Fondamentali in Chirurgia

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Raffaele Macarone Palmieri Pierluigi Marini Francesco Nardacchione

Fondamentali in Chirurgia



Raffaele Macarone Palmieri

Pierluigi Marini

Francesco Nardacchione

Fondamentali in Chirurgia



Grazie Ada, Aurelio, Chiara D.B., Chiara N., Elisabetta, Guido, Luca, Martina, Olga, Priscilla per la pazienza



Indice Prefazione 7 Capitolo 1 Il giovane chirurgo e l’etica 9 Vincenzo Bertolone

Capitolo 2 Aspetti giuridici e deontologici della professione del chirurgo 17 Vania Cirese

Capitolo 3 Rischio clinico e sicurezza del paziente chirurgico 55 Giovanna Sgarzini

Capitolo 4 La tecnologia di ultima generazione al servizio del chirurgo per la sicurezza dei pazienti 69 Marco Maccagna

Capitolo 5 Colonna laparoscopica 4K 3D ICG 81 Francesco Braconi

Capitolo 6 Lo strumentario chirurgico 99 Raffaele Macarone Palmieri, Marco Usardi, Edoardo Virgilio

Capitolo 7 L’infermiere strumentista 131 Enrica Lelli

Capitolo 8 Fili di sutura 141 Francesco Nardacchione

Capitolo 9 I nodi in chirurgia 155 Andrea Mingoli, Marco Cavallini, Paolo Sapienza

Capitolo 10 Mezzi di sintesi meccanici 171 Grazia Maria Attinà


Capitolo 11 Le anastomosi intestinali: principi di tecnica 181 Francesco Tonelli

Capitolo 12 Emostatici in chirurgia 189 Maria Morena Morelli

Capitolo 13 Drenaggi in chirurgia 213 Giorgio Lisi

Capitolo 14 Caratteristiche e sicurezza del blocco operatorio 223 Lucia Mauro

Capitolo 15 Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base 259 Alessandro Falsetto, Lorenzo Pandolfini, GianMatteo Paroli, Romana Laessig, Chiara Genzano, Ahmad El Naarani, Silvia Rollo e Marco Scatizzi

Capitolo 16 Chirurgia laparoscopica di base 287 Alessandro Falsetto, Lorenzo Pandolfini, GianMatteo Paroli, Romana Laessig, Chiara Genzano, Ahmad El Naarani, Silvia Rollo e Marco Scatizzi

Capitolo 17 Peculiari aspetti di base in chirurgia robotica 301 Diletta Frazzini, Valerio Caracino, Massimo Basti

Capitolo 18 La chirurgia robotica 317 Cristiano Huscher, Francesco Cobellis

Capitolo 19 ERAS in chirurgia colo-rettale 327 Gianluca Guercioni, Michele Benedetti, Marco Catarci

Capitolo 20 Note di endoscopia chirurgica delle principali malattie dell’apparato digerente 345 Giulia Rocco, Maria Carlotta Sacchi, Roberto Faggiani, Ilaria Faggiani, Costantino Zampaletta

Postfazione 357 Giuseppe Montesano


Prefazione Care Colleghe e cari Colleghi, è mia ferma convinzione che la formazione del giovane chirurgo non debba limitarsi unicamente a prepararlo al meglio all’atto chirurgico, in termini di destrezza e di manualità ma, come scriveva nel 1942 il Prof. Emile Forgue nel suo “ Vie du chirurgien. La philosophie de mon métier”, il chirurgo è un individuo “qui doit combiner la plus grande dextérité avec les plus hautes capacités intellectuelles et morales”, che si traduce nell’anglosassone ‘HHH, Head Heart Hands, in Surgery’: etica, “coraggio”, empatia, giudizio e competenza. Nello spazio di tre decenni la Chirurgia ha conosciuto un progresso prodigioso, con una ricca produzione di esperienze riportate nella letteratura internazionale di Chirurghi anche del mondo estremo-orientale che presentano, recentemente, serie sempre più nutrite di pazienti e procedure con risultati di eccellenza. La complessità della pratica chirurgica moderna è ormai patrimonio di molti chirurghi e di molti ospedali, accademici o non, e richiede una molteplicità di tecniche con differenti approcci, di strumenti e apparecchiature di alta e raffinata tecnologia, di blocchi operatori completi di sale operatorie ibride, dotate cioè di dispositivi avanzati di imaging, frutto di forti capacità gestionali e progettuali, con tavoli chirurgici molto funzionali e di professionalità sanitarie altamente qualificate e formate. Ma allora, mi potrà dire una Collega o un Collega, perché un volume di oltre 300 pagine con oltre 20 capitoli a parlare dei “Fondamentali in Chirurgia”? quando la Chirurgia del XXI secolo sta diventando sempre più “digitale”e tecnologica...“A che pro? questo volume” mi obiettò un giorno un mio simpatico collaboratore, estraneo alla redazione di quest’opera, del quale comunque ho apprezzato la critica. “I giovani chirurghi non leggeranno mai - mi disse - i suoi ‘Fondamentali in Chirurgia’ perché i giovani sono solo impazienti di partecipare attivamente agli interventi, ‘to put the Hands-On’, non sono interessati alle considerazioni del Basic in Surgery”. Lì per lì rimasi perplesso, ma poi mi sono rafforzato nella mia idea di utilità di questo manuale proprio per i giovani che si vogliano avvicinare e dedicare alla Chirurgia, senza averne ancora solide basi...ripensai ai miei inizi, comuni a quelli di tutti noi, immagino, quando, digiuno di tutto ebbi i miei primi incontri con la Chirurgia nell’autunno inoltrato, nel novembre 1970, come studente interno - all’inizio del 3 anno del corso di laurea - nel prestigioso Istituto di Patologia Chirurgica e Propedeutica Clinica II del Policlinico Umberto I di Roma diretto dal Prof. Gianfranco Fegiz e venni chiamato, per la prima volta, in sala operatoria come quarto operatore per una colecistectomia che doveva eseguire un eccellente professionista, il compianto Prof. Luigi Forlivesi…ricordo i miei timori, i miei dubbi, le mie incertezze dovute all’assoluta “ignoranza” nel lavaggio chirurgico delle mani, nella vestizione, nella posizione al tavolo operatorio, con l’evidente goffaggine che percepivo nel mio comportamento... che accresceva le mie difficoltà. Come vorrei


aver avuto a disposizione, prima di quel momento, i capitoli di un libro analogo a questo che, al meglio delle mie conoscenze, a tutt’oggi non c’è, nonostante fossi stato rassicurato, in quel mio primo difficile accesso in sala operatoria, da un brillante giovane strutturato, il Prof. Francesco Tonelli, allora ancora Assistente, poi mio relatore di Laurea nel 1973 e di specializzazione in Chirurgia dell’Apparato Digerente nel 1976. Appresi in seguito alcune “spigolature” del mestiere, facendo lo strumentista al Professore nei miei anni di internato, come studente e come specializzando, beneficiando in seguito del tutoraggio di Chirurghi straordinari… come faccio a dimenticare che il Prof. Giuseppe Cucchiara mi aiutò nella mia prima ernioplastica inguinale nel 1975, che il Prof. Dag Hallberg del Karolinska, sempre nel 1975, durante i 6 mesi trascorsi a Stoccolma mi guidò pazientemente nell’esecuzione della mia prima sigmoidectomia per malattia diverticolare, commentando bonariamente a fine intervento che forse sarebbe stato più opportuno proteggere l’anastomosi con una stomia; come dimenticare che il Prof. Philip Sandblom - sì quello dell’emobilia! -, che ormai aveva lasciato Lund per ritirarsi a Losanna, invitato dal Prof. Frédéric Saegesser, mi fece eseguire la prima colecistectomia con incisione sottocostale obliqua destra al Cantonale, che lo stesso Prof. Frédéric Saegesser, “Mon Maitre”, mi assistette con pazienza alla mia prima timectomia in miastenia grave durante i miei 5 anni di permanenza a Losanna e infine che Giorgio Massi, nei quindici anni trascorsi insieme al San Camillo di Roma, mi ha trasmesso che la Chirurgia è ordine e pulizia del campo operatorio, è silenzio, è sicurezza e bellezza spontanea non certamente da ricercare, ispirate dalla dolcezza e dall’eleganza dei movimenti di una mano “gentile”. Mi perdonerete questo “Amarcord”, ma fu proprio durante questa prima fase della mia formazione chirurgica che ho maturato il convincimento di elaborare un testo siffatto, appena ne avessi avuto il tempo, per facilitare la ‘tache’ ai più giovani Colleghi che, mi auguro, potranno trovare in queste pagine, scritte da valorosi professionisti, una prima e chiara risposta alle loro domande e ai dubbi di questo nostro unico e affascinante “mestiere”. Ringrazio Piero Marini, presidente ACOI, che ho conosciuto e che ha collaborato con me nel mio lungo ‘Ventennio’ al San Camillo di Roma e Francesco Nardacchione, segretario nazionale ACOI, con il quale ho avuto percorsi chirurgici spesso convergenti ma mai congiungenti, i quali hanno accettato con entusiasmo la mia idea di pubblicare questo volume e mi hanno concesso, contribuendo anche come autori, l’opportunità di realizzarlo e il coordinamento dell’opera, permettendomi così di conoscere ancor più da vicino splendide Colleghe e formidabili Colleghi, giovani e meno giovani, che ne hanno curato con eccezionale professionalità la stesura dei relativi argomenti affidati loro. Ringrazio mio figlio Aurelio il quale, per oltre un mese, ha curato insieme a me con estrema pazienza la correzione delle bozze dei vari capitoli, ma soprattutto la noiosa revisione delle bibliografie. Infine ringrazio Mihaela e Filippo Bartoccioni, Deborah e Roberto Tavernelli di Città di Castello per la disponibilità, la cortesia e la qualità editoriale e anche per aver sopportato le mie intemperanze in corso di stampa. Raffaele Macarone Palmieri, MD, Ph D.


Capitolo 1 Il giovane chirurgo e l’etica  P. Vincenzo Bertolone S.d.P. Arcivescovo di Catanzaro Squillace Presidente della Conferenza Episcopale Calabra Non meravigli che, in un volume squisitamente tecnico, scritto da uomini di scienza, operatori di chirurgia medica, trovi posto un intervento di ordine etico, affidato a un Pastore della Chiesa cattolica. Ciò è dovuto ai curatori e redattori, i quali rivolgendosi a giovani in formazione, hanno ritenuto opportuno completare con qualche riflessione educativa i temi scientifici e tecnologici. Inoltre, considerate le implicazioni morali ed etiche della prassi medica e della relativa deontologia, essi hanno giudicato opportuno chiedere il parere di un Vescovo, il quale tuttavia – ha ritenuto – di offrire un suo contributo partendo dall’etica naturale, ai principi della quale non c’è essere umano, che non debba inchinarsi. Deontologia, medicina legale ed etica. Spesso docenti e formatori insistono con i giovani medici sui doveri professionali, esistenti nel loro Codice deontologico, oppure sugli aspetti medico-legali della loro professione, il cui contenzioso negli ultimi decenni, è andato crescendo a causa della cosiddetta aziendalizzazione della Sanità. È pur vero che gli aspetti legali e deontologici della professione fanno sempre riferimento a un’etica di base, “principio” o punto di riferimento, da cui ricavare più facilmente doveri e valori nel corso di una professione – quale è appunto quella del medico chirurgo, giovane – che si trova oggi come al confine tra valori di cura e di prossimità all’ammalato, nuove possibilità offerte dalla tecnologia avanzata, dovere del consenso informato al paziente prima di qualunque terapia o intervento. Ma che cosa significa etica, sotto il profilo generale? Il termine etica – di origine greca – fa riferimento, sia all’insieme di abitudini, usi, costumi di un gruppo sociale (qui etica è resa quasi termine sinonimo di abitudini consolidate e approvate socialmente), sia allo “stare a casa propria”, ovvero alle sicurezze che provengono da qualcosa che vale di per sé e, dunque, consente certezza e sicurezza circa il da farsi, ovvero indicando il male da evitare e il bene da fare. In questo secondo senso, etica significa un orizzonte certo di riferimenti morali o, come si dice spesso, un quadro condiviso e condivisibile di valori. Quando parliamo di valore (alla lettera, ciò che vale in sé e, dunque, ciò che è bene attuare e fare nella propria esistenza e decidere alla vigilia di scelte personali o professionali), parliamo di etica in senso stretto, cioè di insieme di principi universali, o almeno – in una società pluralistica, come


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la nostra – di principi condivisibili da parte di tutti o della maggioranza dei cittadini. Principi dai quali ricavare criteri e orientamenti per l’agire, sì che ogni coscienza morale possa agire di conseguenza e, soprattutto, in coerenza con i valori universali. In questo senso, tra le arti e le scienze avanzate, anche l’etica (che è una scienza di ordine filosofico e teologico) ha il suo giusto ruolo. Difatti, se «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento» – come dichiara nel libro Fondata sulla cultura, il giurista Zagrebelsky1 –, l’aggettivo libero rinvia al dinamismo della volontà e della scelta, un dinamismo di cui si occupa appunto l’etica e di cui la cosiddetta bioetica ricava orientamenti per i temi controversi del nascere, del morire, del curare, del salvaguardare la salute delle persone e del pianeta. Zagrebelsky citando l’art. 33, primo comma, della nostra Costituzione, evidenzia che l’arte e la scienza (anche l’arte-scienza della chirurgia) sono libere, e dunque “devono esserlo”, con chiare implicazioni deontologiche, oltre che giuridiche, del concetto di libertà2. In questo senso, essere liberi (cioè scegliere e decidere tra più possibilità) significa anche scegliere liberamente il da farsi, ovvero ciò che viene ritenuto un valore, dunque da rispettare e prendere a modello nella prassi quotidiana. Il “menu” delle opzioni etiche. Se in noi nulla è più naturale e umano del sentire il bisogno di conoscere (di qui la rilevanza delle scienze empiriche e della tecnica) e avere il coraggio di conoscere il vero (di qui la rilevanza delle scienze filosofiche e umane); se la nostra natura persegue lo scopo di appagare la sete di sapere che ci caratterizza tutti come esponenti della specie umana, tutto ciò accade proprio perché sentiamo che è nel processo del conoscere (scientifico, tecnologico ed etico) che si esplica la nostra voglia di libertà. Se, poi, la libertà è un’espressione dell’animo umano, che deve dar luogo ad atteggiamenti concreti e a comportamenti-scelte conseguenti, la scelta etica fondamentale consisterà nello scegliere come stile di vita, a livello individuale e collettivo, la “sete natural che mai non sazia” (La Divina Commedia, Purgatorio, XXI, 1). Come ci ricorda Dante, oltre alla sete fisiologica, esiste una sete simile a quell’acqua di cui parla il Vangelo nell’episodio della Samaritana al pozzo di Sichem (Gv 4,1-26). In altri termini, oltre alla sete fisiologica dell’acqua, ce ne è un’altra che non si sazia se non con la verità morale, o anche di una verità etica fondamentale, che sia in grado di orientare ogni singola scelta. Il medico, dal canto suo, si rende conto di dovere scegliere (anzi di essere stato posto dalla collettività nella condizione di scegliere sempre il meglio), ma questa opzione gli comporterà sempre un menu di opzioni: la personale visione del mon-

G. Zagrebelsky, Fondata sulla cultura. Arte, scienza e costituzione, Einaudi, Torino 2014.   In merito, L. Chieffi, Introduzione. Una bioetica rispettosa dei valori costituzionali, in Id. (a cura di), Bioetica e diritti dell’uomo, Paravia-Mondadori, Milano 2000, XVII-XIX. 1 2


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do (che cosa rappresentano per me la persona umana e la sua dignità? Che senso ha la mia professione?); la visione del mondo della persona che si avvicina al medico (perché ne richiede l’intervento per il recupero della salute? Quali opzioni gli sono concesse di avere rispetto alle tante possibilità, compresa quella, di disporre l’astensione, ora per allora, da una cura o da una terapia?); le opportunità e le possibilità scientifiche e tecnologiche dell’arte-scienza che è la medicina chirurgica (quale il protocollo più accreditato? Meglio seguire una medicina basata sull’evidenza, oppure una medicina narrativa? Che cosa vuol dire proporre e non imporre, ai fini del consenso informato, la terapia più accreditata e più vantaggiosa per il bene del paziente?). È proprio la varietà del menu delle possibili scelte che esige stile di vita personale e visioni etiche certe, ma fino a che punto le scegliamo noi stessi e fino a che punto vengono selezionate per noi con il rischio di diventare noi semplici esecutori? Quali obiezioni io medico posso riservare alla mia coscienza morale rispetto alle prassi consolidate e normate? Oggi i medici sono tutti convinti che bisogna aprire la mente al cambiamento, alle nuove idee e ai nuovi orizzonti, non soltanto in campo medico e tecnologico, ma anche nel campo delle visioni morali, quindi anche alla diversità e all’eguaglianza nella differenza e, soprattutto, al confronto leale e pacifico, in vista di etiche condivise, com’è compito di un’etica e di una bioetica per il nostro tempo. La difficile scelta tra etiche universali e pluralismo di decisioni morali. Tuttavia, mentre l’etica (intesa come mondo dei valori che si impongono alla nostra coscienza) richiederebbe un consenso generalizzato su dei valori morali di fondo (che diventano, in tal modo dei veri e propri valori fondamentali e non negoziabili)3, l’attuale contesto socioculturale, invece, si va manifestando come tendenzialmente “relativista”, in campo etico. Ciò significa non soltanto che ogni opinione morale può essere buona da seguire, ma anche irrimediabile diversità di orientamenti di fondo, per cui saremmo tutti degli stranieri morali, con il solo compito di bilanciare tra tesi contrapposte, oppure di accordarsi su un minimo etico condivisibile. Se si optasse per l’affidamento di ogni decisione etica alla soggettività, all’autonomia, all’autodeterminazione, alla libera valutazione del soggetto, il compito dell’etica si ridurrebbe soltanto ad offrire dei criteri di discussione, in vista del reperimento di possibili decisioni in casi particolari. Oggi, poi, anche in campo medico, tutto viene pericolosamente configurato come collegato all’autonomia assoluta del soggetto, che diviene “unico e assoluto decisore del bene e del male”, in quanto pretende di stabilire in proprio ciò che è bene e ciò che non lo è relegando la collettività al ruolo di esecutrice dei desiderata del soggetto-paziente, perfino nei momenti topici dell’ingresso nella vita

In merito, cf. F. Miano (a cura di), Bene comune e valori non negoziabili. Un contributo dell’Azione cattolica, AVE, Roma 2007. 3


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e dell’uscita da essa, magari con vere e proprie forme di suicidio assistito. Il tutto accade in nome del pur rilevante principio etico di autonomia, come si vede particolarmente oggi in alcune controversie etiche e bioetiche circa l’identità sessuale, la vita di coppia fondata sul matrimonio eterosessuale, la corretta e responsabile gestione del nascere e del morire, la desistenza dall’accanimento terapeutico, l’aiuto medico e sanitario al suicidio assistito4. Perdono sempre più terreno le visioni morali di tipo ontologico, nelle quali le verità morali, o valori indisponibili, chiedevano soltanto di essere riconosciute e attuate nelle singole situazioni5. Diventano, invece, più rilevanti le etiche del calcolo dei costi-benefici, oppure quelle che valutano la moralità delle singole scelte sulla base delle conseguenze (consequenzialismo etico) di una determinata scelta o di una determinata azione. Alcune convinzioni di fondo Ogni visione etica deve dichiarare i valori di riferimento che dovranno sovrintendere alle scelte libere e autonome dei medici e dei pazienti. Mi piace, al riguardo, farvi partecipi, giovani chirurghi, di alcune convinzioni di fondo, perché ritengo possano aiutarvi nell’esercizio della professione e precisando che esse, pur provenendo da un Vescovo cattolico, vogliono enunciare dei valori etici, per così dire, trasversali in quanto umanistici6. In primo luogo, anche se l’attuale pluralismo socioculturale tende al relativismo etico e talvolta aborrisce credere all’esistenza di valori etici universali e condivisi, non bisogna smettere mai di dichiarare la fiducia nei valori morali universali, provenienti dalla natura dell’essere umano, particolarmente quei valori che hanno connessioni con la vita umana alla nascita o al tramonto, la sua salute, la sua curabilità. Ciò viene affermato contro tendenze etiche che ritengono, invece, lecito l’aborto, o le decisioni eutanasiche, o lo stesso suicidio assistito, inteso come libera autodeterminazione del soggetto deciso consapevolmente ad anticipare la fine per cui chiede aiuto al sistema sanitario con i suoi operatori. In secondo luogo, l’oggettività del principio morale universale deve tener conto contestualmente della “progressività” con la quale ogni soggetto umano educa la propria coscienza morale, anche costellando di cadute ed errori il proprio cammino etico, che non è mai lineare in quanto dipendente   In merito, cf. E. Lecaldano-E. Salmann, Etica con Dio, etica senza Dio, Introduzione di N. Gasbarro, Edizioni Forum, Udine 2009. 5   Tra i tanti titoli, si cf. S. D’Ippolito, Fondamenti metafisici dell’etica, Loffredo, Napoli 2006. 6  Cf. G. Calambrogio, Cattolici e laici. Per un dialogo senza complessi, Istina, Siracusa 2010. In antitesi, G. Vattimo, La vita dell’altro. Bioetica senza metafisica, Marco Editore, Lungo di Cosenza 2006. Circa la persistenza dell’umano e dell’etica umanistica, nonostante i diversi fenomeni del transumanesimo e del postumanesimo, cf. M. Farisco, Ancora uomo. Natura umana e postumanesimo, Vita e Pensiero, Milano 2011. 4


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dalle valutazioni storiche del soggetto e collegato alle sue decisioni libere. Del resto, la soggettività più o meno consapevole nelle scelte etiche, attutisce o aggrava il grado di responsabilità morale dei soggetti umani rispetto alla norma oggettiva, o rispetto a ciò che è intrinsece malum. La pur necessaria misericordia verso chi sbaglia, o la giusta ponderazione delle circostanze che inducono talvolta il soggetto all’errore, non devono mai far scadere nel consequenzialismo o nel situazionismo etico7; e non devono neppure chiudere la porta alle possibilità di recupero, risarcimento, redenzione di chi riconosce di aver sbagliato nel compiere determinate scelte reputate etiche. In terzo luogo, occorre mettere nel ventaglio di valutazioni etiche anche gli orientamenti delle religioni, in particolare di quelle che hanno nel loro statuto originario i valori di fratellanza, di solidarietà, di rispetto dell’altro, del prendersi cura (che è qualcosa di più del curare)8. Alcuni importanti passaggi dell’Esortazione apostolica di papa Francesco Amoris laetitia9, ripropongono puntualmente il tema della responsabilità morale e invitano tutti a un serio approfondimento, considerata la centralità di quella categoria nella vita di ogni essere umano. Dalla convinzione della struttura morale congenita della coscienza umana discende la possibilità di intendere i tratti “responsoriali” e storici della coscienza morale, che nella sua azione non può che determinarsi in processi di discernimento, cioè nella scelta dell’agire buono che è concretamente possibile. Responsabile? Chi? Dinanzi a chi? Di chi e di che cosa? In queste domande potremmo sintetizzare il percorso del significato dell’etica nella medicina chirurgica e nella medicina in generale. Nell’Esortazione apostolica il richiamo alla responsabilità ritorna una trentina di volte, sia in contesti non particolarmente significativi, sia in forme decisamente interessanti per la morale e per l’etica medica. Tra queste ultime, molte sono le occorrenze che riguardano la generazione – o la paternità o la genitorialità – responsabile (AL10) e altre riguardano il tema educativo, ad essa strettamente connesso (AL11). Citazioni particolarmente istruttive, si rinvengono nel cap. VIII, alcune delle quali hanno un rilievo etico-fondamentale. Nel n. 300 e similmente al n. 303, il Papa parla della necessità di un «responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari e sottolinea – con formula della Relatio finalis 2015, già al n. 79 – che «il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi».   In merito, J. Baron, Contro la bioetica, edizione italiana a cura di L. Guizzardi, Raffaello Cortina, Milano 2008. 8   In merito, cf. G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Paravia, Milano 2009; da altra angolazione, F. Bellino, Il paradigma biofilo. La bioetica cattolica romana, Cacucci, Bari 2008. 9  Francesco, Esortazione apostolica Amoris laetitia, n. 129. Fonte: http://w2.vatican. va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20160319_amoris-laetitia.html (29.09.2018). 10   AL 68, 78, 82, 166, 222 11   AL 259, 262, 263, 270, 275, 283 7


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Quale antropologia per quale etica? Tutto questo richiede una chiara visione dell’essere umano, nell’ambito dell’antropologia generale, che diviene il fondamento veritativo per una concezione della libertà e delle sue scelte. La dipendenza della libertà dalla verità relativizza lo stesso ruolo della ragione e della volontà umana rispetto alla verità etica, aiutando a orientarsi tra i non pochi conflitti teoretici tra posizioni che fondano l’etica sulla trascendenza e posizioni non-fondative in senso tradizionale o metafisico12. Arnold Gehlen uno dei padri dell’antropologia filosofica del Novecento, sosteneva che l’uomo, rispetto agli altri animali, è costituito da una “carenza” di istinti, da “primitivismi” e “nonspecializzazioni” del suo corredo organico13. Lo studioso, analizzando una citazione di Nietzsche per il quale l’uomo è un animale “non definito”14, cioè un essere che deve prendere posizione nel mondo, pur con tutti i suoi inadattamenti, le sue inadeguatezze e carenze di sviluppo, in condizioni naturali, non riuscirebbe a sopravvivere. Ciò lo rende, dunque, inadatto a un ambiente particolare, come lo sono gli altri animali non umani, perché il mondo intero è il suo ambiente. Ora «l’apertura dell’uomo al mondo significa che egli difetta dell’adattamento animale a un particolare ambiente»15. L’uomo è così, diversamente dagli altri esseri viventi, un essere organicamente “carente”, anche se capace ugualmente di sopravvivere e lo fa grazie alle sue elaborazioni conoscitive e alle sue decisioni morali. Questo perché la sua specificità è quella di colmare le sue carenze biologiche grazie al suo agire nel mondo. È un essere che può modificare la natura con il proprio lavoro: può, in altre parole, creare cultura, anche cultura sanitaria, ovvero un mondo, che diviene il mondo umano, caratterizzato dall’etica. La cultura viene definita da Gehlen, la “seconda natura”: la “natura umana”, elaborata autonomamente dall’uomo, entro la quale egli solo può vivere; e la cultura, da lui creata, è il prodotto di un essere unico al mondo, costruito in contrapposizione all’animale non umano. Come per l’animale c’è l’ ‘ambiente’, così per l’uomo, c’è il mondo culturale, cioè quella parte della natura da lui dominata e trasformata in un complesso di ausili per la vita, anche sulla base di visioni del mondo e concezioni etiche. «Nell’uomo, alla non specializzazione della sua costituzione corrisponde la sua apertura al mondo e, alla deficienza strumentale della sua physis, la “seconda natura” da lui stesso creata»16. Attraverso la cultura, l’uomo, trova nella tecnica il supporto necessario a migliorare il suo adatta  Si veda U. Scarpelli, L’etica senza verità, Bologna 1982.   Cf. R. Gallinaro, L’uomo e le sue vicissitudini. Ripensare oggi l’antropologia filosofica, Edizioni Cantagalli, Siena 2017. 14   Cf. F. Nietzsche, Umano troppo umano, traduzione di Sossio Giametta, Vol. I-II, Adelphi, Milano 1979. 15   A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, traduzione di Carlo Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983, 62. 16   A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, cit., 64-65. 12 13


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mento all’ambiente sia naturale sia umano. Non è da escludere, tuttavia, che egli potrebbe anche generare degli usi esclusivistici (piuttosto che inclusivi), cioè acuire le differenze e le diversità, rischiando di contribuire, sui piani culturale ed etico, al fossato delle diseguaglianze rispetto agli stessi fruitori dell’habitat. Se è con l’azione che l’uomo crea una compensazione alle sue deficienze organiche, la tecnica, anche quella chirurgica, si presenta come possibile realizzazione dell’essere umano che compensa carenze e imperfezioni, ma anche come strumento sia di miglioramento, sia di degenerazione dei valori umani, sociali e morali17. Catanzaro, 19 marzo 2021

Ibidem.

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Capitolo 2 Aspetti giuridici e deontologici della professione del chirurgo Vania Cirese Avvocato Patrocinante in Cassazione, Fiduciario ACOI. L’incremento esponenziale della conflittualità medico-paziente Il trend di evoluzione negativa nei rapporti tra medici e pazienti è rintracciabile negli orientamenti giurisprudenziali dei Tribunali di merito e della Cassazione, attestati nel corso degli anni su una linea di crescente severità nei confronti dei medici. L’opinione pubblica, prima incline al rispetto e alla fiducia nei confronti dei medici e del SSN, vive oggi in continuo conflitto di sentimenti, da un lato affascinata dai progressi della scienza medica e della tecnica che ne fa erroneamente percepire una sorta di onnipotenza, dall’altro lato indignata verso inaccettabili episodi di malasanità riportati con ricostruzioni fuorvianti degli scoop giornalistici. Le aspettative, spesso eccessive e irrealistiche, dei pazienti comportano la mancata accettazione di qualunque risultato negativo, qualunque rischio ed evento avverso si verifichi in ambito sanitario. Mancano informazioni esatte e veritiere sulle autentiche possibilità di diagnosi e cura in relazione a molte patologie, sui limiti della medicina e delle indagini cliniche o strumentali in molti settori, sull’ alea, legata alle risposte individuali del paziente, al suo corredo genetico, alle condizioni particolari di infermità nel caso concreto. Il lievitare dei processi e dei risarcimenti, l’inasprimento del rigore delle sentenze contro i medici hanno portato il fenomeno all’attenzione di tutti e in particolare di giuristi e medici, questi ultimi sempre più allarmati – specie se operanti nelle specialità più esposte al rischio di processi penali e civili – e più ansiosi di suggerimenti che possano guidarli nello svolgimento della loro delicata professione senza la minaccia permanente di traumatizzanti vicende giudiziarie. Non v’è dubbio che la professione sanitaria abbia una posizione del tutto peculiare nell’ambito delle professioni di servizio, perchè riguarda la salute e la vita degli individui e quindi coinvolge le famiglie, le comunità, la società intera. L’analisi dei problemi medico-legali e dei numerosi casi giudiziari e stragiudiziali di responsabilità medica impone una riflessione sul grave e preoccupante fenomeno della crescita esponenziale del conflitto tra la società e il medico, che ha assunto i caratteri di una vera e propria patologia sociale.


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Il rapporto complesso e ambivalente, che sussiste tra medici e società, costituisce un vero e proprio capitolo della sociologia, forse non a caso denominato “sociologia medica”. Negli anni la storia di questo rapporto ha dimostrato che già alle origini dell’attività medica se ne è delineata l’ambivalenza di fondo, connotata da un lato per un sentimento fortemente positivo dei singoli e della società nei confronti della Medicina e dei medici, da cui si è sempre atteso, e ancor più oggi si attende, il miracolo della salute e del prolungamento della vita; dall’altro, per un opposto sentimento negativo di riprovazione e risentimento per le delusioni causate dall’insuccesso del trattamento medico e, ancor più, dal danno attribuito a cause iatrogene. Attualmente si assiste a un incremento enorme e parallelo dei due contrapposti atteggiamenti, quello della grande e fiduciosa attesa da un lato, e quello della cocente e reattiva delusione dall’altro, che sfocia nelle azioni giudiziarie. Non v’è dubbio che, sul versante delle attese di salute e di vita migliore e protratta, siano condizionanti i potenti strumenti che sono il prodotto degli enormi progressi della Medicina e della Chirurgia compiuti con l’ausilio della tecnologia. Ad aumentare le speranze e le pretese sempre maggiori di benessere e salute contribuisce anche la complessa macchina dell’informazione e della pubblicità, con l’insieme di messaggi promozionali di singoli medici, Società Scientifiche, industrie produttrici o distributrici di farmaci, presidii e materiale sanitario, che vengono riversati sui cittadini con mezzi straordinariamente persuasivi della comunicazione di massa. Sull’altro versante – quello della delusione per l’insuccesso – si colgono altrettanti fattori causali, il primo dei quali, ovviamente, è proporzionale all’entità delle attese talora giustificate, altre volte infondate o eccessive. E anche su questo aspetto assume un ruolo centrale l’informazione di massa che, in Italia, ha coniato il termine scandalistico e abusato di “malasanità”, che compare quasi quotidianamente nella stampa anche se spesso a torto. Nè sulla stampa, nè nelle aule di giustizia viene dato il giusto rilievo al fatto che molte malattie non sono suscettibili di una diagnosi compiuta o di un’efficace terapia, molti trattamenti medico-chirurgici necessari od opportuni sono gravati da una rischiosità difficilmente prospettabile. Molti rischi sono connessi a carenze organizzative e strutturali degli enti, assolutamente sottovalutate. A un lungo, secolare periodo di consapevolezza e accettazione dei limiti della Medicina, si è sostituito uno stato d’animo confuso, nel quale il profano non riesce più a distinguere quelle condizioni morbose che lasciano poche speranze di guarigione o addirittura di sopravvivenza, dalle altre suscettibili di cure efficaci in molti casi, ma purtroppo non in tutti. Infatti, la malattia può assumere un andamento diverso da individuo a individuo, con varianti cliniche e decorsi a volte refrattari alle cure o non benigni. Senza dire dei limiti delle indagini diagnostiche strumentali invasive o meno.


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Tutte queste mutate condizioni e i rilevanti interessi economici implicati sono all’origine della stupefacente e patologica dimensione del contenzioso giudiziario legato al problema del risarcimento del danno in una società in cui il denaro ha assunto un ruolo progressivamente dominante a scapito di altri valori. Vi sono coinvolti sia le vittime e i loro congiunti che gli avvocati che ne curano i diritti, nonchè le compagnie di assicurazione, chiamate a tutelare in primo luogo i loro propri interessi a elevato contenuto economico. L’analisi delle possibili ragioni della crescente e aspra conflittualità tra medici e molti pazienti e/o le loro famiglie, con la partecipazione sempre più frequente dell’opinione pubblica, può dunque rendere ragione anche degli sviluppi del “diritto vivente”. I magistrati – responsabili delle evoluzioni giurisprudenziali – costituiscono un’interfaccia solo apparentemente ”asettica” ed equidistante tra i “contendenti”, mentre in realtà essi, nell’inscindibile veste di giudici ma anche di membri della società che li chiama a giudicare, non possono non essere partecipi degli stessi sentimenti che animano la comunità intera nei confronti dei medici e della Medicina. Sono sentimenti in cui oggi, come si è detto, domina l’attesa, spesso esagerata e tramutata in pretesa di risultati impossibili e di salute a tutti i costi, irraggiungibile con trattamenti sanitari, cure e impiego di farmaci, spesso con potenziale di effetti collaterali di varia gravità. Il sistema dei valori è cambiato, concentrandosi sullo stile di vita, sull’autorealizzazione, sulla longevità. In tale contesto il medico diventa la chiave per accedere al benessere e a un futuro migliore, senza accettazione del minimo insuccesso. Il medico è controllato da una generazione di “consumatori” a quali è stato insegnato come dubitare, informarsi e far valere i propri diritti e per i quali la guarigione da una malattia viene considerata come un diritto indipendente dalle circostanze e dalle reali e concrete possibilità. Tale situazione sociale è contestuale all’avvento della “cultura vittimistica”, nella quale le vittime sono rese popolari dalla televisione e dai giornali con dovizia di particolari e ricostruzioni ingigantite e fuorvianti. A fronte di questo contesto, la dottrina e la giurisprudenza sono evolute facendosi interpreti delle mutate esigenze dei cittadini verso la migliore tutela della salute e una più lunga sopravvivenza. L’inevitabile, a volte, inconsapevole partecipazione dei magistrati al sentimento collettivo e le loro frequenti attuali posizioni schierate in favore della massima tutela del paziente spiegano il progressivo abbandono, negli anni, di un orientamento generalmente più comprensivo nei confronti dei medici, dovuto anche al tradizionale “rispetto” nei confronti della categoria e anche all’accettazione dell’ineluttabilità della malattia e della morte. Spiegano il passaggio progressivo a quella giurisprudenza severa, a volte eccessiva, dei tempi attuali, nei quali le nuove generazioni dei giudici, specie nei tribunali del merito, sembrano aver fatte proprie le istanze, spesso acriticamente ottimistiche, della moderna società industriale nei confronti della medicina, giungendo al fatidico in dubio contra medicum in sostituzione, per questa sola categoria di imputati, del noto brocardo in dubio pro reo.


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L’impressione che si ricava dal partecipare alle fasi delle indagini giudiziarie e ai dibattimenti nonché dalla lettura delle denunce e delle sentenze di merito e di Cassazione, è quella di un frequente atteggiamento di pregiudizio, di sfiducia e di riprovazione nei confronti dei medici, cui si attribuiscono, in modo spesso infondato, responsabilità per insuccessi e danni che spesso non sono loro addebitabili o non sono a rilevanza penale, in buona parte correlate alla rischiosità della Medicina connaturate ai limiti delle possibilità medico-chirurgiche, dovute a un ambiente di lavoro inadeguato e carente di presidi e di organizzazione, la cui responsabilità non può farsi gravare sul medico. La disciplina della responsabilità medico-sanitaria è ormai da anni oggetto di particolare studio e attenzione da parte della Dottrina e della Giurisprudenza con un eco e un risalto particolare sia per l’alto valore etico e sociale dell’attività medica, sia per le aspettative sempre maggiori in termini di guarigione e di risarcimento del danno, quando la guarigione non è conseguita. L’evento avverso, un tempo vissuto come un qualcosa di inevitabile, insito in una professione irta di incertezze e soggetta all’umana fallibilità, oggi non è più tollerato e il turbamento esistenziale per la malattia si tramuta in motivo di risentimento e caccia al “colpevole”, quasi a voler ridurre l’impatto di quella malattia non accettata. Molte volte si ha la sensazione che il paziente voglia trasferire sul medico la responsabilità della malattia che lo ha colpito e che gli procura dolore e disagio psico-fisico. Ecco perché in tanti processi il risentimento non si placa né con la condanna del medico, né con il risarcimento. Quanto più la medicina è progredita, tanto più si assiste a un incremento del contenzioso in ambito sanitario. Molti giuristi hanno evidenziato che i progressi nelle diagnosi e cure paradossalmente sono destinati a far aumentare le ipotesi di richiesta di risarcimento di danni per la convinzione, nell’inconscio collettivo, di una medicina onnipotente, che sempre guarisce, che ha sempre successo, che non ha limiti né confini. Forse, collateralmente al tentativo di ridurre gli errori, occorrerebbe trovare modalità idonee a farli accettare... I medici si interrogano sui motivi di questo cambiamento di rotta verso una professione un tempo molto rispettata e oggi molto denigrata e attaccata. Tutti i professionisti sentono, come profonda ingiustizia, le continue critiche al loro operato, i lunghi anni di vicende giudiziarie vissute con patemi e nocumento economico, cioè con un prezzo altissimo anche quando il medico ingiustamente coinvolto venga assolto. Le informazioni errate, la spettacolarizzazione di una medicina “infallibile” per i traguardi diagnostici e terapeutici sempre più brillanti, creando aspettative miracolistiche nei pazienti, incentivano il contenzioso anche quando queste aspettative sono deluse senza colpa del medico. La crisi della professione è una crisi di fiducia verso un’attività caratterizzata dalla spiccata rilevanza sociale per l’indiscusso valore che l’ordinamento giuridico tradizionalmente riconosce ai beni personali della vita e della salute.


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La complessità della tematica deriva senza dubbio dalla natura stessa dell’attività medica che, essendo finalizzata alla diagnosi e cura delle malattie, anche attraverso il ricorso a trattamenti potenzialmente lesivi e dall’esito incerto, costituisce quella che viene definita come “attività rischiosa giuridicamente autorizzata”, nel cui espletamento l’agente è tenuto alla diligente gestione del “rischio consentito” dall’ordinamento, ossia entro limiti predeterminati alla luce dei risultati raggiunti dalle leggi scientifiche universali e di settore. Ciò pur nella consapevolezza che ogni opzione diagnostica e terapeutica, anche osservante della leges artis, lascia margini di discrezionalità tecnica e margini di complicanze, non necessariamente derivanti da “errore” e da “colpa”. Il vasto repertorio giurisprudenziale in materia di responsabilità medica, gli articoli e le pubblicazioni della dottrina vanno di pari passo con il clamore delle vicende cliniche di eventi avversi, amplificate dalla stampa e troppo spesso etichettate a torto e in modo approssimativo come “malasanità”. Anche se l’opinione pubblica, nella spinta emotiva della comprensibile solidarietà con il dolore della “vittima”, invochi sanzioni esemplari, il metro di valutazione del giudice, nell’accertamento della responsabilità penale, non può che rimanere saldamente ancorato ai principi costituzionali della legalità e della prova della responsabilità personale. Diversamente, si sconfina in un’ingiustificata criminalizzazione della categoria professionale medica e di quelle specialistiche più esposte a rischio, per la delicatezza e complessità del loro lavoro, quotidianamente svolto con sacrificio, al servizio della collettività, per la tutela del diritto alla salute. La diffusa tendenza a trasformare ogni fallimento terapeutico in un addebito di colpa, oltre a causare un ingiusto trauma sul versante psicologico e professionale per il Sanitario coinvolto, incide inevitabilmente sulla qualità del servizio offerto, anche alimentando il tanto criticato fenomeno della “medicina difensiva” nelle due differenti forme in cui si atteggia: l’una negativa, consistente nell’evitare di affrontare i casi più complessi e rischiosi; l’altra positiva, consistente nel cautelarsi in misura eccessiva attraverso prescrizioni ed effettuazioni di accertamenti diagnostici o trattamenti terapeutici superflui, finalizzati solo a precostituirsi “prove di diligenza”. La “medicina difensiva” spreca enormi quantità di risorse in una Sanità a riserve limitate, gli effetti negativi si ripercuotono anche sull’ordinamento giudiziario inflazionato dai processi. Non può omettersi di segnalare che se è vero che l’80% dei medici nel corso della carriera riceve un atto giudiziario, o va sotto processo per un sinistro, è altrettanto vero che nell’80-90% dei casi si accerta che nessuna colpa del Sanitario poteva essere riscontrata. La Magistratura, costituita da persone che vivono in un contesto sociale, che avvertono il cambiamento di atteggiamento dei pazienti verso i medici, che non di rado hanno a loro volta subìto o creduto di subire conseguenze di errori medici su di sé o su familiari, continua a manifestare un atteggiamento in senso sempre più sfavorevole al medico, spesso aprioristicamente


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severo o incline a pregiudizi, perdendo di vista che la condanna del medico, singolo o in équipe, non migliora il sistema che genera l’evento avverso per le sue disfunzioni e disorganizzazioni, mentre lievitano i costi per le coperture assicurative e non si approntano rimedi per ridurre il rischio clinico e per fornire ai pazienti equi indennizzi quando sono vittime di quella che è “l’alea terapeutica”. In Italia, l’esigenza di riportare al centro del dibattito politico-istituzionale la persona umana e i suoi diritti, valorizzando la tutela costituzionale della salute, non può tradursi in una politica o attività giudiziaria incentrata solo sulla ricerca del “colpevole”, senza affrontare i problemi procedurali e strutturali, senza una politica di promozione della clinical governance, del risk management e della comunicazione. Non v’è dubbio, allora, che il dibattito sulla responsabilità medica sia di rilievo multidisciplinare, coinvolgendo diverse aree del “sapere”, dal diritto privato, al diritto sanitario, all’economia, al diritto penale, alla medicina legale e specialistica di settore, al diritto costituzionale. Ma v’è di più: viene in gioco la responsabilità delle Aziende ospedaliere e delle Regioni, connessa alla funzionalità dell’assetto organizzativo e strutturale dell’assistenza sanitaria. È necessario innanzitutto porsi in un’ottica di studio interdisciplinare e inoltre liberarsi da quei condizionamenti del passato che, nati all’insegna di un modello di responsabilità professionale singolo, incentrato sulla figura del professionista intellettuale di tradizione ottocentesca, hanno influito nelle diverse aree professionali, imponendo un paradigma generale di disciplina di responsabilità medica applicata oggi, sia alle prestazioni sanitarie rese dal medico dipendente di struttura sanitaria pubblica, sia al libero professionista; è invece doveroso differenziarla. Senza dubbio la modificazione dell’attività sanitaria ha fatto sorgere nuove problematiche giuridiche relativamente all’attribuzione delle responsabilità per eventi avversi in caso di diversi partecipanti al trattamento medico. In passato la responsabilità per colpa, nell’ambito del diritto penale, si è per molti anni sviluppata sul modello del singolo soggetto che agisce isolatamente e l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in tema di responsabilità medica, si è molto concentrata sui tradizionali problemi della condotta di un unico operatore. Studiosi e giudici hanno fatto fatica a confrontarsi con lo sviluppo del fenomeno della divisione tecnica del lavoro sanitario e i problemi a esso connessi. Le diverse situazioni di cooperazione tra Sanitari, hanno determinato una generale incertezza nella trattazione della materia che si è riverberata nelle decisioni spesso contraddittorie dei giudici di merito e di legittimità, incapaci di fornire indicazioni univoche e definitive. Ancora oggi nelle situazioni di divisione tecnica del lavoro in ambito sanitario e di assistenza e cure del paziente erogate in équipe, l’istituto della cooperazione colposa previsto dall’art. 113 c.p. non trova indirizzi omogenei e la materia attende una sistemazione coerente e principi guida applicabili a tutte le situazioni collaborative.


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All’interno della struttura sanitaria il lavoro di équipe è ormai la regola. È un dato di fatto che, oggigiorno, a fronte di una sempre maggiore efficienza e professionalità, per fornire un servizio adeguato al progresso scientifico, le prestazioni medico-chirurgiche non sono più eseguite da un solo professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e personale sanitario, secondo il principio della divisione del lavoro. La complessità dell’organizzazione di cura ha fatto sorgere delicate problematiche inerenti all’attività collegata di più partecipanti ed è maturata l’esigenza di una definizione della prestazione professionale collettiva, in ragione delle sue implicazioni. Per attività medico-chirurgica in équipe si intende quella caratterizzata dall’intervento e dalla cooperazione di più sanitari, che interagiscono tra loro per il conseguimento di un fine comune. In relazione a essa, si pongono interessanti e controverse questioni relativamente all’individuazione del dovere di diligenza che grava su ciascun componente l’équipe medica. Si pone, in particolare, il problema di accertamento fino a che punto si estenda il dovere di diligenza, prudenza e perizia che incombe sul medico che partecipa ad attività terapeutica insieme ad altri professionisti. In altre parole, occorre stabilire se ciascun medico facente parte dell’équipe, oltre al rispetto delle leges artis proprie del suo ambito di competenza e di specializzazione, sia tenuto a osservare un più ampio e generale obbligo cautelare, avente come oggetto il controllo e la vigilanza dell’altrui operato e, conseguentemente, se risponda di eventuali comportamenti colposi che abbiano causato o contribuito a causare l’evento lesivo, riferibili ad altri componenti dell’équipe. Se il dovere di diligenza gravante sui singoli partecipanti al trattamento medico di gruppo si estenda fino a comprendere l’obbligo di prevedere e prevenire il comportamento negligente o imperito dei colleghi, ovvero se ciascuno possa fare affidamento sull’osservanza delle leges artis da parte degli altri. Nelle ipotesi di esito infausto del trattamento terapeutico, infatti, è necessario individuare un criterio di distribuzione della responsabilità penale fra i medici componenti l’équipe. Occorre un approccio che, confrontandosi con i cambiamenti che in quest’ultimo ventennio si sono registrati in ambito socio-sanitario, ponga al centro del dibattito sulla responsabilità medica non più la figura del libero professionista (medico) che aveva ispirato il legislatore del 1942 nè il conseguente approdo a quel paradigma di colpa professionale, bensì l’équipe e, inoltre, il fondamentale ruolo della struttura sanitaria, quale soggetto che, per legge, deve adeguarsi a quelle regole di efficienza ed economicità che reggono le attività organizzate. Le richieste di cura da parte del cittadino debbono fare i conti, oltre che con le disposizioni provenienti dallo Stato e dalle Regioni, anche con l’organizzazione, l’efficienza e l’efficacia dei servizi delle Aziende. Luogo privilegiato per l’accadimento di episodi di medical malpractice è una struttura organizzata, dove l’attività sanitaria viene tradotta in servizio. Tuttavia raramente, nella


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ricostruzione di una vicenda giudiziaria, viene posto l’accento su un disservizio o comunque su una disfunzione organizzativa della struttura sanitaria, imputandosi sempre la colpa all’operatore sanitario. Ne sono conferma quelle pronunce (specie dei giudici di legittimità) che, nel motivare, vanno sempre alla ricerca di una condotta “colpevole” del medico come presupposto necessario per l’affermazione della responsabilità della struttura, anche nei casi in cui risulta chiaramente il condizionamento del disservizio della struttura sulla produzione dell’evento avverso. Un tale atteggiamento della Giurisprudenza, se posto a confronto con i nuovi modelli strutturali e organizzativi di gestione dei servizi sanitari, che rivendicano alla struttura (e non più al medico) un ruolo centrale nell’erogazione del servizio sanitario, si rivela anacronistico: in ciò denunciando l’inderogabile esigenza di un cambiamento. Pare opportuno abbandonare la precedente impostazione per cui si rendeva necessario individuare il “fatto illecito” del medico per risalire all’inadempimento della struttura e, diversamente, partire dall’accertamento del disservizio della struttura per individuare l’apporto causale dei singoli fattori imputabili alla disorganizzazione che hanno determinato l’erogazione del servizio “difettoso” e l’evento avverso. Studi che hanno affrontato il problema degli eventi avversi in chiave di gestione del rischio clinico, avvalendosi del supporto di statistiche estremamente significative, hanno evidenziato la stretta correlazione causale tra il verificarsi di eventi avversi e l’organizzazione sanitaria, per carenze strutturali e organizzative (protocolli e procedure, mancato apprestamento delle sicurezze, manutenzione e allestimento delle sale operatorie, turnazione del personale, gestione e formazione delle risorse umane). Per la mancanza di mezzi terapeutici più complessi o di mezzi tecnicamente avanzati, ovvero per la carenza di organico, a causa della mancata autorizzazione all’assunzione, dovranno invece essere valutate eventualmente le responsabilità degli amministratori regionali e centrali. Queste diverse responsabilità raramente sono venute alla ribalta nei casi giudiziari, chiamando in causa i funzionari delle Aziende sanitarie, come responsabili di quei disservizi e di quelle disfunzioni organizzative che abbiano cagionato danni ai pazienti. La tendenza prevalente è sempre stata quella di risalire a una condotta medica colposa, senza soffermarsi ad analizzare il nesso tra errata prestazione medica e disfunzioni nel reparto e/o nella struttura. Tanto meno si è valutato in che percentuale la condotta del medico sia stata condizionata dalla disfunzione addebitabile alla struttura. In base al rapporto di immedesimazione organica, è stata eretta la responsabilità (solidale) della struttura come speculare a quella del medico. L’ospedale entra in gioco solo dopo la condanna del medico, come suo datore di lavoro, con ciò evitando di vagliare la responsabilità di quanti presiedono all’organizzazione e all’efficienza del servizio. Il settore sanitario è diventato oggetto di attenzione crescente anche da parte delle Istituzioni Europee (Corte di Giustizia, Parlamento Europeo, Commissione Europea). Nell’ambito dell’attuale quadro normativo europeo,


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che assegna agli Stati nazionali, in linea con il principio di sussidiarietà, competenze in merito all’organizzazione e al finanziamento dei sistemi sanitari, le Istituzioni della UE hanno avviato una riflessione su un ruolo più attivo da poter assumere. Secondo analisi recenti, negli episodi di “malasanità” in Italia l’85% dei problemi dipende da fattori organizzativi e non da incompetenze degli operatori sanitari. Da un raffronto con gli altri sistemi emerge come, nei Paesi dell’Europa Occidentale, la responsabilità della struttura sanitaria – sia per “difetto di organizzazione» (Germania), sia per «mancanza di predisposizione della sicurezza delle cure» (Belgio), sia per “faute dans l’organisation du service” o per “infezioni nosocomiali” (Francia) – si sia attestata su un piano di completa autonomia rispetto alle responsabilità per condotte colpose dei sanitari. Solo assumendo l’obbligo di garantire la sicurezza delle cure, non come obbligo accessorio di protezione della salute, ma come obbligo che fonda il contenuto stesso della prestazione di assistenza sanitaria, sarà possibile, nella definizione della responsabilità delle strutture, valutare il ruolo assunto da tale fattore nell’inesatta esecuzione della prestazione di assistenza sanitaria. Inseguendo, dunque, una logica di differenziazione più che di omologazione, appare opportuno distinguere tra prestazioni sanitarie rese in forma individuale dal singolo professionista e prestazioni rese in équipe e nell’ambito di strutture organizzate. Ciò per evitare di trasferire quelle che sono le regole, in origine ritagliate sulla figura del singolo professionista intellettuale, alla disciplina dell’attività erogata all’interno di strutture sanitarie e in équipe. Dall’evoluzione degli indirizzi della Dottrina e Giurisprudenza si coglie il senso della ricerca di una disciplina che, avendo come referente non più il singolo professionista bensì più medici e sanitari impegnati in “un’attività organizzata”, ambisca a far sì che il rischio, connesso all’organizzazione di un’attività che traduce tutte le prestazioni professionali in servizio, non debba ricadere sul paziente, ma nemmeno solo sul singolo medico (ultimo anello della catena), coinvolgendo invece chi esercita, amministra, governa tale attività in quanto soggetto che è in grado di prevenire la ricorrenza degli eventi avversi, con adeguate politiche di risk management, e di controllare, … nonché col ricorso a meccanismi assicurativi di assorbire nei costi il rischio creato dall’organizzazione stessa. L’individuazione di un obbligo a carico delle strutture sanitarie, come l’obbligo di garantire uno standard organizzativo adeguato alle esigenze di tutela della salute, chiama in gioco la responsabilità delle Aziende sanitarie e del personale che presiede alla gestione e all’organizzazione dei servizi sanitari, ossia i responsabili di quelle scelte organizzative e/o gestionali che, nell’erogazione del servizio e nell’assistenza sanitaria, abbiano causato o possano causare danni al paziente. Alcuni pregevoli sforzi giurisprudenziali e il recente impegno del legislatore tentano di mettere ordine in una materia tanto complessa come quella della responsabilità medico-sanitaria nei suoi molteplici e rilevanti aspetti.


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Gli obiettivi della legge 24/2017 (L. Gelli) La Legge Gelli ha avuto il pregio di aver voluto operare un cambio di prospettiva nell’affrontare le gravi problematiche ricorrenti in Sanità. La ricerca, finora fortemente incentrata sulla preoccupazione di sanzionare le condotte scorrette dei sanitari e assicurare il dovuto risarcimento dei danni ai pazienti lesi, si è spostata al momento antecedente e cioè alla “prevenzione” prima della “sanzione”, nella raggiunta consapevolezza che monitorare i rischi, identificare le cause, adottare presidi e procedure per evitare che detti rischi si tramutino in danni, consente di ovviare tanto alla compromissione della salute dei pazienti quanto alle conseguenze afflittive per gli operatori sanitari i quali vengono chiamati a rispondere delle lesioni del diritto alla salute in sede civile e penale. Orbene la legge 24/2017 ha avuto il pregio di ampliare l’orizzonte della ricerca e dell’azione, passando dalla (mera) preoccupazione di punire le condotte censurabili ed erogare indennizzi ai pazienti lesi al richiamo di attenzione innanzitutto sulla doverosità di prevenire i guasti di procedure errate nei trattamenti sanitari, evitando tanto i danni ai pazienti quanto conseguenze onerose a carico degli operatori e in particolare le condanne penali. “Prevenzione” è la parola chiave del nuovo linguaggio della legge, nella consapevolezza che un sistema di indagine, allerta e monitoraggio degli eventi avversi, sarà a vantaggio sia degli operatori sanitari che dei pazienti, scongiurando nefaste conseguenze sia in capo agli uni che agli altri. Le Aziende sanitarie, mediante “unità” a ciò dedicate, devono necessariamente fare riferimento al criterio del rischio, correlato all’organizzazione di un’attività di servizi alla persona, al fine della prevenzione dei possibili danni alla salute dei pazienti nell’erogazione delle cure. La struttura infatti, risponde ben oltre la prestazione alberghiera poiché, assieme a tutti gli operatori sanitari, ha l’obbligo di garantire la sicurezza delle cure predisponendo la dovuta organizzazione di mezzi e di persone potendosi rinvenire anche collegamenti causali tra organizzazione deficitaria e danni ai pazienti per inosservanza degli standard di sicurezza imposti dalla legge (colpa specifica) o dal generale dovere di diligenza, prudenza, perizia (colpa generica). All’Ente deve essere richiesta l’adozione di modelli comportamentali specificatamente calibrati sulla prevenzione del rischio sanitario, cioè volti a impedire, attraverso la fissazione di regole di condotta e di monitoraggio dei rischi e degli eventi avversi, possibili danni ai pazienti e ingiustificati processi al personale sanitario. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a risolvere la problematica. Una volta suscitata la “cultura della sicurezza” nelle Aziende, queste non possono essere lasciate sole a garantire l’impegnativo compito della gestione del rischio sanitario, ma devono essere incluse in un “sistema”, quale prima fase del processo di gestione.


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Per elevare il livello di appropriatezza e sicurezza delle cure erogate ai pazienti e far lavorare in tranquillità gli operatori sanitari, preservando non solo la loro reputazione ma anche quella di tutto il SSN, l’impegno non può essere intrapreso con esperimenti spontanei che, pur apprezzabili in alcune realtà territoriali, finora sono restati facoltativi e disomogenei e non hanno colmato le disparità e le disuguaglianze di trattamento. Già da tempo gli esperti hanno indicato la necessità di un “sistema” di gestione del rischio clinico, organizzato e omogeneo per tutto il SSN, distinguendo un “doppio binario di responsabilità” che coinvolgesse gli amministratori delle strutture, o loro delegati, in caso di deficit organizzativo. Solo un Servizio Sanitario che contempli diversi profili di responsabilità e inclusivo di un vero e proprio “sistema nazionale-regionale-locale di gestione del rischio clinico”, consente più ampie garanzie di sicurezza per i pazienti e tranquillità di lavoro per gli operatori sanitari. L’istituzione di un vero e proprio “sistema” postulava il raccordo delle unità di gestione del rischio a livello aziendale, da rendere obbligatorie, con agenzie o centri regionali e con un Osservatorio Nazionale. Solo istituendo i tre livelli raccordati si dà vita a un “sistema” e se ne assicura l’efficacia. Il 1° livello contempla il monitoraggio dei rischi e degli eventi avversi nelle strutture ospedaliere e permette di individuare le fonti-cause dei danni ai pazienti per approntare la gestione e adottare presidii che scongiurino la reiterazione degli eventi avversi ricorrenti. La raccolta e la funzione dei dati, a livello regionale, costituisce il 2° livello e le Regioni, nel loro ruolo di “collettore”, ne curano la trasmissione al 3° livello. Il Coordinamento Nazionale, assicurato dall’Osservatorio Nazionale allocato presso l’AGENAS, acquisisce i dati regionali sui rischi e sugli eventi avversi (e contenzioso medico legale) e con l’ausilio delle Società Scientifiche e altri enti erogatori ufficiali delle linee guida, emette linee di indirizzo e raccomandazioni, favorendo modelli omogenei e cure sicure ed efficienti nelle realtà locali, evitando ingiuste disparità di trattamento ai pazienti, i costi della medicina difensiva e i defatiganti contenziosi, il cui esito dopo lunghi anni, quasi sempre ha distrutto la reputazione dei Sanitari ma non li ha sanzionati, ha illuso i pazienti ma non li ha risarciti. Le Aziende sanitarie non sono più lasciate sole ma si giovano delle linee guida e raccomandazioni, emerse per la prevenzione e gestione del rischio clinico. Lo scopo specifico della gestione del rischio clinico, cioè quello di ridurre la frequenza degli eventi avversi, comporta gli effetti ulteriori di ridurre i danni ai pazienti e quindi la probabilità che siano intraprese azioni legali da parte loro, con tutte le conseguenze economiche e psicologiche. Risulta evidente che la riduzione e gestione del contenzioso sarà facilitata da una necessaria e corretta gestione del rischio clinico. Nei sistemi complessi, che richiedono elevato controllo dei rischi, è stata storicamente costruita la “cultura del rischio e dei sistemi di prevenzione”.


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La Legge Gelli, lungi dall’escludere la giusta punizione delle condotte colpose errate, ha tuttavia superato la mera “cultura della colpevolizzazione” che ha impedito, fino a oggi, di affrontare il problema degli eventi avversi “prevedibili” in ambito sanitario, con la necessaria trasparenza culturale, alimentando la “cultura della sicurezza”. In proposito, va rammentato che l’abbandono della tradizionale ricerca delle sole responsabilità individuali verso l’attenzione delle carenze strutturali e organizzative si rileva negli USA già nel 1999, nel rapporto dell’Institute of Medicine To Err is Human: Building a Safer Health System e nel Patient Safety and Quality Improvement Act del 2005. Nell’Regno Unito, con la convenzione del 2001 della National Patient Safety Agency (NPSA). L’art. 16 della legge 24/2017 completa il quadro normativo disponendo che: “i verbali e gli atti conseguenti all’attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ambito dei procedimenti giudiziari”. Verrà così a cadere una delle principali resistenze alla collaborazione da parte dei medici e dei Sanitari, al fine di acquisire conoscenze sui rischi ed eventi avversi, per timore di conseguenze dannose a loro carico. Grazie alla nuova legge si avranno modelli omogenei e si eviteranno disparità e disuguaglianze di trattamenti perchè le unità di monitoraggio e gestione del rischio clinico, operanti a livello aziendale, saranno attenzionate e coordinate a livello regionale, faranno pervenire con cadenza regolare i dati raccolti sui rischi, eventi avversi e contenzioso, predisponendo anche una relazione annuale consuntiva sugli eventi avversi verificatisi all’interno della struttura, sulle cause e le conseguenti iniziative di contrasto, relazione pubblicata sul sito internet della struttura. Ogni anno i centri regionali sono tenuti a raccogliere i dati relativi ai rischi e al contenzioso delle strutture e a trasmetterli all’Osservatorio Nazionale presso l’AGENAS. L’Osservatorio si avvale dell’ausilio delle Società Scientifiche e Associazioni tecnico scientifiche delle professioni sanitarie, iscritte in apposito elenco del Ministero della Salute. Il precipuo compito di questo stadio del processo di gestione del rischio clinico, mediante il sistema nazionale istituito, è di predisporre linee di indirizzo per gestire il rischio sanitario, devolvendo ancora una volta grande attenzione all’individuazione di idonee misure di prevenzione, nonchè alla formazione e all’aggiornamento degli operatori sanitari. La norma di recente conio mette in primo piano la sicurezza del paziente, ritenendola “parte costitutiva del diritto della salute” e “perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”. Il legislatore ha valorizzato l’attività di prevenzione del rischio, che diviene un obbligo fondamentale e coinvolge tutte le strutture e tutto il personale del SSN. Finalmente si è giunti a una visione sistemica della gestione del rischio clinico, affermando che la sicurezza delle cure si realizza mediante l’insieme di tutte le attività di prevenzione e gestione e a tutti i livelli (aziendale, regionale, nazionale) e con il necessario utilizzo di tutte le risorse (tecnologiche, organizzative, strutturali, umane).


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La norma Gelli ha compiutamente risposto all’invito della Commissione e del Consiglio UE di sviluppare politiche e programmi efficaci in materia di sicurezza dei pazienti, adottando misure volte a ridurre o prevenire i rischi avversi, istituire sistemi di segnalazione e apprendimento relativi agli eventi sfavorevoli identificando anche l’autorità competente, coinvolgere le organizzazioni dei pazienti nel processo di policy making, incoraggiare l’istruzione e la formazione degli operatori sanitari sulle norme, orientandoli verso pratiche ottimali in materia di sicurezza dei pazienti. Il nostro legislatore ha tenuto conto dei contenuti delle relazioni della Commissione al Consiglio e degli atti di questo sulla sicurezza dei pazienti e qualità dell’assistenza medica. La nuova legge, promuovendo finalmente una politica nazionale di gestione e soprattutto di prevenzione dei rischi ed eventi avversi, specie se reiterati ed evitabili, con il conseguente contenimento degli effetti dannosi che ne derivano, ha risposto anche all’appello della Corte Europea, così rendendo l’Italia ottemperante alle indicazioni delle Istituzioni UE e al passo con gli altri Stati d’Europa in materia di sicurezza ai pazienti, nel contempo restituendo serenità alla classe medica. Il legislatore ha reso obbligo giuridico erga omnes e non mero sforzo individuale delle Aziende più virtuose, il dovere di adottare a vari livelli misure precauzionali operative, dirette a prevenire il verificarsi di rischi per la vita o l’integrità di coloro che fruiscono dei trattamenti medico-sanitari. Un ambiente di lavoro più sicuro ed efficiente nell’erogazione delle cure va senz’altro a beneficio non solo dei pazienti ma anche degli operatori sanitari1. Accertamento della responsabilità penale del medico Secondo il Codice deontologico, la Dottrina e la Giurisprudenza di settore il medico ha l’obbligo di osservare scrupolosamente le leges artis che caratterizzano la sua attività professionale, assumendo così la posizione di “garante” nei confronti del paziente. Il Sanitario diventa, infatti, portatore dell’obbligo giuridico di attivarsi e di proteggere la vita e l’integrità fisica del paziente affidato alle sue cure.

Art. 2 Attribuzione della funzione di garante per il diritto alla salute al Difensore civico regionale o provinciale e istituzione dei Centri regionali per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente. Comma 4. In ogni regione è istituito, con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, il Centro per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente, che raccoglie dalle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private i dati regionali sui rischi ed eventi avversi e sul contenzioso e li trasmette annualmente, mediante procedura telematica unificata a livello nazionale, all’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, di cui all’articolo 3. 1


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Come è noto, l’attività medica reca in sé un intrinseco indice di pericolosità che l’ordinamento accetta in ragione dell’innegabile utilità sociale che caratterizza le professioni sanitarie; tuttavia, questo “rischio consentito” va mantenuto entro limiti precisi, mediante la previsione di un adeguato apparato di norme precauzionali codificate e non. La linea di confine, tra ciò che è lecito e ciò che non lo è, è notevolmente sfumata e ricade sul Sanitario chiamato volta per volta a valutare, nel caso concreto, la prevedibilità di eventuali conseguenze lesive connesse all’attività terapeutica espletata. Un’accorta valutazione si basa sull’esperienza consolidata e sul rispetto delle norme precauzionali di settore. Nell’accertamento dei profili di responsabilità del Sanitario per la Giurisprudenza le linee guida e i protocolli sanitari hanno costituito sempre un importante riferimento in grado di offrire indicazioni sugli orientamenti consigliati ai Sanitari o regole che essi devono rispettare. Com’è noto, le linee guida sono raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate attraverso un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche. Lohr KN e Field MJ dell’Institute of Medicine di Washington, nelle Guidelines for Clinical Practice. From Development to Use, forniscono una definizione delle linee guida condivisa da più parti, dovendosi intendere per “linee guida”: “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opzioni scientifiche, con lo scopo di aiutare i medici e i pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”2. In ultima analisi può affermarsi che le linee guida raccolgono evidenze scientifiche oggettive e identificano ipotesi di condotte virtuose e idonee a garantire la qualità e la sicurezza dei trattamenti sanitari. È interessante notare che le linee guida presentano una o più modalità comportamentali rispetto a uno specifico problema, non necessariamente indicando un’univoca strategia di intervento. Ciò perchè le “raccomandazioni” traducono le evidenze scientifiche oggettive, fondate sulla letteratura medica, in possibili condotte che poi i soggetti o le organizzazioni devono scegliere di applicare nell’ambito delle proprie realtà. Per queste caratteristiche le “linee guida” si distinguono dalle procedure operative e dai protocolli, descrittivi in modo vincolante e in dettaglio di sequenze di attività, da mettere in atto senza varianti. Atteso che le linee guida svolgano la funzione di offrire agli operatori delle indicazioni di esito e di processi per monitorare l’attività clinica e per individuare modelli comportamentali condivisi e idonei a garantire standard elevati di qualità e sicurezza, è necessario poi che detti “indicatori”, contenuti nelle linee guida, siano seguiti da altri strumenti più operativi per la concreta collocazione nelle diverse realtà, ossia dai c.d. “processi diagnostico-te  Field MJ, Lohr KN. Guidelines for clinical practice. From development to use, Washington DC, 1992. 2


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rapeutici”, che costituiscono l’adattamento delle linee guida alle realtà locali e alle conseguenti singole caratteristiche tecnico-organizzative. La diffusione delle linee guida è iniziata negli Stati Uniti a partire dagli anni ’70 e ha avuto implemento decisivo con l’affermarsi della “Evidence Based Medicine” (EBM)3. A livello internazionale esistono diversi Istituti che hanno il compito di emettere linee guida: il National Institute for Health Care and Clinical Excellence (NICE) e lo Scottish Intercollegiate Guidelines Network (SIGN) nell’Regno Unito, la National Guidelines Clearinghouse (NGC) in USA, le Clinical Guidelines pubblicate sul The Medical Journal of Australia (MJA), ecc. In Italia, l’introduzione delle linee guida risale agli anni ’90. Significativo è stato il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000, introdotto con il D.Lgs 229/19994 e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità e dall’AGENAS. Da ricordare è anche il Decreto del Ministro della Salute del 30 giugno 2004, con cui è stato poi istituito il Sistema Nazionale Linee Guida, per assicurare il raccordo delle Istituzioni che operano a livello centrale5 6. Anche l’Istituto Superiore di Sanità definisce le linee guida, con l’ulteriore precisazione che le stesse debbano descrivere le alternative disponibili e le relative possibilità di successo in modo che il medico possa orientarsi nella gran quantità di informazioni scientifiche in circolazione, il paziente abbia modo di esprimere consapevolmente le proprie preferenze e l’amministratore possa compiere scelte razionali, in rapporto agli obiettivi e alle priorità locali. Le linee guida contengono prescrizioni, suggerimenti e indicazioni rivolte al medico e sono formulate per garantire il raggiungimento di determinati scopi, quali, ad esempio, la riduzione della variabilità dei comportamenti del medico, il raggiungimento di una maggiore efficienza delle prestazioni sanitarie, il miglioramento dell’efficacia della condotta clinica, la risoluzione dei problemi etici e legali.

Hayward R.S.A. – Wilson M.C. – Tunis S.R. – Bass F.B. – Guyatt G., Users guidelines to the medical litterature. How to use clinical guidelines. Are the recommendation valid?, The Evidence Based Medicine Working Group, 1995. 4   D.Lgs 19 giugno 1999, n. 299. Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’art. 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419 in GU 165/1999. 5   Cirese V., La medicina basata sull’evidenza e aspetti medico-legali, in Il medico ospedaliero e del territorio, Anno IX – n. 1/2011 – marzo-trimestrale, 18, CIC edizione internazionale, nel sito del coordinamento italiano dei Medici Ospedalieri – Associazione Sindacale dei Medici Dirigenti. 6   Ex pluris, A. Fiori, Medicina legale della Responsabilità medica, Milano 1999; Introna F., Metodologia medico legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa, in Riv. it. med. leg. 1996, 1323, cit. in Bilancetti M. – Bilancetti F., La responsabilità penale e civile del medico VII ed. 2010, 684: “la Medicina, benché tecnologizzata, conserva ancora una forte componente di “arte” cioè personalizzazione che ogni medico conferisce al suo agire in ciascun caso singolo sulla base della propria esperienza e della propria sensibilità professionale. (…)”. 3


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Grazie all’operatività delle linee guida viene recuperato un notevole grado di determinatezza che si sacrifica ogniqualvolta la regola cautelare venga individuata utilizzando solo il parametro dell’ “agente modello” nel caso di valutazione della responsabilità medica, ossia facendo riferimento al “medico modello”, tradizionalmente utilizzato in Giurisprudenza. Si parla così di un “processo di normativizzazione della colpa”, attraverso la standardizzazione delle regole cautelari nell’obiettivo di elaborare uno schema ideale di comportamento clinico che possa essere preso come parametro nell’ambito del processo, là dove si tratti di verificare la sussistenza di una responsabilità colposa del medico che ha disatteso le regole in questione. L’analisi dei prevalenti orientamenti giurisprudenziali in materia valorizza il profilo della concretizzazione della colpa. Secondo gli approdi della Giurisprudenza la violazione delle linee guida da parte del medico non conduce necessariamente alla configurazione di una colpa professionale. Del resto il rispetto di linee guida e protocolli non esclude automaticamente la responsabilità del Sanitario come quando, ad esempio, siano omessi trattamenti o esami clinici o strumentali che, anche se non richiesti da linee guida e protocolli, erano necessari. Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione ha espresso il seguente principio: “Non vi potrà essere esenzione da responsabilità per il fatto che siano state seguite linee guida o siano stati seguiti protocolli ove il medico non abbia compiuto colposamente la scelta che in concreto si rendeva necessaria. Ciò, soprattutto, allorquando le linee guida seguite siano obiettivamente ispirate a soddisfare solo esigenze di “economia gestionale” ovvero allorquando queste si palesino obiettivamente vetuste, inattuali, finanche controverse. Le linee guida non possono fornire, infatti, indicazioni di valore assoluto ai fini dell’apprezzamento dell’eventuale responsabilità del sanitario, sia per la libertà di cura, che caratterizza l’attività del medico, in nome della quale deve prevalere l’attenzione al caso clinico particolare e non si può pregiudizialmente escludere la scelta consapevole del medico che ritenga causa cognita di coltivare una soluzione terapeutica non contemplata nelle linee guida, sia perché, come già evidenziato in altri precedenti in taluni casi, le linee guida possono essere indubbiamente influenzate da preoccupazioni legate al contenimento dei costi sanitari oppure si palesano obiettivamente controverse, non unanimemente condivise oppure non più rispondenti ai progressi nelle more verificatesi nella cura della patologia.”7 Rimane, pertanto, la possibilità per il Giudice di valutare la condotta del medico anche alla luce del parametro dell’ “agente modello”, nella comune censura dell’appiattimento a una acritica osservanza delle linee guida qualo-

Cass. pen., Sez. IV, 2 marzo 2011 n. 8254; Cass. pen., Sez. IV, 19 dicembre 2012 n. 35922; Cass. pen., sez. IV, 8 giugno 2006 n. 24400; Cass. pen., Sez. IV, 2 marzo 2007 n. 19354. 7


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ra la particolarità della fattispecie concreta avrebbe potuto imporre o consigliare al medico un percorso diagnostico-terapeutico diverso. Le linee guida, al fine di semplificare un ventaglio di conoscenze troppo vasto che potrebbe disorientare il medico, hanno lo scopo di fornire al professionista il “percorso terapeutico ideale” che, sulla base della migliore scienza ed esperienza dell’epoca, propone raccomandazioni per agevolare la decisione clinica nel caso concreto. Tra l’altro indicano al medico il dovere di aggiornamento necessario anche in considerazione della complessità e particolarità delle sue prestazioni professionali. Con la prospettazione delle raccomandazioni o del percorso terapeutico “ideale”, le linee guida favoriscono un approccio più “oggettivizzato”, tendendo a ridurre il tasso di errore che potrebbe derivare da una gestione clinica molto soggettiva e personalizzata o effettuata su base intuitiva. Inoltre, la progressiva uniformazione delle migliori prassi, Best Practice, favorisce il miglioramento dei processi di cura e la riduzione delle disuguaglianze nell’erogazione dei trattamenti sanitari. Va notato che, a parte l’assenza di tassatività del reato colposo, l’accertamento della responsabilità penale, in ambito sanitario, si è sempre contraddistinto per la diffusa tendenza a diffidare di ogni processo di «positivizzazione» delle regole cautelari. La Dottrina e la Giurisprudenza dominanti hanno sempre avversato un’eccessiva standardizzazione delle regole cautelari nel settore sanitario. Del resto in ambito penale, pare difficile se non impossibile, anche ricorrendo alle linee guida, conseguire, per ciò che concerne la responsabilità professionale dei Sanitari, quella standardizzazione delle regole cautelari proprie di altri settori. Le resistenze dei giuristi appaiono identiche a quelle dei medici che, a fronte delle caratteristiche dell’arte clinica, rivendicano l’autonomia decisionale, frutto di personale scienza ed esperienza, che non può piegarsi a un’obbedienza cieca e non tollera acritici automatismi, poiché la valutazione non può che essere sempre ancorata al caso concreto, che tra l’altro ben potrebbe giustificare, sotto il profilo terapeutico, la necessità di non applicare la regola standardizzata. L’atteggiamento di resistenza a conferire alle linee guida una rilevanza assoluta nella valutazione della colpa medica è perdurato per molti anni sul presupposto dell’impossibilità di eliminare l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche. Si è lungamente ritenuto che l’arte medica, mancando per sua stessa natura di protocolli scientifici a base matematica, spesso abbia prospettato diverse soluzioni, da scegliere prudentemente e peritamente, tenendo conto di tutte le possibili varianti presenti nel caso specifico, apprezzabili solo dal curante in quel determinato momento8. L’atteggiamento della Giurisprudenza di fronte alle linee guida è stato condiviso nell’ambiente medico, poiché gli operatori sanitari hanno sempre evidenziato l’incompatibilità tra cogente osservanza delle linee guida e il   Cass. pen., Sez. IV, 22 aprile 2015 n. 24455.

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principio di libertà di cura da parte del medico. Da più parti si è evidenziata la necessità di evitare un’eccessiva burocratizzazione della professione medica e una mortificazione dell’autonomia professionale, derivante dall’assoluta vincolatività di standard precostituiti. L’indirizzo giurisprudenziale, oltre che con la scienza medica, è risultato coincidente anche con indicazioni fornite dalla dottrina: nel giudizio sulla responsabilità del medico, il giudice resta sempre libero di apprezzare se l’osservanza o il discostamento dalle linee guida avrebbe evitato il fatto che si imputa al medico, valutando cioè se le circostanze del caso concreto imponessero o meno l’adeguamento alle linee guida a disposizione del medico, oppure una condotta diversa da quella descritta nelle raccomandazioni contenute nelle linee guida. Del resto la Giurisprudenza ha sempre escluso che l’inosservanza delle linee guida potesse fondare un’ipotesi di colpa specifica per la loro natura di “raccomandazioni generali”, non vincolanti, entro il cui ventaglio il Sanitario può scegliere per passare poi dal percorso terapeutico ideale all’applicazione pratica, nel caso concreto e nel contesto lavorativo in cui opera. Il ragionamento condiviso da medici e giudici, seppur per ragioni diverse, poggiava sul presupposto che mai le linee guida avrebbero potuto sostituirsi al ragionamento del medico di fronte alle evenienze del caso concreto, mettendo in luce due fondamentali principi: il primo tiene conto della natura dell’attività medica e valorizza l’impossibilità di mortificare l’autonomia professionale del professionista, costringendolo a una cieca obbedienza, anche perché restano pur sempre a suo carico le scelte intraprese, prudenti e perite o errate. Il secondo principio deriva dalla considerazione della natura delle linee guida che indicano un comportamento “ideale” e magari contengono più opzioni che poi devono essere applicate alla realtà locale e al caso concreto con i dovuti adattamenti, quando detto caso concreto e realtà locale non ne giustifichino addirittura la necessità di una disapplicazione. Un tentativo di innovazione, sul terreno della valutazione della colpa professionale, è stato intrapreso nell’intervento legislativo ex legge 189/2012 (di conversione del “decreto Balduzzi”. DL n. 158/2012) recante “disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute”. L’art. 3, c. 1, del citato testo recitava: ”L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”. La responsabilità penale, in ambito medico, risultava evidentemente modificata. Sembra opportuno evidenziare che il provvedimento in questione avrebbe dovuto coinvolgere solo aspetti di natura civilistica, connessi alla responsabilità del sanitario, prevedendo, fra l’altro, che “fermo restando il di-


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sposto dell’art. 2236 del codice civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente la professione sanitaria il giudice, ai sensi dell’art. 1176 del codice civile, tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”. La legge di conversione, invece, inserendo l’art. 3, modificò la struttura del testo, destinato al solo ambito civilistico, inserendo anche profili inerenti la responsabilità penale. I primi commenti al testo legislativo Balduzzi hanno definito, nella nuova disposizione, una ipotesi di culpa sine culpa, ravvisando nella disposizione un difetto genetico perché ipotizzava la responsabilità colposa, nonostante l’osservanza delle linee guida. La disposizione, peraltro, poteva essere interpretata nel senso che se il medico non avesse effettuato una valutazione corretta del quadro clinico e non si fosse discostato dalle linee guida, la sua responsabilità penale avrebbe potuto essere esclusa, se l’erronea valutazione fosse stata frutto di colpa lieve, mentre sarebbe potuto incorrere in responsabilità in caso di colpa grave. Del resto la giurisprudenza maggioritaria, come si è avuto modo di rilevare, ha sempre escluso che le linee guida potessero essere utilizzate per escludere la responsabilità penale del medico se il quadro clinico del paziente avesse imposto una condotta diversa da quella raccomandata dalle linee guida. Altra criticità della legge Balduzzi era costituita dall’introduzione della distinzione tra “colpa lieve” e “colpa grave” per i casi di condotte conformi alle linee guida, in un percorso logico antitetico rispetto a quello consolidatosi in giurisprudenza che non operava questa distinzione nell’accertamento della colpa penale. Le pronunce giurisprudenziali di applicazione della legge Balduzzi non riuscivano a dirimere le numerose questioni interpretative, che la norma poneva. La legge Balduzzi aveva cercato, non riuscendoci, di effettuare un nuovo criterio generale di accertamento della colpa medica, affiancato al criterio generale contenuto nell’art. 43 c.p. La scelta del legislatore di assegnare alle linee guida un ruolo nell’accertamento della responsabilità penale appare condivisibile, se si tiene conto del rilievo sempre più consistente che esse hanno acquisito; ma rimangono inevitabilmente connotate da un margine di inaffidabilità e fallibilità al quale dover porre rimedio attraverso la professionalità, capacità ed esperienza del medico, chiamato a prestare la sua opera nel caso concreto nell’interesse di quel determinato paziente. Probabilmente, l’intervento legislativo ex legge Balduzzi sarebbe stato più incisivo, se fosse stato maggiormente coerente con gli orientamenti giurisprudenziali consolidati sempre ancorati alla valutazione concreta e puntuale del singolo caso clinico, nei giudizi di responsabilità sanitaria. Riguardo alla colpa medica, la Giurisprudenza è evoluta verso una tutela dei diritti del paziente sempre più compiuta, adottando indirizzi severi nei


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confronti dei medici e assumendo un ruolo suppletivo in carenza di specifici interventi normativi di orientamento nella valutazione della responsabilità sanitaria. Com’è noto, nel nostro ordinamento la condotta colposa è caratterizzata da un lato dall’assenza di volontà dell’evento, o assenza di dolo, e dall’altra dal collegamento causale dell’evento con una condotta negligente, imprudente o imperita, colpa generica, ovvero non osservante di leggi, regolamenti, ordini e discipline, colpa specifica. Le fonti delle regole cautelari del sistema normativo di riferimento sono caratterizzate dalla finalità preventiva. Il rispetto delle regole cautelari assolve allo scopo di evitare il verificarsi di rischi o eventi avversi dannosi per i pazienti. Di conseguenza la tipicità della colpa è integrata dalla realizzazione di un fatto che, alla luce delle regole cautelari, doveva e poteva essere evitato. L’attività medico-chirurgica è caratterizzata dalla presenza, oltre che di regole di comune diligenza e prudenza, di regole tecniche in prevalenza non scritte, la cui violazione è fonte di imperizia e per la cui individuazione la Giurisprudenza e la Dottrina utilizzano criteri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, a loro volta rapportati al parametro dell’agente modello, il c.d. homo eiusdem professionis et condicionis9 . Con riferimento al contenuto delle regole cautelari va notato che esse possono imporre al medico un dovere di astenersi ovvero un dovere di attivarsi; in questo ultimo caso, la violazione caratterizza una condotta omissiva. Relativamente alla ricordata tendenza a “formalizzare” le regole dell’arte medica, attraverso l’individuazione delle c.d. linee guida o protocolli diagnostici e terapeutici, va notato che il dibattito sulla natura ed efficacia giuridica delle linee guida è ancora aperto, anche se in Dottrina e in Giurisprudenza prevale, in proposito, un atteggiamento piuttosto equilibrato affermando che, tenuto conto delle peculiarità del caso singolo e delle differenti caratteristiche di ogni paziente, le linee guida, per quanto specifiche e dettagliate, non possono essere considerate del tutto esaustive con la conseguenza della irrinunciabilità al paradigma dell’ “agente modello”. Naturalmente, ai fini del rimprovero colposo non è sufficiente la violazione della regola cautelare, ma occorre accertare che l’agente avesse la possibilità e la capacità di osservarla. In altre parole, occorre la “rappresentabilità ed evitabilità” dell’evento, da accertare in concreto, alla luce del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis. Ripercorrendo le linee di tendenza della Magistratura è agevole notare che, nella prima metà del secolo scorso, la responsabilità del medico fosse circoscritta ai soli casi di condotta grossolanamente erronea, ritenendo che la colpa del Sanitario fosse ravvisabile soltanto nell’errore inescusabile, ovvero nella mancanza delle generali conoscenze della scienza medica, nel difet Si tratta del professionista di pari grado, pari esperienza e competenza che avrebbe agito prudentemente, diligentemente, peritamente nel caso concreto. 9


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to della necessaria abilità tecnica, nella superficiale trasgressione alle norme che presiedono l’ars medica, etc. Tale impostazione, di larghe vedute, finiva per introdurre, in ambito sanitario, un criterio di valutazione della condotta colposa differente rispetto a quella dell’ ”agente modello”, sempre utilizzata. L’inconveniente maggiore era costituito dal rischio di non censurare condotte molto superficiali o non informate al necessario rigore scientifico. In una seconda fase, la Giurisprudenza è stata caratterizzata dall’introduzione del concetto di “colpa grave”, tratto dall’art. 2236 c.c., la cui disciplina limitava la responsabilità civile del professionista ai soli casi di dolo e colpa grave in ricorrenza di problemi tecnici di speciale difficoltà. La dottrina, dal canto suo, affermava che con l’art. 2236 c.c. il legislatore non avesse inteso introdurre una generale non punibilità a vantaggio dei professionisti, giustificando anche l’errore da disattenzione o negligenza, bensì avesse voluto fornire un parametro più chiaro, per valutare la conformità della prestazione alle regole dell’arte, sotto il profilo della perizia, intesa come competenza e capacità tecnica. La terza fase si è contraddistinta per l’accoglimento giurisprudenziale dell’interpretazione dottrinale dell’art. 2236 c.c.10 con la pronuncia di infondatezza sulla questione di illegittimità costituzionale degli artt. 42 e 589 c.p. in relazione all’art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra medici e altri soggetti, laddove il medico risponde solo per “colpa grave” a differenza di qualunque altro cittadino che risponde anche per colpa lieve. La Corte ha osservato che la limitazione di responsabilità di cui all’art.2236 c.c. era giustificata in considerazione dell’attività svolta dal professionista, nei confronti del quale la responsabilità colposa derivante da imperizia viene limitata, in caso di prestazioni caratterizzate da problemi tecnici di speciale difficoltà, alla sola ipotesi di colpa grave; mentre le condotte colpose negligenti o imprudenti erano assoggettate a criteri di maggior rigore. Successivamente alla pronuncia della Corte Costituzionale, la Cassazione in sede penale per l’art. 2236 c.c. operò la distinzione tra errore dovuto a imperizia ed errore determinato da negligenza e/o imprudenza. A partire dagli anni Ottanta la Cassazione ha cominciato a emettere indirizzi informati a una maggiore severità nella valutazione della condotta professionale colposa del medico. Si optò per l’assoluta autonomia del sistema penale, rigettando qualsiasi applicazione di principi presenti in altri ambiti del nostro ordinamento, ivi incluso quello ex art. 2236 c.c.. Tale orientamento rigoroso ricevette l’avallo da parte di autorevole Dottrina, che aderiva al principio dell’individuazione di differenziate figure di homo eiusdem condicionis et professionis, quale parametro di valutazione della colpa del Sanitario. Non sono mancate, tuttavia, pronunce della Cassazione che, pur continuando a negare la valenza in sede penale dell’art. 2236 c.c., si sono riferite alla regola di esenzione di responsabilità contenuta nella previsione ci  La Corte Costituzionale con sentenza 28 novembre 1973, n. 166

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vilistica relativa a problemi tecnici di speciale difficoltà, utilizzandola come parametro legale nella valutazione della condotta colposa del Sanitario in ambito penale, come “massima di esperienza”. Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti hanno abbandonato le posizioni aprioristicamente intransigenti nei confronti dei medici, affermando che, dalla nota sentenza Franzese in poi, relativamente alla responsabilità sanitaria, il criterio di valutazione della colpa professionale vada individuato in concreto e tenendo in conto il livello di professionalità e di conoscenze del medico. Come già si è avuto modo di rilevare, la legge Balduzzi, seppur nella condivisibile finalità di ancorare l’astratta categoria della colpa a criteri orientativi del percorso interpretativo, ha comportato una serie di problematiche e criticità, causando orientamenti giurisprudenziali di merito e di legittimità assai diversi e spesso confliggenti. L’analisi dei percorsi applicativi della citata normativa ha fatto emergere diversi spunti di riflessione e l’amara conclusione per il sostanziale fallimento delle disposizioni contenute nella legge 189/2012. Del resto il panorama giurisprudenziale, negli sforzi compiuti in riferimento alle linee guida, mostra di non aver composto i contrasti pur nell’apprezzabile tentativo di fornire agli operatori del diritto riferimenti più chiari e oggettivi. Invero, non è stata risolta la criticità della definizione delle linee guida, della loro natura e del loro esatto ruolo. Tanto meno si è trovata una soluzione di fronte all’eccessivo numero di raccomandazioni e di fonti di produzione in relazione alla loro affidabilità scientifica. La “medicina difensiva” ha continuato a proliferare, con un notevole aggravio di spese per lo Stato e il SSN. Occorreva, allora, un intervento di razionalizzazione della materia. Il legislatore si è rimesso all’opera per tracciare un nuovo perimetro di riferimento dell’illecito colposo in materia sanitaria con la legge 24/2017. Con l’approvazione della legge Gelli, recante “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie ”, il legislatore, per risolvere le numerose criticità della normazione previgente, ha inteso fornire delle precise risposte alle problematiche rimaste inevase o confuse in relazione alla responsabilità in ambito sanitario e giungere a una maggiore chiarezza e tassatività attraverso la definizione delle linee guida e di erogatori ufficiali delle stesse, nonché sancendo l’obbligo del rispetto delle stesse (art. 5 della legge 24/2017). Le modifiche sono state introdotte, com’era giusto, direttamente nel codice penale, attraverso la previsione di una nuova e autonoma figura di illecito, ex art. 590-sexies c.p.. Appare evidente che, con la legge Gelli, il legislatore abbia mirato al superamento dell’indeterminatezza e incertezza relativamente alla categoria della colpa che aveva causato la precedente legge 189/2012, non volendo ripetere gli stessi errori che ne avevano decretato il fallimento. Fin dall’impianto iniziale lo scopo che il disposto normativo si è proposto è stato quello di


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conferire maggior certezza e specificità alle categorie soggettive che fondano la colpa generica in ambito sanitario. Il legislatore, scegliendo di delimitare l’ambito applicativo dell’esimente alla (sola) imperizia, ha stabilito confini più precisi per quella categoria la cui definizione era stata sempre appannaggio unicamente della Giurisprudenza. La scelta di incentrare l’attenzione sull’ ”imperizia”, delineandone i confini, dovrebbe anche fornire all’interprete strumenti orientativi rispettosi dell’autonomia degli ambiti per giungere a una valutazione più corretta della responsabilità colposa. La scelta del legislatore, è stata quella di identificare, all’art. 6, nella sola perizia, in linea con l’interpretazione dei principi contenuti nell’art. 2236 c.c., la scriminante e di ricorrere alle linee guida come strumento qualificante la condotta del sanitario in grado di escludere la punibilità. L’art. 6 della legge Gelli – art. 590-sexies c.p. – sancisce che: “qualora l’evento”, morte o lesioni personali, “si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”; segue, dunque, l’espressa abrogazione dell’art. 3 della legge Balduzzi. Si tratta di un’ipotesi tipica nuova che fa il suo ingresso direttamente tra le norme speciali del codice Rocco, rivolta espressamente a tutti coloro che operano nel settore sanitario che, nell’ambito dell’agire professionale, abbiano cagionato la “morte o lesioni personali” al proprio paziente, per – sola – imperizia, restando, conseguentemente, estranee all’esimente, le ipotesi di imprudenza e negligenza11. Rispetto alla previgente disciplina ex legge Balduzzi, le novità introdotte dall’art. 590-sexies c.p. per la responsabilità penale del medico riguardano, in particolare: la mancata distinzione tra gradi di colpa, con la soppressione del riferimento alla “colpa lieve”; l’esclusione della punibilità per l’illecito penale nel solo caso di “imperizia”; il presupposto del rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida ufficiali o buone pratiche; la considerazione del caso concreto; l’adeguatezza delle raccomandazioni al caso concreto; l’esclusione di esimenti per l’omicidio colposo o lesioni colpose causate dal Sanitario per negligenza o imprudenza, indipendentemente dalla gravità della condotta, quindi anche per negligenza o imprudenza lieve.

