Premiata Salumeria Italiana 1-2022

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Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIV N. 1 Gennaio-Febbraio 2022

€ 6,70



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SAPERE

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S A PE R E /sa·pé·re/ sostantivo maschile

Dal latino sàpere “avere sapore”: intuire il gusto delle cose, ma anche insaporirle, renderle preziose. Possedere la conoscenza, la pratica e l’esperienza che permettono di riconoscere la qualità delle materie prime senza fermarsi alle apparenze. 6LJQLÀFD HVVHUH WUDVSDUHQWL LQ FLz FKH VL ID Sapere è l’amore che mettiamo in ogni gesto.

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N. 1 Anno XXXIV Gennaio-Febbraio 2022

€ 6,70 Gruppo editoriale Edizioni Pubblicità Italia Srl

Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti

Comitato di redazione Franco Ferrari – Clara Fossato (UNICEB) – Giuliano Marchesin (Unicarve) – Gianni Mozzoni (Legacoop) – Manrico Murzi – François Tomei (Assocarni)

Redazione Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi

Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata

Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Luigi Credi – Chiara Zaccaroni Fotografia Luigi Credi

Euro Annuario Carne

Abbonamenti Fioretta Fiorentin

EURO ANNUARIO CARNE 2022

Amministrazione Andrea Tomassone

La banca dati internazionale del mercato delle carni sempre aggiornata, utile strumento di lavoro per gli operatori del settore lavorazione, commercio e distribuzione carni. Edizione 2022 Copia cartacea: € 95,00

Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo è impaginato con Adobe® InDesign® CC 2019. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2019.

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 0598671709 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com — Reg. al Tribunale di Modena n. 921 del 29-04-1988

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Tariffe abbonamenti Ufficio stampa e Media Partner Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA ISSN 1121-9068 – Iscritta nel ROC – Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 11256 del 14/6/2005 Stampa

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


N. 1

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

A pagina 46.

In questo numero:

Agenda

Bologna – Cremona

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Immagini

Prosciutto di San Daniele DOP

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Pasta artigianale Il Pasteto

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Bottega moderna

Allestimento, come dare identità alla tua bottega – Prodotti a peso, esperienza d’acquisto “zero waste”

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Memento

Addio a Tiziana Nogara, signora delle carni e dei salumi

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Calendario fiere

Fiere, eventi, convegni 2022

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Brevi storie di cibo lento Salàm fàt d’ocje furlàn a velocità contemporanea

Alessia Morabito

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Attualità

Guido Guidi

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Pane Coccoi, la Sardegna lavora per la DOP Record storico per l’Aceto Balsamico di Modena IGP

Il food in rete

Social food

Tendenze

Ecco tutti i trend culinari del 2022

Aziende

30 Elena Benedetti

34 36

Zuarina è un’arte sartoriale

Elena Benedetti

40

Salumificio Verza, oro e salumi

Gian Omar Bison

46

Rigamonti acquisisce il gruppo King’s

50

Pastificio Il Pasteto

Guido Guidi

52

Poggio Diavolino, galline di razze antiche e uova colorate

Massimiliano Rella

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Interviste

Porcobrado: opportunità e sviluppi di un panino toscano che non conosce confini

Federica Cornia

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Marketing

Villani Salumi, nuovo anno, nuovo percorso di marca

La Qualità

Lode al Prosciutto!

Eventi

Zampone e Cotechino Modena IGP: vince la scuola tedesca

Locali di gusto

Truffle Meat Experience

62 Mara Antonaccio

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Gaia Borghi

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A pagina 56.

Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIV N. 1 Gennaio-Febbraio 2022

€ 6,70

In copertina: l’Italia vanta un patrimonio unico al mondo in fatto di salami, diversi per speziatura, lavorazione e profumi (photo © Massimiliano Rella).

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Prodotti tipici

Tradizioni Sapori dal mondo

Ciuìghe del Banale

Chiara Papotti

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Salampatata

Massimiliano Rella

78

La coppa cotta bieleisa

Roberto Villa

82

La Confraternita del Tartufo rosso di Formignana

Nunzia Manicardi

84

Salumi d’Andorra

Riccardo Lagorio

88

La mortadella sovietica

Nunzia Manicardi

90

Io sono il foie gras

Josette Baverez Blanco 92

Il gusto di camminare

Di faro in faro

Elena Simonini

94

Formaggio

Formaggio Branzi, ventata di profumi alpini

Roberto Villa

98

In difesa del re dell’altopiano: l’Asiago d’allevo stravecchio

Chiara Papotti

102

Pasta

Frègula, briciole di Sardegna

Guidi Guidi

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Olio

Olio d’oliva, luminoso dono di Minerva

Giovanni Ballarini

106

A pagina 92.

A pagina 30.

A pagina 40.

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 8

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A pagina 62.

A pagina 58. A pagina 102.

Vino

Viticoltura eroica in Andorra

Riccardo Lagorio

110

I vini di Premiata Salumeria Italiana

Degustazione: rossi invernali

Laura Franchini

112

Birra

Dalla Terra alla Birra

Dolci

Gubana, mito friulano

116 Giovanni Ballarini

118

Sono 180 grammi, lascio? Vino di lillà

Giovanni Papalato

124

Storia e cultura

Preghiere, orologio della cucina

Giovanni Ballarini

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Tecnologie

I 6 migliori metodi di picking per produttori e rivenditori di prodotti alimentari: l’ERP CSB-System li supporta tutti

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Tre libri

Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo – Confesso che ho mangiato – L’arte del vino

136

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 10

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AGENDA

Bologna Dal 26 febbraio al 1o marzo 2022 a BolognaFiere si terrà la prima edizione della SANA Slow Wine Fair, manifestazione internazionale dedicata al vino buono, pulito e giusto. Organizzata da BolognaFiere, con la direzione artistica di Slow Food, la collaborazione di Società Excellence e la partecipazione di FederBio, Slow Wine Fair vedrà susseguirsi convegni, dibattiti, riflessioni, incontri con operatori del settore, masterclass e degustazioni di migliaia di etichette. Oltre 700 sono già confermate e nelle prossime settimane il numero è destinato a crescere ulteriormente. Ci saranno produttori provenienti da ogni angolo d’Italia (e non è un modo di dire: ci sono davvero tutte le regioni e province autonome!) e centinaia di realtà estere. Hanno già detto sì cantine di Albania, Argentina, Armenia, Austria, Bosnia, Brasile, Bulgaria, Cile, Croazia, Francia, Germania, Macedonia, Montenegro, Olanda, Perù, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Stati Uniti e Sudafrica. Un giro del mondo a suon di grandi vini. Ma non grandi vini qualsiasi, bensì etichette che rispondono a tre princìpi chiari, gli stessi che guidano la Slow Wine Coalition e che sono messi per iscritto nel Manifesto Slow Food per un vino buono, pulito e giusto: si tratta della sostenibilità ambientale, della tutela del paesaggio e del ruolo culturale e sociale che le aziende vitivinicole possono giocare nei territori dove operano (photo © Maja Petric x Unsplash). slowinefair.slowfood.it

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Cremona Tutti a Cremona! La seconda edizione di “Formaggi & Sorrisi, cheese & friends festival” si terrà dal 25 al 27 marzo, promossa dal Consorzio Tutela Grana Padano e dal Consorzio Tutela Provolone Valpadana, patrocinata dalla Regione Lombardia, dal Comune di Cremona e dalla Camera di Commercio di Cremona, e organizzata da SGP Grandi Eventi. Sarà un appuntamento imperdibile per appassionati e addetti ai lavori, per degustare, acquistare e conoscere meglio uno tra i prodotti made in Italy più apprezzati e imitati al mondo. Un ricco calendario di appuntamenti dedicati al grande pubblico di tutte le età, con spettacoli di animazione ed intrattenimento, showcooking, laboratori esperienziali e disfide, sculture di formaggio, affiancati a momenti informativi e culturali, tra i quali mostre, itinerari turistici, tavole rotonde, convegni, dimostrazioni dei metodi di arte casearia e didattica per grandi e piccini. Ma le novità non finiscono qui, ampio spazio a degustazioni guidate non solo di formaggi, verranno, infatti, proposti anche prodotti per speciali abbinamenti come composte, marmellate, mostarde, aceti e mieli e tutte le eccellenze gastronomiche che esaltano il connubio al palato con i formaggi. Non può mancare il consueto appuntamento con l’Oscar del Formaggio che verrà assegnato ad un personaggio noto che si sia particolarmente distinto nel suo campo e abbia contribuito a promuovere l’immagine del formaggio a livello sia nazionale che internazionale o che abbia un debole acclarato verso questo prodotto. www.formaggiesorrisi.it

MarcabyBolognaFiere spostata al 12 e 13 aprile 2022 Dopo l’annuncio del posticipo determinato dall’escalation degli indicatori pandemici evidenziati su scala nazionale, Bologna Fiere annuncia le nuove date della 18a edizione di MarcabyBolognaFiere: la manifestazione è stata riprogrammata al 12 e 13 aprile 2022. Un posticipo di tre mesi, dunque, che consentirà alla business community MDD di organizzare con maggiore tranquillità l’agenda degli incontri in fiera e agli operatori internazionali di pianificare la visita all’evento. Con oltre 900 aziende espositrici, la presenza della DMO e dei buyer nazionali e internazionali MarcabyBolognaFiere 2022 si conferma la piattaforma espositiva di riferimento per i protagonisti della PL food, non food e, con logica di filiera, per gli operatori di due ambiti fortemente collegati: quello dei prodotti freschi, a cui è dedicato un format esclusivo – MARCA FRESH – focalizzato quest’anno all’innovazione del comparto e quello riferito al settore dei beni intermedi per la supply chain MDD (Packaging, Logistica, Materie Prime, Ingredienti, Tecnologia e Servizi), cui è dedicata l’ottava edizione di MARCA TECH. MarcabyBolognaFiere è un evento organizzato da Bologna Fiere in collaborazione con ADM, Associazione Distribuzione Moderna. Il comitato tecnico scientifico 2022 vede la presenza di ARD/Ergon, Brico Io, C3, Carrefour, Conad, Coop, Coralis, Crai, Despar, D.it – Distribuzione Italiana, Italy Discount, Lekkerland, Marr, Selex, S&C Consorzio Distribuzione Italia, Tuodì, Unes, Gruppo Vegè. >> Link: www.marca.bolognafiere.it

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IMMAGINI

Il Gruppo Rigamonti, leader mondiale nella produzione di bresaola, amplia i propri orizzonti puntando alla salumeria italiana DOP e IGP attraverso l’acquisizione del 100% del Gruppo King’s e dei suoi marchi storici King’s e Principe, punto di riferimento del segmento Prosciutto San Daniele DOP. Leggete di più a pagina 50.

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Referente vendite per l’Italia


Il Grigio è una cooperativa sociale di inserimento lavorativo che opera nella provincia di Lecco. Manutenzione del verde, servizio catering e produzione di pasta fresca sono le attività produttive che professionisti di ciascun settore svolgono ogni giorno accanto a chi deve imparare un mestiere, a chi ha bisogno di un’occasione per riscattare la propria vita, a chi fa più fatica ad affrontare da solo il mondo del lavoro. Il laboratorio artigianale di produzione di pasta fresca, pasta secca, ravioli e prodotti di gastronomia si chiama Il Pasteto. Ce lo racconta meglio Guido Guidi a pagina 52.

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BOTTEGA MODERNA

Allestimento, come dare identità alla tua bottega Fa la differenza il posizionamento dei prodotti in un modo piuttosto che in un altro all’interno di una bella bottega di salumeria o gastronomia? Certamente! L’attrattività di un dato prodotto — che poi, tradotto in parole povere, significa quanto quel prodotto è capace di catturare l’attenzione del cliente — viene massimizzata proprio attraverso il suo allestimento. In questa foto c’è un dettaglio di interno di The Epicurean Trader, che a San Francisco (USA) è presente in diversi quartieri con botteghe che esprimono perfettamente l’equilibrio tra comunicazione, marketing del brand e dei vari fornitori di prodotti. L’allestimento è fondamentale e richiede la massima attenzione. Come scrive archweb.com, “esso diventa identitario e dev’essere in grado di far vivere un’esperienza al cliente”, accogliendolo e guidando la sua attenzione attraverso l’assortimento. Questo scatto di The Epicurean Trader è un buon esempio: ci sono le pareti a effetto lavagna che con la grafica orientano il cliente; c’è la disposizione dei prodotti, impeccabile, mossa nello spazio e non banale, e ci sono elementi decorativi, come in questo caso l’elemento floreale, che dà un tocco di eleganza e raffinatezza. A volte basta poco per rinnovare i propri spazi: più ordine, una disposizione più curata dei prodotti che meritano un giusto valore e un ambiente capace di accogliere il cliente, facendogli vivere una bella esperienza d’acquisto (photo © instagram.com/theepicureantrader).

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Prodotti a peso, esperienza d’acquisto “zero waste” La società IGD, leader nel cosiddetto “commercial insight”, lo inserisce nel mega trend del 2022: è lo shopping senza imballaggio. L’esplosione dell’e-commerce, soprattutto negli ultimi 2 anni, accelerata dalla pandemia globale e del forzato isolamento a domicilio che più o meno tutti abbiamo forzatamente sperimentato, con conseguente gestione dello smaltimento di carta, cartoni e imballi, ha reso noi consumatori più sensibili alla questione packaging e attratto ad un consumo differente. Da qui lo sviluppo dello shopping senza imballaggio, che potrebbe essere organizzato anche all’interno di una bottega tradizionale magari in un angolo dedicato, magari pensato per pasta, farine, cereali. Come scrive MARKET REVOLUTION (marketrevolution.it): “La scelta di acquistare prodotti a peso, senza confezione, o all’interno di tupperware ricaricabili, permette di ridurre il numero di imballaggi e quindi di rifiuti, di acquistare la giusta quantità di alimenti (permettendoci di evitare eventuali sprechi) e offre un discreto risparmio sui costi del prodotto: un vero e proprio sistema di acquisto consapevole e compatibile con l’ambiente. Sempre più sensibili alla quantità di rifiuti prodotta all’interno delle proprie case, molti consumatori stanno modificando le proprie abitudini verso una zero waste shopping experience. Al posto delle confezioni pre-impostate il negozio permette di riempire i propri dispenser con le quantità di cui si ha bisogno; al banco poi, il prodotto viene pesato e valutato” (stock © Iryna – stock.adobe.com).

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MEMENTO Addio a Tiziana Nogara, signora delle carni e dei salumi

L’abbiamo conosciuta sorridente, piena di energia e di entusiasmo nel suo “Sovizzo in carne”, che chiamava a raccolta tanti macellai veneti e di fuori regione che sposavano le sue cause benefiche di raccolta fondi con goliardia e gioia. Era cresciuta nella salumeria-macelleria di famiglia, fondata nel 1969 da papà Umberto, e vi lavorava con i fratelli Emiliano e Giorgio. Animatrice delle “Macellerie del Gusto”, Tiziana sapeva unire le persone e renderle partecipi di progetti comuni. Noi la vogliamo ricordare così, splendida, in questa foto che la ritrae al microfono in una bella festa dei Butchers for Children a Carpi (MO). Ci mancherai. Elena e tutta la Redazione di Premiata Salumeria Italiana

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Slow Wine

LA MANIFESTAZIONE INTERNAZIONALE DEDICATA AL VINO BUONO PULITO E GIUSTO

BOLOGNAFIERE 27-29 MARZO 2022 slowinefair.slowfood.it


CALENDARIO FIERE

Fiere, eventi, convegni

2022

ITALIA

Formaggio in Villa Mostra-mercato Cittadella (PD) 1-4 aprile Organizzazione: Guru Comunicazione Srl www.formaggioinvilla.it Summa Tenuta Alois Lageder, Magrè (BZ) 9-10 aprile Organizzazione: Alois Lageder AG summa-al.eu

Photo © taste.pittimmagine.com

Vinitaly Salone internazionale dei vini e distillati Verona, 10-13 aprile Organizzazione: Veronafiere Spa www.vinitaly.com Sol& Agrifood Salone Internazionale dell’Agroalimentare di Qualità Verona, 10-13 aprile Organizzazione: Veronafiere Spa www.solagrifood.com

Marca by BolognaFiere Bologna, 12-13 aprile Organizzazione: BolognaFiere www.marca.bolognafiere.it

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Photo © Dz Lab – stock.adobe.com

ESTERO

Winter Fancy Food Las Vegas (USA), 6-8 febbraio Organizzazione: Specialty Food Association, Inc. specialtyfood.com/shows-events/ winter-fancy-food-show/ Gulfood Dubai (EAU) 13-17 febbraio Organizzazione: Gulfood www.gulfood.com

Taste Firenze, 26-28 marzo Organizzazione: Pitti Immagine taste.pittimmagine.com

Anuga FoodTec Colonia (Germania), 26-29 aprile Organizzazione: Koelnmesse www.anugafoodtec.com

PLMA Global 28-31 marzo www.plmalive.eu Organizzazione: PLMA International Council www.plma.nl IFFA Francoforte (Germania), 14-19 maggio Organizzazione: Messe Frankfurt Exhibition GmbH iffa.messefrankfurt.com

Cibus Parma, 3-6 maggio Organizzazione: Fiere di Parma www.cibus.it Ipack Ima Milano, 3-6 maggio Organizzazione: Ipack-Ima ipackima.it

Cibus Tec Forum Parma, 25-26 ottobre Organizzazione: Fiere di Parma www.cibustec.it

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Alimentaria Barcellona (Spagna) 4-7 aprile Organizzazione: Alimentaria Exhibitions www.alimentaria.com Hostelco Barcellona (Spagna) 4-7 aprile Organizzazione: Alimentaria Exhibitions www.hostelco.com

Anuga HORIZON Colonia (Germania) 6-8 settembre Organizzazione: Koelnmesse GmbH www.anuga-horizon.com

SIAL Canada Montréal (Canada) 20-22 aprile Organizzazione: Comexposium www.sial-network.com www.sialparis.com SIAL Paris Paris Nord Villepinte (Francia) 15-19 ottobre Organizzazione: Comexposium www.sial-network.com www.sialparis.com

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BREVI STORIE DI CIBO LENTO A VELOCITÀ CONTEMPORANEA

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Salàm fàt d’ocje furlàn di Alessia Morabito (illustrazioni di Alessia Serafini)

i ricordo di me, prima delle cucine, delle brigate, del fuoco, dei coltelli, dei turni interminabili. Ricordo che scoprivo la vita a caso, senza guida che non fosse l’intuito, sostituivo, ad una realtà familiare troppo problematica per la mia età, un mondo altro di musica, di libri e di immedesimazioni e adesso, non per saggezza ma per età, vedo i disegni intricati e bellissimi del mio percorso. Vedo che il cibo c’è sempre stato anche prima che me ne rendessi conto. Con i miei amatissimi amici di allora, coi quali condividevo la passione per le rievocazioni storiche dettagliate, partiamo da Livorno alla volta del Friuli, alla ricerca del fabbro che forgiasse le nostre spade da combattimento. All’ora di pranzo, ci fermiamo in una piazza assolata e deserta, un gatto solitario, nessuna auto, un duomo medievale, mura spesse ed un loggiato con locanda, locanda da secoli. Ci sentivamo come BENIGNI e TROISI in “Non ci resta che piangere” e non mancarono spezzoni recitati ad alta voce e grasse risate. Ci sediamo, ordiniamo vino locale e salumi tipici. Sul tagliere che condividiamo c’è lui, il salame d’oca grigia friulana. Insaccata nel collo d’oca ricucito a mano, la carne rosso scuro tagliata a punta di coltello sembra granato, il leggendario carbonchio medievale, pietra che si diceva potesse illuminarsi al buio e fosse in grado di donare luce e speranza alle anime che si trovano nell’oscurità. Al naso sento, oltre che la fragranza della carne, il profumo di pepe garofanato. La nostra locandiera ci racconta che il “salàm fàt d’ocje furlàn” è una ricetta rinascimentale di origine ebraica, forse veneziana, ma in Friuli si allevano le oche da sempre e con facilità deve essersi diffusa. Di salame d’oca ci sono versioni stagionate oppure cotte, la versione che ha presentato a noi è molto rara perché è pura, è più diffusa l’abitudine di far salami con metà carne di maiale, in cascina è cosa normale che i due animali simbolo del “non si butta via niente” convivano e vengano macellati nello stesso periodo. Rispetto ad altri salami d’oca in Italia il salame d’oca grigia friulano non ha molti movimenti di tutela eppure sopravvive degnamente. A fine giornata alcuni di noi tornano indietro con spade a due mani, da striscia, spadini e misericordie. Son passati poco più di vent’anni da quella giornata. Nel tempo ho abbandonato i broccati e le spade e brandisco coltelli da cucina. Diversamente, rispetto ad allora, mi rendo conto di vivere la meraviglia mentre la meraviglia si compie — sinestesie potenti, alchimie tra persone, paesaggi generosi — amplifico i sensi e la felicità rimane pura. Da ragazza avevo paura d’essere felice.

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ATTUALITÀ

Pane Coccoi,

LA SARDEGNA LAVORA PER LA DOP I panificatori isolani chiedono la massima tutela per uno dei prodotti più pregiati della tavola regionale di Guido Guidi

“Il Sardo ama mangiare molto pane e solo pane bianchissimo di frumento puro, non molto levato, pesante come il pane d’Italia; ma anche la più povera gente, i soldati, tutto mangia pane bianco; ne mangeranno meno, ma lo vogliono bianco; e nell’ultima carestia e quasi fame quest’inverno si stentò molto ad avvezzar la gente a mangiar pane misto a metà nero; non lo volevano piuttosto soffrivano la fame” Francesco IV D’Austria Este, in la “Descrizione della Sardegna” (1812)

ane Toscano DOP, Pane Casereccio di Genzano IGP, Coppia Ferrarese IGP, Pagnotta del Dittaino DOP, Pane di Altamura DOP e Pane di Matera IGP: sono queste le sei denominazioni europee nazionali sul pane, a cui la Sardegna vorrebbe aggiungere quella del Coccoi DOP. Un comitato promotore di panificatori sparsi in tutta l’isola si candida infatti a fare la richiesta ufficiale al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, nella convinzione che quel pane bianchissimo, tanto bello da vedere quanto buono da gustare, meriti un posto nell’Olimpo delle eccellenze alimentari. E, soprattutto, sia degno di una tutela. D’altronde, che sia nella versione più semplice o che si tratti del Pani Pintau, utilizzato princi-

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palmente per le ricorrenze o i grandi eventi della vita, il Pane Coccoi richiede sempre una certa lavorazione artistica, che gli conferisce un aspetto unico. Il pane, re della tavola, è in tutte le culture un cibo ricco di simbologia e storia, oltre che elemento importante per il sostentamento. Ad esso erano un tempo legate funzioni sacre, simboliche e terapeutiche, aspetti testimoniati anche da riti, cerimoniali o preghiere formulate da chi si apprestava alla preparazione. Allo stesso tempo, c’erano pani legati al ciclo agro-pastorale che si ritenevano propiziatori, col potere di intervenire beneficamente sull’annata o sul bestiame. Trattamenti speciali venivano, inoltre, riservati ai bambini, ai malati e alle puerpere, mentre le pagnotte meno pregiate erano destinate ai cani, alla servitù e ai mendicanti. E se al pane veniva data un’aura di sacralità, il potere del lievito sull’impasto si faceva leggenda, poiché riesce a renderlo vivo e si rinnova nella pasta madre, per settimane, mesi, anni. Produzione e consumo riflettevano la sfera sociale e culturale, divenendo così elemento presente in ogni tappa della vita, sia del singolo, sia della comunità. Lo è ancora oggi, ma lo era soprattutto in passato, in particolare nelle zone dell’interno. E, cosa strana, in un ambiente povero come quello sardo, storia vuole che anche le classi meno abbienti si permettessero una qualità mediamente molto elevata di pane. Un fatto talmente anomalo e sorprendente che le narrazioni storiche

testimoniano diffusamente, sottolineando che i sardi, spesso a dispetto delle loro condizioni economiche, si permettevano il lusso di un pane bianchissimo e pesante, così candido da far esplodere il contrasto con il sudicio delle mani di chi lo portava alla bocca. Quel pane, che spesso non viene citato con il suo nome nella letteratura di alcuni secoli fa, era indiscutibilmente il Pane Coccoi. Eccezion fatta per la produzione del grano, la sua preparazione era prerogativa femminile. Sin dalla più tenera età, le donne erano chiamate a partecipare alle fasi preliminari di lavaggio, selezione, molitura e setacciatura della materia prima. La dimostrazione di saperlo fare bene costituiva requisito fondamentale che lo sposo richiedeva alla sua sposa. Ed erano donne, le note panetteras del cagliaritano che, per le loro capacità di panificazione, hanno fatto la storia del capoluogo isolano e non solo. Il pane degli sposi, tra i Coccoi, è certamente quello che maggiormente colpisce per la sua lavorazione. Pur essendo perfettamente edibile, è tanto bello, ricercato e prezioso, da non essere consumato. Dopo una panificazione notturna che normalmente avveniva a pochissimi giorni dalle nozze e che vedeva coinvolte la stessa sposa, con amiche e parenti, il pregiatissimo pane veniva portato a casa dei consorti con il corredo. Un pane ornamentale, la cui bellezza era data dall’estro creativo della donna de manus bellas (dalle mani belle

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Simbolo di ricchezza e prosperità, il pane sardo coccoi viene utilizzato nelle occasioni più importanti della vita del singolo e della comunità.

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Attraverso la sforbiciatura le forme vengono incise con strumenti molto semplici e artigianali quali coltello, forbici, rotelle dentate o lisce. Questa operazione, più o meno veloce ed elaborata a seconda della destinazione d’uso del pane Coccoi, è un tratto artistico, ma anche un modo per ottenere una migliore e più uniforme cottura.

in quanto capaci), che si poteva esprimere senza particolari limitazioni alla sua creatività, impiegando addirittura elementi allusivi alla sfera sessuale. Il simbolo del fiore ricorre frequentemente, ma anche gli archi, gli uccelli, l’uva, la serpentina, tutto a richiamare fertilità, felicità e ricchezza.

E anche se i pani cerimoniali sono sempre più in disuso, fortunatamente tuttora persiste uno zoccolo duro di famiglie delle zone interne, in cui l’arte della panificazione domestica è ancora in auge e molte tipologie di Coccoi sopravvivono, per esempio, quelle preparate in occasione della Pasqua

Il Coccoi è il terreno di prova della bravura di chi lo produce. Non è solo un fatto di decorazione del prodotto, c’è anche il succedersi delle stagioni, umidità, calore o sbalzi termici: la lievitazione della pasta è tutt’altro che un dettaglio. Al contrario, è quella delicata fase da cui dipende la qualità del pane. Da questo punto di vista può essere solo l’occhio attento e sensibile degli artigiani a fare la differenza

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(con l’uovo o con uvetta), del Natale, della morte, della nascita e in alcuni comuni, per i santi. Anche alcuni panifici rinnovano la tradizione, proponendo i pani cerimoniali su prenotazione o in occasioni particolari, seppure sia evidente che non possa trattarsi del core business dell’impresa. Il pane della sposa rappresenta la massima espressione artistica, ma del Coccoi si apprezza anche una maggiore semplicità. Sempre meno richiesto perché poco pratico e oggi abbandonato per formati più facili da consumare anche fuori casa, il Pane Coccoi DOP sarà un prodotto realizzato unicamente con materia prima isolana e lievito madre, il cui impasto conterrà semola di grano duro, farina di grano duro (fior di farina), acqua, sale marino e pasta madre. Quest’ultima, detta anche pasta acida, frommentu, framentu o framentarzu, deve essere rigorosamente

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realizzata con un composto di sfarinati di grano duro e acqua. La sua fermentazione avviene poi spontaneamente, a temperatura ambiente. Per la sua rigenerazione si preleva un pezzo di impasto dalla lavorazione del giorno precedente che viene sciolto in acqua tiepida con l’aggiunta di sfarinati di grano duro. Tra i panifici facenti parte del Comitato promotore della DOP, molti dei quali storici e con più di quarant’anni di vita alle spalle, in tanti vantano un lievito madre che si rinnova da decenni e che da decenni viene impiegato nella stessa azienda, giorno dopo giorno. Ciò che ulteriormente caratterizza questo pane è la doppia lievitazione che avviene prima e dopo la formatura è la sforbiciatura. Raggiunta la consistenza desiderata della pasta segue infatti la spezzatura e la prima modellatura e immediatamente una fase di lavorazione artistica, più o meno complessa, a scelta di chi panifica. Le forme vengono incise con strumenti molto semplici e artigianali, quali coltello, forbici, rotelle dentate o lisce. Naturalmente nei pani cerimoniali questa è una fase altamente curata che richiede anche la realizzazione di veri e propri decori. La sforbiciatura del prodotto destinato alla vendita quotidiana è ovviamente più veloce e meno elaborata, ma è tutt’altro che insolito trovare nelle vetrine nei panifici sardi meravigliosi Coccoi che fanno bella mostra di sé, lasciando attoniti per la loro forma ricercata. La sforbiciatura, d’altronde, è un tratto artistico, ma anche un modo per ottenere una migliore e più uniforme cottura. Il Coccoi è il terreno di prova della bravura di chi lo produce. Non è solo un fatto di decorazione del prodotto. C’è anche un succedersi delle stagioni coi diversi influssi climatici, umidità, calore o sbalzi termici: la lievitazione della pasta è tutt’altro che un dettaglio. Al contrario, è quella delicata fase da cui dipende la qualità del pane. Da questo punto di vista può essere solo l’occhio attento e sensibile dell’artigiano o dell’artigiana a fare la differenza, nonostante il supporto, oggi, di molti strumenti pensati all’uopo. Guido Guidi Nota Photo © Marco Maddanu Fotografo, Panificio Porta di Gonnosfanadiga.

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RECORD STORICO PER L’ACETO BALSAMICO DI MODENA IGP Ben 100 milioni i litri certificati! E l’attività del Consorzio, che non si è mai fermata durante la pandemia, ha in cantiere nuovi progetti di valorizzazione e tutela del prodotto 30

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A sinistra: Aceto Balsamico di Modena IGP, un prodotto che sa armonizzare e bilanciare le caratteristiche dei singoli ingredienti del piatto. Un aceto giovane e leggermente corposo sarà più indicato nella preparazione di cibi cotti, mentre un prodotto con una corposità più accentuata e caratterizzato da un invecchiamento prolungato sarà più adatto come condimento di insalate di verdure e frutta o per rifinire dessert e cocktail. A destra: una botte di Aceto Balsamico di Modena IGP.

