1920, AVP RF, F. 98, Op. 4, P. 2, D. 14a, L. 15. 46 Lettera personale contenuta in ACS, Carte Nitti, fasc. Copie doppie, varie, citato in Giorgio Petracchi, La Russia rivoluzionaria... cit., p. 175. 47 Telegramma da Riga a Čičerin, 10 ottobre 1920, AVP RF, F. 98, Op. 4, P. 2, D. 11, L. 39. 48 Rapporto di Vodovozov a Čičerin, Copenaghen 9 aprile 1920, ibid., F. 04, Op. 2, P. 152, D. 2, L. 6-7. 44 45
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sovietica dall’isolamento diplomatico per farle riprendere fiato prima dell’assalto decisivo contro la borghesia occidentale. Infatti nella sua lettera aperta indirizzata a Giacinto Menotti Serrati il 28 ottobre 1919 e pubblicata dall’“Avanti!”, Lenin mette in guardia i socialisti italiani da un’«insurrezione prematura»: «In rapporto con la situazione internazionale dell’Italia, compiti molto difficili stanno davanti al proletariato italiano. Può darsi che l’Inghilterra e la Francia, con l’appoggio della borghesia italiana, tenteranno di spingere il proletariato verso un’insurrezione prematura per schiacciarlo più facilmente. Ma non riusciranno nei loro piani»49. Invece nel luglio 1920 Lenin cambia parere sulla rivoluzione in Italia e scrive a Stalin che «la situazione nel Komintern è ottima. Zinov’ev, Bucharin ed anche io crediamo che bisognerebbe incoraggiare la rivoluzione immediata in Italia»50. L’ottimismo di Lenin era sostenuto dalla controffensiva dell’esercito rosso in Polonia, dal rovesciamento di forze nella guerra civile a favore dei bolscevichi, e dall’interruzione degli aiuti agli eserciti bianchi da parte degli ex alleati. Il nuovo “ponte rosso” tra Mosca e Berlino rappresentato dalla Polonia sovietizzata apriva una nuova prospettiva sulla situazione rivoluzionaria in Italia. Le vedute realistiche e flessibili di Lenin sulla impossibile rivoluzione in Italia si trasformarono nella nuova strategia dell’Internazionale, che prevedeva l’aiuto dei bolscevichi ai comunisti italiani nella loro preparazione della rivoluzione socialista51. Tornando al protagonista di questo paragrafo, troviamo Vodovozov che in vista dell’imminente arrivo di Vorovskij e della Delegazione commerciale sovietica a Roma nel gennaio 1921, riceve da Krasin tramite il NKID le istruzioni in cinque punti inerenti la sua attività di rappresentante sovietico nelle trattative con le istituzioni italiane. Al primo punto Krasin ordinava di posticipare qualsiasi «operazione importante al momento dell’arrivo di Vorovskij e della delegazione»52. Con l’arrivo della delegazione sovietica ufficiale capeggiata da Vorovskij, secondo le parole di Rondani, deputato socialista, rappresentante delle cooperative italiane a Mosca, Vodovozov «sarebbe ora completamente esautorato, perché non godrebbe la fiducia della delegazione russa»53. Purtroppo, non è ancora possibile confermare o smentire queste informazioni in base ai documenti conservati negli archivi russi. L’unico indizio di questo atteggiamento del NKID verso Vodovozov lo troviamo in una lettera a Vorovskij inviatagli da uno dei dirigenti del NKID – di cui non si è potuto appurare l’identità – il quale, quasi scusandosi, comunica al capo della Delegazione commerciale sovietica che «siamo stati costretti a cedere alle richieste di Krasin di annullare l’invio di Vodovozov dall’Italia in Russia». Dalla lettera si evince che Vorovskij chiedeva con insi-
“Avanti!”, n. 332, 5 dicembre 1919. Tra le diverse traduzioni in italiano, questa ci pare la più corretta rispetto all’originale russo pubblicato in Vladimir Il’ic Lenin, Polnoe sobranie sočinenij [Raccolta completa delle opere]. Vol. 31, Moskva Gosudarstvennoe Izdat. Političeskoj Literatury, Moskva 1962, pp. 257-258. 50 Lettera di Lenin a Stalin, 23 luglio 1920, RGASPI, F. 2, Op. 2, D. 343, L. 1, citato in Jakov S. Drabkin-Leonid G. Babičenko-Kirill Kirillovič Širinja, Komintern i ideja mirovoj revoljucii: dokumenty [Il Komintern e l’idea della rivoluzione mondiale. Documenti], Nauka, Moskva 1998, pp. 118-186. 51 Giorgio Petracchi, Da San Pietroburgo a Mosca… cit., pp. 279 sg. 52 Lettera di Krasin al NKID, 31 gennaio 1921, AVP RF, F. 98, Op. 4, P. 2, D. 4, L. 4. 53 Citato in Antonello Venturi, Rivoluzionari russi... cit., p. 128. 49
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stenza l’allontanamento di Vodovozov da Roma perché «ha eseguito male l’incarico del Commissariato per il commercio estero»54. Pertanto la missione di Vodovozov presentava numerosi aspetti: egli era responsabile della propaganda e dell’arruolamento nell’esercito Rosso degli ex prigionieri russi in Italia, degli scambi commerciali tra le cooperative italiane e il Cetrosojuz sovietico, intermediario nelle trattative politiche tra il governo di Nitti e quello sovietico; inoltre agiva come fornitore segreto di materiali bellici per l’esercito rosso e, infine, secondo la polizia italiana era un agente segreto sovietico che svolgeva in Italia attività sovversiva. Fra tutte queste funzioni ne emerge un’altra, sicuramente non meno importante: Vodovozov era per il governo sovietico una fonte importante di informazioni sulla situazione italiana. Nei suoi rapporti forniva descrizioni dettagliate della vita politica ed economica italiana, che costituivano per i sovietici una delle poche fonti sul clima politico-sociale italiano all’indomani della Grande Guerra e durante l’intervento militare contro la Russia sovietica. Inoltre, egli doveva agire in base alle istruzioni ricevute da Mosca per influenzare in qualche modo la situazione interna italiana che doveva essere plasmata in conformità con gli obiettivi a breve termine del governo sovietico. Con la missione di Vodovozov ci troviamo di fronte a un paradosso: un agitatore sorvegliato dalla polizia italiana che entra in contatto diretto col primo ministro per convincerlo ad allacciare rapporti con il governo sovietico. Responsabile davanti a Čičerin, quindi rappresentante ufficioso della diplomazia sovietica, Vodovozov interpreta già quel ruolo di Giano bifronte che diventerà tipico dei diplomatici sovietici in Italia: le forme della diplomazia internazionale non devono comportare la rinuncia all’idealismo rivoluzionario, la fede che funge da tessera d’appartenenza al mondo comunista. Il personaggio di Vodovozov è già un’efficace incarnazione della politica estera bolscevica che, a seconda dell’opportunità politica, utilizza l’uno o l’altro degli strumenti a sua disposizione. NKID-Komintern: un governo, due strumenti Alla questione della duplice politica sovietica sono dedicate numerose opere storiografiche55. In questa sede vorremmo focalizzare la nostra attenzione sulla collaborazione fra il Komintern e il NKID come strumenti della politica estera dello stesso governo. Le due strutture fondamentali dell’attività internazionale dei bolscevichi incarnavano due obiettivi correlati, la lotta per la vittoria del comunismo in tutto il pianeta e la sopravvivenza della Russia sovietica56. Con il passare del tempo maturò una sorta di rivalità tra le due istituzioni dovuta innanzi tutto al fatto di operare sullo stesso terreno, ovvero la politica estera sovietica. Nonostante una serie di deliberazioni in merito al funzionamento dei due organi, la confusione dei loro ruoli nell’attività internazionale e in politica estera durò a lungo.
Lettera dal NKID a Vorovskij, 16 maggio 1921, AVP RF, F. 098, Op. 4, P. 101, D. 12, L. 8. Vedi infra, nota 3. 56 Alexander Vatlin, L’attività internazionale dell’URSS… cit., p. 15. 54 55
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La prima conferenza costitutiva del Komintern57 è organizzata sotto la direzione e la supervisione del NKID e personalmente di Čičerin. Il NKID riceve tutti i dati dei rappresentanti che i partiti nazionali mandano a Mosca. Il Commissario per gli Esteri Čičerin è nominato capo della commissione di verifica dei poteri della conferenza58. Fin dal 1919 il Komintern assume la funzione di organo di propaganda del NKID, svolta dalla Sezione della propaganda all’estero dell’IKKI59, che nel 1920 viene rinominata Dipartimento per l’agitazione e la propaganda. Čičerin, il quale prende parte attiva alla preparazione del primo congresso, crede che il Komintern funzionerà sotto il controllo del suo Commissariato. Lenin60 la pensava diversamente: riteneva che il momento della diplomatničanije (fare diplomazia) fosse ormai passato con la rottura del Trattato di Brest-Litovsk ed era tornato a ragionare con le categorie dell’offensiva rivoluzionaria61. Così Lenin proponeva la candidatura di Zinov’ev alla carica di Presidente del Comitato esecutivo della Terza Internazionale, mentre Angelica Balabanova e Vorovskij – entrambi strettamente legati alla politica sovietica in Italia, la prima nel passato, il secondo nell’immediato futuro – ne diventavano rispettivamente Segretario e collaboratore. Inoltre Vorovskij era nominato capo della Sezione di propaganda della III Internazionale, mentre Litvinov assumeva l’incarico di rappresentante del Komintern presso il NKID62. Entrambi, com’è noto, lavoravano al servizio del NKID. Che fra le due istituzioni esistesse un’infrastruttura comune è confermato anche dalla decisione presa dall’IKKI, a meno d’un mese dall’istituzione del Komintern, di mettere a disposizione della Segreteria della Terza Internazionale «la radio […] e i corrieri che il NKID utilizza all’estero»63. Si direbbe che alla fine del 1920 il NKID non tenti neanche di nascondere i suoi legami con l’IKKI. In vista del Congresso del PSI a Livorno, tenutosi dal 15 al 21 gennaio 1921, il capo della diplomazia sovietica fa da intermediario per sollecitare il Ministero degli affari esteri italiano a rilasciare il visto d’ingresso in Italia ai più grandi esponenti del movimento comunista internazionale, Zinov’ev e Bucharin. Anzi, Čičerin non nasconde neanche il vero motivo del viaggio dei due funzionari sovietici in Italia «pour prendre part au congrès du parti Socialiste à Florence [sic, Livorno]. Considérant que les représentants de la aile droite des socialistes indépendants allemands prendront part à ce même congrès la justice la plus élémentaire exige que l’accès ne en soit pas fermé aux représentants du comité
57 Sull’organizzazione e la struttura del Komintern si veda Kermit McKenzie, Сomintern e rivoluzione mondiale, 1928-1943, Sansoni, Firenze 1969, pp. 34-46. 58 Alexander Vatlin, Komintern: idei, rešenija, sud’by [Komintern: idee, decisioni, destini], Rosspen, Moskva 2009, p. 55. 59 IKKI: Ispolnitel’nyj komitet Komunističeskogo internacionala [Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista]. 60 Sul ruolo di Lenin nel Komintern si veda ad esempio Fridrikh Igorevich Firsov, Lenin, Komintern i stanovlenie kommunističeskich partij [Lenin, il Komintern e l’istituzione dei partiti comunisti], Politidzat, Moskva 1985. 61 Alexander Vatlin, Komintern… cit., p. 67. Dopo la vittoria dei paesi dell’Intesa, il 13 novembre 1918 il VCIK annullò il Trattato di Brest-Litovsk. 62 Verbale n. 1 della seduta dell’IKKI (Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista), 26 marzo 1919, RGASPI, F. 495, Op. 1, D. 1, L. 1-2, citato in Jakov S. Drabkin-Leonid G. Babičenko-Kirill Kirillovič Širinja, Komintern i ideja mirovoj revoljucii… cit., pp. 118-119. 63 Ibid., p. 119.
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de la Troisième Internationale»64. La richiesta di Čičerin viene respinta dal momento che «le Gouvernement Italien ne peut pas autoriser les citoyens Zinovieff et Boukharin de se rendre in Italie vue leur attitudes précédentes dans des cas analogues»65. Del resto nei primi mesi del suo soggiorno a Roma in veste di capo della delegazione sovietica ufficiale, Vorovskij continua ad agire in stretta collaborazione con il Komintern, comunicando al Segretariato le informazioni sul partito socialista, prestando ai comunisti italiani la radio perché a Mosca si potesse «suivre le développement de la crise du Parti Socialiste, et que nous puissons intervenir le cas échéant en toute connaissance de cause»66. Inoltre Vorovskij, come Vodovozov prima di lui – forse in misura minore – si occupa delle forniture per l’esercito sovietico, come si evince dal suo telegramma segreto cifrato indirizzato a Čičerin: «[...] si potrebbero acquistare ancora 2 aeroplani al prezzo di 250.000 lire. La risposta di Ležava [Vice Commissario del popolo per il Commercio estero dal 1920 al 1922] è stata balorda. I velivoli possono interessare il Registrupr67, il Komintern, oppure Trockij»68. A giudicare dalle istituzioni eventualmente interessate all’acquisto, si può scartare l’ipotesi che gli aeroplani fossero destinati a un uso civile; inoltre vediamo il rappresentante diplomatico sovietico farsi intermediario nelle trattative tra i venditori italiani e il Komintern. Tra i compiti di Vorovskij rientra anche il mantenimento dei rapporti con il PCdI per il quale egli deve essere una sorta di “guida spirituale”. Questa è l’idea di Lenin, che istruisce il rappresentante sovietico in questi termini: «Lei aiuta i comunisti? Bisogna. Assolutamente bisogna. In estrema clandestinità. Non hanno esperienza. Fanno delle stupidaggini. […] Bisogna insegnargli, insegnargli ed insegnargli come hanno lavorato i bolscevichi – insegnare attraverso gli articoli, attraverso la stampa. Bisogna trovare una persona ed agire tramite essa»69. Nella risposta alla lettera di Lenin, Vorovskij dà una descrizione dettagliata delle condizioni politico-economiche in Italia alla vigilia dell’avvento del fascismo, con particolare attenzione ai rapporti fra il PSI e il PCdI. Il capo della delegazione sovietica si rivela un ottimo conoscitore delle lotte frazionistiche nella Sinistra italiana, anzi ammette d’essere parte attiva nell’evolversi della situazione: «È inutile contare sulla scissione [tra i riformisti e i massimalisti]; in caso di scissione è ugualmente inutile contare sull’unione immediata degli scissionisti con i comunisti. Bisogna condurre una politica mirata alla scissione dei socialisti e contenere lo sciovinismo di partito dei comunisti. Noi qui lo facciamo in automatico. È auspicabile che anche il Komintern si attenga fermamente a questa linea». Radiotelegramma di Čičerin al Ministero degli esteri a Roma, 17 dicembre 1920, AVP RF, F. 98, Op. 4, P. 2, D. 1, L. 30. 65 Telegramma da Roma, 8 gennaio 1921, RGASPI, F. 513, Op. 1, P. 36, L. 8. 66 Lettera del Segretariato del Komintern di Mosca a Vorovskij, 6 settembre 1921, ivi. 67 Registrupr del RKKA: Registracionnoe upravlenie Raboče-Krest’janskoj Krasnoj Armii [Direzione di registrazione dell’Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini], organo centrale dell’intelligence militare. 68 Telegramma di Vorovskij a Čičerin, 13 maggio 1921, RGASPI, F. 513, Op. 1, P. 36, L. 5. Trockij nel periodo dal 1917 al 1923 occupava l’incarico di Commissario degli Affari Militari e Navali. 69 Lettera di Lenin a Vorovskij, 8 settembre 1921, ibid., F. 2., Op. 1, D. 24693, citato in Grant Mkrtyčevič Adibekov-Z.G. Adibekova, Politbjuro CK Rkp(b)-Vkp(b) i Komintern 1919-1943. Dokumenty [Il Politbjuro del Cc della Rkp(b)-Vkp(b) e il Komintern 1919-1943. Documenti], Rosspen, Moskva 2004, p. 96. 64
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Le conclusioni di Vorovskij si basavano su una serie di considerazioni generali riguardo alla situazione italiana: 1. Il calo dell’ondata rivoluzionaria che accompagna una generale crisi economica che interessa tutte le industrie in Italia e che cresce ogni giorno minacciando gravemente la classe operaia 2. La reazione politica che avanza spontaneamente con questa crisi e che si manifesta come la concentrazione delle forze borghesi contro il movimento proletario e 3. L’impressione ancora troppo viva della recente scissione, che impedisce anche solo di pensare ad un qualsiasi avvicinamento tra i partiti divisi70. L’ingerenza di Vorovskij nella politica interna italiana, tramite l’appoggio all’ala estrema del PSI e il diretto intervento sul PCdI, fu sostenuta dai finanziamenti sovietici inviati ai comunisti italiani tramite i canali diplomatici. Un legame tra il Komintern, i comunisti italiani e Vorovskij – quindi il NKID – lo troviamo nel telegramma segreto di Vorovskij inviato a Čičerin, in cui quest’ultimo viene informato della consegna d’una «somma» a Umberto Terracini, e cioè che il «controllo [della situazione] è completamente nelle nostre mani». Vorovskij sollecita l’invio del resto della somma di denaro inviata a Terracini71. Infine, lo stretto affiancamento del polpred (rappresentante plenipotenziario) sovietico a Roma da parte d’uno dei più noti funzionari del Komintern, Jan Straujan72, testimonia il forte legame fra le due istituzioni presenti in Italia. Attività informativa degli agenti del Komintern in Italia Ma l’azione principale del governo sovietico sul partito socialista prima e comunista poi, è esercitata dagli agenti segreti del Komintern che si trovavano in Italia ancora prima della rivoluzione d’Ottobre73. È il caso innanzi tutto di Nikolaj M. Ljubarskij – pseudonimo Carlo Niccolini – che collaborava, come anche Vodovozov, con l’“Avanti!”, aveva fondato in Italia il giornale della Terza Internazionale “Comunismo” ed era stato intimo amico di Serrati74. Nelle lotte interne al PSI s’inseriscono altri tre agenti del Komintern inviati in Italia: Vladimir A. Dёgot’, Sofia I. Sokolovskaja e Daniil S. Ridel’. Insieme alla Sokolovskaja, Dёgot’ arrivò in Italia nel gennaio 192075 e invece di sostenere Serrati come Ljubarskij, finanziò il settimanale del gruppo gramsciano “Ordine Lettera di Vorovskij a Lenin, Roma, 25 settembre 1921, RGASPI, F. 2, Op. 1, D. 21029, L. 1-5 citato in Komintern protiv fashizma: dokumenty [Il Komintern contro il fascismo: documenti], Nauka, Moskva 1999, pp. 54-55. 71 Telegramma di Vorovskij a Čičerin, 23 dicembre 1921, RGASPI, F. 513., Op.1, D. 36, L. 17. 72 Straujan fu nominato primo Segretario presso la Missione di Vorovskij in Italia. 73 Si veda, sugli agenti del Komintern, V. Leont’ev, Gruppa “russkich bol’ševikov” v Italii i emissary Kominterna (1917-1922) [Il Gruppo di “bolsceviki russi” in Italia e gli emissari del Comintern], in Russkie v Italii: kul’turnoe nasledie emigracii [I russi in Italia: l’eredità culturale dell’emigrazione], a cura di Michail Grigor’evič Talalaj, Russkij put’, Moskva 2006, pp. 57-58. 74 Antonello Venturi, Rivoluzionari russi... cit., pp. 196-211. 75 Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano. Vol. 1. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1967, p. 67. Sull’attività di Dёgot’ in Italia si veda V. Leontiev, Gramsci. La sposa mandata da Lenin, “Corriere della sera”, 24 febbraio 1999; Serge Noiret, Nitti e Bombacci. Aspetti di un dia70
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Nuovo”76. Lasciò l’Italia nel 1921 mettendosi d’accordo con Vorovskij al fine di mantenere per suo tramite i contatti con l’IKKI, allo scopo di far pervenire le informazioni sul paese77. Neanche Dёgot’, come Vodovozov, aveva grande considerazione del PSI negli eventi del “biennio rosso”. Secondo l’agente del Komintern «in quel periodo il partito socialista non faceva altro che cercare di spegnere il fuoco della rivoluzione», perciò le sue azioni in seno al PSI e poi al PCdI puntavano alla «presa del potere da parte della classe operaia attraverso la lotta di classe rivoluzionaria»78. L’attività di Dёgot’ in Italia è diventata in sede storiografica oggetto di diverse interpretazioni. Così, per Antonello Venturi la sua funzione in Italia era assolutamente passiva79. Lo storico russo Leontiev, che ha avuto a disposizione documenti d’un archivio privato moscovita non ben specificato, interpreta l’attività di Dёgot’ in un’ottica sovversiva, diretta cioè, secondo le idee dei teorici di Mosca, a sollevare in Italia la rivoluzione socialista, ritenuta assai probabile80. Anche secondo Serge Noiret il ruolo di Dёgot’ nella storia dell’Italia postbellica è stato estremamente importante, ma per un motivo contrario: insieme agli altri inviati bolscevichi, Wisner81 e Vodovozov, egli sarebbe stato lo strumento di Lenin per fare pressione sul governo di Nitti per favorire gli interessi della Russia sovietica. Secondo l’ipotesi di Noiret, Lenin era contrario a una rivoluzione prematura in Italia e riteneva che dovesse essere impedita a tutti i costi tramite l’attività degli emissari segreti in seno al PSI. Quindi la politica del Komintern nel 1919 doveva assecondare gli obiettivi della diplomazia sovietica che cercava in tutti i modi di far uscire la Russia dall’isolamento diplomatico e dall’accerchiamento militare82. In ogni caso gli storici concordano sull’insufficienza di testimonianze concrete relative all’attività di Dёgot’ in Italia e sul suo ruolo nelle vicende del paese. Un altro agente segreto che lavorò successivamente in Italia in seno al partito socialista fu Heller (pseudonimo Chiarini). Giunse in Italia con il preciso incarico di referente del Komintern, un incarico subordinato rispetto al vero e proprio rappresentante della Terza Internazionale in Italia che era Ljubarskij83. Particolarmente attivo nel 1921, Heller inviò una copiosa corrispondenza direttamente a Zinov’ev e ad altri alti funzionari del Komintern descrivendo la situazione politica in Italia, lo stato delle lotte operaie e lo sviluppo sia
logo impossibile. I bolscevichi contro la rivoluzione italiana. Novembre 1919-febbraio 1920, “Storia contemporanea”, n. 3 1986, pp. 397-441. 76 Michail Panteleev, Agenty Kominterna: soldaty mirovoj revoljucii [Agenti del Comintern: soldati della rivoluzione mondiale], Jauza, Moskva 2005, p. 126. 77 Ibid., p. 129. 78 Aleksandr Kolpakidi-J. Leontiev, Il peccato originale. Antonio Gramsci e la fondazione del PCd’I, in PCI. La storia dimenticata, a cura di Sergio Bertelli e Francesco Bigazzi, Mondadori, Milano 2001, pp. 25-60. 79 Antonello Venturi, Rivoluzionari russi... cit., p. 245. 80 Aleksandr Kolpakidi-J. Leontiev, Il peccato originale… cit., p. 33. 81 Aron Abramovič Wisner fu un noto bolscevico emigrato dalla Russia zarista in Italia. Svolse in Italia attività clandestina dopo la rivoluzione d’Ottobre. In seguitò lavorò nel Gabinetto politico di Molotov, per poi sparire nel 1937, vittima delle purghe staliniane. Vedi in merito Agnese Accattoli, Rivoluzionari, intellettuali, spie… cit., pp. 288-290 e V. Leont’ev, Gruppa “russkich bol’ševikov” v Italii… cit., pp. 54-56. 82 Serge Noiret, Nitti e Bombacci… cit., p. 419. 83 Antonello Venturi, Rivoluzionari russi... cit., p. 248.
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del PSI che del giovane PCdI. Chiarini-Heller si soffermava spesso sull’inerzia, l’inesperienza e, addirittura, sul sabotaggio operato dal PSI nei momenti decisivi della rivoluzione proletaria che secondo lui era imminente in Italia. Così, a Jules Humbert-Droz, il membro svizzero del Segretariato del Komintern a Mosca, egli comunicava i suoi successi nel sostenere il PCdI: «L’évolution du notre partie va bien, un peu lentement, mais bien basée, le travail du propagande d’organisation, de coordination e d’inquadramento va très bien»84. Nel resoconto indirizzato a Zinov’ev, Heller sottolineava il suo ruolo d’«addestratore» di gruppi di combattimento pronti ad agire contro le squadre fasciste: «Adesso prestiamo molta attenzione all’armamento delle masse ed alla preparazione dei nostri “militanti” e battaglioni. Ma la situazione è ancora molto difficile, piena di contraddizioni e incognite»85. I problemi maggiori Chiarini-Heller li vedeva nell’organizzazione della stampa propagandistica, a causa della «mancanza nel partito di forze intellettuali e organizzative»86. Nonostante l’impressione che può suscitare l’ultima citazione, i resoconti di Heller-Chiarini erano caratterizzati da notevole ottimismo, un alto livello di presunzione e la profonda convinzione che gli imminenti e certi successi del PCdI in Italia avrebbero portato all’azione comune di tutta la classe operaia sempre più stretta attorno al partito marxista. […] Si è scoperto che nel momento decisivo le masse si raggruppano intorno a noi. L’organizzazione del partito procede abbastanza velocemente e bene e il suo peso cresce ogni giorno. Ma bisogna rafforzare ancora di più l’attività e concentrare tutti gli sforzi perché l’organizzazione e la preparazione siano più veloci visto che la situazione sta diventando e diventerà sempre più difficile e accesa. La borghesia e il governo vedono il loro principale nemico nel partito comunista (del partito socialista tutti i giornali parlano come dei peccatori pentiti e con questi sperano di schiacciarci). La crisi economica aumenta, la disoccupazione cresce, la borghesia dopo aver raggiunto l’apice delle proprie forze e considerando la disorganizzazione del PSI ha cominciato a lavorare sul nostro disordine (che sta già diventando minaccioso) perché capisce che questo è il momento giusto per la preparazione e lo spiegamento della sua offensiva per non essere schiacciata dopo. Io e L87, quando egli era qui, da parte nostra facevamo tutto il possibile per aiutare i nostri compagni a fare pressione sul C[omitato] C[entrale] (con il quale noi collaboravamo in pieno accordo) per rafforzare ed intensificare il lavoro per non trovarci presi alla sprovvista come spesso è capitato con il vecchio partito. E c’è tanto da fare, visto che dobbiamo creare e riorganizzare: nel vecchio partito si erano abituati alla superficialità (la maggior parte non pensava sul serio alla rivoluzione proletaria e a prepararsi ad essa). Dobbiamo organizzare tutta l’attività clandestina a cui gli italiani alla fine non sono abituati e dare a tutto il partito un carattere disciplinato e combattivo88.
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Lettera di Chiarini [Heller] a Humber-Droz, 5 ottobre 1921, RGASPI, F. 513., Op. 1, D. 29, L.
85 Secondo le ricostruzioni eseguite in base ai documenti dell’Archivio Centrale di Stato di Roma da Agnese Accattoli, Chiarini si incaricava di trasportare carichi di armi da Trieste a Firenze. Si veda pertanto ACS, il fondo PS. Documenti sequestrati al partito comunista italiano (Movimento comunista in Italia e all’estero, Ministero Nitti) 1919-1920. Scatola 1. 86 Lettera di Chiarini [Heller] a Zinov’ev, 15 dicembre 1921, RGASPI, F. 513., Op. 1, D. 29, L. 30. 87 Si intende probabilmente Ljubarskij. 88 Resoconto di Chiarini [Heller] sulla situazione in Italia, 22 marzo 1921, RGASPI, F. 513., Op. 1, D. 29, L. 7.
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Alla fine del 1921 Heller-Chiarini scrive un’altra lettera a Zinov’ev con il resoconto dello sciopero organizzato dagli operai a Roma durante il terzo Congresso dei Fasci di Combattimento, tenutosi dal 7 al 10 novembre. Mettendo in rilievo «lo spirito combattivo» delle masse italiane, Heller-Chiarini tuttavia constata il cambiamento della situazione in Italia rispetto a pochi anni prima e le sempre crescenti difficoltà nel contrastare le forze fasciste: Questo sciopero generale a Roma ha un grande significato per noi. Anzitutto, ha colpito i fascisti durante il loro primo Congresso di fondazione del partito89. Inoltre, ha dimostrato che nelle masse si sveglia di nuovo lo spirito della resistenza e del combattimento. Lo sciopero ha avuto successo nel senso che per quattro giorni nonostante tutte le misure tutto è stato paralizzato e la popolazione ha assunto un atteggiamento ostile verso i fascisti. D’altra parte, si è dovuto constatare con tristezza quanto sono cambiate le condizioni a favore della borghesia rispetto a 1,5-2 anni fa. Come allora noi, adesso sono i fascisti i padroni della città (almeno in centro). Per una settimana circa 30 mila sostenitori di Mussolini perfettamente armati (pistole, coltelli e bombe) hanno terrorizzato la città sotto la protezione di poliziotti e militari. Tuttavia lo sciopero ben organizzato e la preparazione militare dimostrata dalle masse lavoratrici si è rivelata una grande sorpresa per loro90.
Chiarini-Heller si trovava in una posizione chiave per la questione dei finanziamenti del PCdI da parte del Komintern e più precisamente da parte della sua Sezione Rapporti Internazionali, l’OMS (Otdel Meždunarodnoj svjazi), sotto la direzione di Osip A. Pjatnickij, divenuta lo strumento privilegiato con il quale il potere sovietico estendeva il suo controllo sugli altri partiti comunisti91. Nel dicembre 1921 Chiarini-Heller scriveva a Zinov’ev d’aver inviato a Pjatnickij il budget del PCdI per i «tre mesi correnti con allegata una nota esplicativa» e chiede al Presidente del Komintern di approvare il prima possibile l’erogazione delle somme richieste per non «lasciare il partito senza mezzi». Inoltre aggiungeva: «anche se si è costretti a spendere molto per il PCdI, i soldi sono spesi in modo ragionevole e con profitto e buoni risultati»92. Chiarini-Heller aveva tutti i motivi di rivolgersi a Zinov’ev chiedendogli d’aumentare i finanziamenti ai comunisti italiani. Alcuni mesi prima in una lettera indirizzata ad Amadeo Bordiga e Nicola Bombacci, Zinov’ev aveva promesso «un aumento dell’aiuto finanziario per dare la possibilità di sviluppare il lavoro [di propaganda tramite la stampa, in questo caso]»93. Nella stessa lettera Zinov’ev, evidentemente in base ai resoconti a lui inviati dai rappresentanti del Komintern in Italia, affermava di «non aver nessun dubbio che obbiettivamente la situazione in Italia continua a rimanere rivoluzionaria»94. Dunque, Chiarini-Heller e gli altri agenti del Komintern costituivano un altro tipo di fonte rispetto a quella diplomatica a disposizione del governo sovietico sulla situazione italiana. I suoi resoconti e quelli di Ljubarskij sono conservati presso l’Archivio Russo di Stato della Storia PoliDurante il terzo Congresso dei Fasci di Combattimento, fu deciso lo scioglimento del movimento e l’istituzione del Partito Nazionale Fascista. 90 Lettera di Chiarini [Heller] a Zinov’ev, 15 dicembre 1921, RGASPI, F. 513., Op. 1, D. 29, L. 30. 91 Victor Loupan-Pierre Lorrain, L’argent de Moscou. L’Histoire la plus secrète du PCF, Plon, Paris 1994, p. 79. 92 Lettera di Chiarini [Heller] a Zinov’ev, 7 dicembre 1921, RGASPI, F. 513., Op. 1, D. 29, L. 42. 93 Lettera di Zinov’ev a Bordiga, Bombacci e a tutti i compagni assenti al Terzo Congresso del Komintern, 1 agosto 1921, ibid., F. 324., Op. 1, D. 548, L. 70. 94 Ivi. 89
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tico-Sociale (RGASPI)95. Il loro attento spoglio insieme alle memorie di Dёgot’ potrebbe fornire qualche chiarimento sulle decisioni prese dal governo sovietico sulla scissione di Livorno, le scelte tattiche del PCdI e l’atteggiamento verso i leader socialisti. Bisognerebbe confrontare le informazioni ricevute dal governo sovietico attraverso i canali del Komintern con i resoconti inviati dai diplomatici sovietici in Italia, data la posizione critica e probabilmente più realistica di questi ultimi rispetto al PCdI. Diplomatici sovietici versus Partito Comunista d’Italia L’originario intreccio fra il NKID e il Komintern si scioglieva gradualmente man mano che i diplomatici sovietici assumevano la consapevolezza della difficoltà d’agire sul palcoscenico internazionale rappresentando tutte e due le istituzioni. A quanto pare, al 1921 risalgono le prime tracce del conflitto d’interessi tra il NKID e il Komintern. Alcuni episodi dell’attività dei diplomatici sovietici in Italia sono emblematici in questa prospettiva. Così, alla richiesta di Litvinov di sollecitare il visto per Anatolij Vasil’evič Lunačarskij, che doveva assistere al Congresso del PSI come rappresentante del Komintern, Vorovskij risponde che non si poteva «chiedere il visto per Lunačarskij, che è abbastanza famoso qui, senza motivare il suo viaggio. Indicare il vero motivo significa sollecitare attraverso le istituzioni statali la rappresentanza del Komintern al Congresso socialista. Indicare, invece, il motivo falso significherebbe screditare i nostri rappresentanti, il che non è ammissibile e non è degno della Repubblica»96. Abbiamo visto che a partire dal 1919 le linee d’azione della diplomazia sovietica e del Komintern in Italia erano state strettamente intrecciate e confuse tra loro: la missione ambigua di Vodovozov, il ruolo della delegazione ufficiale sovietica a Roma d’intermediaria fra il Komintern, il PSI e il PCdI e gli agenti segreti della Terza Internazionale. Tuttavia un anno dopo l’arrivo di Vorovskij a Roma in veste di rappresentante ufficiale della RSFSR97, cominciano a delinearsi i due diversi profili della politica estera sovietica. Dopo aver conosciuto meglio la situazione italiana e le condizioni alle quali la Russia sovietica avrebbe potuto ottenere non solo tutti i vantaggi del commercio con l’Italia, ma anche il riconoscimento politico, Vorovskij diviene via via più cauto nel manifestare il legame fra il Komintern e la diplomazia ufficiale che lui incarnava. Uno dei primi segni di questo nuovo atteggiamento è la posizione assunta rispetto alla decisione del Politbjuro del 1° novembre 1922 di richiamare la sua missione e quella commerciale da Roma in segno di protesta contro «l’aggressione ai danni della Missione commerciale e il trattamento inappropriato da parte dei fascisti con il corriere italiano [che prestava i suoi servizi alla Missione sovietica]». Litvinov non nasconde il vero motivo del gesto: «un atto contro il fascismo che deve dare una certa soddisfazione agli operai italiani»98. Vorovskij si oppone alla decisione del Politbjuro e chiede di non richiamare la Rappresentanza sovietica
Per la precisione, Fondo 513: “Il partito comunista italiano”. Resoconto n. 18 di Vorovskij inviato a Litvinov, 1 novembre 1921, AVP RF, F. 98, Op. 20, P. 153, D. 19, L. 31. 97 Con l’Accordo preliminare italo-russo, firmato il 26 dicembre 1921, si riprendevano i rapporti economici e commerciali fra i due paesi. 98 Lettera di Litvinov a Krestinskij, 13 novembre 1922, AVP RF, F. 98, Op. 20, P. 153, D. 19, L. 31. 95
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dall’Italia considerando l’inopportunità del gesto in quel momento per gli interessi della RSFSR, visto che riteneva imminente il riconoscimento diplomatico da parte dell’Italia. Alcuni mesi prima, spinto sempre dagli interessi nazionali e dal proprio ruolo di diplomatico, Vorovskij non si ferma davanti al conflitto con uno dei leader del PCdI, Bordiga. Usando i canali del PCdI, la moglie del comunista Ferruccio Virgili che si trovava a Mosca, richiede il visto per la Russia, successivamente sollecitato da Bordiga. Vorovskij dubita del motivo politico del viaggio di Elena Virgili e respinge la richiesta del visto «senza rispettare tutte le formalità precisando che il visto sarà rilasciato solo se essi [cioè i membri del PCdI] confermeranno che la Virgili va in Russia come delegato al Congresso, oppure se spiegheranno il carattere dei suoi compiti speciali»99. Difendendo la sua funzione di «persona di fiducia del governo sovietico», Vorovskij cerca così di stabilire il primato della diplomazia sovietica sugli interessi d’un singolo partito comunista che agiva in base ai principii dell’internazionalismo comunista. Una battaglia personale ancora più decisa è condotta da Vorovskij nel febbraio-marzo 1923100, dopo la dichiarazione della «crociata contro il fascismo in generale e il governo fascista in particolare»101. Convocato da Mussolini, egli deve rispondere alle sue domande sul carattere del legame fra il governo sovietico e il Komintern. Davanti al proprio governo cerca di difendere la tesi della necessità di stipulare «un accordo ufficioso con il governo fascista sui limiti e le forme della propaganda diffusa da entrambe le parti», richiamandolo in questo modo a una politica realistica che contempli l’uso di mezzi diplomatici per risolvere l’impasse nei rapporti con Mussolini. Per il governo sovietico invece ciò equivale a considerare il Komintern come «un’organizzazione privata che agisce sul territorio russo e dipende dal governo sovietico, il che scredita il suo ruolo politico»102. Pur essendo al corrente della situazione politica dei partiti di Sinistra italiani e addirittura partecipando in modo attivo al processo di rafforzamento del PCdI, Vorovskij si dimostra realista nei confronti dei comunisti italiani. A differenza di Heller, i cui i resoconti traboccano di grandi speranze, Vorovskij scrive che i comunisti «non sono solo deboli ma anche monchi» e che «agiscono lentamente e con stanchezza»103. Le discrepanze tra le informazioni ricevute a Mosca dai due canali emergono esplicitamente dalla lettera di Eugen Varga a Zinov’ev del 6 agosto 1922: Varga indica i punti di divergenza tra la visione di Čičerin sulla situazione italiana – quindi in un’ottica diplomatica – e la sua, cioè d’un alto funzionario del Komintern. Vorrei fare alcune osservazioni personali in merito al “segreto” resoconto italiano datato 1 agosto 1922 e inviato da Berlino durante la mia assenza. Sospetto che il resoconto sia stato redatto sotto la
Lettera di Vorovskij a Ganeckij, 25 ottobre 1922, ibid., F. 98, Op. 25, P. 102, D. 29, L. 65. A questo proposito si veda anche Vjačeslav Kolomiez, Il bel paese visto da lontano... cit., pp. 94-95. 101 Lettera di Vorovskij a Litvinov, 8 marzo 1923, AVP RF, F. 098, Op. 6, P. 103, D. 46, L. 28. Probabilmente si intende la decisione presa durante la seduta congiunta dell’IKKI e il Comitato esecutivo del Profintern – organizzazione internazionale dei sindacati comunisti istituita dal Komintern – il 3 gennaio 1923, al fine di costituire la Fondazione internazionale della lotta contro il fascismo. Si veda in merito Komintern protiv fashizma... cit., p. 80. 102 Lettera di Litvinov a Vorovskij, 26 febbraio 1923, ibid., F. 04, Op. 20, P. 154, D. 25, L. 11. 103 Lettera di Vorovskij a Čičerin, 14 agosto 1921, ibid., F. 04, Op. 20, P. 153, D. 19, L. 19. 99
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Politica estera e/o rivoluzione?