Se i fatti di cui agli articoli 589 c.p. e 590 c.p. sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste in caso di condotta negligente o imprudente del medico. Solo se l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa, purchè risultino rispettate le linee guida adeguate alle specificità del caso concreto. 11


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Il legislatore ha collocato la nuova disposizione nel libro II del codice penale (capo I, titolo II), introducendo una nuova fattispecie incriminatrice che riguarda, come soggetti attivi, gli esercenti la professione sanitaria. Vi è, pertanto, una caratteristica di specialità rispetto ai reati di omicidio e lesioni colpose, ascrivibili ad altri soggetti. La scelta di uno statuto penale differenziato, per gli operatori sanitari, è giustificata anche alla luce della tendenza giurisprudenziale e legislativa degli altri Paesi dell’UE di delimitare il novero delle condotte penalmente rilevanti addebitabili ai Sanitari a fattispecie realmente gravi, in considerazione della difficoltà e complessità della prestazione di assistenza sanitaria e la funzione sociale di detta attività, che consente delle aree di “rischio consentito”, non punibili penalmente. A ciò si deve aggiungere l’intento, condiviso in più ordinamenti sanitari e giuridici dell’UE, di evitare quanto più possibile le conseguenze della “medicina difensiva” attiva e passiva, ossia quelle condotte che il personale sanitario pone in essere non nel reale interesse del paziente, bensì per evitare coinvolgimenti nel contenzioso medico-legale e precostituirsi prove a discarico in previsione di possibili azioni giudiziarie. La nuova norma, per chiarezza e coerenza, ha abrogato l’art. 3 della legge Balduzzi 189/2012. Sia la Dottrina che la Giurisprudenza italiana del resto da tempo si sono interrogate sulla possibile applicazione dei criteri che ispirano gli altri ordinamenti dell’UE e la possibilità di limitare la censurabilità ai soli casi di “colpa grave”. A tale orientamento ostava tuttavia l’art. 43 c.p. che non prevede in ambito penalistico alcuna graduazione del grado di colpa, rinvenibile unicamente nell’art. 133 c.p. al fine dell’irrogazione di una pena più o meno severa. Anche l’altro criterio seguito in Francia, USA e Regno Unito di esclusione della colpa per carenza dell’elemento soggettivo, in caso di osservanza di linee guida, non risultava applicabile automaticamente dovendosi escludere una vincolatività e cogenza assoluta delle linee guida che non impongono un’obbedienza cieca – che non escluderebbe profili di responsabilità – e lasciano pur sempre al Sanitario margini di decisione e autonomia professionale in ragione della sua esperienza e competenza; soprattutto in considerazione delle esigenze relative al caso concreto del paziente che il Sanitario prende in carico. Inoltre, abbandonato un primo indirizzo più indulgente, la Cassazione ha negato l’applicazione analogica dell’art. 2236 c.c. perché insuscettibile di estensione in ambito penale per il divieto ex art. 14 disp. prel. c.c., nonostante si tratti di effetto in bonam partem. La disciplina civilistica contenuta nell’art. 2236 c.c. che delimita la responsabilità del professionista ai soli casi di “dolo” e “colpa grave”, quando l’attività è caratterizzata da problemi tecnici di speciale difficoltà, è stata in parte recuperata in alcune pronunce di merito dei giudici penali ma mai come applicazione generalizzata e uniforme dei criteri civilistici di valutazione della colpa in ambito penale. Dal momento che le sentenze penali non operavano una differenziazione concettuale tra colpa lieve e colpa grave, prendendo in considerazione la gravità della colpa


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solo per la determinazione della pena, prima dell’entrata in vigore della legge Balduzzi, al giudice di merito restava una amplissima discrezionalità in ordine alla valutazione della responsabilità professionale mentre al momento dell’applicazione dell’art. 3 della legge Balduzzi la giurisprudenza maggioritaria reagì statuendo che l’esonero della responsabilità penale del medico che incorre in colpa lieve, pur attenendosi a linee guida o buone pratiche, poteva operare solo per i casi di imperizia, mentre nei casi di negligenza e imprudenza le censure potevano essere elevate anche per colpa lieve. Solo alcuni indirizzi minoritari hanno consentito l’applicabilità della previsione normativa ex legge 189/2012 anche a ipotesi di negligenza e imprudenza, in considerazione del fatto che le linee guida oltre a contenere regole di perizia a volte possono riportare altri parametri, più specificatamente connessi alla diligenza, come ad esempio l’accuratezza nei trattamenti sanitari e cure erogate. Tuttavia le difficoltà interpretative emergevano anche su altri versanti. Nell’applicare la legge Balduzzi i giudici penali, tanto di legittimità quanto di merito si sono dovuti confrontare con il problema dell’esatta individuazione di quali fossero le linee guida atte, se osservate, a fondare l’esonero di responsabilità per il professionista, nei casi di colpa lieve. Ciò perché l’art. 3 si limitava a richiedere che le linee guida e buone pratiche fossero “accreditate dalla Comunità scientifica”. La sfortunata formulazione testuale non faceva riferimento ad alcun sistema di controllo delle linee guida per garantirne l’attendibilità e la scientificità. L’estrema genericità e indeterminatezza del testo sollevava questioni in merito alla possibile violazione del principio di tassatività, tipico del diritto penale. Inoltre lasciava irrisolta la problematica di quelle linee guida ispirate dalla finalità di risparmio delle risorse, da logiche più economiche che di reale tutela del paziente e salvaguardia della sicurezza ed efficacia delle cure. L’affidabilità delle linee guida, invocate a propria difesa dal Sanitario, non poteva essere accertata, nell’impossibilità di poter identificare quale potesse essere la generale “Comunità scientifica” cui la norma faceva riferimento. Di conseguenza, l’accertamento necessario era rimesso al giudice, nell’ambito del processo e con l’ausilio del consulente tecnico o del perito, ma spesso il giudice non era realmente nella posizione di stabilire il grado di consenso della letteratura di settore e giungere a identificare la “Comunità scientifica” di riferimento. L’eccessiva discrezionalità rimessa al giudice vanificava lo scopo del legislatore di introdurre una forma qualificata di imputazione soggettiva, subordinandola al rispetto delle linee guida e buone pratiche. Ingiustificata e inopportuna poi appariva l’equiparazione delle linee guida nazionali e internazionali alle buone pratiche, emesse anche a livello locale, che potevano essere emesse magari sulla scorta di pressanti esigenze finanziarie o erronee scelte politiche e che potevano risultare in contrasto con gli indirizzi e le raccomandazioni della Scienza a livello nazionale o internazionale.


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L’imprecisione terminologica e sistematica causava altre pesanti controversie interpretative in relazione alle “buone pratiche” non solo perché unicamente da alcuni autori e non da tutti venivano giudicate tali, ma perché venivano identificate anche con i protocolli, determinando l’inopportuna equiparazione tra i protocolli stessi, che hanno un carattere rigido e cogente, e le linee guida, elastiche e tendenti a suggerire un “percorso terapeutico ideale”: venivano trattati come equivalenti, strumenti diversi per natura e finalità. Si poneva poi il problema se i protocolli, a differenza delle linee guida, potessero integrare quelle regole cautelari di “colpa specifica” esclusi per le linee guida in forza della loro natura. La legge Balduzzi, dunque, non specificava né il ruolo né la natura delle linee guida, né quello delle buone pratiche, erroneamente ponendole sullo stesso piano, né specificava quale fosse l’indifferenziata “Comunità scientifica” cui far riferimento. Ogni accertamento era rimesso al giudice, ciò comportando un’eccessiva dilatazione della discrezionalità della Magistratura e il rischio di giudizi diversi e contrastanti fra loro. L’art. 6 della legge 24/2017 ha inteso ridisegnare i confini della colpa medica con un ancoraggio rilevante al parametro delle linee guida e un approccio innovativo, rispetto alla legge Balduzzi, includendo l’altrettanto intrascurabile tema della rilevanza del caso concreto nella valutazione della responsabilità colposa, ponendo fine ai tanti dubbi interpretativi sollevati dall’art. 3 della legge Balduzzi, abrogato. Il nuovo dettato normativo sancisce la punibilità di tutte le forme di colpa che rientrano nel rimprovero dell’imperizia. Sia la colpa lieve che quella normale rientrano, dunque, nell’area del penalmente irrilevante, in caso di comportamento imperito del medico a condizione del rispetto delle raccomandazioni cliniche o buone pratiche. Da un raffronto tra l’art. 6 della legge Gelli e l’art. 3, comma 1 della legge Balduzzi risulta evidente la novità, atteso che il legislatore nella nuova disposizione faccia riferimento non solo al requisito del rispetto delle linee guida ma anche alla necessità di accertare, se il caso concreto giustifichi che il sanitario si discosti dalle prescrizioni. Tale novità costituisce un consistente profilo di diversità rispetto alla normativa previgente. Com’è noto, la legge Balduzzi, infatti, statuiva che il comportamento imperito del medico andava esente da responsabilità in caso di colpa lieve, soltanto se il professionista fosse riuscito a dimostrare in giudizio di aver rispettato anche le linee guida e le buone pratiche accreditate dalla “Comunità scientifica”. Ciò non impediva al giudice di valutare discrezionalmente il caso concreto. Oggi, invece, il disposto normativo ex legge 24/2017, si riferisce soltanto al generale concetto di imperizia, regola cautelare dal contenuto assai ampio, indicante il comportamento medico posto in essere in contrasto con le regole tecniche, c.d. leges artis. Le linee guida, anch’esse regole di perizia, rappresentano, pertanto esclusivamente un aspetto rilevante del generale concetto d’imperizia, attesa la peculiarità dell’attività professionale sanitaria.


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Il legislatore ha evitato un’eccessiva standardizzazione delle regole cautelari nel settore sanitario, poiché si tratta di un ambito in cui risulta inopportuno estremizzare la positivizzazione. Del resto la diffidenza di ogni processo di positivizzazione delle regole cautelari in sanità è condivisa sia dalla classe medica sia dalla Giurisprudenza, concordemente sostenitrici della necessità che la valutazione della colpa sia sempre ancorata alla specificità del caso concreto. È agevole notare, infatti, che a volte l’inosservanza di una regola standardizzata potrebbe risultare più opportuna per il paziente dal punto di vista terapeutico. Del resto, se si prescindesse totalmente dalle regole cautelari, ancorché raccomandazioni “aperte”, ne conseguirebbe un’eccessiva discrezionalità tanto del medico quanto del giudice. Quest’ultimo potrebbe ritenere penalmente illecite anche condotte tecnicamente ineccepibili, tuttavia non in grado di sventare un esito infausto. Conseguentemente il giudice, nell’autonomia e libertà dell’esercizio del suo potere-dovere di valutazione, è “guidato” affinchè nella sua pronuncia metta in correlazione le prescrizioni cliniche con il caso concreto gestito dal sanitario. Il doppio parametro consente di identificare quale sarebbe stata la condotta dell’ “agente modello” e se, alla luce del bagaglio tecnico-scientifico e delle concrete circostanze fattuali relative a quel particolare paziente, fosse doverosa e possibile una condotta alternativa. Il legislatore ha dimostrato di voler rispettare anche la libertà e l’autonomia del medico, riconosciuta negli artt. 9 e 33 della Costituzione, riconoscendo che il medico che gode della “libertà terapeutica”, non sia tenuto a una dannosa obbedienza cieca delle prescrizioni cliniche né la sua delicata attività può essere imbrigliata in un’eccessiva burocratizzazione. Il comma 2 dell’art. 590-sexies richiede pertanto il rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida ovvero delle buone pratiche clinico-assistenziali stabilendo che esse non assurgono però a parametro unico ed esclusivo per la valutazione della colpa professionale in sanità, dovendosi far riferimento alle specificità del caso concreto, in coerenza con gli approdi della Giurisprudenza e i canoni del diritto penale, ma anche secondo una concezione condivisa nella Scienza medica. Dal combinato disposto ex art. 5 e 6 del testo di legge, si evince che le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida devono essere emesse dalle Società Scientifiche e dagli enti iscritti in un apposito elenco, istituito, regolamentato e aggiornato dal Ministero della Salute. Inoltre le linee guida devono essere pubblicate e integrate dal Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG). Questo impianto, che premia l’affidabilità degli erogatori ufficiali delle linee guida, consente di uscire dall’incertezza della legge Balduzzi e dall’indefinita generica “Comunità scientifica”. La legge Gelli ha risolto l’aspetto fondamentale in materia di linee guida, costituito dal soggetto erogatore a fronte della proliferazione incontrolla-


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ta delle prescrizioni cliniche e dell’imprescindibile necessità di identificare quali linee guida prendere in esame e come vagliare l’affidabilità degli estensori, compito che fino a ora era rimesso esclusivamente al giudice. Non solo è stata recuperata la non assoluta vincolatività delle linee guida nella concezione condivisa, presso la classe forense e presso la classe medica, ma è stata anche introdotta una puntualizzazione sulle modalità di produzione delle raccomandazioni e di valutazione dell’ente erogatore per la sua affidabilità. Inoltre, il riconosciuto carattere non vincolante delle linee guida e il conseguente ancoraggio alla considerazione del caso concreto rispettano il principio di libertà di cura da parte del medico e quello del libero convincimento del giudice, conciliandoli. Il maggior rigore mostrato dal legislatore nel disciplinare i requisiti delle linee guida e dei redattori di esse è completato dal richiamo anche nell’art. 5 all’obbligo di rispetto delle raccomandazioni per tutti gli esercenti la professione sanitaria, ancora una volta salvo le specificità del caso concreto. La scelta di escludere l’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. ai comportamenti imprudenti o negligenti del professionista, è in sintonia con le ragioni esplicate da sempre dalla Giurisprudenza e che ormai fanno parte del nostro bagaglio culturale: le linee guida rappresentano delle direttive di carattere generale che il medico deve applicare al caso concreto “con scienza e coscienza”, ovvero secondo “diligenza” e “prudenza”. Con la legge Gelli si rimedia alla criticità della legge Balduzzi che lasciava interamente al processo penale l’accertamento relativo all’ “accreditamento delle linee guida dalla Comunità scientifica”. L’attendibilità scientifica degli enti che producono linee guida viene ora compiuta ex ante in sede amministrativa e non più ex post in sede giudiziaria, potendo così evitare l’eccessiva diversità delle decisioni giudiziarie. Il giudice penale si atterrà alle valutazioni compiute in sede amministrativa che hanno portato al riconoscimento ufficiale degli enti produttori delle linee guida. Sul punto la novità della riforma risiede nel cambio di prospettiva, nell’anticipazione del controllo di attendibilità scientifica dalla fase processuale a quella amministrativa e nel diverso contenuto di detto controllo. Infatti, la verifica dell’accreditamento presso la “Comunità scientifica” si sposta dalla singola linea guida all’ente erogatore delle linee guida, diventando da controllo analitico a controllo sintetico. Perfino la presenza di linee guida difformi non dovrebbe costituire ostacolo alla possibilità di invocarle come causa d’esonero della responsabilità penale del medico che vi si sia adeguato, trattandosi di linee guida comunque attendibili sul piano scientifico perché emanate da enti che hanno ufficialità e riconoscimento e che, come tali, sono iscritti in apposito registro nazionale perché muniti dei requisiti normativamente prescritti. Sia per le linee guida che per le buone pratiche clinico-assistenziali il legislatore ha inteso semplificare l’istruttoria in sede processuale e quindi


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eliminare le incertezze che ogni accertamento processuale implica. Non sarà necessario, come in passato, che il giudice penale accerti l’esistenza di linee guida o buone pratiche per poi verificarne anche la loro attendibilità sul piano scientifico perché farà affidamento sulla provenienza e ufficialità delle raccomandazioni cliniche. Non spetterà al giudice compiere per le linee guida una verifica circa il loro “accreditamento dalla Comunità scientifica” essendo scomparso nel dettato normativo qualsiasi tipo di riferimento in tal senso, ponendo così fine alle incertezze legate all’accertamento in sede processuale circa la loro esistenza, provenienza e affidabilità scientifica. Per quanto concerne poi le pratiche clinico-assistenziali da prendere in considerazione, il giudice farà riferimento solo a quelle considerate dall’Osservatorio Nazionale presso AGENAS. Resta poi da sgombrare il campo dal falso problema se la legge Gelli mutui o risolva la contraddittorietà dell’operatore sanitario che versi in colpa per imperizia, pur avendo osservato linee guida o buone pratiche. Già la questione si era aperta con la legge Balduzzi di come possa sopravvivere una responsabilità per colpa quando raccomandazioni / prescrizioni osservate costituiscono di per sé uno standard di perizia e quindi si suppone che chi vi si attenga agisca peritamente. Si tratta invero di una contraddizione solo apparente, già risolta dalla sentenza Cantore12 fornendo due illuminanti esempi del Sanitario che può versare in colpa pur nella compiuta osservanza dei suggerimenti clinici: per “adempimenti imperfetti” ma non rimproverabili e “adempimenti perfetti” perché diligenti, ossia errori commessi nell’adempimento delle prescrizioni contenute nelle linee guida o mancato discostamento dalle linee guida quando le circostanze del caso concreto suggerivano di elaborare un percorso terapeutico individualizzato e calibrato sulle specifiche problematiche del paziente. La legge 24/2017 ha valorizzato e ufficializzato il ruolo delle linee guida, ha reso identificabili gli erogatori scientifici affidabili, ha abbandonato il criterio distintivo della colpa lieve e colpa grave nella consapevolezza dell’impercorribilità di questa strada, in ambito penale ha sottratto alla fase processuale e al giudice penale il controllo di attendibilità scientifica delle raccomandazioni e degli erogatori. In conclusione, può notarsi che la legge Gelli dunque ha innovato la disciplina con originalità su diversi versanti, conseguendo una razionalizzazione della materia, eliminando le incertezze della previgente legislazione, bilanciando gli interessi delle varie componenti sociali e avvicinando la cultura giuridica alla Scienza medica con un’integrazione di saperi e nel recupero di consolidati approdi.

Cass. pen., Sez. IV, 29 gennaio 2013 n. 19237

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La colpa professionale del chirurgo La chirurgia è comunemente ritenuta una delle più pericolose tra le branche mediche, trattandosi di attività sempre gravata da rischi potenziali, in cui, d’altra parte, l’errore del medico produce conseguenze inevitabilmente gravi. Il suo esercizio facilmente espone l’operatore a commettere errori e spesso si conclude con esito infausto per circostanze indipendenti dalle capacità e dall’impegno del professionista. I casi più frequenti di responsabilità per il chirurgo sono ricollegabili: a errore di diagnosi, esecuzione di un’operazione non indicata o addirittura non necessaria, omissione o intempestività di un’operazione necessaria, omessa esecuzione di accertamenti clinici e/o strumentali, omessa identificazione di complicanze nel post operatorio, tardività nell’eseguire un intervento urgente salvavita o un reintervento, omesso riconoscimento e riparazione di errori riconoscibili ed emendabili di un membro dell’équipe, omesso passaggio di consegne per incompleta compilazione della cartella clinica, errore topografico in caso di scambio dell’organo sano con quello malato e conseguente asportazione del primo con ovvie e gravissime conseguenze, errori tecnici nella manualità dell’operazione, incorretta esecuzione tecnica – ad es. recisione erronea di una struttura anatomica -, derelizione di oggetti come ferri chirurgici, garze, etc. nel corpo del paziente. Gli sviluppi della Giurisprudenza di settore hanno condotto la Corte di Cassazione all’approdo di fondamentali decisioni, affermando due principi generali in materia: 1. concorre a escludere la responsabilità del chirurgo l’insorgenza di complicanze intraoperatorie, impreviste e imprevedibili, di tale gravità, atipicità o complessità da sconvolgere il piano dell’operatore e dei suoi collaboratori e imporre prestazioni impegnative, complesse, impellenti o prolungate; 2. indipendentemente dall’insorgenza di dimenticanze intraoperatorie, incorre in colpa il chirurgo che abbia trascurato di predisporre e attuare misure cautelative dirette a prevenire lo smarrimento di corpi estranei e di controllare, a operazione ultimata, se le cautele siano state osservate, ad esempio conta delle pezze laparotomiche. Altre pronunce non mostrano tuttavia l’auspicato equilibrio, gravando in modo aprioristico di responsabilità il chirurgo, ritenendolo pregiudizialmente, e quasi oggettivamente, in colpa, come ad esempio per ogni derelizione e per le conseguenze lesive di questa. Un errore professionale frequentemente contestato, e sottovalutato, può riguardare infine la fase postoperatoria. Può essere ascritto al chirurgo che, anzichè seguire il paziente operato anche dopo l’intervento – fase delicata in cui possono insorgere complicanze -, lo abbia “abbandonato” a personale inesperto e non in grado di intervenire e fronteggiare le insorte complicanze, che spesso si assumono “prevedibili”. In altre parole, la Giurisprudenza in alcuni casi ravvisa la responsabilità del chirurgo perché dopo aver completato l’intervento, non è esonerato da


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ogni compito e deve proseguire la “continuità” delle cure e della vigilanza verso il paziente. Invero, la sua prestazione professionale non termina nel compimento dell’atto operatorio, dovendo egli controllare le condizioni cliniche del paziente nel decorso postoperatorio, tenendo conto del tipo di intervento e delle possibili complicanze che possono insorgere per prevenirle e/o fronteggiarle. Ciò implica la predisposizione e il controllo di cure farmacologiche, presidii, accertamenti laboratoristici e strumentali al segno di viraggio in peggio delle condizioni di salute del paziente o di sintomi e segni che generino allarme. Il chirurgo, dunque, eseguito l’intervento non può disinteressarsi del paziente e ha l’obbligo di seguirlo e non allontanarsi. Se ciò non fosse possibile perché il chirurgo debba attendere ad altre incombenze o vi sia un cambio di turno, è tenuto a lasciare istruzioni e chiare consegne nella cartella clinica, per trasferire ai colleghi subentranti, competenti e affidatari, la sua posizione di garanzia nei confronti del paziente, fornendo le indicazioni terapeutiche necessarie. L’obbligo, secondo la Corte di Cassazione, prescinde dalla natura del rapporto giuridico con il chirurgo e attiene a una casa di cura privata o accreditata o a struttura pubblica. Il personale affidatario deve essere competente, adeguatamente qualificato e informato, per poter affrontare i compiti assegnati e fronteggiare le complicanze che eventualmente insorgano. Naturalmente occorre sempre anche la prova che l’evento avverso si ponga in nesso causale con la condotta del chirurgo ossia che trovi in essa la sua causa. Com’è noto, il nostro diritto penale ha accolto in tema di rapporto di causalità il rigoroso principio dell’ ”equivalenza delle cause”, per cui per ascrivere la penale responsabilità, secondo il dettato normativo ex art. 40 c.p., è sufficiente che il soggetto abbia posto in essere una condizione dell’evento, un antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato. Del resto, il rapporto di causalità non esclude il concorso di altre cause, o concause, diverse dalla condotta del chirurgo, successive o contemporanee, umane o fattori naturali. Tuttavia, per l’art. 41 c.p. è escluso il nesso causale se si sovrapponga, alla condotta del soggetto, una causa a carattere eccezionale – successiva, imprevedibile e inevitabile – che è in grado, per esclusiva forza propria, di cagionare l’evento. Altra tematica importante attinente la professione chirurgica ed eventuali connesse responsabilità, specie penali, è quella relativa alla funzione apicale. Com’è noto, in seguito al D.Lgs. 229/99 non si usa più la dizione “Primario” e i medici ospedalieri in posizione apicale vengono definiti “Dirigenti”. Il D.P.R. 761/69 definisce le funzioni del medico in posizione apicale – ex Primario: prestazioni medico-chirurgiche, studio, didattica, ricerca, programmazione e direzione dell’unità operativa o dipartimentale, preparazione dei piani di lavoro, indirizzo e verifica sulle prestazioni di diagnosi e cura – nel


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rispetto dell’autonomia del personale assegnatogli -, distribuzione del lavoro, assegnazione delle cure dei pazienti ricoverati a sé e agli altri medici, avocazione di casi alla sua diretta responsabilità, direzione e organizzazione del reparto. La normativa di settore è fonte, per il Primario, di obblighi di garanzia da cui potrebbero derivargli addebiti di responsabilità a titolo omissivo. Il Primario ha anche il dovere di vigilare sull’operato dei sanitari a lui assegnati, per evitare che dalle loro condotte possano derivare danni ai pazienti. Allo scopo l’apicale è fornito dalla legge di poteri giuridici impeditivi e può fornire indicazioni vincolanti ai collaboratori, pur nel rispetto delle loro capacità e competenze, relativamente a un indirizzo terapeutico da seguire, interventi da effettuare, ripartizione del lavoro secondo criteri di opportunità, possibilità di avocare casi al suo diretto intervento. Attesi i suoi poteri-doveri giuridici impeditivi, il Primario potrebbe essere chiamato a rispondere di comportamenti omissivi per mancato impedimento dell’evento avverso. Egli è titolare, come tutti gli altri chirurghi, del c.d. “obbligo di garanzia” quale obbligo giuridico di impedire eventi lesivi degli altrui beni di vita e salute, la cui tutela è affidata a un garante per l’incapacità, temporanea, del paziente-titolare di proteggerli adeguatamente. In relazione ai poteri-doveri giuridici impeditivi, i comportamenti omissivi del Primario, che non hanno impedito il verificarsi di eventi lesivi, sono equiparati a un’azione causale attiva e, dunque, puniti. Ciò perché la legge – art. 40, comma 2, c.p. – statuisce che: “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. La Cassazione rammenta le sentenze sez. IV n. 18334/2018, n. 39609/2007 e n. 47145/2009, affermando che il dirigente medico ospedaliero è titolare di una posizione di garanzia a tutela della salute dei pazienti affidati alla struttura. I decreti legislativi n. 502/1992 e n. 229/1999 hanno attenuato la forza del vincolo gerarchico con i medici che con lui collaborano, ma non hanno eliminato il potere-dovere in capo al dirigente medico, in posizione apicale, di dettare direttive generiche e specifiche, di vigilare e di verificare l’attività autonoma e delegata dei medici addetti alla struttura e, infine, il potere residuale di avocare a sé la gestione dei singoli pazienti. Val la pena notare che il medico in posizione apicale, con l’assegnazione dei pazienti, opera una vera e propria “delega di funzioni impeditive dell’evento” in capo al medico in posizione subalterna, perché è consentito dalla legge di trasferire funzioni mediche di alta specializzazione o la cura di singoli pazienti, ma il “delegante” si libera solo se ha svolto adeguatamente i suoi compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e ciononostante si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura. È necessario individuare con precisione i limiti degli obblighi di garanzia del primario, per evitare che egli sia chiamato a rispondere di qualsiasi evento lesivo occorso nella struttura da lui diretta. Invero, l’obbligo del garante apicale non può essere un obbligo generico poiché si


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cadrebbe nella “responsabilità oggettiva”, ossia per il mero ruolo ricoperto, che è vietata dal nostro ordinamento. Poiché la legge assegna al Primario il compito della divisione del lavoro all’interno del reparto ospedaliero, affidando ai collaboratori le mansioni da svolgere sotto la sua supervisione, egli può rispondere di errata scelta della persona affidataria dell’incarico – culpa in eligendo – se non si è accertato della effettiva capacità di ogni collaboratore. Questa responsabilità può concorrere con la già menzionata culpa in vigilando se omette di esercitare le dovute verifiche sulle prestazioni dei servizi di diagnosi e cura e sul rispetto di istruzioni e direttive da parte dei suoi collaboratori. La culpa in vigilando può ricorrere anche se l’apicale non disponga in via preventiva metodi organizzativi, atti a scongiurare il verificarsi di eventi lesivi della salute dei pazienti, ad esempio non assicurando la presenza effettiva di personale in reparto con la turnazione adeguata, omissione di protocolli, etc. Val la pena ricordare che di recente la Cassazione ha affermato che: “il medico in posizione apicale non può rispondere di ogni evento lesivo che si verifichi nel reparto affidato alla sua direzione e deve ritenersi che allorchè il medico apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo e, ciò nonostante, si verifichi un evento infausto causato da un medico della propria struttura di detto evento debba rispondere eventualmente unicamente il medico o i medici subordinati. Ravvisare infatti una responsabilità penale del medico in posizione apicale anche in questi casi significa accettare una ipotesi di responsabilità per posizione, in quanto non può pretendersi che il vertice di un reparto possa controllare costantemente tutte le attività che ivi vengono svolte, anche per la ragione, del tutto ovvia, che anch’egli svolge attività tecnico professionale” – Cass. pen., Sez. IV, n. 18334/2018. A completezza di quanto fin qui evidenziato, val la pena soffermarsi sul chirurgo ”membro attivo dell’équipe”. Senza dubbio, la modificazione dell’attività sanitaria ha fatto sorgere nuove problematiche giuridiche, relativamente all’attribuzione delle responsabilità, per eventi avversi in caso di diversi partecipanti al trattamento medico. In passato la responsabilità per colpa, nell’ambito del diritto penale, si è per molti anni sviluppata sul modello del singolo soggetto che agisce isolatamente e l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, in tema di responsabilità medica, si è molto concentrata sui tradizionali problemi della condotta di un unico operatore. Studiosi e giudici hanno fatto fatica a confrontarsi con lo sviluppo del fenomeno della divisione tecnica del lavoro sanitario e i problemi a esso connessi. Le diverse situazioni di cooperazione tra sanitari hanno determinato una generale incertezza nella trattazione della materia che si è riverberata nelle decisioni, spesso contraddittorie, dei giudici di merito e di legittimità, incapaci di fornire indicazioni univoche e definitive. Ancora oggi, nelle situazioni di divisione tecnica del lavoro in ambito sanitario e assistenza e cure del paziente erogate in équipe, l’istituto della co-


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operazione colposa previsto dall’art. 113 c.p. non trova indirizzi omogenei e la materia attende una sistemazione coerente e principi guida applicabili a tutte le situazioni collaborative. All’interno della struttura sanitaria il lavoro di équipe è ormai la regola. È un dato di fatto che, oggigiorno, a fronte di una sempre maggiore efficienza e professionalità, per fornire un servizio adeguato al progresso scientifico, le prestazioni medico-chirurgiche non sono più eseguite da un solo professionista, bensì da una pluralità di soggetti, medici e personale sanitario, secondo il principio della divisione del lavoro. Fino a che punto un chirurgo può essere ritenuto responsabile di un evento dannoso quando esso è dipeso dalla condotta esclusiva di un collega? La Cassazione è tornata spesso sul “principio dell’affidamento” per determinare il confine della responsabilità del singolo professionista che presta la sua opera in un’equipe, tenuto conto del carattere personale della responsabilità penale previsto dall’art. 27 della Costituzione. Il chirurgo è titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente e ha l’obbligo di impedire eventi dannosi. Ma cosa succederebbe se l’evento dannoso venisse attribuito alla condotta esclusiva di un altro professionista, contitolare della posizione di garanzia nei confronti del paziente? Se gli errori sono “particolari” e “settoriali” e si riferiscono, quindi, a discipline specifiche e specialistiche e quando non sono evidenti, ossia rilevabili ed emendabili con il sussidio di conoscenze scientifiche del professionista medio, può valere il “principio dell’affidamento” in base al quale ogni medico specialista può fare affidamento sul fatto che gli altri “specializzati” agiscano diligentemente e nell’osservanza delle regole di propria competenza. Il principio dell’affidamento, però, non opera quando colui che si affida sia in colpa per aver violato norme cautelari o per aver omesso determinate doverose condotte confidando che il collega, che subentra nella cura del paziente e quindi nella posizione di garanzia, ponga rimedio, eliminando la violazione o l’omissione. Ne consegue che l’eventuale evento dannoso, derivante anche dall’omissione del successore, avrà due antecedenti causali, non potendo la seconda condotta configurarsi come fatto eccezionale e sopravvenuto, di per sé sufficiente a produrre l’evento. Ogni componente dell’équipe deve, però, poter confidare sul fatto che ciascuno agisca con prudenza, diligenza e perizia e adotti le regole cautelari che avrebbe adottato l’ “agente modello”, ossia lo specialista di pari grado e pari esperienza. D’altro canto, sussiste l’obbligo, per ciascun chirurgo che operi in équipe, di controllare l’attività svolta dagli altri medici al fine di porre riparo a eventuali errori evidenti e rilevabili con il supporto delle conoscenze comuni del cosiddetto “professionista medio”. Il criterio utilizzato nei processi è che il medico componente dell’équipe non risponde unicamente di errori da lui direttamente cagionati, ma anche di danni al paziente causati da altro membro, se aveva la concreta possibi-


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lità di vigilare sull’operato del collega e attivarsi per prevenirne gli errori o emendarli. Vale la regola, dunque, che in materia di “colpa professionale di équipe”, ogni Sanitario, oltre a essere tenuto al rispetto delle regole di diligenza, prudenza e perizia ricollegabili alle specifiche prestazioni professionali svolte, deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell’équipe, in modo da porre rimedio a eventuali errori commessi dai colleghi, purché risultino evidenti per un professionista di media esperienza, tenuto conto che non si può parcellizzare il paziente e tutte le prestazioni professionali devono convergere verso il fine comune del miglioramento della salute della persona presa in carico. Le pronunce dei giudici di merito e di legittimità sono concordi nel ritenere che in tema di colpa professionale, nel caso di équipe chirurgica e, in generale, nelle ipotesi di cooperazione multidisciplinare anche svolta non contestualmente, ogni Sanitario non possa esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente, o contestuale, svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Nel lavoro medico di équipe, ciò che è rilevante per far sorgere l’obbligo di attivazione, e la eventuale conseguente responsabilità per un evento avverso, del medico specialista rispetto all’attività di altri medici di diversa specializzazione è la natura e la rilevabilità dell’errore di questi. Secondo quanto statuito dalla Giurisprudenza si deve trattare di errore “evidente” e non settoriale, “rilevabile” ed “emendabile”. In un temperamento equitativo gli orientamenti giurisprudenziali hanno indicato che la prevedibilità dell’errore va determinata in concreto, dovendosi tenere in conto tutte le circostanze in cui il sanitario si trovi a operare. La Suprema Corte ha ribadito più volte che la verifica da parte del giudice deve essere particolarmente attenta nella ipotesi di lavoro in équipe e di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico chirurgica, ossia in tutti i casi in cui ricorrono interventi non necessariamente omologabili da parte di sanitari diversi, ciascuno con uno specifico compito. Il chirurgo può non essere ritenuto responsabile quando il danno al paziente è dipeso dalla condotta esclusiva di altro professionista che è contitolare di una posizione di garanzia verso il paziente, purché su detta condotta abbia fatto legittimo affidamento e non abbia avuto modo di esercitare un controllo e un’azione di prevenzione e/o riparazione. Quando il chirurgo svolge l’attività in équipe è necessario non solo accertare la valenza con-causale della sua condotta omissiva o attiva, in merito all’evento, ma anche l’eventuale “rimproverabilità” del suo comportamento. È interessante notare che se è pur vero che in caso di prestazioni in équipe ogni chirurgo è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui e a porre


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rimedio a errori evidenti ed emendabili, tuttavia non in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono distinti. In tal caso risponde dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia, in quel momento, la direzione dell’intervento o che ha commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica. La Suprema Corte ha ribadito che il principio di affidamento confina l’obbligo di diligenza del singolo professionista entro i limiti dettati dal carattere personale della responsabilità penale (art. 27 Cost.). Nel vaglio della responsabilità, per lo specialista si tratterà di verificare se l’errore poteva essere riconosciuto dall’ “agente modello” e l’accertamento dell’eventuale responsabilità per un omesso riconoscimento implicherà un maggior rigore (Cass., Sez. IV, 24 gennaio 2005 n. 18548; Cass., Sez. IV, 6 aprile 2005 n. 22579; Cass., Sez. IV, 2 marzo 2004 n. 24036; Cass., Sez. IV, 1 ottobre 1999 n. 14660). Bibliografia Cassano G, Cirillo B. Casi di responsabilità medica, Maggioli Editore, 2013; Barni M. Consulenza medico legale e responsabilità medica, Giuffrè, 2002; Spaziani P, Caroleo F. Compendio di diritto processuale civile, Nel Diritto Editore, 2016; Forti G. Colpa ed evento nel diritto penale, Giuffrè, 1990; Jordain P, Lauche A, et al. Droit des malades, Litec Group Lexisnexis Editions, 2002; De Kerchove D, Tursi A. Dopo la democrazia?, Feltrinelli, 2006; Reason J. Errore umano, Bologna, Il Mulino, 1990; Bricola F, Zagrebelsky V. Giurisprudenza sistematica di diritto penale, Casa Editrice UTET, 1996; Borgogna M, Canale M, et al. Guida orientativa per la valutazione del danno biologico, Giuffrè, 2001; Montgomery J. Health care law, Oxford University Press, 2003; Roncali D. Il clinical risk management, CIC Edizioni Internazionali, 2007; Lenti L, Palermo Fabris E, Zatti P. I diritti in medicina, Giuffrè, 2012; Mantovani M. Il principio di affidamento della teoria del reato colposo, Giuffrè, 1997; Chindemi D. Il danno da perdita di chance, Giuffrè, 2012; Quici G. I rischi, gli errori e la sicurezza negli ospedali in 1600 domande, CIC Edizioni Internazionali, 2008; Cassi R. Il rischio professionale del medico, CIC Edizioni Internazionali, 2002; Panà A, Amato S. Il rischio clinico, Esseditrice, 2007; Bordon R, Palisi M. Il danno da morte, Giuffrè, 2002; Montanari Vergallo G. Il rapporto medico-paziente, Giuffrè, 2008; Martini F, Genovese U. La valutazione della colpa medica e la sua tutela assicurativa, Maggioli Editore, 2012; Di Pentima M G. La responsabilità per l’attività sanitaria in equipe, G. Giappichelli Editore, 2009; Cristiani A. Le omissioni del medico e il giudizio penale, G. Giappichelli Editore, 2006;


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Capitolo 3 Rischio clinico e sicurezza del paziente chirurgico Giovanna Sgarzini Dirigente medico – UOSD Rischio Clinico e Medicina Legale – Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata, Roma Il rischio è una componente implicita in ogni azione sanitaria ed è quindi necessaria la consapevolezza che l’errore è un evento possibile a cui tutti gli operatori sanitari sono esposti: dalla consapevolezza dell’esistenza dell’errore prendono spunto i programmi di gestione del “rischio clinico”. Il rischio clinico considera la possibilità che un paziente subisca un “danno o disagio involontario, in seguito alle cure sanitarie, con un prolungamento del periodo di degenza e/o un peggioramento delle condizioni di salute o la morte”. Molteplici fattori concorrono alla “rischiosità” del sistema in ambito sanitario: a) fattori strutturali-tecnologici come le caratteristiche del fabbricato sanitario e della impiantistica intesa come progettazione e manutenzione, sicurezza e logistica degli ambienti, funzionamento, manutenzione, rinnovo di apparecchiature e strumentazioni, infrastrutture, reti, digitalizzazione; b) fattori organizzativo-gestionali e condizioni di lavoro come politica e gestione delle risorse umane, organizzazione, stili di leadership, formazione e aggiornamento, carico di lavoro e turni, sistema di comunicazione organizzativa, coinvolgimento degli stakeholder, aspetti ergonomici, politiche per la promozione della sicurezza del paziente con linee guida e percorsi diagnostico-terapeutici e sistemi di segnalazione degli errori; c) fattori umani come caratteristiche individuali come percezione, attenzione, memoria, capacità di prendere decisioni, percezione della responsabilità, condizioni mentali e fisiche, abilità psicomotorie e competenza professionale, dinamiche interpersonali e di gruppo; e) fattori esterni come normativa e obblighi di legge, vincoli finanziari, contesto socio-economico- culturale, influenze della opinione pubblica e dei media, delle associazioni professionali e di pubblica tutela. Tra tutti questi fattori, quello umano, considerando in esso anche i processi cognitivi che sono alla base delle performance decisionali, l’efficacia della comunicazione e la capacità di collaborazione, rappresenta il fattore di maggiore criticità per il buon esito delle cure e la riduzione dei rischi correlati. La comunicazione ha un ruolo significativo nella promozione della sicurezza delle cure e ricopre un ruolo centrale nell’eziologia, nell’aggravamento ma anche nel contenimento degli effetti degli possibili errori. La comunica-


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zione è infatti alla base della maggior parte dei processi assistenziali, all’interno dei quali si possono riconoscere anche dei momenti di comunicazione strutturati come le check-list, il briefing preoperatorio e il debriefing postintervento. Per tale motivo la comunicazione va promossa a livello di sistema, ma anche resa “competenza e strumento professionale” di ciascun operatore e dirigente. Inoltre, una comunicazione trasparente e onesta degli errori e degli eventi avversi, oltre a ragioni etiche e deontologiche, è essenziale per promuovere e rafforzare la relazione medico-paziente. Errore ed evento avverso Definire il concetto di “errore” in sanità non è semplice: può essere considerato un’insufficienza del sistema che condiziona il fallimento delle azioni programmate oppure una “azione non sicura” o una “omissione” con potenziali conseguenze negative sull’esito del processo di cura, considerata inadeguata da “pari” di riconosciuta esperienza e competenza. L’errore non deve essere motivo di vergogna o di colpevolizzazione, piuttosto deve essere considerato uno strumento di apprendimento: la conoscenza dell’errore deve essere condivisa per evitare che accada nuovamente, facendo però in modo che nel gruppo non emergano elementi di conflitto e/o di accerchiamento verso chi lo ha commesso. Molti errori non sono attribuibili a un singolo soggetto/operatore (errore individuale), ma spesso vi sono elementi organizzativi o strutturali, che possono concorrere al suo accadimento. James Reason, per spiegare e illustrare efficacemente il problema degli errori nei sistemi complessi, ha proposto il modello del “formaggio svizzero Emmental” in cui i buchi nelle fette di formaggio rappresentano le insufficienze latenti che sono presenti nei processi sanitari; quando si modificano più fattori che normalmente agiscono come barriere protettive, i buchi si possono allineare permettendo il concatenarsi di condizioni che portano al verificarsi dell’evento avverso (1). Un evento avverso è quindi un evento correlato al processo assistenziale che comporta al paziente un danno indesiderabile, non intenzionale e non dovuto alle condizioni cliniche. Se l’evento avverso è conseguenza di un errore, può essere considerato “prevenibile” attraverso l’attuazione di adeguate misure di prevenzione. Da anni la letteratura evidenzia la gravità del problema degli eventi avversi nei suoi aspetti umani ed economici. I primi studi sugli eventi avversi risalgono agli anni ‘50, ma lo studio che ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo sanitario è stato l’Harvard Study del 1991 in cui si riportava che, in seguito a un ricovero ospedaliero, il 3.7% dei pazienti aveva subito un danno dovuto a negligenza nell’1% dei casi, dimostratosi fatale nel 13.5% dei casi (2). Nel 1999, il documento To Err is Human affermava che negli Stati Uniti gli errori medici erano responsabili di una quota stimabile tra 44.000 e 98.000 decessi l’anno, più di quelli dovuti a incidenti stradali, cancro della mammella o AIDS (3).


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Nel 2000 anche il Dipartimento della Sanità Inglese riportava nel documento An Organisation with a Memory, un’incidenza di eventi avversi del 10% in pazienti ospedalizzati, con una stima di 850 000 eventi avversi/anno (4). La percentuale di eventi avversi nel 10% dei pazienti ospedalizzati è stata confermata da studi australiani, The Quality in Australian Health Care Study QAHCS, 1995: 16.6% (5), ed europei, Hospitals for Europe’s Working Party on Quality Care in Hospitals, 2000: 10% (6). Carthey e Reason valutavano la resilienza dei sistemi sanitari e sostenevano che le strutture sanitarie, attraverso il miglioramento continuo dell’organizzazione del lavoro, potevano contribuire a ridurre la possibilità di accadimento degli errori (7). A supportare la tesi contribuì il chirurgo americano Atul Gawande, nel lavoro Error in Medicine: What Have We Learned (8), in cui l’Autore evidenziava che cooperazione, comunicazione interpersonale e mutuo soccorso sono strumenti fondamentali di lavoro perché giocano un ruolo essenziale nell’evitare che si verifichino errori in sala operatoria. Anche in Italia, all’indomani della pubblicazione di To Err is Human, venivano varati numerosi provvedimenti relativi alla sicurezza del paziente. Il Ministero della Salute istituiva nel 2003 la “Commissione Tecnica sul Rischio Clinico” e riportava un’indagine sugli errori in sanità in cui veniva valutato, tra i vari aspetti, lo stato di implementazione del sistema di gestione del rischio clinico nelle Aziende sanitarie (9). Tra il 2004 e il 2006, il Ministero elaborava anche un sistema per la segnalazione degli eventi sentinella e alcune raccomandazioni per la prevenzione e la gestione degli stessi, che nel corso degli anni sono arrivate alle attuali 19 (10). In seguito, venivano istituite le Unità Operative di Risk Management, l’Osservatorio per la Sicurezza dei Pazienti nel gennaio 2007 e, nel 2008, l’Osservatorio di Buone Pratiche per la Sicurezza dei Pazienti, con lo scopo di divulgare gli interventi di successo realizzati nell’ambito della gestione del rischio clinico e sicurezza dei pazienti da parte delle strutture sanitarie di ogni regione. La sicurezza del paziente chirurgico è stata oggetto di interesse anche delle Società scientifiche con numerose pubblicazioni sia da parte della Società Italiana di Chirurgia (SIC) (“Sicurezza in chirurgia”, “Chirurgia e qualità”, “Rischio clinico in chirurgia” e “Sicurezza in Sala operatoria. Dalle abilità non tecniche all’accreditamento del chirurgo”) (11-13), che dall’Associazione Italiana Chirurghi Ospedalieri (ACOI) che nel 2009 proponeva il “Progetto Qualità e Sicurezza in Sala operatoria” e insieme ad Agenas una collaborazione per lo “Sviluppo di un programma di valutazione delle buone pratiche per la sicurezza del blocco operatorio finalizzato alla diffusione e al trasferimento delle pratiche di provata efficacia”. La sicurezza delle cure è stata inoltre “normata” nella recente legge 24/2017 contenente “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonchè in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”. Nell’art.1 si dice che: “La sicurezza delle


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cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività”. Concorrono alla realizzazione della sicurezza delle cure “l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”. Queste attività di prevenzione del rischio coinvolgono tutto il personale sanitario, compresi i liberi professionisti che operano in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. La legge specifica inoltre che, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, i sanitari si devono attenere alle “…buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida, salve le specificità del caso concreto…”. In mancanza delle suddette raccomandazioni, i Sanitari devono fare riferimento e attenersi alle buone pratiche clinico-assistenziali. Analisi degli errori In relazione al tipo di insufficienza del sistema che è alla base dell’errore, possiamo distinguere errori attivi ed errori latenti: – Gli errori attivi sono di solito ben identificabili, prossimi al verificarsi dell’evento, spesso riconducibili a un’azione sbagliata commessa da un operatore, o a un incidente, come il malfunzionamento di uno strumento. – Gli errori latenti sono invece spesso dovuti a insufficienze organizzative-gestionali del sistema che possono creare le condizioni favorevoli per il verificarsi di un errore attivo. Considerando un esempio pratico, la somministrazione di un farmaco sbagliato è un errore attivo commesso da un operatore, ma è necessario ripercorrere tutte le fasi del processo di lavoro, per individuare le circostanze che, direttamente o indirettamente, lo hanno reso possibile. L’analisi degli errori o dei “quasi errori”, near miss, permette di individuare le insufficienze nel sistema che possono contribuire allo scatenarsi di un evento avverso e di valutare o progettare le idonee barriere protettive. Può essere condotta con due diversi approcci che non si escludono a vicenda. –  Approccio proattivo: da preferire quando possibile, in cui l’analisi parte dalla revisione die processi e delle procedure esistenti, identificando, nelle diverse fasi, i punti di criticità. Questo approccio può essere utilizzato anche per ideare e progettare nuove procedure, protocolli e miglioramenti tecnologici con l’obiettivo di realizzare barriere protettive che impediscano o quantomeno prevengano l’errore umano/attivo. Lo strumento di analisi proattiva più utilizzato è la Failure Mode and Effect Criticality Analysis (FMECA) che si basa sull’analisi sistematica di un


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processo, eseguita da un gruppo multidisciplinare composto da operatori ed esperti. Nella prima fase, detta “istruttoria”, si analizzano la letteratura, la documentazione e le eventuali interviste agli operatori. Nella seconda fase detta di “analisi”, il processo viene scomposto in macroattività e ogni macroattività viene analizzata sulla base dei singoli compiti e ruoli e, per ogni singolo compito o ruolo, vengono individuati i possibili errori (modi di errore). Si valuta quindi sia quantitativamente la probabilità di errore che qualitativamente la gravità delle sue conseguenze. Si effettua cioè una “stima del rischio” analizzando le possibilità di accadimento di errore o guasto, failure mode, nelle varie fasi e i loro possibili effetti, failure effect. A ciascuna fase si assegna un indice di priorità di rischio (IPR) in base alla: – probabilità di accadimento (punteggio da 1 a 10); – probabilità di rilevabilità (punteggio da 1 a 10); – gravità (punteggio da 1 a 10). SCHEDA TECNICA PER FMEA

Definire l’oggetto dell’analisi. Definire il progetto o il processo che deve essere studiato: a. Descrivere il modo di realizzazione o di funzionamento corretto; b. Effettuare l’analisi qualitativa descrivendo i modi di errore/guasto, i loro effetti, le possibili cause; c. Costruire le tre scale di valutazione necessarie: gravità dell’effetto, probabilità della causa, rilevabilità dell’errore/ guasto; d. Effettuare le valutazioni quantitative in riferimento ai tre elementi precedenti; e. Calcolare l’indice di priorità del rischio (IPR); f. Ordinare per IPR decrescente; g. Assumere decisioni per abbassare il livello di rischio (controllo, riduzione, eliminazione).

SCALE DI VALUTAZIONE

Probabilità dell’errore: punteggio 1-10; Gravità dell’errore: punteggio 1-10; Rilevabilità dell’errore: punteggio 1-10;

CALCOLO IPR

Assegnazione punteggi ai 3 elementi: P probabilità, G gravità, R rilevabilità; Calcolo di IPR: PxGxR (Minimo IPR: 1 x 1 x 1=1 Massimo IPR: 10 x 10 x 10= 1000)

STIMA DEL RISCHIO PROBABILITA’ DI ACCADIMENTO

Remoto < 0.3 %; Occasionale: 0.3 – 7 %; Probabile 7 – 14 %; Frequente > 14 %;


62 STIMA DEL RISCHIO SCALA DI SEVERITA’ DEL DANNO

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Descrizione del livello di danno: Nessuno: L’errore non ha comportato danni; ha reso necessario un maggiore monitoraggio; Lieve: Danno temporaneo; prolungamento della degenza < 1 mese; Medio: Invalidità temporanea; prolungamento della degenza > 1 mese; Grave: Invalidità permanente o rischio di morte come shock o arresto cardiaco; Morte: Decesso del paziente

–  Approccio reattivo: l’analisi parte da un evento avverso accaduto, o quasi accaduto, e ricostruisce a ritroso la sequenza degli avvenimenti con lo scopo di identificare i fattori che hanno causato o che hanno contribuito al verificarsi dell’evento. Tra gli strumenti più utilizzati troviamo la Root Cause Analysis (RCA), un’analisi retrospettiva che consente di comprendere cosa, come e perché è accaduto un evento e prevede la costituzione di un gruppo interdisciplinare che comprenda esperti della materia, i soggetti coinvolti nell’evento e quelli che sono maggiormente interessati nel processo e nel sistema. Il gruppo acquisisce le procedure inerenti l’evento per stabilire quali siano gli standard definiti dall’organizzazione e raccoglie le informazioni su quanto accaduto, anche attraverso interviste agli operatori, da eseguire prima possibile rispetto al verificarsi dell’incidente, per aggiungere elementi rilevanti per l’analisi. Le cause oggetto di analisi possono ricadere in vari ambiti: comunicazione, addestramento, formazione, fatica e programmazione del lavoro, procedure locali, ambiente e attrezzature, barriere. Le classi delle cause vanno identificate in relazione allo specifico problema selezionando le più importanti: per identificare la correlazione dei fattori che hanno contribuito all’evento si utilizzano alcuni diagrammi chiamati di causa-effetto o diagrammi dei fattori contribuenti. Il Diagramma a spina di pesce, o di Ishikawa, assomiglia allo scheletro di un pesce in cui la spina principale rappresenta l’evento avverso e le altre spine rappresentano le cause e i fattori contribuenti. Le classi delle cause e i fattori contribuenti, solitamente, sono: struttura, attrezzature, metodi, risorse umane, etc. Il Diagramma ad albero è una forma alternativa di diagramma di causa-effetto, utile per disegnare l’insieme dei fattori di un determinato fenomeno che si intende studiare per definire l’oggetto di analisi, identificare le classi di cause dalle più generali alle più specifiche rispondendo alle domande: “A che cosa è dovuto?”, “Quali sono le cause?”, “Perché è accaduto?”. Dopo l’esecuzione dei diagrammi, la terza fase della RCA prevede, a seguito della discussione di tutte le cause potenziali, lo sviluppo di raccomandazioni e azioni di miglioramento che prevengano o riducano la probabilità che lo stesso evento si ripeta.


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Altri strumenti di Risk Management – Sistemi di segnalazione (reporting) Sono modalità strutturate per la raccolta di informazioni relative al verificarsi di eventi avversi e/o di quasi eventi. Un sistema di reporting efficace costituisce una componente essenziale di un programma per la sicurezza delle cure. Ancora oggi vi sono difficoltà ad aderire al reporting da parte delle organizzazioni e degli operatori sanitari per diverse ragioni tra cui la convinzione della scarsa efficacia del sistema, la sfiducia nei cambiamenti e l’atteggiamento difensivo. – Briefing sulla sicurezza (Riunione per la sicurezza) Questo strumento va adattato alle esigenze dell’unità operativa, garantendo comunque regolarità, continuità e risposta ai problemi che emergono, per ottenere, attraverso il potenziamento del “lavoro di squadra”, maggiore responsabilizzazione nei comportamenti individuali e maggior attenzione verso la sicurezza dei pazienti. Consente di creare un ambiente in cui la sicurezza del paziente venga vista come una priorità, in un clima che stimoli la condivisione di informazioni circa le situazioni, effettive o potenziali, di rischio. È uno strumento semplice e facile da usare, un breve confronto, una discussione colloquiale, ma strutturata, riguardante i potenziali rischi per il paziente presenti nella unità operativa. La riunione deve essere condotta da un moderatore capace di spiegare le motivazioni e gli obiettivi. Può essere effettuato all’inizio del turno o all’inizio della seduta operatoria, raccogliendo per 5-10 minuti tutti gli operatori che si occupano della cura del paziente. Alla fine del turno si può effettuare un’altra brevissima riunione, debriefing, con lo scopo di confrontarsi sulle situazioni potenzialmente rischiose che si sono verificate nel corso delle attività. – Safety walkaround (giri per la sicurezza) Consistono in “visite” che i referenti della sicurezza, con mandato della Direzione, effettuano nelle UUOO per identificare con il personale i problemi legati alla sicurezza. Il personale viene invitato a raccontare eventi, fattori causali o concomitanti, quasi eventi, problemi potenziali e possibili soluzioni. Le modalità organizzative prevedono incontri, all’interno delle UUOO, fra gli esperti e un piccolo gruppo o singoli operatori, della durata di pochi minuti, in cui si cerca di raccogliere e di stimolare le segnalazioni del personale per quanto riguarda situazioni di danno o di rischio. Fra le barriere più frequenti da superare vi è la paura da parte degli operatori di essere puniti o colpevolizzati per avere effettuato la segnalazione e la diffidenza e mancanza di fiducia nelle conseguenti azioni correttive. – Focus group Metodologia che la sanità eredita dalla ricerca sociale per identificare tutti gli aspetti di un problema, partendo dalle esperienze e dalle percezioni delle persone che sono entrate in contatto con il problema stesso. Posso-


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no essere effettuati sia con singole figure professionali che con l’équipe, con i pazienti, i familiari e con altri stakeholder, limitando il gruppo a 8-12 persone e la discussione, che deve essere condotta da un moderatore preparato, contenuta un’ora e mezzo. – Revisione di cartelle cliniche La revisione delle cartelle cliniche ha rappresentato la pietra miliare negli studi sugli errori in sanità e sulla valutazione di qualità, permettendo sia indagini sui processi decisionali che osservazioni riguardo agli esiti, e all’aderenza a linee guida e protocolli. Questo strumento è molto discusso in merito alla rilevazione di errori ed eventi avversi in quanto alcune informazioni, ad esempio gli esami di laboratorio, le prescrizioni, i referti, sono oggettivamente rilevabili, mentre non tutte le fasi del processo decisionale sono tracciabili nella documentazione clinica e rimangono quindi implicite. Mentre gli eventi avversi gravi sono quasi sempre riportati nelle cartelle, gli errori e le condizioni sottostanti non lo sono quasi mai e anche i near miss vengono raramente annotati. La valutazione del rilevatore è un giudizio soggettivo che risente di diverse variabili tra cui la propria specifica competenza. È quindi necessaria una formazione omogenea dei rilevatori e la condivisione delle griglie di lettura. – Audit

La parola audit deriva dal latino “audio”, dar udienza, ascoltare e apprendere: è una metodologia di analisi strutturata e sistematica utilizzata per migliorare la qualità dei servizi sanitari.Le fasi di un audit possono essere rappresentate in un ciclo: – Scelta del tema: l’audit può riguardare l’outcome delle attività cliniche e delle attività assistenziali, le prestazioni, le risorse e il loro impiego, tutte le forme di assistenza formali e informali, i processi organizzativi. I criteri che possono aiutare nella definizione delle priorità fanno riferimento


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alla frequenza dei problemi, alla gravità delle conseguenze e alla possibilità di porre in atto soluzioni o misure preventive; Definizione dello scopo e degli obiettivi: si definiscono gli scopi e gli obiettivi che devono essere dettagliati, specifici e concordati; Identificazione degli standard: l’attività dell’audit clinico è basata sul confronto con standard definiti delle cure o dei servizi. Gli standard devono avere determinate caratteristiche che possono essere sintetizzate con l’acronimo SMART: Specific, correlati al tema, Measurable concretamente definibili, Achievable, raggiungibili con le risorse disponibili, Research based, basati sulle evidenze, Timely, aggiornati; Raccolta e analisi di dati: i dati possono essere raccolti con revisione della documentazione clinica, con interviste ai pazienti e/o staff, con questionari o tramite sistemi di segnalazione. Vanno raccolti utilizzando metodi quantitativi, qualitativi, o entrambi e analizzati. L’analisi e l’interpretazione dei dati deve sempre avere come riferimento lo standard scelto e la lettura dei dati deve consentire di prendere decisioni, analizzando tutte le opzioni a disposizione; Elaborazione di un piano di intervento con: raccomandazioni, azioni, responsabilità e tempistica; Monitoraggio dei risultati attesi a seguito dei cambiamenti introdotti, re-audit: la fase del re-audit va condotta solo dopo che i cambiamenti sono stati introdotti e deve seguire lo stesso disegno dell’audit. Molto delicata è la fase di comunicazione dei risultati al personale dell’unità operativa che deve essere coinvolto in tutte le misure di miglioramento. L’audit può essere svolto anche per l’analisi di eventi avversi significativi (SEA). In tal caso l’audit prevede l’analisi di un caso clinico o di un percorso assistenziale da parte di un’équipe multidisciplinare e multiprofessionale, rilevando gli scostamenti rispetto a standard prefissati o, se non disponibili, al parere di esperti interni e esterni all’équipe, avvalendosi della documentazione clinica e amministrativa e di eventuali testimonianze per fornire alla discussione il più ampio spettro di informazioni.

La sicurezza del percorso chirurgico I pazienti che affrontano un percorso chirurgico incontreranno diversi professionisti che, ciascuno per la propria competenza, si occuperanno del loro bisogno di salute. Per rendere sempre più sicuro ed efficiente questo percorso è fondamentale conoscerne le fasi in modo dettagliato e attuare le opportune azioni organizzativo-gestionali. Il percorso e l’intervento chirurgico uniscono due componenti estremamente critiche: la necessità di tecnologie, spesso nuove e/o in continua evoluzione, e la necessità di skill tecniche e non tecniche dell’équipe chirurgica. Ancora oggi, nonostante l’aiuto della tecnologia, la componente


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umana intesa come abilità è alla base dell’elevata variabilità dei risultati in chirurgia (14). La percentuale di eventi avversi in area chirurgica rimane elevata: in letteratura è riportato che 2/3 degli eventi avversi che occorrono in ospedale sono riconducibili a un intervento chirurgico (15). Per tale motivo i rischi e la sicurezza dei pazienti chirurgici sono tra le principali aree di intervento della World Health Organization (WHO) che, già nel 2006-2007, nella Alliance for Patient Safety poneva l’attenzione sulle attività chirurgiche per preservare la vita dei pazienti nello specifico programma Safe Surgery Save Lifes e nel 2008, con l’obiettivo di migliorare la sicurezza degli interventi chirurgici attraverso raccomandazioni e standard di sicurezza, pubblicava le Linee Guida WHO “Guidelines for Safe Surgery: Safe Surgery Saves Lifes:” (16) per la sicurezza in sala operatoria. Nell’ottobre del 2009 il Ministero della Salute e delle Politiche Sociali nel “Manuale per la sicurezza in Sala Operatoria” (17) proponeva l’adozione della check-list e delle sedici raccomandazioni elaborate dall’OMS con l’obiettivo di migliorare la qualità e la sicurezza degli interventi chirurgici attraverso la diffusione di standard di sicurezza, volti a rafforzare i processi preoperatori, intraoperatori e postoperatori e l’applicazione della check-list per la sicurezza in sala operatoria in tutte le procedure chirurgiche effettuate.

Le raccomandazioni sono: 1. Operare il paziente corretto e il sito corretto; 2. Prevenire la ritenzione di materiale estraneo nel sito chirurgico; 3. Identificare in modo corretto i campioni chirurgici; 4. Preparare e posizionare in modo corretto il paziente; 5. Prevenire i danni da anestesia garantendo le funzioni vitali; 6. Gestire le vie aeree e la funzione respiratoria; 7. Controllare e gestire il rischio emorragico;


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8. Prevenire le reazioni allergiche e gli eventi avversi della terapia farmacologica; 9 . Gestire in modo corretto il risveglio e il controllo postoperatorio; 10. Prevenire il tromboembolismo postoperatorio; 11. Prevenire le infezioni del sito chirurgico; 12. Promuovere un’efficace comunicazione in sala operatoria; 13. Gestire in modo corretto il programma operatorio; 14. Garantire la corretta redazione del registro operatorio; 15. Garantire una corretta documentazione anestesiologica; 16. Attivare sistemi di valutazione dell’attività in sala operatoria;

Sia la check-list operatoria che molte delle raccomandazioni fanno ormai parte dei processi che quotidianamente si svolgono nei reparti di chirurgia e nelle sale operatorie, contribuendo alla definizione degli standard di sicurezza delle strutture sanitarie. Anche nelle organizzazioni più avanzate, però, la sala operatoria resta comunque un ambiente a elevata complessità e massima concentrazione di rischi. La responsabilità della sicurezza e dell’esito degli interventi chirurgici non è riconducibile al singolo chirurgo, ma a tutti i componenti dell’équipe all’interno della quale assumono particolare importanza i processi di comunicazione: il chirurgo, l’anestesista e l’infermiere non lavorano isolatamente l’uno dall’altro e devono assicurare un clima di collaborazione tra le diverse professionalità, indispensabile per prevenire il verificarsi di incidenti perioperatori e per la buona riuscita dell’intervento. La check-list operatoria contribuisce a rafforzare i processi di comunicazione, contrastando i possibili


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fattori di fallimento. Da quando è stata introdotta, numerosi studi hanno dimostrato che l’implementazione dell’utilizzo della checklist operatoria è associata a una concomitante riduzione del tasso di mortalità e delle complicanze postoperatorie (18,19). La mappatura di tutte le attività della sala operatoria, dal momento della presa in carico fino al ritorno in reparto, permette di individuare molteplici azioni, alcune uguali in tutte le Strutture, alcune invece legate all’organizzazione: queste azioni vanno correlate ai possibili errori che vi si possono associare. Una volta individuate le azioni e le possibili criticità, si potrà valutare l’eventuale gravità di un errore associato, la probabilità e la frequenza di accadimento e calcolare quindi l’IPR che farà da guida per identificare le priorità per le azioni preventive e correttive che l’Organizzazione deve applicare o implementare. Con lo stesso metodo è possibile mappare tutte le fasi e le azioni previste in ogni fase del percorso chirurgico, dal momento della prima visita e dell’inserimento nelle liste di attesa fino alla dimissione con l’affidamento del paziente al medico curante e alla medicina del territorio. Consenso informato e informazione Nel dicembre del 2017, la legge 219 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” ha ribadito nell’art. 1 il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge, nel rispetto dei principi della costituzione (art. 2, 13 e 32) e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Lo stesso articolo afferma il diritto di ogni persona: “di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile, riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”. Il consenso informato si conferma quindi come atto fondamentale da acquisire prima di qualsiasi intervento chirurgico o procedura terapeutica, per documentare la volontà del paziente di sottoporsi a quanto proposto dai Sanitari e che vi sia stata un’accurata informazione circa la sua condizione di salute, il tipo di intervento programmato, le possibili implicazioni e complicanze e le possibili alternative terapeutiche. Nella medesima legge si ribadisce il valore che ha il consenso informato nel rafforzare rapporto di fiducia e cura che si instaura tra medico e paziente. Si afferma inoltre: “il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in for-


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ma scritta attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”. Il paziente può rivedere le sue decisioni rifiutando, non iniziando, o rinunciando, interrompendo, tutti gli accertamenti diagnostici e i trattamenti sanitari, tra i quali la Legge include l’idratazione e la nutrizione artificiali. Nel caso di rinuncia o rifiuto di prestazioni sanitarie necessari alla sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo. Fermo restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto devono essere annotati nella cartella clinica. La Legge ribadisce inoltre che: «Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”. Nelle situazioni di emergenza o di urgenza: “il medico e i componenti dell’équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”. La Legge sottolinea inoltre che: “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” ed è quindi auspicabile che questo tempo venga considerato nell’organizzazione del lavoro, in modo che il paziente possa ricevere tutte le informazioni necessarie nel modo migliore possibile, affinchè la firma del paziente sul consenso informato venga apposta con la dovuta consapevolezza. In conclusione, il successo dei programmi e degli interventi per il miglioramento della sicurezza delle cure ai quali abbiamo accennato nel capitolo, dipende non solo dall’applicazione delle buone pratiche basate sull’evidenza, ma soprattutto dal cambiamento culturale e dall’implementazione delle strategie di gruppo e di comunicazione (20). La cultura della sicurezza è un insieme di convinzioni, valori e norme relative ai percorsi del paziente, condiviso da tutti i componenti dell’Organizzazione, dell’Unità Operativa o del team di lavoro. Nonostante il cambiamento richieda un percorso difficoltoso, può riuscire a influenzare i comportamenti, le abitudini, la percezione di se stessi e del proprio lavoro, favorendo le pratiche sicure e considerando prioritaria la sicurezza del paziente rispetto agli altri obiettivi.


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Bibliografia 1. Reason J. Human error: models and management. BMJ. 2000;320(7237):768-70; 2. Kohn LT, Corrigan JM, Donaldson MS (Institute of Medicine). To err is human: building a safer health system. Washington DC: National Academy Press, 2000; 3. Brennan TA, Leape LL, et al. Incidence of adverse events and negligence in hospitalized patients — Results of the harvard medical practice study I. N E J Med. E1991;324:370-6; 4. Donaldson L. An organisation with a memory: report of an expert group on learning from adverse events in the NHS chaired by the chief medical officer. Departement of Health Clin Med (Lond). 2002;2(5):452-7; 5. RM Wilson, WB Runciman, et al. The quality in australian health care study. Med J Aust. 1995;163(9):448-71; 6. Standing Committee of the Hospitals of the EU. The quality of health care/hospital activities: report by the Working Party on quality care in hospitals of the subcommittee on coordination. September 2000; 7. Carthey J, de Leval MR, Reason JT. Institutional resilience in healthcare systems. Qual Health Care 2001;10(1):29-32; 8. Gawande AA, Bates DW. Error in Medicine: What Have We Learned? Ann Intern Med. 2000:132(9):763-7; 9. Protocollo per il Monitoraggio degli eventi sentinella: http://www.ministerosalute. it/imgs/C_17_pagineAree_238_listaFile_itemName_1_file.doc; 10. Ministero della salute – Governo clinico e sicurezza delle cure – Linee guida e Raccomandazioni (ultimo aggiornamento settembre 2020); 11. Sicurezza in chirurgia. A cura della Commissione medico-legale della SIC. 2006, Gennaro Favia Editore ISBN: 8861290167; 12. Sicurezza in Sala operatoria. Dalle abilità non tecniche all’accreditamento del chirurgo. A cura della Commissione Verifica e Controllo Qualità della Società italiana di Chirurgia. 2012 Ianieri Edizioni ISBN: 978 8897417323; 13. Rischio clinico in chirurgia. Dalla teoria alla pratica. A cura della Commissione Verifica e Controllo Qualità della Società italiana di Chirurgia. Collana Scienze Mediche CLEUP 2010 ISBN: 9788861295278; 14. Moulton CA, Regehr G, et al. Operating from the other side of the table: control dynamics and the surgeon educator. J Am Coll Surg. 2010;210:79-86; 15. Haynes AB, Weiser TG, et al. A surgical safety checklist to reduce morbidity and mortality in a global population. N Engl J Med. 2009; 360:491-9; 16. WHO guidelines for safe surgery: safe surgery saves lives a cura di WHO: 2009 ISBN: 9789241598552; 17. Manuale per la Sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e check-list a cura del Dipartimento della qualità Direzione generale programmazione sanitaria – Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali 2009; 18. Lingard L, Regehr G, et al. Evaluation of a preoperative checklist and team briefing among surgeons, nurses, and anesthesiologists to reduce failures in communication. Arch Surg. 2008;143(1):12-7; 19. Weiser TG, Haynes AB, et al. Effect of a 19-item surgical safety checklist during urgent operations in a global patient population. Ann Surg. 2010;251(5):976-80; 20. Venneri F, Brown LB, et al. Safe Surgery Saves Lives. Textbook of Patient Safety and Clinical Risk Management, L. Donaldson et al. (eds.); 2021;


Capitolo 4 La tecnologia di ultima generazione al servizio del chirurgo per la sicurezza dei pazienti Marco Maccagna Ingegnere Clinico L’evoluzione tecnologica degli ultimi anni ha portato la chirurgia a livelli altissimi di qualità e di sicurezza. Grazie allo sviluppo di nuove tecnologie e ai nuovi approcci chirurgici sempre più mini-invasivi, i risultati della chirurgia moderna toccano standard di altissimo livello. Tra le tecnologie che possono essere incluse nelle nuove metodiche di approccio chirurgico ci sono sicuramente le apparecchiature e sistemi che popolano le nuove sale operatorie. Tra queste tecnologie alcuni prodotti significativi hanno apportato un considerevole miglioramento nel lavoro dell’équipe chirurgica. Lampade scialitiche Ad esempio le lampade scialitiche di ultima generazione a tecnologia LED hanno dato un grande contributo all’incremento di qualità e sicurezza dell’intervento chirurgico. Le lampade a tecnologia LED oltre a dare una visione più chiara e più definita dei dettagli del campo operatorio risultano essere più sicure per il paziente e più confortevoli per l’operatore.


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Di seguito si fa cenno alle caratteristiche tecnologiche che permettono un utilizzo ottimale e una resa di alto livello nell’intervento chirurgico. – Nuovo design e facilità di pulizia La forma e i materiali delle lampade scialitiche moderne sono stati studiati per garantire la massima igiene e asetticità, il corpo lampada e i bracci sono completamente sigillati e lisci in modo da non favorire l’insediamento di batteri. I bracci sono realizzati in estruso di alluminio, per garantire un’ottima leggerezza, facile manovrabilità e robustezza. L’utilizzo di una vernice speciale lavabile e disinfettabile rende semplice e rapida la pulizia della lampada e, in caso di urto, non vengono prodotte scaglie che potrebbero accidentalmente cadere sul campo operatorio. La dissipazione controllata del calore e la forma del corpo lampada rispondono pienamente alle esigenze dettate dalle normative, in materia di compatibilità con i flussi laminari. – Caratteristiche generali di illuminazione Le nuove cupole sono dotate di LED bianchi di ultimissima generazione, ognuno dei quali è dotato di 36 cluster, in pratica ogni LED è formato da 36 sorgenti luminose che ne aumentano l’efficienza luminosa e la durata, 60.000 ore. Ogni LED è incapsulato in una particolare lente che convoglia e recupera più dell’85% della luce emessa dal LED. Il fascio luminoso di ogni LED va a incidere sull’intero campo illuminato in modo da generare un Light Patch uniforme, anche in condizioni di parziale ostruzione di uno o più LED. Il corpo lampada è dotato di un sistema elettronico che mantiene costante la resa luminosa dei LED al variare della loro temperatura di lavoro; questo sistema consente un flusso di intensità luminosa costante e sempre confortevole, anche dopo molte ore di lavoro. – Dimensione campo luminoso variabile I nuovi corpo lampada hanno un sistema elettronico di variazione della dimensione di campo tale per cui l’intensità di illuminazione nella zona centrale non varia al variare della dimensione del campo grazie a una miscelazione controllata dei flussi luminosi, proveniente dai diversi


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LED. La variazione del campo può essere regolata dal manipolo, dal comando a bordo lampada o dal pannello di comando a parete. Il corpo lampada può essere considerato come corpo lampada satellite o principale, grazie alla sua ottima intensità luminosa massima, 160.000 Lux, e un efficace e ottimale sistema di diluizione delle ombre. Il corpo lampada è dotato di una luce verde focalizzata per l’utilizzo durante gli interventi di endoscopia. Il corpo lampada è predisposto per l’inserimento nel manipolo centrale di una telecamera Full HD wireless per la registrazione dell’intervento chirurgico. Valori di illuminazione che raggiungono i 160.000 Lux, una profondità di campo di circa 100 cm e un campo illuminato che ha una dimensione di 25 cm di diametro, mettono il chirurgo nelle condizioni di trovare sempre la situazione ideale di illuminazione del sito operatorio. – Possibilità di adattamento corpo lampada (allineamento/incastro geometrico)

La geometria dei 2 corpo lampada consente l’avvicinamento delle cupole per ottimizzare l’illuminazione del campo operatorio. – Materiali costruttivi e compatibilità ai flussi laminari Il sistema lampada scialitica di ultima generazione è il risultato di approfondite ricerche nel campo medicale e tecnologico. I materiali utilizzati per la costruzione delle lampade scialitiche accolgono tutti i requisiti di qualità, sicurezza e affidabilità necessari nell’ambito della sala operatoria. La cura e dettaglio di costruzione rendono il sistema adatto per l’utilizzo in tutte le specialità chirurgiche. Il design, la struttura e i materiali delle lampade sono conformi agli standard più elevati per sanificazione, disinfezione e pulizia delle superfici. I bracci di sospensione, gli snodi e le parti metalliche sono costituite generalmente da acciaio, lega leggera


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in allumino estruso e verniciato. Il rivestimento superiore delle cupole è costituito a parti in ABS-PC C2100. Le parti inferiori sono costituite da PMMA XT antishock. Tutte le parti sono verniciate con vernici atossiche, resistenti ai principali agenti disinfettanti. Il design delle cupole è stato studiato per permettere un corretto e ottimale posizionamento sul campo operatorio e, grazie alle forme arrotondate e filanti, l’impatto sui flussi laminari risulta estremamente contenuto. È presente un indice di resistenza basso, pari a 2,7 relativo allo standard di riferimento DIN1949-4 allegato C. 2008-12 for the surgical lighting combination. – Ergonomia L’ergonomia della lampada si evince da fattori quali il design, la forma, la posizione del pannello di controllo e la grande mobilità dei bracci e degli snodi. I bracci sono, allo stesso tempo, robusti e facili da spostare, le frizioni meccaniche regolabili permettono un veloce e sicuro posizionamento, mantenuto correttamente in ogni posizione di lavoro richiesta. Sistema integrato di gestioni immagini Un secondo strumento molto importante, segno dell’evoluzione della tecnologia in ambito sala operatoria, in particolar modo nell’applicazione delle procedure mini-invasive è il sistema di gestione e registrazione immagini generate nell’ambito chirurgico. Nelle sale operatorie di ultima generazione vi è una grande presenza di strumentazione che genera delle immagini: ci riferiamo alle colonne laparoscopiche, agli ultrasuoni, ai microscopi, alle apparecchiature radiologiche, etc. Sempre più importante per il chirurgo è la possibilità di gestire e vedere le immagini sui monitor di servizio presenti nelle sale operatorie. A volte due, tre o anche quattro monitor sono da supporto all’operatore. Anche la parte di documentazione diventa sempre più importante con acquisizione delle immagini, registrazione e talvolta condivisione delle stesse con una platea che rimane fuori dalla sala operatoria tramite funzioni di streaming o videoconferenza.


