SOCIETÀ
La violenza domestica nelle coppie di anziani, un fenomeno sommerso indagato ora all’Istituto La Source
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TEMPO LIBERO
L’arte della flânerie al femminile non solo è resistita nel tempo, ma si è tramandata di donna in donna
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Zurigo, lungo la linea 32
MONDO MIGROS
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ATTUALITÀ
Il punto sul «Corona-Leaks», il caso di fughe di notizie emerso nel dipartimento di Alain Berset
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Intervista a Gian Maria Tosatti, artista visivo italiano presto in mostra all’HangarBicocca di Milano
CULTURA Pagina 29
Lanciati in contromano sulla via della pace?
Carlo Silini
E così ci crogioliamo nella guerra. Trascinata dagli Stati Uniti, che fin dagli inizi hanno sorretto la controffensiva di Kiev, anche l’Europa entra con i propri panzer nello scenario allucinante del conflitto russo-ucraino. Dato che Washington invia i suoi carri armati Abrams, Berlino ha esaurito l’arsenale di scuse geopolitiche credibili per evitare di mettere in campo i propri Leopard. E visto che, al di là dei petti gonfiati davanti ai signori del mondo a Davos o nelle sedi diplomatiche del pianeta, sullo scacchiere internazionale la Svizzera pesa quanto una libellula, ci crogioleremo nella guerra anche noi, i pacifici elvetici. Da lungi, bien sûr, che di cadaveri di nostri militi nelle steppe dell’Est non ne vogliamo. Ma resta un fatto che, nei giorni scorsi, la Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale ha decretato che la riesportazione di armi verso l’Ucraina non è più una chimera impossibile. Con 14 voti a 11 sono state approvate una mozione e un’iniziativa parlamentare che prevedono la modifica dell’articolo 18 della Legge federale sul
materiale bellico. Tecnicamente, il Consiglio federale potrà revocare la dichiarazione di non riesportazione firmata dai Paesi che hanno acquistato materiale svizzero. Questo nei casi in cui l’ONU dichiarasse una violazione del divieto dell’uso della forza ai sensi del diritto internazionale. Come sta palesemente capitando in Ucraina, dove non sussiste alcun dubbio su chi sia l’aggressore (la Russia) e chi l’aggredito (l’Ucraina).
Il sostegno militare a distanza anche da parte di Paesi che cercano di star fuori dalle guerre (come la Germania, per cancellare l’imbarazzante passato nazista e guerrafondaio, e la Svizzera per la genetica neutralità), è stato sino ad oggi più che giustificabile, anzi eticamente giusto. Ferma restando l’impavida resistenza degli ucraini, senza l’appoggio in armi, istruzione militare e intelligence della Nato, la campagna russa in Ucraina sarebbe stata poco più di una passeggiata in stivaloni e kalashnikov alla conquista di un territorio destinato a cadere nel giro di poche settimane. Era inaudito lasciare che
il rullo compressore russo stritolasse sotto i suoi cingoli un popolo indifeso senza che nessuno intervenisse per fermarlo.
Ma l’attuale muscolare invio di armi pesanti pone in essere qualcosa di diverso. Da qui in avanti dobbiamo porci qualche onesta domanda.
La prima è: fino a quando saremo pronti a sostenere un’escalation di violenza sul terreno, che – va ricordato – è terreno europeo? Magari questa intensificazione del fuoco amico e nemico accelererà la fine del conflitto, stabilendo vincitori e sconfitti tra montagne di macerie e un numero vergognoso di vittime. E Dio voglia che i primi siano migliori dei secondi. Magari, invece, i tempi di guerra si estenderanno ad libitum, finché ci sarà un proiettile da sparare, da una parte e dall’altra, con fasi cruentissime e fasi a bassa intensità, in uno stillicidio di distruzioni e di morti ancora per molti mesi, forse per anni. La seconda è se questo salto di qualità sul piano degli strumenti di lotta non innesti fatalmente altri salti di qualità, seguendo la logica perversa della messa in campo dell’arma più efficace
per sconfiggere l’avversario. Lo diciamo sottovoce: l’arma più efficace esiste già da tutte e due le parti e si chiama bomba atomica. Chi ci garantisce che nessuno schiaccerà, prima o poi, il pulsante sbagliato?
Ma la domanda più importante è un’altra: siamo sicuri che la via per chiudere questa pessima deriva della contemporaneità sia l’aumento geometrico della potenza di fuoco sul campo? Non stiamo viaggiando in contromano, «in direzione ostinata e contraria» a quella della via maestra per la pace, che è la risoluzione diplomatica dei conflitti? Davvero non si può più tornare a un tavolo con i protagonisti della crisi e i mediatori (immacolati o torbidi che siano) per trovare uno scambio win-win, tipo ritiro definitivo delle truppe russe in cambio del Donbass? Non sarebbe comunque più conveniente per tutti –russi, ucraini, europei – rispetto alle prospettive aperte da un passo che finirà per costare un numero di vittime inimmaginabile sul posto e conseguenze economiche sempre più sciagurate fuori dai campi di battaglia?
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 Cooperativa Migros Ticino
05 ◆ ● G.A.A. 6592 San t’Antonino
edizione
◆
Simona Sala Pagina 3
Thomas Egli
SOCIETÀ
La custodia alternata dei figli Sempre più coppie al momento della separazione scelgono il modello dell’affido congiunto
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Biotecnologia ossea
Sono svariate le sue applicazioni in medicina, a partire dalla cura dell’osteosarcoma pediatrico
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Il fascino del déjà vu
Un fenomeno ancora non del tutto compreso, ce ne parla la psicologa Cinzia Pusterla-Longoni
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La violenza domestica non ha età
Esplorando i tunnel di lava
Le viscere vulcaniche, importanti ambienti primigeni della vita sulla Terra, sono oggetto di molti studi
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Over sessanta ◆ In Svizzera è in corso una ricerca dell’Institut et Haute Ecole de la Santé La Source di Losanna per fare emergere il fenomeno dei maltrattamenti nelle coppie di anziani
La violenza domestica contro le donne anziane è ancora poco conosciuta. Più fragili, spesso sole e dipendenti dal marito o dai figli, subiscono aggressioni fisiche, pressioni psicologiche e ricatti economici. Le over sessanta faticano a cercare aiuto.
All’Institut et Haute Ecole de la Santé La Source (HES-SO) è in corso uno studio nazionale (https://www. ecolelasource.ch/projet-vca/) per favorire una migliore comprensione delle particolarità dei maltrattamenti in età avanzata e delle dinamiche di collaborazione tra professionisti della violenza domestica e dell’invecchiamento. Il percorso si concluderà con una campagna di sensibilizzazione e prevenzione nazionale che sarà diffusa il prossimo autunno. «Azione» ha intervistato in anteprima Delphine Roulet Schwab, psicologa, professoressa alla Haute Ecole de la Santé La Source e presidente di Alter Ego e del Centro di competenza nazionale vecchiaia senza violenza.
Ci sono molte donne anziane vittime di violenza domestica, ma il tema è ancora un tabù e molti casi rimangono invisibili
Delphine Roulet Schwab qual è la percentuale della violenza domestica nelle coppie più anziane? È diversa da quella di altre fasce di età?
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la violenza di coppia colpisce circa il venti per cento delle donne in Europa occidentale, ovvero una su cinque. Nel complesso, in Svizzera, le cifre sono simili. Tuttavia, le statistiche della polizia elvetica mostrano che le persone di età superiore ai sessant’anni sono meno rappresentate tra le vittime di reati e di violenza domestica, rispetto ai gruppi più giovani. Sono anche sottorappresentate nella consultazione dei servizi sanitari in seguito a situazioni di violenza. Questi dati, però, devono essere considerati con cautela e contestualizzati. Le statistiche esistenti si basano esclusivamente sui casi segnalati alle forze dell’ordine e corrispondenti a reati penali: non tengono conto di alcune forme di maltrattamenti e rivelano solo la punta dell’iceberg. Molte situazioni di abusi nelle coppie di anziani rimangono dunque nell’ombra.
Quali sono le dinamiche della violenza domestica tra le coppie più anziane?
Ci sono diverse casistiche. A volte i coniugi sono sposati da molto tem-
po, quaranta, cinquanta, persino sessant’anni e la violenza è sempre stata presente. In altri casi, la violenza di fondo è esacerbata dal passaggio alla pensione o dall’insorgere di problemi di salute. Ci sono situazioni che riguardando coppie che si sono formate tardi, dopo il pensionamento. Spesso, le dinamiche della violenza sono le stesse delle coppie più giovani, con un rapporto di potere e controllo coercitivo. Però, può succedere che ci siano meccanismi diversi, come la stanchezza e il senso di impotenza di fronte a un coniuge malato. Ad esempio, un marito potrebbe chiudere la moglie anziana in casa, quando esce, per isolarla e controllarla meglio. Ma potrebbe farlo anche per evitare che la donna, che soffre di demenza, esca da sola e si perda quando lui è via. In entrambi i casi si tratta di una forma di reclusione, ma le dinamiche relazionali che portano all’atto di violenza non sono le stesse.
contro le donne anziane è ancora tabù
in Svizzera? Se sì, quali sono le ragioni?
Sì, è ancora tabù in Svizzera. Le ragioni sono molteplici. Da un lato, le vittime appartengono spesso a una generazione che ha vissuto in un’epoca in cui era considerato «normale» che il marito decidesse tutto in casa e nella relazione. È una generazione che ha imparato a «lavare i panni sporchi in famiglia». Le vittime più anziane non si riconoscono necessariamente come tali e non sempre desiderano parlare di ciò che stanno vivendo. Inoltre, gli operatori sanitari, sociali e legali tendono talvolta a banalizzare la violenza quando si verifica in una coppia di anziani, dicendo che hanno sempre vissuto così.
In Svizzera, quindi, sono rare le denunce di donne anziane che subiscono violenza domestica?
In Svizzera ci sono molte donne anziane vittime di violenza domestica, come dicevo prima, probabilmente circa il venti per cento. La difficoltà
è che queste situazioni sono invisibili. È raro che vengano denunciate alla polizia o che siano oggetto di procedimenti giudiziari. Inoltre, è stato osservato che le anziane utilizzano molto poco le risorse disponibili in caso di abusi come il ricorso al Servizio per l’aiuto alle vittime di reati (LAV), la consultazione medico-legale, la casa d’accoglienza d’emergenza, ecc. Ciò può essere dovuto al fatto che questi servizi non sono adattati alle loro esigenze e ai vincoli delle persone di una certa età, magari perché le informazioni si trovano su internet. Oppure, forse, si ha paura delle conseguenze, se si cerca aiuto. Da ricordare che nel 2019 è stata istituita la linea telefonica nazionale «vecchiaia senza violenza» al numero 084 8001313. Offre ascolto e consulenza in tre lingue, tedesco, francese, italiano, gratuitamente, in modo confidenziale e senza impegno. Gli operatori sono specializzati nel campo della prevenzione della violenza e hanno competenze anche per la terza età.
Sono, quindi, in grado di fornire aiuto e consulenza adeguate.
Quali sono le possibili soluzioni da introdurre per contrastare il fenomeno?
È importante ricordare agli operatori sanitari, sociali e legali che la violenza domestica non si ferma all’età della pensione. È inoltre necessario sensibilizzare le persone anziane, i loro familiari e il pubblico in generale sul fatto che non è mai troppo tardi per cercare aiuto. Per migliorare la situazione, quest’anno saranno lanciate tre campagne nazionali sul tema degli abusi sugli anziani. Una di queste si concentrerà proprio sulla violenza nelle coppie. Per il progetto, stiamo cercando testimonianze di persone che abbiano subito violenza nelle relazioni dopo i cinquantacinque anni. Chi fosse interessata a contribuire, a partire dalla propria vicenda, in italiano, francese o tedesco, può contattare il team di ricerca all’indirizzo e-mail r.fink@ecolelasource.ch o al telefono 021 5564011.
● ◆ 2 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
La
violenza domestica
Dal 2019 in Svizzera è stata attivata la linea telefonica nazionale «vecchiaia senza violenza» e quest’anno saranno lanciate tre campagne di sensibilizzazione dedicate al tema degli abusi sugli anziani. (Keystone)
Stefania Prandi
Che gioia aiutare anche solo con un piccolo gesto
Croce
Stefania Hubmann
Un corso di formazione che racconta storie di vita. Storie che da oltre sessant’anni coincidono in gran parte con la rinascita professionale e umana dei rispettivi protagonisti. Al centro di questo percorso le figure di collaboratrice e collaboratore sanitario formati secondo il programma di Croce Rossa Svizzera. L’organizzazione assicura anche nel nostro cantone diverse tipologie di corsi, seguiti nel 2021 da oltre duemila partecipanti, a favore di una maggiore qualità di vita. Il ricco programma 2023 comprende proposte per il pubblico, programmi di formazione continua in ambito sanitario elaborati anche su richiesta e formazione di base con particolare attenzione alle fasce più vulnerabili della società. A questo livello da 65 anni in Svizzera e da 61 in Ticino il Corso di collaboratrice e collaboratore sanitario rappresenta una solida base per accedere al settore delle cure e dell’assistenza. Base dalla quale, come confermano due delle testimonianze raccolte fra i corsisti degli anni scorsi, si possono approfondire le proprie conoscenze professionali ed evolvere in un settore sempre alla ricerca di personale.
Da ricordare, innanzitutto, che fino a pochi decenni fa in Ticino la formazione di chi operava nel campo sanitario era affidata proprio a Croce Rossa Svizzera (CRS) che si occupava di formare anche infermiere e infermieri. Oggi la formazione professionale cantonale offre molteplici percorsi in questo settore, rendendo un po’ meno valorizzato il corso di collaboratrice e collaboratore sanitario (CS) di Croce Rossa Ticino rispetto al resto del Paese. Eppure i dati confermano l’interesse crescente anche nel nostro cantone per questa prima formazione dal marcato valore psicosociale e di reintegrazione professionale. Il principale sbocco lavorativo è rappresentato dalle case per anziani, ma possibilità di impiego sussistono pure negli istituti per disabili e nei centri di riabilitazione. Lo scorso anno sono stati organizzati in diverse sedi su tutto il territorio cantonale 14 corsi con un totale di 128 iscritti, entrambi i dati in aumento rispetto agli anni precedenti. Nel 2023 i primi posti disponibili sono quelli del corso che inizierà ad agosto. In generale si formano liste d’attesa; la precedenza è data a chi vive sul territorio.
Secondo i dati nazionali degli ultimi quattro anni, circa il 90 per cento dei partecipanti è di genere femminile con un’età media di 41-42 anni. In larga maggioranza si tratta di persone di nazionalità straniera con permesso di soggiorno B o C. Il Settore Corsi di Croce Rossa Ticino con sede a Chiasso – dove abbiamo incon-
trato la coordinatrice Silvia Arrighi e Francesca Pittaluga, responsabile della formazione – sta promuovendo una raccolta dati cantonale per disporre di indicazioni mirate su coloro che effettuano la formazione in Ticino.
L’anno scorso in Ticino sono stati organizzati 14 corsi con 128 iscritti, il principale sbocco lavorativo è rappresentato dalle case per anziani ma ci sono impieghi anche negli istituti per disabili e nei centri di riabilitazione
«Anche nei nostri corsi – spiegano le rappresentanti dell’organizzazione –constatiamo comunque una predominanza di donne di nazionalità straniera. Le loro esperienze di vita sono una ricchezza che il corso valorizza, adeguando la modalità della formazione al target dei partecipanti». Certificato con il label di qualità svizzero eduQua, il corso CS è oggi una formazione teorica e pratica che assicura l’acquisizione di competenze specifiche a chi desidera collaborare alle cure infermieristiche all’interno di équipe assistenziali. Precisano le nostre interlocutrici: «Il corso si compone di 120 ore in aula e quattro settimane di stage in una casa per anziani. La didattica viene regolarmente aggiorna-
Carlo Silini (redattore responsabile)
ta a livello nazionale e proprio a partire da quest’anno è a disposizione un nuovo manuale».
Il corso è esigente in termini di impegno personale e di studio. Le soddisfazioni però non mancano, come dimostra la storia di Csilla e Aurel, coppia di origine rumena attorno ai quarant’anni che ha completato la formazione all’inizio del 2020. «Siamo grati a Croce Rossa Ticino per questa opportunità – spiegano i coniugi – perché siamo stati accolti bene, beneficiando dell’insegnamento di una docente particolarmente brava nello spiegare i bisogni delle persone anziane. Lavoriamo nella casa per anziani di Chiasso, dove ci troviamo pure molto bene. Per crescere professionalmente, stiamo ora frequentando il corso cantonale di assistente di cura». Il grande impegno umano ed economico ha quindi portato i suoi frutti. «Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo di lavorare in campo sanitario – proseguono moglie e marito. A fine giornata siamo soddisfatti di aver potuto aiutare le persone anche solo con un piccolo gesto, di aver dato del nostro per il bene degli altri. Questo lavoro richiede passione, pazienza e capacità di lavorare all’interno di una squadra».
Quella di Simona è invece una storia di vita ticinese che parte da altri presupposti, sfociando però nel medesimo senso di appagamento al ter-
mine del corso. Di professione impiegata di commercio, la donna si ritrova a lungo immersa nella realtà ospedaliera a causa di una grave malattia del marito. In questo periodo, fortunatamente ora alle spalle, matura l’idea di una riqualifica professionale essendo ultracinquantenne e disoccupata. Racconta Simona: «Il corso CS, che ho terminato lo scorso dicembre, è stata un’esperienza arricchente da tutti i punti di vista: dalla capacità della docente di stimolare il ragionamento agli argomenti trattati, all’aspetto umano. Fra i temi approfonditi, la comunicazione ha catturato la mia attenzione; durante lo stage ho potuto constatare il ruolo che gioca nella relazione con le persone anziane». Come ha vissuto questo periodo di pratica? «Lo stage è essenziale per rendersi conto della realtà nella quale vanno applicate le conoscenze acquisite nelle lezioni teoriche. Non è sempre facile, soprattutto all’inizio, ma anche a questo livello ho trovato un’ottima accoglienza».
C’è però anche chi in casa per anziani è entrato per un certo periodo quale fattorino, decidendo poi di seguire la formazione di collaboratore sanitario proprio perché attratto dalle relazioni umane che caratterizzano questo ambiente di vita e lavoro. Quest’ultima storia la raccontano Silvia Arrighi e Francesca Pittaluga quale esempio di positivo risultato del
Chi intraprende la formazione dovrà anche fare uno stage di quattro settimane in una casa per anziani. (CRS)
colloquio che fa parte della procedura di iscrizione. «Per essere ammessi al corso CS, riservato ai maggiorenni – precisano le nostre interlocutrici – sono necessarie buone conoscenze della lingua italiana, competenze digitali di base, motivazione e interesse per un’attività che prevede la cura quotidiana di persone anziane o disabili. Chi ha dei dubbi può frequentare uno stage osservativo di una settimana». I partecipanti sono infatti sostenuti il più possibile nel loro percorso con un affiancamento costante da parte sia del formatore sia del personale del Settore Corsi.
Se un tempo negli istituti di cura la maggior parte del personale proveniva da una formazione di Croce Rossa Svizzera, oggi il panorama è più variato, ma il corso CS costituisce una formazione presente ancora nella misura di circa il 30 per cento. «Tutti possono essere utili – concludono le intervistate – anche in una realtà sanitaria con figure sempre più qualificate e specializzate». Iniziato negli anni Sessanta con 60 ore di lezione, oggi raddoppiate e in sintonia con le possibili ulteriori formazioni, questo corso ha saputo adeguarsi all’evoluzione delle conoscenze professionali e dei bisogni della società, conservando così il suo valore.
Informazioni www.crs-corsiti.ch
● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3 azione Settimanale edito da Migros Ticino Fondato nel 1938 Abbonamenti e cambio indirizzi tel +41 91 850 82 31 lu–ve 9.00 –11.00 / 14.00 –16.00 registro.soci@migrosticino.ch Costi di abbonamento annuo Svizzera Fr. 48.– / Estero a partire da Fr. 70.–
Barbara Manzoni Manuela Mazzi Romina Borla Natascha Fioretti Ivan Leoni Sede Via Pretorio 11 CH-6900 Lugano (TI) Telefono tel + 41 91 922 77 40 fax + 41 91 923 18 89 Indirizzo postale Redazione Azione CP 1055 CH-6901 Lugano Posta elettronica info@azione.ch societa@azione.ch tempolibero@azione.ch attualita@azione.ch cultura@azione.ch Pubblicità Migros Ticino Reparto pubblicità CH-6592 S. Antonino tel +41 91 850 82 91 fax +41 91 850 84 00 pubblicita@migrosticino.ch Editore e amministrazione Cooperativa Migros Ticino CP, 6592 S. Antonino tel +41 91 850 81 11 Stampa Centro Stampa Ticino SA Via Industria – 6933 Muzzano Tiratura 101’177 copie ●
Redazione
Simona Sala
Rossa Svizzera ◆ Compiono 65 anni i corsi per diventare collaboratrice e collaboratore sanitario: un’opportunità di reintegrazione professionale ad alto valore sociale
Una classica prelibatezza
Attualità ◆ Grazie alla sua carne gustosa e tenera, l’arrosto di collo di maiale convince tutti i gourmet
L’arrosto della domenica, un tempo un grande classico che riuniva settimanalmente tutta la famiglia attorno al tavolo, negli ultimi anni è tornato molto in auge. Cucinato con cura e pazienza per renderlo sapido e tenero al punto giusto, questo piatto della tradizione non deluderà mai nessuno. La carne di maiale, morbida e di grana fine, è particolarmente indicata per la preparazione di succulenti arrosti. Soprattutto se si sceglie un taglio dove il rapporto tra carne e grasso è ben bilanciato, come il collo, pezzo particolarmente apprezzato anche in salumeria per la preparazione della coppa, salume immancabile in un tagliere misto.
La carne di maiale svizzera venduta alla Migros proviene principalmente da animali allevati secondo gli standard IP-SUISSE che assicurano un allevamento particolarmente rispettoso della specie. I suini sono tenuti in gruppo e possono uscire all’aria aperta regolarmente. Possono contare su una superficie maggiore e viene messo loro a disposizione del materiale che permetta di esprimere il loro comportamento naturale, come per esempio una lettiera con ramaglia o cippato.
L’arte di affettare
Oltre a una carne di prima qualità e una cottura lenta, per gustare appieno un buon arrosto è importante anche affettarlo in modo corretto, al fine di ottenere un piatto succulento e invitante da mangiare anche con gli occhi. Un altro aspetto da non trascurare è quello di lasciar riposare la carne dopo la cottura per una decina di minuti, in questo modo i succhi possono distribuirsi in modo uniforme all’interno del taglio. Meglio ancora se avvolto in un foglio di alluminio. Disporre
quindi la carne su un tagliere e affettarla di traverso (perpendicolarmente) rispetto al senso delle fibre, altrimenti risulterebbe dura. Evitare di bucare la carne per non disperdere troppo succo. Tagliare le fette dello stesso spessore, in linea di massima più sottili nel caso di arrosti e brasati e più spesse se si tratta di tagli più teneri. Infine, per una cottura perfetta, l’arrosto di maiale dovrebbe avere una temperatura interna di ca. 75°C.
Quasi come in Puglia
La ricetta Arrosto di collo di maiale con salsa di pere e cipolle
Ingredienti per 4 persone
• 1,2 kg di collo di maiale
• 1 cucchiaio di zucchero
• 1 cucchiaio di sale
• 1 cucchiaio di paprica dolce
• 1 cucchiaino di peperoncino di Caienna granulato
• 6 cucchiai d’olio d’oliva
• 3 piccole cipolle rosse
• 4 pere, ad es. Kaiser
• 2 cucchiai di miele
• 2 cucchiai di salsa di soia
• 2 cucchiai d’aceto alle erbe
• 2,5 dl di vino bianco
Come procedere Scaldate il forno statico a 250°C. Mescolate le spezie con metà dell’olio. Strofinate la carne con questa marinata. Scaldate l’olio rimanente in un tegame. Unite la carne e rosolatela in forno da ogni lato per ca. 10 minuti. Riducete la temperatura del forno a 180°C. Tagliate le cipolle a fette. Dimezzate le pere ed eliminate il torsolo. Unite pere e cipolle alla carne. Mescolate il miele con la salsa di soia, l’aceto e il vino. Di tanto in tanto bagnate la carne, le pere e le cipolle con questa salsa. Fate cuocere per ca. 90 minuti fino a raggiungere una temperatura di 75°C al cuore della carne. A metà cottura, riducete la temperatura a 160°C. Servite l’arrosto con le pere, le cipolle brasate e la salsa. Si sposa a meraviglia con il risotto.
Attualità ◆ Le orecchiette con le cime di rapa sono una specialità originaria della bellissima regione del Sud Italia. Gli ingredienti per preparare il gustoso piatto questa settimana li trovate alla Migros ad un prezzo particolarmente vantaggioso
Azione 20%
Voglia di gustare a casa propria gli autentici sapori dell’Italia meridionale? In questo caso ci vogliono gli ingredienti giusti tipici delle regioni che si affacciano sul Mediterraneo. Alla Migros è disponibile una vastissima scelta di specialità originarie del sud, tra cui per esempio quelle per preparare uno dei piatti pugliesi più amati e rappresentativi, le orecchiette con le cime di rapa. Secondo alcuni storici dell’alimentazione, questo tipo di pasta sarebbe stato introdotto nel Sud Italia dalla Provenza, nel XIII secolo, dagli Angioini. La particolare e graziosa forma concava a mo’ di «piccole orecchie» permette di trattenere meglio i condimenti e trasformare ogni boccone in un’esperienza culinaria straordinaria. Le orecchiette sono una delizia non solo con le cime di rapa, ma si prestano bene anche per essere servite con sughi a base di panna o pomodoro, pesce, pancetta, prosciutto, ricotta, polpettine o altre verdure. Per ottenere un piatto dal sapore inconfondibile, la regola vuole che le cime di rapa vengano cotte insieme alla pasta. Preparate un soffritto a base di olio, qualche filetto d’acciuga sott’olio e uno spicchio d’aglio e mettete
da parte. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata e, tre minuti prima del termine di cottura, aggiungete le cime di rapa fresche lavate e
Orecchiette fresche
Garofalo, 400 g Fr. 3.95 invece di 4.95 (a partire da 2 pezzi)
Azione 25%
Cime di rapa, Italia, 400 g Fr. 2.95 invece di 3.95
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
mondate. Scolate per bene, unite la pasta e le cime di rapa al soffritto e fate saltare il tutto per qualche minuto. Servite ben caldo.
valide dal 31.1 al 6.2.2023
Azioni
Azione 30% Arrosto collo di maiale IP-SUISSE Per 100 g Fr. 1.30 invece di 1.90 dal 31.1 al 6.2.2023
Un carnevale tutto da gustare
Attualità ◆ Le mitiche frittelle di carnevale Migros sono una specialità imprescindibile durante il periodo carnascialesco
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Sono oltre 20 milioni le frittelle di carnevale prodotte ogni anno dall’azienda del gruppo Migros Midor/ Delica a Meilen, sul lago di Zurigo. Queste croccanti delizie sono preparate ancora oggi seguendo la ricetta originale del lontano 1935, utilizzando semplici e genuini ingredienti come farina, uova, sale, yogurt, un goccio di kirsch e zucchero al velo per cospargere la superficie. I batteri lattici presenti nello yogurt agiscono sul processo di riposo del preimpasto e permettono di migliorare la struttura e il gusto delle frittelle. L’unico cambiamento alla ricetta riguarda l’olio di frittura, che nel 2004 è passato dall’olio di semi a quello di girasole.