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forte influenza esercitata dal compagno Čičerin nelle numerose conversazioni con il mio collaboratore italiano. Credo che non sia giusto: 1) Che il livello della vita della classe media in Italia sia effettivamente aumentato. 2) Che le condizioni del proletariato rispetto al fascismo siano così disperate104.
La visione ottimista e rosea della situazione in Italia, corrispondente alle aspettative dei bolscevichi, si può leggere in un articolo di Mátyás Rakosi, all’epoca Segretario dell’IKKI e pubblicato sulla “Pravda” del 28 novembre 1924. Il polpred sovietico, Konstantin Jurenev, rimane indignato della pubblicazione dell’articolo dedicato all’Italia e dall’esagerato ruolo attribuito al PCdI nella politica italiana. «A chi servono queste bugie?»105 chiede Jurenev scandalizzato. Egli, come il suo predecessore Vorovskij, continua ad insistere sulla «estrema debolezza dei nostri amici. Soprattutto debole è il loro quartiere generale; non hanno leader forti»106. Ovviamente non possiamo dimenticare il famoso episodio dell’invito di Mussolini a Jurenev pochi giorni dopo l’omicidio di Matteotti. Il diplomatico sovietico senza aver ricevuto una palese approvazione del Politbjuro, decide di non disdire il pranzo nonostante le forti proteste del partito comunista e di Gramsci personalmente. Jurenev, come prima Vorovskij, affronta consapevolmente il conflitto con gli “amici italiani” privilegiando gli interessi della diplomazia nazionale a discapito delle idee rivoluzionarie internazionalistiche. Vorovskij e Jurenev, rappresentanti ufficiali della RSFSR in Italia, a differenza di Vodovozov la cui funzione non è mai stata chiarita fino in fondo, si sentivano evidentemente molto più responsabili delle azioni che intraprendevano in veste di diplomatici. La causa della diplomazia sovietica, la sua trasparenza e la sua reputazione diventano in qualche modo la loro causa personale. La difesa della diplomazia sovietica dalle intricate connessioni con l’azione del Komintern trova nei due polpredy sovietici dei fedeli sostenitori, che insieme a Čičerin prima e Litvinov poi, privilegiano la visione della Realpolitik rispetto a quella del fanatismo rivoluzionario, accantonato infine dallo stesso Stalin. Conclusioni Lo sguardo sin qui volto sulla politica sovietica in Italia agli inizi del suo lungo e tortuoso percorso porta a riflettere almeno su quattro punti. Il primo riguarda la politica bolscevica nei confronti dell’Italia e le intenzioni dei leader sovietici di estendervi la rivoluzione proletaria. Nei primi mesi dopo la rivoluzione d’Ottobre, prevalse la consapevolezza della necessità di garantire la pace esterna per poter vincere le battaglie interne. Fallita questa strategia con l’intervento militare dell’Intesa viene costituita la Terza Internazionale, la quale pose il problema della natura della politica estera sovietica, da allora articolata su due binari. Essendo di fatto il NKID e il Komintern due strumenti dello stesso governo, tali binari si alternarono secondo le necessità immediate del governo sovietico. La politica variabile di Mosca verso un’eventuale rivoluzione in Italia si dimostra appunto nell’attuazione simultanea di due canali, uno finalizzato agli interessi nazionali della
Lettera di Varga a Zinov’ev, citato in Komintern protiv fashizma... cit., p. 63. Lettera di Jurenev a Litvinov, 6 dicembre 1924, AVP RF, F. 04, Op. 20, P. 155, D. 44, L. 144. 106 Lettera di Jurenev a Litvinov, 4 novembre 1924, ibid., F. 04, Op. 20, P. 155, D. 44, L. 80. 104 105
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Russia sovietica, l’altro agli interessi della lotta proletaria internazionale. I tentativi d’istigare i comunisti italiani ad una decisa politica finalizzata alla presa del potere, nonché l’attività sovversiva di agenti segreti andavano di pari passo con la diplomazia sovietica che, anche se a volte sosteneva i rappresentanti del Komintern in Italia, insisteva sullo sviluppo pacifico dei rapporti italo-sovietici negli interessi nazionali russi. La seconda riflessione riguarda i modi in cui si raccoglievano le informazioni spesso contraddittorie sulla situazione interna in Italia e in particolare sulla Sinistra italiana. Queste fonti d’informazione, che il governo sovietico riceveva tramite due canali diversi, in fin dei conti rappresentavano due modi differenti di vedere la realtà italiana e intenderla alla luce dell’idealismo rivoluzionario. L’ambiguità della politica sovietica verso l’Italia ci porta alla terza riflessione: la particolarità della presenza dei sovietici sul suolo italiano. Sappiamo che sia i rappresentanti ufficiosi del governo bolscevico, sia i primi agenti del Komintern cominciarono ad operare in Italia nel 1919 a meno di due anni di distanza dalla rivoluzione d’Ottobre. Alcuni di loro, come Vodovozov, erano già presenti in Italia prima della Grande Guerra; altri invece, come Dёgot’, furono inviati in Italia da altri paesi europei. Fin dall’inizio la presenza sovietica in Italia si caratterizza per una profonda ambiguità dal punto di vista delle funzioni di questi agenti segreti e semi-segreti, che fungono sia da propagandisti sovversivi che da intermediari tra i due governi. Infine, la quarta riflessione riguarda la dinamica della coesistenza dei due binari della politica estera sovietica. I documenti esaminati negli archivi russi dimostrano abbastanza chiaramente, nel caso italiano, la progressiva e sempre più netta divisione tra le attività promosse dal NKID, rappresentato dai polpredy sovietici – Vorovskij e Jurenev nel nostro caso – e il Komintern, la cui intromissione negli affari della diplomazia ufficiale è sempre meno tollerata da parte dei diplomatici. La conclusione che mi sento di trarre è che sembra non sufficientemente documentata l’affermazione di parte della storiografia secondo la quale il NKID risultava in una posizione sostanzialmente subordinata e ausiliaria, con un ruolo di supporto alle iniziative del Komintern107.
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Anna Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo… cit., p. 32.
La rivoluzione d’Ottobre in prospettiva storica
Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
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Un centenario anomalo
Il centenario che ricorre quest’anno – gli eventi rivoluzionari del 1917 a Pietrogrado – è per vari motivi singolare: lo Stato senza precedenti cui quegli eventi diedero i natali, noto con l’acronimo URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche), fondato per dar vita a una nuova era storica, cinque lustri or sono, dopo quasi tre quarti di secolo di esistenza, è scomparso con una sorprendente rapidità simile a quella della sua comparsa; lo spirito che lo aveva animato e che si compendiava nel concetto programmatico di “rivoluzione mondiale”, di cui quello Stato voleva essere l’antesignano, è svanito dopo aver subito una trasformazione sostanziale che dalle sue origini internazionalistiche lo aveva portato a diventare ambiguamente “nazionale” – russo; l’inattesa comparsa sulla scena europea di una nuova forza politica, anch’essa antiliberale, il fascismo e l’affine nazional-socialismo, che nel comunismo videro un modello formale da imitare e un avversario sostanziale da combattere, spingendo alla fine il comunismo a una paradossale alleanza militare con quel capitalismo che la “rivoluzione mondiale” voleva annientare; i partiti che nel mondo erano nati per sostenere ed espandere in modo organizzato e centralizzato (Komintern) il movimento rivoluzionario del 1917 col proposito di monopolizzare, adeguandoli ai propri fini, i valori e i simboli dei tradizionali partiti socialisti dai comunisti osteggiati, dopo la fine dell’URSS hanno cessato di esistere o hanno subito una trasformazione che ne ha stravolto il carattere originario; persino la ricorrenza degli eventi rivoluzionari del 1917, sempre celebrata con solennità là dove si svolsero e ovunque tra i loro propugnatori, è ora cancellata dalle festività del calendario in Russia, dove quel fatto storico è reinterpretato in un modo che ne muta radicalmente il significato originario; infine, a differenza di altre rivoluzioni, in particolare di quella francese, cui quella russa del 1917 si è più o meno giustificatamente richiamata per autolegittimarsi, le idee e gli ideali di quest’ultima sembrano dissolti senza lasciare traccia nella successiva realtà. Si aggiunga che lo stesso termine “rivoluzione russa” non regge a una riflessione analitica: per la sostanza degli eventi pietrogradesi dell’ottobre 1917 si deve parlare di “colpo di Stato” e quanto al loro luogo si dovrebbe parlare di “Impero russo”, concetto diverso da “Russia” per le sue caratteristiche politiche. Eppure è vero che nel 1917 una rivoluzione – anzi due: a febbraio e a ottobre, ma la seconda fu quella decisiva – ebbe inizio, una rivoluzione che, coinvolgendo enormi masse, sarebbe durata sette e più decenni e avrebbe sconvolto il mondo, come è vero che la Russia fu la protagonista di quella lunga rivoluzione, dalla quale venne radicalmente trasformata. Data questa situazione, priva oltre tutto di quella ricchezza di libera riflessione storica e intellettuale che ebbe la rivoluzione francese e solo di recente aperta a una ricerca indipendente – ma oggi di nuovo pregiudicata – là
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dove essa si determinò, cioè la Russia, come ricordare il 1917 e determinarne il senso a un secolo di distanza, al di là dei contributi storici particolari? È opportuno accostare a questa data un’altra, non meno significativa: il 1937. Di vent’anni successiva al 1917 essa ha acquistato un valore non meno simbolico, generando un problema storico che è stato oggetto di un decisivo dibattito politico ed è tuttora aperto alla ricerca. Se il 1917 è l’anno del trionfo violento di Lenin, della sua strategia e tattica rivoluzionaria, il 1937 è l’apogeo cruento della politica e del potere di Stalin, il cui trionfo si avrà quasi un decennio più tardi con la vittoria nella guerra mondiale. Che rapporto c’è tra queste due date? Di continuità, quasi si trattasse dello sviluppo burrascoso ma organico di un processo i cui prodromi sono anteriori al 1917 e risalgono al Manifesto del partito comunista di Marx e Engels e al Che fare? di Lenin, oppure tra esse c’è uno iato, come un altro artefice del 1917, Trockij, ha dichiarato parlando di “rivoluzione tradita” e più tardi un erede di Stalin, Chrusciov, ha fatto a suo modo, parlando di “culto della personalità”? Si tratta di una questione essenziale che illumina reciprocamente le due date. Si potrebbe dire, per continuare il riferimento alla rivoluzione francese, che il nesso tra il 1917 e il 1937 ricorda quello tra il 1789 e il 1793. Ma anche qui, come per l’analogia tradizionale tra le due rivoluzioni, si tratta di un errore ottico, involontario o voluto, che una analisi storica dissipa. È diventato un luogo comune definire il XX secolo “breve” rispetto al precedente “lungo”, secondo un ciclo storico fatto principiare nel 1789 e terminare nel 1914. Senza togliere allo scoppio della prima guerra mondiale il suo significato di fatale rottura di uno sviluppo europeo che si era illuso di essere pacificamente progressivo, il Novecento non solo in senso calendariale iniziò prima del 1914 con la sotterranea preparazione di quel catastrofico conflitto. Ciò è vero in particolare per la parte del vecchio continente destinata a svolgere un ruolo di primo piano nel corso di tutto il secolo: la Russia. Qui il XX secolo, tutt’altro che breve, ebbe inizio nel 1905, con la prima delle tre rivoluzioni che ne segnarono la sorte. Anzi ancor prima, nel 1902, quando vide la luce un libro che come pochi altri predeterminò il corso della storia non solo in Russia: il Che fare? di Lenin. Il secolo era così cominciato e sarebbe durato fin quasi alla fine del millennio. E ancora non si è usciti dalla sua durevole influenza. Invece che con una sua presunta brevità il secolo da poco trascorso può essere definito in modo più sostanziale come il secolo della violenza estrema. Non della violenza tout court, naturalmente, perché di violenza è fatta la storia, in particolare quei concentrati di aggressività e furore che sono le guerre e le rivoluzioni, tanto che la predicazione della non-violenza ha il valore di una sublime utopia. La violenza registrata negli ultimi cento anni ha visto una crescita qualitativa e quantitativa straordinaria nelle sue espressioni massime che sono appunto le guerre e le rivoluzioni – e le controrivoluzioni – oltre che nella più ampia vita sociale, tanto da giustificare la definizione sopra avanzata. Si è toccato un limite che purtroppo è impossibile ritenere invalicabile. Da questo punto di vista il 1914 fu l’anno di un’esplosione senza precedenti di violenza destinata a durare a lungo. Si erano accumulati troppi contrasti e rivalità tra le potenze nazionali e imperiali che costituivano l’Europa, teatro di lotte segrete tra le diplomazie che intessevano alleanze e approntavano conflitti sotto la superficie di una civiltà che si voleva mondialmente egemone e civilmente compatta. Fu una crisi globale di cui un’opera come Il tramonto dell’Occidente – tradotto in Russia col titolo Il tramonto dell’Europa – fu una sorta di cassa di risonanza intellettuale. Ancor prima, nel 1915, un filosofo russo, Niko-
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laj Berdjaev, aveva pubblicato un articolo dal titolo La fine dell’Europa, nella scia di una tradizione culturale russa che profetizzava la catastrofe del corrotto Occidente europeo, questa volta con un fondamento d’attualità, la Grande Guerra, senza presentire però che la catastrofe avrebbe investito ancor più proprio la Russia, in quelle profezie considerata invece la incontaminata salvezza dalla decadenza occidentale. La guerra fu combattuta con una violenza generale inaudita nelle trincee e nei campi di battaglia, lasciando un’eredità di brutale durezza negli uomini che ne erano stati vittime e protagonisti, oltre a una serie di acuti problemi politici nei trattati che sancirono i rapporti tra vincitori e vinti. È significativo che la prima guerra mondiale fece versare non solo fiumi di sangue, ma anche torrenti di inchiostro con aspri scontri intellettuali tra i maggiori esponenti delle varie culture nazionali – filosofi, storici, letterati – dei paesi belligeranti, generando una messe di opere ancor oggi interessanti. Questo fenomeno non si ripeté con la stessa vivacità e varietà nella seconda guerra mondiale, dove lo scontro fu rigidamente ideologico tra fascismo e antifascismo, quest’ultimo diviso in due: democratico e liberale l’uno, totalitario e comunista l’altro, divisione che fu prodromo della nuova guerra – “fredda” – estrema conseguenza del mutamento radicale che si era avverato in Europa e nel mondo a partire dal 1917. Se la violenza estrema della prima guerra mondiale, sopravanzata poi dalla seconda, fu il frutto delle classi dirigenti europee – dinastie reali, caste repubblicane, potentati economici – l’altra violenza, le cui condizioni dalla prima furono create, quella rivoluzionaria, anch’essa senza precedenti, fu il frutto dell’opposizione totale a quelle classi da parte di masse popolari, ma soprattutto di minoranze politiche e ideologiche che se ne assumevano la rappresentanza e guida. La Russia fu il centro di questa violenza, poi diffusa altrove anche in forme diverse dalla originaria. Ancor più del 1914, il 1917 fu l’anno della svolta epocale. Come avvenne il passaggio da una rivoluzione pacifica che aveva abbattuto una autocrazia sopravvissuta a se stessa, per di più impersonata da un sovrano inetto a tentativi di salvarla con adeguate riforme, a una rivoluzione che, attuata in modo quasi incruento come colpo di stato, subito dopo si scatenò in una violenza totale di lunga durata? Gli storici spiegano variamente l’evolversi drammatico di una situazione che tra il febbraio e l’ottobre bruciò in Russia la possibilità di una democrazia che nei decenni precedenti aveva cominciato ad attecchire in un terreno a fatica dissodato per una seminazione della libertà. Se la rivoluzione francese aveva spazzato via l’“antico regime”, la rivoluzione russa – d’Ottobre – annientò una avviata modernizzazione socioeconomica e, dopo il crollo dell’autocrazia, una incipiente democratizzazione repubblicana nella scia dei valori liberali della rivoluzione francese. Anche simbolicamente l’annullarsi di questa potenzialità è confermato dal primo atto del nuovo potere rivoluzionario: la liquidazione dell’Assemblea costituente, l’istituzione democratica che era stata il sogno delle forze liberali e socialiste d’opposizione all’autocrazia zarista e avrebbe dovuto stabilire la Carta costituzionale e le forme di governo della nuova Russia. Senza entrare nelle vicende che nei mesi tra febbraio e ottobre prepararono le elezioni, volute da tutte le forze politiche, compresi i bolscevichi che anzi le sollecitavano, e finalmente svoltesi in novembre, il 18 gennaio – 5 secondo il vecchio calendario – 1918 nel palazzo di Tauride a Pietrogrado si tenne la prima – e ultima – seduta dell’Assemblea, in cui la maggioranza dei deputati – 40-44% – spettava ai socialisti rivoluzionari e il 22-24% ai bolscevichi, che così vedevano sconfessato dagli elettori il loro “colpo” di Ottobre. A Lenin si presentava una scelta decisiva che naturalmente fu fatta non con l’ac-
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cettazione di quello stato di cose, le cui conseguenze politiche avrebbero potuto portare a un governo socialista di coalizione, ma con lo scioglimento forzato dell’Assemblea, il che avrebbe confermato definitivamente il monopolio del potere – con l’appoggio temporaneo dell’estrema sinistra dei socialisti rivoluzionari – ai bolscevichi. La lettura dello stenogramma di quell’unica seduta mostra la fine drammatica della neonata democrazia russa, fine già segnata dai reali rapporti di forza in campo, nel senso anche militare del termine. Bucharin, nel suo lungo intervento, respinse con sdegno l’accusa dei socialisti che i bolscevichi «copiano i procedimenti dell’autocrazia» e rivendicò il diritto delle classi e dei partiti rivoluzionari di usare «i mezzi della violenza e anche, in caso di necessità, del terrore» per distruggere «la barbara società capitalistica». Per Bucharin, dato che in Russia «si stanno gettando le basi della vita dell’umanità per millenni», non poteva che meritare disprezzo la «meschina repubblica parlamentare borghese» alla quale «noi dichiariamo una guerra mortale»1. Trockij riferisce ciò che Lenin allora gli disse: «Lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte del potere sovietico è la piena e aperta liquidazione della democrazia formale in nome della dittatura rivoluzionaria. Adesso l’azione sarà dura»2. Trockij nel suo libro su Lenin ricorda ancora con scherno che i deputati socialisti rivoluzionari erano venuti alla prima seduta dell’Assemblea costituente portando con sé «candele nel caso che i bolscevichi avessero tolto la corrente elettrica e una quantità di panini nel caso che fossero stati privati di cibo». E commenta ironico: «Così la democrazia si presentava al combattimento con la dittatura: armata di tutto punto di candele e panini». Poi aggiunge: «Il popolo non pensò neppure a dare sostegno a quelli che si consideravano suoi eletti e che in realtà erano ombre di un periodo ormai esaurito della rivoluzione»3. Parole non prive di ragione, anche se una pur piccola parte di popolo manifestò fuori del palazzo di Tauride a favore dell’Assemblea e fu dispersa con violenza dai soldati rossi. Come leggiamo alla fine dello stenogramma della seduta inaugurale e finale, a un certo punto il «cittadino marinaio» del servizio d’ordine dichiarò: «Ho ricevuto istruzioni di comunicarvi che tutti i presenti devono lasciare la sala della seduta perché la guardia è stanca». Si levò qualche voce: «Non abbiamo bisogno di guardia», mentre il Presidente dell’Assemblea domandò: «Quali istruzioni? Da parte di chi?». Il «cittadino marinaio»: «Io sono il capo della guardia del Palazzo di Tauride e ricevo le istruzioni dal commissario Dybenko»4. Così si chiuse la breve vita dell’Assemblea costituente russa, la cui liquidazione, come scrive l’autore della fondamentale monografia sull’argomento, Lev Protasov5, nella storia della rivoluzione bolscevica è rimasta per lo più nell’ombra dell’evento principale, cioè del colpo di mano del 25 ottobre che per di più nell’immaginario generale è visto non nella realtà squallida dei suoi meccanismi di svolgimento, ma nella fantasia trionfale di certe immagini filmiche – Eisenstein. Tat’jana E. Novickaja, Ucreditel’noe sobranie. Rossija 1918. Stenogramma i drugie dokumenty [L’Assemblea Costituente Russa 1918. Stenogrammi ed altri documenti], Nedra, Moskva 1991, p. 90. 2 Lev Davidovič Trockij, O Lenine: materialy dlja biografa, Moskva Grifon M, Moskva 2005, p. 75. 3 Ivi. 4 Ibid., p. 158. Pavel Dybenko, rivoluzionario bolscevico ebbe parte di rilievo nei sommovimenti del 1917 e poi ricoprì alte cariche militari nel periodo sovietico. Finì nelle repressioni staliniane nel 1938. 5 Lev Grigorʹevič Protasov, Vserossijskoe Ucreditel’noe sobranie. Istorija rozdenija i gibeli [L’Assemblea costituente panrussa. Storia della sua genesi e della sua fine], Rosspen, Moskva 1997. 1
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Negli ultimi anni il bilancio storiografico è però cambiato: «Nella storia del totalitarismo sovietico lo scioglimento dell’Assemblea costituente è un avvenimento non meno, anzi più significativo della presa armata del potere da parte dei bolscevichi», tanto che si può affermare che l’accusa di aver usurpato il potere nell’ottobre 1917 sarebbe caduta, se i bolscevichi avessero mantenuto la loro promessa di trasmettere il potere supremo all’Assemblea costituente. Invece con la scelta repressiva «il potere bolscevico si privò della legittimità che, come è evidente in una retrospettiva storica, non gli poterono conferire i congressi falsati dei soviet» e il partito bolscevico accelerò così la sua evoluzione in una «organizzazione chiusa di tipo politico-militare»6, la sua trasformazione in una parte dello Stato, anzi la sua identificazione con lo Stato, facendo dei Soviet un decoro di facciata. Tornano opportune le osservazioni che alla fine del 1918 scrisse Rosa Luxemburg, nonostante la sua simpatia politica per i bolscevichi, fermamente critica verso quel loro atto di violenza che predeterminava tutto il loro futuro. Da posizioni opposte a quelle della Luxemburg, nell’ambito socialista, critiche ancora più sistematiche alla violenza bolscevica vennero, come è noto, da Karl Kautsky e ad esse gli «artefici della rivoluzione d’ottobre», Lenin e Trockij, risposero con violenza polemica – La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky e Terrore e comunismo – mettendo a nudo la loro posizione politica e ideologica dittatoriale e terroristica. A conclusione di questa sommaria cronaca delle sorti dell’Assemblea costituente russa non si può non riferire un episodio insieme sconcertante e illuminante raccontato da Bucharin e riportato nel libro di Protasov. Nella notte dello scioglimento dell’Assemblea, Lenin convocò Bucharin che si recò all’incontro con una «bottiglia di buon vino» e a lungo poi si intrattenne con gli altri ospiti, dirigenti del partito: «Verso il mattino Il’ič [Lenin] chiese di ripetere qualcosa dello scioglimento dell’assemblea e d’un tratto si mise a ridere. Rise a lungo, ripeteva tra sé parole del racconto e rideva, rideva sempre. Con allegria, in modo contagioso, fino alle lacrime. Si sbellicava dalle risa. Non capii subito che era un attacco isterico. Quella notte tememmo che lo avremmo perso»7. Un’altra testimonianza riportata da Protasov dice che dopo che aveva ascoltato il racconto di Dybenko sulla misera fine dell’Assemblea, Lenin «rise a lungo e in modo contagioso». Scaricava così la sua tensione e soddisfazione sulla tomba della democrazia russa. Un’altra tomba, reale nel doppio significato della parola poiché si tratta della fossa comune della famiglia imperiale e dei quattro membri del seguito rimasti fedeli, deve essere ricordata. È vero che il regicidio è l’atto simbolico centrale delle rivoluzioni che abbattono un vecchio regime e la rivoluzione francese ne è il caso forse più risonante. Ma mai si era visto un massacro così efferato come quello che nel 1918 a Ekaterinburg, negli Urali, trasformò l’ultimo zar in un martire – è stato canonizzato dalla Chiesa ortodossa – mettendo in ombra le sue responsabilità per la catastrofe del 1917. A leggere la cronaca di quel sordido eccidio sembra di assistere a un Grand-guignol, a una strage criminale che non risparmia i bambini, e non all’esecuzione della condanna – per di più senza processo – di un sovrano che aveva perso la sacralità su cui si era retto il potere della sua dinastia, i Romanov, ma che già era stato detronizzato all’inizio della rivoluzione di febbraio, anzi aveva rinunziato lui stesso al trono, facendo della monarchia in Russia un passato senza possibilità di ritorno. 6 7
Ibid., p. 324. Ibid., p. 318.
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In piena notte, il 17 luglio, secondo il resoconto del capo del drappello che perpetrò l’eccidio, Jurovskij, dopo un’accurata preparazione dell’ambiente – fu scelto l’interrato della casa dove i Romanov erano detenuti per evitare che gli spari si sentissero fuori e una stanza con un tramezzo di legno affinché le pallottole non rimbalzassero – i condannati furono svegliati e, senza alcuna spiegazione, dopo che si furono rivestiti, fatti scendere nel sotterraneo. La stanza era stata svuotata, il che sorprese l’ex imperatrice. Allora Jurovskij fece portare due sedie, sulle quali l’ex zar fece accomodare la moglie e il figlio quattordicenne Aleksej da lui portato in braccio perché colpito da un attacco della malattia che lo debilitava, l’emofilia. Agli altri fu ordinato di mettersi in fila. Poi fu fatto entrare il plotone, fu comunicata la condanna e cominciò l’esecuzione. Ai soldati era stato ordinato di mirare al cuore per limitare lo spargimento di sangue e finire tutto al più presto. Le cose però si complicarono. La sparatoria durò alcuni minuti. L’ex zar fu ucciso con un colpo di pistola dallo stesso Jurovskij, poi fu la volta della consorte. Il piccolo Aleksej, tre delle sue quattro giovani sorelle e il medico di famiglia, il dottor Botkin, erano ancora vivi e si dovette sparar loro colpi di grazia. Una delle ragazze fu invece finita a baionettate. Poi i cadaveri, depredati degli oggetti preziosi, furono caricati su un’auto che aspettava fuori e portati nel luogo scelto per seppellirli, una remota cava abbandonata, dopo essere stati deturpati con acido solforico e in parte bruciati8. Con questo eccidio, proiezione del mondo orrido dei Demoni dostoevskiani e preludio della nuova violenza senza limite, la desacralizzazione del potere monarchico russo, iniziata alla vigilia della guerra, toccava il suo punto estremo e il nuovo potere bolscevico simbolicamente si affermava, sacralizzando se stesso nello spirito di una ideologia rivoluzionaria atea ma pervasa da un surrogato di religiosità con la fede cieca in una utopia spacciata per scienza che giustificava ogni azione le tornasse utile, miscela inebriante di rigida razionalità e irrazionale arbitrio. Su questo episodio della rivoluzione bolscevica ci limiteremo a una testimonianza eccezionale che, tra l’altro, smentisce la versione comunista secondo cui l’iniziativa del massacro sarebbe stata presa dai bolscevichi locali di Ekaterinburg: ciò che al proposito scrisse Trockij, ormai in esilio, nel suo diario non destinato alla pubblicazione, in data 9 aprile 1935. Trockij ricorda che quando l’eccidio di Ekaterinburg ebbe luogo egli non si trovava nella capitale e al rientro Sverdlov, rispondendo alla sua domanda su chi avesse preso quella decisione, rispose: «Abbiamo deciso noi qui. Il’ič [Lenin] riteneva che non si potesse lasciare loro [i controrivoluzionari] una bandiera vivente, soprattutto nelle attuali difficili condizioni». E Trockij, rendendosi corresponsabile di quanto in sua assenza era stato fatto, commenta: Non feci ulteriori domande e misi una croce sulla faccenda. In sostanza la decisione era stata non solo opportuna, ma anche necessaria. La durezza della punizione mostrava a tutti che noi avremmo condotta la lotta in modo spietato, senza fermarci davanti a niente. L’esecuzione della famiglia imperiale era necessaria non semplicemente per spaventare, terrorizzare, lasciare senza speranza il nemico, ma anche per dare una scossa alle nostre fila, per mostrare che indietreggiare non si poteva, che si andava avanti fino alla piena vittoria oppure verso una piena rovina9.
Cfr. Pokazanija [Deposizioni], Moskva 1998. Lev Davidovič Trockij, Dnevniki i pisʹma [Diari e lettere], Izdatelʹstvo gumanitarnoj literatury, Moskva 1994, p. 118. 8 9
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Anche in esilio Trockij manteneva tutta la sua mentalità rivoluzionaria ispirata da una violenza estrema. Un terzo episodio, ignorato fino a pochi anni fa nonostante la sua significativa gravità, è quello della cosiddetta “nave dei filosofi” (filosofskij parochod). Il 1922 fu l’anno dell’intellighenzia russa. Un anno nefasto che pose fine alla sua presenza in patria come libera componente della vita sociale e la costrinse a ingrossare le già folte fila – circa un milione e mezzo – dei fuggiaschi che avevano trovato scampo in Europa di fronte al cataclisma rivoluzionario di ottobre, mentre una parte del vecchio continente sosteneva con calore i loro persecutori al potere a Mosca. Repressa la rivolta dei marinai rivoluzionari di Kronstadt, sedate le turbolenze delle masse contadine oppresse dalle vessazioni del “comunismo di guerra” e decimate dalla fame del 1921-1922, iniziata la persecuzione della Chiesa e della religione cristiana ortodossa, sottoposte a processo e interdetto le organizzazioni politiche socialiste – quelle liberali erano già state “liquidate” nel 1918, stabilito un monopolio sulla stampa, il potere sovietico passò ad occuparsi dell’ultimo elemento sociale ancora indipendente, anche se non attivamente ostile, un elemento numericamente esiguo, ma inviso a chi voleva il dominio assoluto non solo nella sfera politica e economica, ma anche in quella culturale. Quest’ultima operazione repressiva, come si è detto, solo negli ultimi anni è stata documentata e studiata dentro e fuori la Russia. In pochissimi casi l’abusato aggettivo “kafkiano” è calzante come nella storia della “nave dei filosofi”. Cominciamo dalla conclusione. Il 29 settembre 1922 una nave tedesca, l’Oberburgermeister Haken, lasciò il porto di Pietrogrado diretta in Prussia, a Stettino, dove il 1° ottobre sbarcò trentacinque passeggeri russi, tutti intellettuali tra i più rinomati, con le loro famiglie. Tra essi filosofi di rilievo, alcuni dei quali destinati ad acquistare fama in Occidente come Nikolaj Berdjaev, uno scrittore come Michail Osorgin, lo storico Aleksandr Kizevetter, il sociologo Pitirim Sorokin che divenne un’autorità nel suo campo, uno dei maggiori economisti russi come Boris Brutskus, il filologo ora di fama mondiale Roman Jakobson, il matematico Dmitrij Selivanov e altri docenti universitari di valore. Non si trattava di persone che spontaneamente avevano intrapreso il viaggio o deciso di lasciare il loro paese, ma di personalità che la GPU – sigla russa di Direzione politica di Stato – cioè l’organo poliziesco che dall’inizio di quell’anno era succeduta alla Cekà – Commissione straordinaria – cioè la prima polizia politica comunista diretta da Feliks Dzerzinskij, con la consueta accusa di “attività controrivoluzionaria”, aveva espulso dalla Russia, pena, in caso di illegale ritorno, la fucilazione. In novembre, un’altra nave, la Preussen, trasportò dalla Russia un altro gruppo di intellettuali – il filosofo Nikolaj Losskij, l’astronomo Vsevolod Strato – e, nel marzo dell’anno successivo a Odessa ebbe la stessa sorte il filosofo e teologo russo Sergej Bulgakov. Nel complesso circa 160 persone “non grate” furono allora costrette a lasciare per sempre la loro patria, ormai non più Russia ma URSS, ree non di attività politica contro il nuovo potere, ma di attività intellettuale indipendente, il che, nelle condizioni createsi dopo l’Ottobre 1917, era già di per sé una colpa grave poiché pensare in modo diverso da quello del nuovo potere era inammissibile e di per sé pericoloso. «Ripuliremo la Russia per un lungo periodo», aveva allora detto Lenin, iniziatore di tutta quell’operazione di polizia e
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“pulizia”, in una lettera del 16 luglio 1922 a Stalin10. E così fu, anticipando quello che molti decenni più tardi il potere sovietico fece con i “dissidenti”. Nelle cinquecento e più pagine del volume di V.G. Makarov-V.S. Christoforov, Vysylka vmesto rasstrela. Deportacija intelligencii v dokumentach VCK-GPU. 1921-1923 [Esilio anziché fucilazione. La deportazione dell’intellighenzja], Russkij put’, Moskva 2005, si percorre documentatamente tutto l’iter di questa surreale vicenda, che sopra abbiamo definito “kafkiana”: dalla direttiva data da Lenin alla polizia politica fino al macchinoso sviluppo burocratico e poi dagli arresti e interrogatori alla deportazione dei condannati. Una lettura complementare è costituita dalle più di ottocento pagine di documenti raccolti nel volume di Andrej N. Artizov, intitolato con le parole di Lenin sopra citate “Ocistim Rossiju nadolgo…”. Repressii protiv inakomysljascich. Konec 1921-nacalo 1923 [“Ripuliremo la Russia per un lungo periodo...”. Le repressioni contro i dissidenti, fine 1921-inizio 1923], Meždunarodnyj Fond “Demokratija” [u.a.], Moskva 2008. Due ottimi libri ai quali si può aggiungere il non meno voluminoso e altrettanto prezioso volume di V.G. Makarov et al., Ostrakizm po-bol’sevistski. Presledovanija politiceskich opponentov v 1921-1924 gg. [Ostracismo alla bolscevica. Le persecuzioni degli oppositori politici nel 1921-1924], Russkij put’, Moskva 2010. Non può essere dimenticato il piccolo, ma prezioso libro di Michail Glavackij, “Filosofskij parochod”: god 1922-j: istoriografičeskie ėtjudy [La nave dei filosofi], Izdat. Ural’skogo Univ., Ekaterinburg 2002. Interessante fu anche una mostra dedicata alla “nave dei filosofi” (Mosca 22 luglio-7 settembre 2003). Qui ci limiteremo, ovviamente, a cercare di capire il significato di un simile episodio, prendendo in considerazione anche i contributi di storici e filosofi russi odierni. Qualche lettore di fronte alle date di questa ondata repressiva antintellettuale potrà stupirsi ricordando che quello era il periodo della Nuova Politica Economica (NEP), di quella ritirata tattica o battuta d’arresto che Lenin era stato costretto a fare davanti ai disastri che la politica del “comunismo di guerra” – con la pretesa di introdurre immediatamente i criteri comunisti nella realtà economica e sociale russa – aveva prodotto. La riammissione misurata di elementi di libero mercato e iniziativa privata non significava certo una “restaurazione capitalistica” come alcuni comunisti ingenui temevano e non meno ingenui anticomunisti speravano. Si trattava di una forzata e abile concessione temporanea per sanare una situazione economica insostenibile in vista di una più o meno prossima ripresa della marcia verso il comunismo. Come di fatto avvenne. Tutto dipendeva dalle insindacabili decisioni politiche del potere sovietico, ossia del partito comunista, tanto più che quel partito se faceva a proprio vantaggio momentanee concessioni sul piano economico, contemporaneamente rafforzava la propria autorità sul piano politico e ideologico e quindi anche poliziesco, in attesa del balzo in avanti, come, del resto, recenti studi sul periodo della NEP documentano. Ascoltiamo le riflessioni di due studiosi che alla “nave dei filosofi” hanno dedicato analisi interessanti. Il matematico e filosofo Sergej Chorudzij in un articolo del 1990, uno dei primi in Russia sull’argomento – poi ripubblicato nel suo libro Posle pereryva: puti russkoj filosofii: učebnoe posobie, [Dopo la pausa. Le vite della filosofia russa], Izdat. Aletejja, Sankt-Peterburg 1994 – dopo aver collocato l’episodio della “nave dei filosofi” nel contesto delle altre repressioni poliziesche del tempo – contro la Chiesa e, come aveva Vladimir Il’ich. Lenin, Neizvestnye dokumenty. 1891-1922 [Documenti sconosciuti, 18911922], Rosspen, Moskva 1999, p. 545. 10
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documentato Michail Heller già nel 1978 in uno studio pubblicato a Parigi, contro il Comitato di aiuto agli affamati che nel 1921 soccorreva le vittime della carestia – osserva che l’obiettivo del nuovo duro attacco del potere comunista era la società civile, ciò che ne era sopravissuto dopo l’Ottobre e che era caratterizzato non da «spirito di opposizione, ma dall’indipendenza, dal possesso di un proprio sistema di valori che si esprimeva in realtà come ‘opinione pubblica’ e un ‘codice etico sociale’», cosa che il nuovo potere non poteva tollerare. Un luogo comune vuole che in Russia, a differenza che in Occidente, fosse assente una società civile, il che in parte spiegherebbe la piega autoritaria e totalitaria che presero gli eventi rivoluzionari. In realtà nella Russia in via di modernizzazione tra Otto e Novecento cresceva un società civile, più debole, certo, che nei paesi europei avanzati, ma vivace e indipendente, tale da richiedere poi forti e duri sforzi da parte del potere comunista per essere distrutta, come alfine avvenne, trasformando la complessa struttura del popolo russo in una massa livellata e quasi interamente manipolabile. Un altro studioso, Leonid Kogan, in un articolo dal titolo “Vyslat’za granicu bezzalostno”. Novoe ob izgnanii duchovnoj elity [“Deportare all’estero senza pietà”. Novità sulla cacciata dell’élite spirituale], “Voprosy filosofii”, n. 9 1993, definisce la proscrizione del 1922 un atto senza precedenti per il suo carattere pianificato e sistematico che, in un certo senso, decapitava la Russia e costituiva «un elemento essenziale della strategia bolscevica tesa a instaurare il monopolio della concezione del mondo del partito nella società, la sua dittatura anche nella sfera delle coscienze». Non meno pertinente è un’altra osservazione di Kogan che riguarda ciò che dichiarò Trockij il 30 agosto 1922 in una conversazione con Louise Bryant, la compagna di John Reed. Il dirigente bolscevico cercò di far passare l’operazione repressiva della “nave dei filosofi” per una sorta di atto filantropico e umanitario perché, disse, gli «elementi espulsi» erano «politicamente insignificanti», ma costituivano un’«arma potenziale nelle mani dei nostri nemici» e quindi passibili di fucilazione nel caso di un inasprimento della lotta di classe secondo le leggi della guerra. La loro espulsione era quindi un atto di «lungimirante umanità» che Trockij invitava la giornalista progressista a difendere di fronte all’opinione pubblica mondiale. Kogan taccia di «fariseismo e demagogia» queste parole, anche se non si può negare che, se fossero rimasti in patria, quegli esuli forzati sarebbero poi finiti nel Gulag o davanti a un plotone di esecuzione, come avvenne per due straordinari filosofi come Gustav Spet e Pavel Florenskij e per tante altre persone di cultura. Bene ha scritto il poeta Georgij Adamovič, che nel 1923 emigrò in Francia, nel suo Kommentarij [Commento], Russkaja ideja, Moskva 1994, Vol. I, p. 494, ironizzando su chi si diceva deluso per l’assenza di libertà nella Russia sovietica: «La verità si è palesata: della libertà non è rimasto nulla, per nessuno, e assolutamente non perché l’Ottobre abbia smarrito la strada o abbia tradito se stesso, no, al contrario: perché avrebbe tradito se stesso, se la libertà non la avesse annullata». Cruda verità che solo un narcotico ideologico può occultare nei fumi di una illusione che diventa autoinganno o falsità. Per concludere questa importante pagina di storia sovietica e chiarirne il significato profondo, conviene rivolgere l’attenzione su due episodi trascurati finora: nel 1920 esce a Mosca la seconda edizione del libro di Lenin Materialismo e empiriocriticismo edito per la prima volta nel 1909 e allora non preso sul serio come opera filosofica, ma considerato piuttosto un momento della lotta politica e ideologica interna al gruppo bolscevico. Con la nuova edizione del 1920 il libro diventava il testo basilare della filosofia marxista sovietica, un “classico” insindacabile, come, del resto, tutte le opere dei “classici” del marxismo:
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Marx, Engels, Lenin e, poco dopo, Stalin. Inoltre nel marzo 1922 usciva il primo numero della rivista “Pod znamenem marksizma”, il cui titolo Sotto la bandiera del marxismo esprimeva chiaramente il suo carattere di guida della filosofia sovietica. Nel terzo numero Lenin pubblica il suo articolo programmatico O znacenii voinstvujuscego materializma [Sul significato del materialismo militante]. Si trattava di iniziative editoriali di decisiva importanza politica che andavano al di là del campo strettamente filosofico – del resto, come si è visto, la “nave dei filosofi” in realtà trasportava in esilio anche storici, sociologi, letterati, scienziati. In realtà Lenin – la direttiva dell’operazione veniva da lui – iniziava una straordinaria azione di egemonia intellettuale che sarebbe poi stata proseguita da Stalin ed estesa a tutte le sfere culturali – come ad esempio il “realismo socialista”. Sbaglia chi pensa che il potere sovietico, anche nella sua fase staliniana, sia stato una dittatura puramente repressiva in senso poliziesco. In realtà si è trattato di una grandiosa operazione di egemonia ideologica coronata da un lungo successo con la costruzione di quella che si è chiamata “cultura sovietica” – marxista-leninista – e con le sue ramificazioni e variazioni nel mondo, in particolare in alcuni paesi occidentali. “Ripulire la Russia” era la precondizione per iniziare questa costruzione, sbarazzando il terreno da ogni “sporcizia”. Anche in questo si manifesta la genialità politica di Lenin, a prescindere da ogni valutazione etica, una genialità fatta di dinamico pragmatismo tattico e d’ideologica intransigenza strategica, guidata da un supremo criterio rivoluzionario che aveva in Marx il suo “scientifico” – e “sacro” – fondamento, ma che non è improprio definire anche “machiavellica”, nel senso di un “novello Principe” capace di padroneggiare le situazioni più difficili come nelle trattative per la pace di Brest-Litovsk e nella manovra della NEP. Dopo l’apoteosi dei funerali e della “sacralizzazione” – ateo-materialistica – di Lenin11 e la lotta per la successione al potere – una lotta, se si può così dire, di “darwinismo ideopolitico” che vide prevalere il più forte non solo per capacità personali al di là del bene e del male, ma anche per continuità organica con una situazione che, come appare anche da quella che sopra si è vista, era già prefigurata nel senso che poi presero gli eventi – dopo tutto ciò si aprì la fase che Stalin con la schematicità efficace del suo marxismo elementare e del suo leninismo lineare enunciò nel luglio 1932 in una lettera ai fedeli Molotov e Kaganovič: «Il capitalismo non avrebbe potuto battere il feudalesimo, non si sarebbe sviluppato e rafforzato, se non avesse dichiarato il principio della proprietà privata come base della società capitalistica». E prosegue: «Il socialismo non può dare il colpo di grazia e seppellire gli elementi capitalistici, se non dichiara la proprietà sociale sacra e inviolabile»12. Nel Manifesto del partito comunista Marx e Engels avevano dichiarato che «i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata». Il mondo contadino era l’ultima area che andava “ripulita”, abolendo i proprietari, i kulaki: la “collettivizzazione” lo fece. La grande fame – Golodomor – del 1932-33 coi suoi milioni di vittime ne fu un effetto. Poi venne il 1937 e “ripulito” fu il partito stesso con le cruente “purghe” staliniane. La “purezza” – e l’ortodossia – della linea generale del partito
11 Cfr. Vittorio Strada, Il Mausoleo di Lenin, in Id., Lenin, Stalin, Putin. Studi su comunismo e postcomunismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011. 12 Iosif V. Stalin-Lazar M. Kaganovič-Oleg V. Chlevnjuk, Stalin i Kaganovič. Perepiska 19311936 gg. [Stalin-Kaganovič. Carteggio, 1931-1936], Rosspen, Moskva 2001, pp. 240-241.
