Azione 16 del 17 aprile 2023

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edizione 16

MONDO MIGROS

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SOCIETÀ

Al Caffè delle mamme questa volta parlano i papà: ecco l’identikit dei Millennial Dads

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Per la serie «Altri campioni», Christopher Stewart racconta la sua esperienza con il parabob

TEMPO LIBERO Pagina 14

Bocciato il pacchetto di aiuti per l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS. E adesso?

ATTUALITÀ Pagina 21

Mitholz, la minaccia viene dal passato

Un piccolo antidoto contro l’Apocalisse

Ritta dentro un pastrano scuro all’angolo che separa due strade nel centro storico, la donna di colore intreccia le mani, le porta all’altezza del volto, cerca un po’ di coraggio e infine declama a tutto volume: «Ravvedetevi, convertitevi e credete al Vangelo. Perché i tempi sono vicini». «I tempi di cosa?» le chiedo passandole accanto. «L’arrivo del Regno di Dio», spiega senza tentennare. «L’Apocalisse?». Sorride e non aggiunge altro. Quello che aveva da dire l’ha detto. Tocca a me, ora, decidere se ravvedermi o tirare dritto come se nulla fosse. È successo qualche giorno fa nel disinteresse della folla che andava e veniva per le vie dello shopping di una cittadina lariana. Me ne vado anch’io pensando ai troppi profeti di sventure globali degli ultimi decenni. Trent’anni fa un tizio apocalittico più problematico, David Koresh, si era asserragliato coi seguaci in un ranch nel Texas, a Waco, e dopo uno

scellerato assedio di 51 giorni delle forze dell’ordine americane, moriva tra le fiamme con 82 suoi fedeli (negli scorsi giorni è uscita su Netflix la docuserie dell’evento). Un fattaccio che ricorda altre stragi settarie avvenute tra credenti convinti che la fine del mondo fosse dietro l’angolo. Cito solo quella a noi più vicina, l’orrendo epilogo dell’Ordine del Tempio Solare (48 vittime di omicidi-suicidi tra il canton Vallese e il canton Friborgo nel 1994 e altre 26 in Francia e Canada tra il ’95 e il ’97).

L’idea che il pianeta stia per collassare, tuttavia, non è un’esclusiva di menti offuscate e pericolose. Nel mondo ci sono, per esempio, quasi 9 milioni di Testimoni di Geova convinti di una vicina fine dei tempi e presso di loro non si conoscono suicidi collettivi o omicidi organizzati dal gruppo. Per non parlare delle infinite denominazioni evangeliche (a cui probabilmente apparteneva la

signora citata all’inizio) che predicano l’Apocalisse. «La fine dei tempi» è infine un dogma anche per le Chiese cristiane più tradizionali. Solo che queste non indicano date di scadenza e si concentrano maggiormente sul presente. Ma oggi anche le menti più laiche possono leggere i «segni dei tempi ultimi» semplicemente sfogliando un giornale. Veniamo da un paio d’anni di pandemia che – nei primi giorni – ha spinto a far provviste in cantina senza sapere se e chi sarebbe sopravvissuto. Per quanto se ne capiva allora, avremmo anche potuto estinguerci. I vaccini ci hanno reso di colpo fiduciosi nel futuro. Non fosse che ci è esplosa una guerra sul pianerottolo di casa, considerando che l’assalto russo in Ucraina avviene in Europa, e gli animi sono tornati a pensar cupo. E a immaginare come reagiremmo se vedessimo stagliarsi un fungo atomico nei cieli tersi del pacifico arco alpino.

Ritratto appassionato di Miriam Cahn, l’artista basilese che non ha paura di esprimere la sua rabbia

CULTURA Pagina 31

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Ipotesi remota, sì, ma la guerra è lucida pazzia. Se poi gli uomini la smettessero di digrignare i denti nei campi di battaglia e la scienza medica ci liberasse per sempre dai virus, resterebbe che siamo nel bel mezzo di una crisi climatica e ambientale da togliere il sonno.

Visto che siamo nel pozzo, scendiamo fino in fondo: la fine del mondo è pure una certezza astronomica. Prima o poi, tra miliardi di anni, anche il Sole si spegnerà e senza Sole buonanotte a tutti. L’idea dell’Apocalisse, quindi, è tutt’altro che peregrina. Ciò detto, no, la fine del mondo non è vicina. La battaglia conclusiva tra le luci e le tenebre (l’Armagheddon) non è per domani mattina. Dura da sempre e chissà quando finirà. È solo scegliendo il campo giusto oggi – la pace, la giustizia, la tutela del pianeta –che potremo dormire sonni tranquilli domani. Non male, alla fine, l’idea di ravvedersi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 Cooperativa Migros Ticino
◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
Luca Beti Pagina Carlo Silini
Keystone

Grande attesa per il movimento lento

slowUp Ticino ◆ Una giornata senz’auto per un traffico a misura d’uomo

Domenica 23 aprile 2023 torna l’atteso appuntamento con slowUp Ticino «vivi una giornata senz’auto». Un evento gratuito e unico nel suo genere che prevede la chiusura totale al traffico motorizzato di un tracciato di 50 chilometri tra Bellinzona e Locarno lungo il quale sono organizzate feste, animazioni e punti di ristoro. Una giornata all’insegna del movimento e della compagnia dove è possibile spostarsi tranquillamente in bicicletta, coi pattini, a piedi o con altri mezzi non motorizzati senza essere disturbati dal traffico.

L’edizione 2023 si snoderà nuovamente tra Bellinzona e Locarno su un percorso di 50 km interamente chiuso al traffico motorizzato. Le modalità restano le medesime: i partecipanti possono muoversi liberamente lungo il tracciato (rispettando il senso di marcia) in bicicletta, coi pattini, a piedi o con qualsiasi altro mezzo rigorosamente senza motore. Possono decidere se percorrere l’intero tracciato, oppure solo una parte, così come possono entrare e uscire in qualsiasi punto del percorso. Ai ciclisti è fortemente consigliato l’uso del casco e una velocità non superiore ai 25 km/h.

A rendere slowUp una vera e propria festa saranno le soste presenti nei diversi comuni che proporranno animazioni, ristorazione e intrattenimenti vari.

Il percorso e le soste dell’edizione 2023

Il tracciato resta simile a quello degli scorsi anni e attraverserà i comuni di Bellinzona, S. Antonino, Cadenazzo, Locarno, Muralto, Minusio,

Tenero-Contra, Gordola e Cugnasco-Gerra; sarà chiuso al traffico motorizzato dalle ore 10.00 fino alle 17.00 per permettere ai partecipanti di spostarsi tranquillamente in bicicletta, coi pattini, a piedi o altri mezzi senza motore. Lungo il percorso saranno presenti 15 punti di animazione, la maggior parte dei quali gestiti da associazioni ricreative locali che proporranno anche servizi di ristoro. Oltre a questi non mancheranno animazioni e giochi per grandi e piccini e le «soste agricole», ovvero aziende

agricole presenti sul percorso che in occasione dell’evento apriranno le loro porte ai partecipanti e organizzeranno intrattenimenti.

Presso il Centro S. Antonino sarà presente lo slowUp Village, dove ci si potrà rifocillare nella zona pranzo Ristorante Migros con ricca griglia e menu vegani, si potrà visitare il mitico Camion Migros e la Zona Famigros con attrazioni per tutti i bimbi, il tutto con intrattenimento musicale e Guggen. Poiché il percorso slowUp sarà com-

Fare la spesa come i grandi

Mini Migros ◆ Grande successo per il supermercato in miniatura al Serfontana

Il supermercato per i più piccoli Mini Migros ha fatto tappa al Centro Shopping Serfontana di Morbio Inferiore dal 3 al 15 aprile, ed è stato un successo, come confermavano le lunghe code all’ingresso. Bambine e bambini di età compresa tra i 4 e i 12 anni hanno potuto calarsi per il tempo che volevano nel ruolo desiderato, occupandosi per una volta della cassa, della logistica della merce o anche solo della spesa (con prodotti veri), sostituendo i «grandi» che da fuori suggerivano gli acquisti. «È stato bellissimo, spero che questo supermercato torni ancora al Serfontana», ha raccontato Sofia, 9 anni, mentre Ivan, 11 anni, aggiungeva, «Peccato che i miei genitori non mi hanno lasciato scegliere cosa acquistare. Ma è stato davvero divertente. Questa è già la seconda volta che vengo qui».

Revoca delle elezioni Informazione

Alle socie e ai soci della Cooperativa Migros Ticino

pletamente chiuso al traffico motorizzato per l’intera durata della manifestazione, è proibito l’accesso di qualsiasi veicolo, esclusi i servizi di pronto soccorso (ambulanza, pompieri e polizia). In caso di preventivato utilizzo dell’auto si consiglia di posteggiare al di fuori del tracciato la sera precedente l’evento.

Informazioni www.slowUp.ch/Ticino

Care socie e cari soci, in riferimento all’appello apparso nel n. 10 di «Azione» del 6 marzo 2023 concernente l’elezione suppletiva di due nuovi membri del Consiglio di amministrazione per il restante periodo legislativo (dal 1° luglio 2023 al 30 giugno 2024, portando da 5 a 7 il numero dei suoi membri), vi informiamo che non sono state presentate proposte elettorali entro i termini previsti.

Conformemente all’articolo 38 dello Statuto, l’elezione ha dunque avuto luogo tacitamente e lo scrutinio annunciato è stato revocato.

Rinunciando a presentare proposte elettorali, i soci di Migros Ticino hanno lasciato al Consiglio di cooperativa e al Consiglio di amministrazione il compito di selezionare i candidati. Ringraziamo per questa testimonianza di fiducia. L’esito della procedura elettorale sarà pubblicato nel numero 25 di «Azione» del 19 giugno 2023.

Sant’Antonino, 17 aprile 2023 Cooperativa Migros Ticino Il Consiglio di amministrazione

Il personale adulto presente nel negozio, con esperienza in ambito pedagogico, si è trasformato in «collaboratore o collaboratrice del servizio clienti» e in «responsabile di filiale», e al «servizio clienti» tutti i bambini

Carlo Silini (redattore responsabile)

hanno ricevuto un borsellino con una Cumulus giocattolo e dei soldini finti della Migros, i «Miggy-franchi». Quella del Serfontana è stata una delle dodici tappe svizzere di questa apprezzata iniziativa.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–
Simona
Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Redazione
Sala
Un’immagine dalla scorsa edizione della manifestazione. (FotoGarbani)
Bambine in fila in cassa al mini supermercato Migros del Serfontana; a destra, il mini supermercato visto dall’alto. (Ame Valsa)

SOCIETÀ

L’avvocato musicista

Incontro con Cristiano Poli Cappelli, chitarrista e insegnante di musica che ha scelto di mettere la laurea in giurisprudenza in un cassetto

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Riflettere sull’identità di genere Tra le tante interessanti proposte della rassegna Generando due si rivolgono agli insegnanti e due workshop sono pensati per i genitori

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Oggi abbiamo invitato i papà

Anche le vipere migrano

Pure gli anfibi e i rettili soffrono le conseguenze del cambiamento climatico, ce ne parla l’esperto Grégoire Meier

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Il caffè delle mamme ◆ Scopriamo chi sono e cosa pensano i Millennial Dads, giovani padri che infrangono tabù, cambiano i pannolini e fanno il bucato senza sentirsi dei supereroi

Primo ciak: Sheffield (Regno Unito), ore 19.38 del 17 dicembre 2015. Matt Coyne, inglese poco più che quarantenne, grafico, neopadre da 3 mesi di Charlie, si sfoga su Facebook con un post che in poco tempo diventa virale, condiviso da blogger, vlogger e perfino da stelle del cinema come Ashton Kutcher, fino a diventare un libro dal titolo Puoi farcela papà (ed. Vallardi A.). È una confessione senza filtri sulle sue difficoltà a condividere le giornate con «un inquilino isterico con la fissa delle tette che ti guasta il sonno e vuole nientemeno che la tua completa attenzione, da adesso fino a quando non tirerai le cuoia». Cambiare i pannolini è un incubo: «Oggi mi sono complimentato con me stesso per aver elevato il cambio del pannolino a un’arte di precisione.

Sostanzialmente sono come un meccanico nei box di Formula Uno… anzi, per molti versi sono più bravo io, perché quando cambi le gomme all’auto di Lewis Hamilton è già meno probabile che lui ti faccia la pipì in un occhio o che ti spari uno str… nella manica della camicia». Vestire il pupo è un’impresa: «Vestire un bambino che mulina le braccia è come cercare d’infilare un coniglio in un pallone: gli dici di star fermo, e quello t’ignora o ti graffia la faccia. (Sto pensando di lanciare una linea di vestitini fatti tutti di velcro, come i pantaloni degli spogliarellisti. Così si può reggere il bambino con una mano, e con l’altra afferrare il vestitino, separandoli con un unico e liberatorio strappo)». Leggere un libro un sogno: «Per tutta la vita adulta ho tentato di leggere un libro ogni settimana o giù di lì. Non sono ingenuo, lo sapevo che dopo la nascita avrei avuto meno tempo, così mi sono ripromesso di sforzarmi di leggere un libro al mese. Adesso sono passati tre mesi e l’unica cosa che ho letto è un opuscolo sul tiralatte (E non l’ho neppure finito, perché continuo ad addormentarmi)».

I giovani papà odiano il termine «mammo», apprezzano il congedo paternità e vorrebbero i fasciatoi nei bagni maschili

Secondo ciak: Lugano (Svizzera), 29 dicembre 2022, ore 00.08. Paolo Foa, 39 anni, ingegnere ambientale, neopadre da 3 settimane di Oliviero, invia un’e-mail ad «Azione»: «Ho letto con interesse il suo articolo La parità di genere spiegata ai nostri figli, sensibile all’argomento della parità/suddivisione dei compiti nella coppia e fresco papà, le lancio una provocazione: ma se la parità cominciasse da un cam-

biamento del nome della sua rubrica?

Caffè delle mamme incarna una chiara scelta di campo che, da quanto intuisco, non rappresenta la sua visione del mondo. E neppure la mia, se no non sarei qui a scrivere (dopo aver letto). E neppure quella di molti amici (forse perché tendiamo a vivere in bolle cognitive costituite da esseri affini). Sperando di aver stimolato una riflessione, le auguro una piacevole fine d’anno». Occasione troppo ghiotta per lasciare perdere. Così decido di invitarlo a Il caffè delle mamme per raccontarci un altro modo di essere papà: il suo e quello dei suoi amici. In sintesi: il modo di essere papà dei Millennial Dads, ossia dei padri tra i 30 e i 40 anni: «Nessun aneddoto da supereroi – dice subito Paolo –, ma piuttosto storie di quotidiana banalità tra spese, bucati, preparazione di pappe, e tentativi di suddivisione equa della gestione dei figli, nel rispetto delle proprie aspirazioni lavorative e dei bisogni di essere, ogni tanto, individui individuali». Poi ci invia una foto di qualche ora prima: lui seduto sul divano a seguire via Zoom un corso di

romancio col pupo al seguito, mentre la Millennial Mum è a una conferenza sul liberalismo all’USI. All’intervista, sempre su Zoom, si presenta con le cuffie sulle orecchie, in modo da poter facilmente prendere in braccio il neonato se si sveglia dal riposino. Insieme a Paolo decidiamo di tracciare il decalogo del Millennial Dad, per capire cosa pensa e cosa lo infastidisce, come si comporta e come si organizza, quali sono le sue convinzioni e le regole in famiglia, e quanti tabù vuole infrangere.

1. Totale avversione per il termine mammo: «Accudire i figli uguale mamma» è considerata un’equazione sbagliata che taglia fuori i papà. Ribellarsi contro lo stereotipo per eccellenza è un diktat imprescindibile.

2. Reazione di meraviglia quando al corso preparto alle mamme viene consigliato di chiedere d’ora in avanti aiuto al partner nonché futuro papà per incombenze domestiche come fare la spesa: «C’è ancora bisogno di dirlo?», è la domanda piena di stupore del Millennial Dad

3. Restare a casa con due biberon di

latte (tirato) mentre la neomamma va a svagarsi un po’ non è visto come un atto straordinario né da kamikaze, ma come la normalità: «Oggi lo fai tu, domani io». E non sono un’eccezione le serate a casa di amici con il neonato e l’immancabile biberon con il latte (tirato).

4. Irritazione per l’assenza di fasciatoi nei bagni maschili: «E io adesso dove cambio il pannolino del creaturo?», si chiede per poi rispondersi immediatamente: «Noi Millennial Dads ce la caviamo anche senza!».

5. Capacità di smentire i luoghi comuni che vogliono i maschi incapaci di fare due cose insieme: per il Millennial Dad è normale sparecchiare la tavola con il neonato in braccio. Lo stesso fare una lavatrice.

6. Il mese di congedo paternità è piazzato tatticamente in corrispondenza del ritorno della mamma al lavoro (anche se inizialmente al 60%).

7. Con il rientro definitivo della mamma in ufficio, la parola d’ordine diventa sottrarre al lavoro lo stesso numero di giorni da dedicare al/la figlio/a. Il papà resta 2 giorni al me-

se a casa, lo stesso numero di giorni che gli dedicherà anche la mamma: in pratica entrambi turneranno in modo che il pargolo abbia uno dei genitori a casa una volta alla settimana, oltre al week end. Una settimana uno lavora 4 giorni e l’altro 5, e poi viceversa. Negli altri 4 giorni il pupo va all’asilo nido.

8. La gestione del tempo con il creaturo deve lasciare a entrambi, anche in prospettiva, dei momenti di libertà che ciascuno può utilizzare come preferisce: dalla cena con le amiche, al Rabadan del venerdì sera con rientro a casa alle 5.

9. La (quasi) certezza è che un domani quando il/la bimbo/a andrà a scuola e lui si ritroverà alle riunioni o ancora peggio nella chat di classe la narrativa sarà tutta al femminile facendolo sentire un pesce fuor d’acqua. Ma resisterà.

10. Arrendersi mai: il desiderio è di conquistare a pieno titolo il ruolo di padre presente come la madre.

A Il caffè delle mamme non resta che augurare ai Millennial Dads tutto il bene possibile. Con un po’ di invidia nei confronti delle Millennial Mums

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
Unsplash Simona Ravizza

Una farina dai molteplici usi

Regionalità ◆ La farina bóna è una specialità unica e sorprendente che può essere utilizzata in molte ricette. Intervista a Ilario Garbani Marcantini, coordinatore di questo dinamico progetto della Valle Onsernone

Signor Garbani Marcantini, ci parli un po’ di lei e di cosa si occupa nell’ambito del progetto farina bóna?

Sono nato a Vergeletto nel 1960. Mi piaceva la scuola e allora ho proseguito gli studi, spronato da un mio maestro di scuola maggiore. Nel 1980 sono maestro a Russo dove insegno per tre anni. Successivamente trovo lavoro come educatore, dapprima a Bellinzona e poi a Brissago.

Nel 2000, a quarant’anni, il grande ritorno a insegnare in valle, dopo 17 anni! La trovo molto cambiata e per me è un po’ un ritorno a casa che mi ha stimolato, grazie anche agli allievi di allora, a riscoprire leggende, intrecciare paglie e, in collaborazione con il mugnaio Marco Morgantini (che sapientemente ancora adesso fa girare la ruota del mulino di Loco, quest’ultimo di proprietà del Museo Onsernonese) a portare avanti la rinascita della farina bóna. Nel frattempo, con il grande aiuto dell’allora sindaco abbiamo realizzato il Parco dei Mulini a Vergeletto (nella foto) e uno di questi è diventato il simbolo della farina bóna. Infatti qui, per molti anni, ha lavorato con grande maestria Annunziata Terribilini (1883-1957), detta Nunzia; che fu la mugnaia che riprese il testimone della produzione della farina bóna.

Come mai si è appassionato a questo progetto? Dopo la ricerca scolastica del 2006 e il successo del primo gelato alla farina bóna prodotto da Silvano Piffero alla Dolcevita di Locarno non me la sono sentita di abbandonare il progetto. La farina bóna – che a Vergeletto si dice ancora giustamente come un tempo «farina sec’a» – è buona! Mi son detto: abbiamo un prodotto unico in Svizze-

Vieni a scoprire le genuine specialità della nostra regione! Fino al 24 aprile ti aspettano numerose promozioni e degustazioni sui prodotti firmati Nostrani del Ticino. In tutti i supermercati potrai inoltre partecipare al «Gratta e Vinci» con ricchi premi in palio.

ra, è buono e ha una storia da raccontare, ha dei luoghi da visitare e ha un sapore unico. Proviamoci!

Ma cos’è esattamente questa «mitica» farina bóna?

La farina bóna è una farina già cotta. Si tosta la granella prima di macinare: la tostatura è una modalità di cottura. Un tempo veniva mangiata semplicemente con l’aggiunta di latte, caldo o

Gusto e genuinità tutta da assaporare

freddo, un po’ di burro e un po’ di sale. Si abbinava alla perfezione, come si può vedere, agli alimenti prodotti in loco. Veniva e viene macinata molto finemente. Adesso viene utilizzata anche per la preparazione di gelati, biscotti, amaretti, salse, impanature, minestre e molte altre ricette, alcune delle quali sono pubblicate sul nostro sito www.farinabona.ch.

Perché la clientela Migros dovrebbe acquistare questo prodotto? Semplicemente perché è qualcosa di «nuovo» tutto da scoprire! Sembra strano che si scopra il passato vero? La forza di questo prodotto è proprio questa: in bilico tra passato e futuro, prodotta in tempi dove si faceva la fame e però al tempo stesso quel gusto che sorprende e guarda dritto al futuro. La farina bóna poi vi porterà di sicuro a scoprire o riscoprire una delle regioni ticinesi purtroppo ancora poco conosciute: la Valle Onsernone. Da una valle in cui nell’Ottocento si usava mischiare la corteccia degli alberi per allungare la farina a una valle che sta sempre più diventando un luogo di scoperte gastronomiche e non solo: basta fare una tappa al nostro Museo Onsernonese per rendersene conto!

Avrebbe una ricetta semplice ma golosa per scoprire questo prodotto?

Certamente, la Spuma di farina bóna, una ricetta di Adriana Broggini per un dessert da leccarsi i baffi. Per ca. 4 persone servono 30 g di farina bóna, ½ dl di ratafià o sciroppo di frutta, 100 g di latte condensato zuccherato e ½ litro di panna da montare. Per la preparazione, miscelare bene la farina bóna con il ratafià oppure con lo sciroppo di frutta per la variante analcolica. Aggiungere il latte condensato e mescolare. Montare la panna, aggiungervi tutti gli altri ingredienti e mischiare tutto fino ad quando il composto sarà ben amalgamato.