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a pandemia non ha messo il freno all’Aceto Balsamico di Modena. I dati presentati lo scorso dicembre all’assemblea dei soci del Consorzio di tutela, e relativi al 2021, parlano addirittura di un incremento della produzione dell’11% a volume, che viene così portata a superare la soglia dei 100 milioni di litri certificati. «È un momento storico — ha dichiarato Mariangela Grosoli, presidente del Consorzio di tutela dell’Aceto Balsamico di Modena — perché mai fino ad oggi il nostro comparto era riuscito a superare la soglia dei 100 milioni di litri. Poi, che un tale record venga segnato nel mezzo di questa congiuntura globale caratterizzata da livelli di incertezza e complessità mai visti, ne enfatizza ancora di più il valore materiale e simbolico. Potremmo dire che, in un momento in cui le relazioni internazionali si arrestano o rallentano e molti operatori sono costretti ad atten-

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dere e a rimanere a guardare, l’Aceto Balsamico di Modena mostra di avere capacità di saper reagire e di guardare al futuro con fiducia». Questo incredibile risultato produttivo non è però l’unico successo dell’anno trascorso: infatti, intuendo i cambiamenti in atto, i nuovi trend ed esigenze, il Consorzio ha avviato progetti innovativi al passo con questa dinamica di transizione. Da segnalare, in parti-

colare, la svolta digitale dell’attività di monitoraggio, vigilanza e repressione delle frodi e delle contraffazioni a livello globale. «Quando abbiamo intuito che le modalità di svolgimento del lavoro di tutela e vigilanza classiche non erano più adeguate ai cambiamenti in corso, ovviamente accelerati dalla pandemia — spiega Federico Desimoni, direttore del Consorzio di tutela dell’Aceto Balsamico di Modena — abbiamo deciso

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Mariangela Grosoli, presidente del Consorzio, premiata con l’Italian Food News Award per l’azione di internazionalizzazione del prodotto diventato un baluardo del made in Italy Un prestigioso riconoscimento per l’Aceto Balsamico di Modena IGP ed in particolare per la presidente del Consorzio di tutela, Mariangela Grosoli, che ha ricevuto a Roma, sabato 18 dicembre, durante il festival del cinema gastronomico Cinecibo ai Cinecittà Studios, l’Italian Food News Award. Un premio organizzato e promosso dall’omonima testata giornalistica che viene attribuito ad aziende, persone e prodotti eccellenti dell’agroalimentare italiano indicati da una giuria di professionisti del settore. La motivazione che ha portato alla scelta della figura dell’imprenditrice modenese è stata: “A Mariangela Grosoli, in qualità di presidente del Consorzio di tutela dell’Aceto Balsamico di Modena. Per l’azione di internazionalizzazione del prodotto diventato un baluardo del made in Italy, coprendo 120 paesi esteri, esportando il 92% della produzione”. «Ricevere questo premio è motivo di orgoglio non solo per me ma per tutto il Consorzio che mi pregio di rappresentare — ha commentato Mariangela Grosoli — anche perché il grande lavoro che esso porta avanti quotidianamente è frutto dell’impegno di un gruppo coeso che ha saputo cogliere l’occasione di far squadra per raggiungere un obiettivo comune. Ovvero quello di tutelare un prodotto di eccellenza e promuoverlo anche al di fuori dei confini nazionali. L’Aceto Balsamico di Modena è infatti uno degli ambasciatori più significativi del made in Italy agroalimentare nel mondo, proprio in virtù dell’ampia fetta di produzione che viene destinata all’export».

di cambiare paradigma. Dopo una prima fase di studio, siamo riusciti a realizzare e attivare nuovi strumenti che permettono di allargare la nostra attività di vigilanza e repressione delle frodi a tutto il mondo, senza particolari costi e con tempistiche incredibilmente veloci. In questo modo abbiamo trasformato la crisi in una grande opportunità». Questi strumenti di vigilanza permettono non solo di monitorare globalmente il mondo digitale, ma anche di intervenire rimuovendo quelle offerte che violano i diritti di proprietà intellettuale del Consorzio. Inoltre, garantiscono la possibilità di verificare tutti i prodotti offerti in vendita e, tra quelli, i casi illegittimi di contraffazione, di evocazione o imitazione e, conseguentemente, di programmare azioni in loco degli agenti vigilatori del Consorzio. Ma, più delle parole, sono i numeri ad esprimere la potenzialità di questo nuovo modello organizzativo: infatti, solo negli ultimi mesi dell’anno sono state analizzate quasi 8.700 inserzioni afferenti all’Aceto Balsamico di Modena IGP su 43 piattaforme differenti. Tali offerte, pubblicate da 2.967 venditori, al momento dell’elaborazione dei dati generavano un totale di 169.251 vendite stimate per un fatturato complessivo di 3.331.900,63 euro. All’interno di queste, sono emerse 236 offerte ritenute illegittime in quanto in violazione dei diritti del Consorzio riferite a differenti 6 piattaforme e riconducibili a 81 venditori. Gli interventi sono stati immediati e, a distanza di pochi giorni dalla rilevazione, hanno ottenuto un esito positivo al 100% in quanto in 234 casi è stata completamente rimossa l’inserzione, nei restanti 2 sono state operate le rettifiche necessarie a rimuovere le informazioni fraudolente. A livello nazionale il monitoraggio ha coinvolto 8.800 punti vendita digitali riferiti a oltre 77 catena di GDO operanti in Italia e ha rilevato 179 inserzioni riferite a diciture, a etichette o a prodotti irregolari. Un anno da record e di record partendo dalla produzione per arrivare alla repressione, che apre uno spiraglio di luce in un periodo tragico e preoccupante e aiuta a ripensare con grande ottimismo questa fase di ripartenza. >> Link: www.consorziobalsamico.it

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Riconoscere la qualità, realizzarla e portarla sulla tavola di tutti

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IL FOOD IN RETE

SOCIAL di Elena

1. Raspini sceglie Shopiemonte.com Da sempre attenta ai cambiamenti del mercato e alle esigenze dei consumatori, Raspini Spa è approdata all’on-line su shopiemonte.com, una bottega digitale di enogastronomia piemontese che unisce la tradizione all’innovazione. Per Raspini (raspinisalumi.it) la volontà di essere presente nella distribuzione on-line è sicuramente un modo innovativo e rapido per essere più vicina ai consumatori abituali, ma anche l’occasione per offrire un ulteriore canale distributivo a chi, per consuetudine consolidata o momentanea questione di tempo, preferisce questo modo di fare la spesa (photo © raspinisalumi.it).

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2. Darren Broom, la magia del cibo È uno chef inglese e lavora al Pythouse Kitchen Garden a Tisbury, Wiltshire. Si chiama Darren Broom e la sua passione sono carne, fuoco, pesce, verdure e tanto pane. Il suo modo di interpretare il cibo è ricco di fascino e cultura. La bellezza sprigiona da ogni suo piatto, autentico e non filtrato da sovrastrutture. Al centro c’è la materia prima, naturale e grezza, come piace a noi. Da seguire su instagram.com/ chefdarrenbroom (photo © instagram.com/chefdarrenbroom).

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FOOD Benedetti

3. Consorzio della Culatta Emilia, anche nel web È operativo da inizio anno il Consorzio della Culatta Emilia, formato da un gruppo di produttori finora riuniti in semplice associazione. Sul sito www.culattaemilia.com ci sono informazioni sul prodotto e la sua tradizione. La culatta si ottiene dalla coscia senz’osso, senza gambo e senza fiocco. La lavorazione è essenziale, il prodotto non è insaccato poiché un lato è coperto dalla cotenna, mentre la parte magra viene ricoperta di sugna per mantenerlo morbido durante la stagionatura. La culatta viene poi messa in rete e stagionata nelle cantine naturali (photo © culattaemilia.com).

4. Taste 2022 anche su Instagram Slice the unexpected! Un po’ cartoon, un po’ pop art: è la nuova campagna dalla grafica coloratissima, piena di energia e tutta da gustare con gli occhi che annuncia il ritorno di “Taste. In viaggio con le diversità del gusto” (taste.pittimmagine.com), la manifestazione di Pitti Immagine che presenta il meglio delle eccellenze enogastronomiche italiane e della food culture contemporanea. L’appuntamento è in Fortezza da Basso, Firenze, dal 26 al 28 marzo coi buyer internazionali, gli operatori specializzati, la stampa italiana ed estera e il pubblico di appassionati. Da seguire anche su instagram. com/pittitaste (photo © instagram.com/pittitaste).

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TENDENZE

ECCO TUTTI I TREND CULINARI DEL 2022 La gestione della cucina sarà più local, sostenibile e tecnologica iliera sempre più corta, la riscoperta di ingredienti poveri e dimenticati, un’attenzione sempre maggiore verso la riduzione degli sprechi e il consolida-

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mento del delivery e della tecnologia, non solo verso il consumatore finale (con la differenziazione del menù riservato al segmento oramai indispensabile delivery) ma anche come canale di

approvvigionamento per il ristorante stesso. Questo il quadro che emerge dall’analisi della start-up Soplaya sui trend che più impatteranno le cucine dei ristoranti nel 2022.

Green e sostenibili: molti chef scelgono di avere un proprio orto per disporre di materie prime sempre fresche e eliminare gli sprechi (photo © Jacob Lund).

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Stay local Un po’ per i rinnovati gusti dei consumatori, un po’ per le contingenze portate dalla pandemia, gli chef stanno sempre più reintroducendo nei propri menù ingredienti locali, che spesso reperiscono direttamente dal produttore. «In media negli ultimi sei mesi, per ogni ordine effettuato da uno chef o da un ristorante tramite la nostra piattaforma, il 50% dei prodotti selezionati proviene da piccoli produttori vicini, anche geograficamente, alle location dei ristoranti; moltissimi, addirittura, sono presidi Slow Food», commenta TOMMASO TERENZIANI, farm manager della start-up. Largo agli ingredienti “poveri” Il pesce vola al +136% grazie alle varietà dimenticate. E anche alcuni ingredienti nell’area ortofrutta stanno letteralmente esplodendo, portando la categoria al +49% sul fresco e al +45% sulla cosiddetta “quarta gamma”. Menù più sostenibili Sempre più chef richiedono prodotti tracciati e allenano creatività e innovazione per usare gli ingredienti nella loro interezza. «Rispetto al passato, osserviamo la tendenza a fare ordini più piccoli, ma più frequenti: gli chef che ordinano ogni giorno, sfruttando i progressi fatti grazie a tecnologia e logistica, riescono a tenere sotto controllo la shelf-life dei prodotti e limitare gli sprechi anche del 30%», spiega Terenziani. Il delivery conquista la sua linea Il delivery, dall’essere un canale “contingente”, diventa a tutti gli effetti un core business per molti ristoranti, che si stanno attrezzando dedicando alle consegne a domicilio e all’asporto un menù a sé stante. Digitalizzazione delle cucine Se il 2020 ha visto chef e ristoratori avvicinarsi timidamente alla tecnologia (il 33% di aziende della ristorazione aveva dichiarato di aver investito solo il 5% del budget per l’introduzione di strumenti tecnologici), il 2021 ha rappresentato un’accelerata e il 2022 sarà l’anno della definitiva svolta tecnologica anche per gli chef e le loro brigate. Fonte: EFA News European Food Agency

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Photo: Gurus Lido Vannucchi

Disponibile anche al pistacchio.

www.mortadellafavola.it


IN BUONE MANI. % 100 ITALIANO


AZIENDE

Zuarina è un’arte sartoriale Solo le cosce migliori, il giusto sale, lunghe stagionature e l’esperienza di persone che trasformano un prodotto in un’esperienza unica di dolcezza e profumi di Elena Benedetti

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Non è un caso che i prosciutti buoni si facciano a Langhirano, nel Parmense, dove quotidianamente c’è una brezza di valle, una brezza calda, che sale dalla Pianura, e una di monte, più fredda. Ed è in base all’esperienza, al saper fare le cose, alla conoscenza che si decide quando aprire le finestre…

Il prosciutto di Parma e le altre linee di prodotto del brand Zuarina nascono così, in uno stabilimento che è perfetto equilibrio tra innovazione e artigianalità, tecnologie e manualità, rapidità nei processi e lunghissimo riposo, aria fresca dell’Appennino e vento marino dalla vicina Toscana. E tutto ciò si trasforma in sapore

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N

on capita spesso di visitare uno stabilimento, un sito produttivo di qualsivoglia settore o prodotto e di uscire con tanti nomi in testa, nomi propri di persone che in quel luogo svolgono un lavoro fatto di esperienza, gesti, abilità e sapere in un contesto moderno e automatizzato. Non ci siamo stretti la mano perché loro erano impegnati a fare cose, e non sarebbe stato comunque possibile a causa di ovvi protocolli di sicurezza e igiene, ma con gli occhi ci siamo scambiati sorrisi (dati i volti coperti), mentre io li osservavo con rispetto e ammirazione. Entrare in Zuarina a Langhirano (PR) e visitarla in lungo in largo è così, un’esperienza bellissima. Perché c’è la signora SILVIA, che da trent’anni spalma la sugna sui prosciutti, la quantità necessaria e non di più o di meno, nei punti giusti, con movimenti che una macchina non potrebbe replicare perché manca della sensibilità che le sue mani hanno acquisito col tempo. Ci sono DANIELE, al disosso, e PIERO, alla preparazione e spedizione ordini, che lavorano e scelgono i prosciutti sulla base delle specifiche del cliente che sta dietro ad un ordine, che sia un importatore giapponese che chiede 400 prosciutti o una piccola bottega che fa un “ordinino di 3”! Stessa cura, stesso impegno, stesso tempo dedicato ad ogni prosciutto. Poi c’è MARCELLO CHIASTRA, a capo del ricevimento del fresco, che sa e vede tutto quello che arriva. I suoi occhi — e quelli del suo team — non si lasciano scappare nulla e, rigorosi, effettuano una rigidissima selezione di quello che arriva dai macelli, scartando tutto ciò che non è ritenuto all’altezza di Zuarina. E NICOLA? Che lo vedi girare nelle sale di stagionatura, ordine alla mano? È a cercare le cosce stagionate giuste per quel dato ordine, mercato, cliente, gusto, richiesta. E tante ancora sono le lavoratrici e i lavoratori di questo prosciuttificio al centro della Val Parma, che se ti affacci alle grandi finestre che danno luce e aria buona ai prosciutti a riposo vedi le colline e il Monte Caio (1.584 metri), e se sali sul crinale in un giorno di sole puoi scorgere anche il Golfo di La Spezia. Perché non è un caso che i prosciutti buoni si facciano a Langhirano, dove quotidianamente

c’è una brezza di valle (calda, che sale dalla Pianura) e di monte (più fredda), come mi ha spiegato un altro Marcello, MARCELLO BARILLi, direttore di produzione. «Ci sono stabilimenti, tra i quali il nostro, che hanno una sonda esterna e un comando di apertura delle finestre in automatico. Il computer non sa però che il prosciutto appena sugnato necessita o meno aria fresca. Noi abbiamo tanti ambienti che raccolgono ciascuno 6-7.000 prosciutti e quello che facciamo è aprire le finestre quando decidiamo che le condizioni esterne lo consentono». In base all’esperienza, al saper fare le cose, alla conoscenza. Ma andiamo con ordine e partiamo dall’inizio, in questo tour di Zuarina che porterà a capire perché fare prosciutti crudi di alta qualità è un mestiere quasi sartoriale. Materie prime, uno dei segreti del prodotto Al ricevimento delle cosce fresche Marcello Chiastra non ha dubbi: «L’incidenza della materia prima sulla qualità del prodotto è elevata e ciò significa che se non parti da una buona selezione rischi di compromettere la resa». Zuarina lavora solo cosce di suini pesanti nati ed allevati nella pianura Padana. Ma cosa significa selezionare? Gli operatori preposti al selezionamento delle cosce fresche giunte in Zuarina dai vari macelli esaminano ogni coscia per forma, potenziale resa, identificazione di eventuali difetti (colore, massa grassa e magra, macchie) e anche qui ciò che conta è l’esperienza. Partire da una buona materia prima è fondamentale per realizzare un prodotto di qualità costante. «Sappiamo che ci può essere la tentazione da parte del mercato di “bollare” Zuarina come il prosciuttificio della cooperativa imolese CLAI ma non è così… Zuarina è particolare, unico, distintivo. E questa distintività viene esaltata dalla caratteristiche qualitative del nostro gruppo, di cui la filiera di carne italiana di alta qualità è la bandiera principale. Tecnicamente il nostro macello copre circa la metà del fabbisogno di cosce e viene valutato con la stessa rigidità e gli stessi alti criteri di controllo che adottiamo per gli altri fornitori» sottolinea GIANFRANCO DELFINI, direttore marketing di CLAI e Zuarina.

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A sinistra: l’incidenza della materia prima sulla qualità del prodotto è alta. Per questo motivo Zuarina seleziona ogni coscia di suini pesanti nati ed allevati nella pianura Padana conferiti da vari macelli italiani allo stabilimento di Langhirano e ne scarta mediamente il 15-20%. A destra: la sugnatura viene eseguita manualmente con un impasto di grasso di maiale, sale, pepe, farina di riso e amido di mais. Il prodotto finito non contiene fonti di glutine o lattosio.

«Abbiamo tutti i vantaggi dell’essere parte della filiera CLAI, con bravissimi allevatori che sono soci, e con uno scambio diretto di informazioni e di conoscenze che è importante e che fa la differenza» sottolinea Marcello Barilli. «L’approvvigionamento avviene da tanti produttori italiani, tutti di altissimo livello». Il prodotto ricevuto che passa la selezione viene quindi stabilizzato in una cella di tempering per equilibrare le temperature delle cosce.

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Sale e riposo Si passa quindi alla salatura, in una prima fase a cui seguono riposo e massaggio, per poi ripeterla e lasciare riposare le cosce a stabilizzare in cella per 3 settimane. «Il sale lo riceviamo direttamente dalle saline e scegliamo noi le diverse grane a seconda del tipo di processo, che avviene sia a mano che a macchina» mi spiega Marcello Barilli. Dopo tre settimane i prosciutti vengono collocati in celle che

chiamiamo di pre-riposo e che sono le uniche a ventilazione forzata dello stabilimento. Il motivo di questo passaggio è legato al fatto che i prosciutti vanno asciugati in modo deciso ma non violento, per evitare che si formino alterazioni superficiali. «Siamo tra i pochi nel settore ad avere questa fase di pre-riposo di 4 settimane che riteniamo fondamentale». Da quando il prosciutto entra in cella fino a quando si conclude la lavorazione

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del freddo in Zuarina trascorrono oltre 120 giorni, contro i 90 giorni medi del comparto. «È parecchio tempo in più e lo sa perché è importante per noi? Perché il poco sale che noi mettiamo sulle cosce deve avere il giusto tempo di diffondersi, conservare e stabilizzare. La lavorazione è lenta e giusta» sottolinea Marcello Barilli. A metà del pre-riposo viene svolta la tolettatura, rigorosamente a mano: si taglia l’anchetta e si crea la forma a coda di rondine, per poi rifinire col coltello per dare la forma definitiva. Dopodiché i prosciutti escono dal freddo, si alza gradualmente la temperatura e si procede con lavaggio e asciugatura. «Anche qui noi ci prendiamo il tempo necessario con una temperatura dell’acqua che non scotta e che non aggredisce il prosciutto. In asciugatoio replichiamo quello che si faceva un tempo a Langhirano: dopo 4 mesi di freddo e il primo sale, i prosciutti si lavavano e si mettevano ad asciugare al tiepido sole di primavera». Si dà un colpo di caldo, si porta il prosciutto alla temperatura dell’aria di 20-22 °C per alcune ore e poi si torna ad abbassare. In questo modo il prosciutto si ammorbidisce e si spingono i lieviti a ripartire. Sugnatura e stagionatura Segue la pre-stagionatura in ambienti dotati di stazioni aeree di pesatura, con personale che giorno dopo giorno segue l’evoluzione del prodotto e i cali peso, e ad una temperatura di 17-18 gradi, nella quale occorre dare tempo alle componenti microbiche e metaboliche delle carni di lavorare. Per agevolare il processo si arresta il calo peso con la sugnatura, un’operazione fatta manualmente che impermeabilizza quella parte del magro che cede più acqua e umidità ricoprendola con grasso di maiale (impastato con sale, un pizzico di pepe, farina di riso e amido di mais). «Da questo punto in poi i cambiamenti sono sempre più rallentati, quasi impercettibili. Ma ciò non significa che l’attenzione rallenti. Prima della marchiatura ogni prosciutto è seguito e analizzato: con l’ago, con le mani e con gli occhi». A completamento dei processi c’è l’area disosso. «Dopo un lavaggio veloce per rimuovere la sugna e operare

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In alto: il cosiddetto “puntatore” sottopone ogni coscia al controllo olfattivo eseguito con un ago in osso di cavallo chiamato anche fibula. In basso: da sinistra, Marcello Barilli, direttore di produzione, Marcello Chiastra, responsabile dell’area ricevimento cosce fresche, e Gianfranco Delfini, direttore marketing CLAI e Zuarina.

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Le linee di Zuarina • Prosciutto di Parma DOP Zuarina Lunga stagionatura: nato da cosce accuratamente selezionate dei migliori suini padani. Stagionato lentamente per 30 mesi. Profumo intenso, dolcezza unica. Una prelibatezza anche per i palati più fini ed esigenti. • Prosciutto di Parma DOP Zuarina Gran Riserva: un prosciutto fragrante e particolarmente dolce. Nato da cosce accuratamente selezionate di suini padani di alto peso ed esteticamente perfetti con il giusto spessore di grasso, ideali per una lunga stagionatura. Profumo intenso, grande e persistente dolcezza, colore rosa delicato. Una delizia per il palato. Stagionatura minima 24 mesi. • Prosciutto di Parma DOP Zuarina: la dolcezza rinomata in tutto il mondo. Nato da cosce di suini pesanti nati ed allevati nella Pianura Padana. Personalità spiccata, con un profumo intenso che si sposa con una persistente dolcezza. La stagionatura varia dai 18 ai 22 mesi. • Prosciutto Antico Rustico Zuarina: dagli allevamenti della Pianura Padana, vengono selezionate le migliori cosce che sono poi lavorate con l’expertise che ha reso Zuarina uno dei marchi di riferimento del settore. Il prosciutto completa la fase di stagionatura nella cascina di pietra adiacente allo stabilimento di Langhirano. • Culatta Zuarina (in foto): è un salume italiano d’eccellenza, tipico della zona di Parma. Dalla consistenza morbida e dal colore uniforme in tutte le parti del taglio, la Culatta Zuarina ha un gusto dolce e delicato che ricorda l’aroma del prosciutto stagionato. La carne è 100% italiana e la stagionatura è lenta e delicata (almeno 14 mesi). Il pendaglio ricorda l’expertise Zuarina e connota un prodotto che si presenta con l’anchetta come da tradizione. • Linea Affettati Zuarina: le distintività Zuarina si possono ritrovare anche nelle nuove vaschette Premium, sia per la modalità di affettamento (a temperatura positiva e con le fette posate a mano), sia per lo stile della vaschetta (forma ricercata ed elegante): 90 grammi per il Prosciutto di Parma Zuarina 30 mesi (Lunga stagionatura) e 24 mesi (Gran Riserva); 100 grammi per l’Antico Rustico. Una proposta distintiva e coerente con i mutati comportamenti del consumatore. • Prosciutto di Parma DOP Zuarina Bio: il Prosciutto di Parma Zuarina Bio proviene da allevamenti biologici in cui i controlli, l’alimentazione e gli ambienti sono accuratamente definiti per assicurare agli animali una crescita naturale, nel rispetto delle rigide norme italiane ed europee di produzione biologica.

Zuarina, dal 1860 L’arte salumiera di Zuarina risale al 1860. E il suo nome? È legato ad un pezzo della storia nazionale dei primi del Novecento, quando l’esercito italiano conquistò la base libica di Zuara e le donne chiamavano orgogliosamente i propri figli Zuaro e Zuarina. E così accadde alla signora Ugolotti Zuarina, moglie del fondatore. «Da allora non abbiamo conservato solo il nome, ma anche l’artigianalità ed il “saper fare” che ci arriva da secoli di storia». ZUARINA Spa Via Cascinapiano 4/A – 43013 Langhirano (PR) Telefono: 0521 861096 Web: zuarina.it

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una sanificazione della superficie, si sega il gambetto e si procede con il disosso manuale e finitura del prodotto, a seconda delle specifiche richieste dal cliente». Il prosciutto di Parma e le linee di prodotto di Zuarina nascono così, in uno stabilimento che è equilibrio tra innovazione e artigianalità, tecnologie e manualità, rapidità nei processi e lunghissimo riposo, aria fresca dell’Appennino e vento marino dalla vicina Toscana. E tutto ciò si ritrova nel sapore dei suoi prodotti. Elena Benedetti

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Zara contro Zara: il pastificio di Treviso vince contro il colosso dell’abbigliamento Ffauf Italia batte Inditex: la piccola società di Treviso, specializzata nel settore della ristorazione, conosciuta per il marchio “Pasta Zara”, è riuscita nell’impresa di tutelare il proprio marchio contro il noto brand di abbigliamento Zara, appartenente al gruppo iberico Inditex. Grazie anche al team legale di Bugnion, Ffauf Italia ha infatti vinto una lunga battaglia legale per fermare le mire espansionistiche del gruppo spagnolo nel mondo del food. L’azienda di Treviso ha difeso con le unghie e con i denti il proprio marchio Pasta Zara, dichiarando di averlo registrato per prodotti alimentari, in Italia, già nel lontano 1969, e successivamente anche in diversi Paesi dell’Unione Europea. «Quello di Ffauf è un marchio che vede le sue origini negli anni ‘30, quando il nonno dei quattro fratelli che attualmente gestiscono la società decise di trasferire il proprio stabilimento a Zara, in Croazia, per ampliare il proprio business nella produzione di pasta» hanno chiarito i legali di Bugnion. «Con la guerra civile in ex Iugoslavia si arrivò alla chiusura dello stabilimento e al rientro in Italia, finché negli anni ‘60 i vertici societari decisero di associare alla propria pasta il nome Zara in memoria del nonno e di quella prima fabbrica realizzata in Croazia». Il Tribunale dell’Unione Europea, a cui è stata presentata l’opposizione, ha confermato la decisione dell’Ufficio dell’Unione Europea per la Proprietà Intellettuale (EUIPO) di rigettare la richiesta di Inditex di estendere il proprio marchio ai servizi di ristorazione e alle caffetterie, risalente al 2010, secondo la quale “la concessione del marchio Zara di Inditex per servizi di ristorazione avrebbe leso il diritto di esclusiva spettante a Ffauf” (fonte: www.foodaffairs.it; photo © facebook.com/PastaZARA).

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SALUMIFICIO VERZA, ORO E SALUMI Per il cinquantesimo anniversario della veneta Verza Salumi nasce la linea Aurum, alta salumeria personalizzabile con oro 23 K. Andrea Toniolo, titolare e terza generazione della famiglia in azienda, racconta le ultime novità di prodotto, tra freschi, stagionati e attenzione al mercato di Gian Omar Bison

i piedi del Monte Cengio nel comune, appunto, di Cogollo del Cengio (VI), la norcineria si confonde con l’arte orafa e l’insaccato viene intarsiato di oro alimentare. Il SALUMIFICIO VERZA, in occasione del cinquantenario della fondazione occorso nel 2018, ha pensato a come ridisegnare i confini della salumeria tradizionale arrivando a proporre, con

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la linea Aurum, un salume da esibire, quasi da esporre più che da mangiare. «Con l’avvicinarsi del 50o anniversario del salumificio — sottolinea il titolare ANDREA TONIOLO — volevamo realizzare un salume che in qualche modo desse rilievo al traguardo raggiunto. Abbiamo iniziato ad effettuare delle ricerche sull’utilizzo dell’oro in campo alimentare trovando che, in un arco temporale di

circa 4.000 anni, l’oro veniva utilizzato e mangiato anche per scopi religiosi, come in alcuni riti degli antichi Egizi o degli Indiani pellerossa, nella cerimonia cinese del tè, ed è stato oggetto di studi di alchimia. Nella Repubblica di Venezia, a cavallo del 1500, si servivano in alcune occasioni dei dolci a forma conica ricoperti da foglie d’oro chiamati Pan de Oro e sembra sia stato l’antenato

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dell’attuale pandoro. Noi con la linea Aurum, processo produttivo oggetto di brevetto, abbiamo voluto reinterpretare a modo nostro le informazioni raccolte e abbiamo dato vita al primo prodotto di salumeria al mondo contenente oro alimentare a 23 carati». Il prodotto si chiama Emozione I ed è fatto completamente a mano. L’oro è presente all’interno del prodotto durante tutte le fasi della produzione, dalla preparazione dell’impasto fresco all’insacco che viene inserito all’interno di uno stampo a forma di lingotto. «Emozione I è un salume esclusivo, che viene realizzato in un singolo pezzo dal peso di 300 grammi circa e può essere personalizzato dalla persona che lo ordina a seconda dei propri gusti con la scelta degli ingredienti» puntualizza Toniolo. «Questo fa sì che non solo realizziamo un prodotto unico, ma lo realizziamo anche secondo i desideri del cliente. Un cammino emozionante dove la degustazione del prodotto è solo l’ultima fase del percorso. Il salume è racchiuso in un cofanetto in pelle con stampe in lamina d’oro e alla sua apertura si viene colpiti da un fascio di luce che proviene dal tagliere in plexiglass retroilluminato. Su richiesta è possibile personalizzare anche il cofanetto, cambiando il colore della pelle o andando ad inserire una dedica o il nome di una persona. Il tutto sempre stampato in lamina d’oro». Sempre legata al cinquantesimo anniversario è la produzione de Il Cengio, insaccato fatto a mano e composto da sette differenti tagli anatomici di carne suina (coppa, lardo, coscia, spalla, pancetta, lonza e guanciale) che vengono stratificati e speziati manualmente (tra queste semi di finocchio, rosmarino, timo, zenzero) alternando parti magre e parti grasse. Storia e prodotti di questi primi 50 anni Le origini del Salumificio Verza risalgono ai primi del ‘900 quando nonno ANTONIO TONIOLO detto “Verza” era solito macellare bovini e suini allevati nella valle. Antonio aveva l’abitudine di conservare le carni in una grotta riempita di neve e ghiaccio che lui stesso trasportava sul carretto salendo sull’altipiano dei Fiorentini. E, sempre con lo stesso mezzo, poi girava per i paesi vicini vendendo

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In alto: la preparazione del nuovo prodotto Il Cengio, insaccato composto da sette differenti tagli anatomici di carne suina (coppa, lardo, coscia, spalla, pancetta, lonza e guanciale) che vengono stratificati e speziati manualmente alternando parti magre e parti grasse. In basso: la lavorazione della salsiccia.

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Le origini del Salumificio Verza risalgono ai primi del ‘900, quando nonno Antonio, detto “Verza”, era solito macellare bovini e suini allevati nella valle e conservare le carni in una grotta riempita dalla neve e dal ghiaccio che lui stesso trasportava sul suo carretto salendo sull’altipiano dei Fiorentini. Con lo stesso mezzo girava poi per i paesi vicini vendendo i prodotti al dettaglio. Oggi Verza Salumi è una realtà imprenditoriale affermata, attenta a tradizione e qualità di prodotto. i suoi prodotti al dettaglio. Sulla scia di questa tradizione famigliare iniziata a Velo d’Astico (VI), il figlio di ANTONIO, ANTONIO, stesso nome, fonda nel 1968 il Salumificio Verza. Andrea, dalla fine degli anni ‘70, ha iniziato a frequentare il laboratorio di famiglia e, terminata la scuola, ha iniziato ad affiancare il padre nella produzione di salumi freschi e stagionati. Nel 2001 il passaggio di testimone da padre in figlio. Il core business del salumificio sono i prodotti a base di carne suina ma da una decina d’anni hanno sviluppato un nuovo salume, la Verzaola di tacchino, che è una bresaola fatta con fesa di tacchino 100% italiano, stagionata a freddo per circa 70 giorni. «Questo prodotto — afferma Andrea — in fase di stagionatura perde circa il 50% del suo peso e alla fine otteniamo un prodotto ricco di proteine e con pochi grassi e calorie».

Per quanto riguarda il maiale, le carni vengono acquistate da allevatori certificati delle province di Parma, Mantova e Trento. «Questi allevatori sono in grado di garantirci, oltre all’origine dei maiali (nati, allevati e macellati in Italia), anche il benessere e la corretta alimentazione degli animali. Un’alimentazione varia che prevede l’utilizzo in percentuali diverse, e a seconda della fase di sviluppo dell’animale, di mais, orzo, crusca e mangimi proteici appositamente studiati. Oltre a questi stiamo portando avanti alcuni progetti con degli allevatori locali che allevano i maiali allo stato brado e semi-brado per la realizzazione della nuova linea Verza 1968 fatta con tutte le parti nobili del maiale». Verza Salumi lavora e trasforma circa 385 tonnellate di carne suddivise principalmente in circa 25 tonnellate di sopresse e 12 tonnellate di salami e una forte componente di prodotti freschi

Con 11 addetti, Verza Salumi lavora e trasforma artigianalmente circa 385 tonnellate di carne, suddivise principalmente in 25 tonnellate di sopresse e 12 tonnellate di salami e una forte componente di prodotti freschi come la salsiccia e la salamella. Per la produzione di sopresse, salami e salsiccia fresca vengono utilizzati esclusivamente budelli naturali

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come la salsiccia (200 tonnellate) e la salamella (49 tonnellate). Per la produzione di sopresse, salami e salsiccia fresca vengono utilizzati solamente budelli naturali. «A seconda del prodotto fresco o stagionato — precisa Andrea — le carni possono essere aromatizzate manualmente, aggiungendo le spezie direttamente all’interno dell’impastatrice o attraverso una zangola nel caso di tagli anatomici. Questo permette al sale ed alle spezie di penetrare all’interno del singolo pezzo di carne. Sui prodotti freschi non utilizziamo nessun tipo di conservante, mentre sui prodotti stagionati utilizziamo prevalentemente il nitrato di potassio e, solo in alcuni casi, anche il nitrito di sodio. In entrambi i casi i dosaggi sono contenuti e comunque ben al di sotto dei limiti consentiti. Per quanto riguarda i prodotti stagionati nella linea di salami e sopresse Suprema non vengono utilizzati conservanti. Sempre a seconda del prodotto utilizziamo anche degli antiossidanti che servono per mantenere il colore naturale della carne. Utilizziamo l’acido ascorbico (vitamina C) ed un suo derivato che è l’ascorbato di sodio. Una cosa importante — continua — è che la nostra azienda artigianale produce ancora come si faceva negli anni ‘60, senza l’utilizzo di starter batterici e di zuccheri aggiunti o altri acceleratori di stagionatura. Questo cosa significa? Significa che i prodotti

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seguono un ciclo di maturazione lento e naturale. Inoltre, a maggio 2021 abbiamo ottenuto tre nuove certificazioni: IFS, BRC e DTP 108 per l’assenza di glutine adottando così nuovi e ulteriori standard tra i più elevati nell’ambito della sicurezza alimentare». Al momento sono impiegati 11 addetti e l’azienda ha realizzato un fatturato di circa 1,9 milioni di euro nel 2019 e 1,4 milioni di euro nel 2020, a ristorazione chiusa. I prodotti vengono distribuiti attraverso grossisti che seguono ristorazione e macellerie in Veneto, Trentino Alto Adige, Lombardia, Emilia-Romagna e Friuli Venezia Giulia. «Serviamo poi direttamente alcune macellerie, gastronomie, salumerie e ristoranti e a questo si aggiunge la parte al dettaglio che vendiamo attraverso lo spaccio aziendale. Le macellerie e la ristorazione servite direttamente rappresentano il 10% del venduto e il resto viene distribuito tramite grossisti. Tutta la produzione viene fatta presso la sede di Cogollo del Cengio (VI). Per il momento non abbiamo intenzione di aprire un nuovo stabilimento o laboratorio in quanto attualmente potremmo tranquillamente sostenere un incremento produttivo del 40%». Aprire un ristorante a marchio Verza? «Ad oggi non abbiamo considerato questa eventualità, anche se sappiamo di aziende che hanno avviato un’attività di ristorazione collegata al salumificio. Oggi più che mai investimenti come questo devono essere ponderati, tanto più considerato che la ristorazione da oltre un anno e mezzo sta attraversando notevoli difficoltà». Gian Omar Bison Verza Salumi Srl Via delle Calcare 1 (Zona Art.) 36010 Cogollo del Cengio (VI) Telefono: 0445 320512 E-mail: info@salumificioverza.it emozione@aurumverza.it Web: salumificioverza.it aurumverza.it Nota A pagina 46, Emozione I, il salume della linea Aurum del Salumificio Verza, carni 100% italiane con aggiunta di oro 23 K e insaporito da spezie ed erbe aromatiche naturali.