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erano criteri supremi: il sangue versato a fiumi non lasciava traccia. Senza limitare l’universalità del giudizio morale, la storia va indagata secondo i suoi principii di svolgimento, pena l’incomprensione. Il tribunale di Norimberga ebbe un carattere più politico che giuridico, se si pensa che tra gli accusatori c’erano i rappresentanti di un potere che, da Lenin a Stalin, avrebbe dovuto sedere anch’esso sul banco degli imputati di una sua immaginaria variante, se una grandiosa vittoria militare non avesse dato loro il diritto di occupare un posto tra i giudici. Lo “stalinismo” fu una fase della storia sovietica e comunista, una fase specifica rispondente a una nuova realtà interna ed esterna dell’URSS, e come tale va analizzata, riconoscendogli, assieme ai crimini, il fatto che fu costruito quel surreale sistema sociopolitico e ideoculturale che si chiamò “civiltà sovietica”, con milioni di vittime e una violenza materiale e spirituale inaudita – tra vari altri studi “accademici” ne ha fatto una descrizione vivace Andrej Sinjavskij nel libro Osnovy sovetskoj civilizacii [Le basi della civiltà sovietica], Agraf, Moskva 2001. Quella “civiltà”, che è stata anche una superpotenza imperiale ora finita non senza pesanti sopravvivenze, va analizzata oggettivamente nei suoi meccanismi di formazione, sviluppo e funzionamento, pur senza rinunziare a una condanna morale dei suoi crimini. Tanto più che essa ebbe una incisiva presenza nel mondo e fu attiva non solo nell’URSS, ma nello stesso Occidente europeo con partiti comunisti che, nel dopoguerra, nei paesi liberati dalla oppressione fascista ebbero la fortuna di operare in ordinamenti democratici come forze di opposizione, radicate nei loro terreni nazionali oltre che in quello sovietico. E la grande – per estensione e significato – realtà comunista che, non ancora del tutto estinta, aspetta nuove analisi come parte centrale di quel “secolo della violenza estrema” che ha introdotto nel lessico politico due neologismi che lo caratterizzano: totalitarismo e genocidio.
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Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
Ettore Cinnella
Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica
Che cosa dobbiamo intendere per rivoluzione bolscevica? Il giudizio storico non può prescindere da una preliminare e rigorosa precisazione terminologica e concettuale, specie nei numerosi casi – come quello che trattiamo – in cui si sono sovrapposti più significati del termine, diversi e persino fuorvianti. È infatti largamente diffusa, non solo nella pubblicistica ma anche tra gli studiosi, la credenza che la rivoluzione bolscevica debba identificarsi con la rivoluzione russa, o meglio con il suo momento decisivo e culminante dell’autunno 1917. E tutti, o quasi tutti, ripetono da sempre che fu il partito di Lenin il principale artefice, oltre che il trionfale vincitore, del processo rivoluzionario apertosi nel febbraio-marzo e conclusosi con l’insurrezione d’ottobre e la nascita del governo sovietico. Beninteso, è antica consuetudine distinguere le due fasi della rivoluzione del 1917, quella democratica di febbraio che abbatté il regime zarista e l’altra che, dopo mesi agitati e convulsi, portò i bolscevichi al potere. Ma tanto gli ammiratori della prima, i quali rimpiangono l’occasione mancata dell’avvento della democrazia in Russia, quanto gli apologeti della seconda i quali – oggi meno numerosi – giudicano positiva l’esperienza sovietica, sono concordi nel ravvisare in Lenin il massimo demiurgo della rivoluzione russa. Ma è davvero così? Un celeberrimo storico britannico, autore della monumentale A History of Soviet Russia in 14 volumi (1950-1978), si propose di «scrivere non la storia degli avvenimenti che hanno caratterizzato la rivoluzione – questi sono stati narrati più volte – ma dell’ordinamento politico, sociale ed economico che ne è emerso». Orbene, i primi tre lunghi libri, che volevano avere «carattere di introduzione» al resto dell’opera, s’intitolavano The Bolshevik Revolution, 1917-1923: «Il fine che mi sono proposto in essa non è di dare una narrazione esauriente degli avvenimenti di questo periodo, ma un’analisi di quei fatti che hanno modellato le principali linee dello sviluppo successivo. Per esempio, il lettore non troverà una narrazione esauriente della guerra civile»1. In effetti, bisognerebbe intendere per rivoluzione bolscevica, senza confonderla con la rivoluzione russa, anzitutto l’esito bolscevico del terremoto rivoluzionario del 1917, cioè la presa del potere da parte dei bolscevichi guidati da Lenin. Ma è anche lecito indagare il trionfo del bolscevismo nell’autunno 1917 in una più ampia prospettiva, osservando come il partito comunista abbia plasmato la società russa e creato il sistema sovietico negli anni successivi all’insurrezione d’ottobre. In questo senso possiamo chiamare rivoluzione bolscevica, seguendo le orme di Edward H. Carr, il processo di genesi e formazione del mondo
1
Edward H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923, tr. it., Einaudi, Torino 1964, pp. XI-XII.
Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica
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sovietico. In fondo, ciò non è meno lecito dell’uso del termine “rivoluzione fascista”, usato dai protagonisti della marcia su Roma, per descrivere l’avvento al potere di Mussolini e la successiva edificazione del regime littorio. Nel fare ciò, occorre beninteso individuare con chiarezza sia i tratti peculiari della “rivoluzione” bolscevica, sia i caratteri distintivi della “rivoluzione” fascista, senza lasciarsi incantare dalle versioni offerte dalla pubblicistica comunista e fascista. Erronea e inaccettabile è invece l’identificazione, alla quale anche Carr propende, dell’azione politico-sociale del partito di Lenin con la rivoluzione russa, che fu in realtà un fenomeno storico ben più vasto e complesso e di cui il movimento bolscevico costituì una delle numerose componenti. Di recente, uno storico del fascismo mussoliniano ha sollecitato gli studiosi a porre a confronto l’Ottobre russo (1917) e l’Ottobre italiano (1922): Una storia comparata fra la rivoluzione d’ottobre bolscevica e la rivoluzione d’ottobre fascista non è stata ancora tentata. Sarebbe una storia certamente utile per comprendere le novità del fenomeno rivoluzionario nel ventesimo secolo e la nascita dei primi due regimi totalitari. Ma perché una tale storia comparata possa essere scritta, è necessario che l’una e l’altra rivoluzione siano affrontate con lo stesso spregiudicato atteggiamento mentale, e siano poste su un piano comune di adeguata conoscenza e comprensione della loro specifica individualità e del loro significato storico2.
Debbo dire subito che anche secondo me è compito degli studiosi, fondamentale ancorché arduo, mettere a confronto i regimi totalitari del Novecento con un rigoroso approccio storico-comparativo – come da un po’ si comincia timidamente a fare – e non mediante la nebulosa e fuorviante costruzione di modelli politologici – secondo una moda un tempo in auge. Invece, la comparazione tra le due “rivoluzioni”, la bolscevica e la fascista, mi sembra meno feconda e illuminante per la profonda diversità tra i due episodi storici, accomunati dal fatto che entrambi avvennero nel mese d’ottobre e furono contraddistinti dall’audacia e tempestività dell’azione. Lo studio comparativo dei movimenti e dei regimi totalitari deve trattare la loro genesi storica ed evoluzione, oltre che l’interna struttura, per mostrarne analogie e differenze. Ma, avendo pochissimi tratti comuni, non mette conto tentare un ragguaglio tra l’Ottobre russo e quello italiano, mentre giova soffermarsi sulle poche ma indubbie affinità, oltre che sulle notevoli differenze, tra il ventennio mussoliniano e lo stalinismo. In ogni caso, la comparazione più fruttuosa sotto il profilo euristico e conoscitivo deve incentrarsi sulla Germania nazista e sull’URSS di Stalin, cioè sui due più vistosi fenomeni totalitari del XX secolo. Per ovvie ragioni, non farò neppur cenno della marcia su Roma e del fascismo italiano. Dovrò invece provare a descrivere e definire la rivoluzione bolscevica, collocandola nella storia generale della Russia e del Novecento. Non si tratta d’un compito agevole, a causa degli innumerevoli luoghi comuni in cui essa è ancor oggi avvolta, primo fra tutti la fallace identificazione con la rivoluzione russa. Cercherò quindi d’individuare anzitutto l’ambito cronologico e i tratti fondamentali della rivoluzione russa, chiarendo poi la parte in essa avuta dall’azione del partito di Lenin. Nel far ciò, non potrò che riassumere fuggevolmente i risultati delle mie pluriennali indagini storiche, dedicate al tema ed esposte in numerosi articoli e libri. Emilio Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2012, p. XI. 2
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Ettore Cinnella
La cronologia che a me sembra più atta ad abbracciare il multiforme e complesso fenomeno, chiamato rivoluzione russa, ha molti punti in comune con quella scelta a suo tempo dal giornalista e storico americano William Henry Chamberlin, uno dei più probi conoscitori e narratori delle vicende rivoluzionarie, ingiustamente caduto nell’oblio3. La sua trattazione degli eventi – dal febbraio-marzo 1917 alla primavera 1921, con alcuni capitoli introduttivi sul movimento rivoluzionario ottocentesco e sul 1905 – pare più sensata e accettabile di altre, che s’incentrano sul 1917 oppure coprono un arco temporale troppo esteso e indefinito. La rivoluzione russa fu bensì un processo lungo e complesso, ma ebbe un inizio e una fine, s’articolò in diverse fasi e vide la partecipazione di numerosi protagonisti politici e sociali. Bisogna dunque ricostruire nei dettagli tale processo, seguendone i diversi momenti e ridando un volto a tutti i suoi attori, non solo ai principali, perché anche quelli trattati dagli storici come figuranti svolsero in realtà un ruolo importante. Tralasciando le turbolenze politiche e sociali, che accompagnarono la storia della Russia dopo l’abolizione della servitù della gleba (1861), la crisi esplose nel 1905 – che dobbiamo quindi considerare l’anno iniziale della rivoluzione – dando origine ad una delle più grandiose epopee rivoluzionarie della storia moderna e contemporanea. Iniziatasi nel gennaio 1905, con la “domenica di sangue”, la prima rivoluzione russa – chiamiamola così – fu un inestricabile intreccio di rivoluzione liberale, ardite azioni di gruppi sovversivi e furiose lotte sociali, che squassarono l’immenso impero zarista ed ebbero una vasta eco nell’Europa occidentale. Il 1905 non fu quella “prova generale” del 1917, immortalata dalla pubblicistica bolscevica e dalla storiografia sovietica e pedissequamente accolta in non poche ricostruzioni generali della Russia novecentesca. A parte il ruolo secondario svolto dal nascente bolscevismo, che non aveva legami con il mondo contadino, nel 1905 fu decisiva l’azione del partito dei socialisti rivoluzionari (PSR) ed ebbe una parte notevole il movimento liberale, tanto che, per una precisa fase della rivoluzione, è lecito parlare di egemonia liberale. Inoltre, l’intellighenzia democratica s’impegnò allora nella prodigiosa e difficile impresa di gettare un ponte tra le due Russie, fino allora separate, ossia tra i ceti colti occidentalizzanti e le arcaiche masse plebee. La prima rivoluzione russa divampò con alti e bassi fino alla primavera del 1907, quando parve spegnersi e acquetarsi. Ma il fuoco che covava sotto le ceneri illuminò di nuovo, nel febbraio-marzo 1917, gl’immensi spazi dell’impero zarista. Da allora, per quasi quattro anni e mezzo, i minacciosi boati del terremoto rivoluzionario non cessarono più finché, nell’estate 1921, calò il sipario sulla rivoluzione e un silenzio di tomba e di morte scese sulla Russia. Dapprima, nel corso del 1917 e fino all’inizio del 1918, i bolscevichi sembrarono nuotare come pesci nell’impetuoso fiume della rivoluzione. Poi essi dovettero costruire possenti argini per fermare il fiume in piena, che proseguiva il suo corso e minacciava di travolgerli. L’aspetto più marcato e vistoso – ancorché non il solo – della rivoluzione russa fu il suo carattere plebeo. Lo storico cecoslovacco Michal Reiman, generoso protagonista della primavera di Praga, ebbe il merito di ribadirlo in un chiaro e vigoroso articolo apparso nel settimanale culturale del PCI, che gli valse la perdita della cittadinanza nel suo paese4.
3 William Henry Chamberlin, Storia della rivoluzione russa, 2 voll., tr. it., Einaudi, Torino 1943 (e successive edizioni). Negli USA l’opera uscì nel 1935. 4 Michal Reiman, Gli ostacoli che il programma bolscevico non poté superare, “Rinascita”, 24 giugno 1977. L’articolo fu poi ristampato in tedesco, con il titolo Das Jahr 1917 im Kontext der Ge-
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Già nel corso della prima epopea rivoluzionaria, quella del 1905-1907, tale tratto plebeo emerse in modo forte e netto. I «disordini agrari» – com’erano chiamate nei rapporti di polizia le proteste e le rivolte contadine – assunsero in molte località, specie nella regione della Volga e nelle “terre nere”, un carattere violento e distruttivo, simile alle terribili jacqueries dei secoli precedenti. Tuttavia, per la prima volta nella storia russa la spontanea e selvaggia protesta degli abitanti delle campagne trovò uno sbocco politico, grazie all’impegno del PSR, erede della tradizione populistica, il quale riuscì a portare il suo verbo nel chiuso mondo rurale e contribuì alla nascita di alcune grandi organizzazioni di massa. La più famosa di queste, l’Unione contadina panrussa, a ragione fu vista da Lenin come un embrionale partito contadino. Anche i trudovichi (trudoviki), i deputati eletti dai contadini alla prima (1906) e alla seconda (1907) Duma, il parlamento sorto in seguito al manifesto costituzionale del 17-30 ottobre 1905, subirono l’influenza ideale dei socialisti rivoluzionari, pur restando un gruppo politico da loro distinto. La prima rivoluzione russa, come ho già detto, non fu il prologo o la “prova generale” del 1917, secondo la formula della pubblicistica bolscevica e della storiografia sovietica. Molteplici – e autonome l’una dall’altra – furono le forze motrici dell’epopea rivoluzionaria del 1905-1907, dagli scioperi operai alle insurrezioni contadine, dal militante impegno dell’intellighenzia liberale all’azione dei partiti radicali, dalla rivolta delle nazionalità non russe agli ammutinamenti di marinai e soldati. Le ripercussioni della rivoluzione valicarono i confini del vasto impero zarista, influendo sulle vicende dei vasti Stati del continente asiatico – Persia, impero ottomano, Cina. Meglio noti sono gli echi che la prima rivoluzione russa suscitò nel movimento socialista e sindacale e nell’opinione pubblica dell’Europa occidentale: basti pensare al dibattito sullo sciopero politico generale, sviluppatosi nella sinistra europea, o all’interesse mostrato da Max Weber, il quale imparò il russo per seguire gli straordinari eventi che accadevano nell’impero zarista. Quella rivoluzione fu insieme liberale e plebea, politica e sociale, campo d’azione delle forze più radicali e terreno propizio al fiorire d’esperimenti e progetti costituzionali. Tutti gli strati della società russa, dai ceti colti e professionali alle classi più umili, ebbero modo di far sentire la propria voce e di manifestare apertamente le proprie aspirazioni. Una società fino ad allora incatenata e imbavagliata gettò via, all’improvviso, lacci e bavagli e rivendicò ad alta voce i propri diritti. Placatosi – non senza lasciar segni nella società e nel sistema politico – il gigantesco terremoto del 1905-1907, continuarono nondimeno le scosse d’assestamento fino al 1917, quando in Russia la terra riprese a tremare in modo ben più cupo e pauroso. Se gli eventi della rivoluzione di febbraio sembrarono avere una qualche somiglianza con i fatti rivoluzionari del 1905, nei mesi successivi gli avvenimenti presero un ben diverso corso, portando in autunno alla vittoria bolscevica, ma non già alla fine della rivoluzione. La principale difficoltà nello studio delle vicende e dei protagonisti del 1917 è proprio la tentazione di vedervi una grande affinità, sia pure in un nuovo contesto, con gli attori e gli eventi del 1905. Cosa, infatti, può esserci di nuovo nell’atteggiamento di uomini, partiti e classi che avevano già fatto il loro ingresso sulla scena della storia, svelando con chiarezza i loro intenti e le loro aspirazioni? Eppure, si commetterebbe un grave errore, peraltro assai diffuso, se ci si limitasse all’osservazione delle analogie esteriori e non si cogliesse la radicale novità della rivoluzione del 1917 rispetto all’altra del 1905. schichte Rußlands und der UdSSR, in Id., Lenin, Stalin, Gorbačev. Kontinuität und Brüche in der sowjetischen Geschichte, Junius, Hamburg 1987, pp. 13-19.
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Le differenze sono talmente grandi, sotto ogni profilo, che io sono quasi titubante a chiamare “russa” la rivoluzione del 1917. Non è tuttavia ragionevole sconvolgere senza costrutto l’antica e sacra tradizione, che così etichetta il cataclisma politico-sociale conclusosi con la vittoria dei bolscevichi. E, dunque, mi attengo anch’io alla consolidata terminologia. Conviene però far chiarezza sulle formule e sulle denominazioni, anche le più antiche e venerande, per stabilire a che cosa esse si riferiscono e cosa vogliono significare. Io ho provato a farlo nelle mie opere, che vogliono offrire un’interpretazione della rivoluzione alquanto diversa da quelle in voga. In che senso il sommovimento del 1917 non fu una rivoluzione “russa” o, per meglio dire, lo fu solo in parte? Qualcuno potrebbe obiettare che, se proprio non vogliamo considerarla in tutto e per tutto russa, dovremmo allora – com’è, del resto, consuetudine – chiamarla bolscevica, perché fu contraddistinta dal ruolo demiurgico del partito di Lenin, il quale diresse e incanalò l’impetuoso magma rivoluzionario verso un preciso sbocco politico. Una siffatta visione interpretativa, in verità, semplifica e impoverisce oltremodo il gigantesco e multiforme processo rivoluzionario, del quale il bolscevismo non fu che una delle componenti. Bisogna semmai spiegare perché il partito di Lenin abbia alla fine trionfato, in maniera per molti inattesa, e come sia poi riuscito nella mirabolante impresa di restare al potere. Oltretutto, a mio modo di vedere, il bolscevismo del 1917 era un po’ meno “russo” che nel 1905; e lo stesso Lenin era per molti versi mutato rispetto a qualche anno prima. Perché quanto detto fin qui non paia un’astrusa elucubrazione nominalistica, espongo subito la mia tesi principale. Alla vigilia del 1917, l’impero russo era un immenso vulcano in procinto di esplodere, perché non era stato risolto nessuno dei problemi politici e dei drammi sociali che avevano generato il sommovimento del 1905. In tal senso, v’è un’indubbia continuità e analogia tra l’una e l’altra rivoluzione, entrambe le quali debbono esser considerate russe di nome e di fatto. Ma qui cessano le affinità e sorge il primo arduo problema interpretativo. I due eventi ebbero luogo a distanza d’una decina d’anni, durante i quali molte cose cambiarono nell’atteggiamento e nella coscienza di uomini, partiti e classi. Ciò è naturale e quasi ovvio, gl’individui e le società essendo in perenne divenire, specie nel mondo contemporaneo, caratterizzato da una forte accelerazione dei mutamenti economici, sociali e politici. Non dobbiamo quindi stupirci se scopriamo nel 1917 idee, progetti, azioni e fatti nuovi. Ma non è questo il grande cambiamento, al quale accennavo e che non può esser visto come il mero frutto della decennale evoluzione storica della Russia. La vera e sconvolgente novità della rivoluzione del 1917 è l’estenuante e sanguinoso conflitto bellico, in cui l’impero zarista era coinvolto da quasi tre anni. Ma quella spaventosa guerra si combatteva dappertutto e incideva, in maggiore o minor misura, sulla vita interna di tutti i paesi belligeranti. La prima guerra mondiale non fu un evento specificamente russo, ma s’abbatté sulla Russia ingigantendo e acuendo i mali di cui essa soffriva. Ciò è vero, beninteso, anche per gli altri paesi, i quali subirono tutti profonde trasformazioni economiche, sociali e antropologiche durante e dopo la guerra. Ma l’immane conflitto bellico ebbe, in Russia, ripercussioni ancor più dirompenti e tragiche, perché venne ad intrecciarsi con i cronici mali interni e con gli esplosivi problemi d’un impero bacato e anacronistico. Quando si studia il terremoto rivoluzionario del 1917, bisogna saper distinguere nei soggetti politici e nei movimenti sociali, al di là delle apparenze, i caratteri tipicamente russi dalle novità generate dalla guerra.
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Anche la svolta estremistica di Lenin e del bolscevismo nel 1917 fu per molti versi l’effetto, forse il più vistoso e selvaggio, della mutazione del movimento operaio e socialista in Europa, provocata dalla guerra. Lo capì assai bene il menscevico Martov il quale, terminato l’immane conflitto, coniò il termine «bolscevismo mondiale» per designare i cambiamenti intervenuti, per effetto della guerra, nella psicologia dei lavoratori di tutti i paesi belligeranti. Il pensatore socialista osservò come i lunghi anni trascorsi, nelle trincee e sui campi di battaglia, a seminare morte e distruzioni, avessero mutato profondamente la psicologia dei lavoratori. In primo luogo, la guerra aveva generato in loro «l’assenza di un serio interesse per le necessità della produzione sociale, la prevalenza – come tra i soldati – del punto di vista del consumatore su quello del produttore». Di conseguenza, si era rafforzato il «massimalismo», cioè «il desiderio di ottenere risultati immediati massimi nella realizzazione di miglioramenti sociali, trascurando le condizioni oggettive». Di pari passo era invalsa «la propensione a risolvere tutti i problemi della lotta politica, della lotta per il potere, con l’uso immediato della forza armata, perfino nei rapporti tra le singole parti del proletariato». Il primitivo «comunismo del consumatore», col suo «disprezzo per l’esigenza di sostenere e assicurare lo sviluppo delle forze produttive», segnava «un enorme passo indietro nello sviluppo sociale del proletariato, nel processo della sua trasformazione in classe capace di dirigere la società». Da convinto socialista, Martov aggiungeva che la responsabilità primaria del processo di degenerazione del proletariato europeo ricadeva sulle classi dirigenti, le quali «hanno distrutto le forze produttive, hanno annientato la ricchezza sociale accumulata, hanno risolto tutti i problemi di sostentamento della vita economica col metodo primitivo del ‘saccheggio del saccheggiato’, cioè con requisizioni, contributi, confische, lavori forzati a carico dei vinti». L’illusione, nutrita dalle masse operaie, che fosse possibile «migliorare radicalmente la propria posizione senza tenere conto della perdurante distruzione delle forze produttive» era in fondo il riflesso d’un analogo atteggiamento delle classi dominanti: Distruggendo nel modo più folle le forze produttive, sprecando la ricchezza accumulata e strappando per anni dal lavoro produttivo i lavoratori migliori, le classi capitalistiche si consolavano con l’idea che questa temporanea distruzione della ricchezza nazionale e delle sue fonti avrebbe portato – in caso di vittoria – a una fioritura tale dell’economia nazionale – grazie alla conquista dell’egemonia mondiale, ad annessioni, ecc. – che avrebbe compensato al centuplo quei sacrifici5.
La ferina esperienza dell’interminabile conflitto, la volontà sopraffattrice tipica degli uomini in arme, l’abitudine a produrre ordigni di distruzione e di morte, la mentalità primitiva e massimalistica, erano insieme manifestazioni e cause della mutazione genetica di un movimento, quello operaio e sindacale, che in passato aveva insegnato ai suoi militanti le virtù del lavoro organizzativo, della lotta programmata e della ragionevolezza nelle azioni rivendicative. Lo storico George L. Mosse indicò nella «brutalizzazione della vita» uno dei maggiori cambiamenti antropologici, indotti dalla lunga e disumana esperienza della prima guerra mondiale. Il bolscevismo del 1917 fu per l’appunto, per certi versi, l’espressione politica e programmatica degli umori selvaggi di masse popolari esasperate e incattivite. Julij Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, tr. it., Introduzione di Vittorio Strada, Einaudi, Torino 1980, pp. 6-7 e 13-15. 5
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Al partito di Lenin non fu difficile impadronirsi del potere a Pietrogrado quando da un capo all’altro del paese la furia del movimento plebeo, al fronte e nelle retrovie, pareva sommergere tutto. Soffiando sul fuoco della guerra in corso tra operai e padroni, tra contadini e proprietari, tra soldati e ufficiali, i bolscevichi si fecero interpreti della rabbia popolare, convinti d’aver dalla loro parte la grande maggioranza delle masse lavoratrici. Ma non si trattava che d’una apparente coincidenza d’interessi. Una volta al potere, Lenin e i suoi compagni d’arme non seppero risolvere nessuno dei problemi che tormentavano la Russia: il loro programma dottrinario e la loro mentalità settaria mal s’adattavano alla realtà sociale del paese. Solo in un campo i bolscevichi, per merito precipuo di Lenin, ebbero un grande e provvidenziale successo: il varo della “socializzazione della terra”, la riforma agraria attuata nei primi mesi del 1918. Quel trionfo, in verità, si spiega con il fatto che Lenin, gettando alle ortiche l’astruso programma bolscevico, fece sue le richieste da sempre sbandierate dal movimento populistico. E d’ispirazione populistica era il partito dei socialisti rivoluzionari di sinistra il quale, collaborando con i bolscevichi e impegnandosi nell’attuazione della legge agraria, contribuì in maniera determinante al consolidamento e alla popolarità del nuovo governo sovietico. L’alleanza non fu però di lunga durata: aggravandosi la crisi annonaria, il partito comunista obbedì nuovamente al richiamo della foresta della sua dottrina sociale – che immaginava i contadini scissi in classi sociali antagonistiche – e dichiarò guerra alla “borghesia rurale”, cioè ai kulaki – secondo la cervellotica terminologia bolscevica – illudendosi di trovar sostegno nei poveri delle campagne. Ma i contadini in carne e ossa s’opposero con tutte le loro forze ai commissari bolscevichi, che si recavano nei villaggi a requisire i prodotti agricoli. La lotta, insieme donchisciottesca e trucida, contro gl’inesistenti kulaki ruppe per sempre la magica, e breve, atmosfera di consenso, che il partito di Lenin sembrava aver creato nelle campagne. Ebbe allora inizio una sanguinosa guerra tra mondo rurale e Stato comunista, che vide una prima vittoria dei contadini nel 1921 e terminò, cessata la tregua della “nuova politica economica” (NEP), con la barbara e cruenta collettivizzazione delle campagne all’inizio degli anni Trenta. Rimanendo insoddisfatte le attese popolari e incrudelendo la dittatura comunista, la rivoluzione continuò il suo corso anche dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi. Momenti della rivoluzione furono, oltre alle rivolte contadine, le proteste operaie esplose già nella primavera-estate 1918 e la formazione di governi liberalsocialisti nella regione della Volga e in Siberia nell’estate e nell’autunno di quello stesso anno. La rivoluzione russa ebbe termine soltanto nella primavera-estate del 1921, allorché il governo di Lenin riuscì a soffocare nel sangue il poderoso movimento di protesta che esplodeva in tutto il paese. Le date, si sa, spesso sono convenzionali ed hanno un valore simbolico. Ma, se proprio volessimo sceglierne una a suggellare la fine della rivoluzione russa, dovremmo a mio avviso indicare il 19 luglio 1921, quando furono revocate – perché ormai inutili – le crudelissime ordinanze grazie alle quali, mettendo a ferro e fuoco i villaggi ribelli e procedendo a fucilazioni sommarie, il generale bolscevico Tuchačevskij ebbe ragione della fiera opposizione dei contadini della provincia di Tambov. I marinai e gli operai di Kronstadt e i contadini di Tambov, che chiedevano libertà politica e migliori condizioni di vita, non facevano che ripetere le parole d’ordine echeggiate nel 1905 e nel 1917. Questa volta, però, l’onda della protesta popolare andò a infrangersi contro una tirannide, quella comunista, assai più brutale ed efferata dello zarismo. Il partito di Lenin, che fino all’inizio del 1918 era
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stato parte del movimento rivoluzionario, s’era ormai mutato in un feroce armamentario d’oppressione e di reazione. Torniamo adesso all’ottobre 1917 e alla conquista del potere da parte dei bolscevichi. Quell’evento, che tutti conoscono e chiamano rivoluzione bolscevica, fu in primo luogo un fatto politico, sia pure d’incalcolabile portata. Ma, oltre al ben noto rivolgimento politico guidato da Lenin, ci fu anche una rivoluzione sociale bolscevica, più difficile da studiare e definire. Non mi riferisco solo al fatto che, se conosciamo fin nei dettagli i “dieci giorni che sconvolsero il mondo” e l’assalto al palazzo d’Inverno, cioè la vittoriosa insurrezione di Pietrogrado, siamo meno informati sugli eventi dell’ottobre-novembre 1917 nelle altre città, dove i seguaci di Lenin faticarono ad imporsi. Ancor meno note sono le radici sociali del bolscevismo. Ho già detto che non bisogna confondere la rivoluzione bolscevica con il più ampio fenomeno della rivoluzione russa. Bisognerebbe altresì evitare di ridurre la rivoluzione bolscevica all’insurrezione d’ottobre, vista per giunta come un abile e spregiudicato colpo di Stato. È un errore, tanto generoso quanto ingenuo, che molti seguitano a commettere. In realtà, nell’autunno 1917 Lenin si rivelò un politico abile e geniale non perché seppe organizzare al momento opportuno e nel modo migliore l’insurrezione armata a Pietrogrado; anzi, la sua isteria insurrezionalistica avrebbe portato i bolscevichi alla disfatta senza il sagace e decisivo contributo di Trockij, il quale fu il vero artefice della vittoria. Il capolavoro politico del fondatore del bolscevismo consisté nel cogliere con lucidità, prima e più di tutti gli altri protagonisti della rivoluzione, la natura e l’ampiezza della furiosa jacquerie contadina allora in corso. Che cosa fu la rivoluzione sociale bolscevica? Essa coincise, per alcuni aspetti, con la rivoluzione plebea, nel senso che il partito di Lenin si fece portavoce delle istanze radicali e primitive degli strati più umili della società. Con l’afflusso di numerosi militanti plebei – soprattutto operai meno qualificati e soldati – sotto le bandiere del bolscevismo, il partito di rivoluzionari di professione fondato da Lenin subì anche sul piano sociale una profonda metamorfosi nel corso del 1917 e dopo la rivoluzione d’ottobre. I bolscevichi continuarono ad avere scarsi legami con le campagne, che simpatizzarono prima per i socialisti rivoluzionari (PSR) e poi per i socialisti rivoluzionari di sinistra (PLSR). Tuttavia, grazie al decreto sulla terra e al tempestivo – e temporaneo, occorre subito aggiungere – abbandono del vecchio dottrinarismo, il cui merito spettò a Lenin, il partito bolscevico riuscì a consolidare il potere conquistato con l’insurrezione a Pietrogrado. In tal modo, sia pure per pochissimi mesi, il bolscevismo si fece interprete dei bisogni e delle aspirazioni fondamentali della rivoluzione plebea contadina. Bisogna precisare – molti storici sembrano non essersene ancora avveduti – che furono i socialisti rivoluzionari di sinistra, entrati nel neonato governo sovietico, a salvare la rivoluzione bolscevica e a permettere la sopravvivenza del nuovo regime. Ma fu indubbia, e si rivelò provvidenziale, la bravura di Lenin nel rinunciare – ancorché temporaneamente – alle viete posizioni ideologiche del marxismo russo, il cui maggior limite stava nell’incomprensione della vera natura dei rapporti sociali nelle campagne. La rivoluzione plebea fu il vasto sfondo sociale, che rese possibile sia la vittoria bolscevica nell’autunno 1917 sia il successivo esperimento sovietico. Si capisce ben poco dell’edificazione e della natura del sistema sovietico, se non si tengono presenti le sue radici sociali. La rivoluzione plebea fu una delle due forze fondamentali che plasmarono l’intera storia sovietica. L’altra fu il bolscevismo il quale, vorrei ripeterlo, sembrò per qualche mese e per taluni aspetti coincidere con la prima, ma che in realtà se ne differenziava profonda-
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mente, specie sul piano ideologico e politico. Cos’è il bolscevismo? Non è semplice definire un fenomeno storico che, malgrado la vasta mole della letteratura sull’argomento, resta ancora un oggetto per molti versi misterioso. Qui basti osservare come già il “leninismo” fino al 1917, ossia il più antico strato del bolscevismo, ad un’attenta analisi risulti formato da molteplici e contraddittorie componenti: il cosiddetto “marxismo russo”, la dottrina della Seconda Internazionale, la tradizione elitaria e cospirativa del populismo giacobineggiante, l’esperienza del 1905, la fede nella creatività rivoluzionaria delle masse, il violento ripudio del socialismo europeo, il mito dei soviet, per ricordarne solo le principali. Dall’ottobre 1917 alla morte di Lenin, il bolscevismo subì un’ulteriore profonda metamorfosi, sia ideologico-politica che sociale. Poi venne la fase staliniana dell’esperimento bolscevico, segnata da una netta impronta plebea e dal vistoso carattere totalitario. Quando, dopo la morte di Stalin, il regime totalitario decadde nell’URSS, il bolscevismo conobbe una nuova stagione con Chruščëv, il personaggio che, nella storia dell’URSS, forse più di tutti impersonò sia l’ideologia bolscevica sia i tratti plebei del sistema sovietico. Persino durante il plumbeo regno di Brežnev, quando pareva non fosse rimasto più nulla della dottrina bolscevica – esaltata nei discorsi ufficiali, ma lontanissima dal paese reale – qualcuno credeva o sperava ancora nel “crollo del capitalismo”. Soltanto all’epoca di Gorbačëv, all’interno dell’URSS, nel comunismo bolscevico non credeva più nessuno, neppure il Segretario Generale del PCUS. La commistione e l’interazione di bolscevismo e rivoluzione plebea plasmarono l’intera storia dell’URSS, dando vita alla società sovietica e al comunismo novecentesco. La spinta dinamica della rivoluzione plebea fu talmente possente da portare, negli anni ’30, alla nascita del primo Stato plebeo della storia umana, uno Stato governato da elementi provenienti dagli strati più umili delle classi popolari. Tale carattere lo Stato sovietico lo mantenne fin quasi alla sua dissoluzione, cioè fino all’avvento di Gorbačëv: a partire dagli anni ’30, infatti, i posti di comando nel partito e nello Stato furono occupati da personaggi d’estrazione popolare. La grande spinta plebea dell’autunno 1917, combinandosi con l’azione politica del partito bolscevico, fu anche all’origine del totalitarismo sovietico. Il risultato fu la nascita d’una società dai tratti peculiarissimi, contraddistinta dalla singolare commistione di modernità e arcaismo. È risaputo che la società sovietica conobbe un processo di rapidissima e spettacolare industrializzazione, accompagnato dalla folgorante ascesa dei ceti più umili alle massime cariche governative e partitiche. Ma la cosiddetta “promozione sociale” (vydviženie) fu anche segnata dal ritorno della servitù della gleba, abolita nel 1861, ripristinata di fatto con la collettivizzazione, e dall’introduzione del lavoro schiavistico – da tempo ignoto al mondo occidentale – fiorito per oltre un ventennio nel vasto arcipelago Gulag. Sia l’una che l’altro risultarono essenziali per l’edificazione del sistema industriale sovietico, e vennero aboliti soltanto dopo la morte di Stalin: la schiavitù decadde durante la “primavera di Berija” – come dovremmo chiamare le audaci riforme seguite alla scomparsa del tiranno – mentre la servitù della gleba tramontò sotto il regno di Brežnev. Le radici del totalitarismo sovietico vanno cercate, oltre che nel predominio del partito unico e nel selvaggio terrore poliziesco, nella nascita d’una società inedita, a prima vista ultramoderna ma per molti versi arcaica e premoderna. Del resto, tutti i regimi totalitari del XX secolo presentano tratti vistosamente arcaici accanto ad aspetti moderni, persino ultramoderni. Al di là delle apparenze e delle mitologie, il comunismo bolscevico si rivelò una gigantesca reazione, nel senso letterale dell’espressione, perché bloccò una serie di processi mo-
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dernizzanti in atto nella società russa tra Otto e Novecento. Nei suoi studi sullo sviluppo economico russo nell’età moderna e contemporanea, Alexander Gerschenkron elaborò un complessivo e interessante modello interpretativo, per mostrare come soltanto il «grande slancio» (big spurt) di fine Ottocento fosse riuscito a mutare i caratteri generali dello sviluppo economico dell’impero zarista, contraddistinto in precedenza da periodici e massicci interventi statali, che modernizzavano il paese per fini strategico-militari lasciando pressoché inalterata la struttura della società. In effetti, fu negli ultimi decenni dell’Ottocento che la Russia cominciò ad avvicinarsi ai paesi più progrediti dell’Europa occidentale sia sul piano economico che sotto il profilo culturale e giuridico. Persino il vieto e anacronistico regime autocratico subì un primo colpo, con la rivoluzione del 1905, e fu costretto a fare concessioni di carattere politico-costituzionale. Non bisogna certo sopravvalutare il livello di occidentalizzazione economica, giuridica e sociale della Russia all’inizio del Novecento. I risultati maggiori si ebbero nella cultura e nelle scienze, dove gli studiosi e i ricercatori russi raggiunsero vette stupefacenti, competendo degnamente con i loro colleghi europei. Per altri aspetti, invece, l’impero zarista restava un paese assai più arretrato degli Stati Uniti e delle nazioni progredite dell’Europa occidentale. La rivoluzione bolscevica, in ogni caso, ebbe l’effetto di annientare i germi di civiltà moderna attecchiti in Russia nei decenni precedenti, impedendone la lenta e difficile maturazione. Il maggiore e più duraturo risultato storico della rivoluzione bolscevica fu l’imbalsamazione e la perpetuazione del mummificato impero zarista il quale, nel 1917, si stava decomponendo. Fu un autentico miracolo storico, che solo i comunisti erano in grado di compiere, grazie alla loro incrollabile e ferocissima determinazione. A questo proposito, vorrei qui citare le ironiche osservazioni fantastoriche d’uno studioso della politica estera sovietica le quali, pur concernenti il partito francese, ben si confanno alla mentalità sciovinistica dei bolscevichi russi e di tutti i comunisti al potere: Una Francia comunista avrebbe tenacemente conservato il proprio impero, e avrebbe così risparmiato agli Stati Uniti tutte le sue difficoltà e i suoi problemi nel Vietnam e nell’Africa settentrionale. La necessità di realizzare la ‘via francese al socialismo’ avrebbe indotto Thorez e i suoi successori a entrare in un violento conflitto con Mosca; essi non avrebbero potuto, in queste condizioni, essere così ostili e sgradevoli agli americani come lo è oggi de Gaulle. Certo, si sarebbe dovuto pagare un prezzo per tutto questo: Picasso avrebbe dovuto dipingere grandi tele ispirate al ‘realismo socialista’, Françoise Sagan e Simone de Beauvoir non avrebbero potuto scrivere i loro libri, il livello della cucina francese ne avrebbe sofferto…6
Il prezzo pagato per la conservazione dell’anacronistico impero zarista fu assai più alto e sanguinoso. Orripilanti furono le gesta compiute dai comunisti russi: dalla sanguinosa collettivizzazione delle campagne alla distruzione dell’agricoltura, dalla creazione d’una mastodontica industria di Stato all’edificazione d’una società d’antico regime sotto il giogo d’una casta privilegiata, dalla costruzione d’un onnipotente Stato di polizia al soffocamento d’ogni forma di pensiero libero. La loro opera politica, malgrado le altisonanti parole d’ordine modernizzatrici, fu una gigantesca reazione, che ricacciò il paese Adam Ulam, Storia della politica estera sovietica (1917-1967), tr. it., Rizzoli, Milano 1970, pp. 654-655. 6
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indietro di secoli e recise per sempre l’esile filo che legava la Russia alla civiltà europea. Falliti i mostruosi tentativi d’ingegneria economica e sociale, il regime s’afflosciò come un castello di cartapesta. Ma la terribile eredità del settantennio bolscevico continua a pesare sulla Russia postcomunista la quale, incapace di risolvere i suoi drammatici problemi interni, è incline ad aggrapparsi a quegli aspetti del passato comunista che, più di tutti gli altri, possono consolare i suoi abitanti immiseriti e frustrati. Si spiega così l’enorme popolarità di cui gode l’odierno signore del Cremlino il quale, con la sua tonitruante e aggressiva politica estera, alimenta i furori patriottardi d’una popolazione afflitta da invereconde diseguaglianze economiche e versante in condizioni di vita indegne d’un paese civile. Il giornalista tedesco Christian Neef, profondo conoscitore dell’odierna realtà russa, ha scritto: Il patriottismo, che ha investito il paese, offre anche ai più umiliati russi della provincia, privi di diritti, un sentimento di superiorità sulle persone che vivono in paesi di gran lunga più democratici e opulenti. Essi si rallegrano quando Putin fa di nuovo volare sull’Atlantico bombardieri a lungo raggio, manda ogni settimana decine di migliaia di soldati in “manovre fuori programma” e parla giorno dopo giorno di “armi miracolose”; e quando l’Occidente ha di nuovo paura della Russia7.
