MEDIEVAL SOCIETY

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LA SOCIETÀ MEDIEVALE


Franco Cardini

LA SOCIETÀ MEDIEVALE


INDICE International copyright © 2012 Editoriale Jaca Book SpA, Milano tutti i diritti riservati all rights reserved Prima edizione italiana settembre 2012 In copertina Vergini stolte, abside della cappella di Castel D’Appiano, Val d’Adige Retro Scena di combattimento ripresa dalla Chanson de Roland, architrave del portale centrale della chiesa di Saint-Pierre ad Angoulême La scelta iconografica e le relative didascalie sono state curate dalla redazione Jaca Book La cartografia è di Daniela Blandino Copertina e grafica Ufficio grafico Jaca Book

ISBN 978-88-16-60466-7 Per informazioni sulle opere pubblicate e in programma ci si può rivolgere a Editoriale Jaca Book - Servizio Lettori Via G. Frua, 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520-29, fax 02/48193361 e-mail: serviziolettori@jacabook.it, sito internet: www.jacabook.it

I. CHE COS’È IL MEDIOEVO? Medioevo e medievalismo Breve storia di un revival La polemica sul medioevo Concetti e periodizzazioni

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II. LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE Dal nord e dall’est Invasioni, incursioni, migrazioni Il mondo dei «barbari» germani La convivenza

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III. LA CRISTIANIZZAZIONE I primi passi Le eresie Roma e le missioni Cristianizzare i germani Cristianizzare le campagne

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IV. UN MONDO DA RIORGANIZZARE (SECOLI VIII-X) Oratores, bellatores, laboratores. L’autobiografia immaginaria della società medievale L’economia curtense Signori e vassalli La riorganizzazione del mondo agricolo V. LA CHIESA La prima organizzazione Clero secolare, clero regolare Lo sviluppo del monachesimo occidentale

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Il papa e i vescovi Verso la Chiesa del secondo millennio

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VI. LE DONNE NELLA CHIESA E NELLA SOCIETÀ La «storia delle donne» Matrimonio e vita familiare Matilde Ildegarda Eleonora

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VII. L’IMPERATORE Carlomagno e Leone III Il Sacro Romano Impero La sacralità del potere Omaggi simbolici Verso l’impero moderno

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VIII. I RE La penisola iberica L’Inghilterra dai normanni ai Plantageneti La Francia a Bouvines Le monarchie nazionali

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IX. L’ARISTOCRAZIA La cavalleria Riti e costumi Gli Ordini militari Il castello

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X. I CONTADINI Schiavitù e servaggio L’organizzazione curtense

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La morte L’aldilà e la nascita del Purgatorio Penitenza e confessione

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XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA Verso il nord Verso l’est La conquista del Baltico L’espansione nel Mediterraneo Città di mare, cantieri, fondachi

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XX. NEMICI INTERNI E MARGINALI Gli eretici Una rivoluzione: gli Ordini mendicanti L’inquisizione I poveri, i mendicanti, gli ammalati

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XXI. LA SCOPERTA DELL’ASIA Le vie commerciali tra Asia ed Europa L’assalto mongolo La pax Mongolica Europei e cristianesimo in Asia

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XIV. CATTEDRALI E TORRI Un «manto di chiese bianche» Il gotico L’edilizia pubblica Le corporazioni di muratori

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XV. L’ISTRUZIONE E LE UNIVERSITÀ La cultura nei secoli altomedievali Dalla logica alla scolastica Le università fra diritto e teologia Le nuove scienze

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XXII. SCIENZA E MAGIA La rinascita magico-folklorica Necromanti, astrologi, alchimisti: la magia «colta» L’ermetismo L’offensiva antimagica La stregoneria

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XVI. IMMAGINARE Lo spazio La geografia Il tempo Desacralizzare lo spazio e il tempo La natura e il clima

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XXIII. LINGUE E LETTERATURA Il latino e i «volgari» L’amor cortese Annali, cronache, novelle, saghe, vitae La diffusione della letteratura cavalleresca in Italia …e in Germania

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XVII. FESTE E QUARESIME Il corpo L’amore Il Carnevale Teatro e rituali di inversione

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XXIV. LA NUOVA ARTE FIGURATIVA La rivoluzione di Giotto Arte sacra, arte profana Il XV secolo Il rinnovamento architettonico

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XVIII. NASCITA E MORTE L’infanzia

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XXV. LA CRISI DEL TRECENTO La fame La peste La guerra

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Miglioramenti: per chi? Verso la marginalità

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XI. LA STRADA La rete viaria Le fiere e i mercati Le vie di pellegrinaggio Le vie del mare

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XII. LA CITTÀ La rinascita urbana Il comune medievale La cultura «borghese» Città d’Europa Centri di produzione La «gente nova»

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XIII. LA SCOPERTA DELL’ALTRO Gli ebrei Bisanzio L’Islam Incontri e scontri: le crociate

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Le conseguenze economiche Riflessi culturali

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XXVI. VERSO IL RINASCIMENTO Una nuova era? La cultura umanistica L’età delle innovazioni

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Navi e cartografi Oltre il Mediterraneo

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI

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Capitolo I

CHE COS’È IL MEDIOEVO?

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MEDIOEVO E MEDIEVALISMO L’interesse per i dieci secoli che ordinariamente definiamo «medioevo» può orientarsi in due differenti dimensioni, non necessariamente opposte, ma spesso separate. Una è la «medievistica», vale a dire la scienza che studia il medioevo sotto il profilo storico, filologico, artistico, filosofico, religioso, letterario. L’altra è il «medievalismo», cioè il complesso di interessi e di atteggiamenti concretizzatisi fondamentalmente lungo il XIX secolo e tesi a rivivere, in modo talora ludico, talaltra nostalgico-evocativo, un «medioevo» largamente immaginario. Della parola «medioevo» da quasi tre secoli si usa e si abusa. Se, al di là della convenzione cronologica, dietro tale parola siano ormai discernibili valori per così dire specifici – da distinguersi da quelli, ad esempio, tipici del cosiddetto ancien régime, e perpetuatisi oltre gli schemi cronologici più consolidati in un cosiddetto «lungo medioevo», magari il «moyen-âge des profondeurs» proposto da Jacques Le Goff – è ancora oggetto di discussione. Sta di fatto che del termine in questione, che possiede uno statuto consolidato nel campo della ricerca specialistica sotto il profilo storico e filologico, oggi troppo spesso ci si serve per indicare un oggetto ambiguo e confuso, un «medioevo» arbitrariamente concepito e proposto, rispetto al quale si dovranno analizzare volta per volta intenzioni, metodi e materiali d’elaborazione, volontà di verosimiglianza storica, verosimiglianza effettiva. Comunque, la parola e i contenuti che le vengono attribuiti riempiono i nostri mass media e sembra facciano molto business. Insieme con le piramidi e i misteri dei faraoni, è il medioevo a tener banco e a occupare gli scaffali delle librerie e dei negozi di giocattoli, le vetrine delle edicole, gli schermi cinematografici e televisivi, e così via. Con le storie del Graal, con i libri sui segreti dei templari, con i romanzi di swords and sorcery; e per questo potrebbe sembrare che la sua cifra prevalente sia quella di un medioevo da iniziati, da esoteristi-occultisti. Accanto ad esso ve ne sono però altri: il medioevo anch’esso di largo successo veicolato nel romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, dove sono presenti toni satirici e polemici contro il medioevo dei «tradizionalisti» – quello largamente ispirato al «reazionarismo» d’un Borges da una parte, agli scritti di autori come René Guénon o Julius Evola dall’altra –; o quello reimmaginato in best sellers come quelli di Ken Follett o di Michael Crichton; e infine c’è il medioevo evocativo-popolare, legato a certe grandi feste e connesso con la ricerca romantico-nazionale dell’identità, delle radici, ma anche animato dal revivalismo ch’è un ingrediente dell’industria del turismo e dell’«industria della nostalgia», tipiche entrambe della società dei consumi, un medioevo che si volge semmai al collettivo, alla vita quotidiana, al tableau, come nelle feste assisane del Calendimaggio, nei giochi cavallereschi di Asti, di Ascoli Piceno, di Narni o di Foligno, nelle «ricostruzioni» di momenti e ambienti «medievali» in Bevagna, nelle feste di Brisighella o di Città del Sole, nelle rievocazioni storiche dell’età matildina in provincia di Parma o della battaglia contro il Barbarossa a Legnano, nella

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1. Francesco Azzurri, Studio per l’atrio del Palazzo Pubblico di San Marino, prospettiva in acquerello su carta, s.d. (1883?). Archivio di Stato, Repubblica di San Marino. 2. Francesco Azzurri (attribuito a), Prospettiva d’insieme del primo progetto del Palazzo Pubblico di San Marino, acquerello e china diluita su carta, aprile 1883). Archivio di Stato, Repubblica di San Marino.

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I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

«Settimana medievale» in San Marino e in tantissime altre (lasciando da parte il palio di Siena, che ha una complessa storia a parte e la medievalizzazione del quale è cosa recente).

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3. Johann Heinrich, Strawberry Hill, Twickenham, veduta da sud, 1755-1759 circa. 4. Humphrey Repton, esempio di trasformazione paesaggistica tratto da uno dei suoi Red Books. Repton, con i suoi progetti di landscape gardening, fu uno degli interpreti della concezione e della sensibilità di Horace Walpole.

BREVE STORIA DI UN REVIVAL Ma questa passione, o questa «moda», del medioevo, non è cosa nuova. La storia dei revival medievali sette-otto-novecenteschi, ossia del «medievalismo», è essenzialmente una «storia del gusto», per riprendere l’espressione che sottotitolava l’edizione italiana del celebre e pioneristico lavoro di Kenneth Clark sul revival gotico. Il che non vuole escludere evidentemente la presenza di fattori sociali nella determinazione del gusto: ma sempre tenendo presente il fatto che l’affermazione e la variazione nelle mode seguono spesso logiche culturali e, appunto, di gusto, solo in parte direttamente e deterministicamente collegabili agli svolgimenti politico-sociali coevi. È consuetudine datare l’inizio del revival gotico agli anni Cinquanta del Settecento, con la costruzione nelle campagne inglesi di Twickenham, non lontano da Londra, della residenza di Strawberry Hill, voluta da Horace Walpole. Per ideare il design della sua abitazione, Walpole diede vita a un «Committee of Taste», un «Comitato del gusto», da lui presieduto, che studiando libri e stampe avrebbe dovuto indirizzare i lavori. I risultati ottenuti furono ampiamente immaginifici, dovendo al rococò e allo stile georgiano almeno quanto dovevano al gotico originario; rispetto a quest’ultimo, soprattutto, colpisce la mancanza del riconoscimento dell’arco a sesto acuto (il pointed arch) quale elemento architettonico e non decorativo. Ad esso si ricorreva invece essenzialmente, nella costruzione degli interni di Strawberry Hill, proprio con funzioni di arredo, costruendo archi gotici per i quali si impiegavano materiali, quali il legno e lo stucco, che erano un controsenso rispetto alla funzione originaria. A partire dal 1760 diversi architetti, più o meno professionisti, ripresero le idee di Walpole e le applicarono alla costruzione e alla ristrutturazione di molti edifici di campagna.

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Ma è necessario arrivare a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo per avere una decisa variazione di stile nell’architettura neogotica, con la costruzione dell’abbazia di Fonthill, portata a termine fra 1796 e 1812 dall’architetto James Wyatt nel Wiltshire per l’eccentrico miliardario William Beckford, il quale inizialmente avrebbe voluto costruire solo finte rovine di un’abbazia gotica. Ma l’opera di Wyatt andò oltre, dando vita a un intero edificio sovrastato da un’immensa torre, che tuttavia crollò pochi anni più tardi, rovinandovi sopra: le strutture architettoniche del gotico evidentemente non erano così facili da padroneggiare. In ogni caso Wyatt proseguì nell’applicare le sue teorie, dedicandosi soprattutto a restauri molto invasivi di cattedrali, come quella di Salisbury, della fine del Settecento: l’architetto inglese interpretava il suo intervento sugli interni come mirante a ripulire e colorare le vecchie strutture gotiche medievali. Per quanto l’intento di Wyatt suoni come quanto di meno filologico si possa immaginare, è soprattutto a lui che si deve l’aver introdotto un gusto per il gotico non più rivolto solo a una superficiale decorazione, come nel caso di Strawberry Hill, cioè a un revival di dettaglio, ma a reinventare il gotico nella sua monumentalità. La strada era quindi aperta alla costruzione di chiese del tutto nuove, realizzate secondo quel gusto: nel giro di pochi decenni, a partire dall’inizio dell’Ottocento e grazie al Church Building Act, nella sola Inghilterra ne furono costruite oltre duecento. È opinione comune che questa evoluzione del neogotico in architet-

5. John Constable, La cattedrale di Salisbury dal giardino del vescovo, olio su tela, 1826, The Frick Collection, New York. 6. Veduta dell’interno di Fonthill Abbey, costruita da James Wyatt, 1795-1807.

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I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

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7. I Cloisters, veduta dell’interno. The Cloisters Museum and Gardens, The Metropolitan Museum of Art, New York.

8, 9. Augustus Welby Northmore Pugin, Contrasti: un confronto tra i nobili edifici del XIV e XV secolo e gli edifici odierni, che mostra il decadimento del gusto del tempo presente, pubblicato a Londra nel 1836.

I. CHE COS’È IL MEDIOEVO? 11

tura trovi il suo controcanto letterario nella linea che conduce dal Castello di Otranto del «solito» Walpole sino al romanzo storico di Walter Scott; ossia da una interpretazione del tutto fantasiosa e priva di ricerche sull’argomento a una scrittura più accurata e attenta alla realtà storica. Al passaggio fra i due secoli i rapporti culturali fra l’Inghilterra e il continente nordamericano erano, al di là delle vicende politiche, particolarmente stretti. L’interesse per il gotico, tanto in letteratura quanto e soprattutto sotto il profilo architettonico, si insinuò facilmente nelle ex colonie, anche se non si può dire che ebbe nella società e nella cultura americane un effetto dirompente. Certo, la produzione letteraria a cavallo fra i due secoli mostra un chiaro interesse per il gusto del gotico, ma l’architettura era probabilmente diffidente rispetto a una tradizione che si avvertiva come profondamente europea e legata a una cultura qual era – o si immaginava che fosse – quella medievale: papista, superstiziosa, non libera. Ma ben presto l’influenza inglese si fece più pervasiva, grazie anche al crescente numero di viaggiatori americani in Europa e al successo dei romanzi di Walter Scott, nei quali peraltro si proponeva non più un medioevo di austerità e angoscia, ma di eroismo e cavalleria. La figura del cavaliere, intesa in modo profondamente antistorico, quale campione solitario e individualista, poteva essere accostato all’uomo nuovo americano, al pioniere, all’eroe della frontiera dei romanzi di Cooper. Da qui prende spunto un’operazione come quella della complessa vicenda del trasferimento e della ricostruzione d’un monastero spagnolo sulle rive dello Hudson, presso New York (i Cloisters), o l’ispirazione «medievistica» di gran parte dell’architettura statunitense e canadese contemporanee.

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10. Medaglione aureo raffigurante il busto di Teodorico. Museo Nazionale Romano, Roma. 11. Domenico Ghirlandaio, particolare di uno degli affreschi della cappella Sassetti raffigurante, al centro, Lorenzo il Magnifico, 1482-1485. Santa Trinita, Firenze.

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LA POLEMICA SUL MEDIOEVO Ma che cos’è, insomma, questo «medioevo» che riempie la fantasia e accende tante discussioni? Come spesso accade, la migliore risposta da dare per definire una cosa consiste nel far la storia della parola. Molti lo hanno già fatto: a partire da un grande medievista italiano, Giorgio Falco, il cui libro La polemica sul medioevo è un «classico» che, pubblicato nel 1933, ancor oggi si legge con gioia pari al profitto. Una delle ragioni non ultime della complessità e della confusione su cui si basa questa plurisecolare polemica sta nel fatto che il cosiddetto «medioevo» abbraccia un intero millennio, dalla caduta dell’impero romano d’Occidente (476) alla scoperta dell’America (1492). Un millennio nel quale sono accadute troppe cose: è mai possibile che due personaggi come il goto Teodorico e Lorenzo il Magnifico vengano accomunati dal fatto di poter essere definiti entrambi «medievali»? E allora, è possibile e opportuno parlare di un «uomo medievale», di una «società medievale», di una «cultura medievale» e così via, come se fossero qualcosa di compatto e di coerente? La risposta è ovviamente negativa. Anzi, perfino la convenzionale parola «medioevo» è un rebus insensato. Chi l’ha inventata, più che una definizione, ha inteso dare una non-definizione. Medio evo: età di mezzo, periodo di transizione fra le sole età che contano, l’antica e la moderna. La parola fu inventata dagli umanisti del Quattrocento, i quali svilupparono l’idea già petrarchesca (e che del resto aveva illustri precedenti antichi) della decadenza della civiltà, fino a giungere alla conclusione – per allora nuova e rivelatrice – che il mondo della grande cultura, l’acme della quale era stato segnato dall’impero romano e dalla nascita del Cristo, era finito: e la coscienza


I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

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12. Scena rappresentante Creusa che impedisce a Enea di tornare a combattere, e Ascanio e Anchise, IV-V secolo. Da Virgilio, Opere, Vat. Lat. 3225, pergamena, fol. 75, Biblioteca Apostolica Vaticana. 13. Rappresentazione di Virgilio, VI secolo. Dal Virgilio Romano, Vat. Lat. 3867, Biblioteca Apostolica Vaticana.

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della rottura rispetto all’età antica e della necessità di risalire la china della decadenza sino a far rivivere in forme nuove l’antico splendore (quel che sarebbe stato chiamato più tardi «Rinascimento») li condusse a trattare i lunghi secoli «di mezzo» come media aetas, media tempestas, media tempora. Premessa indispensabile per comprendere il culto umanistico dell’antichità è la considerazione che esso si accompagnava alla coscienza della fine del mondo antico e quindi dell’estraneità di esso rispetto alla società loro contemporanea. Di tale presunta rottura fra antichità e mondo medievale non si era avuta coscienza fino al Trecento. E la cosa, per quanto strana possa sembrarci, era invece del tutto logica. Nel V secolo, in effetti, l’impero romano continuava, un imperatore successore di Augusto regnava a Costantinopoli, dappertutto si seguiva la Chiesa cristiana nata nell’impero di Costantino e si scriveva e si studiava usando la lingua di Roma, il latino. Per tutto il periodo che definiamo medioevo, gli europei avevano vissuto sentendosi legati agli ideali di Chiesa e d’impero e utilizzando nelle loro scuole e nelle loro università, accanto alla Bibbia, anche autori latini come Ovidio, Lucano, Stazio. L’eredità romana era usata nel suo complesso, senza interessarsi troppo a distinzioni cronologiche, stilistiche o filosofiche: il concetto dominan-

te era che gli antichi, proprio per la preziosità del retaggio tramandato, erano auctoritates; e Dio stesso, che aveva parlato al genere umano privilegiando il popolo di Israele, aveva tuttavia comunicato le Sue verità in modo misterioso anche agli antichi. In questo modo, i miti come quelli di Orfeo o di Dioniso divenivano figure anticipatrici del Cristo, e si poteva trattare Virgilio – che nella IV ecloga aveva parlato di un Fanciullo che sarebbe stato partorito da una Vergine all’inizio di una nuova era – come un profeta al pari di quelli biblici. La sensazione che in realtà l’età antica fosse terminata si fece strada, nei ceti colti d’Italia, durante il XIV secolo. Roma era stata abbandonata dai papi, l’impero romano-germanico si andava avviando a diventare un regno tedesco, quello bizantino era ormai divenuto un piccolo regno greco minacciato dai turchi. I pellegrini che si recavano a Roma vedevano anzitutto le reliquie delle antiche età. La bellezza, ma anche la differenza di quei monumenti rispetto a quelli costruiti dai «moderni» (come le genti del Trecento prendevano a definire se stesse) stupivano, e inducevano a tentare di riprodurli. Intanto, anche gli intellettuali laici che venivano impiegati nelle cancellerie degli Stati per redigere lettere in bello stile, si ponevano sempre di più il problema della lingua latina come «lingua d’arte» e quindi della sua riproduzione in termini stilistici, il che imponeva la scelta di modelli. D’altron-

14. Rappresentazione di Orfeo in un mosaico pavimentale del battistero di Aquileia. Nel passaggio ad ambienti cristiani l’iconografia di Orfeo subisce trasformazioni fino a diventare la rappresentazione del Buon Pastore. 15. Orfeo con strumento a corde, abbigliato alla trace e circondato da animali, rappresentato in un mosaico pavimentale di una sepoltura, probabilmente risalente al VI secolo.

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I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

I. CHE COS’È IL MEDIOEVO?

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16. Fibula ad arco dalla necropoli di Nocera Umbra, VI-VIII secolo. Museo dell’Alto Medioevo, Roma.

de, le lotte tra città e tra fazioni, consuete nell’Italia del Trecento, venivano rilette alla luce delle storie romane dei tempi di Mario e Silla e di Cesare e Pompeo. Insomma, la coscienza della rottura rispetto all’antichità comportava una volontà di restaurazione degli ideali di bellezza, di libertà, di razionalità che erano identificati con la Roma del periodo sentito come il migliore della sua lunga storia. Durante il Cinquecento, eruditi e polemisti tanto cattolici quanto protestanti – il cardinale Baronio e i «Centuriatori di Magdeburgo», ad esempio – continuarono a litigare ferocemente sul medesimo presupposto: accettando entrambi che i secoli successivi alla caduta dell’impero romano erano stati lunghi tempi di barbarie e d’ignoranza, si rinfacciavano reciprocamente la responsabilità di tale decadenza, che per i cattolici era da addebitarsi a quei popoli nordici dai quali sarebbe poi partita anche l’altra sciagura, la Riforma, mentre per i protestanti causa di tutto era la corruzione della sede pontificia. Nel Settecento illuministico, «medioevo» divenne sinonimo di ogni sorta di superstizione, di fanatismo e d’ignoranza; nell’Ottocento romantico, al contrario, si vollero invece vedervi fede, bellezza, spontaneità naturale, gioia di vivere. Ecco in che senso, in fondo, quando continuamo a polemizzare su queste cose, e usando ancora queste vecchie astrazioni, restiamo un po’ tutti figli di Voltaire o di Novalis. CONCETTI E PERIODIZZAZIONI Le pagine che seguono hanno lo scopo di delineare un concetto possibile di medioevo, partendo non da rigide cronologie, ma da aree tematiche che servono a definire, per quanto possibile, i diversi modi di pensare e di sentire di un’epoca, i differenti quadri istituzionali che si sono succeduti, le persistenze così come gli elementi di discontinuità e, talvolta, di vera e propria rottura rispetto al passato. Una triplice premessa è però necessaria: in primo luogo, si deve ricordare che la

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categoria «medioevo» appartiene esclusivamente alla storia dell’Occidente euromediterraneo e solo in senso metaforico e traslato la si può adattare a differenti contesti geostorici. Inoltre, essa non corrisponde tanto a un dato storicamente obiettivo, quanto a una o a una serie di scelte culturali; quindi non ha una sua effettiva unità, ma varia col variare degli atteggiamenti storiografici e ideologici di chi la considera. Infine, non esiste possibilità seriamente reale di trattare alla stessa maniera tutto il medioevo, periodo che – nel comune modo d’intenderlo – è lunghissimo, dal momento che abbraccia i secoli compresi fra il IV-VIII e il XIVXVI (ma altre proposte, magari meno note, ne anticipano il convenzionale inizio al II-III secolo e lo fanno giungere al XVIII). In questo lungo periodo – circa un millennio, poco più, poco meno, secondo la visione «classica»; dai sette ai quindici secoli, stando ad altre – istituzioni, strutture, condizioni di vita, assetti territoriali, modi di considerare il mondo ecc. sono mutati profondamente in tutta l’Europa: è quindi molto difficile (e anche molto pericoloso) poter parlare di qualcosa come di assolutamente «medievale». Si rischia di generalizzare concetti e problemi che nella realtà delle cose appartengono non a tutto il medioevo, bensì solo a una fase di esso, a uno specifico aspetto del suo corso dinamico, a un modo di concepirlo.