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La finalità dell’installazione del sistema integrato è quella di migliorare la qualità della chirurgia, la sicurezza per il paziente e gli operatori e la condivisione delle immagini e delle informazioni dalla sala operatoria verso l’esterno, in maniera che siano le informazioni e non i chirurghi a spostarsi. L’installazione e la configurazione del sistema integrato viene effettuata previa verifica teorica e pratica delle condizioni e delle situazioni presenti nell’ambito del luogo di destinazione, con l’obiettivo di puntualizzare e verificare alcune necessità tecniche e qualitative come ad esempio il mantenimento degli standard di qualità dei materiali, l’installazione “a regola d’arte” di tutte le componenti hardware e software che costituiscono il sistema stesso, osservanza delle normative del settore con particolare attenzione alla direttiva dei Dispositivi Medici, rendendo l’installazione semplice, fluida e conforme alle necessità funzionali, tecniche e normative oltre che di sicurezza per i pazienti e gli operatori. Lo scopo primario del sistema integrato è quello di rendere facilmente utilizzabile un parco apparecchiature e sistemi che singolarmente potrebbero invece innalzare la complessità di gestione dei dispositivi, causando un potenziale ostacolo e rallentamento dell’attività chirurgica e di diagnosi tramite un sistema affidabile e certificato in termini di sicurezza. L’installazione del sistema integrato contempla, nella sua struttura principale, le seguenti funzionalità: – Gestione; – Acquisizione; – Distribuzione; – Comunicazione dei segnali audio/video, del dato paziente e di quanto generato in sala operatoria; – Controllo dei dispositivi medici tipici della sala operatoria e dei sistemi a supporto all’attività chirurgica o didattica. Grazie all’interfacciamento con il sistema centralizzato ospedaliero sarà possibile acquisire la worklist e poter archiviare sul PACS Aziendale le immagini correlate al singolo paziente, filmati e informazioni della sala operatoria per migliorare e ottimizzare i processi chirurgici, di documentazione, di comunicazione verso l’esterno e di archiviazione. L’aspetto ergonomico delle postazioni chirurgiche di lavoro viene garantito tramite l’ausilio di monitor sospesi su bracci mobili orientabili nell’area chirurgica, sui quali viene permesso l’indirizzamento delle immagini di sala operatoria. La funzionalità di comunicazione dalla sala operatoria verso destinazioni esterne all’ambiente operatorio può avvenire in duplice modalità, basata sulla funzione di audio/video streaming o videoconferenza. A completamento dell’installazione può essere prevista l’installazione di una piattaforma hardware/software dedicata all’archiviazione di immagini e filmati, a scopi didattici e formativi. Il sistema è costituito da una unità base per ogni sala, installata a scelta in un rack dedicato oppure integrato nel rack dati previsto a servizio per ogni sala operatoria; altri dispositivi ausiliari – radio-microfoni, amplificatori audio, convertitori F.O., etc. – vengono alloggiati nello stesso rack.


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Funzionalità videorouting e gestione immagini Il sistema integrato permette la gestione di qualsiasi segnale audio/video generato in sala operatoria; è possibile inviare un qualunque flusso audio/ video d’ingresso sulle differenti destinazioni – monitor di visualizzazione, connessioni in uscita, dispositivi di registrazione, etc. -. La qualità d’immagine è mantenuta a livello nativo, cioè non ne viene alterata o convertita la risoluzione originale, garantendo sempre la massima qualità di visione.

Schema tipo di videorouting audio/video tramite interfaccia touchscreen

Funzionalità acquisizione e registrazione immagini


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Il sistema integrato permette l’acquisizione e registrazione di qualsiasi flusso audio/video; le immagini e i filmati acquisiti possono essere archiviati su PACS Aziendale tramite protocollo DICOM oppure su un archivio video server dedicato per lo stoccaggio delle immagini e informazioni a scopo didattico e di formazione; le informazioni che non vengono inviate a repository esterne rimango nell’archivio interno del sistema. La modalità di esportazione può essere configurata in modalità richiesta dagli operatori come, ad esempio, esportazione automatica a chiusura dell’intervento selezionando quali contributi inviare al PACS, quali al video server o quali salvare in locale (USB, DVD). Funzionalità comunicazione e videoconferenza La sala operatoria riceve e trasmette video verso il sistema LAN ospedaliero, tramite collegamento con la rete dati, utilizzando vie in fibra ottica. Il sistema permette funzioni di videoconferenza, garantendo collegamenti punto-punto, punto-multipunto. Le trasmissioni verso l’esterno sono possibili anche tramite l’utilizzo di una linea telefonica dedicata. Sono possibili collegamenti di videoconferenza tra sale operatorie e aule didattiche o tra sale operatorie e destinazioni esterne alla struttura ospedaliera, tramite i dispositivi standard di videoconferenza. Funzionalità controllo e gestione dispositivi medicali e non La gestione dei dispositivi medici e non consente di controllarne tutte le principali funzioni dalle postazioni di lavoro senza interventi sugli stessi dispositivi o sui loro comandi diretti. Il controllo dei dispositivi avviene previo interfacciamento del sistema con ogni dispositivo da gestire, comunque in condizioni di sicurezza ed eseguito in modo che i comandi dei dispositivi abbiano sempre prevalenza sul sistema.


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Il sistema integrato è l’evoluzione più recente all’interno delle sale operatorie di ultima generazione e permette di ottimizzare i flussi di lavoro, di alzare gli standard operativi e di assicurare una maggiore sicurezza per il paziente e gli operatori. In conclusione, possiamo dire che lo sviluppo tecnologico stia contribuendo sensibilmente a migliorare tutti gli aspetti legati al gesto chirurgico, dalle fasi di preparazione dell’intervento alle fasi post-chirurgiche che traggono beneficio dalle molteplici funzionalità dei nuovi prodotti. Indiscutibilmente l’atto chirurgico, supportato da queste nuove tecnologie, ne trae vantaggio e garantisce un beneficio soprattutto per i pazienti. Tavoli operatori Il tavolo operatorio è il supporto che permette il posizionamento ideale del paziente prima, durante e dopo l‘intervento chirurgico. Ad eccezione del tavolo operatorio utilizzato in traumatologia/ortopedia, che potrebbe essere dedicato, tutti gli altri tavoli operatori nascono come dispositivi da poter essere utilizzati per tutte le chirurgie. Una volta individuato il modello di tavolo operatorio1, la differenza e la specificità dell’utilizzo vengono assegnate in base alla dotazione degli accessori a corredo del tavolo. Pertanto, ad esempio, il tavolo operatorio di neurochirurgia è un tavolo operatorio di chirurgia generale dotato di accessori specifici. Caratteristiche di un tavolo operatorio – – – – – – – – – – –

A seconda della tipologia, in un tavolo operatorio bisogna valutare: Buon posizionamento del paziente; Radiotrasparenza del piano operatorio; Buon accesso con amplificatore di brillanza; Facilità di utilizzo; Resistenza negli anni; Buona stabilità Ergonomia; Comfort paziente e cuscini anti-decubito; Affidabilità; Efficacia; Catalogo accessori.

In base alle esigenze del chirurgo e delle tecniche utilizzate, sono presenti in commercio molti modelli di tavoli operatori. Le movimentazioni sono quelle che differenziano le differenti classi di prodotto – Trendelenburg/tilt/altezza minima-massima, etc. 1


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Movimenti base – Escursione alto-basso;

– Trendelenburg-antiTrendelenburg;

– Basculamento bilaterale destra e sinistra;

– Combinazione dei movimenti tra loro, ad esempio tilt + Trendelenburg. Movimenti supplementari – – – – –

Spezzatura dorsale; Movimentazione schienale; Movimentazione gambe, singola e contemporanea; Movimentazione testa; Traslazione longitudinale.


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Posizionamenti paziente – Supina;

– Prona;

– Seduta;

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– Litotomica, ginecologica o urologica;

– Genupettorale, proctologica;

– Laterale.


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Tipologie di tavoli La prima grande differenza di tavoli operatori è tra: – Tavoli operatori mobili: tavoli operatori con piano operatorio solidale con la base del tavolo stesso. Normalmente questa tipologia di tavoli è utilizzata in blocchi operatori di piccole dimensioni e/o con un numero di personale ridotto.

Tavolo operatorio mobile

– Tavoli operatori a piani trasferibili: tavoli operatori rimovibili dalla base – colonna operatoria – tramite un carrello di trasferimento dedicato. Normalmente questa tipologia di tavoli è utilizzata dove vengono ottimizzati i percorsi dalla zona sporca alla zona pulita, dove i flussi di lavoro sono elevati ed è richiesto l’abbattimento dei tempi morti tra gli interventi.

Tavolo operatorio a piani trasferibili: piano operatorio + colonna operatoria + carrello trasportatore


Capitolo 5 Colonna laparoscopica 4K 3D ICG Francesco Braconi, Biologo molecolare, Genetista Sistema combinato 4K UHD – 3D – ICG Le ditte produttrici sono sempre alla ricerca di nuove soluzioni che consentano di ottenere una visione laparoscopica paragonabile a quella della chirurgia a cielo aperto, realizzando sistemi di imaging capaci di offrire video HD grazie alle tecnologie più avanzate. Per rispondere alle richieste sempre più sofisticate del mondo della laparoscopia chirurgica, alcune aziende del settore offrono un sistema in grado di gestire sia il segnale 4K, per una visione del dettaglio senza pari nel settore, sia il segnale FullHD per la visione in fluorescenza del verde di indocianina, tecnica che sta diventando ormai un working standard in molte procedure laparoscopiche. Tecnologia 4K UHD Con la tecnologia 4K si vuole rendere la visione laparoscopica addirittura migliore di quella a cielo aperto, integrando funzionalità come l’UltraHD, una più ampia gamma di colori e una visualizzazione ingrandita. UltraHD: migliora la visibilità e consente di operare in modo più preciso e sicuro; Gamma di colori più ampia: una riproduzione di colori più ricca e mirata per ogni disciplina clinica; Visualizzazione ingrandita: migliore visibilità e operabilità grazie a uno schermo più grande e allo zoom elettronico; 4K Risoluzione quattro volte superiore rispetto al FullHD: informazioni quattro volte maggiori rispetto ai tradizionali sistemi di imaging FullHD.


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Un’immersione completa nel campo operatorio: dettagli quattro volte superiori rispetto al FullHD; un’immersione completa a brevissima distanza, distanza dimezzata rispetto ai sistemi HD.

Videoprocessore 4K UHD Il videoprocessore 4K UHD rappresenta un’importante rivoluzione nei sistemi per videoendoscopia multidisciplinare: supporta il formato 4K ULTRA HDTV, una visione ad altissima definizione, che consente una visione di risoluzione globale 4 volte superiore rispetto allo standard HDTV (2160x4096 linee anziché 1080x1920 linee). Il sistema 4K UHD supporta sia il formato 4K per lo standard TV consumer (ITU) (3840x2160), sia il formato 4K per lo standard cinematografico (DCI) (4096x2160). Wider color gamut: il nuovo processore 4K, in associazione con la telecamera, è in grado di distinguere una gamma colori molto più ampia rispetto alla precedente tecnologia FullHD, il che consente di riprodurre con maggiore precisione e fedeltà le sfumature dei rossi e di distinguere in maniera più fedele i contorni dei tessuti e la loro tipologia (grasso, nervi, vasi sanguigni). È possibile personalizzare la gamma colori a seconda delle discipline chirurgiche (laparoscopia, urologia, ginecologia, otorinolaringoiatria), per adeguarsi alle diverse necessità e peculiarità. È dotato del tool diagnostico per la diagnosi precoce dei tumori, attivo abbinando il processore al generatore di luce predisposto per tale indagine, che consente una visione dello strato sottomucoso con capacità di visualizzazione e di enfatizzazione dei vasi e della struttura dei tessuti, grazie alle caratteristiche di approfondimento della luce verde-blu nella struttura cellulare della parete. Alcuni processori hanno un’interfaccia estremamente intuitiva, costituita da un display di controllo touchscreen: tutti i comandi sono attivabili rapidamente, in maniera intuitiva e personalizzabile. Il display touchscreen permette l’accesso rapido ai diversi parametri da impostare (modi, colori, luminosità, enfatizzazione, NBI, etc.) consentendo regolazioni e cambiamenti di impostazioni durante la procedura chirurgica, senza dover


Colonna laparoscopica 4K 3D ICG

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guardare sul monitor i parametri da modificare e senza, così, disturbare il chirurgo durante la procedura chirurgica. La tastiera, quindi, non è più necessaria. Il sistema consente l’impostazione rapida di profili utente mediante i quali gli operatori possono preimpostare i parametri di immagine in base alle loro preferenze o ai tipi di interventi da effettuare. Il processore dispone inoltre delle seguenti funzioni: – Bilanciamento automatico del bianco; – Enfatizzazione delle immagini (enfatizzazione delle strutture e dei contorni): il livello di enhancement può essere selezionato su diversi livelli utilizzando il pulsante sul pannello frontale; – Controllo automatico del guadagno (AGC); – Regolazione del colore: regolazione del rosso, blu e chroma; – Regolazione del contrasto: il contrasto è impostabile sulle tre modalità “Normale” (immagine standard), “Alto” (oscura la parte scura e schiarisce la parte chiara, rispetto all’immagine standard) e “Basso” (schiarisce la parte scura e oscura la parte chiara, rispetto all’immagine standard); – Remotazione delle funzioni sui tasti programmabili della testa di telecamera e dell’endoscopio. È possibile avere la funzione Picture In Picture (Immagine nell’Immagine) che visualizza in sovrimpressione un’altra sorgente video oltre a quella endoscopica. È possibile cambiare le dimensioni dell’immagine visualizzate in sovrimpressione (grande-piccolo). Altre caratteristiche del nuovo videoprocessore sono le seguenti: – Zoom elettronico: permette fattori di ingrandimento di 1.0x, 1.2x, 1.4x, 1.6x, 1.8x e 2.0x, per un’immagine realmente magnificata senza perdere dettaglio, che rimane almeno doppio rispetto alla tecnologia FullHD; – Autoshutter: consente il controllo automatico dell’esposizione delle immagini e della relativa luminosità; – 3D Noise Reduction Improve Image: consente di diminuire il rumore sull’immagine, migliorandone la qualità; – Tecnologia Low Voltage Differential Signaling (LVDS): consente di trasmettere ai monitor immagini senza alcun tipo di disturbo in maniera molto più veloce e con un basso consumo; – Improved Automatic Exposure: la funzione di esposizione automatica, per l’ottimizzazione della luminosità dell’immagine, è stata migliorata e ora consente di operare sempre nelle condizioni ideali. La piattaforma 4K UHD dispone di una completa gamma di uscite video nelle modalità analogiche e digitali, sia ad alta definizione che compresse. Il processore 4K, quando connesso a endoscopi che consentono la rilevazione di immagini ad alta definizione (teste di telecamera UHD), rende disponibile automaticamente il segnale UHDTV alle apparecchiature (moni-


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tor, sistemi video) in grado di supportare tale standard. Sono comunque presenti vari standard di segnali video, digitali e analogici, per il collegamento a vari tipi di apparecchiature video. UHDTV

Formato: 4096 × 2160, 3840 ×2160 Uscita: SDI × 2

HDTV

Formato: 1920 × 1080 Uscita: 3G-SDI / HD-SDI

Testa di telecamera 4K UHD La testa di telecamera porta nel mondo dell’endoscopia la tecnologia 4K UltraHD: grazie ai nuovi sensori riproduce immagini fedeli secondo lo standard 4K fino a una risoluzione di 4096x2160 pixel effettivi. Immagini più nitide e rumore ridotto, grazie ai nuovi sensori che permettono di ottenere immagini migliori anche in condizioni di scarsa luminosità e senza rumore. Inoltre, grazie alla trasmissione in fibra ottica si ha una trasmissione ad altissima velocità 4K senza alcun ritardo. Le nuove teste di telecamera dispongono di innovative e uniche funzionalità di seguito elencate: – Funzione One Touch Autofocus: messa a fuoco automatica e istantanea con la pressione di un solo tasto, che consente di visualizzare tessuti/ strutture fin nei minimi dettagli. È possibile comunque anche la messa a fuoco manuale. Il design della nuova testa di telecamera è estremamente funzionale ed ergonomico: l’operatore può comodamente premere i tasti mediante l’utilizzo di una sola mano; – Zoom elettronico: con la pressione di un solo tasto l’immagine può essere zoommata fino a 2x senza perdere fuoco o definizione; ciò consente al chirurgo di osservare i dettagli e le strutture dei tessuti corporei, con elevata risoluzione anche in modalità zoom. Inoltre lo zoom elettronico consente di allontanare l’ottica dall’area senza perdere in definizione del dettaglio: in tal modo il campo operatorio è più sicuro e visibile, con minor conflitto tra gli strumenti manuali e assenza di nebbia e fumi; – Testa di telecamera piccola e compatta con peso e dimensioni ridotti: 20% più leggera e 30% più piccola delle precedenti generazioni (solo 280 g); – Innesto semplice e riprogettato per l’ottica: nuovo design per l’accoppiatore universale (compatibile con tutte le ottiche standard delle diverse marche);


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– Pulsanti per il controllo remoto delle funzioni della centralina; – Gamma di colori più ampia: 4K UHD genera una gamma di colori più ampia, adottando il formato 4K (BT2020), consentendo di riprodurre con maggiore precisione e fedeltà le sfumature dei rossi. Ciò significa che i colori sono più ricchi e mirati per ogni disciplina clinica. In tal modo si ottiene una migliore visualizzazione dei vasi sanguigni e delle lesioni e risulta più facile la distinzione tra i diversi tessuti (adipe, nervi, vasi, etc.).

– Formato immagine 16:9 In unione a 4K UHD è possibile scegliere il tipo di scansione, interlacciata o progressiva. È inoltre compatibile con la modalità visualizzazione e studio


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dei capillari che permette di incrementare la visione della vascolarizzazione delle strutture sulla superficie della mucosa e sottomucosa. La testa di telecamera è sterilizzabile a gas ossido di etilene, in Sterrad, Sterix V-Max Pro e Autoclave. Tecnologia 3D-ICG Videoprocessore 2D/3D/ICG Il processore in questione rappresenta un’evoluzione rispetto alle precedenti versioni in quanto è una piattaforma integrata con la possibilità di avere sia la visione 2D che la visione 3D, a seconda delle esigenze, a seconda dello strumento video a esso collegato. La piattaforma per videoendoscopia digitale multidisciplinare, con processazione dei segnali video in alta definizione Full HDTV 1080 linee, 3D, visualizzazione strato mucoso, IR (Infrarosso), è utilizzabile in abbinamento a strumentazione per endoscopia flessibile, toracica e chirurgica ed è dotato di una fonte di luce a LED con 4 colori (violetto, blu, verde e rosso) integrata. La caratteristiche fondamentali sono: – FullHD: visione ad alta definizione FullHDTV 1080 linee (1920x1080p) per strumenti con risoluzione nativa HDTV; – Visione dello strato sottomucoso, grazie alle caratteristiche di approfondimento della luce verde-blu nella struttura cellulare della parete; – IR: Sistema con filtro ottico a infrarossi, da usare in combinazione con la fonte luce a infrarossi per poter studiare la vascolarizzazione tramite iniezione di farmaco ICG (verde indocianina); – 3D: Il sistema è 3D nativo ed è compatibile con videolaparoscopi (10 mm 0° e 10 mm 30°) e con teste di telecamera e ottiche dedicate, che permettono la visione in 3D. Un’azienda ha come unicità un videolaparoscopio 3D, 10 mm 30°, con rotazione dell’ottica per tutti i 360°. Tutti i sistemi sono completamente plug and play e vengono automaticamente riconosciuti dal sistema. Sul frontalino può essere presente, in alcuni modelli, un touchscreen di controllo configurabile per diversi utenti/procedure con le impostazioni di base e la possibilità di configurare a piacere i tasti sul pannello touch con delle funzionalità desiderate. Il pannello touch dispone di pulsanti immediatamente visibili e selezionabili per effettuare il bilanciamento del bianco e il passaggio dalla visione 2D alla 3D e viceversa (funzioni remotabili sui pulsanti dell’endoscopio). Tramite il pannello touch è possibile inserire tutti i dati pazienti ed effettuare la gestione di tutte le funzioni della telecamera, pertanto per il principio di equivalenza funzionale la tastiera non risulta necessaria. Il processore dispone di numerose uscite video (2D: 2 x 3G-SDI 1 x DVI 1 x Y/C 1 x video composito; 3D o 2D a seconda dell’endoscopio collegato: 3 x 3G-SDI 1 x DVI), bilanciamento automatico del bianco, zoom elettronico (da


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1.0x a 1.5x), autoshutter, funzione ACG, enhancement su più livelli e regolazione automatica della luminosità. Anche in 3D è possibile passare a modalità di cromoendoscopia che permette l’evidenziazione dei capillari nello strato sottomucoso. Questo sistema ha già dimostrato in letteratura un’ottima capacità diagnostica in diversi campi chirurgici: in ginecologia per la diagnosi dell’endometriosi e dei tumori borderline dell’ovaio in fase iniziale, in otorinolaringoiatria nella diagnosi dei tumori orofaringei, in urologia per i tumori vescicali in situ e in gastroenterologia per i tumori dell’apparato digerente. Principio dell’effetto 3D Per generare l’effetto 3D, l’occhio destro e l’occhio sinistro devono vedere sul monitor due immagini differenti tra loro per l’angolazione di ripresa. È poi il cervello che, rielaborando l’immagine dell’occhio destro e quella dell’occhio sinistro, ricrea la percezione della profondità e quindi un’immagine tridimensionale. Acquisizione dell’immagine endoscopica Per acquisire l’immagine endoscopica in 3D esistono due differenti modalità: ottica a singolo canale e testa di telecamera a doppio sensore oppure sistemi a doppio canale ottico e doppio sensore. La prima modalità è composta in genere da un’ottica a singolo canale che termina con un prisma a effetto pupil split. L’immagine, cioè, attraversa il canale ottico e viene separata nell’estremità prossimale per essere così riprodotta sui due sensori con due angolazioni differenti. Il vantaggio è di poter avere ottiche con diametri inferiori e di più facile costruzione, ma lo svantaggio è una minore profondità dell’immagine 3D in quanto la differenza di angolazione di ripresa, tra sensore destro e sensore sinistro, è molto limitata. La seconda modalità prevede due canali ottici separati che portano le due immagini direttamente ai sensori. Il vantaggio è una maggiore differenza di angolazione tra i due punti di ripresa e quindi una maggiore percezione della profondità. Esistono due tecnologie differenti che implementano questa modalità. La prima è un sistema con ottica a doppio canale e testa di telecamera multisensore, che ha dimensioni e peso normalmente molto superiori rispetto alle normali teste di telecamera 2D: alcuni sistemi infatti propongono un braccio meccanico per il sostegno della telecamera. La seconda tecnologia, invece, è un sistema che prevede il posizionamento dei due sensori direttamente sulla punta dello strumento ottico. Il vantaggio è un prodotto compatto, leggero, robusto che non necessità di messa a fuoco (in quanto possiede un’elevata profondità di campo). L’immagine, inoltre, non perde di luminosità come invece succede quando attraversa tutte le lenti di un’ottica tradizionale.


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Trasmissione dell’immagine endoscopica Una volta che l’immagine è acquisita dai sensori e rielaborata dal sistema, essa deve essere trasmessa al monitor. Ovviamente devono arrivare entrambe le sequenze temporali di immagini, frame, acquisite dai due sensori, destro “R” e sinistro “L”, alla frequenza di 50 Hz. Esistono diverse tecnologie per trasmettere il segnale in uscita: la prima è di compattare il frame di destra e il frame di sinistra in un unico frame di risoluzione HD (Side by Side/Top and Bottom/Line by Line) e trasmettere la nuova sequenza al monitor. Il vantaggio di questo sistema è di poter usare la stessa tecnologia di trasmissione usata per un segnale 2D FullHD, ma lo svantaggio è che, quando viene ricomposta sul monitor, la risoluzione dell’immagine 3D è inferiore all’HD; raddoppiando la banda di trasmissione, invece, è possibile mantenere la risoluzione FullHD anche nell’immagine 3D. Le tre diverse tecniche implementate sono: Frame Packing (creare una sequenza di frame con risoluzione doppia di quella HD in modo da contenere nello stesso frame quello destro e quello sinistro non compattati), Sequential Trasmission (raddoppiare la frequenza della trasmissione dei frame e inviare il frame di sinistra successivamente a quello di destra), Independent Stream che invia le due sequenze di frame in HD contemporaneamente grazie alla tecnologia 3G-SDI che utilizza la tecnica di multiplazione). Visualizzazione dell’immagine endoscopica Una volta che il segnale arriva al monitor, quest’ultimo ha il compito di rielaborarlo e far vedere in maniera sincrona all’occhio di sinistra la sequenza di frame del sensore di sinistra e all’occhio di destra la sequenza di frame del sensore di destra. Per impedire a un occhio di vedere la sequenza di quello opposto il soggetto deve indossare degli occhiali che “filtrino” la sequenza corretta. Esistono in commercio due diverse tecnologie: monitor con occhiale attivo e monitor con occhiale passivo. Nel sistema con occhiale attivo le lenti vengono oscurate in maniera alternata e sincrona con le immagini del monitor (comunicazione via wireless). Lo svantaggio di questo sistema è la necessità di avere occhiali alimentati a batteria che li rendono pesanti e costosi, oltre a introdurre degli sfarfallii e costringere il personale di sala a vedere sempre sullo stesso monitor, quello sincronizzato con gli occhiali indossati. Nel sistema con occhiali passivi le due lenti sono invece semplici filtri polarizzati differentemente tra loro. Nel monitor vengono visualizzate le due sequenze di frame attraverso altri filtri polarizzati e in questo modo a ogni occhio arriva la sequenza di frame corretta. L’occhiale risulta leggero, economico e l’osservatore può guardare con gli stessi occhiali qualsiasi monitor a tecnologia passiva presente in sala.


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Immagini paritetiche con confronto tra le due modalità di visione in Infrarosso

Immagini di ginecologia per lo studio del linfonodo sentinella

Immagini di chirurgia generale nella colecistectomia

Immagini di chirurgia generale nella linfoadenectomia.


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Immagini di chirurgia generale nel controllo della perfusione dell’anastomosi

Fonte di luce integrata La fonte di luce integrata produce una brillantezza paragonabile a una 300W a Xenon, in quanto sono stati inseriti 4 LED separati che consentono di ottenere un’immagine brillante e vivida. I LED hanno una caratteristica di picco di emissione pari a: per il violetto 415 nm (6900K), per il blu 460 nm (6200K), per il verde 550 nm (5270K), per il rosso 630 nm (4600K), con una durata del singolo LED di circa 10.000 ore, pari a una vita utile di 10 anni con un utilizzo medio di 6 ore su 200 giorni lavorativi. Pertanto la durata dei LED è più che sufficiente per utilizzare l’apparecchiatura senza dover mai cambiare un componente. Fonte di luce La fonte di luce offerta, con lampada Xenon da 300W, è caratterizzata da una lampada di emergenza che si attiva in maniera automatica in caso di guasto della lampada principale, che comunque garantisce una vita media di almeno 500 ore (massima sicurezza per l’operatore). La temperatura colore è di 5600K e 6000K ed è possibile mettere in standby la luce e, in caso di sostituzione lampada (sportello aperto) si interrompe in automatico l’alimentazione. La regolazione della luminosità avviene in maniera automatica e l’innesco è istantaneo. I LED posti sul frontalino indicano la durata della vita della lampada e la luminosità può essere impostata in 17 step diversi.


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Il device è dotato di un sistema di raffreddamento della lampada a ventilazione forzata e a bassa emissione di rumore. Il sistema di visione a infrarosso utilizzabile in combinazione con il verde indocianina è utile per la visualizzazione della vascolarizzazione, dei dotti biliari e dei vasi linfatici/linfonodi. Testa di telecamera ad alta definizione La telecamera, grazie al suo design, permette di controllare lo zoom ottico e la messa a fuoco, con le ghiere manuali poste vicino al coupler. La telecamera dispone delle seguenti caratteristiche: – Risoluzione FullHD 1920x1080; – Zoom ottico (risoluzione FullHD) 2x (da 0.9x a 1.8x), parafocale comandabile manualmente da una ghiera a rotella posta vicino al coupler della camera; – Connessione eye-piece, che consente il collegamento e l’intercambiabilità, anche intraoperatoria, con tutti i sistemi ottici dotati di oculare standard; – È costruita con materiali che non scaldano lo strumento anche dopo lunghe ore di intervento; – Possiede differenti tasti programmabili per poter remotare tutte le funzioni della centralina video e delle periferiche, tra cui per esempio fonte luminosa, processore video, modalità di visualizzazione tonalità colore e contrasto, registrazione digitale; – Compatibilità con tutte le modalità di visione e i sistemi di enhancement dell’immagine messi a disposizione dalla centralina: enfatizzazione della struttura vascolare della mucosa, analisi della vascolarizzazione dei tessuti tramite tecnica ICG. Insufflatore con preriscaldatore L’insufflatore elettronico ad alto flusso viene utilizzato per dilatare la cavità addominale con la CO2 durante interventi chirurgici con tecnica laparoscopica. In base alle dimensioni della cavità, si possono selezionare due modalità, “standard” e “small”, che vanno a modificare i valori massimi impostabili sulla macchina per garantire maggiori livelli di sicurezza, in caso di cavità addominali piccole. La pressione all’interno della cavità può essere impostata su un intervallo compreso tra 3 e 25 mmHg, o massimo 15 mmHg nella modalità di cavità small. La portata di CO2 può essere impostata nell’intervallo compreso tra 0.1 e 45 l/min (o massimo 10 l/min nella modalità di cavità small). Con un solo comando one-touch, inoltre, è possibile selezionare tre modalità di portata programmabili, High, Medium e Low, per permettere di passare rapidamente da un flusso basso a un flusso alto.


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La pressione è da considerarsi a tutti gli effetti equivalente a quella richiesta di 50 l/min in quanto all’interno di un range di tolleranza (±10%). Inoltre è da considerarsi come in un trocar dal diametro di 10mm non riesca a transitare più di 20 l/min e avere una portata maggiore prima dell’ingresso al trocar potrebbe addirittura creare delle turbolenze d’aria che ostacolano la ripresa rapida del pneumoperitoneo. La pressione e il flusso preimpostati, nonché i valori effettivi, sono visualizzati in tempo reale sul pannello frontale mediante indicatori a LED e grafici a barre luminose. Un ulteriore display monitorizza la quantità di CO2 erogata, mentre è segnalata la pressione all’interno della bombola di CO2, e quindi la quantità di gas contenuta. Caratteristiche principali: – Il display fornisce una visualizzazione chiara e immediata di pressione, flusso e volume in tempo reale; – Evacuazione del fumo regolabile tramite pedaliera o altri sistemi automatici: per ridurre la CO2 usata durante la chirurgia, l’insufflatore permette di regolare l’evacuazione del fumo all’interno dell’addome, generato dall’elettrocoagulazione o dall’uso di un bisturi ad ultrasuoni, mantenendo sempre costante la pressione grazie alla rilevazione automatica delle perdite. Si possono selezionare tre differenti modalità Off, Low e High. La differenza tra le ultime due è nella portata di compensazione insufflata durante l’aspirazione, che è rispettivamente di 5 l/min e 10 l/min. Questa funzione sarà attivabile tramite pedale o tramite collegamento con i generatori, ove questa funzione sia abilitata. – Modalità di scarico: un’altra funzione fondamentale per la sicurezza del paziente è la “modalità di scarico” che, nel caso in cui la pressione della cavità superi il valore impostato di 5 mmHg o più, apre i canali all’interno dello strumento e rilascia il gas interno finché la pressione della cavità non scende sotto il valore impostato. Questa modalità può essere impostata su On o su Off. Nel sistema può essere presente un preriscaldatore per il riscaldamento del gas di insufflazione, fino a temperatura corporea, da usare congiuntamente all’insufflatore durante interventi laparoscopici. Carrello portastrumenti Il carrello di serie è composto da una struttura portante, montata su 4 ruote antistatiche piroettanti antiribaltamento, 2 delle quali dotate di freno. Inoltre sono compresi nella dotazione: – 4 ripiani porta strumenti, di cui quelli intermedi ad altezza regolabile, più un ripiano scorrevole porta tastiera: per un totale di 5 ripiani; – Un braccio snodato a due perni: questo consente di poter posizionare il carrello in modalità disassata rispetto al monitor e quindi aumenta l’ergonomia di sala operatoria perché non vincola il posizionamento del carrel-


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lo che potrebbe collidere con il letto del paziente o con la strumentazione dell’anestesista; – Un’asta porta flebo; – Un porta bombola CO2; – 2 maniglie di movimentazione; – Cassetto con chiave; – Trasformatore di isolamento da 1900VA con 12 prese elettriche IEC. Il carrello prevede delle canaline differenziate per poter separare i segnali video dai segnali di corrente, al fine di minimizzare le interferenze sui segnali e poter organizzare correttamente anche lavori di manutenzione futuri. L’ergonomia dell’utilizzatore è alla base della concezione del carrello: la possibilità di avere un braccio porta monitor con un doppio snodo che consente di muovere il monitor consente il posizionamento del carrello disassato rispetto alla posizione del monitor stesso. Questo risulta in una facilità di gestione della sala operatoria e minore interferenza con altre apparecchiature/tavolo operatorio. Monitor 31” e 55” 3D 4K Questi monitor medicali LCD widescreen da 31” e 55” sono in grado di visualizzare immagini video a colori 4K Ultra HD ad altissima qualità in 3D e 2D da telecamere endoscopiche e laparoscopiche, microscopi chirurgici e altri sistemi di imaging medicale compatibili. Il design ergonomico è ottimizzato per ambienti quali sale operatorie di ospedali pubblici e privati, ambulatori e studi medici. Grazie a un numero di pixel quadruplo rispetto al FullHD, il modelli offrono una visione più nitida dei piccoli dettagli rispetto ai monitor medicali tradizionali. La maggiore risoluzione consente di conservare la qualità delle immagini anche utilizzando lo zoom, mentre il supporto di varie modalità di visualizzazione offre un funzionamento ottimizzato in sala operatoria. La tecnologia OptiContrast Panel™ assicura immagini chiare e a contrasto elevato, grazie al controllo del riflesso e della dispersione della luce all’interno del pannello LCD. Il design avanzato del pannello agisce in sinergia con l’elaborazione del segnale digitale (DSR) di Sony per offrire una gamma di colori più ampia rispetto ai monitor medicali LCD. È possibile utilizzare la tecnologia 3D Advanced Image Multiple Enhancer (A.I.M.E.™) per accentuare le sottili differenze cromatiche o evidenziare i margini degli oggetti visualizzati. Il monitor presenta un design sottile ed elegante che ne consente un pratico maneggiamento, oltre a una cornice ridotta grazie alla quale l’area dello schermo risulta più ampia nonostante le dimensioni compatte. Le superfici piatte agevolano la disinfezione negli ambienti clinici moderni. La semplicità di installazione e configurazione è completata da un pannello di controllo con navigazione illuminata a LED semplice che garantisce un funzionamento intuitivo ed efficace in sala operatoria.


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Il monitor viene fornito con uno starter kit di protezione per gli occhi 3D leggero e facile da indossare. Ulteriori protezioni per gli occhi sono disponibili come opzione. Caratteristiche principali: – Risoluzione 4K UltraHD: il monitor 31” è in grado di visualizzare immagini Full 4K Ultra HD (4096x2160), ovvero una definizione 4 volte superiore rispetto al Full HD, mentre il monitor 55” una risoluzione massima pari a 3840x2160; – Pannello OptiContrast™ antiriflesso ad elevata luminosità: il pannello OptiContrast™ presenta un design avanzato in grado di regolare i riflessi della luce incidente e la dispersione sullo strato del pannello LCD, per un contrasto e una visibilità ottimizzati. Inoltre, contribuisce a impedire la formazione di condensa nel pannello; – Funzionalità 3D: la modalità 3D/2D può essere impostata dal menu sul display e verificata da una spia sullo schermo. Una funzione di corrispondenza di colore 3D/2D riduce al minimo gli spostamenti nei colori durante la visualizzazione di immagini in 3D (con gli occhiali) o 2D (senza occhiali). La profondità e la parallasse possono essere regolate da una funzione di simulazione della disparità; – Gamma cromatica più ampia: il design avanzato del pannello e l’elaborazione del segnale Sony producono una gamma di colori più ampia: addirittura del 42% rispetto allo spazio colore BT.709; – Upscaling HD/SD a 4K: l’interpolazione delle immagini e l’upscaling esclusivi di Sony assicurano immagini 4K nitide e naturali dei contenuti a risoluzione inferiore (HD/SD) senza sfocature o effetto “scalette”; – 3D Advanced Image Multiple Enhancer (A.I.M.E.™): questa esclusiva tecnologia è stata sviluppata per ottimizzare la visibilità delle forme e dei colori visualizzati. La modalità Structure Enhancement accentua i contorni degli oggetti su schermo, mentre la modalità Color Enhancement consente di definirne in maniera più chiara le sottili differenze di tonalità; – Funzione zoom: lo zoom dell’immagine può essere regolato di 1x, 1.2x, 1.5x o 2x, per una visualizzazione ingrandita dei piccoli dettagli senza perdere la risoluzione dell’immagine. Lo zoom può essere impostato separatamente per ciascun ingresso (SDI/HDMI/DVI); – Design ergonomico anti-scivolo: il design sottile, compatto e pratico da maneggiare, agevola la regolazione della posizione da parte dell’utente; – Cornice più piccola, schermo più grande: la sottile cornice massimizza le dimensioni dello schermo di questo monitor compatto e salvaspazio; – Pannello di controllo facile da usare: il funzionamento è agevole, grazie al pannello di controllo semplice e intuitivo del monitor. La retroilluminazione a LED evidenzia soltanto i pulsanti attivi, guidando l’utente e riducendo il rischio di operazioni inconsulte, specialmente in ambienti bui. È possibile personalizzare l’assegnazione dei pulsanti alle funzioni di utilizzo frequente;


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– Design che agevola la pulizia: le superfici piatte agevolano la rimozione di liquidi e gel dal pannello LCD e dai pulsanti, per una pulizia e una disinfezione più efficaci; – Ampia scelta di formati di visualizzazione: è possibile selezionare numerosi formati dal menu in maniera pratica e veloce, inclusi Immagine ruotata, Affiancata, Picture In Picture (PIP) e Picture Out Picture (POP). Le opzioni di visualizzazione multi-immagine PIP/POP 3D comprendono due schermate con immagine principale 3D/2D e immagine secondaria 2D, oppure tre schermate con tre immagini 2D. Le immagini 3D possono anche essere ruotate di 180 gradi, Image Flip; – Cablaggio semplice: tutti i connettori di segnale sono rivolti verso il basso, per un’agevole organizzazione della connessione via cavo ad altra apparecchiatura in sala operatoria; – Conformità con gli standard medicali: il monitor è certificato IEC 606011 e soddisfa gli standard applicabili nei relativi paesi o in regioni economiche quali Canada, Europa e Stati Uniti.

Registratore FullHD con modulo 4K Un video registratore medicale ha di solito funzionalità complete per la gestione del workflow paziente. Il semplice touchscreen integrato è progettato per le moderne sale operatorie e per i moderni centri di chirurgia. Il videoregistratore ha la registrazione multi-input in una risoluzione FullHD 1080p60. La sua capacità multi-storage, unita alle funzionalità di gestione dei dati assicurano un livello elevato di protezione.


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Caratteristiche principali di alcuni videoregistratori presenti sul mercato: – Full Network Connectivity: usa Gigabit Ethernet o Wi-Fi per archiviare o trasmettere video sulla rete. Il Bluetooth consente una facile compatibilità con dispositivi audio o interruttori a pedale; – Registrazione multi-input: registratore a due canali che consente di registrare in parallelo o Picture In Picture; – Multi-Storage/DLM: le registrazioni possono essere salvate simultaneamente in due storage diversi; – Registrazione ottimizzata: registra in H264 o anche in H265 (HEVC) per registrazioni di qualità ottimizzate. È inoltre possibile impostare diverse risoluzioni di registrazione in base alla memoria del supporto; – App Modifica e Stampa: è possibile selezionare/eliminare/ritagliare e aggiungere annotazioni e, infine, archiviare e stampare con le modifiche fatte; – IT Remote App: è possibile accedere al dispositivo dalla rete dell’ospedale per manutenzione, configurazione o aggiornamenti. – Creazione e stampa di referti: le immagini statiche di uno studio selezionato possono essere salvate come referto in PDF. Il referto può anche essere stampato con una stampante. Videolaparoscopi 3D 0°/30° Alcune aziende propongono videolaparoscopi, ottiche integrate che offrono la migliore qualità di immagine, con una superba risoluzione, una riproduzione naturale dei colori, un’illuminazione superiore e il massimo contrasto. L’immagine viene rilevata, trasmessa ed elaborata direttamente, senza alcuna interfaccia. Il video chip distale sostituisce il sistema di lenti usato nelle ottiche convenzionali che, come è noto, similmente a qualsiasi interfaccia ottica, riduce la qualità nella riproduzione del colore e la nitidezza dell’immagine. Sulla punta dello strumento sono presenti 2 dispositivi ad accoppiamento di carica (CCD), posti sullo stesso piano, che osservano il medesimo oggetto inquadrato da due angolazioni differenti, in modo da ottenere le due immagini per l’effetto 3D. Alcune caratteristiche: – Focus Free: l’elevata profondità di campo consente di avere un’immagine sempre perfettamente a fuoco dal centro alle zone marginali, senza la necessità di mettere continuamente a fuoco durante la procedura; – Fog Free: l’estremità distale del videolaparoscopio viene mantenuta a una temperatura costante leggermente superiore a quella corporea; in tal modo si evita l’appannamento della lente sia durante il primo inserimento in addome, sia durante tutto l’intervento. – FullHD: risoluzione FullHD 1920x1080i/p.


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Ottiche laparoscopiche UltraHD, diametro 5mm e 10mm, 30° e 0°, ICG compatibile

Le ottiche laparoscopiche compatibili con tecnologia 4K e ICG, con diametro 5 e 10mm e angolo di visione 0° e 30° rispettivamente e attacco standard per tutte le teste di telecamera delle principali marche, sono da considerarsi a tutti gli effetti delle ottiche a Ultra Definizione. Sono inoltre dotate di filtro ottico dedicato alla visualizzazione in fluorescenza del verde di indocianina (ICG). Tali ottiche elevano il contrasto e la riproduzione del colore, ottenendo una qualità di immagine notevole. Rispetto alle normali ottiche, sono caratterizzate da lenti asferiche che assicurano immagini prive di distorsioni. Utilizzano inoltre la tecnologia dell’ED-Glass per trasmettere le immagini alla testa della telecamera dove il sensore trasduce l’immagine analogica in digitale. Caratteristiche principali: – Lenti in vetro ED: con la nuova tecnologia ED-Glass le immagini risultano estremamente definite, poiché si ha una miglior correzione delle aberrazioni ottiche. In tal modo si ottiene una risoluzione globale più alta;

– Massimo campo visivo di un’ottica in commercio (88°): campo visivo più grande del 20% rispetto alle tradizionali ottiche HD; – Completa autoclavabilità: riduzione degli sprechi grazie alla completa riutilizzabilità delle ottiche;


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– Immagini prive di distorsioni: immagini nitide, anche in corrispondenza dei bordi. Nessun effetto vignettatura o effetto a barilotto;

– Buona illuminazione anche sui bordi: le ottiche UltraHD garantiscono una distribuzione uniforme della luce nella regione periferica; – Visione in modalità infrarosso: le ottiche ICG sono progettate per filtrare i riflessi della luce di stimolo a infrarosso e per essere utilizzate con tale modalità.


Capitolo 6 Lo strumentario chirurgico Raffaele Macarone Palmieri*, Marco Usardi**, Edoardo Virgilio*** *già Direttore UOC Chirurgia Oncologica **Product Manager ***Assegnista di ricerca in Chirurgia Generale, Dipartimento di Scienze Medico-Chirurgiche e Medicina Traslazionale, Facoltà di Medicina e Psicologia, Università Sapienza di Roma Una breve storia recente La professionalizzazione ‘moderna’ del mestiere artigianale del chirurgo nasce nel Medioevo con la tradizione orale che diventa scritta, la teoria e la pratica medico-chirurgica che tendono a separarsi. Verso l’anno Mille l’attività medico-chirurgica è svolta principalmente da religiosi, i monaci benedettini in particolare, e da collettivi di arte medica come ad esempio i mitici quattro fondatori della Scuola Medica Salernitana – un ebreo, un arabo, un greco e un latino – che ebbe, soprattutto nel XII e XIII secolo, il suo massimo fulgore, prima della decadenza a partire dall’inizio del XIV. Nel 1163, nel Concilio di Tours, viene chiaramente affermato che Ecclesia abhorret a sanguine e così i medici dell’epoca, il più spesso uomini di Chiesa, non poterono più praticare la chirurgia, pertanto relegata per secoli a un rango inferiore rispetto alla Medicina. Di più, nel 1215 il Concilio Lateranense IV interdice esplicitamente ai preti la Chirurgia nella Constitutio XVIII: De iudicio sanguinis et duelli clericis interdicto. “… nec illam chirurgiæ artem subdiaconus diaconus vel sacerdos exerceant quæ ad ustionem vel incisionem inducit…” Federico II di Svevia, nel 1231, porta a 5 anni lo studio della Medicina nell’Università da lui fondata a Napoli nel 1224 e, lungimiranza sua, vi include anche lo studio della Chirurgia. Finalmente, nel 1268, la professione del ‘chirurgo’ comincia a caratterizzarsi e a differenziarsi grazie a Jean Pitard il quale viene nominato primo ‘chirurgicus/cerusicus’ di Luigi IX di Francia, Saint-Louis; il Re Santo fonda anche la Confrérie de Saint-Côme et Saint-Damien che distingue i chirurghi “en robe longue” che portavano l’abito lungo per dimostrare che avevano studiato ed erano ‘certificati’ da un esame fatto da Pari che se ne assumevano il diritto e la responsabiltà e i chirurghi “en robe courte” i quali, insieme ai barbieri, non erano ‘certificati’; la conoscenza del latino era imperativa nell’art. 30 e ogni primo lunedi di ogni mese dovevano visitare gratuitamente chi si fosse presentato nella Chiesa di San Cosma. Nel 1270, a Venezia venne creata la Corporazione dei Barbieri con 8 caratterizzazioni


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professionali progressive, gli 8 Colonnelli. Successivamente a Montpellier veniva emanato un decreto che sanciva l’attività di barbator et sanguinator. Sono lunghi anni di conflittualità tra medici accademici, confraternite di chirurghi e consorterie di barbieri, che a Parigi assumono le caratteristiche della triangolarità; a Londra, invece, il conflitto è binario tra medici e chirurghi ‘certificati’ da un lato e barbieri-chirurghi e barbieri dall’altro: nel 1368 viene costituita in Inghilterra la Guild of Surgeons Within the City of London e nel 1376 viene creata e adottata una Carta di Comunità dei Barbieri. Nel 1541 Enrico VIII, proprio lui, fonda la Company of Barber-Surgeons di Londra dall’unione della Worshipful Company of Barbers e la Guild of Surgeons (1); i primi praticavano la piccola chirurgia mentre i chirurghi, più eruditi e ‘certificati’, effettuavano procedure più impegnative come amputazioni e interventi soprattutto in corso di eventi bellici. Ambroise Paré, chirurgo dell’Hôtel-Dieu di Parigi e del Re Enrico II e di altri tre Re che gli succedettero, pur osteggiato dai Professori dell’École de Médecine, viene nominato nel 1554 Maître Chirurgien della Confraternita dei Santi Cosma e Damiano. Jean-Louis Petit, allievo di Littré, ottiene nel 1700 la sua Maîtrise en Chirurgie, diventa finalmente membro dell’Académie Royale des Sciences nel 1715 e viene nominato Direttore della neo-istituita Académie Royale de Chirurgie, nel 1731, da Luigi XV; nel 1743 con decreto reale, avviene a Parigi la dissociazione tra Barbieri e Chirurghi. Il tutto grazie al successo di un intervento di Petit sul Re per una invalidante e refrattaria fistola perianale che i Medici Accademici non riuscivano a guarire. Due anni più tardi, nel 1745, Re Giorgio II a Londra emula il Borbone: i Chirurghi vengono separati dai Barbieri e costituiscono la Company of Surgeons che nel 1800 diventa il Royal College of Surgeons. Così sono nati i Chirurghi dei Lumi, è risultata chiara con drammatica evidenza, soprattutto durante le guerre Napoleoniche e durante tutti gli eventi bellici successivi, l’importanza di questa nuova professionalità che coniuga la Theoria alla Praxis; come non ricordare Dominique Jean Larrey, il Chirurgo dell’Imperatore, Chirurgien-en-Chef de la Grande Armée, il quale nella battaglia alle porte di Mosca effettuò per ininterrotte 24 ore oltre 200 amputazioni di arti con una durata media di 1 minuto ciascuna e con una mortalità perioperatoria straordinariamente bassa per il tempo: del 30%! Fu inventore anche del Triage e delle Ambulances Volantes. Questa è la bellissima e affascinante storia recente della nostra professione che si è guadagnata sul campo, nonostante i numerosi ostacoli che sono stati frapposti da molti, la dignità che merita. Rimangono dei ricordi di questa Storia, soprattutto nel mondo Anglo-Sassone: nel Regno Unito, dove i Medici Internisti vengono chiamati Doctor mentre i Chirurghi talora, e a me è successo in sala operatoria a Guildford, solo Sir e negli Stati Uniti resistono al di fuori dei Barbershop, soprattutto quelli più di tendenza, i Barber’s Pole vale a dire quelle insegne con strisce elicoidali in continuo movimento: rosse, bianche e blu che, secondo le più accreditate spiegazioni, stanno a indicare il rosso, il sangue


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arterioso, e il blu, il sangue venoso, che poteva scorrere in quei locali per salassi o pratiche invasive di altro genere, mentre il bianco i bendaggi. Per quanto riguarda lo strumentario chirurgico nella storia occidentale della Chirurgia a noi più vicina, a seguito degli scavi archeologici nella nostra Penisola, ci sono giunti numerosi strumenti chirurgici dell’antichità romana. dell’epoca pre- e para-Galenica, prevalentemente da due Domus, le più importanti: la Casa del Chirurgo di Pompei, datata tra il IV secolo a.C. e il 79 d.C. e la Casa del Chirurgo di Rimini, datata al II secolo d.C. La Casa del Chirurgo di Pompei (bottega II 1, 1.13, nota come “Caupona di Hermes”) è una casa di epoca romana sepolta durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e ritrovata a seguito degli scavi archeologici dell’antica Pompei. Si tratta di una delle abitazioni più antiche della città e deve il suo nome proprio al ritrovamento, al suo interno, di circa 40 attrezzi chirurgici, sia in ferro sia in bronzo, come sonde, cateteri, forcipi, pinze e bisturi, conservati allo splendido Museo Archeologico Nazionale di Napoli. La Domus del Chirurgo di Rimini, del II secolo d.C., scoperta a fine anni Ottanta e inaugurata il 7 dicembre 2007, racchiude al suo interno strutture, mosaici, intonaci, arredi e suppellettili ma soprattutto un eccezionale corredo chirurgico visibile al Museo Civico, costituito da circa 150 strumenti, pinze, bisturi, scalpelli, bilance e misurini in bronzo e in ferro, tra cui il famoso ‘Cucchiaio di Diocle’ che Eutyches, il chirurgo, utilizzava per estrarre le punte di freccia dalla carne; questo strumentario merita una visita. Lo strumentario chirurgico di oggi La storia ha tracciato il sentiero, ora vediamo come la chirurgia dell’ultimo secolo e mezzo ha affrontato continui e radicali mutamenti. Quali sono le innovazioni produttive, nello sviluppo degli strumenti chirurgici, che la ricerca e l’evoluzione delle conoscenze mediche e tecnologiche ci hanno messo progressivamente a disposizione? La massima priorità, in tema di dispositivi medici, è la qualità, che va ricercata anche al di là dei requisiti di legge, nelle varie fasi di progettazione, sviluppo, produzione, adattamento alla funzione con strumenti ‘fatti a regola d’arte’, finitura, ispezione finale e marcatura. Il successo di qualsiasi procedura chirurgica deriva dalla precisione e dalla continuità del suo atto, ma anche dalla perfezione dello strumentario chirurgico utilizzato. Negli ultimi anni sono state emanate delle apposite norme (International Organization for Standardization, ISO; Comité Européen de Normalisation, CEN; norme elaborate dal CEN, EN; Ente Nazionale Italiano di Unificazione, UNI; Deutsches Institut fur Normung, DIN) atte a definire e controllare i materiali chirurgici in commercio. La scienza dei materiali per la realizzazione di uno strumento chirurgico è passata dalla pietra, al rame, al bronzo, al ferro, all’acciaio cromato e infine


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all’acciaio inossidabile ad alta lega. La lega è una miscela tra 2 o più metalli con non-metalli che si mischiano e si solidificano in una unica fusione. Elementi di lega sono: il Carbonio, che determina la durezza e rigidità alla lega, deve esser presente nello 0.3 – 0.4 %; il Cromo, che contrasta e riduce la corrosione, migliora la durezza, la tempra e la resistenza alla trazione, in almeno il 10.5% ma che le Aziende di qualità, utilizzano nel 13% e più; il Molibdeno, che aumenta la durezza e la stabilità alla corrosione e anche la malleabilità, nello 0.4 – 0.6%; il Vanadio, che contribuisce alla resistenza all’usura e al calore, aumenta la malleabilità, nello 0.1% circa. La bonifica è un trattamento fondamentale di calore che rende lo strumento duro e resistente all’usura: nella fase di tempra, l’acciaio viene infornato a circa 1050 °C e raffreddato bruscamente di solito con olio, ma anche con acqua o aria; subito dopo la tempra, si procede alla fase di rinvenimento, dove l’acciaio viene riscaldato tra 250 e 350 °C per molte ore. L’esecuzione di queste due fasi ne programmano la durezza, l’elasticità e la robustezza necessarie all’uso. Lo strato passivo di Ossido di Cromo, che si forma durante la fase finale di produzione, attraverso la passivazione per la combinazione tra Cromo e Ossigeno dell’aria, ha uno spessore di circa 1 micron ed è molto resistente, rendendo così l’acciaio inossidabile e refrattario agli agenti corrosivi, tra cui l’apparente e innocuo NaCl che determina quei puntini neri che talora osserviamo sui nostri ferri o addirittura danni irreparabili, con profonde ed estese perforazioni. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, lo strato passivo che ricopre lo strumento continua a crescere con il tempo, quindi quanto più a lungo si utilizzano gli strumenti, tanto più spesso diventa lo strato passivo e minore il rischio di corrosione: pertanto se uno strumento nuovo di alta qualità presenta segni di corrosione, non osservabili in strumenti più vecchi, dobbiamo domandarci se, nel ciclo di utilizzo, vi siano stati momenti di errore di ritrattamento o stazionamento in soluzioni con Cloruri. Residui, colorazioni, macchie e pellicole di ruggine non costituiscono di per sé segni di danno allo strumento e possono essere di solito eliminati. I danni allo strumentario sono determinati dalla corrosione – che si differenzia in 5 tipologie: corrosione profonda/perforante, tenso-corrosione, da contatto, da sfregamento, superficiale o ruggine secondaria – e si realizza con una perdita di funzionalità o la rottura. Quest’ultima può avvenire anche per altre cause, insite nel materiale e nella lavorazione oppure per forze esterne lievi ma costanti o importanti seppur temporalmente limitate, che di regola indicano un uso non corretto dello strumento. Uno strumento di qualità ha un costo maggiore rispetto a quelli ordinari, quindi, optando per prodotti di prima scelta, di Aziende storicamente di qualità e avvalendosi di una manutenzione, programmata e tempestiva in caso di anomalie riscontrate, effettuata esclusivamente presso Aziende competenti, certificate e autorizzate, il risparmio è garantito. Ho il ricordo di ferri a basso costo prodotti in Paesi asiatici in via, ormai avanzata, di svi-


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luppo, utilizzati durante missioni umanitarie fatte in ospedali di chirurgia di guerra con ICRC o in programmi di assistenza sanitaria con UNICEF, che a volte si rompevano durante l’uso, pur non essendo “vecchi” né apparentemente usurati. Infine, prima della sterilizzazione, che voglio ricordarlo non vuol dire aver raggiunto la assoluta assenza di funghi, batteri e virus ma l’abbattimento della carica batterica al di sotto di 1/10-6, è necessario controllare gli strumenti; voglio ricordare che la detersione/disinfezione e il lavaggio meccanico o manuale, in una parola la pulizia, demandata agli OSS o ai Colleghi Infermieri, costituisce il primo passo della sterilizzazione. Un dettaglio fondamentale di questa fase è la lubrificazione delle parti in attrito per movimento di forbici, pinze, divaricatori, portaaghi e altro, che, se ben lubrificate, porteranno a una durata, funzionalità e maneggevolezza dello strumento a lungo nel tempo. Per il seguito, le Centrali di Sterilizzazione sono fornite di appropriate Guide elaborate da qualificati gruppi di lavoro, aggiornate e condivise, fornite dalle Ditte produttrici di strumentario chirurgico su come eseguire correttamente il trattamento degli strumenti. Nella chirurgia d’elezione, in quella d’urgenza nonché in quella ambulatoriale, l’operatore deve poter contare sulla massima funzionalità e affidabilità della complessa macchina “operatoria”. Al tradizionale strumentario chirurgico, che comprende bisturi, pinze e portaaghi, va sempre e inderogabilmente richiesta la stessa funzionalità e affidabilità delle apparecchiature tecnico-scientifiche più moderne; solo il perfetto equilibrio tra questi fattori è in grado di contribuire attivamente al miglioramento delle performance operatorie. Lo strumentario chirurgico di più frequente uso Comprende, volendo riassumere e per una questione di brevità: bisturi, forbici, pinze, pinze emostatiche, pinze porta-tamponi e per medicazioni, divaricatori, sonde e spatole, cannule e tubi di aspirazione, portaaghi, strumenti per chirurgia toracica e vascolare, per chirurgia gastro-entero-colo-rettale, per chirurgia epato-bilio-pancreatica e per chirurgia urologica e ginecologica (2–4). Verrà indicato per ogni ferro: il nome e l’eventuale eponimico, le indicazioni standard, le dimensioni, l’estremità funzionale. Chiamare con certezza del suo nome un ferro è una questione di professionalità sostanziale, non formale; nonostante lo facesse talora mon Maître, Frédéric Saegesser di Losanna, per il quale ho tuttora una venerazione professionale e umana particolare che chiedeva ‘Ma pince!’ intendendo la O’Shaugnessy – a differenza di Gianfranco Fegiz, sempre preciso e rispettoso dei nomi degli strumenti – ritengo che sia importante che una équipe chirurgica parli tutta la stessa lingua e che questa lingua nasca da uno studio condiviso di come, perché e con cosa si sta eseguendo una procedura.


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Per alcuni Maestri della Chirurgia, rimasti famosi per aver inventato o progettato strumenti chirurgici che tuttora quotidianamente utilizziamo, ho voluto ricordare il loro nome e cognome, la loro immagine fotografica e una breve storia della loro esperienza chirurgica e talora umana, anche per evitarne la offensiva storpiatura del cognome che vediamo talora scritta o vocalizzata per alcuni di essi, come Halsted, Mikulicz, Kocher e altri ancora. Strumenti chirurgici taglienti Sono considerati tali, tutti quegli strumenti impiegati per la incisione di tessuti. I principali strumenti appartenenti a tale tipologia sono indubbiamente i bisturi e le forbici. Bisturi Utilizzati principalmente per l’incisione cutanea ma anche per incidere o sezionare tessuti molli, visceri, organi o vasi. Sono diversi per impugnatura, dimensioni, lunghezza e forma. Attualmente vengono utilizzati i bisturi pluriuso in metallo a lama intercambiabile come anche quelli monouso già predisposti di lama. Le impugnature dei bisturi pluriuso attualmente usate in chirurgia appartengono al tipo Bard-Parker, n.3 e 4 il più spesso, su cui sono inserite diverse numerazioni di lame quali 10, 11, 15, 22, 24, etc. Inoltre, esistono bisturi con impugnature delicate che vengono impiegati per interventi di microchirurgia. Le lame si differenziano per forma e taglio: possono essere panciute, lanceolate o a punta. Le lame panciute sono utilizzate principalmente nelle incisioni cutanee dell’addome e del torace etc. Alcune, come ad esempio quelle 15, sono utilizzate per incisioni delicate cutanee. Le lame puntute sono utilizzate per incisioni di ascessi, vasi, vie biliari e a volte la cute (Figura 1). Le lame sono inserite sull’impugnatura del bisturi in modo alquanto semplice: tenendo fermo con una mano il manico, si introduce nella scanalatura della parte superiore del manico stesso la lama desiderata, afferrandola con due dita dalla parte opposta al tagliente e, con lieve pressione verso il basso, la si incastra nella scanalatura. La rimozione della lama segue la procedura contraria, facendo leva sulla base della stessa. Si consiglia di utilizzare uno strumento appositamente dedicato a questa funzione, per afferrare, inserire e rimuovere la lama ed evitare spiacevoli e pericolosi incidenti da contaminazione e da taglio.


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Figura 1. Bisturi.

1a. Standard pieno, n. 3 e n. 4, 13 cm; standard pieno lungo, n. 3 e n. 4, 21 cm. 1b. Varie tipologie di lame da inserire sul manico. 1c. Varie tipologie di bisturi monouso.


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Forbici Strumenti taglienti anch’essi, si differenziano tra loro per forma, lunghezza, robustezza e angolatura. Vengono utilizzate per la dissezione di tessuti, vasi, visceri e per il taglio di fili di sutura e presidi. Sono formate da due branche articolate, la cui parte anteriore presenta la forma tagliente mentre quella posteriore l’impugnatura ad anelli. Vengono prodotte principalmente in 4 modalità differenti: le tradizionali o standard in acciaio classico martensitico, le performanti con 1 o 2 anelli lucidi o black, supercut e con gli anelli gold , le ceramicate completamente nere, rivestite con materiali che consentono una performance e funzionalità ancora migliori e infine quelle da taglio di sutura, con un anello lucido/nero e uno gold, dedicate a questa funzione. Quelle performanti, tra cui le gold e le supercut presentano lame di taglio in Carburo di Tungsteno che garantisce una maggior durata di superficie di taglio, migliore esecuzione di taglio e lama di taglio affilabile. Le ceramicate possiedono un rivestimento esterno che riduce il riflesso della luce e una migliore efficacia della lama di taglio, grazie alla presenza di una lavorazione e di un rivestimento sulla lama stessa che riduce lo scivolamento del tessuto. In ultimo quelle da taglio di sutura, che hanno lame in Carburo di Tungsteno per trattenere il filo e un’affilatura estremamente resistente e permettono di sezionare le suture senza sforzo, evitando l’utilizzo delle forbici per il tessuto sopra descritte, assai più precise e delicate. Di regola sono impugnate con le falangi distali del primo e quarto dito negli anelli e con il secondo e terzo dito che, poggiando sulla branca posteriore della forbice, fungono da stabilizzatore per garantire il controllo dello strumento e la direzione di taglio. Il taglio, in genere, è eseguito con la punta della forbice in posizione quanto più verticale per garantire la totale visione di ciò che si seziona e mai in posizione orizzontale poiché, in questo modo, non è visibile la porzione sottostante di ciò che si seziona. Le forbici adoperate nella chirurgia addominale sono differenti, tra le più comunemente utilizzate distinguiamo: – Forbici di Mayo: utilizzate per la dissezione di tessuti il più spesso robusti, il taglio di fili di sutura e di presidi chirurgici e l’implantologia. La Mayo è l’unico strumento personale dell’Infermiere Strumentista. Possono essere rette o curve. Hanno una lunghezza più frequentemente utilizzata tra i 14.5 e i 23.5 cm; – Forbici da dissezione tipo Metzenbaum: eleganti, delicate, più sottili della Mayo per l’isolamento e la dissezione. Hanno una lunghezza più frequentemente usata dai 14.5 ai 31 cm; – Forbici per resezione rettale di Heald; – Forbici vascolari De Bakey, con angolatura più frequentemente usata, 45°/60° – Potts-Smith 25°/40°/60°: indicate nella chirurgia vascolare per la sezione di vasi. Hanno lunghezza dai 17.5 ai 20 cm per quanto riguarda


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le DeBakey, solitamente di 18.5 cm per quanto riguarda le Potts-Smith (Figura 2).

Figura 2. Forbici.


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2a. Forbici di Mayo rette (in figura) o curve, tipo standard, con Carburo di Tungsteno nelle estremità operative oppure con taglio ondulato/taglio coltello oppure taglio ondulato/taglio forbici oppure in Carburo di Tungsteno con taglio tipo coltello/taglio ondulato, 14-23 cm. 2b. Forbice per dissezione di Metzenbaum curve in acciaio oppure con Carburo di Tungsteno nelle estremità operative oppure con taglio ondulato/taglio coltello oppure taglio ondulato/taglio forbici oppure in Carburo di Tungsteno con taglio coltello/taglio ondulato oppure in Carburo di Tungsteno con taglio coltello/ondulato ceramicate, 18-31 cm. 2c. Forbici per la chirurgia del retto di Heald, curve, , 32 cm. 2d. Forbici per dissezione di DeBakey curve, 18-20 cm. 2e. Forbici curve per sezionare legature sintetiche con lama dentata – forbice dell’Infermiere Strumentista –, 14-23 cm. Pinze Sono considerate tali un numero diversificato di strumenti chirurgici. Le pinze si possono così riassumere: – Pinze da dissezione; – Pinze da presa; – Pinze emostatiche; – Pinze ferma-teli. Pinze da dissezione. Le pinze da dissezione si dividono in: pinze chirurgiche, pinze anatomiche, pinze vascolari o atraumatiche, pinze per coagulare. Possono variare la loro lunghezza e se ne trovano di corte, medie, lunghe e lunghissime, in base alla profondità dell’intervento chirurgico. Le pinze chirurgiche sono munite di presa dentata; vengono impiegate nella prima fase dell’intervento chirurgico, ossia l’incisione, e nell’ultima parte, la sutura; vengono utilizzate dalla cute sino alla fascia e al muscolo e viceversa. Per la loro caratteristica, appunto la dentatura, non sono correttamente utilizzate su organi o visceri. Esempi: pinze di Durante, di lunghezza compresa tra i 14.5 e i 25 cm; pinze di Adson chirurgiche di lunghezza compresa tra i 12 e 15 cm. Le pinze anatomiche hanno la caratteristica di possedere sulla punta una scanalatura, filettatura, orizzontale atta a facilitare la presa. Sono utilizzate per la presa di tessuti delicati e visceri. Esempi: il modello standard ha lunghezza variabile tra i 10.5 cm e i 30 cm; pinze di Adson, a impugnatura più ampia e punta più sottile hanno una lunghezza variabile tra i 12 cm e i 15 cm; pinze Semken-Taylor a punta più sottile hanno lunghezza variabile tra i 12.5 e i 17 cm, con punta di spessore massimo di 1 mm. Le pinze vascolari sono dette anche atraumatiche per la caratteristica scanalatura longitudinale sul morso. Sono principalmente adatte per la presa di vasi, nervi e strutture delicate. In chirurgia possono essere sostituite dal


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chirurgo con pinze molto più delicate, o addirittura da microchirurgia, in quelle suture anastomotiche che lo richiedano. Esempio: pinze di DeBakey o di Cushing, di lunghezza variabile tra i 16 e i 24.5 cm con mini profilo da 1 a 2.8 mm. Possono essere anche in Titanio, materiale più costoso, ma più leggero e più resistente. Le pinze per coagulazione sono pinze rivestite, tipo Rees, che hanno la caratteristica di avere un’impugnatura isolante; servono a coagulare il tessuto afferrato con la pinza stessa, attraverso l’ausilio dell’elettrobisturi. Possono essere mono o bipolari. Quelle bipolari il più spesso sono “a baionetta”, in modo da consentire un miglior campo visivo dell’area di emostasi. Hanno lunghezza compresa fra 8.5 e 23 cm. Le pinze passafili o cistico o, data la loro forma, “a L”. Ne esistono di vari tipi e misure, con impugnatura ad anelli, cremagliera e morso. Sono utilizzate su strutture anatomiche particolarmente delicate per il passaggio di reperi o fili per legatura. Esempi: pinze di Baby-Adson, di lunghezza di 18 cm; pinze di lunghezza variabile di Overholt, di O’Shaugnessy e di Desjardins. Pinze emostatiche. Anch’esse caratterizzate dall’impugnatura ad anelli e dalla cremagliera, si differenziano invece per emostasi temporanea e definitiva. Possono avere diversa lunghezza: baby, corte, medie, lunghe, lunghissime. Inoltre sono distinte in curve e rette. L’azione emostatica definitiva è data dall’azione traumatica di strumenti chirurgici che favoriscono, alla chiusura della cremagliera, la trombosi locale dei vasi. Esempi: pinze di Kocher, curve o rette, hanno scanalatura trasversale lungo tutto il morso, con “dentini” finali in chiusura, e lunghezza compresa tra i 14 e i 26 cm; pinze di Péan o di Crile, curve o rette, sono simili alle Kocher, ma senza dentatura finale; pinze di Kelly, curve o rette, hanno scanalatura trasversale solo nella parte terminale del morso e una lunghezza compresa tra i 14.5 e i 16 cm; pinze di Halsted-Mosquito, curve o rette, con o senza “dentini” finali in chiusura, hanno scanalatura trasversale lungo tutto il morso e lunghezza variabile tra i 10 e i 12 cm.; le pinze di Faure curve e con dentini 1:2 finali in chiusura sono state ideate per l’emostasi dell’arteria uterina.


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4a. Pinza emostatica „Mosquito“ di Halsted, retta (in figura) o curva, senza e con dentini 1:2, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 14-20 cm. 4b. Pinza emostatica di Kelly, retta (in figura) e curva, senza denti, a zigrinatura orizzontale parziale – distale delle branche, 14 cm. 4c. Pinza emostatica di Péan, retta (in figura) o curva, senza denti, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 14-17 cm. 4d. Pinza emostatica di Crile, retta (in figura) o curva, senza e con dentini 1:2, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 14 cm. 4e. Pinza emostatica di Kocher, retta (in figura) o curva, con dentini 1:2, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 13-18 cm.


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4f. Pinza emostatica di Heiss e per dissezione/legatura di Overholt o di O’Shaugnessy, curva e di ampiezza variabile, senza denti, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 23-26-30 cm. 4g. Pinza emostatica di Faure per arteria uterina, curva con dentini 1:2, a zigrinatura orizzontale e completa delle branche, 21 cm. Pinze da presa e altre. Le pinze da presa sono quegli strumenti chirurgici caratterizzati da un’impugnatura ad anelli, dalla cremagliera, dalla punta a morso distinto, a dentellatura o a zigrinatura. La loro funzione principale è quella di poter afferrare e trazionare i tessuti con azione atraumatica e a scarso effetto lesivo del morso. Si distinguono tra loro: Pinze di Foerster: pinze da presa per tampone e spugne; Pinze di Duval – Babcock – Allis: triangolari – ovalari – a linea. Enterostato di Kocher, retto o curvo, e le pinze per anastomosi gastrointestinali gemelle di Lane, vero ‘dinosauro’ della chirurgia digestiva open. La vidi utilizzare l’ultima volta, al mio rientro a Roma dalla Svizzera, a inizio anni ’80; infine la pinza per rimozione dei calcoli biliari di Desjardins.


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Figura 5. Pinze da presa.

5a. Pinza da presa e trazione su tessuti e visceri a dentatura atraumatica sul margine distale libero a cerchio, di Babcock, a triangolo, di Duval, a linea, di Allis, 15-20-25-30 cm. 5b. Pinza per tamponi e da presa di Foerster, retta (in figura) o curva, con morso liscio o a zigrinatura orizzontale e completa degli occhielli, 18-25 cm. 5c. Pinza enterostato, di Kocher, retta (in figura) o curva, con 2 mini-profili longitudinali completi, 21 – 23 cm. 5d. Pinze per anastomosi gastrointestinali gemelle di Lane, rette (in figura) o curve, da solidarizzare con vite con multipli mini-profili longitudinali completi, 30 cm. 5e. Pinza da calcoli biliari di Desjardins, a estremità libera ovoidale per ogni branca, 23 cm. Pinze fissateli Le pinze fissateli sono strumenti ormai storici in sala operatoria, per fermare la teleria pluriuso nella preparazione del campo chirurgico. Se ne distinguono di vari tipi: le pinze fissateli di Backhaus, con una lunghezza da 9 a 16 cm, e le pinze fissateli di Bernhard, con una lunghezza di 16.5 cm. Con l’avvento della teleria monouso in carta e adesivi, il loro utilizzo dovrebbe essere attualmente scomparso.


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Figura 6. Pinze fissateli.

6a. Pinza fissateli di Backhaus a morso acuto, 11-16 cm. 6b. Pinza fissateli di Berhard, retta, a morso acuto, 16 cm. Divaricatori I divaricatori si differenziano in divaricatori retrattori e divaricatori autostatici. Di entrambe le categorie se ne trovano di svariate forme, misure e meccanismi. La loro funzione è di ottenere un’esposizione favorevole del campo operatorio. I divaricatori retrattori sono maneggiati da assistenti del chirurgo operatore, mentre i divaricatori autostatici mantengono autonomamente la posizione impostata. Tra i divaricatori retrattori più usati si annoverano: – Divaricatori von Volkmann: acuti e smussi, a più digitazioni da 1 a 6 per sottocute; – Divaricatori Gil -Vernet: a forma di sella, ad asta malleabile specifico per urologia e via biliare; – Divaricatori Richardson – Eastman: composto da una coppia di divaricatori diseguali. Per uso parietale superficiale e a media profondità; detto simpaticamente a Roma “Maleppèggio” come il noto strumento muratorio; – Divaricatori di Fritsch: per uso addominale parietale e sottocostale; – Divaricatori di Farabeuf – Mathieu – Roux:: parietali superficiali; – Divaricatori di Deaver – Doyen – von Mikulicz-Radecki – St. Mark’s/Heald: addominali per grandi profondità;


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Figura 7. Divaricatori parietali superficiali.

7a. Divaricatori cutanei/sottocutanei di von Volkmann, a denti 1:2:3:4:6:, a punta smussa o acuta, 21 cm. 7b. Divaricatori parietali in set di 3, di Roux, curvi alle estremità, diseguali, 15-17 cm. 7c. Divaricatori parietali in set di 2, di Farabeuf, curvi alle estremità, diseguali, 26 cm.


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Figura 8.: Divaricatori retrattori addominali.

8a. Divaricatori parietali in set di 2 di Richardson-Eastman, curvi alle estremità, braccio 26 – 28 cm, profondità e spessore delle valve variabile. 8b. Divaricatore parietale addominale di von Mikulicz-Radecki, Doyen, Kocher e Kelly, simili a quelli di Deaver e Harrington, che sono più curvi e più sottili; lunghezza 25 cm., spessore e profondità, rispettivamente da 2 a 18 e da 6 a 20 cm. 8c. Divaricatore addomino-pelvico di St. Mark’s/Heald lunghezza di 2326-28 cm., valva di 6-18 cm., sagomata alla estremità libera curva con riduzione dello spessore a circa 4 cm. con profondità di circa 5 cm. Dei divaricatori autostatici ne citeremo solo alcuni. Escludendo il divaricatore costale di Finochietto, usato prettamente per la chirurgia toracica, i più utilizzati sono: – Divaricatore di Adson: cutaneo/sottocutaneo a denti a punta acuta con apertura a cremagliera; – Divaricatore di Parks: ano-rettale a cremagliera con 2 valve laterali ondulate e 1 valva inferiore;


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– Divaricatore di Gosset: addominale, 16,5 cm., completo di un paio valve laterali dritte e una valva centrale a L o solo due valve laterali arcuate, baby 12 cm. o standard 14 cm; apertura max 16 cm; – Divaricatore di Balfour: addominale, 20 cm., caratterizzato da un’apertura a branca laterale su due binari, con possibilità di aggiunta di una valva centrale a sella; apertura max 19 cm; – Divaricatore di Kirschner: addominale, 30x24 cm., con telaio a cerchio, con 4 valve parietali, standard o per pazienti obesi o per intestino e vescica; – Sistema di divaricatore di Rochard: costituito da 2 morsetti fissaggio, 2 bracci di fissaggio laterali, una barra trasversale esagonale, 2 carrucole mobili, un supporto per divaricatori, uno o più divaricatori dai 5 ai 16 cm.


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Figura 9.: Divaricatori autostatici.

9a. Cutaneo /sottocutaneo di Adson, con lame 3:4 a punta acuta o smussa, 8-13 cm. 9b. Ano-rettale di Parks, a cremagliera con 2 valve laterali ondulate e 1 valva inferiore di 9,5 cm di lunghezza e 7,5 cm di spessore. 9c. Addominale di Gosset, completo di un paio di valve laterali di 6.5 cm. di profondità e 3.5 cm. di spessore e di una valva centrale a L di 6.5 e 6.0 cm. rispettivamente. 9d. Addominale di Balfour, completo di un paio di valve laterali di 6 e 8 cm. di lunghezza e 3 cm. di spessore e di una valva centrale a sella di 7 e 8 cm. rispettivamente. 9e. Addominale di Kirschner su telaio ovalare con dimensioni di 30 per 24 cm., con fino a 4 valve a sella o a L. 9f. Sistema di Rochard, composto da 2 morsetti di fissaggio al letto operatorio, 2 bracci di fissaggio laterali, una barra trasversale esagonale, 2 carrucole mobili, un supporto per divaricatori, fino a 3 divaricatori di uguale profondità 5 cm. e diverso spessore 10-12-16 cm. Portaaghi – Strumenti necessari in chirurgia per la sutura manuale con ago, anch’essi caratterizzati da impugnatura ad anelli, cremagliera, corpo e morso. Quest’ultimo può avere inserti in Carburo di Tungsteno per una migliore presa e tenuta sull’ago. Hanno lunghezza, peso, robustezza e dimensioni del morso differenti, che andranno di volta in volta scelti dal chirurgo se-


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condo la profondità addominale, il viscere, la robustezza dei piani, il tipo d’ago. La particolare tipologia del morso consente la tenuta dell’ago nelle differenti dimensioni e fogge. A tale proposito distinguiamo: – Portaaghi delicati; – Portaaghi intestinali; – Portaaghi da parete; – Portaaghi da cute. I portaaghi delicati hanno impugnatura, manico e morso di ridotto spessore e altrettanta leggerezza. Forniscono all’operatore ottima manualità e precisione, e consentono una sensibilità estrema nella sutura. Sono impiegati nelle suture di strutture e tessuti delicati come visceri, vasi, etc. Se ne trovano in commercio di vari modelli distinti per lunghezza, forma, cremagliera, impugnatura, dimensioni e angolatura del morso. Esempio: portaaghi di Crile-Murray. I portaaghi intestinali sono quelli necessari per le suture o anastomosi manuali intestinali. Hanno lunghezza e dimensioni del morso diverse secondo il segmento intestinale interessato e la profondità addominale: corti in superficie, medi e lunghi in profondità. Possono essere robusti o delicati a seconda del tipo e del calibro dell’ago da montare. Il portaaghi intestinale classico è il Mayo-Hegar, che ha una lunghezza variabile tra i 14.5 e 30.5 cm. I portaaghi da parete sono portaaghi per la sintesi di strutture robuste come la parete addominale o toracica. Hanno impugnatura, morso e dimensioni resistenti, capaci di montare aghi di grosso calibro. Un portaaghi da parete è il Mayo-Hegar; meno utilizzati, seppur robusti, sono i portaaghi di von Langenbeck e Mathieu a cremagliera interna a scatto. I portaaghi da cute sono impiegati per la sintesi cutanea. Sono paragonabili ai portaaghi da parete, ma ne differiscono per le dimensioni più ridotte. Particolarmente utili in determinate procedure con ridotta possibilità di movimento per il passaggio dell’ago, sono i portaaghi di Finochietto, Heaney, Johnson e Stratte fino a 27 cm, con morso curvo. Una nota speciale va ai portaaghi con forbice inclusa di Foster-Gillies e Gillies, che consentono di lavorare con un operatore in meno, nei casi di urgenza o di realtà da campo.


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Figura 10. Portaaghi chirurgici.

10a. Portaaghi di Crile-Murray, a morso compatto, con strie longitudinali, delicato, 15 cm. 10b. Portaaghi di Mayo-Hegar, a morso con strie longitudinali, fenestrato nella porzione centrale. Due modelli, uno delicato e uno robusto, 15-30 cm. 10c. Portaaghi di Stratte, Heaney, Johnson, Finochietto, più o meno angolati all’estremità libera del morso, compatto o fenestrato a strie longitudinali (Johnson e Finochietto ), 21 – 27 cm. 10d. Portaaghi di Gillies a morso curvo fenestrato, con lama associata per eseguire contestualmente sezione delle suture, 16 cm. Aghi per sutura Sono strumenti chirurgici usati per la sutura diretta. Generalmente sono di acciaio con una percentuale di carbonio e anche rivestiti in nichel per renderli più resistenti. Se ne trovano in commercio di varia misura, forma e rotondità. Sono costituiti da: – punta; – corpo; – coda. La punta è indispensabile per facilitare la perforazione e la penetrazione dell’ago all’interno del tessuto; può essere appuntita o smussa. La forma della punta varia: conica, a lama e a tronco di piramide. Il corpo serve per l’allocazione dell’ago al porta-aghi. Visto in sezione può essere rotondo, triangolare, rettangolare, pentagonale o esagonale. Generalmente, la maggior parte degli aghi hanno corpo e sezione circolare per ridurre al minimo il diametro del foro d’ingresso.


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La coda rappresenta la parte terminale dell’ago e ha il compito di trasportare il filo. Di coda ne esistono di due tipi: quella degli aghi tradizionali e quella degli aghi atraumatici. Gli aghi tradizionali sono aghi con la caratteristica di essere molto resistenti. Sono riutilizzabili previa sterilizzazione e non più usati nell’attuale pratica chirurgica. Tali aghi sono costituiti da una cruna semplice o flessibile e fissurata posteriormente su cui, con lieve pressione, si posiziona il filo desiderato. Gli aghi atraumatici sono i più comunemente usati e diffusi in chirurgia. Hanno la caratteristica di avere la coda a forma cilindrica cava che continua con il filo di sutura senza variarne il calibro. Questo consente una minore atraumaticità al passaggio dell’ago sul tessuto. Per la loro caratteristica di continuità tra ago e filo sono prettamente aghi monouso. Secondo la curvatura che possiedono, gli aghi si distinguono essenzialmente in tre tipi: – Aghi retti: per suture manuali; – Aghi mezzi-curvi; – Aghi curvi. Gli aghi retti sono attualmente utilizzati esclusivamente per il confezionamento di borse di tabacco per le anastomosi meccaniche. Sono poco utilizzati per le suture manuali tissutali e per le anastomosi intestinali. Sono detti manuali perché non sono montati su portaaghi. Gli aghi mezzi-curvi hanno forma a slitta e sono prettamente utilizzati nelle suture superficiali, cutanee. Gli aghi curvi sono i più utilizzati in chirurgia, hanno raggi di curvatura diversi secondo il tipo di sutura, prevalentemente mezzo-cerchio. Queste ultime due tipologie di aghi devono sempre essere montati su portaaghi. Gli aghi 3/8 sono utilizzati per suturare la cute o piani non molto profondi; 1/2 per suture interne o piani profondi; 5/8 per piani molto profondi o accessi difficoltosi e stretti. L’ago deve penetrare nel tessuto da suturare preferibilmente con un’angolatura di 90° per ridurre al minimo la dimensione del foro di entrata. COME MONTARE l’AGO SUL PORTA-AGHI: il portaaghi deve afferrare l’ago a 1-2 cm circa dall’estremità del morso nel punto di passaggio tra 1/3 medio e 1/3 prossimale dell’ago. Il movimento sull’asse portaaghi-mano-avambraccio deve essere rotatorio e deve accompagnare la curvatura dell’ago riprendendo la punta in uscita, non il corpo come orribilmente talora si vede fare… Ciotole Pur non essendo un vero e proprio strumento chirurgico, fanno parte del tavolo operatorio. Sono contenitori in genere di forma tonda e reniforme, di diversa misura e capienza; indispensabili durante l’atto chirurgico per


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il contenimento di soluzioni o disinfettanti occorrenti o tamponi rotondi o elastici o nastri. Clip e posa-clip Le clip sono dei presidi chirurgici predisposti per l’occlusione dei vasi e/o la marcatura di segmenti anatomici/istologici. Se ne trovano in commercio sia in Titanio sia in acciaio, ma anche in materiale plastico. La loro applicazione avviene previo l’utilizzo di strumenti chiamati posa-clip, di varia forma e lunghezza, con morso sottile, medio o grande, a seconda del tipo di clip da applicare. Di posa-clip in commercio si trovano oltre a quelle pluriuso, riutilizzabili previo sterilizzazione, anche monouso in materiale plastico, contenenti all’interno clip, di norma in numero di 20, già predisposte per l’uso. Chirurghi che hanno lasciato il proprio nome a strumenti chirurgici tuttora abitualmente in uso in Chirurgia. Alfred W. ADSON (1887-1951) Componente dello Staff della Mayo Clinic fin dal 1917 e all’Università del Minnesota a Rochester, fino al 1946 come Professore di Neurochirurgia. Presidente della Society of Neurological Surgeons nel 1932/1933. Ideò le forbici, i divaricatori e le pinze che portano il suo nome.

Donald C. BALFOUR (1882 – 1963) Canadese, fu presentato nel 1907 ai fratelli Mayo e divenne Assistente di Anatomia Patologica e nel 1909 Junior Surgeon; nel 1910 sposò Carrie Mayo, figlia di William, e nel 1912 fu nominato Chief di una Divisione di Chirurgia Generale alla Mayo Clinic. Si interessò prevalentemente di chirurgia dello stomaco e del duodeno, su cui scrisse una monografia. Disegnò numerosi strumenti chirurgici tra cui il divaricatore addominale a tre valve, due laterali e una centrale, un tavolo operatorio e vetri di sala operatoria.


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George W. CRILE (1864 – 1943) Tra i co-fondatori della Cleveland Clinic nel 1921. Pioniere della Chirurgia, si occupò del trattamento delle infezioni e dello shock, di anestesia, di emotrasfusioni e di chirurgia toracica. Recentemente gli è stato intitolato un cratere lunare circolare di 9 km di diametro nel Palus So. Una nota pinza emostatica senza denti, retta o curva, a zigrinatura orizzontale per tutta la lunghezza delle branche, porta il suo nome.