D’un altro effetto di lungo periodo della rivoluzione bolscevica occorre far cenno in queste considerazioni sul fenomeno storico che, forse, più di tutti ha plasmato il XX secolo. La profonda e insanabile lacerazione del socialismo europeo e mondiale, dopo il 1917, fu la diretta conseguenza della guerra dichiarata dai comunisti russi al vecchio mondo e alle correnti maggioritarie del socialismo occidentale, ree di non aver impedito la guerra e di collaborare con la borghesia. Certo, anche prima del 1917 in seno al movimento operaio e sindacale esistevano dissidi e contrasti, anche violenti. Ma la creazione dell’Internazionale comunista (Komintern) e la nascita di partiti legati a Mosca segnò l’inizio d’una frattura, destinata a durare in pratica fin quasi alla dissoluzione dell’URSS. Quale fosse la materia del contendere, l’apprendiamo – per citare un testo fra tanti – dalle pacate e chiare parole con cui, intervenendo al Congresso di Tours nel dicembre 1920, il dirigente socialista Marcel Sembat, che era stato vicino a Jean Jaurès, perorò la causa dell’unità del partito contro l’ala estrema, desiderosa d’imitare l’azione dei bolscevichi russi e pronta a dar vita al partito comunista: Je comprends très bien que vous tournez les yeux vers un pôle et nous vers un autre. Le mieux est de les comparer. Je comprends très bien, je le repète, l’élan, l’enthousiasme qui – vous me méconnaîtriez singulièrement si vous croyiez trouver dans mes paroles une trace d’ironie – vous entraînent vers Moscou. Comment en serait-it autrement? […] Voici aujoud’hui que dans un grand pays, nous voyons tout à coup se dresser en maître le socialisme révolutionnaire. Comment s’étonner qu’un tel événement déchaîne l’enthousiasme? Vraiment, quel socialiste pourrait rester indifférent devant un tel fait? Je comprends donc très bien que ce pôle – Moscou – vous attire! Mais en face de Moscou il y en a un autre, qui est certainement moins brilliant, moins attirant, mais qui, tout de même nous attire, mes amis et moi: c’est l’Angleterre, c’est Londres! Je veux parler du movement ouvrier tel que vous l’avez vu organisé et agissant tout récemment en Angleterre. Nous ne sommes pas les seuls à
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“Der Spiegel”, 28 marzo 2015, p. 105.
Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica
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le trouver admirable. […] En France, étant donnés notre état économique et notre état moral, nous sommes plus proches du mouvement anglais et plus capables de l’imiter que nous sommes capables d’imiter le mouvement russe8.
Tralasciando l’importante e complesso problema dell’influenza del bolscevismo sull’Oriente e sull’Asia e dei rapporti tra Mosca e il comunismo cinese, vorrei adesso accennare rapidamente alla questione, che qui c’interessa più da vicino, dell’impatto della rivoluzione bolscevica in Occidente. Se esso si fece sentire dappertutto in Europa, in misura maggiore o minore, vi fu un paese il cui destino storico dopo il 1917 fu legato proprio alle vicende e alle sorti della Russia sovietica. Ancor più che in Germania, dove pure sorse e agì per un quindicennio un forte partito comunista, e in Francia, dove ebbe un grande peso l’azione del PCF, l’intera storia dell’Italia novecentesca fu scandita e determinata dagli eventi russi. La mutazione genetica del socialismo italiano, ancor prima della nascita del piccolo e settario partito comunista, influì enormemente sul corso delle lotte sociali e politiche del dopoguerra fino a favorire, in maniera determinante, l’avvento al potere di Mussolini. Se proprio si vuol comparare l’Ottobre bolscevico alla marcia su Roma, bisogna precisare che l’esito di quest’ultima fu dovuta proprio ai fatti russi dell’autunno 1917. Non perché il fascismo debba considerarsi la conseguenza o l’imitazione del bolscevismo, ché anzi il movimento fondato e guidato da Mussolini aveva forti e intricate radici nazionali e fu un fenomeno storico troppo complesso e camaleontico per esser ricondotto ad una sola scaturigine. È vero invece che l’ideologia e la prassi del socialismo italiano bolscevizzante contribuirono grandemente, forse in maniera decisiva, alla crescita e alla vittoria del fascismo. E, dopo la lunga parentesi fascista, la presenza d’un partito comunista di massa, fedele a Mosca, rappresentò un fatto anomalo rispetto agli altri paesi dell’Europa occidentale, tanto da condizionare le vicende dell’Italia repubblicana. Il che è confermato dall’improvviso e stupefacente dissolvimento dell’intero sistema dei partiti italiani in concomitanza con il crollo dell’URSS e del comunismo moscovita. Ma questi sono temi troppo vasti e complessi per esser qui anche solo sfiorati e abbozzati. In ogni caso, mette conto accennare agl’inizi della fatale svolta nell’atteggiamento del socialismo italiano, causata dalla rivoluzione d’ottobre. Con l’azione espressa nella formula “né aderire né sabotare”, sovente vituperata da pubblicisti e da storici, il PSI in realtà aveva dato prova di grande saggezza politica: non essendo riusciti a impedire la guerra, i socialisti avevano rinunciato al disfattismo rivoluzionario, che avrebbe provocato la dissoluzione della giovane e fragile nazione italiana, senza con ciò rinnegare i loro ideali pacifisti e internazionalisti. Il PSI dimostrò in tal modo, coi fatti, d’avere a cuore le sorti del paese più di tanti esponenti interventisti e nazionalisti, i quali avevano gettato l’Italia nell’orrenda fornace della guerra. Le cose cambiarono dopo la vittoriosa insurrezione d’ottobre a Pietrogrado. Il 14 novembre 1917, Camillo Prampolini lesse alla Camera, a nome del gruppo parlamentare socialista, una dichiarazione a favore della «concordia nazionale», senza sconfessare l’ispirazione pacifista del partito. Ma pochi giorni dopo, il 20 novembre egli fu severamente
Le congrès de Tours (décembre 1920). Naissance du Parti communiste français, Édition critique des principaux débats présentée par Annie Kriegel, Julliard-Gallimard, Paris 1964, pp. 34-38. 8
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redarguito da una nota dell’“Avanti!”9. E in una circolare del 30 dicembre il Segretario del partito Costantino Lazzari esortò i militanti a «seguire attentamente e con simpatia gli avvenimenti di Russia, dove per merito e gloria di quei compagni si sta realizzando la pace e il socialismo»10. L’irruzione del mito leninista, il quale tanta parte avrà nel tragico epilogo della crisi italiana, accelerò la differenziazione all’interno del PSI, determinando la presa di coscienza antibolscevica della corrente riformistica. In evidente, benché non conclamata, polemica con l’incipiente idolatria della rivoluzione bolscevica, Filippo Turati pubblicò nella sua rivista una lettera del menscevico Martov, assai critica nei riguardi della concezione e della prassi politica di Lenin, accompagnandola con un commento di Claudio Treves – firmato Very-Well – che esordiva con le seguenti parole: «Nella spaventosa incultura della nuova generazione socialista in Italia questa lettera del vecchio leader marxista, del pioniere zimmerwaldista, farà l’effetto di una legnata improvvisa sulla testa»11. Le ragionevoli idee e proposte dei Turati e dei Treves convinsero solo frange minoritarie del socialismo italiano; così, alla fine della guerra dilagarono e s’imposero gli scalmanati e confusi e velleitari progetti di quanti volevano scimmiottare le gesta di Lenin e dei bolscevichi russi.
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257.
Luigi Ambrosoli, Né aderire né sabotare. 1915-1918, Edizioni Avanti!, Milano 1961, pp. 254-
Ibid., pp. 410-411. Lenin, Martoff e… noi!, “Critica Sociale”, XXVIII, 1°-15 gennaio 1918, pp. 4-5. Tre mesi dopo, la medesima rivista pubblicò un altro documento menscevico, anch’esso preceduto da una breve postilla di Very-Well: Menscevichi contro bolscevichi. Un appello menscevico all’Internazionale, ibid., 1°-15 aprile 1918, pp. 78-80. 10 11
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Gramsci e Mondolfo di fronte alla Rivoluzione bolscevica
La rivoluzione d’Ottobre irruppe sulla scena internazionale come una dichiarazione di guerra lanciata contro la civiltà liberale e tutte le sue istituzioni, dalla proprietà privata alla libertà individuale, dalla democrazia parlamentare alla laicità dello Stato. Mentre l’Europa sembrava impegnata ad autodistruggersi in un raccapricciante bagno di sangue, una élite di rivoluzionari di professione addestrati dalla ascetica scuola leninista proclamò alto e forte d’aver trovato il metodo per far passare dalla potenza all’atto l’Evento – il rovesciamento violento del capitalismo – profetato dai classici del “socialismo scientifico”. L’Utopia collettivista si era fatta Stato. Iniziava una nuova epoca della storia universale: «l’epoca della offensiva mondiale, l’epoca del trionfo della rivoluzione mondiale»1 che si sarebbe conclusa con la «liberazione di tutto il mondo proletario e di tutti i Paesi oppressi»2. L’annuncio era esaltante. Per generazioni e generazioni, i socialisti erano stati educati all’idea che la «dissoluzione della società capitalistica era ormai questione di tempo» e che la «creazione di una nuova forma di società», centrata sul piano unico di produzione e di distribuzione, «non era più solo qualcosa di desiderabile, ma era diventata inevitabile»3. Ed erano stati altresì educati a raffigurarsi la transizione dal capitalismo al socialismo come una «guerra civile prolungata»4, che si sarebbe immancabilmente conclusa col trionfo del proletariato mondiale. Tuttavia, colui che veniva considerato il massimo campione dell’ortodossia marxista – Karl Kautsky – aveva categoricamente escluso ogni forma di volontarismo, sviluppando il seguente ragionamento: Noi sappiamo che il nostro fine può essere raggiunto soltanto per il mezzo di una rivoluzione, ma sappiamo che è altrettanto poco in nostro potere questa rivoluzione, quanto è in potere dei nostri avversari di impedirla. Perciò noi non possiamo affatto provocare o preparare una rivoluzione. E poiché noi non possiamo fare la rivoluzione a nostro arbitrio, non possiamo dire alcunché a proposito di quanto, in quali circostanze e in quali forme la rivoluzione avrà luogo. Noi sappiamo che la lotta di classe fra la borghesia e il proletariato non terminerà fino a quando quest’ultimo non arriverà al pie-
Vladimir Il’ič Lenin, Quarto Congresso straordinario dei soviet, in Id., Opere complete. Vol. XXVII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 177. 2 Nikolaj Ivanovič Bucharin, Il programma dei comunisti, Tindalo, Roma 1970, p. 211. 3 Karl Kautsky, Il programma di Erfurt, Samonà e Savelli, Roma 1971, p. 123. 4 Karl Kautsky, La révolution sociale, Rivière, Paris 1912, p. 109. 1
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no possesso del potere politico, di cui esso si servirà per costruire la società socialista. Sappiamo che questa lotta di classe dovrà diventare sempre più ampia e intensa, che il proletariato cresce sempre di più di numero e forza morale ed economica, che perciò la sua vittoria e la sconfitta del capitalismo sono inevitabili, ma possiamo fare soltanto delle ipotesi vaghe sul quando e sul come saranno combattute le ultime decisive battaglie di questa guerra sociale5.
La conclusione che il “Papa rosso” aveva estratto dalla sua lettura della teoria marxengelsiana della rivoluzione proletaria mondiale – una conclusione largamente condivisa nel seno della Seconda Internazionale a dispetto dell’attacco contro l’ortodossia lanciato da Eduard Bernstein – era che la Spd era «un partito rivoluzionario, non già un partito che faceva le rivoluzioni»6. Diametralmente opposta a quella di Kautsky era la teoria leninista del partito rivoluzionario: questo, anziché attendere che anime e cose fossero mature per il salto dialettico dal regno della necessità al Regno della libertà, doveva lottare accanitamente contro le tendenze spontanee della storia per invertirne la direzione di marcia7. Una tesi, quella leninista, contro la quale Rodolfo Mondolfo scese prontamente in campo ricordando che, per il materialismo storico, il potente motore del mutamento sociale era lo sviluppo delle forze produttive, non già la volontà politica. Lo era a tal punto che Marx era giunto alla conclusione che «una formazione sociale non perisce finché non siano state sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso»; e che «nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate nel seno della vecchia società le condizioni materiali della sua esistenza»8. Pertanto, nulla era di più estraneo all’insegnamento marxengelsiano dell’idea che una rivoluzione potesse essere realizzata indipendentemente dalle condizioni oggettive della società definite dal grado di sviluppo delle forze produttive. Il che portava Mondolfo a interpretare il materialismo storico come «un consiglio di prudenza ai rivoluzionari»9. E, a conferma della sua tesi, egli ricordò quanto Engels aveva scritto nella Guerra dei contadini: il peggio che possa capitare al capo di un partito estremo è di venir costretto ad assumere il potere quando il movimento non è ancora maturo per il dominio della classe che rappresenta e per l’attuazione delle misure che la signoria di questa classe richiede. Quel che esso può fare non dipende dalla sua volontà, ma dal punto che i contrasti di classe hanno raggiunto e dal grado di sviluppo delle condizioni materiali di esistenza, della produzione e del traffico, sulle quali si fondano i conflitti di classe. Quel che esso deve fare, quel che il suo partito chiede da lui, nemmeno questo dipende dalla 5 Karl Kautsky, La via al potere: considerazioni politiche sulla maturazione della rivoluzione, Laterza, Bari 1969, p. 71. 6 Ivi. 7 Tutta la strategia leninista della conquista del potere si basava sulla tacita convinzione che le rivoluzioni non le facevano le classi, bensì i partiti. Di qui l’idea che, per abbattere il dominio della borghesia, era imperativo creare un soggetto demiurgico: il Partito dei rivoluzionari di professione. Cfr. al riguardo Luciano Pellicani, La società dei giusti. Parabola storica dello gnosticismo rivoluzionario, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. 8 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 11. 9 Rodolfo Mondolfo, Studi sulla Rivoluzione russa, a cura del Centro Studi di Critica Sociale, Morano, Napoli 1968, p. 25.
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sua volontà, ma dipende dal grado di sviluppo della lotta di classe; esso è legato alla sua dottrina, al suo programma, i quali, a loro volta, non originano dai conflitti di classe in quel dato momento, dallo stato più o meno casuale della produzione e del traffico, ma dalla maggiore o minore intelligenza e penetrazione dei risultati del movimento politico e sociale. Esso si trova così preso in un insolubile dilemma: quel che esso può fare contrasta con tutta la condotta precedente, con i suoi principi e con gli immediati interessi del suo partito; e ciò che esso deve fare non è attuabile… Chi si trova in tale disgraziata posizione è perduto10.
Ebbene, a giudizio di Mondolfo i bolscevichi al potere si erano venuti a trovare nella posizione descritta con tanta chiaroveggenza da Engels. E questo perché essi, anziché attendere che la rivoluzione capitalistica portasse a termine la sua funzione storica – che era quella di fomentare il massimo sviluppo delle forze produttive – avevano cercato di forzare i tempi, ricorrendo alla violenza quale ostetrica della società socialista. Il risultato non poteva che essere un aborto storico. Lenin, in altre parole, aveva dimenticato l’insegnamento fondamentale contenuto nella teoria materialistica della storia, secondo il quale le condizioni oggettive del superamento del capitalismo si sarebbero presentate in maniera piena e compiuta solo quando lo sviluppo fosse stato maturo per la rivoluzione, cioè quando la formazione sociale preesistente avesse sviluppato la pienezza delle forze produttive, che essa era capace di dare, e preparato così alle classi più numerose, interessate al mutamento dei rapporti di proprietà, le loro condizioni materiali di esistenza. Allora la maturità spirituale delle classi rivoluzionarie avrebbe corrisposto alla maturità delle condizioni materiali: la rivoluzione era possibile perché preparata in tutto, incombeva come una necessità storica, e si attuava col fecondo risultato di un aumentato benessere per il quale si consolidava contro tutti i tentativi di ritorno al passato, non meno che contro i possibili strascichi di moti convulsi che la crisi poteva recare seco11.
Pertanto, marxismo e leninismo erano incompatibili. Infatti, mentre per il primo lo «sviluppo maturo e competo del capitalismo era condizione necessaria della maturità della coscienza socialista»12, per il secondo la «forza politica era onnipotente: le condizioni economiche una materia duttile e malleabile a volontà»13. Il leninismo, quindi, si basava sul rovesciamento del rapporto dialettico fra la struttura – economica – e la sovrastruttura – politica. Con la conseguenza che non era la classe il soggetto protagonista della rivoluzione, bensì il Partito concepito come «avanguardia cosciente» che doveva costringere la società capitalistica a partorire la società socialista. In tal modo, la politica – più precisamente, la violenza dello Stato-Partito – prendeva il sopravvento sull’economia e pretendeva assoggettarla ai suoi imperativi. Imboccata la strada del più estremo volontarismo, i bolscevichi avevano accumulato contraddizioni su contraddizioni, sino a sfigurare orribilmente il volto generoso del socialismo. La loro rivoluzione non era – e non poteva esserlo a motivo dell’arretratezza economica della società
Friedrich Engels, La guerra dei contadini, in Karl Marx-Friedrich Engels, Opere complete. Vol. 10, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 478-479. 11 Rodolfo Mondolfo, Studi sulla Rivoluzione russa, cit., p. 28. 12 Ibid., p. 37. 13 Ibid., p. 70. 10
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russa – una rivoluzione socialista. Tutt’al più, poteva essere considerata una rivoluzione borghese in ritardo, grazie alla quale la Russia cercava di ridurre la distanza che la separava dai paesi già industrializzati, eliminando dal suo seno i residui del feudalesimo che ne frenavano lo sviluppo e creando un regime sui generis: il «capitalismo di Stato»14. Un tale sistema – concludeva Mondolfo – non doveva essere confuso con il socialismo, dal momento che in esso permaneva l’alienazione degli operai rispetto agli strumenti di produzione, che appartenevano come un tutto a un nuova classe dominante: la burocrazia dello Stato-Partito. Quando prendiamo in esame la lettura dell’Ottobre bolscevico contenuta negli scritti di Gramsci, entriamo in un universo ideologico radicalmente altro rispetto a quello in cui si muoveva Mondolfo. Mentre Mondolfo insisteva sul primato delle strutture economiche sulle sovrastrutture politico-ideologiche, Gramsci – chiaramente influenzato dalla critica idealistica del positivismo – non aveva dubbi di sorta sul ruolo decisivo dei fattori soggettivi nel processo storico. Tant’è che non ebbe esitazione alcuna a definire l’Ottobre bolscevico «la rivoluzione contro il Capitale», ossia la confutazione pratica dell’interpretazione deterministica della sociologia marxista. I bolscevichi – a giudizio di Gramsci – non avevano punto tradito l’autentico pensiero di Marx, il quale, essendo «la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco», poneva sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l’uomo, ma la società degli uomini che si accostavano tra di loro, sviluppavano attraverso quei contatti (civiltà) una volontà sociale collettiva, e comprendevano i fatti economici, e li giudicavano, e li adeguavano alla volontà, finché questa diventava la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che viveva e si muoveva, e acquistava carattere di materia tellurica in ebollizione, che poteva esser incanalata dove alla volontà piaceva, come alla volontà piaceva15.
La volontà, dunque, era tutto per Gramsci, sicché l’arretratezza economica della Russia – sulla quale Mondolfo tanto insisteva – non era affatto un problema. Vero è che Gramsci riconosceva che, data la «mancanza di forza motrice e di attrezzatura industriale», i bolscevichi erano stati costretti a sciogliere i Consigli di fabbrica e a imporre ad ogni operaio la «disciplina dell’esercito rivoluzionario, con la sua fraseologia e il suo entusiasmo guerriero»16. Ma ciò, lungi dall’essere una alterazione del progetto originario, era il solo modo efficace per «arginare e combattere la psicologia piccolo-borghese e le tendenze sindacaliste-anarchiche di una parte arretrata della classe operaia russa»17. Del resto era cosa apodittica che, volere l’abbattimento del capitalismo, significava volere la rivoluzione; e che volere la rivoluzione, significava accettare sino in fondo la logica della guerra di classe. «La rivoluzione – così si esprimeva Gramsci in un articolo pubblicato sull’“Avanti!” del 24 settembre 1920 – è come la guerra; deve essere minuziosamente preparata da uno stato maggiore dell’esercito: le assemblee non possono che ratificare il già avvenuto, esaltare i successi, punire implacabilmente gli insuccessi. È compito dell’avanguardia proletaria
Ibid., p. 291. Antonio Gramsci, Scritti politici. Vol. I, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 130-131. 16 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, Einaudi, Torino 1975 , p. 129. 17 Ivi. 14 15
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tenere sempre desto nelle masse lo spirito rivoluzionario»18. E l’«avanguardia proletaria» era – ex definizione – il Partito comunista, il quale doveva necessariamente essere organizzato in «ferrei battaglioni di militanti»19 esattamente come «un esercito in campo»20. Questa – la militarizzazione della lotta per il socialismo – era per Gramsci la grande lezione contenuta nella vittoriosa rivoluzione guidata da Lenin. Come si vede, mentre per Mondolfo l’esperimento bolscevico era destinato a fallire in quanto aveva violato il fondamentale principio marxista della maturità economica, per Gramsci esso era la dimostrazione storica che, grazie al demiurgico intervento del Partito comunista, la classe operaia cessava di essere un «sacco di patate, un indistinto generico, un conglomerato amorfo di individui senza idee, senza volontà, senza indirizzo unificato»21 e «si dissolveva come classe per divenire umanità»22. Dimostrava, la rivoluzione in atto in Russia, che i fattori soggettivi – la volontà, l’ideologia, l’organizzazione, la strategia, la leadership – erano di decisiva importanza. Era imperativo, pertanto, «fare come in Russia», cioè prendere a modello il soggetto – il Partito bolscevico creato da Lenin – che, abolendo la proprietà privata, aveva posto le basi del «primo nucleo di una società nuova»23. Ed era altresì imperativo «aderire all’Internazionale comunista; aderire alla concezione dello Stato soviettista e ripudiare ogni residuo dell’ideologia democratica»24. Donde la perentoria sentenza con la quale Gramsci concludeva il suo invito a guardare alla Russia bolscevica come a un modello da imitare: «La Rivoluzione proletaria è imposta e non proposta»25. Iperdemocratica nel suo fine ultimo – la società senza classi e senza Stato – la rivoluzione comunista non poteva esserlo nel metodo. Infatti, a giudizio di Gramsci, «aderire all’Internazionale comunista significava essere persuasi dell’urgente necessità di organizzare la dittatura proletaria»26 poiché la classe operaia, «per compiere la sua missione, voleva tutto il potere»27. Tale richiesta – affatto incompatibile con quella che Gramsci definiva «la legge suprema della società capitalistica: la libera concorrenza fra tutte le energie sociali»28 – era una esigenza imprescindibile, se si voleva effettivamente abbattere il giogo del Capitale e aprire il cantiere della costruzione della società socialista. «Noi siamo persuasi, dopo le esperienze rivoluzionarie della Russia, dell’Ungheria e della Germania», così suona la giustificazione della dittatura di transizione avanzata da Gramsci, che lo Stato socialista non può incarnarsi nelle istituzioni dello Stato capitalistico, ma è una creazione fondamentalmente nuova per rispetto ad esse, se non rispetto alla storia del proletariato. Le istituzioni dello Stato capitalistico sono organizzate ai fini della libera concorrenza; ma non basta Ibid., p. 171. Ibid., p. 115. 20 Ibid., p. 12. 21 Ibid., p. 122. 22 Ibid., p. 136. 23 Ibid., p. 9. 24 Ibid., p. 20. 25 Ibid., p. 27. 26 Ibid., p. 28. 27 Ibid., p. 79. 28 Antonio Gramsci, Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1978, p. 236. 18 19
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mutare il personale per indirizzare in un altro senso la loro attività. Lo Stato socialista non è ancora il comunismo, cioè l’instaurazione di una pratica e di un costume economico solidaristico, ma è lo Stato di transizione che ha il compito di sopprimere la concorrenza con la soppressione della proprietà privata, delle classi, delle economie nazionali; questo compito non può essere attuato dalla democrazia parlamentare29.
Sennonché i socialisti «non avevano compreso che in qualunque momento la lotta delle classi si poteva convertire in guerra aperta, la quale non poteva finire che con la presa del potere da parte del proletariato»30. E non avevano compreso che, con la rivoluzione d’Ottobre, una nuova era storica era iniziata: l’era della «ricostruzione del mondo»31, che avrebbe avuto quale protagonista assoluta l’Internazionale comunista. Ma non è tutto. L’adesione di Gramsci all’ideologia totalitaria di Lenin fu così completa – una vera e propria identificazione mistica che lo portò ad aggredire con la massima violenza settaria i riformisti, rei di aver tradito la classe operaia32 – che fece propria la più tremenda delle idee con le quali i bolscevichi stavano riplasmando la società russa: la rivoluzione come sterminio di tutte le categorie sociali giudicate oggettivamente incompatibili con l’economia centrata sul piano unico di produzione e di distribuzione. In un articolo pubblicato su “L’Ordine Nuovo” nel dicembre 1919, egli faceva eco a quanto Lenin aveva ossessivamente reiterato – e cioè che la «missione storica» del Partito comunista era quella di scatenare «la violenza sistematica nei confronti della borghesia e dei suoi complici»33 al fine di «ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo, delle pulci: i furfanti; delle cimici: i ricchi, ecc.»34 – affermando perentoriamente che la «superiore lotta di classi fra proletari e capitalisti» non poteva non investire anche il destino della piccola e media borghesia. La piccola e media borghesia era infatti la barriera di una umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difendeva il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacché, diventata la serva padrona che voleva prelevare sulla produzione taglie superiori non solo alla massa di salario percepita dalla classe lavoratrice, ma alle stesse taglie prelevate dai capitalisti; espellerla dal campo sociale, come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una plumbea bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale35.
Alla luce d’una siffatta idea della costruzione della società comunista – la rivoluzione come sanguinosa purificazione della società corrotta dallo spirito borghese – lo sterminio dei kulaki, attuato a partire dal momento in cui Stalin scatenò il Grande Terrore, non può Ibid., p. 37. Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1974, p. 103. 31 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, cit., p. 9. 32 Sul punto, è fondamentale il libro di Alessandro Orsini, Gramsci e Turati: le due sinistre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012. 33 Vladimir Il’ič Lenin, Chi è spaventato dal crollo del vecchio e chi lotta per il nuovo, in Id., Opere complete. Vol. XXVI, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 384. 34 Vladimir Il’ič Lenin, Come organizzare l’emulazione, ibid., p. 394. 35 Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, cit., p. 61. 29
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essere considerato una perversione del progetto originario. Al contrario, tale sterminio fu la logica conseguenza di quella che fu l’ossessione di Lenin e di Gramsci: la creazione d’un Ordine Nuovo nel quale tutto ciò che sapeva di borghesia doveva essere estirpato. E ciò andava fatto con la massima spietatezza, come risulta dall’episodio riferito da Giacinto Menotti Serrati in una delle lettere inviate da Mosca all’“Avanti!”. A Serrati, che aveva espresso dubbi circa la possibilità di conciliare la meta finale del comunismo con la NEP, che si basava sulla reintroduzione della piccola proprietà privata, uno dei massimi dirigenti del Partito bolscevico – molto probabilmente Preobraženskij – così rispose: I nepman non sono ancora una classe e non li lasceremo diventare tale: sono individui che mirano ad approfittare della situazione per godere e arricchire […]. Siamo troppo forti noi: possiamo giocare con loro come il gatto col topo […]. Li nutriamo noi oggi, i nepman, come i patrizi facevano con le murene. Con questa differenza, che noi li nutriamo con la loro stessa carne: lasciamo che si divorino reciprocamente: il più grosso mangia il più piccolo. Ma li consociamo questi squali e la loro vita è nelle nostre mani: un bel giorno chiuderemo gli sbocchi e faremo una colossale retata. Sarà una nuova fase della rivoluzione36.
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Citato in Rodolfo Mondolfo, Studi sulla Rivoluzione russa, cit., p. 209.
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Andrea Panaccione
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Il centenario del 1917 può essere motivo di imbarazzo nella Russia attuale, e in particolare negli ambienti che la governano, per un duplice ordine di considerazioni. Prima di tutto perché ha costituito una grande e permanente lacerazione nella società di quello che era allora l’impero russo, in contrasto con i valori di unità e concordia nazionale sui quali soprattutto insiste l’attuale direzione politica del paese: il centenario potrebbe addirittura riproporre alcune preoccupanti considerazioni sulla storia russa e sul carattere nazionale russo, che l’attuale Presidente aveva espresso nella campagna elettorale per la sua ultima rielezione a proposito della «aspirazione […] alla lacerazione, alla rivoluzione, invece che a uno sviluppo coerente»1. Ma un secondo elemento, almeno inattuale nella congiuntura dei rapporti tra Russia ed Europa degli ultimi anni, è la forte appartenenza di tutto il processo rivoluzionario russo del 1917 alla storia europea, la conferma di una vocazione europea della Russia anche nei suoi momenti più traumatici e decisivi. La rottura di un ordine sociale e politico legata alla congiuntura della prima guerra mondiale, in un grande paese che era tra i protagonisti di quella guerra, ha fatto di ciò che è accaduto in Russia – per citare uno storico oggi non di moda – qualcosa che «ha avuto, in tutto il mondo moderno, ripercussioni più profonde e durevoli di qualsiasi altro avvenimento dei tempi moderni»2 ed è inevitabilmente qualcosa che rende il modo in cui tale avvenimento viene oggi ricordato in Russia solo un elemento, sia pure molto importante, del suo significato storico. È a questa dimensione internazionale, e in particolare europea, che intendo dedicare il mio intervento. La guerra Il rapporto tra la rivoluzione e la guerra è la prima conferma di quanto l’avvio del processo rivoluzionario russo che ha preso il nome di Febbraio, stesse dentro la storia dell’Eu1 Vladimir Putin, Rossija sosredotačivaetsja – vyzovy na kotorye my dolžny otvetit’ [La Russia si concentra – le sfide alle quali dobbiamo rispondere], “Izvestija”, 16 gennaio 2012. Anche nella conferenza stampa di fine 2016, Putin ha auspicato, con riferimento al 1917, una memoria tesa alla «riconciliazione» (primirenie) e al «riavvicinamento» (sbliženie), non alla «rottura» (razryv) e alla «alimentazione delle passioni» (nagnetanie strastej). Ma non è facile. 2 Edward H. Carr, La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi, Torino 1979, p. 218.