Una delle fasi più delicate nel processo produttivo è legata alla temperatura dell’olio di frittura, che deve essere sempre mantenuta a 200 gradi duran-
Frittelle
te la cottura, altrimenti le frittelle risulterebbero o troppo scure, rispettivamente troppo chiare. Le tipiche bolle presenti sulla superficie delle frittelle sono date da uno speciale rullo che fora i tondi di pasta prima di essere fritti nell’olio. La vendita di queste specialità inizia già alla fine di dicembre e si protrae fino al Mercoledì delle Ceneri, che quest’anno cade il 22 febbraio. Oltre alle frittelle di carnevale nella forma classica, alla Migros è disponibile anche la variante mini. Inoltre, come consuetudine, l’assortimento è completato da altre tradizionali bontà carnevalesche, tra cui le Merveilles, i Discoletti, le Chiacchiere senza glutine, le Riccioline, i Pettegolezzi di Colombina, i Galani dei Dogi, le Bugie zuccherate e le Lattughelle ai grani antichi. Insomma, nessuno resterà a mani vuote.
La grande febbre da stampini dell’anniversario
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Nuovi modelli di separazione
Famiglia ◆ Anche in Ticino sempre più coppie quando si dividono scelgono la custodia alternata dei figli
Laura Di Corcia
Quando una coppia decide di separarsi, si rompe sempre un equilibrio. Se poi il nucleo familiare è composto anche da figli e figlie, la questione diventa delicata e per certi versi anche problematica. Come organizzare il tempo da passare con i bambini? Quanti weekend al mese? E le feste?
Lo scopo della custodia alternata o affido condiviso è quello di non sconvolgere la quotidianità dei figli e favorire la bigenitorialità
Ultimamente anche in Ticino si sta diffondendo un modello diverso e alternativo rispetto al classico copione che prevede che siano le madri ad occuparsi quasi sempre dei bambini, con piccole parentesi in cui i padri possono o devono prendersene la responsabilità. Il nuovo modello si chiama custodia alternata ed entra in gioco quando le quote di accudimento di entrambi i genitori sono di principio paritarie; rappresenta sicuramente un cambio di paradigma rispetto a quanto siamo stati abituati e abituate a considerare fino ad oggi, eppure è un’opzione sempre più concreta. «La custodia alternata non è ancora il metodo più diffuso, ma è probabile che lo diventerà sempre di più», conferma l’avvocato Riccardo Viganò, spiegando che dopo la riforma legislativa entrata in vigore nel 2017 e che adesso è in fase di aggiornamento, questo modello viene inteso come prima ipotesi di lavoro da un giudice o da un’autorità in caso di richiesta. «Questo vuol dire che se una delle parti lo chiede, e può essere anche il figlio se ha l’età per esprimere la propria volontà, il giudice è tenuto a valutare se ci sono i presupposti per organizzare una custodia alternata». Un sistema diverso rispetto alla formula più conosciuta, che vedeva il figlio affidato a un solo genitore, mentre all’altro – di solito il papà – spettavano un giorno a settimana e un weekend ogni due. «Oggi sempre più mamme lavorano, la distinzione dei ruoli è superata e quindi questo schema sembra inadatto. Per superarlo, il giudice non affida più il figlio a un solo genitore, ma ad entrambi». A questo punto bisogna stabilire una chiave di ripartizione, una percentuale. «Di solito si decide per un 50 per cento a testa. Bisogna però
Lo shopping dei ventenni
Consumi ◆ Nella scelta degli acquisti i giovani della Generazione Z sono svegli, complicati, con pochi soldi ma interessi costosi
Marzio Minoli
stabilire come tradurre concretamente questa regola: una settimana con la mamma e una con il papà? Un giorno con la mamma e uno con il papà?
Lo scopo è quello di non sconvolgere la quotidianità dei figli, che mantengano il più possibile le abitudini che avevano prima della separazione».
In Ticino c’è anche chi ha intrapreso questa strada con convinzione, pur fra le difficoltà che essa presenta.
Sara (nome di fantasia) si è separata da suo marito perché, sebbene funzionassero molto bene come coppia genitoriale, avevano perso un po’ di smalto nella loro vita a due. «Siamo stati sempre rispettosi l’uno dell’altra, mettendo i bambini al centro dell’attenzione sin dall’inizio della relazione – spiega Sara – Abbiamo messo al mondo tre figli donando loro un ambiente sano e armonioso, ma a un certo punto gli anni passavano e abbiamo capito che non esistevamo più come coppia». Capita a tanti: ma la peculiarità di questa storia riguarda la decisione di come vivere il futuro come famiglia. «Una volta decisa la separazione, ci siamo dovuti sedere intorno a un tavolo per decidere quale struttura, quale contesto di vita dare ai nostri figli. Nell’arco di poco tempo, durato al massimo due o tre mesi, siamo quindi riusciti a mettere i paletti di quella che adesso è la nostra vita». Un periodo che Sara ricorda come doloroso, ma che ha permesso di capire quasi subito che la direzione da prendere fosse quella di un affido congiunto, dove la custodia dei figli fosse ripartita al 50 per cento fra i due coniugi. «La nostra organizzazione familiare non è cambiata granché – aggiunge Sara – giacché già prima lavoravamo a metà tempo, facendo in modo che uno dei due fosse sempre presente con i bambini. Al momento della separazione, nessuno di noi voleva perdere il legame con i bambini e nessuno voleva che nella loro vita un genitore scomparisse o fosse presente solo saltuariamente».
A questo punto bisognava decidere: prendere due case distinte e costringere i figli a continui traslochi?
A Sara e all’ex marito questa scelta sembrava troppo onerosa per i bambini. «Abbiamo scelto il modello chiamato “nido familiare”. I nostri figli, quindi, sono rimasti nella casa familiare di proprietà e siamo noi a spostarci dai nostri piccoli appar-
tamenti in affitto a quella. Abbiamo fatto questa scelta per preservare loro, ma anche il genitore che sarebbe dovuto uscire da quello che per anni era stato il suo ambiente, un luogo di affetto e dove ci sono le radici». Un modello che non può durare per sempre, e Sara ne è consapevole, ma che per il momento funziona. «Per ora c’è un equilibrio più che ottimale. I ragazzi sono contenti di non essersi dovuti spostare e come famiglia abbiamo ancora dei momenti in comune, tutti insieme, come il caffè, la colazione o il pranzo quando “ci diamo il cambio”. Non siamo più una coppia, ma siamo ancora i genitori: festeggiamo il Natale insieme, facciamo i regali insieme e prendiamo decisioni insieme». Qualcosa da sacrificare c’è? «La decisione, in effetti, è stata incentrata sui figli, per il loro bene. Personalmente, però, non lo vivo come un sacrificio. Ho due spazi che posso investire in modo diverso, una vita che mi dà movimento; non so se ce la farei a tornare in una casa sola». Certamente questa è una strada percorribile solo se la separazione è stata gestita con cura, se sono state superate rabbie e incomprensioni. «Fra di noi c’è sempre stato molto rispetto, che abbiamo portato con noi anche dopo esserci lasciati. Non siamo amici, non ci raccontiamo cose che riguardano la nostra sfera intima, ma non potrei mai non rispettare il padre dei miei figli: so che li ferirei terribilmente». Una scelta forse per persone benestanti? «Non navighiamo nell’oro, siamo due persone normali che per giunta lavorano a metà tempo. Anche prendere in affitto due appartamenti con le stanze per i figli sarebbe stato oneroso. Mi piacerebbe che le persone prendessero in considerazione nuovi modi di separarsi, diversi da quelli canonici».
Ma quanto è diffusa in Svizzera la custodia alternata? Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica, che risalgono al 2020, in tutta la Svizzera l’affido esclusivo a un solo genitore, il modello tradizionale, riguarda ancora almeno l’85 per cento dei casi. «Ma come esperienza personale – conclude l’avvocato Viganò – posso dire che negli ultimi anni la custodia alternata è sempre più frequente. Se ne parla sempre di più, i genitori sono più informati e la valutano come ipotesi concreta».
Si chiamano Generazione Z, e sono nati tra il 1997 e il 2012. Hanno una particolarità: non conoscono il mondo senza internet. Infatti, il primo sito internet, ufficialmente, è stato creato il 6 agosto 1991. La loro condizione dunque presuppone che non abbiano nessuno che possa insegnare loro come muoversi nel mondo digitale. Sono soli in questa sfida. Si tratta quindi di giovani che al massimo, oggi, hanno 25-26 anni. Se tutto va bene sono entrati nel mondo del lavoro da poco tempo, e difficilmente hanno già posizioni di rilievo all’interno delle organizzazioni nelle quali sono impiegati. Di conseguenza anche il loro salario è consono a questa posizione anche se la loro fortuna è stata quella di entrare in un mercato del lavoro tutto sommato ristretto, che ha spinto verso l’alto questi salari. Almeno fino all’arrivo del Covid-19. Una catastrofe che ha fomentato un pessimismo di fondo. Uno studio della società di consulenza McKinsey rivela che un quarto di loro dubita che possano arrivare alla pensione così come la conosciamo oggi, e metà di loro vede difficile poter possedere una casa. Una condizione che li porta a dare un grande valore ai soldi. Quando spende, la Generazione Z cerca autenticità, qualità. Come detto non conoscono il mondo senza internet, quindi per loro lo shopping online è la normalità, non una novità. E hanno imparato a cercare, confrontare le offerte, in modo facile, stando seduti sul divano. Conoscono le insidie della rete e non si lasciano abbagliare facilmente. Il loro «navigare» è contraddistinto da un sentimento che in molti, soprattutto le generazioni precedenti, hanno dimenticato: lo scetticismo.
Il Covid-19, tra le conseguenze che ancora presenta, mostra il fatto che questa generazione è portata a spendere in modo compulsivo, per avere una sorta di risarcimento per gli anni passati praticamente in casa. Ma le loro risorse economiche sono ancora limitate. Alla loro età i Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) o i Boomers (dal 1945 al 1964) avevano più soldi in tasca. La conseguenza è che molti ventenni acquistano beni e servizi non pagandoli immediatamente. Questo grazie anche alle innumerevoli applicazioni informatiche che facilitano l’accesso a questa forma di shopping a rate, visto che le carte di credito hanno stretto i bulloni sui criteri di concessione. Insomma, compra oggi, paga domani. Sempre secondo McKinsey sarebbero il 43% i giovani europei che nei prossimi tre mesi acquisteranno in questo modo, mentre l’83% dei Boomers dicono un secco no a quello che viene definito «sperpero».
Lo abbiamo detto. Per i Genzers lo shopping è soprattutto online, specialmente tramite lo smartphone, dove tutto è più immediato. Il termine e-commerce è diventato quasi obsoleto. Oggi si parla di always-on purchaser, tradotto si potrebbe dire «consumatori sempre presenti». Cosa significa? Vuol dire che tramite i social media, in special modo Instagram e TikTok si è sempre esposti a pubblicità. Quelle delle aziende tradizionali, ma anche di nuovi marchi, nati nella rete. I social, dunque, sono il miglior veicolo di pubblicità e sono in molti a effettuare acquisti direttamente tramite questi canali.
L’immagine che traspare da questo ritratto dei Genzers potrebbe essere quello di una generazione alienata, vittima del mondo digitale. Forse, ma potremmo dire che non sono molto diversi da chi, quarant’anni fa, rimaneva incollato davanti alla televisione, ammaliato da quanto vedeva, soprattutto con l’arrivo delle tv commerciali, che vivono di pubblicità. La differenza con quanto succede oggi è però enorme. La fruizione della tv, della pubblicità, visto che si parla di shopping, è passiva. La si subisce. Oggi i giovani ricevono molti stimoli pubblicitari sui loro smartphone, ma verificano la bontà di questi annunci. La società di pubbliche relazioni Edelman ha stabilito che sette giovani su dieci, in sei Paesi diversi controllano effettivamente la veridicità degli annunci pubblicitari. E cosa controllano? Soprattutto se le aziende, i prodotti, rispettano valori etici e di sostenibilità, elementi molto importanti per i Genzers quando si tratta di scegliere cosa acquistare. Anche qui i dati sono impietosi. Sempre McKinsey ci dice che da ottobre 2022 nove su dieci tra Generazione Z e Millennials nei tre mesi precedenti hanno cambiato luoghi o marchi con i quali effettuavano acquisti.
Ma alla fine, cosa acquistano i Genzers? Ebbene sono orientati verso prodotti per il benessere e su quelli di lusso. Cose che una volta erano ritenute quasi superflue oggi sono diventate essenziali. Già a 15 anni si inizia ad acquistare prodotti di marca. Come mai? Perché l’ottica è quella di voler dare valore all’acquisto. Qualità, non quantità. Marchi prestigiosi che possono essere acquistati anche di seconda mano, tramite le molte piattaforme specializzate.
I Generazione Z sono consumatori molto attenti al valore dei soldi, ai valori etici. Non sono facili da abbindolare, fanno confronti e sono critici. Ma soprattutto, rappresentano il futuro del commercio. Insomma, le aziende sono avvertite.
6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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I Genzers fanno acquisti soprattutto online tramite smartphone. (Pexels.com)
Proviene da una mucca l’osso «intelligente»
Ricerca ◆ La nuova frontiera della medicina rigenerativa passa dall’ingegneria di tessuti viventi
Maria Grazia Buletti
«Si parte dalle ossa di mucca (molto simili per morfologia a quelle umane) che vengono sottoposte a un processo di pulizia e a uno di arricchimento per ottenere un prodotto solido osseo del tutto simile e compatibile a quello umano per caratteristiche meccaniche, biologiche e fisiologiche» spiega l’ingegnere chimico Gianni Pertici. «Segue un “arricchimento” che consiste nell’aggiunta di proteine e polimeri degradabili. Le proteine favoriscono l’attecchimento dell’impianto osseo perché fungono da “colla” con i tessuti ossei del paziente e favoriscono il flusso di cellule ematiche con la perfusione sanguigna da cui inizia il processo di guarigione. Le materie plastiche (polimeri degradabili) sono utili per il mantenimento volumetrico nelle prime settimane dell’impianto di osso artificiale: ben tollerate dall’organismo, vengono poi trasformate in acqua e riassorbite dal corpo». Partire «dalle ossa di mucca» e arrivare alla produzione di un osso artificiale (definito pure intelligente!) è cosa davvero inconsueta, ma è quanto ci illustra l’ingegnere chimico Gianni Pertici disponendo sul tavolo alcuni cubetti e parallelepipedi di diverse dimensioni, a rappresentare la nuova frontiera della medicina rigenerativa sotto forma di «materiale osseo artificiale biocompatibile». Per l’appunto: una sorta di osso «intelligente» prodotto dalla giovane e dinamica azienda da lui fondata la cui sede è a Mezzovico, nel nostro Cantone.
Il materiale biocompatibile è in grado di integrarsi perfettamente all’interno del corpo del paziente
Da qui prosegue: «La nostra ricerca nello sviluppo e nella produzione di dispositivi medici per l’ingegneria di tessuti viventi e per la medicina rigenerativa riteniamo rappresenti il futuro in campo medico». Questo materiale biocompatibile è in grado di integrarsi perfettamente all’interno del corpo del paziente, «offrendo dei sostituti ossei molto resistenti
e col grande pregio di diventare, col passare del tempo, un elemento naturalmente accettato dal corpo di chi li riceve».
Per i più svariati campi di applicazione la posta in gioco nell’ambito medico chirurgico è molto alta, a cominciare dall’oncologia pediatrica per la quale, ad oggi, spesso non ci sono altre alternative o soluzioni: «Gli osteosarcomi (ndr : carcinomi molto aggressivi) colpiscono spesso gli arti
inferiori e sono caratterizzati da una rapida propagazione. La soluzione terapeutica fino a oggi prospettata contemplava l’amputazione dell’arto, per il fatto che le protesi in titanio non sono adattabili e modulabili alla crescita del bambino».
Per questo, ora l’unica prospettiva davvero interessante diventa l’integrazione di questo osso artificiale: «Viene inglobato dal tessuto osseo sano del paziente e favorisce la rigene-
razione ossea della parte lesa». Numerose le ulteriori applicazioni nella chirurgia maxillofacciale, nell’ambito dentale, ortopedico, nella chirurgia spinale e via dicendo: «Una soluzione sempre più performante e personalizzata a ogni paziente per le lesioni traumatiche al braccio o al polso, le ricostruzioni della cresta iliaca (ndr : del bacino), le osteotomie del femore e della tibia, la ricostruzione del plateau tibiale e di caviglie e piedi, le ricostruzioni della colonna vertebrale e di ossa prossimali delle articolazioni».
Età, stile di vita sano, metabolismo osseo e livelli di vitamina D sono fattori imprescindibili per ottenere un’ottimale rigenerazione ossea attraverso questa tecnologia
Osservando questi durissimi blocchetti di osso artificiale, pare quasi impossibile siano di così grande utilità nella medicina umana, anche per il fatto che, ricorda Pertici: «Questo osso artificiale è meglio tollerato rispetto agli innesti ossei autologhi o allogenici perché non comporta il rischio di trasmissione di malattie o di rigetto, e risponde in modo eccellente all’esigenza di promuovere migrazione, proliferazione e differenziazione delle cellule ossee, e per la loro conseguente rigenerazione».
La produzione di questi ossi artificiali e la relativa procedura chirurgica sono sovente adattate e individualizzate a ciascun paziente secondo ogni caso specifico, esigenza clinica, distretto anatomico interessato, età, sesso e via dicendo. In tal modo, tutti i tipi di chirurgia di rigenerazione ossea sono accomunati da alcuni elementi chiave di intervento: «Accesso al sito, pulizia dell’osso ricevente e preparazione per l’innesto osseo (ad esempio, con l’aumento della vascolarizzazione a favorirne attecchimento e guarigione), rimozione dell’eventuale tessuto malato (come per l’osteosarcoma), e chiusura accurata
del sito chirurgico per evitare tensioni sull’innesto».
Il futuro abbraccia quindi già il presente della nuova frontiera di medicina rigenerativa che passa dallo sviluppo di tessuti viventi artificiali avvalendosi della collaborazione fra ricerca e chirurgia sempre più all’avanguardia, sotto l’egida della collaborazione interdisciplinare: «Un esempio su tutti riguarda proprio l’oncologia chirurgica che noi affianchiamo a partire dalla TAC del paziente nella quale è analizzato il suo tipo specifico di tumore, mentre con lo staff medico si decidono i tagli sulla base dei quali il nostro ingegnere progetta il pezzo su misura che presenta delle cosiddette “guide di taglio” studiate sulla base dell’anatomia di quel paziente. Quindi, con l’intervento, il chirurgo seguirà queste guide chirurgiche: asporta il tumore e il tessuto circostante, sostituendo infine ciò che manca con il blocco prefabbricato su misura».
Le elevate prestazioni meccaniche, l’alta idrofilicità e la grande integrazione tissutale devono fare i conti con una serie di fattori del paziente che vanno a incidere parecchio sul risultato: «Età, stile di vita sano, metabolismo osseo e livelli di vitamina D sono fattori imprescindibili per ottenere quella rigenerazione ossea che, seppur all’avanguardia e altamente affidabile, la tecnologia rigenerativa da sola non potrebbe certamente assicurare».
Un esempio, quello di Gianni Pertici, di come la curiosità sia il motore della ricerca e soprattutto dei suoi risultati: «Da ricercatore universitario, dopo la mia laurea fui colpito dal caso di un ragazzo curato da mio zio chirurgo orale, che con un incidente automobilistico frontale aveva perso gli incisivi. Per ricostruire la sua mascella gli fecero il prelievo dalla sua stessa cresta iliaca». Questa fu la scintilla che diede il via ai suoi studi sulla rigenerazione ossea alla ricerca di «qualcosa di innovativo». Che oggi, grazie alla collaborazione in ambito medico, è una realtà a beneficio di molti pazienti.
Premiati dieci progetti di vicinato in tutta la Svizzera
Società ◆ Tra i riconoscimenti che prevedono importi fino a CHF 50’000 nell’ambito del progetto
#iniziativadivicinato del Percento culturale Migros, ben tre sono ticinesi
Per la prima volta il Percento culturale Migros assegna dei soldi attraverso un voto pubblico. Delle sessanta candidature pervenute nell’ambito del concorso – anticipato su «Azione» il 2 gennaio – per la presentazione di idee di progetti volti a promuovere in modo duraturo la buona convivenza tra vicini, una giuria ha selezionato 14 progetti sottoponendoli a una votazione pubblica. Tra il 9 e il 22 gennaio 2023 sono pervenuti ben 8’933 voti da tutta la Svizzera. I 10 progetti più votati, di cui ben tre ticinesi, riceveranno un sostegno del Percento culturale Migros fino a CHF 50’000. L’ammontare del sostegno è proporzionale al preventivo dei progetti. Hedy Graber, responsabile della Direzione società e cultura della Federazione cooperative Migros, ha affermato: «Mi rallegro del fatto che tante persone abbiano colto l’occasione per votare il loro progetto del cuore, prendendo così parte all’impegno sociale di Migros».
Per il Ticino sono state premiate l’Associazione «Il Circolo di Bedigliora», che intende ridare vita al villaggio creando un luogo aggregativo in cui leggere, giocare a carte, fare musica e riceverà CHF 18’000, l’associazione «Amélie» di Pregassona, che dal 2021 offre attività e corsi per la so-
cializzazione e l’integrazione, coinvolgendo ben 500 persone, e riceverà CHF 50’000, e infine l’Associazione «COSCOL» di Beride, che da oltre vent’anni offre incontri in una vecchia stalla salvata dalla demolizione, e riceverà CHF 50’000. Questo concorso di idee è parte
integrante dell’iniziativa di vicinato lanciata nell’agosto del 2022 con lo studio dell’Istituto Gottlieb Duttweiler «Gentile vicino/a» (v. «Azione» 1. Agosto 2022). Lo studio aveva messo in evidenza come un terzo della popolazione vorrebbe più occasioni e luoghi di incontro. Per assecondare un desiderio aggregativo che non può che fare bene alla società, il Percento culturale Migros ha dato il via a una serie di iniziative inaugurate con un premio di CHF 500 a piccoli progetti di vicinato cui è seguito il concorso di cui sopra. In futuro sono previste ulteriori iniziative, tra cui una sorpresa nel mese di maggio.
• Basilea: progetto Allschwilerplatz, RegioFrisch GmbH, CHF 48’000.
• Bedigliora: un nuovo punto di incontro, «Il Circolo di Bedigliora», CHF 18’000.
• Beride: protezione dalle intemperie e luogo d’incontro, associazione «COSCOL», CHF 50’000.
• Berna: luogo di incontro, vicinato Güterstrasse e insediamento Holliger a Berna, CHF 25’000.
• K riens (LU): aiuto di vicinato nella città di Kriens, comunità abitativa Zeitgut, CHF 41’000.
• La Chaux-de-Fonds (NE): balconi come palcoscenici, Fondazione «Ton sur Ton», CHF 18’000.
• Neuchâtel: una trasmissione radiofonica per il vicinato, Radio Rocher, CHF 15’000.
• Pregassona: laboratorio sociale e di integrazione a Pregassona, Associazione Amélie, CHF 50’000.
• Vernier (GE): atelier multimediale per il quartiere, collettivo «L’Antenne», CHF 10’000.
• Worb (BE): orto comunitario, Associazione orti condivisi Sonnhalde, CHF 50’000.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
L’ingegnere chimico Gianni Pertici; alle spalle, foto dei materiali prodotti per la ricostruzione ossea. (Stefano Spinelli)
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Un lampo per sfuggire allo scorrere del tempo
Capita penso a tutti, di tanto in tanto, di avere la sensazione di aver già vissuto il momento attuale, di aver già conosciuto una tale persona o essere già stato in un determinato luogo, senza però essere in grado di dare spiegazioni al riguardo. Stiamo parlando, ovviamente, di un fenomeno piuttosto comune, il déjà vu ; ma ci siamo mai chiesti di cosa si tratta più precisamente o perché ci accade di vivere questa singolare e per certi versi affascinante percezione che ci lascia una sensazione di vago e misterioso?
L’espressione francese déjà vu (già visto) – alla quale, in tempi più recenti, qualcuno preferisce quella di déjà véçu (già vissuto) – si deve al filosofo e psicologo francese Émile Boirac, vissuto tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. «Boirac è stato il primo studioso a teorizzare il concetto di déjà vu a partire da studi sull’ipnosi. Lo ha fatto nella sua opera L’avenir des sciences psychiques, in cui riflette sulla possibilità che allo studio dei fenomeni psichici possa vedersi riconosciuto un carattere scientifico, – spiega Cinzia Pusterla-Longoni, psicologa e psicoterapeuta, a orientamento psicoanalitico – l’interesse di Boirac per il déjà vu era, forse, legato al desiderio di avvicinarsi a fenomeni che oggi potrebbero essere definiti come paranormali; in altre parole si
è occupato di conoscenze che vanno oltre la possibilità di conoscere». L’aura di mistero che nell’immaginario collettivo circonda il déjà vu, infatti, intriga da secoli i popoli e il fenomeno ha assunto diversi significati nel corso del tempo. Alcune cre-
denze popolari lo hanno collegato alla capacità di predire il futuro – sarebbe in questo senso una sorta di premonizione che bene incarna il desiderio dell’uomo di scoprire l’avvenire – mentre altre lo hanno messo in relazione con l’ipotetica esistenza di uni-
versi paralleli, con i quali si verrebbe in contatto in modo inconscio attraverso questi episodi. Il déjà vu è pure menzionato all’interno di diverse opere artistiche. Se parliamo di quelle cinematografiche, per citare un esempio molto conosciuto, Déjà Vu è il titolo di un film interpretato da Denzel Washington, nel quale le volte in cui il fenomeno si manifesta corrisponderebbero a dei segnali di allarme che provengono dal passato o a degli indizi per il futuro.
Di fatto, il déjà vu è una sensazione che si verifica occasionalmente e dura una manciata di secondi. «Un fenomeno comune che implica un vissuto di grande familiarità in una situazione non familiare, sul quale, da parte della psicologia, ci sono tanti sguardi, ognuno dei quali può dare risposte diverse», commenta Cinzia Pusterla-Longoni. Tra le varie branche della psicologia, i primi studi portati avanti sull’argomento sono stati di tipo psicanalitico. Già Freud, il padre fondatore della psicoanalisi, aveva parlato dei déjà vu, considerandoli come un fenomeno che riconduceva nella realtà desideri e impulsi repressi o ricordi rimossi. Teoria secondo la quale si spiegherebbe pure la sensazione di familiarità che si prova durante tale esperienza. «Per la psicoanalisi, tali desideri repressi o ricordi rimossi raggiungono la coscienza su sollecitazione di un elemento di realtà. Attraverso meccanismi inconsci, vicini anche all’attività onirica, un’emozione passata viene trasferita su un’emozione presente, rendendo appunto familiare ciò che in realtà non lo è», spiega la psicoterapeuta. Tra i diversi fattori che entrano – o sono entrati – in gioco per dare un’interpretazione al déjà vu un posto importante lo occupano i sogni. Per molto tempo, infatti, il mondo onirico e l’esperienza del déjà vu sono stati ritenuti intrecciati tra loro. L’idea era quella che il sogno che viene scordato al risveglio, con tutte le sensazioni in esso contenute, restasse sopito nella memoria e fosse poi recuperato in modo improvviso e inaspettato sotto forma appunto di déjà vu. Credenza che è stata smentita man mano che gli studi sul cervello e le sue attività sono progrediti. La scienza ha infatti negato qualsiasi connessione tra sogno e déjà vu, semplicemente per il fatto
che le aree del cervello preposte a tali fenomeni sono differenti. L’area cerebrale dove avvengono gli impulsi elettrici che stanno all’origine dei sogni si trova alla base del tronco encefalico, nel cosiddetto ponte di Varolio, mentre la parte del cervello dove avverrebbero i déjà vu è quella legata alle attività cognitive, ovvero la corteccia cerebrale. Ad accomunarli sarebbe quindi piuttosto il tipo di sensazione che rende entrambi i fenomeni tanto effimeri quanto misteriosi, fornendo alla nostra mente una fuga momentanea dalla realtà.