17. Piero della Francesca, Flagellazione, metà XV secolo. Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.

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Capitolo II

LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE Sassoni

SASSONI

REGNO DEI

(5 50 )

Regni romanogermanici nel 526 d.C.

Goti

Mare del Nord

REGNI ANGLO-

(4 5 0 )

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Bavari

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Alamanni

Anglosassoni

(4 5 0 )

Svevi (170)

1-421) V (41 an

(411)

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Svevi (411) e Alani ali

Orléans (451) Visigoti (419-507) Tolosa

Visigoti (415-418)

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Massima espansione dell’Impero romano

Vandali Burgundi

Romani

(45

VANDALI

Alani (400)

Vandali (400)

Ostrogoti (454)

Svevi (200-405) Vandali

Svevi Burgundi (443)

(413-436)

Arles 3) (412-41 Narbona (414)

) (375

Danubio

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Visigoti (270-375)

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Burgundi (150-250)

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REGNO DEI

IMPERO D’ORIENTE

REGNO DEGLI OSTROGOTI

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(429)

IMPERO D’ORIENTE (410)

Vandali (435-554)

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M e d i t e r r a n e o 2

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DAL NORD E DALL’EST Il latino barbarus, esemplificato sul greco barbaros, indica gli stranieri, ma contiene una sfumatura canzonatoria, in quanto sembra riferirsi in modo onomatopeico alla difficoltà con cui gli stranieri parlavano greco (o latino). Per i romani, fino al II-III secolo i «barbari» per eccellenza erano stati i persiani e gli sciti, ai quali si attribuivano connotati di ferocia e di dedizione a oscuri culti magici. Ma già Cesare era entrato in contatto con altri barbari, i germani e i celti, fornendone un quadro ispirato almeno in parte a comprensione e perfino a simpatia;

1. Scene della guerra contro i daci, particolare della Colonna Traiana, 113 circa. Foro di Traiano, Roma. 2. Stirpi germaniche, migrazioni e insediamenti, V-VIII secolo.

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II. LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE

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3. Il martello, simbolo del dio Thor. Rilievo da una incisione rupestre. 4. Il dio Thor con il martello che rappresenta la folgore; disegno di statuetta in bronzo del X secolo. Nationalmuseet, Copenaghen.

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II. LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE

così come aveva fatto Tacito, che nel suo libro Germania aveva a più riprese lodato i germani per le loro doti di coraggio e di sobrietà e severità nei costumi, contrapponendoli ai romani a suo avviso ormai corrotti. Con il II secolo d.C. nuovi popoli germanici si erano affacciati agli orizzonti dell’impero romano, con lo scopo d’infiltrarvisi; la loro spinta divenne più intensa nei due secoli successivi. Verso la metà del IV secolo la pressione delle popolazioni germaniche contro il limes, nell’area del Reno e del Danubio, era diventata molto forte: incalzati da un popolo uralo-altaico, gli unni, proveniente dalla steppa (e identificabile con gli Hsiung-Nu, che secondo le fonti cinesi avevano insidiato circa un secolo prima la Grande Muraglia), cercavano uno spazio che l’impero non era disposto più a concedere. Si trattava di gruppi che ci sono noti con i nomi di alamanni, svevi, burgundi, franchi, vandali, ostrogoti, visigoti. A gruppi più o meno consistenti, i barbari entrarono nel territorio dell’impero romano, in genere come ausiliari dell’esercito, ottenendo sovente in cambio delle loro prestazioni il diritto d’insediarsi su certe terre e di lavorarle, trasformandosi così da pastori e cacciatori nomadi o seminomadi in agricoltori e contribuendo almeno in parte a rimediare allo spopolamento delle campagne in crisi. Non si deve tuttavia pensare al mondo germanico come a un insieme compatto e omogeneo. Dovevano esservi profonde differenze tra le diverse tribù, anche perché era forte l’influenza esercitata da altre culture: la greca, la latina, quelle slave, celtiche, ugro-finniche, scito-sarmatiche. INVASIONI, INCURSIONI, MIGRAZIONI Quelle che a lungo sono state chiamate «invasioni barbariche», e che più giustamente la storiografia tedesca ha definito Völkerwanderungen («migrazioni di popoli»), si configurano quindi come un movimento di vasta portata e di lunga durata, il cui epicentro si può grosso modo localizzare nelle steppe dell’Asia centrale. Nel 410 i visigoti di Alarico giunsero a occupare e a saccheggiare Roma, mentre l’imperatore Onorio restava chiuso al sicuro nella città che fin dal 402 aveva scelto come sua capitale: Ravenna. Il saccheggio di Roma da parte di Alarico non fu un episodio in sé troppo drammatico: vi furono sì violenze, ma il re visigoto era cristiano e rese omaggio ai sepolcri degli apostoli ribadendo il timoroso rispetto che queste genti provavano dinanzi al nome e al prestigio del caput mundi. Tuttavia l’impressione fu tale che l’episodio ispirò sant’Agostino, che intraprese la stesura della sua opera più vasta, il De civitate Dei, partendo proprio dalla domanda relativa alle ragioni per le quali Dio aveva potuto permettere un fatto così inaudito e terribile come la profanazione dell’Urbe. Pacificati comunque con l’impero, che non avevano alcuna intenzione di combattere e tanto meno di rovesciare, i visigoti ebbero il riconoscimento imperiale per il loro insediamento nella Gallia meridionale e in Spagna. Intanto altre popolazioni germaniche si dislocavano in tutta l’area della pars Occidentis dell’impero, fondando le basi etnogeografiche della nostra Europa sudoccidentale: i burgundi nell’attuale Borgogna, gli alamanni nel medio corso renano, i vandali nella Spagna meridionale da dove poi sarebbero passati in Africa, gli angli e i sassoni in quella Britannia che da essi avrebbe assunto il nome di Inghilterra. A loro volta, alla metà del V secolo, gli unni stessi, dopo una sosta nella penisola balcanica e un’incursione in Gallia, si presentarono in Italia. Li guidava un loro capo che la nostra tradizione conosce col nome di Attila (400 ca.-453) e la cui

5. Stele funeraria del VII secolo d.C. Il bassorilievo rappresenta Odhinn (Odino) a cavallo con scudo e lancia. 6. Raffigurazione contemporanea dell’albero Yggdrasill. Si notano l’aquila tra i folti rami, lo scoiattolo che scende, i quattro cervi che mordono le foglie, le radici che vanno in tre direzioni.

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ferocia è diventata leggendaria: ma che era anche uomo di capacità militari e politiche e di cultura non comuni; a lungo in contatto con la corte di Costantinopoli, parlava bene il greco ed era in realtà a capo non solo degli unni, bensì di una federazione di genti germaniche, nordiraniche e slave. Egli marciò decisamente su Roma, senza che l’imperatore Valentiniano III (419-455), del quale pretese in sposa la sorella Onoria, sapesse fermarlo: il generale imperiale e tutore «barbaro» dell’impero, l’illirico Ezio, che aveva a lungo avuto dei mercenari unni ai suoi ordini e li conosceva bene, lo batté nel 451 ai Campi Catalaunici presso Châlons-sur-Marne, ma ottenne solo ch’egli ripiegasse verso l’Italia. Tuttavia, nel 452, Attila inspiegabilmente si arrestò sul fiume Mincio, mentre stava puntando su Roma, e tornò verso la Pannonia. È probabile che temesse una reazione degli eserciti imperiali d’Oriente: ma, secondo la tradizione, fu papa Leone I che mosse a incontrarlo e lo dissuase dal profanare quella che ormai era diventata anche la capitale della Cristianità occidentale. Se il pagano Attila non aveva osato profanare la cinta muraria di Roma, la re-

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II. LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE

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verenza non fermò in cambio, nel 455, il cristiano (ma, come molti germani, di confessione ariana) Genserico, re dei vandali, che piombò su di essa con le sue navi. Il secondo «sacco di Roma», più drammatico di quello di Alarico, fu almeno formalmente motivato dall’indignazione di Genserico alla notizia che l’imperatore Valentiniano III era stato eliminato e sostituito dall’usurpatore Petronio Massimo, un funzionario intrigante che l’anno prima aveva istigato il suo sovrano a uccidere con le proprie mani il generale Ezio.

7. Busto dell’imperatore Onorio (384-423).

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IL MONDO DEI «BARBARI» GERMANI La nostra conoscenza della mitologia e della religiosità germaniche presenta numerose lacune, dovute alla carenza di fonti: i rilievi archeologici, le rune e i poemi sono spesso di difficile interpretazione, mentre le testimonianze lasciate dagli osservatori latini e greci, oltre a esser tarde, sono scarsamente obiettive, perché gli autori trovavano difficoltà nel comprendere a fondo realtà culturali tanto diverse dalle loro. In linea generale, si può dire che i culti germanici principali ruotavano attorno a un nucleo di divinità e ad alcuni miti fondamentali: il dio Thor, il cui attributo è un’arma da lancio (il «martello») assimilabile al fulmine, appare come il destinatario di un culto solare e celeste; più difficile comprendere la natura di Odhinn/Wotan, divinità dai caratteri sciamanici che presiede alla magia (si trasforma in animale, legge nel futuro, compone carmina di morte e di sventura), ai caratteri magici (le «rune»), alla poesia, al diritto e alla guerra. Essi sono entrambi ascrivibili all’universo degli Asi uranici, anche se la complessità di Odhinn/Wotan sembra conferirgli caratteri ctoni: difatti egli guida l’esercito infero dei guerrieri morti in battaglia. Ai Vani, come Nerthus/Njordhr e Freyer/ Freyja, appartengono invece gli dei e le dee connessi con il culto della TerraMadre e della fecondità: essi formano il nucleo dispensatore di ricchezze, di pace e della fecondità del mare e della terra. Nel I secolo Tacito affermava che i germani non conoscevano una vera casta sacerdotale né un’organizzazione di santuari e di luoghi sacri (Germania, IX). Afferma inoltre che i germani non rappresentavano le loro divinità in sembianze antropomorfe: il che non è del tutto esatto, anche se effettivamente il dato più evidente della loro religiosità era il prevalere, almeno in apparenza, del culto di elementi «naturali». Gli alberi e i boschi sembrano aver avuto davvero un ruolo centrale nei miti e nei riti dei popoli germanici. Sempre secondo Tacito, ad esempio, al tempo del loro insediamento presso le foci del fiume Elba, uno dei popoli che tra essi ci è più noto, i longobardi, apparteneva a una confederazione di genti devote alla dea Nerthus: il rito in suo onore aveva luogo in un’isola sulla quale si stendeva un bosco sacro. La dea discendeva dal cielo su un carro trainato da giovenche e compiva un tragitto durante il quale i fedeli le rendevano omaggio; infine, a conclusione della cerimonia, ogni cosa veniva purificata nelle acque rigeneratrici di un lago consacrato. Di un bosco sacro parla molti secoli più tardi (siamo nell’XI) anche il cronista Adamo da Brema: nella penisola scandinava i pagani dell’area di Uppsala, nell’attuale Svezia, sacrificavano uomini e animali impiccandoli ai rami degli alberi di un bosco sacro. Il rito è probabilmente riferibile a Odhinn/Wotan, la cui iniziazione al potere delle sacre «rune», secondo lo Havamal, uno dei canti

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a carattere epico-magico che fa parte della raccolta chiamata Edda (composta nel XIII secolo in norreno, la lingua dei coloni norvegesi in Islanda, ch’erano già cristiani, ma che tuttavia è testimonianza dei miti dell’età pagana), avviene proprio attraverso una lunga sospensione a un albero sacro, l’Yggdrasill, il «Frassino del Mondo». Questa somiglianza formale tra l’iniziazione di Odhinn/ Wotan e la crocifissione di Gesù venne utilizzata dai missionari cristiani che tra VIII e X secolo convertirono i popoli germanici dell’Europa centro-orientale e settentrionale (mentre quelli delle aree meridionale e occidentale del continente erano già stati convertiti fra IV e VI-VII secolo). D’altra parte, uno dei principali temi cosmogonici che il mondo germano-scandinavo ha conosciuto ruota proprio attorno al sacro albero Yggdrasill, presso altre genti germaniche noto anche come Irminsul (la «Colonna del Cielo»): è l’Albero Primordiale (un frassino o un tasso), nato dalla terra, nutrito dalle acque e proteso verso il sole o la cima del mondo. In quanto Asse del Mondo, l’Albero Sacro mantiene la stabilità del cosmo e ne giustifica e garantisce l’ordine. Nella tradizione germanica l’ordine cosmico sarebbe stato sconvolto alla

8. Raffaello Sanzio, Incontro di Leone Magno con Attila, affresco, 1513-1514. Stanza di Eliodoro, Musei Vaticani.

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II. LA «CADUTA SENZA RUMORE» DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE

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fine dei tempi, nel Ragnarök, in una battaglia finale in cui gli dei Asi sarebbero caduti e il cosmo sarebbe stato inghiottito dal lupo Fenrir. Anche quest’analogia con l’Apocalisse cristiana fu sfruttata dai missionari. Dal punto di vista sociale, il nucleo base delle popolazioni germaniche era quello che riuniva più famiglie collegate da rapporti di parentela (Sippe); non esisteva in genere la proprietà privata, e i beni immobili erano gestiti comunitariamente. Ogni gruppo di Sippen, identificatosi con un’area territoriale (gau, o pagus), si riconosceva in una superiore entità che i romani chiamavamo civitas e si potrebbe definire «popolo». Ciascun popolo aveva i suoi uomini liberi, contraddistinti dal diritto di portare le armi e detti arimanni. Erano essi (e segnatamente, fra loro, la nobiltà di sangue, gli adelingi) che in caso di guerra eleggevano un re. Al di sotto degli arimanni stavano i semiliberi o aldii, e infine gli schiavi. 9

9. Solido con l’effigie di Odoacre. 10. Veduta esterna del mausoleo di Teodorico, Ravenna.

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LA CONVIVENZA Fu ancora un barbaro ch’era al tempo stesso capo mercenario nell’armata romana, l’erulo Odoacre, che nel 476 pose fine all’impero d’Occidente deponendo ed esiliando il giovanissimo imperatore Romolo, ultimo imperatore della pars Occidentis. Odoacre, rompendo la consuetudine della nomina di sovrani-fantoccio, inviò le insegne imperiali all’augusto della pars Orientis, Zenone (426 ca.-491), accompagnandole con il messaggio che un solo imperatore bastava per tutto l’impero. Il sovrano rispose conferendo a Odoacre il titolo di patricius, grazie al quale egli poté governare come un funzionario pubblico l’Italia fino al 493, allorché venne battuto e ucciso da un altro capo barbarico, l’ostrogoto Teodorico. I goti avevano fatto in un certo senso da battistrada a ulteriori migrazioni di popoli. Alla metà del V secolo, essi erano subordinati agli unni e insediati nella pianura pannonica (grosso modo l’odierna Ungheria). In seguito divennero foederati dell’impero d’Oriente e come tali si insediarono in Macedonia; ma il governo di Costantinopoli, che preferiva non averli ai suoi confini, li incoraggiò a indirizzarsi sull’Italia conferendo al loro re Teodorico (454 ca.-526) il titolo di patricius. Vinto e ucciso Odoacre, Teodorico, risiedendo nella capitale Ravenna, inaugurò una politica sotto molti aspetti originale di convivenza tra goti e romani, basata sulla distinzione dei compiti, ma attenta a evitare soperchierie e quindi attriti. Teodorico era, istituzionalmente parlando, l’unico goto ad avere, come patricius, la cittadinanza romana; per il resto, goti e romani convivevano in un regime di separazione giuridica. I primi, che istituzionalmente erano foederati dell’impero, si occupavano solo delle cose militari; i secondi solo di quelle civili. Il fatto che i goti fossero ariani mentre i «latini» (come sempre più spesso venivano definiti dalla loro lingua ufficiale) seguaci della Chiesa che aveva accettato il concilio di Nicea favorì lo sviluppo della vita parallela delle comunità, ciascuna delle quali aveva i suoi edifici di culto, il suo clero e la sua liturgia. A questa saggia ed equilibrata politica interna, Teodorico accompagnava un estremo dinamismo nei rapporti con gli altri regni romano-barbarici: si alleò, anche con una costante politica matrimoniale, con visigoti di Spagna, franchi di Gallia, burgundi. Insomma, la sua azione prese gradualmente a configurare una sorta di soluzione federativa germanica dell’Occidente. Ma egli non dimenticava la veneranda tradizione di Roma, dalla quale si sentiva affascinato. E da funzionario e alleato di Roma si comportava: rivide la legislazione, abbellì la

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sua capitale Ravenna di sontuosi monumenti, affidò la cancelleria a una serie di brillanti intellettuali romani quali Cassiodoro, Boezio, Simmaco. La politica teodoriciana, comunque, fallì a causa sia degli intrighi del governo imperiale romano, che negli anni Venti del VI secolo aveva cominciato a guardare con rinnovato interesse alla pars Occidentis e a seminare quindi discordia fra goti e latini, sia dell’intransigenza di molti capi goti, che avrebbero preferito ridurre i latini in schiavitù piuttosto che rispettarne le proprietà e le consuetudini. Alla morte di Teodorico (526) si scatenarono le lotte per la successione dinastica e non ci fu quindi nessuno in grado di opporsi a una riconquista romano-orientale dell’Italia. Al termine di una lunga guerra detta Greco-gotica (535-553), che segnò uno dei momenti più tragici nella vita della penisola, l’Italia cadde sotto il controllo di Costantinopoli. Vi sarebbe rimasta (almeno nella sua maggioranza) ben poco, visto che nel 568 i longobardi ne avviarono la conquista.

11. Veduta interna di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.

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Capitolo III

LA CRISTIANIZZAZIONE 3

I PRIMI PASSI Le comunità dei credenti nel Cristo (le ekklesiai: le «Chiese») si erano formate liberamente, luogo per luogo, man mano che l’evangelizzazione procedeva. La loro struttura iniziale era molto semplice: i fedeli si riunivano attorno ai presbyteroi (letteralmente, in greco, «i più anziani») ai quali spettava l’insegnamento delle Sacre Scritture, in particolare dei Vangeli, e la celebrazione memoriale della «Santa Cena» in ricordo di quanto Gesù aveva fatto insieme con gli apostoli. La traduzione in latino della Bibbia, essenziale nell’opera di diffusione della nuova fede, fu avviata varie volte: ci restano frammenti di una redazione «africana» (II secolo d.C.) e di una «italica» (II-III secolo). Infine san Gerolamo (347-420 ca.), recatosi appositamente in Terrasanta, redasse fra 385 e 405 una traduzione originale, dall’ebraico per l’Antico Testamento e dal greco per il Nuovo: essa è nota con l’aggettivo di Vulgata. Al II-III secolo sono datate anche le prime esperienze archeologicamente sicure di domus ecclesiae, cioè in genere di case private adattate alle riunioni e al culto. A partire dai primi del IV secolo, com’è testimoniato da Eusebio di Cesarea, 265 ca.-339 ca.), si cominciò ad adattare al culto cristiano il tipo di edificio pubblico romano denominato «basilica». Già nel corso del III secolo, man mano che le Chiese cristiane si affermavano e si diffondevano, oltre alle polemiche con le comunità ebraiche, ne nascevano anche alcune con i pensatori pagani, soprattutto neoplatonici. Pur nelle polemiche, la nuova fede andava del resto accogliendo molte istanze filosofiche ed etiche specie dal neoplatonismo e dallo stoicismo; conosciamo una folta letteratura pagana anticristiana (Porfirio, Celso, Giuliano) e una cristiana antipagana detta «apologetica» (fra i principali apologisti vanno ricordati Origene, Clemente Alessandrino, Minucio Felice, Lattanzio, san Gerolamo), ma in entrambe i motivi di dialogo e le constatazioni di affinità sono comuni e costanti: il filosofo Giustino, che pure fu martirizzato nel 165, aveva avviato un discorso rigoroso sulla possibilità di conciliazione fra cristianesimo e neoplatonismo. Origene e più tardi Gerolamo elaborarono anzi un originale sistema di pensiero, secondo

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1. Veduta della navatella sinistra verso est della chiesa di Santa Sabina, Roma. 2. Immagine di basilica con l’iscrizione ECCLESIA MATER, «la Madre Chiesa», dal mosaico di una tomba cristiana del V secolo di Tabarka, Tunisia.

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III. LA CRISTIANIZZAZIONE

III. LA CRISTIANIZZAZIONE

Pagina precedente: 3. Antonello da Messina, Penitenza di san Gerolamo. Museo della Magna Grecia, Reggio Calabria. 4. Eusebio di Cesarea, particolare di una miniatura di una Vita di santi del XII secolo. Bibliothèque Municipale, Troyes.

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5. L’imperatore Costantino e sua madre Elena, mosaico dell’XI secolo. Monastero di Hosios Loukas, Focide, Grecia.