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ropa. All’inizio delle sue conferenze di Oxford del 1929, poi raccolte con altri saggi in L’ére des tyrannies, Élie Halévy indicava il senso di quello che subito dopo definiva l’«intrigo» tra «le forze che, all’inizio del secolo, agivano a favore della rivoluzione» e «le forze che operavano a favore della guerra»: «Tenterò di definire le forze collettive, i sentimenti diffusi e i movimenti d’opinione pubblica che, all’inizio del XX secolo, tendevano al conflitto. Dico volutamente ‘conflitto’ e non guerra, perché la crisi mondiale del 1914-18 non fu solamente una guerra – la guerra del 1914 – ma una rivoluzione – la rivoluzione del 1917»3. La rivoluzione russa è dal Febbraio, per Halévy, il momento di svolta della guerra4, che porta alla ribalta le forze favorite dal nuovo rapporto tra i movimenti socialisti e gli Stati prodotto dal conflitto, movimenti che non riescono a imporre a livello generale la volontà di mettere fine al massacro, ma provocano mobilitazioni di massa e svolte politiche in tutte le società coinvolte nella guerra e ne trasformano, con l’intervento americano e lo wilsonismo, gli stessi caratteri ed esiti: il 1917 russo è insomma un grande evento internazionale destinato a cambiare non solo la Russia, ma il quadro europeo nel suo insieme. Nella sua prospettiva, segnata dal rapporto guerra-rivoluzione, Halévy afferma una continuità tra il Febbraio e l’Ottobre. L’affermarsi del potere bolscevico è per lui una continuazione dell’opera delle forze sociali e nazionali che si confrontano nel conflitto mondiale, che prolungano la guerra stessa oltre i primi trattati di pace e scuotono gli equilibri delle società europee: La guerra non si concluse con la firma di tali trattati. Essa si prolungò in Russia come guerra civile fra il comunismo e gli avversari russi del comunismo o, potete definirla come più vi piace, come guerra nazionale mediante la quale la Russia sostenne la sua indipendenza contro l’intervento straniero dell’Inghilterra e della Francia. Ma una volta liberata da questo pericolo interno, la Russia tentò di trasformare la guerra difensiva in guerra offensiva di propaganda comunista, indirizzata contro la Polonia e la Germania. Questa nuova guerra scoppiò sotto i bastioni di Varsavia5.
Élie Halévy, Un’interpretazione della crisi mondiale del 1914-1918, ne L’era delle tirannie, Introduzione di Gaetano Quagliarello, Ideazione, Roma 1998, pp. 246 e 248. Nella terza e conclusiva conferenza, Guerra e rivoluzione, Halévy torna sulla distinzione e sul gioco di «queste due specie di forze»: «Le une indirizzavano classe contro classe all’interno di ciascun paese, o più precisamente, dividevano ciascun paese in due, in tutta l’Europa, senza tenere conto delle nazionalità. Le altre erano esclusivamente nazionali, univano tutte le classi all’interno di ogni paese contro le classi, ugualmente unite, all’interno di ciascuno degli altri paesi. Di queste due forze, quale avrebbe prevalso? Parve, sulla base di ciò che accadde nel 1914, che le emozioni nazionali e guerriere incidessero più profondamente sullo spirito umano che le emozioni internazionali e rivoluzionarie. Ma queste ultime, per il momento latenti, non erano annientate; non tardarono a risorgere, e con un’intensità accresciuta dalle sofferenze della guerra. Le une e le altre forze giocarono così, nell’evoluzione della crisi, un ruolo di eguale importanza» (ibid., pp. 264-265). Il rapporto guerra-rivoluzione, affermato con forza da Halévy sul piano storiografico, è stato ripreso in un tentativo di definirne il quadro concettuale da Arno Mayer, Internal Causes and Purposes of War in Europe, 1870-1956: A Research Assignment, “Journal of Modern History”, Vol. 41, n. 3, September 1969, pp. 291-303. 4 «Dividerò la storia della guerra in due parti, prima e dopo la rivoluzione russa del 1917»: Élie Halévy, Un’interpretazione della crisi mondiale… cit., p. 265. 5 Ibid., p. 272. 3
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Il legame tra il Febbraio e l’Ottobre è quindi all’interno di una continuità più lunga, che comprende gli anni che in Europa vengono chiamati del dopoguerra e che in Russia sono quelli della guerra civile. Credo che molte acquisizioni storiografiche, soprattutto degli anni che hanno accompagnato e seguito la fine dell’URSS, con le novità che hanno comportato per gli strumenti e le prospettive della ricerca, permettano di ampliare e approfondire la prospettiva tracciata da Halévy, ma ne rappresentino prima di tutto una conferma. Se l’appartenenza della Russia alla storia sociale e culturale europea – a quella politica è anche troppo scontata – non aveva bisogno di essere rivelata dalla prima guerra mondiale – vanno almeno ricordati il posto della letteratura russa nella cultura europea dalla seconda metà dell’Ottocento e l’impatto sui movimenti democratici e socialisti della rivoluzione del 1905 – l’apertura della società russa alle influenze europee trova nella guerra la fase culminante di una grande stagione culturale, al di là dell’appartenenza all’Europa del movimento rivoluzionario russo6 e del crescente interesse in Russia, tra ’800 e ’900, per le teorie economiche e i modelli di società civile europei. La recente storiografia sulla Russia e la prima guerra mondiale – dopo un lungo periodo in cui proprio in Russia la Grande Guerra sembrava essere stata dimenticata7 – ha messo in luce il forte impatto del conflitto su un paese che era già un fattore decisivo degli equilibri europei negli anni precedenti, ma che, dopo lo scoppio della guerra, si sentirà più direttamente coinvolto nei rapporti tra gli Stati e le società europee, nei destini delle nazioni e del continente nel suo insieme, e ne riceverà una forte spinta prima di tutto sul piano del confronto tra le culture e tra le diverse proposte politiche: dalla sintesi nazionale-imperiale della “Grande Russia” (Velikaja Rossija), affermata dal liberalismo russo da Struve a Miljukov8, alle contrastanti reazioni alla guerra del movimento socialista, ma anche alle profezie catastrofiche sulla guerra come minaccia di rovesciamento dell’ordine sociale russo nel famoso memorandum del reazionario e germanofilo ex Ministro dell’Interno Pyotr Nikolayevich Durnovo9. La guerra è inoltre un forte impulso per il pensiero filosofico russo – da Berdjaev a Il’in, Trubeckoj, ecc. – e un grande fattore di mobilitazione culturale, sul piano delle avanguardie artistiche, che trovano un loro pubblico e svolgono un loro ruolo nella mobilitazione
L’appartenenza della Russia all’Europa prima di tutto attraverso il suo movimento rivoluzionario è affermata da Franco Venturi nella sua grande opera sul populismo russo, dal titolo Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972 (1952). 7 Alexandre Sumpf, La Grande Guerre oubliée. Russie 1914-1918, Perrin, Paris 2014. 8 L’articolo di Struve Velikaja Rossija i Svjataja Rossija [La Grande Russia e la Santa Russia], apparso sul n. 12 della sua rivista “Russkaja Mysl’”, nel 1914, è la piena espressione teorica di tale progetto politico e degli scopi di guerra che esso implica: l’espansione imperiale russa (Velikaja Rossija) deve fondarsi su un principio nazionale che esalti la tradizione e la vocazione slava e ortodossa – Svjataja Rossija: un fondamento nazionale russo e neo-slavo all’impero – ma sia in grado anche di superare la separazione tra il popolo e lo Stato russo, di produrre la trasformazione del popolo in nazione. Tra i diversi contributi di Giovanna Cigliano su questi temi è da vedere in particolare La “Grande Russia” tra nazionalismo e neoslavismo: l’imperialismo liberale come risposta alla crisi patriottica, “Studi Storici”, n. 3 2012, pp. 511-557. 9 Presentato a Nicola II nel febbraio 1914, è stato pubblicato come Zapiska – appunto, memorandum – dalla rivista “Krasnaja Nov’”, n. 6/10, novembre-dicembre 1922, pp. 182-199, e in inglese da Frank A. Golder, Documents of Russian History 1914-1917, Century Company, New York-London 1927, pp. 3-23. 6
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patriottica10, come su quello della cultura popolare e di massa, che diffonde le immagini del nemico e per contrasto la rappresentazione dei propri caratteri nazionali attraverso il recupero e la modernizzazione di veicoli della cultura popolare come il lubok11. Essa conferma l’appartenenza dell’“età d’argento” russa ai grandi movimenti culturali e d’avanguardia europei: la stessa diffusione d’un asiatismo filosofico e letterario – da Vladimir Solov’ev a Blok, Belyj, Ivanov-Razumnik – nel quale è stato visto un precedente dell’eurasismo, può essere considerata un pendant russo di un motivo molto diffuso nella cultura e nel simbolismo europei. La guerra introduce e lascerà nella coscienza collettiva dei russi una visione meno indifferenziata dell’Europa, nella quale si definiscono e si confrontano con il ruolo avuto nella storia russa le immagini dei diversi paesi e dei diversi popoli: la Francia alleata ma anche il paese della libertà e della tradizione rivoluzionaria, in cui si riconoscono allo scoppio della guerra Plechanov e Kropotkin; la Germania nemica, protesa al dominio sulla Russia anche attraverso il ruolo reazionario dei tedeschi nel sistema di governo russo e il loro prevalere nella vita sociale del paese12. Sono immagini, proprio per quanto riguarda la Francia e la Germania, destinate a trasformarsi dopo la guerra con i cambiamenti della situazione internazionale e il configurarsi dei rapporti tra i vari Stati europei, ma approfondendo comunque gli elementi di diversificazione e di contrasto sul ruolo della Russia nella difficile ricostruzione d’un equilibrio europeo. Esaltando il ruolo della forza nella regolazione dei rapporti sociali e della vita economica13, la guerra è una grande occasione di modernizzazione degli strumenti di organizzazione e di controllo delle risorse materiali e umane, delle coscienze e delle volontà14, che Aaron J. Cohen, Imagining the Unimaginable (World War, Modern Art, and the Politics of Public Culture in Russia 1914-1917), University of Nebraska Press, Lincoln 2008. 11 Hubertus F. Jahn, Patriotic Culture in Russia during World War I, Cornell University Press, Ithaca-New York-London 1996; Stephen M. Norris, A War of Images: Russian Popular Prints, Wartime Culture, and National Identity 1812-1945, Northern Illinois University Press, DeKalb (Ill.) 2006. 12 Sul contributo della letteratura russa alla costruzione dell’immagine dei tedeschi, cfr. Andrea Panaccione, Il carattere delle nazioni. Dal repertorio delle rappresentazioni durante e dopo la Prima guerra mondiale, “Il Ponte”, agosto-settembre 2014, pp. 9-37 (nello specifico, pp. 9-15). 13 Una importante testimonianza, per il problema dell’approvvigionamento alimentare e prima di tutto del pane, è l’opera di Nikolaj D. Kondrat’ev, Rynok chlebov i ego regulirovanie vo vremja vojny i revoljucii [Il mercato dei grani e la sua regolazione durante la guerra e la rivoluzione], Moskva Izd-vo “Novaja derevnja”, Moskva 1922 (nuova ed. Nauka, Moskva 1991). 14 In una letteratura molto ampia, mi limito ad indicare due saggi di Peter Holquist, “Information Is the Alpha and Omega of Our Work”: Bolshevik Surveillance in Its Pan-European Context, “The Journal of Modern History”, Vol. 69, n. 3, September 1997, pp. 415-450; nonché Id., La société contre l’État, la société conduisant l’État: la société cultivée et le pouvoir d’État en Russie, 1914-1921, “Le Mouvement Social”, n. 196, juillet-septembre 2001, pp. 21-40. In questo saggio Holquist si occupa anche del «bureau pour organiser l’esprit» organizzato in Russia nel 1915 e diretto nel 1917 dal grande psicologo sociale e teorico della propaganda politica – oltre a varie altre cose – Sergej Čachotin, il quale ricorda questa e altre esperienze analoghe durante la guerra civile nella sua importante opera su Le viol des foules par la propagande politique, Gallimard, Paris 1939 (trad. it. parziale: Tecnica della propaganda politica, a cura di Walter Marossi, Edizioni l’Ornitorinco, Milano 2012, pp. 248-252). L’attività di Čachotin in Russia sul piano della propaganda politica durante la guerra mondiale, la rivoluzione, la guerra civile, è un ulteriore elemento di convergenza con quanto stava 10
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impone un nuovo rapporto dello Stato con la società15 e un maggior controllo sull’accesso alla cittadinanza16. Di fronte alla perdita di credibilità del sistema zarista, la guerra favorisce un’attivizzazione e una nuova capacità delle organizzazioni sociali17 e la formazione di quello che è stato definito un «complesso parastatale»18, che affianca e sostituisce quello ufficiale. La guerra è infine un importante fattore di nazionalizzazione dell’impero, sia per la nazionalità dominante che per le altre, e conferisce una particolare funzione alle categorie nazionali nella lettura e nella mappatura della società imperiale e nelle pratiche di controllo della popolazione19. È questo il terreno sul quale si arriva alla rottura del 1917, a una rivoluzione dal basso preceduta da progetti e velleità di rivoluzioni dall’alto, o più semplicemente di colpi di Stato, che sono la testimonianza dell’esaurimento e del ripudio generalizzato del regime zarista20 – che sarà confermato allo scoppio della rivoluzione dall’atteggiamento dei comandanti militari favorevoli all’abdicazione dello zar – e che alimenteranno le leggende sul ruolo decisivo della massoneria, espressione comunque di riferimenti culturali occidentalizzanti, o gli immaginari mistico-raccapriccianti sugli ambienti di corte, una speavvenendo negli Stati europei, anche quando si svolge nel campo delle forze più tradizionaliste, come le armate “bianche”. 15 Lewis H. Siegelbaum, The Politics of Industrial Mobilization in Russia, 1914-1917: A Study of the War Industries Committees, Macmillan in association with St. Antony’s College (Oxford), London 1983; Lars T. Lih, Bread and Authority in Russia, 1914-1921, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1990; Peter Holquist, Making War, Forging Revolution: Russia’s Continuum of Crisis, 1914-1921, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2002. In Russia vorrei segnalare un’importante pubblicazione documentaria, dedicata al rapporto del potere con la società nelle sue grandi correnti ideologiche – conservatrice, liberale, democratica – e articolata in 4 volumi curati rispettivamente da Valerij Vasil’evič Žuravlev, Aleksandr Vital’evič Repnikov, Valentin Valentinovic Šelochaev e Al’bert Pavlovič Nenarokov, direttore dell’intero progetto: Pervaja mirovaja vojna v ocenke sovremennikov: vlast’ i rossijskoe obščestvo 1914-1918 [La prima guerra mondiale nel giudizio dei contemporanei: il potere e la società russa 1914-1918], Rosspen, Moskva 2014. 16 Eric Lohr, Russian Citizenship. From Empire to Soviet Union, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2012. 17 Anastasija S. Tumanova, Obščestvennye organizacii Rossii v gody Pervoj mirovoj vojny (1914-fevral’ 1917 g.) [Le organizzazioni sociali della Russia negli anni della Prima guerra mondiale (1914-febbraio 1917)], Rosspen, Moskva 2014; della stessa autrice si veda Voluntary Associations in Moscow and Petrograd and Their Role in Patriotic Campaigns During World War I (1914-February 1917), “Jahrbücher für Geschichte Osteuropas”, n. 3 2014, pp. 345-370. 18 Sulle origini, obiettivi, composizione, ecc. del «parastatal complex», cfr. Mark von Hagen, The First World War, 1914-1918, in Cambridge History of Russia. Vol. 3, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 92-113. Il concetto era stato già ampiamente impiegato da Peter Holquist in Making War, Forging Revolution… cit., p. 21, per indicare una utilizzazione da parte del potere statale di organismi che operavano nel sociale, ma senza un preliminare sviluppo di una società civile autonoma dallo Stato stesso ed era ricondotto alla predominanza del ruolo dello Stato nella cultura politica russa. 19 Peter Gatrell, A Whole Empire Walking: Refugees in Russia during World War I, Indiana University Press, Bloomington 1999; Eric Lohr, Nationalizing the Russian Empire. The Campaign against Enemy Aliens during World War I, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2003. 20 Una fonte storica illuminante sono i materiali della Commissione d’indagine sulla caduta del regime zarista presentati da Aleksandr Blok ne Gli ultimi giorni del regime zarista, a cura di Igor Sibaldi, Editori Riuniti, Roma 1983 (ed. or. 1919).
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cialità molto apprezzata e consumata in Occidente. In una società colta dalla guerra in un processo incompiuto di trasformazione e messa alla prova nei suoi squilibri e nelle sue arretratezze dai tre anni del conflitto21, la rivoluzione è inaspettata solo per quel tanto che tutte le rivoluzioni radicali hanno di inaspettato, come aveva osservato Tocqueville a proposito della rivoluzione francese22, ma in realtà risponde pienamente alle condizioni per cui «nascono le rivoluzioni»23: una crisi politica, sociale, economica, più una resistenza da contrastare e da abbattere24, che nel caso russo è il vecchio regime zarista ma che diventa nel 1917 il condizionamento della guerra sulla situazione del paese e la conservazione di rapporti sociali che i movimenti degli operai e dei contadini-soldati avevano messo in discussione e contro i cui beneficiari veniva genericamente applicata l’etichetta di “borghese”25. La rivoluzione La rivoluzione russa del 1917 si svolge quindi in un paese trasformato e sicuramente reso più europeo dai tre anni di guerra ed è dalla situazione creata dalla guerra che ricava i suoi due principali caratteri distintivi: l’unitarietà, per cui l’Ottobre sarà una risposta alle questioni del Febbraio, e il suo costante rimanere al centro dell’attenzione di tutte le società europee. Parlare di rivoluzione russa al singolare e sottolineare che «Febbraio ha cominciato a riemergere dall’ombra di Ottobre, e così sarà per la guerra», come ha fatto Stephen Kotkin cogliendo, in una sua rassegna storiografica del 1998, il senso di uno spostamento dell’interesse verso il Febbraio26, significa mettere in discussione lo schema del Febbraio come rivoluzione borghese e tanto più la rappresentazione dello spettacolo della 21 Per il tentativo di un quadro comparativo con le altre grandi potenze europee, soprattutto sul piano economico e sociale, vedi Peter Gatrell, Russia’s First World War. A Social and Economic History, Pearson, Harlow 2005. 22 «[…] mai vi furono avvenimenti più grandi, originati da più lontano, meglio preparati e meno previsti»: Alexis de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, BUR Saggi, Milano 2006, p. 37. 23 Ernest Labrousse, Come nascono le rivoluzioni, Bollati Boringhieri, Torino 1989; in particolare il saggio 1848-1830-1789: come nascono le rivoluzioni, pp. 215-237. 24 Naturalmente questo presuppone che i nemici della rivoluzione esistano e non siano il frutto della immaginazione e della propaganda dei rivoluzionari per realizzare i loro fini malvagi. Il tema della resistenza è alla base del nesso tra rivoluzione e controrivoluzione, e dell’inevitabile ruolo della violenza, analizzati in chiave comparativa da Arno Mayer in The Furies (Violence and Terror in the French and Russian Revolution), Princeton University Press, Princeton 2000. 25 Boris Kolonitskii, Anti-Bourgeois Propaganda and Anti-‘Burzhui’ Consciousness in 1917, “The Russian Review”, n. 2 1994, pp. 183-196. Se la simbologia anti-borghese analizzata da Kolonitskij, su cui avrò occasione di tornare, è ispirata alla tradizione rivoluzionaria europea, lo spirito antiborghese è alimentato da radici contadine e religiose specificamente russe. Un altro importante specialista, Pavel V. Volobuev, ha giustamente rilevato che, nella varietà della composizione e delle coscienze delle masse popolari russe, gli «antibourgeois moods and anspirations» non potevano essere identificati come socialisti: cfr. Pavel V. Volobuev, Perestroika and the October Revolution in Soviet Historiography, “The Russian Review”, n. 4 1992, p. 573. 26 Stephen Kotkin, 1991 and the Russian Revolution: Sources, Conceptual Categories, Analytical Frameworks, “The Journal of Modern History”, Vol. 70, n. 2, June 1998, pp. 384-425 (la citazione è a p. 396).
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storia offerta da Lev Trockij nella sua Storia della rivoluzione russa, in cui – combinando una parola chiave della tradizione rivoluzionaria russa, il “prologo”27, con le leggi di una concezione della storia marxista – ogni atto è il prologo di qualcosa che sarà un ulteriore prologo: il 1905 prologo – o prova generale – del 1917, il Febbraio prologo dell’Ottobre, la rivoluzione russa prologo della rivoluzione europea28. I mesi che vanno dal Febbraio all’Ottobre vedono il consumarsi, fino al precipitare nell’anarchia sociale, d’un composito «orizzonte di aspettative»29 nel quale si riconoscono, con differenze e contrasti anche radicali, i vari protagonisti della rivoluzione: quello espresso dalle parole che nel 1917 sono ripetute ossessivamente dai bolscevichi – la pace, la terra, il controllo operaio – e quelle su cui si mobilitano altri attori della rivoluzione, ovvero una nuova unità nazionale e una nuova statualità che renda la Russia in grado di affrontare la situazione che ha travolto il vecchio regime, un nuovo rapporto tra il popolo e il potere, l’autogoverno delle nazioni o la trasformazione federalista dell’impero. Alcune di queste aspettative, che nel trascorrere dei mesi sono soggette al «continuo spostamento della visione del futuro»30 che è tipico dello svolgersi di una rivoluzione, sono più specificamente radicate nella storia russa, ma molte di esse – sul piano politico, sociale, nazionale – sono quelle su cui si confrontano le forze politiche e i movimenti dell’Europa del 1917. È per questo che la rivoluzione, la cui scena principale è la più europea delle città russe, non è una rivolta tradizionale russa – il bunt «insensato e impietoso» di cui parlava Puškin – o una riedizione del movimento di Pugačev (pugačevščina), un nuovo «tempo dei torbidi» (smutnoe vremja)31, anche quando questi caratteri e fantasmi del passato sembrano essere tornati a dominare il paese. In Russia una storiografia che, per effetto della crisi finale e della caduta dell’URSS, aveva potuto o dovuto liberarsi della tendenza a vedere tutto quello che era accaduto nel 1917 come una premessa obbligata della “grande rivoluzione socialista” dell’Ottobre – ma Il riferimento è al romanzo Prolog [Il prologo] di Nikolaj Černyševskij, scritto in Siberia e pubblicato per la prima volta a Londra nel 1877. La prima parte del romanzo aveva il titolo Prolog prologa [Il prologo del prologo]: il primo era la lotta per l’emancipazione dei servi, il secondo era l’emancipazione stessa come premessa del movimento rivoluzionario successivo. 28 Lev Trotsky, Storia della rivoluzione russa, traduzione dalle edizioni francese e inglese di Livio Maitan, Mondadori, Milano 1969 (l’edizione originale russa è stata pubblicata a Berlino nel 19311933). Quello che salva in parte la Storia da un eccesso di finalismo schematico, oltre alle capacità drammaturgiche dell’autore, è la sua attenzione alla problematica dell’arretratezza e delle particolarità dello «sviluppo combinato» russo, che nel 1922 avevano provocato la sua polemica con Pokrovskij. Una particolarità a suo modo sconcertante della Storia di Trockij, e una conferma che anche i creatori di miti possono rimanere vittime delle loro creazioni, è l’assenza, anche nella rapida Conclusione, di un bilancio o almeno di una seria considerazione di che cosa era diventata l’URSS a oltre un decennio dalla rivoluzione. Questo è stato rilevato in un’opera importante sulla memorialistica del 1917, pubblicata per la prima volta a Roma in lingua russa, Revoljucija 1917 glazami ee rukovoditelej, Edizioni Aurora, Roma 1971 (trad. it. La rivoluzione russa del 1917 vista dai suoi protagonisti, Edizioni Paoline, Roma 1980) e il cui autore, David Anin, si considerava un menscevico pur non potendo esserlo: era nato nel 1913 e i menscevichi non reclutavano al partito nell’emigrazione. 29 Reinhart Koselleck, Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione, in Id., Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, CLUEB, Bologna 2007, p. 62. 30 Ibid., p. 64. 31 A meno di non parlare, come fa Peter Holquist, Making War… cit., p. 233, di «un tempo dei torbidi dell’Europa del 1914-1921». 27
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si sottraeva anche agli schemi dell’alternativa tra rivoluzione “democratica” e “socialista” e del passaggio o trasformazione imposta dell’una nell’altra – è stata indotta in alcuni casi a proiettare su quella anarchia sociale la vecchia immagine dei torbidi32 o a tornare sulla separazione e reciproca estraneità tra popolo e potere radicata in secoli di storia russa33. Ma un elemento più importante è stato, a mio parere, la ripresa di alcuni approcci già proposti in periodo sovietico, con maggiore o soprattutto minore fortuna per i loro autori, da quegli storici spesso indicati come gli esponenti di una «nuova tendenza» – Michail J. Gefter, Victor P. Danilov, Konstantin N. Tarnovskij, Pavel V. Volobuev – i quali hanno studiato, per usare le parole d’uno di loro, «la pluralità dei modi di produzione dell’economia russa, il ruolo dei contadini, e della loro rivoluzione, arrivando a capire come fossero possibili un’interazione e una sovrapposizione di diverse epoche sociali, in un unico scorcio storico»34. È sulla base di queste indicazioni che diventa possibile approfondire gli intrecci e le divaricazioni tra i vari tipi di rivoluzione – dei soldati, degli operai, dei contadini; delle regioni centrali e di quelle periferiche e delle diverse nazionalità – distinguendoli per i contenuti e le forme in cui si sviluppano i diversi movimenti35 e non sulla base di una successione, progressiva o regressiva, di periodi connotati ideologicamente, democratico o socialista. È ancora su questa base che si può porre in modo non eccessivamente scolastico il tema, così presente nella coscienza dei contemporanei, delle analogie con la storia delle rivoluzioni europee36, come anche quello – che è stato particolarmente approfondito sul piano storiografico e documentario – di una rivoluzione contadina intesa come reazione al modo in cui si erano realizzati in Russia alcuni processi di modernizzazione, una rivoÈ il caso – fin dal titolo – dell’opera, comunque importante soprattutto per la innovativa metodologia di psicologia sociale, di Vladimir Buldakov, Krasnaja smuta. Priroda i posledstvija revolucionnogo nasilija [I torbidi rossi. Natura e conseguenze della violenza rivoluzionaria], Rosspen, Moskva 1997. 33 Grigorij Gerasimenko, Narod I vlast’ 1917 [Il popolo e il potere 1917], Voskresen’e, Moskva 1995. È importante, anche in altri contributi di questo autore, l’allargamento dell’interesse e della base documentaria al di là della situazione delle grandi città e in particolare di Pietrogrado. 34 Victor P. Danilov, Genesi e dissoluzione del sistema sovietico, “Il Passaggio”, n. 3, maggio-giugno 1992, p. 14. 35 Un elemento caratteristico è, spesso, la coloritura socialista assunta da diversi movimenti nazionali, tra i quali è significativo il caso del Dashnaktsuthiun armeno, un partito prevalentemente nazionalista che aveva aderito alla Seconda Internazionale riconoscendo nel socialismo un «passaporto verso la modernità europea»: è la formulazione di Charles Urjewicz e Claudie Weill in un paper inedito e non datato che riprende il loro seminario alla École des Hautes Études en Sciences Sociales dal 1982 al 1986, Les socialismes nationaux de Russie des origines à 1917. D’altro canto Ronald Suny ha sottolineato in varie occasioni gli intrecci tra appartenenze di classe e nazionali nelle periferie dell’Impero: cfr. Roland G. Suny, Nationalism and class in the Russian revolution: a comparative discussion, in Revolution in Russia. Reassessments of 1917, a cura di Edith Rogovin Frankel-Jonathan Frankel-Baruch Knei Paz-Israel Getzler, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1992, pp. 219-246; nonché Id., Classe e nazionalità nella Rivoluzione russa, “Passato e Presente”, n. 30, settembre-dicembre 1993, pp. 35-52. 36 Più in generale, la Russia è condannata alle analogie dal suo carattere di mnogoukladnost’, la coesistenza di diverse formazioni sociali che hanno potuto di volta in volta essere comparate con il dispotismo orientale, la civiltà bizantina, lo Stato assoluto europeo, la via prussiana all’industrializzazione, l’epoca delle rivoluzioni borghesi – e poi proletarie. 32
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luzione che passa attraverso la rivitalizzazione della obščina o una «rivoluzione in nome dell’obščina» (obščinnaja revoljucija37): un tema che sembra richiamare la lontana lettura di uno strano luogotenente della missione militare francese a Pietrogrado, che si occupava soprattutto di anima russa, Pierre Pascal, sul significato morale, comunitario, religioso della rivoluzione russa – «[…] il popolo è rivoluzionario perché è cristiano»38 – proprio per le sue basi nella civiltà contadina39, e che ha potuto avvalersi delle successive analisi d’un altro grande storico non russo, Moshe Lewin, sui processi di “arcaicizzazione” e consolidamento del mondo patriarcale della campagna russa nella congiuntura della guerra, della rivoluzione, della guerra civile. Credo che il recupero e la valorizzazione di queste indicazioni e innovazioni metodologiche siano state importanti in anni – a partire dalla perestrojka, ma non solo in Russia – che per molti versi appaiono segnati da una involuzione della storiografia legata a un eccesso di attese o a una vera vertigine documentaria: la «improvvisa passione collettiva per i documenti di archivio, dai quali si attendevano rivelazioni sensazionali sul passato»40. Proprio per questo sono tanto più importanti le pubblicazioni documentarie – in primo luogo grazie all’apertura degli archivi ex sovietici – che sono effettivamente legate a un rinnovamento e a un approfondimento delle ricerche, come la raccolta dedicata ai menscevichi nel 1917 a cura d’un gruppo di studiosi russi e americani diretto da Ziva Galili, Leopold Haimson e Al’bert Nenarokov41. La pubblicazione offre nel suo insieme un punto di vista non pregiudicato da alcun finalismo precostituito non solo su un partito che ha svolto in quei mesi un ruolo centrale di governo a livello centrale e locale, ma su come in esso, nelle sue divisioni interne, nel rapporto con gli altri partiti, nella resa dei conti d’una radicata cultura politica con lo sviluppo accelerato e incontrollabile degli avvenimenti, si riflettessero processi che riguardavano sia la società russa sia la crisi internazionale del movimento socialista.
Per questa definizione, ma anche per alcune considerazioni precedenti cfr. Pavel V. Volobuev-Vladimir P. Buldakov, Oktjabr’skaja revoljucija: novye podchody k izučeiju [La rivoluzione d’Ottobre: nuovi approcci di ricerca], “Voprosy istorii”, n. 5/6 1996, pp. 28-38. L’idea d’una lunga rivoluzione contadina in Russia, che relativizzava anche la data del 1917, era stata sostenuta già nell’opera di Teodor Shanin, The Awkward Class. Political Sociology of Peasantry in a Developing Society: Russia 1910-1925, Clarendon Press, Oxford 1972. 38 Pierre Pascal, Mon journal de Russie. 1. À la mission militaire française: 1916-1918, L’âge d’homme, Lausanne 1975, p. 278. Le basi della lettura religiosa della rivoluzione di Pascal e l’elemento del vivere nel futuro da lui rilevato – «[…] la Russia non è il paese che rappresentano i giornali: essa è prima di tutto la speranza dell’avvenire», ibid., p. 273 – non possono comunque essere considerati esclusivi della situazione russa: le rivoluzioni moderne si legittimano nel futuro – vedi Reinhart Koselleck, Criteri storici… cit. – e in esse si può sempre constatare «la presenza e l’azione di altri fattori oltre quelli economici» – Ernest Labrousse, Come nascono… cit., p. 236. 39 Si tenga presente il commento di Franco Venturi al saggio di Pascal su La commune paysanne après la révolution pubblicato ne “La révolution prolétarienne” del 1928 e poi raccolto con altri in Civilisation paysanne en Russie. Six esquisses, Editions de l’Age d’Homme, Lausanne 1969: «Sentiamo l’obščina contadina pulsare ancora e sopravvivere tenace negli anni che precedettero immediatamente la collettivizzazione staliniana» – Introduzione a Il populismo russo, cit., p. XLVI. 40 Fabio Bettanin, La fabbrica del mito (Storia e politica nell’Urss staliniana), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996, p. 249. 41 Men’ševiki v 1917 godu, 3 voll. (il 3° volume è in due parti), Rosspen, Moskva 1994-1997. 37
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Il confronto tra le diverse culture politiche russe e la sintonia con le questioni del mondo socialista internazionale, o di come l’Europa sarebbe uscita dalla guerra, sono il maggior contributo d’un classico come le Cronache della rivoluzione russa di Nikolaj Suchanov, tornate a circolare in Russia in una nuova edizione negli anni Novanta42. Le vicende raccontate da Suchanov non sono quasi mai azioni di massa, si svolgono prevalentemente in ambienti chiusi – le grandi sale dei congressi e delle conferenze, le stanze per le riunioni di comitati e commissioni, le abitazioni private compresa quella dell’autore, menscevico internazionalista, nella quale in sua assenza, ma complice la moglie, viene decisa dal Comitato Centrale bolscevico l’insurrezione dell’Ottobre43 – ma nei quali circola la coscienza d’essere al centro di un’attenzione europea, che ha fatto tornare in Russia gli emigrati rivoluzionari e affluire ministri e socialisti degli altri paesi, venuti soprattutto per perorare la causa della partecipazione alla guerra; ambienti dai quali si rivolgono appelli ai popoli e ai proletari del mondo intero. Il riapparire in Russia di diverse generazioni d’emigrati politici e il succedersi di ritorni segnati da diversi progetti e destini – chi torna in Russia per morirvi e chi per prendere il potere – è un elemento caratteristico della tensione tra nazionale e internazionale nel corso della rivoluzione. Ne troviamo un’eco nella diffidenza manifestata dai ricordi del menscevico Jurij Denike al momento del ritorno di Martov: «Fu uno spettacolo degno di nota l’apparizione di Martov, circondato da una schiera rumorosa di individui sempre agitati, isterici. Erano tutti emigrati del tipo ‘bohème’ e non avevano la minima idea della realtà russa»44. L’atmosfera delle cronache di Suchanov è anche quella nella quale si respira un continuo confrontarsi con la rivoluzione francese45, un elemento della cultura politica europea di molti protagonisti della rivoluzione russa, che troverà un puntuale riscontro in Francia in alcune prese di posizione di due dei maggiori storici della Grande Rivoluzione46. Per questo entrambi – e indipendentemente dalle differenze tra i due – saranno giudicati molNikolaj N. Suchanov, Zapiski o revoljucii, 3 voll., Izdatel’stvo političeskoj literatury, Moskva 1991 i primi due volumi e Izdatel’stvo “Respublika”, Moskva 1992 il terzo. Per la traduzione italiana dell’opera, originariamente pubblicata in lingua russa a Berlino nel 1922-1923, vedi Cronache della rivoluzione russa, 2 voll., Editori Riuniti, Roma 1967. È da segnalare anche la ripubblicazione d’un altro classico, come i ricordi di Aleksandr Šljapnikov, il principale dirigente bolscevico a Pietrogrado nel febbraio-marzo 1917, redatti negli anni Venti e rimasti per decenni chiusi nei reparti di «conservazione speciale» (specchrany) delle biblioteche sovietiche: Kanun semnadcatogo goda. Semnadcatyj god [La vigilia del ’17. Il ’17], 3 voll., Izdatel’stvo političeskoj literatury-Izd. “Respublika”, Moskva 1992. 43 «[…] mia moglie si informò esattamente delle mie intenzioni e mi diede l’amichevole e disinteressato consiglio di non affaticarmi, dopo il lavoro, con una lunga passeggiata»: Nikolaj Suchanov, Cronache… cit., p. 804. 44 Georg Denicke, Erinnerungen und Aufsätze eines Menschewiken und Sozialdemokraten, Friedrich-Ebert-Stiftung, Bonn 1980, p. 118. Dal canto suo, Denicke avrebbe dimostrato di non avere certo una vocazione alla chiusura nazionale, divenendo negli anni della emigrazione politica nella Germania di Weimar – con il nome di Georg Decker – uno dei più noti pubblicisti della socialdemocrazia tedesca e stretto collaboratore di Rudolf Hilferding. 45 Il tema è stato molto studiato negli ultimi anni, a partire dal libro di Tamara Kondratieva, Bolcheviks et Jacobins, Payot, Paris 1989. 46 In particolare Alphonse Aulard, La revolution française et la révolution russe. Lettre aux citoyens de la libre Russie, Payot, Lausanne 1917 e Albert Mathiez, Le Bolchevisme et le Jacobinisme, Librairie du Parti Socialiste et de l’Humanité, Paris 1920. 42
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to severamente da François Furet: il primo «sembra come obnubilato dall’analogia con la Rivoluzione francese» e il secondo avrebbe riletto la rivoluzione francese alla luce di quella russa e avrebbe usato l’analogia per esaltare in entrambi i casi i processi di radicalizzazione – il 1789 cancellato dal 1793 come il Febbraio dall’Ottobre: «una storia della Rivoluzione francese passata attraverso il filtro della dittatura sovietica»47. Condizionati da questo «andirivieni» di cui parla con una certa insofferenza Furet, sono anche i linguaggi e i simboli rivoluzionari48, dei quali la Russia del 1917 rivela la grande penetrazione fra le masse urbane e che sono una conferma della continuità tra il Febbraio e l’Ottobre: Una volta distrutti il vecchio regime e il suo sistema di simboli, coloro che si contendevano il potere lottavano per controllare il sistema simbolico del sottosuolo rivoluzionario, che dominava la cultura politica della Rivoluzione di Febbraio. La Russia può essere stata nel 1917 una democrazia pluralista, davvero il “paese più libero del mondo”, ma il linguaggio simbolico dei socialisti aveva un monopolio assoluto. Nessuno dubitava per un istante che i simboli del movimento rivoluzionario sarebbero diventati gli emblemi del futuro stato. […] Tutti i socialisti condividevano un linguaggio politico e una tradizione simbolica ereditati dal movimento rivoluzionario europeo e dalla propria comune sub-cultura del sottosuolo. I bolscevichi non facevano eccezione e anche il sistema simbolico che essi svilupparono dopo l’Ottobre era largamente basato su questa tradizione socialista comune49.