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Rigamonti acquisisce il gruppo King’s IL LEADER MONDIALE DELLA BRESAOLA ACQUISISCE IL GRUPPO KING’S COI MARCHI KING’S E PRINCIPE igamonti amplia i suoi orizzonti e punta alla salumeria italiana DOP e IGP. Dopo Brianza Salumi, il leader mondiale nella produzione di bresaola della Valtellina IGP (135 milioni di euro di fatturato nel 2020) ha infatti siglato un accordo per l’acquisizione del 100% del Gruppo King’s. Attraverso l’agreement, Rigamonti rileva i quattro stabilimenti del Gruppo King’s nelle località di Sossano (VI), San Daniele del Friuli (UD), Calestano e Langhirano (PR). L’accordo riguarda anche la proprietà dei due marchi storici e tradizionali del made in Italy nel mondo: King’s, fondato nel 1907 a Sossano, in Veneto, è stato riconosciuto dal Ministero dello Sviluppo economico come “Marchio storico di interesse nazionale”; Principe, fondato nel 1945 a Trieste, è leader del segmento Prosciutto San Daniele DOP. Il Gruppo Rigamonti gestirà inoltre l’intera operazione del marchio Principe negli USA, che comprende un impianto di affettamento in New Jersey, e deterrà il 20% delle quote di Piggly, allevamento di suini sostenibile, certificato “100% antibiotic free” e “Animal Welfare”, con siti nelle province di Mantova e Verona.

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Un’acquisizione che guarda anche ai mercati esteri: presente negli Stati Uniti e in più di 20 Paesi, il Gruppo King’s è leader di mercato nella produzione del Prosciutto di San Daniele DOP ed è un importante player nella produzione del Prosciutto di Parma DOP oltre a produrre specialità come il GranSpeck e il Prosciutto Veneto DOP. L’intera gestione di queste attività rientrerà sotto la direzione di Rigamonti. «L’acquisizione di due marchi storici simbolo del made in Italy nel mondo come King’s e Principe — dichiara l’amministratore delegato di Rigamonti, CLAUDIO PALLADI — rappresenta un ulteriore passo per il conseguimento degli obiettivi già dichiarati da Rigamonti di diventare un player sempre più importante nel segmento della salumeria di alta gamma, a filiera certificata e garantita e sostenibile, anche grazie alla proficua collaborazione con gli allevatori italiani. Con l’acquisto di questi quattro stabilimenti arriveremo a presidiare, oltre al segmento Bresaola della Valtellina IGP, anche i distretti produttivi dei più importanti segmenti della salumeria italiana DOP, quali Prosciutto di Parma

Claudio Palladi, AD di Rigamonti. DOP e Prosciutto San Daniele DOP. Siamo convinti — continua Palladi — che Rigamonti, in sinergia con JBS, potrà accelerare lo sviluppo di questi due importanti marchi storici in Italia e all’estero, in particolar modo negli USA, garantendo ai rispettivi territori di insediamento sviluppo e crescita occupazionale».

È una storia imprenditoriale e familiare di successo lunga più di un secolo e che ha attraversato più generazioni quella di Rigamonti. Un’avventura iniziata nei primi anni del Novecento nel centro storico di Sondrio. Oggi, con 135 milioni di euro di fatturato netto nel 2020, il Gruppo Rigamonti è leader mondiale nella produzione di bresaola. Un’impresa che ha saputo lanciare il fenomeno “bresaola”, portando il prodotto tipico della Valtellina sui mercati di tutto il mondo: dagli Emirati Arabi alla Svizzera al Regno Unito. L’azienda, attualmente di proprietà di JBS e con sede a Montagna in Valtellina, ha una distribuzione che copre 23 Paesi. >> Link: www.rigamontisalumificio.it

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Pastificio

Il Pasteto A Lecco si produce ottima pasta fresca e secca, ma, soprattutto, si coltivano con successo sogni, progetti e ambizioni. Passando per la tavola di Guido Guidi 52

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impresa ha per sua natura lo scopo di ricercare il profitto, anche se, in molti casi, imprenditori illuminati condividono ciò che realizzano e trovano un modo, attraverso l’azienda, per aiutare gli altri. Nella realtà di cui parliamo oggi, il concetto è completamente ribaltato e conferma che le attività economiche possono avere un ruolo importante in una società che va ben al di là della ricchezza che generano e del circuito finanziario che innescano. La cooperativa sociale Il Grigio dimostra che impresa può far rima non solo con solidarietà, ma anche con rinascita e riscatto sociale, senza mai dimenticare che, per reggersi nel tempo, qualunque azienda ha bisogno di far tornare i conti. In questa realtà, nata nel 2008 per erogare servizi nel settore ambientale e della manutenzione del verde, i soci fondatori conducono infatti chi ha delle disabilità fisiche o mentali verso il mondo del lavoro, facendogli acquisire competenze ed esperienza sul campo. A qualche anno dalla sua costituzione, è divenuta operativa anche nel settore alimentare, con l’offerta di servizi di catering, banqueting e preparazione di pasti per scuole e aziende e, nel 2015, è stato avviato il pastificio. Il Pasteto, questo il suo nome, omaggia TETO, un amico e socio fondatore della cooperativa, ma, soprattutto, richiama i luoghi in cui si coltivano prodotti e, in questo caso, progetti e sogni, perché è questo che si intende fare: attraverso la produzione di pasta si vuole dare un’occasione a persone svantaggiate il cui inserimento o reinserimento sociale risulta particolarmente arduo. Quel piatto che la fa da padrone nelle tavole degli Italiani diventa mezzo per generare professionalità e dare un futuro a chi pensava di non averne più uno. E quell’esperienza oramai consolidata che all’inizio era poco più di una scommessa, sta dando ampie soddisfazioni, non solo sul fronte del riscatto personale per chi ci lavora, ma soprattutto in termini di risultato: la pasta de Il Grigio è apprezzata da più parti e lascia intravedere importanti prospettive di ulteriore sviluppo. Non è solo il prodotto che viene impiegato nelle attività di ristorazione collettiva interna ed esterna gestite dalla

L’

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Il pastificio Il Pasteto è oggi un laboratorio moderno che vanta tre linee di produzione: i ravioli, la pasta fresca all’uovo e la pasta secca. Una carrellata di specialità e colori per tutti i gusti, più una linea veg, in linea con la richiesta in crescita del mercato. cooperativa, ma è una vera e propria referenza di un ampio catalogo che incontra il mercato e compensa dovutamente le spese. Il pastificio Il Pasteto è oggi un laboratorio moderno che vanta tre linee di produzione: i ravioli, la pasta fresca all’uovo e la pasta secca. Una carrellata di specialità e colori per tutti i gusti. La pasta secca, proposta in cinque formati, la cui produzione è iniziata più recentemente, nel 2018, ha a monte una collaborazione con un produttore di semole del Cilento, che garantisce la fornitura di grani antichi. La pasta fresca è venduta sia sfusa, con un termine di consumazione di 14 giorni, sia in confezioni chiuse in atmosfera protettiva, con una shelf-life di due mesi e in grammature adatte alle famiglie o più importanti per la ristorazione. I ravioli rappresentano una gamma ampia e variegata, nelle forme e nei ripieni. Tra questi, l’Agnolotto alla piemontese, il Casoncellino, Il Bergamasco, il Quadrotto speck e radicchio, la Mezzaluna bresaola e noci, il Quadruccio al brasato, i Quadretti di carne per brodo, il Quadrotto al nero di seppia con salmone e gamberetti, lo Spicchio

crudo e grana. Si aggiunge inoltre una linea veg, dove rientrano il Magno veg, il Quadruccio ai carciofi, la Delizia agli spinaci, il Quadrotto Il Saraceno (al grano saraceno, appunto), il Quadrotto alla zucca, il Quadruccio cacio e pepe, il Quadrotto ai funghi porcini e il Quadruccio broccoli e mandorle. Sono diverse anche le specialità di pasta all’uovo, quali: gli Gnocchi di patate, la Foglia oro per le lasagne, le Tagliatelle, le Pappardelle, i Tagliolini, gli Spaghetti alla chitarra, i Gigli alla curcuma, la Pasta di grano saraceno per pizzoccheri. Tutto il prodotto è reperibile nelle superette e nei GAS del circondario di Lecco, dove ha sede la cooperativa e nello spaccio aziendale. Da qualche tempo, inoltre, il pastificio opera anche a marchio di terzi e così le specialità de Il Pasteto arrivano Oltralpe. Si poteva fare la scelta di meccanizzare ulteriormente i processi, ma la cooperativa ha lo scopo di impegnare, anche manualmente, il più possibile, i soci, nella convinzione che il lavoro con le mani, quando equilibrato, possa dare grandi risultati in termini di benessere psicologico del lavoratore. Può essere molto faticoso ma è fortemente

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A sinistra: la pasta secca del Pasteto, fatta con grani antichi selezionati, abbinata ai sughi sempre preparati nel laboratorio del Pasteto. In basso: a sinistra, la pasta fresca è venduta sia sfusa, con un termine di consumazione di 14 giorni, sia in confezioni chiuse in atmosfera protettiva, con una shelf-life di due mesi. A destra, una selezione di gnocchi di patate e pasta ripiena, del Pasteto con casoncellini, agnolotti, quadrotti, spicchi….

gratificante e i risultati sono tangibili e pressoché immediati. Per questo motivo, e per una questione di qualità del prodotto, tutti i ripieni sono realizzati nel pastificio — persino le patate per gli gnocchi, vengono pelate una ad una! — non si utilizzano semilavorati e vengono impiegate quasi esclusivamente materie prime reperite nelle prossimità della cooperativa. Anche il catalogo aziendale mostra un certo legame col territorio, con formati e ripieni che richiamano la tradizione regionale e i prodotti agricoli tipici locali. Ma è anche frutto di una certa creatività degli operatori, che spesso utilizzano le eccedenze del

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mercato locale, evitando così sprechi e dando vita a piatti originali e tutt’altro che scontati: un’economia circolare che, seppur in un microcosmo, genera un meccanismo virtuoso. «La pasta, per noi, è stata una straordinaria scoperta. L’inizio molto faticoso e impegnativo ci ha fatto capire che dietro un buon prodotto c’è una grande fatica. Ci ha costretti ad investimenti costosi e percorsi formativi che non immaginavamo. Abbiamo anche avuto la disponibilità di un altro pastificio importante che, anziché vederci come concorrenti, ci ha voluto dare una mano ad introdurci in un mondo che per noi era completamente nuovo. Ma col tempo

si stanno ripagando tutti gli sforzi», dichiara con orgoglio FRANCESCO MANZONI, da sempre a capo del pastificio, che aggiunge: «la produzione di pasta ci è apparso un lavoro molto adatto agli obiettivi di rinascita professionale che ci poniamo come scopo nella cooperativa e avevamo ragione». Ci sono spazi per crescere e fare ancora molto altro. I prossimi passi saranno sul fronte degli investimenti in marketing e promozione, senza mai perdere di vista il fatto che, oltre al rientro economico, al centro dell’impresa ci debbano essere la vita, l’individuo, l’uomo. Guido Guidi

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Salumificio San Michele è campione dell’export secondo il Sole 24 Ore C’è anche Salumificio San Michele nella lista dei Campioni dell’export 2022 stilata dal Sole 24 Ore in collaborazione con il portale on-line di analisi dei dati Statista. L’elenco vuole riconoscere e premiare le 200 aziende italiane che, nel difficile anno 2020, si sono distinte per la loro quota di prodotti esportati. Tanti i settori presi in considerazione: dal meccanico, al farmaceutico al chimico fino ad arrivare, naturalmente, all’alimentare. San Michele appare al 164o posto nella classifica. L’azienda ha concluso il 2020 con una quota export superiore al 49%, per un valore di fatturato di circa 20 milioni di euro. San Michele esporta prosciutti e salumi di qualità in numerosi paesi, tra cui la quasi totalità dell’Europa oltre a USA, Russia, Canada, Argentina e Giappone. Nel 2020, seppur vincolati dalla pandemia, sono approdati oltre oceano anche in Messico e Uruguay. La storia del Salumificio San Michele ha inizio più di 40 anni fa a San Michele Tiorre (Felino), alle porte di Parma, nel cuore della Food Valley. Nasce come prosciuttificio nel 1978 ad opera della famiglia Cremonesi, che ancora oggi ne è proprietaria. Nel corso degli anni allo stabilimento storico si sono aggiunti prima lo stabilimento di Langhirano, poi quello di Offanengo, dedicato al disosso e alla logistica, infine, un secondo impianto sempre a Langhirano, dedicato all’affettamento. La tradizione e l’esperienza acquisite hanno portato l’azienda ad integrare completamente tutte le fasi di lavorazione e produzione dei prosciutti. Grazie a questi ampliamenti, San Michele produce oggi circa 800.000 prosciutti all’anno, di cui 60.000 Parma DOP. Nei parametri presi in considerazione nello stilare la classifica, oltre ai dati economici certificati, le imprese sono state selezionate per l’offerta di prodotti di alta qualità ed unici, per la capacità di storytelling e di comunicazione delle eccellenze made in Italy e per la valorizzazione della sostenibilità di prodotto e di filiera (photo © facebook.com/salumificiosanmichele). >> Link: san-michele.it

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Poggio Diavolino, galline di razze antiche e uova colorate di Massimiliano Rella

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oggio Diavolino è una bella realtà agricola a due passi da Suvereto, in provincia di Livorno, territorio noto alle cronache gastronomiche per i vini di qualità e la presenza di cantine importanti. L’agricoltore FABIANO BUSDRAGHI, però, ex fotografo laureato in Fisica e Oceanografia, ha deciso di fare qualcosa di più originale: allevare razze di galline antiche ornamentali che fanno uova colorate. Colorate, ma non come quelle uova sode pasquali spennellate per il piacere

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dei bambini, bensì veri e propri “tuorli” verdi, marroni, azzurri, cioccolato, creta…. Uova fresche, uova belle, in una tavolozza di colori che sorprende anche il consumatore meno assuefatto alla banalizzazione della GDO. Originari di Milano, il papà antiquario di Fabiano acquistò la tenuta in località Poggio Diavolino negli anni ‘90, oggi trasformata dal figlio in un’azienda agricola di 12 ettari (più altri in affitto) e dotata di tre casette rurali indipendenti. Un’azienda produttrice di olio evo, coltivatrice di farine da

grani antichi, con piccolo allevamento di suini e trasformazione delle carni in salumi: guanciale, capicollo, salsicce, lombetto, porchetta, ecc…, ottenuti con lavorazione artigianale dalle carni di 10 animali, incroci di Cinta Senese e Landrace. Tornando al pollame, a Poggio Diavolino troviamo 8 razze di polli, galline e galli antichi ornamentali, razze un tempo abbandonate perché poco redditizie. Tra queste si aggirano in pollaio la Ayan Cemani, una razza indonesiana completamente nera,

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anche nella carne e nelle ossa, poiché accumula continuamente melanina nei tessuti. Considerata sacra, questa razza arriva a costare 3-4.000 euro a capo. Incontriamo poi la Araucana, una razza precolombiana senza coda, che “sforna” uova azzurre. Sì, dal tuorlo azzurro e ceruleo. E ancora: la Marans, una razza rinascimentale francese che fa uova color cioccolato fondente grazie alle ghiandole coloranti presenti nell’ovodotto. Arricchisce il pollaio anche l’ibrida Olive Egger, una razza nata da un incrocio tra la Marans e la Araucana, o comunque tra razze che depongono uova a guscio marrone e uova blu. E che dire della graziosa gallina Moroseta dell’estremo Oriente? Graziosa, delicata e dal piumaggio setoso. La più artistica, però, è la turca Denizli, che prende il nome da una cittadina anticamente collocata sulla Via della Seta, allevata per la sua bellezza e soprattutto per la lunghezza del canto. Quando il gallo si schiarisce l’ugola arriva a cantare senza pausa fino a 20 secondi. Da concorso canoro.

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La cura con cui Busdraghi alleva i suoi polli si vede anche dalla pergola adornata da 17 varietà di uve che ombreggia il pollame e da cui ricava compost con la trinciatura delle potature dei tralci di vite e degli olivi. Infatti a Poggio Diavolino si coltivano anche olive e si produce olio extravergine da cultivar di Leccino, Moraiolo e altre quattro varietà. C’è poi l’orto dei pomodori antichi, una collezione di semi di 200 varietà. In vendita diretta troviamo infine vari tipi di pane da lievito madre e farine aziendali di vecchie varietà, coltivate su 5 ettari. Pane nero da 57 varietà di cereali e semi; pane “vivo” con semi pre-germinati, bacche di goji e uvetta; e pane misto di grano tenero, grano duro e farro antichi. Circa 80 kg a settimana. E per concludere: pasta artigianale in vari formati fatta in collaborazione con un pastificio di Suvereto. Massimiliano Rella

In prima pagina: l’allevatore Fabiano Busdraghi con un esemplare di gallo Marans. In questa pagina: 1) gallina cinese Moroseta, dal piumaggio setoso; 2) galline Marans; 3) gallina nera indonesiana Ayan Cemani; 4) uova colorate.

>> Link: poggiodiavolino.it agriturismodiavolino.com

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INTERVISTE

PORCOBRADO: OPPORTUNITÀ E SVILUPPI DI UN PANINO TOSCANO CHE NON CONOSCE CONFINI Angelo Polezzi, allevatore di Cortona, racconta le ultime novità del suo brand multi-premiato Porcobrado. I progetti pre-Covid, la crescita durante il lockdown, lo sviluppo del franchising e dell’on-line, verso il mercato nazionale e europeo di Federica Cornia

ono giornate piuttosto piene, un po’ complicate perché c’è molto da fare, la quantità di lavoro va ben oltre le nostre aspettative. Va tutto molto bene». E in effetti, dato il periodo — prenatalizio — in cui ci siamo sentiti, nemmeno io mi aspettavo di riuscire a strappare una breve intervista ad ANGELO POLEZZI, l’allevatore di Cortona ideatore di Porcobrado, il panino farcito di pezzetti e sfilacci di carne di maiale di Cinta Senese e Grigio della Valdichiana allevati all’aperto. Eletto miglior panino d’Europa all’European Street Food Awards di Berlino nel 2017, Porcobrado è il risultato di un procedimento di lavorazione che dura più di 100 ore: le carni infatti vengono prima affumicate con legno di ciliegio e melo, poi salate, marinate e cotte lentamente per 18 ore prima di essere nuovamente affumicate nel barbecue al legno di quercia e messe tra due fette di pane. Ma torniamo a noi. Come dicevo non mi aspettavo di riuscire a rubare un po’ di tempo ad Angelo. E invece mai dire mai. Infatti, nonostante il suo gran da fare, Angelo mi ha aggiornata sugli sviluppi, inattesi e anche sorprendenti, di Porcobrado che, in questi anni in cui ci siamo un po’ persi di vista, ha ottenuto altri riconoscimenti: una “Menzione Speciale” al Tuscany Food Awards

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Porcobrado è carne di maiale marinata, cotta 24 H al barbecue poi affumicata.

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2019, il podio al “The European Street Food Awards Italia” nel 2020 e, infine, riconoscimento senza targa, il food truck Porcobrado ha sfamato il pubblico del Jova Beach Tour 2019. Ecco, il 2019. Torniamo lì, all’ultima volta in cui ci siamo sentiti con Angelo: era maggio 2019 e il food truck scorrazzava per fiere e festival dispensando la carne di Cinta Senese DOP e di Grigio della Valdichiana racchiusa in panini di grano antico Verna macinato a pietra, mentre al quartiere Isola di Milano, da circa un anno, i panini uscivano dal primo store Porcobrado. Intanto Angelo accarezzava l’idea di lanciare un franchising. Idea che si è poi concretizzata dato che oggi allo store di Milano si affiancano quello di Firenze e di Baden Baden, in Germania. Sì, avete letto bene, Baden Baden. Porcobrado è arrivato fino a lì e non aveva affatto idea di fermarsi. Poi però è arrivato il Covid, che con le sue mille complicazioni ha reso difficile portare avanti un piano di sviluppo aziendale basato sulla formula della ristorazione tradizionale in loco. Ma, come diceva Galileo Galilei, conterraneo di Angelo e padre della scienza moderna, “Dietro ogni problema c’è un’opportunità”. Il più è saperla cogliere e tirar fuori coraggio se implica grandi stravolgimenti. «In tempi di Covid era fondamentale reinventarsi — mi dice Angelo — ed è

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In alto: Angelo Polezzi. In basso: la Box Porcobrado con la birra Porcilla.

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La carne per i panini di Porcobrado è prodotta esclusivamente nella fattoria di Cortona di proprietà di Angelo Polezzi. Capi di Cinta Senese DOP e di Grigio della Valdichiana, insieme ad altre razze suine pregiate. “Animali liberi di respirare aria pura, di dormire sotto le stelle, di correre, rotolarsi nel fango e grufolare tutto il giorno” si legge nel sito aziendale. “Oltre al pascolo, i nostri maiali si nutrono di prodotti a km 0, soprattutto orzo e favino”. da questa necessità che è nata Porcobrado Box: un kit con panino scomposto messo sottovuoto, pane confezionato in ATP e salse in barattolo, per un panino gourmet direttamente a casa e pronto in 10 minuti. Il procedimento è semplice: il pane si scalda in forno a 250 °C, la carne si scalda col procedimento a bagnomaria e poi si assembla il tutto». Era l’8 dicembre 2020, poco più di un anno fa. Angelo non si aspettava l’enorme successo che avrebbe avuto quest’idea, né di finire in un articolo pubblicato sul SOLE 24 ORE, né di dover evadere un numero di ordini sempre

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in crescita in partenza per tutta l’Italia, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, senza contare le richieste anche da parte di qualche italiano all’estero. «Sono state tantissime le vendite» dice Angelo, nella voce ancora quell’eco di incredulità mista a stupore. «Al punto che ci siamo ritrovati completamente spiazzati. Ho cominciato a chiedermi: come possiamo reggere a tanto? La risposta è stata investire in macchinari, col rischio che potesse trattarsi solo di un momento di espansione, di una bolla generata dalle misure restrittive del lockdown. Invece la vendita ha continuato ad andare bene, con qualche

rallentamento nel periodo estivo, ed ora è ripartita». Anche il progetto del franchising è decollato con l’apertura dello store in via dei Neri a Firenze e con quello di Roma, in centro storico, a febbraio. E il movimento centrifugo di Porcobrado non sembra affatto esaurito, anzi tutt’altro, si dirige oltre continente. «Da gennaio — spiega Angelo — metteremo a punto siti in lingua per le vendite online, per aprirci un mercato all’estero. Dall’Italia riusciamo a servire l’Europa continentale ma non l’Inghilterra, per via delle misure imposte dalla Brexit. Per questo lì abbiamo un’azienda che partirà con le vendite on-line delle Box Porcobrado non appena possibile. Tutto questo ha dell’incredibile se ripenso che prima della pandemia Porcobrado non si avvaleva di questo sistema di vendita. Con l’on-line ci si è aperto un mercato che non pensavamo potesse nemmeno esistere, figuriamoci poi avere tutto questo successo». Intanto la gamma delle Box Porcobrado si è arricchita e offre varie combinazioni, si può scegliere se acquistare solo panini o se accompagnare i panini con birra o gin. La birra è la Porcilla, prodotto di un birrificio artigianale locale, il gin invece è firmato Sabatini. A quanto pare è stato un vero successo il lancio la scorsa estate della Porcobrado Gin Box Feat. Sabatini Gin con un kit per due gin tonic composto dai mignon di Sabatini e le toniche toscane Spume del Papini. A ribadire che il legame col territorio, la Val di Chiana, rimane elemento centrale nella filosofia di Porcobrado «Mi ritengo soddisfatto» mi dice Angelo a fine conversazione. In effetti di strada ne ha fatta quel furgoncino sgangherato poi trasformato in food truck e man mano diventato tappa obbligatoria in tutti gli Street Food Festival. Con lo sguardo puntato all’Italia per quanto riguarda lo sviluppo del franchising e un occhio al mercato europeo da conquistare a suon di Porcobrado Box, Angelo mi saluta mentre già pensa con quali nuovi abbinamenti gourmet potrà arricchire le spedizioni del 2022. Federica Cornia Porcobrado Le Caselle 1/B – Loc. Pietraia 52044 Cortona (AR) Web: porcobrado.com

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MARKETING

Villani Salumi, nuovo anno, nuovo percorso di marca

Un viaggio immaginario e fantastico fatto di arte, design e tradizione

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a storica azienda di Castelnuovo Rangone (MO) inizia il nuovo anno annunciando il suo rebranding. Un’unica storia di marca raccontata attraverso arte, design e tradizione, ispirata dal sapere e dalla cultura racchiusi in ogni prodotto.

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La storia e i numeri La Villani Spa nasce nel lontano 1886 a Castelnuovo Rangone per mano di COSTANTE VILLANI ed ERNESTA CAVAZZUTI: secoli di storia salumiera e 136 anni di attività fanno dell’azienda la realtà più antica del settore in Emilia-Romagna e tra le più longeve d’Italia. Guidata da

una famiglia che si tramanda la passione di fare salumi, speciali nel gusto e curati nell’aspetto, con la garanzia e i controlli di una grande impresa, la Villani ha da sempre nobilitato il salume valorizzando il legame tra la passione del fare l’artigiano, l’emozione di scoprire qualcosa di speciale e la soddisfazione di gustare

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un piacere raro. Un’azienda in crescita che, dopo aver consolidato il proprio posizionamento nel 2020, ha addirittura ripreso a correre: nel 2021 infatti il Gruppo Villani ha superato la soglia dei 140 milioni di euro di fatturato totale, con un incremento del 10% rispetto all’anno precedente (pari a 13 milioni). I suoi prodotti sono presenti in oltre 10.000 punti vendita in tutta Italia, in Europa e nel mondo, principalmente nel canale retail — salumerie e gastronomie — e nella ristorazione. Le vendite sono distribuite per il 57% sul mercato italiano e per il restante 43% su quelli esteri. Il rebranding Questo rebranding è un traguardo speciale nell’evoluzione e nella definizione di una nuova strategia di marca della Villani, che consacra l’essenza e i valori dell’azienda in una dimensione inedita in grado di raccontare nuove storie con un linguaggio proprietario e originale. Affidato a Robilant Associati,

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società di branding e strategic design, questo progetto ha un obiettivo chiaro e diretto: elevare la percezione di qualità e di valore della marca attraverso il racconto dell’azienda e la differenziazione della vasta gamma dei suoi prodotti. Ogni singolo prodotto infatti racconta una storia, una ricetta, una tradizione, un gesto particolare o una curiosità, attraverso un immaginario fantastico e un linguaggio evocativo. Una mongolfiera, un drago e una donna bendata sono solo alcuni dei simboli protagonisti del nuovo volto dell’azienda e delle sue storie di prodotto. Un nuovo logo, una nuova identità visiva declinata nel sito web e in tutti i materiali e canali di comunicazione e una nuova veste per i prodotti, singole specialità ognuna con la propria identità ben distinta.

In alto: le mani di un “disossatore” e quelle di un “legatore”. «Crediamo nelle persone e nel talento delle mani» dichiara Carlo Filippo Villani, direttore operativo. «La nostra è un’azienda dove è la persona a dettare i ritmi di lavoro, le macchine sono solo al servizio dell’uomo e non viceversa. Ci sono mani che nessuna macchina potrà mai sostituire: sono le mani dei nostri maestri, mani esperte, sensibili, sempre operose in cerca della perfezione. Sono le mani di persone che osservano, toccano, annusano il prodotto nelle diverse fasi di lavorazione per garantire il massimo risultato» (photo © Pierangelo Pertile).

Tradizione e artigianalità: meno macchine, più mani Qualità e cura dei dettagli sono da sempre il comune denominatore dell’a-

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Carlo Filippo Villani (photo © Maestri Aufiero). zienda che, seppur contemporanea e orientata al miglioramento, sceglie di ridurre le macchine non per vocazione nostalgica ma per valorizzare l’unicità dei suoi artigiani e il frutto del loro lavoro. «Crediamo nelle persone e nel talento delle mani» dichiara CARLO FILIPPO VILLANI, direttore operativo. «La nostra è un’azienda dove è la persona a dettare i ritmi di lavoro, le macchine sono solo al servizio dell’uomo e non viceversa. Ci sono mani che nessuna macchina potrà mai sostituire. Sono le mani dei nostri maestri, mani esperte, sensibili, sempre operose in cerca della perfezione. Sono le mani di persone che osservano, toccano, annusano il prodot-

to nelle diverse fasi di lavorazione per garantire il massimo risultato». “Maestri” è quasi anagramma di “mestieri”, altra parola chiave per cogliere l’anima della Villani. Mestieri custoditi gelosamente, tramandati di generazione in generazione, dal selezionatore allo speziatore, dallo stufatore all’insaccatore, dal massaggiatore al legatore. Radici nel territorio Ognuna delle specialità Villani nasce in un sito produttivo dedicato, che si trova in un luogo vocato per cultura e tradizione a quella specifica produzione salumiera. «Non abbiamo un unico sito produttivo all’interno del quale le stesse mani che legano una mortadella in

OGNI PRODOTTO VILLANI HA IL SUO LUOGO ELETTIVO, UN TERRITORIO CHE FA LA DIFFERENZA, E IN OGNUNO DI QUESTI TERRITORI PRODUCIAMO SEGUENDO RICETTE STORICHE DI FAMIGLIA O ISPIRATE ALLE TRADIZIONI REGIONALI ITALIANE

vescica, insaccano un salame» spiega Carlo Filippo Villani. «La nostra mortadella la produciamo a Bologna, i nostri prosciutti crudi li stagioniamo a Parma e San Daniele, le nostre Coppe e Pancette le facciamo a Castelfranco Emilia e i nostri salami e prosciutti cotti nella sede storica di Castelnuovo Rangone. Ogni prodotto ha il suo luogo elettivo, un territorio che fa la differenza, e in ognuno di questi territori produciamo seguendo ricette storiche di famiglia o ispirate alle tradizioni regionali italiane». Arte di famiglia Il legame di Villani Salumi col mondo dell’arte nasce da lontano e culmina nel 2013 con l’inaugurazione del MuSa, il primo museo del salume in Italia. Situato presso la sede storica di Villani, è uno spazio di comunicazione, formazione e divulgazione dell’arte salumiera, un percorso multisensoriale e multimediale alla scoperta della storia, della tecnica e della passione di uomini e donne che hanno dato vita a un patrimonio gastronomico apprezzato in tutto il mondo. >> Link: villanisalumi.it

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Il Piave DOP arriva nella GDO tedesca Grazie al Consorzio di tutela e al progetto di promozione Nice To Eat-EU, il formaggio Piave DOP prosegue la sua rapida corsa alla conquista dei territori europei. A dicembre 2021 è stata infatti ufficializzata la partnership con una fra le più importanti catene della Grande Distribuzione tedesca, il Gruppo Edeka. Dal mese di dicembre 2021, presso moltissimi negozi della catena i consumatori hanno potuto trovare ed acquistare alcune stagionature di Piave DOP, come il Fresco, il Vecchio Selezione Oro e il Mezzano. In ogni punto vendita sono stati posizionati specifici inoltre espositori e materiale esplicativo e sono state effettuate numerose promozioni a tema. Lo scopo è comunicare ai clienti tedeschi le specificità del prodotto, le sue origini e le caratteristiche della DOP. Il Piave è un formaggio a pasta cotta, duro, prodotto in provincia di Belluno. Si contraddistingue per il sapore dolce ed intenso, mai piccante, dall’aroma pieno che ricorda erbe e fiori alpini. Le sue origini risalgono alla fine del 1800 con la fondazione delle prime latterie turnarie montane d’Italia (photo © Elias Hartmann).