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il quale era giusto accettare l’eredità culturale dei pagani e arricchirne il nuovo mondo cristiano, così come nell’Esodo sta scritto come gli ebrei del tempo di Mosè, uscendo dall’Egitto dei faraoni, si fossero appropriati per volontà divina dei suoi tesori: queste tesi avrebbero aperto nel V secolo la strada a Cassiodoro e ad Agostino, difensori inflessibili della cultura greca e latina. LE ERESIE Nel 313 l’imperatore Costantino pose fine alle persecuzioni anticristiane e nei decenni successivi sembrò intenzionato ad appoggiare la nuova fede, sebbene il significato della sua conversione personale rimanga controverso. Nel 380 l’Editto di Tessalonica sancì l’adozione del cristianesimo quale religione di Stato. In esso l’imperatore Teodosio dichiarava: «Vogliamo che tutti i popoli a noi soggetti seguano la religione che l’apostolo Pietro ha insegnato ai romani». Quello che era stato l’unico culto che lo Stato romano avesse sistematicamente perseguitato diveniva così il solo consentito: e, data la sua natura monoteistica, non poteva permettere la sopravvivenza di altre religioni. Bisognava dunque precisare l’organizzazione della Chiesa, concepita come universale, ma ripartita in una quantità di Chiese diocesane, e fissare bene la sostanza della fede nonché le verità ritenute «rivelate» (oggetto della Rivelazione) e perciò sottratte alla discussione ma affidate alla fede (i dogmi). Il dissentire da tali definizioni diveniva ormai «eresia», cioè opinione ch’era ritenuta minare l’unità e la pace dei cristiani e quindi considerata grave colpa. Lo Stato, a sua volta, giudicava l’eresia come un delitto: il che è logico nella misura in cui la Chiesa veniva considerata organo statale. Le prime e principali eresie furono «cristologiche»: riguardarono cioè la persona e la natura del Cristo, la Sua umanità, il Suo rapporto con la divinità. Ma alcune erano ben più profonde e generali, ed erano relative piuttosto al fatto che il cristianesimo aveva dovuto approfondire, ma anche problematizzare, le sue originarie credenze entrando fin dal I secolo in contatto con la filosofia ellenistica e con influenze provenienti da tradizioni differenti (siriache, indopersiane, egizie). Alla base di questo complesso movimento di pensiero si pone la «gnosi» (in greco gnosis, «conoscenza»). La gnosi insegnava che la conoscenza acquisita iniziaticamente era condizione unica e indispensabile alla salvezza: quindi, in linea di principio, gli gnostici svalutavano qualunque tipo di fede in quanto cammino diverso dalla conoscenza e indipendente da essa. Elementi della cultura mistica e filosofica gnostica si diffusero tuttavia anche in ambienti cristiani a partire dall’Egitto del II secolo, com’è testimoniato dalle 44 opere conservate nei papiri manoscritti scoperti nel 1946 nell’oasi di Nag Hammadi, nell’Alto Egitto. Altre tesi che le Chiese cristiane, attraverso le discussioni di quegli uomini di pensiero che furono detti «Padri della Chiesa» e i documenti conciliari, dichiararono progressivamente «eresie» furono il modalismo di Sabellio (III secolo), il quale sosteneva che i componenti della Trinità divina sono non «persone», bensì modi transitori di esprimersi della Divinità; e il docetismo, che negava la realtà materiale della sofferenza e della morte di Gesù sulla croce, ritenendole solo apparenti (da qui il suo nome, derivato dal greco dokein, «sembrare»). Nel IV secolo, la dottrina eretica di maggior rilievo fu quella predicata dal prete Ario di Alessandria, e detta pertanto «ariana». Secondo Ario, il Cristo era il Figlio prediletto del Padre dei Cieli, a Lui simile ma non identico: con ciò infirmava la dottrina della divinità del Cristo e del sacrificio di Dio stesso per l’umanità. La dottrina di Ario si discusse nel concilio di Nicea, che la respinse

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e in un documento ufficiale, il Simbolo niceno (il cui testo è poi divenuto quello di una fondamentale preghiera cristiana, il Credo), affermò la dottrina della consustanzialità del Padre e del Figlio. Pur restando tre diverse «persone» (vale a dire tre differenti aspetti di una stessa sostanza), il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano non tre diversi dei, ma tutti Dio in quanto compartecipi di un’unica sostanza. Con ciò si fissava il dogma della Trinità. Accanto a quella ariana, si andavano intanto diffondendo anche altre tesi, proposte da differenti teologi. Tra esse, quella sostenuta da Nestorio (381-451), che fu patriarca di Costantinopoli fra 428 e 431, e che sosteneva la compresenza nel Cristo di due persone distinte, una divina e una umana, era forte soprattutto

6. Icona del XVI secolo che illustra il primo concilio di Nicea e la condanna di Ario. Santa Caterina del Sinai. 7. Sant’Atanasio di Alessandria, qui in un’icona del XV secolo proveniente da Novgorod, difese strenuamente i princìpi sanciti dal concilio di Nicea anche nei confronti di Costantino, più propenso a una pace religiosa.

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III. LA CRISTIANIZZAZIONE

III. LA CRISTIANIZZAZIONE

8. Battesimo di Gesù e apostoli, mosaico della cupola del IV secolo del battistero degli Ariani, Ravenna.

10. Icona del VI secolo circa in Santa Maria in Trastevere, Roma. La Vergine, nel costume imperiale bizantino, è raffigurata come Theotokos, Madre di Dio.

11. Diffusione e varietà delle Chiese e dei riti orientali.

9. La situazione dell’impero romano e la diffusione dell’arianesimo alla fine del IV secolo.

12. Croce funeraria di pietra del cimitero di Noraduz, Armenia.

nell’autorevole scuola teologica di Antiochia; e quella monofisita, sostenuta dal monaco e teologo greco Eutiche (378 ca.-dopo il 454), che opponendosi rigorosamente al nestorianesimo negava al Cristo qualunque natura o persona umana per affermarlo soltanto Dio e sostenere quindi che quella umana era stata in Lui soltanto una parvenza. Ci voleva una serie di concili per sconfiggere a livello di vertice ecclesiale le varie eresie: come detto ci si pronunziò contro quella ariana nel concilio di Nicea (325), contro la nestoriana in quello di Efeso, dal quale prese l’avvio il culto di Maria Vergine come Theotokos, «Madre di Dio» (431), contro la monofisita in quello di Calcedonia (451). Ma le eresie non si potevano certo eliminare con dei decreti conciliari. I due secoli del loro dilagare erano stati altresì quelli nei quali era maturato il distacco tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’impero romano; inoltre, in quei medesimi due secoli, nuovi popoli erano stati convertiti al cristianesimo da missionari che, talora, aderivano a questa o a quella confessione. Ne risultò che, ad esempio, alcuni popoli germanici si convertirono sì al cristianesimo, ma nella forma ariana; mentre il monofisismo si diffuse in Siria, in Egitto e in Etiopia e il nestorianesimo in tutto il Medio Oriente, dall’Arabia alla Mesopotamia, alla Persia, fino all’India e alla Cina.

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III. LA CRISTIANIZZAZIONE

III. LA CRISTIANIZZAZIONE 16. Immagine di san Colombano in un manoscritto del XIII secolo. Bibliothèque Municipale, Douai, Francia. 17. Croce di san Patrizio, Kells.

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13. Parte di un dittico in avorio conservato nel Tesoro del Duomo di Monza, su cui è scolpito san Gregorio Magno. 14. Cristo al centro di un mosaico pavimentale del IV secolo. Dalla villa di Hinton St Mary, British Museum, Londra. 15. Resti di un abitato monastico dell’isola di Skellig, presso la costa meridionale dell’Irlanda, terra di monaci per l’operato di evangelizzazione di san Patrizio nella prima metà del V secolo.

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ROMA E LE MISSIONI A Occidente, i vescovi di Roma patrocinavano la diffusione del cristianesimo tra le popolazioni barbariche. La conversione dei franchi al cristianesimo secondo le consuetudini e la disciplina romane tra V e VI secolo ebbe in tal senso una straordinaria importanza. Tuttavia, l’azione dei missionari che si dedicarono all’evangelizzazione dell’Europa fra i secoli VI e VIII non fu promossa da un unico centro: contribuirono a quest’opera anche singoli monasteri e vescovati, e a partire dalla fine dell’VIII secolo alcune dinastie regnanti. Cominciò nel 596 Gregorio Magno, il quale inviò nell’Inghilterra invasa dagli angli, dai sassoni, dai frisoni e dagli iuti, quaranta monaci del proprio monastero romano guidati da Agostino. Giunto sull’isola, questi domandò appoggio a Ethelbert, re di Cantia – cioè del Kent –, la cui moglie era già cristiana. Il sovrano non si convertì, ma concesse ai monaci di insediarsi nell’attuale città di Canterbury, allora Doruvernis; da lì partirono le missioni evangelizzatrici rivolte a tutta la regione. Poco dopo l’insediamento a Canterbury, Agostino, proclamato vescovo, fondò la prima chiesa. Agostino estese poi all’intera Anglia l’opera di cristianizzazione, costantemente sostenuto da papa Gregorio, il quale scrisse personalmente al re Ethelbert, chiedendogli la distruzione dei templi e degli idoli pagani ancora venerati dalla sua gente. Tuttavia un tale risultato non si ottenne prima del 640, quando un altro re di Cantia, il cristiano Earconbert, ordinò al suo popolo l’abbandono del paganesimo e l’annientamento dei simulacri e dei templi della loro fede avita. Nella seconda metà del VII secolo, attraverso fasi alterne e recrudescenze del paganesimo, la cristianizzazione degli angli e dei sassoni fece molti passi in avanti. Canterbury rimase il centro religioso più importante del paese, ma furono fondate diverse

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diocesi, fra le quali si affermarono per autorevolezza quelle di Londinium (Londra) e di Eboracum (York). Proprio a Eboracum si distinse nel VII secolo un altro grande evangelizzatore, il vescovo Paolino, che Beda dice particolarmente attivo nella distruzione delle vestigia materiali pagane e nella fondazione di chiese. Quasi in concorrenza con le missioni inviate da Roma, anche i monaci irlandesi, che avevano sviluppato nell’autoctonia la propria Chiesa, si mossero alla volta di altre terre da evangelizzare. La Caledonia (corrispondente grosso modo all’odierna Scozia) dei celti era rimasta immune dall’influenza dell’impero romano; il suo radicato tradizionalismo la rendeva ostica anche alla penetrazione cristiana. Furono alcuni fra i discepoli del celebre monaco irlandese Colomba a dedicarsi alla loro cristianizzazione, ricevendo dal re di questi l’isola di Iona per costruirvi un monastero. Oltre che nella vicina Scozia, il monachesimo irlandese si spinse anche verso il continente. I più noti tra i numerosi missionari che vi svolsero un ruolo furono Colombano e il suo confratello Gallo, che tra VI e VII secolo intrapresero insieme il cammino verso sud per poi separarsi e continuare ognuno per suo conto l’opera di evangelizzazione. Entrambi si distinsero per importanti fondazioni quali Bobbio, Luxeuil e San Gallo, monasteri destinati a divenire fulcri di riforma spirituale e culturale. Fu dall’Inghilterra che cominciò la conquista cristiana dei germani a nord e a est del regno dei franchi. Con l’appoggio del «maggiordomo» Pipino di Heristal, il monaco anglo Willibrord giunse nel 690 in Frisia e divenne arcivescovo di Utrecht. Da lì, la sua attività di missionario si volse alle Fiandre e al nord della Germania. Intanto, un nobile sassone del Wessex, Wynfrith, nato verso il 675, si sentiva a sua volta invadere dalla vocazione a convertire i suoi fratelli di sangue

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Isole Orcadi

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18. Il cristianesimo nelle isole britanniche fino al IX secolo.

Rochester

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Dunwich

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vescovato anglosassone monastero anglosassone

19. I viaggi e le fondazioni di san Colombano, san Willibrord e san Bonifacio.

Canterbury a anic

Territori di missione di Willibrord e Bonifacio

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Monasteri fondati da Bonifacio 19

Monasteri fondati da Willibrord Monasteri fondati da altri anglosassoni Monasteri fondati o riformati da Pirmin

Vescovati con discepoli di Bonifacio

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Vescovati riorganizzati da Bonifacio

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Vescovati eretti da Bonifacio

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rimasti nel continente e ancora pagani, i sassoni di Germania. Nel 719 papa Gregorio II cambiò il suo nome in quello di Bonifacio. Collegato strettamente a Willibrord, Bonifacio si recò prima in Turingia, poi in Frisia, indi – dopo essere stato consacrato vescovo – in Assia. Fra Assia e Turingia, nel 723-25, convertì molti pagani e chiamò altri monaci dall’Inghilterra. Grazie a lui, un notevole numero di abbazie fu fondato e la Germania acquistò una fisionomia di paese definitivamente cristiano. Facendo la spola fra queste terre e Roma egli fondò nel sud del paese le sedi vescovili di Passau, Ratisbona, Frisinga e Strasburgo, e nel 740 tenne il primo sinodo della Chiesa tedesca. Stabilmente organizzata la Germania meridionale, Bonifacio tornò verso l’Assia e la Turingia: fu lì che nel 744 fondò la famosa abbazia di Fulda, destinata a divenire il vero e proprio centro della cultura cristiana tedesca. Rientrato in Frisia, vi fu martirizzato nel 754 con un gruppo di suoi collaboratori.

20. Monaci impegnati in un tragitto su una nave, particolare di una miniatura di un poema morale del XIV secolo. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles. 21. Interno della chiesa carolingia di San Michele a Fulda. L’abbazia fu fondata nel 744 da san Bonifacio. 22. Statua funeraria di san Bonifacio. Cattedrale di Magonza.

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III. LA CRISTIANIZZAZIONE

portano i doni», pure presenti nella tradizione nordica) nei confronti dei viventi.

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23. Particolare di un pastorale vescovile romanico del convento di Boscherville in Normandia, in cui si nota il recupero cristiano di temi e simboli celtici e precristiani. 24. Stele di KönigswinterNiederdollendorf, presso Bonn, VII secolo. Rappresenta un defunto che si difende con una grossa daga dal serpente con una testa anteriore e una posteriore, simbolo del mondo sotterraneo.

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CRISTIANIZZARE LE CAMPAGNE Tuttavia, non era solo la cristianizzazione dei germani a rivelarsi difficile. Anche nelle aree romanizzate, al di fuori delle città e delle grandi direttrici di comunicazione, v’era la realtà di campagne e zone montane in cui l’innovazione penetrava a fatica, e dove soprattutto si conservava memoria di culti e tradizioni precristiani. La religiosità delle regioni marginali si radicava sui luoghi fisici (monti, foreste, sorgenti, fiumi, confini e così via) e sui ritmi tradizionali (la nascita, la morte, le nozze, il raccolto) con i quali si viveva a stretto contatto e da cui sovente si dipendeva: da questo derivava sostanzialmente il conservativismo e la pratica tendenza a un sincretismo che accoglieva il nuovo senza per questo dover rinunciare al vecchio. Era arduo, per i propagatori e i ministri della nuova fede, lo spiegare che il Dio dei cristiani pretendeva un culto assoluto, per il quale si doveva rinunciare alle vecchie divinità e a quelle tradizioni che avevano accompagnato le comunità sino allora. I concili vescovili svoltisi a partire dai secoli IV-V non mancano di segnalare con insistenza la necessità di sradicare gli usi pagani: si menzionano la venerazione per alberi, fonti e rocce, probabilmente consacrate in passato a qualche divinità; si condannano quanti, anche battezzati, continuavano a sacrificare alle divinità dei pagani. A cavallo fra i secoli V e VI sono i sermoni del vescovo Cesario di Arles a offrire il quadro più esaustivo delle credenze e delle pratiche non ortodosse comunemente seguite. Cesario si sofferma sui mezzi magici di cui le donne si servivano, piuttosto che affidarsi alla preghiera, per ottenere il concepimento; a tal fine usavano «erbe» – che fanno supporre l’uso di una medicina naturale – accompagnate da «caratteri» o da «legature», probabilmente sul tipo degli amuleti e dei filatteri. In altre omelie Cesario parla di persone battezzate che annullavano il valore del sacramento ricevuto continuando a svolgere culti pagani, quali i voti resi ad alberi, fonti e antichi santuari, cui si aggiungeva la pratica dei banchetti rituali. Si ha quindi l’impressione che il vescovo di Arles non dovesse fronteggiare soltanto la persistenza dei costumi pagani, ma anche un rifiuto – o quanto meno un’indecisione – da parte di popolazioni abituate a una religiosità di tipo sincretico verso l’accettazione di una fede strettamente monoteistica qual è quella cristiana. Impressione confermata, seppur indirettamente, da un altro sermone contro le sfrenate celebrazioni per le Kalendae di gennaio, in cui Cesario passava in rassegna le divinità del paganesimo classico (Marte, Mercurio, Giove, Venere, Saturno) per evidenziarne i caratteri lascivi, empi e sacrileghi.

CRISTIANIZZARE I GERMANI È difficile dire con esattezza di che tipo fosse il «cristianesimo» al quale i popoli altomedievali si convertirono. I metodi di istruzione religiosa erano sommari, e forse incentrati più sulle cerimonie e sui sacramenti che sull’educazione. Era ad esempio difficile convertire i fieri germani, per i quali la guerra era un’esperienza sacra, alle verità di un Dio di amore e di pace. Rimasero così nell’Europa altomedievale delle «sacche» di pagani solo superficialmente cristiani, che rivestirono della loro religione antiche usanze e antichi riti. La Chiesa tollerava questa situazione, combattendola con lo strumento della confessione. Ci sono rimasti parecchi manuali per confessori, detti Poenitentialia, che sono autentiche riserve d’informazioni a carattere antropologico sul cristianesimo dei popoli delle foreste e delle steppe. Entriamo così in contatto con una vera e propria «cultura folklorica». A partire dal XII secolo la letteratura ne registra chiaramente le tracce. Per esempio, la mitologia germanica si qualificava per il posto di rilievo dato alla «magia» esercitata dagli dei e per il rapporto tra essa e il regno dei morti. Al culto dei defunti, e al rapporto di certe divinità con essi, parevano ricondurre certe tradizioni – giunteci attraverso la mediazione dei latini o della mitologia scandinava, già influenzata dal cristianesimo – note nell’Europa medievale e anche moderna soprattutto a livello folklorico. Ad esempio, la tradizione del wuttende Heer, cioè dell’esercito degli eroi defunti scelti dalle valchirie (le «sceglitrici dei caduti») per abitare con Odino nell’Aldilà (il Valhöll, che si può tradurre come la «Sala del Combattimento»), sopravvive, demonizzata, nella wilde jagd, la «caccia feroce» (o «caccia selvaggia», o ancora «caccia fantastica») della quale sono piene le fonti medievali. Già Tacito parlava del feralis exercitus, cioè delle ombre degli avi che di notte sarebbero magicamente venute tra i guerrieri germani per soccorrerli nel bisogno. Il quadro delle anime inquiete, vaganti per i trivi o per le case, è ambiguamente sospeso tra un atteggiamento minaccioso e uno benevolo (i «morti che

25. Pietra dipinta conservata a Stoccolma, Historiska Museet, proveniente da Gotland, 700 circa. Nella scena Sleipnir, il cavallo a otto zampe di Odino (Odhinn/Wotan), cavalca verso il Walhalla (Valhöll) atteso da una valchiria. 26. Festa popolare in maschera da una miniatura del Roman de Fauvel, poema allegorico scritto da Gervais du Bus tra il 1310 e il 1314. L’intento satirico dell’opera è rivolto in parte contro personaggi politici, ma soprattutto contro certi prelati e contro gli Ordini religiosi dei domenicani e dei francescani. Ms. 146, fol. 34, Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 27. I benefici della rapa secondo il Remedium sanitatis: stimola la fertilità, meglio se nera e rugosa.

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Capitolo IV

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ORATORES, BELLATORES, LABORATORES. L’AUTOBIOGRAFIA IMMAGINARIA DELLA SOCIETÀ MEDIEVALE Qual era l’immagine della struttura sociale nei secoli centrali del medioevo? Come si costruiva l’autoritratto della propria società? «In questa valle di lacrime gli uni pregano, altri combattono, altri ancora lavorano; e le tre categorie stanno insieme e non sopportano d’essere disgiunte, di modo che sulla funzione dell’una restano le opere delle altre due, tutte e tre a loro volta assicurando aiuto a ciascuna». Con queste parole il vescovo Adalberone di Laon offriva il ritratto della società europea intorno al Mille. È il concetto delle tre funzioni, che rappresentano sulla terra l’ordine voluto da Dio e, allo stesso tempo, sono gli elementi che garantiscono l’armonia nelle società. Oratores, bellatores, laboratores: ai primi spettava pregare affinché la stabilità del mondo cristiano fosse mantenuta; ai secondi combattere, perché esso potesse godere della sicurezza; ai terzi mantenere i due precedenti «ordini» con la propria opera. Il termine labor indicava fondamentalmente la fatica dei campi, quindi il lavoro agricolo. Tale ripartizione dei doveri e degli incarichi corrispondeva a una precisa divisione del lavoro e della ricchezza. In una società nata essenzialmente per la difesa e basata su un’economia di sostentamento nella quale l’agricoltura stava al primo posto, era naturale che il lavoro fosse concepito in modo essenzialmente servile. In una società in cui il denaro non circolava, era naturale che la Chiesa considerasse sospetto e quindi condannabile in quanto frutto d’usura qualunque tipo di guadagno non direttamente acquistato con il sudore della fronte e quindi guardasse con riprovazione al prestito (bandito come «usura») e ai commerci stessi. Nella seconda metà del Novecento il grande filologo e «storico delle mitologie» Georges Dumézil aveva elaborato una teoria generale delle società indoeuropee (cioè delle società uscite dalle grandi migrazioni di popolazioni, provenienti dalle steppe eurasiatiche, che avrebbero investito nel II millennio a.C. l’Europa, le aree caucasiche, l’Anatolia, la Persia e il bacino dell’Indo: questa era la definizione di «indoeuropeo» all’epoca) che ne riconosceva questa ripartizione trifunzionale quale struttura portante comune. Poiché sovente l’ordine degli oratores è quello nelle cui mani è affidato il compito di mantenere vive, e dunque di mettere per iscritto, le memorie mitiche dei popoli cui appartengono, la funzione della preghiera appare quella più importante e sacra, che in un’ideale scala di valori più si avvicina alla maestà celeste di cui è intermediaria per gli altri ordini. Uno schema che sottintenderebbe una antica rivalità, o comunque una tensione tra funzione sacerdotale e funzione guerriera, visibile per esempio nella lotta tra sacerdotium e imperium all’epoca di Gregorio VII ed Enrico IV. La dialettica tra le due più importanti élites sociali, quella dei sacerdoti e quella dei guerrieri, fornirebbe inoltre un filo rosso che nella storia europea corre attraverso l’epoca antica, medievale e moderna e si arresta alla fine del Settecento, quando la Rivoluzione abolisce i tre «stati», diretta emanazione delle tre funzioni originarie.