Attualità ◆ Il salumificio «I Salumi del Pin» di Mendrisio è sinonimo di salumeria di qualità nel rispetto della migliore tradizione ticinese. Tra le diverse specialità nostrane dell’azienda presenti a Migros Ticino, questa settimana vi consigliamo di provare il prosciutto crudo e la mortadella di fegato, entrambi proposti a un prezzo particolarmente vantaggioso

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Prosciutto crudo Nostrano, per 100 g, in self-service

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Azione valida dal 18.4 al 24.4.2023

«Alla clientela di Migros Ticino proponiamo una quindicina di prodotti nostrani, tutti a base di ingredienti al 100% ticinesi»

Prosciutto crudo

Grazie a una stagionatura di oltre 90 giorni e a una lavorazione artigianale frutto di una lunga esperienza, il prosciutto crudo conquista anche i palati più difficili. Prodotto esclusivamente con carne di suini allevati e macellati in Ticino, questa specialità si caratterizza per il suo sapore tipico e raffinato. Una volta delicatamente disossate dagli esperti salumieri della «I Salumi del Pin», le cosce vengono sottoposte a una salagione a secco con l’utilizzo di soli ingredienti naturali quali sale, spezie e vino, senza l’impiego di alcun conservante. Dopo una fase di riposo che permette al prosciutto di assorbire al meglio gli aromi e alla successiva asciugatura, esso viene finalmente posto a maturare e affinare in apposite celle, dove sviluppa le sue inconfondibili qualità organolettiche.

Mortadella di fegato

La mortadella di fegato è un classico salume da tavola che rappresenta un ingrediente indispensabile in un tagliere di affettati e formaggi misti della tradizione locale. È preparata con carni miste di maiale ticinese e fegato di vitello minutamente triturati, a cui si aggiunge una miscela di spezie segrete e buon vino rosso locale. L’impasto così ottenuto viene insaccato in un budello naturale e lasciato asciugare per qualche giorno a temperatura e umidità controllate. Infine, dopo la lenta fase di stagionatura, che dura non meno di 4 settimane, la mortadella è pronta a conquistare tutti gli amanti della buona tavola grazie al suo aroma delicato e caratteristico. Si consiglia di non affettare il salume troppo sottilmente.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Azione 20% Farina Bóna 250 g Fr. 4.– invece 5.–dal 18.4 al 24.4.2023
Garbani Marcantini promotore del progetto farina bóna
nostranidelticino.ch
Angelo Valsangiacomo Titolare dell’azienda «I Salumi del Pin» di Mendrisio

La Tisana del Monte Generoso

Novità ◆ Un prodotto originale e sostenibile per il benessere quotidiano

Lo sapevate?

Attualità ◆ Sono oltre cento i prodotti dei Nostrani del Ticino che possono essere ordinati anche online su Smood.ch

Introdotta qualche settimana fa nell’assortimento dei Nostrani del Ticino, la Tisana Monte Generoso sta già riscuotendo un buon apprezzamento da parte della clientela Migros. Questo prodotto originale, sviluppato in collaborazione con la Ferrovia Monte Generoso, la Erbe

Ticino Cofti.ch SA e l’Azienda agricola Bianchi, è composto da una miscela di erbe biologiche come la menta piperita, il mentastro, la melissa, la menta citrata, il fiordaliso e la stella alpina, quest’ultima coltivata nei pressi del famoso Fiore di pietra situato in vetta al Generoso. Grazie alla sua

sapiente combinazione di aromatiche erbe officinali, la tisana esplica un’azione digestiva, tonificante e stimolante sul nostro organismo. A proposito: la Tisana Monte Generoso è ottima gustata anche fredda, per un effetto rinfrescante e balsamico a tutto tondo!

Una ricca scelta di prodotti a marchio Nostrani del Ticino potete anche ordinarla sul portale di spesa online Smood.ch e farvela consegnare direttamente a casa vostra in meno di un’ora! Il tutto allo stesso prezzo dei prodotti presenti in negozio. Dai prodotti freschi quali luganighetta, affettati, formaggi, ravioli, yogurt alle bevande come tisane, acqua, gazose, fino ai biscotti, al miele e alle farine… la consegna a domicilio dei vostri prodotti a km 0 preferiti avviene su buona parte del territorio ticinese.

Il servizio funziona in modo assolutamente semplice e intuitivo. È sufficiente collegarsi al sito Smood.ch oppure tramite smartphone usufruendo dell’app scaricabile gratuitamente da Google Play o App Store. Una volta registrati, selezionate la modalità «consegna» e scegliete la filiale Migros di riferimento più vicina a voi. A questo punto potete iniziare a fare la spesa online, selezionando la categoria «Nostrani del Ticino» a sinistra della schermata. Infine, pagate comodamente tramite i metodi di pagamento senza contante più diffusi.

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L’avvocato che scelse la chitarra

Incontri (10) ◆ Adolescente con la valigia in mano, Cristiano Poli Cappelli nel 2000 si laurea in giurisprudenza a Foggia e consegue il diploma al Conservatorio di Pescara. Pratica legale all’Aquila, posto di lavoro a Roma e poi… vincerà la musica

Frosinone, Caserta, Palermo, Napoli, Foggia e poi… Roma. Sì, siamo nel centro-sud Italia. Ci siamo perché è da lì che viene Cristiano Poli Cappelli sebbene adesso, dal 2017, abiti con la famiglia (moglie e due figli) a Lugano. È lì che questo ormai affermato musicista – è uscito poche settimane fa il CD con l’integrale delle opere di Antonio Lauro e, a titolo esemplificativo, il prossimo 28 aprile con la chitarrista argentina Daniela Rossi terrà un concerto di chitarra classica alla St Ives Free Church, di Cambridgeshire – è nato. È lì che è cresciuto con la valigia in mano al seguito di un padre «servitore dello Stato». Già perché papà Saverio, a Frosinone, era vice questore e, nel 1988, quando Cristiano ha da poco finito la prima liceo scientifico e si trova con la famiglia al mare, apprende che la seconda liceo la frequenterà altrove.

Dove per l’esattezza?

A Caserta. Papà ce lo disse in quel pomeriggio di luglio, a Zante, dove gli avevano telefonato nel pomeriggio. Né io, né mamma e sorella ci facemmo molto caso. L’anno prima avevamo già pronto tutto per trasferirci a Venezia a poi… non se ne fece nulla. Purtroppo però, quando tornammo a casa, capii che questa volta la partenza ci sarebbe stata e… senza ritorno. Mi ero appena fidanzato con una coetanea e già il partire per le vacanze era stato un problema.

Quando capii che ce ne andavamo davvero tra me e mio padre è caduto il gelo. È lì che la mia spensieratezza adolescenziale si è infranta sul muro della realtà. È stato il primo trauma abbastanza forte e i contrasti con i miei genitori si sono moltiplicati. A mio padre, in particolare, rimproveravo la mancanza di empatia.

L’incapacità di capire cosa potesse significare per me dover lasciare i miei amici, la mia vita. Niente. Lui riteneva normale che mia madre, mia sorella e io dovessimo seguirlo ovunque andasse. E così è stato. Ho seguito mio padre, ma mi sono irrimediabilmente allontanato da lui. Per lui prima di noi c’era il lavoro, il

Scheda

Nato a: Frosinone.

Età: 48 anni.

Abito a: Lugano-Viganello.

Lavoro: musicista, docente.

Hobby: troppi! Modellismo navale, fotografia, podismo, lettura, vela, trekking, immersioni, lezioni di volo… Rimpianto: non ho rimpianti, ho fatto quasi tutto quello che volevo fare. Il mio unico rimpianto è non averlo fatto prima!

Sogno nel cassetto: ho realizzato tanti dei miei sogni. Ho molti altri piccoli sogni più futili, la cui mancata realizzazione non è poi così importante! Ora i miei sogni sono legati ai miei figli.

Amo: i dolci e suonare la mia chitarra.

Non sopporto: l’indifferenza delle persone. La superficialità.

La mia foto preferita: la foto che mi ritrae mentre faccio ciò che amo, ovvero suonare, tra le risate, con il mio collega Andrea.

servizio allo Stato. Poi, ad aggiungere amaro all’amarezza, ammetto di aver odiato Caserta al punto che di quell’unico anno che vi abbiamo trascorso non ricordo più nulla. Quindi non vi siete fermati molto… … infatti, non ci siamo fermati molto, ma la frattura ormai si era prodotta. Riuscii a terminare l’anno scolastico e poi mi ritrovai, con mamma e sorella, a preparare nuovamente le valigie. Papà, infatti, dopo pochi mesi a Caserta era stato trasferito un’altra volta. Nuova destinazione: Palermo. Lì l’abbiamo raggiunto qualche mese dopo, ad agosto del 1990, così da poter terminare, mia sorella e io, l’anno scolastico «casertano». Il conflitto con mio padre è comunque proseguito. Palermo però l’ho amata tantissimo. Ho amato la città e la sua gente. Pensi che il primo giorno di scuola – ero iscritto al Liceo Cannizzaro – sono stato circondato da quelli che sarebbero poi diventati i miei compagni di scuola. Mi abbracciarono e mi dissero: «Tu sei nuovo!… Vieni, ti guidiamo noi». Mi hanno portato in classe e mi sono bastati tre giorni per sentirmi perfettamente integrato. Sono stati tre anni bellissimi. Il 23 maggio 1992, però, si consuma la strage di Capaci. Su Palermo piomba il silenzio, un silenzio che non dimenticherò mai e che s’interrompe solo dopo il 19 luglio del 1992, quando nel secondo attentato muoiono il giudice Paolo Borsellino e cinque dei sei agenti della sua scorta. La gente di Palermo – città ferita – si risveglia e scende in piazza. Io con loro.

Torniamo a lei. Liceo e poi università a Palermo?

No, no. A Palermo ci restiamo fino al 1993 quando mio padre viene trasferito a Napoli e quindi, come da copione, noi – mamma, sorella e io – lo raggiungiamo. È però proprio negli anni che trascorro in Sicilia che mi avvicino con più serietà alla musica e comincio a suonare la chitarra classica. Vede, mio padre, che a casa si vedeva sempre meno per lavoro, ogni mattina, al mio posto, sul tavolo dove facevamo colazione, mi lasciava un biglietto sintetico: «Studia». Io studiavo, anche con buoni risultati, ma avevo deciso che dovevo trovare qualcosa che mi permettesse di esprimere me e il mio mondo. Quando partimmo in nave per raggiungerlo a Napoli – e sul molo c’erano tutti i miei compagni di scuola con fazzoletto in mano a salutarmi – mi sono fatto una promessa solenne: continuerai a studiare musica. E così ho fatto. A Napoli prima. Poi, l’anno successivo, a Foggia dove mio padre era stato trasferito come questore. Ed è a Foggia che ci siamo fermati per altri 3 anni. Lì mi sono iscritto alla facoltà di giurisprudenza, ma anche al Conservatorio. Così, dopo Andrea – il primo maestro che ebbi, a Palermo e che mi disse «sei bravo» – e il maestro che mi seguì a Napoli, decisi che avrei tentato anche la strada della musica. Feci il programma di 5 anni in uno e mi iscrissi al Conservatorio di Campobasso dove incontrai il mio terzo maestro: Letizia Guerra. Sì, il terzo maestro è una maestra.

È stata lei che mi ha fatto capire che avevo delle chances per svolgere il mestiere di musicista. E mi ci sono messo d’impegno. Poi lei, la mia maestra, per motivi suoi, si è trasferita al Conservatorio di Pescara e lì l’ho seguita.

Dunque ha lasciato l’università? Assolutamente no. Mio padre – vero responsabile del mio amore per la chitarra visto che fu lui, quand’ero bambino, a cantarmi le canzoni di Gino Paoli accompagnato proprio da una chitarra che fu poi relegata in solaio dove andavo a guardarla e carezzarla – non avrebbe mai accettato che abbandonassi l’università. Così a maggio 2000 mi sono laureato in giurisprudenza a Foggia e nel giugno dello stesso anno ho conseguito il diploma di chitarra a Pescara con un bel 10 e lode. Lo ammetto. Se non ci fosse stata la lode non avrei nemmeno per sogno accarezzato l’idea di dedicarmi esclusivamente alla musica.

Scelta che però non fa subito. Esatto. Non la faccio subito perché l’obiettivo è diventare avvocato. La legge nel frattempo arriva infatti ad appassionarmi sempre più, e così, dopo 6 mesi di pratica legale a L’Aquila nell’ambito del diritto penale, seguo – more solito – mio padre a Roma dove nel frattempo è stato trasferito e promosso a diri-

gente di prima fascia. Vengo assunto come praticante dallo studio Caroleo Grimaldi (che sta al quartiere Flaminio). La mattina avvocato, il pomeriggio – con Andrea Pace –musicista. È il 2001 e mi chiamano per incidere quello che sarà il mio primo CD. Io però non avevo ancora ben chiaro cosa avrei voluto/ dovuto/potuto fare, ma soprattutto non avevo il coraggio di lanciarmi nella carriera di musicista sapendo quanto fosse difficile sopravvivere. Passano i mesi. Sostengo l’esame per diventare avvocato. Lo studio Caroleo Grimaldi mi offre il posto fisso e… proprio quel giorno mi telefona il mio migliore amico, Gianpaolo, oggi professore all’università di Foggia. Ci aggiorniamo sulle rispettive vite e lui mi dice: «Guarda che tu, a fare il musicista, non ci hai mai provato!». Fulmine a ciel sereno. È questa semplice sentenza che mi ha fatto cambiare rotta. Inizio così la mia vita di musicista a Roma rinunciando al posto fisso nello studio di via Archimede.

E suo papà?

Mio padre è morto nel 2004, pochi mesi dopo essere andato in pensione. Quando nel 2002 passai l’esame per l’abilitazione da avvocato mi telefonò e mi disse con la solita ironia: «Avvocato! Pensa che non avrei scommesso 1000 lire sulla tua promozione!». Come prevedibile non

Tre momenti chiave di una vita

Cristiano, ha a disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita:

1. Il mio primo trasferimento al seguito di mio padre. Un momento molto traumatico perché, repentinamente, azzerò una fase di grande ingenuità e di serenità adolescenziale. Mi ha proiettato nella maturità e verso

un atteggiamento «pensoso» e autoanalitico.

2. Una telefonata fatta dal mio migliore amico Gianpaolo. Fu la classica Sliding Door a cui io attribuisco una svolta fondamentale.

Mi fece capire che non avevo creduto a sufficienza nella mia passione musicale. In quel preciso istante ho capito che non avrei fatto

prese molto bene la mia scelta, ma per me fu la cosa giusta. Tra concerti e insegnamento, pur con non poche difficoltà, ho conquistato la mia serenità interiore. Ho tagliato il cordone ombelicale con il mio passato di giovane stressato alla perenne ricerca di un senso, di un perché. Ho trovato e provato la gioia di essere me stesso e ciò mi ha aiutato anche nella relazione con Elvira, giovane svizzera giunta a Roma a studiare psicologia. Ci siamo conosciuti nel 2007. Ci siamo sposati nel 2008 e, nel 2017, lei ha vinto un concorso qui a Lugano – spinta per anni a farlo da me vista la mia necessità ormai irrefrenabile a cambiare città ad intervalli regolari. È così che ho ripreso in mano le valigie. Stavolta, però, al seguito di mia moglie e dei miei figli (e non di mio padre).

E vive di musica?

Sì. Insegno, suono, partecipo alla vita sociale e culturale di questo mio nuovo Paese che amo e che abbiamo scelto – mia moglie e io – soprattutto per garantire ai nostri figli una vita degna. Sono, soprattutto, vivo dentro perché mi sento libero. Perché amo quello che faccio. Perché mi sento cittadino del mondo e, ovunque vada, ho la mia chitarra e la sua musica come compagne. È vero, ho quasi 50 anni ma, per me, la gioventù è iniziata quando ho avuto il coraggio di scegliere.

l’avvocato, ma il musicista.

3. Il nostro trasferimento a Lugano. Un trasferimento pazzo, fatto con l’idea di vivere la nostra vita con coraggio, senza poter dire, da anziani: non abbiamo avuto il coraggio di farlo. Io ed Elvira abbiamo cambiato vita a 40 anni, scommettendo su di noi come coppia e come famiglia.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Il chitarrista Cristiano Poli Cappelli insieme al collega musicista Andrea Pace.

Identità di genere, superare i pregiudizi

Generando ◆ Tra le tante iniziative proposte dalla rassegna anche un workshop dedicato agli insegnanti, ce ne parla Nicolò Osterwalder presidente della Commissione per l’educazione affettiva e l’orientamento sessuale

Guido Grilli

Dici sesso e ti si apre un mondo, il più delle volte complicato. Come affrontare in classe con competenza il tema dell’identità sessuale – sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale e ruolo di genere? Come abbattere stereotipi e pregiudizi a favore dell’inclusione sociale di tutte le persone? Dapprima serve formare e informare gli insegnanti. È quanto si propongono di raggiungere due workshop in agenda i prossimi 10 e 17 maggio a Trevano, rivolti proprio a chi si trova al fronte, docenti delle scuole dell’obbligo, superiori e professionali. Ne parliamo con Nicolò Osterwalder, presidente della Commissione per l’educazione affettiva e l’orientamento sessuale nella scuola (CEAS) della Svizzera italiana, docente ed esperto di scienze naturali per la scuola dell’obbligo, che unitamente al Servizio per le pari opportunità promuoverà le due proposte formative nell’ambito della rassegna Generando (www.generando.ch).

Con quali obiettivi? «Attualmente su queste tematiche non esistono giornate specifiche nella formazione didattica di base dei docenti. Pertanto, quella di maggio è un’occasione per certi aspetti unica per tematizzare questi aspetti, che vanno ben oltre a un’educazione sessuale classica, come ad esempio quella che ho vissuto io a metà degli anni Ottanta, orientata soprattutto a contenere quella che appariva come una pandemia, il virus HIV, per cui il discorso era medicalizzato.

Storicamente l’educazione sessuale ha lavorato sempre in termini di acquisizione di conoscenze rispetto all’anatomia, alla fisiologia umana e alla prevenzione delle infezioni sessualmente trasmissibili. Oggi invece c’è anche un interesse legato al benessere generale delle persone, per cui si guarda ad aspetti concernenti gli stili di vita. Questo ha evidenziato la presenza di fasce di popolazione che hanno un’identità di genere, rispet-

Viale dei ciliegi

Alessandra Cella-Pia Simona Bosco

Osvaldo un serpente a righe –Giovanna un serpente a righe Passabao (Da 3 anni)

Passabao è una casa editrice piccola, ma di qualità grande. In catalogo ha pochi libri, albi illustrati scelti con attenzione. Illustrazioni raffinate e al contempo di immediata fruizione per i bambini. Storie divertenti, non scontate, piene di brio. Ne sono responsabili Silvia Albesano e Ilaria Dal Canton. Ilaria, filosofa di formazione, ha scoperto la passione per l’arte visiva – ha illustrato personalmente alcuni albi in catalogo – e attualmente è grafica presso il Parlamento Europeo a Bruxelles. Silvia, filologa di formazione, è traduttrice, revisore editoriale, ed è stata per dieci anni docente di Storia della lingua italiana all’USI, Università della Svizzera Italiana. Insomma, Passabao è il volto giocoso di due studiose che non dimenticano di essere state bambine. E che ai bambini sanno rivolgersi con leggerezza e intelligenza, cercando con cura i loro autori. Come nel caso di Alessandra Cella e Pia Simona Bosco, creatrici di questo delizioso libro

tivamente un orientamento sessuale, che non necessariamente si confà alla norma che prevede un’impronta

Riflessioni in famiglia

La rassegna «Generando» vuole schiudere nuovi orizzonti e invitare alla riflessione: sull’arco di alcune settimane propone iniziative ed eventi che favoriscono il dialogo sul tema del genere. Anche quest’anno la stagione è ricca di spunti di riflessione per una società più giusta e consapevole.

I prossimi appuntamenti

22 aprile 2023 (Centro diurno comunale, via Capidogno, Rivera, 09.30-11.30), Workshop: Essere genitore nel mondo LGBTQ+, cosa significa? Come capire e sostenere mia/o figlia/o?

Incontro per genitori che desiderano o che sentono il bisogno di entrare in dialogo con questo tema tanto deli -

double face: lo apri da una parte, e trovi la storia di Osvaldo, un serpente tutto a righe, righe che lo mettono in imbarazzo, tanto che prova a nascondersi, mimetizzandosi con i vari ambienti. Che divertimento per i piccoli lettori scoprire, a ogni pagina, dove è andato a cacciarsi il povero Osvaldo: diventa lo stelo dell’abat-jour, il filo dello stendipanni, la ruota della bicicletta… Mai un po’ di pace? «Forse quello che gli manca è il sorriso di un’amica», e l’amica arriva, nell’ultima pagina: «È Giovanna, ti sorride, è un’amica con le righe!» Ma in re-

binaria maschio-femmina. Queste persone vengono spesso discriminate e stigmatizzate. Ed è per questo mo-

cato, per sostenere al meglio gli equilibri e il benessere famigliare di ognuno. Relatori: Eveline e Jody Moggi, formatrice, autrice e mamma – studente liceale. Iscrizioni: 079 859 33 6 2; team@increscita.org

26 aprile 2023 (online, 18.00-19.30), Workshop: Identità sessuale: come parlarne in famiglia.

Il tema dell’identità sessuale ci porta a riflettere sul linguaggio, i comuni stereotipi, pregiudizi e le rappresentazioni sociali o personali. In questo incontro si parlerà dei concetti principali dell’identità sessuale (sesso biologico, identità di genere, orientamento sessuale e affettivo, espressione di genere) e si discuterà le modalità per aprire un dialogo sul tema come genitori o adulti di riferimento.

Relatore: Marco Coppola, consulente Zonaprotetta, responsabile Identità plurale. Iscrizioni: info@zonaprotetta. ch; informazioni: generando.ch

altà la pagina è l’ultima della storia di Osvaldo, mentre nel libro si trova a metà, infatti se lo capovolgiamo e cominciamo a leggerlo dall’altra parte ecco la storia di Giovanna, serpente a righe, che le fanno pensare, proprio come Osvaldo, di essere un po’ «strana». Allora anche lei prova a trasformarsi, e di nuovo sarà una gioia scovarla in ogni pagina, perché anche lei le inventa tutte, diventa persino una decorativa canna di bambù, fino all’ happy end dell’incontro con Osvaldo! Le pagine, molto pulite, ospitano – senza affollamenti e su sfondo di un riposante bianco crema – i testi in stampatello e le eleganti immagini colorate, tra loro in armonia anche ritmica, giacché al ritmo della narrazione è dato molto rilievo, rendendola particolarmente adeguata alla lettura ad alta voce. Tra l’altro il registro linguistico non è piatto, si concede giustamente anche termini un po’ alti, che tuttavia, sia grazie al contesto, sia grazie alla giocosità fonica, i bimbi sapranno comprendere benissimo: «Si nasconde o si esibisce? È difficile da dire…». Un altro punto di forza del libro, nel rivolgersi ai più piccoli, è il suo essere a struttura iterativo-ri-

È importante che anche sui banchi di scuola si possa parlare dei diversi «colori» della sessualità. (Unsplash)

tivo che si intende svolgere una sensibilizzazione per i docenti. Spesso questo tipo di discriminazione avviene proprio perché non c’è una cultura radicata dell’inclusione e non si conosce nel dettaglio il significato dei termini. Siamo tuttavia ancora lontani dall’avere dei veri e propri piani di azione per le scuole e i due workshop rappresentano un primo passo».