Harvey W. CUSHING (1869 – 1939) Collaborò con Ernest Codman alla Ether Chart, una delle prime schede anestesiologiche, alla quale aggiunse la misurazione della pressione arteriosa osservata a Pavia con lo sfigmomanometro di Scipione Riva Rocci. Allievo di Halsted al Johns Hopkins Hospital di Baltimora. Intraprese il Tour europeo dapprima presso Theodor Kocher a Berna; tornò a Baltimora nel 1902 e nel 1912 fu nominato Professore di Chirurgia all’Università di Harvard. Descrisse la nota malattia e sindrome di Cushing, condizione patologica endocrina della ipofisi e del surrene. Rivoluzionò la Neurochirurgia, inventò il bisturi elettrico in collaborazione con il fisico William Bovie. Nel 1933 fu nominato Professore di Neurologia a Yale. Michael E. DeBAKEY (1908 – 2008) Uno dei fondatori della moderna Cardiochirurgia, realizzatore di un cuore artificiale. Nel 1953 eseguì con successo la prima endoarterectomia carotidea nel suo ospedale, il Methodist Hospital. Successivamente, nel 1964, ha eseguito per primo il bypass aorto-coronarico. Numerosissimi sono gli strumenti – forbici, ferri delicati atraumatici, come pinze da dissezione e clamp vascolari – che portano il suo nome.


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Eugène-Louis DOYEN (1859 – 1916) Chirurgo privato a Parigi con clientela benestante. Tecnicamente abile e innovatore, molti strumenti tra cui un divaricatore addominale autostatico, portano tuttora il suo nome. Antesignano della fotografia e della cinematografia in chirurgia, produsse numerosi film di tecnica chirurgica tra cui una craniotomia, una isterectomia addominale, un intervento di separazione di gemelli siamesi uniti nel processo xifoideo dello sterno.

Francesco DURANTE (1844 – 1934) Siciliano di Letojanni, dal 1877 Direttore della Clinica Chirurgica dell’Università di Roma, alloggiata presso l’Ospedale San Giacomo. Nel 1897 inaugurò il Policlinico Umberto I di Roma, dove diresse fino al 1919 la Clinica Chirurgica e dove si conserva un busto bronzeo in suo onore. Co-fondatore nel 1882 della Società Italiana di Chirurgia, ne fu successivamente Presidente. Massone e Senatore, laico anti-clericale, del Regno d’Italia durante la XVI legislatura. Nel 1898 pubblicò il suo trattato di Chirurgia. Porta il suo nome la pinza chirurgica con denti, tuttora largamente in uso. Louis H. FARABEUF (1841 – 1910) Professore di Anatomia a Parigi nel 1887, descrisse il triangolo nella regione laterale del collo, con base superiore costituita dal nervo ipoglosso, vena giugulare interna posteriormente e vena faciale comune anteriormente. Inventore di un certo numero di strumenti chirurgici, pinze e divaricatori.


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Jean-Louis FAURE (1863-1944) Chirurgo, Professore di Clinica Ginecologica a Parigi nel 1918, Presidente della Société Francaise de Chirurgie nel 1925. Partecipa alla spedizione polare in Groenlandia nel 1932 guidata da Jean-Baptiste Charcot con la nave Pourquoi Pas?. Conclude la sua vita come Vigneron nella tenuta paterna, dove viene attualmente prodotto un Bordeaux Gran Cru Classé, de Saint-Emilion. Ideò la pinza curva a denti con zigrinatura totale orizzontale per ‘mordere’ e interrompere l’arteria uterina.

Enrique FINOCHIETTO (1881 – 1948) Argentino, dopo un lungo Tour in Europa e negli Usa, in particolare presso la Mayo Clinic, ritornò a Buenos Aires dove fu nominato Chief della Chirurgia al Rawson Hospital, dove lavorò con i fratelli Miguel Angel e Ricardo. Nel 1922 Presidente della Società di Chirurgia di Buenos Aires. Avido fan del Tango, fu molto amico di Julio de Caro, che compose per lui nel 1925 Buen Amigo. Nel 1929 riparò, per primo in Argentina con successo, una ferita d’arma da fuoco del cuore in un minorenne. Nel 1936 ideò il divaricatore costale con valve laterali che porta tuttora il suo nome, associato a quello di DeBakey che vi apportò piccole modifiche; viene ricordato anche per lunghe pinze da dissezione e legatura. Antonin GOSSET (1872 – 1944) Chirurgien-Chef all’Hôpital Salpêtrière a Parigi; Professore di Clinica Chirurgica dal 1920. Presidente della Société Française de Chirurgie e Presidente-Fondatore della Société d’Anesthésiologie. Porta il suo nome il divaricatore autostatico parietale a due valve laterali.


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William S. HALSTED (1852 – 1922) Fu Visitor nel suo Tour europeo di 2 anni di tutti i più grandi Chirurghi dell’epoca, fu soprattutto allievo di Theodor Billroth, padre della Chirurgia Gastrica, di Edoardo Bassini, di Jan Mikulicz, di Richard von Volkmann. Fu tra i primi chirurghi americani a praticare interventi sulla colecisti per calcolosi biliare. Mise a punto una nuova tecnica di ernioplastica inguinale e fu il più importante precursore della terapia chirurgica radicale del cancro della mammella, con la tecnica di mastectomia ancora oggi riconosciuta secondo Halsted. Nel 1882 effettuò una dei primi interventi in USA sulla colecisti a sua madre sul tavolo della cucina di casa: una ostomia rimuovendo 7 calcoli; la madre guarì. “Maniaco” dell’anti-sepsi e della asepsi preoperatoria, nel 1889 commissionò, alla Goodyear, guanti di gomma per proteggere le mani della sua nurse. Nel 1888 si trasferì nel Maryland a Baltimora, presso la Johns Hopkins University, dove divenne Professore di Clinica Chirurgica e fu uno dei Big Four insieme a Osler, Internista; Kelly, Ginecologo; Welch, Patologo, Morì per le complicanze di un intervento di coledocolitotomia per calcolosi del coledoco, residua ad una colecistectomia. Lo ricordiamo per le piccole pinze emostatiche Halsted-Mosquito con e senza denti, curve o rette, a zigrinatura orizzontale per tutta la lunghezza delle branche e altri strumenti che portano il suo nome. Richard J. HEALD (1936-) Professore di Chirurgia all’Università di Southampton; Consultant Surgeon, Basingstoke and North Hampshire Hospital, NHS Foundation Trust; Direttore della Pelican Cancer Foudation. Pioniere della TME e padre della intuizione dell’Holy Plane nella Chirurgia del Cancro del Retto nel 1988. Presidente del Colorectal Group allo Champalimaud Foundation for the Unkown in Lisbona. Tutti i chirurghi che si sono occupati della chirurgia del retto hanno avuto occasione di incontrarlo nell’Hampshire o in eventi congressuali. La lunga forbice curva per la chirurgia del retto e un divaricatore pelvico tipo St. Mark’s portano il suo nome.


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Alfred H.L. HEGAR (1830 – 1914) Professore di Clinica Ostetrica e Ginecologica all’Università di Friburgo in Germania è noto per i dilatatori uterini e per il segno clinico di rammollimento del collo dell’utero, diagnostico di gravidanza. Molti portaaghi prendono il suo nome.

Howard A. KELLY (1858 – 1943) Ginecologo statunitense, insieme a William Osler, William Halsted e William Welch costituì i Big Four, fondatori del Johns Hopkins Hospital di Baltimora in Maryland. Innovò il cistoscopio, modificò le pinze emostatiche con e senza denti, curve o rette, con sola mezza branca distale zigrinata orizzontalmente.

Emil Theodor KOCHER (1842 – 1917) Bernese, Professore di Clinica Chirurgica all’Università di Berna nel 1872. Introdusse l’antisepsi in Svizzera. Nel 1878 eseguì per primo la tiroidectomia per gozzo e, in pochi anni, ne eseguì oltre 2000 interventi. Ultimo Chirurgo a essere insignito del Premio Nobel per la Medicina nel 1909 per i suoi studi sulla fisiopatologia della ghiandola tiroide. È stato uno dei Padri della Chirurgia moderna. Ricordiamo tuttora nella quotidianità delle sale operatorie la sua pinza emostatica a denti, curve o rette, a zigrinatura orizzontale per tutta la lunghezza delle branche e altri ferri.


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Fratelli MAYO: il US Postal Service l’11 settembre 1964 stampò un francobollo da 5 cents dedicato ai 2 fratelli Mayo, entrambi facenti parte della Loggia 21 di Rochester, GL Minnesota. William J. MAYO (1861 – 1939) Fu fra i primi chirurghi ad eseguire un’appendicectomia. Fu fra i quaranta fondatori della Society of Clinical Surgery nel 1903 e fondò con il fratello Charlie il Saint Marys Hospital a Rochester nel Minnesota, poi diventato la Mayo Clinic. Operò costantemente al Saint Marys Hospital quasi esclusivamente con il fratello Charles, prevalentemente in Chirurgia toracica e pelvica. La sua mortalità perioperatoria nell’appendicectomia si ridusse al di sotto dell’1%. Numerosi strumenti chirurgici, i più noti sono le forbici e porta-aghi, prendono il suo nome. Nel 1931, intervistato dal NYT predisse che nel 2011 la speranza di vita dell’uomo nei Paesi sviluppati avrebbe superato i 70 anni. “ We think of truth as something that is invariable, but add a new circumstance and we have a new truth”. Charles H. MAYO (1865 – 1939) Operava quasi costantemente insieme al fratello Will; si dedicò prevalentemente alla Chirurgia Oculistica e alla Neurochirurgia. Fondò con il fratello maggiore il Saint Marys Hospital a Rochester nel Minnesota, poi diventato la Mayo Clinic. Nel 1916 affermò: “The keynote of progress…is system and organization – in other words team work”.


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Myron METZENBAUM (1876 – 1944) Nel 1910 si specializza in ORL, presso la Crile Clinic, poi diventata Cleveland Clinic. Creatore, per necessità, delle famose leggere ed eleganti forbici Metz, a causa delle sue mani piccole e del ridotto e angusto spazio di utilizzo di forbici più grandi durante gli interventi di tonsillectomia.

Johann von MIKULICZ-RADECKI (1850 – 1905) Studente in Medicina e poi Assistente di Theodor Billroth a Vienna, di nobile famiglia polacca nell’Impero Asburgico. Parlava più lingue e quando gli si domandava di quale nazionalità fosse, rispondeva : Surgeon. Professore di Clinica Chirurgica a Cracovia nel 1882, a Koenisberg nel 1887, a Breslavia nel 1890. Innovatore in Chirurgia, contribuì enormemente allo sviluppo della chirurgia oncologica dell’apparato digerente, soprattutto colica: nel 1885 fu il primo a suturare un’ulcera gastrica perforata, nel 1886 resecò per primo un segmento esofageo, nel 1903 rimosse un segmento colico sinistro sede di neoplasia. Numerosi i suoi interventi eponimici: piloroplastica e stritturoplastica intestinale. Cultore dell’antisepsi, adottò il lavaggio ‘chirurgico’ delle mani, introdusse i guanti di gomma e le mascherine in sala operatoria; eseguì per primo una ureteroenterostomia e una ileocistostomia con successo. Utilizzò il drenaggio intraperitoneale con garze e inventò il più classico dei divaricatori parietali addominali, lievemente ricurvo nella estremità libera terminale, che tutti i giovani chirurghi hanno ‘praticato’.


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Richard M. OVERHOLT (1901-1990) Chirurgo toracico e pioniere della lotta contro il fumo fin dagli anni Trenta presso il New England Baptist and New England Deaconess Hospitals in Boston. Porta il suo nome, tra gli altri, una lunga pinza emostatica da dissezione e da legatura.

Alan G. PARKS (1920 – 1982) Sir Alan G. Parks del St Mark’s Hospital è stato uno dei più importanti chirurghi colo-rettali del Novecento. Ha contribuito allo sviluppo di numerosi strumenti chirurgici per chirurgia pelvica e anale, all’eziologia e alla classificazione delle fistole peri-anali, all’anatomia e alla fisiologia del pavimento pelvico, al trattamento dell’incontinenza anale, all’utilizzo del reservoir ileale o colico per anastomosi ileo- o colo-anale transanale manuale nel trattamento chirurgico della colite ulcerosa e della poliposi familiare o per cancro del retto. Jules-Émile PÉAN (1830-1898) Allievo di Auguste Nélaton. Pioniere della Chirurgia. Esegui per primo la splenectomia nel 1863, l’ovariectomia nel 1864. Nel 1873 viene nominato Chirurgien-Chef all’Hôpital Saint-Louis di Parigi. Nel 1879 esegue la prima gastrectomia parziale con gastroduodenostomia, poi nota come Billroth 1, e nel 1890 la prima isterectomia trans-vaginale per cancro. Non fu mai nominato Professore di Chirurgia e non fu mai ammesso alla Société Francaise de Chirurgie per i suoi contrasti con Louis Pasteur, di cui non condivideva le idee. La sua pinza emostatica senza denti, curva o retta, a zigrinatura orizzontale per tutta la lunghezza della branca, è tuttora in uso in ogni sala operatoria.


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César ROUX (1857 – 1934) Chirurgien-Chef all’Hôpital Cantonal di Losanna dal 1887 al 1926 e Professore di Clinica Chirurgica dal 1893 al 1923 della neo-istituita Facoltà di Medicina dell’Università di Losanna. Fu dapprima Assistente e poi Aiuto di Theodor Kocher a Berna. Descrisse nel 1907, sulla Sémaine Médicale, una esofagodigiunoanastomosi en Y per stenosi esofagea: la Roux-en-Y anastomosis è tutt’ora largamente applicata in chirurgia digestiva. Nel 1926 asporta, per la prima volta al mondo, un feocromocitoma. Gli succedettero in cattedra Henry Vuillet, Pierre Decker e Frédéric Saegesser, “mon Maitre” per cinque anni a Losanna, fino al 1980, sotto la cui direzione ho ottenuto nel 1982 il Doctorat ès Médecine dell’Università di Losanna. Eleganti i divaricatori che propose. Bibliografia: 1. Robinson JO. The barber-surgeons of London. Arch Surg 1984; 119:1171-5; 2. AESCULAP Surgical Instruments Product Catalog, 2017; 3. KLS Martin Group, General Catalog, 2020-12; 4. STILLE Instruments Products Catalogue, 2018.


Capitolo 7 L’infermiere strumentista Enrica Lelli Infermiere strumentista, Azienda USL Toscana Sud-Est, Master 1° Livello Assistenza Infermieristica Sala Operatoria L’infermiere strumentista è una figura fondamentale nell’ambito dell’équipe operatoria. In genere è un infermiere specializzato, che si avvale delle proprie competenze e conoscenze per pianificare in maniera efficace ed efficiente l’attività operatoria. È co-responsabile del rispetto da parte dell’intera équipe delle norme di sicurezza per una corretta antisepsi a partire dall’esecuzione del lavaggio chirurgico delle mani, passando per la vestizione di tutta l’équipe operatoria, fino ad arrivare alla preparazione dei tavoli operatori e dello strumentario specifico per ogni intervento. Il ruolo dell’infermiere strumentista è sicuramente molto tecnico, ma non si devono sottovalutare le abilità non tecniche (Non Technical Skills) che gli consentono di raggiungere una performance lavorativa più sicura ed efficace. Il termine Non Technical Skills si riferisce alle capacità cognitive, di comunicazione, di leadership, di lavoro di squadra, di processo decisionale e di consapevolezza della situazione. L’infermiere strumentista, infatti, spesso si trova a dover gestire situazioni difficili non solo dal punto di vista professionale ma anche emotivo. Deve infatti essere capace di gestire lo stress, l’affaticamento e la tensione che l’intervento può determinare, con capacità comunicative efficaci e attitudini a lavorare in gruppo, permettendo di creare un’atmosfera rilassata, con una consapevolezza della situazione e una capacità di prendere velocemente decisioni anticipando le richieste del chirurgo al fine di agevolare il lavoro di équipe. Allestimento dei tavoli porta-strumenti in sala operatoria Tra le funzioni di competenza dell’infermiere strumentista rientra la preparazione dei tavoli operatori, sui quali viene disposto il materiale sterile necessario. Il numero dei tavoli operatori dipende dalla complessità dell’intervento ma, di norma, negli interventi chirurgici di media complessità, ne vengono predisposti due: il servitore (in-use zone) e il tavolo-figlia (ready-use zone); nel passato veniva predisposto il tavolo madre, ma quest’ultimo da decenni è scomparso dalle sale operatorie.


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Il servitore è un tavolo di piccole dimensioni, che si posiziona in prossimità del chirurgo, dello strumentista e del paziente, quindi del campo operatorio; sul servitore viene disposto il materiale necessario per l’intervento, in particolar modo gli strumenti che si utilizzeranno con maggior frequenza. Gli strumenti sono disposti con metodo e cura. La disposizione degli strumenti è legata alle abitudini dell’équipe chirurgica e alla tipologia di intervento da eseguire. Non esiste una procedura standard utilizzata nella totalità delle sale operatorie. Ogni realtà, dalla più grande e avanzata alla più piccola, applica delle scelte secondo norme e regole stabilite e concordate tra tutti, nel rispetto del principio di appropriatezza. Sul servitore i ferri vengono raggruppati per funzione, dimensione e lunghezza. Da un lato le forbici e i taglienti, al centro le pinze di vario genere e lunghezza mentre sul lato più lontano le garze laparatomiche, il materiale da sutura e i portaaghi. Per questione di praticità è buona prassi che i ferri utilizzati al tavolo operatorio siano in numero pari in modo tale che, a fine intervento, il conteggio risulti più immediato. Oltre al servitore sarà presente il tavolo-figlia, dove viene collocato lo strumentario chirurgico che potrebbe servire nelle fasi successive dell’intervento. I tavoli operatori, prima di essere introdotti sul campo sterile, devono essere ricoperti sopra, sotto e ai lati con materiale sterile di protezione. Devono essere allestiti dove questi verranno utilizzati e non devono essere spostati, in quanto lo spostamento da un luogo a un altro aumenta la probabilità di contaminazione. Inoltre devono essere preparati nel tempo più prossimo possibile a quello di utilizzo. La possibilità di contaminazione e di sviluppo di microrganismi aumenta con il passare del tempo, poiché polvere e altro particolato presenti nell’ambiente possono depositarsi sulle superfici. Il particolato può sollevarsi in seguito ai movimenti del personale circolante, depositandosi sul materiale sterile aperto. Nel caso di un ritardo imprevisto o di prolungata inattività, i tavoli porta-strumenti preparati e non utilizzati nell’immediato devono essere ricoperti da teli sterili. È molto importante che i teli sterili siano posizionati in modo tale da permettere all’infermiere strumentista di rimuoverli senza nessuna contaminazione. Preparazione del campo operatorio Il campo operatorio, dopo antisepsi, circoscrive il sito chirurgico, inibendo la riproduzione dei microrganismi residui, consentendo di contenere il rischio di infezioni peri-operatorie. In questa fase è compito dell’infermiere strumentista preparare l’occorrente per l’antisepsi del sito chirurgico e la teleria per la delimitazione di


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quest’ultimo. A seconda delle circostanze e delle abitudini può accadere che l’infermiere strumentista si trovi a preparare il campo operatorio collaborando con un chirurgo oppure a praticare lui stesso l’antisepsi sul sito chirurgico. La preparazione del campo sterile per i pazienti sottoposti a intervento chirurgico riduce il rischio di contaminazione microbica intraoperatoria ed è il fondamento della prevenzione delle infezioni del sito chirurgico. I teli sterili devono essere manipolati il meno possibile. Occorre evitare movimenti bruschi del materiale poiché possono dare origine a movimenti d’aria dai quali possono essere sollevati polvere, fibre e altri particolati, che rischiano di contaminare il campo sterile. Il materiale chirurgico, ad esempio tubi e cavi, deve essere fissato ai teli chirurgici attraverso dispositivi non perforanti. La creazione di fori sulla teleria, come usava nel tempo con le pinze fissateli di Backhaus, può creare un canale di entrata e di uscita per microrganismi, sangue o altro materiale potenzialmente infetto. Tutti i membri dell’équipe operatoria che si muove entro o intorno al campo sterile deve prevenirne la contaminazione. Il personale lavato deve rimanere vicino al campo sterile e toccare solo oggetti o superfici sterili. Un campo sterile per essere mantenuto tale va sorvegliato costantemente. L’infermiere circolante che collabora con l’infermiere strumentista deve e dovrà far compiere a tutta l’équipe di sala atteggiamenti e manovre tali da ridurre il rischio di contaminazione del campo operatorio. Dopo l’inizio dell’intervento le porte della sala operatoria devono rimanere correttamente chiuse per tutta la durata dell’intervento, al fine di mantenere un’idonea pressione positiva della sala rispetto ai corridoi e ad altre aree del blocco operatorio. Inoltre, durante l’intervento chirurgico, il numero di persone presenti in sala operatoria, I loro movimenti e la conversazione sono da contenere al massimo. Occorrente per la preparazione di un campo operatorio – Chloraprep: è un applicatore monouso sterile contenente soluzione alcolica (Clorexidina al 2% + Alcool Isopropilico) che viene usato per la disinfezione della cute integra prima di procedure mediche invasive. All’interno della confezione, oltre a trovare l’applicatore, sono presenti 2 piccoli tamponi (cotton fioc) che servono a effettuare l’antisepsi dell’ombelico. Il primo verrà inumidito premendolo sulla spugna imbevuta di soluzione e usato per l’antisepsi, il secondo per asciugare lo stesso nell’eventualità in cui si fosse creato l’effetto pooling, pozzetta di soluzione alcolica, per evitare problemi con l’elettrobisturi. L’antisepsi inizia sempre dove è fondamentale mettere in sicurezza la cute. Bisogna pertanto partire dal sito dove si deve incidere, usando l’appli-


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catore con un movimento avanti/indietro per 30 secondi, per poi completare il campo allargandosi senza più tornare sul punto di partenza. Le parti più sporche (piede, ascella, caviglia e inguine) vanno lasciate sempre per ultime, a meno che non coincidano con il sito di incisione. Il ChloraPrep ha un’efficacia sulla superficie cutanea di 48/72 ore e non viene inattivato dai liquidi organici, a differenza dello iodopovidone. Pertanto, quando viene suturata la ferita, si deve usare fisiologica sterile per detergerla, senza sollecitare eccessivamente la cute. A differenza del ChloraPrep, che è un prodotto sterile, lo iodopovidone non lo è, pertanto il suo impiego al termine dell’intervento rischierebbe di contaminare la ferita. Gli applicatori al momento disponibili di ChloraPrep sono: da 3 ml: che copre un area 15x15 cm; da 10,5 ml: che copre un area 25x30 cm; da 26 ml: che copre un area 50x50 cm. – Biancheria sterile: I teli chirurgici vengono usati per preparare e mantenere un campo sterile in sala operatoria e ridurre al minimo il rischio di infezioni, sia per il paziente che per gli operatori. Ne esistono di dimensioni differenti in base all’impiego, con fenestrature con fori, con sistema di fissaggio per i tubi e con zone sia di rinforzo che autoadesive. Nel tempo si è passati dall’uso di dispositivi riutilizzabili, come la biancheria in cotone, a dispositivi monouso, come in Tessuto Non Tessuto (TNT). Il TNT è un materiale atossico, anallergico, resistente, leggero e impermeabile, in grado di garantire praticità, comfort e igiene. In particolare, si tratta di un prodotto costituito da un sottile strato di fibra naturale (cellulosa) o di fibra sintetica (viscosa, polipropilene, poliestere), ottenuto con procedimenti diversi dalla tessitura ma tramite metodi meccanici, fisici o chimici. Inoltre sempre di più si assiste al passaggio da singoli prodotti confezionati, a kit sterili personalizzati, denominati Custom Pack. Un Custom Pack permette di comporre kit procedurali personalizzati, con all’interno tutto l’occorrente, dalla biancheria come i camici e la teleria varia, agli accessori come garze, siringhe, fili di sutura, lame per il bisturi freddo e/o elettrico e aspiratore, a seconda delle esigenze e delle tipologie di intervento da effettuare. Tutto questo garantisce ottimizzazione dei tempi, controllo delle procedure, riduzione dei costi e diminuzione dei rischi. Vestiario in sala operatoria Il vestiario della sala operatoria si divide in vestiario non sterile e vestiario sterile. Il vestiario non sterile è costituito da: – Divisa operatoria, formata da casacca e pantaloni, generalmente di colore differente rispetto alla divisa degli altri reparti ospedalieri. La divisa


L’infermiere strumentista

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chirurgica deve essere cambiata a ogni turno o anche prima, se bagnata o contaminata. Nel caso di contaminazione la divisa deve essere sostituita al più presto per ridurre l’esposizione del personale a microrganismi potenzialmente pericolosi. In generale l’abbigliamento utilizzato, oltre ad avere funzioni di barriera, deve garantire comfort e non ostacolare i movimenti, garantendo un’adeguata mobilità; Un paio di zoccoli in poliuretano, che devono essere lavabili in lava-strumenti e disinfettabili, da usare esclusivamente in sala operatoria; Copricapo in TNT monouso nel quale devono essere raccolti correttamente tutti i capelli e fermati da uno o più elastici; il copricapo deve essere sostituito a ogni intervento oppure quando danneggiato o contaminato. Per operatori con barba è necessario l’utilizzo di cappucci integrali; Visiere, occhiali protettivi e schermi facciali che consentano di proteggere le mucose di occhi, naso e bocca da materiale biologico durante un intervento chirurgico. Al termine dell’intervento tali dispositivi, se monouso, andranno eliminati subito dopo l’utilizzo; se invece poliuso dovranno essere adeguatamente decontaminati, disinfettati o sterilizzati, attenendosi alle indicazioni della nota informativa rilasciata dal produttore; Mascherina chirurgica monouso in triplice strato realizzata in TNT con uno standard di filtrazione batterica che va dal 95 al 99% a seconda del modello; deve avvolgere e coprire bocca e naso contemporaneamente. La respirazione è la maggior sorgente di contaminazione in una sala operatoria ed è per questo motivo che la mascherina va cambiata tra un intervento e l’altro, ogni volta che viene sporcata con liquidi provenienti dal sito chirurgico e comunque ogni 2 ore, poiché già dopo la seconda ora perde la sua capacità ed efficacia filtrante1. Questi DPI possiedono la doppia funzione: evitare la contaminazione del campo operatorio e proteggere l’operatore dal contatto con materiale biologico del paziente. Le mascherine chirurgiche sono soggette all’obbligo di marcatura CE secondo D. Lgs 46/97. Il vestiario sterile è costituito da: Camice monouso sterile in TNT idrorepellente. Questo tipo di materiale costituisce un filtro meccanico. È un materiale impermeabile, condizione fondamentale per un effetto barriera utile per ostacolare il passaggio di liquidi attraverso i quali si diffondono infezioni virali e batteriche. I camici monouso sterili sono confezionati singolarmente in doppio involucro di carta medicale e sono dotati all’interno di tovagliette monouso assorbenti, utilizzate per l’asciugatura di mani e avambracci fino all’altezza del gomito. Ne esistono di diverse tipologie, dagli standard ai rinforzati. Tutti i camici devono essere disponibili in più misure in termini di lunghezza espressa in cm;

Peruzzi A, L’infermiere strumentista, Procedure in chirurgia generale, s.l, Edra LSWR S.p.A, ristampa (2017): pp 254. 1


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Fondamentali in Chirurgia

– Guanti monouso sterili prodotti sia in lattice che in materiale antiallergico, come il Latex-free. I guanti chirurgici costituiscono un presidio fondamentale per contrastare la trasmissione dei germi dalle mani degli operatori al campo chirurgico e per proteggere gli operatori. I guanti non garantiscono una completa impermeabilità; infatti, durante un intervento chirurgico possono presentare delle micro lacerazioni, per cui è consigliabile cambiarli ogni 90-150 minuti2. Devono essere sostituiti immediatamente quando perforati, lacerati, inquinati, contaminati con materiale infetto. Il personale “lavato” deve utilizzare un doppio paio di guanti sterili durante le procedure che comportino soluzione di continuo dei tegumenti. Il tempo sporco e il tempo pulito di un intervento chirurgico Tutti gli interventi di chirurgia pulita-contaminata, contaminata o settica, hanno un tempo sporco e un tempo pulito ed è compito dell’équipe operatoria e in particolare dell’infermiere strumentista conoscerli e rispettarli, per garantire il miglior risultato di controllo delle infezioni del campo operatorio. In genere si definiscono tempo operatorio pulito le fasi dell’intervento chirurgico in cui non vi è nessuna apertura di viscere di vie respiratorie, digestive e genito-urinarie; mentre sono definite tempo operatorio sporco le fasi dell’intervento chirurgico in cui si prevede l’apertura di visceri di apparato respiratorio, digerente e genito-urinario. Se si interviene in presenza di una neoplasia maligna in qualunque distretto, il rischio di contaminazione/impianto da parte di cellule neoplastiche, seeding, degli strumenti, dei guanti, dei tessuti e delle garze è ipotizzabile. Quindi l’intervento chirurgico per patologia neoplastica maligna deve essere considerato come tempo operatorio sporco. Durante il tempo operatorio sporco l’infermiere strumentista deve attuare diverse manovre per ridurre la contaminazione del campo operatorio. È buona regola proteggere l’area anatomica circostante il viscere o l’organo, che viene inciso, con specifici strumenti. Tra questi uno dei più utilizzati è l’Alexis®️ O, Applied Medical, un dispositivo medico anulare di protezione parietale che permette una retrazione di 360 gradi circonferenziale atraumatica, riducendo così ogni tipo di contaminazione e infezione della parete del sito chirurgico. L’infermiere strumentista deve avere a disposizione i ferri chirurgici da utilizzare per tale fase e al termine del tempo sporco, dopo un’adeguata irrigazione del campo operatorio con soluzione salina isotonica tiepida, l’infermiere strumentista dovrà allontanare tutti gli strumenti utiliz-

Hentz RV, Traina GC, Cadossi R, Zucchini P, Muglia MA, Giordani M. The protective efficacy of surgical latex gloves against the risk of skin contamination: how well are the operators protected? J Mater Sci Mater Med. 2000; 11(12):825-832. 2


L’infermiere strumentista

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zati avendo cura di sostituire l’elettrobisturi, l’aspiratore e le lame del bisturi freddo, sostituendoli con strumenti sterili di nuovo ingresso nel campo operatorio. Oltre ciò l’intera équipe operatoria dovrà cambiare camice e guanti. Il passaggio da tempo sporco a tempo pulito è caratterizzato dalla sostituzione dell’intera teleria, predisponendo un campo operatorio del tutto nuovo. Anche quando si parla di intervento chirurgico pulito è buona regola cambiare i guanti e suturare la ferita chirurgica con ferri puliti per ridurre al massimo il rischio d’infezione del sito chirurgico. Tra gli interventi puliti con impianto di protesi, come ad esempio nell’ernioplastica addominale, prima di iniziare a maneggiare la rete è necessario sostituire i guanti di tutta l’équipe chirurgica con dei nuovi guanti sterili. Dove si posiziona l’infermiere strumentista durante un intervento chirurgico La posizione dell’infermiere strumentista in un intervento chirurgico non è sempre uguale ma varia in base al tipo di intervento da eseguire, al numero degli operatori, alla via di accesso chirurgica e alla posizione del paziente. Per l’infermiere strumentista la regola base da seguire è quella della “right hand to the right hand”. Ciò significa, ad esempio, che in un intervento open sulla loggia sovramesocolica il primo operatore destrimano si porrà alla destra del paziente, il secondo operatore di fronte a lui, a sinistra del paziente, con l’infermiere strumentista alla sua sinistra e il servitore alla pelvi del paziente; un eventuale terzo operatore alla destra del primo operatore. In maniera meno ergonomica, invece, come spesso vediamo nella pratica chirurgica nel nostro Paese, l’infermiere strumentista si pone alla destra del primo operatore. In un intervento open sulla loggia sottomesocolica il primo operatore destrimano si pone a sinistra del paziente, il secondo operatore di fronte a lui alla destra del paziente, con l’infermiere strumentista alla sua sinistra e il servitore sul torace del paziente; un terzo operatore tra le gambe divaricate del paziente. L’infermiere strumentista, a volte, per meglio osservare il campo operatorio e per un intelligente anticipo della sequenza degli eventi, trovandosi di solito a maggior distanza del chirurgo dal campo operatorio, necessita di porsi a una altezza superiore a quella del chirurgo, su un’idonea pedana. In questa posizione l’infermiere strumentista può anticipare, se conosce i tempi dell’intervento, gli strumenti al chirurgo, senza invadere il campo operatorio e senza intralciare i movimenti dello stesso primo operatore, su una linea più diretta possibile, passandoglieli con decisione nel palmo della mano con duplice movimento balistico che permette un elegante ed efficiente scambio tra la mano dell’infermiere strumentista e quella del chirurgo. È da tener presente che è essenziale che l’infermiere strumentista porga lo strumento in modo che l’impugnatura sia libera per la presa del chi-


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rurgo. Strumenti curvi, la stragrande maggioranza, devono essere passati al chirurgo in modo che continuino a seguire direttamente la curvatura della mano destra del chirurgo destrimano, o sinistra per il chirurgo mancino, e che, così facendo, siano immediatamente operativi. Il passaggio di pinze e di strumenti chirurgici tra l’infermiere strumentista e il chirurgo deve permettere a quest’ultimo un’immediata e salda presa nel rispetto del triangolo di Giuliano Vanghetti (1861 – 1940), dimenticato pioniere empolese della Bionica e della Bio-Ingegneria. In qualsiasi posizione assunta, l’infermiere strumentista deve avere la possibilità di controllare e usare con facilità i tavoli operatori in ogni fase dell’intervento, in modo da avere il controllo sui propri spostamenti e sulla calibrazione della sua altezza. Infine la posizione ideale del servitore deve consentire all’infermiere strumentista di dover soltanto allungare le braccia per prelevare e riporre gli strumenti sopra di esso, senza che ciò costituisca un ostacolo all’esecuzione dell’intervento. Bibliografia AIFA. Nuove importanti informazioni di sicurezza sui medicinali, biocidi, e dispositivi medici contenenti clorexidina in soluzione cutanea per uso cutaneo nei neonati. Ottobre 2014 http://www.ordfarmbo.it/multimedia/allegati/NII%20Clorexidina%20soluzione%20cutanea%20neonati.pdf; Scacchetti D, Lusuardi R. Manuale di infermiere strumentista. Ruolo e competenze in chirurgia tradizionale, mininvasiva, endovascolare, robotica Torino Edizioni Minerva Medica 2011; Edmiston CE Jr, Sinski S, et al. Airborne particulates in the OR environment; AORN J; 1999; 69(6): 1169-72, 1175- 7,1179 passim; Gillespie B, Gwinner K, et al. Building shared situational awareness in surgery through distributed dialog. Journal of Multidisciplinary Healthcare, Vol. 6, pp. 109–118; 2013; Harnoss JC, Partecke LI, et al. Concentration of bacteria passing through puncture holes in surgical gloves. Am J Infect Control. 2010;38(2):154-158; Hentz RV, Traina GC, et al. The protective efficacy of surgical latex gloves against the risk of skin contamination: how well are the operators protected? J Mater Sci Mater Med. 2000; 11(12):825-832; Hubner NO, Goerdt AM, et al. Bacterial migration through punctured surgical lglovesunderreal surgical conditions. BMC InfectDis. 2010;10:192. 30; Information statement: preventing the transmission of bloodborne pathogens. American Academy of Orthopedic Surgeons, American Association of Othopedic Surgeons. http://www.aaos.org/about/papers/advistmt/ 1018.asp. Accessed April 2021; Information statement: preventing the trasmission of bloodborne pathogens. American Academy of Orthopedic Surgeons, American Association of Othopedic Surgeons. http://www.aaos.org/about/papers/advistmt/1018.asp. Accessed April 2021;


L’infermiere strumentista

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Lynch RJ, Englesbe MJ, et al. Measurement of foot traffic in the operating room: implications for infection control. Am J Med Qual. 2009 Jan-Feb;24(1):45-52; National and state healthcare-associated infections progress report. Atlanta (GA): National Center for Emerging and Zoonotic Infectious Diseases, Centers for Disease Control and Prevention; 2016 (http://www.cdc.gov/HAI/pdfs/progress- report/ hai-progress-report.pdf, accessed April 2021); Partecke LI, Goerdt AM, et al. Incidence of microperforation for surgical gloves depends on duration of wear. Infect Control Hosp Epidemiol. 2009;30(5): 409-414; Peruzzi A. L’infermiere strumentista, Procedure in chirurgia generale, s.l, Edra LSWR S.p.A, ristampa (2017): pp 254; Raad II, Hohn DC, et al. Prevention of central venuou catheter-related infections by using maximal sterile barrier precautions during insertion; Infect Control Hosp Epidemiol; 1994; 15(4 Pt 1): 231-238; Reccomended practice for surgical attire. In Perioperative Stadard and Recommended Practices. Denver, CO: Inc; 2014: 49-60; Sehulster L, Chinn RY, CDC, HICPAC. Guidelines for environmental infection control in health-carefacilities. Recommendations of CDC and the Health care Infection Control Practices Advisory Committee (HICPAC). MMWR Recomm Rep. 2003;52(RR-10):1-42;



Capitolo 8 Fili di sutura Francesco Nardacchione Dirigente medico – Progettazione, coordinamento, sviluppo eventi formativi strategici aziendali ASL Roma 2, Segretario Nazionale ACOI. “Si definisce sutura la procedura chirurgica che permette di affrontare tessuti e organi ai fini di una cicatrizzazione, utilizzando uno o più fili di sutura. Si definisce legatura l’apposizione di un filo di sutura attorno a un condotto per occluderne il lume”. Già nel 3000 a.C. spine e aghi venivano utilizzati per mantenere accostati i lembi di una ferita per facilitarne la cicatrizzazione. Nel 1000 a.C. Egiziani e Siriani furono i primi a essere segnalati come utilizzatori di cotone e crine di cavallo come fili di sutura; nel corso degli anni successivi diversi materiali vennero utilizzati a tale scopo nell’evoluzione della tecnica chirurgica, come seta, lino, tendini fino ad arrivare agli antichi Romani che utilizzarono per primi l’intestino. Con questi materiali utilizzati, in assenza assoluta di asepsi, è facilmente immaginabile come il problema maggiore nella guarigione delle ferite fosse rappresentato dalle infezioni, le quali spesso conducevano a drammatiche amputazioni, se non a morte, i pazienti. Solo nel 1867, in seguito ad alcuni studi dettagliati, Joseph Lister associò la presenza di batteri alle infezioni chirurgiche e adottando l’acido fenico, come detergente su una frattura esposta, notò la riduzione delle infezioni. I risultati dei suoi studi furono resi pubblici su The Lancet con un lavoro nel cui titolo compare per la prima volta il termine “antisepsi”: On the Antiseptic Principle of the Practice of Surgery. I materiali attualmente in commercio più comuni sono, per la maggior parte dei casi, fili fabbricati a partire da materie prime di origine naturale, vegetale come lino o seta, animale, come catgut, o prodotti a partire dalla polimerizzazione di molecole o composti di origine chimica. Oggi, la maggior parte dei chirurghi nella propria routine preferisce alcuni materiali rispetto ad altri e acquisisce competenze e velocità nella loro gestione utilizzando ripetutamente le stesse molecole, scegliendo generalmente nella chirurgia specialistica la stessa sutura. Concettualmente, il compito di una sutura è quello di favorire il contatto tra i margini dei tessuti affrontati per ottenere una rapida guarigione e garantire un’adeguata resistenza alla tensione, in assenza di spazi “morti” residui tra i tessuti che potrebbero pregiudicarne la cicatrizzazione. Cicatrizzazione che, a sua volta, dipende da molteplici fattori tra cui l’età del paziente, le sue condizioni fisiche, il suo stato nutrizionale, la sua risposta


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immunitaria alle infezioni, la natura e la posizione della ferita e dei tessuti da guarire. Per essere considerato ottimale, oggi un filo di sutura dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: – Essere il più piccolo possibile per produrre una resistenza uniforme alla trazione, mantenere saldamente accostati i tessuti per il tempo necessario per la guarigione e il suo riassorbimento; – Dovrebbe essere adatto a qualsiasi tipo di intervento, facile da gestire, produrre una reazione tissutale minima, consentire nodi sicuri, non favorire la crescita batterica, essere biologicamente inerte. Vari sono i tentativi di classificazione dei fili, ma nell’insieme possiamo distinguere tre macro gruppi in base alla: – Permanenza nei tessuti, cioè il periodo nel quale il filo rimane in situ, definendo quindi se sia riassorbibile o non riassorbibile; – Origine del materiale costitutivo del filo, che comporterà una suddivisione in molecole naturali o sintetiche; – Struttura, ovvero la composizione del filo che può essere monofilamento nel caso in cui un unico filamento ne componga la struttura oppure intrecciata quando risulta composta da più monofilamenti sottili avvolti attorno a una anima centrale, filo intrecciato, o ritorto su se stesso, filo ritorto, ad esempio seta intrecciata o Poliglactine 910.

Permanenza Suture riassorbibili Il componente principale è l’acido glicolico che possiede una eccellente capacità di penetrazione attraverso la cute ed è il componente base nella farmaceutica dei prodotti per la pelle. Nelle suture può essere l’unico componente o può essere combinato con altre molecole, generando così nuove strutture o copolimeri che gli permettono di accelerare o rallentare i tempi di riassorbimento, il quale normalmente oscilla tra i 60 ed i 90 giorni.


Fili di sutura

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Se combinato con l’acido lattico, Lactomer 9-1, il tempo di riassorbimento si riduce a 50-70 giorni; aggiungendo caprolattone, carbonato di trimetilene, poliglytone 6211, il riassorbimento scende a meno di 50 giorni. La presenza di un rivestimento, in cui è presente anche stearato di calcio, riesce a dar vita a una sutura con tempi di riassorbimento di circa 40 giorni, mentre l’unione con il solo carbonato di trimetilene, Ppoligliconato, invece lo aumenta fino a 180 giorni. Il nostro organismo reagisce a queste sostanze decomponendole attraverso reazioni differenti, enzimatiche in caso di fili di origine naturale o per idrolisi in caso di fili di origine sintetica. Gli enzimi proteolitici, secreti dai macrofagi e dai neutrofili, andranno a digerire queste proteine naturali causando però una forte reazione infiammatoria cellulare. Nella idrolisi, invece, le suture di origine sintetica sono semplicemente disintegrate con il rilascio di acqua, in assenza di reazione enzimatica; in questo modo causano una minor reazione tessutale rispetto alle sostanze naturali. Per tale motivo la resistenza meccanica è quindi limitata nel tempo e varia tra materiale, posizione della sutura e fattori del paziente che permettono riassorbimenti in breve, medio e lungo periodo, in base ai giorni impiegati, per la loro totale scomparsa. Le suture riassorbibili sono comunemente usate per tessuti profondi e tessuti che guariscono rapidamente; di conseguenza, possono essere utilizzate su stomaco, intestino tenue, colon, colecisti, o per suturare vie urinarie o biliari o per legare piccoli vasi sottocutanei. Da alcuni anni sono in commercio suture riassorbibili con aggiunta di un agente antibatterico ad ampio spettro, in grado di creare una zona di inibizione alla diffusione batterica, svolgendo un’azione preventiva nei confronti delle possibili infezioni del sito chirurgico. Suture non assorbibili Le suture non assorbibili vengono utilizzate per fornire un supporto meccanico tissutale definitivo o a lungo termine, rimanendo murate dai processi infiammatori dell’organismo, fino alla rimozione manuale se necessaria, senza compromettere nel tempo le proprie caratteristiche meccaniche. Le naturali più comuni sono seta e lino, mentre tra le sintetiche distinguiamo nylon, polipropilene, dacron o teflon. Vista la loro scarsa reazione tissutale vengono utilizzati maggiormente su cute o tessuti che guariscono lentamente, come fascia o tendini, su parietosinstesi addominale o anastomosi vascolari. Menzione a parte meritano i fili in acciaio inossidabile, realizzati in lega di ferro con basse percentuali di carbonio, in mono o polifilamento, usati per suturare legamenti, tendini e ossa. In casi eccezionali possono essere usati sulla parete addominale per chiudere ferite “difficili”, come in caso di eventrazioni.


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Origine – Naturale: fili realizzati a partire da materie prime di origine naturale, vegetali o animali. Sono usati meno frequentemente dei sintetici poiché tendono a provocare una maggiore reazione tissutale. Tuttavia, la sutura in seta viene ancora utilizzata regolarmente per fissare i drenaggi chirurgici. – Sintetica: costituito mediante la polimerizzazione di molecole e composti di origine chimica. Ad oggi i fili più largamente utilizzati sono di natura sintetica per la loro minore reazione infiammatoria e perché tendono ad avere un comportamento più prevedibile rispetto alle suture naturali, specie per la perdita di resistenza alla trazione e per l’assorbimento. I più frequentemente utilizzati sono costituiti da: – Poliammide – Nylon, Ethilon; – Poliestere – Ethibond, Ti-cron; – Polipropilene – Prolene, Surgilene; – Polibutestere – Vascufil; – Poliglactine 910 – Vicryl; – Ac. Poliglicolico – Dexon; – Polidiossanone – PDS; – Poliglecaprone – Monocryl; Struttura – Monofilamento: Presentano superficie uniforme, con assenza di capillarità, minore reazione tissutale e maggiore facilità di scorrimento. Questa caratteristica richiede una particolare attenzione nella loro manipolazione, potendo essere difficoltosa la tenuta del nodo di chiusura, o addirittura possibile la capacità di tagliare i tessuti. Dopo una sollecitazione termica o meccanica tendono a ritornare alla forma iniziale conservando memoria della loro forma macroscopica preimpostata. Sono usati maggiormente nella chirurgia mini-invasiva, plastica e nelle suture di strutture sottili e delicate o quando c’è la necessità di evitare migrazioni batteriche. Infatti in caso di ferite infette è sempre consigliabile l’uso di un monofilamento non assorbibile. – Ritorta / Intrecciata: Sono più maneggevoli, facili da gestire e mantengono la loro forma per una buona sicurezza del nodo, ma non hanno memoria. Causano un danno maggiore a livello tissutale per la loro rugosità. Per contrastare la loro naturale capillarità, con conseguente rischio di sviluppare o favorire infezioni, possono essere rivestiti. Si usano quando è necessaria la tenuta dei nodi e la tensione, come ad esempio nelle legature, nei punti trasfissi, nel posizionamento di protesi o per chiudere le fasce.


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Fili di sutura

Fattore imprescindibile nella scelta di un filo di sutura è il tempo di guarigione del tessuto su cui andrà applicato, che varia in maniera significativa sia per i tempi sia per le possibili sollecitazioni cui quel tessuto è esposto. Nella tabella sottostante sono riportati ad esempio i tempi medi di cicatrizzazione dei tessuti più comuni. Da notare la diversità di guarigione di uno stesso tessuto che impiega tempi diversi per una completa chiusura, come nel caso della fascia che dopo 14 giorni risulta cicatrizzata solo nel suo 20% di tenuta mentre sono necessari più di 60 giorni per arrivare a superare l’80%: Mucosa

3–7

Cute

7 – 10

Organi parenchimatosi

7 – 12

Sottocute

7 – 14

Intestino, Vescica, Utero

10 – 14

Peritoneo Parete addominale

14 > 16

Tendini, Nervi, Legamenti, Osso

21 – 35

Muscoli

28 – 30

Fascia

14 → 20 % 28 → 50 % 60 → 80 %

La combinazione delle caratteristiche sopra elencate porta all’identificazione della molecola più idonea da utilizzare, tenendo presente che essa genererà comunque una reazione tissutale da parte dell’organismo, qualunque sia la sua struttura. Qualora fossimo, come ad esempio nella cardiochirurgia, alla ricerca di un materiale che dia poca reazione infiammatoria, che resti in situ garantendo un’ottima tenuta dell’anastomosi nonostante una sollecitazione meccanica, che sia di struttura non traumatizzante per eseguire passaggi ripetuti, la scelta sarà sicuramente indirizzata verso un filo non riassorbibile, monofilamento, sintetico, come il polipropilene. Le suture assorbibili, con il trascorrere dei giorni, tendono ad andare incontro alla Perdita di Resistenza Tensile (PRT), intendendo con questa dizione la perdita graduale di resistenza effettiva dell’accostamento meccanico dei lembi di una ferita e la forza residua trattenuta dal filo nel tempo, fino al suo completo riassorbimento, inteso come riduzione o scomparsa. Un’altra componente fondamentale nell’analisi della tipologia di sutura che si va ad adottare è la presenza del rivestimento, che ne garantisce scorrevolezza, in modo da provocare il minor trauma tissutale possibile nei diversi passaggi.


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Fondamentali in Chirurgia

Quando rivestimento e fili sono affini, questo sta ad indicare che sono realizzati con la stessa molecola; il legame che viene a crearsi tra le due parti, ne eviterà l’esfoliazione, rendendolo più stabile e saldo. Le condizioni dei tessuti che si andranno a suturare e le condizioni del paziente saranno determinanti nella scelta della sutura idonea: tessuti a lenta cicatrizzazione o tessuti sottoposti a una tensione costante, come ad esempio sterno, fascia addominale o capsula articolare, necessitano di fili di sutura che abbiano una PRT più lunga e un calibro superiore. Stesso ragionamento è applicabile quando si sottopongono a sutura tessuti con capacità cicatriziale compromessa, come ad esempio nei casi di pazienti oncologici, diabetici, obesi, malnutriti, anziani e disidratati. Ovviamente il discorso riguardante la resistenza tensile si applica in tutti i fili di sutura assorbibili, poichè nelle molecole considerate non assorbili la resistenza tensile resta invariata nel tempo. Nel caso di fili non assorbibili, si valuta, relativamente ai monofilamenti, l’inerzia, ovvero la capacità di un materiale di non subire alterazioni causate dall’azione enzimatica rimanendo dunque incapsulato in un tessuto connettivale fibroso. Tenendo conto dunque dei tempi di cicatrizzazione dei differenti tipi di tessuto, è necessario trovare la combinazione corretta tra atraumaticità, PRT e struttura del filo, in modo da poter confezionare una sutura che risulti, per calibro e struttura, atraumatica, ma che, grazie alla PRT corretta, sia capace di mantenere ben accostati i margini della ferita fino alla completa guarigione, evitando fenomeni di deiscenza e infezioni, permettendo di raggiungere non solo una guarigione corretta ma anche un risultato estetico ottimale.

In ogni filo esiste una capacità di adattamento alle varie sollecitazioni, che è funzione della forza applicata per ottenere un allungamento. Possiamo


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Fili di sutura

distinguere una regione elastica cui fa seguito una regione plastica superata la quale si raggiunge il punto di rottura. Sottoponendo un filo a una forza di tensione, come ad esempio un allungamento, durante la creazione del nodo è importante che superi la sua regione elastica, che si deformi raggiungendo la zona plastica, senza arrivare al proprio punto di rottura e spezzarsi. Questo permette di creare un nodo piatto che sia capace di tenere più a lungo, evitando altresì di dover confezionare più nodi che andrebbero ad aumentare la quantità di materiale impiantato nel sito che diverrebbe unicamente veicolo per potenziali proliferazioni batteriche. Recentemente in commercio è possibile rintracciare fili di sutura autobloccanti, ovvero fili che non necessitano del confezionamento di nodi, grazie a un sistema di intagliatura del filo che crea delle ancore le quali, posizionandosi in verso contrario nel tessuto rispetto al verso della sutura confezionata, sono capaci di mantenere ben saldi i margini della sutura, senza la necessità di confezionamento del nodo. Ogni sutura ha una propria dimensione, comunemente rappresentata dal calibro: United States Pharmacopeia (USP) ed European Pharmacopeia (EP) sono le misure metriche riconosciute che rappresentano il diametro effettivo del filo in decimi di millimetro: più è alto il numero di zeri, più il filo è sottile. USP

11/0

10/0

9/0

8/0

7/0

6/0

5/0

4/0

3/0

2/0

EP

0,1

0,2

0,3

0,4

0,5

0,7

1

1.5

2

3

0 3.5

1 4

2 5

3 6

4 7

5 8

6 9

La pratica più comune accettata in chirurgia è quella di utilizzare il filo del diametro più piccolo possibile in relazione alla necessità, per ridurre il trauma tissutale, garantendo comunque una resistenza sia in termini temporali che in termini di tenuta. In genere i calibri più piccoli (11/0-7/0) vengono utilizzati in microchirurgia, chirurgia oftalmica e vascolare periferica. La chirurgia cardiovascolare utilizza fili di polipropilene, poliestere e polibutestere di calibri minori (8/0-2/0), mentre la chirurgia plastica utilizza polipropilene, poliestere e Nylon (6/0-3/0). La chirurgia generale, l’ostetricia e l’ortopedia variano tra polipropilene, poliestere, Nylon, seta e acciaio con calibri compresi tra il 4/0 ed il 2. I calibri maggiori vengono utilizzati per le ritenzioni (2-4) e per le sternotomie (> 4).


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Fondamentali in Chirurgia

Un quadro riassuntivo dei principali fili di sutura disponibili è il seguente: Produttrice COVIDIASSUT B.BRAUN EN ETHILON MONO- ASSUNYL DAFILON SOF/DERMALON

Reazione tissutale Minima

ResisEvoluzitenza one trazione Alta Incapsulamento e Fibrosi

PREMILENE/ OPTI-LENE PREMICRON

Minima

Nessuna degradazione

/

Lieve

Alta

Incapsulamento e Fibrosi

SILKAM

Alta

Alta

/

Reazione tissutale

Perdita Resistenza tensile

Riassorbimento completo

NON ASSORBIBILE ETHICON sintetica monofilamento in poliammide premontata sintetica monofilamento in polipropilene premontata sintetica plurifilamento in poliestere rivestita e premontata naturale plurifilamento in seta

PROLENE

SURGIPRO

ASSUPRO

ETHIBOND

TICRON

ASSUFLON/ASTRALEN

SETA

SOFSILK

ASSUSILK

Produttrice ASSORBIBILE

ETHICON

COVIDIEN

ASSUT

B.BRAUN

sintetica monofilamento

--

CAPROSYN

MONOFIL FAST

MONOSYN QUICK

Minima

Rapida

56 gg

sintetica monofilamento

MONOCRYL

BIOSYN

MONOFIL

MONOSYN

Minima

Media

90 – 120 gg

sintetica monofilamento

PDS II

MAXON

ASSUFIL MONOFIL

MONOPLUS

Lieve

Lunga

– 1 8 0 2 1 0 gg

sintetica plurifilamento rivestita

VICRYL RAPIDE

VELOSORB Fast

GLICOFIL LAC FAST

SAFIL QUICK / NOVOSYN QUICK

Moderata

Rapida

42 gg

sintetica plurifilamento rivestita

VICRYL

POLYSORB

GLICOFIL LAC/ ASSUFIL

SAFIL

Minima

Media

– 50 70 gg

sintetica monofilamento con antisettico ad attività antibatterica

MONOCRYL PLUS

--

--

--

Minima

Media

90 – 120 gg


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Fili di sutura Produttrice ASSORBIBILE sintetica monofilamento con antisettico ad attività antibatterica sintetica plurifilamento con antisettico ad attività antibatterica

Reazione tissutale

Perdita Resistenza tensile

Riassorbimento completo

ETHICON

COVIDIEN

ASSUT

B.BRAUN

PDS PLUS

--

--

--

Lieve

Lunga

180 gg

VICRYL PLUS

--

ASSUFIL PLUS

--

Minima

Media

– 50 70 gg

Quando parliamo di sutura non parliamo solo del filo, ma anche di ago e del tipo di attacco ago-filo; questo perché la combinazione di questi elementi crea un prodotto altamente tecnologico, con molte combinazioni disponibili, per adattarsi a ogni possibile esigenza chirurgica. Ago

Una corretta conoscenza delle suture non può prescindere da una corretta conoscenza degli aghi chirurgici, che permettono al filo di penetrare nei tessuti. Molte definizioni infatti, parlando di sutura, sottointendono l’ago, che rappresenta un elemento fondamentale da analizzare. Per poter passare il filo attraverso i tessuti, il primo device che si utilizza ed entra nel tessuto è proprio l’ago, motivo per il quale, negli anni, si è proceduto a studiare diverse tipologie di ago adatte per i diversi siti chirurgici e le diverse procedure.


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Fondamentali in Chirurgia

Ecco allora che tutti gli aghi dovrebbero essere: – Fatti di acciaio di alta qualità e causare la minor reazione tissutale possibile; – Sottili il più possibile senza indebolire la loro resistenza; – Stabili e facili da usare con un portaaghi; – Taglienti per passare attraverso i tessuti, con una minima resistenza tissutale; – Rigidi tanto da resistere alle compressioni e alla flessione, ma sufficientemente flessibili da non rompersi; – Sterili e sterilizzabili. Originariamente gli aghi erano pluriuso, risterilizzabili, forniti di una cruna attraverso la quale era necessario far passare il filo di sutura. Il passaggio della componente cruna-filo risultava traumatizzante nei tessuti. Nel 1921, la scomparsa della cruna con la creazione di aghi atraumatici, che avevano un calibro superiore a quello del filo fissato alla loro estremità, è stata una vera innovazione per la chirurgia, con una importante riduzione del traumatismo tissutale.

Il diametro dell’ago è superiore a quello del filo e, in questo modo, dopo il suo passaggio non si nota una sproporzione tra il foro creato dall’ago e il riempimento dato dal filo. Questo fa sì che dal foro della sutura non trasudino liquidi e/o sangue e l’eventuale materiale infetto presente e che non comporti una migrazione di suddetto materiale attraverso i fori della sutura. Risulta quindi evidente che, dopo aver parlato di fili, elemento fondamentale per la sutura è una corretta conoscenza delle diverse parti che costituiscono un ago: la punta, il corpo e la curvatura. Ciascuna di queste caratteristiche deve essere accuratamente identificata allo scopo di fare la scelta migliore, cioè per scegliere l’ago più appropriato per il paziente e il tipo d’intervento chirurgico.


Fili di sutura

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La punta dell’ago è la prima che penetra nel tessuto ed è quella che potenzialmente può arrecare maggiori traumi incontrando tessuti fragili, come ad esempio tessuti compromessi da una terapia oncologica.

Ad oggi esistono in commercio punte taglienti, ideate per essere penetranti, ideali per tessuti quale il derma, che necessita di una penetrazione più decisa, considerato tessuto resistente; gli aghi montati su fili di acciaio utilizzati nelle sternotomie, gli aghi da chirurgia plastica e gli aghi montati su plurifilamento intrecciati per montaggio delle valvole cardiache, solitamente, sono punte di precisione e hanno una forma triangolare e appuntita. Alcune aziende utilizzano aghi dalla punta triangolare, ma meno appuntita, pur mantenendo una forma triangolare, ideati appositamente per coronarie calcifiche.


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Fondamentali in Chirurgia

Tessuti come colon, retto, pancreas e fegato, si prestano meglio per essere suturati con un ago dalla punta cilindrica, ben penetrante ma meno traumatica delle sovracitate e, dunque, idonea a essere utilizzata su tessuti delicati, perché separa le fibre dei tessuti senza sezionarle.

Sulla punta di alcuni aghi ci sono tre bordi taglienti. Questi bordi si appiattiscono gradatamente fino a scomparire nel corpo dell’ago. Questi aghi sono stati progettati per tessuti sclerotici, induriti e calcificati, come ad esempio fasce muscolari, tessuto connettivo, periostio, tendini e vasi calcificati.

Esistono poi combinazioni di aghi più specifiche, con un corpo circolare e una punta smussa, create ad hoc per esigenze particolari, studiate per prevenire il pericolo di contaminazione da puntura accidentale, che risulta particolarmente importante per i pazienti affetti da malattie trasmissibili per via ematica, e per rendere possibile la sutura su pazienti plurioperati, diminuendo il rischio di contaminazione per gli operatori, soprattutto su organi molto vascolarizzati o parenchimatosi o sulle vie biliari e urinarie. Nel passaggio attraverso i tessuti, un ago a punta smussa sposta i tessuti senza causare una soluzione di continuità in essi; crea semplicemente una fenditura nel tessuto connettivo e negli organi solidi. Il corpo dell’ago può avere anch’esso forma triangolare, tagliente o cilindrica, seguendo la stessa ratio di utilizzo adottata per la punta. Ciò che è fondamentale analizzare riguardo il corpo dell’ago, è la curvatura: si possono avere aghi da ½ cerchio, più largamente utilizzati nelle procedure di chirurgia generale e ginecologica; aghi da 3/8 di cerchio, largamente utilizzati nella chirurgia plastica, cardiochirurgia e chirurgia vascolare e più in generale in tutte le specialistiche che lavorano più in superficie e


Fili di sutura

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non necessitano di elevate profondità; aghi da 5/8 di cerchio, studiati prevalentemente per la chirurgia urologica, che presenta piani di lavoro stretti e profondi, le cui suture necessitano di un ago che le faciliti in piani di difficile raggiungimento. Aghi retti, molto utilizzati nella chirurgia della cute, dei tendini e del retto basso, o aghi retti a ½ cerchio, o anche detti “a punta di sci”, utilizzati in chirurgia laparoscopica.

Il colore di un ago può facilitare il lavoro di un chirurgo che si confronta con un forte riflesso della scialitica, come ad esempio in cardiochirurgia, in chirurgia ginecologica e vascolare: per ovviare a questo problema sono stati creati aghi neri, ottenuti attraverso processi di tempratura e/o tintura dell’ago stesso, a seconda della tecnica utilizzata nella lavorazione del metallo dell’ago. Bibliografia Lister J. On the antiseptic principle in the practice of surgery. The Lancet. 1867 Sep 21;Vol 2;Issue 2299;353-56;



Capitolo 9 I nodi in chirurgia Andrea Mingoli*, Marco Cavallini**, Paolo Sapienza*** *Professore Ordinario di Chirurgia Generale, Direttore di Chirurgia del Politrauma, Dipartimento di Chirurgia “Pietro Valdoni”, Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I, “Sapienza” Università di Roma. **Professore Associato, Responsabile UOS Chirurgia Endocrina, Dipartimento di Scienze Medico-Chirurgiche e di Medicina Traslazionale, Azienda Ospedaliero-Universitaria Sant’Andrea, “Sapienza” Università di Roma. ***Professore Associato, Responsabile UOS Diagnostica Vascolare Ultrasonora, Dipartimento di Chirurgia “Pietro Valdoni”, Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Umberto I, “Sapienza” Università di Roma. Premessa Il processo di guarigione di una ferita suturata dipende dalla qualità del tessuto e dal tipo di sutura scelta dal chirurgo. Le suture devono, comunque, garantire un corretto accostamento dei margini senza eccesso di tensione: solo in presenza di un equilibrio tra accostamento e tensione, sarà garantita una corretta circolazione sanguigna che permetterà la guarigione dei tessuti. Quindi, i nodi devono essere serrati perché non si allentino, ma senza stringere troppo per non ischemizzare i tessuti. I nodi vengono serrati a completamento di ogni sutura, continua o a punti staccati, perché rimanga dove il chirurgo l’ha posizionata e mantenga l’accostamento dei tessuti per il tempo necessario alla loro cicatrizzazione. Il nodo rappresenta, però, il punto più debole della sutura perché il suo allentamento può avere delle conseguenze devastanti, dalla deiscenza della ferita a una grossa emorragia per la riapertura di un vaso. Ciascun nodo, indipendentemente dalla tecnica di esecuzione scelta, è formato da due seminodi. Il primo è detto ‘seminodo di accostamento’ e permette di avvicinare i margini della ferita. Il secondo è detto ‘seminodo di sicurezza’ e determina, insieme agli altri eventuali seminodi aggiuntivi, la tenuta del nodo. Il nodo ideale dovrebbe avere le seguenti caratteristiche: – Sicurezza del seminodo: è data dalla capacità del chirurgo di mantenere in tensione i fili della sutura mentre si annoda ciascun seminodo. Dopo il primo seminodo è necessario tenere in tensione i capi del filo per evitare che si allenti mentre si serra il secondo seminodo, mettendo a rischio la tenuta del nodo;


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Fondamentali in Chirurgia

– Sicurezza del nodo: è data dall’integrità del secondo seminodo. Dipende da: – Configurazione strutturale del nodo: il nodo quadrato, costituito da due seminodi annodati in direzioni opposte, ha maggiore sicurezza del nodo incrociato che è costituito da due seminodi annodati nella stessa direzione; – Materiale di sutura utilizzato: fili a elevata memoria, vale a dire con tendenza a tornare alla forma e alla disposizione spaziale originale, e coefficiente di attrito del materiale di sutura, prevalenti nei monofilamenti, specialmente non riassorbibili, possono compromettere la sicurezza del nodo; – Numero di seminodi: bisognerebbe cercare di non eseguire un numero eccessivo di seminodi, massimo 3-5, perché questo non aumenta la sicurezza del nodo, ma ne aumenta le dimensioni e, quindi, la reazione di corpo estraneo; – Diametro del filo di sutura: minore è il diametro e maggiore è la sicurezza del nodo; – Lunghezza di capi di sutura: una volta completato il nodo, i capi dei fili di sutura devono essere tagliati lasciando circa 3 mm di lunghezza. Nell’esecuzione del nodo devono, poi, essere rispettati alcuni principi di base: – Evitare qualunque attrito non necessario sui fili, mentre si sta serrando il seminodo, perché questo lo indebolisce e può facilitarne la rottura; – Evitare di danneggiare il filo di sutura prendendolo con il portaaghi o con altri strumenti chirurgici lungo la sua lunghezza, perché allo stesso modo lo si può indebolire e causarne la rottura. Solo gli estremi dei fili possono essere tenuti con gli strumenti; – Come già detto, bisogna mantenere i fili in tensione mentre si serrano i due seminodi; – Nel serrare ciascun seminodo, specialmente se su tessuti delicati o in profondità, si deve accompagnare il seminodo con l’indice o il medio per evitare trazioni inopportune e conseguenti lacerazioni dei tessuti che si stanno suturando; – Come già detto, le dimensioni del nodo finale devono essere le più piccole possibile sia per minimizzare le reazioni da corpo estraneo, specialmente quando si usano suture non riassorbibili, sia per non interferire con la sutura dei piani più superficiali. Il nodo più sicuro è il ‘nodo quadrato’ o ‘piano’ che è universalmente il più utilizzato. La sua esecuzione, descritta in dettaglio, può essere realizzata con le mani, con una sola mano o con due mani, o con l’uso di uno strumento chirurgico. Il nodo quadrato è semplicemente un nodo doppio composto dalla sovrapposizione di due seminodi semplici. Il nodo quadrato è anche definito ‘piano’ perché i due seminodi semplici che lo compongono giacciono sullo stesso piano. Questo piano è individuato dalle rette costituite dai piani di sutura. Dopo aver costruito il primo seminodo, i capi dei due fili vanno trazionati conservando il piano del nodo e applicando le forze lungo la stessa direzione ma, ovviamente, nel verso opposto. Il secondo seminodo semplice sarà sovrapposto e confezionato con gli stessi criteri del primo seminodo.


I nodi in chirurgia

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L’esecuzione del nodo quadrato potrebbe sembrare semplice o addirittura naturale; nulla di più erroneo e superficiale. Per realizzare questo nodo è necessario che il giovane chirurgo si eserciti molto, con i diversi tipi di fili di sutura, prima di eseguirlo durante un intervento chirurgico. Un nodo da sconsigliare è quello chiamato dagli anglosassoni Granny Knot, o ‘nodo incrociato’, perché incapace di serrare. Si tratta di un nodo formato da due seminodi eseguiti compiendo due movimenti identici con la stessa mano, portando sempre a un nodo che si allenta facilmente. Eseguire più seminodi sempre nello stesso verso, non aumenta la sicurezza del nodo, ma solo la quantità di materiale estraneo che rimane nel corpo del paziente. Per motivi di spazio, ci limiteremo a descrivere l’esecuzione del nodo quadrato, in tutte le sue varianti (a due mani, a una mano con l’aiuto di uno strumento), del nodo chirurgico e del nodo incrociato. Nodo quadrato o piano La caratteristica di questo nodo è che i due seminodi vengono serrati cambiando la direzione con cui vengono incrociati i fili di sutura. Questo rende il nodo più sicuro rispetto al nodo incrociato, in cui la direzione rimane la stessa, aumentando la possibilità che il nodo si allenti. Nella Figura 1 descriviamo la tecnica con due mani (primo nodo semplice) e nella Figura 2 descriviamo il secondo nodo semplice. Nella Figura 3 descriviamo una variante a due mani del nodo quadro (primo seminodo semplice) e nella Figura 4 il secondo seminodo semplice. Nella Figura 5 descriviamo il nodo quadrato eseguito con tecnica a una mano (primo seminodo) e nella Figura 6 il secondo seminodo. Nella Figura 7 riportiamo il nodo quadrato eseguito con uno strumento chirurgico (primo seminodo semplice) e nella Figura 8 il secondo seminodo semplice. Nodo chirurgico È un nodo utilizzato di frequente quando i margini della ferita sono in tensione. In questo nodo, i fili di sutura vengono incrociati due volte prima di serrare il primo seminodo (Figura 9), così da mantenerne la tensione, mentre si annoda il secondo seminodo, eseguito con qualunque delle tecniche sopradescritte. Alla fine dei due seminodi il nodo nel complesso sarà più voluminoso di un nodo quadrato e potrà causare, più facilmente, delle reazioni da corpo estraneo. Per questo motivo va riservato solo alle suture di tessuti in tensione, come l’accostamento della aponeurosi muscolare di una ferita laparotomica. Si ringraziano i Sigg.ri Bernard Luraschi e Alberto Sciamplicotti del dipartimento di Chirurgia Pietro Valdoni che hanno realizzato la parte grafica del lavoro. Le illustrazioni sono di proprietà del Dipartimento di Chirurgia P. Valdoni.


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Fondamentali in Chirurgia

Figura 1


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Figura 2


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Fondamentali in Chirurgia

Figura 3


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Figura 4


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Fondamentali in Chirurgia

Figura 5


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Figura 6


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Fondamentali in Chirurgia

Figura 7


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Figura 8


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Figura 9

Legenda delle Figure Figura 1. Tecnica con due mani (primo nodo semplice). 1- Il capo di sutura fisso (a) è posizionato sull’indice della mano sinistra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. Il capo di sutura mobile (b) è tenuto sull’indice nella mano destra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. 2- Il capo mobile (b) viene fatto passare al di sotto dell’indice della mano sinistra a incrociare il capo fisso. 3- Il pollice e l’indice della mano sinistra si uniscono a formare un anello che circonda l’incrocio dei due fili.


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4- Il pollice sinistro passa nell’ansa formata dai due capi dei fili (b) e (a). 5- La mano destra si sposta in alto e in avanti facendo incrociare il filo (b) su quello (a) e il capo (b) viene bloccato tra pollice e indice della mano sinistra. 6- L’indice e il pollice della mano sinistra ruotano verso l’interno dell’asola portandosi dietro il capo (b) del filo mentre il dito medio della mano destra allarga l’asola (se necessario). 7- Il capo (b) viene quindi ripreso dal pollice e dall’indice della mano destra. 8- I due capi poi si allontanano lungo il piano orizzontale (lo stesso dell’ansa del nodo), utilizzando l’indice (o il medio se in profondità) delle due mani per accompagnare il seminodo mentre lo si serra. Figura 2. Tecnica con due mani (secondo nodo semplice). 1- I capi (b) e (a) si trovano adesso nella mano opposta rispetto al primo nodo. Questo secondo nodo a chiusura del primo segue gli stessi movimenti delle mani dell’altro ma viene eseguito con la mano opposta: la destra. 2- Il capo mobile (b) viene fatto passare al di sotto dell’indice della mano destra a incrociare il capo fisso. 3- Il pollice e l’indice della mano destra si uniscono a formare un anello che circonda l’incrocio dei due fili. 4- Il pollice destro passa nell’ansa formata dai due capi dei fili (b) e (a). 5- La mano sinistra si sposta in alto e in avanti facendo incrociare il filo (b) su quello (a). 6- Il capo (b) viene bloccato tra pollice e indice della mano destra. 7- Indice e pollice della mano destra ruotano verso l’interno dell’asola portandosi dietro il capo (b) del filo mentre il dito medio della mano sinistra allarga l’asola (se necessario) per poi riprenderlo. 8- I due capi poi si allontanano lungo il piano orizzontale (lo stesso dell’ansa del nodo), utilizzando l’indice (o il medio se in profondità) delle due mani per accompagnare il nodo, formando così il nodo quadrato. Figura 3. Variante del nodo quadrato, tecnica con due mani (primo nodo semplice). 1- Il capo di sutura fisso (a) è posizionato sull’indice della mano sinistra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. Il capo di sutura mobile (b) è tenuto sull’indice nella mano destra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. 2- Il capo mobile (b) viene fatto passare al di sotto dell’indice della mano sinistra a incrociare il capo fisso. 3- Il pollice e l’indice della mano sinistra si uniscono a formare un anello che circonda l’incrocio dei due fili. 4- Il pollice sinistro avanza verso l’alto e a sinistra passando nell’ansa formata dai due capi dei fili (b) e (a).


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Fondamentali in Chirurgia

5- La mano destra si sposta in alto e in avanti facendo incrociare il filo (b) su quello (a). 6- Il capo (b) viene bloccato tra pollice e indice della mano sinistra. 7- L’indice e il pollice della mano sinistra ruotano verso l’interno dell’asola portandosi dietro il capo (b) del filo che viene ripreso dal pollice e dall’indice della mano destra. 8- I due capi poi si allontanano lungo il piano orizzontale (lo stesso dell’ansa del nodo), utilizzando l’indice (o il medio se in profondità) delle due mani per accompagnare il nodo. Figura 4. Variante del nodo quadrato, tecnica con due mani (secondo nodo semplice). 1- I capi (b) e (a) si trovano adesso nella mano opposta rispetto al primo nodo. Il capo (b) viene preso dalla mano destra mentre il pollice della sinistra crea un punto fisso per permettere la rotazione. 2- Il pollice e l’indice della mano sinistra si uniscono a formare un anello che circonda l’incrocio dei due fili. 3- L’indice e il pollice ruotano verso il basso dentro l’ansa formata dai due capi dei fili (b) e (a). 4- Il capo (b) del filo viene preso tra l’indice e il pollice della mano sinistra che ruotano verso l’alto; il filo viene, quindi, ripreso dall’indice e dal pollice della mano destra. 5- I due capi poi si allontanano lungo il piano orizzontale (lo stesso dell’ansa del nodo), utilizzando l’indice (o il medio se in profondità) delle due mani per accompagnare il nodo, formando così il nodo quadrato. Figura 5. Variante del nodo quadrato, tecnica con una mano (primo nodo semplice). 1- Il capo (a) è posizionato sull’indice della mano sinistra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. Il capo (b) è tenuto sull’indice nella mano destra, tenuto fermo nel palmo dal IV e V dito. 2- Il capo (b) viene portato con l’indice della mano destra a incrociare superiormente il capo (a). 3- L’indice della mano destra arpiona il capo (a) mentre il pollice e anulare della stessa mano mettono in tensione il capo (b). 4- L’indice della mano destra incrocia il (b) con il capo (a) con un movimento di rotazione in avanti. 5- A rotazione avvenuta il capo (b) si trova a livello della prima falange dell’indice della mano destra e il capo (b) al sotto. 6- Il capo (b) viene quindi recuperato dall’indice con il pollice e il medio e il nodo viene abbassato tenendo in tensione il capo (a) con pollice e indice della mano sinistra e abbassando ad annodare con l’indice o il medio della destra il capo (b).


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Figura 6. Variante del nodo quadrato, tecnica con una mano (secondo nodo semplice). 1- Il capo (a) tenuto tra pollice e indice della mano sinistra forma un’ansa sulla faccia laterale del dito medio della mano destra mentre il capo (b) tenuto tra il pollice e l’indice nella mano destra forma l’altra porzione dell’ansa facendo perno sulla faccia mediale dell’anulare. 2- Piegando la punta del dito medio della mano destra arpionare il capo (b) per passarlo sotto il capo (a). 3- Passare totalmente il capo (b) sotto il capo (a). 4- Abbassare con l’indice (o il medio) della mano destra il capo (b) verso il primo nodo per chiudere il nodo quadrato. Figura 7. Variante del nodo quadrato, tecnica dell’ansa (primo nodo semplice). 1- Il capo (a) è tenuto tra pollice e indice della mano sinistra mentre la mano destra tiene il portaaghi. 2- Arrotolare con il verso delle lancette dell’orologio il capo (a) sul portaaghi. 3- Afferrare con la punta del portaaghi il capo (b) e portarlo nell’ansa formata dal capo (a). 4- Annodare. Figura 8. Variante del nodo quadrato, tecnica dell’ansa (secondo nodo semplice). 1- Il capo (a) è tenuto tra pollice e indice della mano sinistra mentre la mano destra tiene il portaaghi. 2- Arrotolare il capo (a) sul portaaghi con il verso contrario delle lancette dell’orologio. 3- Afferrare con la punta del portaaghi il capo (b) e portarlo nell’ansa formata dal capo (a). 4- Annodare. Figura 9. Nodo chirurgico (primo seminodo). 1- Il capo di sutura mobile (a), dopo la prima rotazione completa (360°) intorno al capo fisso (b). 2- Il capo di sutura mobile (a) viene fatto ruotare nuovamente per altri 360° mantenendo lo stesso verso.



Capitolo 10 Mezzi di sintesi meccanici Grazia Maria Attinà Dirigente Medico – UOC Chirurgia Generale, d’Urgenza e Nuove Tecnologie, Azienda Ospedaliera S. Camillo-Forlanini – Roma Segratario Vicario ACOI Introduzione Per sutura chirurgica si intende la procedura che permette di avvicinare stabilmente i lembi di un tessuto, con discontinuità dei suoi piani anatomici, favorendone la cicatrizzazione. Le suture possono essere realizzate mediante: – Metodi tradizionali: ago, filo e tecniche di annodamento; – Suturatrici meccaniche, ovvero device utilizzati in chirurgia a cielo aperto e mini-invasiva per apporre agrafe generalmente in titanio; – Applicatori di clip. I vantaggi provenienti dall’uso di tali presidi sono: – Confezionare suture/anastomosi uniformi e impermeabili con punti calibrati ed equidistanti evitando il minimo spandimento del tessuto o contenuto endoluminale e quindi l’infezione del sito chirurgico; – Permettere un’emostasi perfetta, grazie alla sfalsatura delle due file di agrafe che contemporaneamente evita anche l’effetto ischemizzante del punto; – Garantire la massima tolleranza biologica nei confronti di punti metallici e una tenuta perfetta della sutura, così da ridurre il trauma esercitato sui tessuti; – Trattare monconi anastomotici in zone anatomicamente poco agevoli, come in caso di anastomosi esofagodigiunale alta o colorettale bassa; – Uniformare le tecniche di anastomosi; – Ridurre i tempi tecnici di esecuzione dell’intervento chirurgico. In questo capitolo tratteremo le suturatrici meccaniche e i dispositivi di applicazione di clip poichè i nodi e le tecniche di annodamento sono trattate in altro capitolo. Suturatrici meccaniche Classificazione Le suturatrici meccaniche possono essere di due tipi: – Cutanee: i punti metallici per le suture cutanee assumono, una volta chiusi, una configurazione rettangolare che contemporaneamente accosta ed everte i margini cutanei. Questa configurazione evita la rotazione dei punti e la facile rimozione. I punti metallici possono variare in lunghezza


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Fondamentali in Chirurgia

e spessore, a seconda della consistenza della zona cutanea su cui vengono apposti. I punti metallici sono in titanio, materiale inerte sia per risonanza magnetica che per tomografia computerizzata (Figura 1 a, b, c).

Figura 1. a: agrafe aperta a forma rettangolare di U; b: agrafe chiusa a forma di B; c: applicatore di agrafe metalliche per suture cutanee.

A uso interno. Le suturatrici a uso interno, chirurgia a cielo aperto e mini-invasiva (schema 1-2), realizzano una compressione del tessuto a cui segue la creazione di una sutura con due o tre linee di punti metallici sfalsate. I punti acquistano una configurazione con punto chiuso a “B”.

Schema 1-2. Classificazione suturatrici per chirurgia aperta e mininvasiva.


Mezzi di sintesi meccanici

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Queste ultime possono essere suddivise in (Figura 3): – Lineari: permettono, attraverso il confezionamento di un doppio o triplo strato alternato di punti, una chiusura rapida e sicura dei tessuti. Alcune suturatrici lineari, dette ‘taglia e cuci’, consentono una doppia o tripla sutura con simultanea sezione sulla linea mediana per mezzo di una lama scorrevole interna che taglia i tessuti tra le due suture. Sono comunemente usate per chiudere organi cavi prima della sezione e successiva anastomosi (Figura 3 a). – Taglia e cuci: applicano due o tre doppie file di punti sfalsati e paralleli con taglio al centro. Possono presentarsi di diversa lunghezza e soprattutto presentare un punto con altezza diversificata. Possono essere lineari o circolari (Figura 3 b). – Circolari: sono suturatrici ‘taglia e cuci’ che contemporaneamente applicano una doppia fila di punti sfalsati disposta circolarmente e tagliano il tessuto nella porzione centrale. Quando lo strumento viene serrato, una lama circolare seziona contemporaneamente i tessuti all’interno della linea di sutura. La testa dello strumento viene inserita nel lume del viscere da anastomizzare attraverso una breve sezione della sua parete o, nel caso di resezioni anteriori basse del retto, attraverso l’ano. Le anastomosi sono realizzate con teste di calibri differenti per adattarsi al lume dei visceri con diametri diversi. Vengono utilizzate per anastomosi termino-terminali o termino-laterali in tutto il tratto gastrointestinale, dall’esofago al retto. Sono particolarmente utili quando il campo operatorio sia poco accessibile per ragioni anatomiche, come nelle anastomosi esofagodigiunali dopo gastrectomia totale o nelle anastomosi colorettali dopo resezione anteriore del retto distale (Figura 3 c). – Suturatrici semi-circolari: Suturatrici ‘taglia e cuci’ che realizzano una linea di sutura curvilinea. Il maggiore campo di applicazione è rappresentato dalla resezione del retto basso poichè tali presidi facilitano l’accesso alle pelvi più strette e “difficili” (Figura 3 d).

Figura 3. a. lineare; b. ‘taglia e cuci’; c. circolare; d. semi-circolare.


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Fondamentali in Chirurgia

Ulteriori caratteristiche delle suturatrici sono rappresentate da: Lunghezza della linea di sutura; Calibro e/o snodabilità della testa dello strumento; Lunghezza e spessore dei punti metallici; Distanza tra i punti. Le suturatrici attualmente in commercio sono in materiale plastico monouso non risterilizzabile e con cartucce intercambiabili, ad azione manuale o elettrificate a batteria. Queste ultime hanno il vantaggio di applicare punti uniformi grazie al meccanismo di compressione prima dell’applicazione, al meccanismo di allineamento dei punti e alla minimizzazione dei movimenti involontari della punta del dispositivo durante l’utilizzo. – – – –

Modelli in commercio – Thoracic-Abdominal Instrument (TA): suturatrice lineare esclusivamente occludente, disponibile in varie misure (rette: 30, 45, 60, 90 mm; articolabili: 30, 55 mm) e con ricariche di agrafe a spessore variabile da 1 a 2 mm, in confezioni di colore diverso (figura 4 a-b); – Gastro-Intestinal-Anastomosis Instrument (GIA): suturatrice lineare ‘taglia e cuci’ capace di sezionare e suturare contemporaneamente. Molto usata per il confezionamento di anastomosi, in particolare latero-laterali e nella sezione di segmenti intestinali. Anche questo strumento è fornito in misure diverse (45 mm, 55/60 mm, 75/80 mm, 100 mm) con cartucce intercambiabili di agrafe a chiusura variabile. Possono essere usate sia per chirurgia a cielo aperto che per chirurgia mini-invasiva. In quest’ultimo caso è possibile avere suturatrici con stelo flessibile e articolabile, Endo-GIA (figura 5 a-b). – End-to-End-Anastomosis Instrument (E.E.A.): suturatrice circolare utilizzata principalmente nella chirurgia colorettale ed esofagogastrica. Disponibile in vari modelli, retti e curvi, con caricatori di diametro diverso (21, 25, 28, 29, 31, 33, 34 mm) adattabili ai vari segmenti intestinali, con testina fissa o ribaltabile (figura 6 a, b, c, d).

Figura 4 a. Suturatrice lineare occludente non articolabile. b. articolabile


Mezzi di sintesi meccanici

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Figura 5 a. Suturatrice lineare ‘taglia e cuci’ per chirurgia a cielo aperto. Dimensioni stelo, lunghezza ricariche, meccanismo d’azione.

Figura 5 b. Suturatrice lineare ‘taglia e cuci’ per chirurgia mini-invasiva. Lunghezza dello stelo variabile, ricariche di colore variabile a seconda dello spessore del tessuto, stelo flessibile e articolabile. Confezionamento anastomosi ileocolica meccanica intracorporea.


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Figura 6. Suturatrice circolare. a: anastomosi colorettale termino-terminale meccanica. b. Elementi della suturatrice: (M) manopola, (T) testina fissa o ribaltabile, (C) caricatore retto o curvo, (L) leva. c. Caricatore curvo. d. Testina ribaltabile.

Caratteristiche del punto Esistono punti di dimensioni diverse a seconda dello spessore di tessuto da suturare. La scelta viene fatta in base ai seguenti parametri: 1. Altezza/gamba del punto; 2. Altezza punto chiuso; 3. Corona del punto (Figura 7).