1. Particolare di una cruenta battaglia in una illustrazione del XV secolo dell’opera di Vincenzo di Beauvais Speculum Historiale, del XIII secolo. Musée Condé, Chantilly. 2. Mater Ecclesia, particolare dell’Exultet della metà del XIII secolo conservato presso il Museo Diocesano di Salerno. 3. Il lavoro nei campi descritto in una miniatura dell’XI secolo conservata nell’abbazia di Montecassino. 4. Morte dell’usuraio, illustrazione di un volume proveniente da Heidelberg, collezione privata.

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5. L’abate di Cluny invita al rispetto del principio di ospitalità anche nell’aspra contesa tra la fazione fedele al papa e l’imperatore Enrico IV. Miniatura da I principi di Canossa (Vita di Matilde). Biblioteca Apostolica Vaticana. 6. Ottone II consegna il pastorale a sant’Alberto, esempio di investitura laica di una carica ecclesiastica. Particolare del portale bronzeo del XII secolo, cattedrale di Gniezno, Polonia.

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L’ECONOMIA CURTENSE I secoli VI-IX, e in genere il cosiddetto alto medioevo, si possono caratterizzare come quelli dell’«economia curtense», fase di passaggio dall’economia della villa romana a quella della signoria fondiaria dell’età feudale. Il modello di società curtense al quale solitamente si ricorre è quello affermatosi tra Loira e Senna, cioè nel regno dei franchi: ma si tratta di un modello che non è forzatamente più specifico degli altri. È soltanto meglio documentato. In realtà, con qualche variante, i rapporti di proprietà e i modi di produzione curtensi si affermarono un po’ in tutta l’Europa occidentale altomedievale. La villa o curtis era un grande centro di residenza e di produzione: al tempo stesso fattoria, azienda agraria, laboratorio, area di residenza del dominus e dei suoi servi, cioè dei contadini che, pur mantenendo il loro stato teoricamente libero, si erano affidati – in tempi di carenza dei poteri pubblici – alla sua protezione. In pratica, essa constava di una serie di costruzioni adibite ad abitazioni, stalle, rimesse ecc. e di un numero variabile di appezzamenti di terreno: il tutto, quanto a estensione, per un totale di ettari che poteva andare dalle poche decine alle decine di migliaia. Attorno alla residenza del signore si raggruppavano gli edifici più importanti: scuderie, mulini, frantoi, fienili, pozzi, la chiesa. All’interno della corte si fabbricavano tutti i manufatti necessari al suo andamento: tessuti, utensili, stoviglie, strumenti di lavoro, armi; in appositi locali si attendeva alla preparazione dei cibi e delle riserve alimentari e alla trasformazione delle materie prime in prodotti finiti. In tempi di insicurezza delle strade, recessione del sistema commerciale e rarefazione della moneta che ormai era cattiva e semintrovabile, il sistema curtense si configurava come un sistema chiuso, o autarchico. Dal punto di vista della conduzione della terra, la curtis si divideva in una pars dominica o riserva, gestita direttamente dal signore, e in una pars massaricia, gestita dai contadini di stato libero o servile e divisa in mansi, cioè in unità produttive di varia estensione (a seconda del tipo di colture praticato, dell’altezza sul livello del mare, della conduzione dei suoli, delle latitudini) sufficienti a fornire di che sopravvivere a una famiglia contadina. I contadini corrispondevano

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al padrone una quota parte dei prodotti ed erano inoltre obbligati a prestazioni lavorative gratuite sulla pars dominica. Tale ripartizione della proprietà risaliva già all’età romana: allora si era contestualizzata nel quadro recessivo indotto dalla crisi dell’approvvigionamento schiavistico, dalla fuga dalle città e dal loro conseguente declino come centri economico-manifatturieri, dalla crisi demografica che aveva richiesto la «valorizzazione» degli schiavi mediante l’offerta di condizioni di autosostentamento (servi prebendari e casati).

7. Rappresentazione della ricca azienda agricola del dominus Iulius, mosaico del IV secolo. Museo del Bardo, Tunisi.

SIGNORI E VASSALLI Attorno al dominus, un più o meno ampio gruppo di amici, protetti, guardie del corpo, gli faceva ala e scudo. Egli ne era il senior, il «vecchio»: termine usato nelle bande di guerrieri, che poi si evolverà divenendo equivalente di dominus. Ne deriverà, fra l’altro, l’italiano «signore». Questi accoliti formavano il

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8. Il mese di marzo, miniatura da Les Très Riches Heures du Duc de Berry, 1413-1416, Musée Condé, Chantilly. L’illustrazione mostra campi ben ordinati e contadini al lavoro sotto la presenza possente del castello dei duchi.

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gruppo dei suoi antrustiones o fideles: le fonti li chiamano in varia maniera, ma prevale il termine vassi, derivato da una parola celtica che più o meno significa «dipendente». I vassi giuravano fedeltà al senior e ne ricevevano in cambio dei beneficia in oggetti preziosi, armi, terre da sfruttare (il denaro, come si è visto, non era quasi più in uso). Non è facile comprendere quale dei due elementi di questo rapporto sia nato prima: se il bisogno da parte di chi sta in situazione socio-politica subordinata di affidarsi alla protezione di qualcuno giurandogli fedeltà e proponendogli la sua forza di guerriero, oppure la necessità del signore di retribuire in qualche modo le sue guardie del corpo. Le istituzioni vassallatiche, basate su un rapporto di fedeltà personale (intesa come reciproca) e sull’usufrutto da parte del vassus di beni – e poi, sempre più sovente, di terre – appartenenti al senior, divengono comunque una costante dell’alto medioevo e finiscono con il costituire parte integrante del cosiddetto sistema feudale. A livello schematico e teorico, si può dire che tre sono gli elementi fondamentali del sistema «feudale» o «vassallatico-beneficiario»: prima di tutto un elemento reale: l’honor o beneficium, cioè l’oggetto concreto (terre, beni mobili, uffici a vario titolo remunerativi) della concessione del dominus o senior («padrone», «signore», ma anche «il vecchio», cioè il capo del comitatus di guerrieri) al vassus; poi un elemento personale: il «vassallaggio», cioè la condizione di fedeltà personale garantita da un rito, l’homagium, con il quale il vassus si dichiarava homo, cioè fidelis, del suo dominus o senior; infine un elemento giuridico: l’immunità giudiziaria (e, nei casi di rapporti tra aristocratici d’alto rango, la concessione del districtus, cioè della «giurisdizione», il diritto di esercitare il potere giudiziario stesso e di godere dei relativi proventi). Il termine «feudo» deriva da una parola germanica indicante in origine gli animali da allevamento, precipua ricchezza d’un mondo nomade. Ma quando, dopo le grandi migrazioni del III-VI secolo, i germani divennero sedentari, tale termine finì con il qualificare genericamente il concetto di «bene», di «possesso», di «ricchezza». Gli storici sono sostanzialmente concordi nel ritenere che l’avvio dell’istituto feudale vada ricercato in quei beni (animali, armi, oggetti preziosi) che i principi germanici dell’età barbarica usavano offrire ai guerrieri del loro seguito, i membri di quello che già Tacito chiamava comitatus. Con il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà, i vari signori presero a dotare i loro seguaci – dai quali si aspettavano anzitutto il servizio di guerrieri – con aree più o meno estese di terreno incolto (utile per la caccia o l’allevamento) o anche coltivato. Di tale terreno, il beneficiario diveniva possessore, non proprietario: il signore gliene accordava il possesso e lo sfruttamento, non però la proprietà assoluta. Il che voleva dire che i feudi in origine non si potevano né vendere, né alienare in alcun modo (neppure a titolo di dono) e neppure lasciare in eredità ai discendenti. Naturalmente il feudo non era sempre costituito dalla terra: a volte consisteva in somme di denaro, una sorta di salario. Il feudalesimo «classico» è però quello caratterizzato dalla suddivisione di territori (che in origine potevano anche essere costituiti dalle circoscrizioni pubbliche dell’età carolingia, cioè le marche e le contee) in grandi o meno grandi signorie feudali. L’elemento personale, nel rapporto feudale, è il vassallaggio. Si poteva essere vassalli del sovrano, di un gran signore, di un membro della piccola nobiltà, al limite anche di un modestissimo proprietario terriero. Il rapporto di vassallaggio si instaurava comunque a livello privato fra due persone, l’una delle quali (il vassus) si dichiarava homo dell’altra. Tale rapporto si formalizzava mediante una cerimonia detta appunto «omaggio», nella quale il vassus poneva le sue mani giunte (da qui il gesto cristiano-occidentale di preghiera) nelle mani del

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9. Cerimonia di vassallaggio descritta in un codice del XIV secolo. Universitätsbibliothek, Heidelberg. 10. Edoardo di Woodstock, il Black Prince, rende omaggio a Edoardo III per il ducato d’Aquitania, particolare di una miniatura. British Library, Londra.

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senior e gli giurava fedeltà. In cambio, il senior offriva al vassus la sua protezione e in certi casi lo forniva di un feudo mediante la cerimonia detta «investitura», durante la quale il bene offerto in feudo veniva simboleggiato da un oggetto concreto (una zolla di terra, una manciata di paglia: nei casi di feudi cui era annesso un diritto giurisdizionale, una bandiera). Il vassallaggio risponde evidentemente al bisogno diffuso di protezione da parte di privati, in un tempo di carenza dei pubblici poteri. In origine, esso non era necessariamente connesso all’acquisizione di un feudo: si diventava vassalli di qualcuno soltanto per venire protetti. L’uso tuttavia di tenere i vassalli presso

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IV. UN MONDO DA RIORGANIZZARE (SECOLI VIII-X)

ai primi del Trecento. Il progresso non venne tuttavia, a quanto sembra, da un incremento della rete commerciale, quanto piuttosto da miglioramenti nel settore primario, quello agricolo. Un qualche beneficio provenne, in questo senso, dall’immissione di una pratica, detta «rotazione triennale», che si sostituiva a quella usata nel mondo romano e che consisteva nel coltivare la metà di un campo lasciando l’altra a riposo, in modo da consentire al terreno di ricostituire il suo tessuto biologico. Ora si prese a dividere i vari spazi coltivabili non più in due, ma in tre parti, per consentire ogni anno una semina di cereali detti invernali (come il grano) e una di cereali estivi (come l’avena), tenendo a riposo soltanto un terzo dello spazio agricolo disponibile per la produzione. In questo modo si aveva un raccolto annuale che poteva giovarsi non della metà, ma dei due terzi dello spazio. Altri miglioramenti obiettivi nelle tecnologie agricole furono l’introduzione massiccia del mulino ad acqua, dell’aratro pesante e munito di versoio, in grado di lavorare la terra più a fondo del vecchio aratro romano – che del resto rimase in uso nei paesi mediterranei –, e dell’attacco «di spalla» agli animali da tiro, che permetteva loro di sfruttare meglio la propria forza rispetto al vecchio sistema dell’attacco a collare, che soffocava l’animale. Furono promosse campagne di bonifica e disboscamento per guadagnare nuove terre alle colture; contemporaneamente, molti spazi di incolto, ora ridotti, venivano privatizzati dai signori. Bisogna sottolineare che il generale miglioramento del trend economico non comportò automaticamente un vantaggio per i lavoratori del settore agricolo, i quali videro assottigliarsi le proprie possibilità di usufruire dei prodotti che venivano loro dal libero sfruttamento dell’incolto (prodotti della caccia, della pesca, della raccolta), costringendoli all’adozione di un regime alimentare più monotono. Il progresso delle tecniche fu accompagnato e forse favorito anche da un miglioramento climatico che in effetti si registra già dai primi del X secolo e che sciolse anche i ghiacci del mare del Nord, permettendo alle agili e leggere navi vichinghe di giungere fino in Islanda e in Groenlandia. Il miglioramento climatico del X secolo può aver agito sulla società, contribuendo alla crescita demografica, in due modi: anzitutto grazie ai raccolti più abbondanti e alla fine delle carestie causate dal maltempo; e poi anche a causa della diminuzione delle malattie caratteristiche del clima freddo, che colpiscono soprattutto i bambini. L’intiepidirsi dell’aria e il miglioramento qualitativo e quantitativo del vitto non solo posero un argine alla mortalità infantile (del resto molto forte in tutta l’età preindustriale), ma alzarono in genere il livello della vita media. Oltre a ciò, le meno dure condizioni di vita dovettero incoraggiare le famiglie a diventare più numerose.

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11. Il lavoro dei progenitori, particolare del bassorilievo a destra del portale di San Zeno a Verona, inizio del XII secolo. 12. Il lavoro dei campi, miniatura dello Speculum Virginum, 1190-1200. Dombibliothek, Treviri.

di sé e di domandar loro prestazioni che richiedevano, per essere espletate, una certa base economica indusse presto a far sì che le pratiche dell’omaggio o dell’investitura divenissero l’una strettamente connessa all’altra. L’elemento propriamente giuridico del sistema feudale era costituito dall’immunità e – nei feudi più grandi – dalla concessione del diritto giurisdizionale. L’immunità consisteva nel diritto dei detentori di signoria feudale di andare esenti, all’interno dei confini di essa, dai controlli di qualunque autorità pubblica. Oltre a ciò, i feudatari maggiori ricevevano in delega anche la giurisdizione, cioè il diritto di amministrare la giustizia pubblica e di goderne parte dei proventi economici (poiché le pene del tempo erano o fisiche o pecuniarie).

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13. Scena di lavoro, bassorilievo del lato sud della facciata della chiesa di San Pietro a Spoleto, fine del XII secolo. 14. Il lavoro di Adamo ed Eva, particolare dei rilievi della facciata del duomo di Modena.

LA RIORGANIZZAZIONE DEL MONDO AGRICOLO A partire dall’VIII secolo, in concomitanza con la fine delle ondate di pestilenza, l’economia cominciò a registrare una tendenza positiva, che sarebbe durata sino

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Capitolo V

LA CHIESA

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LA PRIMA ORGANIZZAZIONE A partire dal IV secolo, le «chiese» locali si riunirono in «diocesi», organizzazioni territoriali modellate sulle circoscrizioni civili dell’impero; a capo di ciascuna diocesi venne posto un episkopos, «sovrintendente» (il vescovo). I prelati (fra i quali si distinguevano per autorità i «patriarchi» delle quattro sedi vescovili che si dicevano fondate da apostoli: Roma, Costantinopoli, Antiochia e Alessandria) si riunivano periodicamente in grandi assemblee sia generali sia territoriali, dette concili, per deliberare insieme riguardo a tutti i problemi, sia propriamente spirituali, sia pratici, che toccassero la comunità dei credenti in Cristo. I concili potevano essere sia «ecumenici» (che riguardavano tutta la Chiesa), sia «regionali» (che riguardavano soltanto alcune diocesi, raggruppate attorno a quella che ne era la metropolitana); ai singoli sinodi (che riunivano il clero di una diocesi) era poi affidata la verifica della disciplina interna di ciascuna diocesi. Il primo concilio ecumenico, quello celebrato nel 325 a Nicea, si svolse alla presenza dell’imperatore Costantino. La comunità dei credenti si distingueva gradualmente, a partire da allora, in «chierici» (il «clero»: da kleros, «porzione separata», cioè i componenti dell’ordine sacerdotale che si era sviluppato dai presbyteroi) e i «laici» (dal greco laos, «società ordinata»: il cosiddetto «popolo di Dio»); mentre fra gli stessi membri del clero la distanza tra semplici preti o diaconi da una parte, e vescovi dall’altra, andava gradualmente crescendo, e le cerimonie religiose s’improntavano sempre più a un fasto liturgico prima sconosciuto. Nel mondo greco ed ellenistico, la leitourgia («opera pubblica») era l’istituzione mediante la quale s’imponeva ai cittadini più facoltosi l’impegno di finanziare iniziative ed eventi d’interesse comune, come spettacoli, banchetti e così via. I cristiani si trovarono a leggere nella Bibbia le descrizioni delle complesse cerimonie religiose e dei sacrifici celebrati dagli ebrei. Protagonisti della liturgia ebraica erano i sacerdoti: ma nella tradizione ebraica il sacerdozio era terminato con la distruzione del Tempio di Salomone. I cristiani ricostituirono il sacerdozio, prendendo come modello la funzione sacerdotale del Cristo stesso, che aveva istituito i sacramenti come segni sensibili del conferimento della Grazia divina. All’interno del clero, i chierici furono organizzati quindi secondo un sistema iniziatico di conoscenze in differenti ordini canonici, distinti in «minori» (ostiario, lettore, esorcista, accolito) e «maggiori» (suddiacono, diacono, sacerdote). I «preti», cioè originariamente «i più anziani» (presbyteroi), divennero così «sacerdoti»: e la «Santa Cena», cerimonia memoriale dell’istituzione del sacramento dell’eucarestia, si trasformò in vera e propria messa. Durante il IV secolo la struttura della messa si precisò in tre successive parti: la liturgia della parola (letture bibliche), l’offertorio (offerta dei doni), il canone (liturgia eucaristica e congedo). Il peso esercitato dalla Chiesa sulla vita culturale si rivelò subito molto importante. D’altra parte, gli spazi d’azione della vecchia aristocrazia si erano obiet-

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1. Mosaico del VI secolo dell’arco trionfale della basilica romana di San Lorenzo fuori le mura raffigurante Cristo in maestà tra i santi Pietro e Paolo e, a partire da sinistra, un vescovo, papa Pelagio II, un diacono, san Lorenzo, Pietro, Paolo, un altro diacono, santo Stefano e il presbitero Ippolito. 2. San Benedetto, affresco, fine del X secolo. Particolare dell’altare dell’oratorio di San Benedetto, Civate. 3. Papa Urbano II consacra nel 1095 l’altare maggiore della chiesa di Cluny. Miniatura dal Chronicon cluniacense, XII secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 4. La struttura della chiesa si organizza attorno alla celebrazione dell’eucaristia. Abele e Melchisedek come sacerdoti nel mosaico del battistero di San Vitale a Ravenna.

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5. Immagine di sant’Antonio, monaco del deserto. Museo di Arte, Copta, Il Cairo Vecchio.

9. Sant’Efrem, cui è legata la tradizione anacoretica siriaca. Miniatura del XII secolo conservata nella Biblioteca del Patriarcato siro-ortodosso, Damasco.

6. Grotta di sant’Antonio alle spalle dell’omonimo attuale monastero in Egitto. 7. Veduta del monastero di Sant’Antonio in Egitto.

10. San Basilio il Grande, riformatore del monachesimo delle origini in senso comunitario, il cui pensiero influenzò anche il nascente monachesimo occidentale. Icona del XVIII secolo, chiesa di San Nicola, Tripoli, Libano.

8. Veduta attuale del monastero cenobita della regione del Fayyum, Egitto. 11. Interno di una chiesa rupestre monastica della Cappadocia.

tivamente ristretti, dal momento che i ruoli chiave nei settori amministrativi erano ormai ricoperti da uomini provenienti dall’esercito o dal censo equestre. Cresceva invece l’importanza degli ecclesiastici, che sempre più spesso accoglievano tra le loro fila persone di grande cultura.