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>> Link: www.formaggiopiave.it – www.nicetoeat.eu

Una sinfonia di prelibatezze

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LA QUALITÀ

Lode al Prosciutto! Il prosciutto Crudo di Cuneo DOP è un’importante fonte di proteine e di grassi, oltre che di elementi minerali come il ferro e altri minerali e di vitamine del gruppo B, rappresentando una fonte alimentare insostituibile di Mara Antonaccio

e eccellenze gastronomiche italiane sono da sempre sinonimo di qualità e di alimentazione sana e sono l’espressione della cultura e della sapienza che da millenni le popolazioni del nostro Belpaese hanno saputo esprimere. Tra queste meraviglie anno-

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veriamo la produzione del Prosciutto Crudo di Cuneo, un salume frutto della produzione tradizionale di allevatori, trasformatori e stagionatori di una specifica zona del Cuneese, dell’Astigiano e della provincia di Torino, composta da piacevoli colline adagiate tra le Alpi Cozie, le Alpi Liguri e le Alpi Marittime.

La tradizione del Crudo di Cuneo è tramandata da generazione in generazione; le prime notizie di cui si ha testimonianza risalgono al 1618, poiché in uno scritto di un contabile dell’epoca si parla del lavoro dei norcini piemontesi ma, in realtà, pare che a produrlo per primi siano stati i monaci delle fiorenti Premiata Salumeria Italiana, 1/22


metodologia di conservazione che ne aumenta il sapore e allunga la conservazione, cioè salatura, stagionatura e sugnatura.

In alto: l’areale di produzione del Prosciutto Crudo di Cuneo DOP, comprendente la provincia di Cuneo, la provincia di Asti e 54 comuni della zona Sud della provincia di Torino. A sinistra: la marchiatura a fuoco della coscia.

grafica dei suoi produttori: questa zona infatti è temperata, posta a metà strada tra il mare e le montagne, quindi mai troppo calda o troppo fredda, protetta dai venti dalle Alpi. Il microclima che si crea è dovuto alle correnti tiepide e secche che salgono dalla Liguria e dalla Provenza, mentre quelle che scendono dalla Val Susa costituiscono una “barriera ventosa” a Nord, che protegge la zona di produzione con un’umidità costante molto bassa, tra il 50 e il 70%. Il prosciutto è ottenuto esclusivamente da maiali nati, allevati e macellati nella zona di produzione; gli animali appartenenti alle razze Large White italiana, Landrace italiana e Duroc italiana e dai loro incroci, vengono alimentati con una dieta controllata, che è protocollata dal Disciplinare di produzione, che prevede l’uso di cereali nobili coltivati nella stessa zona e di mangimi di qualità. Le cosce che diventeranno prosciutto devono superare il controllo rigoroso di conformità e poi da qui inizia il processo di lavorazione. Il motivo risiede nella

abbazie del territorio in epoca medioevale, gli unici ad avere la possibilità economica di allevare i maiali. Nelle pagine manoscritte del documento seicentesco si racconta cosa accadeva nei giorni della macellazione a fine inverno: erano momenti di festa, durante i quali le famiglie sacrificavano gli animali con un rituale “sacro e rispettoso”, tramandato di padre in figlio. A dirigere le operazioni il sautissé, cioè il macellaio esperto della lavorazione delle carni, che passava di cascina in cascina per “trattare i suini”. Le cosce migliori venivano separate dalla carcassa e messe in salatura, quindi stagionate nei luoghi freschi delle cascine; dopo un lungo tempo, l’anno successivo gli sforzi e le cure sarebbero stati premiati dalla produzione di eccellenti prosciutti. La stessa sapienza e lo stesso amore, adattato ai moderni metodi di trattamento e al rispetto dei protocolli di sicurezza alimentare e del disciplinare del consorzio, permettono di ottenere un prodotto unico. Il prosciutto Crudo di Cuneo deve le sue particolari proprietà nutrizionali ed organolettiche alla posizione geo-

Il Crudo di Cuneo DOP acquista il profumo e il gusto unico che lo caratterizzano dopo due o più fasi di stagionatura. Durante questo periodo si esegue la puntatura, ossia l’esame olfattivo che si effettua forando il prosciutto in 5 punti prestabiliti e annusando ogni volta per stabilire l’eventuale presenza di difetti. L’ago ricavato da un frammento di osso di cavallo, appuntito da un lato e piatto dall’altro, ha la peculiarità di trattenere il profumo della carne in cui viene inserito e di rilasciarlo altrettanto velocemente.

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Il valore nutrizionale del prosciutto Il prosciutto Crudo di Cuneo è un’importante fonte di proteine e grassi, oltre che di elementi minerali come il ferro e altri minerali, rappresentando una fonte alimentare insostituibile, sia per l’apporto proteico, sia per quello calorico; questo salume ha un contenuto in sale minore dei suoi cugini di altre zone d’Italia; consumarlo con criterio, ad esempio 60/80 grammi per porzione, apporta una buona dose di aminoacidi fondamentali per il corretto funzionamento degli organi. Infatti, la sua stagionatura non altera il contenuto vitaminico delle carni, anzi la riduzione dell’umidità dovuta al lungo riposo ne aumenta la concentrazione. L’alto contenuto di vitamine del gruppo B (B1 e B6 in particolare; la vitamina B1 o tiamina deve essere regolarmente assunta con l’alimentazione e trasforma

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il glucosio in energia. La vitamina B6 permette di utilizzare gli aminoacidi per le funzioni vitali dell’organismo) permette di essere consumato a tutte le età e senza grossi problemi. In 100 grammi di Crudo di Cuneo DOP c’è il 70% del fabbisogno giornaliero di vitamina B1 e B6 e circa il 40% di niacina (detta anche vitamina B3, è fondamentale per la respirazione delle cellule, favorisce la circolazione sanguigna, protegge la pelle, ed è indispensabile per il funzionamento del sistema nervoso. È chiamata anche vitamina PP – pellagra preventive – per il suo ruolo anti-pellagra, malattia in passato molto diffusa, che ha riempito i manicomi

di mezza Europa). L’alto contenuto di proteine (26-28%) del prosciutto Crudo di Cuneo fornisce una elevata quantità di aminoacidi ramificati: valina-leucinaisoleucina. Essi aiutano ad accrescere e sviluppare i muscoli e la loro forza, aumentano la concentrazione mentale e si trovano quasi esclusivamente nei tessuti di origine animale. La loro presenza importante nel Crudo di Cuneo è dovuta alla stagionatura, che ne concentra le quantità e che sviluppa enzimi che innescano una predigestione proteica, rompendo le molecole più lunghe e liberando i singoli aminoacidi. Anche la quantità di sale non è troppo alta, con i suoi 4,7 grammi per

Il prosciutto Crudo di Cuneo presenta un colore rosso uniforme. Dolce e fragrante al palato, ha poco sale e molto gusto. Per abbassarne comunque la “salinità”, è consigliabile abbinarlo alla frutta, in quanto l’acqua e il potassio di cui è ricca favoriscono l’eliminazione del sodio.

L’alto contenuto di proteine del prosciutto Crudo di Cuneo fornisce una elevata quantità di aminoacidi ramificati, che aiutano ad accrescere e sviluppare i muscoli e al loro forza e la concentrazione mentale. La loro presenza importante nel Crudo di Cuneo è dovuta alla stagionatura, che ne concentra le quantità

La dottoressa Mara Antonaccio svolge la professione di biologa nutrizionista ed è esperta di nutrizione clinica, welfare nutrizionale d’impresa e delle patologie legate all’alimentazione; da sempre appassionata di scrittura, antropologia e sociologia, si occupa, in qualità di giornalista, dei rapporti tra media, industria e nutrizione e dei costumi alimentari delle popolazioni nel mondo.

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100 e questo lo rende protagonista innocuo delle diete anche di coloro che soffrono di ipertensione, anche perché ben bilanciato dal potassio, presente nella giusta quantità. Il suo contenuto in grassi non supera il 20% e il suo apporto calorico è di circa 270 Kcal se mangiato integro, 170 Kcal circa se sgrassato, per 100 grammi. Inserirlo una o due volte a settimana in una dieta variata e controllata, nella quantità di circa 70 grammi, fornisce il giusto apporto di ferro, micronutrienti e proteine nobili per mantenere la salute e non nuoce alla linea. Alle sue qualità nutrizionali si aggiungono quelle gastronomiche, che ne fanno un re della tavola e degli antipasti. Al taglio la fetta si presenta di colore rosso uniforme nella parte magra e bianco in quella grassa. La consistenza è morbida e compatta, l’aroma dolce e fragrante; per assaporarlo al meglio, si consiglia di affettarlo poco prima di consumarlo e proteggerlo con la carta alimentare, perché l’aria e la luce lo asciugano e l’ossidazione dovuta al contatto con l’ossigeno ne fa perdere alcune caratteristiche organolettiche (soprattutto le vitamine). Il suo gusto caratteristico lo rende perfetto come antipasto o secondo, da solo o accompagnato alla frutta: melone, kiwi e fichi ne esaltano il sapore e si sposano deliziosamente al giusto tenore sapido delle sue carni. Insomma il Piemonte, come in molte altre sue eccellenze, ci regala un prodotto genuino e salubre, che allieta il palato, nutre il corpo e rinfranca lo spirito, accompagnato da un buon rosso corposo, di cui questa magnifica regione è sapiente produttrice. Buon appetito col Crudo di Cuneo DOP e lunga vita! Dott.ssa Mara Antonaccio

REGIONE PIEMONTE FEASR – Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale L’Europa investe nelle zone rurali. PSR 2014-2020 – Regione Piemonte Misura 3 – Sottomisura 3.2 – Operazione 3.2.1 – Informazione e promozione dei prodotti agricoli di Qualità Bando 2/2020_B

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EVENTI Il concorso tra le migliori scuole alberghiere organizzato dal Consorzio di tutela. La finale a Modena: lo chef Massimo Bottura decreta il vincitore

Jennifer Massier con lo chef Massimo Bottura (photo © www.TeffanHawk.com).

ZAMPONE E COTECHINO MODENA IGP: VINCE LA SCUOLA TEDESCA

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edizione della Festa dello Zampone e del Cotechino Modena IGP: le 5 scuole vincitrici dei contest degli ultimi anni sono state protagoniste della sfida che si è disputata nella bellissima Piazza Roma di Modena lo scorso 11 dicembre. Al primo posto, si è classificata la scuola tedesca Paul-kerschensteiner con la ricetta ‘’Appuntamento tra anguilla e zampone’’, proposta dalla studentessa JENNIFER MASSIER. «Ogni passaggio del piatto è stato eseguito perfettamente. L’affumicatura dell’anguilla mi ha subito ricordato il camino e il Natale», ha detto lo chef MASSIMO BOTTURA, che come di consueto ha decretato il vincitore. Al secondo posto, è arrivato l’Istituto Giancarlo De Carolis di Spoleto, con la ricetta ‘’Cotechino in Fiore’’. «Hanno fatto un ottimo lavoro, utilizzando sapientemente le erbe aromatiche» ha commentato Bottura. «Mi è piaciuta molto la parte estetica. E Il contrasto tra il sapore deciso dello Zampone Modena IGP e la dolcezza dei fiori». Pari merito, infine, per le altre tre scuole: l’Istituto Buscemi di San Benedetto del Tronto, con la ricetta ‘’Armonia del contrasto’’, l’Istituto Elena di Savoia di Napoli, con il ‘’Tortino di alici con Zampone Modena IGP’’, e la scuola Alberghiera Serramazzoni (MO), con la ricetta ‘’Torta di tagliatelle al Cotechino Modena IGP con gelato di salsa verde’’. Molto soddisfatto il presidente del Consorzio Zampone e Cotechino Modena IGP, PAOLO FERRARI, che ha dichiarato: «Questa vittoria dimostra che anche un prodotto della tradizione come lo Zampone Modena IGP, così tanto legato al suo territorio, può varcare i confini e addirittura diventare l’ingrediente principale di un piatto dove si sposa perfettamente con altri ingredienti anche molto diversi dai nostri». Lo Zampone Modena IGP e il Cotechino Modena IGP videro la luce 500 anni fa nei dintorni di Modena. L’esistenza di questi gustosi prodotti è dovuta all’ingegnosità del popolo di Mirandola che, per sottrarre i maiali al nemico invasore, ne insaccarono le carni macinate nella cotenna e nelle zampe: un’astuzia che oggi ci consente ancora di gustare queste due prelibatezze.

Massimo Bottura: «Non dimentichiamo mai le tradizioni e da dove veniamo. L’ingrediente più importante per gli chef del futuro è la cultura. Studiate il più possibile». Il presidente del Consorzio Paolo Ferrari: «Questa vittoria dimostra che anche un prodotto come lo Zampone Modena IGP così legato al suo territorio può varcare i confini e sposarsi con altri ingredienti anche molto diversi dai nostri»

>> Link: www.modenaigp.it

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Superzampone 2021, a Castelnuovo Rangone torna in presenza la festa che celebra l’insaccato più grande del mondo in una speciale due giorni dedicata ai bambini e alla riscoperta delle tradizioni locali Dopo un anno di stop forzato la festa del Superzampone è tornata a rallegrare Castelnuovo Rangone nel fine settimana del 4 e 5 dicembre scorso, ancora e sempre nel centro storico del paesino in provincia di Modena che la ospita e nel quale è nata nel 1989 dallo scherzo di un gruppo di castelnovesi che mise in mostra uno zampone di cartapesta lungo due metri. Fu poi SANTE BORTOLAMASI, primo e indimenticato “re dello zampone”, che, insieme ad alcuni amici, esponenti dall’Ordine dei Maestri salumieri modenesi, pensò di realizzarne uno vero farcito col classico ripieno. La XXXII edizione della manifestazione è ritornata dal vivo e, oltre ad uno splendido sole nella giornata di domenica, con diverse novità. «La festa è ritornata dopo la sospensione dello scorso anno raddoppiando, un intero week-end dedicato alle eccellenze enogastronomiche. Per evitare assembramenti, e nel rispetto della sicurezza sanitaria, abbiamo deciso che non ci sarebbe stato il classico taglio, ma solo il taglio di un piccolo zampone da parte dei bambini, gli alunni della 4A delle scuole elementari di Montale, sul palco di piazza Papa Giovanni XXIII (in foto a lato, in alto e al centro). Con questa due giorni di iniziative — rivolte ad un pubblico di adulti e bambini per raccontare passato, presente e futuro dell’industria salumiera locale attraverso i tanti prodotti che l’hanno resa nota nel mondo — abbiamo voluto dare un segnale pieno di positività perché siamo convinti che la ripartenza e la speranza nel futuro non possano prescindere dal proprio passato e dalle proprie tradizioni» ha dichiarato MASSIMO PARADISI, sindaco di Castelnuovo Rangone (in foto, in basso, con Luisa Falchi Vecchi, presidente dell'Ordine dei Maestri Salumieri Modenesi, e Stefano Bortolamasi, segretario dell’Ordine nonché figlio dell’ideatore dell’iniziativa, Sante, scomparso nel 2012). «La festa è una grande occasione di comunità: forte è il bisogno dei cittadini, infatti, di condividere momenti collettivi. Questa è la nostra risposta a questa giusta esigenza, mantenendo comunque alto l’impegno alla sicurezza e alla tutela della salute di tutti». Tra le novità del 2021, il PalaZampone, la struttura che ha ospitato gli appuntamenti enogastronomici principali come lo “Zampone futurista”, la “Disfida tra lo zampone e il cotechino” e “Lo zampone incontra la birra artigianale”. Musica live, spettacoli di artisti di strada, laboratori e appuntamenti didattici dedicati ai più piccoli, in compagnia di Zamponcino, la mascotte dell’evento, accanto al primo ristorante dedicato allo zampone, l’area food truck e i birrifici artigianali hanno completato il programma. Ricordiamo che la manifestazione, ad ingresso gratuito, è promossa dal Comune di Castelnuovo Rangone e dall’Ordine dei Maestri salumieri modenesi e organizzata da Feed ’n’ Food, in collaborazione con Quattro Eventi. >> Link: zampone.com

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LOCALI DI GUSTO

Truffle Meat Experience DA UN’IDEA DI AMEDEO MONGIORGI DELLA BOTTEGA DEL MACELLAIO DI SAVIGNO (BO) UNA PREMIÈRE A BASE DI CARNE DI RAZZA BIANCA MODENESE SOTTOPOSTA A FROLLATURA CON BURRO CHIARIFICATO E TARTUFO LOCALE di Gaia Borghi

o sapevate che dal mese di dicembre 2021 l’antica pratica della cerca e cava del tartufo è Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità dell’UNESCO? Ebbene sì, dopo un iter durato 8 anni, grazie all’impegno delle associazioni dei tartufai italiani, questa pratica tradizionale così radicata nel nostro Paese è

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stata inserita nella lista dei beni culturali immateriali da tutelare. «Un patrimonio collettivo, prezioso anche per le generazioni future, che va ben oltre il valore del prodotto in sé» ha commentato MICHELE BOSCAGLI, presidente dell’Associazione nazionale Città del tartufo. Tra le “capitali italiane” del tartufo c’è il comune di Savigno, sui colli

bolognesi, dove ogni fine settimana di novembre si svolge con successo la rassegna Tartófla Savigno – Festival internazionale del tartufo bianco. E a Savigno, sotto i portici della piazza principale, c’è La Bottega del Macellaio, bottega storica con oltre 120 anni di attività guidata da Guido Mongiorgi e dalla sua famiglia, con la moglie

La carne appena “pulita” dal burro di copertura ha mantenuto il proprio colore rosso brillante (photo © Federica Cornia).

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La carne di Bianca Modenese con la copertura di burro chiarificato al tartufo, il salame artigianale e i tortellini in brodo di Bianca Modenese (photo © Federica Cornia). ANNA AMATO padrona incontrastata della cucina. Proprio per festeggiare l’ambito riconoscimento, qui, lo scorso 25 gennaio, il tartufo pregiato della cittadina emiliana è stato celebrato con una Premiere Truffle Meat Experience. Tartufo-carne-burro: tre è il numero perfetto “Premiere” perché per la prima volta in assoluto due tagli di carne di Bianca Modenese, tipica razza bovina caratteristica, appunto, della provincia di Modena, sono stati sottoposti ad una speciale frollatura in un burro chiarificato (butter aged) arricchito con tartufo

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di Savigno. La carne proveniva da capi selezionati in piccoli allevamenti della zona direttamente da Guido, una lunga esperienza in macelleria; capi dei quali viene seguita alimentazione e crescita, così da avere la garanzia del risultato finale in tavola. Una costata e una T-Bone, frollate rispettivamente oltre 70 giorni e 30 giorni, che poi sono state cotte nello stesso burro al tartufo sulla brace del camino nella sala situata proprio sotto la bottega e che saltuariamente (il calendario delle aperture lo trovate nel sito del locale) è riservato a pranzi domenicali e cene su prenotazione. «Il

burro protegge la carne dall’ossidazione e ne impedisce la disidratazione, evitando la rifilatura e lo scarto che si produce con il classico dry aged» spiega Amedeo Mongiorgi, il figlio di Guido che ha ideato e organizzato la serata. «Inoltre il burro conferisce alla carne un gusto più intenso, in questo caso con l’ulteriore arricchimento del tartufo di Savigno nella copertura». Il profumo, già in cottura, incredibile, e il sapore, equilibratissimo, una vera delizia nella parte del grasso, non si possono raccontare adeguatamente. Così come il salame, artigianale a grana grossa, una salame «a km buono» lo descrive Guido, genuino, senza alcun tipo di conservante o sofisticazioni aggiuntive con cui si è aperta la degustazione, insieme alla focaccia e ai grissini preparati dalla chef. O i tortellini, piccolissimi, al mignolo, il ripieno classico ma senza il lombo suino che lo rende più secco e la noce moscata, serviti in brodo di Bianca Modenese, saporito senza la necessità di aggiungere il Parmigiano. O infine il cono di mascarpone, con perle di aceto balsamico al tartufo e tartufo bianco generoso. Sapori che non si riescono a raccontare, ma certamente valgono il viaggio. Gaia Borghi La Bottega del Macellaio Via Guglielmo Marconi 2 40060 Savigno (BO) Web: labottegadelmacellaio.com

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PRODOTTI TIPICI

Dall’ingegno popolare un salume a base di rapa

CIUÌGHE DEL BANALE di Chiara Papotti

olomiti da contemplare. Come cartoline che mutano a ogni svolta della strada appagando la sguardo, innescando nuove curiosità. In rifugi e villaggi un paesaggio umano altrettanto mutevole e interessante: ristoratori capaci di reinventare i sapori antichi, contadini e artigiani tenaci e capaci. I sapori di queste terre, i formaggi d’alpeggio, il vino, i salumi, sono quelli di una civiltà povera, arrivati intatti sino ai giorni nostri con il loro delizioso retaggio di gusto, storia e tradizioni. A San Lorenzo Dorsino, comune italiano istituito nel 2015 dalla fusione dei territori di San Lorenzo in Banale e Dorsino nella provincia di Trento, è custodito un presidio Slow Food unico, dal sapore inimitabile

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e dalla storia affascinante: la ciuiga del Banale. Preparata per la prima volta nella seconda metà dell’800 dal macellaio PALMO DONATI, oggi è mantenuta in vita da un unico produttore. Nello specifico si tratta, in realtà, della Famiglia Cooperativa Brenta Paganella (www.cooperazionetrentina.it) e la sua storia merita di essere raccontata. Nel 1890 il sacerdote don Guetti, impressionato dalle condizioni di miseria in cui vivevano i contadini e i pastori della zona, fondò cooperative di mutuo soccorso, nella quali, chi aveva disponibilità, investiva a vantaggio dei meno abbienti somme di denaro affinché potessero superare momenti di difficoltà. È con questo nobile scopo che nacque in quegli anni la Famiglia Cooperativa Brenta, tuttora operativa.

Le ciuighe del Banale sono testimonianza di estrema povertà nei secoli passati del territorio delle Giudicarie Esteriori, la vallata che si trova incastonata tra il lago di Garda e le Dolomiti di Brenta. Le famiglie che abitavano queste zone allevavano prevalentemente maiali, vendevano i tagli anatomici migliori e si accontentavano di consumare i meno nobili. All’epoca, il macellaio di San Lorenzo in Banale Palmo Donati aggiunse alle parti meno pregiate del suino (ovvero la testa, il cuore e i polmoni) le rape bianche, tubero dallo scarso sapore, ma molto diffuso e di poco costo. In questo modo, con la minima spesa, ottenne un salume sostanzioso e saporito che andava incontro alle necessità della povera gente.

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In alto: la ciuìga del Banale è molto apprezzata per le sue note aromatiche di pepe nero e aglio e per il gusto rotondo conferito dall’affumicatura. Si consuma cotta, abbinata ad un’infinita varietà di piatti. L’abbinamento classico è quello con le patate lesse (photo © www.italianfoodexperience.it). A sinistra: San Lorenzo Dorsino, in provincia di Trento, è situato alle pendici sud-orientali delle Dolomiti di Brenta, a pochi chilometri dal lago di Molveno, all’ingresso del Parco Naturale Adamello Brenta (photo © bikemp – stock.adobe.com).

A distanza di oltre 150 anni, si è conservata l’usanza di portare avanti questa produzione con qualche piccola modifica del processo produttivo. Mentre originariamente si utilizzava circa il 30% di carne meno pregiata e il restante 70% di rape, oggi si utilizzano anche le parti migliori del maiale (spalla, pancetta, gola e coppa), lavorate con una percentuale minore di rape (circa il 35-40% sul prodotto finito). Alle carni macinate si aggiungono le rape cotte precedentemente in un grande paiolo e strizzate per bene al fine eliminare l’acqua in eccesso. Le proporzioni ideali per la preparazione delle ciuighe sono 40 kg di rape ogni 60 kg di carne. All’impasto ottenuto si aggiunge sale fino, pepe nero e aglio tritato.

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L’operazione finale prevede che il composto ottenuto venga insaccato nel budello gentile, che viene ricavato dall’ultima parte dell’intestino retto del suino. Al termine di questa procedura si effettua l’affumicatura rigorosamente naturale con cruschello di faggio, che ha una durata di circa 8 giorni, operazione fondamentale per asciugare le ciuighe e conservarle al meglio. La produzione delle ciuighe del Banale rimane ad oggi molto limitata, il presidio Slow Food si propone di incrementare la produzione, mantenendo la tecnica tradizionale al fine di stimolare, intorno a questo salume, l’interesse della ristorazione e dei consumatori. L’insaccato è molto apprezzato per le sue note aromatiche e per il gradevole gusto conferito dall’affumicatura.

Può essere consumato anche dopo soli 3 giorni di stagionatura, facendolo bollire in acqua per circa venti minuti. Si può abbinare, seguendo la tradizione, a patate lesse o purè, polenta e crauti, cavoli tagliati fini. Se le si consuma dopo una decina di giorni dall’inizio della stagionatura, le ciuighe assumono una consistenza maggiore e si possono tagliare a fette, come i salami più classici. Oggi la ciuiga del Banale è un presidio Slow Food, per il quale la Cooperativa Brenta Paganella ha l’esclusiva sulla produzione e sulla commercializzazione. Chissà cosa direbbe il macellaio Palmo Donati oggi, vedendo la sua invenzione diventare prodotto di altissima qualità, estremamente ricercato e apprezzato oltre i suoi confini. Chiara Papotti

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SALAMPATATA di Massimiliano Rella

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A sinistra: il Salampatata realizzato con carne suina locale e patate rosse di montagna dalla macelleria gastronomia Da Teresa di Caluso (TO). In alto: a sinistra, l’impasto del Salam d’Patata e il norcino Giovanni Actis Dato mentre lo insacca nel budello naturale. A destra, la legatura del salame.

l Salampatata, o Salam d’Patata, è un curioso salume inserito nel paniere dei Prodotti Tipici della provincia di Torino. Un salume povero, contadino, simpatico e gustoso, nato in tempi di “magra”, quando la carne era ancora un bene prezioso, e oggi salito allo status di prodotto tipico del Canavese, quella vasta area a nord del Piemonte al confine con la Val d’Aosta, dove anticamente si coltivava la canapa. Troviamo varianti

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di Salampatata nella piccola regione valdostana: ad esempio il Bouden, la cui ricetta prevede anche un’aggiunta di sangue di maiale, da cui deriva il colore rosso bruno e intenso del salume. Il Salam d’Patata del Canavese, invece, prevede soltanto carne di maiale, metà magra, metà grassa, macinata e impastata con quantità quasi uguale di patate rosse di montagna (lessate con la buccia), che sono raccolte tra settembre e marzo, prima che i tuberi

comincino a fermentare. All’impasto il bravo norcino aggiunge pepe a grani e pepe fino, noce moscata grattugiata, cannella e chiodi di garofano polverizzati. E ciascuno, a suo gusto, anche un pizzico di personalizzazione. Ad esempio, la storica macelleria gastronomia Da Teresa (Piazza Ubertini 5, Caluso, Torino; telefono: 011 9891046) aggiunge un goccio di vino bianco Erbaluce di Caluso, un mix “segreto” di aromi naturali e il conservante E252. Il tutto è

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La bucatura del Salam d’Patata, necessaria per far uscire l’aria dall’insaccato, che va consumato nell’arco di 15-20 giorni, sia a crudo con pane o sulla pizza che come ingrediente di primi piatti e risotti. poi insaccato in budello naturale almeno un giorno prima del consumo. «Facciamo quattro passaggi d’impastatura manuale delle patate e della pancetta di suino nazionale, allevato qui in Canavese, che acquistiamo al macello» ci spiega il macellaio norcino GIOVANNI ACTIS DATO, della macelleria Da Teresa. «Una volta insaccato il Salampatata viene bucherellato per far uscire l’aria, legato con spago naturale, di nuovo bucherellato e passato a stagionatura per massimo tre giorni. Va consumato in 15-20 giorni. Si fa tra fine settembre e marzo — conclude Actis Dato — perché dopo le patate non sono più buone, cominciano a germogliare e noi non vogliamo usare la fecola, ma produrlo in modo tradizionale e artigianale». La macelleria Da Teresa arriva a farne 35 kg a settimana, venduti in negozio e a qualche ristorante del

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territorio. Ma tutto commercializzato in Canavese, dove complessivamente operano una dozzina di produttori di Salam d’Patata, pochi de quali “industriali”. Dopo Carema, che è l’ultimo paese del Piemonte, all’imbocco della Val d’Aosta il salume come dicevamo cambia, tra aggiunte di barbabietola o sangue di maiale. Come si consuma a tavola? Principalmente crudo col pane, con pane e burro oppure sfrittellato con uova fresche. Ma è anche un ingrediente per risotti e primi piatti, ad esempio coi funghi porcini. E ancora: sulla Pizza Canavesana con pomodoro, mozzarella e fette di Salampatata senza involucro. La famiglia Actis Dato lavora in gastronomia dal ‘48, oggi alla terza generazione. Nonna Teresa, da cui prende il nome l’insegna, aprì una bottega facendosi apprezzare dai paesani per l’amore e la dedizione che

metteva nel lavoro. Nel ‘64 con figli e marito aprì la macelleria completando l’offerta con carni di qualità. Nel ‘74, cambiata la sede, Da Teresa si sviluppò ulteriormente, con professionalità e passione. E così, da oltre 60 anni, in negozio si producono salami artigianali all’Erbaluce di Caluso, salsicce, zamponi, cotechini e Salam d’Patata, selezionando e lavorando carni canavesane, in modo manuale e stagionando i suoi prodotti in una stanza dotata di stufa a legna, proprio come si faceva nella tradizione. Oltre ai salumi propone carni piemontesi di qualità, formaggi locali e tanto altro. Non meno importante è la gastronomia, con specialità di territorio fatte in casa. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Piazza Duomo a Biella (photo © Emanuele Capoferri – stock.adobe.com).

LA COPPA COTTA BIELEISA Salume suino aromatizzato e cotto, è un Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Regione Piemonte di Roberto Villa

iella è conosciuta per le lane e per le abilità dei suoi tessitori di trasformarle in pregiati tessuti, apprezzati dagli amanti del buon vestire in tutto il mondo; meno note sono le prelibatezze culinarie che

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pure trovano nel territorio delle perle uniche, come la paletta cotta — i cui produttori si sono riuniti in Consorzio e si sono dotati di un Disciplinare — e appunto la Coppa cotta bieleisa di cui si parla in questo articolo.