Figura 7. Parametri punti: – altezza/gamba del punto; – altezza punto chiuso; – corona del punto

Nelle suturatrici lineari e ‘taglia e cuci’ le ricariche sono rappresentate da cartucce monouso da ricaricare sui rispettivi manipoli. Sono suddivise in tre tipi (Figura 8): – Per tessuti sottili o vascolari: altezza punto chiuso 1.0 mm, altezza/gamba 2.5 mm;


Mezzi di sintesi meccanici

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– Per tessuti “standard”: altezza punto chiuso 1.5 mm, altezza/gamba 3.53.8 mm; – Per tessuti spessi: altezza punto chiuso 2.0 mm, altezza/gamba 4.5-4.8 mm. Per esempio, le suturatrici per interventi sullo stomaco usufruiscono di punti metallici lunghi e di maggiore spessore, a causa della maggiore consistenza della parete gastrica. Al contrario, le suturatrici per chirurgia vascolare sono provviste di punti piccoli e leggeri con minore distanza tra i punti stessi.

Figura 8. Tipologia delle ricariche per suturatrici lineari ‘taglia e cuci’

Nelle suturatrici circolari, la scelta dell’altezza del punto chiuso da applicare al tessuto da suturare viene regolata dal chirurgo, in funzione del meccanismo di avvicinamento tra incudine e testina e, quindi, non dalla tipologia del punto. Altezza punto chiuso variabile da 1.0 a 2.5 mm (Figura 9).

Figura 9. Suturatrice circolare. Calibri differenti per anastomosi diverse. Doppia fila circolare di punti sfalsata con lama circolare. Corona del punto 4 mm, altezza punto chiuso variabile da 1.0 a 2.5 mm, altezza/gamba del punto variabile da 4.8 a 5.5 mm.

Attraverso le suturatrici semi-circolari, invece, viene realizzata una linea di sutura curvilinea. La testina è curva con funzione di sutura e transezione. Vengono applicate quattro file sfalsate di punti in titanio con una linea di sezione al centro di 40 mm. Utilissime nelle resezioni del retto basso e nelle pelvi più strette e difficili; sono suturatrici disponibili sia per la chirurgia laparotomica che laparoscopica (Figura 10 a, b, c, d).


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Figura 10. a-b: Suturatrici semi-circolari per chirurgia a cielo aperto; c-d: per uso laparoscopico.

Altri mezzi di sintesi meccanica Tra i dispositivi per sintesi meccanica bisogna menzionare: – Applicatori di clip in titanio o in polimeri non assorbibili inerti: Sono particolari applicatori utilizzabili sia per chirurgia aperta (taglia S, M e L) che per chirurgia laparoscopica. Questi ultimi presentano uno stelo con calibro da 10 mm (taglia M, M/L e L) e da 5 mm (taglia S e M). Vengono utilizzati per sutura di vasi, dotti o come repere su tessuti. Possono essere suddivisi in 2 categorie: applicatori monouso per clip in titanio e applicatori poliuso per posizionamento di clip in polimeri non assorbibili inerti di dimensioni variabili con confezioni di colore diverso, Hem-o-lok (Figura 11).

Figura 11. Applicatori di clip in titanio e ricariche.


Mezzi di sintesi meccanici

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– Applicatori di clip per fissaggio: sono applicatori monouso utilizzati in chirurgia laparoscopica per il fissaggio di mesh intraperitoneali per la riparazione di ernie ventrali o laparoceli o preperitoneali (TAPP) e per la riparazione di ernie inguinali (Figura 12).

Figura 12. Applicatori di clip per fissaggio di protesi.



Capitolo 11 Le anastomosi intestinali: principi di tecnica Francesco Tonelli già Professore Ordinario di Chirurgia Università di Firenze, già Presidente Società Italiana Chirurgia Oncologica (SICO) Mi sembra utile dare uno sguardo su come si eseguivano le prime anastomosi intestinali agli albori della moderna chirurgia. Uno dei primi chirurghi ad affrontare questo tema fu Francesco Colzi. Operava a Firenze come aiuto di Corradi nel prestigioso Ospedale di Santa Maria Nuova, sede da secoli di una vera e propria Scuola d’insegnamento e di perfezionamento della chirurgia. Colzi si era preparato scrupolosamente prima di affrontare la chirurgia: conosceva bene l’anatomia e la microbiologia, aveva fatto il settore di anatomia patologica, aveva frequentato le cliniche chirurgiche europee più prestigiose e sperimentato sull’animale nuovi interventi di chirurgia addominale, come la colecisto-enteroanastomosi. Per le sue brillanti ricerche e per l’autorevolezza che ebbe negli anni successivi ricoprendo la cattedra di Clinica Chirurgica a Modena e Firenze Colzi merita di essere paragonato a Halsted (1). Ebbene, di fronte a casi di gangrena intestinale da strozzamento erniario, non disponendo di infusioni endovenose, di trasfusioni, di antibiotici, né di suture preconfezionate, ma potendo utilizzare l’anestesia generale e l’antisepsi, così procedette (la descrizione si può leggere nel suo “Contributo di Clinica Operativa” dato alle stampe nel 1891): ”Lo strangolamento datava in un individuo da 6 giorni, negli altri dai due ai quattro giorni… Nei 5 casi nei quali resecai l’intestino a tutto spessore, lo sezionai un poco obliquamente da ambo i lati in modo da asportare più dal lato convesso che da quello concavo. Il mesenterio lo sezionai vicino all’intestino avendo cura di prendere con pinzette e legare i vasi mano a mano che li recidevo e quattro delle anse che avevano servito alla legatura le unii insieme per mantenere a contatto la superficie di sezione del mesenterio. La estensione del tratto intestinale asportato oscillò dai 7 ai 14 cm. A questo punto facevo di nuovo una abbondante irrigazione lavando con una soluzione di sublimato molto allungato anche l’intestino nel suo interno e quindi procedevo alla sutura. Ho impiegato come materiale una seta finissima disinfettata e mantenuta per moltissimo tempo nella soluzione alcoolica di sublimato, e ho adoprati degli aghi tondi incurvati. Ho fatto in un caso due piani di sutura, comprendendo in quello più profondo la mucosa e la muscolare, nell’altro la sierosa alla maniera di Lambert; negli altri quattro casi ho usato tre piani, cioè ho cominciato a porre il piano medio, comprendendo sierosa e muscolare, nella metà della circonferenza mesenterica dell’intestino, quindi su di essa ho fat-


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to il piano interno della metà della circonferenza mesenterica della mucosa e su questa ho applicato il secondo piano di sutura in continuazione con il primo (medio) comprendente sierosa e muscolare, quelle suture le ho fatte continue interrotte. A questo momento essendo chiuso il lume intestinale, ho praticata una nuova disinfezione della regione e della ferita, mi sono disinfettato accuratamente insieme agli assistenti, e quindi ho applicato per ultimo il piano esterno di sutura alla Lambert a punti staccati: tutto questo per porre un piano di sutura i di cui fili non fossero venuti in contatto col lume intestinale ed essere sicuro di non avere infettato la seta.” Come vedremo più avanti, Colzi aveva intuito e messo a punto la corretta modalità di un’anastomosi intestinale in grado, se confezionata a dovere, di guarire senza andare incontro a una deiscenza anche in presenza di molti fattori negativi. Infatti, nessuno dei casi operati da Colzi andò incontro alla deiscenza dell’anastomosi. I meccanismi alla base della guarigione anastomotica Una profonda modificazione delle componenti dei tessuti anastomizzati comincia già durante le prime manovre chirurgiche con la produzione di una matrice organica composta da fibrina e fibronectina, favorita dall’azione delle piastrine in maniera simile a quella di un processo emostatico. Lo scopo di questa prima fase, o fase emostatica, è proprio quello di sigillare l’anastomosi. A questa segue una fase infiammatoria, caratterizzata dall’attivazione delle citochine proinfiammatorie (IL-1ß, TNF-ß) e del complemento e l’infiltrazione della ferita da parte dei leucociti neutrofili. L’attività fagocitaria di queste cellule rimuove i tessuti danneggiati, i batteri, i miceti e i corpi estranei preparando il terreno all’azione dei macrofagi che sono fondamentali per la parte ricostruttiva dei tessuti. Essi rilasciano fattori di crescita (PDGF, IGF), inducono la migrazione e la differenziazione delle cellule mesenchimali, la produzione della matrice organica extracellulare e la neoangiogenesi, fase proliferativa. L’ultima fase è quella dello sviluppo di un nuovo epitelio che deve ricoprire la cicatrice anastomotica, fase di rimodellamento. Il processo di formazione e consolidamento dell’anastomosi dura diversi giorni e può essere inficiato da varie situazioni negative durante tutto il suo decorso: nella prima fase per difetti della coagulazione, nella seconda per una ridotta capacità chemiotattica dei neutrofili o per una esagerata produzione dei radicali liberi dell’ossigeno (ROS), nella terza fase per una diminuita produzione dei fattori di crescita e nella quarta fase per un’eccessiva degradazione del collagene o per la mancata proliferazione delle cellule epiteliali. La fase più importante è comunque quella della deposizione e rimodellamento del collagene in grado di dare consistenza alla tenuta dell’anastomosi. Questa funzione è compito delle cellule mesenchimali in grado di trasformasi in tre sottotipi: fibroblasti, miofibroblasti e cellule muscolari liscie. I fibroblasti producono la matrice extracellulare. La loro proliferazio-


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ne è stimolata soprattutto dal TGF-ß che induce anche la differenziazione in miofibroblasti e inibisce le metalloproteinasi in grado di degradare il collagene. I miofibroblasti migrano nei tessuti danneggiati dall’insulto chirurgico e si ancorano tra loro e alla matrice extracellulare attraverso l’azione di integrine e caderine. Sono queste molecole che connettendosi tramite l’actina al citoscheletro formano solide giunzioni con le cellule epiteliali e provvedono alla contrazione e solidificazione del collagene. Il collagene è anche destinato a subire una degradazione durante la fase di rimodellamento tramite l’azione da parte degli stessi macrofagi di ROS, di catepsine o di metalloproteinasi. Interessante da notare è che la sintesi del collagene avviene più precocemente e rapidamente nel tenue rispetto al colon. Questo fenomeno può spiegare il maggiore rischio di deiscenza insito nelle anastomosi coliche o rettali rispetto a quelle ileali o digiunali. La guarigione completa dell’anastomosi avviene verso il 14° giorno post-operatorio, mentre il rischio maggiore di deiscenza è tra la 4° e la 7° giornata postoperatoria. Un importante ruolo per la guarigione dell’anastomosi è quello svolto dal microbioma. Il microbioma è un complesso ecosistema nel quale coabitano sia germi commensali che organismi patogeni (batteri, virus, miceti). Esso varia nella sua composizione lungo il tratto digestivo. Inoltre ha una duplice disposizione: quella in contatto con la parete intestinale, the tissue-associated microbioma, e quella presente nel lume intestinale, the luminal microbiota. Il microbioma che si interfaccia con il rivestimento epiteliale, svolge una funzione citoprotettiva attraverso la produzione di muco, di metaboliti, quali gli acidi grassi a catena breve, utili al fabbisogno energetico epiteliale e di fattori antimicrobici come le difensine, il lisozoma, l’acido lattico o le bacteriocine. Il microbioma contribuisce a mantenere uno spesso strato di muco al di sopra dell’epitelio, in grado di proteggerlo dall’aggressione di batteri patogeni. Infine il microbioma è fondamentale per mantenere efficace la funzione immunitaria locale. Questa è in grado di riconoscere i germi patogeni e aggredirli con un’adeguata risposta immunologica. Principi di tecnica Qualunque sia il tipo di anastomosi da eseguire non si deve derogare da alcuni principi basilari: – Verificare che le parti da anastomizzare abbiano un buon apporto arterioso e un buon deflusso venoso. Talora è difficile stabilire con sicurezza tale situazione anche da parte di chirurghi esperti. Se ci basiamo sull’osservazione e la palpazione dell’intestino valutando colore e pulsatilità del segmento intestinale in causa possiamo cadere in errore: la presenza di ischemia o di stasi venosa è facilmente individuabile nell’intestino tenue, ma può essere difficile nel colon che muta il suo colore lentamente o che non permette di osservare la pulsatilità dei suoi vasi se il viscere è ricco di grasso. L’ipotensione indotta dall’intervento o dalla procedura anestesio-


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logica o la vasocostrizione provocata dal trauma chirurgico e dall’ipotermia possono confondere una corretta valutazione. Sono state proposte varie tecniche diagnostiche per valutare il flusso delle anse intestinali al momento dell’anastomosi mediante l’esame Doppler, l’ossimetria tissutale o l’angiografia con verde di indocianina, ma nessuna di queste è entrata nella pratica routinaria per le difficoltà tecniche, il tempo richiesto dalla procedura o la scarsa riproducibilità della stessa. Il problema si pone specialmente per il colon sinistro allorchè si siano legati i vasi mesenterici inferiori e si debba scegliere dove resecare il tratto da anastomizzare al retto. Un metodo semplice e affidabile è la valutazione del flusso ematico al momento di sezionare i vasi marginali del tratto di colon per l’anastomosi. Il flusso viene giudicato buono se fuoriesce sangue rosso rutilante, in maniera pulsatile, schizzando o meno nel campo operatorio. In questo caso l’irrorazione da parte dei vasi colici medi è garantita e non si hanno deiscenze anastomotiche secondo quanto verificato recentemente da chirurghi sud-coreani (2). Per evitare l’ischemia, sia pure temporanea delle zone da anastomizzare, è bene limitare l’uso di enterostati: non sono necessari per il colon. Nel tenue vanno applicati a distanza di almeno 7-8 cm dalla sezione intestinale avendo l’accortezza di non comprendere nelle loro branche il mesentere. – Assicurarsi che l’anastomosi non sia in tensione. Questo prevede la buona mobilizzazione dei tratti da anastomizzare. Particolare attenzione va posta negli interventi di resezione anteriore del retto nei quali è sempre bene mobilizzare completamente l’angolo colico sinistro o di proctocolectomia totale restaurativa con anastomosi ileo-pouch-anale per le quali va sufficientemente liberata la radice mesenterica e opportunamente allungato l’ileo terminale mediante vari accorgimenti, sezione dei vasi ileali mesenterici conservando quelli ileo-colici destri, liberazione dell’ileo nel tragitto intracecale, scelta del tipo di pouch, etc. – Evitare incongruenze di calibro tra le anse da anastomizzare, scegliendo ad esempio un’anastomosi latero-laterale piuttosto che una termino-terminale quando il calibro dei due visceri è molto diverso. – Includere nei punti di sutura la sottomucosa. Fu Halsted nel 1882 ad accorgersi dell’importanza della sottomucosa, ricca in collagene, per la tenuta dell’anastomosi e per il corretto allineamento degli strati parietali. Egli definì la sottomucosa strength-bearing layer (3). Se la sottomucosa non viene compresa nella sutura è inevitabile una precoce deiscenza anastomotica. – Assicurarsi che l’intestino a valle dell’anastomosi sia pervio e non sede di stenosi. Ciò può capitare in caso di malattia di Crohn, per stenosi molto brevi, di tipo fibrotico, scarsamente visibili all’ispezione della sierosa, ma riconoscibili sondando il lume intestinale.


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Anastomosi in uno o due strati, extramucosa o a tutto spessore, in continua o a punti staccati? La scelta di una specifica tecnica fra le tante che si possono proporre finisce per essere legata più all’abitudine del singolo chirurgo o della Scuola a cui appartiene che basarsi sulla ricerca clinica o su motivi fisiopatologici. Teoricamente, la sutura extramucosa in un unico strato offre il vantaggio di una buona apposizione dei tessuti, di una sicura e non eccessiva introversione della mucosa (è stata del tutto abbandonata l’idea di estroflettere la mucosa) e di una minore devascolarizzazione dei tessuti. Importante è anche comprendere nel punto di sutura lo strato sieroso che avendo una grande elasticità permette al filo di sutura di essere posto nella giusta tensione e di non sezionare i tessuti nel momento della trazione o dell’annodamento. È un dato di fatto che le anastomosi eseguite su tratti intestinali privi del rivestimento sieroso, quali il retto extraperitoneale o l’esofago, sono a maggior rischio di deiscenza. Le anastomosi in due strati hanno avuto per lungo tempo le preferenze dei chirurghi da quando Lambert evidenziò il valore plastico e di tenuta dello strato sieroso proponendo appunto un secondo strato semplicemente sieroso o siero muscolare. In realtà gli studi clinici randomizzati che hanno posto in confronto anastomosi in un solo strato verso quelle in due strati non hanno dimostrato la superiorità delle prime. L’altra variante riguarda se eseguire l’anastomosi in continua o a punti staccati. Dal punto di vista teorico sarebbe da preferire la tecnica a punti staccati che dovrebbe garantire una migliore irrorazione dei tessuti. Non mi risulta che siano stati eseguiti studi comparativi tra le due tecniche. Per concludere, se valutiamo la velocità di esecuzione, i costi e le complicanze, in particolare quella della deiscenza e della stenosi anastomotica, sembra preferibile ricorrere a una sutura extramucosa, eseguendola in unico strato e in maniera continua. Materiale di sutura Il materiale di sutura intestinale è importante per evitare ripercussioni negative al momento di confezionare l’anastomosi. Il monofilamento sia a lento riassorbimento come il polidiossanone (PDS) o non riassorbibile come il polipropilene dà una reazione infiammatoria locale molto minore rispetto a quella dei fili intrecciati riassorbibili quali il catgut (ormai non più utilizzato) o l’acido poliglicolico o non riassorbibili quali la seta o il lino. Il filo deve avere un calibro appropriato, né troppo sottile, né troppo spesso (di solito 3/0), scorrere facilmente, avere una giusta forza tensile in modo da non provocare lacerazioni dei tessuti quando viene posto in trazione o quando si annoda. Il materiale inoltre deve resistere all’azione litica dei succhi enterici. Il monofilamento in PDS è quello da preferirespecialmente se si eseguono suture in continua.


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Anastomosi manuali o meccaniche? La possibilità di eseguire anastomosi intestinali mediante suturatrici meccaniche, affacciatasi a partire dalla fine degli anni ’60, ha certamente guadagnato sempre più favore, ma non ha sostituto le anastomosi manuali. Il motivo è dovuto almeno in parte alla riluttanza dei chirurghi più anziani ad abbandonare tecniche anastomotiche ormai ben collaudate. È un dato di fatto che gli specializzandi, o i resident statunitensi, ricorrono alle anastomosi meccaniche in più dell’80% dei casi, specialmente se l’intervento è eseguito in laparoscopia, e che l’impiego delle suturatrici è comunque correlato alla giovane età (< a 45 anni) dei chirurghi (4). L’avvento delle suturatrici meccaniche ha permesso di eseguire con più facilità anastomosi difficili, allargando enormemente le possibilità di ricostruzione del tratto intestinale in confronto al passato. Il loro maggiore impiego si è avuto per la chirurgia del retto con un significativo aumento degli interventi di conservazione sfinterica rispetto a quelli di amputazione addominoperineale. Ma è stato soprattutto il diffondersi della chirurgia mini-invasiva a far preferire le suturatrici meccaniche, specialmente se si sceglie di eseguire anastomosi intracorporee. La suturatice meccanica permette di standardizzare la tecnica, di disporre di presidi ben collaudati dalla sperimentazione sull’animale e sull’uomo, assemblati per porre i punti a una distanza prestabilita sia tra di loro che rispetto ai margini di sezione, di garantire una sufficiente irrorazione tissutale, di sezionare la parete a freddo senza provocare necrosi tissutale. Sono validi motivi per preferire l’anastomosi meccanica. Inoltre la maggior parte delle suturatrici eseguono una duplice linea di sutura differendo la posizione dei punti posti su ognuna delle due linee. L’anastomosi manuale è invece una modalità empirica affidata alla pratica clinica e all’esperienza del chirurgo, non ben standardizzabile per vari aspetti: la distanza tra i punti, la distanza del punto rispetto al margine di sezione, la tensione da dare alla sutura e ai nodi, le modalità di sezione intestinale. Una distanza di 3 mm, tra un punto e l’altro, e una presa del punto di 4-5 mm rispetto alla linea di sezione, sono le misure consigliate, da modificare comunque in rapporto allo spessore della parete intestinale. Esistono situazioni che fanno propendere per l’anastomosi manuale: ad esempio l’edema delle anse intestinali in presenza di traumi, peritoniti, pancreatiti acute, malattia di Crohn, etc. poiché la suturatrice male si adatta a un intestino con uno spessore molto aumentato rispetto a quello normale e il suo impiego può dare la sensazione o la certezza di non comprendere nella linea di sutura tutti gli strati a una sufficiente distanza dal margine di sezione intestinale. D’altra parte ci sono casi in cui ricorrere alla suturatrice facilita o addirittura rende possibile l’anastomosi quando, ad esempio, questa vada effettuata sul retto distale in una pelvi stretta o sull’esofago sottodiaframmatico in un paziente obeso. Altra situazione che spinge alla scelta dell’anastomosi meccanica è quando si debbano eseguire molteplici


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anastomosi o quando il paziente è in una situazione emodinamica instabile e si vogliono accorciare i tempi dell’intervento. Va ricordato infine che le anastomosi meccaniche comportano un maggiore rischio di sanguinamento rispetto a quelle manuali e che non è sempre possibile accertare questa complicanza durante la confezione dell’anastomosi. Fattori di rischio per la deiscenza anastomotica La deiscenza rappresenta la più temibile complicanza dell’anastomosi intestinale. Essa può avvenire in qualunque tratto intestinale, ma è più frequente nelle anastomosi eseguite sul terzo inferiore del retto. Il fenomeno può raggiungere percentuali così alte da indurre a eseguire routinariamente una stomia protettiva per impedire che la fuoriuscita del contenuto intestinale determini gravi complicanze quali una peritonite, un ascesso o una fistola enterica. I fattori di rischio via via chiamati in causa sono molteplici: la malnutrizione, l’immunodeficienza, l’età avanzata, l’obesità, il genere maschile, il fumo, l’alcool, il diabete, l’uso di corticosteroidi, la radioterapia o la chemioterapia, la perdita di sangue pre o intraoperatoria, l’urgenza dell’intervento, la contaminazione peritoneale, la preparazione meccanica intestinale, il tipo di antibioticoprofilassi, il tipo di malattia, quelle infiammatorie o neoplastiche in primo luogo, etc. Visto questo lungo elenco di possibili cause è impossibile una reale prevenzione della deiscenza. Numerosi accorgimenti sono stati proposti per diminuire le deiscenze; il rischio può essere diminuito soltanto se siamo in grado di correggere almeno alcuni di questi fattori o se dilazioniamo la parte ricostruttiva dell’intervento a un momento più favorevole. La prudenza deve regolare il nostro operato, al pari della perizia. Negli ultimi anni si è cercato di spiegare il motivo di deiscenze anastomotiche insorte senza precisi fattori di rischio, studiando la componente microbica intestinale. Le moderne tecniche di biologia molecolare permettono di sequenziare il DNA batterico e di caratterizzarne la componente. Si è così messo in evidenza che la deiscenza può dipendere da modificazioni nella struttura del microbioma. Dopo l’intervento chirurgico il microbioma subisce variazioni nel numero totale di batteri, nella composizione e nello sviluppo di germi patogeni. La virulentazione di alcuni batteri patogeni quali l’Enterococcus faecalis e lo Pseudomonas aeruginosa può favorire la deiscenza anastomotica colo-rettale. Questi batteri infatti aumentano l’attività collagenasica nel tessuto anastomizzato attraverso la produzione di proteasi e di metalloproteinasi (5). Sappiamo come il microbioma possa alterarsi sia per la presenza di una malattia intestinale, il cancro in primo luogo, sia per procedure quali la preparazione meccanica intestinale, sia per i farmaci, gli antibiotici, gli oppiacei, i PPI, etc., sia per la stessa procedura chirurgica. In un prossimo futuro potremmo disporre di un monitoraggio del microbioma


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inteso a segnalarci l’insorgenza di una disbiosi o patobiosi e anche la possibilità di ristabilire una situazione di normalità attraverso l’uso di probiotici o simbiotici. Bibliografia 1. Tonelli F. I protagonisti della chirurgia fiorentina, Ediz. Polistampa, Firenze, 2011. 2. Ryu HS, et al. Intraoperative perfusion assessment of the proximal colon by a visual grading system for safe anastomosis after resection in left-sided colorectal cancer patients. Scientifc Reports 11: 2746-54, 2021 3. Halsted WS. Circular structure of the intestine: an experimental study. Am J Med Sci 94: 436-461, 1887 4. Nemeth ZH, et al. Experience of general surgery residents in the creation of small bowel and colon anastomoses. J Surg Educ 73:844-856. 5. Shogan BD, et al. Collagen degradation and MMP9 activation by Enterococcus faecalis contributes to intestinal anastomotic leakage. Sci Transl Med 7: 286ra68.


Capitolo 12 Emostatici in chirurgia Maria Morena Morelli Specialista in Chirurgia Generale, Ospedale Sant’Eugenio – ASL Roma 2 “All bleedings stops, eventually” Norman E. Shumway Il sanguinamento è da considerare uno degli eventi più temibili per il chirurgo, essendo associato ad alta morbilità e mortalità. Ottenere l’emostasi, ovvero il controllo del sanguinamento, è di fondamentale importanza. Negli ultimi decenni, la tecnologia biomedica ha messo in commercio prodotti emostatici riassorbibili, sia di origine naturale che sintetica, che garantiscono il controllo del sanguinamento in modo efficace e rapido. Nel XVII secolo il primo a intuire che “la coagulazione del sangue è causata dalla precipitazione di una sostanza” fu Marcello Malpighi (1624-1694), medico, anatomista e fisiologo, considerato il padre dell’osservazione microscopica in medicina. Nel XVIII secolo Jean Antoine Chaptal (1756-1832), chimico francese, asseriva che “al di fuori dell’organismo il sangue coagula rapidamente e che del processo coagulativo è responsabile un componente proteico, denominato fibrina, fluido nel sangue ma insolubile al di fuori dei vasi sanguigni”. Agli inizi del XX secolo furono approfonditi gli studi sui diversi fattori della coagulazione e nel 1905 Morowitz descrisse il meccanismo di conversione del fibrinogeno in fibrina a opera della trombina, una proteasi. Nel 1911 Harvey Williams Cushing (1869-1939), chirurgo statunitense, utilizzò la fibrina, ovina, in neurochirurgia sotto forma di coaguli ematici solidificati come tampone e ne descrisse, nel 1915, l’utilizzo nel controllo dell’emostasi locale. Nel 1938 il chimico Walter Henry Seegers (Blood Coagulation – Collected Papers 1938-1953) riuscì a isolare la protrombina, ricavandone la trombina. Negli anni ’40 del XX secolo John Zachary Young (1907-1997), neurofisiologo inglese, e Peter Medawar (1915-1987), premio Nobel per la medicina nel 1960, descrissero l’utilizzo di fibrinogeno e fibrina di derivazione animale, ovina, in neurochirurgia per anastomosi nervose periferiche nei conigli. Nel 1943 Virginia Kneeland Frantz (1896-1967), patologo-chirurgo statunitense, inizia l’applicazione sperimentale a fini emostatici della cellulosa ossidata. Durante la Seconda Guerra Mondiale si osserva l’utilizzo dei primi preparati a base di cellulosa ossidata rigenerata, Oxygel, e collagene, Gelfoam da gelatina porcina, misti a fibrinogeno e trombina. Otto Loewi, farmacologo tedesco e premio Nobel per la medicina nel 1936, isola all’inizio del 1961 il


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fattore XIII: il fattore XIIIa permette la precipitazione della fibrina e la formazione del coagulo. È nel 1960 l’introduzione in commercio del Surgicel, cellulosa ossidata. Negli anni ’70 inizia la sperimentazione della prima colla di fibrina umana come ‘sutura’ di nervi periferici sezionati (Matras H. Effect of various fibrin preparations on reinplantations in rat skin. Osterr Z Stomatol. 1970 Sep;67(9):338-59). Nello stesso decennio si perfeziona l’utilizzo del fibrinogeno e della trombina come emostatici locali. Nel 1978 la colla di fibrina viene ritirata per rischio di trasmissione virale, virus epatite da parte della Food and Drug Administration (FDA). Negli anni successivi si è cercato di migliorare la biocompatibilità dei materiali emostatici e nel 1998 si ottiene l’approvazione definitiva dalla FDA e la ripresa dell’uso commerciale della colla di fibrina negli Stati Uniti. La prima colla di fibrina virus-inattivata approvata dalla FDA è il Tisseel, Tissucol – prodotto da Baxter. Nel 2003 compare una colla di fibrina di seconda generazione il Crosseal, commercializzata al di fuori degli Stati Uniti come Quixil, prodotto Johnson&Johnson. I prodotti attualmente in commercio sono sottoposti a uno o più processi di sterilizzazione e inattivazione virale che garantiscono la pressoché assenza di rischio di trasmissione di agenti virali, come ad esempio il virus dell’epatite e dell’HIV. Persiste il rischio di immunizzazione nei confronti di uno o più componenti delle colle di fibrina. Tali rischi sono legati alla presenza, in alcune formulazioni, di aprotinina di origine bovina. Classicamente distinguiamo emostatici di origine: – Biologica: emoderivati; – Naturale: collagene, gelatina e cellulosa; – Sintetica: polimeri. Suddivisi in tre categorie: – Emostatici Emoderivati: farmaci a base di trombina e fibrinogeno, di origine animale o umana. Attivano le ultime fasi della coagulazione e sono indicati nei pazienti con coagulopatie. Il processo di polimerizzazione dei monomeri di fibrina ne determina una azione adesiva e allo stesso tempo un’azione sigillante. Riassorbibili per fibrinolisi; – Emostatici Topici: svolgono un’azione meccanica compressiva sul sito di sanguinamento, per riassorbimento del sangue con conseguente rigonfiamento. Possono essere di origine vegetale, animale o minerale; favoriscono adesione e aggregazione piastrinica, sono riassorbibili; – Sigillanti: colle chirurgiche di natura sintetica o semisintetica, agiscono per azione meccanica e sono a lenta degradazione. Le caratteristiche ideali dei biomateriali con azione emostatica sono: – Compatibilità; – Atossicità; – Resistenza; – Sterilità; – Assenza di capacità immunogena;


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– Assenza di reazione da corpo estraneo; – Riassorbibilità; – Biodegradabilità. Emostatici Emoderivati Gli emoderivati con effetto emostatico riproducono la fase finale della coagulazione, trovando indicazione prioritaria in pazienti affetti da coagulopatie, eparinizzati e nel trauma, condizioni determinanti una triade killer. Tali prodotti sono preparati a base di fibrina, colle di fibrina, e risultano costituiti da concentrato a base di fibrinogeno, trombina e proteine plasmatiche attive, ad esempio il fattore XIII, di origine plasmatica umana. Oltre a possedere capacità emostatica, risultano altresì utili come adesivi e sigillanti; inoltre, alcune formulazioni commerciali posseggono azione biostimolante, riempitiva e antiaderenziale. Le colle di fibrina agiscono attraverso un meccanismo che riproduce (fibrinogeno – trombina) la fase finale della cascata coagulativa con la formazione di un coagulo stabile. Il riassorbimento avviene attraverso il fisiologico processo di fibrinolisi. L’azione adesiva e sigillante è da correlare al processo di polimerizzazione dei monomeri di fibrina, con formazione del plug di fibrina, e dipende anche dalla concentrazione di fibrinogeno, fattore XIII e fibronectina. Subito dopo la formazione del coagulo, la proliferazione dei fibroblasti, l’infiltrazione dei granulociti e l’attivazione del processo di granulazione tissutale ne condizionano l’effetto riempitivo-biostimolante. Le colle di fibrina possono, inoltre, essere usate come mezzo di rilascio topico di farmaci, con azione carrier. Controindicato ne è l’uso endovascolare, in quanto possono essere responsabili di complicanze tromboemboliche per fibrinolisi del coagulo. I preparati in commercio, contenenti acido tranexamico, sono controindicati all’uso in neurochirurgia per neurotossicità. Le colle di fibrina rientrano nella definizione di farmaco (decreto legistrativo n° 219/2006) in quanto appartengono alla classe dei medicinali ottenuti mediante lavorazione del sangue umano.


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Attualmente in commercio esistono vari prodotti emoderivati che si differenziano tra loro per: – Tipologia del processo produttivo; – Composizione chimica; – Modalità di inattivazione virale; – Presentazione del prodotto; – Conservazione; – Praticità d’uso. Prodotti commerciali – Beriplast: prodotto da Behring. Distribuito in Italia da Nycomed; polvere e solvente. Combi set I = fibrinogeno, fattore XIII e aprotinina bovina; Combi set II = trombina 500 U.I. liofilizzata e calcio cloruro; – Quixil: prodotto da J&J; destinato all’applicazione mediante nebulizzazione o a goccia, anche in chirurgia videoassistita. Soluzione I = fibrinogeno, fibronectina, fattore XIII, fattore von Willebrand, acido tranexamico 85-105 mg/ml; Soluzione II = trombina umana 800-1200 UI/ml, calcio cloruro, non più in commercio in Italia; – Evicel: prodotto da J&J; Componente 1 = fibrinogeno + fibronectina; Componente 2 = trombina umana; – Tachosil: prodotto da Takeda; spugna di collagene equino rivestita su un lato da fibrinogeno e trombina di origine umana. Il lato attivo della spugna (fibrinogeno e trombina) è riconoscibile dal colore giallo; – Tissucol: prodotto da Baxter; applicazione mediante nebulizzazione o a goccia, anche in chirurgia videoassistita. Due siringhe inserite nel dispositivo. Siringa I = fibrinogeno, fibronectina, fattore XIII, plasminogeno, aprotinina bovina. Siringa II = trombina umana, cloruro di calcio; – Tisseel: prodotto da Baxter; fibrinogeno, aprotinina sintetica + trombina umana e calcio cloruro; è il prodotto sostitutivo del Tissucol. Emostatici Topici Vengono definiti come dispositivi applicabili direttamente nel sito chirurgico, in grado di arrestare il sanguinamento ed essere riassorbiti dall’organismo per via enzimatica o idrolitica. Il loro meccanismo di azione si attua attraverso la riproduzione di fasi della coagulazione; facilitano l’adesione e l’attivazione piastrinica e favoriscono la concentrazione della parte ematica corpuscolata. Emostatici topici di origine vegetale: cellulosa ossidata e cellulosa ossidata e rigenerata: – Sono derivati di fibre vegetali, come fibre di cotone, polpa di legno rayon, che svolgono azione emostatica fornendo una ‘matrice’ per la coesione


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piastrinica, azione elettrostatica per cariche opposte tra cellulosa e piastrine, che favorisce adesione e aggregazione piastrinica, vasocostrizione per pH acido, formazione di coagulo gelatinoso con ossidazione di emoglobina e azione meccanica. Prodotti commerciali Equicel: prodotto da Equimedical e distribuito da Assut Europe; cellulosa ossidata e rigenerata a pH neutro. In formato gel e in formato polvere; Equitamp – Oxitamp: distribuito da Assut Europe; cellulosa ossidata rigenerata. Commercializzato in formato standard, fibrillare, Knitted, fibrillare thin; Gelitacel: prodotto da Gelital Medical e distribuito da Distrex; cellulosa ossidata riassorbibile a pH acido 3, ad azione batteriostatica/battericida; Tabotamp – Surgicel: prodotto da J&J; cellulosa ossidata e rigenerata, rayon, a pH acido 2.5, ad azione battericida; Formato standard: velocità di emostasi 6-8 minuti; Ad alta densità – Nu Knit: velocità di emostasi 4-6 minuti; Fibrillare: velocità di emostasi 4-6 minuti; Snow: struttura in forma fibrillare non tessuta, adatto per chirurgia laparoscopica con velocità di emostasi 4-5 minuti; Powder: in siringa reimpostata, indicato per sanguinamento a nappo su superfici estese.

Emostatici topici di origine animale: gelatine e collageni suini, bovini ed equini La gelatina deriva da un processo di purificazione del derma suino che permette di ottenere una sostanza schiumosa che, mediante essiccazione, può essere modellata in vario modo come spugna, cilindri, polveri, etc. La gelatina di origine bovina è stata agevolmente miscelata con pro-coagulanti per una migliore efficacia emostatica. Tali prodotti determinano emostasi per compressione meccanica con capacità di assorbire, con rigonfiamento, i liquidi, come il sangue, e fornire una matrice per l’adesione e l’attivazione piastrinica. Prodotti commerciali gelatine – Spongostan: prodotto da J&J; modellata come spugna o polvere, gelatina suina; – Gelitaspon: prodotto da Gelita Medical; modellata come spugna, gelatina suina. pH neutro; – Equispon: prodotto da Equimedical e distribuito da Assut Europe; modellata come spugna, gelatina suina; – Gelfoam: prodotto da Pharmacia&Upjohn; modellata come spugna o polvere, gelatina suina; – Gelita tampone: prodotto da B/Braun; modellata come tampone, gelatina pura; – Surgiflo: prodotto da J&J; matrice di gelatina suina + trombina (8ml);


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– Floseal: prodotto da Baxter; gelatina bovina e trombina bovina (5ml) da miscelare e diluire con soluzione fisiologica. Miscelabile anche con antibiotico. I collageni sono costituiti da collagene di origine bovina, corion, o equina, tendine di achille, con compatibilità tissutale e capacità di riassorbimento. Le fibre di collagene facilitano l’aggregazione e l’attivazione piastrinica, con innesco della cascata coagulativa, stabilizzano il coagulo diventandone fibre integranti, con capacità assorbente e di concentrazione delle proteine plasmatiche con azione meccanica compressiva. Azione biostimolante sul tessuto di granulazione. Possiedono inoltre azione carrier e vengono utilizzati come vettori topici di farmaci come antibiotici, ad esempio gentamicina solfato, e colle di fibrina, con falde di collagene come ‘supporto’. Prodotti commerciali collageni Collagene Equino – Tissuefleece: prodotto da Baxter; modellato a falde, collagene equino; – Condress: prodotto da Abiogen; modellato come spugne, collagene equino; – Tissudura: prodotto da Baxter; modellato a falde, specifico per neurochirurgia, collagene equino. Collagene Equino con Antibiotico – Collatamp G: prodotto da Syntacoll, modellato come spugna, collagene equino con gentamicina solfato; – Gentafleece: prodotto da Baxter; modellato a falde, collagene equino con gentamicina. Collagene Bovino – Avitene: prodotto da Bard; modellato in polvere, foglie, spugne, collagene micro fibrillare di origine bovina; – Lyostypt: prodotto da Braun; modellato a falda di collagene bovino. Emostatici topici di origine minerale o polisaccaridi vegetali Agiscono per disidratazione ematica concentrando piastrine/fattori della coagulazione e attivazione diretta delle piastrine attraverso un meccanismo “di contatto”, glass effect, correlato alla diversa carica elettrica che si crea tra piastrine e materiale usato. Attualmente la maggior parte degli emostatici minerali ha indicazione terapeutica nelle emorragie esterne, in quanto ne è richiesta la rimozione una volta raggiunta l’emostasi. Prodotti commerciali – HemCon / Chitosano: polisaccaride presente nell’esoscheletro dei crostacei. Wafer compatto da applicare sotto forma di medicazione. Uso extracorporeo. Effetto indipendente da eventuali coagulopatie. Adatto a uso intracavitario; – Celox / Chitosano. Preparato in polvere; composto finale mucillaginoso da asportare;


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– Arista: polisaccaride di origine vegetale, sotto forma di microsfere porose, estratto dall’amido purificato delle patate. Azione idrofila rapida, 2 minuti. Effetto indipendente da eventuali coagulopatie. Assenza di reazioni allergiche. Assorbimento enzimatico. Sigillanti Liquidi a bassa viscosità che agiscono per polimerizzazione, determinando adesione tra i tessuti con conseguente barriera nei confronti di liquidi e/o gas. Questa proprietà li rende agenti efficaci sia come sigillanti che come emostatici. Vengono classicamente suddivisi in: – Sintetici: cianoacrilato, Histoacryl adesivo cutaneo (Braun), e polimeri di PoliEtilenGlicole; – Semisintetico: sigillanti derivati dall’albumina ​​ e glutaraldeide. I sigillanti semisintetici presentano possibile reazione infiammatoria per la presenza di formaldeide; nel 2001 è stata approvata dalla FDA la Bioglue, priva di formaldeide. I sigillanti non sono riassorbibili e subiscono una lunga degradazione idrolitica, con possibile reazione da corpo estraneo. Prodotti commerciali – Hemopatch: prodotto da Baxter; cuscinetto flessibile in collagene, rivestito con NHS-PEG; – Veriset: prodotto da Covidien; PEG e cellulosa ossidata; – Glubran 2: prodotto da GEM; N-Butil 2 cianoacrilato; – Dermabond 2-Octyl Cianoacrilato: prodotto da J&J; – Coseal: prodotto da Baxter; Componente A = PEG + fosfato di Na; Componente B = PEG + carbonato di sodio – antiossidante – per anastomosi vascolari; – Bioglue: prodotto da CryoLife; albumina bovina + glutaraldeide sintetica. Analisi della letteratura In letteratura viene stimato che in circa il 30% delle procedure chirurgiche insorgono complicanze emorragiche [1]. Gli agenti emostatici rappresentano un supporto fondamentale nei casi in cui risulti difficoltoso ottenere emostasi con tecniche standard. Consideriamo comunque che gli emostatici attualmente in commercio sono prodotti alquanto diversi per origine, meccanismo d’azione e con precise indicazioni d’uso [2].


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Pertanto, la conoscenza delle proprietà di ogni singolo agente dovrebbe far parte del bagaglio culturale del chirurgo al fine di selezionare il prodotto adeguato al singolo caso; va scelto l’emostatico più appropriato in base alle caratteristiche del prodotto, al problema chirurgico e allo stato di coagulazione del paziente. La ricerca della letteratura dell’ultimo decennio fornisce molto materiale in merito all’uso di singoli prodotti, ma non altrettanti studi randomizzati di confronto tra i diversi agenti emostatici. Un lavoro pubblicato nel 2018 [3], attraverso una revisione della letteratura, ci fornisce un approccio basato sull’evidenza, con grado di raccomandazione e livello di evidenza, per selezionare accuratamente gli emostatici disponibili in commercio. In letteratura il livello di evidenza si riferisce alla qualità delle evidenze scientifiche disponibili:


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La scala, suggerita dal Programma Nazionale Linee Guida (PNLG), è la seguente: 1A – Evidenze ottenute da più studi controllati randomizzati e/o da rassegne sistematiche di studi randomizzati; 1B – Evidenze ottenute da un solo studio controllato randomizzato di buona qualità metodologica; 2A – Evidenze ottenute da studi di coorte non randomizzati, con controlli contemporanei o storici e/o loro meta-analisi; 2B – Evidenze ottenute da studi retrospettivi caso-controllo e/o loro meta-analisi; 3 – Evidenze ottenute da studi di casistica (serie di casi) senza gruppo di controllo; 4 – Raccomandazione basata sull’opinione di esperti autorevoli o di comitati di esperti o del gruppo di lavoro, in assenza delle evidenze suddette. La forza delle raccomandazioni integra il giudizio sul livello di evidenze con considerazioni relative all’applicabilità della raccomandazione. Il PNLG adotta la seguente classificazione: A. L’esecuzione dell’intervento è fortemente raccomandata. L’intervento è potenzialmente molto utile, rilevante per pazienti reali e le prove scientifiche a sostegno sono di buona qualità o accettabili; B. Vi sono dubbi sul fatto che la raccomandazione debba essere applicata sempre, ma si ritiene che la sua applicazione debba essere considerata sempre con attenzione; C. Vi è una sostanziale incertezza a favore o contro; D. L’esecuzione dell’intervento non è raccomandata; E. L’esecuzione dell’intervento è fortemente sconsigliata.


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Emostatici Emoderivati Gli emostatici emoderivati, con azione emostatica e di tenuta dei tessuti, come già in precedenza affermato, sono agenti attivi che partecipano alla fase finale della cascata della coagulazione per formare un coagulo di fibrina. Vengono metabolizzati per fibrinolisi e fagocitosi. Sono costituiti da due componenti base: fibrinogeno umano e/o trombina purificati. Ai due componenti vengono aggiunte proteine ​​plasmatiche, come il fattore XIII e la fibronectina, e un agente anti-fibrinolitico, come l’aprotinina o acido tranexamico. A causa di reazioni di ipersensibilità, aprotinina animale, e neurotossicità, acido tranexamico [4,5], sono attualmente in commercio preparati privi di aprotinina animale e acido tranexamico: infatti l’acido tranexamico ha indotto ipereccitabilità e convulsioni, probabilmente causate dal blocco inibizione mediata da GABA nel sistema nervoso centrale. Tali reazioni possono essere riscontrate, in particolare, in caso di ripetuta applicazione dei preparati o in caso di somministrazione a pazienti ipersensibili ai componenti del prodotto. La rimozione dell’acido tranexamico non ha influenzato l’efficacia emostatica o la longevità dei coaguli di fibrina e ha permesso al sigillante di ottenere un’indicazione estesa con un potenziale ridotto di reazioni di ipersensibilità [5b]. L’accidentale iniezione in sede intravascolare degli emostatici può causare eventi tromboembolici e una coagulazione intravascolare generalizzata. Gli emoderivati sono disponibili sia in formulazioni liquide (Evicel, Floseal, Surgiflo, Tisseel, Beriplast) che sotto forma di spugna medicata/cerotto (Tachosil). Il loro meccanismo di azione prevede l’azione della trombina, che divide il fibrinogeno in monomeri di fibrina per formare una matrice solubile, e


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l’attivazione del fattore XIII, fattore XIIIa, che collega in modo incrociato la matrice di fibrina per formare un coagulo stabile; durante tale meccanismo d’azione è necessaria la presenza di ioni di calcio [7].

Achneck HE 2010

Dei diversi preparati sono state eseguite valutazioni delle proprietà meccaniche, cinetiche e biochimiche dei coaguli di fibrina prodotti; sono state valutate altresì la rigidità, l’elasticità e la resistenza dei coaguli di fibrina formati ed è stato anche valutato il contenuto del fattore XIII dei coaguli di fibrina. È stato valutato inoltre il tempo medio di formazione iniziale del coagulo, velocità dell’emostasi, e il tempo medio al livello predefinito di formazione del coagulo, Evicel vs. Tisseel [8]. I prodotti a base di fibrina liquida differiscono l’uno dall’altro anche in base alla facilità d’uso, al tempo di preparazione, alla conservazione e composizione. Una maggiore concentrazione di fibrinogeno tende a produrre un coagulo più forte, ma lento nella formazione, mentre una maggiore concentrazione di trombina caratterizza una velocità di emostasi maggiore, ma il coagulo formato non è altrettanto forte [8,9]. Gli adesivi con fibrina liquida vengono applicati per mezzo di un sistema a singola o doppia siringa, che consente l’applicazione attraverso un ago smussato o punte spray. La punta dello spray è particolarmente utile quando la superficie di applicazione è ampia. Le formulazioni fluide o in schiuma sono preferibili se la superficie sanguinante coinvolge la profondità dei parenchimi. Tuttavia, l’utilizzo di un dispositivo spray durante la chirurgia videoassistita può aumentare la pressione intraperitoneale con rischio di embolia gassosa, in particolare quando si applica l’emostatico a pressioni più elevate ( > 20-25 psi) o a distanze più brevi ( < 10-15 cm) [10].


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Nel novembre 2012, l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) ha fornito nuove indicazioni sull’impiego di sigillanti a base di fibrina. Per minimizzare il rischio di comparsa di embolia l’EMA raccomanda di usare per la nebulizzazione l’anidride carbonica piuttosto che l’aria compressa perché più solubile nel sangue. Sono in corso studi sperimentali su nuovi dispositivi per l’applicazione degli emostatici in formulazione spray [11]; sono già in commercio degli applicatori Airless spray venduti separatamente, utili sia per applicazione videoassistita che in chirurgia open. Ulteriori raccomandazioni includono la non somministrazione della trombina per via intramuscolare, in quanto aumenta il rischio di trombosi, ipotensione e mortalità [12]. Diversi sono gli studi randomizzati multicentrici che confrontano i tempi di emostasi tra gli emostatici liquidi a base di fibrina e gli emostatici topici, documentando una percentuale più alta di pazienti che raggiungono in minor tempo l’emostasi dopo l’applicazione dell’emostatico fibrinico liquido [3,13]. Particolarmente indicati ed efficaci tali emostatici risultano esserlo per il controllo del sanguinamento in pazienti con disturbi emorragici congeniti, emofilia, o acquisiti, ad esempio traumi e/o uso di anticoagulanti. Il controllo del sanguinamento intraoperatorio, con ridotto tempo d’emostasi, e postoperatorio, un minore uso di trasfusioni e minori perdite ematiche si ottengono nei pazienti emofiliaci o coagulopatici [3,14]. Nonostante questi vantaggi, il costo degli emostatici emoderivati, classificati come farmaci, non è trascurabile e può condizionarne l’utilizzo.

WD Spotnitz, 2010


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Il costo medio varia in base alla formulazione e tipologia di emostatico (Tabella 1). Gli emostatici a base di fibrina liquida sono efficaci anche come sigillanti, misura aggiuntiva che potrebbe migliorare la chiusura stagna della linea di sutura. Rimangono comunque dati contrastanti per quanto riguarda la loro efficacia nella prevenzione delle fistole pancreatiche, perdite biliari, leakage intestinale e bronchiale. La Review Cochrane del 2018 sull’uso delle colle di fibrina per la prevenzione di fistole pancreatiche (applicazione di sigillanti di fibrina come rinforzo della chiusura del moncone pancreatico dopo pancreasectomia distale) ha documentato poca o nessuna differenza nell’incidenza di fistola pancreatica postoperatoria (sigillante a base di fibrina 19.3% vs. controllo 20.1%); poca o nessuna differenza nella mortalità postoperatoria (0.3% vs. 0.5%) e nella morbilità postoperatoria complessiva (28.5% vs. 23.2%). Nessuna certezza in merito alla riduzione del tasso di reintervento (2.0% vs. 3.8%); poca o nessuna differenza nella durata della degenza ospedaliera (12.1 giorni vs. 11.4 giorni). In uno studio sono stati riportati eventi avversi gravi: un numero maggiore di partecipanti ha sviluppato diabete mellito quando sono stati applicati sigillanti di fibrina all’occlusione del dotto pancreatico. Pertanto gli Autori concludono che, sulla base delle evidenze attualmente disponibili, i sigillanti a base di fibrina possono avere un effetto scarso o nullo sulla fistola pancreatica postoperatoria nelle persone sottoposte a pancreatectomia distale [15]. Risultati contrastanti sono disponibili anche in merito agli effetti biliostatici degli emoderivati. Una meta-analisi del 2016 [16] documenta un tempo di emostasi inferiore nel gruppo di pazienti in cui sono stati usati emostatici emoderivati (differenza media -2.33 min; P = 0.00001), ma il rischio di ricevere trasfusioni di sangue, lo sviluppo di raccolte e la perdita di bile non ne sono stati influenzati. Concludendo, nella chirurgia epatica l’emostatico riduce significativamente il tempo di emostasi, ma non diminuisce trasfusioni, raccolta postoperatoria e perdita di bile. Uno studio sperimentale su modello animale ha dimostrato che è comunque necessaria una pressione biliare media significativamente più elevata per indurre perdite nel gruppo di animali in cui era stato usato il ’sigillante’ rispetto al gruppo di controllo. Tuttavia, gli effetti biliostatici erano eterogenei tra i sigillanti utilizzati. I sigillanti con efficacia dalla più alta alla più bassa erano Tachosil, Coseal, Tissucol e Floseal. Conclusione: le proprietà biliostatiche sono notevolmente migliorate con l’uso di sigillanti moderni rispetto all’utilizzo di nessun sigillante. Tuttavia, i vantaggi e gli svantaggi dell’utilizzo di sigillanti dovrebbero essere attentamente considerati in ogni situazione clinica. L’efficacia dei sigillanti dovrebbe essere ulteriormente valutata [17].


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Recente è una revisione sistematica della letteratura [18] nella valutazione delle perdite anastomotiche, in cui è stata condotta un’analisi comparativa dei costi dei pazienti sottoposti a chirurgia colo-rettale con applicazione di sigillante a base di fibrina, Tisseel, sulla sutura rispetto a non trattare l’anastomosi effettuata. Sono stati calcolati: incidenza di fistola, tempo di sala operatoria, giorni di ricovero, necessità di un intervento chirurgico di revisione, emotrasfusioni e interventi radiologici per il trattamento della fistola anastomotica. Il costo medio nei casi trattati con colla a base di fibrina (10 ml di Tisseel) rispetto a quelli non trattati con un sigillante è stato di € 3233 vs € 4130. Questo suggerirebbe un potenziale risparmio di € 897. Gli Autori concludono che l’applicazione di ‘sigillante’ sull’anastomosi nella chirurgia colo-rettale inferiore ha comportato una riduzione di fistola postoperatoria e risparmio sui costi basati su una riduzione di giorni di ricovero ospedaliero, riduzione di reintervento e intervento radiologico. In chirurgia toracica la perdita d’aria prolungata è la complicazione più comune dopo la resezione polmonare. Diversi sigillanti chirurgici sono stati utilizzati per testarne una eventuale riduzione di incidenza. Uno studio retrospettivo del 2019 [19] non ha documentato alcun effetto positivo sull’uso, in chirurgia robotica, dei sigillanti nel prevenire le perdite aeree. Tuttavia ha evidenziato la necessità di razionalizzarne l’uso. Sempre nel 2019 è stato pubblicato uno studio randomizzato condotto da due centri italiani [20] al fine di stabilire la fattibilità e l’efficacia dell’uso preventivo routinario di un sigillante a base di fibrina al fine di ridurre l’incidenza di perdite prolungate d’aria. I pazienti sono stati assegnati in modo casuale al gruppo “Colla”, 90, o al gruppo “Controllo”, 99. Gli endpoint primari erano l’incidenza di perdite prolungate d’aria, il numero di giorni con tubo toracico e degenza ospedaliera media. Nel gruppo “Colla” si è riscontrata 1 perdita d’aria prolungata (1.1%), mentre nel gruppo “Controllo” si sono verificate 8 perdite (8.1%). I pazienti hanno mantenuto in media il drenaggio toracico per 4.15 giorni nel primo gruppo e 4.45 nel secondo. La degenza media è stata rispettivamente di 7.4 giorni e di 9.1 giorni. Gli Autori concludono consigliando l’uso routinario preventivo di un sigillante a base di fibrina per una minore incidenza di perdite d’aria, una degenza ospedaliera più breve e costi ospedalieri più bassi. Grado di raccomandazione degli emoderivati, fibrina liquida, [3]: – 1A: gli adesivi con fibrina liquida sono utili nei casi di disturbo della coagulazione. Tuttavia, poiché costosi, il loro uso dovrebbe essere riservato ai pazienti anticoagulati o con coagulopatia spontanea; – 1A: gli adesivi a base di fibrina liquida, contenenti acido tranexamico, non devono essere usati in caso di perdita di liquido cerebrospinale a causa della loro neurotossicità; – 1B: gli adesivi a base di fibrina possono essere usati per ridurre il sanguinamento residuo, lieve o moderato;


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– 1B: la somministrazione intravascolare di fibrina liquida deve essere evitata a causa dell’alto rischio tromboembolico; – 1B: gli adesivi con fibrina liquida sono utili per il controllo del sanguinamento residuo sulle anastomosi vascolare; – 1B: gli adesivi con fibrina liquida non sono efficaci nella prevenzione delle perdite pancreatiche, biliari, urinarie, intestinali e aeree; – 2C: gli emostatici con fibrina fluida sono più efficaci per il controllo del sanguinamento residuo su superfici grezze ampie e regolari; – 2C: gli emostatici in ​​schiuma di fibrina sono più efficaci per il controllo del sanguinamento residuo su superfici grezze irregolari e profonde. Oltre alla formulazione fluida, ci sono in commercio emostatici con fibrina disponibili come patch, ad esempio Tachosil. Questi prodotti hanno composizione diversa, con un supporto meccanico offerto dal collagene o da matrice ossidata di cellulosa, ma uguali vantaggi rispetto alle formulazioni fluide. Presentano un’adeguata aderenza ai tessuti sanguinanti, indipendentemente dal sanguinamento rapido, prevenendo l’ “effetto streaming” osservato con adesivi fluidi [21,22]. Modelli di studio su animale hanno valutato la capacità di aderenza alla ferita e l’emostasi. Il fallimento nella capacità adesiva del prodotto era la principale causa di insuccesso del patch [23]. Tali combinazioni emostatiche presentano il vantaggio di essere pronte all’uso. Controverso rimane il ruolo delle spugne/patch di fibrina nel prevenire le perdite aeree in chirurgia toracica e dibattuto anche l’utilizzo standardizzato in chirurgia epatica-bilio-pancratica, con una pletora di studi a supporto di entrambe le opzioni. Comunque, Cheng, et al. [24] in una revisione Cochrane del 2016 dichiarano che, considerando la mancanza di effetti sulla prevenzione di fistola, i costi elevati e il potenziale danno per la funzione pancreatica endocrina, il cerotto fibrinico dovrebbe non essere raccomandato di routine per la chirurgia pancreatica. Stesse conclusioni vengono riportate da Kwon J in uno studio prospettico randomizzato del 2019 che ha coinvolto tre chirurghi pancreatici [25], in cui si è cercato di valutare l’efficacia del “cerotto sigillante” a base di fibrina applicato all’anastomosi pancreatico-enterica per ridurre le complicanze postoperatorie. Nessuna differenza statisticamente significativa è stata registrata nell’insorgenza di fistole pancreatiche postoperatorie o di altre complicanze postoperatorie. La degenza ospedaliera e i giorni di rimozione del drenaggio non erano statisticamente differenti tra i due gruppi. Grado di raccomandazione dei patch di fibrina [3]: – 1B: il cerotto/patch con fibrina è efficace anche in presenza di gravi emorragie, impedisce infatti ”effetto streaming” di sangue; – 1B: il cerotto/patch con fibrina non ha effetto nel prevenire le perdite d’aria quindi il suo uso preventivo routinario non dovrebbe essere raccomandato;


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– 1B: sono disponibili prove deboli sul ruolo del cerotto/patch con fibrina nella prevenzione delle perdite pancreatiche, biliari e urinarie. Pertanto, il loro uso di routine non dovrebbe essere raccomandato; – 1C: il cerotto/patch con fibrina è efficace per controllare il sanguinamento residuo sull’anastomosi vascolare. Emostatici topici Gli emostatici topici sono prodotti assorbibili, di origine vegetale o animale, in grado di determinare l’attivazione e l’aggregazione piastrinica quando applicati direttamente sulla superficie sanguinante. Il riassorbimento dei fluidi presenti determina la formazione di una matrice, con conseguente attivazione della via estrinseca della coagulazione. Per tale motivo il loro uso è strettamente raccomandato nei pazienti con cascata coagulativa normale [26], non riuscendo a indurre attivazione piastrinica, in assenza di fattore VIII e XII, e con pressione diretta e adeguata sul sito del sanguinamento. Tra i più noti prodotti in commercio con composizioni di origine vegetale riscontriamo prodotti a base di cellulosa ossidata: Tabotamp, Tabotamp Fibrillare, Surgicel Nu-Knit, Tabotamp Snow, Tabotamp Powder, tutti prodotti dalla J&J, caratterizzati da facilità d’uso, biocompatibilità e proprietà battericide (N.B.: in Italia il nome commerciale è Tabotamp mentre nel resto del mondo è Surgicel). La cellulosa ossidata può essere rigenerata (ORC), in cui le fibre si formano prima dell’ossidazione, o non rigenerata (OC). La OC ha fibre sfilacciate, mentre la ORC ha fibre condensate. Lewis et al. [27] hanno descritto emostasi superiore per OC, con equivalente efficacia battericida rispetto all’ORC. La cellulosa ossidata viene generalmente riassorbita in 2-5 settimane, a seconda della quantità utilizzata e della superficie d’uso; nella scheda tecnica del Tabotamp vengono indicate in 1-2 settimane il tempo per il totale assorbimento, ma l’eccesso di materiale utilizzato può andare incontro a processi di granulazione e condizionare eventuali diagnosi differenziali radiologiche [28]; inoltre, il materiale residuo può favorire la crescita di microrganismi con formazioni di ascessi e sono stati descritti danni alle strutture quando utilizzato in neurochirurgia [29]. Altri emostatici topici sono rappresentati da dispositivi di origine animale, a base di gelatina, preparati con carne di maiale purificata, gelatina cutanea o gelatina di derivazione bovina o a base di collagene di derivazione bovina o equina. Hanno alta capacità assorbente e forniscono una adeguata matrice meccanica per la formazione del coagulo. In commercio sono disponibili preparati in polvere, in granuli e spugne. Tali preparati si adattano all’uso emostatico per superfici irregolari o cavità. Una volta applicati, gli agenti a base di gelatina sono completamente riassorbiti entro 4-6 settimane per quelli di origine suina e 6-8 settimane per


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quelli di origine bovina; ne è comunque raccomandato l’utilizzo in minima quantità per raggiungere emostasi ed è raccomandata la rimozione prodotto in eccesso. Il pH di tali prodotti è neutro; ciò ne facilita la combinazione con la trombina, Floseal e Surgiflo. Nel 2016, in uno studio randomizzato eseguito da Xu et al. [30], gli Autori hanno concluso che i prodotti a base di collagene determinano un migliore effetto emostatico rispetto ai prodotti a base di gelatina. Tra gli agenti emostatici topici di ultima generazione rientra una polvere emostatica polisaccaridica microporosa, a base vegetale, assorbibile (Arista). Agisce mediante assorbimento della quota ematica liquida determinando concentrazione piastrinica e potenziamento dei processi di coagulazione endogena. Uno studio retrospettivo del 2014 [31] ha analizzato i risultati di 240 pazienti sottoposti a cardiochirurgia con o senza l’uso di Arista. Gli endpoint includevano il tempo di emostasi, il tempo di bypass cardiopolmonare, la quantità di Arista applicata, l’uso di prodotti ematici intraoperatori, la perdita di sangue intraoperatoria, la rimozione del tubo toracico 48 ore dopo l’intervento, i prodotti sanguigni richiesti 48 ore dopo l’intervento, la durata della permanenza in unità di terapia intensiva, morbilità a 30 giorni e mortalità a 30 giorni. L’applicazione di Arista ha comportato una riduzione significativa del tempo di emostasi rispetto al gruppo di controllo non trattato. Anche l’output del tubo toracico postoperatorio nelle prime 48 ore e le emotrasfusioni sono stati significativamente ridotti. Non ci sono state differenze significative nella mortalità a 30 giorni o complicanze postoperatorie. Tali componenti emostatici polisaccaridi sono completamente riassorbibili in pochi minuti e non sembrerebbero rappresentare un rischio per la formazione di granulomi o foci di infezione. I problemi di sicurezza includono il rischio di embolia, se iniettato o inserito accidentalmente nei vasi sanguigni, e il suo uso su pazienti diabetici. Non dovrebbero essere utilizzati più di 50g di prodotto, poiché quantità in eccesso potrebbero influire sul carico di glucosio. Gli emostatici in polvere sono stati ampiamente adottati per la loro facilità d’uso; tuttavia, la loro efficacia è stata limitata con conseguente riduzione delle applicazioni a sanguinamenti di basso livello. Nel 2019, Singh R [32] ha confrontato l’azione emostatica di particelle di gelatina di origine bovina, Flosorb, con emosfere di polisaccaridi microporosi, Arista. Le polveri sono state studiate per la loro efficacia emostatica limitata a sanguinamenti di grado 1 e 2 su una scala di sanguinamento intraoperatoria convalidata. Dopo 10 minuti, il successo emostatico delle lesioni trattate con Flosorb è stato del 78%, mentre Arista era del 22%. Ciò indica che Flosorb è superiore a Arista (p < 0.001). Il tempo mediano all’emostasi per la Flosorb era di 1.6 minuti e la Arista era di 14.5 minuti, a dimostrazione che Flosorb raggiunge


208

Fondamentali in Chirurgia

in un tempo significativamente più rapido l’emostasi (p < 0.001). Inoltre, la caratterizzazione dell’ultrastruttura del tessuto, la dimensione delle particelle e il gonfiore hanno rivelato differenze nei materiali. Flosorb, oltre ad assorbire il fluido, concentrare i fattori di coagulazione e le piastrine, si integra nel coagulo e stabilizza la matrice di fibrina; presenta vantaggi rispetto a Arista in termini di velocità ed efficacia. Grado di raccomandazione emostatici topici [3]: – 1A: gli emostatici topici sono adatti solo per pazienti con un sistema di coagulazione intatto; – 1A: come emostatico dovrebbe essere usata la quantità minima efficace di cellulosa ossidata e il materiale in eccesso, che non contribuisce all’emostasi, dovrebbe essere rimosso a causa del rischio di reazioni da corpo estraneo; – 1A: l’uso di emostatici topici a base di cellulosa ossidata non è indicato per il controllo del leakage biliare, urinario, pancreatico o perdite d’aria; – 2A: per i polisaccaridi di origine vegetale, nei pazienti diabetici, l’uso di più di 50g di prodotto potrebbe influenzare il carico di glucosio; – 1B: gli emostatici topici a base di cellulosa ossidata non rigenerata (OC) sono più efficaci rispetto a quelli rigenerati (ORC); – 1C: gli emostatici topici a base di cellulosa ossidata dovrebbero non essere utilizzati o lasciati in prossimità di nervi, ureteri, strutture intestinali o vascolari, a causa del rischio di ischemia dovuta a compressione o reazione infiammatoria locale; – 1C: le gelatine possono indurre, a causa del loro gonfiore, compressione di strutture anatomiche vicine; quindi per ottenere l’emostasi dovrebbe essere usata la minima quantità di agente utile; – 1C: si deve usare cautela con emostatici di collagene bovino durante le procedure chirurgiche che coinvolgono dispositivi di recupero sangue, perché gli agenti possono passare attraverso i filtri; – 2C: emostatici topici a base di cellulosa ossidata possono essere usati a controllo del sanguinamento da lesioni parenchimali, packing. Sigillanti I sigillanti vengono generalmente definiti come prodotti con capacità polimerizzanti. Anche gli adesivi a base di fibrina hanno un effetto sigillante dovuto alla polimerizzazione dei monomeri di fibrina, ma l’effetto emostatico è predominante, perché dipende interamente dalla concentrazione del fibrinogeno, del fattore XIII e della fibronectina. I sigillanti, contrariamente alla colla di fibrina, polimerizzano attraverso una reazione chimica, polimerizzazione


Emostatici in chirurgia

209

covalente tra loro e tessuti adiacenti, non enzimatica e, come gli emostatici emoderivati, risultano efficaci in pazienti con deficit della coagulazione [33]. Tali prodotti differiscono tra loro per il meccanismo di azione, il campo di applicazione e le controindicazioni. Il sigillante ideale dovrebbe essere forte, flessibile, rapido ad aderire, sterile, senza tossicità, biologicamente inerte, completamente biocompatibile, con possibilità di utilizzo in un ambiente relativamente umido e con bassa trombogenicità. In commercio sono presenti sigillanti a base di polietilenglicole (PEG), sia sotto forma di cuscinetti di diverse dimensioni sia come prodotti fluenti, DuraSeal, Progel. I cuscinetti disponibili possono essere composti da un supporto di collagene sintetico e un monomero proteico-reattivo (NHSPEG), Hemopatch, o da un supporto di cellulosa ossidata impregnato di sali tampone, trilisina e PEG derivato da fonti non animali, Veriset. Negli ultimi due anni sono stati pubblicati in letteratura lavori di confronto tra sigillanti e patch di fibrina. Nel 2018 [34] in uno studio randomizzato controllato su 90 pazienti presso 12 Istituti Europei è stato monitorato il tempo di emostasi, con Veriset come dispositivo sperimentale e Tachosil come controllo. Il follow-up si è verificato fino a 90 giorni dopo l’intervento. Il tempo mediano d’emostasi è stato di 1.5 minuti con cerotto emostatico Veriset vs. 3.0 minuti con Tachosil (p < 0.0001). Eventi avversi gravi entro 30 giorni dall’intervento sono stati riscontrati in 12/44 (27.3%) pazienti trattati con cerotto emostatico Veriset e in 10/45 (22.2%) nel gruppo Tachosil (p = 0.6295). Nessuno di questi eventi avversi era correlato al dispositivo e non è stato necessario alcun reintervento, per sanguinamento, entro 5 giorni dalla chirurgia in entrambi i gruppi di trattamento. Questo studio rafforza la differenza nel tempo minimo di applicazione raccomandato tra cerotto emostatico Veriset e Tachosil, rispettivamente 30 sec vs. 3 min. Se confrontato direttamente a 3 minuti, Veriset non ha mostrato differenze significative, mostrando emostasi e profili di sicurezza simili nei siti di sanguinamento cardiovascolare inclusi in questo studio. Nel 2019 [35] sigillante e patch di fibrina sono stati testati per il controllo del sanguinamento nella resezione epatica. Lo studio ha confrontato l’efficacia e le complicanze tra due agenti emostatici, Tachosil vs. Hemopatch. Sono stati inclusi un totale di 92 pazienti, 50 nel gruppo Tachosil e 42 nel gruppo Hemopatch. Non sono state rilevate differenze nei pazienti che hanno richiesto sangue intraoperatorio, Tachosil 6 (12%) vs. Hemopatch 2 (4.8%); p = 0.28 e postoperatorio, Tachosil 4 (8%) vs Hemopatch 3 (7.1%); p = 0.87. Non ci sono state differenze nella durata della degenza ospedaliera (Tachosil 7.02 ± 4.1 giorni vs. Hemopatch 7.63 ± 9.; p = 0.67). Nessuna differenza è stata trovata in complicanze specifiche, tuttavia Hemopatch ha mostrato una maggiore incidenza di ascesso intraaddominale (5 (11.9%) vs. 0 (0%); p = 0.01).


210

Fondamentali in Chirurgia

Per i sigillanti rimane, inoltre, il rischio di compressione nervosa dovuta al rigonfiamento del PEG dopo l’applicazione [36]. Per questo motivo, un nuovo idrogel PEG a basso rigonfiamento, Duraseal, è ora disponibile [37]. Altri rischi legati all’uso di sigillanti a base di PEG includono il rischio di compromissione della funzionalità renale, a causa della clearance renale del PEG. Per questo motivo, non bisogna utilizzare sigillanti a base di PEG in casi di insufficienza renale nota. Inoltre, formulazioni basate su PEG contenente albumina sierica possono indurre reazioni allergiche in pazienti sensibili all’albumina sierica umana. Nel gruppo dei cianoacrilati che polimerizzano in presenza di acqua che agisce da catalizzatore, adatti all’uso topico per via cutanea, sono disponibili: – 2-Octyl-cianoacrilato: Dermabond, prodotto da J&J; – N-butil-2 cianoacrilato: Indermil, prodotto da Covidien; – Monomero di metacriloxisolfolano: Glubran 2, prodotto da GEM. L’applicazione sottocutanea di tali prodotti può determinare reazione da corpo estraneo o generare calore, processo di polimerizzazione, con conseguente danno termico [38]. Altre applicazioni dei cianoacrilati sono state riportate in endoscopia [39], radiologia interventistica [40] o chiusura di fistole urinarie [41]. Il sigillante semisintetico a base di albumina glutaraldeide-bovina, BioGlue, agisce mediante “reticolazione” tra le proteine tissutali e l’albumina bovina. Sono stati pubblicati studi che ne dimostrano l’efficacia in cardiochirurgia, neurochirurgia e chirurgia toracica, ma studi randomizzati e controllati sono attualmente scarsi. Grado di raccomandazione dei sigillanti [3]: – 1A: i sigillanti comprendono una varietà di prodotti eterogenei, ma non equivalenti; – 1A: i sigillanti sono efficaci, indipendentemente dallo stato coagulativo del paziente; – 1A: non utilizzare sigillanti a base di PEG in caso di allergia nota, o sospetta, all’albumina umana o in caso di insufficienza renale; – 1A: l’uso di adesivi a base di cianoacrilato deve essere evitato a contatto con il tessuto cerebrale, per reazione da corpo estraneo, o all’interno dei vasi, per rischio trombotico, ad eccezione di metodiche endoscopiche o radiologia interventistica; – 1B: i sigillanti a base di PEG sono efficaci come misura aggiuntiva, per migliorare l’emostasi su anastomosi vascolari o perdite aeree o di liquor; – 1B: i sigillanti a base di albumina sono efficaci per migliorare emostasi sull’anastomosi vascolare, ma l’applicazione circonferenziale deve essere evitata per il rischio di stenosi;


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Emostatici in chirurgia

– 1B: i sigillanti a base di albumina sono efficaci per il controllo della perdita di liquor; Tabella 1 Composizione Prodotto

Nome commerciale

Produttore

Costo (*da letteratura)

Collagene bovino

Avitene

Davol Inc

84 euro

Euroresearch srl

Collagene equino

Condress

Collagene equino

Tissufleece

Gelatina bovina con trombina

Floseal

Gelatina suina

Gelitaspon

Gelatina suina

Spongostan

Gelatina suina con trombina

2.54 Euro 19,30 euro

Baxter

260 +/- euro

Gelita Medical

1.62 euro 4.24 euro 254 +/- euro

Surgiflo

Cellulosa

Tabotamp fibrillare

J&J

88 euro

Cellulosa

Tabotamp standard

J&J

18 euro

Cellulosa

Tabotamp snow

J&J

96 euro

Polimero polietilen glicole (PEG)

Coseal 2 ml

Baxter

193 euro

Polimero polietilen glicole (PEG)

Coseal 4 ml

Baxter

397 euro

Cianoacrilato

Glubran2

85 euro

Enbucrilato

Histoacryl

Da 9.68 euro a 17.50

Gluteraldeide + albumina bovina

Bioglue 5 ml

Cryolife INC

403 euro

Tissucol 1 ml

Baxter

111 euro

Tissucol 2 ml

Baxter

197 euro

Tesseel 10 ml

Baxter

493 euro

Evicel 1 ml

J&J

197 euro

Evicel 5 ml

J&J

468 euro

– Quixil 2 fl 5 ml

J&J

507 euro


212 Composizione Prodotto

Fondamentali in Chirurgia

Nome commerciale

Produttore

Costo (*da letteratura)

Tachosil 1 spugna (9.5 x 4.8 cm)

Takeda

347 euro

Tachosil 2 spugne (4.8 x 4.8 cm)

Takeda

211 euro

Evicel 2 fl da 1 ml + applicatore

J&J

100.59 euro

Evicel 2 fl da 2 ml + applicatore

J&J

177.79 euro

Evicel 2 fl da 5 ml + applicatore

J&J

452.77

Evarrest

J&J

Crosseal

J&J

Beriplast

Behring

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Emostatici in chirurgia

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Fondamentali in Chirurgia

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Capitolo 13 Drenaggi in chirurgia Giorgio Lisi Dirigente Medico – UOC Chirurgia Generale Polo Ospedaliero H3 – ASL Roma 6 I drenaggi sono presidi medico-chirurgici che garantiscono la formazione di un sistema chiuso finalizzato a convogliare all’esterno secrezioni organiche o aria da una cavità ovvero da una particolare zona (ad es. ferita chirurgica, peritoneo, cavità pleurica, etc.), al fine di ridurre l’incidenza di una sovra-infezione batterica e di monitorare la quantità del materiale fuoriuscito. Sebbene solo in casi specifici possano anche essere utilizzati per effettuare lavaggi di cavità neoformate garantendo un sistema bidirezionale, come ad esempio nella gestione delle pancreatiti gravi, di norma permettono la fuoriuscita di aria, siero, sangue, bile, pus, urina, materiale gastrico, enterico e pancreatico. L’unità di misura, universalmente riconosciuta e utilizzata, per indicare il calibro del drenaggio è la scala di Charrière o French (1 Ch = 1 Fr = 1/3 di mm) e corrisponde al diametro del drenaggio (Figura 1). Una dimensione crescente di French corrisponde a un drenaggio di diametro maggiore. Ciò è contrario all’unità di misura Gauge, utilizzata principalmente per indicare il calibro degli aghi, in cui un indicatore crescente corrisponde a un catetere di diametro minore. Inoltre, la misura di Charrière o French corrisponde al diametro esterno, mentre il Gauge si riferisce al diametro interno.

Figura 1. Scala di Charrière o French


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Fondamentali in Chirurgia

Drenaggi chirurgici e aspetti clinici L’utilizzo del drenaggio va valutato soprattutto in base al tipo di intervento chirurgico (Tabella 1). A ogni classe di rischio corrisponde un’aumentata incidenza di infezione, quindi la necessità di utilizzare il drenaggio. – Classe I → Infezione < 3 %; – Classe II – III → Infezione 5 15 %; – Classe IV → Infezione > 40 %.


Drenaggi in chirurgia

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Caratteristiche del drenaggio Il drenaggio, per essere utilizzato in chirurgia garantendo un basso tasso di complicanze dovute alla sua permanenza in una cavità, indipendentemente dal tipo, deve avere precise caratteristiche: sterile, non tossico, inerte e apirogeno. Dovrà avere una rigidità sufficiente per evitare angolature ma al tempo stesso ridurre al minimo il trauma tissutale. I materiali utilizzati sono: – Lattice; – Poli-vinil-cloruro (PVC); – Caucciù; – Silicone, bianco o trasparente. Il calibro può variare da 2 mm a 2 cm, la lunghezza ovviamente è variabile e modulata dallo specialista, in base alle necessità. Tutti i drenaggi sono dotati di un filo radio-opaco che ne permette l’identificazione in corso di esami radiologici. In base alla tipologia possono avere, lungo parte del loro decorso, dei fori laterali, più o meno numerosi, volti a favorire il convogliamento del materiale. Funzionamento – A caduta: sfrutta la forza di gravità dei liquidi organici (Figura 2a); – Per capillarità: sfrutta la proprietà assorbente delle fibre; – In aspirazione: sfrutta una delicata aspirazione creata con un tubo plurifenestrato connesso a un’ampolla sottovuoto (Hemovac) ovvero un drenaggio in aspirazione continua (Pleur-evac) (Figura 2b, c).

Figura 2a. Sistema di raccolta ‘a caduta’. La sacca di raccolta è a circuito chiuso.


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Fondamentali in Chirurgia

Figura 2b. Sistema di raccolta in aspirazione. Il recipiente è a “pressione negativa” e permette l’aspirazione “attiva” del materiale (Hemovac).

Figura 2c. Sistema di raccolta in aspirazione. Il recipiente è a “pressione negativa” e permette l’aspirazione “attiva” del materiale (Pleur-evac).


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Drenaggi in chirurgia

Classificazione – Drenaggio tubulare: è il drenaggio più utilizzato in ogni tipo di chirurgia (ad es. mammaria, addominale, ortopedica, etc.), costituito da silicone trasparente plurifenestrato, o non, con filo di repere radio-opaco; ha una lunghezza di circa 40 cm e un diametro variabile, 12-30 Fr (Figura 3a, b, c). Può essere collegato con un sistema di aspirazione continua ovvero semplicemente posizionato ‘a caduta’ collegato a una sacca di raccolta. La maggior capacità di drenaggio ne giustifica il suo diffuso utilizzo, sebbene occorra sottolineare come, in virtù della sua consistenza e rigidità, sia tra tutti quello che determina un maggior rischio di decubito nel medio-lungo periodo, soprattutto in chirurgia addominale ove è in contatto con visceri e organi.

Figura 3a. Drenaggio tubulare non fenestrato

Figura 3b. Drenaggio tubulare plurifenestrato


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Fondamentali in Chirurgia

– Tubo di Kehr: particolare tipo di drenaggio tubulare è il tubo di Kehr avente caratteristica forma ‘a T’, non più estesamente impiegato nella chirurgia delle vie biliari. È stato ideato e proposto dal chirurgo tedesco Hans Kehr (Figura 4a, b) per ridurre la ipertensione biliare postoperatoria dovuta all’edema della papilla o in caso di intervento con lesioni della via biliare principale. Viene posizionato “a caduta”, collegato a una sacca di raccolta.

Figura 4a. Drenaggio plurifenestrato a T sec. Kehr; b. Modalità di posizionamento del tubo di Kehr;

– Drenaggio di Jackson-Pratt: è un particolare tipo di drenaggio con estremità piatta e plurifenestrata (Figura 5), utilizzato principalmente nella chirurgia mammaria, del collo e sottocutanea in virtù della sua scarsa rigidità e della forma caratteristica; è stato proposto anche nella chirurgia della necrosi pancreatica infetta. Può avere vari diametri; è sempre raccordato a un sistema di aspirazione a pressione negativa.

Figura 5. Drenaggio plurifenestrato con estremità piatta


Drenaggi in chirurgia

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– Drenaggio pigtail: è un tipo di drenaggio che ha il solo scopo di rimuovere liquidi da organi, dotti o ascessi. Vengono inseriti per via percutanea, sotto stretta guida radiologica, che ne conferma il corretto posizionamento. Si tratta di un drenaggio sterile, sottile, lungo, con la punta a forma di “coda di maiale” (Figura 6, 7). Il kit di inserimento è provvisto di filo guida, che andrà tagliato prima della sua rimozione e la punta del drenaggio ha molteplici fori, che facilitano il sistema di drenaggio.

Figura 6, 7. Pigtail. Si noti la classica “coda di maiale”, il filo giuda e il sistema plurifenestrato.

– Drenaggio laminare: è il drenaggio che sfrutta la gravità per evacuare raccolte, con un meccanismo passivo per capillarità. Il più noto dei drenaggi laminari è quello di Penrose, a conformazione piatta (Figura 8) che sfrutta la proprietà assorbente, affidandosi al fenomeno capillare, per convogliare all’esterno liquidi patologici che non possono essere drenati in posizione declive; grazie alla loro morbidezza possono essere posti a dimora vicino a strutture molto delicate, come quelle vascolari. Generalmente in forma di tubo in gomma o di silicone, è morbido, pieghevole e causa una minima reazione da corpo estraneo nonché minimo danno tissutale.

Figura 8. Drenaggio Laminare. Consente il drenaggio continuo dando minimo danno tissutale.


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Fondamentali in Chirurgia

– Drenaggio capillare: un drenaggio particolare è lo zaffo (Figura 9), anch’esso sfrutta il fenomeno della capillarità ma, a differenza dei precedenti, non richiede la chiusura della soluzione di continuo. È costituito da una garza lunga che viene stipata in una ampia ferita infetta, dopo toilette chirurgica, o in una cavità ascessuale, dopo l’incisione e lo svuotamento dell’ascesso, e che consente al sito infetto di continuare a liberarsi del contenuto patologico, come pus, detriti cellulari e sangue. Contemporaneamente, in caso di ascesso, impedisce ai lembi cutanei di cicatrizzare prima che tutta la cavità sia stata chiusa dal tessuto di granulazione, con guarigione per seconda intenzione.

Figura 9. Drenaggio a Zaffo. Consente il drenaggio continuo con sintesi della ferita per seconda intenzione.

Complicanze Poiché i drenaggi agiscono da corpo estraneo evocano una risposta tissutale infiammatoria. Un drenaggio è una via a doppio senso perché, oltre a estrarre liquidi e materiali, permette l’ingresso di batteri che possono sviluppare una infezione locale o invasiva. Un’accurata medicazione della ferita e la rimozione del drenaggio appena possibile riducono la possibilità di una infezione. Il drenaggio permette l’ingresso di batteri e poiché ostacola la chiusura di una ferita non dovrebbe essere mai posto attraverso la ferita chirurgica. I drenaggi posizionati nella cavità peritoneale possono provocare ileo paralitico o stimolare la formazione di aderenze che potrebbero determinare secondariamente una ostruzione intestinale meccanica. Un’altra complicanza è rappresentata dal decubito di tubi di drenaggio su vasi, vie biliari, anastomosi, con conseguenti emorragie, fistole, deiscenze,


Drenaggi in chirurgia

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etc. Una porzione di drenaggio può rompersi o può scivolare all’interno della cavità ed essere ritenuta come corpo estraneo, richiedendo un reintervento per la sua rimozione; pertanto devono essere fissati con aghi di sicurezza o, meglio, suturati alla cute con materiale non riassorbibile, come ad esempio seta o nylon. Gestione del sistema di drenaggio I. Monitorare periodicamente, almeno ogni 8 ore, la qualità e la quantità del drenato; II. Sostituire la medicazione ogni 24-48 ore, ovvero nel caso risulti bagnata o “sporca”; III. Controllare periodicamente il punto di inserzione; IV. Verificare la pervietà e il corretto funzionamento del sistema; V. Posizionare il drenaggio a valle del punto di inserzione e in posizione declive rispetto al paziente; VI. Verificare che il decorso sia rettilineo in assenza di kinking. I drenaggi vanno rimossi non appena possibile, prima che la loro presenza diventi causa di infezione o decubito.



