La lotta alle mafie si gioca dentro casa I beni confiscati alla criminalità organizzata sono beni comuni. Un’importante risorsa nella lotta alle mafie, una ricchezza per l’Italia. Leggi incerte e procedimenti lenti della burocrazia minano l’efficacia di questi interventi. Sono passati quasi venticinque anni dalla legge 109/1996 sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alla criminalità e nonostante i benefici generati dalla gestione collettiva di questi beni, tante ancora sono le criticità da risolvere. I beni confiscati costituiscono solo in Italia un patrimonio di 18.270 immobili e 1.985 aziende. Di tali beni l’82% si trova nel Mezzogiorno, ma non è da sottovalutare una percentuale alta come quella Lombarda dell’8%, indicativa delle metamorfosi subite dalla complessa e nascosta realtà delle mafie. Di questi 720 sono stati i progetti realizzati, che hanno messo al centro i cittadini tramite processi di riappropriazione e gestione collettiva. Negli anni questi beni sono diventati palestre di democrazia, occasione di lavoro vero, pulito, di accoglienza per le persone fragili e in difficoltà, di formazione e impegno per migliaia di giovani che volontariamente, ogni anno, vi trascorrono un periodo dell’estate. Allo stesso tempo però, secondo dati forniti da “Libera”, due terzi dei beni affidati alla gestione sociale versano in stati di cattive condizioni e il tempo medio tra il sequestro e l’effettivo riutilizzo sociale è in media di dieci anni. L’amministrazione condivisa è la direzione da seguire per raggiungere un’efficiente allocazione dei beni sequestrati perché è anche tramite questi processi che passa la lotta alle mafie. Come spiega Umberto Postiglioni che per quasi tre anni ha guidato l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC), un bene confiscato diventa essenziale per promuovere una cultura della legalità, se la mafia è un sistema che si fonda sulla paura e l’omertà dei singoli, un bene comune permette all’individuo di riscoprire l’importanza e la forza della collettività e minare le fondamenta di tali associazioni criminali. La gestione condivisa di un bene comune educa al rispetto delle regole, poiché si fa esempio di come diritti, doveri e responsabilità vengono condivisi tramite esse. Scomodo
Ottobre 2019
Il valore aggiunto di una collaborazione sul modello dell’amministrazione condivisa tra pubblico e privato rispetto ad un riuso sociale da parte di un ente istituzionale o del terzo settore risiede nel concetto di rete: “rete” è la parola fondamentale per il rilancio di una riflessione – e di una azione – condivisa tra più attori perché in grado di intercettare dinamiche locali di attivismo civico per inserirle all’interno di una progettualità più ampia. La rete crea relazioni tra persone, tra competenze e risorse diverse che possono essere unite per servire un unico scopo, tra best practices che possono essere meglio esportate e tra responsabilità condivise. Tra le numerose testimonianze di questo processo emblematica è l’esperienza nella cittadina di Corleone in cui una abitazione confiscata alla mafia locale è stata resa dall’associazione “Laboratorio della Legalità” un museo che racconta l’evoluzione del fenomeno mafioso dalla fine del’800 ai giorni nostri tramite immagini e racconti suggestivi, promuovendo al contempo numerose attività sulla legalità. Il modello di co-progettazione che ha determinato il successo di questa esperienza è stato reso possibile proprio grazie allo strumento dell’amministrazione condivisa che ha garantito una gestione diretta e virtuosa del bene sequestrato. E’ possibile e necessario dunque pensare ai beni confiscati alle mafie come nuovi beni comuni che “esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. di Thomas Lemaire ed Ettore Iorio
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