Storia e legame col territorio La ricetta della coppa cotta è molto antica, tramandata oralmente di padre in figlio una generazione dopo l’altra con una produzione di scritti alquanto

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esigua nel merito di questo specifico salume. Si produce a Biella e in tutta la provincia a livello casalingo ed artigianale nelle macellerie, vi sono anche salumifici professionali che la propongono come il Salumificio Creminelli di Vigliano1, appena fuori dal capoluogo provinciale, fondato oltre un secolo fa nel 1906. La scelta delle spezie, delle erbe e del vino, la durata della salatura a secco e la modalità di cottura sono i fattori che differenziano le caratteristiche della coppa cotta tra i vari produttori, ciascuno con una propria ricetta segreta gelosamente difesa e custodita. Questo salume è iscritto tra i prodotti a base di carne presenti nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali stilato dalla Regione Piemonte e pertanto annoverato a tutti gli effetti anche dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali tra le eccellenze culinarie locali del Belpaese. Descrizione del prodotto e tecnica di produzione Il taglio carneo impiegato è la coppa di suino pesante, una volta di origine unicamente locale ed ora proveniente dagli allevamenti piemontesi, lombardi ed emiliani della Pianura Padana, costituita come ben noto dai muscoli della zona cervicale abbondantemente alternati da accumuli di saporito e compatto grasso di colore bianco candido. La ricetta tradizionale prevede una salatura a secco a freddo dove le coppe fresche sono adagiate, alternate a strati di concia — costituita da sale, salnitro, spezie (pepe, noce moscata, macis, cannella, coriandolo, cumino, anice stellato), erbe alpine e mediterranee a discrezione del produttore (rosmarino, salvia, timo, alloro, bacche di ginepro ed altre) — con abbondante innaffiatura di vino rosso leggero di medio corpo: l’impiego del vino in questa fase è al giorno d’oggi facoltativo, alcuni produttori lo omettono o lo limitano alla fase di diluizione di spezie ed aromi e per favorire la veicolazione degli stessi attorno a pezzi anatomici di forma irregolare come le coppe. La fase della salagione dura tipicamente da uno fino a due, tre giorni. Mentre un tempo si eseguiva il massaggio manuale dei singoli pezzi al fine di far penetrare in maniera omogenea aromi, sale e salnitro, nelle produzioni

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Carni di coppa piemontesi selezionate di puro suino pesante per la Coppa cotta biellese del Salumificio Creminelli di Vigliano Biellese (BI). Viene prodotta tramite salatura a secco con sale, erbe, spezie e vino seguita dalla cottura al vapore avvolta in canovacci di lino o canapa bagnati con il vino (photo © www.creminelli.it). diverse da quelle casalinghe ed artigiane si fa oggi ricorso alla zangolatura meccanica a freddo con cicli predeterminati di massaggio e sosta, che dà maggiore sicurezza e regolarità di risultato. Al termine di questa fase segue un periodo di riposo, la sgocciolatura dal liquido e l’insacco all’interno di budelli naturali, tipicamente si usa la bondeana come per le coppe stagionate. Le coppe vengono quindi avvolte in canovacci di lino o di canapa, che taluni produttori imbevono di vino: al Salumificio Creminelli, come riferito dal titolare ANDREA CREMINELLI, si usa l’Erbaluce di Caluso, rinomato vino bianco piemontese a denominazione di origine controllata e garantita, prodotto in un’area vinicola non molto distante. Infine, ha luogo la fase della cottura, che avviene a bassa temperatura per alcune ore, in media cinque, in funzione della pezzatura del taglio anatomico, in modo che vengano superati di poco i 70° C al cuore del prodotto. Liberate dai canovacci, sono sottoposte ad abbattimento termico e avviate in ultimo alla refrigerazione che precede il consumo immediato oppure al confezionamento sottovuoto. Si presenta al taglio di colore rosato nella parte magra e bianco immacolato nelle larghe fasce di grasso che la at-

torniano. La pezzatura finale è attorno ai 2 kg-2,5 kg. Modalità di consumo ed abbinamenti enologici Classicamente viene servita fredda previo affettamento, similmente agli altri salumi cotti come il prosciutto cotto o la mortadella. Figura bene in un tagliere di salumi locali cotti e crudi, come salami, pancetta, lardo, paletta cotta e ben si accompagna dunque, oltre che con l’immancabile pane, con verdure crude e cotte a seconda della stagione. Il sapore è equilibrato: nella porzione magra risulta deciso e raccoglie tutti gli aromi donati dalle spezie, dalle erbe e dal vino, mentre il grasso contribuisce alla rotondità e alla morbidezza. Tra i vini sono consigliabili bianchi fermi, secchi e fini, come il citato Erbaluce di Caluso DOCG2 e il Cortese dell’Alto Monferrato DOC3, entrambi disponibili anche nella versione spumante. Roberto Villa Note 1. www.creminelli.it 2. www.erbalucecarema.it/erbalucedi-caluso 3. www.viniastimonferrato.it/denominazioni/cortese-alto-monferrato-doc

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TRADIZIONI

LA CONFRATERNITA DEL TARTUFO ROSSO DI FORMIGNANA Riprendono, dopo due anni di inattività causata dal Covid-19, le attività del sodalizio ferrarese finalizzate alla salvaguardia e alla riproposta del prelibato “Salame da succo” di Nunzia Manicardi

l “Salame da succo”, detto anche “Tartufo rosso di Formignana”, è parente della più famosa “Salama da sugo”, entrambi prodotti tradizionali del Ferrarese di antica origine. I suoi più convinti e tenaci sostenitori sono da qualche anno raccolti in una Confraternita che con entusiasmo svolge attività promozionale. Purtroppo ha subito un’interruzione forzata di circa due anni causata dal Covid-19, però adesso si è ripartiti, e col piede giusto, per far conoscere e apprezzare questo straordinario “reperto” di una tradizione gastronomica che nella Corte degli Estensi ha trovato il massimo della raffinatezza ma che deriva da una semplice base contadina ancora più remota che i secoli non sono mai riusciti ad offuscare. Per riaprire l’attività sociale i confratelli, tutti appassionati della buona tavola e delle tradizioni ferraresi, si sono riuniti nella loro sede presso l’Antica Locanda la Paradora di Chiusa di Valpagliaro, in provincia di Ferrara. L’incontro è stato anche l’occasione per accogliere un nuovo adepto che ha portato il loro numero a 21 unità. L’ideatore e promotore della Confraternita è il Gran Maestro SERGIO FERRIOLI, già titolare della trattoria, il quale, dopo aver riscoperto un’antica ricetta risalente al 1761, ha iniziato a produrre e servire ai suoi clienti e amici questo prezioso insaccato di cui

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la suddetta Confraternita è diventata riferimento di garanzia, denominandolo “Tartufo rosso” e registrandone la composizione. Il passo successivo è stato la costituzione della “Confraternita del Tartufo rosso di Formignana o Salame da succo”, nata ufficialmente il 10 novembre 2017, presso Villa La Mensa, Delizia Estense di Sabbioncello San Vittore a Copparo, con la presentazione e degustazione del prodotto e all’insegna del motto latino “Bonus Succus Dat Felicitatem”. Erano presenti i sindaci dei comuni di Copparo, Formignana e Tresigallo come riferimento territoriale della Confraternita, i presidenti della Provincia e della Camera di Commercio di Ferrara, l’assessore regionale PATRIZIO BIANCHI, la senatrice MARIA TERESA BERTUZZI, i presidenti di Slow Food, di Ferrara Fiere e Congressi e della Strada dei vini e dei sapori e il direttore del Centro di Formazione professionale di Cesta. La scoperta della ricetta era avvenuta presso l’archivio parrocchiale della chiesa di Formignana. Essa è contenuta all’interno di un annuario scritto da DON VINCENZO DOMENICO CHENDI in cui, attraverso la descrizione della lavorazione della carne del maiale nel mese di dicembre, si evidenzia in particolare la ricetta del “Salame da succo”. Chendi, vissuto nel XVIII secolo nel Ferrarese tra Premiata Salumeria Italiana, 1/22

Formignana, dove nacque nel 1710, e Tresigallo, di cui per molto tempo fu parroco, nel 1761 pubblicò il volume “L’agricoltore ferrarese”, edito dalla Stamperia Camerale di Ferrara, un trattato rivolto alla gente di campagna contenente consigli che spaziano dalla cura della terra e degli animali a quella dei prodotti che ne derivano. Questa sorta di manuale di agronomia, ancora oggi molto apprezzato e consultato nonostante le profonde modifiche, è suddiviso in 12 capitoli, uno per ogni mese. In ciascuno di essi sono raccolte e descritte tutte le operazioni e le tecniche per la lavorazione dei campi, la conservazione dei prodotti, l’amministrazione delle aziende e le varie attività domestiche. Nel capitolo relativo al mese di dicembre è dettagliatamente descritta la “domestica beccaria” ovvero la lavorazione del maiale in casa, tradizione comune a tutti gli agricoltori ferraresi e, tra i prodotti derivati dalla lavorazione del maiale, Chendi si sofferma in modo particolare sulla preparazione, conservazione e “gustazione” del “Salame da succo”, fornendone la seguente ricetta: “Per ogni peso di carne grassa ben pestata: 10 once di sale,1 oncia di pepe, 4 libbre di cotiche pestatissime, 1 libbra di fegato peltatissimo, 1 oncia di cannella in bacchetta e in polvere, 1/8 oncia di chiodi di garo-

In alto: tipico paesaggio campestre del Ferrarese (photo © Federico Chicco). A pagina 84: il Salame da succo della Confraternita del Tartufo rosso di Formignana fondata da un gruppo di appassionati estimatori della buona tavola e delle tradizioni ferraresi (photo © FB L’inviato nel Buon Gusto).

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“L’agricoltore ferrarese” di Don Domenico Chendi (1761), contenente la ricetta nel mese di dicembre del Salame da succo (photo © FB L’inviato nel Buon Gusto). fano, mezza noce moscata, 4 bicchieri di vino rosso”. Le prime testimonianze scritte riguardanti prodotti molto simili al “Salame da succo” e alla “Salama da sugo” risalgono tuttavia ad un periodo anteriore e precisamente a quello rinascimentale, durante il quale un ruolo importante a questo proposito viene attribuito a LUCREZIA BORGIA, sposa ad Alfonso d’Este agli inizi del ‘500. L’opera più rappresentativa del tempo è il ricettario composto nel 1549

da CRISTOFORO DA MESSISBUGO, “Banchetti composizioni di vivande e apparecchio generale”, nel quale sono riportate le abitudini gastronomiche, le ricette e il servizio della tavola estense. Dopo quasi due secoli di silenzio, ai primi del ‘700 l’illustre storico ferrarese ANTONIO FRIZZI è il primo autore a fornire abbondanti informazioni sulle origini e la storia nell’opera “Memorie per la storia di Ferrara”, nella quale afferma che i primi produttori di “salama da succo” e “da sugo” furono i porcaioli,

intendendo i montanari provenienti dalle province di Trento, Bormio e Morbegno. Egli però attribuisce unicamente alla città di Ferrara il merito della nascita dei due prodotti, dedicandole un poemetto giocoso dall’eloquente titolo “La Salameide” (1722). La riproposta del “Salame da succo” per cui si prodiga la Confraternita non vuole essere in contrapposizione alla “Salama da sugo” ma un complemento e una variante, in quanto nella ricetta originale oggi da loro riproposta troviamo la cotenna del maiale, la cannella ed altre spezie non presenti nell’altra tipologia di insaccato. Si segue tuttora la ricetta del Chendi che, oltre a questi ingredienti, ha come caratteristica principale la ricerca dell’equilibrio di sapori tra i vari tipi di carne e di spezie dell’impasto, l’utilizzo di un vino di qualità e la cottura volta a conservare il succo all’interno dell’insaccato, che si presenta granuloso e ricco di aromi. Per la sua rarità e prelibatezza, e il caratteristico colore rosso ben evidenziato, al “Salame da succo” è stato dato l’appellativo di “Tartufo rosso”. Lo si può gustare presso la principale trattoria di Formignana o durante la Sagra annuale del Salame da succo e acquistare nelle macellerie Cantelli di Formignana, Centro Carni di Copparo, Amici della Carne di Tresigallo e presso l’Azienda agricola Corte Fiesole, sulla Via del Mare. Nunzia Manicardi

La Salama da sugo IGP è un insaccato costituito da una miscela di carni suine aromatizzate e insaccate nella vescica naturale del maiale. Una delle sue caratteristiche distintive è l’uso di vino e spezie per la stagionatura e l’invecchiamento in particolari ambienti. È un prodotto che viene fatto fin dal Rinascimento, quando la forma sferica “a melone” del salume, con divisione in 6/8 spicchi e strozzatura mediana, è stata concepita. Previo asciugamento e stagionatura, è prodotta in due tipologie: cruda e cotta. La zona di produzione della Salama da Sugo IGP comprende il territorio della provincia di Ferrara con esclusione dei comuni di Goro, Codigoro, Lagosanto e Comacchio, in Emilia-Romagna (fonte e photo © www.winefoodemiliaromagna.com).

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Uvs Chatsargana è il primo prodotto IGP della Mongolia A gennaio è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’UE la registrazione della denominazione Uvs Chatsargana IGP, primo prodotto della Mongolia inserito come Indicazione Geografica Protetta che godrà della tutela offerta dal regolamento europeo delle DOP-IGP (Reg. UE n. 1151/2012). Uvs Chatsargana IGP designa le bacche dell’olivello spinoso di Uvs, appartenente alla famiglia delle Eleagnaceae con le quali viene preparato un estratto. Con questa nuova registrazione della Mongolia sono 19 i Paesi Extra-UE con prodotti DOP, IGP o STG tutelati a livello comunitario. Salgono invece a 225 i prodotti Extra-UE presenti nel registro europeo delle Indicazioni Geografiche, 195 dei quali del comparto Cibo. «Si allarga il numero di Paesi che ricorre al regolamento europeo delle Indicazioni Geografiche per tutelare e promuovere i prodotti tipici — afferma MAURO ROSATI, direttore generale della Fondazione Qualivita — e il sistema europeo con questa nuova registrazione si conferma un vero modello planetario di tutela con 56 Paesi che lo utilizzano. Un risultato che conferma la bontà della attuale legislazione comunitaria» (fonte: Fondazione Qualivita).


SAPORI DAL MONDO

Salumi d’Andorra di Riccardo Lagorio

n tempi andati, sui Pirenei si è ricorso alla produzione di salumi in condizioni di sussistenza da novembre a marzo. Il consumo avveniva anche in seguito, a partire da marzo, quando ricominciavano i lavori in campagna»

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sintetizza così JORDI PLANES la storia della salumeria in Andorra, il Paese che sorge nel cuore dei Pirenei, tra Spagna e Francia. «I salumi in verità erano destinati per lo più alle classi più abbienti e quelle con minore potere d’acquisto li vendevano per ottenere denaro». Una

descrizione che potrebbe calzare anche per le nostre latitudini sino a metà del secolo scorso e in taluni casi anche oltre. Il piccolo laboratorio di Planes si trova al piano terra di un edificio in pietra grigia nel villaggio di Ransol, nella parrocchia di Canillo, a nord del

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Principato. L’elemento distintivo dei salumi tradizionali di Andorra è la cottura. Avviene per la bringuera e la donja, gli unici universalmente riconosciuti come tipicamente andorrani. Per la preparazione della bringuera vengono scelte le carni suine di testa, guanciale, cotenne, carne magra di gola e pancetta, macinate con piastra da 4 mm. Si aggiunge del sangue e vengono uniti all’impasto sale e pepe. Talvolta, e secondo la tradizione più antica, si allegano uova per condensare le carni. Una volta bene amalgamati gli ingredienti, si procede con l’insacco in vescica di maiale o in budello, si lega con spago e si fa bollire per almeno 4 ore a una temperatura di 90 gradi, evitando che l’involucro si rompa. La lunghezza della bringuera è di circa 20 cm, la tinta esterna varia dal beige al marrone e al taglio la fetta si presenta di colore rosso scuro. «In famiglia si consuma come accompagnamento alla escudella, la minestra di pezzi di carne e verdura, il piatto simbolo del giorno di Sant’Antonio. C’è ancora chi la fa a tocchetti e la aggiunge al brodo. Si porta in tavola anche durante la colazione o come energetica merenda insieme a pomodoro cosparso su del pane tostato». La donja è prodotta con la pancetta che viene prima salata e lasciata maturare per un periodo che va dai 10 ai 20 giorni in ragione della dimensione del pezzo anatomico. Una volta lavata si procede alla bollitura. Uno dei piatti più iconici del cuoco CARLES FLINCH del ristorante Can Manel è l’Insalata con tocchetti croccanti di donja, ottenuti saltandoli in casseruola prima di incorporarli alla preparazione. Un altro metodo di confezionare i salumi, in ultima analisi conservare la carne, è la disidratazione. «In aggiunta a questi, che fanno parte dell’eredità gastronomica di Andorra, prepariamo salumi non bolliti ma essiccati come la llonganissa, il fuet e la secallona, la botifarra bianca e nera, il bull, che è un sanguinaccio, i carnetes, elaborati con lingua e rognone seguendo procedimenti artigianali senza conservanti e coloranti». La llonganissa è una lucanica essiccata, ottenuta aggiungendo alle carni magre già macinate finemente del sale e del pepe e il fuet o secal-

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Il norcino Jordi Planes con alcuni insaccati tipici di Andorra. lona è la versione inserita in budello più stretto, talvolta ricoperta di quasi invisibile muffa bianca, che impedisce la marcescenza delle carni. «La botifarra è la salsiccia dell’area culturale catalana. Ne esistono numerose varianti. In Andorra prevalgono quella bianca e quella nera. Quest’ultima è ottenuta con l’aggiunta di sangue nell’impasto, quella bianca con carni prive di grasso». Totalmente ignota alla produzione salumiera di Andorra l’aggiunta di polvere di peperone dolce o piccante nell’impasto, come avviene per esempio nel chorizo. «Ritengo che questa assenza sia dovuta al fatto che qui non arrivarono mai le popolazioni arabe». Mappa alla mano, si può constatare con facilità che «la presenza di polvere di peperone negli insaccati coincide

con la coesistenza di popolazioni musulmane nella penisola iberica, come ulteriore strumento di conservazione della carne» spiega davanti a un’antica cartografia. Si fa cultura con il cibo e, su tutto, grazie ai salumi. Riccardo Lagorio Cal Jordi Ransol, Canillo, Principato d’Andorra Telefono: +376 727788 Web: www.instagram.com/artesademuntanya_caljordi/?hl=it Nota A pagina 88, il paesaggio intorno a Ransol, Canillo, nel Principato di Andora. Qui si trova una parte delle strutture dell’impianto sciistico più importante dei Pirenei, quello di El Tarter-Soldeu (photo © martinscphoto – stock.adobe.com).

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Un tradizionale piatto di salumi russi (photo © Mallivan – stock.adobe.com).

LA MORTADELLA SOVIETICA di Nunzia Manicardi

nche i Russi hanno il loro würstel, che qui però ha sia un nome che un’origine diversi da quello tedesco, assai più conosciuto. Anzi, è più esatto dire che hanno la loro mortadella perché, come vedremo, è anche dalla nostra specialità bolognese, sia pure rivisitata, che esso trae ispirazione. Il

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suo nome è Doktorskaya e l’origine è piuttosto recente perché risale agli anni Trenta del secolo scorso. È nata, quindi, poco dopo la costituzione dell’Unione Sovietica, avvenuta nel 1922, ed è sopravvissuta alla sua dissoluzione nel 1991, mantenendo intatto il favore di cui aveva goduto fin dal primo momento e che ne fatto uno dei simboli della

gastronomia russa. Si è trattato di un esordio piuttosto tardivo, in quanto le salsicce di tipo tedesco fecero la loro comparsa in Russia soltanto nel XII secolo ed ebbero diffusione popolare ancora più tardi, tra ‘600 e ‘700, quando lo zar Pietro I — il fondatore della nuova capitale San Pietroburgo — le introdusse pressoché ufficialmente

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Assomiglia al würstel tedesco ma, ancor di più, alla nostra mortadella, e si chiama Doktorskaya. Nata negli anni Trenta, questa salsiccia di produzione industriale gode tuttora di uno straordinario favore popolare. Si mangia abitualmente anche a colazione tagliata spessa come farcitura dei panini

nell’ambito della sua articolata opera di occidentalizzazione dell’intero paese che investì tutti gli ambiti della vita sociale e culturale. Da allora in poi furono consumate ma a tutto vantaggio delle classi più abbienti. Fu soltanto nel 1936 che, sotto le direttive tecniche del Commissariato per la salute popolare istituito dalla nuova Costituzione sovietica appena entrata in vigore per volontà di Stalin, l’Istituto scientifico di ricerca per l’industria di trasformazione della carne diretto da ANASTAS MIKOYAN e a lui poi dedicato sviluppò la ricetta, il nome e, soprattutto, le tecnologie di produzione della nuova, grossa salsiccia di fabbricazione industriale, un alimento dietetico con elevato contenuto proteico che avrebbe potuto rinforzare la dieta del popolo russo e che per questo fu chiamato Doktorskaya kolbasa (Salsiccia del Dottore). L’idea di questo nuovo impasto alimentare scaturì anche dal giro di

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visite che Mikoyan, un progressista desideroso di confrontarsi col mondo esterno, in accordo con Stalin, ottenne di fare negli Stati Uniti d’America. Fu proprio sul suolo americano che, nella fabbrica di carne di Chicago (città di origine tedesca, dove i würstel tuttora costituiscono uno dei cibi più diffusi e identitari) venne a conoscenza di quella che là veniva chiamata “salsiccia bolognese”, una mortadella che, a sua volta, si avvicinava al Leberwurst, la salsiccia tedesca morbida a base di fegato. La trasferta di Mikoyan fruttò un accordo commerciale che, al suo ritorno in patria, portò all’apertura di un primo stabilimento russo-americano per la produzione di un insaccato simile alla mortadella di tipo bolognese ma appositamente modificato per renderlo meno grasso. Il primo “filone” cotto di Doktorskaya kolbasa che uscì dalla linea di produzione del salumificio moscovita prevedeva molti albumi e conteneva pochi grassi, proprio come “prescritto dal dottore”. Dal “Libro per un’alimentazione gustosa e salutare” (1952) leggiamo che: “tra i vari salami cotti c’è anche il Doktorskaya kolbasa, così chiamato perché può essere mangiato anche in caso di alcune malattie dello stomaco, quando è necessario nutrirsi con cibi di facile digestione. La ricetta di questo salame prevede per lo più carne suina non grassa (60 gr su 100 gr di carne macinata), grasso di maiale (25 gr) e carne bovina di ottima qualità (15 gr) con l’aggiunta di zucchero, sale e un pizzico di cardamomo. La ricetta non prevede l’aggiunta di pepe, condimenti e altre spezie piccanti”. Al manzo e al maiale semigrasso aromatizzati con il cardamomo si univano latte, uova, sale, zucchero e acido ascorbico (stabilizzante del colore). La produzione avveniva mediante taglio a cubetti e miscelazione di tutti gli

ingredienti in una pasta omogenea con la quale erano poi riempiti i tubi, dopodiché la salsiccia così ottenuta veniva essiccata e bollita. Poiché era una fonte salutare di carne (quasi il 99% del totale prodotto e di alta qualità), dal sapore delicato che poteva piacere a chiunque e a prezzo basso, questa salsiccia diventò subito popolarissima in tutta l’Unione Sovietica e tale è rimasta anche dopo la fine di quel tipo di organizzazione statale. La sua diffusione immediata e capillare fu ottenuta anche grazie a un’abilissima campagna promozionale su vasta scala, con la vendita diretta sulle bancarelle di strada e, in seguito, nei distributori automatici. La Doktorskaya è stata prodotta in base alla ricetta standardizzata appena descritta e fissata dal GOST 23670 dal 1936 fino al 1974, quando le restrizioni sugli standard qualitativi furono allentate a causa delle crisi economiche e venne consentito di aggiungere al macinato fino al 2% di amido o farina per “allungare” la carne (oggi gli standard da rispettare sono quelli contenuti nella direttiva GOST 23670 del 1979) Tuttavia, questo non influì molto sulla sua popolarità, tutt’altro. Iniziò infatti anche ad essere usata a colazione per farcire i panini. In epoca sovietica se ne metteva una grossa fetta su pane imburrato, mentre adesso è il contrario: fette sottili senza burro. In ogni caso si tratta sempre di panini aperti, cioè senza copertura. Diventò ancora più famosa e diffusa quando nacque l’usanza di aggiungerla all’insalata Olivier (quella che noi chiamiamo insalata russa) e alla Soljanka, la tipica zuppa russa con una base di brodo mescolata con cetrioli, cavolo, pomodoro e altri vegetali in salamoia. In qualsiasi modo, insomma, purché sia Doktorskaya. Nunzia Manicardi

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Io sono il foie gras di Josette Baverez Blanco

ei periodi di festa di fineinizio nuovo anno, non può assolutamente mancare, nei menù francesi, il foie gras, più prelibato quello d’oca, più frequente, perché più economico, quello d’anatra. Sono regolarmente inorridita sentendo commensali parlare di patè, miscuglio di carne e fegato di vari animali. Se dovesse parlare il foie gras si presenterebbe come pastosità che si scioglie al tepore del palato, morbidezza che avvolge i sensi, gusto raffinato, un po’ dolce, un po’ pungente, che attraverso i millenni continua ad incantare chi ha la fortuna di assaporarlo. È una delle glorie gastronomiche nazionali francesi, nata in due regioni diametralmente opposte, il Sud-Ovest, nella zona di Tolosa e la Dordogne, il Nord-Est, nella zona di Strasburgo, e l’Alsazia. La principale produzione rima-

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ne concentrata tra i Pirenei e l’Aquitania, terre di allevamento intensivo di oche e di anatre e di uomini che seguono un procedimento che si perde nella notte dei tempi. Furono addirittura gli antichi Egizi a mettere a punto per primi l’arte insolita dell’ingrasso degli animali. Ne è testimone un bassorilievo scoperto nella necropoli di Saqqara che rappresenta un gruppo di servitori accovacciati con palline di pasta in mano di fronte ad una quantità di oche ed anatre. Nella scena successiva, si vedono le oche fissate a terra obbligate ad ingurgitare quella pasta. Gli Egiziani hanno ideato questo sistema dopo aver osservato, sulle coste del Nilo, come le oche facevano provviste di grasso per affrontare le loro lunghe migrazioni verso il caldo. Hanno messo a profitto gastronomico quella che era una legge di natura.

Dall’Antico Egitto la tecnica dell’ingrasso passa alla Terra Promessa, serbatoio che innaffierà tutta l’Europa con la dispersione degli Ebrei. Più tardi, saranno i Greci a trasmettere ai Romani tale cultura: non mancava infatti questa delizia gastronomica nei banchetti latini e nella ricca cucina della Roma imperiale. Si è aggiunta allora una specificità: i cuochi nutrivano forzatamente i pennuti con una pasta a base di fichi. Per aiutarne l’ingestione, facevano bere agli animali vino al miele, vera delizia per loro prima di rimetterci letteralmente le penne! Questo procedimento si chiamava iecur ficatum, fegato ai fichi. Personalmente mi capita di accompagnare il foie gras o coi fichi o con grosse prugne all’Armagnac e vi consiglio l’abbinamento. Da Roma, i legionari passano le Alpi e trasferiscono in Gallia questa

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Photo © IDRN – stock.adobe.com

tecnica, proprio in Alsazia, dove viene dimenticata durante il Medio Evo. Saranno i cuochi del periodo des Lumières a riaccendere l’interesse gastronomico per quello che verrà allora chiamato foie gras al fine di distinguerne la provenienza da oche normali o ingrassate. Nel XVIII secolo d.C. si svilupparono allevamenti nel Sud-Ovest in parallelo alle coltivazioni intensive di mais importato dal Nord America, cereale più adatto per gli animali data la sua digeribilità e l’alto contributo calorico. Nel medesimo periodo fu introdotta la tecnica della sterilizzazione, dando origine ad una vera e propria tradizione alimentare. Sembra che Luigi XVI abbia pianto di emozione assaggiando il suo primo foie gras preparato dal cuoco del maresciallo de Contades, JEANPIERRE CLAUSE, che venne ringraziato dal sovrano con una notevole somma

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di denaro (e il maresciallo ricevette una tenuta in Piccardia). Il tocco ulteriore del cuoco fu una grattugiata di tartufo per raggiungere l’eccellenza. Dagli anni ‘50 la produzione di fegati d’anatra ha ampiamente superato quella di oca per i motivi già citati ma anche per il sapore più definito di muschio e selvaggina del primo rispetto all’oca, più fine e delicato. Sono tanti i Paesi che fanno il loro foie gras, dall’Europa dell’Est al Belgio e ad Israele o, almeno, era così fino al 2005, data di entrata in vigore della legge della Suprema Corte per abolire l’alimentazione forzata. Il Consiglio dell’Europa ha stabilito che la pratica del gavage può essere perpetrata nei Paesi dove “essa è pratica comune”. In 29 Paesi il foie gras non può essere prodotto, come in tanti Stati degli USA. Dal 2019 è vietata, nello Stato

di New York, la vendita del foie gras e si rischiano multe e persino prigione se si è fuori legge. Quello francese, in particolare quello del Sud-Ovest, rimane il migliore. L’oca grigia delle Lande ha superato l’oca di Tolosa e spesso l’anatra, meno impegnativa da allevare, ha soppiantato l’oca più rara e onerosa. Rispetto a due millenni fa, i metodi dell’ingrasso sono stati modificati. Prima di essere intubati per i tre pasti al giorno, gli animali zampettano liberamente nell’aia. Dopo di che, il fegato si riempirà poco a poco, senza dolore né danno per la salute. Nato come ingrediente o accompagnamento di altre pietanze, il foie gras può essere considerato un piatto completo, così nutriente ma anche delicato e raffinato che basta un’insalata per affiancarlo. Josette Baverez Blanco

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IL GUSTO DI CAMMINARE

Di faro in faro Un trekking sul Camiño dos Faros, a picco sull’oceano della Galizia

Il faro di Cabo Vilán (photo © Marina Ignatova – stock.adobe.com).

di Elena Simonini

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ncamminarsi in un nuovo anno, tanto più in un periodo così difficile e anche imperscrutabile come quello che stiamo vivendo, rappresenta spesso un momento che mescola insieme entusiasmo e paure, curiosità e apprensioni. Non possiamo fare molto per superare questo tipico stato d’animo dalle sfumature contrastanti, se non semplicemente e ostinatamente proseguire a calpestare il giorno dopo giorno, passo dopo passo, verso il

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futuro. Poi certo tutti noi si prova, ogni volta, ad ogni nuovo inizio, almeno a partire con il piede giusto. E per me, allora, lo sapete, il piede giusto con cui partire sono sempre tutti e due i piedi, infilati e stretti dentro alle scarpette da trekking, scalpitanti verso nuovi percorsi e mille avventure. Senza tante esitazioni, con la necessità di rafforzare subito, in fretta, le gambe e, allo stesso tempo, di dare nuova aria e buona ai polmoni, ho pensato quindi

di cominciare l’anno suggerendovi un trekking da escursionisti, un poco impegnativo dunque, ma magico e simbolico per il fatto che si sviluppa come sospeso tra terra e oceano, con un suggestivo e stupefacente itinerario tra i più belli d’Europa, scandito dal battere del vento e dallo svettare di incantevoli fari. Andiamo in Galizia, sul Cammino dei Fari, che collega Malpica a Finisterre, lungo la costa atlantica. Tutto a ovest, che più a ovest non si può.

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A Cabo Fisterra e al suo faro, a dire il vero, se vi ricordate, ci siamo già arrivati, qualche anno fa, proprio all’inizio di questa rubrica, percorrendo il Cammino di Santiago. Ma adesso a quel faro, e in generale ai fari, con le loro luci che puntano coraggiose verso il profondo nero del mare di notte, sento che è il momento di tornarci. E quindi stavolta vi porto a camminare proprio di faro in faro, vista oceano, su questo meraviglioso Camiño dos

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SI TRATTA DI UN CAMMINO DAVVERO STREPITOSO, SPESSO PROPRIO A PICCO SULL’OCEANO,TRA SCOGLIERE, PROMONTORI, DUNE E LUNGHE SPIAGGE DORATE, IL TUTTO A TRATTI INTERROTTO DA ANTICHE FORTEZZE E DAI GRAZIOSI VILLAGGI DI PESCATORI AFFACCIATI SUL MARE

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Galizia, una incredibile miniera di preziosi sapori “marini” Con 1.500 km di costa, la Galizia è un’autentica miniera di preparazioni a base di pesce, frutti di mare e crostacei di qualità eccellente, pescati nelle generose acque dell’Atlantico. La luce e il vento della costa sono lì a ricordare che oltre l’ultimo istmo proteso all’ovest non vi sarà più traccia di terra: il Finis Terrae dei Romani, il punto oltre il quale si aprivano le porte del nulla. A noi si apriranno invece le porte dello stomaco, soprattutto dopo una lunga giornata di cammino. Uno dei piatti principali della cucina di mare è senza dubbio il pulpo a la feira, il polpo che un tempo si trovava soprattutto nelle fiere di paese della regione e ora viene proposto in tanti locali e nelle numerose pulperias disseminate un po’ ovunque, veri templi della cucina popolare. Viene condito con una salsa a base di paprika, che insaporisce anche le patate bollite servite in accompagnamento. È una preparazione simbolo della cucina galiziana, tanto che nel resto di Spagna viene appunto chiamato pulpo a la gallega. Le ricette non saranno 365, una per ogni giorno, come quelle che sostengono di avere i Portoghesi, ma il merluzzo è un altro pesce molto utilizzato in varie modalità. Una particolarmente gustosa prevede che venga servito in due grossi tranci sovrapposti, sormontati da spinaci e da una fetta di Jamón, e adagiati su una salsa a base di aceto e peperoni. Non mancano i tonni e il rombo, seppie, branzini e orate, mentre la pescatrice viene talvolta proposta in spiedini davvero sfiziosi. Le acque dell’Atlantico regalano ottimi molluschi, cozze, capesante, vongole, cannolicchi, ostriche, serviti crudi o cucinati spesso alla griglia e conditi con salse a base di olio extravergine d’oliva. Il capitolo crostacei di Galizia da solo varrebbe un viaggio: gamberi, aragoste e astici, granseole, vari tipi di granchi, dal piccolo saporito granchio vellutato all’enorme centollo o granchio bianco di Lira, segnalato da Slow Food. Si tratta di una rarità che per squisitezza e prezzo se la vede testa a testa coi pregiatissimi percebes, crostacei appartenenti all’infoclasse dei Cirripedi che sul mercato posso raggiungere e superare i 100 euro al kg. Dotati di un doppio uncino, vivono aggrappati alle rocce battute dal mare. I temerari raccoglitori si calano con le funi dalle alte scogliere galiziane nelle acque gelide per strapparli e portarli sulla tavola degli estimatori, dove vengono serviti al naturale dopo breve bollitura. Per uno spuntino veloce e alla portata di tutte le tasche è sempre l’ora della empanada gallega, torta salata di forma quadrata ripiena di tonno, peperoni, olive, cipolle oppure carne. Dall’entroterra arrivano i pimientos de Padròn, peperoni verdi, piccoli e gustosissimi, identificati da una Denominazione d’Origine, assegnata anche al queso de tetilla. Morbido, poco stagionato e ricavato da latte di mucche galleghe, deve il nome all’inconfondibile forma di piccolo grazioso seno. Sopra tutto questo ben di dio, d’obbligo bere un bicchiere di Albariño, fiore all’occhiello della Denominazione d’Origine Rias Baixas (fonte: DRmag; photo © Miguel Tamayo – stock.adobe.com).