Capitolo 14 Caratteristiche e sicurezza del blocco operatorio Lucia Mauro Infermiere componente Polo 4 CECRI – Centro Eccellenza per la Cultura e la Ricerca Infermieristica – Affiliato Joanna Briggs Institut Caratteristiche del blocco operatorio Il blocco operatorio può essere definito come un complesso architettonico impiantistico caratterizzato da una bassa carica microbica, in cui viene esercitata l’attività chirurgica grazie all’insieme sinergico di varie figure professionali. Il numero complessivo delle sale operatorie e la grandezza della struttura che occupa il blocco operatorio dipende dalla tipologia, dalla complessità, dal volume di prestazioni da erogare in regime elettivo, emergenza-urgenza e Day Surgery. Il blocco operatorio è strutturato in zone progressive dall’ingresso al blocco operatorio fino all’interno delle sale operatorie e da percorsi differenziati per lo sporco e il pulito. Tutte le superfici devono essere lisce per permettere una facile pulizia, costituite da materiale compatibile con agenti detergenti e sanificanti, idrofobiche e ignifughe. I corridoi destinati al passaggio degli operandi devono avere una larghezza minima di 2 metri e devono essere dotati di pannelli di protezione per le attrezzature carrellabili. L’illuminazione naturale, quando possibile, deve prevedere infissi sigillati e resistenti agli agenti atmosferici esterni. Tutti gli ambienti che compongono il blocco operatorio devono essere conformi ai requisiti previsti dalla normativa vigente in materia di: – Protezione antisismica; – Protezione antincendio; – Protezione acustica; – Sicurezza elettrica e continuità elettrica; – Sicurezza antinfortunistica e igiene del lavoro; – Protezione dalle radiazioni ionizzanti; – Eliminazione delle barriere architettoniche; – Condizioni microclimatiche; – Distribuzione gas medicali; – Materiali infiammabili/esplodenti. La dotazione minima di ambienti che struttura un blocco operatorio è: – Spazio filtro di entrata degli operandi: spazio dedicato all’entrata degli operandi, in cui vi è il passaggio dell’operando dalla barella esterna alla barella interna al blocco operatorio con l’ausilio di sistemi automatici o manuali;


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– Zona filtro personale addetto: spazio dotato di accesso separato in relazione al genere, porte di accesso a entrata controllata, dimensioni adeguate al numero del personale operante, spazio per deposito vestiario del personale e oggetti personali, spazio per deposito scarpe pulite, spazio per deposito indumenti e altri dispositivi per la vestizione del personale, doccia con pavimento antiscivolo, lavabo e servizi igienici localizzati prima della zona filtro; – Zona preparazione personale addetto: ambiente dedicato alla preparazione e lavaggio chirurgico delle mani, contiguo alla sala operatoria e adeguato per almeno 2 persone per sala con un lavabo con almeno due erogatori d’acqua e sapone a comando non manuale; – Zona preparazione utenti: ambiente dedicato alla preparazione operandi con illuminazione generale indiretta, testa-letto completo di prese di utilizzo gas medicali, vuoto, prese elettriche, luci e mensole con spazio per armadietti o carrelli per medicazioni, farmaci, etc.; – Zona risveglio utenti: spazio caratterizzato da illuminazione generale indiretta, testa-letto completo di prese di utilizzo gas medicali, vuoto, prese elettriche, luci e mensole, spazio per armadietti o carrelli per medicazioni, farmaci etc.; gli spazi dedicati alla preparazione e al risveglio dovrebbero prevedere del personale dedicato e dovrebbero essere attrezzate per ottimizzare i tempi di utilizzo della sala operatoria; – Sala operatoria: ambiente dove viene eseguito l’intervento chirurgico con una superficie minima di 37.4 m2 con porte scorrevoli a comandi non manuali, pareti, pavimenti e contro soffitti raccordati a sguscio, senza la presenza di angoli; inoltre è indispensabile considerare la tipologia di chirurgia e della tecnologia impiegata; – Deposito presìdi e strumentario chirurgico: lo strumentario chirurgico sterile deve essere conservato in armadio chiuso a tenuta o in ambiente ad atmosfera controllata. Inoltre, è necessario identificare spazi per deposito dispositivi elettromedicali, deposito dispositivi medici, deposito farmaci, soluzioni e disinfettanti; – Deposito materiale sporco: ambiente dedicato per la sosta temporanea del materiale sporco. In aggiunta la dotazione minima prevede spazi quali: – Locale per Coordinatore; – Spazio filtro per il disimballaggio dei materiali per evitare l’ingresso nel Reparto Operatorio degli imballaggi; – Locale sosta coffee-break per gli operatori; – Spazio per deposito barelle; – Deposito per materiali e dispositivi vari di impiego nel Reparto Operatorio; – Locale sterilizzazione. Per quanto riguarda il microclima, la sala operatoria deve essere dotata di condizionamento ambientale che assicuri:


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Temperatura interna invernale ed estiva, 20-24 °C; Umidità relativa estiva e invernale: 40-60%; Ricambi aria/ora (aria esterna senza ricircolo): 15-20 v/h; Filtraggio aria: 99.97%; Impianto di gas medicali e impianto di aspirazione gas anestetici direttamente collegato alle apparecchiature di anestesia; – Impianto rilevazione incendi; – Impianto allarmi di segnalazione esaurimento gas medicali. Il benessere termico, ottenuto dall’equilibrio tra attività del soggetto ed elementi climatici che lo circondano, è garantito da un impianto di ventilazione e condizionamento a contaminazione controllata. Questo contribuisce a mantenere le condizioni termo-igrometriche per l’utente e tutto il personale operante; garantisce una aerazione idonea dell’ambiente in grado di contenere le concentrazioni ambientali di gas anestetici e di altri inquinanti gassosi in caso di emissioni anomale; consente una concentrazione di agenti biologici e di particolato totale al di sotto dei limiti prefissati mediante adeguata filtrazione dell’aria immessa e garantisce gradienti pressori stabili in modo che l’aria passi da ambienti più puliti a quelli meno puliti: sale operatorie a pressione positiva. Inoltre in ogni sala operatoria gli arredi prevedono: – Tavolo operatorio; – Apparecchio per anestesia con sistema di evacuazione dei gas – Monitor per la rilevazione dei parametri vitali; – Elettrobisturi; – Aspiratori distinti, uno dedicato al campo operatorio e l’altro all’anestesista per bronco aspirazione; – Lampada scialitica; – Diafanoscopio a parete, seppur ormai in disuso; – Defibrillatore; – Strumentazione adeguata per gli interventi di chirurgia generale e delle specialità chirurgiche. Tutto il funzionamento degli elettromedicali presenti in sala operatoria è garantito da un impianto elettrico dedicato con la presenza di gruppi elettrogeni ausiliari, stabilizzatori di rete e Uninterruptible Power Supply (UPS). In particolare, l’impianto elettrico a soffitto garantisce l’alimentazione delle lampade scialitiche fornendo la corretta illuminazione con un’intensità che varia tra 10.000 e 100.000 Lux sul campo operatorio; nella sala operatoria non dovrà essere inferiore a 1000 Lux e nei locali preoperatori non dovrà essere inferiore a 500 Lux. Le lampade scialitiche emanano una luce che viene diffusa sul campo operatorio, eliminando le ombre proiettate dagli operatori e dagli strumenti chirurgici utilizzati; la luce emessa è fredda, in quanto la lampada scialitica è dotata di filtri che assorbono la componente calda della luce e garantiscono il massimo comfort agli operatori, evitando il disseccamento dei tessuti esposti.


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L’impianto di distribuzione dell’acqua nei blocchi operatori e nei servizi accessori prevedono trattamenti fisici in grado di prevenire la contaminazione da Legionella pneumophila e Pseudomonas aeruginosa, o altri inquinanti microbiologici patogeni nelle acque e ai punti di erogazione. L’acqua standard deve presentare una carica batterica totale a 22°C ≤ 100 CFU/mL, una carica batterica totale a 37°C ≤ 10 CFU/mL, Coliformi totali * < 1 CFU/100 mL, Pseudomonas areligiosa < 1 CFU/100 mL. La rubinetteria deve essere di acciaio inox smontabile e sterilizzabile con comando non manuale per i lavabi, l’acqua deve essere sia fredda che calda per il comfort dell’operatore durante il lavaggio delle mani, ogni blocco dovrebbe presentare un deposito acqua potabile di riserva e un sistema di potabilizzazione di emergenza e i servizi igienici devono essere posti al di fuori della zona filtro. Il livello di rumore consentito trasmesso dall’impianto di ventilazione ai locali serviti, in Italia, è pari al valore di pressione acustica di 48 dB(A) per sala operatoria. Nella fase di svolgimento dell’atto operatorio è considerato un obiettivo di qualità contenere la rumorosità ambientale al minimo per garantire intelligibilità tra gli operatori, evitare errori di comunicazione tra gli stessi e cali di concentrazione. Infine, per assicurare l’erogazione di una prestazione di qualità la dotazione organica del personale sanitario in sala operatoria deve essere rapportata alla tipologia e al volume degli interventi chirurgici. L’attivazione di una sala operatoria deve prevedere almeno un medico anestesista, due chirurghi e due infermieri. Integrazioni finali La tecnologia da anni è entrata prorompente all’interno della disciplina medica sviluppando un adattamento delle camere operatorie. Grazie a moltissimi software per la gestione informatizzata dell’attività chirurgica stiamo assistendo a una ingegnerizzazione strutturale delle sale operatorie con colonne video in Full HD, esami strutturali come angiografie e TAC intraoperatorie, letti operatori multi-posizione, Tom-Tom cerebrali, robotica computerizzata, monitor e respiratori automatici in grado di adattarsi al paziente, etc. Inoltre, si fa sempre più l’attenzione alla massima sicurezza del paziente, alla mini-invasività e al massimo comfort degli operatori durante l’atto chirurgico. Bibliografia ISPESL, Linee guida sugli standard di sicurezza e di Igiene del lavoro nel reparto operatorio, 2009; D.P.R. 14 gennaio 1997 “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private”;


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Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Testo coordinato con il D.Lgs. 3 agosto 2009, n. 106 “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”; Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”; Decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517, “Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”; Decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 46, “Attuazione della direttiva 93/42/CEE concernente i dispositivi medici”; Decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 493, “Attuazione della direttiva 92/58/CEE concernente le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e/o di salute sul luogo di lavoro”; World Health Organization, Linee guida globali per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico, 2016; Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Dipartimento della qualità – direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema ufficio III, “Manuale per la sicurezza in sala operatoria: raccomandazioni e checklist”, Ottobre 2009.

Sicurezza del Blocco Operatorio Lavorare in sicurezza in sala operatoria significa erogare prestazioni sicure, in grado di garantire al paziente di esercitare il suo diritto alla salute e rispondere al principio fondamentale di ogni professionista sanitario primum non nocere. Nell’ambito lavorativo si riferisce alla condizione garante per i lavoratori di un ambiente salubre e sicuro, stabilendo tutte le misure preventive a tal fine indispensabili e necessarie per ridurre al minimo i rischi connessi al lavoro. Tutti coloro che lavorano in sala operatoria devono adoperarsi nel rispetto delle norme comportamentali, delle procedure operative e delle buone pratiche al fine di essere promotori e sostenitori, attraverso atti concreti, di una filosofia che mira alla sicurezza delle cure e a erogare una prestazione con la più alta qualità possibile1. Sicurezza per l’équipe chirurgica Comportamento del personale nel blocco operatorio Tutti gli operatori del blocco operatorio sono chiamati a garantire un ambiente cordiale e rispettoso, riconoscendo le proprie e le altrui responsabilità

Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali – Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema – Ufficio III. Manuale per la Sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e Checklist, Ottobre 2009 1


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e collaborando in modo attivo alla buona riuscita dell’atto operatorio. Si consiglia2 3 4 5 6 7 8 9 10 11: – La lettura attenta del codice comportamentale presente in tutte le strutture pubbliche e private e l’adozione dei dettami forniti; – Di adottare e mettere in pratica le buone norme di comportamento civile come salutare, presentarsi all’équipe, chiedere prima di fare, condividere idee e iniziative, rispettare i ruoli e le responsabilità a essi correlati; – Di attenersi alle disposizioni generali di preparazione e vestizione; – Di indossare l’abbigliamento congruo alla zona della sala operatoria in cui ci si trova; – Di indossare la divisa chirurgica in zone specifiche di transizione come gli spogliatoi; – Di non indossare indumenti in lana, né indumenti a trame larghe che possano raccogliere la polvere o che possano disperdere fibre nell’ambiente, né indumenti altamente infiammabili; – Di non indossare indumenti personali che fuoriescano dal collo o dalle maniche della divisa chirurgica; – Di indossare gli zoccoli autoclavabili puliti. Questi non devono essere utilizzati all’esterno. Non sono raccomandate calzature che presentino fori o aperture a causa del rischio potenziale connesso alla esposizione sia a liquidi biologici che a taglienti;

Callaghan I. Bacterial contamination of nurses’ uniforms: a study., Nurs Stand. 1998;13(1):37-42 3   Bartlett G.E. – Pollard T.C. – Bowker K.E. – Bannister G.C. Effect of jewelery on surface bacterial counts of operating theatres. J Hosp Infect. 2002;52(1):68-70 4   Jeans A.R. – Moore J. – Nicol C. – Bates C. – Read R.C. Wristwatch use and hospital-acquired infection. J Hosp Infect. 2010 Jan;74(1):16-21 5   Amirfeyz R. – Tasker A. – Ali S. – Bowker K. – Blom A. Theatre shoes – a link in the common pathway of postoperative wound infection?, Ann R Coll Surg Engl. 2007 Sep;89(6):605-8 6   Recommended practices for environmental cleaning in the perioperative setting. In: Perioperative Standards and Recommended Practices. Denver, CO:AORN, Inc; 2011:237-250 7   Neely A.N. – Maley M.P. Survival of enterococci and staphylococci on hospital fabrics and plastic. J Clin Microbiol. 2000;38(2):724-726 8   Neely A.N. – Orloff M.M. Survival of some medically important fungi on hospital fabrics and plastics. J Clin Microbiol. 2001;39(9):3360-3361 9   Pal S. – Juyal D. – Adekhandi S. – Sharma M. – Prakash R. – Sharma N. – Rana A. – Parihar A. Mobile phones: Reservoirs for the transmission of nosocomial pathogens. Adv Biomed Res. 2015 Jul 27;4:144 10   Chao Foong Y. – Green M. – Zargari A. – Siddique R. – Tan V. – Brain T. – Ogden K. Mobile Phones as a Potential Vehicle of Infection in a Hospital Setting. J Occup Environ Hyg. 2015 Oct;12(10):D232-5. 11   Kilic I.H. – Ozaslan M. – Karagoz I.D. – Zer Y. – Davutoglu V. The microbial colonization of mobile phone used by healthcare staffs. Pak J Biol Sci. 2009 Jun 1;12(11):882-4 2


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– Di non indossare orecchini, collane, orologi o bracciali che non possano essere nascosti sotto la divisa chirurgica; – Di non fumare; – Di non consumare alimenti all’interno della zona a clima controllato; – Di non parlare a voce alta; – Di utilizzare un linguaggio consono al luogo in cui ci si trova; – Di non introdurre materiale o oggetti non adatti come giornali, riviste, porta pranzi, etc.; – Di non indossare marsupi, zainetti o borselli nelle aree ad accesso limitato. Non recare con sé oggetti personali, come le valigette portadocumenti o altri effetti personali nelle zone filtro; – Di spegnere dispositivi elettronici quali telefono cellulare per evitare distrazioni e disturbo acustico e non introdurli in sala operatoria; – Di limitare l’apertura delle porte per l’accesso nelle sale operatorie; – Di non allontanarsi dal blocco operatorio ma, se strettamente indispensabile, rimuovere la divisa chirurgica e gli zoccoli, deputati all’uso esclusivo in blocco operatorio, e ripetere al reingresso la procedura di vestizione adeguata. Per accedere al blocco operatorio utilizzare esclusivamente le zone filtro e, dopo avere rimosso completamente monili, orologi, indumenti civili o la normale divisa ospedaliera, indossare: – La divisa dedicata alla sala operatoria, composta da casacca e pantalone; – Il copricapo adeguato in grado di contenere tutta la capigliatura; – La mascherina chirurgica; – Gli zoccoli o scarpe antinfortunistica dedicati esclusivamente alla sala operatoria. Al termine della vestizione e prima di accedere al blocco operatorio effettuare un lavaggio sociale delle mani. Il corpo umano rappresenta la principale fonte di contaminazione microbica negli ambienti perioperatori e le divise in dotazione a trama fitta trattengono le squame cutanee limitando il passaggio di microorganismi e di fibre di tessuto presenti sulle persone verso gli oggetti e l’ambiente della sala operatoria. Non sono ancora stati effettuati studi che dimostrino l’effetto dell’abbigliamento chirurgico sulle infezioni del sito chirurgico, ma esistono dati provenienti da case report e studi in vitro che dimostrano che i pazienti esposti alla cute, alle mucose, o ai capelli e ai peli del personale chirurgico hanno un rischio aumentato di sviluppare un’infezione del sito chirurgico12 13. Inoltre, è stato dimostrato che l’apertura continua delle porte d’accesso alle sale ope  Mase K. – Hasegawa T. – Horii T. – et al. Firm adherence of Staphylococcus aureus and Staphylococcus epidermidis to human hair and effect of detergent treatment. Micro-biol Immunol. 2000;44(8):653-656 13   Tammelin A. – Domice l.P. – Hambraeus A. – Stahle E. Dispersal of methicillin-resistant Staphylococcus epidermidis by staffing in an operating suite for thoracic and cardiovascular surgery: relation of skin carriage and clothing. J Hosp Infect. 2000;44(2):119-126 12


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ratorie riduce l’efficacia del sistema di ventilazione nella pulizia dell’aria dai contaminanti aerei, che per questo aumentano sopra la ferita chirurgica14 15. Preparazione del paziente Il paziente, prima di giungere in sala operatoria, deve aver effettuato la preparazione che include16 17: – La comprensione e firma del consenso chirurgico, consenso anestesiologico e consenso somministrazione di emoderivati; – La rimozione della dentiera, degli occhiali, degli orecchini, delle collane, di bracciali, di piercing, etc.; – Il bagno o doccia prima dell’intervento con sapone antimicrobico; – Indossare un camice pulito, una cuffia che racchiuda tutti i capelli e deve essere accompagnato con lenzuola pulite; – L’antibiotico-profilassi, prima dell’incisione chirurgica, tenendo conto dell’emivita dell’antibiotico e delle eventuali allergie; – La preparazione intestinale meccanica con la somministrazione preoperatoria di sostanze che inducano la pulizia del colon in caso di pazienti adulti candidati a chirurgia colo-rettale elettiva; – effettuare la tricotomia, se indispensabile, con i tricotomi, rasoio elettrico; non usare rasoi manuali come le lamette per rasatura barba e non effettuare mai la tricotomia in sala operatoria. Posizionamento dell’operando sul tavolo operatorio18 19 20 21 La posizione del paziente sul lettino operatorio costituisce un momento importante per garantire una buona esposizione del campo operatorio e per   Lynch R.J. – Englesbe M.J. – Sturm L. – Bitar A. – Budhiraj K. – Kolla S. – Polyachenko Y. -Duck M.G. – Campbell D.A. Jr., Measurement of foot traffic in the operating room: implications for infection control. Am J Med Qual. 2009 Jan-Feb;24(1):45-52 15   Never underestimate the importance of understanding material technology in the theatre. J Perioper Pract. 2012 Nov;22(11):suppl 10-1 16   WHO, Linee guida globali per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico, 2016 17   Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali – Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema – Ufficio III. Manuale per la Sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e Checklist, Ottobre 2009 18  Pierri S., A.I.C.O. Posture chirurgiche: posizionamento e controllo del paziente sul tavolo operatorio durante gli interventi chirurgici e prevenzione delle complicanze da errata postura, Volume 18 2006, fascicolo 1 19   Deleuze M., Molliex S., Ripart J. Complicanze delle posizioni intraoperatorie. EMC – Anestesia-Rianimazione. 2009;14(3),1–15 20   Hewson D.W., Bedforth N.M., Hardman J.G., Peripheral nerve injury arising in anaesthesia practice, Anaesthesia 2018 Jan;73 Suppl 1:51-60 21   Bjøro B. – Mykkeltveit I. – Rustøen T. – Candas Altinbas B. – Røise O. – Bentsen S.B. Intraoperative peripheral nerve injury related to lithotomy positioning with steep 14


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questo motivo i letti operatori in dotazione alle sale operatorie sono snodati, corredati da sostegni e accessori con cuscinetti imbottiti di copertura in grado di posizionare l’operando in qualsiasi postura necessaria all’intervento da effettuare. Un errore di posizionamento può provocare danni con lesioni gravi o permanenti che possono interessare la struttura anatomica e la funzionalità del sistema respiratorio, del sistema circolatorio, del sistema neuro-muscolare, dell’apparato tegumentario e visivo. Il posizionamento del paziente deve avvenire in presenza del chirurgo operatore e deve essere testato a paziente vigile e cooperante, fatta eccezione per le chirurgie che richiedono il paziente narcotizzato in posizione supina, per facilitare le manovre anestesiologiche, e successivamente posizionato per l’intervento. Ogni modifica della postura del paziente, in ogni fase dell’atto operatorio, deve avvenire lentamente evitando curvature, piegamenti o torsioni del collo e delle estremità, traumi del viso, dislocazione dei presidi invasivi quali tubo endotracheale, catetere vescicale, sondino naso-gastrico, accessi arteriosi o venosi e assicurando che l’apparato cardio-vascolare si adatti al cambiamento. Letto operatorio È un presidio indispensabile per garantire la corretta posizione che, per la maggior parte degli interventi non corrispondono a posizioni fisiologiche e per questo potenzialmente pericolose. Inoltre, l’anestesia determina un rilassamento muscolare, l’incapacità di percepire il dolore e garantisce l’assenza di coscienza rendendo il paziente non collaborante. È però indispensabile garantire il comfort e la sicurezza dell’operando rispetto alla circolazione, alla respirazione, alla muscolatura e alle strutture nervose al fine di evitare complicanze successive. I letti operatori attualmente in commercio hanno caratteristiche simili e possono essere a base fissa o mobile, a piani fissi o a piani intercambiabili con l’aggiunta di accessori propri del letto operatorio o dispositivi per la riduzione dei danni da compressione. Gli accessori propri del letto prevedono: – Testiere: accessorio per la stabilizzazione della testa composto da struttura a gancio per il fissaggio al letto e da un poggia-testa imbottito da cuscino impermeabile a forma di ferro di cavallo. Nella neurochirurgia il poggia-testa viene sostituito da testiera di Mayfield composta da struttura semicircolare con puntali per garantire il fissaggio del cranio; – Spallacci: accessori che si applicano nella regione delle spalle del paziente quando è necessario un Trendelenburg molto marcato, come nella chirurgia laparoscopica, in particolare nella ginecologia;

Trendelenburg in patients undergoing robotic-assisted laparoscopic surgery – A systematic review. J Adv Nurs. 2020 Feb;76(2):490-503


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– Archetto: accessorio utilizzato per garantire l’accesso dell’anestesista alla testa del paziente dopo la preparazione del campo operatorio sterile. Spesso utilizzato anche come presidio di sospensione per arto superiore per facilitare l’accesso al torace e alla zona lombare; – Reggi-braccio: composto da gancio per fissaggio al letto, snodo per posizionamento variabile per un’ampiezza fino a 180° e un supporto imbottito impermeabile dove adagiare il braccio; – Controspinte: accessori per il bloccaggio del paziente nelle posizioni estreme quali la posizione laterale nella chirurgia toracica. Sono costituiti da blocchi per fissaggio a letto e struttura imbottita impermeabile che si posiziona sul paziente; – Allargapiano: accessori che aumentano la base di appoggio del letto operatorio allargando il modulo centrale; utilizzato principalmente nella chirurgia bariatrica; – Cosciali e gambali: accessori per il posizionamento degli arti inferiori composti da un blocco di fissaggio da applicare al letto e dal reggi-gamba per garantire posizioni di abduzione/adduzione, sollevamento e abbassamento degli arti inferiori; – Fasce di contenimento: presidi di contenimento del paziente che possiedono due punti di fissaggio sui lati del letto come fissaggio degli arti superiori o arti inferiori. Di supporto nelle posizioni particolari per fissare il paziente al letto operatorio. Dispositivi per la riduzione dei danni da compressione sono: – Supporti in gel siliconico; – Supporti in schiume poliuretaniche; – Pink pad. Le principali posizioni dell’operando Posizione supina La posizione supina consente l’accesso alla parte anteriore dell’intero corpo umano e consente l’accesso alla maggior parte dei siti chirurgici. L’operando giace sulla schiena con il rachide in asse come il resto del corpo; le braccia sono posizionate una lungo il tronco o entrambe abdotte a un massimo di 90°. L’abduzione degli arti superiori garantisce l’accessibilità agli accessi venosi e arteriosi periferici come al bracciale della pressione e al pulsossimetro. Vengono applicate delle fasce di sicurezza sia degli arti superiori all’altezza dell’avambraccio sia sugli arti inferiori all’altezza delle ginocchia, che garantiscono l’assetto al tavolo operatorio. Danni provocati da uno scorretto posizionamento supino: – Cheratiti; – Cecità; – Congestione congiuntivale;


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Deficit da compressione del nervo cutaneo laterale dell’anca; Deficit da compressione sciatico popliteo esterno; Deficit da compressione tibiale posteriore; Iperestensione del rachide cervicale; Deficit da compressione e da stiramento del plesso brachiale; Deficit da compressione e da stiramento del nervo radiale; Deficit da compressione e da stiramento del nervo ulnare. Posizione ginecologica-litotomica La posizione litotomica consente l’accesso peri-anale, trans-vaginale e ano-rettale. L’operando giace supino con un braccio disteso lungo il tronco o entrambe le braccia abdotte per un massimo di 90°. Entrambi gli arti inferiori sono flessi a livello dell’anca e del ginocchio ed è indispensabile che il posizionamento delle gambe avvenga in modo simultaneo a paziente sveglio al fine di non provocare danni all’articolazione coxo-femorale evitando in maniera assoluta che le gambe cadano. Per la maggior parte delle procedure ginecologiche, urologiche e proctologiche, le cosce del/della paziente sono flesse approssimativamente di 9o° sul tronco e le ginocchia sono piegate a sufficienza per mantenere la parte bassa delle gambe quasi parallela al pavimento. La zona peri-anale deve debordare dal letto operatorio di circa 5 cm per facilitare l’esposizione della porzione anatomica interessata e facilitare l’utilizzo di strumentario specifico. Danni provocati da uno scorretto posizionamento litotomica: – Deficit da compressione del nervo peroneale comune; – Deficit da compressione del nervo femorale e nervo sciatico; – Lesione alle articolazioni dell’anca e del ginocchio; – Dolore lombare post operatorio per stiramento delle strutture legamentose dell’area lombosacrale; – Ipotensione al ritorno alla posizione supina. Posizione laterale La posizione laterale consente l’accesso al torace, alle strutture addominali retroperitoneali e, con le dovute accortezze, è utilizzata in neurochirurgia e in ortopedia. L’operando giace sul fianco con il braccio inferiore abdotto su un reggi-braccio, mentre il braccio superiore può essere collocato in sospensione a un archetto a ponte, oppure su un secondo reggi-braccio. La gamba inferiore è leggermente flessa, mentre quella superiore è distesa e sono separate da un cuscino morbido. Il capo, il collo e la colonna sono allineati e la testa sollevata grazie ad accessori del letto o con l’uso di cuscini. Viene applicata una fascia di contenimento a livello delle anche e una a livello degli arti inferiori. Il reggi-braccio non deve superare una angolazione di 90° rispetto al corpo. Danni provocati da uno scorretto posizionamento laterale: – Instabilità della posizione;


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– Deficit da compressione del nervo cutaneo laterale dell’anca da compressione sulla spina iliaca; – Deficit da compressione del nervo peroneale comune da compressione sulla testa tibiale; – Sovraccarico eccessivo della spalla a contatto con il letto; – Stiramento del plesso brachiale; – Dislocazione del tubo endotracheale da flessione o estensione del capo durante il posizionamento. Posizione prona La posizione prona consente l’accesso alla parte posteriore del corpo umano, in particolar modo alla colonna vertebrale, alla parte posteriore del cranio, zona glutea o sugli arti inferiori. L’operando viene indotto e intubato in posiziona supina e successivamente posizionato; è indispensabile che le manovre avvengano in modo sincrono mantenendo l’allineamento corporeo, gli arti superiori sono lungo il corpo o ai lati della testa in posizione comoda, le ginocchia devono essere flesse con supporto sotto le ginocchia. La posizione prona è garantita dall’uso di un supporto morbido, in genere di forma rettangolare, sul quale viene adagiato il busto dell’operando. Al termine della posizione verificare, nell’uomo, la posizione dei genitali esterni. Danni provocati da uno scorretto posizionamento prono: – Compressione del nervo ulnare sul margine del letto operatorio; – Stiramento del plesso brachiale; – Equinismo dei piedi; – Ristagno venoso vasi del collo e compressione degli occhi e del naso; – Compressione toracoaddominale; – Dislocamento e/o inginocchiamento del tubo endotracheale; – Dislocamento e/o inginocchiamento del catetere urinario, linee infusionali, etc.; – Lesioni genitali. Posizione semiseduta La posizione semiseduta consente l’accesso per la chirurgia della spalla, per la chirurgia otorinolaringoiatrica, per la chirurgia ricostruttiva della mammella, per la chirurgia della colonna cervicale e per le craniotomie posteriori. L’operando viene posizionato supino e, grazie alle articolazioni del letto, messo in posizione semi-seduta con un angolo di circa 45° per quanto riguarda il tronco; per quanto riguarda l’anca e il ginocchio l’angolazione deve essere di circa 30°. Le braccia devono essere lungo il corpo e in posizione di riposo, mentre il collo e la testa devono essere in asse rispetto alla colonna. Si applica una fascia a livello del bacino e un poggia-piedi per evitare che il paziente scivoli verso il basso e per evitare che le ginocchia si flettano si applica una fascia sopra le ginocchia. Danni provocati da uno scorretto posizionamento semiseduto: – Cheratiti; – Congestione congiuntivale;


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– Dislocazione del tubo endotracheale da flessione o estubazione durante il posizionamento; – Stiramento plesso cervicale; – Instabilità della posizione; – Compressione sciatico popliteo esterno. Altre posizioni Trendelenburg: posizione simile a quella supina in cui il bacino è più alto delle spalle e della testa. Permette l’accesso sul bacino e sulla pelvi garantendo il dislocamento verso il diaframma degli organi addominali liberando la pelvi. Danni provocati da uno scorretto posizionamento Trendelenburg: – Aumento del ritorno venoso; – Aumento della pressione intracranica e intraoculare, cefalea ed edema cerebrale; – Distacco di retina nei pazienti a rischio; – Diminuzione compliance polmonare e capacità vitale; – Aumento pressione intragastrica; – Stasi venosa del capo; – Edema periorbitale. AntiTrendelenburg: si impiega per la chirurgia della testa, del collo e della chirurgia sottodiaframmatica. La testa e il torace sono più alti degli arti inferiori e con l’uso di poggia-piedi si evita lo scivolamento verso il basso. Danni provocati da uno scorretto posizionamento antiTrendelenburg: – Diminuzione del ritorno venoso con riduzione della gittata cardiaca; – Scivolamento con compressione sui punti di contatto. Decubito per laminectomia: prediletta per interventi di laminectomia microscopica; garantisce una corretta esposizione degli spazi intervertebrali e alla lamina posteriore vertebrale. L’induzione e l’intubazione avvengono in posizione supina e la posizione viene mantenuta grazie ai supporti specifici; bisogna garantire che il diaframma non sia compresso e che gli arti superiori e il collo siano in posizione naturale. Lavaggio delle mani22 23 24 In merito al lavaggio delle mani è doveroso premettere che i batteri e i virus non saltano e non volano, quindi vengono veicolati dagli operatori sa  WHO, Guidelines on Hand Hygiene in Health Care First Global Patient Safety Challenge Clean Care is Safer Care, 2009 23   WHO Guidelines Approved by the Guidelines Review Committee, Global Guidelines on the Prevention of Surgical Site Infection Geneva: World Health Organization; 2018 24   Hedenstierna G. – Meyhoff C.S. – Perchiazzi G. – Larsson A. – Wetterslev J. – Rasmussen L.S. Modification of the World Health Organization Global Guidelines for Prevention of Surgical Site Infection Is Needed. Editorial Anesthesiology 2019 Oct;131(4):765-768. doi: 10.1097/ALN.0000000000002848 22


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nitari che non rispettano le norme inerenti al lavaggio e alla vestizione. La cute è la principale fonte di contaminazione microbica in sala operatoria e l’igiene delle mani è il metodo principale nella riduzione delle infezioni correlate all’assistenza in ogni ambito sanitario25. La preparazione chirurgica delle mani ha come obiettivo: – La riduzione del rilascio di batteri cutanei dalle mani dell’équipe chirurgica per tutta la durata della procedura, in modo che, in caso di ipotetica rottura non rilevata del guanto chirurgico, i batteri contaminino al minimo il campo operatorio; – La rimozione dello sporco e della flora transitoria da unghie, mani e avambracci; – L’inibizione della rapida crescita dei microrganismi; – La prevenzione delle infezioni ospedaliere. La preparazione chirurgica delle mani deve essere effettuata: – Prima di un intervento chirurgico; – Fra un intervento e l’altro; – In caso di rottura dei guanti. Il lavaggio chirurgico delle mani deve essere eseguito utilizzando acqua e sapone antisettico o frizionando con prodotti a base alcolica prima di indossare i guanti chirurgici sterili e deve essere effettuata da tutta l’équipe chirurgica impegnata nell’intervento. Inoltre, è importante26 27 28 29: – Rimuovere anelli, orologi e braccialetti prima di iniziare il lavaggio chirurgico delle mani; – È vietato l’uso di unghie artificiali; – Non avere unghie più lunghe di 3 mm; – Applicare la crema per le mani che deve essere accessibile e usata frequentemente al fine di mantenere il benessere della cute delle mani; – Ricordare che indossare i guanti non sostituisce l’igiene delle mani; – Lavare le mani con sapone semplice prima del lavaggio chirurgico se sono visibilmente sporche;   Haas J.P., Larson E.L., Measurement of compliance with hand hygiene, J Hosp Infect; 2007; 66(1):6-14 26   Siegel J.D., Rhinehart E., Jackson M., Chiarello L., The Healthcare Infection Control Practices Advisory Committee, Guideline for Isolation Precautions: Preventing Transmission of Infectious Agents in Healthcare Settings. Atlanta, GA: Centers for Disease Control and Prevention; Atlanta 2007 27   Mermel L.A., McKay M., Dempsey J., Parenteau S., Pseudomonas surgical-site infections linked to a health-care worker with onychomycosis; Infect Control Hosp Epidemiol; 2003; 24(10):749-752 28   Wynd C.A., Samstag D.E., Lapp A.M., Bacterial carriage on the fingernails of OR nurses, AORNJ; 1994; 60(5):796-805. 29   Kim P.W., Roghmann M.C., Perencevich E.N., Harris A.D., Rates of hand disinfection associated with glove use, patient isolation, and changes between exposure to various body sites, Am J Infect Control; 2003; 31(2):97-103 25


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– Rimuovere eventuali residui di sporco sotto le unghie sotto l’acqua corrente; – Eseguire l’antisepsi chirurgica con un sapone antisettico o tramite frizione con prodotti adeguati a base alcolica, usando preferibilmente prodotti con attività prolungata, prima di indossare guanti sterili; – Eseguire l’antisepsi chirurgica con frizione alcolica prima di indossare i guanti sterili se la qualità dell’acqua della sala operatoria non è garantita, ad esempio se contaminata da Legionella; – Strofinare mani e avambracci per la durata di tempo raccomandata dal produttore, solitamente 3-5 minuti, quando si esegue il lavaggio chirurgico delle mani con un sapone antisettico; – Eseguire il lavaggio chirurgico delle mani con frizione alcolica con un prodotto ad attività prolungata, seguire le indicazioni del produttore per quanto riguarda i tempi di applicazione; – Applicare il prodotto solo su mani asciutte. Non utilizzare in sequenza il lavaggio chirurgico con sapone antisettico e la frizione alcolica; – Utilizzare una quantità sufficiente a mantenere bagnati mani e avambracci durante tutta la procedura quando si usa un prodotto a base alcolica; – Aspettare che mani e avambracci siano asciutti dopo l’applicazione del prodotto a base alcolica e prima di indossare i guanti sterili. Gli agenti più efficaci per il lavaggio chirurgico, in ordine di attività decrescente, sono rappresentati da: – Clorexidina gluconato; – Iodofori; – Triclosan. La frizione delle mani con la soluzione alcolica viene eseguita con prodotti a base di alcoli o alcoli e clorexidina. Procedura lavaggio delle mani – Aprire il rubinetto dell’acqua e regolare la temperatura confortevole; – Bagnare uniformemente mani e avambracci fino a due dita al di sopra della piega del gomito aprendo con il gomito il rubinetto a leva o azionando la fotocellula o il pedale; – Versare sulle mani la quantità di prodotto antisettico indicato dal produttore, azionando con il gomito la leva dell’erogatore; – Effettuare il lavaggio delle mani su ciascun lato di ogni dito, tra le dita, sul dorso e sul palmo della mano per almeno 3 minuti; – Effettuare il lavaggio chirurgico delle braccia, tenendo sempre la mano più in alto rispetto al gomito. In questo modo si evita la ricontaminazione delle mani, impedendo ad acqua e sapone carichi di batteri di colare dal gomito e contaminare la mano; – Lavare l’interno e l’esterno del braccio, dal polso al gomito, per 1 minuto; – Ripetere la procedura sull’altro braccio e sull’altra mano, tenendo sempre sollevate le mani rispetto ai gomiti;


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– Risciacquare mani e braccia passandoli sotto l’acqua in una sola direzione, dalla punta delle dita al gomito. Non spostare le braccia avanti e indietro attraverso il flusso dell’acqua; – Evitare di allontanarsi dalla zona di lavaggio mani durante la procedura; al termine della stessa si raccomanda di accedere esclusivamente alla sala operatoria adiacente per la vestizione; – Entrare nella sala operatoria tenendo le mani sollevate rispetto ai gomiti; – Una volta entrati in sala operatoria, prima di indossare camice e guanti, asciugare mani e braccia con asciugamano sterile e tecnica asettica: va asciugato prima ciascun dito, quindi la restante parte della mano e, per ultimo, l’avambraccio sino alla piega del gomito con movimento circolare. Frizione alcolica preoperatoria delle mani Immergere le unghie della mano destra, 5 secondi, in 5 ml di soluzione tenuti nella mano sinistra, quindi frizionare l’avambraccio destro fino al gomito (10-15 secondi). Ripetere dall’altra parte. Frizionare le due mani (20-30 secondi). Aspettare che la soluzione sia completamente asciutta prima di procedere alla vestizione. Vestizione chirurgica – Asciugare mani e avambracci con salviettine sterili forniti dallo strumentista. Se si usa frizione alcolica, attendere l’asciugatura completa; – Introdurre le mani e avambracci nelle maniche del camice servito dallo strumentista ed estrarre le mani dal polsino del camice tenendo le mani al di sopra della vita; – Attendere che l’infermiere fuori campo leghi il camice nella parte interna; – Indossare i guanti serviti dallo strumentista: per calzare il primo guanto aiutarsi divaricando la parte interna del guanto con l’altra mano; per il secondo guanto, dato che il primo è già indossato, aiutarsi allargandolo dalla parte esterna sterile; – Indossati i guanti, chiudere il camice con l’aiuto dello strumentista oppure servire l’apposito cartoncino al fuoricampo, girarsi su se stessi e prendere esclusivamente la fettuccia sterile da utilizzare per l’allacciatura finale del camice; – Avvicinarsi al campo operatorio avendo cura di tenere le mani conserte sempre al di sopra della cintura. I guanti sterili assicurano la presenza di una barriera sterile efficace a prevenire il trasferimento di microrganismi dalle mani del team chirurgico al paziente e per proteggere lo staff da sangue, liquidi corporei o altro materiale potenzialmente infettivo. I guanti devono essere intatti e senza perforazioni; indossare un doppio paio di guanti aiuta a ridurre la perforazione del guanto sottostante30. Una perforazione del guanto che passa inosservata,   Mischke C., Verbeek J.H., Saarto A., Lavoie M.C., Pahwa M., Ijaz S., Gloves, extra gloves or special types of gloves for preventing percutaneous exposure injuries in healthcare personnel. Cochrane Database of Systematic Reviews 2014, Issue 3. Art. No.: CD009573. DOI: 10.1002/14651858.CD009573.pub2 30


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avvenuta durante la seduta operatoria o durante altro tipo di procedura invasiva, potrebbe aumentare il rischio di una trasmissione di patogeni per via ematica ai membri dell’équipe operatoria, derivato dalla prolungata esposizione al sangue, fluidi corporei o altri materiali potenzialmente infetti. Inoltre, potrebbe aumentare il rischio del paziente di infezione della ferita chirurgica dovuto al passaggio dei microorganismi dalle mani degli operatori31. I guanti chirurgici indossati durante la seduta operatoria devono essere cambiati32 33 34 35 36 37 38: – Almeno ogni 90 minuti; – Se si sospetta o è avvenuta una contaminazione da materiale infetto o se si è toccata una superficie non sterile; – Subito dopo essere venuti a contatto con il metacrilato di metile; – Quando i guanti si gonfiano, si dilatano o si allentano poiché hanno assorbito materiali fluidi e grassi; – Quando si nota un difetto o perforazione visibile o quando si sospetta un’eventuale perforazione con aghi, filo di sutura, frammenti d’osso o altro materiale; – Dopo ogni seduta operatoria.

Mangram A.J., Horan T.C., Pearson M.L., Silver L.C., Jarvis W.R., Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Hospital Infection Control Practices Advisory Committee. Guideline for prevention of surgical site infection, 1999; Am J Infect Control; 1999; 27(2): 97-132 32   Boyce J.M., Pittet D. Healthcare Infection Control Pratices Advisory Committee, HICPAC/SHEA/APIC/IDSA Hand Hygiene Task Force. Guideline for Hand Hygiene in HealthCare Settings. Recommendations of the Healthcare Infection Control Practices Advisory Committee and the HICPAC/SHEA/APIC/IDSA Hand Hygiene Task Force. Society for Healthcare Epidemiology of America/Association for Professionals in Infection Control/ Infectious Disease Society of America. MMWR Recomm Rep. 2002;51 (RR-16):1-45. (IVA) 33   Recommended Pratices for a safe environment of care. In: Perioperative Standards and Recommended Pratices. Denver, CO: AORN, Inc; 2012:e37-e61. (IVA) 34   Thomas S., Padmanabhan T.V., Methyl methacrylate permeability of dental and industrial gloves. N Y State Dent J. 2009;75(4):40-42. (IIIB) 35   Hentz R.V., Traina G.C., Cadossi R., Zucchini P., Muglia M.A., Giordani M., The protective efficacy of surgical latex gloves against the risk of skin contamination: how well are the operators protected?, J Mater Sci Mater Med. 2000;11(12):825-832. (IIB) 36   American Academy of Orthopedic Surgeons, American Orthopedic Association. Information statement: preventing the trasmission of bloodborne pathogens. http://www.aaos. org/about/papers/advistmt/1018.asp 37   Harnoss J.C., Partecke L.J., Heidecke C.D., Hubner N.O., Kramer A., Assadian O., Concentration of bacteria passing through puncture holes in surgical gloves. Am J Infect Control. 2010;38(2):154-158. (IIA) 38   Partecke L.I., Goerdt A.M., Langner I., et al., Incidence of microperforation for surgical gloves depends on duration of wear. Infect Control Hosp Epidemiol. 2009;30(5):409-414. (IA) 31


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Svestizione chirurgica – Rimuovere il camice, se possibile, con l’aiuto dell’infermiere di sala; rivoltarlo dall’interno verso l’esterno e gettarlo negli appositi contenitori; – Rimuovere i guanti senza inquinare le mani rivoltando i guanti dall’interno verso l’esterno; – Effettuare il lavaggio sociale delle mani. Dispositivi di Protezione Individuale39 40 41 42 I Dispositivi di Protezione Individuale, o DPI, sono dispositivi che l’équipe chirurgica deve impiegare per proteggersi da eventuali contaminazioni o incidenti professionali. I DPI anticontaminazione proteggono da contatti con liquidi, secrezioni o sangue che potrebbero determinare la trasmissione di malattie. Sono dispositivi a protezione di occhi, bocca e naso quali mascherine impermeabili e con visiera trasparente che protegge tutta l’estensione del viso e sono i presidi di più largo e raccomandato impiego. Sono disponibili anche occhiali a larga copertura per impedire la contaminazione degli occhi degli operatori da liquidi e sangue. Per le lesioni della cute delle mani, a seguito dell’azione di aghi e/o taglienti, sono impiegati per la protezione individuale i guanti che si oppongono alla penetrazione accidentale di aghi o lame. Per proteggere le mani da eventuali contatti con aghi o taglienti, è possibile impiegare guanti rinforzati, se disponibili, oppure indossare due paia di guanti. In merito, la letteratura scientifica non si è espressa dando raccomandazioni; questa ultima soluzione è quella più impiegata, dato che offre una discreta protezione alla penetrazione di aghi e punte. Sono invece poco efficaci per limitare i danni da taglienti, come i bisturi. L’uso dei guanti NON sostituisce l’igiene delle mani, sia che venga effettuata con il metodo del frizionamento con soluzione idroalcolica, sia con quello del lavaggio con acqua e sapone. I DPI anticontaminazione vanno indossati prima dell’inizio dell’intervento chirurgico e vanno indossati correttamente come da istruzioni allegate al dispositivo stesso. Dopo la fine dell’intervento, vanno rimossi e gettati nei contenitori per rifiuti trattati. Non vanno indossati gli stessi dispositivi per effettuare più interventi. Per limitare la possibilità di contatto con agenti patogeni, potenzialmente infettivi, è indispensabile:

Decreto Legislativo 4 dicembre 1992 n. 475 “Attuazione della Direttiva 89/686/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1989, in materia di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi di protezione individuale” (art. 76 comma 1). 40  Nel D. Lgs. 475/92 (normativa di prodotto) oltre alle procedure di certificazione, di controllo e di marcatura dei DPI, vengono individuate le tre categorie in cui sono suddivisi e, in Allegato II, vengono individuati i requisiti essenziali di salute e sicurezza 41   D. Lgs. 81/08 Dispositivi di protezione individuale, Titolo III, Capo II, D 42   39


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– Informare l’équipe sulle condizioni del paziente, se affetto da note malattie trasmissibili con sangue e altri liquidi; – Effettuare tutte le manovre chirurgiche con calma, evitando movimenti bruschi; – Tenere sotto controllo durante il loro uso tutti gli strumenti potenzialmente pericolosi come aghi, lame di bisturi e strumenti appuntiti; – Non lasciare strumenti pericolosi sul campo operatorio; – Non coprire mai gli strumenti pericolosi; – Richiedere verbalmente attenzione quando sono in uso strumenti pericolosi o richiamare la massima attenzione nei momenti più difficili dell’atto operatorio; – Allontanare subito dal campo il materiale infetto; – Accertarsi che l’aspiratore funzioni in prossimità dell’apertura di cavità con del liquido potenzialmente infetto; – Coprire le aree dalle quali potrebbe fuoriuscire del sangue o altro liquido a seguito delle manovre che lo comportano, come uso di seghe e frese; – Prestare la massima attenzione quando sono in azione strumenti perforanti o taglienti. Allestimento e preparazione del campo chirurgico Dopo aver effettuato la disinfezione del campo chirurgico, viene delimitato con teleria sterile che deve essere maneggiata in modo da prevenire la contaminazione. La teleria sterile permette di creare una barriera protettiva al passaggio dei microorganismi dalle zone non sterili e riduce il rischio di infezioni associate all’assistenza43. È quindi fondamentale mettere in pratica le procedure per il controllo della sterilità44, preparare il campo sterile nella sede dove questo verrà utilizzato e non deve essere mai spostato da una sala all’altra o tra ambienti diversi; deve essere preparato nel tempo più prossimo possibile a quello di utilizzo. La probabilità di contaminazione e di sviluppo di microorganismi aumenta con il passare del tempo e la polvere e le altre particelle presenti nell’ambiente possono depositarsi sulle

Mangram A.J., Horan T.C., Pearson M.L., Silver L.C., Jarvis W.R., Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Hospital Infection Control Practices Advisory Committee. Guideline for prevention of surgical site infection, 1999; Am J Infect Control; 1999; 27(2): 97-132 44   Mangram A.J., Horan T.C., Pearson M.L., Silver L.C., Jarvis W.R., Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Hospital Infection Control Practices Advisory Committee. Guideline for prevention of surgical site infection, 1999; Am J Infect Control; 1999; 27(2): 97-132 43


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superfici orizzontali compromettendo la sterilità45 46 47 48. Non è stato definito il tempo preciso terminato il quale il materiale sterile, aperto in una sala non utilizzata, rimane tale; quindi la sterilità non è tempo dipendente ma è legata alla gestione dell’ambiente in cui il campo sterile inutilizzato si trova49. La teleria sterile deve essere manipolata evitando movimenti bruschi o capaci di sollevare polvere, fibre e altri particolati che possono contaminare il campo chirurgico, i tavoli operatori50 e inquinare i guanti degli operatori. Solo le parti delimitate sono considerate sterili e il materiale chirurgico, per esempio tubi e cavi, come durante una laparoscopia, devono essere fissati ai teli chirurgici attraverso dispositivi non perforanti previa copertura con guaine sterili trasparenti con fettucce adesive per l’ancoraggio. Fori o lesioni sulla teleria rappresentano un canale di entrata e uscita per microorganismi, sangue o altro materiale potenzialmente infetto51. Nel momento del loro posizionamento, vicino al letto operatorio, non devono essere spostati e solo la superficie superiore deve essere considerata sterile, mentre le superfici al di sotto del campo sterile devono essere ritenute contaminate. Il materiale sterile necessario all’atto operatorio deve essere aperto solo per il singolo paziente, solo all’interno della sala in cui viene svolta la procedura e solo se necessario, in modo da rispondere alle esigenze dell’intervento, ma anche con un’attenzione etica ai costi.

Mangram A.J., Horan T.C., Pearson M.L., Silver L.C., Jarvis W.R., Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Hospital Infection Control Practices Advisory Committee. Guideline for prevention of surgical site infection, 1999; Am J Infect Control; 1999; 27(2): 97-132 46   Edmiston C.E. Jr., Sinski S., Seabrook G.R., Simons D., Goheen M.P., Airborne particulates in the OR environment, AORN J; 1999; 69(6): 1169-72, 1175- 7, 1179 passim 47   Parikh S.N., Grice S.S., Schnell B.M., Salisbury S.R., Operating room traffic: is there any role of monitoring it?, J Pediatr Orthop; 2010; 30(6): 617-623 48   Howard J.L., Hanssen A.D., Principles of a clean operating room environment, J Arthroplasty; 2007; 22(7 Suppl 3): 6-11 49   Recommended practices for sterilization. In: Perioperative Standards and Recommended Practices. Denver, CO: AORN, Inc; 2012: e1-e36 50   Edmiston C.E. Jr., Sinski S., Seabrook G.R., Simons D., Goheen M.P., Airborne particulates in the OR environment, AORN J; 1999; 69(6): 1169-72, 1175- 7, 1179 passim 51   Harnoss J.C., Partecke L.J., Heidecke C.D., Hubner N.O., Kramer A., Assadian O., Concentration of bacteria passing through puncture holes in surgical gloves. Am J Infect Control. 2010;38(2):154-158. (IIA) 45


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Inoltre, è doveroso ricordare che52 53 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65: Il tavolo operatorio non va mai lasciato incustodito finché l’intervento non è terminato; Il personale in sala deve muoversi prevenendo qualsiasi contaminazione; Il numero e i movimenti delle persone che partecipano alla seduta operatoria, o ad altre procedure invasive, devono essere ridotti al minimo in quanto è stata dimostrata una relazione tra il numero e i movimenti dei membri dell’equipe presenti nelle aree periferiche della sala e il numero delle particelle e delle unità di colonie batteriche in corrispondenza del sito chirurgico; Le persone sono la fonte più rilevante per la contaminazione ambientale nelle sale operatorie;

Recommended practices for sterilization. In: Perioperative Standards and Recommended Practices. Denver, CO: AORN, Inc; 2012: e1-e36 53   Hopper W.R., Moss R., Common breaks in sterile technique: clinical perspectives and perioperative implications. AORN J. 2010 Mar;91(3):350-64 54   Ritter M.A., Eitzen H., French M.L., Hart J.B., The operating room environment as affected by people and the surgical face mask. Clin Orthop Relat Res. 1975 Sep;(111):14750 55   Saito S., Kato W., Uchiyama M., Usui A., Ueda Y., Frequent stepping on and off the footstool contaminates the operative field. Am J Infect Control. 2007;35(1):68-69 56   Edmiston C.E. Jr., Sinski S., Seabrook G.R., Simons D., Goheen M.P., Airborne particulates in the OR environment, AORN J; 1999; 69(6): 1169-72, 1175- 7, 1179 passim 57   Parikh S.N., Grice S.S., Schnell B.M., Salisbury S.R., Operating room traffic: is there any role of monitoring it?, J Pediatr Orthop; 2010; 30(6): 617-623 58   Ritter M.A., Operating room environment. Clin Orthop Relat Res. 1999;369:103-109 59   Mangram A.J., Horan T.C., Pearson M.L., Silver L.C., Jarvis W.R., Centers for Disease Control and Prevention (CDC), Hospital Infection Control Practices Advisory Committee. Guideline for prevention of surgical site infection, 1999; Am J Infect Control; 1999; 27(2): 97-132 60   Stocks G.W., Self S.D., Thompson B., Adame X.A., O’Connor D.P., Prediction bacterial population based on airborne particulates: a study performed in nonlaminar flow operating rooms during joint arthroplasty surgery. Am J Infect Control. 2010;38(3):199-204. doi:10,1016/j.ajic.2009,07,006 61   Edmiston C.E. Jr., Sinski S., Seabrook G.R., Simons D., Goheen M.P., Airborne particulates in the OR environment, AORN J; 1999; 69(6): 1169-72, 1175- 7, 1179 passim 62   Letts R.M., Doermer E., Conversation in the operating theater as a cause of airborne bacterial contamination. J Bone Joint Surg Am. 1983;65(3):357- 362 63   Howard J.L., Hanssen A.D., Principles of a clean operating room environment. J Arthroplasty. 2007;22(7 Suppl 3):6-11 64   Lynch R.J., Englesbe M.J., Sturm L., Bitar A., Budhiraj K., Kolla S., Polyachenko Y., Duck M.G., Campbell D.A. Jr., Measurement of foot traffic in the operating room: implications for infection control. Am J Med Qual. 2009 Jan-Feb;24(1):45-52 65   Young R.S., O’Regan D.J., Cardiac surgical theatre traffic: time for traffic calming measures? Interact Cardiovasc thorac Surg. 2010 Apr;10(4):526-9 52


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– L’apertura continua e cumulativa delle porte è potenzialmente in grado di aumentare il numero di microorganismi e degli altri contaminanti nell’aria e nel sito chirurgico; – Le frequenti aperture delle porte e dei dialoghi in sala operatoria distraggono l’équipe operatoria, creando le condizioni di riduzione di attenzione e concentrazione che rappresentano i presupposti per gli errori in ambito chirurgico; – Il personale lavato deve mantenere mani e avambracci al di sopra del livello della cintura; – Le mani con indosso i guanti sterili non devono mai essere posizionate in zona ascellare, che a causa della traspirazione può permettere contaminazione al di là del camice sterile; – Gli operatori lavati devono evitare di posizionarsi ad altezze differenti rispetto al campo sterile; – Tutta l’équipe chirurgica deve condurre l’intervento in piedi. Ci si può sedere soltanto quando l’intera procedura chirurgica prevede l’esecuzione dell’atto chirurgico a tale altezza; – Il personale non lavato deve essere sempre rivolto frontalmente verso campo sterile; non si dovrebbe camminare tra le telerie sterili o vicino al personale lavato; – Bisogna mantenere una distanza di almeno 30 centimetri dal campo sterile e dal personale lavato; – I microorganismi vengono veicolati da particelle aeree e dalle droplet; quindi, in presenza di un campo sterile, si dovrebbero ridurre al minimo i dialoghi che contribuiscono alla contaminazione aerea della ferita chirurgica. Preparazione della cute La preparazione della cute del sito chirurgico viene effettuata immediatamente prima dell’intervento, all’interno della sala e dal chirurgo. La condizione della cute del paziente dovrebbe essere valutata per identificare la presenza di lesioni o altro tipo di condizioni tessutali, prima della preparazione del sito chirurgico. L’antisettico usato per ogni paziente deve essere selezionato in base a: – Allergie del paziente; – Eventuali reazioni cutanee riferite dal paziente causate da specifici antisettici; – Controindicazioni specifiche a specifici agenti antisettici; – Il sito chirurgico da preparare; – La presenza di materiale organico, incluso sangue; – Lo stato neonatale; – Ferite ampie e aperte; – Le indicazioni del produttore; – La preferenza del chirurgo.


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L’obiettivo della preparazione preoperatoria del sito chirurgico è la riduzione del rischio di infezione postoperatoria, attraverso la riduzione della contaminazione e l’inibizione di una rapida e nuova colonizzazione microbica. Le soluzioni più comunemente utilizzate per la preparazione antisettica del campo chirurgico sono lo Iodopovidone, la Clorexidina gluconato in soluzione acquosa o la Clorexidina gluconato in soluzione alcolica. Nella scelta dell’antisettico occorre sempre tenere in considerazione che nessun prodotto è libero da rischi e potenziali controindicazioni, infatti: – Lo Iodopovidone può causare dermatiti o reazioni irritanti e non è indicato per pazienti allergici allo iodio. Le reazioni anafilattiche allo Iodopovidone sono estremamente rare e non è stato dimostrato che dipendano dalle allergie allo iodio66 67; – La Clorexidina gluconato innesca reazioni allergiche negli individui sensibili, variando da leggeri sintomi locali fino a severe anafilassi68. È raccomandato dalle linee guida di utilizzare soluzioni antisettiche alcoliche, preferibilmente a base di Clorexidina gluconato (CHG), per la preparazione chirurgica della cute intatta69. Attualmente in commercio la CHG non è solo incolore, ma anche colorata, al fine di aiutare gli operatori a visualizzare correttamente la disinfezione dell’area e identificare eventuali isole non disinfettate. L’impiego di soluzioni antisettiche alcoliche a base di CHG presenta dei limiti: – Non deve essere utilizzata sui neonati; – Non deve entrare in contatto con le mucose; – Non deve entrare in contatto con il cervello, le meningi, gli occhi e l’orecchio medio. Poiché l’alcol è altamente infiammabile, le preparazioni antisettiche a base alcolica possono prendere fuoco se utilizzate in presenza di diatermia e devono essere lasciate asciugare per evaporazione. Prima di operare è quindi consigliabile controllare che i teli non siano saturi di alcol e che le soluzioni a base alcolica non abbiano formato raccolte sotto il paziente70. È indispensabile chiarire che la disinfezione è garantita da quantità adeguate di prodotto e dalla permanenza temporale del prodotto sulla zona

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sottoposta a disinfezione. Queste informazioni sono reperibili sulle schede tecniche dei prodotti e sui contenitori dei prodotti stessi. L’efficacia della soluzione antisettica dipende dal livello di pulizia della cute del paziente. La rimozione dello sporco superficiale, dei detriti e dei microorganismi transitori prima dell’applicazione del prodotto antisettico, riduce la contaminazione della ferita chirurgica, riducendo i residui organici sulla cute. Per questo è fondamentale che il paziente effettui la doccia preoperatoria e, nel caso non sia stata eseguita, il personale di sala operatoria deve provvedere al lavaggio della zona d’intervento chirurgico nelle aree antistanti la stessa sala, appena prima dell’applicazione della soluzione antisettica. Il lavaggio preoperatorio permette la rimozione macroscopica dello sporco e del sebo, che potrebbero bloccare la penetrazione dell’antisettico, e rimuove meccanicamente le spore e altri organismi che non vengono uccisi dall’agente antisettico. Allo stesso modo anche i cosmetici vanno rimossi prima di applicare la soluzione antisettica in quanto aumentano la presenza di sporcizia e contaminazione, che possono interferire con l’efficacia della soluzione antisettica71. Negli interventi di chirurgia addominale, l’ombelico deve essere pulito prima dell’applicazione della soluzione antisettica; essendo estremamente contaminato da materiale organico e inorganico non verrebbe altrimenti adeguatamente disinfettato. Per ammorbidire i detriti presenti nell’ombelico può essere applicata una soluzione antisettica prima di procedere alla pulizia, che dovrà essere effettuata completamente attraverso l’utilizzo di cotton fioc. L’antisettico deve essere applicato immediatamente prima dell’incisione della cute, deve essere applicato utilizzando tamponi sterili72 e l’area sottoposta ad antisepsi deve essere sufficientemente grande da comprendere senza difficoltà lo spostamento del campo, l’aumento dell’ampiezza dell’incisione, la creazione di altre incisioni e i siti per gli eventuali drenaggi. L’applicazione dell’antisettico deve avvenire partendo dall’area corrispondente al sito di incisione e andando verso la periferia del sito chirurgico, eccentricamente; successivamente si rimuoverà il tampone utilizzato e si procederà con successive applicazioni utilizzando un nuovo tampone. Quando il sito di incisione è maggiormente contaminato rispetto all’area circostante, l’area con una conta microbica inferiore deve essere preparata per prima e deve essere seguita dall’area a maggiore contaminazione, all’opposto di quanto si effettuerebbe normalmente73, dunque in maniera concentrica.   National Healthcare Safety Network, Centers for Disease Control and Prevention. Surgical site infection (SSI) event. http://www.cdc.gov/nhsn/pdfs/pscmanual/9pscssicurrent. pdf. Published January 2017 72   NICE. Surgical site infection. Evidence Update June 2013 73   Pugazhenthan Thangaraju, Sajitha Venkatesan, Responding to the Global Guidelines for the Prevention of Surgical Site Infection, 2018: A focus on surgical antibiotic prophylaxis prolongation, J Res Med Sci 2019 Oct 25;24:90 71


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Le penne dermografiche usate per l’identificazione del sito chirurgico non è dimostrato che facilitino la crescita microbica; le penne a sfera non dovrebbero essere usate per marcare il sito chirurgico in quanto potrebbero causare un trauma cutaneo durante l’uso. Medicazione del sito chirurgico La ferita chirurgica si crea quando viene eseguita un’incisione con bisturi o altro dispositivo da taglio affilato e successivamente chiusa alla fine dell’atto chirurgico con sutura, graffette, adesivo o colla, con conseguente riavvicinamento dei lembi cutanei. Al termine dell’atto operatorio la ferita chirurgica viene coperta con una medicazione che funge da barriera fisica per proteggere la ferita dalla contaminazione dall’ambiente esterno fino a quando non diventa impermeabile ai microorganismi. La ferita chirurgica può guarire per chiusura primaria, primaria ritardata o secondaria. Nella chiusura primaria i lembi della ferita sono avvicinati e tenuti insieme da suture, graffette metalliche e cerotti adesiva. La chiusura primaria ritardata si verifica quando è presente una notevole contaminazione batterica, gli organi e le cavità sono chiusi e gli strati cutanei e profondi vengono lasciati aperti per drenare materiale purulento. Infine la chiusura secondaria in cui non si riescono a suturare i margini è caratterizzata da una importante perdita di sostanza. È disponibile un’ampia varietà di medicazioni per ferite chirurgiche: dalla medicazione standard, garantita da cerotto medicato a piatto con la sola funzione di emostasi, copertura e protezione alle medicazioni avanzate, rappresentate da alginati, idrocolloidi, idrofibre e schiume di poliuretano, che hanno lo scopo di mantenere un microambiente umido e una temperatura costante, rimuovere essudati e materiale necrotico, proteggere da infezioni esogene, essere permeabili all’ossigeno e ridurre i traumi al cambio. Gli alginati a base di calcio e/o sodio, interagiscono con l’essudato della lesione e formano un gel morbido che mantiene umido l’ambiente di cicatrizzazione della lesione. Vengono impiegati per lesioni drenanti a spessore parziale o a tutto spessore, per lesioni con un essudato da moderato ad abbondante, per lesioni a tunnel, per lesioni infette o non infette e per lesioni “umide” rosse e gialle. Gli idrocolloidi sono medicazioni semiocclusive, presenti in una serie di forme, dimensioni, proprietà adesive e formati, comprendenti adesivi, paste e polveri. Sono impermeabili ai batteri e ad altre contaminazioni, possono favorire il débridement autolitico, a causa della loro scarsa permeabilità. Possono essere usati nelle medicazioni primarie o secondarie di lesioni con presenza di necrosi o escara, con lieve o scarso essudato. Le idrofibre sono fibre di carbossilmetilcellulosa sodica in grado di assorbire rapidamente e di trattenere liquidi. La medicazione interagisce subito con l’essudato grazie alla sua trasformazione in gel coesivo che crea un am-


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biente umido. Sono medicazioni primarie e/o secondarie in base all’abbinamento con l’alginato e con prodotti di copertura come le schiume. Sono indicate per le lesioni da moderatamente a fortemente essudanti, anche in fase di granulazione. I film di poliuretano sono pellicole trasparenti costituite da una membrana in poliuretano adesiva e semipermeabile, che variano in spessore e dimensione. Esse sono impermeabili all’acqua, ai batteri e agli agenti contaminanti in genere; tuttavia permettono al vapore acqueo di attraversare la barriera. Queste medicazioni mantengono un ambiente umido favorendo la formazione di tessuto di granulazione e l’autolisi del tessuto necrotico. Non hanno potere assorbente. Le medicazioni a base di schiume di poliuretano sono assorbenti, possono essere di vario spessore ed essendo antiaderenti non comportano nessun trauma durante la loro rimozione. Esse sono impiegate come medicazioni primarie e secondarie per le lesioni a spessore parziale o a tutto spessore con un drenaggio lieve, moderato o abbondante e possono anche essere usate per assorbire il drenaggio attorno ai tubi e alle cannule tracheostomiche. Si raccomanda di non effettuare la medicazione prima delle 48 ore dall’intervento a meno che non vi siano segni visibili di sanguinamento o di contaminazione o quando strettamente necessario. Sistemi di elettrificazione74 75 76 L’elettrobisturi è uno strumento che, attraverso il passaggio di corrente a radiofrequenza, genera riscaldamento nei tessuti biologici e permette procedure di taglio e coagulo. Questo strumento è costituito da: – Un generatore di corrente a radiofrequenza; – Un elettrodo attivo; – Un elettrodo neutro. Il generatore di corrente a radiofrequenza produce correnti di frequenza compresa tra i 300 kHz e i 5 Mhz. Correnti inferiori a 300 kHz stimolano nervi e muscoli danneggiandoli, mentre le correnti superiori ai 5 MHz possono provocare problemi legati alle correnti di dispersione ad alta frequenza. L’elettrodo attivo trasporta la corrente a radiofrequenza dal generatore al tessuto. Lo strumento sul tavolo operatorio può avere comandi a pedale   Odell R.C., Surgical complications specific to monopolar electrosurgical energy: engineering changes that have made electrosurgery safer, J Minim Invasive Gynecol 2013; 20: 288-98 75   Lipscomb G.H., Givens V.M., Preventing electrosurgical energy-related injuries, Obstet Gynecol North 2010; 37: 369-77 76   Huschak G. – Steen M. – Kaisers UX. Principles and risks of electrosurgery, Anasthesiol Intensivmed Notfallmed Schmerzther. 2009 Jan;44(1):10-3 74


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o con pulsanti posizionati direttamente sullo strumento; inoltre, l’elettrodo attivo ha una superficie di contatto minore rispetto all’elettrodo neutro garantendo maggiore densità di corrente nella parte di tessuto in cui si vuole ottenere l’effetto di taglio o coagulo. L’elettrodo neutro ha la funzione di raccogliere la corrente e, conseguentemente, chiudere il circuito di corrente, con tecnologia monopolare, consentendo il ritorno della corrente al generatore, senza dispersioni che potrebbero determinare lesioni di tipo termico al paziente. Si identifica con la piastra che deve essere posizionata sul corpo del paziente più vicino possibile al campo operatorio, in una zona senza peli con cute sana e integra. Nella tecnologia bipolare, invece, gli elettrodi costituiscono lo strumento presentando un elettrodo positivo e un elettrodo negativo e, pertanto, non c’è bisogno di piastra. Occorre sottolineare che, nel caso in cui gli elettrodi non siano opportunamente isolati, essi possono fungere da elemento di trasmissione per la corrente attraverso percorsi e condizioni, come la piastra bagnata da liquidi conduttivi, che creano un cammino alternativo alla corrente ad alta intensità, riuscendo così a provocare effetti dannosi anche in distretti non a diretto contatto con gli elettrodi stessi. È indispensabile che l’energia utilizzata sia adattata allo spessore e alle caratteristiche della struttura anatomica su cui viene impiegata. I danni più frequenti sono correlati a ustioni di vario grado e dimensione. Sterilizzazione77 78 79 80 Il luogo in cui si sterilizza il materiale delle sale operatorie è costituito dalle centrali di sterilizzazioni, possibilmente centralizzate, o in luoghi separati all’interno dello stesso blocco con l’identificazione di percorsi, sporco e pulito. Se l’ambiente dedicato alla sterilizzazione è limitato, è necessario strutturare un percorso unidirezionale del personale e delle attrezzature da sporco a pulito senza alcuna possibilità di sovrapposizione. Se il materiale deve essere trasportato alla centrale di sterilizzazione è necessario sciac-

Boyce J.M., Pittet D. Healthcare Infection Control Pratices Advisory Committee, HICPAC/SHEA/APIC/IDSA Hand Hygiene Task Force. Guideline for Hand Hygiene in HealthCare Settings. Recommendations of the Healthcare Infection Control Practices Advisory Committee and the HICPAC/SHEA/APIC/IDSA Hand Hygiene Task Force. Am J Infect Control 2002 Dec;30(8):S1-46 78   Bolon MK, Hand Hygiene: An Update, Infect Dis Clin North Am . 2016 Sep;30(3):591607 79   Linee Guida Globali per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico: standards and recommended practices. Denver (CO): AORN, Inc. 2014;255-76 80   Sandra I. Berríos-Torres, Craig A. Umscheid, Dale W. Bratzler, et al. Centers for Disease Control and Prevention Guideline for the Prevention of Surgical Site Infection, JAMA Surg. 2017 Aug 1;152(8):784-791 77


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quarlo con acqua scorrevole fredda e successivamente riporlo in contenitori o vassoi chiusi. Successivamente deve essere riposto in un carrello chiuso e attivato il trasferimento nell’area di decontaminazione. La pulizia è effettuata manualmente o con metodi automatici, come la lavaferri, che garantisce la tracciabilità del ciclo di decontaminazione e pulizia. Dopo la pulizia e disinfezione si procede alla preparazione dei container chirurgici secondo una check-list di controllo dei ferri contenuti che specifica la tipologia e la quantità degli stessi. Lo strumentario che non rientra all’interno dei container viene imbustato in doppia busta sigillata. Sia i container che le buste, prima di essere sterilizzati, vengono etichettati garantendo la tracciabilità del processo di sterilizzazione; l’operatore che ha effettuato il confezionamento e la sterilizzazione apporrà la propria sigla, la data, l’ora e la scadenza dell’imbustato. Metodi di sterilizzazione Sterilizzazione a vapore Il vapore è riconosciuto come l’agente sterilizzante preferito, economico ed efficace. Ci sono diversi tipi di autoclavi/sterilizzatrici che lavorano in base allo stesso principio di conversione dell’acqua in vapore, mantenendo il vapore saturo appena sotto il punto di ebollizione in modo che vi sia il massimo del calore latente in stato semi-gassoso. Il vapore entra in contatto con il carico nella camera e rilascia il calore, con conseguente sterilizzazione. Il tempo di contatto con i dispositivi è fondamentale ed è conosciuto come “tempo di esposizione”. Sterilizzazione con gas chimico La sterilizzazione con gas chimico, a bassa temperatura, viene utilizzata per i dispositivi sensibili al calore e all’umidità. Si possono utilizzare una serie di sostanze chimiche diverse come: l’ossido di etilene, il gas/plasma di perossido di idrogeno, l’ozono, la formaldeide a bassa temperatura o in vapore. Il corretto stoccaggio degli strumenti e delle apparecchiature sterili è fondamentale per garantire il mantenimento del corretto livello di sterilità o disinfezione. L’area di stoccaggio deve: – Essere un ambiente pulito e asciutto, ossia lontano da fonti di umidità; – Essere un ambiente luminoso, con un buon ricambio d’aria. La temperatura deve essere moderata, senza grandi variazioni durante il giorno; – Avere pareti lisce e facili da pulire; – Avere un accesso limitato; – Avere scaffali aperti, per evitare che l’umidità si accumuli tra i pacchetti; – Avere ripiani a una distanza minima di 10 cm sia dal pavimento che dal soffitto. Utilizzo di strumenti sterili in sala operatoria L’infermiere che prepara il carrello operatorio deve verificare che: – La zona di preparazione sia tranquilla, pulita e non disturbata; – I pacchetti siano asciutti, senza umidità;


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Gli imballaggi siano integri, non strappati o aperti e non scaduti; Non ci siano macchie d’acqua da condensa, indice di non sterilità; L’indicatore chimico di processo sia presente e abbia un colore uniforme; L’indicatore interno mostri sterilizzazione; Gli strumenti siano puliti; La superficie degli strumenti sia intatta; La scadenza di tutto il materiale, che servirà alla preparazione del tavolo operatorio, sia corretta. Ruolo dell’infermiere strumentista L’infermiere strumentista deve controllare e garantire che: Gli strumenti siano pronti e adatti all’uso; Gli strumenti non siano sporchi o rotti; Ci sia un numero di strumenti adeguato alla procedura da eseguire, per evitare di aprire più pacchetti, determinando così un maggior rischio di contaminazione del tavolo operatorio; I riferimenti del kit e di tutto il materiale sterile aperto sul campo operatorio vengano registrati nella check-list intraoperatoria, a garanzia della sicurezza del paziente nel percorso chirurgico e nella sterilità; Il chirurgo sia a conoscenza di qualsiasi eventuale carenza di strumenti e attrezzature. Prima di incidere, il chirurgo deve accertarsi che: Il campo operatorio sia sterile e chiaramente definito; I dispositivi siano visibilmente puliti; Gli strumenti siano adatti allo scopo; Tutte le attrezzature necessarie siano disponibili; Non vi sia alcun ritardo inutile al tavolo operatorio dovuto alla mancanza di strumenti. Al completamento della procedura chirurgica, il personale di sala deve: Verificare che tutti gli strumenti siano presenti prima di restituirli alla centrale di sterilizzazione: la conta dei ferri chirurgici deve essere effettuata prima della chiusura del campo operatorio e prima della chiusura del container; Sciacquare gli strumenti secondo il protocollo operativo; Assicurarsi che gli oggetti siano inseriti in un container a tenuta stagna prima del trasporto alla centrale di sterilizzazione; Informare la centrale di qualsiasi problema inerente lo strumentario chirurgico, ad esempio un dispositivo rotto. Check-list in sala operatoria81 82

Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali – Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema – Ufficio III. Manuale per la Sicurezza in sala operatoria: Raccomandazioni e check-list, Ottobre 2009 82   Buscemi A. (a cura di), Il risk management in sanità. Gestione del rischio, errori, responsabilità professionale e aspetti psicologici, Franco Angeli, 2013 81


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La check-list rappresenta il fulcro del Manuale per la Sicurezza in sala operatoria che è stato pubblicato nel 2009 dal Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali con lo scopo di fornire uno strumento che riduca gli errori in sala operatoria e stimoli l’équipe alla collaborazione e alla cooperazione. La check-list prevede 20 item suddivisi in 3 fasi: Sign In – controlli da effettuare prima dell’induzione dell’anestesia. In questa fase il paziente, sveglio e cosciente, conferma la sua identità, la sede dell’intervento e la procedura e viene verificata la comprensione e la firma dei consensi alla chirurga e all’anestesia. Viene data conferma dei controlli per la sicurezza dell’anestesia – ventilatore, flusso O2 gas, aspiratore – e dell’identificazione dei rischi del paziente – allergie, difficoltà di gestione delle vie aeree o rischio di inalazione, valutazione delle perdite ematiche e richiesta di emocomponenti, accesso venoso, temperatura corporea e omeostasi glicemica -. Time Out – controlli da effettuare dopo l’induzione dell’anestesia e prima dell’incisione chirurgica. In questa fase si conferma la presentazione dei membri dell’équipe, la conferma dell’identità del paziente, della procedura e del sito chirurgico, l’anticipazione di eventuali criticità e/o preoccupazioni, come perdite ematiche, scala ASA, verifica della sterilità e adeguatezza dei dispositivi. Si conferma l’avvenuta somministrazione della profilassi antibiotica, la visualizzazione di eventuali immagini diagnostiche – RX, TAC, etc. – e si riconferma lo stato di normotermia. Sign Out – controlli da effettuare durante o immediatamente dopo la chiusura della ferita chirurgica e prima che il paziente abbandoni la sala operatoria. Vengono confermate, in quest’ultima fase, la procedura da registrare in cartella clinica, il conteggio di garze e strumentario chirurgico, l’avvenuta etichettatura dei campioni eventualmente prelevati ed eventuali problemi rilevati all’utilizzo di dispositivi medici. L’équipe è invitata a una revisione della gestione dell’assistenza postoperatoria con attenzione particolare alla profilassi del tromboembolismo postoperatorio, alla eventuale dose addizionale di antibiotico o alla sua modifica e alla riconferma della temperatura corporea. La check-list prosegue con le griglie per la tracciabilità che riguardano: – il conteggio delle garze fornite in dotazione, suddivise per tipologia di dimensioni; tale conteggio prevede la registrazione della conta iniziale, che avviene durante la fase di preparazione dei tavoli e prima dell’inizio dell’atto operatorio, un conteggio intermedio e un conteggio finale totale prima della chiusura della ferita chirurgica. In tutte e tre le fasi, iniziale, intermedia e finale, è richiesta la firma in calce dello strumentista, dell’infermiere di sala e del chirurgo operatore. – il conteggio dello strumentario, garantito dalla check-list dello strumentario stesso all’interno di ogni container chirurgico, effettuato durante


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la preparazione del tavolo operatorio e prima della chiusura della ferita chirurgica. È indispensabile che le check-list dello strumentario prevedano tutti ferri di numero pari, suddivisi per qualità, quantità e lunghezza. Inoltre è necessario che figuri anche la conta degli aghi e dei taglienti. In tutte e tre le fasi, iniziale, intermedia e finale, è richiesta la firma in calce dello strumentista, dell’infermiere di sala e del chirurgo operatore. In supporto alle griglie di tracciabilità, per il conteggio di strumentario e garze, è configurato il pannello della tracciabilità in relazione alle etichette dei dispositivi medici, impianti, processo di sterilizzazione ove vengono attaccate tutte le etichette del materiale utilizzato durante l’atto operatorio, a garanzia della sterilità. La check-list termina con la fase postoperatoria in cui viene registrato il numero e la sede dei drenaggi, il loro corretto funzionamento, i parametri vitali e le condizioni del paziente. Inoltre va ricordato di allegare tutti i documenti nella cartella clinica del paziente, compresa la check-list. Al termine è richiesta la firma in calce dell’infermiere di sala, del chirurgo operatore e dell’anestesista. Conclusioni La sala operatoria è un luogo in cui ogni giorno in Italia e nel mondo vengono salvate molte vite. La sua unità cellulare di base è composta da individui che, con vari ruoli e responsabilità, cooperano utilizzando la tecnologia e la strumentazione disponibile al servizio del benessere dell’uomo e della collettività. La conoscenza è alla base per poter entrare all’interno del blocco operatorio e integrarsi con l’équipe. Ognuno di questi temi così affrontati avrebbero bisogno, a loro volta, di un’ulteriore approfondimento. Lo scopo dell’elaborato è quello di dare spunti di studio e riflessione di ciò che un giovane chirurgo incontra varcando la porta di un blocco operatorio. Bibliografia ISPESL, Linee guida sugli standard di sicurezza e di Igiene del lavoro nel reparto operatorio, 2009; D.P.R. 14 gennaio 1997, “Approvazione dell’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e alle province autonome di Trento e di Bolzano, in materia di requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi minimi per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private”; Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, Testo coordinato con il decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106 “Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”; Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, “Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”; Decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517 “Modificazioni al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421”;


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Decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 46 “Attuazione della direttiva 93/42/CEE concernente i dispositivi medici”; Decreto legislativo 14 agosto 1996, n. 493, “Attuazione della direttiva 92/58/CEE concernente le prescrizioni minime per la segnaletica di sicurezza e/o di salute sul luogo di lavoro”; World Health Organization. Linee guida globali per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico, 2016; Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali – Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema ufficio III “Manuale per la sicurezza in sala operatoria: raccomandazioni e checklist”, 2009; Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali – Dipartimento della qualità – Direzione generale della programmazione sanitaria, dei livelli di assistenza e dei principi etici di sistema ufficio III ”Manuale per la sicurezza in sala operatoria: raccomandazioni e checklist, 2009; CallaghanI I. Bacterial contamination of nurses’ uniforms: a study. Nurs Stand. 1998;13(1):37-42; Bartlett GE, Pollard TC, et al. Effect of jewelery on surface bacterial counts of operating theatres. J Hosp Infect. 2002;52(1):68-70; Jeans AR, Moore J, et al. Wristwatch use and hospital-acquired infection. J Hosp Infect. 2010 Jan;74(1):16-21; Amirfeyz R, Tasker A, et al. Theatre shoes – a link in the common pathway of postoperative wound infection? Ann R Coll Surg Engl. 2007 Sep;89(6):605-8; Recommended practices for environmental cleaning in the perioperative setting. In: Perioperative Standards and Recommended Practices. Denver, CO:AORN, Inc. 2011:237-250; Neely AN, Maley MP. Survival of enterococci and staphylococci on hospital fabrics and plastic. J Clin Microbiol. 2000;38(2):724-726; Neely AN, Orloff MM. Survival of some medically important fungi on hospital fabrics and plastics. J Clin Microbiol. 2001;39(9):3360-3361; Pal S, Juyal D, et al. Mobile phones: Reservoirs for the transmission of nosocomial pathogens. Adv Biomed Res. 2015 Jul 27;4:144; Chao Foong Y, Green M, et al. Mobile Phones as a potential vehicle of infection in a hospital setting. J Occup Environ Hyg. 2015 Oct;12(10):D232-5; Kilic IH, Ozaslan M, et al. The microbial colonization of mobile phone used by healthcare staffs. Pak J Biol Sci. 2009 Jun 1;12(11):882-4; Mase K, Hasegawa T, et al. Firm adherence of Staphylococcus aureus and Staphylococcus epidermidis to human hair and effect of detergent treatment. Micro-biol Immunol. 2000; 44(8):653-656. Tammelin A, Domice lP, et al. Dispersal of methicillin-resistant Staphylococcus epidermidis by staffing in an operating suite for thoracic and cardiovascular surgery: relation of skin carriage and clothing. J Hosp Infect. 2000;44(2):119-126; Lynch RJ, Englesbe MJ, et al. Measurement of foot traffic in the operating room: implications for infection control. Am J Med Qual. 2009 Jan-Feb;24(1):45-52; Never underestimate the importance of understanding material technology in the theatre. J Perioper Pract. 2012 Nov;22(11):suppl 10-1; World Health Organization. Linee guida globali per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico. 2016;


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Capitolo 15 Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base Alessandro Falsetto*, Lorenzo Pandolfini*, GianMatteo Paroli*, Romana Laessig*, Chiara Genzano*, Ahmad El Naarani*, Silvia Rollo* e Marco Scatizzi** *Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze **Direttore UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze Introduzione La chirurgia laparoscopica, che ha avviato il suo enorme recente sviluppo dalla fine degli anni ’80 del ‘900, deve a Philippe Mouret (Foto 1) l’intuizione del suo utilizzo, oltre che in diagnostica ginecologica, dove già aveva un impiego, anche in chirurgia generale, con la realizzazione nel 1987 della prima colecistectomia. L’incredibile sviluppo tecnologico nato dall’accoppiamento dell’ottica, che fino ad allora era guardata direttamente (Foto 2), con una telecamera che proiettava su un monitor l’immagine raccolta, ne ha reso possibile l’utilizzo in campo sterile e la diffusione in tutto il mondo. Ovviamente, fra le prime telecamere e i monitor di allora e i moderni sistemi 4K o 3D, vi sono differenze colossali, ma il sistema è rimasto lo stesso: un’ottica introdotta da un tubo valvolato, trocar, un sistema video di raccolta ed elaborazione dell’immagine, un monitor per la sua visualizzazione e tanti altri trocar, necessari per permettere l’utilizzo di strumenti che riproducono quelli usati a cielo aperto, ma resi più lunghi e più fini, maneggiandoli dall’esterno dell’addome. Tutto ciò con lo scopo di compiere il più fedelmente possibile gli stessi gesti e gli stessi interventi eseguiti per via laparotomica. La letteratura ha impiegato anni a dimostrare la “non inferiorità” dell’approccio laparoscopico, poi esteso al torace, ai tessuti molli, etc. che è divenuto gold standard per molte procedure addominali. La colecistectomia eseguita da Mouret, che ho personalmente assistito nel 1991 a Lione alla Clinique de Sauvegarde, non ha mai ottenuto un’evidenza rispetto alla colecistectomia open, poiché era tale il vantaggio riscontrato dai pazienti, che essi stessi hanno richiesto in modo crescente l’intervento, “a furor di popolo”, così da aver sostituito le evidenze scientifiche. Aver partecipato a questa entusiasmante rivoluzione mi ha dato la possibilità di vedere il progressivo affermarsi di interventi quali la splenectomia, la surrenectomia, la plastica antireflusso, come primi gold standard di trattamento laparoscopico, che hanno progressivamente soppiantato l’accesso aperto per queste procedure. La grande ascesa della Chirurgia Laparosco-


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pica è proseguita con la chirurgia colo-rettale, già da molto tempo validata dalle evidenze, la chirurgia gastrica e le più complesse chirurgie pancreatica ed epatica, tutte in fase di progressivo sviluppo e consolidamento. In questo libro, indirizzato ai giovani chirurghi, che ha l’intento di dare un manuale agevole nella lettura e con indicazioni semplici e pratiche per passare dalla lettura ai fatti, non poteva mancare un capitolo dedicato alle “Peculiarità della Chirurgia Laparoscopica”, per instradare il lettore in quelle regole generali che governano l’approccio laparoscopico, qualsiasi intervento debba essere eseguito.