Quindi, se i sogni non possono essere la spiegazione del fenomeno dei déjà vu, qual è la conclusione a cui è giunta la comunità scientifica? «Nel campo della psicologia, ci sono e ci sono stati negli anni studi sulla capacità di attenzione e sulla memoria che hanno cercato di fornire una spiegazione. Ad esempio il déjà vu è stato considerato come conseguenza di un transitorio deficit di attenzione o come una mancanza di coordinazione tra percezione e memorizzazione. Gli studi nell’ambito della neuropsicologia hanno ipotizzato invece, ad esempio, un ritardo nella trasmissione dell’informazione dagli organi sensoriali ai centri cerebrali superiori», afferma Cinzia Pusterla-Longoni, che è anche docente presso la scuola di formazione psicoanalitica Il Ruolo Terapeutico di Milano e supervisore di psicologi e psicoterapeuti in formazione.
Lasciando la psicologia, nemmeno la scienza è finora arrivata a dare una risposta definitiva alle origini di questo fenomeno. Un elemento che rende particolarmente difficoltoso lo studio scientifico del «già visto» è l’impossibilità di replicare a comando gli episodi che lo riguardano. Detto ciò, una certa chiarezza è stata fatta in merito al meccanismo che origina questo episodio della mente nel cervello umano. In pratica, il déjà vu si verifica a causa di un’anomalia della memoria che fa sì che gli eventi che stanno accadendo siano memorizzati nella memoria a lungo o breve termine, invece che in quella immediata, dando così l’impressione che il fatto sia successo in precedenza. Esistono infatti tre categorie di memoria: quella immediata (che ci fa, ad esempio, ripetere al momento una data e un orario per inserirli in agenda), quella a breve termine, che dura poche ore ed è composta dagli eventi che vengono percepiti come appartenenti al presente, e quella a lungo termine, che riguarda gli accadimenti che sono percepiti come appartenenti al passato e che ci possiamo ricordare per mesi o anni.
Secondo la nostra interlocutrice, questa esperienza della mente per cui si ha l’impressione che un determinato momento della vita sia già stato vissuto oppure un certo posto sia già stato visitato, si presenta più facilmente in situazioni di affaticamento o in situazioni intense dal punto di vista emotivo. «Per quel che concerne invece la loro funzione, va sottolineato come il déjà vu soddisfi anche un desiderio molto consapevole che tante persone condividono, il desiderio di annullare l’irrevocabilità del tempo. Sfuggire lo scorrere del tempo, annullare ogni distanza fisica e temporale con un vissuto di meraviglia e senso di mistero che ha affascinato generazioni di artisti, poeti e scrittori», conclude Cinzia Pusterla-Longoni.
10 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Psicologia ◆ Il déjà vu è un fenomeno che affascina non solo l’immaginario collettivo e l’arte ma anche la ricerca scientifica Alessandra Ostini Sutto
Pexels.com
C’è chi indaga i vulcani sognando Marte
Ore 10.56 PM EDT del 20 luglio 1969. Neil Armstrong è il primo uomo a mettere piede sulla Luna. Evento noto in tutto il pianeta. Quello che in molti non sanno è che prima di arrivare a quel fatidico passo, i piloti delle missioni Apollo fecero diversi corsi di addestramento in luoghi particolari sulla Terra, come l’Islanda e le Hawaii, dove poter testare attrezzature e procedure in ambienti del tutto simili a quelli che ci si aspettava avrebbero incontrato sul nostro pianeta satellite.
Sono ancora molte le cose che non conosciamo del nostro pianeta, luoghi e creature che oggi sono oggetto di studi multidisciplinari.
Ecco perché gli astronauti «vanno a scuola» nei tunnel di lava
«Ho trascorso una decina di giorni esplorando le regioni vulcaniche attive dell’Islanda, un luogo così desolato e arido che mi sentivo come se fossi già sulla Luna. Eravamo lì d’estate e sembrava che il sole non tramontasse mai» dirà Alfred Worden, membro della spedizione Apollo 15.
E oggi la storia si ripete, in vista del ritorno sulla Luna e di future missioni su Marte.
Un team multidisciplinare e internazionale di ricercatori, speleologi, geochimici, geologi e microbiologi sta conducendo una serie di spedizioni in alcune delle aree vulcaniche più incontaminate del pianeta per indagare, in particolare, uno degli ambienti primigeni della vita sulla Terra: i tunnel di lava. Studiando le dinamiche in atto in aree isolate come Selvagen (Madeira), ma anche nelle più note Islanda e Lanzarote, i ricercatori preparano il terreno alla ricerca spaziale. Le immagini provenienti dai rover che stanno scandagliando Marte e le osservazioni della più vicina Luna, infatti, ci raccontano scenari incredibilmente simili a quelli che troviamo appunto in aree vulcaniche sul nostro pianeta.
È il caso del progetto TUBOLAN (link Video Vigea https://youtu.be/uyEJgrwKAgk), guidato dalla geomicrobiologa Ana Zélia Miller (dell’Istituto di Risorse Naturali e Agrobiologia di Siviglia – IRNAS –appartenente al Consejo Superior de Investigaciones Científicas – CSIC), che insieme a Jesús Martínez Frías (ricercatore dell’Istituto di Geoscienze all’International Geoscience Education Organisation, CSIC-UCM di Madrid) e Francesco Sauro (geologo, ricercatore, speleologo e professore all’Università di Bologna) sta studiando i microrganismi che abitano le grotte vulcaniche delle Isole Canarie, al fine di traslare e applicare le conoscenze acquisite alle spedizioni spaziali.
Questi batteri vivono in condizioni estreme, senza luce e con scarso apporto di materia organica: classificati come microrganismi chemiolitoautotrofi, sostanzialmente «mangiatori di pietre», sono in grado di utilizzare e trasformare minerali per svilupparsi e crescere.
I tunnel di lava si formano nel corso delle eruzioni, quando le colate laviche creano delle lunghe gallerie sotterranee in cui il magna continua a scorrere allo stato liquido mentre la lava di superficie si raffredda. Al termine dell’eruzione, la lava non scorre più e restano lunghe gallerie vuote,
che si diramano dal cratere centrale anche per diversi chilometri. È il caso, a Lanzarote, del Tubo di Lava della Corona, nove chilometri, uno dei più grandi al mondo, che in alcuni punti raggiunge l’altezza di cinquanta metri.
Questo stesso fenomeno si è verificato anche sulla Luna e su Marte, le cui superfici risultano attraversate da innumerevoli tubi di lava: ne sono stati rilevati più di trecento sulla prima e oltre mille sul pianeta rosso. Rispetto alla Terra però, Luna e Marte sono state interessate da un’attività vulcanica più intensa, e poiché entrambi i pianeti sono caratterizzati da una minor gravità e da un’atmosfera più sottile (nulla nel caso della prima), si sono formate grotte con dimensioni ben maggiori.
Senza una zona di protezione come quella garantita dall’atmosfera terrestre, le radiazioni ultraviolette e l’impatto con micrometeoriti rendono la vita sulla superficie lunare e marziana praticamente impossibile. Agli ipotetici abitanti di Luna e Marte, ammesso che ce ne siano e qualunque forma abbiano, non resterebbe che un unico ambiente protetto dove proliferare: queste grotte di ordine vulcanico. Se la vita su altri pianeti c’è, è facilmente ipotizzabile che si trovi presso questi ambienti sotterranei.
Non è un caso dunque che i futuri
astronauti o i membri delle missioni spaziali vengano inviati ad «allenarsi», testando le attrezzature e imparando a condurre campionamenti e ricerche, proprio a Lanzarote, dove sono stati attivati per loro dall’European Supervisory Authorities (ESA) corsi specifici di geologia planetaria (PANGAEA) e attività sul campo come il progetto Pangaea-X (https:// bit.ly/3XrMfvq).
Un secondo progetto, MICROCENO del 2021, sempre coordinato da Ana Miller (questa volta come ricercatrice associata del Laboratorio HERCULES – Herencia Cultural, Estudios y Salvaguardia –, dell’Università di Évora), si è occupato di investigare le cavità presenti nell’arcipelago, sia per quanto riguarda la biologia, la microbiologia, la geologia e l’analogia con ambienti extraterrestri. Si tratta infatti di grotte in rocce vulcaniche in aree protette e quindi completamente incontaminate.
La spedizione ha coinvolto ricercatori di sette nazioni (Portogallo, Spagna, Italia, Olanda, Inghilterra, Russia, Canada), mettendo in campo uno sforzo collettivo caratterizzato da un approccio tecnologico innovativo, grazie a un sistema di mappatura con tecnologie tridimensionali. Sono state individuate nuove cavità: la Furna do Suplo du Dragao (scoperta proprio dal team di ricercatori e speleologi),
che si distingue per un grande lago di acqua salmastra nel quale sono state individuate numerose potenziali nuove specie di fauna anchialina, e altre otto cavità minori, solo in parte già conosciute, incluse due grotte sommerse esplorate da un team di spelo-subacquei. A completare il gruppo di lavoro due rappresentanti dell’Agenzia Spaziale Europea e un cosmonauta russo, perché lo sforzo messo in atto dal progetto è proprio quello di creare strumenti e protocolli per allenare i futuri esploratori dello spazio.
Al momento nessuna missione spaziale ha in programma di entrare in una grotta «aliena». Le operazioni dei rover si sono fino a oggi concentrate in aree che per morfologia lasciano presupporre la presenza in passato di acqua liquida, non tanto per mancanza di interesse, quanto perché il livello di tecnologia e attrezzature per affrontare questo tipo di esplorazioni non è ancora ottimale.
Eppure la fantascienza è sempre più reale. Ad oggi il drone Ingenuity, che accompagna il rover Perseverance nell’esplorazione della superficie marziana, potrebbe riservare qualche sorpresa, fino a quando la miniaturizzazione e ottimizzazione di questi dispositivi non ci condurranno «là dove nessun uomo è mai giunto prima», per chiudere con una citazione popolare.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 11 SOCIETÀ
Tecnologie per la scienza ◆ Le nuove frontiere dell’esplorazione sembrano ormai proiettate sempre più verso lo spazio
Amanda Ronzoni, testo; Alessio Romeo, foto
Chi creò lo Champagne?
Dom Pérignon non ha inventato né il dégorgement né la liqueur de tirage, né la prise de mousse, eppure...
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Si iniziò col friggere i falafel Il nome deep frying si attesta soltanto attorno al XX secolo, ma la tecnica di cottura risalirebbe all’anno mille
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L’amore nelle nostre mani
Con un po’ di passione possiamo realizzare un romantico carnet che raccolga tutte le esperienze di cuore
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Lo scandalo delle camminatrici solitarie
Tra il ludico e il dilettevole ◆ Il flâneur, passeggiatore ozioso reso celebre da Baudelaire, evoca una figura d’altri tempi. Ma che ne è del suo corrispettivo femminile, la flaneûse?
In un’ipotetica storia del tempo libero, la passeggiata potrebbe tranquillamente figurare come parte di un capitolo, magari inserita in una riflessione più ampia sul camminare, oppure messa in relazione con l’ozio, con cui condivide alcune caratteristiche pur essendo un’attività che si definisce attraverso il movimento. Poi occorrerebbe aggiungere che ci sono modi diversi di passeggiare, alcuni forse più interessanti di altri. C’è chi, per esempio, fa del passeggio una sorta di hobby, trasformandolo in uno stile di vita. È il caso del flâneur, termine francese reso popolare dal poeta Charles Baudelaire nel XIX secolo e poi rilanciato dal filosofo tedesco Walter Benjamin nel XX secolo. In italiano il termine flâneur non ha un corrispettivo preciso, ma può essere indicato da un ventaglio di termini che va da «passeggiatore» –una traduzione piuttosto neutra –, a «perdigiorno», un termine che rimanda alla sostanziale assenza di vincoli e di quelli che oggi chiameremmo impegni inderogabili. Con Baudelaire è Benjamin il flâneur è inestricabilmente legato alla modernità e il suo habitat naturale è la città, in modo particolare Parigi.
Per condensarlo in un identikit, potremmo dire che il flâneur è una sorta di sfaccendato che bighellona per le vie della città, mimetizzandosi nel tessuto urbano in cui si immerge e di cui assorbe l’atmosfera, mentre esplora le emozioni e gli stati d’animo suscitati dal paesaggio. Così come ogni termine porta dentro la storia che ha attraversato, anche il termine flâneur non fa eccezione. È dunque più che legittimo interrogarsi circa il contesto socio-culturale in cui questa parola è nata e si è sviluppata, e chiedersi come mai il corrispettivo femminile flanêuse non abbia mai veramente preso piede. Ciò non significa, ovviamente, che non sia possibile identificare donne che si siano dedicate al passeggio ozioso ed esplorativo. Di converso, è lecito supporre che accanto alla celebrata e popolare storia del flâneur esista, in modo forse neanche tanto marginale, una storia della flâneuse. A scriverla ci ha pensato Lauren Elkin nel saggio intitolato Flâneuse. Donne che camminano per la città.(v. «Azione» del 7.11.22) Elkin ci racconta di alcune artiste che, attraverso discipline come la letteratura, la fotografia, e il cinema, hanno lasciato una testimonianza del loro vagabondare cittadino.
Ricostruendo una sorta di genealogia di alcune passeggiatrici illustri che include George Sand, Virginia Woolf, Martha Gellhorn, Jinx Allen, e Agnès Varda, la Elkin dedica ampio spazio anche alla nota artista
francese Sophie Calle, nata nel 1953 a Parigi. Negli anni Novanta del secolo scorso, lo scrittore americano Paul Auster ne fu talmente intrigato che si ispirò a lei per creare un personaggio romanzesco: «Maria era un’artista, ma la sua attività non aveva nulla a che vedere con la creazione di oggetti comunemente definiti artistici. Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fine non credo che si presti a essere etichettata in alcuna maniera».
«Per diversi giorni l’uomo le scattò delle fotografie mentre faceva i suoi giri, annotando i suoi movimenti in un piccolo taccuino»
Con queste parole Auster introduce Maria Turner, uno dei personaggi centrali del romanzo Leviatano (1992), prendendo spunto come detto da Sophie Calle. La caratterizzazione di Maria Turner, quel suo approccio inclassificabile alla pratica dell’arte, riassume molto bene anche lo stile di
Sophie Calle. La Calle è un’esploratrice sui generis: una a cui piace – proprio come a Maria Turner – rendere fluido, poroso e permeabile il confine fra la vita e l’arte, fra la quotidianità e la finzione.
Racconta Auster che, per una delle sue opere, Maria «assunse un investigatore privato per farsi seguire per la città. Per diversi giorni l’uomo le scattò delle fotografie mentre faceva i suoi giri, annotando i suoi movimenti in un piccolo taccuino, senza tralasciare nulla, neanche gli episodi più banali e transitori». Nella vita reale il rapporto si rovescia, ma il deambulare urbano rimane invariato: se anche nella realtà Sophie si era fatta seguire da un investigatore, allo stesso modo capita anche a lei di seguire degli sconosciuti, e di fotografarli, ricostruendone i movimenti: raccogliendo tracce, frammenti, rubando dettagli delle loro vite. In altri casi ancora, Marie e Sophie fanno la stessa cosa, si confondono, si completano e si arricchiscono. Un giorno, per esempio, trovano un’agenda anonima per strada, e decidono di rintracciare le persone che vi figurano proponendo loro delle interviste personali. Se, come ci avverte Paul Auster, Maria/Sophie non era propriamente
una fotografa, e neppure una scrittrice o una concettualista, che cosa era allora? Forse era tutte queste cose, e magari qualcosa in più. Una flâneuse, per esempio: in quanto tale, Calle accumula e mette assieme diverse discipline che si integrano alla perfezione al suo girovagare artistico. E se oggi è sicuramente più facile immaginare una flâneuse che passeggia liberamente per le vie cittadine, la storia ci insegna che non sempre è stato così. Nel 1897, per esempio, la scrittrice ucraina Marie Bashkirtseff annotava, nel suo diario, quanto segue: «desidero ardentemente uscire da sola: andare, venire, sedere su una panchina al Jardin des Tuileries, e soprattutto di andare al Luxembourg, guardare le vetrine decorate dei negozi, entrare in chiese e musei, e passeggiare di sera per le vecchie strade. Ecco cosa invidio». Erano tempi in cui una donna che usciva da sola passeggiando liberamente era mal vista, e suscitava lo scandalo nei benpensanti.
Ciononostante, l’arte della flânerie al femminile non solo è resistita nel tempo, ma si è tramandata lungo una precisa linea genealogica che, idealmente, culmina con Sophie Calle e le sue contemporanee. Ma, a pre-
scindere dalle loro evoluzioni e involuzioni nel tempo, le figure femminili che la Elkin ritrae nel suo libro sono comunque unite da «molte corrispondenze; tutte queste donne leggevano libri di altre donne e imparavano l’una dall’altra, e le loro letture si espandevano sempre di più in una rete così fitta da non poter essere catalogata». Per questo, continua l’autrice, «flâneuse non è semplicemente il femminile di flâneur, ma una figura di riferimento, alla quale ispirarsi, una figura indipendente (…). È un individuo determinato, pieno di risorse e profondamente in sintonia con il potenziale creativo della città, e con le possibilità liberatorie di una bella passeggiata». Rivendicando la sua libertà di movimento, conclude la Elkin, «la flâneuse esiste ogniqualvolta deviamo dalla strada che è stata tracciata per noi, partendo alla ricerca di un territorio nostro».
Bibliografia
Paul Auster, Leviatano Guanda, 1995; Lauren Elkin, Flâneuse. Donne che camminano per la città, Einaudi, 2022; Sophie Calle, Doubles-jeux, Axtes Sud (in francese), 1998.
● ◆ 12 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino
TEMPO LIBERO
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A Zurigo, a bordo del bus numero 32
Itinerari ◆ Per pochi franchi un tour alternativo nella città sulla Limmat
Simona Sala
Visitare Zurigo significa sempre fare un’indigestione di opulenza. Di impressioni, di design, di cultura, di formazione, di architettura, di negozi e di ricchezza. Dalla Bahnhofstrasse si può ad esempio prendere la strada medievale Rennweg che porta nel cuore più antico della città di Zwingli, tagliato in due dalla Limmat. «Dall’altra parte», dopo avere ammirato il paesaggio dal ponte pedonale Gemüsebrücke, ci si ritrova nel Niederdorf, quartiere che in passato faceva rima con dissolutezza e personaggi a loro modo iconici per una realtà urbana tutto sommato contenuta, e che oggi si riduce a poco più di una piccola e pittoresca strip per turisti, i quali, dopo il Grossmünster, si attardano davanti alla Bodega española o comprano souvenir di frutta secca nel negozio di coloniali Schwarzenbach (aperto nel 1834).
Ma la città sulla Limmat (che un tempo uno striscione lungo i binari della Stazione Centrale annunciava come Zurich = zu reich, ndr «troppo ricca»), pur essendo anche questo, non è solo questo. E per tastare con mano e vedere con i propri occhi la diversificazione e la stratificazione di un contesto urbano situato storicamente a sinistra, nonostante il capitale, e la cui municipalità conta più di 400mila individui (l’area metropolitana arriva sino a 1,8 milioni di abitanti), vale certamente la pena fare un giro con il bus numero 32, che dallo Strassenverkehrsamt (la loro Sezione della circolazione) con il suo ristorante Albisgütli (fondato nel 1839, sede delle riunioni dell’UDC) porta dall’altra parte della città, a Holzerhurd-Affoltern. Insomma, per fare il verso al duo di rapper zurighesi, cosiddetti secondos, L Loko x Drini (all’anagrafe Rafael Luna e Valdrin Hasani), si parte da un luogo ben preciso per finire «irgendwo im nirgendwo» (da qualche parte in nessun luogo).
La tratta catapulta la viaggiatrice e il viaggiatore del 32 (ovviamente elettrico) immediatamente nel cuore della cooperativa d’abitazione Familienheimgenossenschaft Zürich (FGZ), nel quartiere di Friesenberg, Kreis 3. Qui, infatti, laddove in Ticino le cooperative abitative sono una realtà sofferta che da decenni non ce la fa a decollare, la FGZ da ben 99 anni vive di una continua espansione, che la porta oggi a fieramente chiamare propri 2292 appartamenti per un numero complessivo di quasi 6mila abitanti. Il concetto è semplice quanto geniale: alle famiglie con bambini, l’accesso alle casette a schiera con orti e giardini; per tutti, una mobilità ridotta da decenni a 30 km/h, spazi verdi, viali alberati, atelier per artisti, affitti in base al reddito – dove chi guadagna meglio compensa per chi è meno fortunato – e un’architettura estremamente funzionale. Il tutto in una dimensione esistenziale che ricorda più un insediamento di campagna che quello di una grande città. Tant’è vero che la tratta del 32, a un certo punto, incrocia i binari del trenino dell’Üetliberg, la «montagna» degli zurighesi, con i suoi 871m s.l.m.
Lasciata la FGZ, il 32 fa tappa a Goldbrunnenplatz, all’incrocio dei tram delle linee 9 e 14, poi passa davanti alla Zwinglihaus, ora sede dei
Valdesi italiani residenti in città e alla Kalkbreite, dove dal 2004 sorge l’imponente edificio di un’altra cooperativa abitativa, la Genossenschaft Kalkbreite, di cui il quotidiano «Landbote» ha scritto: «Con l’insediamento Kalkbreite si realizza nuovamente un patrimonio di idee della Zurigo dei primi Anni Ottanta». Più piccola rispetto alla FGZ, la cooperativa rappresenta infatti un esperimento sociale, poiché non ospita «solamente» circa 300 abitanti, ma anche altrettanti lavoratori, dispone di molti spazi comuni e di guesthouses pensate per ospitare i visitatori di chi occupa gli appartamenti più piccoli o in condivisione. Davanti all’edificio, in un accostamento quasi improbabile, resiste la minuscola casetta che un tempo accoglieva i clienti del ristorante Rosengarten, risalente a metà 800, salvata dalla demolizione per un soffio e oggi sede di uffici.
La cooperativa abitativa FGZ di Zurigo l’anno prossimo compirà un secolo di vita
Il bus 32, quando compie la curva che lo immette nel lungo rettilineo del «Chreis (Kreis) Cheib» (nomignolo risalente al Medioevo, quando il quartiere, all’epoca comune autonomo, si disfava dei cadaveri degli animali nel fiume) – come viene comunemente chiamato anche il distretto che occupa il quartiere della Langstrasse – sembra quasi volere prendere lo slancio necessario ad attraversarlo. La manciata di chilometri urbani che scorre parallela al bus (che in questo luogo, Kreis 4, per alcuni diventa il «Junkie Express» in una chiara allusione a certi illeciti) rappresenta un microcosmo o ecosistema a sé stante, e come ogni ecosistema che si rispetti, nell’era in cui viviamo, è a rischio estinzione.
A negozi discount di calze, mutande e fondi di magazzino venduti a prezzi modici, si sostituiscono ristoranti asiatici (il più celebre è Lily’s, con i suoi oltre vent’anni di attività e le due filiali a Sihlfeldstrasse e Basilea), uno degli ultimi cinema pornografici
della città (ora vuoto, che si può affittare fino a fine 2023), studi Tattoo e vecchie bettole piene di omaccioni dai baffi folti e la camicia sbottonata sul petto (quelli che qualche decennio fa ispiravano Harry Hasler, personaggio di punta del comico svizzero tedesco Viktor Giacobbo), alternati a catene di franchising più o meno note.
Sulla strada e nei vicoli laterali, intanto, tra una sauna particolare e l’altra, sfrecciano eserciti di corrieri anche giovanissimi che ricordano Easy Rider per quelle loro bici elettriche di ultima generazione ispirate alle Harley Davidson. I negozietti 24/7 gestiti da asiatici spuntano ovunque come funghi, offrendo come da tradizione superalcolici a prezzi stracciati, e minando così, a detta di molti cittadini, la «tradizione movidara» della Langstrasse, di luoghi che sono molto più di un bar, diventando spesso un’espressione sociale, come il Chicago, il Lugano, Schickeria o l’Olé Olé.
La Langstrasse è sempre punteggiata da un formicolio umano vario e variamente dissoluto, incurante del prossimo (poco importa se si gira in pantofole e vestaglia o in un completo elegante) che si suddivide tra chi sembra avere un traguardo nella propria giornata, e chi invece aspetta, in attesa, ad esempio, di clienti. O utenti. O potenziali criminali, come indicano le volanti della Polizia che spuntano qua e là. La prostituzione – ragazze in hotpants o vestiti succinti anche in pieno inverno – è infatti tornata ad affacciarsi prepotentemente in strada, a qualsiasi ora del giorno e della notte, e lo si nota soprattutto dopo il fallimento dell’esperimento dei sexbox dello Strichplatz Depotweg, con il quale la municipalità aveva cercato di portare l’amore a pagamento ai margini della città e in luoghi sorvegliati. Negli androni, pusher e maneggioni di natura varia indugiano in attività più o meno lecite, invisibili agli occhi indifferenti di studenti che, a bordo della bicicletta, hanno eletto il quartiere intorno alla Langstrasse a proprio luogo di appartenenza.
Come spesso succede nelle grandi città, quando artisti e giovani si inna-
morano di un quartiere dimenticato dallo sviluppo, è un attimo affinché questo si trasformi in un luogo di culto, e ciò è successo anche alla Langstrasse, che in pochi anni ha visto crescere a dismisura il proprio appeal di luogo hype, anche perché si trova pur sempre a una manciata di minuti dalla Stazione Centrale. E così, quasi a ridosso di bar e negozietti di paccottiglia, avanza colossale un quartiere nuovo, lussuoso e inarrivabile per la gente del quartiere 4.
Anche la Langstrasse, il vivace quartiere oggi alla moda, subisce il diffuso fenomeno della gentrificazione
Il faraonico investimento delle FFS nella creazione di edifici raffinati, in cui prontamente si sono trasferite banche e altre istituzioni, ha dato infatti vita alla Europaallee, dove gli affitti per un 3,5 locali possono toccare anche i settemila franchi mensili. Gentrificazione, la chiamano i sociologi, ma per parte degli abitanti e per chi è affezionato alla Langstrasse si tratta solo di affermazione del capitale, e lo sa bene chi ha dovuto abbandonare commerci decennali per l’impennata dei costi d’affitto, riunendosi in associazioni che vorrebbero porre un freno al fenomeno urbano che sta divorando tutto. Restano ancora un paio di baracche degli operai e una casetta di più di un secolo fa appollaiati lungo i binari della ferrovia (li si vede sulla destra arrivando dal Ticino in treno), nelle perpendicolari alla Langstrasse. Ma hanno anche loro i giorni contati.
Terminata la corsa lungo la «strada lunga» il paesaggio si apre sullo slargo di Limmatplatz, capeggiato dal grattacielo della sede della MGB, la Federazione delle cooperative Migros; passato il ponte Kornhausbrücke, si risale verso Bucheggplatz. In basso, i bagni del Letten, desolanti nel grigiore tipico del gennaio zurighese, un tempo emblema di un problema con le tossicodipendenze sfuggito a ogni forma di controllo e assurto alle cro-
nache internazionali: quando negli anni Novanta il Platzspitz, scena di spaccio a cielo aperto, fu finalmente sgomberato, gli junkies si limitarono infatti a muoversi qualche centinaio di metri più in là, al Letten.