Una vera dichiarazione di europeismo era la decisione del soviet di Pietrogrado di far coincidere la data della celebrazione del 1° maggio – 18 aprile secondo il calendario ortodosso – con quella delle manifestazioni in Europa: solo con la caduta dello zarismo,
François Furet, Le due rivoluzioni (Dalla Francia del 1789 alla Russia del 1917), UTET, Torino 2002 (ed. or. Paris 1999). Le citazioni sono dal capitolo 1789-1917: andata e ritorno, in particolare alle pp. 104-105. 48 Boris I. Kolonickii, Sinvoly vlasti i bor’ba za vlast’. K izučeniju političeskoj kul’tury rossijskoj revoljucii 1917 goda [Simboli del potere e lotta per il potere. Per lo studio della cultura politica della rivoluzione russa del 1917], Dmitrij Bulanin, S. Petersburg 2001. L’elemento della spettacolarizzazione della rivoluzione è una delle poche cose che il molto citato ambasciatore francese Paléologue riesce a cogliere tempestivamente, anche se lo attribuisce all’anima slava: «Da quando è cominciata la rivoluzione non c’è stato un giorno senza cerimonie, cortei, processioni e parate; è un continuo succedersi di dimostrazioni trionfali, di protesta, commemorative, inaugurali, espiatorie, funebri, ecc. L’anima slava, con la sua sensibilità ardente e indefinita, col suo istinto profondo della folla, con la sua viva passione per l’emozione estetica e pittoresca, prova, in queste manifestazioni, compiacimento e diletto» – Maurizio Paléologue, La Russia degli zar durante la grande guerra, Salani, Firenze 1930. 49 Orlando Figes-Boris Kolonitskii, Interpreting the Russian Revolution: The Language and Symbols of 1917, Yale University Press, New Haven 1999, pp. 187 e 188. Un’attenzione alla simbologia e al ritualismo rivoluzionario è espressa, anche con un certo contagio emotivo, dalle note del diario di Ariadna Tyrkova-Williams – esponente di spicco del partito costituzional-democratico ma molto critica verso la linea del partito nello sviluppo degli avvenimenti – la quale nel «quinto giorno della rivoluzione russa» riporta sia le scritte inneggianti alla «Repubblica democratica», sia quelle legate all’eredità populista della Zemlja i Volja (Terra e Libertà): cfr. Petrogradskij dnevnik [Diario di Pietrogrado], “Zven’ja: Istoričeskij al’manach”, Vyp. 2 1992, p. 331. 47
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affermava l’editoriale dell’organo del soviet, «è diventato finalmente possibile annullare la differenza tra il 1° maggio russo e quello europeo»50. La nazione Il giorno in cui viene resa nota l’abdicazione di Nicola II – 3 marzo 1917 secondo il calendario russo del tempo – si uccide a Mosca con un colpo di rivoltella Sergej V. Zubatov, il famoso capo della polizia politica sostenitore d’una monarchia sociale da realizzare con i metodi del “socialismo poliziesco”, che popolarizzava l’immagine dello zar giusto e protettore d’un «ceto operaio» (rabočee soslovie) ancora legato alla Russia patriarcale e contadina: gli stessi «sindacati» organizzati da Zubatov erano visti come forme preparatorie d’un modello di «comuni operaie» (rabočie obščiny) ispirate all’esempio e al mito della comune contadina51. Zubatov era stato allontanato dalla sua carica già nel 1903, ma aveva svolto negli anni successivi un’attività pubblicistica e conservato per un certo tempo una notevole influenza – un suo seguace può essere considerato il famoso padre Gapon, organizzatore della manifestazione popolare che aveva dato origine alla “domenica di sangue” del gennaio 1905 – e la decisione di togliersi la vita era la presa d’atto della fine d’un progetto nazionale di unione tra zar e popolo, eccentrico già quando era nato rispetto ai principali Stati europei e al quale gli anni della guerra avevano tolto qualsiasi credibilità. Il 1917 russo è però anche una messa alla prova di progetti nazionali moderni, che avrebbero dovuto dare un nuovo fondamento allo Stato russo, ma nei cui autori le immagini dei “torbidi” (smuta) e del bunt tornavano a più riprese, e sempre più insistenti. Sono quei politici e intellettuali che, a partire da tali progetti, seguono con crescenti preoccupazioni lo sviluppo degli avvenimenti ed esprimono con queste immagini la perdita di aspettative che la guerra e anche lo scoppio della rivoluzione avevano inizialmente alimentato, e la crescente sfiducia nella vera nascita d’una nazione russa di tipo europeo. Ho già accennato al progetto nazionale-imperiale di Petr Struve, ormai su posizioni nettamente conservatrici anche rispetto al partito costituzional-democratico, ma importante punto di riferimento per il dibattito in esso sulla questione nazionale52. Struve, che subito
50 1-e maja (18-e aprelja) [1° maggio (18 aprile)], “Izvestija Petrogradskogo Soveta Rabočich i Soldatskich Deputatov”, n. 36, 9 aprile 1917. 51 Sulla figura e l’opera di Zubatov esiste un’ampia letteratura già dagli anni Venti, con i lavori di un importante storico russo come Boris P. Koz’min; nella storiografia occidentale un classico è Jeremiah Schneiderman, Sergei Zubatov and Revolutionary Marxism: the Struggle for the Working Class in Tsarist Russia, Cornell University Press, Ithaca-New York-London 1976. Nella Russia post-sovietica sono stati pubblicati anche molti materiali documentari, in particolare del fondo Zubatov dell’Archivio di Stato della Federazione Russa (Garf), tra i quali va citata la serie “Chmuryj” policejskij. Kar’era S.V. Zubatova [Il poliziotto “incupito”. La carriera di S.V. Zubatov], a cura di Jurij F. Ovčenko, “Voprosy istorii”, nn. 4 (pp. 3-17), 5 (pp. 3-23), 6 (pp. 3-26), 7 (pp. 3-30), 8 (pp. 3-12) 2009. 52 Vale la pena di ricordare che l’importanza del tema della nazione per il liberalismo russo era già presente – come un lascito significativo per l’evoluzione di alcune personalità di matrice liberale nel periodo sovietico, in particolare Nikolaj Ustrjalov – già nei lavori degli anni Ottanta di Michail Agurskij sul nazional-bolscevismo – cfr. Ideologija nacional-bol’ševizma, Ymca Press, Paris 1980 e La terza Roma. Il nazionalbolscevismo in Unione Sovietica, il Mulino, Bologna 1989 – e sarebbe
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dopo il Febbraio aveva salutato la «Russia liberata» sulla sua rivista “Russkaja Mysl’”, è fra i primi a registrare, sul settimanale “Russkaja Svoboda” da lui fondato nell’aprile 1917, l’ondata anti-patriottica che è fomentata a suo parere dalla sempre più demonizzata intelligencja e dai socialisti, e che compromette l’obiettivo espresso dallo slogan della «guerra fino alla sua fine vittoriosa». Nell’articolo apparso nell’ultimo numero di “Russkaja Mysl’” del 1917, tutto lo sviluppo dei mesi precedenti è descritto come una «controrivoluzione» che ha rovesciato il processo di rivoluzione costituzionale avviato in Russia dai primi anni del secolo e che ha assunto le forme del «bunt dei soldati» e del «pogrom panrusso»; e la guerra si è ormai trasformata nel fattore scatenante i peggiori istinti antistatali del popolo e della intelligencija russi53. L’idea della nuova nazione nel socialismo russo – che dopo il Febbraio trova in Iraklij Cereteli il suo maggior protagonista politico – ha un forte riscontro nei numerosi interventi di Aleksandr Potresov sul quotidiano “Den’” e sul quindicinale e poi settimanale “Delo”54, ma dentro una visione pessimistica del peso della realtà e del passato russi, che Potresov non avrebbe aspettato il Febbraio e tanto meno l’Ottobre per manifestare. Rispetto all’acquisizione da parte del movimento operaio europeo d’un senso della nazione che è il frutto di una lunga «scuola di cittadinanza» e che realizza un «patriottismo del cittadino» (patriotizm graždanina), Potresov, in un articolo del 1916, avverte nei comportamenti del proletariato russo – e nella linea della maggioranza delle forze socialiste, compresa quella menscevica a cui storicamente apparteneva – i segni d’una immaturità e d’una regressione alle vecchie illusioni slavofile, contro le quali rievoca l’ironia di Saltykov-Ščedrin sulla provincia russa: «Io non credo all’internazionalismo orientale, il quale sarebbe fiorito per salvare l’onore del socialismo quando l’Occidente era appassito e sprofondato nel peccato. Io guardo con sospetto a questi giusti dell’Oriente che portano oggi la luce che nasce dalla loro mente al peccaminoso mondo europeo e ricordo ostinatamente che non è la prima
stata confermata da uno dei più attenti studiosi russi della tendenza costituzional-democratica, Valentin V. Šelochaev, in un’opera apparsa subito prima del crollo dell’Unione Sovietica, Ideologija i političeskaja organizacija liberal’noj buržuazii [Ideologia e organizzazione politica della borghesia liberale], Nauka, Moskva 1991 e che, pur facendo ancora in tempo ad adottare in extremis un titolo di stampo prettamente sovietico – Buržuaznyj nacionalizm protiv proletarskogo internacionalizma [Il nazionalismo borghese contro l’internazionalismo proletario] – dedicava un intero accurato capitolo a questo tema come ad uno dei più rilevanti di quella tradizione politica. Su Struve e sulla sua evoluzione politica sono tuttora indispensabili gli studi di Richard Pipes, Struve. Liberal on the Left, 1870-1905, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1970 e Id., Struve. Liberal on the Right, 1905-1944, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1980. 53 Petr B. Struve, V čem revoljucija i kontrrevoljucija? [In cosa consistono la rivoluzione e la controrivoluzione?], in Id., Izbrannye sočinenija [Opere scelte], Rosspen, Moskva 1999, pp. 253257. Il rapporto, in questo senso, tra guerra e rivoluzione è centrale nelle conferenze da lui pronunciate nel novembre 1919 nel campo delle Armate bianche e pubblicate su “Russkaja Mysl’” nel 1921: vedi Razmyšenija o russkoj revoljucii, ibid., pp. 258-288, in cui torna tutto il repertorio della pugačevščina e della russkaja smuta e la guerra fa tutt’uno con la rivoluzione, fino all’affermazione che la guerra continua fino a che la rivoluzione non sarà abbattuta – «La rivoluzione russa è un episodio della guerra mondiale. Dato che non si è ancora compiuto il superamento della rivoluzione, per noi la guerra mondiale non è ancora finita», ibid., p. 272. 54 Un’ampia raccolta degli articoli di Potresov è presente in Rubikon 1917-1918. Publicistika, Sbornik Statej [Rubicone 1917-1918. Pubblicistica, Raccolta di articoli], Rosspen, Moskva 2016.
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volta che Pošechon’e salva l’Europa»55. Nel giugno 1917, egli vede ormai il compiuto ritorno sulla scena sociale e politica russa delle eredità del passato: una «sfera pubblica senza Stato» (bezgosudarstvennaja obščestvennost’), lo «spirito del villaggio» (derevenščina) e, finalmente, il buntarstvo, la «varietà propriamente russa del ribellismo anarchico»56. La denuncia dell’anarchia dilagante e dei rischi di «oclocrazia», dopo un iniziale entusiasmo per il valore liberatorio del Febbraio, e ancora il rilievo d’una slavofilia di ritorno nelle pretese della democrazia russa di «salvare il mondo dalla guerra» e di «ristabilire l’Internazionale», ricorrono negli articoli di Pitirim Sorokin del 1917 sugli organi di stampa socialisti-rivoluzionari “Delo naroda” e “Volja naroda”, articoli che possono essere considerati la registrazione di esperienza vissuta sulla base della quale si svilupperà la sua sociologia delle guerre e delle rivoluzioni57. Sorokin dimostra anche una particolare sensibilità, insofferente e sospettosa, per il linguaggio della rivoluzione e quello che definisce il «feticismo delle parole» (slovesnyj fetišizm): è un tema del quale Kolonickij, senza farsi troppo coinvolgere nelle polemiche sul linguistic turn, ha reso evidente l’importanza con i suoi lavori, ma che era stato subito al centro dell’interesse d’un importante slavista francese che, dagli anni precedenti la prima guerra mondiale a tutto il 1918, aveva avuto varie occasioni di frequentare la Russia, dai suoi ambienti intellettuali e accademici alle sue prigioni58. Ma l’esempio politicamente più rilevante in questo campo credo che sia quello di Nikolaj Ustrjalov, il maggior esponente, di lì a qualche anno, del noto movimento di «cambio delle pietre miliari» (Smena vech). Ustrjalov vive nel 1917 un processo – analogo a quello di Struve – di distacco e opposizione a una rivoluzione alla quale aveva aderito inizialmente in nome della possibilità di rafforzare l’unità nazionale nella conduzione della guerra. Nel settembre 1917, dedica un articolo alla crescente diffusione nella società russa del termine «compagno» (tovarišč) al posto di «cittadino» (graždanin) e vede in questo «qualcosa di triste e spiacevole», anche se molto russo e antico: un rifiuto dell’«Occidente borghese», che ha preso il posto del «marcio Occidente» degli slavofili, per respingere un’idea moderna di cittadinanza59. «Cittadino», spiega Ustrjalov, è una categoria giuridica che implica una responsabilità e richiede un ordine, una disciplina, rispetto alla totalità politica di cui si fa parte; «compagno» è una categoria morale, che si fonda su un vincolo d’amore e su un ideale massimalistico, che toglie responsabilità e diritti: «Noi stavamo in basso, all’ultimo gradino. Eravamo sudditi, schiavi. Abbiamo voluto diventare non dei cittadini di uno Stato
L’articolo Patriotizm I meždunarodnost’ [Patriottismo e internazionalità], dal quale sono tratte le formulazioni e il passo citati, è parzialmente riprodotto in Aleksandr N. Potresov, Izbrannoe [Scritti scelti], Mosgorarchiv, Moskva 2002, pp. 176 e 177. Il riferimento è al romanzo di Michail Saltykov-Ščedrin, Fatti d’altri tempi nel distretto di Pošechon’je, trad. it. di Gigliola Venturi, Quodlibet, Macerata 2013 (Einaudi, Torino 1962). 56 Aleksandr N. Potresov, Rokovye protivorečija russkoj revoljucii [Le contraddizioni fatali della rivoluzione russa], in Izbrannoe, cit., p. 193. 57 La raccolta di questi articoli in Pitirim A. Sorokin, Zametki sociologa. Sociologičeskaja publicistika [Note di un sociologo. Pubblicistica sociologica], Aletejja, Sankt-Peterburg 2000. 58 André Mazon, Lexique de la guerre et de la révolution en Russie (1914-1918), Champion, Paris 1920. Sui rapporti di Mazon con la Russia e le sue vicissitudini nel paese, varie informazioni nel numero della “Revue des études slaves”, n. 1 2011, dedicato ad André Mazon et les études slaves. 59 Nikolaj A. Ustrjalov, “Tovarišč” I “graždanin”, in Id., Izbrannye trudy [Opere scelte], Rosspen, Moskva 2010, p. 82. 55
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libero, ma immediatamente dei compagni, fratelli di una fratellanza universale. E come risultato siamo rimasti schiavi. Soltanto rivoltosi. Questo è il nostro destino»60. Il «tempo dei torbidi» dà il titolo – non deciso formalmente dall’autore ma rispondente pienamente ai suoi contenuti – del diario moscovita di Jurij V. Got’e, pervenuto abbastanza avventurosamente negli Stati Uniti grazie ai viaggi ripetuti, dalla guerra agli anni Venti, di Frank A. Golder61. Una caratteristica abbastanza eccezionale del diario di Jurij V. Got’e è quella d’essere «un vero diario», come nota lo studioso che ne ha introdotto l’edizione americana62, una registrazione delle proprie reazioni allo svolgersi degli avvenimenti e non una ricostruzione successiva in forma di memorie, autobiografia, cronaca. Un elemento particolarmente intrigante è che Got’e era uno storico di professione, un importante storico della Russia moderna, che nutriva tutte le diffidenze e le cautele del caso verso il tipo di fonte che aveva deciso di produrre63. Il diario di Got’e non esprime polemicamente il fallimento del progetto nazionale di un uomo impegnato in politica64, ma semplicemente prende atto della fine d’una nazione: Finis Russiae è l’incipit del diario nel luglio 1917. Got’e legge il corso della rivoluzione come il Ivi. Frank A. Golder, War, revolution and peace in Russia: the passages of Frank Golder, 19141927, a cura di Terence Emmons et al., Hoover Institutions-Stanford University, Stanford 1992. 62 Terence Emmons, Got’e and His Diary, Introduzione a Jurij Got’e, The Time of the Troubles. The Diary of Jurii Vladimirovich Got’e, Moscow, July 8, 1917 to July, 23, Princeton University Press, Princeton 1988, p. 6; per il testo russo vedi Jurij V. Got’e, Moi zametki [Le mie note], Terra, Moskva 1997. Gli esempi di “veri diari” non sono molti, rispetto alla sovrabbondanza d’una memorialistica a fini più o meno apologetici o giustificativi, benchè la disponibilità di archivi anche familiari ne abbia accresciuto negli ultimi anni la quantità. Vorrei segnalare quelli di due donne di grande intelligenza e fascino: il diario di Zinaida Gippius, che ha una storia molto complicata di recuperi e ritrovamenti ma del quale esiste una parziale edizione italiana, e le brevi note di Ariadna Tyrkova-Williams già citate. Quello della Gippius era un punto di osservazione straordinario sulla politica e sull’intelligencija di Pietrogrado durante la guerra e la rivoluzione: per la collocazione della sua residenza – «[…] abitavamo vicino alla Duma, accanto alla cancellata del giardino di Tauride»: Zinaida Nikolaevna Gippius, Diari pietroburghesi, Voland, Roma 1999, p. 24 – e per la quantità e qualità dei personaggi che la frequentavano. Vanno inoltre indicati i diversi volumi del journal di Pierre Pascal, anche se “lavorato” da considerazioni e inserti documentari successivi, dei quali è però evidenziata la distinzione rispetto alle note originarie dei carnets tenuti dall’autore: il 1° volume – Pierre Pascal, Mon journal de Russie. 1… cit. – è sugli anni della guerra e della rivoluzione. Il journal di Albert Thomas, il più impegnato dei socialisti dell’Intesa nel sostenere la partecipazione russa alla guerra, è soprattutto un promemoria d’interventi, rapporti, documenti vari legati alla sua missione, ma non mancano impressioni sugli incontri avuti e qualche ritorno di fiamma della sua coscienza socialista: Journal de Russie d’Albert Thomas, document inédit présenté et annoté par I. Sinanoglou, “Cahiers du monde russe et soviétique”, n. 1-2 1973, pp. 86-204. 63 «[…] io, un uomo che ha avuto un’educazione e la sfortuna di scegliere come sua specialità scientifica la storia del suo paese natale, mi sento obbligato a registrare le mie impressioni e in tal modo a creare una molto imperfetta, molto soggettiva, ma comunque una fonte storica, che può essere usata da qualcuno in futuro. Lo faccio in contrasto con tutte le mie opinioni precedenti a questo riguardo. In modo specifico, non volevo scrivere ricordi o riflessioni, né un diario, perché ho sempre pensato che di tale robaccia ne fosse stata scritta abbastanza senza di me»: Jurij Got’e, The Time of the Troubles… cit., p. 28. 64 Got’e stesso nel diario accenna alla brevità della sua esperienza nel partito costituzional-democratico – un partito molto frequentato dagli storici dove però, egli afferma, Miljukov e Kizevetter 60 61
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prodotto di una «decomposizione centenaria del vecchio regime», quindi come «un risultato di cause interne, non esterne»65, ma segnato dagli effetti della guerra e dal prevalere delle forze distruttive – indicate come «i rivoluzionari, gli emigrati, gli ex terroristi» – su quelle costruttive, cioè «le unioni degli zemstva e delle città, i comitati militari-industriali»66. In questo quadro, Got’e individua una caratteristica “plebea” della rivoluzione – anche se non ricorre a questo termine, che è stato usato con intenti diversi da storici venuti dopo, come Moshe Lewin o Ettore Cinnella – nella estromissione di una «intelligencija russa orientata al servizio»: «Chiunque fosse a un livello culturale più alto delle masse ignoranti e della semi-intelligencija completamente disorientata era dichiarato nemico del popolo, borghese»67. Un motivo d’interesse del diario è anche quello di seguire il dopo-Ottobre attraverso i principali eventi interni – l’affermarsi della dittatura bolscevica, la guerra civile, il comunismo di guerra – e internazionali – la pace di Brest-Litovsk, la guerra russo-polacca e la battaglia di Varsavia, la pace di Riga – e d’indicare alcuni problemi di quegli anni che per Got’e sono prioritari: la mancanza d’un patriottismo pan-russo e il rafforzarsi dei patriottismi regionali, in particolare dell’odiato nazionalismo ucraino68. La conclusione del diario a cinque anni dalla rivoluzione registra come ancora irrisolta la ricostruzione economica, sociale, nazionale della Russia e lascia aperta la questione di cosa avverrà d’un Paese nel quale l’autore sembra comunque aver ritrovato una sua normalità professionale, come attestano le ultime righe, nelle quali si dichiara onorato per la reazione negativa di Pokrovskij alla pubblicazione a Pietrogrado, nel 1921, della sua opera, questa volta storica, sullo Smutnoe vremja69. L’Europa Dopo l’Ottobre i russi diventano “compagni” e non “cittadini”, e non sotto un governo di unione di tutte le forze socialiste che, dopo l’abbattimento del Governo provvisorio, sembrava la prospettiva più probabile e coerente con la parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet”, ma sotto la dittatura d’un partito che si era affermato nella maggioranza delle grandi città come l’unica alternativa alla situazione prodotta dalla guerra e al vuoto d’iniziativa politica delle forze ascese al potere nel Febbraio. Poteva sembrare l’esito d’una situazione senza vie d’uscita, la fine d’una nazione nella quale avevano prevalso le forze distruttive presenti al suo interno, ma si trattava principalmente di una storia europea negli anni della prima guerra mondiale, sulla quale buona parte delle società europee – e poi anche al di là dell’Europa – avevano investito le loro emozioni e alla quale avevano affidato le loro speranze. E continueranno a farlo anche non avevano trovato «nulla da fare per me» – dopo la quale egli sarebbe rimasto un «isolato» – o un «senza partito» secondo la classificazione sovietica – per il resto della sua vita: ibid., pp. 33 e 34. 65 Ibid., pp. 27 e 28. 66 Ibid., p. 41. 67 Ibid., p. 35. 68 Alcuni spunti antisemiti sul prevalere degli ebrei nel nuovo potere e alcune note ucrainofobe abbastanza tradizionali nel liberalismo russo, sono il prezzo che Got’e paga al suo personale obščerossijskij patriotizm. 69 Ibid., p. 461.
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dopo l’Ottobre per quello che quel regime rappresentava per la volontà d’uscire dalla guerra e cambiare i rapporti sociali. I russi hanno affascinato il mondo70, o hanno avuto un impatto su di esso, non per quello che hanno fatto, ma per la consonanza con quello che hanno tentato e che volevano fare molti milioni di loro contemporanei71. Il successo internazionale – dalla prima edizione americana72, ma anche in Europa e nella Russia sovietica – di un libro come Dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed, oggi può essere difficile da spiegare, se non per il suo prestarsi – come lo stesso autore – a fortunate trasposizioni cinematografiche: opera d’un giornalista emotivamente molto partecipe e nel cuore della vicenda ma che non sapeva il russo, scritta a distanza d’un anno dagli avvenimenti sulla base degli appunti e dei ricordi ma anche dei suggerimenti e sotto il controllo dei vincitori, tesa a glorificare insieme a Lenin soprattutto colui che sarebbe stato il grande perdente degli sviluppi post-rivoluzionari – tanto che la pubblicazione della casa editrice del PCdI, nel 193073, lasciando i riferimenti a Trockij del resto difficili da espungere data la loro quantità, può essere considerata a suo modo un atto di coraggio. Sicuramente è un buon pezzo di giornalismo – di guerra o di rivoluzione – che sa intrecciare i grandi eventi e la vita quotidiana – non si può parlare di vita normale nella Pietrogrado del 1917 – e cioè la violenza diffusa, il freddo, la fame, il sonno, le mense, i trasporti, la difficoltà a capire che cosa stava succedendo. Ma, soprattutto, rispondeva a un bisogno d’identificarsi con la rivoluzione russa diffuso in molte parti del mondo e condiviso – per citare un testimone ormai insospettabile – «da tutti coloro che vedevano allora la Russia e, dietro di lei, il mondo volgere le spalle a un passato di guerre e di miserie»74. Negli anni che seguono la fine della guerra mondiale si misura, nella situazione interna ai vari Stati europei e nel quadro geopolitico, come era cambiata l’Europa e come era cambiata la posizione della Russia nel mondo. L’Europa che esce dalla guerra mondiale porta su di sé i segni di ciò che dalla guerra – e anche contro la guerra – è stato generato: gli stessi trattati di pace sono un’eredità e una continuazione della guerra, come avrebbe spiegato tempestivamente Keynes, così come segnati dalla guerra sono i nuovi movimenti sociali descritti da Martov75, che mostravano comunque – nella reazione rappresentata dal
Moshe Lewin, Pourquoi l’Union soviétique a fasciné le monde, “Le monde diplomatique”, novembre 1997, pp. 16-17: un articolo che aiuta a capire il paradosso del fascino esercitato da un paese sempre in lotta con la propria arretratezza relativa. 71 La questione dell’“impatto”, che ha dato il titolo a varie ricerche, è complicata appunto perché richiede una comprensione sia di chi l’impatto lo esercita sia di chi lo subisce, di chi è disposto a recepire un messaggio perché vi cerca una risposta ai propri problemi. 72 John Reed, Ten Days That Shook the World, Boni and Liverlight, New York 1919. 73 John Reed, Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Edizioni di Cultura Sociale, Paris 1930. 74 Boris Souvarine, Pierre Pascal et le sphinx, in Souvenirs, Editions Gérard Lebovici, Paris 1985, p. 130. In tutto questo, secondo Souvarine, non c’era «traccia di marxismo» (ivi), ma nemmeno bisogno di spiegazioni particolarmente complicate o di teorie cospirative: «L’interminabile guerra, in effetti, spiega abbastanza l’ascesa del bolscevismo in Russia e l’ascendente del comunismo sul movimento sociale nel mondo senza che vi sia bisogno di cercare macchinazioni tenebrose o pseudo-rivelazioni romanzesche» (ibid., p. 128). 75 Julij Martov, Bolscevismo mondiale, Introduzione di Vittorio Strada, Torino, Einaudi 1980. Si trattava d’una serie di articoli apparsi tra l’aprile e il luglio 1919 sulla rivista di Char’kov, “Mysl’”, e pubblicati in volume a Berlino nel 1923. Martov sintetizzava «le caratteristiche fondamentali del bolscevismo come fenomeno mondiale» in tre gruppi di fattori: «il massimalismo, il desiderio di ottene70
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bolscevismo al “socialismo di guerra” dei grandi partiti della Seconda Internazionale – le ragioni del forte richiamo della Russia sovietica e una situazione del movimento operaio europeo ancora non cristallizzata nei campi separati degli anni successivi. L’intervento in Russia di alcuni grandi Stati europei, e non solo, è stato considerato in seguito un mito fondativo del regime sovietico – l’accerchiamento – ma è in questi anni una realtà contro la quale si schiera gran parte di quel movimento e non solo gli aderenti al bolscevismo. Dal punto di vista geopolitico, la fine degli imperi aveva portato alla formazione di una nuova Europa orientale. Nell’editoriale del primo numero della rivista della Gesellschaft für das Studium Russlands, “Osteuropa”76, che si proponeva di concentrare l’attenzione sulla Russia ma nel quadro di tutta l’Europa orientale, il suo direttore Otto Hoetzsch partiva proprio dal passaggio da una visione unitaria dell’impero russo alla presa d’atto d’una configurazione che da quella matrice aveva visto nascere, oltre alla Russia sovietica, i nuovi Stati periferici (Randstaaten) che si erano staccati da essa: Finlandia, Stati baltici, Polonia. Riconoscendo un certo ritardo per un paese come la Germania, i cui rapporti storici con la Russia erano rivitalizzati e drammatizzati nel presente dall’essere «compagni di sofferenze» (Genossen im Leid)77, Hoetzsch accennava alle grandi riviste che erano sorte negli anni di guerra negli altri paesi europei e che avevano tutte un orientamento non solo russo, ma europeo-orientale o slavo78, prendendo così implicitamente atto di quanto la questione russa incidesse sull’Europa orientale e impegnasse a ripensarne i rapporti e gli equilibri. Nel suo articolo, Hoetzsch sviluppava anche alcune considerazioni generali sulla posizione della Russia tra Europa e Asia, riprendendo alcuni importanti contributi nel mondo dell’emigrazione russa a affermando la prevalente appartenenza della Russia all’Europa, malgrado le direzioni indicate sia dalla corrente eurasiatica di Nikolaj Trubeckoj, sia dall’orientamento bolscevico alla rivoluzione mondiale «passando per l’Asia»79. Alla configurazione geopolitica determinata dall’esistenza del nuovo Stato russo si aggiungeva, ancora nell’articolo di Hoetzsch, la realtà di un’«altra Russia» in Europa, che
re risultati immediati massimi nella realizzazione di miglioramenti sociali, trascurando le condizioni oggettive»; «l’assenza di un serio interesse per le necessità della produzione sociale, la prevalenza – come tra i soldati – del punto di vista del consumatore su quello del produttore»; «la propensione a risolvere tutti i problemi della lotta politica, della lotta per il potere, con l’uso immediato della forza armata, persino nei rapporti tra singole parti del proletariato» (ibid., pp. 6-7). 76 Otto Hoetzsch, Deutschland und Russland (Ein Wort zur Einführung), “Osteuropa”, n. 1 1925, pp. 1-8. Il sottotitolo della rivista era «Zeitschrift für die gesamten Fragen des europäischen Ostens». 77 Ibid., p. 2. 78 Hoetzsch citava per la Francia “Le Monde Slave” dell’Institut d’Etudes Slaves, per l’Inghilterra “The Slavonic Review” – dal 1928 “The Slavonic and East European Review” – della School of Slavonic Studies, per l’Italia “L’Europa Orientale” dell’Istituto per l’Europa Orientale. Si potrebbero almeno aggiungere, per la Francia, la “Revue des études slaves” e, per l’Italia, “Russia”, poi divenuta “Rivista di letterature slave”. Gli animatori di queste riviste –Pares, Mazon, Lo Gatto e altri – insieme allo stesso Hoetzsch, sono figure chiave per i rapporti culturali col mondo russo e slavo nell’Europa tra le due guerre. 79 Ibid., p. 4. Sulle oscillazioni – con riferimento all’opinione pubblica e alle classi dirigenti italiane del ’900 – nel rapporto Russia-Europa-Asia, vedi Giorgio Petracchi, La Russie: Orient ou “finistère” de l’Europe?, “Matériaux pour l’histoire de notre temps”, n. 76, Octobre-Décembre 2004, pp. 13-19.
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aveva una dimensione «quale mai finora una emigrazione ha avuto»80. La rivoluzione e i suoi sviluppi lasciavano di fronte all’Europa una doppia presenza russa, due Russie ostili ma non separate, con aspri confronti politici e ideologici che naturalmente riguardavano l’interpretazione del 191781, ma anche con movimenti frequenti di andata e ritorno, con questioni di cittadinanza e di rappresentanza a lungo aperte, che avevano entrambe di fronte a sé una storia di rapporti ricchi e difficili con i diversi paesi europei. L’impatto della nuova Russia, che esce dalla rivoluzione e dalla guerra civile, sulle società e sugli Stati europei si esplica attraverso strumenti diversi, che possono entrare in contraddizione fra loro, ma è in entrambi i casi un impatto molto forte, che condizionerà tutto il quadro europeo dopo la prima guerra mondiale e imporrà un nuovo rapporto tra politica interna e politica estera. Sotto gli occhi dell’Occidente non c’erano più solo spie, déracinés, personalità disturbate, ma signori dalle buonissime maniere e rivoluzionari internazionali trasformatisi in diplomatici – come Čičerin o Krasin, Litvinov o Rakovskij – e movimenti di massa che guardavano alla Russia come a un’altra patria. Ma quelli delle due Russie – e della Russia come un’altra patria – sono nuovi capitoli, dei quali la rivoluzione del 1917 è solo l’inizio.
Otto Hoetzsch, Deutschland und Russland… cit., p. 2. Per le interpretazioni storiograficamente rilevanti del 1917 russo nell’emigrazione, sono almeno da ricordare, negli anni Venti, l’opera di Pavel Miljukov, tornato in veste di storico, Istorija vtoroj russkoj revoljucii [Storia della seconda rivoluzione russa], in più volumi, Rossijsko-borgarskoe knigoizdatel’stvo, Sofija 1921-1923 e poi riedita da Rosspen, Moskva 2001; nonché quella di Sergej Ol’denburg, Le Coup d’état bolchéviste, Payot, Paris 1929. 80 81
INTERVENTI
Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa - xxxi, 2016
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“Disillusione socialista” e delusione storiografica: a proposito d’un libro sulla storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia
Chi si è occupato in ambito storiografico di sindacalismo rivoluzionario e azione diretta in Italia aspettava da tempo, crediamo, dopo i fondamentali testi di Alceo Riosa e Gian Biagio Furiozzi di circa quarant’anni or sono1, la comparsa d’un volume in grado di fornire una nuova interpretazione “generale” e una ricostruzione “nazionale” d’un fenomeno assai complesso e variegato come appunto il sindacalismo rivoluzionario. Negli ultimi anni, infatti, è apparsa imprescindibile la necessità d’aggiornare fonti, bibliografia e approntare un discorso in grado di rendere edotti circa l’evolversi del dibattito su questi temi, in un’Italia e in un mondo che appaiono peraltro totalmente differenti dal contesto degli anni Sessanta-Settanta: sul piano politico, sindacale, culturale, sociale, dunque anche storiografico. Il libro in questione – Giorgio Volpe, La disillusione socialista. Storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2015 – non soddisfa tuttavia tali esigenze e legittime aspettative. Fin dall’incipit, dedicato alle “origini” del movimento, l’analisi e l’approccio metodologico sono molto datati e si concentrano soprattutto sulle dinamiche politico-partitiche, ma non “sociali” e “sindacali”, limitate peraltro alla Napoli di fine Ottocento-primi del Novecento, quasi che questa matrice – studiata dall’Autore in chiave “localista” più che “locale” – possa essere ritenuta la sola, dunque in grado di segnare in maniera indelebile ed imperitura lo sviluppo dell’intero sindacalismo rivoluzionario italiano. Questo, al contrario, da un lato non può non essere messo in feconda relazione con fenomeni ottocenteschi, di portata non solo nazionale, come il Partito Operaio Italiano, i Fasci Siciliani nonché la più ampia vicenda della I Internazionale2. Dall’altro lato, tuttavia, esso ebbe modo d’agire e operare già nel corso del primissimo Novecento grazie alle
Vedi Alceo Riosa, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia e la lotta politica nel Partito socialista in età giolittiana, De Donato, Bari 1976; Id., Il sindacalismo rivoluzionario in Italia dal 1907 alla “Settimana Rossa”, “Movimento operaio e socialista”, n. 1 1979, pp. 51-86; Gian Biagio Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario italiano, Mursia, Milano 1977. 2 Lo stesso padre dell’operaismo italiano, Osvaldo Gnocchi-Viani, nel dicembre 1906 inviava un fervido e indicativo “augurio” al neonato quotidiano sindacalista romano “L’Azione”, in particolare ad Enrico Leone che ne era il direttore – cfr. Il saluto di Gnocchi-Viani, “L’Azione”, 31 dic. 1906 – e scrivendo non a caso che dopo aver udito Leone in una conferenza di propaganda, egli aveva «provato la deliziosa soddisfazione di sentire che lo spirito della Associazione Internazionale dei Lavoratori [ovvero la I Internazionale] non era morto soffocato, come sembrava». 1
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forti connessioni che alcuni “gruppi” – da Napoli a Milano, da Roma a Parma, per citare solo i più noti – in epoche diverse e in virtù di progetti politico-sindacali sensibilmente differenti, realizzarono con le lotte sociali e soprattutto sindacali che il proletariato italiano autonomamente innescava e spesso guidava, anche in questa fase “originaria”. Su tali basi infatti e a partire da questa complessa realtà “sociale” – prima ancora che “politica” o magari solo “partitica” – dell’Italia intera, sarebbe stato interessante sviluppare un discorso sul sindacalismo rivoluzionario che tenesse dunque conto di tali più ampie “origini” e successive dinamiche, mettendole in relazione alla nascita, al rapido sviluppo e sovente all’altrettanto rapido tramonto dei molti “sindacalismi” italiani. Insomma il più vasto fenomeno dell’azione diretta, che è tutt’uno coi prepotenti mutamenti della società italiana otto-novecentesca. In virtù di questi, infatti, il sindacalismo rivoluzionario nasce, prospera e mette radici spesso solide in regioni ed aree urbane le più diverse fra loro, indipendentemente dalle «origini meridionali» di questo o quel leader sindacalista. Altrettanto datata, inoltre, è nel libro la volontà di sottolineare la provenienza «studentesca» dei sindacalisti rivoluzionari3, quasi che l’essere “intellettuali” nell’Italia giolittiana attraversata da imponenti fenomeni di modernizzazione capitalistica, quindi d’ibridazione e “migrazione” socioeconomica fra ceti e classi, fosse un termine che escludeva antropologicamente una qualche comunicazione con gli “operai” e i “contadini” che però, al pari della cosiddetta “borghesia” più o meno piccola, erano attraversati da identici fenomeni di smottamento e forte mutazione, su cui tutt’oggi ci si continua ad interrogare, magari nell’ottica della global history. In assenza d’una simile prospettiva, ovvero non legando strettamente e problematicamente il sindacalismo rivoluzionario all’azione diretta, cioè la storia dei partiti e dei movimenti politici sia a quella delle organizzazioni sindacali sia a quella della “società” nel suo complesso, diventa complicato o addirittura proibitivo a nostro avviso studiare il sindacalismo rivoluzionario. Si corre infatti il rischio, in tal modo, di tornare a privilegiare un approccio storiografico che, a dispetto di quel che l’Autore proclama nell’Introduzione, si concentra in massima parte proprio sulla storia – forzatamente interpretata come unitaria – d’un presunto ed unico “gruppo” sindacalrivoluzionario, costituito da “meridionali”
Anche quest’idea espressa a più riprese da Volpe, invero piuttosto vintage, d’una dirigenza sindacalrivoluzionaria intrinsecamente “piccolo borghese” e “meridionale”, ci sembra smentita dalla profluvie di quadri operai e/o comunque centro-settentrionali che furono a tutti gli effetti sindacalisti rivoluzionari nell’arco del primo Novecento – molti dei quali facenti anche parte, non a caso, della giunta esecutiva del Segretariato della Resistenza nel 1905-1906 – fino alla prima guerra mondiale, proprio in un concretissimo piano “proletario”: a parte Filippo Corridoni, Alceste De Ambris o magari Alighiero Ciattini, valgano ad esempio i principali leader delle Camere del Lavoro e di non poche Federazioni di Mestiere italiane dell’epoca, da Zurigo Lenzini a Romolo Sabbatini, da Alessandro Degiovanni a Virginio Corradi, da Zeffirino Traldi a Cleobulo Rossi, fino ad Ercole Mariani ed Emanuele Branconi, per citare i più noti. L’approccio privilegiato da Volpe, peraltro, cominciò ad essere messo energicamente in discussione già nei primi anni Settanta da alcuni relatori dell’ormai celeberrimo convegno di Piombino e a proposito del quale cfr. Il sindacalismo rivoluzionario nel periodo della Seconda Internazionale, atti del Convegno patrocinato dal Centro Piombinese di Studi Storici e tenutosi a Piombino dal 27 al 30 giugno 1974, “Ricerche storiche”, n. 1 1975. 3
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e da “intellettuali”, che improvvisamente muove alla “conquista” del PSI, o magari della Camera del Lavoro (CdL) di Milano ovvero del Nord “operaio”4. Uno schema rigido, insomma, oltre che invecchiato, direi tarato su diktat partitico-ideologici dell’altro secolo e sul quale, pure, Volpe costruisce questo suo studio in un’epoca che paradossalmente si proclama post-ideologica, post-moderna. In egual modo, egli sembra non tenere in nessun conto questioni, temi e vicende su cui la storiografia – recente e meno recente – si è cimentata, anche dividendosi e dibattendo. Totalmente assente, infatti, nel senso che non è neppure citata, la storiografia che ha indagato la dimensione locale ed anche categoriale dell’azione diretta5, o quella relativa ai temi dell’antimilitarismo, del pacifismo, del “giovanilismo” – con annessa chiave di lettura “generazionalista” – e dunque della storia della Federazione Giovanile Socialista in cui tanta parte ebbero i sindacali-
4 A p. 48 si scrive non a caso a proposito di Walter Mocchi, che egli fu «il primo esponente del gruppo de “La Propaganda” a sbarcare [sic] a Milano». 5 Mancano del tutto riferimenti storiografici accettabili inerenti categorie fondamentali come i ferrovieri, i tipografi, i metalmeccanici, i gassisti ed elettricisti, il proletariato agricolo, gli edili, i tessili, ecc.: senza avere lo spazio per poter elencare l’ampia mole di studi in tal senso, rinviamo perlomeno e per un quadro generale a Stefano Musso, Storia del lavoro in Italia: dall’Unità a oggi, Marsilio, Venezia 2002. Identico deficit riguarda la dimensione locale dell’azione diretta e del sindacalismo rivoluzionario: le aree urbane – Milano, Torino, Bologna, Brescia, Piacenza, Ferrara, ecc. e perfino la Napoli da cui tutto, in un certo senso, ebbe “origine” secondo l’Autore, che si concentra però solo sulla Napoli del tardo Ottocento fino al 1902-1903 e non sull’intera età giolittiana, non considerando perciò uno studio ancor oggi fondamentale come quello di Giuseppe Aragno, Socialismo e sindacalismo rivoluzionario a Napoli in età giolittiana, Bulzoni, Roma 1980 – ma anche intere regioni come la Puglia – da non limitare alla sola attività di Giuseppe Di Vittorio – mentre della Sicilia di Vincenzo Purpura e della Sardegna di Attilio Deffenu, ad esempio, nulla ci è dato sapere in questo libro. Quanto alla Roma primonovecento, invece, cioè quella delle molte lotte proletarie e dello sciopero dei tipografi divenuto poi sciopero generale nel 1903, temi questi su cui ormai vi è una ragguardevole mole di studi ben distribuiti nel tempo – ricordiamo, fra i tanti, quelli contenuti in Paolo Carusi (a cura di), Roma in transizione: ceti popolari, lavoro, territorio nella prima età giolittiana: atti della giornata di studio, Roma, 28 gennaio 2005, Viella, Roma 2006 – pure nel libro di Volpe, sempre nell’assenza di riferimenti bibliografici minimi, anche limitati alla sola categoria dei tipografi capitolini, troviamo solamente questo accenno: «anche nelle grandi città l’azione di [Arturo] Labriola aveva un certo seguito. A Roma, prima che vi si recassero [Enrico] Leone e [Paolo] Mantica per dar vita a “Il Divenire sociale” nel 1905, vi era Giuseppe Parpagnoli, intransigente, a capo del grande sciopero dei tipografi romani del 1903: dato il suo carattere indipendente, egli non può essere definito un sindacalista rivoluzionario a tutti gli effetti, ma il suo orientamento decisamente anti-riformista e le collaborazioni con “Avanguardia socialista” ed in seguito con “Il Divenire sociale” e “Pagine libere”, fanno in modo che lo si possa considerare quantomeno un ‘forte simpatizzante’» (p. 54). Più oltre invece, a p. 79, si accenna a un non ben specificato «periodo di gestazione del sindacalismo rivoluzionario di Enrico Leone» e alla fondazione de “Il Divenire sociale”, appunto nel 1905, ed in cui il Leone “romano” – di cui qui non si parla affatto, però – «fu affiancato alla direzione [della rivista] da Paolo Mantica, altro socialista d’origine partenopea [sic]». Sulla figura di Paolo Mantica e del fratello Giuseppe Giovanni, socialisti e massoni calabresi d’un certo peso nel primo Novecento, mi permetto di rinviare a Daniele D’Alterio, Mantica Paolo, in Dizionario biografico degli italiani. Vol. 69 [http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-mantica_(Dizionario-Biografico)/] e ai riferimenti bibliografici ivi contenuti.