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Faros, conosciuto anche nella traduzione inglese come Lighthouse Way, che consiste in un itinerario di circa 200 km, percorribili in 8 o più tappe. L’itinerario è caratterizzato da un livello di difficoltà medio, con dislivelli talvolta anche impegnativi, ma potrete affrontarlo senza grossi problemi, con solo un poco di preparazione fisica e un minimo di allenamento al cammino. Le tappe variano dai 17 ai 32 km e il percorso è ben segnalato, in tutta la sua lunghezza, tramite una molto riconoscibile freccia verde, dipinta sui cartelli e sulle rocce, che vi accompagnerà per tutto il tragitto. E verde è anche il colore della natura più autentica e selvaggia nella quale vi troverete totalmente immersi durante questa avventura, un verde sempre incorniciato della bellezza sublime del blu intenso e immenso dell’oceano. Si tratta di un cammino davvero strepitoso, spesso proprio a picco sull’oceano, tra scogliere, promontori, dune e lunghe spiagge dorate, il tutto a tratti interrotto da antiche fortezze e da graziosi villaggi di pescatori affacciati sul mare. Amerete certamente questo itinerario per la varietà dei paesaggi (tant’è che di fatto sarà come percorrere un vero e proprio sentiero montano ma sul livello del mare) per i panorami mozzafiato, per gli infiniti silenzi, e per l’indimenticabile spettacolo dei tramonti, con il sole che in un rosso abbagliante, ogni sera, si tuffa dentro ad un oceano argentato. E poi per i fari, ovviamente, per i diversi e meravigliosi fari che, incontrastati e fieri, si staglieranno, passo dopo passo, all’orizzonte del vostro cammino, scandendone le tappe: il Faro de Punta Nariga, costruito dal celebre architetto spagnolo CÉSAR PORTELA, il Faro Roncudo, il Faro bianco di Punta Laxe, che sorge in uno degli scenari paesaggistici più belli e incontaminati di tutta la Spagna, il Faro Vilán a Camariñas, il cui nome deriva dai merletti elaborati dalle donne del posto, il Faro di Punta da Barca, il Faro Touriñán. E infine, alla fine del viaggio, e alla fine della terra, il faro più agognato, il più sognato, il più citato: il Faro di Finisterre al quale da secoli giungono i pellegrini di tutto il mondo, che sono quelli che sanno che, per ben cominciare, occorre sempre mettersi in cammino partendo con il piede giusto. Elena Simonini

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Pan Gallego IGP, sostentamento soffice e profumato del viaggiatore Chiunque abbia letto (o visto nel suo spettacolare adattamento cinematografico firmato dal regista Peter Jackson) “Il Signore degli Anelli”, romanzo epico di R.R. Tolkien, si ricorderà senz’altro del “lembas”, speciale pane elfico, chiamato anche pan di via, la cui peculiarità è quella di rimanere fresco a lungo, il che lo rende adatto ad essere utilizzato per il sostentamento durante i viaggi. Stessa caratteristica ha il Pan Gallego IGP, un pane dalla crosta croccante, prodotto in modo artigianale nel territorio corrispondente all’intera Comunità autonoma di Galizia. E mentre la ricetta del lembas è un segreto che gli elfi custodiscono gelosamente, è noto, e registrato sul Disciplinare IGP che ne descrive ingredienti e modalità di produzione, che il Pan Gallego venga realizzato con farina di grano tenero proveniente in parte da varietà e da ecotipi di frumento autoctono galiziano. La sua panificazione è caratterizzata dall’utilizzo di lievito madre, di una gran quantità di acqua e da una lunga durata di fermentazione e cottura, quest’ultima sempre in forni con pavimento in pietra o altro materiale refrattario. Si può presentare in quattro tipi di forma diversi: Bolo o Hogaza, di una forma rotonda e irregolare; Rosca, di forma ad anello irregolare e aspetto appiattito; Bola, di forma rotonda e aspetto appiattito; Barra, di forma allungata. La crosta ha un colore che va dal dorato al marrone scuro, spessore tra i 3 e i 10 mm e durezza variabile. La mollica ha un colore che varia dal bianco scuro al crema, consistenza soffice e alveoli numerosi e irregolari. Il sapore di questo pane è intenso di grano, con una lieve punta di acidità ed un profumo irresistibile (photo © Genaro Diaz).


FORMAGGIO

FORMAGGIO BRANZI, VENTATA DI PROFUMI ALPINI Dai monti della Valle Brembana un tesoro dell’arte casearia in tre versioni, Prodotto Agroalimentare Tradizionale della Lombardia di Roberto Villa 98

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l Branzi1 è un prodotto storico dell’arte casearia alpina lombarda, conservatosi con minime modifiche nei secoli. Per rinnovare e sostenere la tradizione nel 1953 fu fondata la Latteria Sociale di Branzi, alla quale aderirono numerosi allevatori locali: rispetto al passato grandi vasche in acciaio hanno sostituito le tradizionali caldere a forma di campana capovolta; la cagliata non è più rotta dalla spada e dallo spino, ma da grandi attrezzi rotanti; le temperature di riscaldamento e di cottura sono regolate da termostati. Resta comunque l’arte dei maestri casari, gli unici in grado di decidere quando il coagulo provocato dal caglio è alla giusta omogeneità e consistenza per la rottura, e quando la cagliata è cotta al punto giusto per essere liberata dal siero.

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Storia e legame col territorio L’area della montagna bergamasca è ricca di specialità casearie che oltre al Branzi comprendono il Formai de Mut

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(DOP), lo Strachitunt (DOP), l’Agrì di Valtorta, lo Stracchino all’antica delle Valli Orobiche, il Bitto Storico, tutte accomunate dalla pratica dell’alpeggio — che una volta era fatto esclusivamente con vacche di razza bruna alpina — e, tuttavia, con caratteristiche distintive proprie derivanti dall’ubicazione dei pascoli e dalla tecnica di trasformazione casearia. Terminata la stagione in quota, che dura solitamente da maggio a settembre, le vacche vengono riportate nelle stalle di fondovalle o addirittura in pianura; in passato la riconduzione della mandria verso stalle dei paesi di pianura era piuttosto frequente — in una recente ricerca presso un archivio parrocchiale ho trovato riferimenti di inizio Seicento che lo confermano — e la maestria dei valligiani orobici era tanto rinomata da far divenire bergamino un termine di uso comune in tutta la pianura lombarda per indicare chi era addetto alla cura e alla mungitura delle vacche.

In alto: a sinistra, passo San Marco in Val Brembana (photo © Gianfranco Bella – stock.adobe.com). A destra, formaggio Branzi. Dolce e delicato, è un formaggio tra i più antichi e tipici delle Orobie. Prende il nome dall’omonimo paese dell’Alta Valle Brembana in cui è nata la produzione tradizionale e dove viene lavorato tuttora il latte intero di vacca.

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anche trovare nella versione stravecchia superiore ai 2 anni, con la crosta rosso-aranciata ed una pasta straordinariamente aromatica e che sprigiona i sapori dei pascoli alpini, intensificati dalla concentrazione dettata dal tempo e dalla prolungata maturazione, leggermente piccante, per un vero tripudio del palato. Si può consumare come aperitivo o come fine pasto, da solo o in un tagliere misto con altri formaggi locali, passando dai più freschi ai più stagionati.

Lo spaccio aziendale della Latteria di Branzi (photo © www.ruminantia.it). Alla fiera di San Matteo di Branzi a fine settembre sono convenuti per secoli mercanti da tutta la pianura lombarda per acquistare il formaggio portato a valle dagli alpeggi estivi e destinato al consumo diretto o dopo affinamento nelle cantine. Già in epoca napoleonica venivano vendute migliaia di forme, considerando che allora veniva prodotto unicamente nella stagione estiva si capisce l’importanza di cui godeva nell’economia della valle. La Latteria Sociale di Branzi è il principale caseificio, che associa ad oggi circa settanta allevatori in aziende ubicate sopra i 600 metri di quota nella Valle Brembana e nella limitrofa Valle Imagna, con una media di 14 capi ciascuna; la produzione annua del caseificio si aggira attorno alle 35.000 forme. Anche il Caseificio Paleni 2 di Casazza in Val Cavallina produce formaggio Branzi oltre a numerose altre tipologie di formaggi ottenuti da latte di montagna.

Descrizione del prodotto e occasioni di consumo È un formaggio a pasta semicotta, prodotto con latte intero vaccino crudo, dopo il coagulo la cagliata viene portata dai 35°–37 °C a circa 45 °C con un rimescolamento continuo; estratta dalla caldaia è posta in fascere di forma rotonda dal diametro di 36–45 centimetri con un’altezza di 9; dopo la salatura per immersione in salamoia la forma è lasciata a stagionare per 2 o 3 mesi (versione fresca), 6 mesi (versione riserva) oppure oltre 12 mesi (versione stravecchia). Il sapore è dolce e delicato nella tipologia fresca, con accenni di erbe di pascolo e di leggera fermentazione a cui si deve la caratteristica occhiatura. Nella tipologia riserva diventa più pastoso e intrigante, con colore marcatamente giallo, aroma più sviluppato di fieno e sapore di latte cotto e nocciola sopra gli altri. Nei negozi locali — più difficilmente fuori dai paesi della Valle, visto il ridotto numero di forme prodotte — si può

Già in epoca napoleonica venivano vendute migliaia di forme e, considerando che allora veniva prodotto unicamente nella stagione estiva, si capisce l’importanza di cui godeva questo formaggio vaccino a pasta semicotta nell’economia di tutta la valle

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Abbinamenti gastronomici, enologici e brassicoli Classico è l’utilizzo come ingrediente per produrre un’originale polenta taragna a base di farina di granoturco e di grano saraceno oppure una sapida ed energetica polenta voncia (altrimenti detta polenta consa ovvero polenta concia) con granoturco macinato grosso alla maniera bergamasca e burro in abbondanza. Altrettanto gustoso nella versione giovane e riserva è l’utilizzo come condimento di gnocchi o come ripieno di magro per pasta fresca; infatti un tempo i tipici casoncelli bergamaschi venivano fatti dalla gran parte delle famiglie solo con ripieno di magro, la carne che oggi compare come ingrediente fondamentale era appannaggio solo di ricchi e notabili. L’abbinamento con il vino del territorio3 può spaziare da un Valcalepio Rosso DOC per le versioni fresca e mezzana sino al Valcalepio Moscato Passito DOC per la tipologia invecchiata oltre un anno. Fuori provincia si può ben accompagnare a una Bonarda Oltrepò Pavese DOC o a un Gutturnio Colli Piacentini DOC. Oltre al vino si può provare l’accostamento con birre rosse poco luppolate con note di caramello e malto o bionde triplo malto stile belga d’abbazia, entrambe ben indicate nel connubio gustativo con le versioni riserva e stravecchio. Roberto Villa Note: 1. www.formaggiobranzi.com/it/ilformaggio-tipico-branzi.asp 2. www.caseificiopaleni.it 3. www.valcalepio.org/it/vini-tutelati/valcalepio-doc

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


IN DIFESA DEL RE DELL’ALTOPIANO: L’ASIAGO D’ALLEVO STRAVECCHIO di Chiara Papotti

siago “d’allevo”, cioè da allevare, con cura, attraverso una stagionatura condotta a regola d’arte. È così che in Veneto si distingue il formaggio che ha nutrito intere generazioni di Sette Comuni, una Reggenza medioevale di cultura e lingua tedesca. All’assaggio, la differenza è subito evidente: un insieme di profumi e di sapori, che rimandano al latte delle vacche al pascolo sugli alpeggi. E di alpeggi l’altopiano ne ha tanti, oltre settanta malghe attive dove, da secoli, allevatori e casari rinnovano ogni estate la tradizione del loro antico lavoro. Lo spettacolo delle vacche, che a fine settembre scendono a valle lungo le strade dell’altopiano per il riposo invernale, non è raro in Asiago.

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Un’attività che esprime, come poche altre, il rapporto diretto con la natura, ma che allo stesso tempo impone grandi sacrifici. Partiamo, dunque, per un viaggio sull’altopiano, occasione per scoprire la versione “stravecchia” del formaggio Asiago, tutelata dal presidio Slow Food. Verso la fine dell’estate, ad Asiago, può capitare di doversi accostare al ciglio della strada per lasciar sfilare eleganti capi di Rendene, Brune e Grigio alpine. Le prime, vacche tradizionali dell’altopiano insieme alle Burline, sono una razza rustica, dal mantello castano scuro, scurissimo, a volte nero lucente; perfette per il pascolo, anche quello più impervio o meno generoso, danno un latte eccezionale per la produzione dei formaggi.

L’utilizzo di latte crudo è un elemento determinante ai fini della qualità, perché solo se utilizzato a crudo il latte mantiene intatta la flora microbica che, durante la stagionatura, giocherà un ruolo essenziale nel dare al formaggio le sue caratteristiche peculiari e nobili. In commercio, di formaggi Asiago, si possono trovare diverse tipologie: pressato, mezzano, vecchio e stravecchio. Il pressato è quello sottoposto a minor stagionatura, appena un mese, ed è prodotto da latte intero; al palato è dolce, con sentori d’erba e di latte, e presenta un’occhiatura fitta, a buchi larghi, ottenuti dalla fuoriuscita del siero sotto pressione. L’occhiatura si riduce nei formaggi d’allevo, che perdono il liquido più lentamente e vengono stagionati Premiata Salumeria Italiana, 1/22


più a lungo: 4 mesi il mezzano, 16 mesi il vecchio e almeno 18 mesi lo stravecchio. Pasta paglierina, sapore marcato e leggermente piccante, lo stravecchio è il re degli Asiago. Certificato come formaggio DOP nel 1996, vent’anni dopo è stato inserito tra i presidi Slow Food per salvare le piccole produzioni tradizionali che rischiano di scomparire. Sono solo una decina le malghe che ad oggi lo producono, per un totale di un migliaio di forme circa ogni anno: pochissime. Il rischio di perdere una produzione di grandissimo valore come l’Asiago stravecchio è reale: per ottenere una forma occorrono, infatti, lunghi mesi di stagionatura in ambiente naturale e la maggior parte dei malgari preferisce vendere in anticipo le proprie produzioni: guadagni più veloci, meno rischi e meno costi. Queste le ragioni principali che riducono, anno dopo anno, il numero di artigiani disposti a produrre formaggi di grande valore aggiunto. Per incoraggiare la produzione di Asiago stravecchio è nato il presidio, che raggruppa sette produttori dell’altopiano ed è sostenuto dal Consorzio di Tutela Formaggio Asiago DOP. I casari aderenti si sono dati un regolamento aggiuntivo, ad integrazione del Disciplinare che regolamenta la DOP. Tra le righe del documento trovano spazio precise indicazioni da rispettare per rientrare tra i produttori dello stravecchio, tra cui: il periodo migliore per la preparazione che va da giugno a settembre, la delimitazione dell’area di produzione nei soli storici comuni dell’Altopiano, l’esclusivo allevamento al pascolo per le vacche da latte, l’alimentazione naturale per i capi allevati, che esclude insilati, mangimi industriali e prodotti OGM. L’obiettivo è convincere sempre più malgari a fare stagionare per periodi più lunghi un maggior numero di forme, al fine di raggiungere l’eccellenza qualitativa. Produrre formaggi magri o semigrassi e farli buoni non è facile. Può capitare di avvertire una mancanza di equilibrio organolettico: se la pasta è troppo tirata, il formaggio è asciutto, se è troppo cotta sa di caramello, se si sbaglia la salatura, sa solo di sale e così via. L’Asiago stravecchio, invece,

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In alto: salatura dell’Asiago DOP. In basso: la transumanza delle mucche. non presenta questi inconvenienti. Si distingue per i profumi che vanno dall’erba tagliata, alla frutta matura, al muschio. Al palato è dolce, quasi zuccherino, e via via tende al pungente, fino a ricordare la nocciola tostata e il pane grigliato. Un prodotto rarissimo, che offre una straordinaria complessità di gusti, sapori e aromi. Sostenere la sua produzione significa riconoscere la giusta

ricompensa per una qualità eccellente e, soprattutto, rendere i malgari più consapevoli del loro ruolo, fondamentale per la tutela di queste montagne e per la salvaguardia di una cultura e di una tradizione antichissime. Chiara Papotti Note Photo © www.asiagocheese.it, www. facebook.com/FormaggioAsiagoDOP

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PASTA

FRÈGULA, BRICIOLE DI SARDEGNA di Guido Guidi l compianto professor CORRADO BARBERIS, padre della sociologia rurale in Italia, sosteneva che la frègula fosse la risposta dei sardi al cous cous: un piatto creato dagli isolani all’indomani delle conquiste degli Arabi alla fine del VII secolo. Un tentativo di ribellione alle imposizioni che venivano da un popolo straniero che, nel bene e nel male, ha influenzato la Sardegna anche negli usi, nei costumi e nella cultura. Pareri diversi hanno invece altri studiosi della materia, sebbene ci sia univocità nel dire che il termine frègula derivi dal latino, a richiamare la sua forma, quello di un frammento, di una briciola. Certo è che questo magnifico prodotto va ad arricchire un vasto elenco di formati di pasta che si producono

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solo in Sardegna, tra cui i Culurgionis ogliastrini, le Lorighittas, il Filindeu, gli Andarinos e molti altri ancora. La vera frègula — oggi volgarmente italianizzata in frègola, termine che ha tra l’altro tutt’altro significato! — viene realizzata a mano ed è prodotta a seguito di una lavorazione per “rotolamento” dentro un catino di terracotta. Si parte con un poco di semola grossa, a cui viene unita dell’acqua salata e con il movimento veloce della mano si formano le prime palline. Per farle crescere, si aggiunge della semola più fine, per dare colore in certe zone si scioglie nell’acqua qualche pistillo di zafferano. Una volta raggiunta la grandezza desiderata, la pasta si fa asciugare all’aria e, in un secondo momento, soprattutto nei mesi invernali, a distanza di giorni,

UN PRODOTTO VERSATILE, FACILE DA PREPARARE, OTTIMO CON I CONDIMENTI PIÙ DISPARATI, ECCELLENTE COME PIATTO CALDO, ESOTICO, COME FREDDO. UN FORMATO DI PASTA PREGIATO, CON UNA STORIA IMPORTANTE

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si fa tostare in forno. Il risultato finale richiama la forma del cous cous, ma è di dimensioni decisamente maggiori e con una disomogeneità più marcata, al punto che si usa passarla al setaccio per suddividere il prodotto in più gruppi, a seconda del diametro, in modo che la cottura possa avvenire in maniera uniforme. Per capire davanti allo scaffale quando la frègula sia davvero realizzata a mano, oltre al prezzo, può essere di grande aiuto osservarne la forma, poiché la pasta perfettamente tonda, liscia e compatta, non può che essere un’imitazione, generata con macchine ad estrusione e poi tagliata a piccolissimi pezzi, tutti identici gli uni agli altri. PASTART, un pastificio artigianale con sede a Gonnesa, alle porte delle miniere del Sulcis, la propone realizzata rigorosamente e pazientemente a mano e in tre dimensioni diverse: fine, media e grossa. Impossibile confonderla con una simile, ma realizzata a macchina. Quella prodotta e confezionata da TONY MADAU, 23 anni al servizio dell’agroalimentare e della pasta in particolare, è infatti perfettamente visionabile dal sacchetto trasparente che la contiene. Si presenta disomogenea non solo nella forma — non a caso è impossibile trovare due pezzi uguali — ma anche nel colore. Infatti, così come ricetta vuole, dopo la lavorazione a mano e l’essiccazione lenta, Madau e i suoi collaboratori provvedono a tostarla leggermente in forno. E il risultato è che anche il colore è variegato, passando dal giallo paglierino al miele e poi al bruno. Tendenzialmente la sua frègula, prodotto di punta del pastificio, varia tra i 2 e 6 millimetri di diametro e viene scelta di una dimensione o un’altra in ragione delle preferenze del palato, ma principalmente a seconda dell’uso che ne intende fare lo chef. La frègula, come il riso, si presta infatti ad un impiego con dei sughi leggeri, ma anche nei brodi, nelle insalate, tanto nei piatti caldi, quando in quelli freddi. Come il riso, può essere cotta in abbondante acqua salata o direttamente nella salsa con cui la si vuole condire, aggiungendo acqua man mano che cuoce. E, sempre come il riso, cresce notevolmente nella cottura, richiede dai 12 ai 20 minuti ai fornelli ed è in grado

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Classe 1928, Tzia Grazia Angius di Barisardo, non rinuncia alla preparazione della frègula a mano e coglie l’occasione per fare del rito dello sfregamento della semola, un momento conviviale con i propri famigliari. Per lei un ritorno alla sua giovinezza, quando la pasta si produceva unicamente tra le mura domestiche. Per i numerosi nipoti, un insegnamento prezioso. di assorbire moltissimo l’acqua e i sughi, siano essi a base di carne o di pesce. Ma, al contrario del riso, si presenta fortemente disomogenea nelle dimensioni e nel colore, come tutti i prodotti artigianali, quasi sempre espressione di una tradizione antica, dove un pezzo non è mai uguale all’altro. A Pastart, dove il processo produttivo è rimasto identico a secoli fa e a dispetto delle quantità prodotte, Tony Madau non ha voluto però rinunciare all’idea di inserire una nota innovativa, propo-

nendo la frègula anche allo zafferano, al nero di seppia e alle alghe marine. Un diversivo che non solo non svilisce il prodotto tradizionale, ma lo esalta e lo rinnova, dandogli nuova vita e nuove prospettive nell’utilizzo. D’altronde la tradizione non è il culto delle ceneri, ma custodia del fuoco. Cosa che Tony Madau riesce a fare perfettamente su questo ed altri formati di pasta isolani di altrettanta, elevata qualità. Guido Guidi

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OLIO

Olio d’oliva, luminoso dono di Minerva L’olio di oliva non soltanto è un prezioso alimento, ma fin dall’antichità, nel Mediterraneo, ha illuminato le case, i templi, la cultura, la religione e la salute dell’uomo di Giovanni Ballarini 106

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re divinità dominano le culture mediterranee: CERERE, BACCO e ATENA MINERVA. Cerere, dea delle messi, è colei che dà il pane e OMERO qualifica gli uomini come mangiatori di pane, e barbari, non uomini, coloro che non conoscono questo cibo. Bacco è il dio della vite e dell'ebbrezza, che dà all’uomo il piacere ma anche l’immaginazione. Minerva o Pallade Atena, nata dalla testa di Zeus e figlia di Meti, dea della prudenza e della saggezza, è la dea della sapienza, delle arti e della guerra. Nella città di Atene suo è il tempio detto Partenone, con l’ulivo, l’albero a lei sacro e da lei creato come dono agli Ateniesi, dei quali diviene divinità protettrice. Da allora l’olivo è parte centrale della vita greca, le sue foglie incoronano le teste di atleti, generali e re vittoriosi, con il suo legno si costruiscono case e barche, l’olio si trasforma in luce nelle lampade, rende potenti i muscoli degli atleti agili e diviene cibo anche attraverso le olive.

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Olivo albero mediterraneo L’espansione dell’olivo è dovuta al clima mite del Mediterraneo, dove è apparso progressivamente circa diecimila anni prima della nostra era, installandosi inizialmente nella parte orientale per poi estendersi, nel corso di svariati millenni, all’occidente e al nord. Secondo gli archeologi la domesticazione dell’olio

sarebbe cominciata circa quattromila anni prima di Cristo, cioè circa seimila anni fa. Il commercio dell’olio appare già nell’Età del bronzo e gli Ittiti dell’Anatolia se lo procurano dalle coste dell’Asia Minore, mentre i faraoni di Egitto e i re della Mesopotamia lo comprano in Siria. Nei palazzi di Creta l’olio è depositato in grande quantità nei vasi chiamati pithoi e nei palazzi micenei della Grecia continentale vi sono recipienti di olio e tavolette scritte menzionando il suo ideogramma (elaion), perché l’olio è già fortemente legato al potere sociale, economico e religioso. Nell’Età del ferro nel Mediterraneo vi sono numerose colonie, dei Fenici nell’Africa del Nord (Cartagine) e nel sud della Spagna, dei Greci in Asia minore, nelle isole del mare Egeo, nella Sicilia e nel sud dell’Italia e della Francia (Marsiglia), che importano e diffondono la cultura dell’olio e ne sviluppano il commercio. Nel IV secolo a.C. Alessandro Magno conquista l’impero persiano dove sviluppa l’uso dell’olio e il suo commercio. Da questi tempi vi è una domanda crescente di olio per l’illuminazione, le cure, le pratiche sportive e religiose e l’alimentazione con nuovi metodi di produzione e sull’olio di oliva compaiono gli scritti del botanico greco TEOFRASTO, del cartaginese MAGON e degli agronomi latini CATONE e PLINIO.

In alto: l’olivo e il prodotto ottenuto dai suoi frutti sono in tutto e per tutto simbolo della mediterraneità e delle sue differenti culture (photo © vkara – stock.adobe.com). A destra: raccolta delle olive (photo © WavebreakMediaMicro – stock.adobe.com).

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L’olio è fonte di ricchezza perché si presta a svariati usi e applicazioni, dalla medicina alla profumeria all’illuminazione, come dimostrano i reperti di lampade di terracotta che si trovano in tutta l’area mediterranea (photo © Massimo Santi Photographer). L’unificazione dei Paesi mediterranei per opera dell’Impero romano facilita il commercio e la produzione dell’olio che diviene quasi pre-industriale o semiindustriale in certe regioni della Spagna, Italia e Africa del Nord, soprattutto dopo la promulgazione della Lex Manciana del II secolo. La caduta dell’Impero romano e l’estensione del Cristianesimo comporta cambiamenti, ma il coltivo dell’olio e del suo frutto continua a crescere, per arrivare al 1600, quando vi è la massima estensione territoriale dell’olivo, per la crescente domanda di olio da parte di una società industrializzata che lo usa per l’illuminazione, saponerie e diverse industrie. Con la scoperta del Nuovo Mondo, gli Spagnoli introducono l’olivo nelle loro colonie e negli attuali territori di Argentina, Messico, Perù, Cile e California. Olio d’oliva non solo alimento L’olivo, tramite il processo della fotosintesi, è molto abile nell’ottenere i benefici del sole e per questo è divenuto

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simbolo della luce, della saggezza e del successo. I Greci ricompensano gli eroi e i vincitori dei giochi olimpici con rami di olivo e con vasi contenenti il suo olio. L’olivo è anche una delle piante più citate nella Bibbia, la colomba liberata da Noè dopo il diluvio ritorna con un ramoscello di olivo simbolizzando la terra riemergente sulle acque, Giacobbe benedicente ricopre di olio di oliva la pietra di Bethel a seguito della sua visione della scala celeste. La magnificenza dell’ulivo è cantata dai poeti dell’Antico Testamento e nella Chiesa fondata da Gesù Cristo, nome che significa appunto l’unto di Dio; l’olivo diviene il simbolo della pace celeste, della riconciliazione, della benedizione e del sacrificio e il suo olio diviene materia della comunicazione della vita divina nei sacramenti del Sacerdozio, della sacra unzione della Cresima e dell’Unzione degli Infermi. Sulla bandiera delle Nazioni Unite la corona di rami di olivi attornianti il mondo simboleggia la ricerca della pace universale.

Nel NUOVO TESTAMENTO Gesù dalle lampade a olio trae la bella parabola delle dieci vergini in attesa dello sposo e nella parabola del Buon Samaritano l’olio che lenisce il dolore e donato per pietà diviene immagine della misericordia. Nei libri sacri l’olio è immagine della prosperità, della gioia, della forza. In alimentazione l’olio di oliva è utilizzato crudo, ma anche elaborato, fritto, cotto, e APICIO, gastronomo romano, riporta nei suoi scritti che l’olio da olive verdi ha un valore 5 volte superiore a quello da olive nere — perché la qualità di quest’ultimo è inferiore rispetto al primo —, e sin dai tempi antichi è noto che da una stessa varietà di olivo si ricavano oli di diversa qualità. L’olivo e l’olio sono stati senza alcun dubbio protagonisti della storia e per questo sono oggi adoperati per promuovere ed esaltare immagini nei settori più disparati. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Il più antico concorso dedicato al mondo dell’olio torna con un nuovo progetto Con i suoi trent’anni di vita, L’Orciolo d’Oro è il primo, il più antico, e quello che vanta il più grande prestigio internazionale tra i concorsi dedicati all’olio extravergine d’oliva. Un’edizione speciale quella del 2021 che, accanto ai nomi dei vincitori, ha visto nascere LODO guide, una guida che racconta e celebra le produzioni delle aziende olivicole internazionali d’eccellenza (www.lodo-guide.com), disponibile in lingua italiana ed inglese. LODO è il nuovo progetto di “Qualifying Gourmet” che ha raccolto l’eredità dello storico concorso, mantenendo intatta la volontà di promuovere la conoscenza del mondo dell’olio extravergine d’oliva. «Crediamo che un olio sia fatto di luoghi, storia, persone ed emozioni che non possono limitarsi ad un punteggio, ma che vanno raccontati» affermano Manuela Vigo e Vincenzo Petisi, founder di LODO. Ecco perché all’interno della guida una sezione speciale è dedicata ai Volti dell’Olio, un progetto fotografico curato dagli scatti di Gianmarco Chieregato, che attraverso i volti dei patron delle aziende vincitrici, è riuscito a immortalare la passione, il sacrificio, l’amore e l’anima dei territori di provenienza dei produttori. Sono 49 i riconoscimenti assegnati da LODO; tra questi si segnalano: Premio Azienda dell’Anno all’Azienda Agricola Mandranova di Agrigento; Premio Nuova Azienda a Vincenzo Signorelli Olivicoltore, altra realtà siciliana; Pink Planet Award a Gabrielloni Elisabetta e Gabriella Snc, azienda di Macerata tutta al femminile che ha dimostrato di portare avanti un lavoro con coraggio e tenacia in un ambiente imprenditoriale non sempre favorevole; il Lodo Design Award finito nelle mani della greca Pamako Monovarietal Tsounati Organic. Tra le menzioni speciali si segnala Olio Schinosa La Coratina, di Trani, scelto dallo chef Mauro Uliassi di Senigallia (photo © Flavio Leone).

41038 S. Felice s/P (MO) Via Palazzetto, 36

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VINO

Viticoltura eroica in Andorra di Riccardo Lagorio

oltivare uva per farne vino a oltre 1.000 metri di altitudine è un’attività a cui il termine eroismo calza a pennello. I vini di (alta) montagna sono una costante nella provincia argentina di Salta e nelle isole Canarie ma nell’Europa peninsulare, con l’eccezione delle Alpujarras andaluse e della Valle d’Aosta (con l’esempio del Prié Blanc coltivato sui terrazzamenti tra La Salle e Morgex), è un fenomeno abbastanza circoscritto. Tuttavia, c’è un intero Paese dove i vigneti si trovano a oltre 1.000 metri di altitudine: nel Principato d’Andorra, incastonato tra Francia e Spagna sui Pirenei, l’attività vitivinicola è abbastanza limitata, ma si sta distinguendo per risultati qualitativi che sono più che soddisfacenti.

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Non c’è alcun dubbio che l’ambiente, costituito da un paesaggio totalmente montuoso (si va dagli 870 ai 2.942 metri di Coma Pedrosa), i terreni impervi e il clima non siano le migliori condizioni per coltivare la vite, ma i primi documenti dedicati alla viticoltura in Andorra risalgono all’XI secolo, quando l’uva veniva coltivata intorno alle chiese per garantire la celebrazione dei riti religiosi. Nel 1992 due ricercatori dell’Istituto di Studi Andorrani avevano pubblicato un dossier sull’argomento arrivando alla conclusione che la viticoltura qui fosse definitivamente scomparsa. La caparbietà degli agricoltori andorrani, abituati alle coltivazioni intensive di tabacco, e i cambiamenti climatici li hanno sconfessati.