Fino a qualche anno fa, il 32 si fermava a Bucheggplatz, ma ora la sua tratta è stata allungata di qualche tappa (il 32 conta in tutto 26 fermate, 8 sono quelle nuove), a dimostrazione dell’irrefrenabile espansione della città, che fagocita quelli che fino a qualche tempo fa erano comuni periferici. Percorrendo l’ampio viale lanciato in direzione Katzensee si capisce subito perché la zona si sia guadagnata l’appellativo di no man’s land. A differenza della FGZ, dove ogni metro quadrato è progettato e votato alla funzionalità e al benessere degli abitanti, o della Langstrasse, dove il colorato caos multietnico dà una botta di vita fin quasi anarchica alla città di Zwingli, qui tutto sembra essere lasciato al caso, o forse ancor più al disinteresse. A chiese (cattoliche o protestanti? a tratti risulta difficile stabilirlo) dall’architettura a metà strada tra la sobrietà e il coraggio degli Anni Sessanta e Settanta, si alternano casette a schiera, mentre sullo sfondo, qua e là, crescono palazzi-alveare dalla personalità poco delineata e dall’aria decontestualizzata. Poi, una segheria, struttura in legno come se ne vedono ancora nella Svizzera più rurale, asili nido, incroci di strade, il campo di un contadino.
Un paesaggio punteggiato da dissonanze, verrebbe da dire, e che al visitatore lascia una sensazione di smarrimento ma che, come dimostrano diversi articoli e reportage, gode dell’apprezzamento e della dedizione totale dei propri abitanti, cui basta in fondo solamente ancora qualche chilometro per ritrovarsi nell’idillio naturalistico che rappresenta uno dei tratti distintivi della Svizzera. A patto di andare nella direzione giusta, voltando le spalle alla città.
● Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 13
Informazioni Su www.azione.ch, si trova una più ampia galleria fotografica.
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Champagne, la nascita di un mito
Vino nella storia ◆ Non tutto è dovuto a Dom Pierre Pérignon, ma senza di lui forse non esisterebbe il noto spumante
Davide Comoli
Nello stesso periodo in cui nascevano i grandi crus bordolesi – tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo – nasceva anche lo Champagne, o così almeno narra la storia, sebbene sia accompagnata da molta confusione e altrettanta incerta leggenda, e sebbene non sia di certo condivisa da molti storici.
Nel Medioevo, i vini della zona dell’odierna Champagne erano chiamati vins de Rivière o ancora vin d’Ay: si trattava soprattutto di vini bianchi, poiché i vini rossi che si producevano intorno a Reims venivano chiamati vins de la Montagne
Nel Medioevo, i vini della zona dell’odierna
Champagne erano detti
vins de Rivière o vin d’Ay ; fu Charles Estienne a ribattezzarli nel XVI secolo
Sarà Charles Estienne, che nel corso del XVI secolo, per differenziarli dai vini prodotti nel resto della Francia, li chiamerà vins de Champagne. I due principali vitigni presenti a quell’epoca erano il Govais che dominava i vigneti della «Montagne» (che sovrastavano i vigneti della Rivière, e dai quali si ricavava un vino rosso) e il Fromenteau di colore grigio rosato, con cui si producevano vini bianchi, che i contadini del luogo definivano sur la langue friand, a significare che erano già apprezzati quindi per la loro frizzantezza.
A metà del XVII secolo, i vignerons della Rivière decisero di produrre un vin gris a partire da un nuovo vitigno di qualità superiore: il Pinot Nero. Il nuovo vitigno veniva vendemmiato mezz’ora dopo il levar del sole, vale a dire tra le 9 e le 10 h. Poi veniva pressato molto lentamente, cercando di non macchiare il succo della prima torchiatura, per ottenere un vino bianco dal colore vivace e che potesse durare a lungo; era comunque un vino che non doveva spumeggiare, se ciò fosse accaduto (come spesso succedeva) le botti dove veniva conservato scoppiavano generando una catastrofe.
Nel 1668 Dom Pierre Pérignon ricopre la carica delle finanze del monastero benedettino di Hautvillers vicino a Epernay (Pierre Pérignon nacque nel 1639, lo stesso anno di Luigi XIV, ed entrambi, strana coin-
cidenza, morirono nel 1715). Grazie soprattutto agli efficientissimi uffici stampa degli organismi di tutela dei vini francesi, questo benemerito frate benedettino, passa alla storia quale inventore del vino spumante, ma come tutti sappiamo questa non è che una storiellina nata dalle circostanze: in quel tempo, l’abbazia di Hautvillers possedeva una decina di ettari di vigne e percepiva le decime dai nobili di Ay e d’Avernay in uva. Come amministratore delle finanze – oltre al controllo dei bilanci dell’eremo, sia in moneta che in alimenti –Dom Pérignon aveva semplicemente il compito di vigilare sui beni più preziosi della comunità, vale a dire cantina e vigneto.
Ma se Dom Pérignon non ha inventato né il dégorgement né la liqueur de tirage, né la prise de mousse e ancora meno i tappi di sughero, lasciamo a lui almeno il merito di un’impressionante attitudine nel provare e sele-
zionare le vendemmie, con un’incredibile capacità sensoriale nel provare le uve provenienti dai diversi vigneti: senza sbagliare, riusciva a capire da che zona arrivavano, ed era quindi in grado di assemblare le uve provenienti dai diversi terroir per migliorare la qualità dei vini.
In modo progressivo, egli decide di eliminare le uve bianche provenienti dal Pinot Beurot meglio conosciuto come Fromenteau e quelle dello Chasselas, perché troppo ricche di flavoni (pigmento che dà colore), le quali tingevano rapidamente i vini di giallo se non addirittura d’arancione, conseguenza non apprezzata. In compenso una perfetta limpidezza era ottenuta dalla veloce pressatura del Pinot Nero e l’immediata separazione delle bucce, da uve vendemmiate al mattino presto con uve fredde e umide di rugiada. Siamo ancora nell’ideale medioevale del «vino limpido come le lacrime».
Dom Pérignon escluse da subito di mischiare le uve bianche con le uve nere che venivano consegnate dagli assoggettati a pagare le decime; le prime venivano subito rivendute. Vegliava poi sulle qualità delle uve vendemmiate: gli acini dovevano essere intatti per meglio preservare i loro aromi (chissà cosa penserebbe oggi il buon frate delle vendemmie meccaniche).
Quindi controllava minuziosamente la separazione del succo che usciva da ogni pressatura, scartando quelli che giudicava troppo ricchi di acidità, e procedeva poi a far assemblare i liquidi estratti dalle singole parcelle.
La fermentazione molto lenta che lasciava un residuo di zucchero veniva fatta nei tonneaux situati nelle cantine scavate nel 1673 nel terreno tipico della Champagne: craie (roccia calcarea contenente una sensibile quantità di argilla) dove viene assicurato l’in-
vecchiamento del vino a temperatura costante; i travasi erano frequenti.
Dopo il 1680, divenne più frequente l’imbottigliamento grazie alle bottiglie di provenienza inglese, che avevano il vetro più spesso e resistente, oltre a una forma a pera. In queste solide bottiglie dal collo chiuso con trucioli ricoperti di cuoio (e più tardi, verso il 1700, con sughero spagnolo legato con una cordicella, e in seguito con un filo di stagno), la potenziale effervescenza di questi vini poteva esprimersi meglio e soprattutto con meno perdite, poiché lo scoppio di una bottiglia causa meno danno che quella di una botte. Dom Pérignon raccomandava d’imbottigliare a marzo, momento più propizio a una leggera rifermentazione degli zuccheri residui.
Dopo tanto lavoro si rese necessario far conoscere ai francesi il gusto di questa nuova tipologia di vino, ma tra il popolo e alla corte di re Sole si preferivano ancora i vini tranquilli, i vini della zona della Champagne venivano chiamati in modo quasi dispregiativo le vin diable o le vin saute-bouchon
Senza alcuna sorpresa, è a questo punto che tornarono utili gli amanti del vino inglese; già dal 1673 il filosofo francese Saint-Evremond, esiliato da Luigi XIV per aver scritto un poemetto contro Mazzarino, e fra l’altro fondatore a Parigi del bacchico Ordre de Coteaux, diede origine alla moda dello Sparkling Champain, il vino che lancia faville e spumeggia. I mercanti inglesi, visto il buon successo di questi vini bianchi, ne fecero arrivare decine di botti , aggiungendo al momento dell’imbottigliamento della melassa per garantire una ripresa della fermentazione e un’intensa liberazione di gas.
Fu così che in Francia – a eccezione di Luigi XIV al quale i medici avevano prescritto del vino rosso – il popolo cominciò a incuriosirsi a questo tipo di vino. Il cambiamento di gusto francese si avrà sotto la Régence, con la moda dei petits soupers e delle serate galanti.
Secondo il poeta satirico Bernard de La Monnoye «fare esplodere i tappi e innaffiare di schiuma le spalle nude della dame, è quello che vogliamo con priorità», come vien ben mostrato nel famoso quadro di Jean-François de Troy, Le Déjeuner d’huîtres sottotitolato: Le Saute-bouchon
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Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 14 Annuncio pubblicitario
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Jean François de Troy (1679-1735), dettaglio di Le déjeuner d’huitres Chantilly. (Jean Louis Mazieres)
È araba l’origine del deep frying
Gastronomia ◆ Risalirebbe al Trecento dell’anno Mille la prima ricetta dei falafel come pietanza fritta
Allan Bay
Nel 2016 vi presentai, rapidamente, la cucina araba. Elencandone i piatti più significativi. Oggi vi voglio parlare di un piatto in particolare: i falafel. È però necessaria una premessa. Quella araba è una cucina che amo molto, soprattutto quando di alta gamma, come la trovai a Bangkok qualche decennio fa, curata dalla brigata di un super ristorante di Beirut, girovago durante la lunga guerra civile libanese, o come quella – anche se non sempre altrettanto alta – incontrata in viaggi di lavoro, soprattutto in Egitto e Iraq.
Due cose mi divennero presto chiare: punto primo, definirla araba, che è una lingua, è fuorviante, anche perché è sarebbe una generalizzazione; i vari Stati hanno le loro tradizioni, e dunque – se proprio la si vuole definire – sarebbe meglio definirla del Vicino Oriente e del Nord Africa; punto secondo, quella che conoscevo era la variante comunque relativamente alta, diciamo quella dell’ecumene urbana, quindi mercantile, di questi paesi. Anche a Milano frequentavo, seppur non molto, alcuni ristoranti cosiddetti arabi, per lo più di tradizione siro-libanese che facevano prevalentemente piatti popolari molto curati.
Ne seppi di più quando, sempre troppi anni or sono, conobbi un coetaneo siriano, per lavoro, che si occupava di editoria. Veniva spesso a Milano ed era un ottimo cuoco. Quando arrivava, io gli insegnavo piatti italiani ed europei, lui piatti arabi, più che altro siriani e della Mezzaluna fertile. Lui amava la cucina ma solo nella versione popolare – io amo le versioni alte, invece. Tenete conto che, popolare o non popolare, una delle caratteristiche storicamente salienti di quella cucina è il lavoro complesso di lavorazione degli ingredienti aggiunti a una cottura rapida, poiché il lavoro costava poco, mentre il combustibile era caro.
Torniamo a oggi, anzi a pochi giorni fa: scrivendo dell’arte di friggere, sono inciampato sui falafel. Ho scoperto che il friggere, come lo intendiamo noi, ma quello vero – cioè con l’ingrediente del tutto immerso in un grasso, quello delle patatine fritte, il deep frying, (termine inglese per il quale non esiste un’efficace, speculare traduzione italiana) – è una tecnica «recente».
Più precisamente, il nome deep frying si attesta attorno al XX secolo, ma la tecnica è precedente (sebbene non altrettanto antica del lessare, dell’arrostire, eccetera; le prove sono comunque poche). Sembra nata attorno all’anno Mille; il primo documento scritto sopravvissuto è comunque solo del XIV secolo; scritto in arabo, guarda caso, parla di friggere i falafel.
Detto questo, non mi resta che darvi la ricetta, utilizzando la misura degli ingredienti per quattro persone. Mettete a mollo in acqua fredda per 24 ore 500 g di fave secche, girandole di tanto in tanto; in seguito scolatele, sciacquatele, eliminate la pellicina esterna e sciacquatele ancora. Mettetele quindi in un frullatore e aggiungete 2 cipolle rosse affettate e stufate con poca acqua per 10 minuti (se si frullano da crude ossidano e diventano amare), 2 o più spicchi di aglio, prezzemolo, cumino e coriandolo a piacere, 2 cucchiai di farina, poco sale e 1 punta di lievito in polvere. Frullate bene, trasferite in una ciotola e fate riposare per 30 minuti.
Formate poi delle polpette grandi come noci, schiacciatele e lasciatele riposare ancora per 15 minuti. Scaldate abbondante olio di semi e friggete i falafel finché non saranno ben dorati. Vanno serviti caldi con tahina (crema di semi di sesamo tostati e frullati) che si trova anche nelle filiali della Migros (Alnatura – Mousse de sésame Tahin).
Vediamo come si fanno altri tre piatti della tradizione araba. Kibbeh (ingredienti per 4 persone). Il kibbeh (nella foto) è una specie di tartara, ma esistono anche delle versioni cotte. Mettete a bagno in acqua fredda 120 g di bulgur per 20’, scolatelo e strizzatelo molto be-
Ballando coi gusti
ne. Frullate 500 g di carne con soffritto di cipollotti e il bulgur fino a ottenere un composto amalgamato. Regolate di sale. Servitelo su foglie di insalata, spruzzato con sale e olio. Riso con carne, pinoli, mandorle e uvetta (per 4). Fate un riso pilaf con 2 tazze di riso a grana lunga. Lasciatelo riposare per 10’. Nel frattempo, rosolate 250 g di carne trita, del tipo che volete, con 1 filo di olio, bagnatela con qualche cucchiaiata d’acqua e unite 1 pizzico di cardamomo, mescolando. In un padellino a parte rosolate 50 g di pinoli e altrettante mandorle sfilettate con 1 filo di olio per 3’. Uniteli alla carne, mescolate e aggiungete 50 g di uvetta. Rego-
late di sale. Servite il riso guarnito con la carne. Riso e lenticchie (per 4). Fate scaldare 1 filo di olio in una casseruola, unite 2 tazze di riso a grana lunga e fate insaporire per 2’. Versate 3 tazze d’acqua e portate a bollore. Unite 250 g di lenticchie rosse sciacquate, regolate di sale, coprite e lasciate cuocere a fuoco dolce per 20’ senza mescolare, l’acqua dovrà essere completamente assorbita. Spegnete e lasciate riposare per 10’. Nel frattempo, soffriggete in 1 filo di olio un paio di spicchi di aglio tritato fine con 1 cucchiaio di cumino in polvere. Mettete il riso nel piatto e irroratelo con il soffritto.
Gnocchi con funghi e mirtilli Gnocchi con peperoni e uvetta
E ancora una volta, gnocchi. Che sono piatti che più goderecci non si può. E facili da fare, che non guasta.
Ingredienti per 4 persone: 600 g di gnocchi a piacere – 200 g di funghi a piacere – 100 g di mirtilli – 1 cucchiaino raso di zucchero – sale – 1,5 dl di brodo di carne concentrato – burro – 2 cucchiai di olio – sale.
Lavate i mirtilli e tamponateli con delicatezza. Togliete i residui di terra dai funghi con un coltellino, sciacquateli velocemente, asciugateli e tagliateli a fettine. Fate scaldare una padella, versatevi i mirtilli, scottateli in fretta e zuccherateli. Unite 20 g di burro e non appena sarà sciolto, mescolate e togliete dal fuoco. In un’altra padella versate l’olio, unite l’aglio e fate soffriggere. Aggiungete i funghi, il fondo di carne, salate leggermente e cuocete fino ad ammorbidirli. Lessate gli gnocchi in acqua salata, scolateli nella padella con i funghi. Unite i mirtilli e il loro fondo, mescolate, regolate di sale e saltate brevemente. Servite gli gnocchi guarniti con mirtilli.
Ingredienti per 4 persone: 600 g di gnocchi a piacere – 1 peperone rosso – 1 peperone verde – 1 peperone giallo – 1 spicchio di aglio – uvetta sultanina – 1 cucchiaino di origano secco – peperoncino in polvere –1 cucchiaino di aceto balsamico – 4 cucchiai di olio – sale.
Mondate i peperoni, tagliateli a piacere, rosolateli con l’olio e l’aglio spelato e schiacciato con il palmo della mano, per 2 minuti, mescolando. Unite l’aceto, l’uvetta ben sciacquata, di più o di meno a piacer vostro, e l’origano, quindi cuocete per qualche minuto, mescolando e bagnandoli con quanto basta di acqua se necessario. Regolate di sale. Lessate gli gnocchi in acqua salata, scolateli nel sugo ben caldo e mescolateli con delicatezza. Serviteli spolverati con il peperoncino.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 15 Come si fa?
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Un romantico carnet di San Valentino
Crea con noi ◆ Un’idea per progettare e ricordare un weekend fuori porta, un pic-nic sul lago, un’escursione al chiaro di luna o...
Giovanna Grimaldi Leoni
Un carnet di romantiche esperienze da condividere. Dalla cena romantica, al weekend fuori porta. Dal picnic sul lago, al massaggio rilassante. 12 proposte personalizzabili a piacere, da svolgere durante l’anno, rilegate in uno speciale «Carnet di San Valentino» da regalare alla persona amata. Una volta svolta l’attività, potrete inserire nel quaderno, creato con le buste per panini, una fotografia ricordo e piccoli oggetti come biglietti, fiori essiccati, etichette… prima di scrivere insieme qualche parola in merito all’esperienza trascorsa.
Procedimento
Nota: Per questo tutorial ho utilizzato i sacchetti per panini tangan in vendita da Migros che misurano 12x23 cm.
Stampate e ritagliate i buoni (li trovate su www.azione.ch). Dal cartoncino ocra ritagliate 12 rettangoli da 9x12 cm, mentre dal cartoncino rosso o rosa ritagliate 12 strisce da 12x3 cm.
Con il biadesivo unite le strisce ai rettangoli sormontandoli di 1 cm e tenendo la striscia sulla sinistra. Incollate quindi al centro di ogni cartoncino un buono attività. Se ne
Giochi e passatempi
Cruciverba
«Mi guardo allo specchio e mi vedo giovane, simpatico e in forma, come se avessi 20 anni...!». Per trovare il resto della frase rispondi alle definizioni e leggi le lettere nelle caselle evidenziate.
(Frase: 6, 6, 2, 6, 4)
ORIZZONTALI
1. Aforisma
5. Genere di numeri
10. Un tipo di acciaio
11. Codice Unico di Progetto
12. Rischia di andare dentro
13. Suo a Parigi
14. Mezzo... inglese
15. Articolo indeterminativo
16. In cima alla lista
17. Folletto
20. Prende per la gola
21. Grave
23. Un pizzico di tabacco
24. Una nota... carta da gioco
25. Ognuna delle due cavità superiori del cuore
26. Il sale francese...
27. Benessere materiale
28. Di solito ne abbiamo tutti quattro
29. Ho il coraggio
30. Piccole rane
32. Precede il two
33. I parenti di una volta
34. Desinenza di diminutivo femminile
35. L’ascolto poetico...
36. Verità tangibile
37. Con lei proprio non c’è verso...
VERTICALI
1. Lo sono il tre e il cinque
2. Eccezionalmente grande
3. Un testimone dei «Promessi Sposi»
4. Due nel taxi
5. Li studiano gli archeologi
6. Ordo Praedicatorum
7. Fiume toscano
avete una, con la forbice a zig zag rifinite il lato destro del cartoncino (facoltativo) quindi dopo aver piegato il sacchetto per panini in due come mostrato in foto, incollatevi il cartoncino sul davanti (parte chiusa) Per ogni singolo sacchetto si formeranno quindi 4 «pagine». Nella prima, la copertina, avrete il buono. Nelle pagine interne, a sinistra, incollate un rettangolo sempre 9x12 cm a righe o quadretti dove poter scrivere qualche frase dopo aver
svolto l’attività e a destra risvoltate la chiusura del sacchetto che conterrà una fotografia ricordo o altri piccoli elementi e chiudete con del washi tape.
Una volta preparate tutte le buste con la foratrice, facendo ben attenzione a essere precisi forate i cartoncini sulla sinistra per rilegare il vostro carnet e unite il tutto con un bel nastro. Decorate a piacere con graffette, piccole mollettine in legno decorate, o quanto la fantasia vi suggerisce.
Copertina
Un carnet di San Valentino deve avere la sua romantica copertina. Prendete il cartoncino rosso e andate a piegarlo in modo da ottenere un dorso di 3 cm e copertina/retro di 14 cm. Per avere una piega precisa prendete le misure e con taglierino e righello fate una leggera incisione in corrispondenza della piega.
Materiale
• C artoncini A4 ocra, rosso, rosa
• 12 sacchetti per panini
• Biadesivo trasparente o colla vinilica
• Forbici/taglierino/righello
• Washi tape a tema
• Foratrice
• Stampante per i buoni
• Per la copertina:
• C artoncino A3 rosso 31x14 cm
• 10 cm di feltro rosso
• Strass, bottoni, pompon nelle tonalità dei cartoncini
• 3 0 cm di nastro o filo in tinta per la chiusura
• Colla a caldo o colla universale
(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)
Al centro della copertina sistemate un quadrato ocra di 10x10 cm e sopra un cuore ricavato dal pezzetto di feltro che avrete decorato con strass, bottoni e altre minuterie in tinta. Forate sulla destra, inserite il vostro carnet e chiudete con un nastro. Buon San Valentino, a chi è in coppia e a chi non lo è. Sì, perché il carnet vale anche come buon proposito per fare ogni mese qualcosa di bello per sé stessi. Buon divertimento! Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi
Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku
Sudoku Scoprite i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.
8. Vezzo settecentesco
9. Con altri diventa noi
11. 101 romani
14. Si ottengono dalla pigiatura delle uve
15. Un oggetto volante
18. Nota città francese
19. Sul tavolo del ristorante
22. Un derivato della morfina
23. Uno sport
25. Si spinge con un dito
26 Giunto meccanico che permette la rotazione
27. L’attrice Argento
29. Qualora in poesia
31. Le iniziali dell’Ariosto
33. Le iniziali dell’attrice Rohrwacher 34. Il settentrione d’Italia... 35. La patria di Abramo
Soluzione della settimana precedente «Ma tu lo reggi il vino?» – «Ma certo!» Risposta risultante: «ALLORA AIUTAMI A TIRARE SU QUESTA DAMIGIANA!».
Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 16
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Viaggiatori d’Occidente
Stepsover: dalla motocicletta al camion
Non capita spesso di trovare la coda davanti a una piccola libreria di viaggio: sono nel centro di Verona, in via Stella, a poca distanza da piazza delle Erbe e dalla casa dei più famosi amanti infelici («O Romeo, Romeo!
Perché sei tu Romeo?»). Scopro subito che oggi la libreria Gulliver accoglie due viaggiatori fuori dal comune, Lucia e Simone.
La loro storia inizia molti anni fa. Lui milanese, informatico; lei fiorentina, impiegata nelle risorse umane di una grande multinazionale. Quando si conoscono li accomuna una passione assoluta per la motocicletta e i lunghi viaggi, ai quali riservano per intero ferie e risparmi.
Una prima svolta nella loro vita avviene per caso durante un viaggio in Marocco, quando vedono un camion parcheggiato nel bel mezzo del lago Iriki, prosciugato con la costruzione della diga di Ouarzazate, mentre
il suo proprietario si gode il paesaggio comodamente seduto su una sedia pieghevole. È una folgorazione, o meglio una conversione: di colpo i due motociclisti percepiscono tutti i limiti del loro mezzo di trasporto.
All’inizio del 2015 Lucia e Simone bruciano tutti i ponti alle loro spalle. Nel giorno di san Valentino per trentamila euro acquistano in Baviera un gigantesco camion MAN già utilizzato dall’esercito danese. Valentino (inevitabile chiamarlo così) viene ricoverato in un capannone alle porte di Milano, dove anche i suoi nuovi padroni si trasferiscono, per risparmiare. In due anni di lavoro febbrile, con un cospicuo investimento iniziale e un’abilità manuale fuori dal comune, Lucia e Simone trasformano il vecchio camion militare in un mezzo solido, efficiente e affidabile, adatto per viverci tutto l’anno senza dipendere da piazzole di sosta o al-
Passeggiate svizzere
Il tea-room Widmer di Burgdorf
Negli itinerari elvetici di un cacciatore di tea-room antiquati non può mancare, credo, Burgdorf. Comune principale dell’Emmental, tredici minuti di treno da Berna, sedicimilaottocentosedici anime, un castello, sulla sponda sinistra dell’Emme, centro storico in cima a un promontorio dove all’inizio della via acciottolata che sale alla chiesa, sotto le arcate di molassa grigia-olivastra pallida, al primo piano, si trova una rimarchevolissima sala da tè desueta. Risalente al 1944, attraverso la sua combinazione di legno di ciliegio e pelle rosa antico, il tea-room Widmer di Burgdorf (569 m), colpisce all’istante. La storia del luogo è legata ai Burgdorferli, pasticcini cilindrici inventati nel 1924 da Adolf Erhard Nadelhofer (1877-1945), pasticcere alsaziano fondatore di questa confiserie nel 1904. Ancora oggi sono messi in mostra, in vetrina, dentro scatole di carta giallo
senape con sopra numerose medaglie delle esposizioni internazionali varie, intorno all’antico castello zähringhiano. Ne provo uno, in compagnia di un earl grey. A forma di mini japonais, si tratta di un pan di Spagna ricoperto di cioccolato. Non ne vado matto, va detto. Ottimo invece l’earl grey, miscela di un negozio locale che si chiama come i famosi fratelli tedeschi delle fiabe. Oltre all’essenza di bergamotto, stupisce e rallegra la presenza blu dei petali di fiordaliso. Deluso dai Burgdorfeli, cerco con lo sguardo le venature ben illuminate dei lambrì totali, a tutta parete, in magnifico legno lieto di ciliegio. La boiserie si completa con un amabile bancone circolare, al quale sono abbinati due tabouret da bar in tinta con tutto quanto. Diciassette tavolini dello stesso legno, strutturati secondo uno schema di separé e panche imbottite di pel-
Sport in Azione
tri servizi, insomma una vera e propria casa su quattro ruote. Nell’aprile 2017 Valentino è pronto per il viaggio inaugurale.
Dopo aver venduto (o regalato) tutto quello che possiedono, e lasciati i rispettivi lavori, Lucia e Simone cominciano una nuova vita nomade col progetto Stepsover
In attesa di decidere quale direzione prendere, i due scelgono nuovamente il Marocco, ben conosciuto, per mettere alla prova il nuovo veicolo. L’idea iniziale è tornare poi in Europa e puntare verso le distese dell’Asia centrale. Invece dal Sahara occidentale si spingono fino a Dakar, in Senegal, e lì s’imbarcano su una nave cargo diretta in Sudamerica. Dopo un mese di traversata sbarcano in Uruguay. Viaggiano attraverso Argentina, Brasile, Bolivia e Cile, per poi puntare verso la Patagonia. Da lì risalgono poi tutto il continen-
di Claudio Visentin
te americano sino all’altro estremo, in Alaska.
Il senso del viaggio si rivela poco per volta, alternando improvvise accelerazioni a lunghe pause, per godere della bellezza dei luoghi o per dedicarsi alla manutenzione di Valentino. La vita quotidiana si rivela sorprendentemente economica senza le spese per l’alloggio: un migliaio di franchi al mese bastano e i risparmi vengono utilizzati solo per le emergenze, anche perché Lucia e Simone cominciano a guadagnare con lavori online e attraverso la condivisione di video su YouTube.