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CLERO SECOLARE, CLERO REGOLARE Accanto alla capillare organizzazione in province, diocesi e parrocchie, che affiancava quella territoriale dello Stato, il cristianesimo seppe esprimere un altro modo di vivere e di configurare le proprie esperienze comunitarie: il monachesimo. Il «clero» era difatti distinto in secolare (destinato a restare nel saeculum, cioè nel «mondo», a contatto con i fedeli) e regolare (destinato a organizzarsi in Ordini monastici, che vivevano ciascuno secondo un suo specifico insieme di norme accuratamente prescritte, detto Regola). Per comprendere il movimento monastico, bisogna tener presente che la religione cristiana si era sviluppata nella continua dialettica fra due aspirazioni: da una parte quella alla fuga dal mondo per rifugiarsi nel pensiero d’una parola divina che insegnava a disprezzare i beni terreni e soprattutto il potere e la ricchezza; dall’altra quella all’amore del prossimo, alla carità, che invece induceva a impegnarsi nella vita di quaggiù. Monaco è parola derivante dal greco monos, «solo», cioè «solitario». Il fenomeno della ricerca della solitudine non è nuovo nella storia di parecchie comunità religiose o sette filosofiche: induismo e buddhismo hanno, ad esempio, entrambi una lunga e illustre tradizione monastica. Anche per i cristiani, il monachesimo è venuto dall’Oriente. Esso si era sviluppato anzitutto nell’Egitto del III secolo, dal quale si diffuse in Siria e in Palestina: si trattava di monachesimo «anacoretico», cioè eremitico, fatto di individui isolati che vivevano nel deserto dandosi alla preghiera, al digiuno e a pratiche ascetiche. La Chiesa non vedeva tuttavia di buon occhio queste esperienze, che davano spesso luogo a incontrollabili deviazioni dottrinali. Essa favorì per contro il monachesimo sotto la forma detta «cenobitica», cioè comunitaria, il primo grande

modello della quale si può considerare quello di san Pacomio (292-346), che raccolse nel deserto della Tebaide (Alto Egitto) una comunità di discepoli dei quali organizzò la vita in comune attraverso una Regola che ne stabiliva le norme di comportamento tanto per la vita spirituale quanto per le attività materiali e pratiche. Un altro importante centro monastico fu quello organizzato da san Basilio il Grande (330 ca.-370) in Cappadocia, nel centro della penisola anatolica. Il carattere pragmatico dell’esperienza cenobitica fu accolto in Occidente con maggior favore rispetto alla tensione mistica sottesa all’anacoretismo. Anche in Irlanda, evangelizzata nel V secolo da san Patrizio, si organizzava un monachesimo originale (al quale si è già accennato), che ricalcava i caratteri della civiltà celtica e si strutturava in originali comunità di villaggio ch’erano al tempo stesso monasteri. Fedeli al vecchio principio monastico secondo il quale l’eremitismo è una forma ascetica più perfetta del cenobitismo, gli irlandesi avevano elaborato un loro originale sistema di vita anacoretica basato sul pellegrinaggio. Eredi degli audaci navigatori celtici, essi s’imbarcavano su piccole fragili barche sulle quali raggiunsero, dal VI secolo, le Fær Øer, la Scozia, le Orcadi, l’Islanda; a piedi, sul continente, raggiunsero poi Francia, Fiandre, Germania, Italia. LO SVILUPPO DEL MONACHESIMO OCCIDENTALE Nei duri anni del V-IX secolo, che hanno coinciso con una vasta e generale depressione continentale, i monasteri benedettini hanno tessuto sull’Europa intera la loro tela organizzativa, culturale, riqualificando l’agricoltura e la produzione, salvaguardando i monumenti del pensiero antico, fornendo sicurezza e nei limiti del possibile pace alle plebi disorientate del tempo. Non è certo casuale che Benedetto abbia avuto un biografo d’eccezione come papa Gregorio Magno, organizzatore fermo d’una Chiesa che egli voleva non solo vigile nel campo spirituale, ma anche attenta alle necessità materiali dei credenti. È difatti ai Dialoghi di Gregorio che dobbiamo il ritratto di Benedetto: un uomo pio senza

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dubbio, un taumaturgo dai portentosi miracoli, ma soprattutto un padre amoroso del suo gregge di monaci e un organizzatore energico e sollecito. È stato detto, e non certo a torto, che quello di Benedetto è un monachesimo tipicamente «romano», in quanto dell’esperienza monastica non esalta – come accade in quello orientale – il lato mistico, bensì l’equilibrio fra vita dello spirito e vita quotidiana e il sereno, fermo impegno nel risolvere una quantità di problemi concreti. Come lo spirito romano si caratterizza per l’adesione alla realtà, allo stesso modo il monachesimo benedettino costituisce una risposta severa, disciplinata, quasi militare alle necessità d’un momento di crisi e d’una compagine sociale di disgregamento. Centrale nella Regula di Benedetto, redatta a Montecassino intorno al 540, è l’opus Dei, la celebrazione corale dell’uffizio; ma importanti sono inoltre la messa in comune e, poi, la lettura sacra – soprattutto la Bibbia, ma anche i testi agiografici – e la preghiera privata. Ma accanto a tutto ciò Benedetto, per vincere il «nemico dell’anima», l’ozio, ch’è padre della superbia e dell’accidia, prescrive il lavoro manuale: l’agricoltura, l’artigianato, la trascrizione dei codici manoscritti, lo studio stesso inteso come applicazione delle energie intellettuali. Alcune norme fondamentali presiedono alla vita monastica benedettina: anzitutto la

stabilitas loci, l’obbligo di risiedere per tutta la vita in un medesimo monastero, contro un certo vagabondaggio che era a quei tempi diffuso presso strani tipi di monaci dalla vocazione sospetta; poi la conversatio, cioè la buona condotta morale, la pietà reciproca, l’obbedienza all’abate considerato l’abba, quindi il «padre» della famiglia del cenobio. Il monastero benedettino, isolato in ambiente rurale anche se legato da rapporti di subordinazione al vescovo della diocesi sul cui territorio sorgeva, era destinato a divenire, in quei tempi di sconvolgimenti e d’insicurezza, una sorta di oasi di pace attorno alla quale anche le genti vicine si organizzavano cercando di riannodare le fila del viver civile. Si dissodavano i campi, si facevano risorgere colture specializzate quali la vite e l’olivo, si creavano nuovi insediamenti. Nelle biblioteche si custodivano i testi dell’antichità, mentre negli annessi scriptoria i manoscritti venivano copiati per essere poi diffusi alle abbazie sorelle, sparse in tutta l’Europa. In questo modo il monachesimo cristiano ha, fra i molti suoi meriti, quello di aver salvato e tramandato la cultura classica. A partire dal IX secolo, in tutti i territori che erano stati annessi dai carolingi, il monachesimo conobbe una crescita importante. Il merito di questo rilancio del fenomeno monastico va attribuito soprattutto alla figura dell’imperatore Ludo-

12. Veduta del Sacro Speco di Subiaco, dove san Benedetto visse da eremita prima della fondazione di Montecassino. 13. Gregorio Magno raccoglie testimonianze sulla vita di san Benedetto, particolare di una miniatura del 1437. Musée Condé, Chantilly. 14. Scene della vendemmia da una miniatura dei Dialoghi di Gregorio Magno, abbazia di San Lorenzo di Liegi, XII secolo. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles. 15. Piero della Francesca, San Benedetto, particolare del polittico della Vergine della Misericordia, 1450-1460. Museo Civico, Sansepolcro.

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IL PAPA E I VESCOVI Mentre i vescovi divenivano sempre più dei cardini nella vita delle loro città, tra IV e V secolo si affermò l’idea della supremazia romana sulle altre sedi episcopali, rafforzata tra 441 e 462 durante gli anni del papato di Leone Magno. Il vescovo di Roma mirava a essere considerato come il vicario dell’apostolo Pietro e dunque autorità suprema nella Chiesa: un principio che venne accettato solo gradualmente e dopo innumerevoli contrasti con le sedi locali. Si trattava dunque del sorgere di un potere parallelo e spesso contrapposto a quello imperiale. L’affermazione dei longobardi in Italia e dei franchi oltralpe allontanava la ex pars Occidentis dalla compagine imperiale ormai incentrata su Bisanzio. L’unico potere di respiro universalistico, benché supportato ancora da mezzi molto limitati, rimaneva in quell’area il patriarcato romano, il «papato», che dall’impero aveva ereditato anche la città-simbolo: Roma. Tuttavia, tale eredità andava rivisitata in chiave religiosa: non bisogna infatti dimenticare che la città era ormai in parte spopolata e in rovina, pur mantenendo sotto il profilo architettonico un’immagine ancora fortemente legata al suo passato. I templi e i palazzi dell’antichità, sebbene in decadenza, caratterizzavano ancora il panorama urbano. La volontà di preservare le memorie antiche di Roma cominciò però ad attenuarsi già a partire dal VI secolo. Il papato mirava ormai a cristianizzare la città anche sotto il profilo della sua immagine architettonica: d’altra parte, l’epoca imperiale non rappresentava più un vero richiamo culturale, né per le élites né per gli altri ceti, alle prese con realtà del tutto nuove. Durante il pontificato di Stefano II (752-757) Roma rafforzò le relazioni con i franchi in funzione antilongobarda, con la mira di assicurare al trono di Pietro la sovranità sul ducato romano e sottrarsi alle minacce degli stessi longobardi e dei bizantini. Fu in questo contesto, con tutta probabilità, che nella curia romana maturò il progetto della Donazione di Costantino, il famoso falso che sarebbe stato smascherato solo verso la metà del Quattrocento dal filologo umanista Lorenzo Valla. Secondo questo documento, l’imperatore Costantino avrebbe concesso a papa Silvestro I il dominio universale spettante all’impero e simboleggiato dalle insegne sovrane. Anche se, com’è noto, il dettato della Donazione non si sarebbe mai realizzato a pieno, esso sostenne a lungo le pretese di governo sulle cose terrene – e soprattutto su alcune regioni dell’Italia centro-meridionale – da parte del papato. Nel periodo tra X e XI secolo la situazione della Chiesa occidentale era quan-

16. Ritratto di Ludovico il Pio in una miniatura del 1175 proveniente dall’abbazia di Anchin. Bibliothèque Municipale, Douai, Francia. 17. Re Edgar, l’arcivescovo Dunstan e il vescovo Aethelwold, padri della riforma benedettina inglese del X secolo. Miniatura da una copia dell’XI secolo della Regularis Concordia del 973. British Library, Londra.

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vico il Pio, il quale comprese l’importanza insita nell’unificazione delle Regole che governavano la vita monastica in quel suo tempo. Egli individuò questo fattore uniformante nella Regola benedettina modificata da Benedetto d’Aniane e dunque cercò di farla accettare a tutti i monasteri dell’impero. Con il concilio di Aquisgrana dell’816 sembrò trionfare l’idea di un «monachesimo imperiale» e la Regola benedettina riformata si avviò a divenire il fattore unificante nella vita monastica europea.

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18. Stefano II e Pipino ricevono il re longobardo Astolfo, penitente dopo la sconfitta, particolare dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana. 19. La cattedra di Pietro, dono di Carlo il Calvo a papa Giovanni VIII nell’875, simbolo del rafforzamento del papato in Occidente.

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20. Portico dell’abbazia di Lorsch, Eigenkirche del conte dei franchi Cancor e della madre, fondata nel 764 e affidata dai proprietari a Chrodegang arcivescovo di Metz, che ne divenne il primo abate. 21. In questa miniatura Ottone III è al centro della scena, tra ecclesiastici e soldati con le insegne dell’impero. Evangeliario di Ottone III, Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera. 22. Veduta di Cluny. 23. Alcune delle principali fondazioni monastiche che aderirono alla riforma cluniacense.

to mai complessa e problematica. In diverse aree europee essa era soggetta a pesanti influenze del mondo laico: poiché vescovi e abati ricoprivano tradizionalmente incarichi di pubblica amministrazione, essi erano legati alle famiglie aristocratiche; d’altro canto, i grandi signori feudali fondavano chiese che dipendevano strettamente da loro, dette ecclesiae propriae o Eigenkirchen (chiese private); l’importanza politica delle funzioni vescovili e abbaziali dava anche origine a pratiche quali la simonia (la vendita delle cariche: il termine deriva da Simon Mago, il samaritano che offre denaro a san Pietro in cambio dei doni dello Spirito Santo – Atti degli apostoli 8,18) e il nicolaismo (la trasmissione delle cariche a parenti prossimi; in origine i nicolaiti erano una setta cristiana dei primi secoli accusata di scendere a compromessi con il paganesimo). Roma, in tutto questo, non era in grado di esercitare alcuna autorità. La stessa carica papale, ben lungi dall’essere veramente elettiva, era di fatto appannaggio dei clan detentori del potere a Roma, dai Crescenzi ai conti di Tuscolo. Le discordie romane avevano richiesto più volte l’intervento diretto degli imperatori della casa di Sassonia, che con un’azione risoluta si sostituivano ai nobili romani ed estendevano al soglio pontificio il privilegium Othonis, forma di «tutela» della Chiesa già ampiamente sperimentata nel regno di Germania. Ma lo stesso controllo delle aristocrazie sulla vita della Chiesa, come si vede operante a molteplici livelli e in tutta la Cristianità, aveva in sé i sintomi di una ripresa, in quanto il controllo esercitato dagli imperatori servì spesso a elevare il livello dei pontefici e dell’alto clero.

VERSO LA CHIESA DEL SECONDO MILLENNIO Tuttavia, in una parte inizialmente minoritaria del mondo ecclesiastico cresceva la preoccupazione per il problema della libertas Ecclesiae, intesa come liberazione delle istituzioni ecclesiali dai condizionamenti dei ceti dirigenti laici. La riscossa di una Chiesa rinnovata dal suo interno giunse soprattutto dall’abbazia di Cluny, fondata nel 910 da Guglielmo duca di Aquitania e affidato all’abate Bernone, il cui programma era originale. Questi intendeva difatti seguire la Regola benedettina, ma dei due elementi di fondo dai quali la vocazione di san Benedetto è costituita – ora et labora – esaltava il primo, attribuendo un rilievo quasi totale alla preghiera e al servizio liturgico; il lavoro veniva invece prevalentemente espletato dai laici. La ricca abbazia intendeva inoltre costituirsi a modello d’indipendenza dai poteri tanto laici quanto vescovili, affidandosi al patronato diretto della Sede pontificia. Sul suo modello sorsero in tutta l’Europa molti altri monasteri. L’imperatore Enrico III, succeduto nel 1039 a Corrado II, si impegnò a proseguire nella linea di condotta stabilita dai suoi predecessori. Proprio in quanto i vescovi erano anche funzionari dell’impero e investiti dal sovrano di beneficia, egli ne esigeva un comportamento più consono al loro rango. Enrico III cominciò a scegliere i vescovi non più dai ranghi della nobiltà, ma anche dai monasteri e dai ceti emergenti cittadini. E non esitò a porgere orecchio anche alle voci più intransigenti, come quella del monaco Pier Damiani, che dal suo eremo di Fonte Avellana stigmatizzava con parole ardenti i prelati indegni e li indicava al biasimo e alla condanna dell’imperatore. Proseguendo in questo genere di

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politica ecclesiastica, nel 1046 impose l’elezione del suo candidato, il vescovo di Bamberga, che assunse il nome di Clemente II contro altri tre candidati. Il programma di riforma imperiale, tuttavia, a quel punto non era più bene accetto ai rigoristi. Enrico III venne a mancare nel 1056, lasciando un figlio bambino sotto la reggenza della moglie Agnese. Di questo vuoto di potere approfittarono i riformatori. Il pontefice Niccolò II, con il sinodo Lateranense del 1059, dettò, si può dire, lo statuto della Chiesa riformata. Da allora in poi il papa (in quanto vescovo di Roma) sarebbe stato scelto dai soli preti di Roma e dai vescovi delle diocesi suburbicarie (e di queste chiese romane e diocesi suburbicarie venivano investiti i «cardinali»); nessun ecclesiastico avrebbe più potuto accettare cariche da un laico (imperatore compreso); il celibato ecclesiastico sarebbe stato strettamente obbligatorio. I vescovi tradizionalisti non avevano d’altronde alcuna voglia di vedersi esautorati nel nome del principio delle elezioni simoniache: opposero quindi resistenza al papato, ormai sempre più nelle mani del gruppo estremistico dei riformatori, e quando nel 1061 fu chiamato alla tiara pontificia Anselmo da Baggio, capo dei riformatori milanesi detti «pàtari», che assunse il nome di Alessandro II, la reggente imperatrice Agnese fece indire a Basilea un concilio che elesse papa Cadalo vescovo di Parma. Si era dunque allo scisma. Pur non sconfessandola, Alessandro II non insisté tuttavia sulla linea della durezza contro la Chiesa simoniaca. Egli si premurò semmai di fornire un’immagine nuova del papa, in armonia con le tesi dei riformatori: il soglio pontificio doveva diventare il centro di ogni potere. Le campagne militari di conquista che Alessandro II benedisse offrendo ai conquistatori il «vessillo di san Pietro» (cioè un simbolo che di ciascuno di loro faceva un vassallo del papa) servivano a questo: Guglielmo duca di Normandia conquistando l’Inghilterra nel 1066, i normanni invadendo la Sicilia nell’ultimo terzo dell’XI secolo, Sancho d’Aragona combattendo i musulmani in Spagna, erano tutti provvisti del vessillo che del papa faceva il padrone delle corone europee. Quando nel 1073 Alessandro II morì, il suo programma fu ripreso e perfezionato da colui che aveva del resto contribuito a formularlo: Ildebrando di Soana, che ascese al soglio col nome di Gregorio VII. Egli comprese ch’era giunto il momento di portare a fondo l’attacco. Nel 1075 vietò a tutti i laici, pena la scomunica, d’investire un qualunque ecclesiastico. Nel 1078 formulò in 27 proposizioni stringate il Dictatus Papae, nel quale si affermava la tesi che il pontefice aveva in terra potere assoluto ed era in grado di deporre gli stessi sovrani laici. Ma il giovane imperatore Enrico IV, che aveva assunto il governo direttamente dal 1066,

in un sinodo riunito a Worms dalla Chiesa fedele all’imperatore, fece scomunicare e deporre Gregorio VII. Questi a sua volta scomunicò e depose lo stesso imperatore: il che comportava lo scioglimento dei suoi sudditi dal dovere di fedeltà. Lo scontro si protrasse per decenni, fino a quando, nel 1122, il concordato di Worms rappresentò l’esito politico «moderato» della lotta per le investiture. Ai vescovi veniva riconosciuta una duplice funzione, spirituale e temporale; in Germania l’imperatore avrebbe presenziato all’elezione (il che significava che avrebbe dovuto dare il suo assenso al neoeletto) e avrebbe concesso al nuovo vescovo l’investitura dei benefici temporali prima che questi venisse consacrato; in Italia e in Borgogna invece l’elezione si sarebbe tenuta senza la presenza, cioè il controllo, dell’imperatore e i benefici temporali sarebbero stati accordati soltanto con la consacrazione. Nel 1123 si tenne a Roma il concilio Lateranense I, il primo concilio ecumenico della Chiesa occidentale. Durante i suoi lavori furono ribadite le linee di fondo della nuova concezione d’una Chiesa gerarchicamente organizzata sotto la guida del papa, al quale tutti i vescovi si riconoscevano ormai subordinati.

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24. Scena dall’arazzo di Bayeux, con i preparativi della battaglia di Hastings: il pranzo con la benedizione del vescovo e Guglielmo. Centre Guillaume le Conquérant, Bayeux. 25. L’alto pulpito e il grande cero pasquale fatti erigere probabilmente da Guglielmo II (1154-1166) all’estremità della navata maggiore della cappella Palatina di Palermo. 27

26. Nel disegno acquerellato di Alfonso Ciacconio del 1590, che fa riferimento alla perduta decorazione dell’oratorio di San Nicola al Patriarchio Lateranense, sono riconoscibili alcuni papi riformatori, tra cui Gregorio VII. Biblioteca Apostolica Vaticana. 27. Onofrio Panvinio, Concordato di Worms, 1570 circa. Biblioteca Apostolica Vaticana. 28. Il duomo di Worms, costruito nel 1181 su un precedente edificio ottoniano.

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Capitolo VI

LE DONNE NELLA CHIESA E NELLA SOCIETÀ

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1. La regina Radegonda viene presentata al futuro sposo Clotario, particolare di un manoscritto del VI secolo. Bibliothèque Municipale, Poitiers. 2. Particolare di un capitello dell’ala est del chiostro di Santa María de l’Estany, Catalogna. 3. La lavorazione della lana e del lino. Dall’alto in basso: la pettinatrice, la raccolta in massa e la cardatrice. Particolare della voltina di sinistra del portale nord del fianco sinistro della cattedrale di Chartres.

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LA «STORIA DELLE DONNE» Ormai da qualche decennio, nella storiografia statunitense e poi in quella europea, la «storia delle donne» è un tema divenuto di moda, parte di un più ampio movimento di gender studies. Gli studi sul «genere» (inteso come specificità di razza o di sesso), tuttavia, possono incorrere in una pericolosa propensione a prescindere pesantemente dai riferimenti spaziali, cronologici, sociali, politici, economici, base essenziale di ogni ricerca storica. Non più dunque un’analisi della condizione delle donne nella storia, quanto piuttosto della donna come «genere» a sé: quasi esistesse uno specifico femminile eterno, posto al di fuori di ogni contestualizzazione e storicizzazione. Per i secoli medievali – ma la stessa considerazione è valida talora sino al Novecento, e in contesti non occidentali anche oltre – le società delle quali ci occupiamo non avevano la percezione dell’elemento femminile della popolazione come di un corpo separato rispetto all’insieme. In culture che consideravano la persona umana non solo e non tanto in quanto individuo, ma piuttosto all’interno del ruolo familiare e sociale che le spettava, non è possibile astrarre una «condizione femminile» univoca: l’esempio più tipico ci viene dalle pratiche matrimoniali, che soprattutto ai livelli più alti della società erano sempre intesi come uno strumento politico, favorendo alleanze tra gruppi familiari e istituzionali. Così come non è possibile parlare di una borghesia prima che il ceto medio urbano cominci a vedere se stesso in quanto gruppo sociale, o classe, a sé stante, dotato cioè di autocoscienza, lo stesso va detto per le donne: che non rappresentavano un «genere», ma una parte della società nelle sue infinite articolazioni. Dalle modeste contadine sino ai personaggi potenti e influenti: ad alcuni fra questi dedicheremo nei prossimi paragrafi una speciale attenzione. MATRIMONIO E VITA FAMILIARE Matrimonio e vita familiare mutano nel corso dei secoli, nonché a seconda di luoghi e contesti, e delle condizioni sociali. Non sempre le notizie a nostra disposizione sono esaustive. E proprio l’estrema differenziazione che si riscontra non si presta a sintesi e generalizzazioni. Nel mondo italico longobardo che si evince dagli editti dei sovrani, vediamo per esempio che la condizione della donna libera era tenuta in alto conto. L’attenzione verso i problemi di parentela è resa evidente dal gran numero di paragrafi che l’Editto di Rotari ha ritenuto opportuno dedicare alla regolamentazione della materia: oltre venti servono a illustrare le questioni patrimoniali ed ereditarie, in rapporto soprattutto ai figli legittimi. Altrettanto si può affermare per le questioni inerenti al matrimonio e alla posizione della donna nella famiglia e nella società; il gruppo riservava una rigorosa e attenta protezione alla dignità della donna libera, impossibilitata a difendersi da sola: un reato violento che toccava una donna richiedeva una composizione più alta rispetto all’omologo compiuto nei confronti di un uomo, probabilmente perché si riteneva quest’ul-

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VI. LE DONNE NELLA CHIESA E NELLA SOCIETÀ

un «semilibero») era consentito, sia pure a certe particolari condizioni, mentre l’unione di un servo con una libera era assolutamente proibita: norma, questa, comune a tutte le legislazioni germaniche. Nei secoli successivi, è assai probabile che il matrimonio basato sulla libera scelta degli sposi, e dunque non costrittivo per la donna, fosse piuttosto comune in ambito contadino, dove minori erano gli interessi economico-patrimoniali. Al contrario (e nonostante a partire dal XII secolo il tema dell’amore conoscerà sviluppi del tutto nuovi), nei ceti dirigenti tanto feudali quanto cittadini, l’imposizione di scelte matrimoniali basate sugli interessi familiari sarà la norma. MATILDE «Mathilda, Dei gratia si quid est». Il motto inciso sul sigillo di Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, sembra respirare la stessa aura d’umiltà che aveva indotto pochi anni prima un papa a definirsi servus servorum Dei. Il clima che ispirava questi motti era quello, rigoroso e appassionato, della riforma ecclesiale dell’XI secolo. Ma c’è, al tempo stesso, un’accorta e dura rivendicazione politica in quel motto: dichiarando di essere «qualcosa, solo per grazia di Dio», la gran signora padrona di un «impero» che dal Tirreno toccava quasi l’Adriatico alla foce del Po e che dall’Umbria giungeva alla Lombardia sottolineava di dovere solo a Dio la sua potenza; e sembrava «dimenticare» la mediazione imperiale che in gran parte legittimava il suo dominio. In effetti, nelle mani di questa inflessibile signora era caduta buona parte dell’Italia settentrionale: ed ella la governava nonostante l’eterogeneità dei di-

4. Una fornaia vende il suo pane, particolare di una vetrata del XIII secolo della cattedrale di SaintÉtienne di Bourges. 5. Oste con la moglie che tiene la borsa, particolare della vetrata di san Lubin (XIII secolo), navata laterale sinistra della cattedrale di Chartres.