Una delle difficoltà appare quella di come rivolgersi ai giovani in tema di identità sessuale. «Abbiamo affidato il compito formativo del workshop a due specialisti qualificati: Marco Coppola e Isabel Londono, operatori di Zonaprotetta, associazione che si occupa di salute sessuale rivolta alla popolazione e ai giovani. C’è un grande bisogno di informazione e di formazione. Lo testimonia la grande affluenza alle due mezze giornate formative di maggio: ad oggi si sono già iscritti 240 docenti. Questo risultato ci ha sorpresi, si tratta di quattro volte il numero raggiunto nel primo workshop dello scorso anno, quando abbiamo affrontato gli aspetti legati ai diritti sessuali».

Ma qual è il termometro nelle scuole in Ticino in tema di pregiudizi sull’identità di genere e l’orientamento sessuale? Quali segnali raccoglie in tal senso la CEAS? «Nella scuola dell’obbligo si avvertono so-

prattutto problematiche che riguardano l’accettazione delle persone che si identificano come transgender. Alle Elementari affiora non di rado la questione dell’identità di genere. La difficoltà è riuscire a instaurare un dialogo costruttivo che coinvolga il gruppo classe, il corpo docenti e soprattutto le famiglie. Nella scuola Media il pregiudizio sfocia talvolta nel bullismo omofobico e transfobico, già solo per il fatto che i giovani usano a sproposito termini che non conoscono, con il solo intento di ferire persone che hanno un orientamento sessuale o un’identità di genere che differisce dalla norma. Nel Medio superiore incontriamo persone che intendono compiere una transizione di genere e che chiedono di essere riconosciute ufficialmente dalle istituzioni scolastiche. Una linea guida è stata emanata dalla nostra Commissione, seppure non vincolante, e ora si sta elaborando una direttiva. La scuola comincia insomma a essere preparata».

Perché il tema è più attuale oggi rispetto al passato? «C’è una differenza di approccio tra le generazioni. Lo indicano i dati. Lo studio preso come riferimento è quello prodotto annualmente negli USA dall’Istituto Gallup. Nella Gen Z dei nati tra il 1997 e il 2004, le persone che dichiarano di appartenere a una minoranza LGBT rappresentano quasi il 20%. Gli studi in Svizzera pongono il dato tra lo 0,5 e il 3% sulla popolazione totale e il rischio di discriminazione è tangibile». Combattere la discriminazione rientra tra i compiti della Commissione. «Esatto. Ci muoviamo su vari fronti: da un lato la formazione e l’informazione dei docenti, dall’altro il sostegno a iniziative mirate a migliorare il benessere di tutti: la tolleranza, il rispetto, l’inclusione».

petitiva, con però ogni volta un piccolo scarto dalle aspettative: cosa diventerà adesso il serpente? E adesso?… E non manca un messaggio profondo sul tema del sentirsi diversi, ma il bello è che questo messaggio passa con naturalezza attraverso la storia, non è costruito a tavolino, per fare un libro sulla diversità.

Questo sono io Edizioni Usborne, collana «Il mio piccolo mondo» (Da 6 mesi)

Nello scorso Viale dei Ciliegi parlavo di Peter Usborne, definendolo ancora pienamente attivo, a 85 anni, nella casa editrice da lui fondata cinquant’anni fa, e da lui presieduta con la lungimirante determinazione a fare libri sempre davvero accessibili ai bambini. Era presente anche alla Fiera di Bologna, lo scorso mese, dove l’avevo scorto muoversi con passo agile tra i padiglioni, e dove aveva avuto la soddisfazione di festeggiare il mezzo secolo di attività. Purtroppo, quando la rubrica ormai era in stampa, lo scorso 30 marzo, Peter Usborne è mancato improvvisamente. La casa editrice

dall’iconico logo-mongolfiera viene portata avanti dalla sua famiglia, che ne ha sempre condiviso l’entusiasmo. Colgo l’occasione di questa rettifica per segnalare una novità rivolta ai più piccini, un volumetto cartonato che accompagna i bambini alla percezione del proprio corpo: i piccoli protagonisti, tratteggiati con contorni ben definiti, si stagliano vivacemente sullo sfondo e appaiono in primo piano, dicendo di volta in volta «queste sono le mani... queste le ginocchia, i piedi, il naso...» invitando i piccoli lettori a giocare con loro.

8 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Ci può essere vita anche in città

Biodiversità ◆ Mai banalizzare le superfici naturali in zona urbana che devono invece essere valorizzate

Fatti e cifre, benefici e minacce, esempi e soluzioni. È questo lo schema seguito dalla mostra Biodiversità: c’è vita in città, promossa dal Dipartimento del territorio in collaborazione con Alleanza Territorio e Biodiversità, e allestita in diversi luoghi a partire dal giugno dello scorso anno, per arrivare in questi giorni presso il Centro professionale tecnico di Lugano-Trevano. L’esposizione farà poi ulteriori tappe in tutto il Ticino ed è un’occasione per ribadire alcuni concetti relativi alla biodiversità, con particolare riferimento all’ambito urbano.

L’esistenza dei serpenti nel clima di oggi

Mondoanimale ◆ Cambiamenti di abitudine e letargo più tardivo sono segnali da non sottovalutare

Secondo le chiare indicazioni della Strategia cantonale per lo studio e la protezione degli anfibi e dei rettili, essi fanno parte del nostro patrimonio naturale e, come tali, sono degni di tutela, anche per il fatto che «occupano un posto elevato nella catena alimentare (predatori) e quindi svolgono un ruolo importante negli ecosistemi terrestri e acquatici».

Anche se le temperature aumentano, i rettili tendono a restare «nascosti» a causa della conseguente siccità prodotta dal cambiamento climatico stesso

Il documento riporta alcune specie assenti dal territorio svizzero ma presenti solo in Ticino, fra le quali ad esempio: «Il rospo smeraldino, la rana di Lataste (ndr : solo nel Mendrisiotto) e, fra i serpenti, la natrice tassellata, e la vipera comune sottospecie di Redi». Per esse il nostro Cantone rappresenta dunque l’ultimo rifugio a livello nazionale: «Alcune specie e sottospecie di anfibi e rettili presenti in Ticino sono le popolazioni numericamente più importanti di tutto il territorio svizzero e per esse il Cantone riveste il ruolo di riserva biogenetica a livello nazionale».

Per meglio comprendere l’importanza della loro presenza sul territorio, va pure sottolineato che anfibi e rettili sono particolarmente sensibili ai mutamenti dei loro habitat e perciò si presentano «quali indicatori privilegiati della qualità del nostro ambiente». A questo punto sorge spontanea la domanda su quanto il cambiamento climatico possa essere al centro delle probabili responsabilità sulle mutazioni delle abitudini o degli habitat dei serpenti, la cui presenza è da considerarsi un fattore storico-culturale nel nostro Cantone, quale territorio tanto rurale quanto variato per caratteristiche e altitudini.

Ne parliamo con l’esperto Grégoire Meier, a partire dall’influsso delle temperature di questa primavera precoce che segue un inverno alquanto caldo e asciutto: «Malgrado condizioni climatiche così anomale, devo obiettivamente rimarcare che quest’anno i rettili non si sono attivati prima degli anni precedenti; per loro la difficoltà non risiede soltanto nel cambiamento climatico inteso come riscaldamento terrestre, bensì anche nel problema creato dalla siccità che induce i rettili a restare più “nascosti” malgrado le temperature aumentino».

In generale: «Per far sì che in primavera i serpenti si attivino dal letargo, bisogna che le giornate si allunghino. La mia esperienza mi ha permesso di osservare che questo succede a partire circa dal 20 febbraio, in quei versanti ben esposti che, ovviamente, non sono coperti da metri di neve. Da quel momento si rimettono in attività». Ciò succede a prescindere dalle temperature, che non devono essere comunque troppo basse: «Per attivare il loro metabolismo, i serpenti necessitano di umidità; la sua attuale carenza li tiene “ancora un po’ defilati”». Il che significa che «con l’allungarsi delle ore di luce, essi escono dai loro rifugi invernali e si piazzano al sole per scaldarsi, aumentando così la propria temperatura corporea».

E malgrado le temperature ancora poco miti, pare sappiano sfruttare il microclima a loro favore: «Ho filmati che mostrano come, ad esempio, accanto a pietre ancora a temperature di 0 gradi ci sia terreno erboso che al sole raggiunge persino i 15 gradi. Essi sfruttano quel microclima temperato con cui riescono ad aumentare la loro temperatura corporea, e restano lì placati e fermi». In questi casi non bisogna assolutamente disturbarli: «È importante stare molto attenti perché sono ancora freddi e restano immobili in quanto non hanno sufficiente energia per defilarsi velocemente. Tante volte sento le persone che di-

cono di picchiare i piedi sul sentiero quando vanno in montagna, in modo da farsi sentire dai serpenti che così possono scappare: ma in queste circostanze è relativamente inutile perché se il serpente ha freddo sa di non riuscire a scappare in modo efficace e veloce. Dunque, resta fermo per evitare movimenti goffi e inefficaci che attirerebbero l’attenzione dei predatori».

Meier ce ne parla proprio prima di partire per Airolo, dove è stato chiamato perché c’è una vipera immobile su di un muretto in centro paese: «Qualche individuo è già attivo anche lì, malgrado si tratti di zone elevate». Se il cambiamento climatico pare non avere grande influsso sul risveglio, ha per contro un ruolo in autunno, con l’inizio del letargo: «Di norma, a fine ottobre la stagione era finita. Invece, da un paio d’anni a questa parte ho trovato qualche serpente attivo anche a novembre e dicembre». Cosa che non succedeva in precedenza: «Le giornate si accorciavano, arrivava il freddo e si rifugiavano. Per contro, ora l’autunno è più caldo e restano come confusi, ritardando il momento del letargo che è essenziale in quanto permette funzioni senza le quali non si manifestano, come ad esempio la maturazione degli spermatozoi». Inoltre: «È possibile che non si rifugino abbastanza in profondità per ripararsi dal gelo, e se arrivasse una gelata improvvisa o un inverno rigido sarebbe un grosso problema».

Di fatto, l’aumento delle temperature ha prodotto una migrazione di alcune specie verso habitat più alti: «Zone che diventano favorevoli perché più calde rispetto a prima, come ad esempio una zona in Ticino piuttosto fresca e umida, abitata finora dal marasso (Vipera berus), nella quale oggi ho trovato anche soggetti di vipera comune (Vipera aspis) che di norma predilige ambienti più caldi, mentre ora vive e si riproduce pure lì; e lo conferma una femmina in gestazione che vi ho trovato».

e indispensabile, sia per la sopravvivenza degli esseri viventi, sia per il loro benessere. È infatti noto come gli ambienti acquatici, siano essi fiumi, ruscelli o riali, laghetti, stagni o fontane, portino dei benefici diretti e indiretti alla popolazione e all’ambiente. Non mancano tuttavia le minacce, tra le quali vengono messe in risalto la cementificazione e l’incanalamento o intubamento dei corsi d’acqua che contribuisco pure all’aumento delle temperature (effetto isola di calore).

Con una ventina di semplici pannelli gli organizzatori vogliono sensibilizzare i cittadini, ma anche le autorità, sull’importanza di un ambiente variegato e naturale in città, dove nel nostro Paese vive circa il 75 per cento della popolazione, ma anche 45mila specie, tra animali, vegetali, funghi eccetera. Le zone edificate, malgrado siano ambienti creati dall’essere umano e spesso fittamente abitate, possono infatti offrire condizioni di vita ideali e inaspettate. Pensiamo per esempio a piccoli prati, muretti, arbusti, bordi fioriti, cassette per volatili, oppure superfici e spazi «selvaggi» che, se strutturati e gestiti correttamente, trovano una loro utilità.

Un’ulteriore densificazione delle aree urbane, ma anche la «banalizzazione del costruito», la perdita o la frammentazione degli spazi verdi e degli ambienti naturali sono quindi una seria minaccia per la biodiversità, a cui si può porre rimedio con diversi provvedimenti, sia a livello privato sia a livello pubblico.

L’esposizione porta esempi e possibili soluzioni per contrastare questa perdita e, anzi, per favorire una flora e una fauna più ricche anche nel contesto urbano. Con brevi testi e immagini di progetti concreti già realizzati in Ticino o altrove, il visitatore può sia trarre degli spunti d’intervento, sia appropriarsi di alcuni concetti e dati salienti.

Parchi, giardini, aiuole, aree spartitraffico e viali alberati, se ben progettati e adeguatamente curati, possono avere un ruolo importante nell’ecosistema cittadino, essendo spazi di vita in grado di generare pure un effetto positivo sulla qualità dell’aria, sulla regolazione del microclima, sui rumori e sulla salute delle persone. Accanto al verde, anche il blu gioca un ruolo determinante, essendo l’acqua un altro elemento vitale

Oltre a ospitare diverse specie, gli spazi urbani ispirati alla natura (inclusi giardini e orti) garantiscono pertanto alcuni benefici ai suoi abitanti. Come indicato nel comunicato stampa di presentazione, «la mostra intende stimolare enti pubblici e privati a favorire la biodiversità urbana, per esempio partecipando a progetti, o adottando la Charta dei Giardini, un documento nel quale sono riportate semplici regole che, se giustamente applicate, trasformano il giardino in uno spazio favorevole per la fauna e la flora locale».

E sono molti i metodi per plasmare un ambiente urbano più ricco e favorire così, di riflesso, anche condizioni migliori per la popolazione. Tra le azioni proposte su uno dei pannelli ci sono per esempio sia una gestione «differente degli spazi verdi» (ossia più attenta ai bisogni della natura), sia misure rivolte ai singoli cittadini, come la piantagione di specie indigene nei propri giardini oppure, anche qui, una cura «innovativa» e meno intensiva. Ritorna più volte il concetto di non banalizzare gli spazi urbani verdi (o blu) con l’invito, al contrario, di valorizzarli. Anche se piccoli, possono infatti diventare dei luoghi di vita importanti e insperati per molte specie, che riescono a trovare delle nicchie adatte alle loro esigenze anche tra case, edifici, asfalto e cemento.

La mostra può essere richiesta dagli enti interessati, che trovano un apposito formulario sul sito bio-città.ch, il quale, in fase di sviluppo, fornirà pure informazioni, consigli e curiosità. Prossimamente l’esposizione sarà alla scuola Arti e mestieri di Bellinzona (dal 17 aprile al 5 maggio) e a Melano da metà agosto (dal 24 agosto al 15 settembre 2023 negli spazi di Villa Santa Lucia), mentre altre destinazioni sono ancora in fase di definizione.

Informazioni

Link: https://bio-città.ch

12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
www.ti.ch/natura
Vipera aspis. (Gregoire Meier)

L’altropologo

La firma di Don Cristóbal Colón

Aveva accarezzato l’idea per anni, fin da quando, bambino poco propenso alla disciplina scolastica, assieme al fratello Bartolomeo, amava studiare le carte nautiche che a Genova era divenuta un’industria d’eccellenza. Arrivato poi in Portogallo come agente di commercio dopo alcuni anni da imbarcato (e un abbordaggio di pirati francesi che gli aveva fatto perdere l’ingaggio), aveva cominciato a dedicarsi seriamente al suo sogno. I re portoghesi, al tempo, si trovavano costretti a una politica d’espansione sui mari costretti com’erano, dopo la Reconquista dei Re spagnoli che si sarebbe completata proprio nel fatale 1492, a voltar le spalle alla terraferma e cercar fortuna altrove. Ma i portoghesi erano tutto fuor che marinai d’altura. La pesca costiera della sardina e la navigazione sottocosta era tutto ciò che tecnologia e un Mare Oceano ostile permetteva loro. Genova dominava allora i com-

mercio nel Mediterraneo Occidentale, scapolate le colonne d’Ercole, ormai rassegnata alla supremazia della Serenissima sulle rotte orientali. Benvenuta dunque fu la politica di Enrico, Infante di Portogallo e Principe di Sagres (1394-1460), detto il Navigatore: fra il 1420 ed il 1445 annesse al Regno di Portogallo Madera, le Azzorre, e le isole del Capo Verde mentre stabiliva l’egemonia portoghese in tutto il Golfo di Guinea, fino al Congo e all’Angola. A lui, dunque, vanno onori ed oneri per avere fondato, intorno al 1450, l’impero coloniale portoghese. Strumento tecnico fu la caravella, agile legno a due alberi che, nonostante le piccole dimensioni e le vele quadre, riusciva a virare di bordo con una certa facilità per risalire i venti contrari Est-Ovest del golfo di Guinea. Gli equipaggi di contadini a digiuno di terminologia marinaresca venivano addestrati appendendo un maz-

La stanza del dialogo

Ragazzi a rischio di isolamento

Cara Silvia, purtroppo non ho figli miei ma la vita mi ha dato la possibilità di vivere la maternità prendendomi cura di due gemellini, Emilio e Riccardo, figli di una vicina di casa impegnata tutto il giorno come chirurgo ospedaliero. Li ho cresciuti con dedizione e amore e adesso che hanno 16 anni hanno superato tutti i problemi di salute. Ma, purtroppo, non quelli psichici. Sono sempre stati vivaci e intelligenti finché non è subentrato un problema: divengono sempre più taciturni, chiusi e annoiati e il rendimento scolastico si è molto abbassato. A scuola si comportano da estranei e, appena a casa, si chiudono in camera restando ore a letto o dinnanzi al computer. Sembra che la vita fuori non li interessi, tanto che non si rallegrano per niente: un dono, una festa, uno spettacolo, una gita o un viaggetto li lasciano indifferenti. Vorrei tanto vederli felici ma non so come fare, mi consigli lei. La ringrazio sin d’ora della sua risposta. / Eugenia

Cara Eugenia, difficile comprendere da lontano se i due fratelli stanno attraversando una crisi momentanea, magari causata dalla stanchezza per la fine della scuola, come mi auguro, oppure sia l’inizio di un ritiro sociale che li porterà progressivamente ad allontanarsi dal mondo reale per immergersi in quello virtuale. Tenga conto che al di là dello schermo tutto è possibile: si possono compiere azioni, magari estreme, e poi annullarle premendo il tasto Reset senza affrontarne le conseguenze. Una forma di vita che gratifica il senso di onnipotenza, «voglio tutto subito», che contraddistingue l’adolescenza. Ma in profondità si coglie anche un penoso senso d’inadeguatezza, il timore di non essere all’altezza delle richieste estetiche e prestazionali di una società sempre più competitiva. Non dimentichiamo che, durante il Covid, questa generazione non è usci-

La nutrizionista

zo di agli a dritta ed uno di cipolle a mancina: al comando del Nostromo «Agli!», «Cipolle!» la ciurma allora sapeva a quali cime attaccarsi e tirare, mettiamola così, molto poco marinarescamente. A terra, nella reggia principesca di Sagres, esperti cartografi, in larga misura genovesi, ben pagati e giurati al segreto, compilavano e aggiornavano i portolani sulle indicazioni di comandanti ed equipaggi di ritorno dai viaggi di esplorazione. Ambienti, elaborazioni ed elucubrazioni alle quali Colombo, che si guadagnava da vivere come agente per i mercanti Genovesi della famiglia Centurione, riusciva in qualche modo ad avere accesso tramite le conoscenze a corte del padre della moglie Filipa e certo delle soffiate del fratello Bartolomeo, apprezzato membro del team dei reali cartografi. Colombo peraltro lavorava pro domo sua per realizzare il suo sogno: interrogava marinai reduci

da navigazioni importanti e – rimane nella tradizione del «si dice» – ad un certo punto si fece dire da un marinaio in punto di morte cruciali informazioni relative a gabbiani e tronchi d’albero avvistati ad Ovest delle Azzorre. «Dunque, se la terra è rotonda, deve essere possibile giungere all’estremo Est navigando verso Ovest». Questa, in poche parole, l’intuizione geniale di Colombo. E folle. Non sappiamo se i successori del grande visionario Enrico il Navigatore fossero o meno terrapiattisti. Fatto sta che la Corona portoghese giudicò l’impresa impossibile, assurda. Colombo, a quel punto, decise di giocarsi il tutto per tutto e riparò in gran segreto in Spagna portandosi via carte nautiche e informazioni che certo, se scoperto, gli sarebbero costate la testa. Era l’ultima spiaggia, letteralmente, l’ultima prima dello sbarco a San Salvador che avrebbe cambiato la storia del mondo. Fu il confes-

sore personale della Regina Isabella, Padre Juan Pérez, a far sì che la Sovrana concedesse una seconda udienza a Colombo dopo che una prima Commissione Reale aveva confermato il verdetto negativo dei portoghesi. Quale fosse il patto col diavolo – od altri che non potè rifiutare – contratto dalla Cattolicissima Sovrana ispirata dal Real Confesor non è dato sapere. Sia come sia: il piano di Colombo fu finalmente approvato. Le Capitulaciones del progetto, firmato da Colombo e controfirmato dal Sigillo Regale, garantivano a Cristóbal Colón il titolo di Ammiraglio del Mare Oceano, Vicerè e Governatore Generale delle terre eventualmente scoperte, il titolo di Don e un decimo di tutte le ricchezze frutto del suo viaggio. Era il 17 aprile 1492, cinquecentotrentuno anni fa. Il 3 agosto Cristóbal Colón salpava da Palos de la Frontera, all’alba. In nomine Domini.

ta dal suo ambiente per mesi e l’isolamento si trasformato per molti in una scelta di solitudine che disorienta e preoccupa i familiari. Apparentemente i ragazzi non avvertono il problema e non chiedono niente. Chi lo fa sono i genitori. Ed è difficile aiutare chi non vuole essere aiutato.

Secondo una recente ricerca svolta in Italia, il tempo degli «isolati» trascorre così: per 64,2% ascoltando musica, per il 49,8% comunicando sui Social Network, per il 45,5 % dormendo, per il 38% partecipando ai Gaming online, vedendo la Tv per il 36,2%. Nella popolazione scolastica sono 54’000 (2,7% dai 15 ai 17 anni) i giovani che attualmente non escono di casa.

Siamo soliti pensare che il cosiddetto fenomeno degli Hikikomori – termine coniato in Giappone dove il problema si è posto per la prima volta – riguardi soprattutto i maschi, ma gli ultimi dati riferiscono una popolazione fem-

minile altrettanto coinvolta. L’importante è non sottostimare la situazione e intervenire tempestivamente perché col tempo diventa sempre più difficile accettare la sfida della realtà. I sedici anni dei gemelli sono pertanto il momento opportuno per aiutarli ad affrontare le difficoltà della vita, senza le quali non si cresce.

L’importante è intraprendere un approccio sistematico che non isoli il ragazzo ma prenda in esame tutto il sistema sociale, a cominciare dalla famiglia. Senza trascurare di coinvolgere gli insegnanti che, nel 27% non se ne preoccupano, nel 23% pensano sia una malattia, mentre solo il 21% si sente coinvolto nel malessere degli alunni. Lei mi chiede «Che fare»? Una risposta semplice e immediata non c’è. Ma non si senta impegnata a rendere felici i suoi gemelli. La felicità si può attendere, magari propiziare, ma non pretendere. Se la consideriamo un diritto

Contro il lipedema, non dieta dimagrante ma antinfiammatoria

Gentile Laura Botticelli, prima di tutto complimenti per la sua rubrica, la leggo con tanto interesse e cerco di imparare. Da circa otto anni soffro di lipedema, nella parte inferiore delle gambe (dal ginocchio alle caviglie). Da un anno si è formato un ristagno alla caviglia sinistra con una tumefazione che peggiora durante l’estate a causa della calura. Nonostante il drenaggio linfatico praticato manualmente a regolari periodi e le calze di compressione «su misura», non tende a migliorare.