I due coraggiosi viaggiatori hanno conquistato strada facendo una vasta popolarità, incrociando diversi temi prediletti dal pubblico. Oltre naturalmente alla passione per il viaggio, c’è il desiderio diffuso di spezzare le catene della routine, mollare tutto per cambiare vita e seguire liberamente le
proprie passioni (downshifting). Anche la parte più tecnica, la descrizione degli interventi meccanici per trasformare un vecchio veicolo adattandolo perfettamente ai propri gusti e bisogni, intercetta l’interesse diffuso per la vanlife, la vita on the road Proprio la promozione del loro ultimo libro (Cambio di rotta. Stepsover. Dall’Italia all’America: il giro del mondo che ha cambiato la nostra vita, Sperling & Kupfer) li ha portati oggi in libreria a Verona, ma nel tempo dei social il libro è un canale di comunicazione come tanti altri, e quest’oggi in particolare sembra servire soprattutto ai fan per chiedere un autografo. Nonostante il successo Lucia e Simone sono umili, gentili con tutti, ma si capisce che questa è per loro solo una breve pausa; cinque anni dopo il gran salto nel vuoto, guardano già lontano, alla ripresa del loro viaggio.
le rosa antico sopra una delle quali, un pomeriggio verso la fine di gennaio, mi lascio tentare dall’Apfelstrudel con la salsa alla vaniglia, come c’è scritto su una lavagnetta vicino alle finestre. Una costellazione di ventiquattro sedie modello Kronenhalle, ideate nel 1931 a Glarus per il famoso ristorante di Zurigo, qui in una rara variante sempre in legno chiaro di ciliegio e pelle rosa antico, aggraziano ulteriormente la sala e amplificano l’effetto boiserie. Sul vassoietto argentato, dove è appoggiata la tazza floreale di tè, trovo inciso, in maiuscolo, Confiserie Nadelhofer. Il nome Widmer è venuto solo nel 1985, con l’arrivo di Hanspeter Widmer e la moglie Jill. Da ventitré anni sono Karin e Jürg Rentsch a continuare la tradizione della confiserie-tea room al numero sette della Kirchbühl. Senza cambiare, grazie al cielo, neanche una virgola del décor, non
Re Marco, l’ultimo monarca delle nevi
Il regno di Marco Odermatt rischia di durare poco. Il vincitore della scorsa edizione della Coppa del Mondo di sci alpino, nonché dominatore di quella attuale, avrebbe i mezzi per prolungare il suo regno. Non ha ancora compiuto 25 anni. Domina con facilità disarmante in due discipline, gigante e superG. Presto o tardi riuscirà ad apporre il suo sigillo anche sulla discesa libera. Ci sono tutte le premesse affinché possa inanellare un filotto degno del monarca che lo ha preceduto. L’austriaco Marc Hirscher, prima delle estemporanee imprese del norvegese Aleksander Aamodt Kilde e del francese Alexis Pinturault, ha messo in bacheca otto Sfere di cristallo, tra il 2012 e il 2018. Considerando che tra i ventenni di oggi, per ora, non si intravedono fenomeni planetari, tutto lascerebbe supporre che lo sciatore nidvaldese possa quantomeno avvicinare le cifre
del campione di Annaberg im Lammertal. Con ogni probabilità non sarà così. A meno che le comunità alpine non decidano di sacrificare tutto sull’altare dello sci. Tutto, significa investire massicciamente nell’innevamento programmato e artificiale. Ma significa anche essere consapevoli del fatto che ciò comporterebbe un travaso di priorità, dalle esigenze della comunità a quelle di una ristrettissima élite di competitori.
In un contesto in cui prende sempre più piede l’idea che, per tentare di frenare il surriscaldamento del pianeta, si debba assolutamente attuare la decarbonizzazione a favore di energie pulite e rinnovabili, è lecito chiedersi se è giusto trasportare con gli elicotteri la neve sulle piste di Gstaad, oppure investire acqua e soldi, per disegnare ad Adelboden una striscia praticabile per due giornate di gare. L’ottimista che si nasconde in me, sogna che la
comunità scientifica si stia sbagliando e che dopo un paio di stagioni avare di neve si possa tornare al favoloso inverno 2020-2021, durante il quale le ciaspole erano necessarie anche per andare a fare la spesa. Tuttavia, la mia parte razionale, che ama leggere e documentarsi, teme che climatologi, glaciologi, geologi e scienziati di varia formazione abbiano ragione. Siamo al capolinea. O quanto meno siamo all’ultimo rilevamento intermedio prima del traguardo.
Un altro aspetto da non sottovalutare è l’impatto delle scioline fluorate sul territorio. Si tratta di sostanze tossiche la cui biodegradabilità è quasi impossibile. Secondo una ricerca commissionata dalla Federpesca grigionese, documentata dalla rivista «Pro Natura Magazine», risulta ad esempio che in Engadina si pesca l’80% in meno rispetto a 20 anni or sono, e che nei laghetti sui quali in
hanno voluto neppure cambiarne il nome. Sono persino rimaste alcune curiose specialità, lasciate in eredità da Jill Widmer-MacLean (19372016), cresciuta a Edimburgo. Come la Sheperd’s pie, un pasticcio di carne di agnello ricoperto di puré o gli scones. Ideali con il tè, da spalmare con panna speciale e marmellata. La cameriera di nome Sandra, con il taglio alla Erika Hess e il dono dell’ubiquità, mi porta l’Apfelstrudel che cospargo subito di salsa calda alla vaniglia. Adesso si ragiona, erano secoli, perdipiù ora nevica e si aggiunge così un ingrediente fatato. I fiocchi di neve che cadono riescono sempre a incantarmi. Entra in scena un signore anziano con un cappello di astrakan e un cappotto antico che sembra uscito da un racconto di Čhecov. Scendo a studiare il repertorio dei dolci. Degno di nota, il corrimano sinuoso in legno ancora di
ciliegio che segue, con tonalità accese verso il rossiccio, tutta la scala a chiocciola che porta alla confiserie del pianterreno. I Luxemburgerli, come vengono chiamati a Zurigo i mini macarons colorati databili al 1957, qui a Burgdorf si chiamano Edinburgerli La notiziona però, sempre per mantenere il tocco britannico portato dalla signora Jill, è la presenza invitante della Lemon pie. A onor del vero e visto che sono legato alla torta al limone a partire da quella indimenticabile sulle piste da sci di Vulpera una vita fa, devo provarla. E si rivela, per me, la vera specialità: crema giallognola leggerissima, ricoperta da una favolosa superficie di meringa. Anche se l’atmosfera fuori moda che ritorno a contemplare, vince su ogni golosità. Il legno di ciliegio, ormai leitmotiv ossessivo dal quale sono catturato, rallenta il battito cardiaco. La nevicata sembra seria.
inverno si pratica lo sci di fondo, un pesce su due ha assimilato i fluorocarburi contenuti nelle scioline. Gli ambientalisti più apocalittici sostengono che neppure la somma di scelte consapevoli e virtuose riuscirebbe a invertire la tendenza. Ovviamente non ho strumenti né per approvare, né tantomeno per confutare. Semplicemente spero. Non me ne voglia Marco Odermatt. Vorrei che il suo regno durasse fino al nono sigillo. E che dopo di lui giungessero altri campioni in grado di dare ancora vita a quel fantastico gioco intitolato «Chi è il più grande di tutti i tempi». Ma temo che non sarà così. Godiamoci questi ultimi scampoli di spettacolo e cominciamo a pensare seriamente a come potrebbero essere reinventati il turismo e lo sport in montagna. In fondo nulla e nessuno ci impedisce di camminare, correre, arrampicarci, pedalare, volare con il parapendio, o
con la tuta alare, fare canyoning e altro ancora. Basterebbe un’idea originale per sostituire degnamente una disciplina sportiva come lo sci alpino che storicamente ci regala emozioni profonde e senso di appartenenza al nostro territorio.
Da anni lo ski jumping è praticato anche sull’erba. La stessa cosa accade con lo skiroll, perfetto sostituto dello sci di fondo. Perché non provarci anche con lo sci alpino? Chissà che, con una semplice e banalissima trovata, non si riesca a dare continuità all’epopea di Marco Odermatt e nel contempo a salvare e alimentare ulteriormente un settore fondamentale dell’economia di molti Paesi. E poi diciamocela tutta. Questa auspicabile idea geniale, ci porterebbe a Wengen, Courchevel o Kitzbühel anche d’estate, a seguire in bermuda, maglietta e infradito le imprese degli sciatori. Vuoi mettere, che vita!
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 17 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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di Giancarlo Dionisio
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di Oliver Scharpf
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ATTUALITÀ
Il «feroce» premier nepalese
Pushpa Kamal Dahal, comunista, ha svolto un ruolo cruciale nell’abolizione della monarchia
Bergoglio in Africa
Papa Francesco parte domani alla volta del Congo e del Sudan. Il significato del suo viaggio
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La BNS verso l’autonomia
Il 23 gennaio 1973 la Banca Nazionale Svizzera abbandonava il sistema dei cambi fissi
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L’inchiesta «Corona-leaks»
A Berna si è aperta una sorta di caccia alle fughe di notizie mentre traballa il principio della collegialità
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Populismi contro democrazie: chi vincerà?
L’analisi ◆ Viaggio tra le autocrazie che aggrediscono l’Occidente e coloro che ne corrodono i valori dall’interno
Divampa la sfida globale tra populismi e democrazie. Chi avanza e chi arretra? Come definire i confini dello scontro? È giusto mettere Bolsonaro nello stesso campo di Putin? C’è un’alleanza fra le autocrazie che aggrediscono l’Occidente e coloro che ne corrodono i valori dall’interno? Un filmato degli ultimi dodici mesi comincia con l’incontro tra Vladimir Putin e Xi Jinping ai Giochi invernali di Pechino, seguito poche settimane dopo dall’invasione dell’Ucraina. Arriviamo al primo anniversario di questa guerra con pochissime speranze di un negoziato. Putin non è un populista «normale» come i leader che cercano consensi nei Paesi democratici. La sua ideologia però contiene elementi comuni ai populismi sia di destra che di sinistra: difesa di valori tradizionali, nazionalismo, dirigismo pubblico nell’economia. Anche il fascino dell’uomo forte si ritrova nei populismi. Putin descrive un Occidente in preda alla decomposizione morale tipica di civiltà decadenti. Tanti populisti in Occidente simpatizzano per lui fino ad abbracciare la sua versione della guerra, descrivendola come la risposta agli abusi perpetrati dall’America, dalla NATO. Dall’inizio dell’invasione abbiamo sentito spesso diagnosticare un crollo di consenso russo nei suoi confronti: mancano solo le prove.
Come Putin, pure Xi Jinping è ben distinto dai leader che devono conquistarsi voti nelle società aperte.
Tuttavia la sua ascesa, la sua concentrazione di potere, il suo culto della personalità, si sono costruiti con ingredienti del populismo: la lotta alla corruzione, la caccia ai dirigenti ladri e incapaci ai vertici dello Stato, la denuncia delle diseguaglianze, l’assedio agli imprenditori (soprattutto i magnati digitali sospettati di autonomia dal partito comunista). Xi usa un linguaggio social-populista, nazionalista e sovranista. Pur governando un sistema autoritario, ha le antenne sensibili al consenso popolare. La velocità fulminea con cui ha ribaltato la politica «zero Covid» ci ha offerto lo spettacolo del populismo in versione comunista cinese.
L’Iran di Khamenei è ai primi posti fra gli avversari della liberaldemocrazia occidentale. Populista quando maneggia con spregiudicatezza l’assistenzialismo pubblico (sotto il cappello della «carità islamica», la sua versione del reddito di cittadinanza) per conservare la sua base di consenso nei ceti meno abbienti. Sovranista nell’alimentare l’odio dello straniero, la xenofobia contro gli occidentali, sempre accusati di essere i veri istigatori delle proteste.
Sul fronte opposto? La tenuta delle liberaldemocrazie occidentali ci ha sorpreso negli ultimi dodici mesi. La Nazione guida è stata l’Ameri-
ca, con la sua capacità di organizzare una risposta comune all’aggressione dell’Ucraina. I bilanci sono prematuri. I segni di stanchezza e distrazione ci sono tra le opinioni pubbliche. Pur avendo sofferto una frazione infinitesimale di quel che subiscono gli ucraini, certi europei pensano di aver «combattuto fin troppo», vorrebbero la resa a Putin.
La tenuta delle liberaldemocrazie occidentali – con l’America in testa – ci ha sorpreso negli ultimi dodici mesi
Il cosiddetto modello europeo poggiava su presupposti fragili: la Germania, centrale in quel modello, fondava la prosperità sul gas russo abbondante e a poco prezzo, e sul mercato cinese spalancato alle sue esportazioni. Due fattori che non esistono più. Gli europei si credevano pacifisti mentre erano mercantilisti, come il cancelliere Olaf Scholz e tanti suoi predecessori. La nuova «guerra fredda» impone scelte a cui le liberaldemocrazie arrivano impreparate: hanno arsenali sguarniti, un’industria della difesa dimagrita e il dibattito sull’aumento delle nostre spese militari si è volatilizzato. I francesi che scendono in piazza contro Emmanuel
Macron per difendere le «baby-pensioni» sono un segnale inequivocabile sulle vere priorità degli elettorati nei Paesi liberi. Applicato alla geopolitica è populismo anche credere di poter «vivere di solo welfare», disarmati a oltranza, senza vedere gli appetiti che questa rendita parassitaria suscita attorno alle nostre frontiere.
L’America aveva chiuso il 2022 su una nota rassicurante. Le elezioni legislative a novembre avevano castigato il populismo trumpiano. L’ex presidente si era intestardito ad appoggiare candidati selezionati in base alla fedeltà al capo, una compagine di estremisti e di incompetenti. La modesta avanzata repubblicana alla Camera, inferiore alle aspettative, ha dato un colpo alla ricandidatura di Trump per la Casa Bianca. Poi però Trump ha dimostrato di poter nuocere –con la sola forza dell’esempio – ben al di là dei confini Usa. È stato descritto come il vero regista dell’assalto ai palazzi delle istituzioni che hanno sconvolto Brasilia l’8 gennaio, due anni e due giorni dopo i terribili fatti di Capitol Hill a Washington. Molti in Brasile – anche fra i moderati –sono convinti che Lula sia corrotto. La sua condanna al carcere fu sospesa per questioni procedurali, non perché sia stato dichiarato innocente. Il popolo di destra in Brasile, e perfino una parte dell’opinione pubblica cen-
trista, considerano Lula un presidente illegittimo perché liberato dal carcere da una magistratura di parte. Negli Stati Uniti i sospetti di corruzione avvolgono il figlio di Joe Biden, Hunter. Lo stesso presidente si è cacciato nei guai per i documenti top secret custoditi nel garage di casa. A quanto pare non è solo Trump ad avere il vizietto di portarsi via i «ricordi» della presidenza frugando negli archivi di Stato. Quando i documenti riservati erano stati scoperti nel resort trumpiano di Mar-a-Lago, in Florida, da sinistra era scattata una campagna giustizialista che ora si ritorce ai danni di Biden.
Che il populismo non sia un monopolio della destra, lo ricordano altri Paesi latinoamericani. In Venezuela non cessano gli abusi del regime socialista di Maduro contro i diritti umani, anche se Washington ha messo la sordina alle sue denunce per realpolitik: il petrolio venezuelano fa comodo per compensare l’embargo contro quello russo. Il caso più tragico è il Perù. Lì è in atto da mesi un assalto alla democrazia. Tutto è cominciato quando l’ex presidente Pedro Castillo non ha accettato il proprio impeachment e ha tentato un golpe. I seguaci del presidente deposto dal Parlamento (e arrestato) hanno cercato la rivincita nelle piazze, in una spirale di violenza ben più sanguinosa di quella brasiliana. Castillo
è un populista di sinistra, così come la sua ex-vicepresidente che lo ha sostituito e dirige le forze dell’ordine contro la piazza. Il dramma peruviano è una contesa fratricida tra due fazioni della stessa sinistra.
L’Occidente non ha trovato la ricetta per arginare l’ascesa dei populismi. La soluzione non può essere l’alleanza attuale fra l’establishment e le correnti del radicalismo anti-occidentale. In America questo connubio vede Big Tech, Wall Street, Hollywood e l’industria della comunicazione cooptare la cancel culture, Black Lives Matter, le frange più radicali della comunità LGBTQ, cioè chi descrive le nostre liberaldemocrazie come un’impostura, come sistemi politici macchiati dal razzismo sistemico, dove i diritti delle minoranze sono solo formali. Quando i capitalisti padroni dei social media hanno violato il Primo emendamento imponendo la loro censura sulle voci fuori dal coro (conservatrici), hanno alimentato la paranoia populista speculare: anche a destra c’è chi si è convinto che la nostra democrazia sia truccata e sequestrata dai poteri forti. L’Occidente continua a combattere due guerre che s’intrecciano, una contro gli avversari dichiarati, l’altra più opaca contro i nemici interni dei propri valori. Il bilancio degli ultimi dodici mesi non ha vincitori.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 19
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Da sinistra: Vladimir Putin e Xi Jinping. Le loro ideologie contengono elementi comuni ai populismi sia di destra che di sinistra. (Keystone)
Federico Rampini
Chi è il «feroce» premier nepalese
Ritratti ◆ Pushpa Kamal Dahal è il leader dell’insurrezione maoista che ha svolto un ruolo cruciale nell’abolizione della monarchia
Francesca Marino
A quasi 14 anni dall’abolizione della monarchia di re Gyanendra, il presidente del Partito comunista del Nepal (CPN) Pushpa Kamal Dahal è stato nominato primo ministro per la terza volta. Meglio conosciuto con il suo nome di battaglia «Prachanda» –che significa «feroce» – si è unito al presidente e rivale del CPN (Unified Marxist-Leninist) K. P. Sharma Oli e ad altri partiti minori dopo aver abbandonato a sorpresa, prima delle elezioni, l’alleanza di Governo guidata dal Nepali Congress di Sher Bahadur Deuba.
D’altra parte, dicono in molti, Prachanda alle pragmatiche giravolte e alle prese di posizione discusse o discutibili non è davvero nuovo. Leader dell’insurrezione maoista che alla fine ha svolto un ruolo cruciale nell’abolizione della monarchia e nell’instaurazione di una Repubblica federale in Nepal, Prachanda ha sempre ritenuto che la democrazia non fosse un’alternativa alla lotta armata, ma un prodotto e una «logica conclusione» di essa. E, in un’epoca in cui le potenze comuniste del mondo, come l’Unione Sovietica, stavano crollando e altre, come la Cina, continuavano a sforzarsi di riformarsi politicamente ed economicamente per rimanere competitive, quest’uomo, che insegnava in una zona remota del Regno del Nepal, era intenzionato a promuovere un’ideologia in declino, al servizio degli analfabeti e degli indigenti economici e sociali.
L’ideologia di Prachanda, e dei maoisti nepalesi, era dichiaratamen-
dero Luminoso. Si ritiene che Prachanda abbia iniziato la sua vita politica verso la metà degli anni Settanta: nel giro di due anni si era guadagnato il soprannome di «Biswas» (fiducia) e guidava l’Unione nazionale degli studenti liberi di tutto il Nepal, ottenendo poi la carica di segretario generale del locale Partito comunista. Dopo la scissione del partito in due fazioni, dovuta a differenze ideologiche tra i vertici, Prachanda vende le sue terre per finanziare la tesoreria del partito, ormai esaurita, e inizia a riorganizzare il partito cominciando a studiare i movimenti insurrezionalisti nella vicina India e passando alla lotta armata. Durante l’insurrezione Prachanda ha vissuto in clandestinità in varie parti dell’India per otto anni, chiedendo infine l’assistenza di Delhi per facilitare un processo di pace che, dopo anni di guerriglia, riteneva politicamente necessario.
Nel frattempo, ai vertici del potere nepalese si consumava una tragedia dai connotati shakespeariani: il re Bipendra e la regina Aishwarya vengono uccisi a colpi di mitra, assieme ad altri sette membri della famiglia reale, probabilmente dal principe ereditario Dipendra (2001). Dopo la strage, così narrano le cronache ufficiali, Dipendra tentava il suicidio (sempre a colpi di mitra) e finiva in coma. È morto dopo tre giorni e nessuno è mai riuscito a spiegare tecnicamente come un individuo riesca a spararsi alle spalle da solo. Ma questi sono dettagli. Dopo la strage veniva incoronato Gyanendra, fratello di Bipendra, che
dizione e il concreto aiuto dell’India che mediava tra le parti, Prachanda e suoi abbandonavano la lotta armata per siglare un patto con le forze parlamentari.
Dopo una straordinaria vittoria alle elezioni dell’Assemblea costituzionale, Prachanda veniva nominato primo ministro nell’agosto del 2008. E si accorgeva fin da subito che la carriera politica costituzionale non era quella che aveva sognato. L’eroe rivoluzionario diventava un politico qualunque, ridicolizzato per la sua propensione a indossare orologi d’oro massiccio e scarpe firmate e a bere whisky d’annata, contestato da quelle stesse mas-
se che lo avevano idolatrato, fino a venire schiaffeggiato in pubblico da un cittadino fuori dai gangheri. Sconfitto clamorosamente alle elezioni del 2013, riconquistava il seggio di leader nel 2016 per poi doversi dimettere l’anno successivo lasciando il posto a Sher Bahadur Deuba e al suo Nepali Congress, con cui il partito di Prachanda è stato alleato fino a poco prima delle ultime elezioni. Prachanda ha abbandonato l’alleanza all’ultimo momento perché Deuba si rifiutava di cedergli il posto di primo ministro, e si è alleato con K.P. Sharma Oli riunificando le due diverse sezioni del Partito comunista. Nota di co-
lore: nell’alleanza che sostiene la premiership di Prachanda si trova anche il partito monarchico. Si dice in giro che dietro la clamorosa riunificazione del partito comunista ci sia lo zampino della Cina, a cui Oli è sempre stato particolarmente vicino, e che Hou Yanqi, funzionaria di alto profilo della locale ambasciata cinese, sia stata fondamentale nel ricucire i rapporti tra Oli e Prachanda. La vicinanza alla Cina del nuovo Governo non piace affatto al Governo indiano che con il Nepal ha rapporti storicamente strettissimi e che considerava Deuba la miglior opzione possibile a Kathmandu.
La rabbia dei peruviani
Il punto ◆ Le proteste continuano, così come la repressione governativa
Angela Nocioni
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Scontri tra polizia e manifestanti: scudi e mitraglie da un parte, sassi e bastoni dall’altra. Decine e decine di morti, centinaia di arresti. Le garanzie individuali annegate dentro uno stato d’emergenza in vigore dal 14 dicembre scorso che consente centinaia di detenzioni e fermi arbitrari. In Perù le proteste continuano. I fatti tragici delle ultime settimane si innestano nella profonda instabilità politica del Paese che accompagna anni di disoccupazione e l’impoverimento dei ceti medio-bassi dopo l’illusione – avuta nel 2007-2008 – di un boom economico rivelatosi poi effimero.
Parte del Paese è in rivolta contro il Governo di destra di Dina Boluarte subentrata all’ex presidente – destituito per volere del Congresso – Pedro Castillo, un maestro presentatosi alle ultime elezioni nel 2021 come outsider di sinistra e poi, una volta eletto, scivolato via via su posizioni radicali proprie dell’estremismo di destra latinoamericano. I manifestanti non chiedono il suo reintegro ma la sua scarcerazione, la rimozione di Boluarte, lo scioglimento del Congresso, la convocazione di un’Assemblea costituente ed elezioni anticipate.
Il muro contro muro è totale, visto che Boluarte non ha nessuna intenzione di dimettersi e di indire subi-
to elezioni. Né, si suppone osservando la violenza della repressione, di obbligare la polizia a interventi nell’ambito della legge. Boluarte è l’ex vicepresidente del Perù. Ad inizio dicembre ha sostituito Castillo, destituito e poi arrestato con l’accusa di aver cercato di sciogliere il Parlamento in un tentativo di golpe. Castillo era stato eletto nel luglio del 2021, al ballottaggio, con soli 50mila voti di vantaggio rispetto a Keiko Fujimori, populista di destra, figlia dell’ex tiranno Alberto Fujimori, sotto il cui pugno di ferro il Perù è stato dal 1990 al 2000. Castillo è entrato nell’occhio del ciclone da subito per aver nominato come primo ministro un ex simpatizzante di Sendero Luminoso, gruppo di vaga ispirazione maoista che ha mietuto morti per decenni in Perù con metodi terroristici in nome di una rivoluzione che non è stato mai capace di tentare. Altra nomina contestata è stata quella a ministro degli Esteri di Héctor Béjar, ex guerrigliero dell’Esercito di liberazione nazionale peruviano. Nei suoi (soli) 17 mesi alla presidenza Castillo ha avuto 5 rimpasti di Governo. E non è stato difficile per l’asse di potere conservatore che ha in mano la gestione dello Stato in Perù, nonché gran parte del Parlamento, farlo fuori attraverso la minaccia di messa in stato
d’accusa parlamentare. Il Congresso è stato poi accusato dai manifestanti di aver abusato del proprio potere. Lo scorso 7 dicembre Castillo si è trovato ad affrontare il terzo tentativo da parte del Congresso di metterlo sotto accusa, dopo che i primi due non avevano raggiunto la maggioranza necessaria. Alla vigilia del voto Castillo ha detto: «Abbiamo deciso di instaurare un Governo di emergenza per ristabilire la legge e la democrazia». Un autogolpe, comunque la si veda. Dopo l’annuncio, diversi membri del suo Governo si sono dimessi e le forze armate hanno diffuso un comunicato in cui dicevano che Castillo non aveva l’autorità per sciogliere il Congresso. Quest’ultimo ha poi votato la sua decadenza e Castillo è stato arrestato con l’accusa di aver violato l’ordine costituzionale. Il giorno stesso Boluarte ha giurato come presidente. Il fatto che lei sia la sesta persona a ricoprire il ruolo di presidente del Perù dal 2016 la dice lunga sulla stabilità politica locale. Quasi tutti i suoi predecessori sono stati «eliminati» da accuse di corruzione. L’indisponibilità sua a indire nuove elezioni e la disperazione degli strati sociali coinvolti nella protesta fanno temere l’escalation della violenza repressiva. E l’avvitarsi della crisi in una spirale senza fine.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 20
Da destra: Pushpa Kamal Dahal e l’ex primo ministro Sher Bahadur Deuba. (Keystone)
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Nel futuro del cattolicesimo
Prospettive ◆ Il significato del viaggio di papa Francesco in Africa, un continente dove continuano a crescere i fedeli e il numero di sacerdoti
Giorgio Bernardelli
Sono settimane travagliate in Vaticano, tra il «vaso di pandora» delle polemiche aperto nel fronte tradizionalista dal dopo-Ratzinger, lo scontro tra la Curia romana e i vescovi tedeschi sulle modalità del Sinodo e l’ennesimo scandalo per gli abusi di cui ora è accusato il notissimo gesuita slovacco padre Marko Ivan Rupnik, vicinissimo a Bergoglio. Nel mezzo di tutti questi veleni, rischia di passare – a torto – in secondo piano il viaggio che papa Francesco (nella foto) si appresta a compiere dal 31 gennaio al 5 febbraio nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan.
In Congo Bergoglio potrà recarsi solo nella capitale Kinshasa, saltando invece Goma a causa della guerra che è tornata a dilagare
Sarà la terza visita di papa Francesco nell’Africa subsahariana, dopo quella del 2015 in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana e quella del 2019 in Mozambico, Madagascar e Mauritius. Arriva dopo un rinvio. Papa Francesco avrebbe infatti dovuto recarsi in questi due Paesi già nel luglio 2022, ma fu poi costretto a rinviare questo viaggio a causa dei problemi al ginocchio.
Nonostante l’evidente fatica nei movimenti, il pontefice ha voluto tenere comunque fede all’impegno. Anche se in Congo potrà recarsi solo nella capitale Kinshasa, saltando invece Goma, la martoriata città dell’est che era prevista nell’itinerario dello scorso anno. La ragione è una guerra dimenticata, tornata a dilagare: da mesi si rincorrono notizie di eccidi e ondate di profughi. Troppo alti i rischi, non solo per il pontefice ma anche per le migliaia di fedeli che si sarebbero radunate per incontrarlo.
Del resto, quella in atto da decenni nella Repubblica democratica del Congo è una vera ecatombe: dalla metà degli anni Novanta i morti hanno già superato i 6 milioni, il numero delle vittime della Shoah. Una strage infinita, alimentata dagli interessi legati allo sfruttamento delle risorse
minerarie di cui è molto ricco questo Paese africano. È la guerra per l’accaparramento del coltan, della cassiterite, del litio, materie prime essenziali per la produzione dei telefoni cellulari, batterie per le auto elettriche e tanti altri prodotti dell’hi-tech.