Foto 1 – Philippe Mouret

Foto 2 – Laparoscopio a “visione diretta”

Principi di base degli interventi laparoscopici Tutti gli interventi di chirurgia laparoscopica, di base o avanzata, riconoscono gli stessi principi e le stesse fasi fondamentali. In ogni procedura laparoscopica, infatti, sono necessari: l’accesso all’addome per la creazione dello pneumoperitoneo, la scelta del tipo di trocar (tipologia e calibro), la


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loro posizione ottimale relativamente al tipo di intervento, l’esposizione dei visceri addominali, una fase di dissezione/ricostruzione e, infine, l’estrazione del pezzo operatorio dalla cavità addominale. Ognuna di queste fasi presenta le proprie peculiarità e i propri rischi ed è stata oggetto, nel corso degli anni, di progressivi perfezionamenti. Nei prossimi paragrafi proveremo a offrire una panoramica su questi aspetti caratteristici dell’approccio laparoscopico. Accesso all’addome Potendo ormai consegnare alla storia l’accesso blind, quello che prevedeva la creazione dello pneumoperitoneo con l’ago di Veress (Foto 3) e la successiva introduzione “cieca” del primo trocar, perché gravato da importanti complicanze, possiamo considerare due tipologie fondamentali di accesso: la tecnica open laparoscopy secondo Hasson e la tecnica Veress e trocar ottico (1-3). La tecnica open prevede l’accesso “aperto” alla cavità addominale tramite la dissezione dei diversi piani della parete addominale, fino ad aprire il peritoneo in visione diretta. Una volta verificata l’assenza di visceri adesi alla parete, si posizionano due punti di sospensione sui margini dell’accesso stesso, comprendenti fascia muscolare e margine peritoneale e si introduce il trocar di Hasson (Foto 4,5). Questo è un tipo di trocar che ha una parte conica lungo la cannula che consente di adattarsi all’apertura del peritoneo che, in questo tipo di tecnica, è sempre molto più ampia del calibro della cannula stessa. Il trocar di Hasson viene solidarizzato alla parete tramite i punti di sospensione posti ai margini dell’accesso. È da segnalare che, molto spesso, questo tipo di tecnica viene realizzata anche utilizzando un trocar 12 mm normale, ovvero senza la parte conica sulla cannula. La open laparoscopy sembra avere dei vantaggi teorici riguardo alla possibilità di evitare lesioni vascolari maggiori, mentre, per quel che riguarda le lesioni del piccolo intestino, non sembra essere più sicura rispetto ad altre tipologie di accesso, anche se ne consentirebbe il riconoscimento immediato (4-6). La tecnica Veress e trocar ottico è una tipologia di accesso che è andata affermandosi negli ultimi anni grazie allo sviluppo, da parte delle aziende, di trocar monouso sempre più performanti e soprattutto trasparenti e senza lama, bladeless. La tecnica si basa sull’introduzione dell’ago di Veress al punto di Palmer – in ipocondrio sinistro, sull’emiclaveare, tre dita circa sotto l’arcata costale – per indurre lo pneumoperitoneo e sull’inserimento di un trocar “ottico” (Foto 6a). Questo tipo di trocar ha la punta smussa e trasparente e consente di inserire, nella sua cannula, l’ottica, a 0° preferibilmente, ma anche a 30°. In questo modo è possibile realizzare un accesso guardando direttamente, per mezzo dell’ottica, la progressione del trocar attraverso i piani della parete addominale, fino all’ingresso nella cavità peritoneale (Foto


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6b). Una volta guadagnata la cavità addominale si controllano eventuali danni procurati dal Veress prima di sfilarlo e procedere all’introduzione degli altri trocar. I vantaggi di questa metodica rispetto alla open laparoscopy è quella di realizzare un accesso safe delle dimensioni giuste per il trocar, senza la necessità di incisioni e divaricazioni eccessive. Si pensi ad esempio al vantaggio nei pazienti obesi (7-12).

Foto 3 – Ago di Veress

Foto 4 – Esempio di trocar di Hasson monouso

Foto 5 – Esempio di trocar di Hasson poliuso


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Foto 6a – Veress al punto di Palmer e accesso con trocar ottico

Foto 6b – Progressione del trocar ottico (con ottica a 0°) attraverso la parete addominale fino all’ingresso in peritoneo

Pneumoperitoneo Una volta ottenuto l’accesso all’addome open o con l’ago di Veress, come detto, viene creato lo pneumoperitoneo. Il gas prescelto per tale scopo è, come noto, l’anidride carbonica, CO2. Perché? L’anidride carbonica è un gas facilmente reperibile, relativamente economico, chimicamente e farmacologicamente inerte, altamente solubile nel plasma. È incolore, inodore, non infiammabile, anzi “soffoca” le combustioni. Non è però fisiologicamente inerte. Viene rapidamente assorbito dal peritoneo ed entra rapidamente in circolo e causa acidosi e ipercapnia. Gli effetti dell’assorbimento di CO2 a livello sistemico sono stati ampiamente studiati nel corso degli anni, in particolar modo dagli anestesisti, che hanno progressivamente ridotto al minimo le controindicazioni alla laparoscopia (4,13,14).


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Buona regola generale è impostare la pressione endoaddominale al più basso livello possibile di lavoro. Infatti l’assorbimento è proporzionale alla pressione endoaddominale. Quindi se la pressione standard di lavoro è in genere intorno ai 12 mmHg, in casi particolari possiamo abbassarla a 8/10 mmHg per agevolare il lavoro degli anestesisti. Tipologia di trocar Esistono diversi tipi di trocar. La prima distinzione è tra trocar poliuso e trocar monouso. I primi, generalmente in acciaio e con mandrino a punta tagliente o smussa, possono essere utilizzati per più procedure e vengono sterilizzati dopo ogni intervento (Foto 7). Il vantaggio di questo tipo di trocar è sostanzialmente di tipo economico: vengono acquistati una volta e durano molti anni. Risultano però decisamente più pesanti e meno maneggevoli; le valvole in gomma, inoltre, si usurano e devono essere sostituite relativamente spesso. Non esiste un trocar ottico poliuso. Nell’ambito dei trocar monouso, ogni azienda produttrice prova ad arricchirli con caratteristiche diverse dalla concorrenza. Volendo però rimanere in ambito di caratteristiche generali, la grossa distinzione è quella relativa alla presenza o meno di una lama tagliente per il passaggio attraverso la parete addominale. Fino ad alcuni anni fa erano preferiti i trocar cosiddetti “taglienti” perché garantivano un passaggio attraverso la parete decisamente più rapido e agevole (Foto 8). Da alcuni anni, però, i trocar senza lama, bladeless o blunt, sono diventati in assoluto quelli più utilizzati. Questo perché, al prezzo di una rapidità di accesso solo minimamente inferiore, garantiscono una maggiore sicurezza. L’utilizzo dei trocar bladeless ha ridotto l’incidenza di sanguinamento degli accessi e consente un ingresso sicuro in addome anche in prossimità di visceri dilatati (12). Attualmente la tendenza più diffusa, comunque, è quella di utilizzare quasi esclusivamente trocar monouso, tranne alcune rare eccezioni in cui viene preferito un utilizzo “misto”. Un discorso a parte merita il trocar ottico. È un trocar che, oltre alla cannula, ha anche il mandrino trasparente e cavo. Consente l’introduzione dell’ottica al suo interno e la visualizzazione, quindi, del passaggio della punta del trocar “strato per strato”, attraverso la parete fino all’ingresso in cavità peritoneale (Foto 9,10).


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Foto 7 – Trocar poliuso a punta tagliente

Foto 8 – Trocar monouso a punta tagliente

Foto 9 – Trocar ottico monouso bladeless

Foto 10 – Trocar ottico: mandrino cavo con punta trasparente

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Ottica Anche non volendo approfondire l’argomento strumentario, è doveroso fare un accenno all’ottica. L’ottica è costituita da un sistema di lenti – obiettivo, lenti di trasferimento e oculare – inserite in un tubo di acciaio; a essa viene collegato il cavo della fonte di luce, ed è raccordata direttamente alla telecamera, permettendo la visualizzazione endocavitaria con un’adeguata illuminazione. Un’ulteriore evoluzione avvenuta nelle ottiche è rappresentata da un sistema di lenti cilindriche che sostituiscono le convenzionali lenti biconvesse, ottenendo una brillantezza delle immagini, una luminosità e un contrasto decisamente migliori. Esistono ottiche frontali (0°) o angolate (25°, 30°, 45°, 70°), con diametri di 2, 3, 5, 10 o 12 mm; gli steli normalmente hanno una lunghezza di 31-33 cm. La laparoscopia è nata con l’ottica a 0°; nel corso degli anni i vantaggi della 30°, però, hanno definitivamente fatto in modo che quest’ultima diventasse l’ottica più comunemente utilizzata in chirurgia addominale laparoscopica. Una buona ottica dovrà essere dotata di un’appropriata definizione, di un ampio angolo di visione (60-90°) senza distorsioni ed essere autoclavabile. Esistono, inoltre, ottiche stereoscopiche dotate di due canali ottici indipendenti che permettono, con l’adeguato equipaggiamento e supporto digitale – centralina di elaborazione 3D, schermo dedicato, visori per gli operatori -, una visione tridimensionale. Posizionamento dei trocar La scelta della posizione dei trocar può influenzare pesantemente l’andamento di una procedura laparoscopica, sia in termini di efficacia dei gesti chirurgici sia in termini di ergonomia per gli operatori. Esistono, a tal proposito, dei principi di carattere generale che andrebbero rispettati per ottenere un posizionamento ottimale (15). Denominazione dei trocar: il trocar attraverso il quale viene introdotta l’ottica è denominato T1. Il trocar attraverso il quale viene introdotto lo strumento utilizzato dalla mano destra dell’operatore è denominato T2, quello della mano sinistra T3. I trocar usati dagli aiuti sono chiamati T4 e T5, ma nell’ambito della trattazione degli aspetti e dei principi generali non saranno considerati. La posizione dell’operatore è indicata con OP. Il campo operatorio viene contrassegnato con un asterisco (*) e il monitor con una M. La prima regola generale sul posizionamento dei trocar è che ci sia il miglior allineamento possibile tra operatore (OP), ottica (T1), campo operatorio (*) e monitor (M) (o più monitor MM) (Figura 1).


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Figura 1 – Allineamento operatore – T1 – campo operatorio – monitor

Posizionamento dell’ottica (T1): bisogna considerare che il trocar dell’ottica è quello dal quale “i nostri occhi” e la luce entrano in addome. Ciò influenza l’angolazione, l’illuminazione e la direzione della visione del campo operatorio. L’angolo migliore tra ottica (T1) e campo operatorio (*), per ottenere una illuminazione e una visione ottimali, è compreso tra i 45° e i 90° (Figura 2). Angoli inferiori determinano una visione troppo tangenziale, angoli superiori significano posizionamento del T1 “oltre” il campo operatorio. Come principio generale e con le dovute eccezioni il posizionamento dell’ottica sul punto più in alto dell’addome è ideale per quasi tutti gli interventi addominali. Nonostante ciò, in alcuni interventi in cui il campo operatorio è molto ampio, l’ottica dovrà essere posizionata più cranialmente o caudalmente o lateralmente rispetto a questo punto ideale, per consentire una visione ottimale. L’ombelico, inoltre, non è sempre il “centro” dell’addome e non deve condizionare in maniera assolutistica la posizione di T1. In alcuni interventi, come quelli sovramesocolici o sul giunto gastro-esofageo, posizionare l’ottica all’ombelico fornirebbe una visione eccessivamente tangenziale. La posizione di T1, inoltre, influenza la posizione di T2 e T3. È facile comprendere che una scelta errata sulla collocazione dell’ottica può condizionare in maniera sensibile anche l’esito stesso di un intervento laparoscopico o la scelta di un’eventuale conversione.


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Qual è allora il punto centrale dell’addome? Il punto centrale dell’addome è il punto medio tra xifoide e osso pubico, indipendentemente dalla posizione dell’ombelico (Foto 12).

Figura 2 – Angolazione ottimale tra ottica e campo operatorio

Foto 12 – Misurazione della distanza tra xifoide e sinfisi pubica

Posizionamento di T2 e T3: la posizione dei trocar operatori deve essere tale da consentire che le braccia del chirurgo restino appoggiate al tronco, le spalle rilassate, i gomiti flessi a 90°, come un pianista, e le mani non troppo distanti tra loro. L’angolo ideale tra le mani dell’operatore, T2 e T3, e il campo operatorio è compreso tra i 30° e i 90° per consentire una dissezione agevole ed efficace. Quindi, le braccia dell’operatore non devono essere troppo aperte o troppo chiuse. In interventi come quelli sul giunto gastro-esofageo o sulla colecisti, in cui il campo operatorio è sostanzialmente fisso, è molto facile trovare la posizione giusta per T2 e T3. Negli interventi come quelli sul colon, in cui il campo operatorio è piuttosto “mobile”, la posizione dei trocar


Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

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operatori diventa un vero e proprio compromesso che può consentire una corretta posizione delle braccia dell’operatore sia quando il campo operatorio è vicino sia quando è più lontano dalla parete addominale. Gli strumenti che entrano attraverso T2 e T3 devono arrivare sul campo operatorio con un’angolazione, rispetto al piano orizzontale, non inferiore ai 30° e non superiore ai 60°. Una posizione degli strumenti troppo tangenziale, con angolo di incidenza quindi sul campo operatorio < 30°, o troppo verticale, con angolo quindi > 60°, renderebbero decisamente meno agevoli le manovre di dissezione e, ancor di più, di ricostruzione: si pensi alla scomodità nell’effettuare una sutura intracorporea (Figura 3).

Figura 3 – Angolazione ottimale per l’ingresso degli strumenti in addome

Oltre all’angolazione dei trocar e a quella di “arrivo” degli strumenti rispetto al campo operatorio, resta da considerare il rapporto tra la posizione di T1 con T2 e T3. I due trocar operatori vengono posizionati lateralmente al trocar dell’ottica. Generalmente, per rispettare quanto detto fin ora, ovvero l’angolazione corretta rispetto al campo operatorio e l’ergonomia dell’operatore, si posizionano circa 7-8 cm a destra e sinistra di T1 (Foto 13).


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Foto 13 – Triangolazione corretta T1 – T2 – T3

Questo tipo di configurazione riproduce il normale rapporto che c’è tra gli occhi e le mani dell’operatore. I trocar T2 e T3 possono essere situati sulla stessa linea dell’ottica, in posizione più avanzata o più arretrata rispetto a essa. La configurazione standard prevede che i trocar operatori siano in posizione arretrata rispetto all’ottica. Questa non è una regola assoluta: in alcuni tipi di interventi, infatti, il chirurgo preferisce avere una visione più “panoramica”, ma avere gli strumenti più vicini al campo operatorio. In quel caso T1 sarà più arretrato rispetto a T2 e T3 (Figura 4-6).

Figura 4 – T2 e T3 arretrati rispetto a T1 – ad esempio emicolectomia sinistra


Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

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Figura 5 – T1 arretrato rispetto a T2 e T3 – ad esempio emicolectomia destra

Foto 14 – Posizione dei trocar per l’ emicolectomia destra: “occhi dietro e mani avanti”


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Figura 6 – T1, T2, T3, sulla stessa linea – ad esempio splenectomia e surrenectomia

Esposizione del campo operatorio Lo spazio visivo all’interno della cavità addominale viene creato dallo pneumoperitoneo che esercita una pressione sulla parete e sui visceri, allontanandoli. Lo spostamento del colon trasverso, dell’intestino tenue e del grande omento che li copre, viene assicurato dalla posizione del malato e del letto operatorio (Trendelenburg, anti- Trendelenburg, tilt laterale) e dalla pressione stessa esercitata dallo pneumoperitoneo (Foto 15).

Foto 15 – Trendelenburg “spinto” e tilt laterale destra (emicolectomia sinistra)


Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

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Per non ridurre il volume della cavità ottenuta, è opportuno evitare una flessione troppo marcata delle gambe. Il più delle volte questi accorgimenti, seppur necessari, non sono sufficienti a ottenere una esposizione ottimale. La divaricazione degli organi vicini, quindi, viene eseguita dagli aiuti attraverso gli strumenti introdotti nei trocar T4 ed eventualmente T5. Gli strumenti che vengono introdotti attraverso questi trocar dovrebbero essere sotto controllo della vista, non ostacolare la visione e gli atti operatori. Una volta posizionati dovrebbero essere spostati il meno possibile durante le varie fasi dell’intervento e offrire un campo operatorio stabile e ben esposto. Il chirurgo opera con entrambe le mani, generalmente senza partecipare all’esposizione. L’esposizione, in alcuni casi, può essere perfezionata mediante sospensione alla parete addominale di alcuni organi per mezzo di punti trans-parietali. L’esposizione dell’asse biliare viene migliorata dall’ancoraggio del legamento sospensore del fegato alla parete con un punto trasfisso. L’esposizione del piccolo bacino nella donna giovane può essere realizzata grazie alla sospensione dell’utero alla parete con un punto passato a livello del punto medio tra ombelico e pube, in modo da aprire lo “sfondato del Douglas”. L’esposizione di particolari organi richiede talvolta la sezione di legamenti di ancoraggio, prima di qualsiasi mobilizzazione, come ad esempio l’esposizione della loggia surrenalica destra e/o sinistra, dell’esofago addominale o dell’ilo splenico. Bisogna sempre ricordare però che le pinze impiegate per migliorare l’esposizione sono potenzialmente traumatiche e spesso sono fuori dal campo visivo. Ecco perché è preferibile, una volta esposta al meglio la sede dell’intervento, muovere solo i trocar operatori, T2 e T3. Dissezione Tutti i principi e i relativi passaggi illustrati fino a ora hanno un unico scopo: rendere possibili e, perché no, agevoli le manovre di dissezione e ricostruzione. La dissezione è una fase comune a tutti gli interventi chirurgici, anche laparoscopici, mentre la ricostruzione non è sempre necessaria. Esempi di interventi laparoscopici che non necessitano di una fase ricostruttiva sono: la colecistectomia, l’appendicectomia, la splenectomia, la surrenectomia, la nefrectomia, la spleno-pancreasectomia distale e le resezioni epatiche. La dissezione viene effettuata dal chirurgo con entrambe le mani. Con la sinistra si effettua la contro-trazione mentre con la mano destra si esegue la dissezione vera e propria. Questa si può ottenere per via smussa utilizzando ad esempio un dissettore, per via tagliente con l’uso delle forbici oppure con l’utilizzo di energia. Le energie utilizzate sono: la corrente mono e bipolare, gli ultrasuoni e la radiofrequenza.


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Corrente monopolare: è quella trasmessa attraverso il bisturi elettrico e consiste nel passaggio di elettricità da un elettrodo “attivo”, generalmente l’uncino o il dissettore, con il quale si esegue la dissezione a uno neutro applicato sul paziente tramite una placca adesiva. L’elettricità attraversa il corpo del paziente percorrendo il “tragitto” a minore resistenza tra elettrodo attivo e neutro. L’effetto termico quindi è dovuto alla resistenza al passaggio dell’elettricità indotta dal tessuto, con differenze relative alla sua composizione. Per non raggiungere temperature alte e la carbonizzazione del tessuto è consigliabile settare la potenza dell’elettrobisturi a wattaggi bassi. In genere, sia per il taglio che per il coagulo, sono sufficienti 35/50 Watt per ottenere la coagulazione senza avere gli effetti indesiderati. Se la coagulazione è a ridosso di una clip metallica, si può creare un arco voltaico con le clip stesse che trasmette potenza al tessuto su cui è fissata la clip, potendo in seguito creare un danno e quindi, per esempio, un leak biliare se la clip è sul dotto cistico. Corrente bipolare: a differenza della corrente monopolare, la bipolare non attraversa il corpo del paziente. L’elettricità passa tra due elettrodi che sono situati sulla punta dello strumento, che può essere una pinza, le forbici o un dissettore. Per questo motivo la corrente bipolare è più sicura e garantisce soprattutto una coagulazione migliore. Questo permette l’uso della corrente bipolare più vicino alla parete dei visceri o a strutture delicate, come la via biliare principale. Anche per la corrente bipolare il wattaggio deve essere il più basso possibile. Sistema a ultrasuoni: la produzione degli ultrasuoni negli strumenti da dissezione si ottiene sfruttando l’effetto piezoelettrico inverso, che consiste nella proprietà di alcuni cristalli minerali di dilatarsi e comprimersi, quindi di emettere vibrazioni, quando sono sottoposti all’azione di un campo elettrico di corrente alternata. Il bisturi armonico, versione più recente di bisturi a ultrasuoni, è costituito da un corpo macchina e da un manipolo: quest’ultimo ha la forma di un dissettore a punta leggermente curva. La punta è costituita da due lame, una “neutra” non attiva, l’altra in titanio rivestita in teflon, capace di oscillare con un breve movimento longitudinale non visibile all’occhio umano, circa 80 µm, a elevatissima frequenza, circa 55.000 volte al secondo. Questa oscillazione provoca sul tessuto con il quale viene in contatto due effetti: l’esplosione delle cellule per la vaporizzazione delle molecole di acqua in esse contenute, effetto di cavitazione, e un effetto meccanico, determinato dall’oscillazione della lama che provoca la distruzione anche dei tessuti fibrosi più resistenti. Oltre a sezionare i tessuti, riesce contemporaneamente a “sigillare” i vasi sanguigni, provocando la denaturazione delle molecole di collagene, formando un coagulo a 50-100 °C, contro i 100-400 del bisturi elettrico. Il bisturi a ultrasuoni permette di ottenere un effetto di coagulazione/ dissezione in quasi totale assenza di fumo: l’effetto di coagulazione/dissezione può essere incrementato aumentando la frequenza di oscillazione della


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lama. Si tratta di uno strumento estremamente utile in corso di interventi di chirurgia laparoscopica maggiore, soprattutto in quei casi in cui sia necessario procedere a dissezione di strutture fibroadipose – omento, briglie aderenziali, mesi ileali e colici – contenenti vasi di un diametro fino a 7 mm. L’estrema efficienza di taglio e di coagulazione permette una dissezione tissutale e vascolare molto precisa, consentendo di ridurre le perdite ematiche, la durata degli interventi e migliorando, nel complesso, l’efficacia globale del gesto chirurgico. L’ultima generazione di questo strumento ha una punta più lunga di 3 mm rispetto alla generazione precedente e leggermente più curva, molto più simile a quella di un dissettore. L’attivazione dell’energia avviene con un solo pulsante per la dissezione e il coagulo perché il generatore “legge” le caratteristiche del tessuto nelle branche dello strumento ed eroga la corretta quantità di energia. Quest’ultima caratteristica consente di ottimizzare l’uso dell’energia aumentando la velocità di dissezione e coagulazione e di limitare notevolmente la dispersione di calore. Nonostante queste recenti innovazioni, la punta dello strumento raggiunge temperature elevate, che possono essere causa di micro o macrolesioni tissutali. È opportuno, quindi, impiegare il bisturi armonico mantenendo sempre sotto visione la punta dello strumento stesso, per evitare il contatto con le strutture da preservare.

Figura 7 – Dissettore a ultrasuoni di ultima generazione

Sistema a radiofrequenza: questa tipologia di strumento applica una pressione costante sul tessuto contenuto all’interno delle morse ed eroga energia bipolare ad altissima frequenza, fino a raggiungere la radiofrequenza (RF) per un periodo di tempo controllato in funzione dello spessore del tessuto, attraverso la lettura continua dell’impedenza del tessuto stesso operata dal generatore.


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La combinazione tra questi tre fattori, pressione costante, energia e lettura continua dell’impedenza tissutale, permette la fusione completa e permanente del lume del vaso. Una lama fredda all’interno dello strumento viene attivata dal chirurgo per dividere il tessuto. Le versioni più recenti di questo strumento, inoltre, sono state dotate di un rivestimento delle morse con sistema di anti-aderenza nano tecnologico HexaMethylDiSilOxane (HMDSO). L’HMDSO è un polimero nanometrico idrofobico applicato sulle morse, in grado di ridurre l’effetto sticking, la formazione dell’escara sulle morse, migliorando l’efficienza procedurale senza riduzione delle capacità di presa. Lo strumento a radiofrequenza risulta estremamente efficace per la coagulazione e sintesi vasale e può essere utilizzato su arterie e vene isolate, di diametro fino a 7 mm compresi, fasce tissutali e vasi linfatici. L’azione della RF produce una notevole quantità di calore in prossimità della punta dello strumento, quindi, come per il bisturi a ultrasuoni, bisogna avere l’accortezza di tenere sempre la punta dello strumento in vista ed evitarne il contatto con le strutture da preservare.

Figura 8 – Dissettore a radiofrequenza di ultima generazione

Sistema ibrido ultrasuoni/radiofrequenza: lo strumento a tecnologia ibrida, unico nel suo genere, permette di applicare contemporaneamente entrambe le energie a un tessuto: energia ultrasonica per dissezione superiore e capacità di taglio rapido del tessuto, energia bipolare avanzata, a RF, per emostasi veloce e sicura per vasi fino a 7 mm di diametro. La possibilità di un uso simultaneo dei due tipi di energia combinati garantisce sicurezza nella coagulazione e transezione rapida dei tessuti e minore dispersione di sol nell’ambiente della CO2, facilitando la visualizzazione del campo operatorio, diminuendo la necessità di pulizia dell’ottica. Valgono, ancor più per questo tipo di strumento, le stesse raccomandazioni sull’utilizzo fatte per gli altri: punta dello strumento in vista e sufficientemente distante dalle strutture da proteggere.


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Figura 9 – Dissettore a ultrasuoni e radiofrequenza

L’emostasi: non esiste dissezione senza emostasi. La necessità di evitare o arrestare un sanguinamento è presente in ogni tipo di intervento chirurgico. La laparoscopia non fa eccezione. Abbiamo parlato delle energie quali strumento di emostasi oltre che di dissezione ma, nonostante l’estrema efficacia degli strumenti descritti, la maggioranza dei chirurghi preferisce l’utilizzo delle clip emostatiche. Le clip possono essere utilizzate in via preventiva, prima cioè di procedere alla sezione di un vaso, oppure per arrestare un sanguinamento in atto. Per molti anni sono esistite solo clip metalliche, in titanio con varie tipologie di applicatori: monouso, pluriuso, con sistema meccanico o a gas. Ancora oggi le clip in titanio sono quelle più utilizzate per la chirurgia laparoscopica di base; ciononostante diversi chirurghi le preferiscono anche per gli interventi di laparoscopia avanzata. Nell’ottica di sviluppare prodotti che offrissero maggiori garanzie di tenuta e che fossero costituiti da materiale inerte e non conduttivo, sono nate le clip in materiale polimerico con chiusura “a scatto” e le clip con meccanismo di chiusura “a compressione” in materiale completamente riassorbibile (Figura 10). Queste ultime, nella nostra esperienza, sono risultate efficaci in ogni ambito di applicazione avendo il vantaggio, inoltre, di non lasciare alcun corpo estraneo in addome, anche se sono più ingombranti di quelle in titanio.


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Figura 10 – A) clip riassorbibili con chiusura “a compressione”; B) clip in materiale polimerico con chiusura “a scatto”

La ricostruzione La fase di ricostruzione è rappresentata, nella maggior parte dei casi, dal confezionamento di una o più anastomosi. In chirurgia laparoscopica le anastomosi possono essere manuali o meccaniche, intracorporee o extracorporee. Nel corso degli anni le anastomosi extracorporee sono state progressivamente abbandonate dalla maggioranza dei chirurghi, a vantaggio di quelle intracorporee, che hanno dimostrato outcome migliori. Questo risulta particolarmente evidente in chirurgia del colon destro dove l’anastomosi intracorporea meccanica, anche se apparentemente allunga i tempi operatori, consente di ottenere minori tassi di morbilità a breve termine, canalizzazione più rapida, minori tassi di conversione e di leak anastomotico, laparoceli e una degenza ospedaliera più breve (16-23). I principi di base per il confezionamento di una buona anastomosi sono validi anche per la chirurgia laparoscopica. È necessario che i monconi siano ben vascolarizzati e che non siano in trazione una volta anastomizzati. Le suture, meccaniche e manuali, devono ottenere la perfetta chiusura del lume del viscere anastomizzato. Premesso che la sutura e l’annodamento intracorporeo siano skill necessarie nel bagaglio tecnico del chirurgo laparoscopista, bisogna precisare che


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la maggioranza delle anastomosi che vengono effettuate ad addome chiuso sono anastomosi meccaniche. Per realizzarle si usano le suturatrici, stapler. La sutura manuale è utilizzata principalmente per la chiusura delle brecce di introduzione della suturatrice. Nel corso degli anni le Aziende produttrici di suturatrici meccaniche si sono “sfidate” nella realizzazione della suturatrice perfetta e anche mentre stiamo scrivendo questo capitolo, lo sviluppo di questi strumenti continua. Non potendo approfondire tutti i prodotti presenti sul mercato, descriveremo le caratteristiche delle suturatrici più diffuse e utilizzate nelle sale operatorie italiane. Suturatrici meccaniche: le suturatrici utilizzate in chirurgia laparoscopica, esattamente come in chirurgia open, sono suturatrici lineari e suturatrici circolari. In questo capitolo, dedicato ai principi di base della laparoscopia, non descriveremo nel dettaglio il funzionamento delle suturatrici, in quanto il loro utilizzo è lo stesso che in chirurgia open. Ci limiteremo a illustrare le peculiarità delle più recenti stapler laparoscopiche. Le suturatrici lineari laparoscopiche sono composte da un manico e da uno stelo, con estremità articolabile in cui è inserita la cartuccia. Le cartucce possono avere lunghezza di: 30, 45, 60 mm. Anche gli steli possono essere di dimensioni che variano dai 280 ai 440 mm per adattarsi alle necessità della chirurgia bariatrica. Le cartucce applicano tre file di punti sfalsati su ogni lato dell’anastomosi prima che venga azionata la lama che taglia il tessuto. I punti, in titanio, possono avere altezza variabile tra 2 e 5 mm, in modo da comprendere tessuti con spessore da 0.75 fino a 3 mm. Le cartucce con le diverse tipologie di punti sono contraddistinte da differenti colorazioni. Nel corso degli anni le maggiori Aziende produttrici hanno sviluppato strumenti seguendo filosofie differenti. Questo ha consentito di avere sul mercato suturatrici che, anche condividendo gli aspetti e i principi di base, fossero sostanzialmente diversi. Un’Azienda ha posto l’accento sulla “presa” e tenuta dei tessuti tra le ganasce della stapler, in modo da favorirne la compressione e impedirne lo scivolamento nel momento di applicazione dei punti e del successivo scorrimento della lama. Ciò consente una chiusura dei punti più precisa su un tessuto adeguatamente compresso e, in molti casi, l’utilizzo di una cartuccia in meno. A questo si aggiunge la possibilità di un azionamento elettrico dello strumento che riduce i movimenti involontari della punta e risulta, inoltre, notevolmente più ergonomico (Figura 11). Un’altra Ditta ha concentrato i suoi sforzi sullo sviluppare una suturatrice che permettesse l’applicazione delle due triple file sfalsate di punti, come la precedente, ma ad altezza differenziata in modo da ottenere una compressione graduata del tessuto dall’interno all’esterno della sutura. La stessa Azienda ha sviluppato una piattaforma elettronica che permette la gestione completamente elettrica dei movimenti della suturatrice e, inoltre, l’adattamento automatico della compressione delle ganasce in funzione dello spessore e della consistenza del tessuto (Figura 12).


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Le suturatrici circolari delle due maggiori Aziende condividono gli stessi principi e la stessa filosofia di sviluppo delle rispettive stapler lineari, ma non sono differenti rispetto a quelle usate in open, quindi non verranno trattate in questo capitolo. Bisogna aggiungere che esistono sul mercato numerosi altri prodotti, sviluppati da altre Aziende, che hanno raggiunto standard qualitativi e tecnici estremamente validi e che animano una viva concorrenza di cui noi chirurghi possiamo solo beneficiare.

Figura 11 – Echelon Flex™ Powered Plus GST (Ethicon)

Figura 12 – Signia™ Stapling Platform (Medtronic)

Estrazione del pezzo operatorio Al termine di un intervento che preveda l’asportazione di un organo o di parte di esso, è necessario identificare la modalità e la sede di realizzazione della cosiddetta “minilaparotomia di servizio”, ovvero un’apertura minima


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della cavità addominale che consenta di estrarre il pezzo in sicurezza e senza provocarne la rottura o la frammentazione. La sede di realizzazione della minilaparotomia viene scelta in base alla possibilità di estrazione, al rischio di laparoceli e anche alle ripercussioni estetiche. È molto più condizionata da questi fattori che non dall’organo di provenienza del pezzo di resezione. Come principio generale si tende a evitare le minilaparotomie sulla linea mediana perché gravate da un alto tasso di laparoceli (24) e a preferire incisioni orizzontali per coinvolgere il minor numero di metameri cutanei e ridurre, così, anche il dolore postoperatorio (Figura 13).

Figura 13 – Metameri cutanei e incisioni addominali

Le uniche eccezioni a questa regola generale sono gli interventi di colecistectomia e di appendicectomia, in cui l’estrazione avviene tramite l’accesso del trocar ombelicale. Nella maggior parte degli interventi la minilaparotomia di servizio è realizzata in sede sovrapubica, con un’incisione di Pfannenstiel. Questo tipo di accesso è gravato da una minore incidenza di laparoceli, causa minore dolore postoperatorio e risulta migliore anche dal punto di vista estetico (24). Alcuni chirurghi, invece, preferiscono ampliare uno degli accessi dei trocar, evitando di realizzare una incisione “in più”.


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Un altro principio generale è la protezione della parete addominale. Durante l’estrazione del pezzo operatorio, infatti, è necessario evitare il contatto tra questo e lo spessore della parete. Questo accorgimento permette di ridurre le infezioni e, soprattutto, negli interventi oncologici, evita il rischio di recidive di parete (25-27). Esistono vari presidi che consentono la protezione della parete, durante le manovre di estrazione del pezzo (Foto 16). Il presidio più utilizzato è sicuramente l’endobag (Figura 14) ovvero il sacchetto trasparente, ne esistono di diverse dimensioni e modelli, in cui inserire il pezzo operatorio prima di estrarlo dall’addome. È utile nel caso di asportazioni complete di organi o pezzi operatori di piccole o medie dimensioni. Nella nostra esperienza, che comprende una notevole quantità di interventi di chirurgia laparoscopica avanzata, preminentemente colo-rettale, abbiamo molto apprezzato il protettore di parete illustrato in Figura 15. Consente di ottenere una protezione efficace, una divaricazione ottimale e, utilizzando lo specifico “tappo”, il proseguimento dell’intervento senza dover procedere immediatamente alla chiusura della minilaparotomia (Foto 17), introdotto attraverso il foro di estrazione. Figura 14 – Endobag

Foto 16 – 3M™ Steri Drape™ Wound Edge Protector


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Figura 15 – Protettore/retrattore di parete a doppio anello flessibile (Alexis® – Applied Medical)

Foto 17 – Utilizzo del protettore a doppio anello flessibile e del relativo “tappo”

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Capitolo 16 Chirurgia laparoscopica di base Alessandro Falsetto*, Lorenzo Pandolfini*, GianMatteo Paroli*, Romana Laessig*, Chiara Genzano*, Ahmad El Naarani*, Silvia Rollo* e Marco Scatizzi** *Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze **Direttore UOC Chirurgia Generale, Ospedale S.M.Annunziata, Azienda USL Toscana Centro – Firenze Nella trattazione dei principi generali della chirurgia laparoscopica non si può prescindere dal descrivere le due procedure laparoscopiche di base che dovrebbero essere nel bagaglio di ogni chirurgo. Parliamo della colecistectomia e dell’appendicectomia. La Video-Laparo-Colecistectomia (VLC) È di sicuro l’intervento chirurgico laparoscopico più effettuato. Costituisce ormai da molti anni il gold standard per il trattamento della patologia benigna, preminentemente litiasica, della colecisti (1-3). L’approccio laparoscopico, inoltre, è utilizzato sempre più spesso anche in urgenza (4-6). Analizziamo, di seguito, i principi generali per l’esecuzione di questa procedura secondo la tecnica francese, che è la più diffusa e, a nostro parere, la migliore per chi si approccia a questo tipo di chirurgia. Posizione del paziente: il paziente giace supino, arto superiore destro addotto, arto superiore sinistro abdotto per consentire gli accessi venosi e il monitoraggio dei parametri anestesiologici, arti inferiori divaricati (non sono necessari i cosciali), anti-Trendelenburg di 20-30° e tilt laterale sinistro. Nelle moderne sale operatorie la colonna laparoscopica è montata su pensili sospesi al soffitto, anche i monitor sono fissati al soffitto e indipendenti dallo strumentario della colonna. In questo caso il o i monitor vengono posizionati all’altezza degli occhi dell’operatore, tra la spalla destra e la testa del paziente. Nel caso si utilizzi una colonna laparoscopica vera e propria, questa va posizionata quanto più possibile vicino alla spalla destra del paziente. Una posizione più craniale sarebbe d’intralcio all’attività dell’anestesista e interferirebbe con la posizione del respiratore. Una colonna troppo distante dall’addome, inoltre, potrebbe creare problemi anche alle connessioni dei cavi tra colonna e strumenti (cavo luce, telecamera, tubo dell’insufflatore). Posizionamento dell’équipe: l’operatore è posizionato tra le gambe del paziente, il secondo chirurgo è alla sinistra del paziente, l’infermiere strumentista è generalmente alla destra del paziente. Il chirurgo operatore utilizza gli accessi T2 e T3 per eseguire le manovre di controtrazione e dissezione, con


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il piede sinistro attiva i pedali del bisturi elettrico (taglio e coagulazione). Il secondo chirurgo manovra l’ottica con la mano sinistra attraverso T1 ed effettua le manovre di trazione sulla colecisti o l’abbassamento del duodeno con una pinza da presa attraverso T4. L’infermiere strumentista, oltre alla gestione dello strumentario, mantiene fissi i trocar durante le manovre di introduzione ed estrazione degli strumenti e provvede alla pulizia dell’ottica quando necessario. Tutta l’équipe è orientata verso il monitor e deve avere una visuale ottimale dello schermo. Lo strumentario è illustrato nella Foto 1 che ritrae il tavolino servitore per la chirurgia aparoscopica di base.

Foto 1 – Strumentario laparoscopico di base: 1 ferri per accesso open; 2 trocar; 3 tubo per insufflatore; 4 ottica e cavo luce; 5 cavi bisturi elettrico (mono e bipolare); 6 termos; 7 kit aspirazione fumi; 8 aspiratore/irrigatore monouso; 9 clinch; 10 forbici; 11 e 12 Johan; 13 uncino e punta “a pallina”; 14 dissettore da 10 mm

Accesso: negli interventi in cui dobbiamo realizzare l’accesso a livello ombelicale, preferiamo effettuare un accesso open. Questo ci consente di avere un accesso leggermente più ampio rispetto alla dimensione del trocar da 12 mm o del trocar di Hasson e facilita la fase di estrazione della colecisti. Comunque, deve essere di dominio del chirurgo anche l’accesso con ago di Veress, utile in pazienti iperobesi dove anche solo l’accesso ombelicale open può risultare particolarmente complesso.


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Posizionamento dei trocar Nel posizionamento dei trocar valgono i principi di angolazione e triangolazione descritti precedentemente. Le posizioni in seguito descritte possono subire delle variazioni in caso non risultino ottimali al momento dell’introduzione dell’ottica. Si utilizzano 4 trocar (7). La posizione dei trocar che utilizziamo e che ci sentiamo di consigliare, per chi si approccia a questo intervento, è quella classica della tecnica francese (8): – 12 mm all’ombelico (T1): attraverso questo trocar viene introdotta l’ottica a 30° da 10 mm. Nella fase di estrazione del pezzo operatorio, l’ottica viene spostata in T2 e attraverso T1 si introduce e si estrae l’endobag con la colecisti. – 12 mm in ipocondrio sinistro per la mano destra dell’operatore (T2): posizionato in pararettale sinistra nel punto di mezzo tra xifoide e T1. In questo trocar vengono introdotti gli strumenti da dissezione (uncino, dissettore, forbici), l’applicatore di clip e, nella fase di estrazione del pezzo, l’ottica. Proprio per questo motivo, a meno che non si utilizzi un’ottica da 5 mm, è necessario che T2 sia da 12 mm. – 5 mm in fianco destro per la mano sinistra dell’operatore (T3): utilizzato per la pinza da presa dell’operatore (pinza di Johan o pinza di Croce-Olmi). Dovrebbe essere posizionato sull’ascellare anteriore a livello della linea ombelicale trasversa. Questo accesso viene utilizzato anche per l’eventuale drenaggio, nel caso se ne ravvisi l’utilità. – 5 mm in posizione paraxifoidea sinistra per la pinza da presa dell’aiuto (T4): attraverso questo accesso, l’aiuto utilizza una pinza da presa tipo clinch o Johan, o in alcuni casi l’aspiratore, per sollevare la colecisti e il legamento rotondo, abbassare il blocco duodeno-pancreatico o divaricare un terzo segmento epatico ipertrofico. I trocar da usare, a nostro parere e secondo la letteratura, sono quelli privi di punta tagliente, bladeless.

Figura 1 – Posizione trocar per la VLC


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Foto 2 – Posizione dei trocar per la VLC e triangolazione su un piano 3D (“piramidalizzazione”)

Le fasi dell’intervento: una volta completato l’accesso dei trocar sotto visione diretta, si esplora la regione epato-colecistica e si effettua una rapida panoramica dell’intero addome. Attraverso T4 l’aiuto afferra e solleva il fondo della colecisti ed espone l’ilo della colecisti e il legamento epato-duodenale. L’operatore, mobilizzando l’infundibolo colecistico, riconosce gli elementi dell’ilo della colecisti e la via biliare principale (VBP). Per consentire la migliore mobilizzazione possibile, è consigliabile eliminare ogni aderenza sottoepatica. Le manovre di dissezione vengono realizzate con l’energia monopolare (35W sia per il taglio che per la coagulazione) collegata all’uncino, alle forbici o al dissettore da 5 mm, a seconda delle preferenze dell’operatore. Una volta riconosciuta l’anatomia della regione (9), l’operatore procede a incidere il peritoneo posteriore e anteriore, subito al di sotto dell’infundibolo della colecisti. Questa manovra permette una maggiore possibilità di mobilizzazione dell’infundibolo stesso e un “allungamento” degli elementi dell’ilo allargando, in maniera indiretta, il triangolo di Calot. Le rotazioni sull’asse dell’ottica a 30° consentono di visualizzare in maniera ottimale sia la parte anteriore sia quella posteriore dell’infundibolo e dell’ilo della colecisti. La dissezione del peritoneo della giunzione infundibulo-colecistica prosegue in senso medio- laterale, scoprendo il linfonodo di Mascagni, il dotto cistico e l’arteria cistica fino a esporre del tutto il triangolo di Calot (10). In


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queste fasi risulta particolarmente importante lo “sbandieramento” dell’infundibolo della colecisti che si ottiene con delicate controtrazioni laterali e mediali durante la dissezione, in modo da esporre al meglio gli elementi dell’ilo colecistico. Una volta esposti tutti gli elementi dell’ilo colecistico si dovrà procedere alla loro chiusura e sezione. Regola vorrebbe che sia prima l’arteria a essere chiusa dalle clip in titanio e sezionata. Nella pratica, molto spesso, risulta più comodo “clippare” e sezionare prima il dotto cistico per guadagnare più spazio e una migliore esposizione dell’arteria cistica e dell’arteria epatica destra che, con relativa frequenza, curva molto vicino alla colecisti prima di dirigersi al parenchima epatico. Saranno apposte, di regola, due clip sulla porzione prossimale e una sulla parte distale di dotto e arteria cistica prima della loro sezione con forbici. L’uso di energia è fortemente sconsigliato per la sezione del dotto cistico. La sua diffusione tissutale potrebbe danneggiare anche la parte di cistico chiusa dalle clip causandone la necrosi, con conseguente caduta delle clips e formazione di un leak biliare. Per tale motivo sarebbe consigliabile utilizzare clip riassorbibili o in plastica (entrambe disponibili in commercio), che non conducono energia e quindi sono più sicure. Queste clip possono essere applicate senza necessità di raddoppiare il loro utilizzo nel moncone prossimale di arteria e dotto cistici. Dopo la sezione degli elementi dell’ilo si procederà al distacco della colecisti dal letto epatico. Nelle fasi iniziali dello “scollamento” della colecisti va posta particolare attenzione a tenersi più vicino possibile alla parete della colecisti per evitare di approfondirsi su piani dove, per anomalie anatomiche, potrebbero trovarsi strutture nobili. In genere lo scollamento viene effettuato con uncino e corrente monopolare. La dissezione in questa fase è minuziosa e procede lentamente. Se si dovessero incontrare strutture che dal letto vanno nella colecisti è preferibile chiuderle con clip. Una volta lontani dalla sede dell’ilo, si effettuerà la sezione del peritoneo ai lati della colecisti, in modo da renderla più mobile possibile. Nella nostra esperienza la maggior parte del distacco della colecisti dal letto epatico è realizzata per via medio-laterale e caudo-craniale. Solo nella fase terminale si procederà anche in senso latero-mediale. Non è infrequente che la colecisti si rompa durante lo scollamento. Questa evenienza non costituisce un problema, a patto di aspirare tutta la bile e rimuovere i calcoli che fuoriescono. Una volta staccata la colecisti è possibile procedere in due modi: posizionare la colecisti sul fegato destro per procedere al perfezionamento dell’emostasi del letto epatico oppure estrarre la colecisti e posticipare l’emostasi. Appare ovvio che questa scelta è condizionata dall’entità di un eventuale sanguinamento più o meno importante del letto epatico. In genere, per ottenere un’emostasi adeguata è sufficiente la coagulazione monopolare spray (aumentando il wattaggio a 50-60W) applicata con l’uncino la cui punta viene sostituita con una sferica (“pallina”). In caso di san-


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guinamenti più importanti si possono utilizzare la coagulazione bipolare o, in extrema ratio, i sistemi di emostasi tissutale. Bisogna precisare che l’emostasi con coagulazione spray deve essere evitata in prossimità dei monconi di dotto e arteria cistici per scongiurare il rischio di lesioni dei monconi, di caduta delle clip o, peggio, di danni a VBP e arteria epatica. Anche in questi casi devono essere preferite la coagulazione bipolare o gli emostatici tissutali. L’introduzione della colecisti nell’endobag e la sua estrazione avvengono dal trocar ombelicale, con l’ottica spostata temporaneamente in T2. In alcuni casi, per rendere possibile l’uscita della colecisti dall’accesso del trocar ombelicale, è necessario ampliare di qualche millimetro l’incisione sulla fascia muscolare. Una volta estratta la colecisti si riposiziona il trocar ombelicale e l’ottica torna al suo posto (11-16). Si esegue un’ulteriore verifica dell’emostasi del letto epatico e della tenuta delle clip sugli elementi dell’ilo, si procede all’eventuale lavaggio e, nel caso si ritenesse necessario, al posizionamento di un drenaggio sottoepatico attraverso l’accesso di T4. Nella nostra esperienza non posizioniamo il drenaggio di routine. Preferiamo limitarne l’utilizzo ai casi di spandimenti di bile infetta o pus, nelle colecistiti acute, in caso di pazienti a rischio sanguinamento (scoagulati, coagulopatici, doppia antiaggregazione, etc) (17-19). Il drenaggio che preferiamo è il drenaggio aspirativo scanalato in silicone. L’intervento si conclude con l’estrazione dei trocar sotto visione, per verificare la presenza di eventuali sanguinamenti, la desufflazione completa della cavità addominale, fino a scomparsa del timpanismo in ipocondrio destro, e la chiusura degli accessi. Nella nostra esperienza chiudiamo la fascia muscolare a livello degli accessi da 12 mm con filo intrecciato riassorbibile e ago 5/8, che rende più agevole la sutura attraverso le piccole incisioni cutanee. Bibliografia 1. Keus F, de Jong JAF, et al. Small-incision versus open cholecystectomy for patients with symptomatic cholecystolithiasis. Cochrane Database Syst Rev. 2006(4):CD004788; 2. McMahon AJ, Russell IT, et al. Laparoscopic and minilaparotomy cholecystectomy: a randomized trial comparing postoperative pain and pulmonary function. Surgery. 1994;115(5):533-9; 3. Ros A, Gustafsson L, et al. Laparoscopic cholecystectomy versus mini-laparotomy cholecystectomy: a prospective, randomized, single-blind study. Ann Surg. 2001;234(6):741-9; 4. Ansaloni L, Pisano M, et al. 2016 WSES guidelines on acute calculous cholecystitis [published correction appears in World J Emerg Surg. 2016 Nov 4;11:52]. World J Emerg Surg. 2016;11:25;


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La Video-Laparo-Appendicectomia (VLA) Introduzione A partire dalla prima appendicectomia laparoscopica, eseguita da Semm nel 1982, è seguito un lungo periodo in cui, anche in letteratura, c’è stato un vivo confronto tra laparotomia e laparoscopia per il trattamento in urgenza di questa patologia.


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Oggi non ci sono dubbi che l’approccio video-laparoscopico rappresenti la scelta migliore. I vantaggi riconosciuti della laparoscopia sono una riduzione del dolore, della morbilità parietale e del danno estetico, della durata del ricovero e del tempo di ripresa delle normali attività. La durata dell’intervento risulta ormai sovrapponibile o, in molti casi, minore. I costi ospedalieri, a patto di non fare un utilizzo “improprio” della strumentazione, sono solo lievemente superiori. Questo leggero aumento dei costi è compensato ampiamente dalla riduzione della degenza media (1-4). L’ampia diffusione della tecnica, inoltre, ha permesso di limitare notevolmente le controindicazioni relative e assolute e di ridurre sensibilmente le complicanze. L’accesso laparoscopico, inoltre, grazie all’esplorazione addominale completa, permette di confermare o confutare la diagnosi iniziale in caso di scoperta di un’altra patologia e/o di un’appendice sana (5,6), in particolare nella donna in periodo fertile (7). È, a tutti gli effetti, l’ultimo esame diagnostico e la prima procedura terapeutica. Il tasso di conversione è < 10% (1). Fattori statisticamente predittivi di conversione sono: la presenza di comorbilità, il riscontro di una perforazione appendicolare, l’appendice retrocecale, la presenza di ascesso appendicolare e la presenza di una peritonite diffusa (8-11). A questi bisogna aggiungere, come fattore predittivo, l’esperienza del chirurgo (12). Le controindicazioni relative sono quelle di ogni laparoscopia: molteplici interventi di chirurgia addominale precedenti e/o deficit viscerali che impediscono la creazione del pneumoperitoneo. Nella nostra esperienza tendiamo, comunque, ad approcciare sempre l’intervento in laparoscopia. Abbiamo notato che la procedura è fattibile spesso anche nel caso di precedenti multipli interventi chirurgici addominali. Nel bambino (sì! A volte può capitare di dover operare anche i bambini) l’accesso laparoscopico obbedisce agli stessi principi tecnici che nell’adulto e ottiene gli stessi risultati (13-16). La tecnica L’appendicectomia laparoscopica è il secondo intervento, se non il primo, in ordine di frequenza, che il giovane chirurgo è chiamato a realizzare nel suo lavoro in un reparto di chirurgia, in particolare nelle strutture dove si fa anche la chirurgia d’urgenza. L’appendicectomia, a meno di rare eccezioni, è infatti realizzata sempre in urgenza. Questo comporta una difficoltà nella descrizione schematica dei vari tempi operatori che possono essere differenti in base alle situazioni. In questo paragrafo, così come fatto per la VLC, descriveremo i principi di base dell’appendicectomia video-laparoscopica senza considerare la moltitudine


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di condizioni anatomopatologiche differenti in cui ci si potrebbe imbattere affrontando questo intervento. Posizione del paziente Il paziente è in posizione supina a gambe chiuse, arto superiore destro abdotto per consentire gli accessi venosi e il monitoraggio dei parametri anestesiologici, arto superiore sinistro lungo il corpo, Trendelenburg di 2030° e tilt laterale destro. Come già detto per la VLC, nelle moderne sale operatorie la colonna laparoscopica è montata su pensili sospesi al soffitto, anche i monitor sono fissati al soffitto e indipendenti dallo strumentario della colonna. In questo caso il o i monitor vengono posizionati all’altezza degli occhi dell’operatore, a destra del paziente. Nel caso si utilizzi una colonna laparoscopica vera e propria, questa va posizionata quanto più possibile vicino al fianco destro del paziente in modo da rispettare la regola dell’allineamento: “operatore – T1 – campo operatorio – monitor”. Posizionamento dell’équipe Tutta l’équipe è alla sinistra del paziente. L’operatore, in posizione centrale, con i pedali del bisturi elettrico (anche quello per la coagulazione bipolare) davanti al suo piede sinistro, il secondo chirurgo, in genere, è alla destra dell’operatore (in alcune situazioni può spostarsi alla sua sinistra); l’infermiere strumentista è alla sinistra dell’operatore. L’operatore utilizza, ovviamente, T2 e T3 per le manovre di trazione e dissezione, il secondo chirurgo manovra l’ottica a 30° attraverso T1. L’infermiere strumentista, come già detto per l’intervento di VLC, oltre alla gestione dello strumentario, mantiene fissi i trocar durante le manovre di introduzione ed estrazione degli strumenti e provvede alla pulizia dell’ottica quando necessario. Lo strumentario È sovrapponibile a quello utilizzato per la VLC. L’unica differenza è che per la dissezione, nella nostra esperienza, utilizziamo il dissettore bipolare. Accesso Il primo accesso viene realizzato in sede ombelicale con tecnica open per le stesse ragioni descritte per la VLC. Posizione dei trocar In considerazione della possibile variabilità anatomica (appendice retrocecale più o meno lunga, appendice con punta nella pelvi o sottoepatica, etc.) e delle condizioni anatomopatologiche secondarie al processo infiam-


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matorio, il posizionamento dei trocar non segue una regola rigida come per altre procedure. Sono sempre validi i principi di base di triangolazione ed ergonomia, ma con gli opportuni adattamenti alle esigenze del caso specifico. Inoltre, operare spesso donne molto giovani, impone anche un’attenzione all’aspetto estetico (17-19). Fatte queste premesse, passiamo a descrivere il posizionamento dei trocar che, secondo la nostra esperienza, può conciliare tutti questi aspetti (Figura 2).

Figura 2 – Posizione dei trocar per la VLA

Una volta effettuato l’accesso e inserito il primo trocar da 12mm, si procede all’esplorazione dell’addome. Spesso basta una rapida occhiata alla regione cieco-appendicolare per confermare la diagnosi o iniziare a sospettare altro. Il secondo trocar verrà posizionato in fossa iliaca sinistra, sulla linea pararettale e a circa 7-8 cm dal trocar ombelicale. L’ottica, che fino a questo punto era nel trocar ombelicale, viene spostata nel trocar in fossa iliaca sinistra che diventerà il T1. Nel caso si disponga e si preferisca utilizzare un’ottica a 30° da 5 mm, il trocar T1 può essere da 5 mm. Il terzo trocar, da 5 mm, viene inserito in sede sovrapubica passando a destra dell’uraco. Il peritoneo parietale in questa regione è particolarmente “compiacente” e segue il movimento di penetrazione del trocar senza però lasciarlo passare facilmente. Per questo motivo è consigliabile inserire sempre prima il trocar in fossa iliaca sinistra e usare, eventualmente, una Johan per fare controtrazione sul peritoneo e permettere l’entrata del trocar in cavità addominale. Nella nostra esperienza non abbiamo mai avuto bisogno di un eventuale quarto trocar. Le fasi dell’intervento Descriveremo di seguito le fasi di un’appendicectomia per patologia infiammatoria acuta, appendicite acuta, perché, nei rari casi in cui si dovesse eseguire una VLA per altro tipo di patologia, ad esempio mucocele o neoplasia, i tempi principali della procedura sarebbero sovrapponibili.


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L’intervento inizia con l’esplorazione della cavità per confermare la diagnosi o, in caso contrario, per ricercare la causa della sintomatologia altrove. Una volta confermata la diagnosi di patologia appendicolare infiammatoria acuta, si deve verificare la presenza di liquido reattivo, sangue o pus, e aspirarlo accuratamente. Questo serve a evitare che il liquido si sposti in altri recessi, mentre si posiziona il paziente in Trendelenburg e tilt laterale sinistro. Una volta che il paziente è in posizione, è buona norma spostare cranialmente le anse di tenue, accompagnandole quanto più possibile verso l’ipocondrio sinistro, per esporre al meglio la fossa iliaca destra e la pelvi. Spostando le anse in questo modo, sarà più facile riconoscere l’ultima ansa ileale che ci guiderà verso la regione cecale, anche nei casi più complessi. Individuato il cieco, spesso sarà necessario liberarlo dalle aderenze con il grande epiploon. È raccomandabile effettuare la lisi di tali aderenze sempre per via smussa, con l’aspiratore o con una Johan chiusa. Se la diagnosi è stata effettuata tempestivamente e il processo infiammatorio è recente, la manovra risulterà agevole e a basso rischio. Ciò non risulterebbe possibile in caso di piastrone appendicolare. Ma quella è tutta un’altra storia. Trovata l’appendice, spesso si dovrà liberare la punta che, essendo il più delle volte la sede di partenza del fenomeno infiammatorio, tenderà ad aderire alle strutture contigue, come ad esempio peritoneo parietale, salpinge, ultima ansa ileale e in alcuni casi anche sigma. La liberazione della punta dell’appendice non è sempre realizzabile per via smussa. Una volta liberata la punta, l’operatore la prende con una pinza da presa in T₃, distendendo l’appendice in tutta la sua lunghezza ed esponendo il mesenteriolo. Con la pinza o con il dissettore bipolare in T2 procederà, quindi, alla coagulazione del mesenteriolo e alla sua sezione con le forbici mantenendosi perpendicolari all’asse maggiore dell’appendice stessa. È buona regola non provare a ottenere la coagulazione completa del mesenteriolo con una o due applicazioni di bipolare a tutto spessore, ma procedere coagulando e sezionando progressivamente pochi millimetri alla volta. Questo tipo di attenzione può evitare inutili sanguinamenti. L’applicazione prolungata, nello stesso punto, della coagulazione bipolare, inoltre, potrebbe aumentare notevolmente la temperatura della punta dello strumento in prossimità del fondo cecale, causando lesioni termiche. Raggiunta la base dell’appendice si dovrà procedere alla sua legatura. L’utilizzo dell’Endoloop in Vicryl è la soluzione più pratica e veloce. In alternativa, è possibile usare un filo di Vicryl e fare le legature intracorporee. È buona regola eseguire due legature: una sulla base e l’altra sul moncone, prima della sezione. Questo limita la contaminazione ed evita la fuoriuscita dell’eventuale coprolita (20-22). La sezione dell’appendice va fatta con le forbici e senza applicare energie, che potrebbero causare una necrosi della base e lo scivolamento della legatura o la immediata lesione del filo. Nel caso in cui la base dell’appendice fosse compromessa dal processo infiammatorio o


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necrotico, è possibile utilizzare una suturatrice meccanica. La sezione dovrà comprendere una parte del fondo del cieco, in modo da far “cadere” la sutura in tessuto sano e adeguatamente vascolarizzato. Sarà necessario, in questi casi, fare molta attenzione alla sede della valvola ileo-cecale ed essere certi di non comprenderla nella linea di sezione. È consigliabile, inoltre, asportare tutte le agrafe in eccesso cadute dalla suturatrice per non lasciarle libere in addome (23-31). Sezionata l’appendice conviene estrarla subito dall’addome utilizzando un endobag, per evitare contaminazioni. L’estrazione avviene attraverso il trocar ombelicale. Una volta estratta l’appendice, si reintroduce il trocar ombelicale e si procede all’accurata verifica dell’emostasi e, nei casi in cui la contaminazione sia importante, a un abbondante lavaggio. Bisogna prestare attenzione a lavare e aspirare tutto il liquido, anche in sede sottodiaframmatica destra, dove potrebbe essersi raccolto a causa della posizione di Trendelenburg. L’aspirazione del liquido va ripetuta anche dopo aver riportato il paziente in posizione “neutra”, azzerando il Trendelenburg e il tilt laterale. Uno dei vantaggi dell’appendicectomia video-laparoscopica è proprio la possibilità di lavare tutta la cavità addominale e portar via ogni residuo di liquido sporco/ infetto. Sappiamo bene che la stessa cosa non è possibile in chirurgia open, a meno di eseguire una laparotomia più o meno ampia. Come per la colecistectomia, non facciamo un uso routinario del drenaggio, ma ne valutiamo l’utilità caso per caso (32-34). Nell’eventualità lo ritenessimo utile, useremmo un drenaggio aspirativo, scanalato e in silicone introdotto dall’accesso del trocar sovrapubico (T3). L’intervento si conclude con l’estrazione dei trocar in visione diretta, per verificare eventuali sanguinamenti dagli accessi, la desufflazione completa dell’addome e la chiusura della fascia muscolare degli accessi da 12 mm con sutura intrecciata e ago 5/8. Per la cute utilizziamo un monofilamento non riassorbibile 3/0 o 4/0. Bibliografia 1. Jaschinski T, Mosch CG, et al. Laparoscopic versus open surgery for suspected appendicitis. Cochrane Database Syst Rev. 2018;11(11):CD001546; 2. Jaschinski T, Mosch CG, et al. Laparoscopic versus open appendectomy in patients with suspected appendicitis: a systematic review of meta-analyses of randomised controlled trials. BMC Gastroenterol. 2015;15:48; 3. Li X, Zhang J, et al. Laparoscopic versus conventional appendectomy – a meta-analysis of randomized controlled trials. BMC Gastroenterol. 2010;10:129; 4. Wei B, Qi C-L, et al. Laparoscopic versus open appendectomy for acute appendicitis: a meta-analysis. Surg Endosc. 2011;25(4):1199–208; 5. Polliand C, Bayeh PJ, et al. Faut-il opérer les appendicites aiguës par laparoscopique? J Coelio-Chir. 2004;51:17-23;


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Capitolo 17 Peculiari aspetti di base in chirurgia robotica Diletta Frazzini*, Valerio Caracino*, Massimo Basti** *Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale e d’Urgenza, Presidio Ospedaliero S. Spirito – ASL Pescara **Direttore, UOC Chirurgia Generale e d’Urgenza, Presidio Ospedaliero S. Spirito – ASL Pescara Introduzione Negli ultimi tre decenni la tecnologia robotica ha trovato sempre più largo impiego in ambito chirurgico, diffondendo la sua applicazione nelle varie branche chirurgiche. Il concetto di chirurgia mini-invasiva è stato introdotto nel 1987 quando fu realizzato il primo intervento di colecistectomia con tecnica laparoscopica. Da allora, il numero di procedure chirurgiche eseguite con questa tecnica è cresciuto esponenzialmente, consentendo un sempre maggiore sviluppo delle tecnologie e delle skill chirurgiche laparoscopiche (1). I vantaggi dell’approccio mini-invasivo rispetto all’open sono stati validati dalla letteratura internazionale tramite numerosi trial multicentrici randomizzati, dimostrandone i vantaggi clinici, come la riduzione del dolore e della degenza ospedaliera, le incisioni più piccole con minor rischio di infezione e di laparoceli, una più rapida ripresa delle normali attività e migliori risultati estetici, a fronte di un outcome oncologicamente sovrapponibile all’open, come dimostrato dai risultati del CLASICC trial effettuato nel Regno Unito e completato nel 2002 (2-3). La tecnica laparoscopica ha, però, dei limiti legati alla rigidità degli strumenti e alla perdita del feedback tattile, cosicché l’esposizione, la tensione e la dissezione avvengono attraverso strumenti lunghi, rigidi e non articolabili; i movimenti sono limitati a causa dell’effetto fulcro, i tremori fisiologici sono trasmessi e amplificati; l’ergonomia del chirurgo non è ottimale. Tutto ciò rende in laparoscopia le dissezioni più delicate e l’esecuzione dell’intervento più complessa, sebbene fattibili (4). Lo sviluppo della tecnologia robotica intende superare le limitazioni delle tecnologie laparoscopiche ed estendere i vantaggi della chirurgia mini-invasiva. Questo capitolo illustra i concetti di base della tecnologia robotica, per un primo approccio al sistema da Vinci per il giovane chirurgo, soffermandosi sulle fasi iniziali della procedura robotica che più spesso lo vedono protagonista e rimandando a ulteriori approfondimenti per quanto concerne le singole procedure chirurgiche robotiche.


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Cenni storici Il primo sistema robotico fu introdotto nel 1985, il PUMA 560, utilizzato da Kwoh YS, et al. per eseguire biopsie cerebrali TC-guidate; a seguire Davis B, et al. lo utilizzarono per le resezioni prostatiche transuretrali. Sulla scorta di questa esperienza, venne sviluppato il PROBOT, un robot progettato specificatamente per la chirurgia prostatica e nei primi anni ’90 il ROBODOC, Integrated Surgical Supplies Ltd., Sacramento, CA, fu sviluppato per fresare nel femore i raccordi di protesi d’anca in maniera precisa e fu il primo robot chirurgico approvato dall’FDA. I primi sistemi per la chirurgia video-assistita furono commercializzati solo nei primi anni 2000, lo Zeus, Computer Motion Inc., Santa Barbara, CA, e la prima versione del da Vinci, Intuitive Surgical Inc., Mountain View, CA. Quest’ultimo fu sviluppato a partire dal sistema chirurgico robotico di telepresenza, progettato dal team NASA-Stanford Research Institute (SRI) e nominato da Vinci in onore di Leonardo da Vinci, pioniere del concetto di robotica e profondo conoscitore dell’anatomia (5-6). Le piattaforme attualmente presenti sul mercato italiano sono il da Vinci e il Telelap Alf-X system, TransEnterix, quest’ultimo utilizzato per lo più in campo ginecologico. Gli altri sistemi robotici a oggi presenti non sono video-assistiti e trovano applicazione in chirurgie specialistiche, come l’ortopedia e l’urologia, e alcuni sono utilizzati come supporto alla video-endoscopia. Questo capitolo prenderà in analisi la tecnologia robotica e la sua applicazione, focalizzandosi sul sistema da Vinci poiché rappresenta quella oggi più utilizzata a livello nazionale e internazionale. L’Intuitive Surgical Inc. ha introdotto negli anni, a partire dal 1998, piattaforme sempre più evolute (Tabella 1). ANNO COMMERCIALIZZAZIONE

MODELLO

CARATTERISTICHE

1998

daVinci® Standard

Introduzione della prima piattaforma

2000

daVinci® Standard

Questa piattaforma si caratterizza per la disponibilità di quattro bracci robotici

2004

daVinci® S

Controllo per gli strumenti di endoscopia

2006

daVinci® S-HD

Visione 3D HD (720P) Setup semplificato Display touch screen interattivo Sistema Tile Pro (multi input display)


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Peculiari aspetti di base in chirurgia robotica

ANNO COMMERCIALIZZAZIONE

MODELLO

2009

daVinci® Si

CARATTERISTICHE Visione 3D HD (1080i) Sistema per l’acquisizione delle immagini a fluorescenza Single-Site (possibilità di intervenire sul paziente attraverso un singolo accesso) Doppia console

2013

daVinci® Si-e (IS3000-e)

Sistema a tre braccia (upgradabile a quattro)

2014

daVinci® Xi

Quattro braccia intercambiabili Ottica più maneggevole Docking ottimizzato Sistema elettrochirurgico integrato Chirurgia multiquadrante Sistema di puntamento laser Feedback visivi per la visualizzazione degli strumenti

Questi sistemi permettono movimenti nel campo operatorio con più gradi di libertà e consentono manovre più complesse, grazie all’utilizzo di strumenti EndoWrist, che consentono rotazioni con ampiezza maggiore rispetto al polso del chirurgo e una maggiore precisione grazie a sistemi di filtraggio del tremore fisiologico. Il chirurgo ha la possibilità di controllare il terzo braccio, che equivale allo strumento dell’assistente in laparoscopia, e la telecamera, con visione 3D ad alta definizione. Inoltre la piattaforma robotica dispone della possibilità di utilizzo di una doppia console, permettendo la formazione, la supervisione e la collaborazione tra due chirurghi durante il medesimo intervento.


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Fondamentali in Chirurgia

Piattaforma robotica da Vinci Il sistema robotico da Vinci è costituito da tre componenti principali: la console chirurgica, il carrello paziente e il carrello visione. La console chirurgica (Figura 1) rappresenta il centro di controllo del sistema da Vinci, posizionata esternamente al campo sterile, attraverso cui il chirurgo controlla l’endoscopio e gli strumenti EndoWrist utilizzando due manipolatori e una pedaliera e osservando il campo operatorio attraverso un visore immersivo in HD-3D. In questo sistema le punte dello strumento si allineano alle mani del chirurgo, simulando il naturale allineamento occhi-mano-strumento tipico della chirurgia open, ma con approccio mini-invasivo. La posizione della console, che il chirurgo utilizza per operare, è al di fuori del campo sterile e garantisce l’allineamento occhi-mani tramite opportuno posizionamento di manipolatori e oculari. Il chirurgo appoggia gli avambracci sulla console scaricando quindi il peso degli stessi, inserisce la testa in un apposito vano appoggiando la fronte e direzionando lo sguardo nei due oculari posti al centro del vano stesso. Infila quindi le dita delle mani, indice e pollice, in appositi strumenti, il cui modulo di controllo trasforma il segnale da meccanico in elettrico dopo averlo filtrato, scalato e lo trasmette tramite appositi attuatori ai bracci meccanici. Il segnale viene trasformato in maniera quasi istantanea, facendo in modo che non si apprezzi ritardo tra il movimento meccanico e il movimento del braccio.

Figura 1 – La console chirurgica

La console risulta dunque composta da: – manipolatori o master: controllano la movimentazione dei bracci per gli strumenti laparoscopici e consentono di gestire il braccio centrale, che sostiene e posiziona il video-endoscopio (Figura 2);


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Figura 2 – Master controller del da Vinci®

– sistema di visualizzazione 3D-HD (InSite® Vision System) e visore stereo: tale sistema richiede che venga utilizzato il video-endoscopio appositamente sviluppato dalla Intuitive Surgical Inc. (Figura 3).

Figura 3 – Visore stereo del da Vinci®

Alcune delle principali caratteristiche del sistema visivo da Vinci: – risoluzione High Definition (HD): le telecamere hanno una risoluzione di 1080i nativa (1920 × 1080); – campo di visione ampio (16:9) proprio dello standard HD: consente di avere una visione periferica più ampia del campo operatorio; – zoom digitale: fornisce 7 livelli di ingrandimento senza alcuna necessità di movimento dell’endoscopio; è controllato dai manipolatori master e visualizzato sulla finestra di navigazione unitamente al livello di ingrandimento attivo. Tale caratteristica consente di posizionare in modo ottimale l’endoscopio sul campo operatorio, riducendo l’eventuale interferenza tra l’endoscopio stesso e la strumentazione chirurgica;


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– comandi e indicatori: le funzioni del sistema da Vinci vengono attivate tramite pulsanti e interruttori a pedali. Quelle che vengono usate durante una procedura, ma non durante l’intervento vero e proprio, si trovano sul bracciolo; le funzioni alle quali il chirurgo deve accedere durante l’intervento sono invece poste sugli interruttori a pedale della console. I comandi posti ai pedali sono principalmente quattro nel da Vinci Xi HD system: – pedale telecamera e pedale clutch sulla sinistra; – pedale taglio e pedale coagulazione sulla destra. Il pedale clutch, se premuto leggermente, consente di passare uno dei due master al controllo del terzo braccio robotico. Per ritornare alla situazione iniziale è sufficiente ripremere il pulsante. Il vantaggio principale è legato alla possibilità di utilizzare due braccia robotiche con un unico master. Una pressione completa del pulsante clutch, invece, consente di sganciare le braccia robotiche dal controllo dei master, in modo tale da consentire il corretto riposizionamento dei manipolatori all’interno dell’area di lavoro. Il sistema Xi è dotato di pulsanti clutch anche sui master così da potere riposizionare ogni manipolatore in maniera indipendente. La completa pressione del pedale telecamera consente di svincolare i comandi master dai bracci strumenti e di prendere il comando dell’endoscopio, potendo così muovere e ruotare la visione verso l’area di interesse. All’interno del visore stereo si trovano dei sensori infrarossi che attivano gli strumenti chirurgici solo quando la testa del chirurgo si trova in posizione. Questo meccanismo di sicurezza previene un accidentale movimento dei manipolatori. Alla console il chirurgo può passare dalla vista a schermo intero a una modalità a più immagini (visualizzazione TilePro), che mostra l’immagine 3D del campo operatorio affiancata da immagini fornite da ingressi ausiliari, come l’ecografo; può anche mutare la visione dalla modalità Normale, luce visibile, alla modalità Firefly, luce infrarosso, la quale permette la visualizzazione di immagini ad alta risoluzione del flusso vascolare e microvascolare, dei tessuti e della perfusione degli organi, ottenute mediante la somministrazione al paziente di un mezzo di contrasto, il verde indocianina (ICG). Il carrello visione (Figura 4) rappresenta il centro di raccolta ed elaborazione dei dati e contiene l’attrezzatura video e il generatore per le attrezzature chirurgiche ausiliarie opzionali, come le energie mono e bipolari e gli insufflatori. Comprende un monitor touchscreen 24”. Il sistema di visione utilizza un endoscopio da 8mm, a 0° o a 30°, con 3D integrato. L’illuminazione viene instradata attraverso l’asta dell’endoscopio mediante cavi a fibra ottica e quindi proiettata sul sito chirurgico; l’immagine video viene catturata dall’endoscopio e ritrasmessa alla testa della videocamera attraverso i canali sinistro e destro dell’endoscopio stesso fornendo, tramite la loro integrazione, l’immagine 3D.


Peculiari aspetti di base in chirurgia robotica

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Figura 4 – Il carrello visione

Il carrello paziente (Figura 5) è il componente operativo del sistema da Vinci. Collocato vicino al tavolo operatorio, funge da interfaccia per la gestione degli strumenti chirurgici e la telecamera. È composto da quattro braccia, nell’ultima versione da Vinci Xi, ha un’altezza regolabile in base alla posizione del tavolo operatorio, con la possibilità di ruotare attorno a esso in base al targeting, e dispone di un microfono integrato per la comunicazione tra assistente al tavolo operatorio e operatore alla console.

Figura 5 – Il carrello paziente

Il sistema da Vinci è stato concepito secondo un principio antropomorfico, pertanto le capacità di movimento del sistema sono state disegnate per mimare quelle umane e, anzi, superarle. Gli strumenti progettati secondo la tecnologia EndoWrist vengono inseriti nella cavità addominale attraverso le braccia robotiche una volta che il carrello paziente è stato collegato tramite l’aggancio di queste ai trocar e solo dopo l’esecuzione del targeting. Gli strumenti EndoWrist, dotati di un polso che fornisce loro la capacità di movimento su sette assi e di rotazione quasi di 360°, sono controllati attraverso movimenti intuitivi dei polpastrelli esercitati sui due manipolatori della console, permettendo un ridimensionamento del movimento stesso, motion scaling, e una riduzione del tremore. Le parti essenziali di uno strumento EndoWrist sono: – Asta principale di diverso calibro: 5 mm vs 8 mm; – Snodo principale; – Ampia gamma di punte dello strumento.


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Lo snodo principale negli strumenti da 8 mm possiede un’articolazione angolare, angled joint, che consente una rotazione più agevole, mentre quelli da 5 mm sono dotati di un’articolazione a serpente, snake joint, che simula in maniera più fluida i movimenti del polso umano (Figura 6).

Figura 6 – Snake joint e angled joint

Gli strumenti EndoWrist devono essere fissati sui bracci-strumento e sono intercambiabili nel corso della procedura chirurgica; sono riutilizzabili, quindi sterilizzabili solo per un numero di procedure ben determinato e variabile da strumento a strumento. Training L’ampia diffusione delle procedure assistite dal robot ha reso necessario lo sviluppo di adeguati sistemi di training. Questo momento formativo viene realizzato attraverso diverse metodiche, non esistendo al momento attuale un percorso standard per la formazione dei nuovi chirurghi robotici. Si ritiene che la formazione del chirurgo robotico debba essere un processo graduale, anche per chirurghi già esperti nella chirurgia mini-invasiva. Il primo step, fondamentale e alla base della chirurgia robot-assistita, è la comprensione del ruolo del sistema da Vinci nel rapporto medico-paziente. Esso può essere concepito come un’interfaccia tra il paziente e il chirurgo: il sistema da Vinci è uno strumento nelle mani del chirurgo che lo abilita a eseguire azioni e in generale procedure estremamente complesse, in maniera semplificata. In virtù di ciò, il chirurgo deve avere una profonda conoscenza delle componenti del sistema da Vinci, delle sue possibilità e dei suoi limiti (7). Il secondo step è l’utilizzo di simulatori di realtà virtuale. Ad oggi sono disponibili diversi sistemi di simulazione, di cui i due principali sono: – Mimic dV Trainer (MdVT) prodotto dalla Mimic Technologies Inc.; – da Vinci Skill Simulator (dVSS) prodotto dalla Intuitive Surgical Inc. Essi consentono al chirurgo di sviluppare le principali abilità necessarie a utilizzare il robot chirurgico. Sfortunatamente non tutti possono permet-


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tersi questa tecnologia in quanto i costi del simulatore sono elevati. Inoltre è necessario avere a disposizione un robot da Vinci libero da altre attività. Il terzo step è caratterizzato dalle attività di laboratorio. Essenzialmente possiamo dividere le attività in: – Dry laboratory: esecuzione di tecniche di base, acquisite durante la simulazione, su modelli non viventi, come ad esempio suture di tessuti, di vasi, applicazione di energia. Le situazioni riprodotte potranno essere svariate e in funzione del settore d’interesse del chirurgo; – Animal laboratory: esecuzione di procedure, interventi su animali; – Cadaveric laboratory: esecuzione di procedure su cadaveri umani, poco utilizzato. Il quarto step si realizza dall’inizio della formazione del chirurgo robotico, poiché consiste nella fase di osservazione di interventi e nella fase di esecuzione di interventi. L’osservazione, benché possa essere considerata un’attività passiva, è mirata a insegnare i passaggi fondamentali che portano all’esecuzione dell’intervento vero e proprio, compresa la fase post-operatoria. Il chirurgo deve imparare il significato di ogni singola azione compiuta in sala operatoria e saperla riprodurre: – accensione e collegamento del robot; – set-up della sala operatoria e del robot; – ruolo dell’assistente chirurgo, patient side training; – principi dello spostamento del robot nel campo operatorio; – rimozione del robot. L’esecuzione dell’intervento chirurgico è la fase finale del training formativo e l’inizio della curva di apprendimento nelle diverse procedure. Nel complesso il quarto step viene definito dagli Anglosassoni come proctoring. Il proctor è il chirurgo robotico esperto che ha seguito il percorso formativo del giovane chirurgo robotico, svolgendo attività di insegnamento e valutando le abilità acquisite. Il concetto di proctoring è stato integrato con uno dei principi alla base della chirurgia robot-assistita, telesurgery, portando a un’ulteriore evoluzione: il telementoring. Esso è stato reso possibile dall’implementazione del sistema da Vinci di una connessione di rete, che consente di visualizzare le immagini proiettate sullo schermo video del carrello visione su computer posti a distanza. La diretta conseguenza è la possibilità, durante un intervento, di coinvolgere un chirurgo robotico considerato esperto in un settore, proctor, il quale visualizzando le immagini sul proprio schermo può dispensare consigli utili da seguire. In quest’ottica il telementoring rappresenta non solo un prezioso e valido aiuto non realizzabile con altri mezzi, ma consente una formazione continua del chirurgo robotico da parte di esperti del settore. Lo sviluppo di un programma di chirurgia robotica mini-invasiva richiede l’addestramento completo di una équipe di sala operatoria, cioè di tutte le figure professionali che collaborano attivamente per la gestione delle procedure eseguite con il robot:


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chirurgo operatore; chirurghi assistenti; anestesista-rianimatore; infermiere strumentista; infermiere circolante; responsabile di sterilizzazione

Setup del sistema robotico da Vinci Xi L’utilizzo della piattaforma robotica necessita del corretto posizionamento delle varie componenti del sistema, al fine di permettere il corretto svolgimento della procedura chirurgica, minimizzando il contrasto esterno tra le braccia robotiche durante i movimenti e quello interno degli strumenti. Il primo passo è quello di identificare il quadrante anatomico di interesse, considerando come target non la sola patologia, ma l’intera area di lavoro durante l’intervento. Pertanto bisogna considerare che, se un intervento coinvolge nella sua esecuzione più di due quadranti anatomici, sarà bene prendere in considerazione la necessità di eseguire una double-docking technique. Posizionamento dei trocar Il primo trocar a essere posizionato è il trocar da 8mm per l’endoscopio; questo deve essere posizionato a 10-12 cm frontalmente all’area di lavoro. Solo successivamente verranno posizionati gli altri 3 trocar robotici ed eventualmente un trocar accessorio, che potrà essere utilizzato dall’assistente al tavolo operatorio. Questi verranno posizionati a una distanza di circa 8 cm l’uno dall’altro lungo una linea immaginaria perpendicolare al target anatomico. Il trocar accessorio dovrebbe essere posizionato ad almeno 7 cm, lateralmente rispetto ai trocar robotici. Nel sistema robotico Da Vinci Xi è fondamentale che i trocar vengano posti lungo una linea retta perpendicolare al target e a una distanza tra loro di 6-10 cm e ad almeno 2 cm dalle prominenze ossee, in modo tale da evitare il fighting tra le braccia robotiche o pressioni pericolose sulle strutture ossee del paziente (Figura 7).


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Figura 7 – Posizionamento dei trocar

Docking Il primo step è impostare sul carrello paziente, ancora distante dal tavolo operatorio, la regione anatomica di interesse e la posizione che il carrello avrà rispetto al paziente, in base alle quali il boma e le braccia robotiche si disporranno automaticamente, nell’assetto più appropriato per la posizione di partenza. Il carrello paziente viene quindi avvicinato al tavolo operatorio, al quale sarà già stata data l’adeguata angolazione necessaria per la corretta esposizione del campo operatorio. Il carrello verrà avvicinato fintanto che il puntatore laser non centrerà il trocar dell’endoscopio (Figura 8). A questo punto il solo braccio per l’endoscopio verrà collegato al rispettivo trocar.

Figura 8 – Docking


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Targeting La fase di targeting consiste nell’identificare l’area di lavoro e permettere il corretto posizionamento del boma e delle braccia robotiche. Una volta individuata, sarà sufficiente premere il tasto di targeting sull’endoscopio e le braccia robotiche si disporranno automaticamente nella posizione corretta. Si potranno allora collegare le restanti braccia ai rispettivi trocar (Figura 9). Prima di inserire gli strumenti, è bene accertarsi della corretta distanza tra le braccia tali da non entrare in contrasto e delle stesse con il corpo del paziente.

Figura 9 – Targeting

Inserimento degli strumenti Gli strumenti vengono inseriti dall’aiuto al tavolo operatorio, sotto visione e dopo aver disattivato i comandi della console. L’inserimento degli strumenti è facilitato da un sistema GPS, che mostra sullo schermo del carrello visione la posizione dello strumento quando questo è ancora al di fuori del campo visivo dell’endoscopio. Una volta che tutti gli strumenti saranno stati inseriti e posizionati all’interno del campo visivo, il controllo degli stessi verrà restituito alla console e dunque all’operatore. Vantaggi e svantaggi della chirurgia robotica La tecnologia robotica ha permesso di superare i limiti della tecnica laparoscopica, nell’ambito di un approccio mini-invasivo, fornendo oggettivi vantaggi tecnici all’operatore e sempre più evidenti vantaggi clinici per il paziente.