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timo maggiormente in grado di difendersi e dunque non bisognoso di simile protezione. Se una moglie si atteneva alle regole imposte dalla società – come, ad esempio, non commettere adulterio – il marito non aveva su di lei potestà illimitata; i casi in cui i poteri sono esercitati pienamente dal marito risultano essere circoscrivibili a situazioni particolari, quali il disinteresse o la lontananza della Sippe della donna. Inoltre una moglie non era esclusa dal patrimonio del marito: in primo luogo perché ella portava al momento delle nozze il Faderfium – cioè i doni che un padre concedeva in dote quando una figlia si sposava –, la cui entità era liberamente disposta dal padre, al quale ella tornava se, rimasta vedova, decideva di rientrare in seno alla famiglia d’origine. Ancora più importanti risultano essere gli istituti della Meta e del Morgingab: il primo consisteva in quella parte del patrimonio del marito promessa alla donna nel giorno delle nozze; il secondo era invece un’elargizione che l’uomo era tenuto a compiere per testimoniare pubblicamente la sua intenzione di conferire piena validità legale al vincolo matrimoniale (il termine indica etimologicamente il «dono del mattino», che lo sposo faceva alla sposa all’alba successiva alla prima notte di nozze, e che testimoniava la consumazione del matrimonio): inizialmente sembra fosse attribuita alla Sippe della sposa, mentre col prevalere nel tempo delle caratteristiche sempre più individuali dell’unione matrimoniale si impose il costume di consegnarlo direttamente alla donna come donazione definitiva. Difatti una vedova riportava nella casa paterna questa parte del patrimonio del marito come suo possesso: in caso di morte del padre e del fratello non era costretta a dividerlo con le sorelle – al contrario del Faderfium –, ma lo teneva interamente per sé. Infine, il matrimonio fra una donna libera e un aldius (ossia

7. L’estensione del dominio della signora di Canossa.

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6. Del castello di Canossa, distrutto nel 1255 e nel 1557, le parti meglio conservate appartengono alla collegiata e alla relativa cripta.

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Roma

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8. Ritratto di Matilde di Canossa dalla Vita di Matilde scritta dal monaco Donizone all’inizio del XII secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.

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ritti che l’autorizzavano a farlo. Era nata nel 1046 dalle nozze tra Bonifacio, marchese (o, come i toscani amavano dire secondo la tradizione longobarda, «duca») di Toscana e di Beatrice di Lorena. In seguito alla morte dei suoi tre fratelli, Matilde rimase erede non solo delle terre sulle quali il padre aveva esercitato per delega il potere pubblico, cioè «feudale» (la marca di Toscana), ma anche di una quantità di beni «allodiali» (cioè privati) che, misti a quelli feudali, si estendevano per i comitati di Bergamo, Brescia, Mantova, il medio corso del Po e la Toscana meridionale. A ciò andavano aggiunti i vasti possessi lorenesi della madre. Morto nel 1052 il marchese Bonifacio, Beatrice aveva sposato in seconde nozze Goffredo III il Barbuto, duca dell’Alta e della Bassa Lorena, il fratello del quale, divenuto papa Stefano IX, gli aveva affidato lo stesso ducato di Spoleto. Poiché Matilde era erede di un patrimonio immenso, il patrigno cercò di procedere a un’irreversibile unione dei casati di Toscana e di Lorena attraverso le nozze della figliastra con il figlio Goffredo IV, detto «il Gobbo». Ma l’unione tra Goffredo e Matilde non aveva tenuto: e il duca era tornato nelle sue terre transalpine. Nel 1076, Matilde si trovò ormai priva, a sua volta, della madre e del consorte, mentre si stava profilando la fase più dura del conflitto tra Gregorio VII ed Enrico. Matilde prese con energia le redini dei suoi domini, legandosi alla causa del papa che le pose accanto, come accorto consigliere, Anselmo vescovo di Lucca. E fu proprio alla rocca avìta del suo casato, a Canossa, che nel gennaio del 1077 avvenne l’incontro – il merito del quale la tradizione attribuisce alla mediazione di Matilde – tra papa Gregorio ed Enrico IV di Franconia, che, riconoscendosi vinto, aveva implorato nella neve il perdono del pontefice. Ma la guerra riprese quasi subito, e l’imperatore poté addirittura insediarsi, nel 1081, in quella Lucca ch’era la principale città della marca. Fu proprio da lì che il sovrano la decretò deposta e bandita dall’impero in quanto rea di lesa maestà. La sorte si era rovesciata, e tutto sembrava ormai perduto: Gregorio VII, assediato in Roma, fu liberato solo dall’intervento dei suoi turbolenti vassalli normanni dell’Italia meridionale, ma finì i suoi giorni in amaro esilio. Matilde però, che aveva resistito, riuscì il 2 luglio del 1085 a battere a Sorbaia presso Modena i fautori dell’imperatore: dopo tale vittoria si ristabilì un equilibrio di forze, che permise alla magna comitissa (come la si definiva) di divenire il principale sostegno del partito della riforma, che aveva riacquistato lena sotto la guida di papa Urbano II. Nel 1089 l’ormai quarantatreenne marchesa accettò il consiglio papale di sposare Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera e d’un quarto di secolo più giovane di lei. Si trattava di una solida alleanza antimperiale, che comportò comunque per Matilde un nuovo infelice legame nuziale: un solo figlio, nato da quell’unione, morì tuttavia in tenera età. Ormai divenuta la prima e irremissibile nemica dell’imperatore, Matilde fomentò e appoggiò le successive rivolte dei suoi figli contro di lui. La morte di Enrico IV e l’ascesa al trono, nel 1111, del figlio Enrico V modificarono di poco l’atteggiamento della marchesa nei confronti della casa imperiale di Franconia. Al punto che quando morì, il 24 luglio del 1115, essendo priva d’eredi ella lasciò tutti i suoi beni alla sede pontificia, sia quelli feudali – che in quanto tali avrebbero dovuto tornare all’impero – sia quelli allodiali – sui quali pesava l’ipoteca dei diritti ereditari, che a loro volta riconducevano all’impero. Ciò fu causa di un’annosa questione, appunto detta «matildina», che turbò per secoli i rapporti fra Chiesa e impero. Al di là di questo, il suo era stato un coraggioso e lungimirante tentativo di costruire,

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9. Matilde di Canossa incontra le autorità ecclesiastiche modenesi e procede personalmente alla ricognizione delle reliquie di san Geminiano insieme all’architetto Lanfranco, al vescovo di Reggio Emilia e a tutta la popolazione nel 1106. Miniatura dalla Relatio de innovatione ecclesie sancti Geminiani. Archivio Capitolare, Modena. 10. Papa Gregorio VII e Matilde di Canossa ricevono l’imperatore Enrico IV, miniatura dalla Cronaca di Giovanni Villani, XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.

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sulla base di terre provenutele da differenti linee di dipendenza, un organico principato feudale analogo a quelli che si andavano nello stesso periodo di tempo costruendo in Francia e in Germania. 12

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11. Ildegarda di Bingen scrive su tavoletta di cera, particolare di una miniatura dello Scivias. Landesbibliothek, Wiesbaden.

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ILDEGARDA Ildegarda di Bingen (1098-1179) venne educata nel monastero di Disibodenberg, del quale divenne badessa nel 1136. Personaggio di elevata cultura, compose numerose opere di mistica, trattati morali, una settantina di poesie e un ricco epistolario. Anche se viene ricordata principalmente come mistica e profetessa, non si deve dimenticare il fatto che Ildegarda fu una donna tutt’altro che estranea alla realtà dei suoi tempi; le lettere testimoniano anzi un forte impegno a favore della riforma della Chiesa e della moralizzazione del clero. L’afflato mistico e lo spiccato profetismo non le impedirono di dedicarsi pure alle discipline naturali e alla medicina, campi in cui la conoscenza teorica appare sostenuta da interessi empirici, legati alla tradizione popolare. I suoi scritti raccolti nei trattati sulla Fisica e sulle Cause e cure, dedicati alla medicina e alle scienze naturali, rivelano un sapere che era figlio dell’esperienza e della tradizione germaniche, appena toccate dall’influenza cristiana o dalla lezione degli antichi. Ildegarda sosteneva che le sostanze naturali sono detentrici di virtù magiche che è necessario conoscere; stabiliva quindi una morfologia sacrale delle piante e delle loro virtù legata alle aree di provenienza: quelle orientali sono buone e ricche di poteri medicamentosi, quelle occidentali hanno rilievo nell’arte magica, ma non contribuiscono molto a mantenere o a ristabilire la salute del corpo, specchio evidente (in tale contesto) della salute spirituale. Molte piante e in special modo gli alberi, giungono al massimo della loro pericolosità magica quando fanno foglie e fiori, cioè in primavera: è allora – nel «tempo chiaro», in passato sacro agli antichi dei – che gli spiriti dell’aria sono più attivi. Ma vi sono modi di «disinnescare» il potere magico delle piante, salvaguardandone e valorizzandone invece quello medicinale. La mandragora, ad esempio, sosteneva Ildegarda, è calda e umida, creata dalla stessa terra dalla quale fu creato Adamo: proprio perché somiglia tanto all’uomo è, al pari di lui, sottoposta agli assalti del demonio. Per questo essa è molto utile nella magia: ma, per farle perdere i suoi poteri negativi, è sufficiente un bagno in una fonte d’acqua pura per il giorno e la notte immediatamente seguenti a quello nel quale la radice è stata estratta dal terreno. Si ha l’impressione che questo bagno della radice antropomorfa nell’acqua pura e limpida sia un simbolo del battesimo, e che la pianta si liberi dalle sue virtù negative in analogia con il lavacro battesimale che libera l’uomo dal peccato originale. Un rimedio all’incontinenza maschile, sia naturale sia indotta con mezzi magici, consisteva nel prendere una radice di mandragora femmina purificata in una fonte e legarsela per tre notti fra petto e ombelico, quindi prendere il frutto, dividerlo in due e tenerne le due parti legate per tre giorni e tre notti sull’inguine. La parte sinistra della radice antropomorfa, polverizzata, doveva esser mangiata mischiata insieme a un po’ di canfora. Se invece era una donna a esser colpita, doveva ripetere la stessa procedura usando però una mandragora maschio, e polverizzandone la parte destra. La mandragora, ancora, è utile per qualunque tipo di dolore: basta mangiare della radice antropomorfa la parte corrispondente a quella nella quale si avverte il disturbo. A chi si sentiva minacciato da forti perturbazioni e sbalzi nell’umore era consigliato di prendere la mandragora, purificata nella solita fontana per un giorno, di portarla a letto, scaldarla con il proprio sudore e rivolgere una pre-

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12. Miniatura del XIII secolo conservata nella Biblioteca di Lucca e ispirata alla visione mistica di Ildegarda di Bingen. Qui il cosmo è abbracciato da Cristo stesso, mediatore tra il Padre e l’intero creato, sintetizzato dall’uomo e alimentato dai soffi provenienti dal fuoco e dalle sfere risonanti: salute e salvezza convergono. 13. Fructus mandragorae, dal Remedium sanitatis. Biblioteca Casanatense, Roma.

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ghiera al Signore. Se non si riusciva a trovare una mandragora, un cespo fronzuto di faggio l’avrebbe sostituita: la procedura rimaneva la stessa. Nonostante la preghiera rivolta a Dio, non è facile negare qui di essere dinanzi a procedimenti di magia terapeutica, piuttosto che di vera e propria medicina. Le pagine di Ildegarda, originale pensatrice e personaggio di spicco del suo tempo, ci scoprono di colpo, in pieno XII secolo, un mondo magico al quale non si può in linea di principio escludere che si fossero aggiunte le novità che cominciavano a giungere proprio allora per la via orientale o per quella spagnola, ma che almeno in parte sembra in realtà quello di permanenze magiche a lungo negate o nascoste nei trattati di medicina e di botanica, mentre gli evangelizzatori del mondo celtico e germanico cercavano di eliminarle o di obliterarle.

14. Sigillo di Eleonora d’Aquitania. 15. Tomba di Eleonora d’Aquitania e di Enrico II d’Inghilterra nel monastero di Fontevrault. 16. Luigi VII, Corrado III e Baldovino III alla crociata del 1147. Particolare di una miniatura dalla Histoire de Guillaume de Tyr, 1097. Bibliothèque Municipale, Lione. 17. Enrico II, particolare di una miniatura. British Library, Londra.

ELEONORA Quando, intorno al 1137 Guglielmo X, duca di Aquitania, morì durante un pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, lasciò in eredità alla figlia Eleonora Aquitania e Guascogna. Lo stesso anno, secondo un accordo stipulato col re di Francia Luigi VI, Eleonora andò in sposa all’erede al trono Luigi VII. L’ingresso di Eleonora a corte non fu tra i più felici: l’Aquitania era la patria dei trovatori e dell’amor cortese, la ragazza era stata allevata in questa cultura, e i suoi comportamenti a corte facevano scandalo. Il trovatore Bernard di Ventadour, per esempio, non esitava a paragonarsi a Tristano nella sua dedizione amorosa per Eleonora d’Aquitania. Alla morte del re, inoltre, l’erede mise in atto alcune azioni politico-militari dissennate, che vennero imputate all’influenza di Eleonora e che condussero alla scomunica papale sulla coppia. Eleonora visitò allora Bernardo di Clairvaux, personaggio di spicco nella scena politica del tempo, il quale consigliò la riappacificazione dei conflitti; Eleonora e Luigi accettarono e la scomunica fu ritirata. Nel 1145 la coppia reale ebbe una figlia, Maria, che sarebbe stata una importante protagonista del mecenatismo letterario del tempo. Chrétien de Troyes si dichiara infatti tributario di Maria di Champagne per l’ideazione del soggetto del suo Lancillotto o il cavaliere della carretta. Eleonora decise quindi, sempre per far penitenza degli errori commessi, di accompagnare il marito nella crociata del 1147. Durante la spedizione, tuttavia, forti dissapori separarono la coppia. L’episodio più grave si verificò nel 1148, quando l’avanguardia, con la regina, comandata da un vassallo aquitano di questa, contravvenendo agli ordini non attese la retroguardia, che includeva il re e i pellegrini, che venne massacrata dai turchi; lo stesso Luigi si salvò per miracolo. Al ritorno in patria, era ormai evidente che il matrimonio andava sciolto. Fu infatti dichiarato nullo nel 1152, durante il sinodo di Beaugency, per un problema (ovviamente si trattava di una scusa) di consanguineità. Poche settimane più tardi, Eleonora chiedeva al conte d’Angiò e duca di Normandia, Enrico, di undici anni più giovane, di raggiungerla e unirsi

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in matrimonio con lei. Quando questi, nel 1154, fu incoronato re d’Inghilterra, Eleonora divenne per la seconda volta regina. Sino ai primi anni dell’XI secolo i re capetingi erano stati in grado di regnare veramente soltanto sui diretti possessi della corona, vale a dire su una ristretta porzione della Francia centro-settentrionale (la cosiddetta «Île-de-France», fra Senna e Loira). Il resto del regno era diviso in potenti ducati (Normandia, Bretagna, Aquitania) e in grandi contee (Fiandra, Lorena, Champagne, Borgogna, Tolosa), qualcuna delle quali più vasta e ricca dei possessi regi medesimi. Inoltre nel 1066 un vassallo del sovrano, Guglielmo duca di Normandia, era divenuto re d’Inghilterra. Con ciò si era creata una situazione paradossale: feudalmente soggetto al re di Francia per i suoi territori al di qua della Manica, quello d’Inghilterra era suo parigrado al di là del canale. Con l’unione fra Enrico ed Eleonora, Normandia, Aquitania, Angiò e altri importanti territori del regno di Francia venivano in un modo o nell’altro a dipendere dal re d’Inghilterra, che tuttavia ne aveva la signoria in quanto vassallo del sovrano francese. Ne derivò una lunga guerra che, con battute d’arresto e alterne vicende, si sarebbe esaurita soltanto a metà del XV secolo e avrebbe lasciato la traccia in una tradizionale rivalità tra Francia e Inghilterra.

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Capitolo VII

L’IMPERATORE

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CARLOMAGNO E LEONE III Dopo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476, l’impero d’Oriente, in quanto diretta prosecuzione dell’impero romano, restava l’unica fonte riconosciuta di autorità, di legge e di diritto. In Occidente, tanto il papa quanto i re romanobarbarici conoscevano e accettavano questa realtà, indiscutibile per quei tempi. Solo con la creazione di una nuova corona imperiale, quella attribuita a Carlomagno, la situazione cambia. Ma il percorso che portò a questa innovazione è tutt’altro che lineare. Difatti, affacciandosi alla penisola italica, Carlo aveva compiuto un passo sostanziale verso Oriente. In Italia v’era Ravenna, l’antica capitale dell’esarcato, e Roma, a sua volta allora città in parte almeno bizantina; l’intera Italia meridionale, inoltre, era soggetta a Bisanzio e, culturalmente parlando, molto grecizzata. Aver occupato l’Italia significava, per Carlo come per i longobardi, entrare in contatto con Bisanzio, divenire confinanti. D’altro canto l’impero bizantino del tempo era in crisi: lo scisma iconoclastico aveva creato seri problemi al suo interno, e soltanto alla fine dell’VIII secolo l’imperatrice Irene lo aveva denunziato. Tuttavia, pesanti accuse pesavano sulla vita privata e sul comportamento politico della sovrana. Carlo aveva interesse, da un lato, a entrare in rapporti diplomatici e insomma a essere accettato come interlocutore dalla corte costantinopolitana, e ciò gli riuscì al punto che impostò le trattative per un matrimonio fra un suo figlio e una figlia dell’imperatrice; il sovrano franco comprendeva però come si dovesse ad ogni costo evitare un troppo stretto riavvicinamento fra corte imperiale e curia papale, e a tale scopo accettò perfino di misurarsi in questioni teologiche, facendo redigere quei Libri Carolini che, nelle sue intenzioni almeno, avrebbero dovuto condurre a una revisione del problema delle immagini in un senso molto diverso da come era avvenuto a Costantinopoli e a Roma. Dietro atteggiamenti del genere, v’era una minaccia indirizzata al pontefice. La potente Costantinopoli era lontana; egli era per contro vicino, e sarebbe stato amico prezioso ma anche, al bisogno, nemico implacabile. Papa Leone III comprese tale messaggio: elevato al soglio pontificio nel 795, chiese immediata protezione a Carlo contro l’aristocrazia romana che minacciava le sue prerogative; ma, siccome i romani persistevano nel loro atteggiamento d’inimicizia nei suoi confronti, nel 799 si recò in Francia per chiedere un più diretto ed energico sostegno. Carlo scese a Roma, in apparenza come mediatore; tuttavia, nella notte di Natale dell’800 assunse un equivoco titolo imperiale. Il papa lo incoronò, mentre la folla raccolta in San Pietro lo acclamava (l’acclamazione era un elemento giuridico importante nell’incoronazione imperiale fin dai tempi di Roma). Il gesto del Natale 800 resta un enigma. Papa Leone aveva forse inteso ricompensare così chi lo aveva sostenuto; ma, con questo gesto, egli intendeva anche dichiararsi libero dalla tutela dell’imperatore bizantino? O addirittura rivendicare il suo diritto a disporre della corona imperiale, quindi a incoronare, ma

1. Interno della basilica di San Vitale, Ravenna. 2. L’imperatrice Irene raffigurata nel mosaico della tribuna sud di Santa Sofia, Istanbul.

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3-5. Incontro e saluto tra l’imperatore Carlomagno e papa Leone III che gli va incontro alle porte di Roma (3). Carlomagno viene incoronato dal popolo romano (4) e da papa Leone III (5). Gothae Weltchronik, 1270. Forschungsund Landesbibliothek, Ms. Memb. I 90, fol. 76r, 78v e 76v, Gotha.

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anche – in caso di necessità – a deporre? Dal suo canto, l’aristocrazia romana rivendicava, con le acclamazioni, l’antico diritto del popolo romano a disporre dell’impero. Carlo, secondo alcune fonti, fu còlto di sorpresa dalla situazione e mostrò sulle prime di non gradirla: certo, essa lo poneva in una situazione di obiettivo confronto con Bisanzio; d’altronde gli forniva un’autorità almeno morale sul suo popolo e sull’Occidente quale nessun re germanico aveva avuto fino allora. IL SACRO ROMANO IMPERO Per comprendere l’evoluzione delle corone imperiale e regie nello scenario dell’Europa postcarolingia è essenziale distinguere, come già facevano i romani, fra auctoritas e potestas: cioè tra diritto all’esercizio del potere (auctoritas) ed esercizio del potere in sé e per sé (potestas); questo perché in Occidente, anche nei momenti di più forte eclisse del potere pubblico, l’idea che un’autorità sovrana fosse necessaria a legittimare un potere che di per sé si poteva ben esercitare mediante il semplice uso della forza non venne mai meno. I feudatari governavano, almeno sul piano formale, in quanto investiti di pubblici poteri: tuttavia, essi e le loro famiglie si erano semmai appropriati ereditariamente – in mancanza di istituzioni statali in grado di esercitare un controllo su questi problemi – dei pubblici uffici, usandoli praticamente come una proprietà «allodiale» (quindi privata). Nel 962 la corona imperiale era finita nelle mani di un principe sassone, Ottone I, il quale era riuscito a imporre la sua autorità come re di Germania e d’Italia. Da allora in poi le sorti dell’impero e quelle dei tre regni tedesco, italico e borgognone (che a sua volta sarebbe andato al re di Germania ai primi dell’XI secolo) sarebbero restate unite, nell’Europa medievale e moderna, in una specie di «complesso di poteri sovrani» che avrebbe conosciuto varie vicissitudini. Tuttavia il suo mito politico, la sua idea-forza sarebbero rimasti forti e profondi

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REGNI ANGLO - SASSONI

F RISIA SASSONIA

Rouen BRETAGNA MARCA DI BRETAGNA

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6. Corona ferrea del regno italico, con cui si incoronava il designato re d’Italia, IX secolo. Museo del Duomo, Monza.