Ovviamente non si conoscono le varietà che in periodo di piena Reconquista le comunità benedettine andorrane usavano per officiare le messe; quello che oggi è certo che il nuovo pastore ha il volto e il nome di JOAN ALBERT FARRÉ, proprietario di Borda Sabaté. Avvocato e imprenditore, ha riposto nel progetto di produrre un vino di montagna di alto profilo (è proprio il caso di affermarlo) le necessarie forza e determinazione, anche in omaggio al sogno condiviso con il padre. «Una decisione presa con il cuore, più per sentimento, vocazione e passione che per criteri economici» racconta a bordo della sua potente Toyota Land Cruiser 4x4 lungo la strada, poco più di una mulattiera, che si arrampica dal fondovalle lungo il costone della Muxella

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con pendenze e tornanti improbabili fendendo 12 particelle terrazzate per un totale di 2.5 ettari. «Un luogo speciale, qui tra i 1.100 e 1.200 metri, dove prevale lo scisto e lo sguardo va dalla frontiera con la Spagna alla vetta del Casamanya, al centro del Principato», mostra con l’indice roteando il corpo. «La prima vendemmia risale al 2009 e da allora è stato un crescendo di soddisfazioni e di continue migliorie». Tanto che nel 2019 Borda Sabaté ha sbaragliato la concorrenza di 900 etichette provenienti da 25 nazioni nel concorso internazionale organizzato dal CERVIM (Centro di Ricerca, Studi e Valorizzazione per la Viticoltura di Montagna, in Forte Pendenza e delle Piccole Isole) come miglior vino assoluto per ESCOL annata 2010 e una medaglia d’oro per Torb del 2015, al quale è stato conferito il premio anche come miglior vino rosso biologico. «Escol è la valle dove gli esploratori di Cannan tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva. In ebraico escol significa tralcio ed Escol è il nostro vino bianco, di Riesling renano. Torb è una parola in catalano: indica la bufera di neve, fenomeno che accade sulle montagne quando un vento forte solleva i fiocchi e crea uno svolazzo simile a nebbia. Torb è il vino rosso che ha una

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forza violenta, risultato della vendemmia di Cornalin, Pinot nero e Shiraz» spiega. Il naso di Escol si distingue per le note sulfuree, la bocca per note di pesca e pietra focaia; anche Torb fornisce un odorato lieve di zolfo, al palato potente e ricco di note fruttate. La produzione delle 8.000 bottiglie totali è completamente biodinamica, dalla raccolta alla spremitura delle uve tutto avviene per caduta e durante l’imbottigliamento si utilizzano gas inerti per mantenere intatto il contenuto. Escol riposa in acciaio, Torb in cemento, ma ci sono studi per produrre anfore con la terra di Andorra. Del resto “la gastronomia è il paesaggio nella padella” lo ha definito lo scrittore JOSEP PLA I CASADEVALL. «Il vino può essere un elemento di dinamismo per il turismo di Andorra attraverso l’enoturismo, come avviene in certe parti d’Italia. Anche seguendo il vostro esempio bisognerà disegnare nuove forme di offerte turistiche e approfittare di queste opportunità per destagionalizzare il turismo sciistico» dice. «L’importanza della viticoltura eroica in Andorra è inoltre in grado di rendere produttivi i terreni in altitudine e a forte pendenza che altrimenti sarebbero abbandonati». Con un favorevole riflesso sulla natura e l’economia. C’è da imparare molto dal Principato. Riccardo Lagorio

In alto: Joan Albert Farré, proprietario e anima di Borda Sabaté. In basso: i vini Torb, rosso di Cornalin, Pinot nero e Shiraz, e Escol, bianco di Riesling renano. Borda Sabaté 1944 Crta. C.G.1 d’Espanya s/n AD 600 Sant Julià de Lòria – Principat d’Andorra Telefono: +376 814900 Web: bordasabate.com

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: rossi invernali di Laura Franchini

vviamente la definizione di “vino invernale” non esiste, tecnicamente parlando. Non abbiamo una regola di sommellerie dedicata alla stagionalità, ci si limita alla seppur importante “temperatura di servizio”, dato che non viene declinato alle stagioni in corso. Eppure, risulta difficile immaginare un aperitivo estivo a bordo spiaggia servito con un vino rosso corposo e strutturato. Questa importante tipologia di vino ha da sempre un ruolo fondamentale nell’abbinamento con i piatti più strutturati della tradizione e, sempre per tradizione, una sua vocazione espressiva che li vede protagonisti soprattutto della stagione più fredda. Si tratta di vini per lo più rossi, di carattere e struttura, spesso affinati in legno, certamente adatti al lungo invecchiamento. Ecco, quest’ultima caratterista, la possibilità di invecchiare a lungo, potrebbe essere la definizione migliore, semmai ne fosse necessaria una, di “vini invernali”.

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Struttura, potenza, fitta trama tannica, sentori intensi, rama ta i lunghezza e persistenza, queste le caratteristiche principali di questi calici. Sono vini di potenza gustativa e di buon grado alcolico, sempre in armonia con le parti, che sono in grado di sostenere abbinamenti impegnativi, di sfoderare armi imbattibili nell’accoppiarsi con piatti ed ingredienti importanti e dai sapori decisi. Sono vini che sostengono con grande naturalezza le caratteristiche gustative di formaggi stagionati, piatti di selvaggina, brasati e stracotti di carne, tartufi e funghi. Anche alcuni salumi richiedono vini dalla struttura decisa: basti pensare alle preparazioni della norcineria arricchite con spezie o con tartufo, ai prosciutti stagionati, ai salumi ovini. Una cosa è certa: se è l’inverno la stagione d’elezione per un vino rosso strutturato, non esiste stagione sbagliata per un grande vino.

STRUTTURA, POTENZA, FITTA TRAMA TANNICA, SENTORI INTENSI, LUNGHEZZA E PERSISTENZA. E SE È L’INVERNO LA STAGIONE D’ELEZIONE PER UN VINO ROSSO STRUTTURATO, NON C’È STAGIONE SBAGLIATA PER UN GRANDE VINO

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Sala Sa lame me al tart rttu uffo. o Il pre rezi z os o o fu f ng ngo o ip ipog o eo og re ri essce tra rasm smet e tere e un ar arom om oma ma de del tuuttt o si sing n ol ng o are a pro al rodo dotttto o che ra r pp prese ent nta a la nor orci cine neri ra clas cl assi as sica ca (ph phot oto © Brebca – stoc sttoc ock. k.ad adob ob be. e.co com m). ).

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Taurasi Riserva DOCG 2011 Cantine Lonardo Uve 100% Aglianico provenienti quasi esclusivamente da vigneti a piede franco, raccolte manualmente e vinificate a temperatura crescente, fino ad un massimo di 28 gradi, per circa 12-18 giorni. Dopo la svinatura e il primo travaso il vino viene stato stoccato in botti di rovere tostato da 225 l. Dopo circa 24 mesi di invecchiamento viene imbottigliato, senza alcuna ulteriore filtrazione. Il calice alla degustazione si presenta di un bel rosso rubino intenso, con leggerissime sfumature granate. Al naso diffonde intense note di frutta scura matura e in confettura, presenti e netti i terziari, toni vanigliati e speziati. Al palato è vellutata la sorsata tannica, avvolgente, equilibrata, con un tono alcolico deciso. Elegante, armonico, intenso. Un calice particolarmente adatto all’abbinamento coi ricchi piatti invernali della cucina di montagna, si presta perfettamente ad accompagnare anche taglieri di formaggi stagionati e secondi piatti a base di selvaggina.

Az. Agr.“Contrade di Taurasi” di Enza e Antonella Lonardo Via Municipio 39 83030 Taurasi (AV) Telefono: 0827 74483 E-mail: info@cantinelonardo.it Web: www.cantinelonardo.it tinelonardo.it

Salento IGT Primitivo ES 2018 Gianfranco Fino Un vino che è un simbolo. Simbolo di Puglia, d’eccellenza, di filosofia produttiva. Simbolo di Primitivo. Anni di successi, di riconoscimenti, di premi per questo calice intenso e scuro, prodotto con uve Primitivo provenienti da vecchi alberelli di 60 anni dell’agro di Manduria, sottoposte ad un leggerissimo appassimento in pianta. Una volta raccolte, rigorosamente a mano, macerano sulle bucce per quasi 4 settimane e maturano successivamente per 9 mesi in piccole botti di rovere francese, per il 50% nuove e per il rimanente 50% di secondo passaggio. Il ventaglio gusto-olfattivo che regala durante la degustazione è la conferma dei tanti successi e riconoscimenti. Intensa la frutta rossa matura, contornata da note speziate, sentori tostati boisé, ricordi di macchia mediterranea, rabarbaro, cioccolato, tinte chinate. È la freschezza, intensa e strabiliante, a sostenere la complessità glicerica e di sostanza, donando un’armonia completa e indiscussa ad un calice complesso e avvolgente.

Gianfranco Fino Viticoltore Contrada Reni s.n. 74024 Manduria (TA) Telefono: 099 7773970 E-mail: info@gianfrancofino.it Web: www.gianfrancofino.it

Amarone della Valpolicella DOCG Mithas 2012 Corte Sant’Alda Vigneti esposti a sud, altimetrie superiori ai 350 metri, terreni calcarei, conduzione biodinamica e forte determinazione gestionale sono gli ingredienti vincenti di questo splendido calice. Prodotto solamente nelle annate migliori, il 2012 si avvale di un uvaggio per il 50% di Corvina grossa, Corvina al 40% e il rimanente 10 di Rondinella. Sono uve raccolte a mano, che riposano in cassette per l’appassimento fino a febbraio/marzo dell’anno successivo. Il vino viene poi posto in affinamento in botti di rovere di diverse dimensioni e in barriques per 36 mesi. Passato questo periodo verrà coricato in bottiglia, dove resterà per altri 6 mesi. La degustazione è smagliante, nei sentori come nelle spalle gliceriche e di struttura. Frutti rossi in confettura, accenni di bacche di cacao, liquirizia e note minerali, rotondo, caldo, armonico. Adattissimo al rito della meditazione, si accompagna perfettamente alla pastissada de caval, ai risotti con salsiccia e Amarone, agli stufati di somarino.

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Az. Ag. Corte Sant’Alda Via Ca’ Fioi 1 37030 Mezzane di Sotto (VR) Telefono: 045 8880006 E-mail: info@camerani.wine Web: www.cortesantalda.com

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Bolgheri Rosso Superiore Ornellaia 2018 Tenuta dell’Ornellaia

Ornellaia Località Ornellaia 191 – Fraz. Bolgheri 57022 Castagneto Carducci (LI) Telefono: 0565 71811 E-mail: info@ornellaia.it Web: www.ornellaia.com

Un vino iconico, vero e proprio portabandiera del made in Italy vitivinicolo. Ci troviamo di fronte ad un cosiddetto “Supertuscan”, vino toscano di carattere e struttura, prodotto con blend di vitigni internazionali. È il taglio bordolese, cioè Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot, alla base di questa produzione. Si tratta di uve che vengono vendemmiate a mano e più volte sottoposte a controlli ed assaggi, già durante il loro processo di crescita in vigna. La fermentazione alcolica si svolge in tini di acciaio inox, passa poi in barrique di rovere, dove affinerà per 12 mesi. Successivamente viene creata la cuvée, che verrà poi reintrodotta in legno per 6 mesi circa. La maturazione in bottiglia richiederà altri 12 mesi. Al palato la sorsata è nettamente avvincente e seduttiva, morbida ed elegante. Olfattivamente è intenso di note fruttate e raffinati sentori speziati a completamento, in armonia. Tannino vellutato, nobiltà di armonie. Un calice di classe, splendido compagno delle serate invernali, col camino acceso.

Barbaresco DOCG Asili 2017 Ceretto

Ceretto Aziende Vitivinicole Srl Strada Provinciale Alba/Barolo Località San Cassiano 34 12051 Alba (CN) Telefono: 0173 282582 E-mail: ceretto@ceretto.com Web: ceretto.com

Calice di raffinata eleganza, il Barbaresco Asili viene prodotto con uve Nebbiolo in purezza, provenienti da un Cru situato a 290 metri di altitudine, caratterizzato dalla presenza di marna di Sant’Agata, finissima argilla mista a calcare. Sia la fermentazione che la macerazione avvengono in tini di acciaio a temperatura controllata, affina poi 2 anni in tonneaux e grandi botti di rovere e per 6 mesi in bottiglia. Si presenta di un brillante rosso rubino con leggere sfumature granate, mentre all’olfattiva snocciola copiose note fruttate, linde e fresche, accompagnate di fiori passiti, caffè, bacche di cacao e speziatura. Totalmente convincente la sorsata, morbida e armonica, tannini precisi, con equilibrio. Un calice particolarmente adatto alla degustazione meditativa, si presta all’abbinamento con i piatti di carne della tradizione, ragù di cacciagione, filetti ai funghi, sughi di selvaggina e formaggi stagionati.

Sangiovese di Romagna Riserva Monte Brullo 2016 Costa Archi

Costa Archi via Rinfosco 1690 48014 Castelbolognese (RA) Telefono: 338 4818346 E-mail: aziendacostaarchi@yahoo.it Web: costaarchi.wordpress.com

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Espressione delle migliori potenzialità del Sangiovese, ci troviamo di fronte ad un calice che riunisce, nel migliore dei modi, tipicità, territorio e mano dell’uomo. Prodotto con uve Sangiovese, cloni di biotipo romagnolo provenienti da un’unica vigna, viene vinificato in piccoli tini da 7 ettolitri, effettua una macerazione di circa 20 giorni ed affina in tonneaux di diversi passaggi per 12 mesi. L’affinamento continua con 24 mesi di vasca di cemento e 12 mesi in bottiglia. Ne risulta un vino corposo, di grande struttura e carattere, che lascia intuire anche grandi evoluzioni nell’invecchiamento. Dal color rosso granato scuro, all’olfattiva sprigiona con generosità raffinatissimi sentori di frutta rossa matura, marasca e ribes, ricordi di cannella, cuoio e carruba, foglie di tabacco ed erbe aromatiche. Coerente e circolare la sorsata, trama tannica elegante e setosa, bevibilità estrema, eleganza infinita. Calice austero e virile, perfetto nelle scure sere invernali, si presta magnificamente ai grandi piatti di carne, costine alla griglia, ragù di cacciagione, salumi stagionati, brasati di carne di manzo, passatelli col tartufo.

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BIRRA

DALLA TERRA ALLA BIRRA PENSIERI LIBERI PER SOGNATORI E AMANTI DEL LUPPOLO ire birra — e lo scoprirete proprio leggendo questo libro — è solo un altro modo per dire terra, amicizia, passione, ostinazione, vocazione. Birra è una parola-mondo: contiene in sé esperienze, colori, sapori in continuo mutamento. Edito da Gribaudo e firmato da TEO MUSSO insieme alla giornalista LAURA PRANZETTI LOMBARDINI, “Dalla Terra alla Birra” risponde alle domande del pubblico interessato a conoscere la birra artigianale. Teo Musso è tra le figure che più hanno rivoluzionato il panorama birrario del nostro Paese, muovendosi come un funambolo, in perenne incontroscontro tra tradizione e innovazione, facendo suo quel concetto di baladin (termine francese per “saltimbanco”) che è la sua creazione più famosa. Dentro queste pagine Teo si racconta, racconta la “sua” birra e quella degli altri, la nascita del movimento brassicolo artigianale in Italia, la filosofia che anima il suo pensiero e il valore centrale che dà alla filiera agricola, perché, sostiene: “la Birra è Terra!”. E poi la creatività e la passione, la fantasia e lo stile come ingredienti fondamentali, sempre. La lettura è arricchita da testimonianze di personaggi che hanno accompagnato Teo Musso nella sua crescita e nella sua avventura lavorativa. Disponibile in tutte le librerie, sulle principali piattaforme on-line e sull’ecommerce di Baladin (shop.baladin.it).

Teo Musso (photo © Davide Dutto).

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TEO MUSSO, LAURA PRANZETTI LOMBARDINI Dalla terra alla birra Pensieri liberi per sognatori e amanti del luppolo Edizioni: Gribaudo, 2022 200 pp. – € 16,90

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Birraio dell’Anno 2021: vince Luigi Recchiuti di Opperbacco È Luigi Recchiuti, del birrificio abruzzese Opperbacco, ad aver conquistato i 100 giudici che ogni anno sono chiamati da Fermento Birra a rispondere ad un quesito così facile da pronunciare ma così difficile da rispondere: chi è stato il più bravo birraio italiano dell’anno appena concluso? La medaglia d’argento va invece a Marco Valeriani del birrificio Alder (MB), già vincitore di due titoli, e il bronzo a Giovanni Faenza del birrificio Ritual Lab (RM), che si conferma dopo la vittoria dello scorso anno. Opperbacco nasce nel 2009 a Notaresco, nel Teramano, in una zona collinare vocata al vino, e proprio per questo il birrificio viene chiamato con un gioco di parole che ricorda la vocazione enologica di questa terra, utilizzando come logo il famoso bacco di Caravaggio con uno spumeggiante bicchiere di birra al posto del calice di vino. Tra le carte vincenti che hanno spinto Luigi Recchiuti in cima alla classifica troviamo il progetto Nature e Abruxensis. Tutto nasce dalla passione per il vino, che negli anni cresce sempre di più e che porta Luigi Recchiuti a frequentare anche i corsi da sommelier. Le birre di questa linea vengono tutte realizzate in una stanza climatizzata del casale, dove riposano 8 tonneaux e 16 barriques provenienti dalla cantine Masciarelli e Nicodemi. La Nature è fermentata su un pied de cuve di uve, nel 2019 di Montepulciano o Trebbiano, vitigni tipici abruzzesi. Le uve vengono pigiate con i piedi e deraspate a mano, e una volta partita la fermentazione, dopo tre giorni viene aggiunto nella botte il mosto di birra. Ma la connessione con il territorio non finisce qui perché nelle botti finisce anche la frutta locale, come amarene, pesche e ancora uva. La linea Abruxensis è prodotta invece inoculando un mix di lieviti selvaggi. Birraio dell’Anno è un appuntamento realizzato da Fermento Birra con la collaborazione di Mr Malt, Lallemand, J-Software, Fermentis, bioMérieux e Polykeg. Info: birraiodellanno.it (in foto, i primi tre classificati).

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DOLCI

Gubana,

mito friulano di Giovanni Ballarini

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Gubana goriziana, presnitz, gubana di Cividale, putizza, potica e gubana delle Valli del Natisone: questo dolce, nelle sue varianti regionali, è il regalo che si fa per augurare, attraverso il suo dono, prosperità e ricchezza (photo © Luca – stock.adobe.com).

L

V IDA , col quale, nel 1947, preparai alcuni esami universitari, era di Gorizia e vantava la gubana della sua famiglia che mi diceva essere l’unica “vera”, da mangiare inzuppata in una grappa rigorosamente friulana. Quando, nei decenni successivi, andai a far visita a lui e ad altri amici friulani, ognuno di loro magnificava la “propria” gubana, ognuno asserendo essere quella “vera” e a questo io credo perché la gubana, come ogni altro prodotto tradizionale identitario, è un mito dalle antiche origini. Come ogni mito anche questo parte da una storia abbastanza semplice, raccontata in mille varianti che si modificano nel tempo, da luogo a luogo, da casa a casa, e basta un fiume o un rivo a dividere sia pure impercettibilmente la ricetta, non di rado trasformando in rivali chi sta al di qua o al di là del rivo stesso. La gubana, gubanca nel dialetto beneciano delle Valli del Natisone e

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UIGI

gubane in friulano, è un tipico dolce di pasta lievitata ripiegata a forma di chiocciola del diametro di circa venti centimetri che si preparava per le feste di Natale e Pasqua, matrimoni e altre occasioni speciali, con un ripieno di noci, uvetta, pinoli, zucchero, grappa e scorza grattugiata di agrumi. Cotta al forno, è una specialità tradizionale (PAT) delle popolazioni che abitano la regione collinare e montuosa delle Prealpi Giulie del Friuli orientale che si estende tra Cividale del Friuli e i monti che sovrastano Caporetto, comprendendo le Valli del Torre e del Natisone (UD). A Cividale si produce anche un dolce chiamato gubanetta, del tutto simile alla gubana, ma dalle dimensioni ridotte e dal diametro di circa sette centimetri. Con lo stesso ripieno si fanno anche gli strucchi. Dal 1990 esiste il Consorzio per la protezione del marchio gubana che tutela i produttori della specifica zona di produzione e detta precise norme e ingredienti per la sua preparazione.

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Cividale del Friuli (photo © Marco Lissoni). Dolce rinascimentale La gubana è nota fin dal 1409, quando compare in un banchetto preparato in occasione della visita a Cividale del Friuli di PAPA GREGORIO XII, il veneziano ANGELO CORRER (1335-1417) e, come denuncia anche la sua composizione, ha sicuramente uno sviluppo rinascimentale. Il nome sembra derivi dalla sua forma, perché nel linguaggio slavo del Natisone guba significa piega. Sull’origine della gubana prevalgono due narrazioni: secondo alcuni deriverebbe da un dolce sloveno, la putizza (in sloveno putica), perché in molte parti della Slovenia occidentale la denominazione tradizionale per la

putizza è guban’ca e una denominazione simile (gibanica o gubanica) è usata per il dolce tradizionale del Prekmurje. Secondo un’altra narrazione la gubana sarebbe autoctona delle Valli del Natisone, dove una popolazione slava si è insediata fin dal VIII secolo. Gubana delle Valli del Natisone Molte sono le narrazioni sulla gubana delle Valli del Natisone, dove questo dolce compare in numerose occasioni collettive e, soprattutto, in occasione delle nozze, con usanze diverse da famiglia a famiglia e da paese a paese, a sottolineare l’intimo legame tra la gubana, il territorio e la popolazione

ivi residente. Non è così infrequente che ancora oggi nelle Valli del Natisone e nelle località vicine ove le genti delle Valli si sono spostate le massaie confezionino la gubana in occasione delle principali ricorrenze e festività locali. L’onorevole ALFEO MIZZAU, deputato europeo e presidente della Società Filologica Friulana, scrive che la gubana è citata in un contratto del 1576 in cui si legge che con le regalie che sono offerte ai proprietari delle terre assieme agli affitti in denaro c’è anche la gubana, valutata ad un prezzo molto alto, una lira di 20 soldi, pari alla mercede per una giornata di lavoro di un esperto muratore1. Altro riferimento del luogo

Gubana all’uso di Cividale Ingredienti per 8 persone Per la pasta: 250 g di farina, 250 g di burro, due cucchiaini di grappa o slivoviz, sale, un uovo per dorare la sfoglia. Per il ripieno: 250 g di uva passa bagnata nella grappa o slivoviz, 250 g di noci pestate, 100 g di pinoli, 100 g di cioccolato amaro grattugiato, 50 g di mandorle, 50 g di nocciole, 100 g di zucchero, fichi secchi e prugne secche tagliati a pezzettini, quattro o cinque amaretti sbriciolati, le bucce di un arancio e un limone grattugiate, un uovo per amalgamare l’impasto, una spruzzata di vino bianco dolce. PREPARAZIONE Dopo aver preparato la sfoglia, lasciarla riposare coperta per almeno mezz’ora in luogo fresco. Stenderla col matterello in un rettangolo lungo e stretto dello spessore di qualche millimetro. Cospargere in modo uniforme tutta la superficie col ripieno ben mescolato. Avvolgere la gubana su sé stessa a formare un lungo rotolo che, girato a spirale, avrà la caratteristica forma a chiocciola. Spennellare la superficie del dolce con un tuorlo, sistemarlo sulla placca ben imburrata e porlo in forno già caldo (180 °C) per 40/50 minuti. Servire tiepida o a temperatura ambiente.

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Ricetta della Gubana goriziana depositata con atto notarile (2013) dall’Accademia Italiana della Cucina Ingredienti Per la pasta sfoglia: farina 00, acqua, sale marino fino, burro. Possono essere aggiunti uovo, vino bianco, succo di limone. Per il ripieno: noci, mandole, pinoli, uvetta sultanina, biscotto secco sbriciolato, arancia e cedro canditi, rum o Marsala, zucchero o miele, aromi e spezie. Facoltativi: burro, nocciole, albume e/o tuorlo d’uovo. PREPARAZIONE Realizzare una pasta sfoglia classica con due impasti, uno principalmente a base di burro, il panetto, e l’altro, il pastello, a base di farina, acqua e sale (eventualmente con rosso d’uovo o vino bianco o un cucchiaio di zucchero). Stendere i due impasti, sovrapporli e piegarli in modo particolare più volte. Per il ripieno, far macerare, in acqua tiepida oppure in Rum o Marsala, l’uvetta sultanina. Tritare grossolanamente la frutta secca. Impastare il tutto con i rimanenti ingredienti per realizzare un amalgama che è il ripieno del dolce. Stendere la pasta sfoglia su un tovagliolo infarinato, fare un salsicciotto con il ripieno e rivestirlo con la pasta con l’aiuto del tovagliolo. Arrotolare il dolce su sé stesso, per fargli assumere la tipica forma a chiocciola o a spirale, e spennellarlo col tuorlo d’uovo precedentemente sbattuto. Cuocere in forno per circa 30-40 minuti alla temperatura di 180° C. NB: la ricetta codificata non ha proporzioni perché i pesi relativi degli ingredienti caratterizza poi la personalità della ricetta di famiglia.

di origine del dolce è la presenza nelle Valli del Natisone del cognome Gubana anteriormente al 1612 e un canto friulano composto nel 1713 in occasione della rivolta dei Tolminotti, scoppiata per l’aumento dei dazi e delle gabelle, che contiene la strofa “… vin, tripuzs di Chiauret e Gubanis cu’l savor”. In un documento cividalese del 1738 si fa un elenco di vini e dolci: “… moscato, buzzolai, savoiardi, bovolini, polacchine, gubane…”. Fino alla metà del secolo scorso la gubana è preparata esclusivamente in casa. Nel 1960 alcuni forni, anche se in maniera discontinua, iniziano la produzione e la vendita di gubane a terzi. Nel 1965, per la Festa dei Santi Patroni Pietro e Paolo, il 29 giugno, a S. Pietro al Natisone si tiene il 1o Concorso della Gubana, che così esce dall’ambito famigliare per raggiungere un vasto pubblico in Italia e anche all’estero. Nel 1973 è fondato il Consorzio per la tutela della Gubana delle Valli del Natisone, al quale partecipano la più parte dei produttori dei comuni di S. Pietro al Natisone, Pulfero, S. Leonardo, Savogna, Grimacco, Drenchia e Stregna. Nel 1983 è fondato un secondo consorzio denominato Consorzio Zona d’Origine della Gubana Tipica di Cividale – Valli del Natisone e nel 1990 i due consorzi si riuniscono nel Consorzio per la Tutela del Marchio Gubana.

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Il castello di Gorizia (photo © erzetic – stock.adobe.com). La gubana è definita come una pasta dolce lievitata con un ripieno di circa pari circa metà del suo peso. Si caratterizza inoltre per la sua antica forma particolare, dovuta all’avvolgimento a chiocciola, e per il colore. “La pasta distesa, lievitata a riporto, avvolge diagonalmente il ripieno e poi è avvolta su se stessa a chiocciola chiusa. Tale semiprodotto è lasciato rilievitare fino

al raggiungimento del volume classico, indi è posto in forno ove si completano le caratteristiche organolettiche. La cottura avviene a temperatura moderata per circa un’ora. La fase di rilievitazione è fondamentale per la riuscita del prodotto. Le caratteristiche determinanti della pasta lievitata sono la sua elasticità e sofficità, la capacità di sostenere e sollevare il rilevante peso del ripieno.

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Fasi di preparazione della Gubana (photo © blog.giallozafferano.it). Il procedimento era un geloso segreto che si tramandavano le donne delle Valli. Per aversi armonia di valori ed eccellenza di risultato, il peso ottimale della Gubana è di 850 grammi” (fonte: www.gubana.it). Gubana goriziana Su iniziativa dell’Accademia Italiana della Cucina, il 20 maggio 2013, nella sala Bianca del Comune di Gorizia, si è svolta la cerimonia di firma dell’atto di deposito della ricetta della Gubana goriziana, presenti il sindaco ETTORE ROMOLI, il notaio SAVERIO ANGELILLI, il rappresentante della delegazione di Gorizia dell’Accademia Italiana della Cucina ALESSANDRO CULOT, il consultore e componente del Centro Studi regionale dell’Accademia Italiana della Cucina e curatore della ricerca culturale sulla gubana goriziana ROBERTO ZOTTAR e il consigliere regionale RODOLFO ZIBERNA.

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Come riferisce lo stesso Roberto Zottar (Civiltà della Tavola, ottobre 2013 pp. 32-33), il dolce pasquale tipico della città di Gorizia, la gubana goriziana, si caratterizza per una delicata pasta sfoglia ripiena di frutta secca, zucchero, canditi, miele, spezie, aromi, burro e uova: a seconda della famiglia assume inoltre un gusto particolare determinato dal dosaggio segreto degli ingredienti (dosi e modi diversi nella confezione della pasta sfoglia e, soprattutto, nel ripieno), che viene tramandato di generazione in generazione. A renderla differente, inoltre, basta una diversa grana di macinatura delle mandorle e delle noci o un piccolo particolare come la macerazione dell’uvetta: rum, Marsala per un sapore più forte, o solo vino bianco o Picolit per un sapore più delicato. La stessa uvetta può essere a volte una combinazione di uva passa sultanina o di zibibbo o uva malaga.

Le ricette sono facilmente databili a seconda delle unità di misura degli ingredienti, perché, fino al 1870, anno in cui il governo austroungarico adottò il sistema metrico decimale, si usavano libbre, lotti, funt o once per misurare frazioni di chilogrammi e boccali per misurare i liquidi. Si può osservare inoltre che nelle vecchie ricette goriziane è documentato il nome presniz, mentre quelle più recenti si caratterizzano per la presenza del nome gubana. L’involucro, che certamente in origine era una pasta frolla azzima o anche più povera, come la pasta tirada dello strucolo, si è nobilitato e trasformato nel tempo divenendo una pasta sfoglia ricca. Anche qui le ricette non indicano una pura sfoglia con panetto e pastello di soli burro e farina, ma prevedono l’aggiunta, nel pastello, di rossi d’uovo, vino bianco o succo di limone e, talvolta, anche di una manciata di zucchero per dare più gusto alla pasta stessa. La gubana goriziana è sempre stata un dolce aristocratico-borghese e una conferma giunge anche dal fatto che i ricettari contadini non ne riportano traccia, mentre sono ricchi di ricette di putizze. Essa rappresenta la sintesi di diverse culture, come emerge in modo evidente dalla descrizione degli ingredienti proposta, a metà del 1800, da VINCENZO ZANDONATI, speziale poeta di Aquileia: mandorle di Bari, noci della Carnia, pignoli della Grecia, cedrini, uva sultanina, zibibbi, vaniglia, cannella della regina, fior di garofano, pimento, zucchero in polvere, farina di fioretto e strùssis (forme ovoidali) di burro tolmino. Riguardo al nome, il Cossar la definisce gubana pasquale, detta volgarmente Presniz alla goriziana; nel 1795, in un ricettario di una farmacia istriana, si trova una ricetta di gubana alla goriziana. KATHARINA PRATO, nell’edizione del 1892 del suo importante manuale di cucina, ne riporta la ricetta come strucolo alla goriziana (presniz) ma con pasta frolla anziché sfoglia. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota 1. V. ROSSITTI in: Prodotti tipici friulani: la Gubana; ANGELO SIGNORELLI, Gubana. Delizia delle Valli, Genova, Edicolors, 1999.

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Il torrone, un dolce regionale per tutti i gusti e tutte le stagioni Da Caltanissetta a Catania, da Tonara a Bagnara Calabra salendo verso Benevento fino ad arrivare a Cremona: sono solo alcune delle città italiane riconosciute come eccellenze per la produzione di torrone. Viaggiando per lo Stivale si possono degustare tante varianti, ma gli ingredienti di base restano sempre albume, miele, mandorle o nocciole, che vengono poi declinati, addolciti, arricchiti da specialità locali differenti. Si parte dal Piemonte, dove il torrone viene fatto con la pregiata nocciola gentile delle Langhe; in Lombardia, a Cremona, il torrone è parte della tradizione cittadina tanto da esserne un simbolo; in Toscana si trova il torrone di Lamporecchio, morbido, con le nocciole; in Campania abbiamo il torrone di Benevento alla nocciola. Più si procede verso sud più il torrone diventa un vero e proprio dolce di pasticceria: sempre in Campania, ad Avellino, si può gustare il pantorrone, fatto di torrone e Pan di Spagna imbevuto al liquore. La Sicilia è il regno dei torroncini, morbidi, fatti con pistacchi e mandorle; poi la Sardegna, dove si prepara un torrone caratterizzato dal sapore particolare del miele locale, cotto a fuoco diretto con pani morbidi che al taglio fanno la “goccia”. Il torrone viene utilizzato anche nelle ricette salate, come ad esempio il Risotto con brodo di torrone, un must della cucina moderna cremonese. Tanti i miti che lo riguardano: il più datato narra che nell’antica Grecia un dolce a base di noci e miele veniva dato agli atleti che si preparavano per le Olimpiadi. Un dolce a base di albume, mandorle e miele si ritrova anche ai tempi dell’antica Roma nei testi Tito Livio. La sua tradizione più recente, invece, risale al 1441, anno in cui convolarono a nozze Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, che offrirono agli invitati un dolce che voleva essere un omaggio alla grande torre della città di Cremona. Esistono mille modi per poter utilizzare il torrone in cucina, attraverso semplici ricette che danno un sapore unico alle pietanze, dai primi che ai dolci. Info: www.festadeltorrone.com


SONO 180 GRAMMI, LASCIO?