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Vantaggi tecnici e clinici La tecnologia robotica offre una soluzione alle limitazioni ergonomiche e visive dei sistemi di laparoscopia, grazie alla libertà di movimento della strumentazione EndoWrist, che permettono un’elevata precisione del movimento tramite il filtraggio del tremore e il motion scaling. Questo rende il sistema robotico ideale nell’esecuzione di procedure ripetitive, come le suture, o di elevata precisione, come la dissezione linfonodale grazie all’estrema stabilità, alla libertà di movimento e alla visualizzazione più dettagliata delle strutture anatomiche. Questo dato si traduce in una più semplice esecuzione e riproducibilità di fasi complesse come il confezionamento di anastomosi intracorporee e linfectomie (15). Un interessante aspetto della chirurgia robot-assistita, rispetto alla chirurgia laparoscopica, è rappresentato dal minor numero di casi da realizzare per completare la learning curve. Nel caso di un intervento complesso come la gastrectomia, per esempio, è stato dimostrato che sono necessari almeno 40-50 casi di gastrectomie laparoscopiche per completare la fase della learning curve (8-9). Nello studio di Park et al. (10) è stato riportato che, per chirurghi esperti in laparoscopia, sia sufficiente un numero di 10 casi per raggiungere la fase di stabilizzazione dei tempi operatori nella gastrectomia distale robotica. In particolare è stato messo in evidenza che i chirurghi che hanno completato la learning curve della gastrectomia laparoscopica presentano i tempi di stabilizzazione più rapidi e maggior riduzione dei tempi operatori in chirurgia robotica; per un probabile più rapido adattamento alla chirurgia robotica dovuto alle caratteristiche simili della chirurgia laparoscopica. In particolare, è stato riscontrato che, differentemente dalla chirurgia laparoscopica, non esiste un punto di cut-off dove si evidenzia una riduzione significativa delle complicanze post-operatorie (1112). Questo significa che la chirurgia robotica viene eseguita con successo e con rapido adattamento dell’operatore, per quanto riguarda gli outcome, sin dal periodo iniziale della learning curve. Questo si traduce nella possibilità di maggiore diffusione dell’applicazione della tecnica mini-invasiva, soprattutto per quelle patologie che, pur presentando una bassa incidenza in determinate aree geografiche, si avvantaggiano fortemente con un approccio mini-invasivo (13-14). I vantaggi per il paziente sono sovrapponibili a quelli già noti per la tecnica laparoscopica che vedono, nella ridotta invasività e minor manipolazione dei tessuti, il principio cardine della chirurgia mini-invasiva. Rispetto però alla laparoscopia, in numerosi studi comparativi comprendenti studi clinici randomizzati e di coorte prospettici, è stata messa in evidenza una riduzione delle perdite ematiche e del dolore, che si accompagna a una più rapida ripresa della mobilizzazione e della canalizzazione e, dunque, a una minore degenza ospedaliera (18). Come affermano Wall et al. [16] il confezionamento dell’anastomosi extra-corporea determina una riduzione significativa


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dei vantaggi della mini-invasività e conseguentemente degli outcome intra e post-operatori. Ne consegue che l’utilizzo di un sistema ad alta tecnologia, come quello robotico, che abilita il chirurgo ad eseguire in mini-invasiva gesti tecnici che risulterebbero più complessi in laparoscopia, come ad esempio anastomosi intracorporee e linfectomie estese, rappresenta un evidente beneficio per il paziente. Svantaggi Un limite alla diffusione delle piattaforme robotiche è attualmente determinato dai costi più elevati, rispetto alla laparoscopia, legati all’acquisizione e alla manutenzione delle piattaforme robotiche e dai tempi operatori più lunghi, che implicano un’occupazione delle sale operatorie maggiore. Valutando questi parametri si rende necessaria la realizzazione di un adeguato volume di attività robotica che garantisca un uso efficiente delle risorse e una continuità nella curva di apprendimento, abbattendo così i tempi operatori e permettendo quindi un maggior numero di interventi e, soprattutto, riducendo le complicanze, apportando beneficio clinico al paziente e riducendo i costi di gestione e di degenza (17). Bibliografia 1. Jones SB, Jones DB. Surgical aspect and future developments in laparoscopy. Anesthiol Clin North Am. 2001;19:107-124 2. Kim VB, Chapman WH, Albrecht RJ, et al. Early experience with telemanipulative robot-assisted laparoscopic cholecystectomy using Da Vinci. Surg Laparosc Endosc Percutan Tech. 2002;12:34-40 3. Fuchs KH. Minimally invasive surgery. Endoscopy. 2002;34:154-159 4. Prasad SM, Ducko CT, Stephenson ER, et al. Prospective clinical trial of robotically assisted endoscopic coronary grafting with 1 year follow-up. Ann Surg 2001;233:725-732 5. Satava RM. Surgical robotics: the early chronicles: a personal historical perspective. Surg Laparosc Endosc Percutan Tech 2002; 12: 6-6 6. Felger JE, Nifong L. The evolution of and early experience with robot assisted mitral valve surgery. Surg Laparosc Endosc Percutan Tech 2002; 12:58-63 7. Sridhar AN, Briggs TP, Kelly JD, Nathan S. Training in Robotic Surgery – an Overview. Current Urology Reports, vol. 18, no. 58, pp.1-8, June 2017. 8. Jin SH, Kim DY, Kim H, Jeong IH, Kim MW, Cho YK, Han SU. Multidimensional learning curve in laparoscopy-assisted gastrectomy for early gastric cancer. Surg. Endosc., vol. 21, no. 1, pp. 28-33, Jan. 2007. 9. Kim MC, Jung GJ, Kim HH. Learning curve of laparoscopy-assisted distal gastrectomy with systemic lymphadenectomy for early gastric cancer. World J. Gastroenterol., vol. 11, no. 47, pp. 7508-7511, Dec. 2005. 10. Park SS, Kim MC, Park MS, Hyung WJ. Rapid adaptation of robotic gastrectomy for gastric cancer by experienced laparoscopic surgeons. Surg. Endosc., vol. 26, no. 1, pp. 60-67, Jan. 2012


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11. An JY, Kim SM, Ahn S, Choi MG, Lee JH, Sohn TS, Bae JM, Kim S. Successful robotic gastrectomy does not require extensive laparoscopic experience. J. Gastric Cancer, vol. 18, no. 1, pp. 90-98, Mar. 2018. 12. Kim HI, Park MS, Song KJ, Woo Y, Hyung WJ. Rapid and safe learning of robotic gastrectomy for gastric cancer: multidimensional analysis in a comparison with laparoscopic gastrectomy. Eur. J. Surg. Oncol., vol. 40, no. 10, pp. 13461354, Oct. 2014. 13. Yamaguchi T, Kinugasa Y, Shiomi A, Sato S. Learning curve for robotic-assisted surgery for rectal cancer: use of the cumulative sum method. 2014. 14. Shaw DD, Wright M, et al. Robotic Colorectal Surgery Learning Curve and Case Complexity. J Laparoendosc Adv Surg Tech A. Oct;28(10):Full Report. 2018 15. Trastulli S, Coratti A, Guarino S, Piagnerelli R, Annecchiarico M, Coratti F. Robotic right colectomy with intracorporeal anastomosis in comparison with the laparoscopic approach with extracorporeal and intracorporeal anastomosis: a retrospective multicentre study. Surg Endosc. 2015; 29(6):1512–21 doi: 10.1007/ s00464-014-3835-9 PMID: 25303905 16. Wall J, Marescaux J. Robotic gastrectomy is safe and feasible, but real benefits remain elusive. Arch Surg, vol. 146, no. 9, Sept. 2011 17. Tyler JA, Fox JP, Desai MM, Perry WB, Glasgow SC. Outcomes and costs associated with robotic colectomy in the minimally invasive era. Dis Colon Rectum. 2013; 56(4):458–66. doi: 10.1097/DCR. 0b013e31827085ec PMID: 23478613 18. Park JS, Choi GS, Park SY, Kim HJ, Ryuk JP. Randomized clinical trial of robot-assisted versus stan- dard laparoscopic right colectomy. Br J Surg. 2012; 99(9):1219–26. doi: 10.1002/bjs.8841 PMID: 22864881



Capitolo 18 La chirurgia robotica Cristiano Huscher Professore Emerito di Chirurgia Direttore Chirurgia Oncologica Robotica e Nuove Tecnologie Clinica Cobellis, Vallo della Lucania Francesco Cobellis Università degli studi di Padova Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale Nel 1987 nasceva in Francia la chirurgia video-assistita con l’esecuzione della prima colecistectomia video-laparoscopica. A seguito nel 1991 venne pubblicata la prima colectomia video-assistita che apriva un’era nuova della chirurgia. Io stesso presentavo, già nel 1992, una prima serie di colectomie per cancro eseguite per via laparoscopica. Nel mondo chirurgico italiano e straniero questo nuovo approccio venne accolto con due diversi stati d’animo: il primo, quello dei piccoli ospedali e degli ospedali non accademici vedeva questo nuovo approccio come una opportunità di migliorare la tecnica chirurgica e nello stesso tempo di ridurre lo stress chirurgico dei pazienti; questo aveva due ripercussioni importanti: la riduzione del dolore postoperatorio e la durata della degenza ospedaliera; il secondo quello degli ospedali accademici che opponevano al diffondersi della tecnica motivi di ordine morale, come la mancanza di studi randomizzati o peggio ancora il rischio di sottoporre malati di tumore a tecniche incerte e nuove. La polemica fu aspra e chi, come me, si adoperò perché la tecnica si diffondesse dovette pagare uno scotto molto pesante; io personalmente sono stato oggetto di denunce (67) da parte di colleghi del mio ospedale e di Roma. Tuttavia la tecnica prese piede e negli anni che seguirono la tecnica laparoscopica conquistò il colon dx, il colon sin, il retto, lo stomaco e poi nel 1994 sempre io presentai alla Società Italiana di Chirurgia la prima resezione epatica per HCC su cirrosi. Si gridò nuovamente allo scandalo ma, nel frattempo, anche all’estero comparivano le prime segnalazioni di resezioni epatiche, polmonari e pancreatiche. Prendeva piede la tecnica video-assistita anche in altre specialità come la chirurgia endocrina (tiroidectomia eseguita per la prima volta in letteratura da me stesso), la chirurgia del reflusso esofageo, la chirurgia del cancro dell’esofago e da ultimo cadeva anche un mostro sacro quale la duodenocefalopancreasectomia, presentata sempre da me medesimo all’American College of Surgeons.


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Il problema L’approccio laparoscopico toglieva ai chirurghi la palpazione e aumentava la visione dei dettagli anatomici per cui imponeva ai chirurghi una maggiore preparazione nella conoscenza dell’anatomia e un maggiore rispetto delle regole di tecnica e di tattica chirurgica. Ne scaturiva un quadro sconcertante: i chirurghi bravi non erano solo negli ospedali accademici ma risiedevano e lavoravano spesso in piccoli ospedali di provincia. A ciò si aggiunga che nei convegni medici venivano chiamati a parlare colleghi di piccoli ospedali, non più come un tempo i Sacri Baroni; in più durante i convegni, venivano presentati interventi in “live” ove le capacità professionali di ciascuno venivano alla luce indipendentemente dalla importanza dell’ospedale di appartenenza. In buona sostanza la laparoscopia operava una vera selezione nella classe chirurgica italiana e straniera. Gli interventi sempre più difficili richiedevano manualità sempre più raffinate e conoscenze sempre più approfondite, tanto da suggerire l’uso di telemanipolatori o Robot. Nasceva cosi Zeus e poi da Vinci.

Storia della chirurgia robotica Il primo robot chirurgico messo a punto e funzionante con autorizzazione degli enti europei fu lo Zeus, originariamente sviluppato e prodotto dalla ditta statunitense COMPUTER MOTION. Il predecessore di tale sistema, chiamato AESOP, fu approvato dalla Food and Drug Administration nel


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1994 per assistere i chirurghi nella chirurgia mini-invasiva. Lo Zeus venne approvato dalla FDA sette anni, più tardi nel 2001. Zeus ha tre bracci robotizzati, controllati in remoto dal chirurgo. Il primo braccio, AESOP (Automated Endoscopic System for Optimal Positioning) è un endoscopio attivato dalla voce. Gli altri due bracci sono operativi ai movimenti delle mani del chirurgo. Il sistema Zeus non fu più prodotto a partire dal 2003, a seguito della fusione della società produttrice Computer Motion con la sua rivale INTUITIVE SURGICAL, con la quale iniziò una battaglia legale per i brevetti. Il sistema chirurgico da Vinci in onore a Leonardo da Vinci, fu messo a punto nella Silicon Valley dalla Intuitive Surgical e, nel 2000, ha ottenuto l’autorizzazione dalla FDA per l’utilizzo in chirurgia laparoscopica. Viene attualmente utilizzato per gli interventi che di seguito enumeriamo. In Italia sono attualmente funzionanti 111 da Vinci di cui 22 in Lombardia e circa 5000 in tutto il mondo. Recentemente è apparso sul mercato un nuovo Robot modulare il Versius della Cambridge Medical Robotics. Questo nuovo Robot presenta la caratteristica di essere utilizzato in modo ibrido durante alcuni tempi delle procedure chirurgiche laparoscopiche. Ho personale esperienza dell’uso di questa nuova macchina avendo eseguito in Italia gastrectomie, colectomie dx e sin, resezioni epatiche maggiori, miotomie esofagee etc. Tuttavia va chiaramente detto che il sistema più usato e con maggiore letteratura prodotta sul suo uso è il da Vinci di cui ricordiamo in breve le caratteristiche: Sviluppato sul concetto della “Immersive Intuitive Interface”, è l’unico sistema robotico che: – traduce i movimenti del chirurgo in modo intuitivo, consentendo un controllo completo della fibra ottica e dello strumentario, evitando i complessi movimenti laparoscopici; – permette una reale visione tridimensionale del campo operatorio: il chirurgo viene letteralmente «immerso», senza ausilio di occhiali o altre apparecchiature, così da valutare al meglio i piani di dissezione anatomici e «vivere» l’intervento chirurgico quasi dall’interno del corpo del paziente. Il sistema robotico da Vinci® Xi, inoltre: – consente una visione 3D con ingrandimento fino a 10 volte, assicurando una chiarezza e precisione dei dettagli, nettamente superiore alla tecnica laparoscopica; – elimina il tremore fisiologico delle mani del chirurgo o di movimenti involontari; – possiede quattro bracci robotici, interscambiabili, montati su un’unica colonna; – è compatibile con le altre tecnologie normalmente presenti nelle sale operatorie di tutto il mondo;


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– è dotato di un sistema di posizionamento tramite laser che permette di ottimizzare il posizionamento delle braccia in base al tipo di intervento selezionato e alla posizione dei trocar, per ridurre i tempi di preparazione e i tempi operatori; – utilizza strumenti con diametro da 8 mm a un massimo di 12 mm, chiamati Endowrist poichè consentono libertà di movimento su 7 assi (a differenza dei 4 gradi degli strumenti di laparoscopia convenzionale) e una rotazione di quasi 360°; – consente una chirurgia multiquadrante, ovvero di effettuare interventi più complessi agendo su organi posizionati in diversi quadranti anatomici, senza la necessità di prevedere spostamenti del paziente o del robot; – possiede una seconda console che permette a due chirurghi di collaborare durante la procedura, così da aumentare l’efficienza nella formazione e nella supervisione e ridurre la curva di apprendimento; – consente una fase di formazione ottimale: attraverso il simulatore virtuale, corsi di formazione e master in Italia e all’estero. L’operatore migliora l’apprendimento nell’utilizzo del sistema da Vinci. Cos’è la chirurgia robotica È una tecnica entrata in uso recentemente, anche in centri selezionati, e rappresenta un ulteriore passo nell’ambito della chirurgia mini-invasiva. Ha fondamentalmente le stesse indicazioni ma, al momento, è riservata a pazienti selezionati. Rispetto alla chirurgia video-assistita tradizionale presenta alcune differenze importanti. Il chirurgo è distante fisicamente dal campo operatorio e siede a una consolle dotata di un monitor dalla quale, attraverso un sistema complesso, comanda il movimento dei bracci robotici. A questi vengono fissati i vari ferri chirurgici: pinze, forbici, dissettori, che un’équipe presente al tavolo operatorio provvede a introdurre nella cavità sede dell’intervento. L’impiego dei bracci meccanici ha il vantaggio di consentire una visione tridimensionale con un’immagine più ferma e di rendere le manovre più delicate e fini, anche perché gli strumenti sono articolati all’estremità distale. Lo svantaggio è legato ai tempi operatori più lunghi e alla difficoltà di dosare la forza, come può accadere nel dare la giusta tensione ad un nodo chirurgico. Si può ipotizzare che la chirurgia robotica consentirà, con il futuro sviluppo delle esperienze, il diffondersi delle apparecchiature e il miglioramento dei sistemi di telecomunicazione e telematici, di operare a distanze sempre maggiori. Se si pensa che oggi, dai centri spaziali, è possibile azionare dei robot inviati sulla Luna o più lontano, non è difficile credere che diventerà usuale operare da una parte all’altra della Terra mettendo a disposizione di tutti le migliori e più specifiche professionalità. A Grosseto esiste una scuola di chirurgia robotica di eccellenza fondata dal Prof. Pier Cristoforo


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Giulianotti, nella quale si formano i chirurghi generali, gli urologi e i ginecologi provenienti dal territorio nazionale e internazionale. Grazie alla proficua collaborazione, l’Urologia di Grosseto, prima nel centro Italia, esegue prostatectomie radicali robotiche, nefrectomie parziali robotiche e cistectomie robotiche con confezionamento di neovescica ileale ortotopica, divenendo riferimento di chirurgia robotica urologica della Toscana. Un ruolo importante è riservato alla chirurgia robotica nel trattamento delle patologie mediastiniche e della Miastenia grave, spesso associata ad iperplasia timica, permettendo di ottenere percentuali di remissione completa di malattia pressoché sovrapponibili a quelle ottenute con un approcchio tradizionale a cielo aperto che prevede la sternotomia longitudinale mediana. Scopo della chirurgia robotica Scopo della chirurgia robotica è di migliorare il chirurgo nelle procedure difficili, questo avviene per varie ragioni: 1) Il chirurgo è comodamente seduto alla consolle; 2) Annulla il tremore delle mani presente in vario modo in tutti i chirurghi, specialmente dopo ore di lavoro; 3) Il campo operatorio è stabile: l’operatore sceglie dove indirizzare la telecamera e la tiene alla distanza ottimale; 4) I gradi di libertà consentono dissezioni fini; 5) Le suture sono molto facilitate; 6) I nodi intracorporei sono particolarmente facili da eseguire. Procedure robotiche di chirurgia generale 1) Emicolectomia dx con anastomosi manuale (Figura 1) o con stapler 2) Emicolectomia sin classica con legatura alta 3) Emicolectomia sin con conservazione della colica sin 4) TME con anastomosi sec Knight-Griffen 5) TA-TME 6) Resezione flessura splenica sec Okuda 7) Resezione del trasverso con anastomosi colo-colica manuale 8) Gastrectomia subtotale D2 sec BII o su ansa alla Roux 9) Gastrectomia totale D2 con esofagodigiunostomia manuale (Figura 1) 10) Splenectomia 11) Emisplenectomia 12) Splenopancresectomia distale 13) Pancreasectomia distale con preservazione dei vasi 14) Duodenocefalopancreasectomia con preservazione del piloro 15) Duodenocefalopancreasectomia classica 16) Pancresectomia totale 17) Esplorazione della via biliare principale con coledocorafia


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18) Anastomosi biliodigestiva 19) Esofagectomia transiatale 20) Esofagectomia Ivor Lewis, a paziente prono, con anastomosi manuale 21) Lobectomia sin 22) Epatectomia dx 23) Resezione epatica segmentaria 24) ALPPS

Figura 1 - Intervento di chirurgia robotica: anastomosi ileocolica dopo emicolectomia dx e esofagodigiunostomia dopo gastrectomia totale

Diffusione della chirurgia robotica in Italia Vorrei cominciare dicendo che, nonostante la grande varietà di procedure in chirurgia generale, i chirurghi generali sono stati preceduti dagli urologi che hanno adottato il robot per la prostatectomia radicale, la nefrectomia totale e la nefrectomia parziale con molta più lungimiranza della maggior parte dei chirurghi generali e toracici.


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Nella figura successiva è riassunto il lavoro dei chirurghi robotici degli ultimi anni:

Vantaggi della chirurgia robotica nei diversi interventi TME La chirurgia robotica è stata applicata in chirurgia generale soprattutto nei tumori del retto ove la tecnica robotica si è dimostrata utile nella TME per la stabilità delle immagini,nella visione dei piani tra fascia pelvica e fascia del mesoretto; in particolare risulta particolarmente utile nella preparazione della fascia di Denonvilliers per il rispetto delle benderelle di Walsh. Esofagectomia Ivor Lewis a paziente prono In questa procedura la tecnica robotica è particolarmente utile e sicura nella dissezione linfonodale mediastinica “en bloc” con l’esofago. Particolarmente sicuro è il rispetto del dotto toracico che può essere evidenziato con IGC. L’aspetto più interessante è tuttavia il controllo del tubulo gastrico con IGC in addome e in torace e l’esecuzione della anastomosi esofagogastrica manuale robotica che risulta particolarmente agevole, rispetto alla meccanica circolare o latero-laterale. Colectomia dx Il maggiore vantaggio è poter eseguire la resezione “down to up” se è nei desiderata del chirurgo. Secondo vantaggio è la più sicura esecuzione della CME e da ultimo la possibilità di eseguire una anastomosi completamente manuale e “taylored” 3-4 cm, con possibile riduzione dei leak e dei costi.


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Colectomia sin I vantaggi fino a ora riscontrati sono la possibilità della conservazione della colica sin o della tecnica di Valdoni con migliore vascolarizzazione e drenaggio venoso del moncone rettale dimostrato con IGC. Duodenocefalopancreasectomia È fuori discussione che la dissezione del tunnel portale così come l’“artery first” sono molto più agevoli con tecnica robotica. La riscostruzione è il vero trionfo di questa chirurgia nel tempo della anastomosi pancreatico-digiunale ove il vantaggio è nella apposizione dei punti e la esecuzione dei nodi. Anche l’anastomosi biliare risulta più agevole sia in continua che a punti staccati. Epatectomia dx La dissezione ilare primitiva con legatura della arteria epatica dx e della vena porta di dx è più agevole. Una volta posto il clampaggio di Pringle la apertura della linea colecisti cava eseguita con CUSA bipolare robotica e monopolare robotica risulta particolarmene agevole. La stabilità del campo consente una rapida identificazione dei piccoli vasi e dei dotti biliari. Eventuali sanguinamenti dalle sovraepatiche minori è facilmente controllabile con punti di seta. Pancreasectomia distale con risparmio dei vasi La robotica consente un agevole controllo delle collaterali della arteria splenica e della vena splenica con risparmio della milza. Gastrectomia totale Il vantaggio, poco discutibile, è la possibilità di eseguire l’anastomosi esofago-digiunale a mano, evitando quelle manovre della testina introdotta dalla bocca o peggio le anastomosi latero-laterali con lineare che hanno discreto “leak rate”. Considerazioni personali Ho utilizzato Zeus, da Vinci e Versius e posso affermare con assoluta certezza che attualmente il sistema di gran lunga più efficace e di facile apprendimento è il da Vinci. Vorrei ricordare solo alcune esperienze di questi ultimi anni: lo sviluppo delle suture cosi dette “manuali-robotiche” che eliminano le suturatrici meccaniche con i loro costi e i possibili “malfunzionamenti”. Abbiamo in corso di pubblicazione con il gruppo di Filadelfia di J. Marks 121 emicolectomie dx con ileo-colon anastomosi manuale robotica. Particolarmente interessante è la nostra esperienza di 43 esofagectomie Ivor Lewis a paziente prono senza leak.


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Questo per dire che la chirurgia robotica ci consente di riappropriarci delle suture intestinali e ci consente quindi di insegnarle ai giovani chirurghi. Quanti di noi si ricordano delle lamentele di tanti chirurghi che di fronte alla laparoscopia rimpiangevano i tempi delle suture a mano... Al sorgere della laparoscopia abbiamo gridato di attendere gli studi randomizzati per vedere se i risultati fossero sovrapponibili a quelli della chirurgia open, quanta stoltezza da parte di uomini con una laurea tanto prestigiosa: come potevamo attenderci risultati diversi da due interventi perfettamente sovrapponibili? E con un’unica differenza l’approccio una volta open ora laparoscopico. Non commettiamo lo stesso errore anche con la chirurgia robotica. Essa è identica a quella open e a quella laparoscopica, ma è eseguita meglio perché le braccia robotiche si muovono meglio e con più armonia delle braccia e delle mani umane.



Capitolo 19 ERAS in chirurgia colo-rettale Gianluca Guercioni*, Michele Benedetti*, Marco Catarci** *Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale – Ospedale C. e G. Mazzoni – Ascoli Piceno **Direttore UOC Chirurgia Generale – Ospedale Sandro Pertini ASL Rm 2 – Roma Introduzione Enhanced Recovery After Surgery (ERAS) è un protocollo basato su evidenze scientifiche costituito da una serie di interventi multimodali e multidisciplinari nei pazienti candidati a chirurgia maggiore; tale protocollo riguarda l’intera fase perioperatoria, dalla preammissione, alle fasi pre, intra e postoperatoria, e ha l’obiettivo di ridurre lo stress correlato all’intervento chirurgico (1), ridurre le complicanze, facilitare il recupero postoperatorio e ridurre la degenza (2). Il concetto di mitigare lo stress postoperatorio e potenziare la risposta del paziente all’insulto chirurgico si deve all’intuizione del chirurgo danese Henrik Kehlet, che per primo analizzò in modo critico la tradizionale gestione perioperatoria, per lo più basata su una serie di convinzioni apprese e trasmesse da Maestri e da libri (3). Kehlet teorizzò che la maggior parte di tali misure non erano supportate da evidenze di letteratura e dimostrò che modificare radicalmente la gestione perioperatoria superando i dogmi derivati dalla consuetudine portava a un decorso postoperatorio significativamente migliore. Mise a punto un protocollo, che chiamò Fast Track Surgery a sottolineare una chirurgia dalla ripresa più rapida, che si basava sull’evitare il digiuno preoperatorio, la preparazione meccanica intestinale e l’utilizzo di sondini e drenaggi e sul raccomandare la ripresa precoce della nutrizione orale, un ottimale controllo del dolore e una ripresa precoce dell’attività fisica. L’idea di fondare un gruppo di europeo chirurghi che recepisse, sviluppasse e diffondesse la nuova filosofia di una Fast Track Surgery si deve a Kenneth Fearon dell’Università di Edimburgo e a Olle Ljungqvist del Karolinska Institutet, durante un congresso sulla nutrizione perioperatoria che si tenne nel 2001 a Londra; nacque l’ERAS Study Group, composto, oltre che da Fearon e Ljundquist, da Henrik Kehlet, da Arthur Revhaug dell’Università di Tromsö, da Martin von Meyenfeldt e Cornelius de Jong, entrambi dell’Università di Maastricht (4). Basandosi sulle allora più recenti evidenze della letteratura misero a punto un protocollo di 20 item e nel 2005 pubblicarono le prime Linee Guida ERAS (5). Nel 2010 viene ufficialmente fondata la ERAS® Society, una società medica no profit con sede a Stoccolma. Il primo programma di imple-


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mentazione di ERAS® fu iniziato in Svezia presso l’ospedale universitario di Örebro. In Italia nel 2016 nasce la società denominata Peri Operative Italian Society (POIS), società senza scopo di lucro con sede a Roma con la finalità primaria della diffusione e promozione del concetto dell’ottimizzazione del percorso perioperatorio del paziente chirurgico. Gli item di ERAS Il protocollo ERAS è un approccio integrato e multidisciplinare che coinvolge in primo luogo il paziente, adeguatamente informato e preparato, e poi chirurghi, anestesisti, specialisti del dolore, personale infermieristico, nutrizionisti e dietisti, terapisti fisici e occupazionali, servizi sociali e amministrazione ospedaliera (4,6). Il concetto cardine che guida il protocollo ERAS è quello di ridurre l’impatto stressante che la chirurgia maggiore elettiva ha sul malato. Gli obiettivi sono la ripresa precoce dopo l’intervento e la riduzione del tasso di complicanze, il che si traduce anche in una degenza postoperatoria ridotta e in una riduzione di costi materiali e sociali. ERAS si basa, come già detto, su una serie di interventi, item, da attuare nelle 3 fasi pre, intra e postoperatoria; sia le linee guida dell’ERAS® Society del 2018 (7) che le linee guida congiunte POIS-ACOI del 2019 (8) puntualizzano i 25 item, divisi in 4 fasi: la fase di preammisione, la fase preoperatoria, la fase intraoperatoria, e quella postoperatoria (Figura 1, di seguito).

Fase di preammissione – Preammissione, informazione, educazione e counseling Il paziente e i suoi familiari hanno un incontro con il case manager e con i membri del team multidisciplinare e vengono adeguatamente informati sul percorso da intraprendere. L’informazione di per sé contribuisce alla riduzione dell’ansia del paziente e facilita la gestione del dolore postoperatorio. In un recente lavoro l’ansia è risultata, infatti, un fattore di rischio indipendente, associato al ritardo di dimissione dopo chirurgia colo-rettale e una meta-analisi del 2016 conferma che la preparazione psicologica del paziente può migliorare gli outcome postoperatori (9,10).


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– Ottimizzazione delle morbilità preoperatorie La definizione del rischio operatorio e l’ottimizzazione delle comorbilità mediche, quali quelle cardiovascolari, respiratorie, renali e metaboliche, ad esempio il diabete mellito, è un momento fondamentale della fase preoperatoria di ERAS e determina una riduzione delle complicanze postoperatorie (10). L’ottimizzazione delle comorbiltà comprende anche altre 2 attività che sono totalmente sotto il controllo del paziente: smettere di fumare (11) e astenersi dall’abuso alcolico (12). – Preabilitazione Uno stato fisico debilitato è un fattore di rischio per lo sviluppo di complicanze gravi postoperatorie. L’obiettivo della preabilitazione è incrementare la riserva fisiologica dell’organismo, in previsione dell’intervento chirurgico (13), come fa un atleta che si allena in vista di una prestazione sportiva agonistica. Anche in pazienti ad alto rischio (ASA III-IV, età maggiore di 70 anni) un programma personalizzato di preabilitazione può ridurre la morbilità postoperatoria dal 62 al 31% (14). – Nutrizione preoperatoria Uno stato di malnutrizione può essere presente fino al 50% dei pazienti candidati a chirurgia elettiva per neoplasia colo-rettale ed è significativamente associato a incremento di complicanze postoperatorie maggiori (15,16). Anche l’eccesso ponderale, BMI > 30, è un fattore di rischio per complicanze postoperatorie. È di fondamentale importanza eseguire test di screening nutrizionali preoperatori, sia per il riconoscimento della malnutrizione che va trattata con supporto nutrizionale orale o parenterale per 7-10 giorni e fino a 14 giorni nei casi di malnutrizione grave (17), sia per la diagnosi di sovrappeso e obesità che vanno trattati con regimi dietetici restrittivi. In ogni caso, a prescindere dallo stato nutrizionale, la somministrazione della cosiddetta immunonutrizione, ossia preparati stimolanti la risposta immunitaria, è raccomandata per 5-7 giorni prima dell’intervento chirurgico poiché è in grado di ridurre significativamente l’incidenza di complicanze infettive (18,19). – Correzione dell’anemia I pazienti da sottoporre a chirurgia colo-rettale possono avere diverse cause di anemia per: perdita di sangue acuta e cronica o deficit di vitamina B12 e di folati o malattie croniche. L’anemia è un ben noto fattore di rischio per lo sviluppo di complicanze postoperatorie e di mortalità (20,21); la correzione preoperatoria dell’anemia è pertanto cruciale. le trasfusioni preoperatorie, tuttavia, sono correlate a complicanze e mortalità (22) per cui ERAS raccomanda la correzione dell’anemia mediante somministrazione di preparati a base di ferro per via endovenosa, poiché le più recenti preparazioni in commercio hanno modesti effetti collaterali e sono più efficaci della somministrazione di ferro per via orale.


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Fase preoperatoria – Prevenzione nausea e vomito postoperatori Nausea e vomito postoperatori sono comuni nei pazienti dopo chirurgia elettiva colo-rettale, dal 30 al 50%, e spesso determinano disidratazione, ritardo nella rialimentazione orale e richiedono il posizionamento di un sondino naso gastrico (23,24). La prevenzione di nausea e vomito è pertanto cruciale ed ERAS raccomanda l’utilizzo di anestesia endovenosa, una gestione del dolore postoperatorio senza oppioidi e una profilassi mediante somministrazione di farmaci antiemetici al termine dell’anestesia. – Premedicazione Il distress psicologico legato all’ansia dell’intervento può incrementare il bisogno di analgesici perioperatori (25,26); d’altra parte l’effetto collaterale di alcuni farmaci utilizzati in premedicazione come le benzodiazepine, gli oppioidi e i beta-bloccanti ne possono limitare l’utilizzo, poiché contrastano la ripresa precoce delle attività quotidiane e delle funzioni gastrointestinali (27). Pertanto la premedicazione dovrebbe essere evitata e l’ansia dovrebbe essere gestita con il colloquio preoperatorio. – Profilassi antibiotica e preparazione della cute Una corretta antibioticoprofilassi endovenosa all’induzione dell’anestesia, con ulteriori dosi intraoperatorie ogni 2 ore, è in grado di ridurre le infezioni del sito chirurgico dal 39 al 13%, per cui è fortemente raccomandata (28). Per quanto riguarda la preparazione cutanea le più recenti evidenze di letteratura suggeriscono che l’antisepsi cutanea con clorexidina sia la più efficace (29,30). – Preparazione intestinale La preparazione intestinale meccanica rimane un tema ancora molto controverso. Diverse meta-analisi dimostrano che la preparazione intestinale meccanica in chirurgia colo-rettale non si correla con un miglioramento delle complicanze, in particolare con una ridotta incidenza di deiscenze anastomotiche postoperatorie, di infezioni di ferita e ascessi addominali, né con una ridotta mortalità (31). Inoltre, la preparazione meccanica può determinare disidratazione, disturbi idro-elettrolitici e discomfort per il paziente. Tuttavia le recenti Linee Guida SAGES (32) raccomandano la combinazione di preparazione meccanica e di somministrazione endovenosa di antibiotici, sulla scorta di studi osservazionali condotti su grandi numeri di pazienti e sui risultati di una meta-analisi di Chen et al. del 2016 (33). Anche successivi studi osservazionali su grandi numeri di pazienti (34) dimostrano come la preparazione intestinale meccanica non migliori l’outcome postoperatorio in termini di minori complicanze. ERAS, quindi, sconsiglia la preparazione meccanica in caso di chirurgia colica, riservandola ai casi di chirurgia rettale, se si preveda o meno di eseguire una stomia derivativa di protezione.


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– Digiuno e carico di maltodestrine Il dogma del digiuno dalla mezzanotte prima di qualsiasi intervento chirurgico derivava dall’osservazione di casi di polmonite ab ingestis all’induzione dell’anestesia, alcuni dei quali mortali. Il digiuno ha numerosi effetti negativi sull’organismo, quali incremento degli ormoni dello stress, incremento dell’insulino-resistenza, che si correla significativamente con un incremento di complicanze e di degenza postoperatorie, e crea discomfort. Sulla base di studi successivi sui tempi di svuotamento gastrico, ERAS raccomanda di evitare il digiuno preoperatorio prolungato e di assumere “liquidi chiari” fino a 2 ore prima dell’anestesia e di assumere cibi solidi fino a 8 ore prima (35,36). È stato inoltre dimostrato che un carico preoperatorio di maltodestrine è in grado di attenuare la risposta catabolica perioperatoria, ridurre la insulino-resistenza, contrastare la proteolisi stress-indotta, oltre che migliorare il benessere postoperatorio (37,38). Pertanto, ERAS raccomanda di evitare il digiuno preoperatorio e di somministrare ai pazienti bevande ricche di maltodestrine, la sera prima (800 ml) e la mattina (200 ml), 2 ore prima dell’intervento chirurgico. Fase intraoperatoria – Anestesia standard È raccomandata un’anestesia che minimizzi gli effetti farmacologici sull’omeostasi sistemica, promuovendo stabilità dei parametri emodinamici durante l’intervento chirurgico, ottimale perfusione e ossigenazione degli organi, minimizzando l’incidenza del delirio postoperatorio, facilitando il risveglio al termine della procedura, accelerando la ripresa delle funzioni gastro-intestinali e migliorando il decorso postoperatorio. Farmaci anestetici a breve emivita possono essere d’aiuto nel veloce recupero dall’anestesia, non contrastando le funzioni gastrointestinali (39). – Fluidoterapia intraoperatoria L’obiettivo della fluidoterapia intraoperatoria è quello di mantenere il volume intravasale al fine di ottenere una ottimale perfusione d’organo, evitando il sovraccarico idrico, che è associato a un incremento significativo delle complicanze postoperatorie. La classica gestione era denominata fluidoterapia “liberale”, il cui obiettivo era quello massimizzare il precarico cardiaco, il che si associa nel postoperatorio a maggiori complicanze cardiovascolari, a ritardo della ripresa della motilità intestinale e quindi della canalizzazione e a problemi di cicatrizzazione anastomotica (40-42). Due principali strategie di fluidoterapia sono ottimali nell’ambito del programma ERAS: la prima è denominata fluidoterapia “restrittiva” (1-4 ml/ kg/h), il cui obiettivo è evitare l’edema tissutale e il sovraccarico idrico cardiocircolatorio; l’altra è denominata fluidoterapia “goal directed”, il cui obiettivo è quello di mantenere l’euvolemia centrale utilizzando il monitoraggio intraoperatorio dello stroke volume. Entrambi, il restrittivo e il goal directed,


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si associano con una riduzione della morbilità postoperatoria (43), senza differenze significative e sono raccomandati nella gestione ERAS. – Prevenzione ipotermia Il monitoraggio della temperatura durante la chirurgia colo-rettale elettiva e l’utilizzo di riscaldatori sono fortemente raccomandati; l’ipotermia, infatti, favorisce infezioni di ferita, perdita di sangue dovute ad alterazioni della coagulazione e complicanze cardiovascolari (44-46). – Chirurgia mininvasiva Sebbene il programma ERAS sia stato sviluppato per la chirurgia colo-rettale open, non vi è dubbio che l’approccio mini-invasivo migliori sensibilmente i risultati postoperatori, quando garantisce la stessa radicalità oncologica. Infatti i principali vantaggi di tale approccio, cioè riduzione dello stress chirurgico, la riduzione delle complicanze postoperatorie e il più precoce recupero postoperatorio sono gli stessi del programma ERAS. Diversi trial recenti hanno comparato l’influenza relativa di chirurgia videoassistita e ERAS (47-52). Il LAFA trial, in particolare (53), condotto da 9 centri danesi randomizzando i pazienti tra chirurgia open e chirurgia videoassistita e tra gestione postoperatoria fast track e standard, conclude che la degenza postoperatortia mediana è di 2 giorni inferiore nei pazienti sottoposti chirurgia videoassistita e che i migliori risultati con il minor impatto sul sistema immunitario si verificano nel gruppo di pazienti sottoposti contemporaneamente a chirurgia videoassistita e gestione ERAS. Successive meta-analisi non giungono a risultati definitivi, ma sia le Linee Guida dell’ERAS Society che quelle americane raccomandano fortemente la chirurgia videoassistita nel trattamento delle neoplasie coliche e rettali, con alto grado di evidenza. In ultima analisi, la chirurgia videoassistita è divenuta probabilmente uno dei più importanti item di ERAS (54). – Drenaggi addominali e pelvici L’utilizzo di drenaggi in chirurgia colo-rettale ne accompagna probabilmente la nascita; già nel 1887 Robert Laeson Tait ammoniva “nel dubbio drena” e anche il chirurgo tedesco Theodor Billroth supportava l’idea dell’utilizzo routinario dei drenaggi (55). Le più recenti evidenze di letteratura mostrano come l’utilizzo routinario dei drenaggi addominali non riducano i tassi di deiscenza anastomotica, infezioni di ferita, tassi di reintervento e mortalità (56-58). L’utilizzo dei drenaggi è pertanto sconsigliato dal protocollo ERAS, a eccezione dei casi di chirurgia pelvica dopo radioterapia neoadiuvante e in caso di rischio di sanguinamento. Fase postoperatoria – Sondino naso gastrico Scopo del sondino naso gastrico postoperatorio è stato storicamente la prevenzione del discomfort postoperatorio del paziente, derivante dal ristagno gastrico, e del vomito; le evidenze di letteratura, tuttavia, da lungo tem-


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po dimostrano che il sondino naso gastrico non solo non ha effetti positivi ma può incrementare il rischio di faringo-laringiti e infezioni polmonari; evitare l’uso routinario del SNG inoltre favorisce una più precoce ripresa della canalizzazione e dell’alimentazione per os (59-62). ERAS pertanto non raccomanda l’utilizzo del SNG, che dovrebbe essere rimosso al termine della procedura chirurgica prima del risveglio. – Analgesia postoperatoria Il controllo postoperatorio del dolore è cruciale per gli obiettivi di ERAS, come pure essenziale è per, quanto possibile, evitare l’utilizzo di farmaci oppioidi, i cui numerosi effetti collaterali sono sgradevoli: nausea, vomito, ileo, depressione respiratoria, iperalgesia, delirio, ritenzione urinaria, disturbi del sonno, sedazione, ritardo del recupero funzionale e immunodepressione (4, 63-64). Oggigiorno sono disponibili molti analgesici non oppioidi: i più utilizzati sono il paracetamolo, farmaco efficace e maneggevole, e i cosiddetti farmaci antiinfiammatori non steroidei (FANS), anche se la letteratura mostra dati inconclusivi sulla correlazione tra il loro utilizzo e un incremento nel tasso di deiscenza anastomotica. Vi sono poi disponibili una serie di farmaci aggiuntivi e adiuvanti, quali gabapentonoidi, lidocaina endovenosa, alfa2-agonisti, ketamina, magnesio solfato e steroidi (65-69). Per quanto riguarda la chirurgia open, il blocco epidurale toracico mediante introduzione di cateterino spinale preoperatorio e rifornito con anestetici locali è la modalità più efficace di gestione postoperatoria del dolore, in grado inoltre di minimizzare la risposta neuroendocrina e catabolica alla chirurgia (70-71). Per quanto riguarda la chirurgia mini-invasiva molto studiato è il cosiddetto Transversus Abdominis Plane (TAP block), da eseguire per via ecografica preoperatoriamente, garantisce una copertura antalgica della parete addominale anteriore da T10 a L1 (72-76). La gestione postoperatoria del dolore raccomandata da ERAS è pertanto multimodale, con una combinazione dei vari agenti quanto più adatta a ogni paziente, evitando per quanto possibile l’utilizzo di farmaci oppioidi. Il TAP block sarebbe da preferire al cateterino peridurale in chirurgica mini-invasiva. – Profilassi tromboembolica Senza un’adeguata profilassi, l’incidenza di tromboembolismo venoso dopo chirurgia colo-rettale è stato riportato fino al 30% (77); i fattori di rischio sono neoplasia avanzata, colite ulcerosa, stato di ipercoagulabilità, utilizzo di steroidi, età e obesità. I sistemi meccanici di prevenzione della trombosi venosa profonda, quali la compressione intermittente e, soprattutto per la loro semplicità di utilizzo, le calze elastocompressive hanno dimostrato una ottima efficacia (78-80). L’utilizzo di eparina a basso peso molecolare si è dimostrata la più efficace nella riduzione di eventi tromboembolici e del tasso postoperatorio di mortalità. Una recente meta-analisi e numerose Linee Guida raccomandano


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l’utilizzo di eparina a basso peso molecolare per 28 giorni dopo l’intervento chirurgico (81). – Catetere urinario L’utilizzo del catetere vescicale ha lo scopo di prevenire la ritenzione urinaria postoperatoria e di monitorare la diuresi; vero è che la durata della cateterizzazione è un fattore di rischio per lo sviluppo di infezioni del tratto urinario, oltre a rappresentare un discomfort per il paziente. Per questi motivi il catetere andrebbe rimosso precocemente: in pazienti senza fattori di rischio entro il primo giorno postoperatorio, al massimo entro il terzo giorno in presenza di ipertrofia prostatica e in chirurgica pelvica (82-83). – Mobilizzazione e rialimentazione precoce La mobilizzazione precoce evita il decadimento muscolare e cardiocircolatorio, diminuisce il rischio di complicanze infettive polmonari e di eventi tromboembolici nel postoperatorio. Pertanto una mobilizzazione precoce nel postoperatorio è fondamentale nel programma ERAS (84-85). È stato ben dimostrato come un ritardo nell’alimentazione orale sia associato a un incremento delle complicanze infettive e a un ritardo di dimissione (86); già dopo 4 ore dall’intervento, rialimentare il paziente è sicuro e non incrementa le complicanze postoperatorie, in particolare la deiscenza anastomotica (87-89). Per questi motivi la rialimentazione precoce dopo l’intervento è fortemente raccomandata, pur lamentando, alcuni pazienti, nausea, vomito e ileo postoperatorio. – Criteri di dimissibilità Il programma ERAS comprende anche la rilevazione giornaliera dei criteri per la dimissibilità. La ripresa postoperatoria è in genere più rapida rispetto ai programmi di gestione tradizionale, ma vi è consenso unanime nelle linee guida che la dimissione sia relativamente sicura se sono presenti: – Adeguata alimentazione orale; – Ripresa della funzione intestinale, almeno canalizzazione ai gas; – Controllo del dolore con analgesici per os; – Autonomia motoria e nelle cure igieniche personali; – Non evidenza clinica/laboratoristica di complicanze postoperatorie; – Accordo del paziente alla dimissione. Risultati I risultati dell’applicazione del protocollo ERAS sono stati largamente studiati nell’ambito della chirurgia colo-rettale. – Riduzione della degenza postoperatoria e complicanze L’applicazione di un programma ERAS porta a una significativa riduzione della degenza postoperatoria, rispetto alla gestione tradizionale. Tre meta-analisi di trial randomizzati (90-92) dimostrano una riduzione della degenza postoperatoria compresa tra 1.9 e 2.5 giorni rispetto a una gestione tradizionale. Studi osservazionali, trial randomizzati e meta-analisi dimo-


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strano come l’implementazione di ERAS porti a una significativa riduzione del tasso di morbilità globale e morbilità grave postoperatoria rispetto a una gestione tradizionale; i tassi di mortalità, tuttavia, non differiscono significativamente (90-95). L’incidenza di ileo postoperatorio non è significativamente differente tra gestione ERAS e gestione tradizionale, mentre le funzioni gastrointestinali, tempo di canalizzazione ai gas e alle feci e ripresa di alimentazione orali, sono significativamente più precoci dopo ERAS. – Recupero più rapido Oltre alla degenza ospedaliera più breve e alla morbilità più bassa, molti altri risultati postoperatori a favore di un recupero “potenziato” o più veloce sono stati attribuiti ai protocolli ERAS in studi osservazionali: – Ridotta durata dell’ileo postoperatorio (96); – Conservazione della massa corporea magra e delle prestazioni fisiche (97); – Miglioramento della forza di presa suggerendo un miglioramento generale della funzione muscolare (98); – Ripresa anticipata delle attività normali, riduzione della necessità di dormire durante il giorno e assenza di un maggiore ricorso ai servizi di assistenza primaria (99). – Riammissioni Uno dei risultati della gestione ERAS è la dimissione precoce: sebbene primi studi avessero riportato che i pazienti gestiti con i programmi ERAS avessero un tasso di riammissione più elevato rispetto alla pratica tradizionale (100-101), studi successivi e più recenti hanno dimostrato che il tasso di riammissione non è significativamente diverso dopo ERAS rispetto ai programmi di recupero tradizionali (102). – Riduzione dei costi I benefici clinici di ERAS, in termini di riduzione delle complicanze postoperatorie e riduzione della degenza, si traducono in un vantaggio economico. Vero è che la chirurgia mini-invasiva presuppone costi aggiuntivi rispetto alla chirurgia open, ma molte evidenze di letteratura suggeriscono che vi sia una significativa riduzione dei costi complessivi nella gestione ERAS rispetto alla gestione tradizionale. Una recente meta-analisi mostra un risparmio di circa 3.000 dollari per paziente (103), anche se l’analisi risulta molto complessa e deve tener conto di molte variabili, compresi i tassi di complicanze a 30 giorni, di reinterventi e di riammissione, e inoltre il guadagno sociale in termini di più rapida ripresa del paziente, come ad esempio un minor numero di giorni di malattia. Sebbene l’implementazione di ERAS presupponga un investimento economico significativo, il suo mantenimento si traduce in un significativo risparmio economico complessivo. – Aderenza al programma e risultati Il raggiungimento dei risultati sopra riportati, tuttavia, è strettamente legato a un processo di implementazione strutturata e condivisa (104), con un


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tasso di aderenza globale al programma superiore al 70% e una chiara relazione dose-effetto (Figura 2), il cui mantenimento nel tempo è strettamente legato a un audit continuo.

Figura 2: Curva dose-effetto tra aderenza agli item del programma ERAS e i risultati.

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Capitolo 20 Note di endoscopia chirurgica delle principali malattie dell’apparato digerente Giulia ROCCO*, Maria Carlotta SACCHI*, Roberto FAGGIANI**, Ilaria FAGGIANI*** Costantino ZAMPALETTA**** * Dirigente medico – UOC Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva, ASL Viterbo ** Direttore UOC Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva, Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma *** Medico Interno – Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, Roma **** Direttore UOC Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva, ASL Viterbo Endoscopia nel cancro colo-rettale Nell’ultimo ventennio l’endoscopia ha assunto un ruolo sempre più rilevante nella gestione delle lesioni del tubo digerente. Grazie all’avanzamento delle tecniche di resezione, endoscopica tale metodica consente oggi una rimozione curativa e minimamente invasiva della maggior parte delle lesioni superficiali della mucosa, dall’esofago al retto. Per quanto riguarda il carcinoma del colon retto (CCR), la colonscopia è in molti Paesi la metodica di scelta per lo screening del CCR. Lesioni Colo-Rettali: classificazioni e tecniche di imaging avanzato Da un punto di vista diagnostico con la colonscopia oggi è possibile non solo individuare precocemente lesioni potenzialmente neoplastiche, ma anche predirne l’invasione della sottomucosa e definire quindi l’approccio terapeutico più efficace. Nel contesto di una strategia “patient and lesion-centered” (1) sono state create diverse classificazioni basate sulla morfologia della lesione o sul pattern di superficie di ausilio nella definizione delle lesioni rimuovibili endoscopicamente. La classificazione di Parigi (2) definisce la morfologia delle lesioni superficiali della mucosa, differenziando le lesioni polipoidi e non polipoidi, ed è in grado di predire, con buona accuratezza, il rischio di invasione della sottomucosa. Per la valutazione del pattern di superficie sono state sviluppate tecniche di imaging sempre più avanzate, in grado di migliorare la visualizzazione della mucosa e rendere più evidenti i dettagli strutturali e microvascolari delle lesioni (3).


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La classificazione NICE (4) si basa sull’utilizzo della cromoendoscopia virtuale per definire il pattern della superficie delle lesioni. Ha una buona accuratezza nel predire l’invasione profonda con una sensibilità del 58.4% e una specificità del 96.4%. Il tipo 1 secondo NICE identifica le lesioni iperplastiche, in cui il colore della lesione, i vasi e il pattern di superficie sono omogenei e simili alla mucosa normale circostante. Il tipo 2 identifica le lesioni adenomatose superficiali, in cui il pattern di superficie è caratterizzato da strutture ovalari, tubulari o ramificate circondate da vasi che, grazie al filtro ottico, assumono un colore marrone. Infine la tipo 3 identifica le lesioni neoplastiche avanzate con invasione profonda della sottomucosa, in cui i vasi sono assenti o scarsamente rappresentati e il pattern di superficie appare destrutturato. La Kudo (5) è una classificazione di cromoendoscopia che si avvale della magnificazione ed è in grado di individuare con maggiore accuratezza lesioni avanzate associate a rischio significativo di metastasi linfonodali a distanza, per le quali è raccomandato pertanto l’approccio chirurgico. Altri fattori di rischio di invasione della sottomucosa, sebbene la loro accuratezza non sia stata ancora definita, sono il mancato sollevamento della lesione (lifting sign), la retrazione dei bordi ai margini della lesione, la convergenza delle pliche, il sanguinamento spontaneo. Lesioni Colo-Rettali: tecniche di resezione endoscopica Tutte le lesioni superficiali del colon a basso potenziale di invasione della sottomucosa possono essere rimosse efficacemente, con intento curativo, mediante tecniche di endoscopia, polipectomia standard o Endoscopic Mucosal Resection (EMR). Il carcinoma intramucoso per definizione è confinato alla mucosa e pertanto non è associato a rischio di metastasi a distanza. La sua rimozione endoscopica è quindi da considerarsi curativa. Per quanto riguarda le lesioni sospette di invasione superficiale della sottomucosa la tecnica di scelta dovrebbe essere quella che assicuri una resezione en-bloc di tutta la lesione, in modo da fornire un campione istologico adeguato alla definizione dei margini di resezione, dell’invasione linfovascolare e del grading istologico. Pertanto la scelta varia tra tecniche endoscopiche come EMR o Endoscopic Submucosal Dissection (ESD) o il trattamento chirurgico. Il limite maggiore della tecnica EMR risiede nella difficoltà a ottenere una resezione en-bloc di lesioni di grandi dimensioni; pertanto la sua scelta dovrebbe essere limitata a lesioni ≤ 20 mm. L’ESD offre la possibilità di superare questo limite, tuttavia è una procedura tecnicamente più difficile, gravata da tempi procedurali più lunghi e un rischio maggiore di complicanze, come perforazione e sanguinamento.


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Indipendentemente dal tipo di tecnica utilizzata la rimozione endoscopica è considerata curativa quando è en-bloc, i margini di resezione laterali e verticali sono negativi (R0), la lesione è ben differenziata (G1-G2), non vi è invasione linfovascolare e le cellule neoplastiche sono confinate alla mucosa con invasione della sottomucosa ≤ 1 mm (6). Lesioni che non soddisfano anche uno di questi criteri, presentano un significativo rischio di metastasi linfonodali, per cui dovrebbero esser riferite al trattamento chirurgico. Il polipo cancerizzato La dizione “polipo cancerizzato” include quelle lesioni polipoidi o non, il cui esame istologico ha rilevato foci di cellule neoplastiche che oltrepassano la muscolaris mucosae e invadono la sottomucosa, pT1 secondo classificazione TNM (7). La presenza di fattori ad alto rischio di diffusione metastatica permette di stabilire il management successivo alla rimozione endoscopica. Fattori che rendono il polipo cancerizzato ad alto rischio di diffusione metastatica, che pertanto deve essere riferito a chirurgia, sono: il grading istologico avanzato (G3, G4), l’invasione linfovascolare, i margini di resezione positivi (R1) o non valutabili (Rx), la presenza di budding tumorale e il livello di infiltrazione della sottomucosa. Quest’ultimo parametro è definito sulla base della morfologia della lesione (8-9). Le lesioni polipoidi sessili o non polipoidi presentano un rischio metastatico significativamente superiore quando la sottomucosa risulta infiltrata per più di 1 mm, sm2-sm3 sec. Kikuchi. Per i polipi peduncolati nella classificazione di Haggitt sono considerate ad alto rischio di metastasi linfonodali le lesioni in cui le cellule neoplastiche si estendono oltre il peduncolo invadendo la sottomucosa della parete colica (Haggitt 4). In assenza di fattori di rischio di diffusione metastatica, polipo cancerizzato low risk, è possibile proseguire con un follow-up endoscopico. Timing endoscopico perichirurgico Lesioni del colon ove è sospettata un’invasione sottomucosa profonda o lesioni superficiali non efficacemente rimosse endoscopicamente devono essere tatuate per essere correttamente identificate e localizzate durante il successivo trattamento chirurgico. Il prodotto attualmente preferito è una sospensione sterile di particelle di carbone che viene iniettata 3 cm distalmente alla lesione in due-tre punti distinti della parete del colon. Per lesioni localizzate in regioni anatomicamente facili da individuare come il cieco, la valvola ileo-ciecale e il retto distale si può soprassedere all’esecuzione del tatuaggio. I pazienti con una diagnosi di carcinoma del colon retto presentano un rischio aumentato rispetto alla popolazione generale di neoplasie metacrone, definite dal riscontro di un’altra neoplasia durante la sorveglianza endoscopica. Al fine di ridurre il rischio di neoplasie metacrone è indicato


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in tutti i pazienti eletti al trattamento chirurgico per CCR eseguire una colonscopia di qualità “perioperatoria”, prima o entro i 6 mesi successivi all’operazione, ed eseguire la prima colonscopia di sorveglianza un anno dopo l’intervento chirurgico. Quest’ultima ha inoltre come obiettivo, l’identificazione precoce della ricorrenza postoperatoria. Il successivo timing della sorveglianza endoscopica è finalizzato all’identificazione e rimozione di lesioni preneoplastiche e quindi a prevenire la formazione di successivi CCR. Per tale ragione e per la mancanza di un significativo beneficio sulla sopravvivenza non è indicato eseguire una sorveglianza endoscopica intensiva. La strategia di sorveglianza generalmente raccomandata prevede una seconda colonscopia dopo 3 anni e la successiva dopo ulteriori 5 anni. Tale timing può essere modificato in caso di riscontro di lesioni ad alto rischio durante la sorveglianza (10). Endoscopia nelle patologie delle vie biliari Nell’ambito delle patologie delle vie biliari la Colangio-Pancreatografia Retrograda Endoscopica (CPRE) svolge un ruolo oggi non solo diagnostico ma soprattutto terapeutico. La coledocolitiasi è la più frequente indicazione all’esecuzione di CPRE. Questa condizione è conseguente all’impatto di calcoli a livello della via biliare principale; può essere del tutto asintomatica o manifestarsi con dolore addominale o con le complicanze legate all’ostruzione del coledoco (ittero, colangite, colecistite, pancreatite acuta). In considerazione delle suddette complicanze che si verificano nel 10-25% dei pazienti non trattati e che possono avere sequele anche gravi, l’estrazione dei calcoli mediante CPRE è raccomandata anche in pazienti con coledocolitiasi asintomatica. La presenza o meno di complicanze e la loro gravità, identificando i pazienti che maggiormente gioverebbero di un drenaggio endoscopico precoce, permettono di definire il timing per l’esecuzione della procedura. La colangite acuta è definita in base ai criteri Tokyo 2018 come la presenza di segni sistemici di infiammazione, evidenza biochimica di colestasi o ittero e la presenza di dilatazione e/o ostruzione della via biliare all’imaging. Per pazienti con colangite severa è raccomandato eseguire una CPRE entro 12-24 ore, mentre una colangite moderata è indicazione a una CPRE entro 24-48 ore. In assenza di questi criteri la CPRE può essere eseguita in elezione (11). Dopo il trattamento della coledocolitiasi mediante CPRE è raccomandata l’esecuzione di una colecistectomia laparoscopica, preferibilmente entro due settimane dal drenaggio endoscopico. Tale indicazione è formulata con l’obiettivo di evitare una recidiva di coledocolitiasi ed eventi acuti biliari a essa correlata, come ad esempio colangite acuta, pancreatite acuta.


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Numerosi studi hanno infatti dimostrato il beneficio della colecistectomia precoce sulla ricorrenza di eventi biliari che raggiunge una frequenza del 20% nei pazienti in attesa di chirurgia (12). Anche se generalmente la CPRE viene eseguita prima della colecistectomia, una possibile opzione è l’estrazione di calcoli durante l’operazione, tramite l’esplorazione laparoscopica del dotto biliare comune o tramite CPRE intraoperatoria. Non vi sono differenze in termini di morbilità, mortalità e tasso di successo, eccetto che per un ridotto rischio di pancreatite post-CPRE per la tecnica intraoperatoria a fronte, tuttavia, di tempi chirurgici maggiori. La scelta dovrebbe essere guidata dalla disponibilità e dall’expertise locale (13). La coledocolitiasi è una condizione che dovrebbe essere ricercata anche durante la gestione di una colecistite acuta, infatti essa è presente nel 5-15% delle colecistiti acute (14). La presenza di calcolosi della via biliare principale può essere sospettata dall’incremento degli indici di colestasi, anche se tali test hanno una scarsa accuratezza e pertanto devono essere confermati da esami diagnostici. L’ecografia è l’esame di scelta, permette di identificare sia direttamente il calcolo nella via biliare principale, sia la dilatazione del coledoco o delle vie biliari come segni indiretti. La colangioRM e l’ecoendoscopia rappresentano metodiche di II livello da eseguire nel caso in cui l’ecografia non sia stata dirimente. La scelta se eseguire la CPRE in tale setting dipende dal rischio individuale di coledocolitiasi (15). Pazienti a rischio elevato di calcolosi della via biliare principale devono essere sottoposti a CPRE preoperatoria, mentre pazienti a rischio intermedio devono essere sottoposti a imaging di II livello. Infine, i pazienti a basso rischio, ovvero quelli in cui non vi è evidenza clinico-laboratoristica e/o radiologica di coledocolitasi possono essere sottoposti direttamente a colecistectomia. Ruolo della CPRE nelle stenosi biliari L’endoscopia ha assunto negli ultimi anni un ruolo sempre maggiore nel percorso diagnostico-terapeutico delle neoplasie delle vie biliari. Dal punto di vista diagnostico, oltre alla possibilità di ottenere immagini colangiografiche ed eseguire il brushing delle vie biliari, è oggi possibile ottenere campioni istologici tramite tecniche di colangioscopia. Nella malattia maligna delle vie biliari suscettibile di intervento chirurgico non è consigliato di routine il drenaggio biliare mediante posizionamento di stent, che tuttavia è riservato a pazienti con colangite o ittero severo sintomatico, in caso di chirurgia ritardata o prima di iniziare una chemioterapia neoadiuvante, se presente ittero. In tal caso dovrebbe essere favorito il drenaggio per via endoscopica piuttosto che quello per via percutanea o chirurgico. Inoltre, per quanto riguarda le neoplasie ilari, si suggerisce la valutazione della resecabilità delle lesioni in assenza di stent


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biliari, in quanto influenza negativamente l’accuratezza delle tecniche di imaging. Nella malattia biliare maligna non suscettibile di intervento chirurgico lo stenting biliare rappresenta il trattamento palliativo di scelta in caso di ittero e/o di altre complicanze legate all’ostruzione biliare. La scelta della tecnica di drenaggio biliare, endoscopica vs. percutanea, più efficace e sicuro dipende dalla localizzazione della malattia. Per quanto riguarda le neoplasie ilari tipo Bismuth I e II ha indicazione il drenaggio endoscopico, mentre per le stenosi tipo Bismuth III e IV è suggerito il drenaggio percutaneo combinato o meno a quello endoscopico. Oltre alla gestione delle stenosi neoplastiche, lo stenting biliare è una valida opzione anche per le stenosi biliari benigne, che possono occorrere dopo un intervento di trapianto ortotopico di fegato o secondarie a pancreatite cronica (16). Ruolo della CPRE nei leak biliari Le lesioni iatrogene delle vie biliari rappresentano una possibile complicanza della chirurgia bilio-pancreatica. Ad eccezione della transezione del dotto biliare principale, altri leak biliari possono essere efficacemente trattati endoscopicamente con molteplici modalità come il posizionamento di stent nella via biliare, mediante un drenaggio naso-biliare o l’esecuzione della sfinterotomia. Quest’ultima sembra tuttavia associata a maggiori complicanze, come colangite e pancreatite e tempi di chiusura della fistola più lunghi. Dati recenti hanno dimostrato che il tempo che intercorre tra il danno all’albero biliare e il suo trattamento non modifica gli outcome clinici (17). Nel caso di leak biliari post colecistectomia, refrattari al posizionamento di stent biliari in plastica, uno stent metallico auto espandibile totalmente ricoperto è preferibile rispetto allo stenting in plastica multiplo. Bibliografia 1. Ferlitsch M, et al. Colorectal polypectomy and endoscopic mucosal resection (EMR): European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Clinical Guideline. Endoscopy. 2017;49(3):270-97; 2. Woods A, Sanowski RA, et al. Eradication of diminutive polyps: a prospective evaluation of bipolar coagulation versus conventional biopsy removal. Gastrointest Endosc. 1989;35(6):536-40; 3. Bisschops R, et al. Advanced imaging for detection and differentiation of colorectal neoplasia: ESGE Guideline – Update 2019. Endoscopy. 2019;51:1155-79; 4. Hewett DG, et al. Validation of a simple classification system for endoscopic diagnosis of small colorectal polyps using narrow-band imaging. Gastroenterology. 2012;143(3):599-607;


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5. Kudo S, et al. Pit pattern in colorectal neoplasia: endoscopic magnifying view. Endoscopy. 2001;33(4):367-73; 6. Pimentel-Nunes P, et al. Endoscopic submucosal dissection: ESGE Guideline. Endoscopy. 2015;47:829-54; 7. Brierley JD, et al. The TNM classification of malignant tumours, 8th edition. Oxford: Wiley Blackwell. 2016; 8. Haggitt RC, et al. Prognostic factors in colorectal carcinomas arising in adenomas: implications for lesions removed by endoscopic polypectomy. Gastroenterology. 1985;89(2):328-36; 9. Kikuchi R, et al. Management of early invasive colorectal cancer. Risk of recurrence and clinical guidelines. Dis Colon Rectum. 1995;38(12):1286-95; 10. Hassan C, et al. Endoscopic surveillance after resection for CRC: ESGE and ESDO Guideline Endoscopy. 2019;51:266-77; 11. Kiriyama S, et al. Tokyo Guidelines 2018: diagnostic criteria and severity grading of acute cholangitis. J Hepatobiliary Pancreat Sci. 2018 Jan;25(1):17-30; 12. Huang RJ, et al. Practice patterns for cholecystectomy after endoscopic retrograde cholangiopancreatography for patients with choledocholithiasis. Gastroenterology. 2017;153(3):762-71; 13. Manes G, et al. Endoscopic management of common bile duct stones: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) guideline. Endoscopy. 2019;51(5):472-91; 14. Pisano M, et al. 2020 World Society of Emergency Surgery updated guidelines for the diagnosis and treatment of acute calculus cholecystitis. World J Emerg Surg 15, 61 (2020); 15. ASGE Standards of Practice Committee, Maple JT, et al. The role of endoscopy in the evaluation of suspected choledocholithiasis. Gastrointestinal Endoscopy. 2010;71(1):1-9; 16. Dumonceau JM, et al. Endoscopic biliary stenting: indications, choice of stents, and results: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Clinical Guideline. Endoscopy. 2018;50(9):910-30; 17. Adler DG, Papachristou GI, et al. Clinical outcomes in patients with bile leaks treated via ERCP with regard to the timing of ERCP: a large multicenter study. Gastrointest Endosc. 2017;85(4):766-72.

Esofago 1,2 Le lesioni neoplastiche dell’esofago possono originare dall’epitelio squamocellulare o da epitelio colonnare metaplasico, Esofago di Barrett. Quando tecnicamente fattibili, le procedure di resezione endoscopica devono essere considerate come prima scelta rispetto alla chirurgia, in pazienti selezionati, alla luce del migliore profilo di sicurezza. È raccomandata un’accurata valutazione delle lesioni potenzialmente neoplastiche mediante endoscopia ad alta risoluzione in associazione a tecniche di imaging avanzate, come ad esempio la cromoendoscopia.


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Esofago di Barrett/adenocarcinoma esofageo L’esofago di Barrett è definito dalla presenza di almeno 1 cm di lunghezza di metaplasia intestinale specializzata che sostituisce l’epitelio squamoso dell’esofago distale. È una condizione precancerosa con una bassa incidenza di evoluzione verso l’adenocarcinoma dell’esofago (0.3%/anno); pertanto la sorveglianza endoscopica è attualmente raccomandata nei pazienti con Esofago di Barrett. L’endoscopia con sistemi ad alta definizione (HD-WLE) e l’esecuzione di un adeguato campionamento bioptico è attualmente il gold standard nella sorveglianza dell’Esofago di Barrett ed ha l’obiettivo di rilevare precocemente, anche in assenza di lesioni visibili, la presenza di displasia. La resezione endoscopica è raccomandata per lesioni visibili caratterizzate istologicamente da qualsiasi grado di displasia o in presenza di early cancer. La tecnica di scelta è la mucosectomia (EMR – endoscopic mucosal resection). La dissezione sottomucosa (ESD – endoscopic submucosal dissection), in considerazione dell’elevato tasso di complicanze e della difficoltà tecnica, può essere considerata per lesioni maggiormente a rischio di invasione della sottomucosa o quelle in cui l’EMR non consentirebbe una resezione en bloc (i.e. “bulky lesion”). Indipendentemente dalla tecnica utilizzata, è considerata curativa la resezione en bloc di lesioni intramucose (T1a). Nei pazienti in cui viene eseguita una resezione en bloc di lesioni con invasione superficiale della sottomucosa (< 500 μm), ma senza caratteristiche ad alto rischio di metastasi linfonodali (scarsa differenziazione, invasione linfovascolare) il management successivo dovrebbe essere stabilito da un team multidisciplinare bilanciando il rischio chirurgico con il rischio di metastasi a distanza. In assenza di lesioni visibili, ma con riscontro bioptico di displasia di basso o alto grado, l’ablazione endoscopica del segmento di Esofago di Barrett dovrebbe essere proposta. In tale contesto e anche dopo la resezione endoscopica di lesioni visibili la radiofrequenza con ablazione di tutto l’epitelio di Barrett è a oggi la tecnica con il miglior profilo di sicurezza ed efficacia. Carcinoma squamocellulare dell’esofago Come per l’adenocarcinoma, la resezione endoscopica è la prima scelta in caso di carcinoma squamocellulare confinato alla mucosa. Il trattamento ottimale dipende dalle dimensioni, che influenzano la possibilità di rimozione en bloc, e dalle caratteristiche istopatologiche del campione resecato. Va inoltre considerato che il carcinoma squamocellulare ha un rischio di metastasi linfonodali maggiore rispetto all’adenocarcinoma dell’esofago; pertanto l’estensione dell’invasione della sottomucosa, considerato a rischio significativo di metastasi a distanza, è minore rispetto all’adenocarcinoma. La mucosectomia endoscopica è generalmente da limitarsi a lesioni < 10 mm, mentre per dimensioni maggiori è raccomandata la ESD.


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Una resezione en bloc, RO, di lesioni confinate alla mucosa è considerata curativa. Mentre, in caso di lesioni ben differenziate, resecate en bloc ma con coinvolgimento della sottomucosa < 200 μm la decisione in merito a trattamenti aggiuntivi (chemioterapia o chirurgia) deve essere affidata a un team multidisciplinare. Stomaco 2, 3, 4 Condizioni precancerose L’adenocarcinoma gastrico di tipo intestinale rappresenta lo stadio finale della cascata di Correa, un continuum di lesioni istopatologiche nella carcinogenesi del tumore dello stomaco. Le condizioni precancerose includono quelle alterazioni istologiche, come l’atrofia gastrica e la metaplasia intestinale, che risultano associate a maggior rischio di sviluppare adenocarcinoma. L’estensione delle suddette alterazioni istologiche insieme a fattori di rischio individuali permettono di stratificare il rischio di sviluppo di adenocarcinoma e dunque di definire il timing della sorveglianza endoscopica. È raccomandato che la valutazione della mucosa venga eseguita con strumenti ad alta definizione e con l’ausilio di tecniche di imaging avanzato (NBI) che aumentano la sensibilità del campionamento bioptico nell’individuazione di lesioni neoplastiche (displasie o carcinoma intramucoso) suscettibili di trattamento endoscopico. Lesioni precancerose/adenocarcinoma La resezione endoscopica è il trattamento di scelta per le lesioni gastriche a basso rischio di metastasi linfonodali, ossia le lesioni neoplastiche intraepiteliali e l’early gastric cancer. L’ESD è la tecnica di resezione da preferire in quanto è associata a un maggior tasso di resezione completa e minore ricorrenza di malattia. La EMR è considerata accettabile per lesioni < 10-15 mm a basso rischio di invasione della sottomucosa. La resezione è considerata curativa per lesioni confinate alla mucosa con istotipo ben differenziato, senza ulcerazione né invasione linfovascolare. Invece, per lesioni ulcerate o con invasione della sottomucosa o intramucose ma con istotipo scarsamente differenziato, l’ESD è curativa nella maggior parte dei casi e la scelta rispetto alla chirurgia deve essere sempre individualizzata e ponderata da un team multidisciplinare. Intestino tenue 5, 6 Tecniche diagnostiche La gastroscopia permette di studiare il piccolo intestino limitatamente alla sua porzione più prossimale (fino alla II porzione duodenale). Nel


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tempo sono stati ideati strumenti sia diagnostici che operativi in grado di raggiungere le porzioni più distali del piccolo intestino: la videocapsula e l’enteroscopia. La videocapsula endoscopica è la metodica diagnostica di scelta in caso si sospetti una patologia del piccolo intestino. L’esame consiste nella deglutizione di un dispositivo wireless che invia in tempo reale immagini relative al piccolo intestino. Le indicazioni principali al suo uso sono il sanguinamento intestinale oscuro, sospetto M. di Crohn con ileo-colonscopia negativa, le sindromi poliposiche con coinvolgimento dell’intestino tenue, la celiachia in caso di diagnosi dubbia o se si sospetta una malattia refrattaria. L’enteroscopia device-assisted è un esame endoscopico che consente di visualizzare ed eventualmente eseguire procedure diagnostico-terapeutiche lungo tutto il piccolo intestino tramite device che permettono l’avanzamento dello strumento nel viscere (enteroscopia a singolo o doppio pallone, enteroscopia a spirale, enteroscopia guidata da pallone). Neoplasie del piccolo intestino L’endoscopia offre la possibilità di rimuovere tramite procedure minimamente invasive buona parte delle lesioni superficiali che interessano il piccolo intestino, sebbene siano estremamente più rare rispetto alle neoplasie che coinvolgono i restanti tratti del tubo digerente. Il duodeno è la regione più comunemente coinvolta, in particolare la regione dell’ampolla di Vater. Gli adenomi ampullari rappresentano lo 0.5-0.8% dei tumori gastrointestinali. L’esame endoscopico permette di definire le dimensioni della neoplasia, eseguire il campionamento bioptico e, con l’ausilio delle tecniche di advance imaging (NBI), stabilire il rischio di invasività. Il trattamento di scelta dipende dalle dimensioni della lesione e dall’eventuale estensione neoplastica intraduttale. Per gli adenomi ampullari di 20-30 mm la resezione endoscopica en bloc è l’approccio di scelta, perchè associata a minor tasso di eventi avversi. Per dimensioni maggiori di 40 mm, in caso di coinvolgimento intraduttale > 20 mm, o quando la resezione endoscopica non è tecnicamente fattibile (es. in caso di diverticolo), è indicato il trattamento chirurgico. Il trattamento chirurgico (ampullectomia trans-duodenale o pancreatico-duodenectomia) dovrebbe essere inoltre offerto dopo resezione endoscopica incompleta, o in caso di ricorrenza non suscettibile di trattamento endoscopico. Il piccolo intestino può essere coinvolto anche nelle sindromi poliposiche ereditarie, in particolare nella FAP, nella MUTYH e nella sindrome di Peutz-Jeghers. Per quanto riguarda la FAP e la MUTYH la sorveglianza endoscopica prevede l’esecuzione della semplice gastroscopia, in quanto il duodeno è la porzione più frequentemente interessata. In caso di adenomi dell’ampolla o del


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duodeno < 10 mm si suggerisce un follow-up endoscopico annuale, mentre per dimensioni maggiori il trattamento di scelta è la resezione endoscopica, a meno di caratteristiche invasive che impongano una valutazione multidisciplinare. Infine, nei pazienti con malattia avanzata che non possono essere gestiti endoscopicamente, la duodenectomia profilattica è indicata, sebbene abbia tassi di morbidità e mortalità più elevati; inoltre è stato osservato un rischio significativo di ricorrenza nel nuovo duodeno che pertanto dovrà risultare accessibile per la sorveglianza endoscopica successiva. La sindrome di Peutz-Jeghers è una poliposi caratterizzata dalla presenza di amartomi localizzati nel 60-80% nel piccolo intestino per la quale è raccomandata la sorveglianza di tutto l’intestino mediante EGDS, RSCS e videocapsula o MRI. Anche in questo caso, per lesioni del tenue, la tecnica di resezione di scelta quando fattibile è quella endoscopica che viene indicata per polipi di dimensioni maggiori di 10-15 mm per il rischio associato di intussuscezione. Bibliografia 1. Endoscopic management of Barrett’s esophagus: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Position Statement. Endoscopy 2017 2. Endoscopic submucosal dissection: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Guideline. Endoscopy 2015 3. Management of epithelial precancerous conditions and lesions in the stomach (MAPS II): European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE), European Helicobacter and Microbiota Study Group (EHMSG), European Society of Pathology (ESP), and Sociedade Portuguesa de Endoscopia Digestiva (SPED) guideline update 2019. Endoscopy 2019 4. British Society of Gastroenterology guidelines on the diagnosis and management of patients at risk of gastric adenocarcinoma, Gut 2019 5. Endoscopic management of polyposis syndromes: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Guideline, Endoscopy 2019 6. Small-bowel capsule endoscopy and device-assisted enteroscopy for diagnosis and treatment of smallbowel disorders: European Society of Gastrointestinal Endoscopy (ESGE) Clinical Guideline, Endoscopy 2015.



Postfazione Giuseppe Montesano Dirigente medico – UOC Chirurgia Generale, Ospedale Sandro Pertini ASL Rm 2 – Roma Laureato in Filosofia Abbiamo l’oneroso privilegio di svolgere una professione che ci porta dritti al cuore velenoso delle cose: da un lato il malato e l’esperienza limite della malattia e del confronto con la propria finitudine, dall’altro la possibilità di ripristinare la salute grazie all’insieme di pratiche che, nel loro insieme, costituiscono la chirurgia. Dalla scoperta del principio di isomorfismo dei tessuti, a quello dell’asepsi e degli antibiotici, fino alle recenti innovazioni della laparoscopia e della robotica, immenso è il cammino svolto dalla pratica chirurgica. Ogni giorno i chirurghi si confrontano con le malattie di altri esseri umani, in un contesto relazionale che va ben al di là della pur necessaria abilità artigianale. In primo luogo, perché essa presuppone una serie di conoscenze e una preliminare capacità di osservare fedelmente le manifestazioni sensibili che si offrono alla vista, senza permettere che l’immaginazione inganni la percezione o teorie troppo frettolose anticipino il ragionamento, conducendolo a giudizi infondati. Solo in questo silenzio, l’osservazione può consentire di intendere il linguaggio proprio della malattia che parla con i suoi sintomi e i suoi segni. In altri termini, il chirurgo deve essere dotato di una logica che lo guidi nel mondo della percezione, in modo da relazionarsi, senza dispersioni inutili o fuorvianti, “con le circostanze che interessano e ricevere le impressioni degli oggetti come esse ci si offrono”1. In questo modo può, infine, ricomporre in modo analitico l’ordine e le leggi naturali delle manifestazioni osservate e restituirle discorsivamente. Inoltre, il chirurgo è dotato di una specifica disposizione etica poiché la sua attività è rivolta a individui coinvolti in una relazione asimmetrica, in cui l’altro si presenta nel momento del bisogno ed espone la sua vulnerabilità. Ben al di là di un semplice esercizio di buone maniere, negli ultimi decenni la chirurgia ha dato prova del superamento di atteggiamenti di tipo paternalistico, come testimoniato dalla rilevanza assunta dal consenso informato per ogni procedura effettuata, mirando al coinvolgimento del paziente nel rispetto del suo vissuto. Nonostante gli sforzi di adeguamento alle richieste sociali e istituzionali e il tentativo di un rinnovamento dei propri codici comportamentali, tuttavia, assistiamo a una “crisi” della chirurgia, di cui l’aumento delle accuse di   J. Sénébier. Essai sur l’art d’observer et de faire des expériences. Paris 1802, t.I., p.6.

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Fondamentali in Chirurgia

malpractice costituiscono solo l’aspetto più esteriore. Ci sarebbe da chiedersi quanta parte di tutto ciò sia imputabile alla chirurgia stessa, in particolare alla diffusione, nella popolazione, di aspettative eccessivamente ottimistiche, in termini di risultato. Come se, per giustificare il proprio ruolo il chirurgo, non debba limitarsi al trattamento delle patologie di sua pertinenza, ma sia costretto continuamente a rilanciare nuove sfide, alimentando il mito di una scomparsa, se non proprio di alcune malattie, quanto meno dei suoi fallimenti. Ma probabilmente l’aspetto più interessante di questa crisi è la possibilità, che porta con sé, di potere finalmente rivolgere l’attenzione all’evidenza che non è più possibile limitarsi a un compito di ricezione delle aspettative e dei desiderata della società a tutto tondo: chi riceve le cure ma anche, e soprattutto, i suoi riflessi istituzionali che tali cure determinano. Questa opportunità comporta l’onere di ripensarsi come soggetti etici in grado di operare una riflessione critica sul proprio ruolo e funzioni: se molto si è detto e fatto su ciò che instaura il rapporto con gli altri, rimane molto da dire e da fare su ciò che riguarda il rapporto con se stessi. Si può forse affermare che la chirurgia debba fuoriuscire da uno stato di minorità che inevitabilmente conduce a una analisi dell’attualità con criteri che le sono estranei e generalmente viene espressa attraverso una mitizzazione del passato, una svalutazione del presente, l’attesa messianica di una nuova aurora. È possibile una analisi reale del presente che parta da sé e si dia autonomamente la propria forma in quanto epoca nuova? Si tratta di un cambiamento di postura del pensiero2 che richiede una riflessione costante su in che cosa consista, come e in che misura sia possibile dare forma autonoma a una professione che, negli ultimi decenni, si è rifugiata nella comodità di essere diretta da un’autorità che prescrive e governa ambiti sempre più ampi della vita, attraverso il condizionamento di comportamenti e mentalità; il che evidentemente non significa rivendicare la libertà di fare quello che a ognuno pare, in quanto “pezzi di una macchina” che svolgono una funzione in un contesto vincolante, siamo nella condizione di ubbidire. Ma, allo stesso tempo, si tratta di dotarsi di principi fondamentali e regole di condotta che consentano di esercitare il diritto di critica nel suo uso pub-

“Il pensiero non è ciò che abita una condotta e le dà un senso; è piuttosto, ciò che permette di prendere le distanze nei confronti di questa maniera di fare o di reagire, di assumerla come oggetto di pensiero e interrogarla sul suo senso, le sue condizioni e i suoi scopi. Il pensiero è la libertà rispetto a quello che si fa, il movimento con cui ci si distacca da quello che si fa, lo si costituisce come oggetto e lo si pensa come problema”. M. Foucault. Polemics, Politics and Problematizations, in P. Rabinow (a cura di), The Foucault Reader, Pantheon Books, New York 1984, pp. 381-390. Trad. It. Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault n.3 Interventi, colloqui, interviste 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, trad. it. S. Loriga, Feltrinelli Editore, Milano, 2020, p.246. 2


Postfazione

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blico, cioè in quanto membri di una umanità ragionevole che pone dei limiti all’eccesso di razionalizzazione delle pratiche di governo. Nell’esercizio della razionalità è compreso lo sviluppo dell’autonomia: è l’uso della ragione come punto di vista universale che ci fa sentire appartenenti a una comunità e ci fa vedere come noi ci sentiamo in essa, situandoci nel punto di confine tra spazio dell’individuo e quello della società. Ancora una volta, non si tratta di conformarsi a un modello ideale, ma di assumere se stessi come oggetto di un’elaborazione ostica e complessa che, tenendo conto dei rapporti di forza, ci porti a chiederci fino a che punto la società possa disciplinare, orientare e giudicare la nostra autodisciplina. Solo se ognuno è in grado di pensarsi come elemento di un processo generale da compiere collettivamente e, allo stesso tempo, come agente di un atto di volontà da compiere personalmente, il cambiamento sarà non solo auspicabile ma anche possibile.


Laureato con lode in Medicina e Chirurgia nel 1973; Specialista con lode in: Chirurgia Apparato Digerente, Chirurgia Generale,Chirurgia Toracica; Diplomato in Vidéolaparoscopie Appliquèe à la Chirurgie Digestive, Université de Nice. Doctorat ès Médecine, Université de Lausanne nel 1982. Ha vinto e utilizzato le seguenti borse di studio: 1975 Italo-American Medical Foundation; a.a. 1975-76 Ministero Affari Esteri (MAE); a.a. 1976-77 MAE;1992 Conseil d’Europe, presso Hopital Beaujon, Paris. “Interne” del Service de Chirurgie A (prof. F. Saegesser), CHUV Lausanne dal 1975 al 1980. Direttore di UOC di Chirurgia Generale e Oncologica dal dicembre 1996 al maggio 2019. Missioni umanitarie come Esperto MAE: Chief Italian Surgical Team 1983-84 in collaborazione con ICRC Geneva, Border Thailand-Cambodia; Chief Surgeon in collaborazione con UNICEF e Reraffaele Macarone PalMieri pubblica del Mali. Visiting Surgeon/Professor per periodi superiori a tre mesi: 1975: Kirurgiska Kliniken, Karolinska Institutet, Stoccolma; 1982: Service de Chirurgie A, CHUV, Lausanne; 2006: Laparoscopic Unit Royal Surrey County Hospital, Guildford; 2006: Département Pathologie Digestive, IMM, Paris. Segretario Regionale ACOI Lazio 2008-2009. Autore di oltre 150 Pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali; Presidente, Relatore e Moderatore in numerosi congressi nazionali e internazionali.

Laureato con lode in Medicina e Chirurgia nel 1983; Specialista in Chirurgia Generale. Direttore UOSD di Chirurgia Endocrina e Bariatrica dal 2005 al 2010 presso AO San Camillo-Forlanini Roma. Direttore UOC di Chirurgia Generale dal 2010 a oggi; Direttore Dipartimento Emergenza Urgenza dal 2015 a oggi, presso AO San Camillo-Forlanini Roma. Docente di Chirurgia mini-invasiva, Scuola di Specializzazione in Chirurgia Generale III, La Sapienza Roma, dal 2009 ad oggi. Direttore della Scuola Speciale di Chirurgia dell’Obesità ACOI-SICOB Presidente Nazionale ACOI. Presidente del Congresso Nazionale di Chirurgia Endocrina 2013; Presidente Pierluigi Marini del Congresso Nazionale SIC 2014. Autore di oltre 150 Pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali; Presidente, Relatore e Moderatore in numerosi congressi nazionali e internazionali.

Laureato con lode in Medicina e Chirurgia nel 1989; Specialista in Chirurgia Generale nel 1995. Dirigente medico dal 1997 di Chirurgia Generale; Dirigente UO Progettazione, coordinamento, sviluppo eventi formativi strategici aziendali ASL Roma 2 Missioni umanitarie: Chirurgo Responsabile con diverse ONLUS in Etiopia e Benin dal 2007 al 2013. Diplomato Scuola Speciale ACOI di Endocrinochirurgia nel 2011; Diplomato Scuola Speciale ACOI di Chirurgia Epatica nel 2016; Istruttore BLS-D e ATLS dal 1999. Docente numerosi Corsi di Laurea in Infermieristica e Fisioterapia Membro del Comitato di Redazione della Rivista ACOI News dal 2012; Tesoriere francesco nardacchione ACOI dal 2014 al 2017; Segretario Nazionale ACOI dal 2017 ad oggi; Membro comitato scientifico piano formativo ACOI. Autore di numerose Pubblicazioni su riviste nazionali e internazionali; Presidente, Relatore e Moderatore in numerosi congressi nazionali e internazionali.


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Note di endoscopia chirurgica delle principali malattie dell’apparato digerente

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ERAS in chirurgia colo-rettale

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Postfazione

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La chirurgia robotica

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Caratteristiche e sicurezza del blocco operatorio

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Peculiarità della chirurgia laparoscopica di base

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Chirurgia laparoscopica di base

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Drenaggi in chirurgia

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Emostatici in chirurgia

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Mezzi di sintesi meccanici

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Lo strumentario chirurgico

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L’infermiere strumentista

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La tecnologia di ultima generazione al servizio del chirurgo per la sicurezza dei pazienti

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Rischio clinico e sicurezza del paziente chirurgico

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Capitolo

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