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sti rivoluzionari6; altrettanto assente, inoltre, l’ormai corposa mole di studi sulle molteplici connessioni dell’azione diretta con la storia del “sindacato” lato sensu, comprese le origini e il primo sviluppo della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL)7. Anche il rapporto fra sindacalismo riformista e rivoluzionario è analizzato en passant, ma soprattutto in maniera puramente “oppositiva”, appunto perché al sindacalismo rivoluzionario così come lo interpreta Giorgio Volpe manca un saldo ancoraggio alla più ampia vicenda dell’azione diretta8. Proprio la figura di Enrico Leone, in quest’ottica, ci sembra davvero male inquadrata e la grande complessità dell’iter politico dell’intellettuale e leader sindacalrivoluzionario campano torna così da un lato ad essere inclusa oltremodo nella dimensione delle “origini” – gli anni de “La Propaganda”, in massima parte – dall’altro ad ondeggiare disordinatamente tra Labriola, Ferri e Sorel, rimanendo comunque subordinata all’iniziativa del gruppo dell’“Avanguardia socialista”, altrettanto erroneamente interpretato dall’Autore quale unico e principale fautore del sindacalismo italiano fra il 1902 e il 1907, quasi una sorta di primo mobile o magari di “centrale” rivoluzionaria da cui dipende ogni palpito del sindacalismo italiano a livello nazionale9. Lacunosa, poi, a dispetto dell’ambizione da cui muove il volume e dell’annessa volontà di realizzare una «biografia collettiva» del sindacalismo rivoluzionario italiano, è proprio la dimensione biografica dell’analisi, costruita in larga misura sul Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato ma che, forse, avrebbe richiesto un ulteriore “sforzo”, sia archivistico-documentario sia bibliografico10. Appena accennati, inoltre, temi
6 Non si considera nel libro di Volpe neppure quel che a tale riguardo ha scritto, fra gli altri, Gaetano Arfé, sia nella Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965 sia, soprattutto, ne Il movimento giovanile socialista. Appunti sul primo periodo (1903-1912), Ed. del Gallo, Milano 1966. 7 Sarebbe infatti stato preferibile, all’uopo, che in questa storia del sindacalismo rivoluzionario italiano venisse considerato con la dovuta attenzione soprattutto Maurizio Antonioli, che ha dedicato illo tempore e continua tutt’oggi a dedicare decine di studi all’azione diretta e al sindacalismo rivoluzionario anche in una dimensione europea, all’USI, a Filippo Corridoni, Armando Borghi, Alceste De Ambris, al rapporto fra anarchismo e sindacalismo, alla CGT, ecc. ecc. 8 Si veda, in tal senso, quanto l’Autore scrive a pp. 39-43. In relazione al sindacalismo riformista invece – che è un fenomeno da considerare non solo in opposizione a quello “rivoluzionario”, bensì fortemente collegato ad esso dalla comune matrice proletaria, sovente in grado d’intrecciarsi in maniera problematica ed anche sorprendente alla storia dell’azione diretta e delle sue principali figure, magari all’ombra della tradizione operaista od anche di trovarsi in atteggiamento critico nei confronti del socialismo riformista, “partitico” e “turatiano” – non se ne analizza criticamente la vicenda, né si considerano studi fondamentali: valgano ad esempio quelli più recenti di Paolo Mattera, fra cui Le radici del riformismo sindacale: società di massa e proletariato alle origini della Cgdl (1901-1914), Ediesse, Roma 2007. 9 Curioso, peraltro, che un intero capitolo del libro di Volpe sia intitolato Riforma o rivoluzione sociale? (pp. 45 sg.) appunto sulla falsariga del celebre libro di Arturo Labriola, Riforme e rivoluzione sociale, del 1904, a sua volta “mutuato” dall’opera di Karl Kautsky e che, pure, è erroneamente citato a p. 60 del libro di Volpe con il titolo di Riforma e rivoluzione sociale, sebbene a p. 63 esso torni però nuovamente Riforme e rivoluzione sociale. 10 Crediamo infatti che sarebbe stato utile per l’Autore tener conto dell’autentica miriade di studi a carattere biografico sui principali esponenti del sindacalismo rivoluzionario, molti proliferati negli ultimi vent’anni e in relazione ai quali si veda in massima parte il Dizionario biografico degli italiani, dunque le varie voci dedicate da molti studiosi a diversi esponenti sindacalisti: fra le tante,
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assai “consistenti” come il rapporto, anche solo strettamente filosofico, fra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario11 – che non si riduce alla sola fase “anarco-sindacalista”, successiva allo sciopero generale parmense del 1908 – o la cosiddetta revisione “edonistica” del marxismo operata dai molti economisti sindacalrivoluzionari fino in epoca fascista, e su cui ci si sofferma in questo studio abbastanza distrattamente12. Parziale, invece, la riflessione di Volpe su vicende apparentemente “particolari” come il “doppio” sciopero dei ferrovieri del 1905 e quello generale anti-sonniniano del 1906. Questi episodi, infatti, costituirono un salto di qualità dell’azione diretta operaia13 prima ancora del solo “sindacalismo rivoluzionario” o di alcuni suoi esponenti privilegiati dall’Autore, e determinarono alfine una “pressione” consistente, per quanto disarticolata, dell’intero movimento operaio italiano – in attitudine “offensiva” – sul sistema politico-parlamentare “giolittiano”. Di questa “pressione” proletaria e sindacalista, nondimeno, che contribuì a determinare una prima grave crisi del sistema di potere giolittiano, indi un suo riassestamento di lungo periodo intorno al 1907-1908, in questo libro sostanzialmente non si parla, se non per ricondurre tali vicende sempre e comunque alle movenze del “gruppo” napoletano-milanese dell’“Avanguardia socialista”, per l’Autore unico terminale del sindacalismo rivoluzionario nel suo complesso, e alla sua iniziativa, di colpo esauritasi nel 1907 e letta in un’ottica prevalentemente partitica14.
ad esempio, quella di Giorgio Fabre, Orano Paolo, in Dizionario biografico degli italiani. Vol. 79 [http://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-orano_(Dizionario-Biografico)/], ricchissima di riferimenti archivistici e bibliografici. Sempre a tal proposito, avrebbe dovuto essere degno di menzione nel libro di Volpe l’ormai “classico” studio di Mauro Canali, Cesare Rossi: da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Il Mulino, Bologna 1991 ed in cui l’intera prima parte è dedicata alla stagione sindacalrivoluzionaria e in buona parte “romana” di Rossi. Altrettanto indicativa, nel libro di Volpe, l’assenza del recente saggio di Federico Goddi, Tullio Masotti. Biografia di un sindacalista rivoluzionario, “Giornale di storia contemporanea”, n. 1 2011, pp. 47-74 in cui il focus è su un esponente sindacalista pure assai citato da Volpe, specie in relazione alla parabola dell’USI. 11 Sul quale si vedano ad esempio i molti studi di autori come Giampietro Berti, Gino Cerrito, Fabrizio Giulietti, Maurizio Antonioli, oltre ovviamente Pier Carlo Masini. 12 Non esiste ad esempio in queste pagine – a parte un fugace riferimento finale al pregevole studio a carattere biografico di Willy Gianinazzi, L’itinerario d’Enrico Leone: liberismo e sindacalismo nel movimento operaio italiano, Franco Angeli, Milano 1989 – un confronto dell’Autore con le ipotesi storiografiche di chi, a più riprese, ha maggiormente indagato gli aspetti “teorici”, politico-filosofici ed economici, del pensiero d’Enrico Leone: Eugenio Zagari, Marxismo e revisionismo: Bernstein, Sorel, Graziadei, Leone, Guida, Napoli 1975; Giovanna Cavallari, Classe dirigente e minoranze rivoluzionarie: il protomarxismo italiano (Arturo Labriola, Enrico Leone, Ernesto Cesare Longobardi), Jovene, Camerino 1983; Stefania Mazzone, Enrico Leone: liberalismo e sindacalismo, in Georges Sorel nella crisi del liberalismo europeo, a cura di Giovanna Cavallari e Paolo Pastori, Università di Camerino-Affinità Elettive, Camerino-Ancona 2001, pp. 363-385; Daniela Andreatta, Tra mito e scienza: la revisione del marxismo nel pensiero politico di Georges Sorel e di Enrico Leone, Cleup, Padova 1999; Luigi Marco Bassani, Marxismo e liberismo nel pensiero d’Enrico Leone, Giuffrè, Milano 2005. 13 Nei casi in cui ci si riferisce all’azione diretta, peraltro, in questo libro la si nomina curiosamente action directe, quasi si trattasse d’un prodotto d’importazione, francese appunto, e non un movimento autonomo – non meramente “spontaneo”, inoltre – dei lavoratori, in tal caso italiani. 14 Nel libro peraltro, nonostante quest’approccio prevalentemente “partitico”, specie nell’analisi del sindacalismo rivoluzionario fino al 1907, non viene analizzata affatto, ad esempio, la formazione
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Assenti dal libro di Volpe o presenti tutt’al più in forma di brevi accenni, poi, riflessioni – pure a nostro avviso necessarie in un volume che voglia proporsi come una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia e che quindi intenda aggiungere qualcosa di nuovo sul piano storiografico – su eventi tutt’altro che secondari. In primis il cosiddetto “caso Scarano” e il rapporto, controverso ma ineludibile, di una parte del sindacalismo rivoluzionario e del socialismo nel suo complesso con la Massoneria e che obbligano a guardare con occhi diversi, o comunque maggiormente critici, il “distacco” – o non fu piuttosto una espulsione comminata dagli “integralisti” morgariani, già nel 1907? – dell’azione diretta dal PSI e dalla stessa CGdL. O, in egual modo, la “strana” presenza nella Redazione de “Il Sindacato Operaio” e poi nel Gruppo Sindacalista Rivoluzionario Romano ancora nel 1907, accanto ad Alceste De Ambris e a Romolo Sabbatini, di Cleobulo Rossi, cioè uno dei fondatori e ideatori della CGdL nel 1906; indi la parallela contiguità al sindacalismo leoniano, proprio nello specifico della CdL capitolina lungo tutto l’arco del primo Novecento, di un’altra importante figura del sindacalismo riformista italiano come Ernesto Verzi15. Anche quando il volume di Volpe tenta di approfondire la dimensione europea e transnazionale del sindacalismo rivoluzionario nostrano, lo fa astrattamente o tutt’al più su un piano d’analisi puramente “teorico”, limitandosi alla cronaca del dibattito-scontro prodottosi all’epoca nell’ambito della II Internazionale16. Non vengono considerate dunque né le differenze fra i movimenti operai e sindacali – non solo fra i partiti socialisti pertanto – italiani e stranieri, né quelle, di non poco conto, fra lo stesso Sorel e i cégétistes né, infine, fra le diverse opzioni politiche e sindacali scaturite dall’azione diretta nostrana e che pure Volpe finisce per includere nel presunto indelebile “meridionalismo” dei sindacalisti rivoluzionari, anzi di tutti i sindacalisti rivoluzionari italiani, sic et simplicter. Altrettanto approssimativa la parte del libro in cui vengono prese in esame le vicende – di non facile lettura, del resto – del sindacalismo rivoluzionario successive al 1907, inquadrate sempre in virtù di stilemi in base ai quali «dalla Milano di Labriola e Lazzari ci trasferiamo nella Parma di De Ambris», mentre secondo una visione davvero discutibile «le nuove riviste [d’area, fra cui “L’Internazionale”,] smettono di avere ambizioni nazionali e divengono più simili a fogli di propaganda locale». Inoltre, in ragione dell’interpretazione che l’Autore privilegia – e in base alla quale per quanto riguarda tutto il corso del primo
e lo sviluppo del cosiddetto “blocco integralista” all’interno del PSI, che nacque proprio in funzione antisindacalista ad opera principalmente di Oddino Morgari e Francesco Paoloni; né, circa la storia del PSI, appaiono sufficienti i riferimenti bibliografici: si ignora del tutto, fra i molti ed illustri, anche il recente studio di Paolo Mattera, Storia del Psi: 1892-1994, Carocci, Roma 2010. 15 Sulla grande complessità della figura di Verzi rinviamo, fra gli altri, a Maurizio Antonioli (a cura di), “I metallurgici d’Italia nel loro sindacato” di Ernesto Verzi, Ediesse, Roma 2007. 16 Anche in tal caso, peraltro, con supporti bibliografici a nostro avviso non sufficienti: quando si parla di Francia e di Confederation Generale du Travail (CGT), a mancare completamente è la storiografia sia italiana sia francese – valga per tutti Jacques Julliard – sia, infine, anglosassone, che dagli anni Sessanta ad oggi ha indagato questi fenomeni, in maniera degna d’essere presa in considerazione. Del tutto assente, invece, una riflessione storiografico-bibliografica sulle connessioni – all’ombra della “tradizione” operaista tardottocentesca italiana – fra sindacalismo rivoluzionario e tradeunionismo o, anche, fra azione diretta nel suo complesso e il sindacalismo degli Industrial Workers of the World, già studiato anni or sono e ancora di recente, fra i tanti, da Bruno Cartosio; o, infine, il rapporto del sindacalismo rivoluzionario italiano con quello spagnolo o magari – all’ombra dell’emigrazione italiana in Sud America – latinoamericano.
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Novecento, ad imporsi è l’analisi delle vicende interne ai vertici del solo PSI – improvvisamente «il luogo del contendere si trasferisce dal partito al sindacato» (p. 125), quasi che tutto il faticoso processo costitutivo della CGdL non abbia visto attivi ed operanti i diversi gruppi sindacalrivoluzionari italiani, in virtù di differenti e a volte contrapposti progetti politico-sindacali. Su questi labili assiomi, pertanto, viene tratteggiato un sindacalismo – mutato, nel frattempo, perlopiù in «anarco-sindacalismo» – dal 1907-1908 dedito alla «affermazione progressiva di un modello extra-istituzionale» (p. 126) e che, pure, abbastanza misteriosamente stando a questa ricostruzione, qualche anno dopo sarà in grado di coagularsi attorno ad una “istituzione” di rilievo e a carattere nazionale come l’Unione Sindacale Italiana (USI). Anche per quanto riguarda l’esame più approfondito degli scioperi operai e di quelli agrari del 1907-1908, l’Autore si muove spesso con scarsa attenzione, ad esempio quando sostiene – a proposito degli «scioperi del parmense e gli scontri di Torino in maggio; il tentativo di sciopero generale, nato a Milano in ottobre, e poi esteso a Parma, Bologna e Cremona; le lotte bracciantili in Puglia, che raggiunsero il loro apice nel novembre» – che «il movimento sindacalista, concentrato sui suoi problemi interni e sull’organizzazione del Congresso di Ferrara, rimase sostanzialmente estraneo a tali eventi, se si eccettua il sostegno formale che, naturalmente, non poteva mancare. L’unica eccezione degna di nota fu rappresentata dalla rapida ascesa di Alceste De Ambris, che da lì a poco si sarebbe rivelata fondamentale»: un De Ambris, precisa l’Autore, «d’estrazione borghese, […] con un alto livello d’istruzione», quindi con una sorta d’indispensabile pedigree, tale da renderlo «sulla carta […] perfettamente compatibile con quello dei sindacalisti rivoluzionari partenopei» (pp. 126-127). Lo stesso definitivo distacco dalla CGdL, maturato in questa fase, in assenza d’una analisi soddisfacente sull’azione diretta e sulla sua dimensione “sindacale”, la quale peraltro non fu solo “scioperaiola” e “spontaneista” nei gruppi sindacalrivoluzionari ma anche – sebbene problematicamente – progettuale e perfino “istituzionale”, appare nelle pagine di questo libro sin troppo meccanico, sì che in buona sostanza «alla tattica riformista si opponeva una visione del sindacato completamente alternativa, e cominciavano ad emergere alcuni temi assimilabili alla tradizione del pensiero anarchico» (p. 129). Anche circa il tema e la categoria interpretativa della disillusione – che dà il titolo al libro e che l’Autore intende però quasi come una sorta di puro movente psicologico, dovuto a una sorta di “stanchezza” comparsa quale fulmine a ciel sereno dopo lo sciopero di Parma del 1908 e con cui si tenta di spiegare un più vasto e articolato processo di “transizione”, non di rado dall’estrema Sinistra all’estrema Destra, ovvero un movimento complesso ed anche contraddittorio d’una parte dell’azione diretta nonché della società e della cultura italiane, poi lungo tutto il corso degli anni Dieci e oltre17; ebbene anche in tal caso ci si affida a strumenti interpretativi e ad apparati bibliografico-documentari quanto mai fragili. Molto lacunosa, infatti, è la ricostruzione di Volpe delle vicende del sindacalismo rivoluzionario italiano fino alla guerra di Libia e alla nascita dell’USI, sì che la progressiva
In tal senso trovo singolare che l’Autore, anche su questi temi, non abbia sentito il bisogno di confrontarsi in qualche modo con chi ha scritto interi volumi in proposito, proponendo ad esempio la complessa e stimolante categoria interpretativa del “socialismo nazionale”: cfr. all’uopo perlomeno Maddalena Carli, Nazione e rivoluzione. Il socialismo nazionale in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Unicopli, Milano 2001. 17
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adesione d’una parte del movimento alle idee nazionaliste è meramente “registrata” – peraltro non approfondendo affatto la storia di quella pattuglia di sindacalisti, due dei quali proprio napoletani, fra l’altro, i quali sin dal 1908 erano passati “a Destra”, costituendo poi una non risibile parte della dirigenza dell’Associazione Nazionalista Italiana: Roberto Forges Davanzati, Maurizio Maraviglia, Tomaso Monicelli18 – ma nient’affatto spiegata ed inquadrata criticamente. In egual misura non appare soddisfacente la breve riflessione relativa ai grandi scioperi operai, industriali ed urbani, degli anni Dieci, in cui magna pars fu l’azione diretta, divenuta però nel frattempo e in virtù di alchimie socio-politiche abbastanza misteriose nella forma in cui le presenta l’Autore, «[i] sindacalisti rivoluzionari di Corridoni» (p. 177), là dove si torna a parlare, alla fine della narrazione inerente lo sciopero generale nazionale del 1913, di «essenza dell’anarco-sindacalismo», ovvero di «localismo» e «spontaneismo», cui Volpe aggiunge alcune di quelle che gli sembrano le principali caratteristiche di siffatta stagione di preoccupanti violenze sociali: la «classica relazione economicismo-spontaneismo» e un sostanziale insurrezionalismo “anarchico”, del resto anch’esso piuttosto “tradizionale” in base a questo genere di lettura (p. 179)19. Questo carattere “didascalico”, infatti, caratterizza il volume là dove esso affronta temi pure molto consistenti ed impegnativi sul piano storiografico-interpretativo, come la conflittualità sociale del 1913-1914 fino alla Settimana Rossa, indi la successiva convulsa fase dell’interventismo, nella quale una parte della dirigenza dell’USI confluì dando vita all’Unione Italiana del Lavoro (UIdL). In questi importanti snodi l’Autore spesso non sembra in grado d’identificare correttamente il ruolo del sindacalismo rivoluzionario, anche perché secondo Volpe con la Settimana Rossa «era tramontato il mito sindacalista dello sciopero generale» e perciò «la storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia si concludeva così come era iniziata [nel 1904]: con il fallimento di uno sciopero generale nazionale» (p. 187). Così, nondimeno, si dimentica di ricordare che la vicenda – anche solo istituzionale – dell’USI, volendo aprioristicamente escludere dall’analisi l’UIdL e le cosiddette origini dei sindacati fascisti, termina in realtà nel 1925, intrecciandosi con capitoli importanti d’una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia: la prima guerra mondiale e Caporetto, Fiume, il Biennio Rosso – ovvero l’esperienza consiliare che, seppure in una forma grezza, aveva contraddistinto ad esempio un episodio paradigmatico come lo sciopero generale romano del 1903, attraversando poi tutto il corso dell’azione diretta italiana e riproponendosi perciò nel dopoguerra, certo in forme diverse – infine l’avvento e il consolidarsi del fascismo, il quale fu anche “corporativismo”, infine le stesse origini del PCI, in cui confluì una “frazione terzinternazionalista” dell’USI guidata da Giuseppe Di Vittorio. Il libro si chiude con una breve ma assai ambiziosa riflessione su «sindacalismo e fascismo» (pp. 189 sg.), nella quale si critica quella non ben specificata «parte della storiografia» che in buona sostanza, da Renzo De Felice in poi avrebbe studiato il complesso rapporto fra sindacalismo e fascismo da un’angolatura che l’Autore giudica errata, in buona sostanza perché in questo lungo torno di tempo sarebbe stata privilegiata una chiave di lettura in virtù della quale l’interrogativo di fondo era volto, in massima parte, a compren-
In merito vedi perlomeno Adriano Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001. 19 Più oltre invece si sostiene che, sul «piano locale» e nel 1914, il sindacalismo rivoluzionario finalmente era «uscito dall’ambito prettamente bracciantile», dunque «appare evidente che il pensiero dell’action directe, per attecchire, aveva bisogno di un proletariato maturo» (p. 183). 18
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dere «se e quanto Mussolini sia stato sindacalista[, limitando così] lo studio del problema ai soli sindacalisti che aderirono al regime» e non domandandosi piuttosto «quali e quanti sindacalisti divennero fascisti», cadendo perciò in quella che l’Autore definisce «sineddoche storiografica». Una prospettiva, questa, dalla quale oggi si può uscire definitivamente, «[cercando] di restituire la complessità del fenomeno storico, tentando di comprenderne il significato in relazione al contesto liberale a cui [il sindacalismo rivoluzionario] appartenne», compito che sarebbe stato assolto per Volpe dalla decina di pagine che egli dedica, a mo’ d’epilogo, a questo sterminato tema dalle sterminate implicazioni, e nelle quali viene tracciato un frettoloso elenco di personalità sindacaliste – non tutte, peraltro: mancano i succitati nazionalisti Forges Davanzati, Monicelli e il mai citato Maraviglia, ad esempio, ma anche il mai preso in esame Luigi Razza o Romolo Sabbatini, quasi per nulla considerato dall’Autore e che nel libro non si sa che fine faccia dopo il Congresso di Roma del PSI del 1906 – divenute alcune fasciste altre antifasciste, anche in tal caso in assenza di adeguati supporti bibliografici. In conclusione, pertanto, possiamo dire che questo libro, molto ambizioso nei suoi obiettivi di fondo e pregevole se non altro come “tentativo” di ripensare una storia del sindacalismo rivoluzionario a quasi quarant’anni di distanza dall’ottimo Il sindacalismo rivoluzionario in Italia di Gian Biagio Furiozzi20, rimane appunto un “tentativo”, coraggioso, a tratti ardimentoso ma incapace di tener conto delle molte, amplissime implicazioni, connessioni e ibridazioni storiografico-metodologiche che una storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia presupporrebbe. Oltre a quelle che abbiamo man mano elencato, possiamo infatti aggiungere il grande tema del rapporto fra “politica” e “cultura” in relazione all’evolversi d’uno sfaccettato movimento sindacalrivoluzionario nostrano, quindi letteratura, arte, teatro, perfino poesia dialettale, storia della fotografia e dell’“immagine”, tutti campi d’indagine più o meno esplorati dalla storiografia; o, ancora, un discorso di lungo periodo, anche à rebours, sul rapporto fra mazzinianesimo, repubblicanesimo, sorelismo e sindacalismo rivoluzionario21; oppure un tema spesso in subordine e che pure ci si sarebbe aspettato di veder sviluppato da un giovane studioso, ovvero il ruolo delle donne: quali e quante ve ne furono nel sindacalismo rivoluzionario, anche in ambito locale? Perché aderirono all’azione diretta? Erano tutte intellettuali e napoletane oppure la loro composizione geografica e socioeconomica è più diversificata? Quali i loro percorsi biografici, i loro esiti “esistenziali”22?
Il quale non a caso si premurò di fornire un robusto supporto bibliografico al testo, sì che la bibliografia finale di questo volume costituisce ancor oggi un utile ausilio per lo studioso interessato alle vicende dell’azione diretta e del sindacalismo rivoluzionario in Italia. Un’altra valida ricerca bibliografica, successiva, è quella di Amedeo Osti Guerrazzi, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia (1904-1914): una bibliografia orientativa, “Rassegna di storia contemporanea”, n. 1 1996, pp. 125153. 21 Oltre agli studi di Gian Biagio Furiozzi su questo tema vedi – nello specifico romano e in relazione a un’esperienza pure d’importanza non solo locale come la Lega Generale del Lavoro, capace di riunire sindacalisti rivoluzionari, anarchici ma anche un piccolo nucleo di mazziniani – fra gli altri Roberto Carocci, Il sindacalismo d’azione diretta. La Lega Generale del Lavoro (Roma, 1907-1910), “Giornale di storia contemporanea”, n. 1 2011, pp. 26-46. 22 Cfr. all’uopo – circa la figura di Maria Rygier – il saggio di Ferdinando Cordova, Le spie del regime. Il caso Maria Rygier, in Id., Il consenso imperfetto. Quattro capitoli sul Fascismo, Rubettino, 20
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L’obiettivo, quindi, appare mancato nel libro in questione forse perché un solo studioso, vista la straordinaria complessità del tema “sindacalismo rivoluzionario”, può apparire inadatto ad assolvere tale compito, che del resto sembra proibitivo per certi versi, specie negli ultimi anni e in seguito al proliferare delle monografie, dei saggi e delle fonti – anche on line – ed al quale potrebbero magari dedicarsi più storici, anche di diverso orientamento e con approcci disciplinari differenti, nell’ambito d’un progetto che non può non essere necessariamente “collettivo” a nostro avviso23. Una ragione in più, dunque, per studiare con rinnovato vigore e passione questi temi, liberandoli da anticaglie, obsolescenze e pregiudizi ideologici davvero del secolo scorso, e che magari rischiano – anche involontariamente – di riportare indietro il dibattito storiografico su un tema difficile ma affascinante e, al di là delle apparenze, estremamente “attuale” come il sindacalismo rivoluzionario.
Soveria Mannelli 2010, pp. 274-305; nonché Barbara Montesi, Un’anarchica monarchica: vita di Maria Rygier (1885-1953), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2013. 23 Qualcosa di simile è stato fatto in Francia, ad esempio, nel numero monografico Le syndicalisme rèvolutionnaire. La Charte d’Amiens a cent ans, “Mil neuf cent”, n. 24 2006.
ABSTRACTS
Filippo Focardi, La sfida del patriottismo repubblicano: la “guerra della memoria” del Presidente Ciampi Durante i sette anni del suo mandato come Presidente della Repubblica, dal 1999 al 2006, Carlo Azeglio Ciampi ha svolto un’intensa politica della memoria volta a rifondare e rilanciare un patriottismo repubblicano come fattore di coesione rispetto alle tensioni prodotte dallo scontro politico interno e come risposta alle istanze antiunitarie della Lega Nord. L’azione di pedagogia civile nazionale del Presidente Ciampi si è sviluppata attraverso il rilancio di simboli – l’inno di Mameli e il tricolore – nonché luoghi – il Vittoriano e il Palazzo del Quirinale – e ricorrenze – la festa della Repubblica del 2 giugno. Un particolare impegno è stato profuso dal Presidente sul terreno della memoria attraverso la costruzione di una master narrative basata sull’asse di riferimento Risorgimento-Resistenza-Repubblica-Unione Europea. Ciampi ha così promosso una memoria istituzionale finalizzata a integrare patriottismo nazionale e appartenenza europea. Il Quirinale ha avuto successo nel contrastare gli attacchi più radicali del revisionismo contro la Resistenza. Resta però ancora da compiere un’adeguata resa dei conti del paese con l’esperienza del regime fascista. During the seven years of his term as President of the Republic, from 1999 to 2006, Carlo Azeglio Ciampi has carried out an intense politics of memory which tends to reestablish and revitalize a republican patriotism, intended as a factor of cohesion, as opposed to the tensions produced by the internal political conflict, and also intended as a response to instances of the separatist Lega Nord. The action of civil and national pedagogy of President Ciampi was developed through the revival of symbols (the national anthem and the Italian flag) as well as places (Vittoriano and the Quirinale Palace) and anniversaries (the Day of the Republic of June 2). A special effort was made by the President on the ground of memory through the construction of a master narrative based on the reference axis Risorgimento-ResistanceRepublic-European Union. Ciampi has thus promoted an institutional memory aimed to supplement a national patriotism and an European belonging. The Quirinal has been successful in counteracting the more radical revisionism’s attacks against the Resistance. But it remains still to be made by the Italian nation, a proper reckoning with the experience of the fascist regime.
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Paolo Savona, Il modello economico di riferimento implicito nell’azione di Carlo Azeglio Ciampi da Governatore della Banca d’Italia e da Ministro del Tesoro Questo saggio si propone di individuare, utilizzando i paradigmi noti in letteratura, quale modello economico di riferimento implicito vi è stato nell’azione di Carlo Azeglio Ciampi come Governatore della Banca d’Italia e come Ministro del Tesoro, negli anni in cui egli ha guidato l’Italia ad aderire all’euro fin dall’inizio. Le conclusioni raggiunte accreditano l’interpretazione secondo la quale vi sono state tre fasi nella sua azione politica ed economica. In primo luogo, Ciampi ha ereditato dal suo predecessore alla guida della Banca d’Italia, Paolo Baffi, l’approccio monetario neoquantitativo che era diventato necessario a causa di squilibri esterni e dell’alta inflazione interna. Egli è poi passato ad una considerazione monetarista dei modi di funzionamento dell’economia italiana, seppur divergendo dall’interpretazione “economica” – o “di mercato” – della disoccupazione, sacrificando così l’approccio keynesiano che si era diffuso in Banca d’Italia, e che aveva comportato la realizzazione degli investimenti pubblici volti a conseguire la piena occupazione. Dopo la firma del trattato di Maastricht, Ciampi ha ignorato la logica di fondo del modello di riferimento di Baffi nonché il suggerimento – avanzato anche da Federico Caffè – sul pericolo d’un regime di cambi fissi e, al fine di realizzare la politica necessaria per l’immediata adesione dell’Italia all’euro, ha subordinato a questo scopo l’uso di strumenti monetari e fiscali. Una volta che l’obbiettivo dell’euro è stato raggiunto, Ciampi si è reso conto dell’impulso deflazionistico sull’economia italiana e ha cercato di recuperare alcuni elementi del modello keynesiano; ma la necessità di rispettare i vincoli di bilancio pubblico concordati a livello europeo ha non solo impedito, ma rafforzato le spinte deflazionistiche, come dimostra il sensibile calo degli investimenti pubblici e la persistenza verso il basso di quelli privati. This paper aims to identify, using the paradigms known in literature, which economic model was the implicit reference in the action of Carlo Azeglio Ciampi as Governor of the Bank of Italy and as Treasury Minister, who led Italy to join the Euro since the beginning. The conclusions reached accredit the interpretation that there are three changes in the pursued utility function. First, Ciampi inherited from his predecessor at the lead of the Bank of Italy, Paolo Baffi, the neo-quantitative monetary approach that had become necessary due to external imbalance and high domestic inflation. He then moved towards a monetarist consideration of the Italian economy ways of operation, although diverging from the “economic” – or “market” – interpretation of unemployment, sacrificing the Keynesian “physical” approach that was prevalent in the Bank of Italy – at that time – which would had implied the implementation of public investments aimed at achieving full employment. After signing the Maastricht Treaty, Ciampi ignored the logic underlying Baffi’s reference model and the suggestion, advanced also by Federico Caffè, on the danger of a fixed exchange rate regime, as such and for the policy necessary to immediate join the Euro, making the use of monetary and fiscal instruments subordinated to this purpose. Once the Euro was joined, Ciampi realized the deflationary impulse given to the Italian economy and tried to recover some elements of the Keynesian model; but the need to comply with the public budget constraints agreed at the European level not only prevented, but strengthened deflationary forces, as evidenced by the significant fall in public investments and the drag downward of private ones.