L’est del Congo del resto non conosce pace da quando, dopo il genocidio ruandese del 1994, si è riversato in questa regione più di un milione di profughi. Oggi il Governo congolese accusa quello del Ruanda di sostenere i ribelli dell’M23: il presidente congolese Félix Tshisekedi parla espressamente di tendenze espansionistiche del Ruanda, per accaparrarsi le zone dei maggiori giacimenti minerari. Kigali – a sua volta – accusa Kinshasa di sostenere le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda, un gruppo armato composto principalmente di hutu di origine ruandese, presenti in Congo dal 2000.
In questo groviglio di interessi e violenze, da qualche anno si è affacciato persino il fondamentalismo islamico, nonostante queste zone siano a stragrande maggioranza cristiana (i musulmani sono appena l’1,5%). Domenica 15 gennaio, in un villaggio a poche decine di chilometri dal confine con l’Uganda, un commando di forze alleate dell’ISIS ha attaccato una chiesa pentecostale: almeno una ventina le vittime.
In questo groviglio di interessi e violenze da qualche anno si è affacciato persino il fondamentalismo islamico
Papa Francesco, dunque, sarà chiamato a portare una parola di pace dentro a questi conflitti. A Kinshasa come nel Sud Sudan, l’altro Paese che toccherà durante questo viaggio. La Nazione più giovane dell’Africa, divenuta indipendente dal Nord del Sudan solo nel 2011, doveva essere la grande opportunità per la regione abitata in gran parte da popolazioni cristiane, a differenza della musulmana Khartoum. Invece, il Sud Sudan è subito precipitato in un nuovo
conflitto che ha alla radice lo sfruttamento del petrolio locale e delle risorse idriche. Insieme al primate anglicano Justin Welby e al moderatore dell’assemblea generale della Chiesa di Scozia, Iain Greenshields, papa Francesco ha cercato in questi anni di promuovere un processo di riconciliazione che a Juba, insieme, cercheranno di consolidare.
Due missioni impegnative sul piano politico, dunque. Ma per papa Francesco sarà anche un’immersione in un Continente cruciale per il cattolicesimo di domani. Nelle statistiche l’Africa resta la parte di mondo dove continuano a crescere i fedeli e il numero di sacerdoti: rappresenta già quasi il 19% della popolazione cattolica globale e la crescita è costante. La Repubblica democratica del Congo – in particolare – conta oggi oltre 52 milioni di cattolici battezzati, più dell’Italia. Ed è un Paese giovane, in forte crescita demografica: secondo l’ONU nel 2050 sarà una delle dieci Nazioni più popolose al mondo.
Quale impronta daranno al cattolicesimo di domani le comunità africane? Difficile dirlo. Da una parte porranno certamente la questione della povertà e degli squilibri planetari. Ma l’Africa è anche un continente dove la fede religiosa è un fattore identitario, fortemente ancorato ai valori della tradizione. Per dare un termine di paragone: nel mondo anglicano sono state spesso le comunità africane a osteggiare più duramente le aperture «progressiste» sui temi etici come la questione dell’omosessualità. E, anche tra i cattolici, il guineano Robert Sarah è oggi uno degli esponenti più in vista del fronte conservatore all’interno del Collegio cardinalizio.
Questa settimana con papa Francesco a Kinshasa e a Juba sarà dunque un’occasione importante per capire che molto più che nelle aule sinodali dell’Europa, è nelle periferie delle metropoli africane che si deciderà la direzione del cattolicesimo nel XXI secolo. Anche per questo, superare le ferite e le contraddizioni che le attraversano è un’urgenza che papa Francesco non si stanca di ricordare.
Al servizio di Saied
Potentissime ◆ Ritratto della premier tunisina Najla Bouden Romdhane
Cristina Marconi
Avere una donna al potere è un segno di progresso. Offre tra le altre cose alle bambine e alle ragazze un modello a cui ispirarsi per non sentirsi costrette in un ruolo tradizionale, liberando nel lungo termine energie positive. Ma nel breve termine, a volte, sono purtroppo i furbi a guadagnarci e fare bella figura. Nel caso della Tunisia la nomina a premier di Najla Bouden Romdhane (nella foto), compassata ingegnera e geologa di 64 anni con studi a Parigi e nessuna esperienza politica, è apparsa da subito come uno di quei casi ad alto rischio di «pinkwashing» («lavaggio in rosa») con cui un sistema autoreferenziale si dà un tono – adottando un apparente atteggiamento di apertura nei confronti dell’emancipazione femminile – per continuare a esercitare il potere come preferisce.
Prima donna a occupare un posto così importante nella storia della Tunisia (nei Paesi musulmani ci sono precedenti, come Benazir Bhutto in Pakistan), è stata nominata dal presidente e uomo forte di Tunisi Kais Saied nel settembre del 2021, dopo quello che in molti considerano un golpe, avvenuto il 25 luglio con la destituzione dell’ex primo ministro Hichem Mechichi, vicino al partito islamista moderato Ennahdha e in carica da appena 10 mesi, la sospensione del Parlamento e la concentrazione del potere legislativo e giudiziario nelle mani dello stesso Saied. I due vengono dallo stesso ambiente e dalla stessa regione. Bouden è, sulla carta, una figura impeccabile, ancorché priva di quell’esperienza che le avrebbe consentito di navigare con autonomia le turbolente acque politiche tunisine: addottorata alla prestigiosa École des Mines francese, insegna all’università, è un’esperta di terremoti e disastri ambientali, è stata direttrice del Ministero dell’istruzione e responsabile di un programma della Banca Mondiale per le scuole. Una scienziata e una tecnica che ha meno carte in mano rispetto ai suoi predecessori visto che Saied ha indetto uno stato di emergenza a tempo indeterminato mentre il Paese da diversi mesi vive una delle più gravi crisi alimentari della sua storia. Lo scorso 17 dicembre – dodicesimo anniversario della morte del venditore ambulante Mohamed Bouazizi, che si diede fuoco per protestare contro le condizioni di vita sotto il regime di Ben Ali, dando il via alle Primavere arabe – si è tenuto il voto per eleggere il nuovo Parlamento, un’assemblea composta di 161 deputati che sostituirà quella dissolta da Saied. Molti analisti le hanno definite «elezioni vuote»: con le nuove regole il voto andava al candidato e non alla lista o al partito, aprendo di fatto
la strada solo a chi ha soldi e potere per fare campagna; in alcune circoscrizioni non si è presentato nessuno; su oltre mille candidati solo un centinaio era donna. L’opposizione, per non convalidare l’assetto politico voluto da Saied, ha boicottato il voto. Resta comunque il potentissimo presidente a formare il Governo. Intanto sono state depositate decine e decine di ricorsi al Tribunale amministrativo tunisino contro i risultati preliminari del voto e un secondo turno è previsto in febbraio.
La situazione nel Paese resta incandescente. Pandemia da Covid e guerra in Ucraina hanno alimentato una terribile crisi economica e sociale: il costo della vita è insostenibile e i cittadini non hanno accesso a beni primari – a volte manca lo zucchero, a volte il grano, a volte il latte – e questo crea una situazione estremamente instabile. Inoltre Saied, che ha scelto un’altra donna, Nadia Akacha, come sua capa di gabinetto, ha messo prevedibilmente mano anche alla libertà di espressione e di stampa, con una legge sulla criminalità online che, in nome della lotta alle fake news, sta generando un clima di incertezza e terrore.
Il primo a farne le spese è stato il direttore di «Business News», Nizar Bahloul, che è stato interrogato a lungo per un articolo intitolato Najla Bouden, la gentildonna, in cui un giornalista denunciava in modo deciso l’immobilismo del Governo e la terribile situazione di degrado in cui versa il Paese. Tutte cose che i media e l’opposizione dicono in continuazione ma che la ministra della Giustizia, Leila Jaffel, ha deciso di affrontare, nel caso di «Business News», per mandare un avvertimento a tutti i media che avevano ritrovato una certa libertà dopo gli anni bui di Ben Ali.
Secondo l’articolo citato, Bouden Romdhane non solo non interviene ma non rilascia interviste, non ha neppure un ufficio stampa tanto il tema della comunicazione è irrilevante per lei e mantiene un ruolo meramente cerimoniale durante le visite di Stato. Inoltre non sta facendo nulla per contrastare gli enormi problemi del Paese, che conta su un prestito del Fondo Monetario Internazionale per stare a galla. Bouden Romdhane: una donna al servizio del potere maschile dunque. Sicura di sé al punto da non indossare il velo durante una visita in Arabia Saudita ma incapace di farsi valere? Possibile, probabile. Eppure il potere dei simboli rimane forte e non si può non pensare che magari i tunisini e le tunisine, fieri di essere il Paese dell’area meno chiuso nei confronti delle donne, si affezioneranno all’idea di presentarsi al mondo con una guida diversa.
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BNS, cinquant’anni di politica monetaria
L’anniversario ◆ Dopo il crollo del sistema di cambi fissi, nel gennaio 1973 la Banca Nazionale Svizzera si rende più autonoma
Ignazio Bonoli
Cinquant’anni fa, il 23 gennaio 1973, la Banca Nazionale Svizzera (BNS) decideva di abbandonare il sistema dei cambi fissi. Fu la prima, fra le banche centrali europee, che decise di sganciarsi dal riferimento al dollaro americano e di praticare una politica dei tassi di cambio autonoma. Il sistema in vigore le imponeva, infatti, di acquistare una grande quantità di valute estere per mantenere il tasso di cambio del franco svizzero entro i limiti consentiti. La decisione fu in realtà una conseguenza del primo scossone subito dal sistema dei cambi fissi, quando gli Stati Uniti decisero di non più legare il dollaro a un prezzo fisso dell’oro: gli storici 35 dollari per oncia di oro fino. L’annuncio venne fatto nell’agosto del 1971 dal presidente Richard Nixon, ma già in precedenza le tensioni erano aumentate sui vari mercati monetari.
Intanto il franco svizzero cominciava ad assumere il ruolo di bene rifugio. Al punto che, più che altro per dare un segnale, il Consiglio federale aveva deciso, già nel mese di maggio del 1971, di rivalutare del 7% il franco svizzero. Anche in Svizzera la calma durò pochissimo e in agosto vi fu quello che venne definito lo «shock Nixon». Chiaramente la misura della rivalutazione del franco non servì a quasi nulla, poiché gli acquisti di franchi all’estero continuarono senza sosta. Molti esportatori svizzeri la criticarono fortemente, temendo
un aumento dei prezzi all’esportazione dei loro prodotti, compreso il turismo. A poco valsero anche i ripetuti moniti del Consiglio federale, tra cui, nel 1972, il divieto agli stranieri di acquistare beni immobili in Svizzera, nonché una sorta di «interessi negativi» (chiamati «commissioni») sull’aumento di depositi di stranieri in franchi svizzeri.
Tuttavia, la domanda di franchi non diminuì e la Banca Nazionale Svizzera accumulò enormi riserve di dollari. Nel solo giorno del 22 gennaio 1973 affluirono in Svizzera dollari per un miliardo di franchi. La BNS decise – come detto in entrata – di abbandonare il sistema e di iniziare a praticare una politica monetaria autonoma, in difesa degli interessi della Svizzera. Tra i tentativi di rimettere un po’ d’ordine vanno ricordati gli «Accordi dello Smithsonian», dal nome dell’istituto di Washington nel quale si svolse l’incontro dei dieci maggiori Paesi industrializzati, il 17 e il 18 dicembre 1971. Qui gli Stati Uniti decisero una svalutazione del dollaro. Questo provocò un’ulteriore rivalutazione del franco svizzero del 6,4%.
Benché il sistema dei cambi fissi mostrasse tutti i suoi limiti, le banche centrali avevano continuato a praticare una politica di stabilizzazione dei tassi di cambio. Il sistema era nato nel 1944 con i famosi «Accordi di Bretton Woods». In pratica si chiedeva a tutti
i Paesi di evitare la corsa alle svalutazioni competitive che avrebbero condizionato la ripresa economica, dopo i disastri della Seconda guerra mondiale. In cambio gli USA si impegnavano a mantenere il prezzo fisso dell’oro a 35 dollari l’oncia. In sostanza si manteneva il sistema del «tallone aureo» un po’ annacquato, con il dollaro che manteneva il ruolo di moneta di riferimento, ma non fu più convertibile in oro. Nell’immediato dopoguerra gli Stati Uniti avviarono però una politica di deficit spending, che comportò un’elevata inflazione. A causa dei cambi fissi gli altri Paesi importarono a loro volta l’inflazione, poiché una massa enorme di dollari invase il mondo intero. All’esterno degli Stati Uniti circolarono più dollari che all’interno. Washington venne meno al ruolo di garante dell’intero sistema. Già nel 1973 la BNS aveva deciso di non più intervenire sui mercati delle divise. Nel 2011 prese però una decisione molto importante. Quella di difendere il franco tramite un tasso fisso con l’euro. Ma questo tentativo di rilanciare il sistema, almeno a livello europeo, ebbe una durata limitata. Nel 2015 la BNS ne annunciò la fine e con essa l’abbandono totale del sistema dei cambi fissi, sostituito dal cosiddetto floating generalizzato. Allora non si trovavano soluzioni di ricambio né sul piano teorico, né su quello pratico.
Si imposero però le teorie dell’eco-
nomista americano Milton Friedman che consigliavano alle banche centrali una stretta sorveglianza della massa monetaria in circolazione. Attuate in parte già dal 1975, queste teorie non impedirono comunque un forte apprezzamento del franco su altre valute, soprattutto dollaro ed euro. Già nel 1978 la BNS aveva però provato a definire un tasso di cambio fisso con il marco tedesco. Interventi nei cambi furono attuati in varie circostanze. Nel 1999 la BNS aderì alle idee sviluppate dal Fondo Monetario Internazionale, secondo cui la politica monetaria doveva perseguire l’obiettivo di un tasso d’inflazione costante tra lo 0 e il 2%.
Seguirono politiche che produssero una grande quantità di moneta in circolazione con interessi a tasso zero. La guadagnata libertà di manovra permette ora di lasciar apprezzare il franco in modo da non importare l’inflazione che domina in Europa, provocata essenzialmente dal costo dell’energia e dalle difficoltà di approvvigionamento in materie prime. In 50 anni di movimenti finanziari estremi, la BNS ha accumulato molte esperienze ed è ora in grado di decidere quanto ritiene meglio per il mantenimento della stabilità dei prezzi e, se necessario, sostenere la congiuntura, come figura attualmente anche nella Costituzione federale.
Certificato di previdenza, cosa c’è da sapere
La consulenza della Banca Migros ◆ Poco tempo fa Maria Rossi ha ricevuto dalla sua cassa pensione il nuovo certificato di previdenza. Cosa contiene il documento e cosa rivela sulla futura rendita di vecchiaia
Jörg Marquardt
1. Salario assicurato
L’importo del salario assicurato determina l’entità dei contributi versati e l’ammontare della futura rendita di vecchiaia. Il calcolo avviene così: 25’725 franchi vengono detratti dal salario annuale. L’ammontare corrisponde all’importo già assicurato tramite l’AVS. Questo importo è denominato deduzione di coordinamento. Il datore di lavoro può tuttavia ridurre tale deduzione o, come nell’esempio, adeguarla al grado di occupazione.
2. Avere di vecchiaia accumulato
fino ad oggi
Nel nostro esempio l’attuale avere di vecchiaia ammonta a 72’961 franchi. Include tutti i contributi di risparmio versati fino ad ora dal datore di lavoro e dalla dipendente, interessi compresi. Questo importo viene anche chiamato prestazione di libero passaggio. Se un dipendente cambia lavoro, porta con sé tale importo presso il nuovo datore di lavoro.
3. Ripartizione dei contributi
Il contributo di risparmio è il contributo versato dal dipendente nell’arco di un anno. Detto contributo aumenta con l’età: tra i 25 e i 34 anni è del 7%, tra i 35 e i 44 anni del 10%, tra i 45 e i 54 anni del 15% e a partire dai 55 anni del 18%. Il datore di lavoro versa almeno la metà dell’importo, come nel nostro esempio. Per coprire i rischi di invalidità e decesso è inol-
tre previsto il cosiddetto importo di rischio, che nel nostro esempio è pari all’1,5%. Esso viene sostenuto in parti uguali dal dipendente e dal datore di lavoro. Anche in questo caso il datore di lavoro ha la possibilità di fissare contributi più elevati o di versare una quota maggiore.
4. Interessi sull’avere di vecchiaia Nel caso dell’avere di vecchiaia occorre distinguere tra parte obbligatoria e parte sovraobbligatoria. Nella parte obbligatoria confluiscono i contributi per i salari compresi tra 25’725 e al massimo 88’200 franchi all’anno. Tutto il resto fa capo alla parte sovraobbligatoria. In ambito obbligatorio, i contributi fruttano un interesse minimo dell’1%. Nello scenario di sovraobbligazione, invece, il tasso d’interesse può essere inferiore – cosa che nel nostro esempio non avviene.
5. Rendita presumibile All’età di 65 anni, l’avere di vecchiaia della dipendente sarà cresciuto a 174’635 franchi – a condizione che il tasso d’interesse e il salario rimangano costanti. La rendita annuale dipende dall’aliquota di conversione. Attualmente, per l’importo soggetto ad assicurazione obbligatoria, l’aliquota corrisponde al 6,8%. Nel caso della parte sovraobbligatoria, tuttavia, la cassa pensione è libera di stabilire un’aliquota diversa. Nel nostro esempio essa
è pari al 6%. Questo è il risultato di un calcolo misto tra le due aliquote. Per calcolare la presumibile rendita di vecchiaia, l’avere di vecchiaia viene moltiplicato per l’aliquota di conversione. Nel nostro esempio risultano 10’478 franchi all’anno.
6. Riscatto volontario Congedi parentali, lavoro a tempo parziale o aumenti di reddito possono determinare un gap di copertura, ovvero una differenza tra quanto potrebbe essere versato e quanto è stato effettivamente versato fino a quel momento. Per colmare il divario, gli assicurati possono versare al fondo pensione ulteriori contributi volontari. Questi contributi sono deducibili dal reddito imponibile nella dichiarazione d’imposta. L’entità dei versamenti dipende dall’entità della lacuna di copertura. Nel nostro esempio ammonta a 18’480 franchi.
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di Cassa pensione Dati personali Nominativo personale Maria Rossi Data di nascita 0 4.02.1972 Stato civile coniugata Numero AVS 756.99999.9999.99 Data di iscrizione alla cassa pensione 01.06.2014 Data di pensionamento 01.03.2037 Dati salariali Salario annuo AVS 4 8’000 Salario assicurato 32’565 Grado di occupazione 6 0% Prestazione di libero passaggio e finanziamento Stato delle prestazioni di libero passaggio allo 01.01.2023 72’961 – di cui LPP obbligatoria 52’860 Contributo annuale di risparmio 4’884 – di cui contributo annuale di risparmio dipendenti 2’442 Contributo annuale per l’assicurazione di rischio, costi amministrativi e fondo di garanzia 4 88 – di cui contributo annuale dipendenti 244 Prestazioni in vecchiaia Presumibile avere di vecchiaia a 65 anni con l’1% di interessi 174’635 Presumibile rendita di vecchiaia (aliquota di conversione 6%) 10’478 Prestazioni in caso di invalidità Rendita d’invalidità 13’026 Rendita d’invalidità per figli 2’605 Prestazioni in caso di decesso Rendita vedovile 7’815 Rendita per orfani 2’605 Ulteriori informazioni Prestazioni di libero passaggio effettuate 32’323 Riscatto massimo possibile del fondo pensione 18’480 Massimo prelievo anticipato possibile per il finanziamento di immobili residenziali di proprietà 72’961
Certificato
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Caso Berset, perché nessuno è intervenuto?
Fuga di notizie ◆ L’indagine che coinvolge il consigliere federale socialista si allargherà
per capire se anche in altri dipartimenti ci possano essere state delle falle simili. Intanto traballa il principio alla base del Governo elvetico: la collegialità
È un «B&B», ma in questo caso non si parte in vacanza. Per la politica svizzera questo 2023 è iniziato nel segno di Alain Berset (nella foto) e del «Blick», per il tanto discusso caso di fughe di notizie emerso nel Dipartimento diretto proprio dal consigliere federale friburghese. Una doppia B che da due settimane sta mettendo alle strette il presidente della Confederazione e intaccando il principio fondamentale alla base del Governo elvetico: la collegialità. Questo perché quelle indiscrezioni hanno permesso al «Blick» di anticipare con una certa regolarità le decisioni che il Governo stava prendendo nel contrastare il Coronavirus: chiusure, restrizioni e vaccini. Parole che ci ricordano quei momenti drammatici del nostro recente passato. La vicenda non è per nulla terminata ma queste due settimane di tormenta politica e mediatica si sono di fatto concluse con la seduta del Consiglio federale di mercoledì scorso. Incontro settimanale in cui Berset si è dovuto confrontare con le domande e forse anche le critiche dei suoi colleghi di Governo. E qui sono emersi due fatti decisamente inusuali nella storia recente del nostro Paese.
Il primo: una parte di questa riunione si è tenuta senza lo stesso Berset. Forse contro la sua stessa volontà il presidente, che normalmente è chiamato a dirigere i lavori, ha dovuto lasciare la sala del Consiglio federale. La discussione interna è stata affidata provvisoriamente alla vice-presidente Viola Amherd. Una configurazione inedita per un Governo che si vuole collegiale e che ha affrontato ben altre bufere a ranghi completi, con i ministri che si sono sempre guardati e confrontati a viso aperto. Il secondo fatto inusuale è emerso nel corso della conferenza stampa che ha fatto seguito alla riunione governativa, in presenza dello stesso Berset e gestita con piglio insolitamente severo da André Simonazzi, il portavoce della Confederazione. Tutto lascia pensare che il Governo abbia posto dei paletti piuttosto stretti a questa comunicazione, visto che Berset si è limitato ad affermare – e a ripetere per diverse volte – di essere pronto a collaborare con l’indagine aperta il giorno prima dalle Commissioni della gestione del Parlamento. È stato invece Simonazzi a comunicare, leggendo una nota stampa, il punto centrale emerso dall’incontro governativo, e cioè che Berset non sapeva nulla della fuga di notizie di cui è stato vittima il suo Dipartimento. Seppur più volte sollecitato, il consigliere federale non si è invece espresso con parole proprie su questo concetto, un argomento fondamentale per cercare di stabilire la verità dei fatti attorno a quelli che vengono chiamati i «Corona-leaks».
Berset verrà ascoltato da chi indaga sulla faccenda, uno speciale gruppo di lavoro composto da sei deputati
Berset verrà presto ascoltato da chi a nome del Parlamento indagherà su questa vicenda, uno speciale gruppo di lavoro composto da sei deputati chiamati a far luce su questo flusso di informazioni confidenziali. Ma i lavori di questo gruppo ad hoc non si limiteranno al «caso Berset», verrà analizzato anche tutto l’assetto comunicativo del Governo negli anni
più difficili della pandemia. In altri termini si vuole capire se anche in altri dipartimenti ci possano essere state delle falle simili, con divulgazioni di notizie più o meno segrete ai media del nostro Paese. Insomma a Berna si è aperta una sorta di caccia alle fughe di notizie, una pratica non certo nuova che il Consiglio federale nel suo comunicato di mercoledì considera nociva al buon funzionamento delle istituzioni. Non sappiamo quale possa essere il margine di manovra accordato a queste indagini parlamentari. La materia appare comunque piuttosto ampia e complessa, anche perché la macchina comunicativa dell’amministrazione federale si è decisamente ingrandita in questi ultimi anni. Un paio di esempi.
A Berna si è aperta una sorta di caccia alle fughe di notizie, una pratica non certo nuova che il Consiglio federale considera nociva
Iniziamo proprio dal Dipartimento dell’interno, diretto da Alain Berset, che dispone di cinque addetti stampa al servizio diretto del consigliere federale socialista. L’Ufficio federale della sanità pubblica, che fa parte dello stesso dipartimento, può avvalersi invece del lavoro di altri quattro portavoce. Altro esempio: al Dipartimento dell’ambiente, dei trasporti e dell’energia e delle comunicazioni del neo-consigliere federale Albert Rösti i portavoce sono invece sei. In questo dipartimento si trova tra gli altri anche l’Ufficio federale dell’ambiente, che a sua volta dispone di altri cinque addetti stampa. E ci fermiamo qui, ma la lista potrebbe essere ben più lunga. Si tratta solo di alcuni esempi per capire quanto sia ampio lo sforzo comunicativo del Governo e dei singoli dipartimenti. Un vantaggio per la trasparenza e l’informazione ai cittadini. Al tempo stesso possono però emergere anche degli aspetti problematici perché il moltiplicarsi di esperti in comunicazione accresce anche il rischio di fughe di notizie. E questo in un contesto mediatico che negli ultimi anni si è fatto più competitivo e nervoso, con giornalisti costantemente alla caccia di primizie.
Ma torniamo al caso «B&B» perché al di là delle indagini in corso, sia a livello penale che politico, ci sono
un paio di interrogativi che al momento non hanno ancora trovato una risposta. Alain Berset ha affermato davanti ai suoi colleghi di Governo di non sapere, di non essere a conoscenza dello scambio di informazioni gestito a quanto pare in modo piuttosto sistematico da Peter Lauener, il suo ex responsabile della comunicazione,
in favore del gruppo mediatico Ringier. E fin qui gli si può far fiducia, visto che questa stessa «ritrovata fiducia» è stata sottolineata mercoledì anche dai suoi sei colleghi di Governo.
C’è insomma una sorta di timbro istituzionale sulla sincerità del ministro socialista. Resta però da capire come mai, davanti alle ripetute anticipazio-
ni del «Blick», Berset non sia intervenuto per scoprire l’origine di questi «scoop». Ma a ben guardare non solo lui avrebbe dovuto porsi questo tipo di domanda. Non toccava forse anche ai suoi sei colleghi di Governo sollevare qualche dubbio su quanto stava capitando a livello comunicativo? E non era compito anche dei partiti e dei parlamentari federali fare altrettanto? Forse tra di loro qualcosa si saranno pur detti ma a ben guardare nulla allora è stato fatto per capire dove fosse la falla e per tentare di frenare le continue anticipazioni del «Blick». Insomma, rimangono delle zone d’ombra su cui le indagini in corso cercheranno di far luce. Con una certezza: malgrado le critiche più volte emerse in questi anni, anche con proteste di piazza, diversi studi attestano che la Svizzera se l’è cavata piuttosto bene nella gestione della pandemia. Senza volerle giustificare, vien dunque da chiedersi se quelle fughe di notizie abbiano davvero intralciato il lavoro del Consiglio federale e l’efficacia delle decisioni adottate. E intaccato la collegialità governativa. Collegialità che è stata messa alla prova in queste ultime due settimane e che i membri del nostro Governo si sono detti pronti – con fiducia ritrovata – a ristabilire. Perché in fondo i problemi veri e concreti del Paese sono decisamente altri.
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Inflazione, fino a quando?