Grace, Jeff Buckley

VINO DI LILLÀ di Giovanni Papalato

e JAMES SHELTON, negli anni Cinquanta, quando scrisse “Lilac Wine”, si riferiva ad una bevanda distillata dai fiori di lillà molto popolare negli Stati Uniti, a noi Europei viene più facile pensare a certi vini della Provenza, che hanno nel loro bouquet anche il profumo di questo fiore. Questa regione nel Sud-Est della Francia, estremamente interessante dal punto di vista enogastronomico, beneficia del clima mediterraneo, combinando temperature alte e secche con il mistral e la brezza marina, fornendo condizioni molto favorevoli alla coltivazione della vite. Con la fondazione di Massilia

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(oggi Marsiglia) da parte dei Greci ha inizio questa coltura, poi continuata dai Romani. Il risultato di questo avvicendamento e le diverse contese di cui è stato oggetto questo territorio nel corso dei secoli ne hanno influenzato viticoltura e comparto enologico. Influenza anche da parte nostra, introducendo qualità diverse di viti da coltivare soprattutto nel XIX secolo, quando la Provenza era sotto il regno di Sardegna. Famosa per i rosati, esistono anche vini bianchi e rossi da frutti di vitigni italiani oltre che francesi, a bacca nera Braquet (il nostro Brachetto), Cabernet Sauvignon, Calitor, Folle Noir, Syrah,

Carignan tra gli altri, mentre a bacca bianca Chardonnay, Sauvignon Blanc, Grenache Blanc, Ugni Blanc (Trebbiano Toscano) e il Rolle (Vermentino). Tutti vengono classificati per qualità a salire da “Vin de Table” a “Vin de Pays”, poi “Vins Délimités de Qualité Supérieure” per finire con “Appellation d’Origine Contrôlée”. A quest’ultima categoria appartengono sette zone: Coteaux d’Aixen-Provence et Les Baux-de-Provence, Coteaux Varois, Côtes de Provence, Palette, Bandol, Bellet e Cassis. Se ebbe modo di ritrovare il profumo di lillà nei vini assaggiati durante le tappe in Francia, quando suonò a

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Correggio (RE), nel luglio del 1995, Jeff Buckley, nel caldo umido dell’estate in Pianura Padana, bevve sul palco (del resto come noi sotto) il Lambrusco. Fu un concerto indimenticabile per il sottoscritto e per chiunque fosse presente, incarnazione di immaginario ed emozioni suscitate da ascolti ossessivi del suo disco di debutto “Grace”. Celebrato da BOWIE, REED, PAGE e DYLAN, in grado di coinvolgere generazioni differenti di ascoltatori, Jeff Buckley riesce ad essere sé stesso senza dipendere dalla ingombrante figura paterna. Artisticamente parlando, ovviamente, perché il padre, TIM BUCKLEY,

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morì di overdose quando Jeff aveva solo otto anni. Un legame, nell’assenza, molto forte, che lo porterà ad esibirsi in pubblico per la prima volta in una celebrazione collettiva del genitore nel ventennale della sua scomparsa. “Grace” è un disco che unisce la sua grande voce e la straordinaria capacità interpretativa alla scrittura del suo chitarrista GARY LUCAS, oltre a quella di altri autori. Lilac Wine, insieme ad altri due brani, è una cover, mentre i restanti dieci pezzi sono inediti. Buckley è stato un eccezionale chanteur, degno erede dei suoi idoli, tra tutti EDITH PIAF, totalmente fuori dal

In alto: a sinistra, il tipico paesaggio provenzale con campi di lavanda e vigneti (photo © Richard Semik – stock.adobe.com). A destra, “Grace”, il primo album in studio del cantautore e chitarrista Jeff Buckley, pubblicato negli Stati Uniti il 23 agosto 1994 dall’etichetta Columbia Records.

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Il Lilac Wine è una bevanda che, negli anni ‘50, ispirò l’attore James Shelton che compose l’omonima canzone. Il brano parla del dolore per la perdita di una persona amata, sofferenza che viene affogata proprio nel vino di lillà. tempo soprattutto quello a metà anni Novanta in cui si presentò al mondo. Anni dominati dal grunge e dall’hip hop, frullatori incontrollati di distorsioni e rime in mezzo a cui emerge una voce che unisce genere maschile e femminile attraverso un disco in cui si alternano canti liturgici e brani che liberano commozione. La voce di Buckley è nucleo e cometa, da lì tutto parte e tutto trascina. Un risveglio. Sembra di aprire gli occhi in un destarsi ideale, tra arpeggi e sussurri celestiali in un crescendo sempre più coinvolgente fino all’esplosione tra nervi e armonia. Mojo Pin apre così il disco e dà già il senso del dialogo emotivo in atto. Grace, da cui tutto prende nome, vive di strappi e progressioni, ritmiche e vocali. Assoluta giravolta di stupore si spinge tra rincorse e fughe oltre i limiti dello straordinario, creando una sensazione di disarmata meraviglia ad ogni ascolto, ad ogni giro sul piatto, anche a distanza di anni. Più ordinaria nella scrittura, Last Goodbye è una ballata che beneficia in grande misura del fatto di essere cantata da Buckley. È anche così che si ha la misura del talento, perché canzoni che si potrebbero confondere nella consuetudine, brillano invece di una luce differente e possono, oltre che significare singolarmente, relazionarsi assieme ad altre nell’economia di un lavoro collettivo per definirne la cifra.

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Poi cominciano le liturgie di cui sopra, a partire proprio da Lilac Wine, prima cover della track list. Già celebrata nella bellissima interpretazione di NINA SIMONE a metà anni Sessanta, fin dal principio era stata sempre oggetto di interpretazioni femminili e così vive intensamente di nuova identità trent’anni dopo. Buckley esaspera ancora di più il senso di smarrimento, l’ubriachezza sentimentale, il trasfigurare la realtà nel miraggio di un ricongiungimento. Lo fa lavorando su tinte tenui e malinconiche, un lamento struggente e volitivo, un aggrapparsi per salire. Cupa, di chiaroscuri claustrofobici, è fatta invece So Real, che comincia in una apparente tranquillità ma cresce a forza di rintocchi ansiogeni e sferzate di chitarre come mosse da onde in un naufragio cacofonico, in cui la voce si disarciona con forza dal fondo di angosce sonore per emergere e illuminare a giorno. Si chiude così il primo lato, esausti e al contempo famelici di nuove epifanie. È un’altra cover ad aprire il lato B: Hallelujah entra di diritto in quella categoria in cui la nuova interpretazione è decisamente più famosa dell’originale. Mantenendo la stesso preziosa armonia tra sacralità e materialismo nell’affermazione della vita, qui pulsa concreta di sensualità e sofferenza nella ricerca di una pace interiore. Una chitarra amplificata è

la struttura su cui Buckley può liberarsi senza limiti, facendo sua la canzone. Come era successo a HENDRIX per l’arrangiamento elettrico della dylaniana All Along The Watchtower, qui il testo di LEONARD COHEN è come al servizio di Jeff Buckley, divenendo tutt’uno con la sua voce, il suo cantarlo. È invece uno spiritual sui generis la languida Lover, You Should’ve Come Over, dove lo sconforto di un giovane che invecchia si fa tormento. Il climax del brano sembra condurre alla presa di coscienza e coincide con una espressività vocale ancora una volta indimenticabile, su registri alti e ampi. Si sposta ancora oltre, usando quasi esclusivamente il falsetto in un altro brano liturgico, la terza cover dell’album Corpus Christi Carol. Testo del 1500 musicato nel 1961 da BENJAMIN BRITTEN, attraverso un’interpretazione celestiale si fa ninna nanna ambient, così persa nel tempo da risultare avveniristica. Ad ogni verso sembra impossibile che la voce possa arrivare oltre certi limiti, ma in un cadenzato crescendo da controtenore tutto si compie. Anomalia, essendo invece nettamente radicata nella prima metà degli anni Novanta Eternal Life distorta e violenta si dimena su una sezione ritmica potente e chiassosa, ancora una volta chiusa da una irreale interpretazione vocale per quanto intensa. Il brano che chiude il disco, Dream Brother è psichedelia e misticismo, movimento circolare che cresce e si esaurisce su una trama mediorientale, tra percussioni e chitarre a intrecciarsi e perfetta per terminare il percorso intrapreso. Composizioni eterogenee in un album che è strumento di rivelazione: delle canzoni attraverso Jeff Buckley, dell’artista stesso attraverso di esse, significato e significante. Jeff Buckley morirà a 31 anni in un incidente nel maggio del 1997 mentre sta nuotando in un affluente del Mississippi. Uscirà un altro disco, postumo e incompleto, con diversi live. “Grace” è quindi l’opera prima, e purtroppo unica, di un artista che ha reso attraverso la naturalezza del suo talento il senso dell’interpretazione: la capacità di rivelare la sostanza delle canzoni, spogliandole di ogni possibile malinteso che possa distrarre da ciò che sono, inconfondibili nella loro essenza. Giovanni Papalato

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FICO, il nuovo parco da gustare Crescono di mese in mese i visitatori di FICO, il parco del cibo italiano a Bologna che ha riaperto quest’estate: è stata superata ad inizio anno la soglia dei 23.000 abbonati, aumenta la permanenza media nel parco (da 1,5 a 5 ore), raddoppia la spesa media per visitatore che passa dai 15 euro del 2020 ad oltre 33 euro a persona nel 2021, mentre le vendite on-line rappresentano il 50%. I primi segnali di gradimento del nuovo format da experience park, che fanno ben sperare per il futuro di FICO. Sono molti i cambiamenti che hanno caratterizzato la rinascita di FICO: il parco è stato riprogettato per mettere le persone al centro dell’esperienza, con grande attenzione ai bambini e alle famiglie. Sono state realizzate 30 Attrazioni, tra padiglioni multimediali, giostre, scivoli e pannelli interattivi, costruite 7 aree a tema dedicate a salumi e formaggi, pasta, gioco e divertimento, vino, olio e dolci, rese vive 13 Fabbriche con proiezioni e show multimediali, creata una Fattoria degli animali all’ingresso, attivati i Tour gratuiti per chi vuole gustare fino in fondo le bellezze del parco. Esperienze olfattive e padiglioni scientifici sono protagonisti nelle giostre multimediali dedicate a terra, fuoco, mare, animali e bottiglia. Il cibo è protagonista nei 13 ristoranti tematici (a base pasta, carne, pizza, pesce, salumi, mortadella, formaggi, patate, tartufo) e nei 13 street food che esplorano il meglio delle specialità regionali italiane (dal Prosciutto San Daniele agli arrosticini abruzzesi, dalla piadina romagnola all’alta pasticceria siciliana, passando per i confetti di Sulmona e la birra artigianale). Confermati i punti cardine del progetto originale di FICO Sono i 60 operatori della filiera agroalimentare presenti nel parco, inclusi i grandi Consorzi come Parmigiano Reggiano, Grana Padano DOP, Consorzio del Prosciutto di San Daniele, Consorzio Mortadella Bologna IGP, Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena e Consorzio Carne Razza Maremmana Bio, le grandi aziende come Granarolo o i piccoli produttori locali di eccellenza. La sostenibilità del parco si attua nel progetto Metro-0, il cibo prodotto al suo interno viene distribuito e servito da tutti i ristoranti e gli operatori presenti, nei 55.000 mq di impianto fotovoltaico (uno dei più grandi d’Europa) che garantiscono oltre il 30% dell’energia utilizzata, il teleriscaldamento utilizza l’inceneritore di Bologna e legno, materiali green e riciclabili abbondano nel parco. L’accesso al parco prevede un biglietto di ingresso a 8 euro (10 euro per FICO + Luna Farm), il biglietto serale dalle 18:00 a 5 euro. Per chi vuole gustare al meglio l’offerta gastronomica, i biglietti speciali a 19 euro includono Ingresso + Tour guidato con 4 degustazioni o Ingresso + un corso a scelta tra Pasta, Pizza, Gelato, Vino e Mortadella. >> Link: www.fico.it

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STORIA E CULTURA

Preghiere, orologio della cucina di Giovanni Ballarini

Santi in cucina e nel passato nelle stalle non mancava mai l’immagine di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, nelle cucine non vi era un’immagine specifica, se non quella della Madonna o del Santo del luogo, anche perché “ci si affidava a

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tutti i santi” per avere una protezione nelle pratiche culinarie. Ora invece anche chi cucina, e in particolare i cuochi e le cuoche del nostro Paese, hanno un loro santo patrono, San Francesco Caracciolo, festeggiato il 13 ottobre, giorno della sua nascita (a Villa Santa Maria, borgo natale del Santo, ogni

anno una delegazione regionale della Federazione Italiana Cuochi dona l’olio votivo grazie al quale arderà la lampada davanti alla statua del Santo nella cappella di palazzo Caracciolo). Per opera della WACS – Società Mondiale dei Cuochi – in molte nazioni nel mese di ottobre si festeggia questa ricorrenza.

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Termometri digitali, da forno, a infrarossi, richiudibili, con sonda… Caratteristiche diverse per diversi tipi di preparazione e cottura degli alimenti. Il termometro da cucina permette di misurare la temperatura dei cibi per preparare piatti in maniera più accurata, a tutto vantaggio del gusto (photo © Suteren Studio – stock.adobe.com).

Cucina senza orologi Nella cucina del passato le preghiere avevano la finalità di misurare i tempi di cottura. Cuocere per cinque minuti o per un altro tempo ben preciso è un consiglio, anzi, un imperativo, che oggi troviamo in tutte le ricette, in quella che si può definire cucina di precisione, regolata da minuti, grammi, gradi di temperatura, giri al minuto dei frullatori e via dicendo. Ogni strumento di cucina odierno è dotato d’indici, bilance, orologi e altri strumenti di misura sempre più precisi. Ci siamo dimenticati che solo qualche decennio fa in cucina al più vi erano una stadera e una pendola. Per sapere quando mettere a bollire l’acqua per la pasta era sufficiente guardare quanto alto era il sole, il suono dell’orologio del vicino campanile o il botto del cannone di mezzodì, mentre per le temperature ci si affidava ad una cauta e rapida toccatina con un dito.

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Fin dall’antichità vi sono le clessidre ad acqua o a polvere, perché i primi orologi meccanici compaiono sui campanili o sulle torri comunali nel tardo Medioevo; gli orologi a pendolo sono del XVII secolo e, solo successivamente, compaiono quelli da taschino, grossi come cipolle, ma tutti inutili per misurare i tempi di cottura. Nei tempi passati gli orologi erano un lusso riservati a pochi e, solo prima dell’ultima Grande Guerra, nelle campagne l’orologio da tasca era un elemento distintivo del padrone e soprattutto del medico, che se ne serviva per controllare il numero delle pulsazioni o che, facendo udire il suo ticchettio, stabiliva il grado di sordità degli anziani. Le meridiane che adornano le facciate di chiese e palazzi non potevano servire in cucina e le clessidre erano rare e poco pratiche. In cucina, per determinare la durata delle cotture, valevano l’esperienza e la religione.

Preghiere orologio della cucina In uno dei più celebri ricettari del passato — siamo alla fine del XV secolo — MAESTRO MARTINO DA COMO, nel suo Libro de arte coquinaria in una sua ricetta scrive “fate cocere per spatio de doi paternostri”. L’uso delle preghiere per determinare il tempo di cottura è ancora in voga prima dell’ultima Grande Guerra e si ricorre a questo metodo soprattutto per una cottura molto delicata, quella delle uova. C’è chi vuole l’uovo soltanto brinato, chi bazzotto e chi ben sodo. In questo modo si è certi di una durata è pressoché costante e quindi si ha un risultato fisso. Di recente LARCO DI RUGGERO e ROBERTO ZOTTAR hanno fatto una rapida revisione di questi ora inusuali metodi per determinare i vari tempi di cottura. Nel tempo di due Gloria Patri (10/12 secondi) si cuoce il fegato mettendolo nell’olio bollente con la salvia: un Gloria da una parte, un Gloria dall’altra. Le Ave Maria

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L’uso delle preghiere per determinare il tempo di cottura era ancora in voga prima dell’ultima Grande Guerra e si ricorreva a questo metodo soprattutto per la cottura delle uova, notoriamente molto delicata. Alla coque, bazzotto o ben sodo: usando le preghiere si era certi di una durata pressoché costante e quindi di un risultato fisso (photo © bigacis – stock.adobe.com). (15 secondi) scandiscono il tempo per cuocere i brigidini: la pasta è tenuta tra le ferratelle il tempo di recitare un’Ave Maria (i brigidini sono dolci a cialda, a base di anice, tipici di Lamporecchio, comune della provincia di Pistoia). Un Credo (un minuto e mezzo) è il tempo di cottura di un uovo al tegamino. Per le uova sode: due stazioni o poste di Rosario per l’uovo cotto giusto, tre per l’uovo cotto molto. Il pane deve fermentare ben coperto per il tempo necessario a recitare un intero Rosario (20/25 minuti). Una Messa Cantata è necessaria per cuocere un cappone, ma forse questa misura vale solo per la donna di casa che la mattina della festa inizia a far bollire la pentola prima della Messa e trova il cappone ben cotto al suo rientro in canonica. Ma è il tempo solo della Messa, o questo comprende anche quelli delle inevitabili e lunghe chiacchiere delle comari a messa finita? Per le dure e compatte carni dei capponi di un tempo non è necessaria una grande

precisione e in questo caso — bisogna proprio dire — tutti i santi aiutano. Religione dei menù Un tempo la religione regolava i tempi in cucina anche durante la settimana, i mesi, le stagioni e l’anno e i relativi menù. La cucina della settimana è scandita dal venerdì con il pesce e dalla festa domenicale con le carni. Nel venerdì vi sono i menù di pesce e soprattutto quello conservato, come il baccalà o lo stoccafisso, e nella domenica dominano le paste in brodo e le carni bollite. Nelle trattorie vige la regola di sabato trippa, giovedì gnocchi. I mesi sono contrassegnati dalle ricorrenze dei santi, molti dei quali coi loro cibi speciali, ad esempio le pesche per Sant’Anna (26 luglio). Completamente dimenticate sono oggi le Quattro Tempora, quattro distinti gruppi di giorni del rito romano della Chiesa cattolica, originariamente legati alla santificazione del tempo nelle quattro stagioni. Giorni caratterizzati dalla preghiera e dalla riflessione, un

Oggi viviamo in una società multiculturale e di molte religioni, per cui ci si potrebbe chiedere se sarebbe corretto misurare in Ave Maria la cottura dei carciofi alla giudia o se si debba usare una Sura del Corano un piatto di un paese musulmano. Meglio quindi usare un laico orologio o un preciso contaminuti

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tempo contraddistinti dal digiuno, e durante l’anno vi sono i giorni e i periodi di digiuno e astinenza delle carni della Quaresima e della Settimana Santa. Cucina e religioni Oggi viviamo in una società multiculturale e di molte religioni, per cui ci si potrebbe chiedere se sarebbe corretto misurare in Ave Maria o Pater Noster la cottura dei carciofi alla giudia o se si debba usare un salmo della Bibbia per misurare la cottura di un piatto della cucina ebraica o una Sura del Corano un piatto di un paese musulmano. Meglio quindi usare un laico orologio o un preciso contaminuti, unitamente ad una bilancia, senza dimenticare l’importanza dei termometri da cucina. Oggi infatti il termometro digitale professionale ad uso alimentare, meglio se con sonda, è indispensabile per testare con precisione e comodità la temperatura interna degli alimenti, solidi o liquidi. Non è uno strumento utilizzato solo nei ristoranti e nelle cucine professionali, anche se gli chef non possono farne a meno, ma è indispensabile per la preparazione di determinate ricette. Per esempio, chi è un vero cultore della carne, come può regolarsi per una cottura al sangue, media o ben cotta? Non vi è santo o preghiera che tenga, con l’uso del termometro la misurazione della temperatura sarà precisa e così anche la cottura desiderata. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma

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Ulysses di Joyce: le ricette nell’anno del centenario Il 2022 è l’anno del centenario dell’Ulysses di James Augustine Aloysius Joyce, pubblicato ufficialmente per la prima volta il 2 febbraio 1912. Il cibo, così come molti aspetti della vita quotidiana dell’epoca, è un elemento che attraversa i capitoli del romanzo: tra le sue pagine sono disseminati, infatti, moltissimi riferimenti che mettono in risalto la relazione del cibo con le vite delle persone, i loro programmi per il futuro e le loro fantasie. O come sia connesso alla classe sociale, al temperamento individuale e alla creazione di opportunità di interazione. Solo per fare un esempio, il protagonista Leopold Bloom, durante il pranzo della sua giornata-odissea datata 16 giugno 1904, riflette sulle scelte alimentari della Crème de la crème, contrapponendole all’eremita con un piatto di legumi e rimarcando anche attraverso la frase Know me, come eat with me che il cibo, come un vestito, definisce la personalità. Nell’anno del centenario del romanzo irlandese più famoso può essere divertente provare a cimentarsi con qualche ricetta, iniziando magari col replicare il piatto forte del celeberrimo pranzo di Bloom: Sandwich al gorgonzola e senape, accompagnato da un bicchiere di Borgogna (info: www.irlanda.com/joyce). Green Cheese Sandwich Il Davy Byrnes Pub è stato un punto di riferimento della città di Dublino sin dalla sua apertura, nel 1889, ed è un luogo di culto della letteratura mondiale da quando Leopold Bloom vi si recò a pranzo il 16 giugno 1904. Il locale è ancora aperto e il panino al gorgonzola (Green Cheese Sandwich), presente nel capitolo 8 è ancora nel menu. Ingredienti: soda bread a fette (il soda bread, in foto, è un pane senza lievitazione della tradizione irlandese, che si gusta sia come preparazione dolce che salata, NdR), una fetta spessa di gorgonzola piccante, senape piccante, pomodoro, lattuga ripassata nel burro, burro non salato, pepe fresco macinato. Per la preparazione: imburrare il pane, spalmarlo con la senape, aggiungere in successione su una delle fette un paio di foglie di lattuga, il pomodoro e il gorgonzola. Spolverare generosamente di pepe e chiudere con la seconda fetta. Consiglio: non lesinare sulla senape. Bloom non lo fece. Come si legge: “Punteggiò gocce gialle sotto ogni striscia rialzata”. In alternativa, si possono tagliare a pezzetti gorgonzola, lattuga e pomodoro, mescolarli e farcire così il sandwich.

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TECNOLOGIE

I 6 MIGLIORI METODI DI PICKING PER PRODUTTORI E RIVENDITORI DI PRODOTTI ALIMENTARI: L’ERP CSB-SYSTEM LI SUPPORTA TUTTI

L’

allestimento degli ordini, chiamato anche picking, è la funzione centrale della logistica di magazzino ed è associata a costi elevati: in alcuni casi rappresenta addirittura il 50% circa dei costi totali di magazzino. L’utilizzo di moderne tecnologie racchiude in sé un grande potenziale di risparmio. Inoltre, il picking ha anche un’influenza significativa sulla soddisfazione del cliente perché più basso è il tasso di errore, più i clienti sono soddisfatti. I processi di picking senza supporto cartaceo

aiutano a minimizzare il tasso di errore e quindi a ridurre i costi per i reclami, il re-picking, la nuova consegna e gli annullamenti. Vale quindi la pena di ripensare i processi di magazzino esistenti ed eventualmente riadattarli. L’offerta di moderni sistemi informatici, utili ad ottimizzare tali procedure, spazia dalle soluzioni relativamente semplici a quelle totalmente automatizzate con sorter o robot. La selezione di un nuovo sistema di picking in sostituzione dei supporti cartacei dovrebbe essere ben ponderata. Devono essere

presi in considerazione non solo parametri rilevanti come le caratteristiche del prodotto, il tipo di assortimento e la struttura degli ordini, ma anche le condizioni spaziali, la natura delle zone di raffreddamento, e così via. Il gruppo CSB-System supporta sei diverse soluzioni: 1. Pick-by-Scan; 2. Pick-by-Light; 3. Pick-to-Light; 4. Pick-by-Voice; 5. Picking con sorter; 6. Pick-by-Vision.

1. Pick-by-Scan Pick-by-Scan è una procedura di preparazione ordini ampiamente diffusa, mediante la quale i dati degli ordini del sistema ERP vengono inviati a dispositivi mobili di rilevazione dati (PMD) con funzione di lettura tramite scanner. Gli operatori scansionano il codice a barre dell’articolo da evadere, prelevano la quantità indicata sul dispositivo e confermano il processo premendo un tasto. Grazie al collegamento diretto dei dispositivi PMD al CSB-System ERP, vi è un trasferimento on-line di dati. Vantaggi: • elaborazione delle informazioni rapida e senza errori; • nessuna post-elaborazione manuale dei dati; • controllo costante sullo stato della preparazione ordini grazie al collegamento con il sistema di gestione magazzino; • guida mirata del picking e ottimizzazione della sequenza di lavorazione.

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2. Pick-by-Light Con questo metodo, luci lampeggianti segnalano agli operatori la posizione dell’articolo da prelevare nel magazzino o nella zona di picking. Premendo un tasto di conferma direttamente sullo scomparto, o tramite input sul dispositivo mobile, avviene la conferma del prelievo e il feedback al CSB ERP. Vantaggi: • elevato prestazioni grazie ai tempi di ricerca ridotti; • comunicazione immediata al sistema di gestione del magazzino delle variazioni di giacenze; • picking sempre corretti perché il prelievo di articoli errati o mancanti è praticamente azzerato.

3. Pick-to-Light Questa procedura è particolarmente interessante per le aziende con molte filiali. Gli ordini ricevuti nel CSB ERP vengono trasferiti sui display dell’area picking. I dipendenti, i cui articoli da prelevare sono mostrati in diversi colori sui display, assegnano gli articoli ordinati ai display e quindi alle filiali. Successivamente un ordine completato può essere, per esempio, confermato al CSB-Rack e le quantità dell’ordine sono aggiornate. Vantaggi: • • • •

funzionamento intuitivo; prestazioni elevate con un tasso di errore molto basso; controllo automatico delle scorte attraverso la funzione di inventario; entrambe le mani degli addetti sono libere.

4. Pick-by-Voice Con Pick-by-Voice il prelievo degli articoli è controllato in modo particolarmente facile. Il CSB-System converte in voce gli ordini presenti nel sistema e li trasmette agli auricolari degli addetti al prelievo. Questi ultimi hanno le mani libere e possono agire in modo più rapido e flessibile; e anche i loro occhi sono sollevati. La conferma del processo di prelievo avviene tramite input vocale. Vantaggi: • • • •

facilità d’uso; breve periodo di formazione; prestazioni molto elevate con un tasso di errore molto basso; entrambe le mani degli addetti sono libere.

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5. Picking con sorter Per questa tipologia di picking vengono utilizzati sorter all’avanguardia come quelli della CSB-Automation. Grazie alla loro struttura compatta, i CSB-Sorter, sia nelle varianti semiautomatiche che in quelle totalmente automatiche, realizzano una soluzione intralogistica efficiente perfino nello spazio più ristretto. I CSB-Sorter sono particolarmente adatti allo smistamento di casse multiprodotto. Il gestionale CSB-System è in grado di combinare in modo ottimale i dati degli ordini, i prodotti e i contenitori; con il supporto del software i prodotti vengono prelevati dal magazzino, condotti ai percorsi di picking e peso-prezzati nei sorter. Successivamente vengono spinti automaticamente negli scomparti cliente e distribuiti nelle confezioni. Vantaggi: • • • •

altissimo grado di automazione anche in spazi ristretti; prelievo efficiente di casse multiprodotto; operazioni manuali minime; prestazioni elevate con un tasso di errore molto basso.

6. Pick-by-Vision Il Pick-by-Vision è una nuova tecnologia in cui i dati degli ordini da evadere vengono trasmessi agli operatori su dei cosiddetti dataglasses. Questa procedura offre molti vantaggi, soprattutto in presenza di una molteplicità ed alta densità di articoli da evadere. Aziende che già utilizzano questo sistema riportano di aver raggiunto un risparmio di tempo di circa il 18% ed un tasso di errore molto basso.

Vantaggi: • • • •

alta velocità nel prelievo; riduzione degli errori; entrambe le mani sono libere; efficace per molti tipi di magazzino.

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È chiaro che una soluzione universale per il picking non esista. Spesso, una combinazione di diversi metodi è anche la scelta migliore per elaborare in modo ottimale diversi gruppi di articoli in realtà aziendali molto dinamiche.

Referente: • Dott. A. MUEHLBERGER CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (VR) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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EURO ANNUARIO CARNE 2022

Per ordini: 1 copia € 95,00 E-shop: pubblicitaitalia.store


TRE LIBRI

MASSIMO MONTANARI Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo Edizioni: Laterza Economica 208 pp. – € 11,00

DAVIDE PAOLINI Confesso che ho mangiato Edizioni: Giunti 272 pp. – € 18,00

MADELINE PUCKETTE, JUSTIN HAMMACK L’arte del vino La guida definitiva Edizioni: Antonio Vallardi 317 pp. – € 28,40

Perché il pane è un simbolo di civiltà? Cosa può insegnarci la pasta sul rapporto tra forma e sostanza? Che cosa significa dividere le carni e non poter dividere la minestra? Ricercare la ricetta perfetta è ideologicamente corretto? Le ricette di cucina hanno qualcosa in comune con le ricette del medico? Perché al barbecue cucinano sempre i maschi? I piccoli gesti della vita quotidiana hanno un senso quasi mai banale. Aiutano a riflettere su quello che accade ogni giorno intorno a noi, sul nostro rapporto col mondo, con gli altri, con noi stessi. “Un’idea a cui sono particolarmente affezionato — scrive Montanari — è che le pratiche di cucina non solo costituiscono un decisivo tassello del patrimonio culturale di una società, ma in molti casi rivelano meccanismi fondamentali del nostro agire materiale e intellettuale. La cucina può così essere assunta come metafora della vita, a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina”.

A Milano il lockdown del 2020 costrinse tutti o quasi ad un’esistenza sospesa e priva di contatti. Ma per chi, come DAVIDE PAOLINI, “vive” nella dimensione del viaggio, l’isolamento è stata una condizione ancora più insopportabile. Come occupare il tempo dedicato alla scoperta? Come “riempire” lo spazio del viaggio, quando questo si riduce alla distanza che separa la camera da letto dallo studio? Una soluzione c’è stata: avvalersi della propria memoria per ripercorrere il già vissuto, riscoprendo emozioni e immagini lontane nel tempo e (quasi) dimenticate. Da qui ha preso avvio il lungo itinerario di un gastronauta d’eccezione, un memoir che restituisce, insieme ai ricordi “reali”, anche (e soprattutto) quelli emotivi. Uno straordinario percorso nella memoria gustativa di uno dei più importanti giornalisti gastronomici italiani. Alcune tra le narrazioni più belle ed evocative raccolte appositamente per Giunti, da leggere a piccoli bocconi o tutte d’un fiato, per comprendere come dietro a un buon piatto o a un prodotto artigianale ci siano facce e storie significative e sempre appassionanti.

Se desiderate migliorare il vostro sapere sul vino ma non sapete da che parte cominciare; se non siete certi che quella che state bevendo sia un’ottima bottiglia o soltanto una bufala del marketing; se vi sentite intimiditi dal parere di sedicenti esperti… L’arte del vino è la bussola definitiva per orientarsi nel mondo dell’enologia, il vostro passe-partout per scegliere il meglio a colpo sicuro. Una guida prestigiosa, un testo approfondito e raffinato ma di facile consultazione, dove la scienza si sposa con una straordinaria carrellata di immagini (diagrammi, icone, mappe, ruote degli aromi…). Per imparare a pensare come un sommelier, degustare i migliori vini del mondo, bere in modo consapevole e fidarsi del proprio gusto.

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Articles inside

Tre libri Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo Confesso che ho mangiato – L’arte del vino

4min
pages 136-140

Tecnologie I 6 migliori metodi di picking per produttori e rivenditori di prodotti alimentari: l’ERP CSB-System li supporta tutti

8min
pages 132-135

Sono 180 grammi, lascio? Vino di lillà Giovanni Papalato

7min
pages 124-127

I vini di Premiata Degustazione: rossi invernali Laura Franchini

6min
pages 112-115

Dolci Gubana, mito friulano Giovanni Ballarini

10min
pages 118-123

Birra Dalla Terra alla Birra

5min
pages 116-117

Pasta Frègula, briciole di Sardegna Guidi Guidi

4min
pages 104-105

Vino Viticoltura eroica in Andorra Riccardo Lagorio

4min
pages 110-111

In difesa del re dell’altopiano: l’Asiago d’allevo stravecchio Chiara Papotti

4min
pages 102-103

Formaggio Formaggio Branzi, ventata di profumi alpini Roberto Villa

8min
pages 98-101

Io sono il foie gras Josette Baverez Blanco

4min
pages 92-93

La mortadella sovietica Nunzia Manicardi

3min
pages 90-91

La coppa cotta bieleisa Roberto Villa

2min
pages 82-83

Prodotti tipici Ciuìghe del Banale Chiara Papotti

3min
pages 76-77

Sapori dal mondo Salumi d’Andorra Riccardo Lagorio

4min
pages 88-89

Locali di gusto Truffl e Meat Experience Gaia Borghi

3min
pages 74-75

Salampatata Massimiliano Rella

5min
pages 78-81

Eventi Zampone e Cotechino Modena IGP: vince la scuola tedesca

5min
pages 70-73

La Qualità Lode al Prosciutto! Mara Antonaccio

7min
pages 66-69

Pastifi cio Il Pasteto Guido Guidi

6min
pages 52-55

Salumifi cio Verza, oro e salumi Gian Omar Bison

7min
pages 46-49

Marketing Villani Salumi, nuovo anno, nuovo percorso di marca

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pages 62-65

Aziende Zuarina è un’arte sartoriale Elena Benedetti

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pages 40-45

Record storico per l’Aceto Balsamico di Modena IGP

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pages 30-33

Il food in rete Social food Elena Benedetti

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pages 34-35

Poggio Diavolino, galline di razze antiche e uova colorate Massimiliano Rella

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pages 56-57

Rigamonti acquisisce il gruppo King’s

4min
pages 50-51
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