La domanda è: l’alimentazione potrebbe aiutarmi in qualche modo? Ho 84 anni, peso 52 kg, seguo la dieta mediterranea, non ho malattie oltre a quella succitata, cammino almeno ogni giorno un’ora e ho anche una rete sociale. / Gabriella

Gentile signora Gabriella, la ringrazio molto per la sua lettera e mi dispiace per la sua malattia. Avevo scritto in passato un articolo in merito («Non tutto è riconducibile all’obesità» su

«Azione» del 14 giugno 2021). Per chi non la conoscesse, il lipedema (o lipoedema) è una malattia progressiva, cronica e invalidante del metabolismo lipidico che colpisce quasi esclusivamente le donne. Si manifesta con un accumulo abnorme di grasso sottocutaneo prevalentemente nelle gambe, dai glutei alle caviglie, escludendo i piedi e frequentemente si ha anche un coinvolgimento delle braccia. Alcune persone con lipoedema grave, a lungo termine, sviluppano anche fluido nei tessuti (edema) e questo può portare a linfedema secondario. Sembra infatti che i vasi linfatici che drenano il corpo dai liquidi in eccesso e si occupano dell’infezione possano essere sopraffatti quando il tessuto adiposo si espande. Il fluido quindi si accumula nei tessuti e questi possono scolorirsi, indurirsi e la pelle può rompersi. Le aree edematose possono anche diventare sensibili, e dolorose se sottoposte

a pressione, ma anche soggette a dolore spontaneo, non stimolo-dipendente. Sono inoltre inclini a manifestare ematomi ed ecchimosi anche a seguito di un minimo trauma.

Per rispondere alla sua domanda, a differenza della normale obesità, i depositi di grasso del lipedema non rispondono alle misure dietetiche rivolte alla restrizione calorica o all’esercizio fisico intenso. La perdita di peso si verificherebbe dalla parte superiore del corpo, mentre sarebbe assolutamente minimo il miglioramento delle aree sotto la vita colpite dal lipedema, ciò che fa correre il rischio di esacerbare la sproporzione tra la parte superiore e inferiore del corpo. Questo risultato è anche supportato dal primo studio nel Regno Unito condotto da un gruppo di ricerca insieme a Lipoedema UK che ha esaminato gli effetti dietetici auto-riportati sulla gestione del lipoedema. Le diete

dimagranti migliorano i sintomi del lipoedema in una piccola percentuale della popolazione dello studio (dati da pubblicare). Al contrario, la dieta antinfiammatoria è stata segnalata come una delle pochissime diete efficaci che hanno migliorato i sintomi del lipoedema.

Tale scoperta supporta l’ipotesi che le proprietà infiammatorie della dieta possano influenzare le condizioni di lipoedema, dato che la malattia comporta un’infiammazione cronica nei tessuti adiposi. Sono necessarie ulteriori ricerche in merito, però sembra che i cambiamenti nutrizionali e dietetici come la riduzione dell’assunzione di alimenti che producono infiammazione nel corpo (zucchero, carboidrati raffinati, carne rossa) siano raccomandati. Nello specifico, le consiglierei, cara signora, di consumare verdura a ogni pasto, due porzioni di frutta, solo ce-

non facciamo che indurre scontento e delusione. Sarà la vita a decidere in base alle scelte e alle circostanze di ciascuno. In questi casi è invece fondamentale fare rete anche se i tempi per stabilire relazioni sono molto lunghi. Una ragione in più per essere tempestivi e, come dicevo, approfittare delle vacanze estive per scoprire le preferenze dei gemelli in modo da renderle attrattive per ciascuno di loro. Solo quando la vita vera sarà meglio di quella finta, il computer rimarrà spento e le porte delle camerette si apriranno.

Informazioni

Inviate le vostre domande o riflessioni a Silvia Vegetti Finzi, scrivendo a: La Stanza del dialogo, Azione, Via Pretorio 11, 6901 Lugano; oppure a lastanzadeldialogo@azione.ch

reali integrali, proteine magre da carni bianche, pesce, uova, formaggi, leguminose, alimenti fermentati come crauti, kefir, yogurt eccetera, noci e semi, erbe e spezie poiché questi alimenti sono ricchi di sostanze nutritive e antinfiammatorie. Al contrario, si dovrebbero evitare cibi che tendono ad aggravare l’infiammazione, come lo zucchero aggiunto (zucchero grezzo, raffinato, miele eccetera), i cereali raffinati (pasta, pane, riso, patate, mais eccetera), alimenti con grassi modificati chimicamente (torte, biscotti, cibo già pronto eccetera), cibi ad alto contenuto di sale, proteine grasse (insaccati, carne rossa, salumi).

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 13 SOCIETÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Silvia Vegetti Finzi
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Informazioni Avete domande su alimentazione e nutrizione? Laura Botticelli, dietista ASDD, vi risponderà. Scrivete a lanutrizionista@azione.ch ◆ ●

TEMPO LIBERO

Campanulate e pendule

Con più di cento specie, le fritillarie spiccano in giardino o all’interno di vasi da marzo fino alla fine di aprile

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Una portata presto pronta Basta aggiungere al cavolfiore pollo, piselli, spinaci e feta per ottenere un’insalata primaverile

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Dead Space promette terrore

Un’oscura e misteriosa missione di salvataggio porta i giocatori su una nave spaziale mineraria infestata da creature aliene mostruose

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Parabob: quanto tempo in un solo minuto

Altri campioni ◆ Incontro con l’atleta Christopher Stewart all’Olympia Bob Run di Celerina

Quel sibilo. Lo sfrecciare a oltre cento chilometri all’ora sul ghiaccio. E il gioco di forze nelle curve paraboliche che rendono unico lo spettacolo. Siamo all’Olympia Bob Run di Celerina, in alta Engadina, dove si stanno allenando gli atleti paralimpici di bob.

Tra di loro, anche un atleta svizzero, impegnato nelle fasi che precedono la sua discesa. È qui, alla partenza dell’Olympia Bob Run, che ci siamo dati appuntamento per conoscerci e per saperne di più su questo straordinario sport.

«L’allenamento

principale consiste nella coordinazione manoocchio, capacità che può essere esercitata ad esempio attraverso il tiro al piattello»

«Allegra!». Ci accoglie così, Christopher Stewart, salutandoci in un romancio impastato dal suo simpatico accento americano. E anche se in realtà la lingua romancia lui non la conosce, il suo legame con l’Engadina è forte e profondo, perché è stata proprio questa terra a regalargli una seconda vita dopo l’incidente.

Mancano ancora una trentina di minuti alla sua partenza, il tempo per una chiacchierata.

Quarantanovenne, Christopher Stewart è nato nel Massachusetts da madre tedesca e padre inglese. Terminata la scuola dell’obbligo decide di recarsi a studiare in Giappone, dove rimane anche per lavoro negli anni successivi. Poi, nel 2004, un cliente della ditta lo convince a trasferirsi a lavorare in Svizzera.

«Oltre al mio lavoro, mi piaceva il fatto che in Svizzera si possano praticare molti sport diversi fra loro» ci racconta Christopher. E partendo da casa sua, a Zurigo, di sport ne scopre parecchi, in particolare lo sci, la mountain bike e il windsurf. Fin quando non si lascia attrarre dal parapendio. Le montagne svizzere si prestano bene a questo sport, e i lanci si susseguono. A fine estate del 2011 decide di volare nell’Oberland Bernese. Purtroppo, l’atterraggio è difficoltoso e da lì in poi perderà l’uso delle gambe. «Non mi sono mai perso d’animo – dice Christopher. La mia degenza al Centro paraplegici di Nottwil è durata esattamente sei mesi. Ero motivato a ritornare il più in fretta possibile alla mia vita di sempre».

Terminata la degenza in clinica, Christopher, che non ha mai smesso di lavorare, rientra al suo domicilio. Inizia a praticare nuovi sport, anche estremi, quali ad esempio il kitesurf e il monosci. E spesso nel suo tempo libero si reca in Engadina. È qui che

qualche anno prima aveva conosciuto sua moglie, che era attiva professionalmente nella zona. Ed è qui che già prima dell’incidente aveva iniziato a tessere una rete di contatti interessanti. «Spesso ci trovavamo con amici e conoscenti a Celerina» aggiunge Christopher. «Poi, un giorno, per caso, sono venuto a conoscenza che lungo la pista di bob si lanciavano anche persone paraplegiche. Mi sono interessato e ho scoperto che l’Associazione Svizzera dei Paraplegici tutti gli anni proponeva due giorni di prova. La cosa mi ha subito stuzzicato». Nel 2015 e nel 2016 Christopher

partecipa alle giornate di prova e, parallelamente, prende lezioni alla scuola di bob di St. Moritz. «Non senza difficoltà, ho insistito e insistito ancora per migliorare la mia tecnica di guida e nella stagione 2016/17 ho iniziato le mie prime gare» ricorda Christopher. I risultati non tardano ad arrivare. Le competizioni si susseguono, vince il titolo europeo e si classifica due volte al secondo posto nella generale di Coppa del Mondo. Sono anni felici, anche nella vita privata, coronati dal matrimonio e dall’arrivo della piccola Louisa.

Ma torniamo a noi. «Come vedi il bob è un po’ più corto rispetto a uno a due per normodotati – spiega Christopher –, e questo per il fatto che è predisposto soltanto per un atleta.

All’interno della scocca sono applicate delle cinture per fissare il busto, visto che la stabilità del nostro tronco è compromessa. Inoltre abbiamo una sorta di freno a mano per rallentare a fine corsa. La condizione necessaria per prendere parte a una gara, è che il pilota possa entrare senza aiuti di altre persone all’interno del bob». Oltre a ciò, rispetto al bob tradizionale, ci sono altre due differenze. La prima è che la partenza è data da un pisto-

ne idraulico con un impulso di forza uguale per tutti i partecipanti, la seconda è che il peso totale, bob e pilota, dev’essere pari ad almeno 100 chili. Chi non li raggiunge può applicare delle zavorre per toccare il quintale.

«Una volta partiti – spiega Christopher – il pilota fa la differenza solo nella guida, esattamente come nelle categorie per i normodotati. Non esistono neppure categorie che tengono conto della gravità della disabilità, come ad esempio in altri sport che prevedono dei coefficienti di tempo diversi a dipendenza della gravità dell’andicap».

Per raggiungere un alto livello, come nel suo caso, occorre molto esercizio anche nel periodo estivo e autunnale. «In estate ci alleniamo prevalentemente in palestra per mantenere stabile il peso corporeo – spiega Christopher. Ma l’allenamento principale consiste nella coordinazione mano-occhio, capacità che può essere esercitata ad esempio attraverso il tiro al piattello. Inoltre sono molto indicati gli esercizi di meditazione, rilassamento e concentrazione».

Esercizi di concentrazione, mantra o rituali che vengono svolti anche prima della competizione. «Ogni

Christopher Stewart ha già vinto il titolo europeo e si è classificato due volte al secondo posto nella generale di Coppa del Mondo. (IBSF International Bobsleigh & Skeleton Federation)

curva viene visualizzata e percorsa mentalmente con l’aiuto del movimento delle braccia e delle mani, esattamente come fanno gli sciatori prima di presentarsi al cancelletto di partenza» spiega Christopher. «Durante la visualizzazione cerco anche di sentire mentalmente i rumori che vengono generati nelle varie fasi della discesa». E poi il via, per poco più di un minuto di discesa. Grazie all’allenamento mentale, durante la gara Cristopher entra in un flusso dove tutto si muove al rallentatore. In un certo senso è come se riuscisse ad avere più tempo per focalizzare l’attenzione sui movimenti da compiere, e questo gli permette una guida più rilassata, precisa e sicura.

«Scivolare a 130 chilometri orari e con delle accelerazioni che possono arrivare a 5g è un’emozione indescrivibile», conclude Christopher. Ma tutto ciò non sarebbe possibile senza uno staff professionale che lo segue nei suoi allenamenti e nelle sue gare. Uno sport individuale, dunque, ma con un team alle spalle, che porterà Christopher a raggiungere tanti altri traguardi importanti e, chissà, a motivare anche qualche nuovo atleta a dedicarsi a questo affascinante sport.

● ◆ 14 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
Davide Bogiani

I colori di Tirana tra street art e rinnovamento

Reportage ◆

Nella mente di molti, un viaggio negli stati ex comunisti dell’Europa orientale è sinonimo di un panorama fatto di anonimi edifici tutti uguali, squadrati palazzi di cemento, piazze desolate simili a sterminate colate grigie… Insomma: una vera e propria noia architettonica.

Almeno fino all’inizio degli anni Duemila, Tirana non è stata esente da tale genere di pregiudizi. La capitale albanese era considerata al pari di una rovina urbana, segnata dal degrado e dalla distruzione provocati dalle vicissitudini politiche del secolo precedente. Il regime fascista di Mussolini prima e quello comunista di Hoxha poi avevano lasciato un marchio riconoscibile sulla città, ognuno con la propria architettura.

La Tirana di oggi ospita diversi stili architettonici che rappresentano i periodi più importanti della sua storia

L’aspetto di Tirana fu stravolto dopo che Edi Rama, l’ex sindaco della città divenuto in seguito primo ministro albanese, diede vita a una vasta campagna di riprogettazione del tessuto urbano della capitale. Al vertice della città tra il 2000 e il 2011, Rama, affidandosi alla potenza del colore, ne illuminò i palazzi e le infrastrutture infondendo loro un nuovo aspetto vibrante, accogliente e ricco di speranza. In un intervento TED (Technology, Entertainment, Design) presentato a Salonicco nel 2012, Rama descrisse la riabilitazione degli spazi pubblici come qualcosa che aveva fatto «rivivere un senso di appartenenza alla città che la gente aveva perso».

Prima di diventare sindaco, Rama godeva di un successo internazionale nella sua attività di pittore, alla quale affiancava la carriera da politico.

Sin dal momento della sua elezione, il giovane sindaco affrontò l’incarico con una spiccata sensibilità artistica e a distanza di poche settimane di mandato si lanciò in un’impresa di rinnovamento estetico della città. Rimosse gli edifici abusivi, costruì nuovi parchi e diede inizio a una massiccia opera di pittura sugli edifici e grattacieli in stile comunista della città, che furono trasformati a partire proprio dal colore. Alcuni palazzi furono dipinti con strisce rosse, blu e verdi mentre altri furono decorati con disegni su tutta la facciata.

Rama fu oggetto di intense critiche per non aver affrontato i problemi più urgenti di Tirana, ma è innegabile che, grazie alla sua iniziativa, l’aspetto della città sia diventato accattivante e moderno. E non solo: da quel momento l’amministrazione comunale ha utilizzato colori vivaci non solo per ridipingere gli edifici più vecchi, ma anche per quelli di nuova costruzione.

Il sindaco attuale Erion Veliaj, in carica dal 2015, ha seguito le orme di Rama nel tentativo di dare lustro alla città. Piazza Skanderbeg, nel cuore di Tirana, un tempo adibita a rotatoria, fu completamente messa a nuovo nel 2017, resa pedonale, decorata con

Palazzo futurista a Blloku; sotto, il variopinto edificio del Teatri Kombëtar e, a destra, gli edifici intorno al Pazari i Ri. In basso, la villa che fu del dittatore comunista Enver Hoxha, nel quartiere alla moda di Blloku.

alberi e fontane e pavimentata con 129’600 piastrelle prodotte con pietre naturali provenienti da tutta l’Albania. Per la decorazione di alcuni dei principali edifici del centro, Veliaj ingaggiò alcuni street artist per ricreare visivamente antiche leggende e racconti locali. L’impatto fu tale che la gente prese a chiamare queste aree con il nome dei palazzi dipinti, come nel caso del cosiddetto «edificio arcobaleno» affacciato sulla pittoresca Piazza Wilson alle porte del quartiere alla moda di Blloku, a sua volta sede della villa che appartenne al dittatore En-

ver Hoxha. I colori accesi rispecchiano lo spirito di una città con una forte tradizione ma al contempo emergente, spinta da un grande desiderio di rinnovamento.

Di fronte al Ministero degli affari esteri, tutti gli edifici in stile comunista intorno alla strada Unaza (lo spicchio di circonvallazione a nord-ovest del centro città) sono stati decorati con motivi e colori unici da pittori diversi, ognuno guidato dalla propria fantasia, senza temi prestabiliti o linee guida. Anche il Nuovo Bazar (Pazari i Ri) è stato modernizzato e oggi ospita edi-

fici contemporanei ma rispettosi del passato, che hanno conservato lo stile architettonico tradizionale e le decorazioni a motivi albanesi.

L’importanza di graffiti e murales è cruciale per capire la trasformazione di Tirana, che non è solo estetica ma anche e soprattutto ideologica. Durante l’era comunista, terminata nel 1991 con la caduta della Repubblica Popolare Socialista d’Albania, ogni produzione artistica era fortemente controllata, e dipingere qualcosa che si opponesse al regime poteva comportare una pena detentiva.

Nel 2018 si è svolta la prima edizione del MurAL Fest, un festival di street art nato dalla collaborazione tra il gruppo artistico italiano 167/ B Street e il governo di Tirana. Durante la manifestazione, tredici artisti di strada provenienti da Albania, Italia, Serbia, Uruguay e Francia hanno decorato le facciate dei palazzi di tutta la città usandole come tele da dipingere.

La Tirana di oggi ospita diversi stili architettonici che rappresentano i periodi più importanti della sua storia, alcuni dei quali risalgono all’antichità e altri costituiscono un esempio dell’architettura dei regimi totalitari del XX secolo, formando un mix di infrastrutture che rendono Tirana una

città unica. All’epoca fascista risalgono il Palazzo dei Briganti (ex palazzo del re d’Albania Zog I), gli edifici dei ministeri, il palazzo del governo e il municipio, progettati dai noti architetti del periodo mussoliniano in Italia, ovvero da Florestano Di Fausto e Armando Brasini.

Negli anni Settanta Hoxha fu invece responsabile della creazione di una rete di bunker in tutto il Paese, un progetto paranoico destinato a proteggere il leader comunista in caso di attacco nucleare. A Tirana è possibile visitarne due, il Bunk’Art e il Bunk’Art-2. Il primo, ora adibito a museo di storia e galleria d’arte contemporanea, era un rifugio di cinque piani e tremila mq dai corridoi tortuosi e con un centinaio di stanze, mai messo in funzione dal momento che Hoxha morì prima che fosse completato. Al suo interno si trovano gli alloggi e le sale riunioni destinati a Hoxha e ai suoi ufficiali. Il secondo, sormontato da una cupola all’ingresso, era originariamente chiamato «Objekti Shtylla» e le sue ventiquattro sale furono aperte al pubblico nel 2015.

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Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
Un tempo grigia, oggi la capitale albanese è stata illuminata da una certa bellezza estetica e ricostruita tanto da offrire ai turisti persino palazzi arcobaleno
Simona Dalla Valle, testo e foto

Allegre bulbose primaverili

Mondoverde ◆ Dalle più comuni alle più insolite fritillarie

In cerca di Helvetia

Bussole ◆ Un viaggio che inizia tra le montagne

Claudio Visentin

Con più di cento specie di cui molte in grado di raggiungere un metro e cinquanta centimetri di altezza, le fritillarie, allegre bulbose primaverili, spiccano in giardino o all’interno di vasi da marzo fino alla fine di aprile.

I delicati bulbi misurano da tre a dieci centimetri di diametro, con scaglie dal forte odore di zolfo, ottimo deterrente per topi e talpe.

Interrati a ottobre, iniziano a vegetare producendo foglie lanceolate disposte sullo stelo fiorale a cui seguono i fiori; non gradiscono i ristagni d’acqua e i suoli compatti, mentre prediligono posizioni di mezz’ombra o assolate.

Tra tutte le specie di questo genere e appartenenti alla famiglia delle Liliaceae – originarie del bacino del Mediterraneo, dell’Asia sud – occidentale e dell’America del Nord – spicca per via del notevole sviluppo la Fritillaria imperialis, con un fusto erbaceo di un metro e più, un capolino fiorale grande, campanulato e pendulo, formato da un gruppo di tre-otto campanule giallo arancio e un gruppo di brattee verdi ed erette che la fanno tanto assomigliare alla cresta di un gallo.

I bulbi di F. imperialis raggiungono le dimensioni di dieci centimetri e hanno un costo alto se confrontati con altre bulbose di minor pregio.

Al momento della messa a dimora si deve scavare una buca profonda e larga venticinque centimetri, creare

uno strato drenante di qualche centimetro con ghiaia o argilla espansa e ricoprire il tutto con terra morbida e umida. Bagnati con moderazione saranno un vero spettacolo in primavera.

Tra le varietà più interessanti troviamo «Maxima Lutea» che vanta grossi fiori giallo oro fittissimi di corolle che guardano verso il terreno, come se fossero lampade, mentre la sottospecie F. imperialis inodora ha elegantissime campanule arancioni.

Quest’ultima si valorizza molto se usata in gruppi di tre, cinque o addirittura sette bulbi circondati da bassi cuscini di Heuchera a foglie verdi e

ramate o contornate da viole blu scuro. Se invece si preferisce coltivarle in vasi o cesti, è meglio scegliere varietà con altezza più ridotta, per non rischiare di vedere il contenitore rovesciarsi dal peso dei fiori.

Ne sono un esempio Fritillaria meleagris dai fiori porpora, maculati di scuro e alti non più di trenta centimetri da terra che hanno anche il pregio di produrre molti bulbilli nel corso degli anni, i quali andranno a naturalizzarsi spontaneamente una volta coltivati in piena terra; lasciati indisturbati a mezz’ombra creeranno incantevoli fioriture primaverili.

Può sembrare curioso che Lorenzo Sganzini abbia intrapreso un viaggio di scoperta del suo Paese, la Svizzera. Invece, anche dopo tanti discorsi identitari, un senso di separazione rimane, «un desiderio d’appartenenza che la distanza di noi ticinesi non rende automatica».

Da queste premesse scaturisce un viaggio fuori dal comune, seguendo il filo di curiosità e pensieri: «Un viaggio che non si svolge linearmente, tappa dopo tappa, ma accumula e sovrappone momenti diversi […], ogni tanto s’interrompe, riparte, rimugina e, se necessario, come nel caso delle carte geografiche, lascia l’esplorazione sul territorio per affidarsi a quella dei libri».

E certo, in un tempo appiattito sull’eterno presente dei social, anche un poco di ripasso della nostra storia non guasta. Alcuni temi tornano inevitabilmente: la Svizzera Stato artificiale (Friedrich Dürrenmatt), un’Europa in miniatura separata però dall’Unione europea. Ma le eterne domande sul significato di questo Paese, declinate in un itinerario e messe alla prova dei luoghi, acquistano nuova freschezza.

Il viaggio di Lorenzo Sganzini comincia tra le montagne ‒ barriera o passaggio, a seconda dei momenti e degli sguardi ‒ e in particolare dallo spartiacque del Piz Lunghin, dove sgorgano acque destinate a tre mari

diversi. Il viaggio prosegue accompagnando l’acqua e a volte, proprio come un fiume, sembra smarrirsi nei meandri intricati e controversi della storia nazionale. Nel rincorrersi di luoghi, date e documenti tutto è falso e tutto vero. Il viaggio si chiude raccontando la vivace vita culturale rinascimentale delle grandi città (Basilea, Ginevra), troppo spesso dimenticata per amore degli stereotipi. In compenso, dopo aver cercato a lungo e invano Helvetia, archetipo femminile della Confederazione, si trova invece l’umorismo e il buon senso di Chantal: lasciamo al lettore scoprire chi sia.