Mare del Nord

Parigi

A USTRASIA Reims

7. Carta della massima estensione dell’impero carolingio.

Aquisgrana

TURINGIA Fulda

Metz F RANCONIA Lorsch

NEUSTRIA Ratisbona BORGOGNA A LEMAGNA BAVIERA Danubi

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S

o Einsiedeln San Gallo Salisburgo A QUITANIA Lione Milano LOMBARDIA IMPERO av Venezia G UASCOGNA a BULGARO Tolosa PROVENZA CROAZIA Ravenna SETTIMANIA Nin Pliska Spalato MARCA DI SPAGNA STATO DUCATO DI Ragusa PONTIFICIO SPOLETO EMIRATO Barcellona DI CORDOVA Roma Benevento Costantinopoli DUCATO DI Tessalonica Napoli BENEVENTO I MP

Palermo

M a r Massima estensione dell’impero carolingio

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ERO

Atene

BIZANTINO

Efeso

M e d i t e r r a n e o

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ri romano-germanici tentarono in vario modo di farsi accettare da quelli bizantini come loro pari: con i rapporti diplomatici, con le minacce, con l’instaurarsi di vari legami familiari. Ma i sovrani di Costantinopoli continuarono a chiamarli soltanto «re dei tedeschi». Insomma, il Sacro Romano Impero della nazione tedesca nasce da una serie di equivoci e di atti forzosi di volontà politica; esso tuttavia si trasforma presto in una idea-forza fondamentale, senza la quale non solo non si capisce la storia medievale, moderna e contemporanea dell’Europa, ma neppure si riesce a dare dell’Europa stessa quell’immagine culturalmente, storicamente e politicamente unitaria che viceversa è divenuta ai giorni nostri una necessità condivisa da gran parte degli europei.

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8. Scrigno dell’imperatore Carlomagno, 1215. Dom St. Maria, Chorhalle, Aquisgrana. Sulla facciata Carlomagno, papa Leone III e il vescovo Turpino di Reims e sul lato altri imperatori. 9. Miniatura dell’Evangeliario di Liuthar: Liuthar offre l’evangeliario a Ottone III Christomimete. Domschatz, Aquisgrana. 10. Investitura del re Narsete da parte della dea Anahita, 300 d.C. circa. Naqsh-i Rustam, Iran.

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nella cultura giuridica e politica dell’Europa, della cui coscienza sono stati a lungo uno degli elementi fondamentali. Tale «complesso di poteri sovrani» è quel che noi conosciamo con il nome di «Sacro Romano Impero della nazione tedesca»: «sacro» e «romano» (due termini impiegati con spirito di emulazione rispetto a Bisanzio) in quanto considerato in qualche modo eredità e ripresa di quell’impero romano che – nella mentalità degli uomini del tempo – non era mai caduto, ma aveva visto le sue istituzioni deteriorarsi nella pars Occidentis mentre era rimasto ben vitale nella pars Orientis; «della nazione tedesca» perché ne erano fulcro quelle genti di stirpe germanica che si riconoscevano come unite nel regno dei «franchi orientali», sempre più sovente definito «regno di Germania». Nei secoli successivi il titolo di imperatore sarebbe rimasto prevalentemente elettivo, in quanto legato all’assegnazione della corona tedesca che era appunto conferita sulla base di un’elezione. Il corpo elettorale era costituito dai grandi nobili del regno di Germania; col tempo, alcune grandi famiglie avrebbero tentato di rendere ereditario il diritto a quella corona, come si stava facendo in altri paesi; infine, verso la fine del medioevo, vi sarebbe riuscita la famiglia degli Asburgo, che avrebbe mantenuto la corona del Sacro Romano Impero fino al 1806. Ma in che modo il nuovo impero poteva davvero dirsi «romano»? Gli imperato-

LA SACRALITÀ DEL POTERE Secondo gli studi di Georges Dumézil, la funzione regale è «contesa» tra due sfere: quella magico-sacerdotale e quella eroico-guerriera, perché entrambe partecipano del delicato compito della fondazione del diritto e dell’amministrazione della giustizia. La regalità sacra è posta da Mircea Eliade al centro della sua complessa meditazione sull’equilibrio cosmico, del quale il sovrano in molteplici civiltà appare garante, del rapporto fra cielo e terra rispetto al quale il sovrano è «ponte», mediatore. Le sue conclusioni sono state confermate a livello propriamente antropologico da Gilbert Durand, che ha studiato la dimensione monarchica nell’ambito dei simboli ascensionali, sottolineando la connessione tra divinità uranica, regalità e paternità, da cui deriva il forte rapporto – vivo in tante e diverse tradizioni – tra le dimensioni del «Dio-Padre» uranico e del «Re-Padre». Il punto è quindi stabilire se il «Re-Padre» è aspetto del «Dio-Padre» o suo vicario-rappresentante-immagine. Le due forme archetipiche della monarchia sacra, l’egizia e la babilonese, forniscono al riguardo le due rispettive Urgestalten del redio e del re-sacerdote. La riflessione eliadiana si rivela fondamentale per lo storico proprio in rapporto al concetto cristiano di regalità, in particolare alla teologia imperiale sviluppata sia nell’impero bizantino sia nell’Europa occidentale a partire dall’età ottoniana. È evidente che basileis e imperatores cristiani svilupparono il loro concetto di regalità sacra alla luce del modello costituito dalla regalità del Cristo. Ma le scaturigini della dimensione imperiale cristiana – garantite appunto dal Cristo come sovrano cosmico, Signore dello spazio e del tempo, Kosmokrator e Kronokrator – stavano essenzialmente nelle tradizioni egizia e persiana, entrambe rivisitate attraverso la ridefinizione di Alessandro il Grande, ma avvicinate in modo apparentemente «diretto» (in realtà la mediazione alessandrina era comunque presente) prima da Cesare e da Augusto nell’Egitto tolemaico e poi dai Soldatenkaiser del III secolo, che avevano elaborato le dimensioni sia dei re-sacerdoti siriaci dediti ai culti solari, sia dei Gran Re arsacidi. Con la cristianizzazione dell’impero a questi modelli si era andato aggiungendo con forza quello davidico-salomonico desunto dall’Antico Testamento e provvisto d’una sua forte carica messianica. L’imperatore cristiano si era, da allora, presentato come vicario e figura del Vero Re, il Cristo; il sovrano terreno era typus Christi, ma il carattere sacramentale della sua incoronazione – specie dopo l’adattamento del rituale veterotestamentario dell’unzione – ne faceva dei «Cristi del Signore». Questa complessa dinamica si riflette nei cerimoniali: sia

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11. L’imperatore Carlomagno tra Catone e Seneca. Tessuto della metà del XIV secolo. Domschatz, Halberstadt.

in quello imperiale romano pagano, sia in quello cristiano, che ne costituì la continuazione ma anche la riforma profonda. Proprio nell’Incarnazione, e quindi nella giustificazione cristiana d’una regalità sacra come simbolica e vicariale rispetto alla regalità del Cristo, esse possano convergere. Presentandosi nell’Incarnazione – secondo le tre funzioni adombrate nel racconto evangelico dei doni dei Magi – come Vero Dio, Vero Re e Vero Uomo, il Cristo si presenta insieme come sovrano e come reggitore, come garante d’un ordine che scende dall’alto e di una norma cosmica che presiede alle cose e le ordina. Simbolo per eccellenza di tale potere è la corona. Gli imperatori romani dopo la proclamazione del cristianesimo come religione di Stato, alla fine del IV secolo, conservarono il diadema ch’era entrato nell’uso imperiale soprattutto a partire dal III secolo d.C., sulla base dell’assimilazione progressiva e non incontrastata della funzione imperiale alla regalità sacra d’impronta ellenistica, che Alessandro e i suoi successori avevano desunto dai modelli egizio e persiano. Ma se la corona di fronde o di foglie – al naturale o metallica, imitante comunque fronde e foglie – apparteneva nella tradizione pagana ai vincitori d’una gara e in quella cristiana agli athletae Christi, ai martiri, la corona di spine del Cristo rex unius diei va posta in rapporto con quella di rose che si portava in segno di gioia. Gli imperatori cristiani non osarono riassumere il segno cristico della corona di spine: anzi, quando i crociati presero nel 1099 Gerusalemme si disse che non fosse lecito fondarvi un regno cristiano, che nessuno avrebbe potuto osar portare corona d’oro là dove il Cristo era stato coronato di spine. Le corone medievali rappresentano uno sviluppo del diadema imperiale, costituito da una fascia continua di metallo prezioso tempestata di gemme o da una fascia «a placche», come si vede nella corona del tesoro imperiale di Vienna, risalente pare al X secolo e sormontata da un ponte aureo che indica la funzione mediatrice del sovrano, «ponte» tra volontà divina e popolo. Più tardi, si recuperarono altre forme di corona, come quelle «radiali» originariamente connesse col culto imperiale del Sol comes invictus. Il coronamento cruciforme è rimasto tradizionale in tutte le corone europee, nonostante il processo di secolarizzazione: esso rinvia all’origine divina del potere, che si può anche respingere sul piano concettuale ma che riaffiora insistentemente e irrinunziabilmente su quello simbolico. OMAGGI SIMBOLICI In Occidente la regalità sacra – specie nella sua direzione imperiale romanogermanica: ma anche in quelle regie francese, franco-normanna, italo-normanna, iberica – ha proceduto nella ferma fedeltà alla dimensione cristica e cristomimetica del sovrano: lo si vede bene sia nelle affermazioni che presentano l’autocoscienza del sovrano nei confronti della sua missione, sia nelle espressioni omiletiche e propagandistiche, sia negli scritti dei teorici dell’impero, sia nei cerimoniali d’incoronazione, sia infine negli stessi oggetti simbolici della regalità, a cominciare dalle corone.

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12. Reichskrone, la corona dell’impero, che per secoli conservò la funzione di incoronare gli imperatori tedeschi. Weltliche Schatzkammer, Hofburg, Vienna. 13. Corona di foglie di quercia in oro deposta sulle ossa del re nella tomba di Filippo il Macedone a Vergina.

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Il rifondatore della concezione sacrale dell’impero nei termini che accettano da una parte l’eredità carolingia e ottoniana, ma dall’altra vi aggiungono una rinnovata consapevolezza della funzione e dell’ufficio imperiali alla luce del diritto romano di recente ricondotto in Occidente, è Federico I di Svevia. Che le caratteristiche del nuovo sovrano – ancora «re dei romani», quindi candidato alla corona imperiale che solo il papa avrebbe potuto conferirgli – fossero diverse da quelle dei suoi predecessori non diciamo carolingi, ma anche sassoni e franconi, lo si vide dall’incontro tra Federico, sceso in Italia per assumere le corone appunto italica e imperiale, e papa Adriano IV. L’incontro, detto «di Sutri», ebbe luogo l’8 o il 9 giugno 1155 presso il campo imperiale, eretto non lontano dall’arcigna città chiusa nei suoi bastioni tufacei. E fu, come sovente accade nelle circostanze in cui etichetta diplomatica formale e tensione politica si scontrano, così drammatico da rasentare il ridicolo. Federico attese difatti a piè fermo che il pontefice scendesse da cavallo e s’assidesse sul trono preparato per lui: dopodiché, da buon cristiano e figlio leale della Chiesa, si apprestò al bacio del piede. La sequenza rituale prevedeva che a

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VII. L’IMPERATORE

l’impero è stato provvidenzialmente creato per allontanare dalla Chiesa ogni male in questo mondo. Si affermava inoltre la plenitudo potestatis del «successore di Giustiniano», il suo diritto concettuale al dominium mundi. Da allora in poi, la Cristianità non si riconosce più nella Sancta Romana Res Publica, bensì nel Sacrum Romanum Imperium, dove la sostituzione dell’aggettivo sancta con sacrum non è orpello linguistico-stilistico, ma contiene un preciso rinvio allo ius in sacris, in forza del quale alla sfera delle competenze dell’imperatore apparteneva anche il diritto di intervenire nelle questioni ecclesiastiche. L’eredità carolingia era tutt’altro che rinnegata o accantonata: ma veniva inserita in un continuum, dall’antichità romana al presente, che nessuno in Occidente aveva fino allora mai osato sostenere.

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Regno di Germania Territori degli Hohenstaufen Territori dei Welf Regno d’Italia Territori imperiali in Italia Territori della Chiesa Territori acquisiti dalla Chiesa a partire dal 1266 Territori annessi all’impero dal 1158 al 1231 Confine del Sacro Romano Impero Germanico nel 1152

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15. L’imperatore Federico Barbarossa, raffigurato con un dignitario di corte prima del 1205, sul portale della facciata del duomo di Frisinga.

questo punto il papa avrebbe dovuto posargli sollecito le mani sulle spalle, rialzarlo e dargli l’osculum pacis. Ma il papa gli rifiutò quel bacio in quanto il re non gli aveva prima prestato il servizio di strator, di staffiere. In effetti, secondo una tradizione che sembra risalire alla metà del IX secolo – cioè all’incoronazione di Ludovico II – e che si fondava sempre sulla Donazione di Costantino, all’atto dell’incontro con il papa, il re germanico usava prendere il cavallo del pontefice per il morso, guidarlo per un tragitto lungo quanto un tiro di sasso, indi fermarlo e, tenendo ben salda con la sinistra la staffa, aiutare il papa a smontare. Era, appunto, il servizio che uno staffiere prestava abitualmente al suo signore: e Federico vi si era rifiutato in quanto vi aveva ravvisato gli estremi d’un gesto vassallatico, compiere il quale avrebbe potuto equivalere a riconoscersi fidelis del papa e a riconoscere in questi il proprio senior. Tutta la questione era estremamente ambigua. Il papa dichiarò che l’atteggiamento del sovrano era prova del suo scarso rispetto per il vicario di Pietro, ammettendo con ciò di non attribuire alcun contenuto sostanzialmente giuridico al servizio della staffa romano. L’esercito imperiale giunse a Roma verso il 18 giugno, e in quel giorno Federico cinse la corona imperiale in San Pietro. Era di sabato anziché di domenica, com’era usanza: prova che la cerimonia dell’incoronazione si svolse all’insegna della fretta, forse della preoccupazione. La sera prima il cardinale Ottaviano Monticelli, quasi segretamente, era penetrato nella cinta leonina con un piccolo reparto di armati, e aveva presidiato la basilica. Il giorno seguente, di primo mattino, erano entrati nella medesima cinta anche il papa e i cardinali. Giunse poi Federico, smontò da cavallo e prima di accedere alla grande chiesa giurò – nella chiesetta di Santa Maria in Turri, che dodici anni più tardi le sue truppe avrebbero incendiato – che sarebbe stato un fedele difensore della Chiesa di Roma. Indi, in solenne corteo, il re e il suo seguito mossero verso San Pietro, dove Federico ricevette l’unzione sacra e poi, durante la messa, assunse dalle mani del papa i simboli del potere imperiale: l’anello signaculum sanctae Fidei, la spada, la corona signum gloriae, lo scettro virga virtutis, il globo. Più tardi, nel 1158, il sovrano inviò ai prelati e ai principi cristiani una specie di lettera enciclica. La corona gli veniva – sosteneva Federico – direttamente da Dio attraverso l’elezione dei principi. Su ciò, egli si dichiarava disposto piuttosto a morire che a tollerare pretese offensive nei confronti dell’honor imperii. La dottrina delle «due spade» era presente nella lettera di Federico, ma interpretata nel senso che a Dio esse appartengono entrambe ed Egli ne consegna rispettivamente una al pontefice, una al sovrano. Uno è Dio, una la Chiesa: e

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14. Impero e sacerdozio, tessuto del 1200 circa. Stiftskirche St. Servatius. Quedlinburg.

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16. L’impero romano-germanico all’epoca degli Hohenstaufen (1136-1254), caratterizzata dai governi del Barbarossa e di Federico II.

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VII. L’IMPERATORE

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17. L’imperatore Carlo IV ritratto nel triforio della cattedrale di San Vito, da lui fatta costruire dopo lo spostamento della capitale a Praga. 18. La Porta d’Oro della cattedrale di San Vito a Praga.

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Nel 1346, alla morte di Ludovico il Bavaro, divenne re di Germania Carlo IV, figlio di Giovanni di Lussemburgo, che, avendo sposato l’ereditiera del trono boemo Elisabetta, era divenuto anche re di Boemia. Carlo IV (1348-1378) scese in Italia, dove assunse nel 1355 la corona imperiale, ma in genere risiedette oltralpe. Egli si rese perfettamente conto di due cose: primo, che il destino dell’imperatore romano-germanico era, se voleva avere davvero un po’ di potere, quello di svolgere anzitutto il ruolo di re tedesco; secondo, che tale ruolo poteva essere svolto tanto meglio quanto più ampia era la base di potere territoriale direttamente e realmente gestito dall’imperatore. Per questo provvide anzitutto a rafforzare i suoi territori boemi: fece di Praga la splendida capitale del suo impero, dotandola fra l’altro di una grande università; e incoraggiò perfino, nella sua cancelleria, l’uso del tedesco in luogo del latino. Carlo IV sapeva molto bene che una delle ragioni di cronica debolezza della corona tedesca era data dall’incertezza relativa a chi fossero coloro che avevano il diritto di eleggere il re. Tale diritto era in genere affidato ai nobili della Germania, ma senza alcun ordine preciso. Una volta incoronato imperatore, Carlo IV emanò quindi un documento, detto Bolla d’Oro (1356), nel quale si precisava che i «principi elettori» dell’impero avrebbero dovuto da allora in poi essere quattro laici (il re di Boemia, il margravio del Brandeburgo, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato) e tre ecclesiastici (gli arcivescovi di Magonza, Colonia e Treviri). L’elezione sarebbe dovuta avvenire a Francoforte, l’incoronazione a re di Germania in Aquisgrana. Poiché base della potenza dinastica era il potere territoriale, Carlo acquistò nel 1353 il Palatinato Superiore, mentre nel 1373 si assicurò il Brandeburgo. Il regno tedesco risultava fondato sugli «ordini» (Stände: i grandi principi imperiali, l’aristocrazia laica ed ecclesiastica, i ceti produttivi e imprenditoriali urbani).

19. Coro e triforio della cattedrale di San Vito a Praga. 20. La collocazione dei principi elettori dopo la Bolla d’Oro del 1356.

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VERSO L’IMPERO MODERNO Nella prima metà del XIII secolo, Federico II, nipote del Barbarossa ed erede per parte di madre del regno normanno italo-meridionale, sembrò poter rappresentare il culmine dell’ideologia imperiale. La sua sconfitta dinanzi al papato e ai comuni italiani, e la inaspettata scomparsa nel 1250 fecero sì che le sorti dell’impero conobbero un cinquantennio di difficoltà. La ripresa nel corso del XIV secolo passò per una ridefinizione dell’istituzione imperiale, e per un suo maggiore radicamento in territorio germanico. La Germania era divisa nel Trecento in una quantità di Stati feudali retti da principi laici o ecclesiastici, e in un gran numero di città mercantili che tendevano a federarsi tra loro. L’impero era – in quanto l’imperatore era anzitutto re di Germania – una sorta di simbolo e di garante di questa «unità» tedesca, più culturale e spirituale che politica, ma non vantava sul territorio un potere effettivo. Esso era, inoltre, elettivo, anche se non erano in passato mancati tentativi di renderlo ereditario. Dalla seconda metà del Duecento si andò tuttavia delineando la tendenza a scegliere l’imperatore all’interno di due sole dinastie: gli Asburgo, una dinastia che a partire dalla prima metà del secolo aveva saputo saldamente organizzare il ducato d’Austria, e i Lussemburgo, che si erano imparentati con i regnanti di Boemia. Nel 1322 si fece incoronare re di Germania, senza chiedere alcuna ratifica pontificia, Ludovico il Bavaro, che intervenne subito in Italia in appoggio ai suoi fedeli vicari imperiali, i Visconti signori di Milano. Papa Giovanni XXII scomunicò l’imperatore; ma questi rispose accusandolo non solo di abuso di potere, in quanto usurpava funzioni temporali che non gli competevano, ma addirittura d’eresia. Infine, nel gennaio 1327 Ludovico il Bavaro si fece incoronare a Roma, ma non da un vescovo emissario del papa, bensì dal senatore della città, Sciarra Colonna. Le decisioni di Ludovico il Bavaro erano maturate soprattutto grazie al contributo di due grandi pensatori che gli erano stati vicini: Marsilio da Padova e Guglielmo d’Ockham. Marsilio da Padova (1275-1342) era un pensatore e studioso padovano docente universitario alla Sorbona. Nel 1324 compose un trattato di teoria politica, il Defensor pacis, dedicato all’origine della legge, nel quale era svolto il concetto dell’autorità politica come dotata di una sua piena autonomia da quella religiosa, e sostenuta dal «popolo», o meglio dalla sanior e melior pars di esso. Marsilio proponeva inoltre che i vescovi venissero eletti da assemblee popolari e che massima autorità ecclesiastica fosse non più il papato, bensì il concilio. Guglielmo d’Ockham (1280-1349), inglese di nascita, entrò molto giovane nell’Ordine francescano e dal 1307 al 1318 studiò nell’Università di Oxford, dove svolse in seguito la sua attività di docente. Secondo lui, fra autorità religiosa e autorità civile la distinzione deve essere netta, in quanto diversi sono i fini di ciascuna. L’opera che fornì il maggiore aiuto alle tesi di Ludovico IV fu il Dialogus, nel quale sosteneva che l’autorità imperiale deriva da Dio non per il tramite del papa bensì per quello degli uomini. Inoltre – commentava l’Ockham – l’imperatore è sì superiore alle leggi, ma sottoposto all’equità naturale; egli non deve pertanto impartire ordini che siano nocivi al popolo e, quando lo faccia, diviene lecito disubbidirgli. Con Marsilio da Padova e con Guglielmo d’Ockham siamo dinanzi ai fondamenti del potere statale inteso modernamente.

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Capitolo VIII

I RE LA PENISOLA IBERICA Dopo la disgregazione dell’impero carolingio, in vari paesi dell’Europa occidentale si avviò un processo di riorganizzazione intorno ai poteri monarchici; in un primo momento tale processo non comportò una cancellazione della rete vassallatico-beneficiaria, nel senso che alcune dinastie si posero a capo del complesso sistema signoriale che aveva bene o male governato l’Europa postcarolingia. Si crearono così monarchie che inserivano il sistema feudale nella loro logica di governo, cercando di costringere – con risultati alterni – le aristocrazie ad agire in modo coerente rispetto alla politica regia. Gli esempi più caratteristici di monarchia «feudale» vanno individuati nella penisola iberica, in Inghilterra, in Francia.