Il 2022 non è stato solamente l’anno in cui in Europa è ritornata la guerra ma anche quello nel quale essa ha ritrovato, dopo averla cercata per anni, inutilmente, l’inflazione. L’inflazione corrisponde a un aumento generale dei prezzi superiore a un certo valore percentuale. Più il tasso di aumento dei prezzi – misurato normalmente con l’indice dei prezzi dei beni di consumo – è elevato, più grande e maggiormente preoccupante diventa l’inflazione. Prima del 1970 questa cominciava a essere problematica quando la variazione dell’indice dei prezzi saliva sopra il 4%. Si pensava invece che un tasso di inflazione inferiore a questo limite potesse essere ritenuto inevitabile, posto che si volesse che la domanda globale, e quindi anche i salari, aumentassero per assicurare un tasso di crescita dell’economia elevato. Poi vennero gli anni della stagflazione, ossia dell’inflazione accompagnata dalla stagnazione
Affari Esteri
dell’economia. Per le banche centrali l’inflazione diventò allora il subdolo nemico che andava combattuto senza risparmio di forze. Ma, come insegna l’esperienza degli ultimi 40 anni, se l’inflazione può essere combattuta con una politica monetaria severa, quel che non si riesce più a ottenere è un tasso di crescita del Pil elevato senza inflazione. Per rilanciare l’economia le banche centrali hanno così praticato, nel corso degli ultimi 15 anni, una politica dei tassi di interesse bassi opponendosi, all’inizio, alle pressioni di coloro che continuavano a dipingere il diavolo dell’inflazione sulla parete. In realtà nel corso del decennio 2010-2020 le economie europee hanno vissuto una situazione abbastanza straordinaria durante la quale, nonostante i tassi di interesse fossero da ultimo diventati addirittura negativi, l’inflazione non si è vista. Verso la fine del decen-
nio la Banca Centrale Europea si era imposta, come obiettivo della sua politica, di ottenere un tasso di aumento dei prezzi pari al 2%. Per la Banca Nazionale Svizzera (BNS) questo aumento corrisponde addirittura al livello di stabilità dei prezzi. Nonostante i tassi di interesse restassero molto bassi, il livello generale dei prezzi continuò però a nicchiare. Prova ne sia il fatto che, dal 2010 al 2020, la variazione annuale media dei prezzi al consumo della Svizzera è stata pari al –0,1%. Poi sono venuti la pandemia da Covid-19 e la guerra di Ucraina a stimolare il rincaro. Ci si può chiedere se, in assenza della pandemia e della guerra, la situazione con tassi di interesse bassi e inflazione nulla o negativa sarebbe continuata ancora per qualche anno. Difficile dirlo, perché in economia non si possono riprodurre in laboratorio le condizioni sperimentali sulle quali si intende indagare. Ci si può
I Verdi tedeschi e le dimostrazioni di forza
A quasi un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte di Putin s’è aperta una nuova fase della guerra, ed è crollato un altro tabù nel sostegno che l’Occidente è disposto a dare a Kiev. L’aggressione di Mosca è continuativa, indiscriminata e geograficamente allargata a tutta l’Ucraina: nelle ultime settimane le immagini e i racconti dal fronte del Donbass, in particolare nella regione di Bakhmut, ci dicono che il fronte della guerra non è quello che ci immaginiamo – conflitti distanziati, coi radar – ma è ravvicinato e brutale, oltre che mortifero. Per questo il sostegno occidentale è cambiato e ora sono in arrivo, oltre ai sistemi missilistici, i carri armati di fabbricazione inglese, americana e tedesca. Questo cambio di passo è stato tormentato soprattutto in Germania, che produce i carri armati Leopard, mezzi all’avanguardia in possesso di molti eserciti europei, oltre ovviamente quello tedesco. Con
Zig-Zag
il tempo scopriremo forse il mistero di Olaf Scholz, il riluttante cancelliere tedesco che, proprio sull’invio dei Leopard, si è infilato in un vicolo cieco, uscendone parecchio ammaccato nella propria credibilità – ha infine dato il suo consenso dopo averlo rimandato per troppo tempo – e nella fiducia che i suoi alleati, interni e internazionali, sono disposti a concedergli nella gestione di questo conflitto. Se il cancelliere ne esce male, invece la sua ministra degli Esteri, la Verde Annalena Baerbock, brilla sempre di più. La trattativa sui Leopard è solo l’ultimo esempio della costruzione della leadership di Baerbock, che riguarda lei naturalmente ma anche i Verdi tedeschi e forse, facendo un passo più lungo, l’idea di una sinistra nuova e rinnovata di fronte alla guerra. Quando ancora Scholz tentennava e deludeva le aspettative dei suoi alleati e del Governo ucraino – ferocissimo con le cautele tedesche – Baerbock
ha affermato che la Germania non si sarebbe opposta al fatto che gli altri Paesi, come la Polonia (la più insistente), potessero inviare all’Ucraina i Leopard in loro possesso: in quel momento, mentre la ministra degli Esteri parlava, l’autorizzazione di Berlino era ancora in forse. Baerbock ha detto questa frase, che ha spinto Scholz almeno a sbloccare la possibilità che i panzer fossero inviati dagli altri Paesi europei, in un’intervista a una televisione francese, dettaglio non da poco se si pensa a quanto sono freddi i rapporti oggi tra Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron, e se si pensa alla risonanza che questa «spintarella» in diretta tv avrebbe avuto (lo stesso giornalista francese ha chiesto a Baerbock «Ho capito bene?» e lei «Sì, ha capito bene»).
A differenza di Scholz e dell’Spd, il partito a capo della coalizione semaforo che oggi guida la Germania (il terzo è quello dei liberali), Baerbock
L’inarrestabile progresso richiede sacrifici
Calendario da muro, 60 cm di lunghezza per 12 di larghezza. Ogni fine dicembre c’è da cambiare quello nuovo e il «da cambiare» significa non solo sostituirlo, ma anche trascrivere nomi e date di compleanni e anniversari nei giorni esatti. Quest’anno per rafforzare la continuità, come motto augurale su ognuno dei 365 giorni ho immaginato di porre idealmente un verso del «messaggio degli angeli» del poeta Czeslaw Milosz: «È presto giorno / ancora uno / fa ciò che puoi». Puntualità elvetica: in data 1. gennaio 2023 Postfinance, braccio finanziario de La Posta, mi certifica lo stato del mio conto privato (il vecchio conto-cheques postale). L’inappuntabilità del servizio è estesa a un foglio «Da conservare p.f.!» (credo sia per favore, ma potrebbe anche essere… per forza) e da allegare alla prossima dichiarazione delle imposte. Così, oltre
al saldo, vedo che assieme al pattuito costo annuo di 60 franchi per gli avvisi cartacei c’è anche un addebito di 60 franchi per le spese di gestione. Dimenticavo: interessi, è ovvio, 0 (zero) franchi. «Ancora uno». Come per Milosz, ecco la ripetitività. Qualche giorno dopo ricevo un altro avviso di pagamento: la fattura mensile di Swisscom. Oltre ai costi degli abbonamenti (telefono fisso, internet e un mobile al minimo) per un totale di 139 franchi, alla voce «Altri servizi» trovo che Swisscom mi addebita anch’essa ogni mese 2,90 franchi per la versione cartacea della fattura e scopro che assomma 3,50 franchi per il pagamento effettuato il mese precedente a uno sportello postale. Inizio ad avvertire un po’ di prurito, imputabile al fatto che Swisscom (come la Posta, di proprietà della Confedera-
zione, quindi pubblica) mi penalizza perché per pagare la sua fattura privilegio la Posta snobbando la presunta gratuità dei pagamenti elettronici via internet. Provo a precisare: a me, e penso anche a migliaia di suoi utenti soprattutto anziani, in tutta la Svizzera, per la gestione di un conto privato del suo braccio finanziario, la Posta chiede un contributo. Dato che utilizzo questo servizio (che fino a prova contraria comprende anche i pagamenti agli sportelli delle filiali) per una transazione con Swisscom, quest’ultima mi applica una penalità perché uso il servizio pubblico. Già che siamo in «argomento Swisscom», aggiungo che anche la sua Blue Tv sta mettendo in atto un balzello più o meno analogo con i programmi televisivi: ha fatto sparire la funzione di replay dai pacchetti di base più economici e per rivedere
di Angelo Rossi
invece chiedere quanto potrà ancora durare l’attuale ondata inflazionistica, se guerra e Covid continueranno a disturbare l’ordine delle cose. Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto del fatto che l’attuale inflazione è stata determinata soprattutto dall’aumento dei prezzi del petrolio. Possiamo ora osservare che l’aumento annuale dei prezzi del petrolio, che era ancora superiore al 40% in agosto dello scorso anno, si è ridotto al 18,1% in novembre. È come dire che la velocità con la quale la macchina dell’inflazione si stava sviluppando a metà 2022 è stata scalata di un paio di marce. Nel corso degli ultimi mesi, poi, la rapidità di questo fenomeno è stata vieppiù influenzata dal rincaro dei prezzi degli altri beni che concorrono a formare l’indice dei prezzi. Contrariamente ai prezzi del petrolio, il tasso di crescita dell’indice d’assieme dei prezzi di questi beni ha conosciuto un aumento, tra
agosto e novembre, passando dal 4,8 al 5%. Di conseguenza sull’evoluzione del tasso di inflazione dei prossimi mesi incideranno due tendenze contrarie. La prima tendenza, messa in atto dalla diminuzione dei prezzi del petrolio, agirà da freno, mentre la seconda, derivante dal moderato aumento dell’indice dei prezzi degli altri beni di consumo, tenderà a mantenere il rincaro a un livello vicino a quella che la BNS definisce come la zona di stabilità dei prezzi, ossia vicino al 2%. Per molti commentatori la combinazione di queste due tendenze dovrebbe determinare una diminuzione del tasso di inflazione complessivo nel corso del 2023. Così il KOF del Politecnico di Zurigo prevede che, dal 2,8-2,9% del 2022, il tasso annuale di aumento dell’indice dei prezzi dei beni al consumo dovrebbe passare in Svizzera nel 2023 al 2,22,3%, avvicinandosi alla zona di stabilità definita dalla BNS.
ha avuto fin dall’inizio un approccio molto deciso alla guerra: «È necessario fare tutto il possibile per fermare l’aggressione di Putin», ha dichiarato già nella prima fase del conflitto, quando ancora questo «tutto il possibile» aveva contorni sfumati che fornivano vie di fuga a Scholz e anche ad altri alleati. Da quel momento Baerbock si è impegnata per un sostegno a tutto tondo, da quello militare a quello umanitario e finanziario, che è di fatto il più grande impegno assunto dalla Germania nei confronti dell’Ucraina: per quanto possa sembrare contraddittorio rispetto alla percezione prevalente, Berlino è il secondo donatore tra gli alleati, dopo gli Stati Uniti. La ministra degli Esteri rivendica questo impegno e anzi lavora per costruire anche le condizioni perché i crimini che la Russia sta compiendo in Ucraina vengano riconosciuti a livello internazionale e Mosca sia chiamata a rendersene responsabile.
L’esperienza di Baerbock indica un’evoluzione del pensiero dei Verdi: come noto, i Grünen sono i più pragmatici tra i Verdi europei. Poiché sono al Governo in molte regioni tedesche, fanno conti quotidiani con la necessità di far convergere la propria ideologia con l’amministrazione concreta di persone, soldi, territori. Il pacifismo è uno dei tratti più raccontati del pensiero dei Verdi, ma Baerbock ha mostrato in quest’anno di guerra che volere la pace non significa non essere disposti a usare anche i mezzi militari per conquistarla. Ancor più se è una guerra d’aggressione in cui Putin vuole dimostrare che le regole internazionali non hanno valore, conta la legge del più forte. Se così è, allora bisogna far valere le regole internazionali e dimostrare una forza superiore: è questa idea che Baerbock ha imposto nel dibattito come un’idea di sinistra.
(anche nello stesso giorno, anche solo per pochi minuti) un telegiornale, un dibattito politico o il goal di una partita ora bisogna pagare 178 franchi annui in più! Prossimo cappio, le registrazioni?
«Fa ciò che puoi», consiglia il poeta. La marcia di questa mirabolante informatizzazione totale è avallata dal fatto che genera risparmi e maggiori profitti a chi li gestisce, ma favorita anche da politici ormai silenziosi anche davanti a filiali chiuse e posti di lavoro persi. Di fatto chi non alza le mani di fronte a queste forme di progresso finisce sempre per sentirsi, oltre che penalizzato, anche del tutto inerme. Ovvio: soluzioni ce ne sono. Basta che il tapìno, o il matusa, si sobbarchi l’acquisto di un computer o di un cellulare e sottoscriva «mirati» abbonamenti mensili con tariffe scalari in base alla velocità di internet e
delle bande di telefonia mobile. Ricordo che mezzo secolo fa John Kenneth Galbraith, grande economista e uomo politico americano di parte democratica, nel suo L’età dell’incertezza elogiava la Svizzera perché come nessun altro Paese «ammette con tanta fermezza i principi dell’impresa privata; e inoltre ve ne sono pochi in cui le concessioni pratiche al socialismo sono più numerose e varie». Come prove, Galbraith elencava banche di proprietà pubblica, ferrovie nazionali, il postagiro, un sistema telefonico di pubblica proprietà e una televisione pubblicamente gestita. Sono ancora quasi tutte in funzione. Però delle loro ammirate «concessioni pratiche al socialismo», quelle un tempo estese sino a difesa e valorizzazione del servizio pubblico, ormai non c’è più traccia. Sacrificate agli inarrestabili progressi.
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CULTURA
Il minimalismo di Morandi
Alla scoperta della Casa museo dell’artista bolognese, figura altissima della pittura italiana
Pagina 31
Sopravvissuti
Simone Müller ritrae le vite di uomini e donne scampati al nazismo e oggi di casa in Svizzera
Pagina 33
Si vive una volta sola
L’inno alla vita di Mario Calabresi che nel suo nuovo libro narra con empatia le storie degli altri
Pagina 34
Papetti e il suo sax appeal
Un salto nel passato tra le raffinate cover musicali del sassofonista italiano che oggi avrebbe 100 anni
Pagina 35
L’arte come specchio per conoscere sé stessi
Gian Maria Tosatti ha fatto molto parlare di sé. Per la prima volta quest’anno, alla Biennale di Venezia, l’Italia ha scelto di farsi rappresentare da un solo artista, come avviene già da tempo per le altre nazioni. Le invidie, le discussioni, le critiche non sono mancate. Nei mesi scorsi è stato ospite dell’associazione «Nel –Fare arte nel nostro tempo» al LAC di Lugano, dove ad ascoltarlo c’era un pubblico numeroso. Tosatti (Roma, 1980) è oggi un artista, ma anche un giornalista e uno scrittore, oltre che neo-designato direttore della prossima Quadriennale di Roma. Pur essendosi formato nel campo del teatro – che tuttora continua a determinare il suo approccio – intraprende una carriera nelle arti visive a seguito del trasferimento a New York, dove rimane per dieci anni. Torna in Italia, stabilendosi a Napoli: qui perfeziona la sua pratica, sempre più intrecciata con il territorio: Sette stagioni dello spirito è un progetto durato quattro anni con il quale persegue la sua idea di arte fuori dagli spazi a essa convenzionalmente destinati, coinvolgendo comunità di quartieri disagiati e occupando spazi dismessi. Storia della Notte e Destino delle Comete è il titolo dell’installazione che ha presentato a Venezia. All’entrata si passa uno per volta, così da percorrere gli spazi in solitaria: il silenzio deve essere totalizzante mentre si attraversa la successione di ambienti industriali dismessi,
che sembrano essere stati da poco abbandonati. Il tema portante è il fallimento della società industriale, vista tramite la ricostruzione, secca e iperrealista di spazi di lavoro vuoti, lasciati in disuso. Ad aumentare la suggestione vale il sapere che arredi e macchinari sono stati comprati da fabbriche fallite durante la pandemia, che l’artista ha studiato e fotografato in preparazione dell’intervento. Un’arte quindi che si avvale di installazioni che sono congegni esperienziali, fortemente influenzati dal teatro, e vogliono essere motore di risveglio per recuperare la perduta armonia ambientale e sociale.
Di questo e altri progetti Gian Maria Tosatti ci racconta in questa intervista.
Mi interessa approfondire la sua professionalità così diversificata, dalla performance al giornalismo, dalla curatela alla gestione culturale. In che modo questo influenza la sua pratica artistica?
La tradizione degli artisti italiani, dall’Umanesimo, al Rinascimento, fino al Novecento è fatta di figure capaci di incrociare le discipline mettendole in dialettica tra loro. Penso a Leonardo, ma anche a Bernini e Michelangelo, fino a Pasolini o Giovanni Testori. Mi pare che tutto questo sia niente di più che una sorta di DNA che attraversa tutta la parabola della storia dell’arte e che, per nessuna ragione, avrebbe ragione di interrompersi nella generazione alla quale appartengo.
Vorrei sapere qualcosa in più in merito ai progetti che l’hanno portata a dedicarsi per lungo tempo a intere città (Roma, New York, Napoli) come spazio artistico. Ne ho letto la descrizione a posteriori, ma mi piacerebbe sapere quale concetto sottende a questo genere di interventi.
In realtà cerco semplicemente di realizzare dei ritratti molto fedeli nel mio lavoro. È un modo per far rispecchiare chi guarda, aiutandolo a vedersi, a conoscersi. Ritrarre una città è quasi come ritrarre ognuno dei suoi abitanti. Questo richiede un grande sforzo di conoscenza e precisione. Per questo mi trasferisco
a vivere in un luogo per diversi mesi prima di iniziare a lavorare. Devo raccogliere tutte le informazioni, osservare, cogliere le sfumature. E poi il ritratto si può cominciare a tracciare.
Al Padiglione Italia sono stata colpita dal fatto che al visitatore non fosse fornita quasi nessuna chiave di lettura. Perché avete fatto questa scelta?
Perché l’arte è uno specchio. Ognuno la attiva in modo diverso. Ognuno la usa per conoscere sé stesso. Se l’artista forza un’interpretazione taglia fuori il senso ultimo dell’opera, che è, appunto quello di aiutarci a fare una confessione a noi stessi, a dirci qualcosa che da molto tempo volevamo ammettere e non ci riuscivamo. L’opera della Biennale così ha potuto dire tante cose, come un oracolo, a ognuno che è andato da lei con la sua domanda celata nel cuore.
Per l’organizzazione della Quadriennale di Roma state facendo un enorme sforzo dedicato più in generale al sistema dell’arte. Qual è l’obiettivo di questa operazione?
L’obiettivo è semplicemente quello di dare allo Stato una istituzione in grado di poter essere funzionale agli importantissimi scopi che costituiscono la mission statutaria di Quadriennale, ossia la ricerca costante e aggiornata sull’arte italiana e la promozione internazionale
Qui a lato, l’installazione ambientale site specific «Il mio cuore è vuoto come uno specchio» – Episodio di Odessa, 2020. (Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli) In basso, Gian Maria Tosatti. (Maddalena Tartaro)
dei nostri artisti. Abbiamo fatto una piccola rivoluzione nel nostro ente. Ma senza stravolgerlo. Lavorando affinché evolvesse nel solco della sua funzione. Ma un nostro obiettivo è anche quello di costituire un esempio virtuoso per l’intero sistema. Abbiamo, infatti, deciso di non essere l’ennesima struttura culturale che cerca di fare tutto, di doppiare ciò che anche altri fanno. Noi facciamo delle cose molto precise. E con questo speriamo che anche le altre strutture vengano incoraggiate a fare delle scelte, preferendo un lavoro di networking e di collaborazione organica all’autarchia culturale. Diciamo che – per usare una metafora particolarmente attuale –preferiamo il concetto di smart grid (basato sulla fiducia nell’altro e nella cooperazione) a quello di autonomia energetica.
Ci anticipa qualcosa della mostra NOw/here che aprirà il 22 febbraio all’Hangar Bicocca, la prima grande mostra dopo la Biennale? Posso dire ancora poco di una mostra che è forse la scommessa più difficile e delicata della mia carriera. Sarà una mostra in cui cercherò di fare, con gentilezza e con fermezza, una opposizione al modo in cui tutto sta scivolando verso la catastrofe. Credo molto in questo progetto. E spero che i cittadini di Lugano possano venirlo a visitare non una sola volta, ma in tutto il corso della sua evoluzione.
● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 29
Incontro ◆ Artista, giornalista e scrittore, presto in mostra a Milano, Gian Maria Tosatti si racconta in questa intervista
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Il regno del minimalismo
Casa Museo/7 ◆ L’abitazione di Giorgio Morandi, spartana come lui
Gianluigi Bellei
«Archi, Archi, sempre Archi di noia», scriveva di Bologna Mario Pozzati nel 1916. La città sembrava noiosa, conservatrice, chiusa in sé stessa. Marinetti nel 1920 la definisce affetta da «Lue passatista» con le «torri come virilissimi membri bolognesi d’una volta». È proprio qui che il 5 febbraio 1909 il quotidiano cittadino «Gazzetta dell’Emilia» pubblica come articolo di spalla il manifesto di fondazione del futurismo firmato F.T. Marinetti. Ripubblicato poi, in francese, il 20 febbraio su «Le Figaro». Marinetti arriva a Bologna il 19 gennaio 1914 e con il suo staff crea un grande scompiglio. Due mesi dopo all’Hotel Baglioni si apre la prima mostra futurista della città. Partecipano Giorgio Morandi, Mario Bacchelli, Osvaldo Licini, Giacomo Vespignani e Severo Pozzati. Sicuramente non sono futuristi a parte Vespignani. Morandi, Licini e Pozzati sono amici e li chiamano «i tre tortellini».
Forse solo Morandi (1890-1964) assurge a figura altissima della pittura italiana. Si è creato il mito dell’artista solitario. In realtà è molto partecipativo: collabora con la rivista «Valori plastici», entra in contatto con i futuristi e aderisce alla Metafisica; partecipa alle mostre del Novecento dal 1926 al 1929. Un percorso lungo e articolato negli anni anche se non si è mai quasi spostato da Bologna e da Grizzana ove trascorre le estati. Alla
fine la sua è una ricerca interiore che predilige una quiete operosa.
Rilegge Paul Cézanne e Jean-Baptiste-Siméon Chardin ai quali viene paragonato per i suoi lavori puliti, didascalici, essenziali.
All’inaugurazione dell’antologica bolognese del 1966 Cesare Brandi dice di lui: «C’è sempre qualcosa che non quadra con la civiltà i cui termini in parte sono presenti». Il sodalizio fra Brandi e Morandi è un’amicizia che testimonia un sistema di pensiero univoco. Ma è Roberto Longhi che lo fa conoscere al pubblico bolognese durante una sua prolusione presso l’università felsinea nel 1934: «E finisco col trovare non del tutto casuale che uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, ancor oggi, pur navigando nelle secche più perigliose della pittura moderna, abbia però saputo sempre orientare il suo viaggio con una lentezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parere quelle di un nuovo incamminato».
La sua pittura è tonale, alla francese (Chardin, Corot), e rifiuta le esperienze scenografiche o recitanti. Insomma niente Vincent Van Gogh, niente Pablo Picasso, niente Tintoretto. Morandi è «diverso», solitario, appartato, introspettivo. Anche se è proprio lui che favorisce la lettura delle sue opere secondo fasi determinate, come scrive Marilena Pasquale.
La cornice di Geppi
SmartTV
Marco Züblin
Non c’era bisogno delle esternazioni surreali dei politici italiani (Pompei, guerra di Crimea, Dante Alighieri; poi Gramsci e Che Guevara) per capire non tanto lo stato della cultura in Italia ma anche il sovrano disinteresse con cui a tale stato guardano coloro che potrebbero fare qualcosa per opporsi. Al netto delle vertiginose cretinate di cui sopra, è da altre sponde che legittimamente ci si attende segnali di esistenza in vita.
Non ci pare, almeno finora, essere il caso di Splendida Cornice (Rai3, giovedì, prime time, a destra un dettaglio della locandina), che la conduttrice Geppi Cucciari ha definito «varietà culturale», proponendo una inedita ibridazione di generi; un programma sul quale la rete sembra aver puntato molto, in termini di collocazione in palinsesto, di mezzi, di personale e di risorse tecniche e autoriali (per tutti, i rain men Bottura e Galeotti). La rete lo chiama «people show», spendendo parole di rara genericità per presentarlo.
L’intenzione è lodevole: mettere al centro la competenza e la cultura, in un mondo in cui sono sempre più considerate un mero e dannoso orpello, e farlo nei modi del genere classicamente nazionalpopolare, quello appunto del varietà. Insomma, fare mediazione culturale. Di qui la presenza di esperti di area accademica e l’approdo di personaggi interessanti come Paolo Mereghetti (critico cinematografico e autore della bibbia sul tema) e Nicola Piovani, e i bei «quadri viventi» della Compagnia Rambelli. Poco in tema, invece, il ministro ucraino della cultura che ha chiesto armiarmiarmi; un po’ supponenti e rancorosi Kessisoglu e Bizzar-
E lo fa a volte distruggendo dipinti che potrebbero andare in altre direzioni. Secondo Longhi il suo percorso si inserisce all’interno di quello bolognese – separato dagli influssi toscani – che va da Amico Aspertini ad Annibale Carracci fino a Giuseppe Maria Crespi.
Per capire Morandi però bisogna entrare nella dolorosa e travagliata vicenda legata al libro di Francesco Arcangeli. Morandi ha settant’anni e Arcangeli quarantacinque. Siamo attorno al 1960. Morandi sollecita il critico e amico a scrivere un lungo saggio su di lui. Arcangeli redige uno dei testi più importanti e controversi. Alla fine dopo aver scritto sulle influenze del Futurismo e della Metafisica, Arcangeli inserisce il lavoro di Morandi all’interno di quella sua creatura chiamata «ultimo naturalismo», cioè l’informale padano. Morandi dissente e ne vieta la pubblicazione dopo lunghe correzioni e tanta intensa corrispondenza. Il volume uscirà dopo la morte dell’artista. Insomma un personaggio impositivo, che sa esattamente quello che vuole e soprattutto come ottenerlo.
Casa Morandi si trova in via Fondazza. La famiglia ha avuto l’abitazione al numero 38 e Giorgio dal 1933, fino alla morte nel 1964, al numero 36. Da una finestra è possibile vedere il piccolo cortile con al centro un’aiuola con una pianta d’ulivo.
Poi attorno vengono edificati nuovi palazzi e per questo nel 1959 l’artista si fa costruire una casa a Grizzana dove la famiglia trascorreva le estati dal 1927. La casa di via Fondazza nel 1993 viene smantellata e trasferita a Palazzo D’Accursio. Fino al 2009 quando il comune di Bologna riacquista il vecchio appartamento e vi ritrasferisce tutti gli oggetti. Oggi il visitatore può vedere i suoi tre tavoli, i pochi mobili, i tubetti a olio Windsor and Newton. Luigi Magnani scrive ne Il mio Morandi che usava «bianco d’argento, giallo di Napoli, terra di Siena, lacca di garanza, verde smeraldo, cobalto, blu di Prussia…». Poi le scatole di cartone e di latta e i barattoli, le conchiglie, i manichini e le famose bottiglie che rendeva bianche agitando al loro interno dello stucco liquefatto. Simona Tosini Pizzetti nota infine che nello spartano letto «è ancora visibile l’incavo lasciato dall’artista che si sedeva sempre nel-
lo stesso posto per incidere le lastre di metallo». Sul comodino i libri tra i quali Gitanjali di Rabindranath Tagore, le Poesie e le Prose di Giacomo Leopardi.
Una casa spartana, spoglia, esattamente come lui. Cesare Brandi la descrive così: «In questa casa d’affitto, tutto è modesto, ma tutto è lindo, tutto è lucido di quella lucentezza che ha una storia come la buona educazione, una storia di attenzioni e di rinunzie». Il nuovo allestimento è stato affidato all’architetto Massimo Iosa Ghini e nel percorso vi è una selezione di fotografie, libri e documenti, un’installazione audio-video, una sala polivalente e una biblioteca di 600 volumi.
Dove e quando
Casa Morandi, Via Fondazza 36, Bologna. Sa 14.00-17.00, do 10.00-13.00 e 14.00-17.00 www.mambo-bologna.org
ri, che hanno tentato (invano) di delegittimare Mereghetti e piombato le ali a un quiz già parecchio fuori squadra. Comunque, «tacchi-dadi-e-datteri», direbbe Pozzetto; almeno guardando la prima puntata, che sembrava piuttosto un pilota con troppi cali di ritmo, incertezze e amnesie drammaturgiche, parecchie possibilità sono rimaste per strada (il pubblico, gli esperti).