Bibliografia

Lorenzo Sganzini, In Svizzera. Sulle tracce di Helvetia, Gabriele Capelli editore, pp.184, € 18.–.

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Ricetta della settimana - Insalata calda di cavolfiore al pollo

Ingredienti

Piatto principale senza glutine Ingredienti per 4 persone

8 filettini di pollo

sale

pepe

8 c d’olio d’oliva

40 g di semi di zucca

750 g di cavolfiore tritato

surgelato, ad esempio cavolfiore

come riso

200 g di piselli surgelati, scongelati prima dell’uso

1 limetta

2 c di miele

1 feta di 150 g

100 g d’insalata, ad esempio spinaci per insalata

20 g di microgreen o crescione

Preparazione

1. Condite il pollo con sale e pepe poi fatelo rosolare in un po’ d’olio per circa 6 minuti. Tenetelo in caldo.

2. Tostate i semi di zucca senza grassi.

3. Scaldate un po’ d’olio in una padella antiaderente e rosolatevi il cavolfiore tritato per circa 5 minuti.

4. Aggiungete i piselli e continuate brevemente la rosolatura. Allontanate la padella dal fuoco.

5. Spremete la limetta e mescolate il succo con il miele e l’olio restante. Condite il dressing con sale e pepe.

6. Sbriciolate la feta e mescolatela con il cavolfiore.

7. Mescolate il tutto con il dressing. Servite gli spinaci con il cavolfiore e il pollo. Cospargete con i semi di zucca tostati e guarnite con i microgreen.

Preparazione: circa 30 minuti.

Per persona: circa 32 g di proteine, 34 g di grassi, 19 g di carboidrati, 520 kcal/2200 kJ.

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Un survival horror spaventoso e coinvolgente

Videogiochi ◆ Dead Space è per giocatori adulti che abbiano voglia di vivere un’esperienza di gioco terrificante

Nello spazio profondo, un’oscura e misteriosa missione di salvataggio ci porterà a bordo della Ishimura, una nave spaziale mineraria infestata da creature aliene mostruose che metterà a dura prova i nostri nervi. Questa è la promessa.

Di fatto noi possiamo affermare che Dead Space (Pegi 18), sia grazie all’ambientazione sia per la trama, ci ha fatti tornare indietro di più di 30 anni, dandoci l’opportunità d’interpretare il protagonista di un horror sci-fi proprio come in un film di Ridley Scott.

Nei panni di Isaac Clarke, un ingegnere spaziale aggregato alla truppa di salvataggio, abbiamo l’obiettivo di far luce sul misterioso messaggio di soccorso spedito dalla ciurma della Ishimura. Bastano pochi minuti

di gioco per rendersi conto che questa missione è solo l’inizio di un incubo infinito. Isaac e il resto della truppa scopriranno che la nave è infestata da Necromorfi; dei mostri assetati di sangue che hanno l’unico scopo di nutrirsi. Sfortunatamente per la squadra di salvataggio, i Necromorfi sono particolarmente duri e resistenti, e l’unica soluzione per poterli abbattere è quella di smembrarli completamente tagliando loro braccia e gambe, da qui l’evidente classificazione Pegi 18 che limita il gioco a chi ha superato la maggior età.

Dead Space è un survival horror spaventoso e coinvolgente, ambientato in un mondo oscuro, claustrofobico e angosciante, il quale ci porta a giocare con uno stato d’ansia perenne dove i jump scares sono all’ordine del

Giochi e passatempi

Cruciverba

Pare che la Svizzera sia il Paese …

Troverai il resto della frase leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate.

(Frase: 3, 3, 5, 2, 5)

ORIZZONTALI

1.

giorno. Tutta una serie di sensazioni che vengono trasmesse tramite un comparto tecnico d’eccellenza, rafforzato da un remake grafico a 60pfs, con una perfetta gestione della luce e delle ombre da lasciare sempre il giocatore sul «chi va là».

A mettere poi la ciliegina sulla torta, è l’audio di gioco, suddiviso in musiche ed effetti sonori: la Ishimura è incredibilmente silenziosa, ma al tempo stesso ricca di rumori, sussurri e boati che ti fanno letteralmente tenere il fiato sospeso.

Per rendere l’esperienza più immersiva, utilizzando un paio di cuffie compatibili è possibile giocare questo titolo con l’audio 3D, dove ogni minimo suono percepito è riconoscibile dalla sua provenienza… Fidatevi: giocare questo titolo di notte, con le cuffie, non è una passeggiata.

Noi abbiamo impiegato dodici ore a completare l’intera campagna del gioco, concentrandoci unicamente sulla missione principale. Il viaggio virtuale ci ha subito presi, proiettandoci in un mondo oscuro dove l’evolversi dell’avventura ci ha spinti alla continua ricerca degli avvenimenti che avevano portato l’Ishimura in questa situazione.

Oltre al feeling angosciante che ci accompagna durante tutto il gioco, quello che a nostro avviso rende il titolo molto divertente è il gameplay. I vari scontri con i nemici, la possibi-

Giochi più venduti di febbraio & marzo 2023

MINECRAFT (Nintendo Switch)

In cima alla classifica, il sempreverde Minecraft : con la sua grafica retrò continua a conquistare i cuori dei giocatori, e nonostante i tanti anni trascorsi dalla sua uscita, resta uno dei videogiochi più giocati.

HOGWARTS LEGACY (PS5)

Ogni fan della serie cinematografica di Harry Potter avrà finalmente l’opportunità di interpretare il proprio alter ego frequentando la famosa scuola di Hogwarts, dando così inizio alla propria vita da mago! (Qui la nostra recensione: https://bit. ly/3KhwKRp)

PIKMIN 3 DELUXE (Nintendo Switch)

A più di due mesi dal loro arrivo su Nintendo Switch, queste adorabili creature hanno dato vita a un vero e piccolo capolavoro, aggiudicandosi così la medaglia di bronzo per i videogiochi più venduti da Migros.

lità di usare un gran numero di armi e il sistema di crafting dell’armatura, portano il giocatore a pianificare ogni mossa con strategia e attenzione, dosando con cura le risorse e le scarse munizioni disponibili, rendendo ogni singolo scontro una vera e propria battaglia per la sopravvivenza.

Non è però tutto oro quello che luccica, infatti ad avventura inoltrata, un paio di cose ci hanno fatto storcere il naso, partendo proprio dal protagonista. Isaac Clarke è un personaggio amorfo, durante il corso dell’avventura parla a stento; viene inviato in una missione come ingegnere spaziale, ma nell’arco di poche ore di gioco si trasforma in supereroe, eliminando qualsiasi mostro si trovi sul suo percorso, maneggiando armi di ogni tipo, rendendolo così un personaggio poco credibile.

La narrazione della storia è un altro punto a sfavore: molti temi vengono descritti attraverso log, lettere e video messaggi, i quali se non seguiti, portano al giocatore un senso di confusione nello sviluppo della trama, vuoti che speravamo venissero colmati entro la fine del gioco, purtroppo invano.

In conclusione, se si è alla ricerca di un gioco spaventoso, coinvolgente e adrenalinico, Dead Space è sicuramente il videogame che fa al caso. La sua meccanica di gioco unica e la sua trama thriller tengono incollati allo schermo per ore. Voto: 7/10.

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7.

8.

9.

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11.

12.

13.

17. Contraffatta

famosa danza

18. Nome femminile

19. Conforta il benestante

20. Parte anteriore della testa degli animali

21. Colpo nullo del tennista

22. D’estate si coprono e d’inverno si spogliano

23. Le iniziali dell’attore Dalton

24. Usata

VERTICALI

1. Si dice ai bimbi facendo capolino

2. Un consesso mondiale

3. Le ha doppie l’anonimo

4. Narrazione poetica di gesta eroiche

5. Conserva la mozzarella

6. La cantante Tatangelo

10. Vi si attaccano le redini

11. È discesa... dalla parte opposta

12. Pagina del Time

13. Ministro del sultano

14. L’antico precede il medio

15. Pronome personale

16. Misura lineare inglese

17. Accesi ammiratori

18. Andava a olio

20. Carta geografica inglese

22. Mettono fine al lavoro

23. Scrisse «Gerusalemme liberata» (iniz.)

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch

Soluzione della settimana precedente

FACCIAMO LA SPESA – La spezia…

Resto della: …PIÙ CARA AL MONDO È LO ZAFFERANO

P I UMA C A RI

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TO N D ONATI

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I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell ’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19
Disputa Primo numero Un codice bancario Due di cuori Fertile isola danese Con sotto... è capovolto Copri costume Sette in una
I ZERI A F A FA ITO F EROS GE RM A N O ’ ` 1 3 7 8 9 172 6 1 5 69 83 3 8 7 4 2 3 361 4 2483 791 65 1534 269 78 7698 153 24 8 2 6 5 4 3 7 1 9 3172 985 46 5941 678 32 6 8 2 7 5 1 4 9 3 9316 842 57 4759 326 81
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ATTUALITÀ

«Si rischia di saltare in aria»

Nel 1947 un’esplosione devastò Mitholz, nel Canton Berna, e il villaggio non è ancora al sicuro

Mancheranno abitazioni

Wüest Partner prevede che la penuria colpirà entro il 2026 centri urbani e zone turistiche

Inseguendo l’antica grandeur

Con il suo viaggio in Cina Macron pone la Francia in contrasto con la visione geopolitica americana

Il momento dell’indignazione

Il Papa e la sessualità Bergoglio si confronta coi i giovani su temi scottanti per la Chiesa nel documentario di Disney+

Il punto ◆ Il Nazionale boccia il pacchetto di aiuti per l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS. Quali scenari si aprono ora?

«Empörung». Questa parola è risuonata più volte in aula a Berna, la settimana scorsa, durante i dibattiti speciali delle Camere federali sul caso Credit Suisse. I partiti, tutti, hanno davvero fatto un largo uso di questo termine, a tal punto che quei due giorni potrebbero ora portarne il nome: è stata la sessione dell’indignazione. E non poteva essere altrimenti, vista la gestione scriteriata di CS da parte di manager dall’appetito pantagruelico e visto che mancano ormai soltanto sei mesi alle elezioni federali di ottobre. Siamo in piena campagna elettorale e il «caso CS» ne ha di certo pagato lo scotto. L’indignazione, la rabbia e lo scontro sono stati talmente accesi da portare il Consiglio nazionale a bocciare il pacchetto di aiuti, immaginato dal Governo e in particolare dalla ministra delle finanze Karin Keller-Sutter, per sostenere l’acquisizione di Credit Suisse da parte di UBS. A nulla è valso il voto favorevole dell’altra Camera, il Consiglio degli Stati. Voluto dai due poli opposti – UDC da una parte, Socialisti e Verdi dall’altra – questo rifiuto porta in sé un forte valore simbolico ma non ha effetti concreti. I prestiti e le garanzie messi a disposizione della Confederazione per un valore totale di 109 miliardi non vengono cancellati, visto che erano stati approvati con diritto d’urgenza dalla Delegazione delle finanze del Parlamento, coinvolta in fretta e furia dal Governo prima di dare il via libera all’intera operazione di liquidazione di Credit Suisse. Era la sera dello scorso 19 marzo e il CS era ormai sull’orlo del collasso finanziario.

La bocciatura del Nazionale è dovuta a vari motivi e a un unico comune denominatore. Il fronte dei contrari avrebbe voluto solide garanzie da parte del Governo, e dalla ministra delle finanze, per accrescere in tempi rapidi i controlli sul settore bancario. Con un maggiore capitale proprio, ad esempio, oppure con un’accresciuta attenzione agli investimenti sostenibili, o ancora con nuove regole per ridurre i bonus a favore dei dirigenti bancari. Senza dimenticare la richiesta di impedire alle banche di raggiungere dimensioni tali da mettere in pericolo, con un loro fallimento, l’intera economia svizzera. Temi complessi che di certo non era possibile trattare in soli due giorni di dibattiti ma su cui si è fatto leva per affossare il piano d’aiuti in favore della nuova UBS. Ci vorranno ora diverse altre sessioni parlamentari per affrontare nel dettaglio tutte queste tematiche e per creare una nuova impalcatura legislativa in ambito bancario. C’è infatti bisogno di nuove leggi per tenere a bada il nuo-

vo colosso diretto da Sergio Ermotti, che ha una somma di bilancio di due volte superiore a quella della Confederazione.

È questo il momento di elaborare nuove leggi per tenere a bada il nuovo colosso diretto

Visti i presupposti, tutto lascia pensare che vedremo altri dibattiti infuocati su questo tema, anche perché verrà quasi certamente creata una Commissione parlamentare d’inchiesta per far luce su quanto capitato. E anche per capire come mai nell’autunno scorso l’allora ministro delle finanze Ueli Maurer non si sia mosso più di quel tanto per tessere una rete a sostegno di una banca che già in quel momento era in una situazione di collasso imminente. In ogni caso, tornando al presente, la bocciatura della scorsa settimana è

una sconfitta personale per la «tesoriera» Karin Keller-Sutter, un voto negativo che conferma un detto antico come i Vangeli, e cioè che nessuno è profeta in patria. E qui val la pena di ricordare che la sera del 19 marzo scorso la ministra sangallese era al telefono con un suo collega straniero per presentare il piano d’azione UBS-CS. Le cronache di Palazzo federale raccontano che quel ministro al termine della telefonata le avrebbe detto: «You saved the world». E anche se quel «you» in inglese può voler dire «tu» ma anche «voi», per KKS è stato di certo un complimento di peso, la conferma di un lavoro ben fatto. Lei che in quell’operazione a cuore aperto aveva saputo in fretta e furia vestire i panni della samaritana, capace di salvare se non proprio il mondo intero, perlomeno il suo Paese. Due settimane più tardi, invece, dal Parlamento svizzero è arrivata una sconfitta, simbolica certo, ma potenzialmente in grado di lasciare dietro di sé parecchie scorie.

Con le altre grandi piazze finanziarie che si saranno di certo fatte qualche domanda sull’affidabilità del nostro Paese e sui suoi (dis)equilibri politici. E a proposito di scorie e di equilibri val la pena di ricordare anche un altro argomento: quello del risanamento delle finanze federali. Un cantiere aperto proprio da Karin Keller-Sutter che di recente ha messo lì alcune proposte potenzialmente esplosive. Nel concreto la ministra del PLR, con l’avvallo del Consiglio federale, prevede di intervenire in particolare sull’Assicurazione disoccupazione e sul Fondo delle infrastrutture ferroviarie. I tagli si aggirano attorno ai 600-700 milioni all’anno, a partite dal 2025, ma altre misure di risparmio sono previste negli anni successivi. Non per nulla la stessa KKS, appena vestiti i panni della ministra delle finanze, nel gennaio scorso, ebbe a dire che durante gli anni della pandemia «abbiamo accumulato 30 miliardi di franchi di debiti. Una cifra non trascurabile».

Senza contare che sempre in tema di risparmi lo scorso 29 marzo c’era stata una fuga di notizie su possibili tagli ai danni dell’AVS. Fuga di notizie che ha bloccato il dossier e su cui è stata aperta un’inchiesta per capire chi sia stato questa volta a vestire i panni della «gola profonda». Segno, in ogni caso, che il clima di lavoro non sia di certo disteso e sereno tra i sette ministri del nostro Governo, attorniati dai loro rispettivi collaboratori diretti. Nel suo insieme il tema è politicamente incandescente, perché da una parte si chiedono sacrifici al cittadino-contribuente e dall’altra si concedono prestiti e garanzie miliardarie per evitare il collasso di una banca. E anche se non va dimenticato che nel caso del Credit Suisse si tratta essenzialmente di garanzie, non di versamenti concreti, resta il fatto che il momento non sembra particolarmente propizio per proporre dei risparmi. Insomma si può salvare il mondo, ma poi far fatica a rimettere sui giusti binari il proprio Paese.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21
Pagina 25 Pagina 27 Pagina 29 Pagina 23 Sono stati giorni di passione per Karin Keller-Sutter, al centro, mercoledì 12 aprile, nella sala del Consiglio degli Stati. (Keystone) Roberto Porta

IL TUO GATTO DELLA MARCA SE NE FA UN BAFFO.

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si rischia di saltare in aria»

Oberland bernese ◆ Nel 1947 l’esplosione di un deposito di munizioni causò la morte di nove persone e distrusse il villaggio di Mitholz. Gli abitanti non sono ancora al sicuro, la bonifica dell’area richiederà 2,6 miliardi di franchi e 20 anni di lavoro

L’aria profuma di legno nella casa di Patric e Heidi Schmid. È uno chalet come se ne vedono tanti nell’Oberland bernese. Entrando in casa incrocio un figlio mentre si mette lo zaino in spalla. Fuori l’aspetta il pulmino che lo porterà a scuola. Nel salotto, sdraiata sul pavimento, sgambetta una bambina di pochi mesi. Quella degli Schmid è una casa piena di vita. Ma per quanto ancora? «Abbiamo deciso di andarcene», racconta Patric, quarantunenne, contadino e imprenditore edile. Lo chalet costruito dalla coppia nel 2009 si trova a poche centinaia di metri dall’ex deposito di munizioni dell’esercito. Lì, dove nel 1947 saltarono in aria 3000 tonnellate di esplosivo. Dalla finestra del salotto si scorge ancora la ferita lasciata nella montagna dal gigantesco botto: una parete nuda, di colore giallo e nero, dietro cui si trovano ancora 3500 tonnellate di munizioni, soprattutto granate d’artiglieria di piccolo calibro e bombe. Un pericolo con cui la famiglia degli Schmid e i circa 200 abitanti di Mitholz hanno convissuto, ignari, per oltre settant’anni. Almeno fino a quando il Dipartimento federale della difesa li ha informati che il rischio di una nuova esplosione era molto maggiore di quanto ipotizzato in precedenza. Una notizia che, come una mannaia, ha diviso le loro vite in un prima e un dopo. «Era il 28 giugno 2018, una data che non si dimentica», ricorda Heidi. Dopo lo shock iniziale, la famiglia si è rassegnata all’idea di dover lasciare la propria casa. «È per le nuove generazioni che lo facciamo», dice Patric, mentre volge lo sguardo verso la figlia che, sdraiata vicino a noi, succhia beatamente il ciuccio. Il giovane padre, e come lui buona parte degli abitanti di Mitholz, ritiene che l’unica soluzione per far rivivere il paese sia lo sgombero dell’ex deposito militare. Così la pensa anche il Dipartimento federale della difesa che, sulla base di un rapporto elaborato da un gruppo di lavoro è giunto alla conclusione che i residui di munizioni devono essere portati via. Stando alle stime, la rimozione delle 3500 tonnellate sepolte nella montagna durerà una ventina d’anni.

Stando alle stime, la rimozione delle 3500 tonnellate sepolte nella montagna durerà una ventina d’anni

Ma cos’è successo la notte del 19 dicembre del 1947 a Mitholz? Nei giorni prima di Natale la vita si trascina stanca nel paesino coperto da una coltre di neve. La guerra è finita da poco. E anche i lavori per la realizzazione di un deposito militare nell’ambito del ridotto nazionale svizzero si sono conclusi. Nel villaggio nessuno sa con precisione cosa è stato nascosto nel cuore della montagna. Nessuno sa del pericolo. Poco dopo le 23.30 i circa 200 abitanti vengono improvvisamente strappati dai loro letti: un’esplosione gigantesca scuote le case per lunghi secondi e accecanti lance di fuoco squarciano la notte. È l’inferno. Le esplosioni si susseguono a raffica, piovono schegge incandescenti che perforano i muri e danno fuoco ai tetti. La gente si precipita all’aperto, in pigiama, scalza.

Qualcuno si è tirato una coperta sulle spalle. Tutti cercano scampo da quella pioggia di pietre e pezzi di metallo. Corrono nella neve verso Kandergrund, il paese vicino. C’è chi viene colpito da un macigno o da un proiettile vagante. Alle prime luci dell’alba, uomini e donne ritornano timorosi nel villaggio che ora non riconoscono più. Davanti ai loro occhi una scena di guerra: nove morti, di cui quattro bambini, vari feriti, mucche, maiali e galline uccisi, un villaggio raso quasi al suolo, 200 persone senza tetto. Le macerie sono nere a causa delle fiamme e della polvere da sparo. Dei pali del telefono e della linea elettrica rimangono solo alcuni tronconi con la punta scheggiata ritta verso il cielo. I segni della morte sono dappertutto. E sul terreno giacciono ovunque ordigni inesplosi sputati dal deposito militare: proiettili di piccolo calibro, mine antiuomo, bombe a frammentazione, bombe aeree. La neve li ha coperti e ciò rende ancora più difficili le operazioni di soccorso. Nei giorni successivi dalla montagna arriva continuamente l’eco di altre esplosioni. All’indomani della tragedia, il consigliere federale Karl Kobelt, ministro della Difesa, visita il villaggio, infonde coraggio e rassicura gli abitanti, promettendo loro che non saranno lasciati soli. Anche il generale Henri Guisan, il padre del ridotto svizzero, si reca a Mitholz e invita la popolazione elvetica a fare delle donazioni in favore dei senza tetto. I costi della ricostruzione vengono stimati a cento milioni di franchi.

Dalla notte del 19 dicembre 1947 tutti sanno cosa conteneva il deposito: 7000 tonnellate di munizioni o, come illustrò il consigliere federale Kobelt, 700 vagoni ferroviari carichi di bombe. Un gruppo di esperti viene incaricato di scoprire cos’è successo nelle viscere della montagna per rassicurare, oltre che la gente di Mitholz, anche gli abitanti di altri villaggi di montagna visto che l’esercito aveva immagazzinato armi un po’

ovunque nelle Alpi svizzere. Le cause dell’esplosione rimangono però un mistero. Gli specialisti sostengono che il deposito è ormai innocuo, che il rischio è minimo. L’esercito decide di lasciare tutto nella montagna. Era il 1948. Le case distrutte vengono ricostruite e la vita ritorna a Mitholz. Una fontana, scavata da un blocco di granito scagliato in paese dall’esplosione, porta una targhetta in ricordo delle nove vittime.

Il deposito conteneva 7000 tonnellate di munizioni o, come illustrò il consigliere federale Kobelt, 700 vagoni ferroviari carichi di bombe

Tutto sembra tranquillo sotto la Fluh, la parete di roccia lasciata nuda dal botto. Tanto che negli anni Ottanta l’esercito decide di realizzare una farmacia militare e degli alloggi per la truppa nell’ex deposito di munizioni. Nel 2018 si progetta di realizzare un centro di calcolo nei cunicoli vuoti. Viene commissionato uno studio per valutare i rischi. Il gruppo di esperti giunge alla conclusione che il pericolo di ulteriori esplosioni è più elevato di quanto sinora ipotizzato e che solo uno sgombero completo può mettere al riparo l’ambiente e la popolazione da future spiacevoli sorprese. Le 3500 tonnellate di munizioni vanno rimosse. I costi dell’operazione, che durerà almeno 20 anni, sono stimati a quasi 2,6 miliardi di franchi. Dopo l’approvazione alla fine di marzo del progetto da parte della Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale, il credito per lo sgombero verrà discusso probabilmente nella sessione estiva delle Camere federali. Una decisione che darà inizio ai lavori di preparazione: la messa in sicurezza della ferrovia e della strada. Inoltre, l’esercito dovrà dotare il comando KAMIR delle attrezzature necessarie per rimuovere i residui di munizioni e ordigni inesplosi.