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Giorgio Petracchi, L’impatto della rivoluzione russa e bolscevica in Italia tra guerra e primo dopoguerra Tra i diversi modi di indagare gli influssi prodotti dagli eventi russi del 1917 in Italia, tra la fine della prima guerra mondiale e il primo dopoguerra, questo contributo si propone di metterne in luce due, particolarmente significativi ed intrecciati tra loro. Il primo considera l’impatto delle due rivoluzioni russe, ma in particolare della seconda, quella d’ottobre, sulla politica di Stato – militare, interna ed estera – dei ceti dirigenti liberali tra guerra e dopoguerra e, più in generale, apre quadri di riflessione sulle reazioni della compagine italiana nel suo insieme all’irruzione del bolscevismo. Il secondo mette in luce le ingerenze esercitate dall’Internazionale comunista e dai suoi agenti in Italia sul partito socialista italiano in un momento decisivo della storia nazionale. Questi due livelli dell’impatto della rivoluzione bolscevica in Italia interagirono tra loro, si condizionarono a vicenda ed agirono non come causa, ma come catalizzatore – l’espressione è di Vittorio Strada – che accelerò e favorì lo sviluppo di tendenze già esistenti nel sistema politico italiano. There are various ways of investigating how events in Russia in 1917 influenced Italy from the late war years to early peacetime. This essay focuses on two particularly important, interconnected aspects. The first is concerned with the impact of both Russian revolutions, especially the second or October one, on the conduct of State policy – military, domestic and foreign – by the Liberal ruling classes in the period examined. Discussion is also broadened towards overall Italian reactions to the outbreak of Bolshevism. The second examines interference by the Communist International and its agents in Italy with the Italian Socialist party in a key phase of the country’s history. There was interaction between these two levels of the Bolshevik revolution’s impact in Italy, which influenced each other and acted as a catalyst – the term used by Vittorio Strada – rather than a cause, in accelerating and favouring trends already present in the Italian political system. Roberto Bianchi, Soviet, guardie rosse e rivoluzione nell’Italia del primo dopoguerra Il contributo prende in esame le dinamiche interne delle mobilitazioni di protesta che segnarono il primo dopoguerra, prestando particolare attenzione alla geografia dei tumulti, agli obiettivi, ai linguaggi, alle forme di azione e organizzazione di movimenti animati da uomini e donne che avevano vissuto la mobilitazione totale al fronte, o nelle città e nelle campagne lontane dal fronte, e si trovavano a fronteggiare lo smantellamento della New Moral Economy costruita durante il conflitto. Rileggendo fonti processuali, carte di polizia, corrispondenze e decreti conservati presso vari archivi, assieme a pubblicazioni ufficiali, periodici e memorie, al centro dell’analisi sono collocati i tumulti annonari: un fenomeno che non fu solo italiano, ma che nella penisola fu accompagnato dalla comparsa di guardie rosse e di organismi denominati soviet o comitati di salute pubblica, nello scenario d’un moto che nelle sue pratiche di azione, nelle sue parole e slogan si richiamava alla rivoluzione russa e rinnovava forme e linguaggi della protesta che avevano una lunga storia alle spalle.
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This paper examines the internal dynamics of the protest mobilization of the first post-war period, paying particular attention to the geography of the riots, to the aims, languages, repertoires of action, and organization of movements that were led by women and men who had experienced the total mobilization at the war front or in the cities and countryside away from the war front, and had to face the dismantling of the New Moral Economy established during the war. By analysing trial proceedings, police documents, correspondence and decrees from a number of archives, as well as official documents, periodicals and memoirs, the paper focuses on food riots: this phenomenon was not confined to Italy, but in Italy was accompanied by the emergence of “red guards” and “soviets”, or committees of public safety, as part of an uprising movement that was influenced by the Russian revolution in its repertoires of action, watchwords, and claims and renewed protest forms and languages of long tradition. Andrea Mariuzzo, L’emergere dell’antibolscevismo nell’opinione pubblica italiana Il saggio indaga il sorgere d’atteggiamenti di ostilità nei confronti dell’esperienza rivoluzionaria russa sui principali mezzi di comunicazione politica italiani, espressione della cultura cattolica e delle varie anime dell’interventismo. L’ascesa al potere dei bolscevichi venne valutata fin da subito in base al suo impatto sullo sforzo bellico che vedeva allora impegnato il paese e secondo i criteri della condotta di guerra, sì che abbandonò solo gradualmente l’aspetto della generica minaccia “disfattista” per acquisire quelli più specifici della concreta attuazione degli ideali socialisti, la contrapposizione ai quali era stata fino ad allora prevalentemente teorica. È così che l’interpretazione della possibile emulazione in Italia dei fatti di Russia, a partire dal 1919, essenzialmente come minaccia alla vita e all’integrità della nazione vittoriosa, restò l’elemento caratterizzante delle esperienze locali di antibolscevismo “militante” destinate a confluire in varia misura nel primo fascismo. The essay deals with the emergence of hostile attitudes towards the Russian revolutionary experience on the main political newspapers that were expression of catholic culture and of various “interventionist” orientations. Bolsheviks’ rise to power was immediately considered according to its impact on Italian effort in World War I and on general ally war conduct. It only slowly lost its appearance of generic “defeatist” scare and assume the more specific aspect of attempt to put into effect the theoretical elaboration of a socialist society. From 1919 on, the possible emulation of the Russian facts in Italy was still widely interpreted as a menace to life and national integrity of the victorious country; such attitude featured local experiences of “militant” anti-bolshevism, which finally, at various times and in various terms, joined and influence the early fascist movement.
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Roberto Morozzo della Rocca, Cattolici italiani e Russia rivoluzionaria La rivoluzione di Febbraio non dispiace alla Santa Sede perché ridimensiona le ambizioni russe in campo geopolitico e confessionale. Gli zar erano da sempre avversari del cattolicesimo. Inoltre la Russia imperiale nutriva il progetto d’impadronirsi di Costantinopoli, unificando la Terza Roma con la Seconda, a danno della Prima. La rivoluzione d’Ottobre e il bolscevismo vengono percepiti dalla Santa Sede come ennesime convulsioni anarchiche del ribellismo russo, al quale non si danno chance di durata in quanto le rivoluzioni, per definizione, sono temporanee. Il cattolicesimo italiano per tanti aspetti segue le medesime interpretazioni. Inizialmente interessati soprattutto a capire se la Russia rivoluzionaria resterà fedele all’alleanza di guerra, i cattolici italiani dalla fine del 1917 cercano piuttosto di decifrare gli avvenimenti interni russi. E col ritorno alla pace, a fine 1918, prendono a guardare alla rivoluzione russa anche con interesse dettato dal dibattito interno italiano, dove il bolscevismo viene assunto da parte socialista come mito politico. The Holy See wasn’t too worried about February’s Revolution, that’s considered able to reduce russian’s geopolitical and confessional ambitions. The czars were traditionally adversaries of Catholicism. In addition, imperial Russia planned to conquer Constantinople, in order to unify the Third Rome with the Second one, and against the First one. The October’s Revolution and the Bolshevism are perceived by the Holy See as the umpteenth anarchic convulsion generated by the Russian rebel spirit, with no chances of duration because revolutions are temporary by their own nature. Italian Catholicism shares the same interpretations in many aspects. After having been mainly interested in understanding if revolutionary Russia would respect war alliance, from the end of 1917 Italian Catholics rather look for decipher Russian domestic events. And when peace comes back at the end of 1918, they start to look at Russian revolution with a special interest due to the Italian domestic debate, as Bolshevism becomes a political myth for socialist party members. Danilo Breschi, Il vario liberalismo italiano e la rivoluzione d’Ottobre La domanda che anima il presente saggio è quali furono le conseguenze della rivoluzione bolscevica sul pensiero e sulla psicologia di alcuni tra i più rappresentativi esponenti intellettuali di quel che possiamo, in termini di teoria politica, definire correttamente come il “liberalismo” – “vario” perché, al suo interno, diversificato tra una destra e una sinistra, nonché tra posizioni filogovernative e antigovernative – nell’Italia del primo dopoguerra. In particolare, il saggio esamina tanto le valutazioni circa l’evolversi delle vicende politiche, sociali ed economiche in Russia quanto, e soprattutto, i giudizi e i sentimenti a proposito delle possibilità, più o meno concrete, più o meno velleitarie, d’una traduzione in Italia dell’esperimento sovietico nei primi anni postbellici. Una simile ricognizione può fornire elementi utili per una aggiornata comprensione critica della storia del pensiero politico liberale italiano. Sul piano storiografico si ricavano sia conferme, sia nuovi e diversi punti di vista sulla crisi del liberalismo e sulle cause dell’avvento del fascismo al potere nell’Italia del primo dopoguerra.
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The question at the art of this essay is what were the consequences of the Bolshevik Revolution on the thinking and the psychology of some of the most important and representative intellectuals of what we may properly define, in terms of political theory, as “liberalism” in Italy after the First World War. It is a “variegated” liberalism, because of its inner divisions between a left and a right and between pro-government and antigovernment positions. In particular, the essay examines the assessment of the political, social and economic reforms in Russia and, above all, the judgments and feelings about the more or less concrete and the more or less fanciful possibilities of a translation, in Italy, of the Soviet experiment in the early post-war years. Such a survey can provide useful elements for a new critical understanding of the history of Italian liberal political thought. From a historiographical point of view arise confirmations as well as new and different points of view on the crisis of liberalism and of the causes of the advent of fascism in Italy. Santi Fedele, La Sinistra non marxista e la Rivoluzione russa: anarchici e repubblicani L’entusiasmo per l’evento rivoluzionario prodottosi in piena tormenta di guerra, la sensazione che l’Ottobre rosso rappresenti l’inizio d’una nuova era nella storia dell’umanità, l’interesse vivissimo per l’esperimento che si sta realizzando nella Russia dei soviet, non impediscono agli anarchici, pur nella solidarietà con la Rivoluzione minacciata dai suoi tanti nemici, di percepire con immediatezza i pericoli d’involuzione autoritaria d’una rivoluzione che si faccia Stato, e i sintomi premonitori dei processi degenerativi insiti nella pratica bolscevica della dittatura del proletariato. Diversa la posizione dei repubblicani, portati ad esultare per la rivoluzione di Febbraio che con l’abbattimento dell’autocrazia zarista ha rafforzato la valenza democratica, se non rivoluzionaria, della guerra condotta dall’Intesa contro gli “Imperi tedeschi”, ma poi altrettanto pronti a percepire il pericolo che l’avvento al potere di Lenin preluda alla pace separata della Russia. Da qui l’accesa polemica repubblicana contro il bolscevismo antinazionale e dissolvitore, cui non senza fatica subentrerà una più articolata valutazione critica dei portati storici della prima Rivoluzione proletaria vittoriosa. Enthusiasm for the revolutionary event occurring as war rages, the feeling that the Red October represents the beginning of a new era in human history, lively interest in the experiment happening in the Russia of the Soviets: none of this prevents the anarchists, despite their solidarity towards the revolution threatened by its many enemies, from immediately perceiving the dangers of authoritarian involution of a revolution set to become the state and the warning signs of the degenerative processes inherent in the Bolshevik practice of the dictatorship of the proletariat. The Republicans saw things differently: inclined to rejoice in the February Revolution that overthrew Tsarist autocracy and strengthened the democratic – if not revolutionary – valency of the war conducted by the Entente against the “German Empires”. But then just as ready to perceive the danger that Lenin’s rise to power lead to a separate peace for Russia. Hence the violent republican polemic against Bolshevism as anti-national and destructive, and then – with some difficulty – a more detailed critical assessment of the historical contribution of the first victorious proletarian revolution.
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Giuseppe Bedeschi, I socialisti riformisti italiani e la rivoluzione bolscevica in Russia Il saggio prende in esame l’attitudine del socialismo riformista italiano e le principali posizioni espresse dai suoi leader – in particolare Turati e Mondolfo – dinanzi alla rivoluzione d’Ottobre, mettendole in relazione con le idee e con l’azione politica di Lenin e Kautsky. The essay examines the attitude of the Italian reformist socialism and the main positions expressed by its leaders – especially Turati and Mondolfo – in front of the October Revolution, relating them with the ideas and the political action of Lenin, Kautsky and Gramsci. Franco Andreucci, Il bolscevismo nella mentalità della Sinistra italiana e la nascita del PCI La formazione del Partito Comunista Italiano fu profondamente influenzata dalla rivoluzione d’Ottobre e dall’Internazionale comunista. Si trattò, prima di tutto, di un’influenza politica: Lenin e i bolscevichi russi intendevano spezzare il Partito Socialista Italiano per formare un partito comunista membro dell’Internazionale e, nel gennaio 1921, lo scopo fu raggiunto. Ma si trattò, anche, di un’influenza culturale e ideologica: il bolscevismo e il leninismo, come soggetti strutturati di ideologie e di esperienza, passarono al nuovo partito il loro universo di principii politici. Il PCI acquisì da essi le idee del centralismo organizzativo e l’ossessione per la disciplina, il programma della dittatura del proletariato, la legittimazione all’uso della violenza per il raggiungimento di obbiettivi politici, la tendenza alla segretezza e al dottrinarismo. Erano principii e idee del tutto opposti rispetto a quelli del vecchio PSI: il fine dei bolscevichi, almeno del “secolo breve”, fu raggiunto. Nel terzo millennio, una nuova discussione appare opportuna. The formation of the Italian communist party (PCI) was deeply influenced by the Russian revolution and the Communist International. It was, first of all, a political influence: Lenin and the Russian bolskeviks wanted to split the Italian socialist party in order to create a new Communist party, which would become a member of the Communist International, and in Januray 1921 they reached their goal. But it was also a cultural and ideological influence: Bolshevism and Leninism, as structured body of ideologies and political experiences, conveyed their own set of political principles to the new party. The PCI acquired from them the ideas of organizational centralism and obsessive discipline, the program of the dictatorship of the proletariat, the legitimation in using violence for political goals, the propensity for secrecy and doctrinarianism. They were ideas and principles diametrically opposite to the ones of the PSI. The objective of the bolsceviks was partially reached, at least during the short twentieth century. Today, a new narrative seems appropriate.
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Marco Bresciani, Tra “guerra civile europea” e “crisi eurasiatica”: Benito Mussolini, la rivoluzione russa e il bolscevismo Questo saggio si focalizza sui complessi e stratificati atteggiamenti di Mussolini e dei primi fascisti verso le Rivoluzioni russe e il bolscevismo all’interno dei contesti europei e globali del 1917-1922. Analizza particolarmente le connessioni e le convergenze con i sindacalisti rivoluzionari italiani e con gli esuli social-rivoluzionari russi in Italia. Percezioni e interpretazioni di Mussolini e dei primi fascisti sono spiegate alla luce di due fondamentali – ma controverse – categorie storiografiche: da un lato, la “guerra civile europea”, che rimanda a conflitti transnazionali multipli all’interno dell’Europa; dall’altro, la “crisi eurasiatica”, che descrive il crollo postbellico degli imperi continentali e i suoi effetti destabilizzanti. Così intese, le rappresentazioni delle Rivoluzioni russe e del bolscevismo alimentarono il progetto fascista di aggressiva trasformazione dello stato nazionale italiano e, di conseguenza, presentarono il fascismo come modello potenzialmente europeo di reazione alla crisi postbellica. This essay focuses on the complex and layered attitudes of Mussolini and of the early Fascists towards the Russian Revolutions and Bolshevism within the European and global contexts of 1917-1922. It particularly analyses the connections and convergences with the Italian revolutionary syndicalists and with the Russian socialist revolutionary exiles in Italy. Mussolini’s and early Fascists’ perceptions and interpretations are understood in the light of two fundamental – but controversial – historiographical categories: on the one hand, the “European civil war”, implying multiple transnational conflicts within Europe; on the other hand, the “Eurasian crisis”, describing the post-war collapse of the continental Empires and its destabilising effects. Seen in this way, the representations of the Russian Revolutions and of Bolshevism fueled Fascist aggressively transformative project of the Italian nation-state and accordingly presented Fascism as a potentially European model of reaction to the post-war crisis. Antonello Venturi, La lotta per l’immagine della rivoluzione: i socialisti-rivoluzionari russi in Italia tra il 1917 e la nascita del PCdI Fin dall’inizio del 1917 l’Italia fu teatro d’una dura lotta per la rappresentazione e la definizione della rivoluzione russa, in cui i più diversi attori politici si sforzarono di diffondere nuove idee e nuovi linguaggi. Un ruolo particolare spettò ai socialistirivoluzionari russi, a volte interpreti e tramiti efficaci delle proprie culture e della nuova realtà russa, a volte essi stessi incapaci di comprendere gli avvenimenti in corso. Il lessico della rivoluzione russa servì a definire aspirazioni e timori del mondo politico italiano, anche quando la diversità delle culture e dei linguaggi politici costituì un serio ostacolo alla comprensione di quelle esperienze. I socialisti-rivoluzionari russi sperarono di dare forma alle nuove forze politiche che andavano emergendo in Italia, ma in genere ne furono largamente strumentalizzati.
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Since the early 1917 Italy was the theatre of a strong dispute about the representation and definition of the Russian revolution. Its main actors were characterized by their efforts to spread new ideas and new languages. The Russian Socialist-Revolutionaries played a relevant as well as an ambivalent role, as they conveyed both their cultures and the new Russian situation, but at times they failed to comprehend the ongoing events. The lexicon of the Russian revolution helped to specify desires and fears of the Italian politicians, even though the dissimilarities among political culture and languages represented a serious obstacle for the comprehension of these experiences. The SocialistRevolutionaries aimed at shaping the new emerging political forces in Italy. Nevertheless they usually were manipulated. Stefano Garzonio, La letteratura russa in Italia negli anni della Rivoluzione. Il ruolo degli emigrati Nel presente saggio si prendono in esame gli scritti e, più in generale, il contributo che la folta colonia di emigrati russi presenti in Italia fornì al dibattito politico e culturale sviluppatosi all’indomani della rivoluzione d’Ottobre. Più concretamente si forniscono dati sulla diffusione di testi letterari russi dedicati al tema rivoluzionario, da Gor’kij e Andreev fino a Blok e Majakovskij, alla cui disamina i vari scrittori, pubblicisti e traduttori russi dedicarono pagine d’indubbio impatto sugli intellettuali e sul pubblico italiani. Si offrono così anche dati sull’opera di letterati minori – da Michail Pervuchin a Vladimir Frenkel’, da Ossip Félyne a Lina Neanova – i cui interventi, accanto a quelli di traduttori, quali Rinaldo Kufferle, Eva Kuhn-Amendola, Raissa Naldi Olkenizkaia e altri, proficuamente si intrecciarono con quelli dei molti intellettuali italiani – da Piero Gobetti a Clemente Rebora fino a Telesio Interlandi – che variamente si atteggiarono nei confronti del dibattito letterario russo del tempo. In this paper we examine the writings and, more generally, the contribution that the large colony of Russian émigrés in Italy gave to the political and cultural debate developed in Italy in the aftermath of the October Revolution. More concretely, it provides data on Russian literary texts dedicated to the revolutionary theme – works by Gorky, Andreev, Blok, Mayakovsky and others – to whose examination the various writers, publicists and Russian translators, dedicated pages of undoubted impact on the Italian intellectuals and readers. It also offers information about some minor Russian writers – such as Michail Pervukhin, Vladimir Frenkel’, Ossip Félyne, Lina Neanova and others – whose interventions, alongside those of translators such as Rinaldo Küfferle, Eva Kuhn-Amendola, Raissa Naldi and Olkenizkaia, successfully intertwined with opinions of many Italian intellectuals – as Piero Gobetti, Clemente Rebora or Telesio Interlandi – and their different attitude to the Russian literary debate of the time.
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Guido Carpi, I marxisti russi nel 1917 (dal Febbraio all’Ottobre) L’articolo vuole gettare luce sul dibattito teorico e politico fra i marxisti russi durante i mesi del processo rivoluzionario, febbraio-ottobre 1917. Lungi dall’esaurirsi nella dicotomia “bolscevichi vs. Menscevichi”, tale dibattito riguardava l’analisi delle forze sociali attive durante la rivoluzione; i processi di disgregazione economica in corso, dovuti alla guerra mondiale, e le strategie per arginarli; il problema del potere politico e dell’egemonia culturale della classe operaia. Accanto alle ben note teorie di Lenin e Trockij, particolare rilievo si è dato a teorici originali e oggi poco conosciuti, come il menscevico dell’ala destra Nikolaj Potresov e l’“internazionalista” Vladimir Bazarov. This paper analyses the lively political and theoretical debate among the supporters of Russian Marxism during the two Revolutions of 1917. The main themes in this debate were not only the rivalry between Bosheviks and Mensheviks, but also the dynamics of the Russian crowds during the Revolution, the crumbling economy at the end of WWI, the strategy to increase the economic growth, the political and cultural power of the working class. In addition to the ideological theories of Lenin and Trockij the analysis focus on important and unrecognised authors as the right wing Menshevik Nikolay Potresov, and the “Internationalist” Vladimir Bazarov. Olga Dubrovina, Politica estera e/o rivoluzione? I primi passi della Russia bolscevica in Italia: protagonisti, strumenti, sovrapposizioni Dopo la rivoluzione d’Ottobre i bolscevichi rompono con la diplomazia tradizionale e lanciano un nuovo modello di politica internazionale, basata sulla trasparenza e sugli interessi delle masse popolari. Tuttavia quasi da subito emerge il problema della dicotomia fra la politica estera sovietica e gli obiettivi della rivoluzione mondiale. Attraverso lo spoglio degli archivi russi, l’articolo ricostruisce il processo di formazione dei rapporti diplomatici con l’Italia in concomitanza coi tentativi sovietici d’intromettersi negli affari interni italiani. Nell’arco di pochi anni l’atteggiamento del governo sovietico verso l’Italia cambia a seconda della politica estera italiana, del bilanciamento delle forze interne in Italia e della situazione politico-economica russa. In funzione del momento concreto viene privilegiato uno dei due strumenti della politica estera bolscevica: NKID o Komintern. Nel 1919 appaiono in Italia, accanto ai rappresentanti del NKID, gli agenti segreti del Komintern, personaggi che in alcuni casi incarnavano entrambi i ruoli. Con l’arrivo in Italia del rappresentante ufficiale sovietico Vorovskij, ha infatti inizio la lotta dei diplomatici sovietici per l’autonomia della politica estera dalle esigenze ideologiche della III Internazionale. After the October Revolution, the Bolsheviks broke with traditional diplomacy and adopted a new model of international policy based on the transparency and interests of the popular masses. However, almost immediately a problem of dichotomy between foreign Soviet policy and world revolution goals arose. Through the analysis of archive documents,
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this article reconstructs the process of the establishment of diplomatic relations with Italy concurrently with Soviet attempts to meddle in Italian internal affairs. During the few years following the Bolshevik Revolution, the attitude of the Soviet government towards Italy changed in light of Italian foreign policy, the balance of power in Italy and the political and economic situation in Russia. Depending on the specific moment, one of two instruments of foreign Bolshevik policy was preferred: the NKID or Komintern. In 1919 close to NKID representatives, secret Komintern agents appeared. In some cases these figures were the incarnation of both roles. With the arrival of Soviet representative Vorovsky in Italy, the battle of the Soviet diplomats for foreign policy autonomy from the ideologica, excessive pressure began. Vittorio Strada, Un centenario anomalo Il centenario delle rivoluzioni russe del 1917 ricorre quando da cinque lustri ha cessato di esistere il sistema statale – URSS – nato dalla seconda di esse, quella bolscevica d’ottobre, e lo stesso movimento comunista, suo sostenitore, appartiene ormai al passato storico. Si sente quindi l’esigenza d’un ripensamento di tutta l’esperienza, non soltanto russa, legata in primo luogo al nome di Lenin e Stalin, un’esperienza che ha conosciuto drammatiche fratture ma che costituisce un’organica, dinamica totalità. A caratterizzare lo spirito unitario si prendono in considerazione tre episodi in sé importanti e dotati d’un valore emblematico: lo scioglimento dell’Assemblea costituente, l’eccidio della famiglia imperiale e la cosiddetta “nave dei filosofi”. La riflessione si appunta poi sullo sviluppo del regime dalla nuova politica economica – NEP – fino alla perestrojka, mostrando che si creò un sistema politico e culturale non privo d’una sua compattezza e stabilità, detto “civiltà sovietica”, seppur con tutti gli enormi crimini che la hanno accompagnata. Rispetto agli altri sistemi totalitari coevi – come il fascismo – si sottolinea la specificità del sistema sovietico, il cui retaggio si ritrova nella Russia attuale. The centenary of the two 1917 Russian revolutions occurs twenty-five years after the end of the Soviet Union, the state system born from the second or Bolshevik revolution of October, while its fulcrum, the Communist movement itself, now belongs to past history. There is therefore an impelling need to rethink the whole experience – not merely Russian – associated primarily with the names of Lenin and Stalin: an experience marked by dramatic fractures but also by dynamic, organic wholeness. In representing this unity, the paper focuses on three episodes both important in themselves and laden with symbolic value: the dissolution of the Constituent Assembly, the massacre of the imperial dynasty and the so-called “philosophers’ ship”. Discussion then centres on the regime’s development from the new economic policy (NEP) to perestrojka, demonstrating the creation of a cultural and political system – “Soviet civilization” – characterized by its own sort of compactness and stability as well as by all the enormous crimes accompanying it. Comparison with other totalitarian systems of the time – fascism – underlines the specificity of the Soviet system, whose legacy is found in today’s Russia.
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Ettore Cinnella, Per un giudizio storico sulla rivoluzione bolscevica Che cosa dobbiamo intendere per rivoluzione bolscevica? L’insurrezione dell’ottobre 1917 a Pietrogrado fu soltanto un episodio di quel complesso e multiforme fenomeno storico che chiamiamo rivoluzione russa. Quest’ultima ebbe inizio nel gennaio 1905 e continuò, con alti e bassi e con lunghe pause, nell’estate 1921. Bisogna dunque chiarire anzitutto il rapporto tra la rivoluzione russa e la rivoluzione bolscevica. L’azione del partito bolscevico e la spinta della rivoluzione plebea, che fu una delle forze motrici della rivoluzione russa, determinarono l’intera storia dell’URSS. In che modo ciò avvenne, è un altro tema dell’articolo. Le pagine finali accennano all’impatto della rivoluzione bolscevica sul socialismo occidentale. In particolare, si può affermare che una delle conseguenze dell’Ottobre bolscevico fu la vittoria del fascismo in Italia nell’ottobre 1922. What do we mean by the historical term “Bolshevik Revolution”? The uprising of October 1917 in Petrograd was indeed a small part of the complex and vast event that goes under the name of Russian Revolution. In this article, I will shaw that the Revolution began in 1905 and did not really end until the Summer of 1921. The Bolshevik uprising is then just a part of the Russian Revolution. There were two forces at play that shaped the history of the USSR: the activity of the Bolshevik party and the drive of a primitive popular revolution, which I call plebeian Revolution and which was one on the main engines of the Russian Revolution. This is another subject of the article. The final part focuses on the impact of the Bolshevik Revolution on Western Socialist Movement. In particular, it must be said that one of the consequences of the October uprising in Russia was the coming to power of Fascism in Italy in October 1922. Luciano Pellicani, Gramsci e Mondolfo di fronte alla Rivoluzione bolscevica Pur dichiarando la loro piena fedeltà all’insegnamento dei padri fondatori del “socialismo scientifico”, Rodolfo Mondolfo e Antonio Gramsci di fronte alla Rivoluzione d’Ottobre giunsero a conclusioni diametralmente opposte. Per Mondolfo, Lenin aveva violato il principio fondamentale della teoria marxista della storia: lo sviluppo delle forze produttive. Sicché la rivoluzione bolscevica, a motivo dell’arretratezza economica della Russia, non poteva rappresentare una tappa verso la società socialista. Alla rovescia, per Gramsci, la rivoluzione in atto nell’Unione Sovietica era la dimostrazione che, grazie al ruolo demiurgico del partito comunista, la realtà economica poteva essere plasmata dalla volontà politica, talché era iniziata, su scala planetaria, l’epoca della ricostruzione del mondo. While paying their homage to the tradition of “scientific socialism”, Rodolfo Mondolfo and Antonio Gramsci when confronted with the outcome of the October Revolution arrived to opposite conclusions. According to Mondolfo, Lenin had violated a fundamental principle in the theory of the Marxist historicism: the reinforcement of production. Therefore on account of Russia’s underdevelopment the Bolshevik Revolution could not be considered
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as a phase towards the construction of a socialist society. On the contrary according to Gramsci thanks to the demiurgic role of the Communist party the entire economic realm of society could be forged by political command; in this respect the new era for a wide the world reconstruction had actually initiated. Andrea Panaccione, Sotto gli occhi dell’Occidente. L’articolo si concentra sui rapporti tra la Russia rivoluzionaria e le società europee nel 1917. I temi principali sono gli effetti della Prima Guerra Mondiale sulla società russa, le basi sociali e culturali della rivoluzione, la continuità tra il Febbraio e l’Ottobre, l’impatto e le eredità della rivoluzione per la Russia e oltre i confini. L’articolo si basa su scritti e note di protagonisti e testimoni e sulla storiografia russa e internazionale. The article focuses on the relationship between revolutionary Russia and European societies in 1917. Main themes are the effects of World War I on Russian society, the social and cultural bases of the revolution, the continuity between February and October, the impact and legacies of the revolution for Russia and beyond the borders. The article is based on contemporary writings and records by protagonists and witnesses, and on Russian and international historiography. Daniele D’Alterio, “Disillusione socialista” e delusione storiografica: a proposito d’un libro sulla storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia A partire da una recente pubblicazione sulla storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia, si sviluppa una riflessione critica su vecchi e nuovi approcci metodologici al complesso fenomeno dell’“azione diretta” e alle sue molte connessioni con la storia politica, sindacale e culturale del Novecento. Starting from a recent publication on the history of the Italian syndicalism, it develops a critical reflection on old and new methodological approaches to the complex phenomenon of “direct action” and about his many connections with the political, unionist and cultural history of the twentieth century.
NOTIZIE SUGLI AUTORI
Franco Andreucci (1943) è stato professore di Storia contemporanea all’Università di Pisa dal 1975 al 2013. Si è occupato di storia del socialismo, del marxismo, della socialdemocrazia tedesca e del Partito Comunista Italiano. È stato Jean Monnet Fellow all’Istituto Universitario Europeo e ha insegnato presso le Università di Barcellona, Chicago e Marburg. Giuseppe Bedeschi (1939), Docente di storia della filosofia all’Università “La Sapienza” di Roma, ha insegnato all’Università di Cagliari e all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell’Enciclopedia del Novecento, direttore dell’Enciclopedia delle scienze sociali e dell’Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista “Nuova storia contemporanea” e collabora al supplemento domenicale de “Il Sole 24 ore”. Roberto Bianchi (1966) insegna storia contemporanea al Dipartimento SAGAS di Firenze. Ha studiato all’Università di Firenze (Laurea), all’EHESS di Parigi (Dea) e all’Università di Pisa (Dottorato). Membro della direzione di “Passato e presente” Vicepresidente dell’ISRT, si occupa di storia sociale e politica del ’900. Ha pubblicato opere sulla storia della conflittualità tra Grande Guerra e fascismo, sull’associazionismo cooperativo e la massoneria, ricerche di storia locale e studi comparativi sui movimenti sociali in Europa, indagini sulle rappresentazioni del passato nei fumetti e sulla storia delle relazioni culturali tra Italia e Francia. Danilo Breschi (1970) è professore associato di Storia delle dottrine politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), dove insegna anche Politica internazionale e diritti umani. Fra i suoi attuali temi di studio e ricerca: l’ideologia fascista, il liberalismo italiano ed europeo tra Otto e Novecento, culture politiche e concezioni antropologiche del Sessantotto. Marco Bresciani (1977) si è laureato e addottorato in storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Pisa, diplomandosi alla Scuola Normale Superiore (Pisa). Ha quindi ottenuto borse di studio presso vari istituti di ricerca tra cui il Remarque Institute della New York University, il Centre de Recherches Politiques R. Aron (Ecole d’Hautes Etudes en Sciences Sociales, Parigi), il Center for Advanced Studies (Fiume/Rijeka). Ha appena terminato una borsa Marie Curie cofinanziata con la Facoltà di Filosofia e di Scienze Umane dell’Università di Zagabria per l’anno 2015-2016. I suoi interessi principali si sono rivolti alla storia politica e intellettuale dell’Europa e dell’Italia nella prima metà del Novecento, con particolare riferimento all’esperienza di Giustizia e
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Notizie sugli autori
Libertà. Le sue ricerche si sono ora focalizzate sull’eredità della Grande Guerra e dell’Impero asburgico e sull’ascesa del fascismo nelle terre di confine dell’Alto-Adriatico. Guido Carpi (1968) è ordinario di Letteratura russa all’Università Orientale di Napoli. È autore di saggi in russo e italiano sulla storia delle idee nell’Ottocento russo, su Dostoevskij, sul modernismo russo, sulla storia e sulla teoria del verso russo, nonché sulla storia del marxismo russo. Ha pubblicato di recente una storia generale della letteratura russa e una breve storia dell’anno 1917. Ettore Cinnella (1947) è stato allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha insegnato per molti anni Storia dell’Europa orientale e Storia contemporanea all’Università di Pisa. Dopo il crollo del regime comunista nell’URSS, ha lavorato ripetutamente nell’Archivio centrale del partito di Mosca – oggi Archivio statale russo di storia politico-sociale, RGASPI – curando anche, assieme ad altri studiosi italiani e stranieri, la pubblicazione di fonti sulla storia sovietica. Ha pubblicato numerosi saggi ed articoli su svariati argomenti di storia russa e sovietica, di storia moderna e contemporanea, di storia della storiografia – alcuni dei quali apparsi in francese, inglese, tedesco, polacco e russo. Ha scritto anche articoli di filologia classica e letteratura greca. Daniele D’Alterio (1974). Dottore di ricerca in storia contemporanea, è autore di saggi e monografie, in particolare sulla storia dell’azione diretta e del sindacalismo rivoluzionario. A partire dal 2002, ha avuto modo di collaborare con diversi istituti culturali, tra cui l’Istituto della Enciclopedia Italiana G. Treccani, il Centro per il Libro e la Lettura del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, l’Archivio Storico della Camera dei Deputati. Ha inoltre ideato, progettato e curato l’Archivio Fotografico-Iconografico della Biblioteca Universitaria Alessandrina di Roma e le sue prime sezioni, facenti parte della “mostra virtuale” dal titolo Società, sindacato, politica: Roma, l’Italia, l’Europa all’alba del Novecento (1900-1910). È redattore della rivista di storia contemporanea “Storia e Politica. Annali della Fondazione Ugo La Malfa”. Olga Dubrovina (1982), laureata presso la Facoltà di Storia dell’Università statale di Mosca Lomonossov. Insegna Storia e cultura russa presso il Dipartimento di Lingue e culture europee dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa delle immagini dell’URSS in Occidente, dell’emigrazione russa in Europa e della politica estera sovietica in Italia. Santi Fedele (1950) è Professore ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina. Già Presidente di Corso di laurea, Coordinatore del Dottorato di ricerca e Direttore di Dipartimento, è attualmente delegato del Rettore ai Master e all’Alta formazione. Direttore dell’Istituto di Studi storici Gaetano Salvemini di Messina, fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Filippo Turati di Firenze ed è componente della Commissione nazionale italiana per l’UNESCO. Si è prevalentemente dedicato allo studio dei partiti e dei movimenti politici del Novecento italiano, con particolare riferimento ai filoni della democrazia laica e repubblicana e del socialismo libertario. Filippo Focardi (1965) insegna Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova. Si è occupato della memoria italiana della seconda guerra mondiale; della memoria del fascismo e della Resistenza; della questione della punizione dei criminali di guerra tedeschi e italiani dopo il secondo conflitto mondiale, di relazioni fra Italia e Germania dall’Ottocento a oggi. Nel 2015 l’Université Libre de Bruxelles gli ha conferito il premio internazionale Baron Velge dedicato agli studi sulla seconda guerra mondiale.
Notizie sugli autori
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Stefano Garzonio (1952) è professore ordinario di slavistica – lingua e letteratura russa – presso l’Università di Pisa. È stato presidente dell’Associazione Italiana degli Slavisti nel periodo 19992009. È Vicepresidente del Comitato esecutivo dell’International Council for Central and East European Studies. Ha condotto ricerche nell’ambito della storia e della teoria del verso russo, della storia della letteratura russa del XVIII secolo, dei rapporti culturali italo-russi, della storia della poesia russa del secolo d’argento e della emigrazione russa in Italia. Ha curato e tradotto opere di Lermontov, Turgenev, Dostoevskij, G. Ivanov, Majakovskij e dei poeti russi del XIX secolo. Andrea Mariuzzo (1979) svolge attività di ricerca in Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, istituzione nella quale ha conseguito il dottorato nel 2007. Si occupa principalmente della storia delle culture politiche europee nel Ventesimo secolo, con particolare riguardo ai caratteri del discorso anticomunista in Occidente, e della storia delle istituzioni culturali ed educative nell’età contemporanea. Roberto Morozzo della Rocca (1955) è ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Roma Tre. I suoi interessi di ricerca vertono sui Balcani e sull’Europa orientale, con particolare focus sui casi nazionali di Russia, Polonia, Jugoslavia e Albania, nonché sulla storia religiosa europea tra Ottocento e Novecento, con specifico riferimento ai nessi tra nazione e religione. Andrea Panaccione (1941). Già docente di Storia contemporanea e di Storia e cultura della Russia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, direttore scientifico della Fondazione Giacomo Brodolini di Milano. Studioso dei movimenti sociali del Novecento. Ha fatto parte del gruppo di lavoro internazionale per la pubblicazione delle fonti sulla storia del movimento menscevico presso l’editore Rosspen di Mosca, curando, insieme ad altri autori, le introduzioni a diversi volumi. Si è occupato a lungo delle sezioni tedesca e russa della Biblioteca della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. Luciano Pellicani (1939), professore emerito di Sociologia Politica all’Università Luiss Guido Carli di Roma, ha insegnato inoltre nell’Università di Urbino e diretto il periodico “Mondoperaio”. È autore di numerosi volumi, nei quali ha analizzato soprattutto il pensiero di Marx, Lenin, Gramsci, la genesi del capitalismo e i nessi tematici fra rivoluzione e totalitarismo. Giorgio Petracchi (1940), già professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali presso l’Università di Udine, ha caratterizzato la sua ricerca, oltre che sui rapporti tra gli Alleati e i Patrioti sulla “Linea Gotica” e sull’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, alla ricostruzione delle relazioni, nel loro spessore più ampio, fra l’Italia e la Russia, nonché fra l’Italia e l’Unione Sovietica, con particolare attenzione anche ai rapporti fra la Santa Sede e l’Unione Sovietica fra le due guerre mondiali. Suoi lavori e articoli sono tradotti in molte lingue europee. Paolo Savona (1936), Professore emerito di Politica economica, è stato inoltre Ministro dell’Industria del governo Ciampi, Direttore Generale del Ministero delle Politiche Comunitarie, Segretario Generale della Programmazione nonché Direttore al Servizio Studi della Banca d’Italia. Vittorio Strada (1929), si è occupato prevalentemente di storia della politica e di storia della letteratura russa e sovietica, insegnando per molto tempo Lingua e letteratura russa all’Università di Ca’ Foscari, nonché dirigendo negli anni Novanta l’Istituto Italiano di Cultura a Mosca. Ha fondato la
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Notizie sugli autori
rivista internazionale “Rossija/Russia”. Ha inoltre tradotto opere, fra gli altri, di Solženicyn, Čechov, Trockij, Bulgakov, Herzen. Antonello Venturi (1953), ricercatore di storia contemporanea presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere dell’Università di Pisa, si occupa di storia del socialismo russo dell’Otto-Novecento e dei suoi rapporti politici e culturali con l’Italia, e in generale con l’Europa occidentale, con particolare attenzione alle vicende della storiografia russa e sovietica.