Il difetto sta probabilmente nel tentativo di replicare, dilatandole, le modalità di che succ3de?, la breve fascia quotidiana che la Cucciari presidiava con grande efficacia; un tentativo «espansivo» già fatto per altri programmi e che è sempre stato un mezzo fallimento. La presentatrice porta sulle spalle una grande macchina finora senza un vero filo conduttore e che vive di qualche lampo, appunto della verve allegramente cinica della Cucciari e della giustapposizione un po’ casuale di momenti interessanti ma eterogenei.
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Casa Morandi, Bologna. Studio di Giorgio Morandi. (Roberto Serra, Courtesy Settore Musei Civici Bologna)
◆ Non convince il nuovo «people show»
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«Lo racconterò una volta soltanto»
Memoria ◆ Simone Müller ritrae storie e vite di ebrei sopravvissuti all’Olocausto oggi di casa in Svizzera
Natascha Fioretti
Martha Tausz-Seckl, classe 1920, ebrea austriaca sopravvissuta all’Olocausto, prese l’ultimo treno da Vienna prima della Notte dei cristalli del 9 novembre 1938. Né lei, né i suoi genitori quella notte potevano immaginare che non si sarebbero mai più rivisti. Una storia che a Simone Müller, che ha incontrato Martha qualche anno fa a nord di Londra, è rimasta ben impressa e l’ha ispirata a tal punto da farne un libro che raccoglie quindici intensi e delicati ritratti di ebrei sopravvissuti al nazismo e alla Seconda guerra mondiale che oggi vivono in Svizzera. Sono l’ultima generazione rimasta, quelli che allora erano dei bambini o dei ragazzini, coloro che si pensava avrebbero dimenticato ma non è così.
«Bergen-Belsen è la mia casa», racconta Katharina Hardy, nata a Budapest nel 1928 dove a sei anni inizia a suonare il violino, a undici viene espulsa dalla rinomata Accademia Franz-Liszt e in seguito deportata prima nel campo di concentramento di Ravensbrück e poi di Bergen-Belsen. Quando i soldati inglesi arrivano a liberarla ha sedici anni e pesa 29 chili. Nell’agosto del 1945 torna a Budapest e ritrova il suo violino. Vuole riprendersi quanto le è stato rubato. Torna al ginnasio e, instancabile, suona il suo violino, «volevo assolutamente tornare all’Accademia Franz-Liszt». Ci riesce e sarà per lei il trampolino di una carriera musicale che la porta, tra gli altri, a suonare al Musikkollegium di Winterthur, nell’orchestra della Zürcher Tonhalle e dell’Opernhaus. Suona e lega con i famosi musicisti ungheresi Sandor Veress e Tibor Varga. «Se sono sopravvissuta ai campi di concentramento è anche grazie alla disciplina», una disciplina ferrea che l’ha sempre accompagnata nel suo approccio alla musica. A salvarla, oltre alla disciplina, è anche la forza di carattere, come lei stessa racconta: «Quando tornai a Budapest ero un’altra persona con un’anima incredibile. Avevo visto un mondo al contrario in cui la morte era la normalità e la vita l’eccezionalità. Da lì in avanti ho affrontato l’esistenza partendo da basi diverse. Non c’era un Dio, non c’era nulla. Solo il lavoro e il pensiero di andare avanti. Con tutta la durezza possibile. E quella durezza l’ho conservata».
La musica ha salvato anche Mark Varshavsky, nato a Charkiw nel 1933, oggi di casa a Basilea. Inizia a suonare il violoncello a sette anni, qualche mese dopo irrompe la guerra, la Wehrmacht tedesca invade l’Unione Sovietica il 22 giugno del 1941. Per fortuna in ottobre viene evacuata insieme ad altre centomila persone, tra cui la madre Rosalia Chainowskaja e il fratello, appena due settimane prima dell’arrivo dei tedeschi a Charkiw. Le donne e gli uomini ebrei rimasti indietro verranno sterminati nel dicembre seguente sul terreno di una fabbrica di trattori: trecento uomini al giorno fucilati, donne e bambini ammazzati nei camion a gas. Dopo la guerra, Mark Varshavsky intraprende la sua carriera musicale come violoncellista e si esibirà negli anni sui più grandi palcoscenici internazionali davanti a un pubblico che ignora la sua storia, non sa nulla del suo viaggio stipato sui vagoni bestiame verso il Kazakistan per scappare dai tedeschi a soli otto anni. Certo, quell’esperienza ha forgiato il suo modo di suonare, «la sofferenza si rispecchia nella musica» racconta.
m4music a Lugano
Evento ◆ Il Festival di musica pop per la prima volta arriva in Ticino
Sabato 4 febbraio l’itinerante Tour Vagabonde si muoverà a suon di musica e ritmo pop. In collaborazione con La Straordinaria, SONART, SAY HI! e SUISA, il Festival zurighese m4music del Percento culturale Migros nato alla fine degli anni Novanta, per la prima volta fa tappa a Lugano. Un evento unico teso a rafforzare lo spirito e l’intento originario del Festival (che quest’anno si terrà il 24 e 25 marzo a Zurigo): riunire su un unico palco i giovani attori della scena musicale pop svizzera.
Così, sabato prossimo alle 20.00 nella Tour Vagabonde si esibiranno in concerto la ginevrina La colère, vincitrice del Demotape Clinic Award 2019 nella categoria Elettronica, acclamata per i suoi suoni retro-futuristici e i suoi potenti sintetizzatori; e la grigionese Mel D (nella foto) che con la sua chitarra canta la malinconia collettiva del nostro tempo.
Anche nelle parole di Katharina Hardy si sente quanto profondo e indelebile si è annidato l’orrore condizionandone la vita. Intanto quando dice «io appartengo ai morti di Bergen-Belsen. Appartengo al luogo che più di ogni altro mi ha plasmata» e poi ancora «mi impegno a condurre una vita normale, ad adattarmi. Ma per me questa esistenza normale è una cosa ridicola. Le persone non sanno cosa potrebbe essere, quante cose sono possibili». In questo lo scoppio e l’attualità della guerra in Ucraina ci serve sicuramente da monito.
Simone Müller, germanista ed etnologa di formazione, autrice e giornalista indipendente, autrice qualche anno fa di un interessante volume per l’editore Limmat in cui raccontava la storia delle donne svizzere che negli anni Cinquanta emigrarono in Inghilterra alla ricerca di lavoro, spiega quanto per Mark, Katharina e tutti gli altri sia stato difficile tornare a ricordare, quanto sia stato doloroso. In diversi le hanno detto: «Ascolti bene perché lo racconterò una volta sola». Il suo intento sin dall’inizio, ispirata dalla incisiva frase che le disse Martha Tausz-Seckl «I am not going to speak German» è stato quello di indagare, capire quanto le atrocità inflitte dall’Olocausto, dal nazismo e dalla guerra siano vive ancora oggi in chi le ha vissute ormai 80 anni fa. Come ci si convive? Quanto si ricorda? Simone ricorda come «dopo la guerra, negli anni Cinquanta, la politica e la società si dicevano sicure che i bambini avrebbero dimenticato». Non è così; l’atto di ricordare provoca gran-
de dolore, apre ferite che non si sono mai chiuse, per questo chi decide di condividere il suo tragico vissuto dice «lo racconterò una volta soltanto». Tutto è ancora molto presente in chi l’ha sperimentato, anzi nella solitudine dell’età i ricordi sembrano riemergere con prepotenza e vividezza: «In diversi mi hanno detto di avere spesso incubi, di svegliarsi gridando nella notte». Ognuna di queste storie ci colpisce nel profondo e ci lascia attoniti. L’autrice ricorda come all’inizio si sia impressionata nell’ascoltare i racconti sui bambini piccoli, sentire le storie di come venivano nascosti all’ultimo momento nei posti più improbabili o affidati ad altre persone per non farli rastrellare ai nazisti. «Ne è un esempio Kurt Salomon (ritratto nella foto di Annette Boutellier scattata il 10 febbraio 2020 a Ginevra), che con la sorellina era nascosto in Belgio. Alla fine della guerra entrambi non parlavano più il tedesco e avevano imparato a diffidare di chi gli rivolgeva la parola in quella lingua: erano nazisti ed erano pericolosi. Un giorno, finita la guerra, arrivarono da loro nel cortile di questa fattoria nelle Ardenne olandesi due persone che parlavano tedesco e dicevano di essere i loro genitori. Preso dal panico Kurt Salomon mise la sorella su un carro e fuggì con lei nel bosco. Non riconosceva più i genitori. Un’immagine forte che spiega bene un altro difficile aspetto con il quale i sopravvissuti hanno dovuto convivere». Classe 1935, nato ad Aquisgrana, oggi Kurt Salomon è di casa a Ginevra. Cosa significa essere un sopravvissuto all’Olocausto,
Dopo il Giorno della Memoria
A margine del Giorno della Memoria (27 gennaio) l’Associazione ticinese degli insegnanti di storia, il Liceo cantonale di Lugano 1 e il Liceo cantonale di Bellinzona hanno organizzato una serie di eventi, ne segnaliamo alcuni:
Martedì 31 gennaio 17.30 Cinema Lux di Massagno, Tavola rotonda sul tema Passato e presente. Quale uso politico della storia nell’Europa attuale?
Ne discutono Luca Baldissara (Uni -
versità di Bologna), Marcello Flores (Università di Siena), Carlo Gentile (Università di Colonia) e Antonella Salomoni (Università della Calabria).
Martedì 31 gennaio 20.30 Cinema Lux di Massagno, proiezione del film documentario Babi Yar. Context di Sergei Loznitsa (2021).
Per maggiori informazioni www.atistoria.ch.
ai campi di sterminio, alla seconda guerra mondiale? Per Nina Weilová, numero 71’978, nata nel 1932 a Klatovy in Cecenia, significa convivere con l’immagine della madre morta ad Auschwitz. Con Simone Müller si incontrano a Zurigo nel caffè davanti al Landesmuseum. Nina non è stata solo ad Auschwitz, è passata anche per Theresienstadt, Stutthof, Thorn e Koronowo. Deportata ad Auschwitz vede la madre ammalarsi e perdere la vita. Una mattina lascia il blocco dei bimbi per andarla a trovare e la trova inerte. Esce dalla baracca per chiedere aiuto, l’uomo delle SS le risponde «che crepi». Delle donne adagiano il corpo nella neve, dietro la baracca. Tutti i giorni, per due settimane, Nina va da lei e le toglie la neve dal viso. Finché un giorno il corpo non c’è più. «Per Auschwitz non ci sono parole», dice. Paul Erdös, nato nel 1930 a Budapest, oggi di casa a Meggen, si incontra con Simone al ristorante della stazione di Lucerna. Nella sua seconda vita ha insegnato fisica teoretica in Florida e poi all’ETH di Losanna. Racconta di quel marzo del 1944 quando la Wehrmacht invade l’Ungheria. Qualche settimana dopo gli ebrei devono portare la stella di David; a maggio partono i primi treni per Auschwitz. Per sfuggire ai nazisti la famiglia di Paul Erdös decide che è meglio separarsi. Dopo vari nascondigli, la mattina di Natale del 1944, Paul Erdös si trova nell’ospedale per bambini della Croce Rossa. Le Croci Frecciate irrompono per compiere l’ennesima razzia. «Si deve pensare che gli ebrei da un lato dovevano mettersi in salvo dalle persecuzioni dei nazisti – racconta Simone Müller – dall’altro dai pericoli della guerra e la storia di Paul Erdös ne è l’immagine perfetta». Paul scappa, si dirige su per le scale, raggiunge il tetto ma anche qui non è al sicuro perché arrivano gli aerei americani a bombardare la città. È in trappola: sotto lo aspettano i nazisti, sopra le bombe. Trova la salvezza nel mezzo, nella tromba dell’ascensore.
Bibliografia
Musica dunque che però non andrà in scena soltanto sul palco ma sarà oggetto di discussione in un incontro alle 16.00 dal titolo: Musica indie e promozione: quali sono le sinergie? Una bella occasione per riflettere e confrontarsi sulle forme e le modalità di finanziamento che oggi sono disponibili e accessibili per la scena musicale indipendente.
L’idea del pomeriggio devoto alla musica è quella di permettere agli attori della scena musicale ticinese di entrare in contatto con i professionisti del settore del resto della Svizzera, dunque sarà possibile incontrare il team di m4music, di SONART (Associazione svizzera della musica) e Nadia Mitic di Gladwemet, agenzia che promuove gli artisti in Svizzera.
Come ci racconta Livia Berta del team media, il Festival e di riflesso la tappa luganese, mira a scoprire nuovi talenti, a far conoscere i professionisti del mondo della musica, a dare al pubblico la possibilità di assistere dal vivo a concerti di band svizzere e straniere. Soprattutto apre una finestra di ascolto e di attenzione privilegiata sulla musica pop svizzera e costruisce al contempo una rete di contatti e di scambio diffusa. / Red.
Per il programma e i biglietti www.m4music.ch o www.lastraordinaria.ch
2022.
Simone Müller, Bevor Erinnerung Geschichte wird Limmat Verlag, Zürich,
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 33
Regalarsi ogni giorno la possibilità di scegliere
Pubblicazione ◆ Narrare con empatia le storie degli altri è uno dei grandi talenti di Mario Calabresi che fa breccia con il suo libro
Angelo Ferracuti
Ha uno stile secco, essenziale, che non si concede mai sterili virtuosismi e assoli Mario Calabresi, come i veri giornalisti di razza, ritmico ed efficace, che non dà tregua. Le sue storie hanno un inizio lento ma avvolgente, poi ti trascinano dentro un vortice che riconnette diversi tessuti narrativi e intreccia con sapienza frammenti di vita rimettendoli in ordine, dall’inizio alla fine, per dargli un senso esistenziale e narrativo, prima della stoccata finale che ha sempre un tocco di memorabile. Uno stile che ritroviamo anche negli episodi di Una volta sola Storie di chi ha avuto il coraggio di scegliere, scritti durante e dopo la pandemia, in un periodo che ha reso tutto più fragile, le esistenze così come le economie, ma soprattutto ha indebolito la speranza e il desiderio di futuro, ma che in quella vita sospesa, ha anche liberato nuove energie per ripensare sé stessi e il mondo. Il suo è anche un libro di incontri, la trasmissione orale di testimonianze che si compiono grazie al racconto empatico, trasformando le parole delle conversazioni e delle confessioni quotidiane in scrittura, quella cosa che le salda e le ferma per sempre nel tempo.
Sono storie di chi non subisce la vita, non trascina pigramente, stancamente e con rassegnazione la propria biografia, vivendo al cinque percento, come diceva di sé ironicamente il poeta Eugenio Montale, ma diventan-
do protagonista di un cambiamento, mettendo in moto una trasformazione radicale, trasformando i sogni in realtà. Scrive l’autore: «Ho cominciato a osservare e ascoltare come sta cambiando il mondo e ho cercato persone che potessero regalarmi con l’esempio una convinzione: si vive una sola volta e non si deve sprecare un solo istante. Bisogna essere fedeli a sé stessi, fare scelte coraggiose e appassionate e vivere con intensità, regalandosi ogni giorno la possibilità di scegliere. Anche quando sembra impossibile». Vivere con intensità anche quando un cancro terribile ti sta uccidendo, come succede a Rachele, una vicina di casa dell’autore, che con il suo aiuto raccoglie la sua vita in dieci vocali con i ricordi memorabili da lasciare come memoria sensibile ai propri figli.
Calabresi si prende cura di queste vite, le attraversa interiorizzandole, cerca per loro e con pietas le giuste parole, la ricostruzione del parlato, la descrizione di ambienti, fisionomie, oggetti del quotidiano, il loro senso profondo, ma soprattutto restituisce la loro cosa più preziosa, l’umanità, quel conio profondo di quelli che nell’esperienza quotidiana danno vita a metamorfosi o resistenze miracolose capaci di dare un senso nuovo, una luce nuova alla propria esistenza. I protagonisti di queste vite sono come gli «uomini non illustri» raccontati da Giuseppe Pontiggia, cioè persone co-
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muni che non cercano i riflettori della società dello spettacolo, ma che senza nessun clamore o richiesta di attenzione, di tensione narcisistica, si sono ribellate alla malora come Claudia, la moglie del boss che ha rifiutato una vita che «a Napoli sono una via di mezzo tra il Medioevo e l’Afghanistan», che vive nascosta e nella paura ma ha scelto di nuotare in un nuovo mare dove «c’è ancora qualche squalo, ma almeno l’acqua è più limpida e le correnti sembrano meno avverse». Persone comuni come Piero Na-
va, venditore di porte blindate per una grande azienda piemontese, che un giorno qualunque in Sicilia mentre viaggia sulla sua Lancia Thema incontra la Storia, testimone oculare della tragica morte del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla Stidda, la mafia dei pastori di Agrigento, un uomo che ancora oggi continua a vivere all’estero sotto falsa identità per aver visto e aver scelto di testimoniare diventando un fantasma. Uno che invece la Storia l’ha subita è Sami Modiano, ebreo che vive a Ostia. Tornato
ad Auschwitz nel 2005, lì dove aveva perso tutti i componenti della sua famiglia, abbandonò l’iniziale scelta del silenzio decidendo di diventare uno degli ultimi testimoni viventi della Shoah. Da autentico raccontatore, affascinato dalle storie, Mario Calabresi si mette in ascolto per catturare «l’impensato» di cui parla il poeta Franco Arminio, quella «danza tra mistero e cose conosciute», come l’incontro tra il bracciante albanese Limo e il novantenne Pietro su una vigna terrazzata a Monterosso, alle Cinque terre, un vecchio partigiano di ieri e un migrante di oggi, uniti da un vincolo di solidarietà nato dentro l’antifascismo.
Fedele all’insegnamento dell’amico degli anni giovani Corso Piepoli, l’avventurista morto a 32 anni a Zanzibar mentre era in sella a una moto, che amava «coltivare l’imprevisto» viaggiando in Messico, Guatemala, nell’Amazzonia di Manaus, uno pieno di vita, Mario Calabresi scrive un libro palpitante di vita, quella vita che come diceva il professore di Storia e filosofia Pietro Carmina morto nel crollo di una palazzina a Ravanusa, in provincia di Agrigento: «Non è un gratta e vinci: la vita si abbranca, si azzanna, si conquista».
Bibliografia
Mario Calabresi, Una volta sola Mondadori, Milano, 2022.
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Sax Appeal, quando alla musica non servono parole
Musica ◆ Alla riscoperta delle raffinate esecuzioni di Fausto Papetti che il 28 gennaio scorso avrebbe compiuto 100 anni
Enza Di Santo
Verso la fine degli anni Cinquanta, quando la musica leggera italiana è caratterizzata da fiumi di parole, il sassofono suadente di Papetti zittisce tutti. Precursore della lounge music, le sue rivisitazioni di brani di successo scalano le classifiche e l’ascolto disimpegnato, l’easy listening, assume una forma radiofonica commerciabile.
Riconosciuta
immediatamente l’unicità dell’ancia papettiana, la Durium decise di fargli rivisitare temi di colonne sonore celebri e alcuni successi del momento
Riservato polistrumentista, da giovane si approccia al pianoforte e al clarinetto, ma è il sassofono a determinare la sua straordinaria carriera. Nato a Viggiù, nella vicina Valceresio (Italia), naturalizzato svizzero, suona presto in alcuni complessi jazz e per un paio d’anni saxofona nella band di accompagnamento a Tony Dallara, I Campioni, giovanotti scoperti dal produttore discografico elvetico Walter Gürtler della SAAR.
Nel 1959, Papetti accetta un contratto nell’orchestra dell’etichetta Durium che produce arrangiamenti e basi musicali per diversi artisti, fra cui, tanto per citarne uno, Little Tony. All’epoca era consuetudine registrare i brani delle colonne
sonore per raccoglierli in album e/o lanciare quelli più significativi come singoli ri-arrangiati da questa o da quell’etichetta. Quell’anno esce Estate violenta , diretto da Zurlini, e la Durium decide di estrarne un brano per proporlo sul lato B di un singolo. Purtroppo, il direttore dell’orchestra, insoddisfatto dell’arrangiamento si rifiuta di registrare. Il produttore, congedata l’orchestra, pur di chiudere, chiama a rapporto la sezione ritmica componendo una
misera, per quanto esperta, formazione di batteria, chitarra, basso e saxalto alla quale assegna l’elaborazione della melodia.
Se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, nel caso di Papetti è meglio dire che aiuta i preparati, chi si fa trovare pronto. La prova del quartetto, con tanto d’improvvisazione di legno (il sax non fa parte della famiglia degli ottoni), viene registrata all’insaputa dei musicisti e così esce il singolo Estate violenta di Papet-
ti, supersuccesso che arrivò perfino a superare le vendite dell’originale. La classe non è acqua, e riconosciuta immediatamente l’unicità dell’ancia papettiana, la Durium decide di fargli rivisitare temi di colonne sonore celebri e alcuni successi del momento. Con il titolo Fausto Papetti Sax alto e Ritmi e una bella fotografia del mezzobusto Papetti in copertina che imbraccia il suo fidato Selmer Mark VI del 1958, esce nel 1960 il primo di una serie di 50 LP (l’ultimo nel 1997). In questa prima raccolta troviamo cover degne di nota: fra i temi che potrebbero essere giunti fino ai giorni nostri segnaliamo quelli dei film Scandalo al sole e La dolce vita . Nel 1961, sarà la volta di Fausto Papetti – Sax alto e ritmi – Serie ballabili n° 2, album che ricalca la stessa formula del primo. A partire dal terzo, tutti i dischi saranno semplicemente intitolati Raccolta e numerati senza ulteriori denominazioni. Alla serialità delle sue 50 raccolte si accompagneranno gli album tematici Old America , Evergreen , Bonjour France, il celebre Made in Italy, Ritmi dell’America Latina , Cinema anni ’60, e Cinema anni ’70. Papetti attraversa così tutti i generi musicali, incidendo persino una cover di Popcorn nel 1972, quando di questo brano erano uscite un’ottantina di rivisitazioni.
Immancabilmente ogni raccolta si piazza in vetta alle classifiche, scalzando addirittura miti come Mina. La 20esima raccolta arriva al primo posto della classifica italiana
Il ricordo come linfa creativa per gli artisti
Teatro ◆ Al Teatro Pan e al LAC, tra teatro e danza, è andata in scena la memoria
Giorgio Thoeni
Jean-Pierre Changeux, uno dei padri della moderna neurobiologia e delle neuroscienze (Premio Balzan 2001), attento indagatore sull’origine cerebrale della creazione artistica, fra le sue innumerevoli e acute osservazioni aveva anche notato che il processo della memoria nell’uomo fa intervenire non soltanto l’approntamento di percorsi, ma altresì la rilettura di tali percorsi. Sullo stesso concetto di memoria, sui processi di apprendimento, sulla rielaborazione delle esperienze catalogabili nella nostra memoria si sono concentrate molte analisi, ricerche, riflessioni che sono inscindibili dalla realtà che diventa ricchezza di ognuno di noi, archivio e valore collettivo.
Lo sanno bene gli storici, ma anche gli artisti che trovano nella memoria un campo inesauribile per esperimenti su luoghi, immagini e passioni.
Al tema della memoria sono in qualche misura collegate due produzioni andate in scena a Lugano. La prima, del Teatro Pan, è L’arte della memoria, un titolo che sembra preso in prestito da un celebre saggio di Frances Yates del 1972. Lo spettacolo, al suo debutto al Foce, è frutto di una scrittura collettiva che ha coinvolto Cinzia Morandi, Nicola Cioce e Sissy Lou che ne ha anche curato la regia. Prende spunto da un semplice interrogativo: che cosa signi-
fica ricordare e attraverso quali immagini si raggiunge quella parte di cervello che alimenta le emozioni?
Morandi e Cioce vi giocano per circa un’ora sfruttando oggetti semplici, un alter-ego riflesso in uno spazio non identificabile, senza tempo.
Un uomo e una donna per un duo teatrale che non si prende sul serio per fare arrivare in sala l’intensità di emozioni ricreate attraverso lo stimolo del ricordo nei suoi vari stadi. In loro c’è padronanza teatrale, ludica,
leggera sempre sul limite di un girotondo tematico ben strutturato. Dalle tasche del loro arioso e candido costume di scena spuntano oggetti fra i più disparati, grazie ai quali affiorano alla mente situazioni, sentimenti, età, luoghi e profumi che altrimenti rimarrebbero confinati pigramente nell’ippocampo cerebrale, nell’oblio della quotidianità. È sorprendente come, sulle ultime battute dello spettacolo, ritroviamo disposti su un tavolo tutti gli
oggetti protagonisti dei racconti dei due attori, pronti a far rivivere altre avventure aggiungendo nuovi particolari a esperienze vissute. L’arte della memoria è uno spettacolo intelligente, capace di veicolare concetti complessi con esemplare semplicità. Secondo gli autori vorrebbe essere dedicato a un pubblico adulto ma, dopo averlo visto, siamo quasi certi che non dispiacerebbe anche a una platea più giovane. Su un fronte tematico analogo, è
e, nel 1975, è la più venduta. Quella della Durium è un’ottima trovata, la serialità delle produzioni discografiche di Papetti induce senza dubbio al collezionismo, tanto più che in copertina donne discinte e in pose seducenti catturano l’attenzione del pubblico. Già il terzo album, infatti, propone in copertina un paio di belle gambe, niente di troppo audace ai nostri occhi, ma i costumi all’epoca stavano cambiando e presto arrivarono i nudi. La prima signorina semi-vestita si palesa con Raccolta 10a che, neppure a dirlo, contiene la cover della provocantissima Je T’Aime… Moi Non Plus. Questo abile stratagemma contribuisce a far conoscere il sassofono e la musica strumentale, ma più di ogni altra cosa crea il binomio sax-seduzione
Conosciutissimo a livello internazionale, anche con lo pseudonimo Fausto Danieli, Papetti compete artisticamente con altri grandi del sax come Gil Ventura e Johnny Sax. Viene ricordato anche in una scena della pellicola Walk Up, ultima fatica del regista sudcoreano Hong Sangsoo, in cui si vede la copertina di un album di Papetti.
Quest’anno, in occasione del centenario (Papetti nacque il 28 gennaio del 1923), il Museo del Saxofono di Fiumicino gli dedica una mostra e tre concerti mentre Viggiù lo onorerà durante la stagione estiva. Sarà l’occasione per riscoprire questo interprete il cui sound raffinato non smette mai di deliziarci.
andato in scena CORPOmemory una performance firmata da Ariella Vidach e Claudio Prati (AiEP, Avventure in Elicottero produzioni) alla sua prima assoluta al LAC. In questo caso la memoria riflette un carattere digitale dove un ruolo fondamentale viene assunto dallo smartphone: un corpo tecnologico che è custode della nostra identità e archivia i nostri ricordi: foto, parole, video, indirizzi… a comporre le trame del vissuto. Un oggetto della memoria che il pubblico, seduto a cornice su due livelli di gradini, è invitato a usare interattivamente ponendosi in dialogo con la scena attraverso dei testi, tra i più disparati, che vengono proiettati sui fondali della sala in una studiata sequenza grafica.
È una sfera intima condivisa a confronto con lo spazio e con la danza di Marina Bertoni, Dafne Borgotti, Sofia Casprini, Carola Invernizzi, Ilaria Quaglia con la mobile vocalità campionata di Margherita D’Adamo. La scena si anima, i corpi si agitano dilatandosi individualmente e nell’insieme. Un impatto suggestivo, a tratti frenetico.
Fra parole casuali scritte sul cellulare (anche scatola sonora) fa breccia infine una testimonianza di violenze sulla donna. Una coda d’attualità per non dimenticare che il corpo ricorda Coreografia generosa, concetto postmoderno e platea al completo.
Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 30 gennaio 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 35
Un’immagine dello spettacolo CORPOmemory. (P. Quecchia)
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