A 71 anni della catastrofe, la storia ha ribussato alle porte di Mitholz. Per una ventina d’anni buona parte degli abitanti dovrà lasciare le proprie case. «Non è certo facile», dice Patric, ricordando che il suo chalet accoglierà gli uffici del cantiere. «Ma vivere qui durante lo sgombero del deposito sarebbe pressoché impossibile». E così con la famiglia traslocherà per una quindicina d’anni a Frutigen, villag-

gio a dieci chilometri di distanza. Lì dovrà rifarsi una vita. E dopo? Mitholz rimarrà un villaggio fantasma? La vita vi farà mai ritorno? «Certo», sono convinti Patric e Heidi. «Non so cosa faremo noi nel 2045. Speriamo però che i nostri figli tornino ad animare le strade del paese». Un paese che avrà finalmente scacciato lo spauracchio dell’ex deposito pieno di munizioni.

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Mitholz nel dicembre del 1947. (Keystone)

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Verso una carenza di abitazioni?

Svizzera ◆ Uno studio di Wüest Partner prevede che la penuria colpirà entro il 2026 soprattutto i centri urbani (ma non il Ticino)

Desta sorpresa il dato che indica una penuria di alloggi in Svizzera, da qui al 2026. Si prevedeva piuttosto una bolla speculativa che avrebbe provocato un eccesso nella costruzione di nuovi alloggi di tutti i tipi e in tutte le regioni del Paese. L’idea era nata a seguito di un’intensa attività edile, favorita dal finanziamento bancario a tassi di interesse vicini allo zero e dalla difficoltà di trovare fonti alternative di reddito degli investimenti. Situazione che aveva stimolato gli «investitori istituzionali», per esempio le Casse pensioni.

Il dato sorprendente viene dallo studio zurighese Wüest Partner che da anni segue il mercato immobiliare svizzero con particolare attenzione. Secondo i suoi calcoli, entro il 2026 dovrebbe registrarsi in Svizzera una penuria di alloggi, valutata in 51’300 abitazioni. Lo studio parte dalla supposizione, confermata da altre valutazioni, secondo cui il numero delle economie domestiche entro il 2026 dovrebbe crescere di circa 56mila all’anno, quindi a un ritmo superiore a quello del periodo 2019-2021, che aveva appunto fatto prevedere una bolla immobiliare. Al cambiamento contribuiscono essenzialmente la forte immigrazione e la crescita di economie domestiche sempre più piccole e quindi più numerose. Si aggiunge l’arrivo di rifugiati i quali, a medio termine, avranno bisogno di abitazioni. La mancanza di abitazioni viene dedotta da questa domanda in crescita confrontata con un’offerta insufficiente, valutata in base alle domande di costruzione presentate nei vari Comuni, quindi nei Cantoni e nelle varie regioni.

Da quest’analisi emerge che il fenomeno colpisce tutte le regioni e non solo quelle fortemente urbanizzate. Sono comunque le regioni con grossi centri che presentano i tassi maggiori di penuria di alloggi, ma si costata anche la crescente attività di ricerca di abitazioni in zone periferiche. Aree che presentano il vantaggio di prezzi abitativi inferiori e che dispongono

di buone comunicazioni con i centri, a fronte della crescente possibilità di telelavoro, fenomeno accentuato dalla pandemia da Covid.

Il numero delle economie domestiche entro il 2026 dovrebbe crescere di circa 56mila all’anno, quindi a un ritmo superiore rispetto al periodo 2019-2021

L’analisi per Cantone presenta quindi dati che vanno dalla mancanza di alloggi a Zurigo (12’870), Vaud (5860) e Berna (5170), nel Canton Argovia (4520), a Lucerna e San Gallo (rispettivamente 3150 e 2320). Ginevra continua ad essere un polo molto attrattivo (3150 abitazioni necessarie), nonostante la forte propensione delle persone a uscire dalla città, perfino in direzione della vicina Francia. Tra

le altre regioni spiccano i Cantoni dei Grigioni (1980), di Friburgo (1870) e Svitto (1710). La tendenza scende per i Cantoni più rurali, come Appenzello, Glarona, Untervaldo, ma anche in centri come Basilea-Città, Sciaffusa e Zugo. Le uniche due eccezioni in questo contesto particolare sono costituite dal Giura (90 abitazioni di troppo) e dal Ticino (1030 abitazioni di troppo). In questi due casi gli alloggi in esubero si concentrano a Neuchâtel e Soletta; nel Luganese, Mendrisiotto e Locarnese.

La carenza di abitazioni non toccherà dunque il Ticino, ma in altre regioni della Svizzera il problema è già evidente. E questo non solo nei grandi centri urbani ma anche nelle regioni periferiche e nelle regioni a vocazione turistica. L’attività di costruzione di residenze, primarie e secondarie, è in netto rallentamento sia nei Grigioni, in particolare Arosa ed

Engadina, sia nell’Oberland bernese. Nei Grigioni il rapporto fra domande e nuove abitazioni realizzate, entro il 2026, è solo di 570 su mille. In altri termini, il 43% di chi cerca un appartamento non lo potrà trovare. Il perché di una domanda così elevata si spiega con il forte aumento della popolazione. Se nel periodo 2018-2020 l’aumento demografico si situava fra le 50mila e le 60mila persone all’anno, l’aumento netto dell’immigrazione nel 2022 è stato di circa 81mila persone. Questo corrisponde a circa 37mila economie domestiche. Inoltre, come detto, si nota una forte tendenza alla crescita delle economie domestiche piccole (una o due persone). È probabile che l’invecchiamento della popolazione accentuerà il trend. Infine anche l’aumento del benessere farà crescere il numero di chi cerca una maggiore superficie abitativa o una casa secondaria. Ciò significa una

domanda più forte dell’offerta e quindi anche prezzi in aumento. Nel contempo (ma non in Ticino) anche l’investimento nell’immobiliare sta rallentando. Le Casse pensioni e altri investitori hanno coperto i loro bisogni e oggi si attendono un aumento dei tassi di interesse che sposta l’investimento verso valori mobiliari. Movimento favorito anche dal prevedibile aumento dei prezzi e dei tassi ipotecari. Anche la domanda di residenze secondarie è parecchio rallentata, a causa delle restrizioni dovute all’iniziativa e dell’esaurimento delle zone edificabili. In questi casi si costata che anche la costruzione di appartamenti in affitto rallenta. Infine gli esperti fanno notare che anche la densificazione dell’abitato incontra difficoltà, dovute ai numerosi ricorsi e alla durata eccessiva delle procedure (da 7 a 8 anni in certi Cantoni, dove è perfino necessaria l’approvazione da parte del Consiglio comunale).

Una delle conseguenze di questa evoluzione sarà anche l’aumento delle pigioni. A Zurigo, Berna e nel Canton Vaud si prevede nei nuovi contratti una crescita del 10-12% delle pigioni. Per quest’anno si prevede già un aumento generalizzato del 2% circa. Questo anche perché rallentano le nuove costruzioni. Aumenterà quindi anche la parte del reddito che le famiglie dovranno dedicare all’abitazione. La carenza di abitazioni avrà effetti sull’intera economia e sul mercato del lavoro. Per esempio potrebbe aumentare la distanza fra abitazione e posto di lavoro. L’analisi appare forse troppo pessimista, ma i problemi esistono e bisognerà trovare soluzioni. Tra queste vi sarà un maggior intervento dello Stato, soprattutto per calmare i prezzi, ma anche per favorire la costruzione. Bisognerà snellire le procedure di autorizzazione a edificare, trovare i necessari finanziamenti, ma anche rivedere le pianificazioni e magari favorire la proprietà della casa o dell’appartamento in condominio.

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La Francia si pensa ancora grande

L’analisi ◆ Il viaggio in Cina del presidente Macron ha di fatto collocato Parigi fuori dalla visione geopolitica americana

Ogni potenza che si rispetti struttura la propria geopolitica sulla base di linee guida di lungo periodo, declinate e adattate alle contingenze. La Francia, che malgrado tutto continua a pensarsi potenza rilevante su scala mondiale, osserva questo precetto. Ne è recente testimonianza l’intervista concessa in aprile da Emmanuel Macron a «Politico» e a due giornali francesi. Aderendo all’idea storica della «grandeur» e dell’Europa a guida francese come terzo polo di potenza insieme agli Stati Uniti e al suo rivale attuale – la Cina rossa – o passato, l’Unione Sovietica – Macron ripercorre sentieri già segnati in passato dal generale de Gaulle e da Mitterrand, come da quasi tutti i presidenti francesi. Due leader di diverso sentire politico ma di analoga ispirazione geopolitica. Tanto che si usa fonderli in un solo stampo, quello appunto del gaullo-mitterrandisme. Oggi potremmo aggiungervi il macronisme.

La tesi del presidente francese è semplice: «Essere alleati non significa essere vassalli». Variazione sul tema gaullo-mitterrandiste riferito al rapporto con gli Stati Uniti: «Nous sommes alliés, pas alignés». L’occasione è il viaggio di Stato in Cina (nella foto Macron con Xi Jimping). Macron vi è stato accolto con tutti gli onori. E ha di fatto collocato la Francia fuori del mainstream americano, per cui l’ordine del giorno è contenere l’espansio-

nismo cinese con tutti i mezzi disponibili, non esclusa la guerra. Sul tema di Taiwan, Macron ha specificato: «La domanda a cui gli europei devono rispondere è se sia nel nostro interesse accelerare una crisi a Taiwan».

Risposta: «No! La cosa peggiore sarebbe pensare che noi europei dobbiamo seguire l’agenda degli Stati Uniti e provocare una reazione eccessiva da parte della Cina».

Tesi che ha ovviamente trovato accoglienza favorevole in Cina. Altrettanto naturalmente ha scatenato le reazioni negative di gran parte dell’establishment americano, malgrado il tentativo di sminuire il senso delle parole di Macron da parte del Dipartimento di Stato. Interessanti in particolare le reazioni europee. Soprattutto quella polacca. Il primo ministro Mateusz Mazowiecki, in visita ufficiale a Washington, ha notato:

«La Vecchia Europa ha fallito, la Polonia è leader della Nuova Europa». La Vecchia Europa è quella occidentale: la NATO originaria. La Nuova, l’ex Patto di Varsavia, è oggi punta di lancia dello schieramento antirusso suscitato dalla guerra in Ucraina.

Questo clivage Macron/Mazowiecki indica la faglia che sta ritagliando l’Europa fra Est e Ovest lungo la ex cortina di ferro, ma a parti invertite. Gli ex satelliti di Mosca ne sono oggi il peggior nemico. Le ex province europee dell’informale

impero americano sono le più corrive verso Putin e . Dunque in parte si smarcano, con molta cautela (salvo i francesi), da Washington. Interessante che Macron, sempre in sintonia con il gaullo-mitterrandisme, abbia inteso parlare a nome dell’Europa. Termine che va tradotto dal francese quale sinonimo di Francia. Come diceva il Generale, in camera caritatis: «L’Europa è il mezzo attraverso cui la Francia deve tornare ad esser quel che era prima di Waterloo, la prima potenza mondiale».

Macron è abbastanza aggiornato

per rendersi conto che Parigi non può più pretendere alla leadership planetaria. Ma non vuole nemmeno essere ridotto a comprimario. Sarebbe negare storia e identità profonda della Francia, già scossa da una lunga crisi depressiva e da sommovimenti violenti che ricorrono nelle piazze e nel cuore della società nazionale, ultimo il caso delle manifestazioni contro la riforma delle pensioni. Questa vicenda ci consente di stabilire – o meglio confermare – che cosa sia l’UE per Parigi. Uno strumento della sua geopolitica. Un moltiplicatore di poten-

za dell’Esagono. Oggi più rilevante a causa della crisi tedesca, che impedisce a Berlino di esercitare il ruolo semi-egemone che Kohl e Merkel erano riusciti a canonizzare negli scorsi tre decenni.

Per rendere plastica questa visione, Macron si è fatto accompagnare nel viaggio cinese, oltre che da una folta delegazione di imprenditori, da Ursula von der Leyen. La presidente della Commissione europea non ha detto né fatto nulla di rilevante, com’era prevedibile. E il protocollo mandarino ha ridotto il suo rango a quello di alto funzionario, altro che capo di Stato. È ovvio, ma alcuni europei tendono a dimenticarlo, quasi da Bruxelles agisse uno Stato europeo. Di ritorno dalla Cina, Macron ha replicato ai critici: «Je ne regrette rien». Il brano di Edith Piaf, colonna sonora dell’Eliseo. Così il presidente vuole ergersi ad araldo della Francia patriottica, al di là degli schieramenti politici. Anche un modo per districarsi dalle vicende in cui si è incartato sostenendo la riforma delle pensioni. Difficilmente funzionerà. Quel che interessa, però, è il senso geopolitico: la Francia intende rappresentare l’Europa, o almeno la «Vecchia Europa» che americani e polacchi disdegnano. Un modo come un altro per ricordarci che l’UE non è un soggetto geopolitico. E che la Francia non potrà renderla tale.

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Papa Francesco e il sesso

Prospettive ◆ Bergoglio in dialogo con i giovani nel documentario di Disney+

Eredità in pericolo

Italia ◆ Che fine farà l’impero di Berlusconi?

«Tu lo sai che cos’è una persona non binaria?». Non è esattamente il genere di domanda che ci si aspetterebbe di trovare in un dialogo tv con papa Francesco. Eppure si parla senza remore anche di questo – come di aborto, mondo Lgbtq+, sesso e masturbazione o dei soldi del Vaticano –in Amén, Francesco risponde, il nuovo documentario-evento sul pontefice, messo online di recente sulla piattaforma Disney+.

Il giornalista spagnolo Jordi Évole e il regista Màrius Sanchez sono riusciti in un’operazione interessante: far uscire davvero Francesco dal cliché ormai inflazionato delle interviste al Papa, per metterlo a confronto con un gruppo di ventenni scelti non tra le folle osannanti dei papaboys ma tra quelli che la Chiesa il più delle volte la sentono lontana o magari anche un po’ ostile. Registrato nel giugno scorso in «campo neutro» – un loft di Roma, anziché l’ingessato salotto di Casa Santa Marta – il documentario si fa vedere proprio per il tentativo sincero di parlarsi e capirsi tra mondi apparentemente distanti. Girato con dieci ragazze e ragazzi tra i 20 e i 25 anni –provenienti da diversi Continenti, ma accomunati dal fatto di parlare tutti lo spagnolo, la lingua madre di Bergoglio – il risultato sono 86 minuti di scambio serrato in cui Francesco fa di tutto per vivere lui stesso quell’idea di «Chiesa in uscita» che ama indicare ai suoi preti come la strada da percorrere oggi.

Il pontefice: «Esprimersi sessualmente è una ricchezza», ma «sminuire la reale espressione sessuale sminuisce anche te»

Nonostante i titoli un po’ sensazionalistici sparati da qualche quotidiano, non esprime concetti particolarmente nuovi; spesso ripete cose già dette, come ormai gli capita sempre più spesso. Ma l’aspetto realmente rivoluzionario

è il tono: è un papa che stavolta abbandona quasi completamente il registro dell’istituzione per mettersi allo stesso livello di questi ragazzi. Anche quando hanno trascorsi pesanti nel rapporto con le realtà ecclesiastiche (uno racconta di essere stato vit-

tima di abusi) o si professano candidamente catechisti in parrocchia e al tempo stesso favorevoli alla libertà di scelta della donna sul tema dell’aborto, un binomio non proprio ortodosso nel mondo cattolico.

I temi affrontati sono molti, ma la parte più interessante è proprio quella sul rapporto con il sesso. E non a caso, è l’ambito su cui Francesco e i giovani sono oggettivamente più lontani. Gli chiedono se conosca Tinder, una ragazza racconta di vendere contenuti pornografici online, si parla di masturbazione. Francesco risponde che «il sesso è una delle cose belle che Dio ha dato alla persona umana». Dice che «esprimersi sessualmente è una ricchezza», ma aggiunge che «sminuire la reale espressione sessuale sminuisce anche te, e impoverisce questa ricchezza in te». Poi, però, è costretto ad ammettere che alla Chiesa manca ancora «una catechesi matura sul sesso».

Sulle persone non binarie – che didascalicamente i ragazzi gli spiegano essere «né uomo né donna, o, quantomeno, non del tutto né tutto il tempo» – Francesco risponde che «ogni persona è figlia di Dio, che non rifiuta nessuno, Dio è padre. E io non ho diritto a cacciare nessuno dalla Chiesa. Non solo, il mio dovere è di accogliere sempre. La Chiesa non può chiudere la porta a nessuno». E infervorandosi aggiunge anche che quelli che citano la Bibbia per escludere da una comunità cristiana le persone Lgbtq+ «sono infiltrati che approfittano della Chiesa per le loro passioni personali, per la loro ristrettezza personale. È una delle corruzioni della Chiesa». Sull’aborto dice di aver rivolto ai preti l’invito a «non fare troppe domande e a essere misericordiosi» di fronte alle donne che hanno vissuto questa esperienza drammatica. Ma al tempo stesso ribadisce che «da un punto di vista scientifico non si tratta solo di un mucchio di cellule che si sono unite, ma di una vita umana. Quindi, la domanda da porsi quando si parla di moralità è se sia lecito eliminare una vita umana per risolvere un problema».

Che cosa resta, allora, di questo dialogo tv tra il Papa e i teenager della Disney di oggi? Commentandolo su «El Pais» Sergio Del Molino, gio-

cando sui format televisivi, l’ha definito sagacemente una via di mezzo tra Primo appuntamento e Pueblo de Dios, la trasmissione religiosa della tv spagnola. La sua conclusione è che alla fine a risaltare sarebbe solo l’ipocrisia: «Francesco vi ama, ma non si assume la responsabilità dei mali causati dalla sua istituzione», scrive lo scrittore spagnolo.

Francesco vuole davvero entrare in dialogo con la Generazione Z, ma è impossibile per un papa smarcarsi dall’istituzione

È un giudizio parecchio ingeneroso. Il fatto stesso di accettare «senza rete» un confronto del genere è un gesto coraggioso e inimmaginabile fino a ieri per un pontefice. Francesco è sincero nel suo desiderio di entrare in dialogo con la Generazione Z. E, in fondo, questo faccia a faccia modello reality show non è poi così diverso da quanto avviene oggi quotidianamente in certi oratori rimasti l’unico luogo di incontro in periferia o tra genitori e figli in più famiglie cattoliche di quanto si pensi. La distanza tra generazioni sul tema del sesso e dell’identità di genere è un’esperienza comune, e l’unica strada possibile per chi come la Chiesa vuole trasmettere un messaggio è accettare la sfida della relazione. Su un punto, però, Del Molino coglie nel segno: è impossibile per un papa smarcarsi dall’istituzione. Francesco non può essere solo un vecchio nonno che prova a raccontare il suo mondo ai nipoti, giocando sulla simpatia che nel dialogo sa trasmettere. Anche se va in streaming su Disney+ è il papa della Chiesa cattolica. E anche la Generazione Z sa bene che, una volta finito il video, l’attendibilità delle sue parole andrà a verificarla in posti e volti più vicini di lui, che incarnano quella stessa istituzione. E magari – in un’eventuale prossima puntata – anche a Bergoglio chiederà se le benedizioni alle coppie Lgbtq+ che tanto stanno facendo discutere oggi i cattolici in Germania, per il Papa sono polemiche tra «infiltrati» o un tema che resta incompatibile con la visione della Chiesa cattolica sul sesso.

Ricoverato in terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele (almeno quando il giornale è andato in stampa), Silvio Berlusconi è al centro di sentimenti contrastanti. Da un lato l’umana simpatia per l’irriducibile combattente, che a quasi 87 anni lotta contro la leucemia; dall’altro l’accusa di essere stato il simbolo di quella Seconda Repubblica che ha fatto ampiamente rimpiangere la Prima. Il suo trentennio politico coincide con la deriva morale del Paese, con l’abbattimento di molti steccati comportamentali, con il trionfo della corruzione, di cui l’evasione fiscale è il segno più evidente. D’altronde Berlusconi scese in campo, a fine ’93, per risolvere una drammatica situazione patrimoniale, non certo per paura dei comunisti. Nel 1992 la Fininvest, la finanziaria di famiglia creata nel 1978, faceva utili per 11 miliardi di lire, equivalenti a poco più di 9 milioni di euro; aveva un capitale netto inferiore a un miliardo e mezzo di lire ed era piena di debiti: oltre 4,4 miliardi di lire. Cuccia, presidente di Mediobanca e dominus dell’economia nazionale, gli aveva consigliato di portare i libri in tribunale. Berlusconi invece puntò sul colpo grosso, per citare il titolo di una delle sue trasmissioni, e ha avuto ragione.

Dal ’96, anno della quotazione in Borsa, lui e in seguito anche i suoi figli – Marina (56 anni), Piersilvio (53 anni), Barbara (38 anni), Eleonora (36 anni), Luigi (34 anni) – hanno incassato cedole pari a 2,5 miliardi di euro, una media di 85 milioni l’anno. A capo di tutto c’è ancora la Fininvest. Sotto di essa stanno Edilnord, la creatrice di Milano 2 e poi Milano 3; Mediaset con la relativa raccolta pubblicitaria delle tv; Mediolanum, banca e assicurazioni; Mondadori, libri e giornali. Il controllo è detenuto da 7 scatole societarie, originariamente erano 38, e rimane un mistero dove Berlusconi abbia trovato all’epoca i soldi. Le Holding italiana Prima, Seconda, Terza e Ottava fanno capo al 100% al Cavaliere e tutte insieme posseggono il 61,2% della capogruppo. Poi ci sono le quote dei figli di primo letto Marina e Piersilvio, pari al 7,65% ciascuna, raggruppate nelle Holding italiana Quarta (Marina) e Quinta (Piersilvio). Ai figli di secondo letto Barbara, Eleonora, Luigi è andata in quote proporzionali la Holding Italiana Quattordicesima, detentrice del 21,42% della Fininvest. La società ormai sprizza benessere da tutti i pori: nel 2021 ha vantato un attivo di 8,7 miliardi, ricavi per 3,8 miliardi con un patrimonio netto di gruppo di 3 miliardi, una redditività dopo le tasse a due cifre sui ricavi (360 milioni l’utile) e un debito finanziario a un terzo del valore del capitale. Questi numeri hanno consentito di distribuire poco più di 90 milioni al Cavaliere, 11,7 mi-

lioni a Marina e a Piersilvio, quasi 11 milioni a Barbara, Eleonora e Luigi. Stenta a tenere il passo Mediaset: dal 2015 ha perso oltre un quarto del fatturato. Con le sue diramazioni è a bilancio per un miliardo, ma in Borsa la quota della famiglia vale meno di 700 milioni. Tale situazione spiega perché Marina, la vera numero 2 dietro il padre e destinata ad assumere un ruolo di guida dei cinque fratelli, ne valuti da tempo la cessione, magari con l’aggiunta delle testate giornalistiche in carico alla Mondadori. Tuttavia non è solo una questione di ascolti e di raccolta pubblicitaria in calo: l’impero tv, capace di sviluppare un’agguerrita concorrenza alla Rai, si è mantenuto nei decenni per l’abilità imprenditoriale di Berlusconi, ma anche per le fortissime protezioni politiche. Garantite dapprima dal leader socialista Craxi, del quale si diceva che avesse un interesse economico, successivamente dallo stesso Berlusconi per due volte capo del Governo o membro influente della maggioranza o capo dell’opposizione. Senza di lui, nessuno può escludere lo smantellamento di un’anomalia tutta italiana.

E senza di lui che ne sarà di Forza Italia? A dispetto di promesse e assicurazioni, Berlusconi ha evitato con cura di scegliere un successore e ha anche evitato che qualcuno potesse crescere fino al punto di ambire alla carica. Forza Italia è stata sempre e solo Berlusconi, il suo giocattolo personale: da trent’anni ne paga i debiti, pare che l’esposizione complessiva tocchi i 100 milioni; ne sceglie i rappresentanti; ne stabilisce la linea ascoltando soprattutto i vecchi compagni d’arma (Letta, Confalonieri, Galliani) e avendo quale stella cometa il tornaconto delle proprie aziende. Forza Italia sembra, dunque, destinata a seguire il destino del suo fondatore. Attorno a essa si agitano i tanti che ambirebbero a conquistarne le spoglie, da Salvini a Renzi. Il leader della Lega, circondato in casa dalle ambizioni crescenti di Zaia, presidente del Veneto, e Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia, sogna d’irrobustirsi con i senatori e i deputati azzurri messi nell’angolo dalla giravolta impressa da Marina e accettata dal malandato Silvio. Renzi punta sugli orfani per coltivare le residue speranze di costruire il grande centro, di cui tutti parlano, ma di cui nessuno sa indicare collocazione e consistenza. Sempre più criticato per l’eccesso d’intraprese personali, Renzi vorrebbe accreditarsi quale unico erede politico di Berlusconi, pronto persino ad allearsi con Meloni. Che al momento è la più accanita tifosa di Berlusconi. A causa dei sussulti del suo Governo, dall’emergenza immigrazione alla difficoltà di spendere i 200 miliardi dell’Europa, ha assoluto bisogno che Forza Italia sopravviva almeno per un anno.

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Disturbi del sonno?

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Tanti auguri Radio Monteceneri

Il 18 aprile del 1933 Radio Monteceneri diffuse il suo primo segnale. Novant’anni di radio che ha fatto e raccontato la vita del nostro Cantone

Sbiancare un etiope

Il linguista Federico Faloppa nel suo nuovo saggio spiega come abbiamo costruito i nostri immaginari razzisti e come liberarcene

Emilie Bujès racconta il suo Festival

Dal 21 al 30 di aprile torna Visions Du Réel, l’importante festival del documentario di Nyon: abbiamo sentito la sua direttrice

Luminosa alterità e violento dissenso

Arte ◆ Ritratto di Miriam Cahn, artista svizzera basilese tra le più importanti della sua generazione

Nata a Basilea nel 1949 in una famiglia ebraica fuggita dalla Germania e dalla Francia durante le persecuzioni naziste, Miriam Cahn è sempre stata un elettrone libero. Ancora studentessa alla Gewerbeschule di Basilea, la giovane artista integra i movimenti femministi e antinucleari dell’epoca. Militante, indomita e libera da ogni condizionamento eteropatriarcale, Mirian Cahn ha sempre voluto imporre, attraverso l’arte, la propria visione del mondo, la propria luminosa alterità. Il suo universo artistico, luogo di resistenza individuale e di dissidenza sociale, le permette di lottare contro le ingiustizie e i conflitti della sua epoca. Le umiliazioni e le violenze subite da quelli che il mondo chiama «anormali», vittime di una smania di dominio che si trasforma in sadica ossessione, sono sublimate nelle sue opere attraverso un rituale catartico di cui è la sacerdotessa.

«Sono arrabbiata perché tutto è così lento, perché le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini. Non si tratta di aggressività ma di rabbia e la rabbia è un ottimo motore per l’arte»

Che si tratti della Guerra del Golfo, di quella dei Balcani, della primavera araba, della crisi europea dei migranti, del recente conflitto in Ucraina, delle violenze sessiste o dello stupro come arma di guerra, Miriam Cahn esprime da più di trent’anni, attraverso l’arte, il suo violento dissenso. Sì perché diciamolo subito, Cahn è un’artista arrabbiata e lo rivendica! «Sono arrabbiata perché tutto è così lento, perché le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini. Non si tratta di aggressività ma di rabbia e la rabbia è un ottimo motore per l’arte», afferma in un breve video prodotto da Art Basel ricordandoci che la lotta deve continuare. Fervente difensore dei diritti delle minoranze, Cahn sfida e distrugge i grotteschi stereotipi legati alle artiste «donne» o meglio, alla categoria «donne» in generale. La violenza, così come il genere, sono dei costrutti sociali che ci fanno credere che tutto sia deciso per noi dalla nascita, che trasforma le «donne» in vittime inconsapevoli di un controllo sociale che tendiamo pericolosamente a sottovalutare. Con le sue opere, Cahn ci obbliga a confrontarci con queste imposizioni silenziose, ci fa capire che la rabbia e il dissenso non sono l’appannaggio dei così detti «uomini» ma fanno parte di ognuno di noi, sono la linfa vitale che ci permette di continuare

a lottare. Non è un caso se una delle opere esposte al Palais de Tokyo, mecca dell’arte contemporanea parigina che dedica a Cahn un’immensa retrospettiva intitolata Ma pensée sensorielle, ha creato scandalo. La violenza, la rabbia e il dissenso sono infatti caratteristiche che la società eteropatriarcale rifiuta di associare alle «donne», rinchiudendole in una prigione dorata fatta di vulnerabilità e fragilità. Cahn si rifiuta di giocare il gioco della vittima affrontando, con la sua arte, tematiche scottanti quali la guerra o le violenze di genere e sessuali che fanno paura perché ci confrontano con le contraddizioni e le ingiustizie di un mondo del quale facciamo inevitabilmente parte.

«L’arte dovrebbe essere libera dalle costrizioni sociali, dal politicamente corretto» afferma l’artista svizzera, mettendoci in guardia sul fatto che la censura o l’autocensura possono in ogni istante prendere il sopravvento soffocando una libertà di espressione che dovrebbe essere garantita a prescindere. Il quadro incriminato, intitolato Fuck

Abstraction , considerato dalla deputata RN Caroline Parmentier pedopornografico e difeso a spada tratta dallo spazio d’arte parigino così come dalla ministra della cultura Rima Abdul Malak, rappresenta una

«L’arte deve mostrare la complessità di tutto: il sesso, il potere, le aggressioni, la violenza. Bisogna combattere, essere combattivi e io lo sono!»

figura esile e apparentemente indifesa costretta a sottomettersi a degli atti sessuali imposti da un’imponente figura autoritaria che le sta di fronte. Malgrado l’opera in questione sia esposta in una sala appartata del Palais de Tokyo, all’entrata della quale è esposto un cartello che mette in guardia sui temi sensibili trattati, la violenza della scena ha scatenato vive polemiche. A questo punto possiamo legittimamente domandarci se ciò non

sia dovuto in gran parte al fatto che questa stessa violenza sia espressa proprio da un’artista donna. Cahn rivendica il suo diritto all’indignazione, all’espressione plastica di un dissenso che da intimo diventa collettivo e quindi politico. In realtà, non è l’opera a essere violenta ma il quotidiano vissuto dai soldati e dai civili in periodo di guerra, le tragedie individuali che testimoniano l’assurdità di conflitti che nascono da interessi ben più grandi di noi. Miriam Cahn, una delle artiste più importanti della sua generazione, riesce ancora a scioccare, a smuovere le coscienze e questo di per sé è già un grande traguardo. «L’arte deve mostrare la complessità di tutto: il sesso, il potere, le aggressioni, la violenza. Bisogna combattere, essere combattivi e io lo sono!» afferma con la determinazione che non l’ha mai abbandonata malgrado le critiche e l’ostilità di una fetta della società che vorrebbe con tutte le sue forze farla tacere godendo dei suoi rassicuranti privilegi.

Attorniata dalle montagne, nel

suo atelier di Stampa, in Val Bregaglia, Miriam Cahn continua a lottare attraverso le sue opere al contempo poetiche e radicali. L’umanità, così come la natura, sono rappresentate in tutta la loro splendente fragilità, base e linfa vitale di un universo estetico popolato da presenze indistinte, fantomatiche, piante ibride, animali, visi androgini incorniciati da intensi aloni ectoplasmatici o ancora da corpi deformati dal peso di una vita che non li ha risparmiati. Tutte le scene rappresentate da Cahn sono misteriose, tinte da allusioni sessuali, da rivendicazioni femministe ma anche da un’intensa carica di violenza e rigetto. Intrise di un misticismo legato alla natura che le circonda, liberate da ragionamenti troppo pragmatici e razionali, le sue opere sono istintive e visionarie, basate sull’emotività e la libertà di un corpo che rivendica il diritto a esistere e a esprimersi. Nulla è semplicemente decorativo o superficiale nell’universo di Cahn, tutto è complesso e radicale, proprio come la condizione umana.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 31
CULTURA
Una delle opere di Miriam Cahn esposta in occasione di Documenta 14 a Kassel. (Keystone) Muriel Del Don Pagina 35 Pagina 37 Pagina 33

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Un microfono libero in Ticino

Anniversario ◆ I primi novant’anni di Radio Monteceneri

L’amore & la morte

Memoir ◆ Perdere e trovare, così è la vita

Il 18 aprile del 1933 (un martedì, curiosamente proprio come domani) Radio Monteceneri diffuse il suo primo segnale. Era un periodo già di per sé difficile per il nostro Paese, stretto nella morsa costituita da due vicini aggressivi come l’Italia – divenuta fascista già da undici anni – e la Germania, dove il baffetto austriaco era divenuto qualche mese prima Cancelliere del Reich. Sicché il parto di quell’emittente che sarebbe poi divenuta la nostra RSI fu particolarmente travagliato.

La parte del leone la fanno le vecchie radio: oltre 300 apparecchi uno diverso dall’altro, poiché nati da grandi e piccole industrie che volevano distinguersi vuoi per eleganza, vuoi per la presenza dell’ultima scoperta tecnica o ancora per un particolare design

Da un lato, il primo Consigliere di Stato socialista, Guglielmo Canevascini, si stava adoperando per ottenere da Berna il via libera a una radio di lingua italiana che affiancasse le consorelle di Beromünster (LU) e di Sottens (VD), già attive dall’anno prima; dall’altro c’era chi ostacolava il progetto: dapprima Roma, che ben conosceva l’impegno antifascista di Canevascini: «Ha frequenti contatti con Pietro Nenni e Randolfo Pacciardi» – avversari politici del Duce, ndr – segnalava al Ministero degli Esteri di Roma l’allora ambasciatore italiano a Berna Giovanni Marchi, aggiungendo poi che «bisogna impedire che questi gnomi si atteggino a giganti per la nostra eccessiva bonomia» (Pierre Codiroli, L’ombra del duce, Franco Angeli Ed., pag. 137). Accanto ai neri nostrani , anche importanti imprenditori elvetici si dicevano preoccupati che Radio Monteceneri potesse pregiudicare i loro interessi nella Vicina Penisola. Canevascini, tuttavia, tira dritto e una volta ricevuta l’autorizzazione da Berna, nomina quale primo direttore (lo resterà sino al 1947) il ventiquattrenne Felice Antonio Vitali.

«Un microfono libero in questo angolo di terra italiana ma libera che sarà un potente mezzo di educazione e elevazione», scrive Canevascini su «Libera Stampa» il 30 ottobre 1933. Il successo e la diffusione dell’invenzione di Guglielmo Marconi in Ticino presentano cifre impressionanti tra il 1931 e il ’40, anno in cui nel 40 percento delle case c’è un apparecchio ricevente, mentre il telefono è fermo al 20 percento. Nel 1945 la radio «doppia» ancora il telefono: 52 percento a 26, come rileva Raffaello Ceschi sul numero del 1995 dell’«Archivio Storico Ticinese».

Accanto a queste cifre già di per sé significative, va aggiunta l’autorevolezza di cui sin da subito gode la nostra emittente: parecchi lettori un po’ in là con gli anni ricorderanno quel momento quasi liturgico celebrato in assoluto silenzio mentre si andava a tavola e Mario Saladin (annunciatore storico!) richiamava l’attenzione di tutti: «Dall’Osservatorio nazionale di Neuchâtel il segnale delle 12.30». Dopo cinque bip, ecco «da Berna le ultime notizie dell’Agenzia telegrafica svizzera», con la voce un po’ gracchiante di Mario Casanova; solo 3 o 4 minuti di dispacci e poi si riprendeva con la musica dell’Orchestra Radiosa e alcune altre rubriche, però solo fino alle due del pomeriggio, quando le trasmissioni venivano interrotte sino alle diciassette. Sembra incredibile oggi, quando abbiamo tre emittenti RSI che coprono 24 ore al giorno, sette giorni su sette, Natale compreso! Nelle discussioni al bar o in ufficio, inoltre, chi si trovava in difficoltà affermava sicuro «guarda che l’ha detto la radio!», vincendo così la contesa affidandosi a un motto divenuto immediatamente sacrosanto. La RSI festeggerà il compleanno di Radio Monteceneri con la performance audiovisiva 90 straordinari anni di radio dell'autrice e regista Sara Flaad sabato 22 aprile alle 16.30 presso lo Studio 2 di Besso.

Noi intanto siamo andati a festeggiare l’importante compleanno nella «tana del lupo»: sul Monte Ceneri, dove sorge il Museo della Radio proprio nell’ex stazione nazionale Onde

Medie. Ci accolgono il signor Renato Ramazzina, già ingegnere delle telecomunicazioni presso le PTT, che con i suoi amici Enrico Sulmoni e Franco Della Casa garantiscono l’apertura del Museo da perfetti volontari e con un encomiabile entusiasmo. Dapprima ammiriamo all’esterno dell’edificio l’ultimo tronco del traliccio/antenna che permise per decenni la diffusione di Radio Monteceneri; poi ci introducono nel percorso storico/didattico che affrontiamo con parecchi «Oohh» di meraviglia. Le vecchie valvole di grandezza inusitata, così come i generatori di corrente che garantivano la continuità delle emissioni in caso di black out, la riproduzione di un’azione della Premiata Ditta Marconi & Co. e di un diploma rilasciato all’altro celebre inventore Thomas A. Edison; l’oscillatore di Hertz, quello delle Onde Mega, con lo spinterometro in grado di produrre una scintilla (Funk) che si propagava tutt’intorno, dando altresì origine al vocabolo tedesco Rundfunk La parte del leone la fanno però le vecchie radio: oltre 300 apparecchi l’uno diverso dall’altro, poiché nati da grandi e piccole industrie che volevano distinguersi vuoi per eleganza, vuoi per la presenza dell’ultima scoperta tecnica o ancora per un particolare design. Fa impressione notare su quello che oggi chiamiamo display la scritta Monteceneri accanto a quello di realtà lontane e forse più importanti quali ad es. Sarajevo, Lione, Dublino. Impressionante anche il lavoro di Enrico Sulmoni, il quale ha ricostruito tutta una serie di apparecchi – emittenti, riceventi e quant’altro – servendosi unicamente di materiali e conoscenze scientifiche all’epoca a disposizione dei suoi antenati inventori. Ai nostri complimenti risponde in tutta modestia: «Mi sono divertito un mondo!».

Dove Museo della Radio, Carà 2, Cadenazzo. Apertura il primo mercoledì del mese 9.00-17.00 e su richiesta scrivendo a renato.ramazzina@bluewin.ch www.laviadelceneri.ch.

Lost & Found, edito da Bompiani, è il memoir che Kathryn Schulz, giornalista del «New Yorker» e vincitrice nel 2015 del premio Pulitzer, dedica al racconto della morte di suo padre Isac e all’incontro avvenuto un anno prima la dipartita del genitore con la sua attuale moglie Casey. Si tratta di un testo che mette insieme una mole notevole di conoscenze letterarie, citazioni poetiche e filosofiche con storie di famiglia, racconti di vita quotidiana, del dolore e della felicità. Si tratta soprattutto di una lunga e appassionante riflessione su due aspetti complementari dell’esistenza: la perdita e il ritrovamento, nonché sui due temi che da sempre sono al cuore di ogni vera domanda che un essere umano possa porsi: l’amore e la morte. La prima parte del testo si sofferma sull’amore incondizionato che Kathryn provava per suo padre e sulla vita di quest’uomo che aveva imparato la perdita fin da bambino: a soli nove anni era stato allontanato dalla famiglia per crescere in un kibbutz. Schulz racconta che prima di approdare ragazzino negli Stati Uniti, suo padre aveva già perso due continenti. Da Israele, infatti, in un viaggio durante il quale aveva visto suo zio morire in auto colpito da un proiettile volante, era approdato con sua madre in Germania e dopo qualche anno negli Stati Uniti. Dalla descrizione che ne fa l’autrice, ciò che suo padre non ha mai smarrito invece è l’entusiasmo per la vita e per la conoscenza, l’adorazione per sua moglie e per le sue figlie.

L’ultima parte del testo è dedicata, con un tocco di vera maestria, alla lettera «&»: Schulz ne analizza le origini e gli usi nelle varie lingue

Anche grazie al buon temperamento dei suoi genitori nonché a una certa dose di fortuna a cui Schulz fa riferimento in vari punti del testo non dandola mai per scontata, lei ha vissuto una vita felice: è stata una bambina serena, ha potuto accedere a un’istruzione eccellente, perseguire il suo desiderio di scrivere. Ed è all’interno di questo panorama idilliaco che il dolore per la perdita deflagra. Schulz lo descrive in tutta la sua inesorabilità, senza offrire a chi legge nessun tipo di appiglio consolatorio, ma una preziosa compagnia. Il racconto del lutto che occupa la parte Lost di questo testo non è mai retorico né edulcorato: la tristezza che la pervade dopo la morte del padre viene descritta sia come invalidante, nei primi tempi, ma anche come uno strascico di cui è difficile definire i contorni col trascorrere dei mesi.

Con lo stesso entusiasmo, la stessa capacità analitica e una grande meraviglia per l’esistenza Schulz descrive l’innamoramento. Come nella parte Lost si era soffermata sulle ipotetiche cause che ci conducono a perdere: oggetti, amori, abilità e sulle varie possibili soluzioni, anche matematiche, che l’umanità ha sviluppato per ritrovare ciò che costantemente smarriamo, in Found si domanda come e perché ci si innamori. Soprattutto, citando il paradosso di Menone che domanda a Socrate come pensa di trovare qualcosa che non conosce e come crede, se ci si imbattesse, di riconoscerla, Schulz si chiede come sia possibile riconoscere l’amore quando lo si incontra, che cosa renda così sicuri in così poco tempo che l’altro o l’altra siano la persona con cui trascorrere il resto della nostra vita. Nel suo caso, le sono bastati pochi giorni per comprendere che si era innamorata di Casey e che avrebbe voluto sposarla: «Questa è l’essenza dell’amore corrisposto e, sicuramente, la più fortunata delle condizioni: desiderare solo ciò che già abbiamo».

Perseverando nell’attitudine di inchiesta che caratterizza tutto il libro, Schulz analizza le ragioni dei numerosi litigi che hanno connotato la sua relazione nel primo anno e anche il perché a un certo punto lei e Casey abbiano smesso di discutere, quando è svanita «la paura di perdere l’altra».

L’ultima parte del testo è dedicata, con un tocco di vera maestria, alla lettera «&»: Schulz ne analizza le origini e gli usi nelle varie lingue e poi racconta con dovizia di particolari il modo in cui ha chiesto a Casey di stare insieme per tutta la vita, i preparativi, il giorno del matrimonio, la paura costante che in quel momento così importante la nostalgia del padre l’avrebbe attanagliata, mentre Casey temeva che non tutti i suoi familiari avrebbero preso parte al matrimonio fra due donne.

Perché la «&»? Con molta umiltà, ma anche con un approccio alla scrittura libero che le permette di descrivere l’amore di Dante e Beatrice e di accostarlo a un episodio di invasione di pulci, Schulz condivide con lettrici e lettori lo sgomento e la meraviglia di un destino, quello umano, in cui il dolore «&» la gioia, la perdita «&» l’incontro si susseguono, fino a che non giunge inesorabile la fine. Lo fa a partire da sé stessa, come nella migliore tradizione della scrittura delle donne, consapevole però che è propria di tutti gli esseri umani un’insaziabile voglia di infinito: «Non è il passato che piangiamo […] è il futuro».

Bibliografia

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
Kathryn Schulz, Lost & Found, Bompiani, Milano, 2023. Pixabay Pixabay

PIENO DI VITAMINE A 1 FRANCO

Alla Migros trovi di nuovo frutta e verdura fresche a solo 1 franco. Dal 18 al 24 aprile puoi acquistare 500 grammi di limoni bio in rete, 1 chilo di carote in sacchetto o 1 melagrana a solo 1 franco. Per informazioni e ricette sulle gustose e colorate bombe vitaminiche in offerta

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Insalata multicolore di carote e ceci

Ingredienti per 4 persone

• 5 00 g di carote di diverso colore

• Sale

• 4 cucchiai di succo di limone

• 4 cucchiai di olio d’oliva

• 4 cucchiai di tahina

• 2 cucchiai d’acqua

• Pepe

• 1 barattolo di ceci da 220 g

• 1 cucchiaino di spezie orientali miste

• Crescione o germogli per guarnire

Preparazione

1. Con un affettaverdure o un pelapatate taglia le carote a striscioline (1 mm di spessore) nel senso della lunghezza. Aggiungi il sale e mescola. Prepara il condimento con metà del succo di limone e metà dell’olio. Mescola la tahina, il restante succo di limone e l’acqua fino a ottenere una crema. Aggiusta di sale e pepe.

2. Scola i ceci, sciacquali e falli sgocciolare. Condiscili con l’olio rimasto e le spezie. Distribuiscili su una teglia foderata di carta da forno e cuocili in forno ventilato (non preriscaldato) a 200 °C per 25-30 minuti, o comunque fino a quando non sono croccanti. Mescola i ceci una sola volta.

3. Condisci le carote con il dressing di olio e limone. Servile con la crema di tahina e i ceci ancora caldi dopo aver guarnito il tutto con il crescione o i germogli.

Questa offerta è valida

dal 18 al 24 aprile Altre offerte speciali franco vitaminico seguono a cadenza settimanale fino all’8 maggio

Limoni bio 1 rete, 500 g Fr. 1.– Carote 1 sacchetto, 1 kg Fr. 1.–

Viaggio tra i miti e le espressioni razziste

Lingua ◆ Federico Faloppa nel suo saggio ci racconta come abbiamo costruito i nostri immaginari xenofobi

La storia di un detto mal detto che perpetua il mito dello schiarimento della pelle degli africani e sostanzia un universo razzista di ingombrante portata storica. Questo volume ha un sacrosanto trigger warning (un avvertimento cautelativo in prospettiva correctness, rivolto alla sensibilità eventuale del lettore di fronte a contenuti e parole particolari) di quasi due pagine. E ci mancherebbe: perché di questo civilissimo libro dell’attento linguista Federico Faloppa fa paura già il titolo, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista. È infatti un detto a fornirne lo spunto; un detto che ha un cospicuo carotaggio storico e residui di una cupa opinione del colore della pelle degli individui che raggiungono quasi i nostri giorni.

«Non tutto ciò che viene affrontato può essere cambiato, ma nulla può essere cambiato finché non viene affrontato»

Il mito dello sbiancamento della pelle e delle sue espressioni ha infatti precipitati attuali e stupisce per la varietà di testi nei quali può capitare di incontrarlo: dalla pubblicità ai contemporanei prodotti di cosmesi schiarente, ai dialetti (sistemi linguistici che quando si tratta di perpetuare immagini avvilenti spesso rispondono pre-

sente), alle tracce in molte letterature. La constatazione farcita di amaro «È come sbiancare un etiope» è usata per alludere a tentativi vani di fare qualcosa e spesso si associa agli sforzi inutili che si mettono in atto per spiegare qualcosa a qualcuno che cocciutamente non può o non vuole capire. La sua storia è molto densa, tant’è vero che il detto o sue varianti emergono in testi di varia origine, in numerose lingue del mondo occidentale, all’indirizzo di destinatari differenziati e in parecchi registri testuali. I nomi dei testimoni e degli scritti che ne hanno in un qualche modo veicolato la tradizione sono tanti: dalle raffigurazioni artistiche di riti battesimali destinati ad africani alle interpretazioni della favolistica antica di Esopo, da una discreta tradizione rinascimentale a Erasmo da Rotterdam («Questo detto si adatterà specialmente quando una cosa onesta è verniciata di parole, o quando si loda un uomo ignorante, o si cerca di insegnargli qualcosa»), ai proverbi e, nel tempo e con discreta ovvietà, alle culture coloniali, alle dittature novecentesche, alla cosiddetta e quasi contemporanea «civiltà del sapone» e dell’igiene come stile di vita.

Curiosa questione nella questione riguarda poi il termine stesso di etiope, la ricerca della cui origine apre a piste linguistiche e storiche originali. Dapprima, fin nell’Iliade e nell’Odissea, gli aithíopes erano «alcuni popoli

I cereali al top della forma.

ve la linguistica storica a disciplina privilegiata per imparare molte cose sul mondo e sui suoi destini. I sondaggi e la documentazione di questo ultimo libro di Federico Faloppa sono impressionanti, e decine e decine sono le pagine con le note di approfondimento e di rinvio alle fonti e ad altre possibili letture su questo tema così fondamentale per il vivere civile e responsabile.

mitici e remoti che vivevano nelle più estreme regioni orientali e occidentali della Terra, l’Etiopia felix prossima a Oceano e cara agli dei». Poi, cinquecento anni prima di Cristo, l’etnico passò a indentificare senza distinzioni tutti «i popoli che vivevano a sud

del deserto del Sahara», e cioè gran parte degli africani, e anche quelli che abitavano lo «stimato e potente regno di Kush, l’attuale Sudan».

La storia delle parole e delle espressioni linguistiche è spesso storia tout court. Un fenomeno che promuo-

Non abbiamo ancora risolto il decennale problema se sia solo il mondo a influenzare il modo di parlare o se al contrario siano il sistema linguistico, le parole, le espressioni, se impropriamente usati, a determinare il nostro modo di vedere le cose, le mentalità e in sostanza la mente dell’uomo. Alcuni di noi ancora non immaginano per esempio quanto possa far male al destinatario di certe squisitezze, ma anche a quelli che gli stanno attorno, l’abuso scherzoso e considerato normale di parole N, «Lavora come un N» o, peggio, «Come un N fa l’amore». Dice James Baldwin nell’esergo a questo libro: «Non tutto ciò che viene affrontato può essere cambiato, ma nulla può essere cambiato finché non viene affrontato».

Bibliografia

Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista Torino, Utet, 2022.

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A Visions Du Réel il documentario è protagonista

Cinema ◆ Emilie Bujès ci racconta la prossima edizione del festival di Nyon in programma dal 21 al 30 di aprile

Il documentario è vivo e vegeto e risplende come non mai. Lo testimoniano Berlino e Venezia dove due film legati alla realtà hanno vinto il Leone d’oro e l’Orso d’oro: On the Adamant di Nicolas Philibert e All the Beauty and the Bloodshed (nell’immagine in basso uno scatto del trailer) di Laura Poitras.

In Svizzera possiamo contare su una rassegna dedicata a questo tipo di film che da 54 edizioni mostra approfondimenti da tutto il mondo: Visions Du Réel, il festival di Nyon in programma dal 21 al 30 di aprile. Un appuntamento che negli ultimi anni è diventato un punto di riferimento internazionale. Un festival che presentiamo con la direttrice artistica Emilie Bujès alla testa della manifestazione dal 2017.

«La tradizione del documentario elvetico si conferma e anche quest’anno abbiamo un’ottima presenza di opere dalla Svizzera tedesca e dalla Romandia»

Quest’anno in programma ci sono 163 film di cui 131 novità (sui circa tremila giunti al comitato di selezione) e come evidenzia la direttrice: «Per ogni sezione del festival abbiamo scelto alcune pellicole-chiave, interessanti e provenienti da diversi Paesi. Inoltre, tengo a evidenziare il fatto che il programma riflette la parità di genere con il 50 percento di film realizzato da registe».

A livello tematico i soggetti trattati ruotano attorno ad alcuni nuclei di stretta attualità: «Penso ad esempio alle questioni familiari, ai conflitti, alla migrazione, all’intelligenza artificiale o alle questioni identitarie; in particolare quest’anno, diversi film trattano la transizione identitaria».

Interessante sottolineare la variegata provenienza delle opere: dal Burkina Faso al Venezuela, passando per Costa Rica, Tunisia e via discorrendo. «Visions du Réel ha sempre cercato di esplorare il cinema di Paesi lontani. Rispetto allo scorso anno, quando avevamo vissuto un calo a causa della pandemia, la 54esima edizione ha voluto ridare spazio a soggetti poco conosciuti, ma non per questo meno sorprendenti. Per esempio, abbiamo un film tailandese (Hours of Ours) che segue una famiglia sudanese che sta emigrando in Canada dalla Thailandia. Sicuramente in questi Paesi, an-

che senza un’industria cinematografica importante, si sono create reti che testimoniano un ambiente culturale e cinematografico molto vivace e prolifico. Esistono energie positive che sono in contatto tra loro e riescono ad aiutarsi vicendevolmente contribuendo alla realizzazione di film davvero notevoli».

E la Svizzera? «La tradizione del documentario elvetico si conferma e anche quest’anno abbiamo un’ottima presenza di opere dalla Svizzera tedesca e dalla Romandia (sono infatti 37 le coproduzioni inserite nelle varie competizioni), ma purtroppo solo una coproduzione dal Ticino: si tratta di Pure Unknown (Amka Films) di Valentina Cicogna e Mattia Colombo». Durante la rassegna ci sarà spazio anche per alcuni incontri interessanti con personaggi noti: quest’anno il festival accoglierà l’argentina Lucrecia Martel, l’italiana Alice Rohrwacher e lo svizzero Jean-Stéphane Bron. «È molto importante che i tre invitati a Nyon abbiano approcci differenti con la realtà ed esprimano le loro personali visioni sul cinema contemporaneo. Martel l’abbiamo voluta perché il suo è un percorso audace e ibrido che attraversa vari generi e tocca ovviamente anche il documentario. Con Rohrwacher (La chime-

ra, il suo ultimo lavoro, sarà in competizione a Cannes) parleremo della sua filmografia impregnata di realismo magico e documentario. Infine,

Jean-Stéphane Bron è una figura essenziale dell’industria cinematografica elvetica ed è molto noto a livello internazionale per le produzioni

documentaristiche a sfondo politico. Trovo che i tre personaggi, insieme, raccontino storie originali e in qualche modo disegnino anche questa edizione del festival».

Tra gli altri eventi di sicuro interesse segnaliamo le proiezioni speciali e in anteprima dei due film premiati a Berlino e Venezia: On the Adamant (il 20 aprile con una proiezione gratuita) e All the Beauty and the Bloodshed (il 23 aprile). Inoltre, saranno proiettati alcuni cortometraggi di cineasti ucraini a poco più di un anno dall’inizio dell’invasione russa. Il festival, infine, renderà omaggio anche a due grandi registi recentemente scomparsi: Jean-Luc Godard (con il quale Visions du Réel aveva prodotto una mostra nel 2020, poi presentata alla Berlinale 2022) e Alain Tanner.

Emilie Bujès conclude con un auspicio: «A livello numerico il nostro obiettivo è quello di realizzare un record di spettatori e quindi di superare le 45mila presenze. Noi ci crediamo perché abbiamo costruito una selezione davvero di alta qualità che lascia ben sperare».

Da notare che, per chi non potesse recarsi a Nyon, esiste anche la possibilità di poter vedere online, a soli 25 franchi, 50 film che saranno proiettati durante la rassegna. Per saperne di più consultare il sito www.visionsdureel.ch.

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La direttrice del Festival Emilie Bujès. (Keystone)
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In fin della fiera

Timide prove d’attore

È andata in onda l’ennesima replica de Il gatto di Luigi Comencini. È una commedia nera a me cara perché segna il mio trionfale esordio di attore nel cinema. Il mio ruolo era «una tinca», un pesce immobile sul fondo, acquattato nella melma per rendersi invisibile. Una «tinca» è il notaio che ha un’unica scena, l’apertura del testamento e la sua lettura. La macchina da presa non inquadra lui ma le persone che lo ascoltano per cogliere le loro reazioni.

Ho conosciuto Luigi Comencini quando dovevo redigere con lui il piano di produzione della sua inchiesta L’amore in Italia (sette puntate in onda dal 18 novembre 1978). In parallelo Luigi stava lavorando alla sceneggiatura de Il gatto e me ne parlava. Protagonisti Ugo Tognazzi e Mariangela Melato. La trama: Amedeo e Ofelia, fratello e sorella, avidi e solidali, tramano con ogni mezzo per costringere

Voti d’aria

Nel giorno in cui minacciava di vietare l’uso dell’inglese nell’Amministrazione pubblica, il governo italiano minacciava di istituire un liceo del Made in Italy. Questo secondo storico annuncio (2) è avvenuto al Vinitaly, dove si sono presentati più sottosegretari e ministri che viticoltori. Tutti insieme a Verona per brindare all’identità enogastronomica del Belpaese. Tutti insieme identitariamente. Viva il Made in Italy (2–) al Vinitaly (1+), oh yes, e abbasso i forestierismi, oh yes! Autentica vertigine concettuale. Da ridere (in italiano e, se non viene vietato, anche in altre lingue)! Un capolavoro comico (6).

E prima del divieto dei forestierismi, vietati gli sbarchi, vietati gli immigrati, vietato morire in mare, vietato vivere su suolo straniero, vietati i grilli, vietata la carne sintetica, tendenzialmente vietato l’aborto, vietate Chat-GPT e ogni intelligenza artifi-

gli inquilini del loro palazzo a sloggiare, avendo ricevuto una ricca offerta d’acquisto, valida solo se l’immobile è vuoto. L’avvelenamento di un gatto ha un ruolo centrale nello sviluppo e quando crederanno di avercela fatta, un dettaglio imprevisto manderà tutto all’aria. Luigi mi propone: «Ti andrebbe di fare la parte dell’avvocato?». Vedo spalancarsi davanti a me una luminosa carriera. Il sogno svanisce subito: Sergio Leone, il produttore del film, dice di no. Non ero un attore, non avevo precedenti esperienze, i due mostri sacri, Ugo e Mariangela, mi avrebbero mangiato vivo. Comencini tiene duro e per convincere Leone gira un provino. Sergio Leone lo visiona e accetta l’azzardo. Dopo la proiezione in anteprima del film, Leone riconobbe che Comencini aveva fatto bene ad insistere per avermi. Una promozione sul campo, mitigata dalla constatazione che Leo-

ne non mi ha mai chiamato a lavorare nei suoi film.

Paola, una delle figlie di Luigi e costumista del film, prevede per me un abito azzurro. Non ce l’ho, devono confezionarmelo su misura. Mai avuto un abito più bello. Le mie scene si svolgono tutte in un unico ambiente e sono sempre solo con i due protagonisti. Si offrono al mio sguardo due opposte modalità nell’affrontare l’impegno di modellare il personaggio. Mariangela, docile creta nelle mani del regista, attenta, concentrata, disposta a ripetere ogni volta gesti e battute nello stesso identico modo, senza mai protestare o accusare stanchezze. Ugo è nel suo camerino. Dorme. Per impostare la ripresa, al suo posto agisce uno degli assistenti. Quando tutto è pronto, movimenti, gesti, luci, posizione delle cineprese, arriva il momento di svegliare Ugo. Arriva il divo, con l’aria imbolsita di chi poco prima dormiva

profondamente. Mariangela e l’assistente recitano la scena davanti ai suoi occhi. Scuote la testa: non è il modo giusto, ci fa vedere lui come andrebbe impostata. Adesso sì che va bene. Il tempo di spostare cineprese e corpi illuminanti e la giriamo. Quando sono ripreso in primo piano con l’uno o l’altra che, fuori campo, mi danno le battute, Mariangela recita come se fosse lei quella nel mirino della cinepresa, Ugo fa le facce buffe per farmi ridere. Mariangela apparteneva alla famiglia degli attori che si pongono come cera mobile nelle mani del regista e si calano nel personaggio senza retro pensieri. Due altri ne ho visti all’opera. Nanni Loy gira Mi manda Picone. Il protagonista, Giancarlo Giannini, arriva, saluta tutti, ride, scherza. Si chiude nella sua roulotte e dopo un’ora esce trasformato nel personaggio e tale resterà fino alla fine della giornata; nella pausa

ritira il cestino e si chiude a pranzare in totale solitudine. Una metamorfosi ancor più radicale l’ho vista compiere da Barbora Bodul’ovà nel 2001 impegnata nelle due puntate di Maria José – L’ultima regina. Siamo ad Aosta, si gira la scena del voto per il referendum Monarchia – Repubblica del 1946. Il mio ruolo: presidente del seggio. La regina Maria José arriva senza scorta guidando un’utilitaria. È lì per votare. Le chiedo la carta d’identità. Momenti d’imbarazzo, non ce l’ha, è la regina, non ha mai avuto bisogno di un documento di riconoscimento. Barbora è nata nel 1974 in Cecoslovacchia ed è naturalizzata italiana. In quel 2001 ha 27 anni ma quando arriva sul set è una ragazzina che ride, scherza, gioca a fare la vamp, si lascia corteggiare. Trasformata in Maria Josè, resterà regina per tutti, fino alla sera, quando, dimessi i costumi di scena, tornerà a essere la nostra amica.

ciale, vietata la pesca dei ricci di mare in Puglia. Essendo vietati i rave party, a Pasquetta sulle sponde dell’Adda è scattato l’allarme, sono intervenute le forze dell’ordine, ma era solo una grigliata tra amici (5+). Vietare anche le grigliate per non sbagliarsi? Sarebbe una buona idea (2). Vietare la Pasquetta? Perché no. Intanto, l’Australia vieta l’uso di TikTok ai dipendenti, il Texas vieta la pillola del giorno dopo (ma il Congresso non vieta la vendita di armi d’assalto), in Inghilterra è vietato leggere integralmente Agatha Christie e Roald Dahl, l’Europa ha vietato le bustine di zucchero e i flaconcini di shampoo negli hotel. Se «vietato vietare» era uno slogan del 68, oggi il motto è «vietato vietare i divieti». Attenzione, però. Mark Twain (6+) diceva che se al posto della mela Dio avesse proibito il serpente, Adamo avrebbe mangiato il serpente. Analogamente, Umberto Eco

A video spento

Dovrei firmare questo pezzo «Aldo Enorme», come mi ha chiamato in tv Geppi Cucciari, oppure «Aldo Diversamente Magro», come mi ha chiamato Luciana Littizzetto. A cosa devo questo cambio di cognome?

L’editore britannico Puffin (appartenente al colosso editoriale Penguin Books), in accordo con la Roald Dahl Story Company, l’associazione degli eredi dell’autore, ha deciso di introdurre una lunga serie di modifiche ai testi dei famosi romanzi per ragazzi di Dahl. L’intento dell’operazione editoriale è quello di eliminare o edulcorare ogni riferimento al genere, alla razza e al peso, modificando molti dei termini più espliciti che caratterizzano le opere dello scrittore gallese. Parole come «grasso», «nano», «brutto» sono state modificate, in modo tale da non risultare offensive per nessuno dei lettori di oggi, considerato il cambiamento della sensibilità generale rispetto all'epo-

ca in cui Dahl pubblicava i suoi testi. Così la Signorina Trinciabue di Matilda, da «femmina formidabile» diventa «donna formidabile», gli Oompa Loompa de La fabbrica di cioccolato diventano «piccole persone» e Augustus Gloop «enorme» e non più «enormemente grasso». Modifiche consistenti riguardano anche i termini «mad» e «crazy» e tutti gli stereotipi di genere nel descrivere personalità, caratteri e professioni delle protagoniste femminili di Dahl.

L’iniziativa editoriale ha però suscitato enormi polemiche, lo scrittore Salman Rushdie senza mezzi termini ha twittato: «Roald Dahl non era certo un angelo, ma questa è una censura assurda. Puffin Books e la compagnia di Dahl dovrebbero vergognarsi».

Un rappresentante della Roald Dahl Story Company si è giustificato sostenendo che la scelta è stata fatta per permettere alle storie e ai personaggi dello

(6) sosteneva che a scuola bisognerebbe vietare I promessi sposi, perché con il piacere del proibito diventerebbero irresistibili, come la mela (o il serpente) per Adamo. Vietarne la lettura sarebbe dunque il migliore omaggio a Manzoni nei centocinquant’anni dalla morte. Ci svegliamo al mattino e prima di lasciare il letto afferriamo il cellulare chiedendoci con trepidazione: che cosa minacceranno di vietare oggi? Un po’ a caso, si potrebbero vietare i carciofi alla giudia, il salto in alto, i fazzoletti di carta, il francese (per ripicca verso Macron, la cui simpatia merita dal 3– in giù). Ma soprattutto, appena memorizzate le minacce di divieto, non resistiamo alla curiosità: chissà come avrà trascorso la notte Berlusconi. Ed ecco lampeggiare a raffica il resoconto delle ultime due ore: «Cauto ottimismo», ha detto il nuovo bollettino; «Procede bene», ha dichiarato ai giornalisti assiepati il coordi-

natore di Forza Italia Antonio Tajani (4– alla dirompente simpatia); «È in progressivo e costante miglioramento», ha assicurato ai giornalisti assiepati il dottor Alberto Zangrillo (3+ a prescindere); «Sta meglio», ha sussurrato ai giornalisti assiepati il figlio Luigi volgendo il pollice all’insù (1 al pollice); «Sta meglio di prima», ha bofonchiato il fedele Fedele Confalonieri (7 alla fedeltà) sgusciando rapido tra i giornalisti assiepati; «È un leone», ha esclamato ai giornalisti assiepati il figlio Pier Silvio aggiustandosi l’onda dei capelli (5– alla metafora animale: sempre meglio leone che biscione, il simbolo di Fininvest); «Siamo fiduciosi», ha affermato il fratello Paolo rivolgendosi ai giornalisti assiepati; «Per la prima volta si è seduto», ha sorriso, soffermandosi a parlare ai microfoni dei giornalisti assiepati, l’amico Gianni Letta (2+ alla naturale affabilità). Nessuno che sia uscito dal-

la visita rispettosamente in silenzio. Ma prima di alzarti, al mattino, con il cellulare acceso tra le mani la domanda è doppia: come può tollerare un povero degente in terapia intensiva l’intensiva processione di decine di amici e familiari sin dalle prime luci dell’alba? Mai vista una folla tanto fitta e brulicante in un reparto ospedaliero. Nemmeno attorno alla Madonna piangente (sangue) di Trevignano. Seconda domanda: che ci fanno tutti quei giornalisti assiepati giorno e notte nei cortili del San Raffaele? Sono lì per registrare il pollice all’insù del figlio Luigi? La fedeltà contrita di Confalonieri? Il ciglio destro sollevato di Zangrillo? Domande che non avranno risposta. Ma a questo punto, dopo aver conosciuto i divieti di giornata e lo stato di salute del più «assiepato» degente del millennio, ci si può alzare rinfrancati e cominciare una promettente giornata da 4+.

scrittore di essere apprezzate da tutti i bambini. Quando vengono pubblicate nuove tirature di libri scritti anni fa, non è insolito decidere di aggiornare il linguaggio e i dettagli. Il loro principio guida è stato quello di mantenere le trame, i personaggi e l’irriverenza del testo originale, apportando piccole modifiche solo per il linguaggio. Ovviamente non tutti i lettori sono stati felici di ciò. Adattare è un conto, censurare significa snaturare l’opera originale. Forse questa storia del politically correct sta sfuggendo di mano. Al posto che correggere l’autore, non sarebbe meglio insegnare ai bambini come interpretare e usare determinati aggettivi?

Ha scritto Giovanna Zoboli, scrittrice ed editrice di libri per ragazzi: «Se nei romanzi di Dahl esiste una metafora ossessiva è quella del potere, della condizione di chi non ne ha a fronte di un mondo adulto in cui il potere è tutto.

Un punto di vista certamente infantile, selvatico, allucinato, che predilige, come arma di difesa, la caricatura, e dove la deformazione fisica è sempre attributo, non generico, di un mondo adulto violento e incomprensibile. I personaggi malvagissimi di Dahl sono enormi perché torreggiano, godendo del loro potere anche fisico sugli inermi, sono metafore dell’ingiustizia e dell’abuso. I bambini lo sanno leggere, questo».

Cosa ci insegna il caso delle correzioni apportate ai libri di Roald Dahl? Ci insegna che il politicamente corretto sta diventando una forma di dogmatismo «a fin di bene», sempre più distruttivo del pensiero liberale perché cresce su un terreno liberale (o pretende di avere radici liberali: rispettare l’altro), ma corrompe il suo senso e tradisce il suo significato intimo. Trasforma un metodo aperto in un credo chiuso. Creando soprattutto una for-

ma di sfiducia nell’intelligenza dei lettori più piccoli.

P.S. Dopo le critiche, persino della regina consorte, l’editore ha deciso che ci saranno due edizioni: quella originale, Classic Collection, e quella purgata per «giovani lettori». Però, in occasione del settantesimo anniversario di Casino Royale il primo libro della saga di 007, la Ian Fleming Publications Ltd, che ne detiene i diritti d’autore, ha istituito una commissione con l’intento di eliminare tutte quelle parole che potrebbero suscitare polemiche per la loro inappropriatezza ai giorni nostri. Se domani trovate un libro che si chiama Il non più giovanissimo e il mare sappiate che è Il vecchio e il mare di Hemingway. Biancaneve e sette persone non tanto alte è ovviamente Biancaneve e i sette nani

A voi indovinare questo incipit: «Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un vispo animaletto…».

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 17 aprile 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 39 ◆ ●
di Paolo Di Stefano
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«Vietato vietare i divieti»
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