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1. L’imperatore Carlomagno in trono, affresco del chiostro del duomo di Bressanone, 1410-1420 circa. 2. Carta dell’Europa carolingia e postcarolingia, secoli VIII e IX.

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VIII. I RE

VIII. I RE

Fu probabilmente alla fine del luglio del 711 che una grossa flotta musulmana, al comando del berbero Tariq ibn Ziyad, prese terra nella baia di Algeciras. Le forze arabo-berbere ascendevano forse a 10.000 uomini circa. La rapidità della conquista di quella che gli arabi chiamavano al-Andalus (avevano imparato a chiamarla così in Africa, dov’essa era ancora «la terra dei vandali») fu tale che, per spiegarla, si è parlato della complicità degli ebrei, degli eretici rimasti ariani dopo che i visigoti si erano convertiti al cristianesimo «romano» e della fazione gota nemica di Roderico. Ma la conquista saracena della penisola iberica non era totale; fra le asperità dei Pirenei e dei Cantabrici, sopravvivevano focolai di resistenza cristiana. Il goto Pelagio organizzò nelle Asturie, nel 720, il principato che una ventina di anni dopo si sarebbe trasformato in regno e avrebbe posto la sua capitale in una nuova città, Oviedo, fondata nel 760. Le genti basconavarresi – che avevano tenuto testa anche ai visigoti – seppero mantenere dal canto loro l’indipendenza; e si organizzò così di fatto nel terzo-quarto decennio del IX secolo tra galiziani, cantabrici e asturiani, con l’appoggio d’un pugno di guerrieri visigoti rifugiati presso di loro, il piccolo principato di Navarra, che sarebbe divenuto regno un secolo circa più tardi. Dalle Asturie, dalla Navarra e dall’Aragona settentrionale avrebbe preso l’avvio di lì a poco il movimento detto successivamente della Reconquista cristiana. Alla fine del X secolo, la frontiera tra Spagna musulmana e Spagna cristiana si situava attorno alla linea del Duero ed era abbastanza fluida; al margine di nord-est di quel confine, i catalani – dopo aver respinto una serie di attacchi dei musulmani a Barcellona tra 985 e 1003 – ambivano a loro volta a spingere il territorio da essi controllato almeno fino a Tarragona, a metà strada fra la loro capitale e la città musulmana di Tortosa alla foce dell’Ebro. La situazione cominciò a mutare sensibilmente solo alla fine del XII secolo. Il

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3. Veduta d’insieme del Palazzo del Naranco, Asturie, destinato in origine a funzioni di rappresentanza.

5. Il castello di Gormaz, nella valle del Duero, serviva a fronteggiare gli attacchi dei regni cristiani del nord.

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8. La bandiera almohade detta «de Las Navas de Tolosa», 1212-1250 circa, dalla località della decisiva battaglia del 1212. Museo de Telas Medievales, Real Monasterio de las Huelgas, Burgos.

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6, 7. Miniature con scene di battaglia tratte dalle Cantigas de Santa María. Real Biblioteca de El Escorial.

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Terre islamiche alla fine del XIII secolo Le fasi della Reconquista

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4. Le fasi della Reconquista.

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16 luglio 1195 il califfo almohade (un movimento religioso rigorista che si era imposto in tutto il Maghreb) al-Mansur aveva battuto il re castigliano Alfonso VIII nel grande scontro campale di Alarcos. Erano passati appena otto anni dalla presa musulmana di Gerusalemme, e il nuovo pontefice Innocenzo III era ben deciso a tenere sotto controllo almeno la situazione della penisola iberica. Alla campagna parteciparono i re Alfonso di Castiglia e Pietro d’Aragona, gli Ordini cavallereschi di Santiago, di Alcantara e di Calatrava, sorti in Spagna per la lotta contro i musulmani, molti cavalieri spagnoli, portoghesi e franco-meridionali, e in un secondo momento anche Sancho di Navarra. Le forze in campo erano soverchianti, e il 17 luglio del 1212 la spedizione si concluse con la grande vittoria di Las Navas de Tolosa, tra Castiglia e Andalusia.

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VIII. I RE

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10, 11. Due esempi di architettura di derivazione catalana, frutto dell’espansione non solo commerciale aragonese: il santuario di Santa Maria di Bonaria a Cagliari e il campanile della cattedrale di Alghero. 12. Truppe al comando di Guglielmo il Conquistatore alla volta dell’Inghilterra, particolare di un manoscritto del XII secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 13. Inghilterra e Normandia dopo il 1066.

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9. L’arsenale di Barcellona, uno dei più fiorenti porti mediterranei.

fusione tra l’elemento danese e le genti anglosassoni dell’isola, pur riservando i posti di comando ai suoi fedeli vichinghi; infine, mantenne buoni rapporti con la Chiesa inglese. Tuttavia, morto Canuto nel 1035, tra i figli si aprirono lotte per la successione, che lasciarono aperta una strada alle mire espansionistiche dei normanni. Salì brevemente sul trono un nuovo re inglese, Aroldo, ma il duca di Normandia Guglielmo il Bastardo a Hastings sconfisse il re inglese e il 25 dicembre del 1066, a Westminster, Guglielmo detto «il Conquistatore» fu incoronato re d’Inghilterra. Nel corso del suo regno, che durò fino al 1089, sottomise la vecchia aristocrazia anglosassone e, pur non spogliandola di tutti i suoi beni, ne confiscò una parte consistente per darla in feudo ai suoi seguaci. Tuttavia ebbe cura che i feudi restassero piccoli, in modo che in Inghilterra non si verificasse mai quella prevalenza della aristocrazia sulla corona che caratterizzava la situazione francese. Inoltre, organizzò con cura le circoscrizioni locali (shires) dirette da funzionari regi, gli sheriffs. Grazie a tale organizzazione, nel 1086 gli fu possibile ordinare un catasto, il Domesday Book, che permise al sovrano di conoscere fino in fondo la realtà delle strutture fondiarie del regno.

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La vittoria apriva ai cristiani la ricca e splendida regione dell’Andalusia, e preludeva alla caduta della stessa capitale del califfato, Cordova, che difatti veniva conquistata nel 1236. Nel 1260, la Reconquista poteva dirsi compiuta: mentre il regno del Portogallo (riconosciuto dal papa nel 1179) tendeva alla colonizzazione del sud-ovest della penisola iberica, la zona del cosiddetto Algarve, ed entrava per questo in conflitto con la Castiglia, il regno castigliano da parte sua si impadroniva dell’area a sud del Guadalquivir, escluso il civilissimo ma piccolo emirato di Granada, che sarebbe rimasto musulmano fino al 1492. I lunghi anni della lotta contro i musulmani segnarono profondamente i caratteri culturali della Castiglia, conferendole un’impronta di austera e guerriera religiosità. Dal punto di vista della «qualità della vita», la Reconquista cristiana non segnò l’avvio di una stagione positiva. I musulmani, nei circa cinque secoli del loro dominio in terra iberica, avevano fatto un giardino di terre per loro natura desertiche, come l’arido altopiano della Meseta: vi avevano condotto le acque per mezzo di ardite opere di irrigazione, vi avevano avviato colture di cereali, canna da zucchero, agrumi. Nelle popolose città governate dai musulmani vivevano in pace e in armonia anche le comunità cristiane dette «mozarabiche» (che usavano correntemente l’arabo nella loro liturgia) e quelle ebraiche, e si era sviluppato un ceto urbano di mercanti e di artigiani. I sovrani di Castiglia, appoggiati a un’aristocrazia feudale di cavalieri i cui interessi economici si legavano con la più primitiva economia pastorale, non avevano interesse a mantenere questi civili livelli di vita. Non incoraggiarono quindi né l’agricoltura, né l’artigianato, né il commercio, che anzi contribuirono a ostacolare perseguitando musulmani ed ebrei, che ne erano il nerbo. La Castiglia si avviò a divenire una terra desolata di poveri pastori, di agricoltori miserabili e di un ceto nobiliare privo di mezzi e caratterizzato da un genere di vita ispirato ai valori guerrieri e a una religiosità sentita anzitutto come lotta contro gli infedeli. Ben diverso il destino del regno d’Aragona, dal 1137 unito con la contea di Catalogna, la cui origine risaliva alle campagne di Carlomagno nella penisola iberica e che corrispondeva al territorio storico della Catalogna, posto fra l’estremità est dei Pirenei e il mare. La Catalogna aveva portato alla severa compagine aragonese – in molti sensi vicina a quella castigliana – il dono delle forze vive e fresche costituite dalle città costiere. La cultura e la lingua catalane erano molto vicine a quelle occitane, corrispondenti all’area francese a sud della Loira; la Catalogna formava quindi un’entità a sé, distinta sia dal mondo ispano-cristiano dominato dalla lingua castigliana, sia da quello francese oltre i Pirenei. Inoltre, Barcellona era uno dei più fiorenti porti mediterranei: città bellissima, abitata da mercanti e marinai intraprendenti. L’economia catalana aveva le sue basi sul mare, nei commerci: e fu tale impronta a prevalere nel corso del XIII secolo. Fra 1229 e 1235 furono prese anche le Baleari, primo elemento del futuro «impero mediterraneo» aragonese, che avrebbe incluso a partire dal 1302 anche la Sicilia e dal 1328 la Sardegna.

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L’INGHILTERRA DAI NORMANNI AI PLANTAGENETI L’Inghilterra altomedievale era frazionata in diversi piccoli regni. I sovrani inglesi avevano cercato con alterne fortune di arginare l’avanzata dei danesi. Tuttavia, nel 1015 il re danese Canuto (Knut) mosse l’attacco definitivo. Re d’Inghilterra, di Danimarca e di Norvegia, signore di terre nella Slavia, tra i fiumi Oder e Vistola, Canuto il Grande si trovò a capo di un territorio di proporzioni immense e quindi difficile da dominare. Difatti promosse una politica prudente, ottenendo l’omaggio vassallatico dei re di Scozia e d’Irlanda; favorì inoltre la

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VIII. I RE

VIII. I RE

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civescovo si concluse con una vera e propria guerra civile, fomentata dai figli stessi del re (1173-1174). Enrico II trionfò comunque sulle opposizioni nobiliari e familiari e poté addirittura organizzare una corte di giustizia permanente. La situazione si andò deteriorando con i figli e successori di Enrico, cioè Riccardo Cuor di Leone (1189-1199) e Giovanni Senzaterra (1199-1216). I due si erano ripetutamente ribellati al padre durante il regno di questi, ma erano anche in vivissima discordia fra loro; erano, inoltre, tutti e due caratteri labili e non dotati di quell’abilità politica che aveva invece distinto i loro predecessori. Riccardo, cavaliere coraggioso ma capo militare crudele e mediocre, aveva partecipato alla terza crociata (1187-1189): al ritorno da essa, si era trovato re per la sopravvenuta morte del padre, ma aveva anche dovuto domare una rivolta feudale a capo della quale si era posto il fratello. Questi comunque gli era succeduto nel 1199, e seguì una politica priva di prudenza, inimicandosi al tempo stesso la nobiltà laica e le gerarchie ecclesiastiche: giunse addirittura a confiscare i beni ecclesiastici, attirandosi per questo la scomunica di papa Innocenzo III; dopodiché, intimidito dalla reazione, corse ai ripari prestando omaggio feudale al pontefice.

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17. Il regno e i domini francesi di Enrico II. Ren

18. Innocenzo III raffigurato da Giotto nella basilica superiore di San Francesco, Assisi.

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BLOIS

15, 16. Scene della vita di Tommaso Becket, miniature conservate alla British Library, Londra. In alto, il ritorno a Canterbury di Tommaso; in basso, deposizione del corpo.

Tuttavia, l’equilibrio imposto da Guglielmo si destabilizzò con i suoi successori: i primi del XII secolo furono caratterizzati da una forte inquietudine dell’aristocrazia normanna, che condusse nel 1135 a una guerra civile dalla quale emerse una nuova e duratura dinastia, quella dei Plantageneti, guidata dal conte d’Angiò Enrico II. Questi inaugurò una politica interna di riorganizzazione e di restaurazione dell’autorità della corona, e una politica estera di grande rilievo: seppe, infatti, legarsi con rapporti diplomatici e politici molto autorevoli alle monarchie spagnole, siculo-normanne e germanica, in modo da godere di una vasta rete di solidarietà nella sua lotta contro il re di Francia. Tuttavia, Enrico II aveva nel regno d’Inghilterra due fieri avversari: una parte dei baroni, anzitutto, scontenta delle sue tendenze accentratrici; e poi l’alto clero, insoddisfatto della volontà del sovrano di avocare a sé anche la giurisdizione ecclesiastica contro le tradizioni che la volevano autonoma rispetto al potere regio. Fiero avversario del sovrano fu un suo ex amico e collaboratore, Tommaso Becket, che divenuto arcivescovo di Canterbury si eresse a difensore indomito dei diritti della Chiesa. Tommaso cadde nella sua stessa cattedrale, vittima della violenza di alcuni baroni normanni: si sospettò che il re stesso fosse stato ispiratore dell’uccisione, e la Chiesa romana rispose alla provocazione proclamando Tommaso Becket santo. La grave situazione determinatasi con l’assassinio dell’ar-

O c e a n o

14. Sbarco in Guascogna delle truppe di Guglielmo il Conquistatore, miniatura del XIV secolo. British Library, Londra.

Poitou Angiò Turenna SaintOnge

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Limosino Alvernia

Aquitania

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VIII. I RE

VIII. I RE

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Port des Passeurs Petite Hourbon

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Port de Hourbon Torre di Coiny

Hospice des Quinze-Vingt

StNicolas vre Rue St-Thomas du Lou Torcy

Hotel de la Petite Bretagne

Rue des Orties

Mercato Orto Vendôm

Rue Jehan St-Denise antel Rue Froit M

Quai de l’Ecole

Rue Beauvoir

Rue d’Autriche Stampe Rocheguyon Rue du Coq Louvre

Rue Charafleuri

Grant rue St-Honor é

Grand Alençon

Garancières

Ponthieu

Rue des Poulies

Evreux

Rue de la Croix du Trahoir

StGermain

Torre di legno

Porta St. Honoré

19. Il Palazzo del Louvre e il centro di Parigi ebbero la loro prima espansione con Filippo II Augusto, che raccolse attorno a sé, a palazzo o negli edifici circostanti, i consiglieri.

ninteso, nella pratica il re inglese non aveva intenzione di abbandonare quelle ricche terre; tuttavia, pochi anni più tardi, egli intervenne nella guerra civile scatenata di nuovo in Germania per la corona imperiale fra eredi della casa di Svevia e successori di Enrico il Leone. Si giunse così a una battaglia risolutiva, che ebbe luogo la domenica 27 luglio 1214 a Bouvines, una località nel nord della Francia, poco distante da Lille. Erano schierati gli eserciti contrapposti dei fautori del giovane re di Germania Federico II di Svevia, il cui alleato principale era, appunto, il sovrano francese, e del suo antagonista Ottone IV di Braunschweig, sostenuto a sua volta dal congiunto Giovanni d’Inghilterra e da alcuni feudatari francesi. Per quanto la battaglia di Bouvines decidesse anzitutto delle sorti del trono di Germania, vi si giocò come vera posta quella di Francia. La vittoria significò, per Filippo Augusto, la possibilità di avviare un discorso in prospettiva unitario, subordinando finalmente alla corona le forze feudali francesi e impedendo loro di guardare al di là delle frontiere del regno alla ricerca di sostegni esterni per la loro politica centrifuga.

LA FRANCIA A BOUVINES In Francia, durante il X secolo la corona fu contesa fra i discendenti di Carlomagno e quelli di Eude conte di Parigi (che aveva regnato alla fine del secolo precedente), finché nel 987 Ugo Capeto, della stessa dinastia di Eude, riuscì a strappare definitivamente il potere dalle mani degli avversari e a fondare quella dinastia che da lui avrebbe ricevuto l’appellativo di «capetingia». Tuttavia, solo nel corso del XII secolo, il re di Francia Luigi VII (1137-1180), che pure dovette affrontare varie crisi (la sconfitta della seconda crociata, che abbassò molto il suo prestigio; il divorzio da Eleonora), riuscì a riorganizzare la burocrazia regia creando una rete di «prevosti» e di «balivi» incaricati di amministrare la giustizia e di riscuotere le imposte in nome del sovrano. Contro i grandi feudatari, Luigi VII attrasse dalla sua parte la piccola aristocrazia e ceti medi cittadini, desiderosi di poter liberamente commerciare e pronti quindi ad accettare una monarchia forte che li difendesse dai soprusi dell’alta aristocrazia. La sua opera fu continuata dal figlio Filippo II Augusto (1180-1223), che riorganizzò la cancelleria e la corte e diede ulteriore impulso sia alla riorganizzazione amministrativa della corona, sia al rapporto fra questa e i ceti mercantili, che si sentirono privilegiati e protetti. Era comunque per lui prioritario risolvere il problema costituito dal fatto obiettivo che il re d’Inghilterra (duca di Normandia dall’XI secolo, conte d’Angiò e del Maine in quanto appartenente alla famiglia dei Plantageneti, feudatari di quelle terre, e duca d’Aquitania, Guascogna, nonché conte del Poitou in quanto erede di Eleonora d’Aquitania) era signore effettivo di gran parte del territorio francese, e a lui guardavano tutti gli aristocratici che, in un modo o nell’altro, intendevano svolgere una politica autonoma rispetto al loro re. Filippo Augusto colse come occasione l’obiettiva debolezza di Giovanni Senzaterra, conseguente alla scomunica, e nel 1202 lo dichiarò colpevole di «fellonia» (il delitto del quale si macchiava il vassallo infedele) e lo privò formalmente di tutti i suoi feudi francesi, Aquitania esclusa. Inizialmente Giovanni non cedette, ma con la capitolazione di Rouen, del 1204, finì con l’accettare di decadere da qualunque diritto feudale su tutto il territorio francese a nord della Loira. Be-

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LE MONARCHIE NAZIONALI Giovanni Senzaterra continuò a governare fino alla morte (1216), ma la sua politica aveva finito con lo scontentare un po’ tutti: gli ecclesiastici, dei quali aveva confiscato i possedimenti attirandosi per questo la scomunica pontificia; i feudatari, ai quali aveva largheggiato in promesse quando si era trattato di indurli a ribellarsi al fratello, salvo poi cercare di sottometterli con una politica oppressiva; le città, delle quali non aveva compreso la crescente importanza. La sua sfortunata politica continentale, e in particolare la sconfitta di Bouvines seguita dalla perdita definitiva dei territori a nord della Loira, furono per la nobiltà inglese il segnale della rivolta. Giovanni fu obbligato a giurare il rispetto delle antiche consuetudini nei confronti dei baroni, il che implicava tra l’altro il dovere di consultarli prima d’imporre loro nuove tasse; inoltre, nessun nobile sarebbe stato più condannato in giudizio se non sulla base di una sentenza pronunziata dai suoi pari; infine, la tutela dei diritti della Chiesa e dei feudatari veniva regolata per iscritto.

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21. Particolare della Magna Charta. British Library, Londra. 22. Sigillo di Federico II del 1215. Hessisches Staatsarchiv, Darmstadt.

20. La battaglia di Bouvines, dalla Nuova Cronica di Giovanni Villani, XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana.

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VIII. I RE

VIII. I RE

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25 Shetland Orcadi

REGNO

REGNO DI SVEZIA Oslo Stoccolma

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NORVEGIA Mare REGNO DI SCOZIA del Nord Edimburgo

REGNO DI

DANIMARCA

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Copenaghen Malmö

Irlanda Dublino

FINLANDIA

REGNO

Amburgo

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DI ORDINE PSKOV Novgorod

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Vologda MOSCA

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Königsberg

Danzica

Smolensk Vilnius

Mosca

Rjazan’ DUCATO DI RJAZAN’

Domini degli Asburgo Domini dei re di Polonia (Jagelloni) Impero romano-germanico Kazan’ KHANATO DI KAZAN’

GRANDUCATO RE Berlino GN Varsavia I MPERO DI LITUANIA O Londra DI ROMANO PO Kiev O Bruges GERMANICO REGNO L Leopoli R Praga Cracovia D DI BOEMIA A D ’ Vienna Parigi O R O REGNO Strasburgo Tana REGNO Pest Buda SVIZZERA DI FRANCIA D’UNGHERIA MOLDAVIA Astrahan’ Seghedino Milano Venezia Lione Caffa Belgrado VALACCHIA Genova REGNO Bordeaux Niš Marsiglia Varna La Coruña DI NAVARRA Nizza Firenze REP. DI REGNO Taš kent Mar Nero Siena RAGUSA Pamplona DI GEORGIA Derbent Corsica Valladolid Costantinopoli Trebisonda REGNO Cattaro IM Tiflis Barcellona (Gen.) Roma Samarcanda REGNO REGNO PE Napoli RO Baku REGNO Sardegna DI PORTOGALLO Toledo DI NAPOLI Tessalonica OT Bukhara TO DI ARAGONA (Aragona) Ankara DI SPAGNA Lepanto MA Tabriz Lisbona Erzúrum NO ar i Palermo MAWARRANNAR E DI CASTIGLIA Atene B ale REGNO Mosul Balkh Neyshabur R. DI GRANADA Modone Merv Tunisi DI SICILIA Cadice Antiochia Tangeri Melilla (Sp.) yanidi Q OYUNLU A Q Herat Zi Hamadan Fès Mar Kabul Tilimsen S. Giovanni Medi Baghdad terraneo d’Acri Damasco Tripoli i Wattasidi K HORASAN Esfahan Alessandria Marrakech Gerusalemme Qandahar Bassora Il Cairo D’INGHILTERRA

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26. I Re Cattolici Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Medaglione della facciata dell’Università di Salamanca, 1520 circa.

Madeira (Port.)

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Tale il senso della cosiddetta Magna Charta, sottoscritta nel giugno 1215, documento che segna gli accordi di base tra la corona e l’aristocrazia inglese, e che avrebbe regolato da allora in poi la vita del regno limitando i poteri regi, ma al tempo stesso sancendone la loro tradizionale stabilità. Veniva fra l’altro istituito un Magnum Concilium di nobili, che avrebbero dovuto assistere il sovrano nelle funzioni di governo e che avevano in particolare il diritto di controllarne la politica fiscale. Nel 1242, questo organismo avrebbe assunto il nome di Parlamento, destinato, come sappiamo, a una lunga storia nella civiltà moderna. È tuttavia opportuno sottolineare che inizialmente la Magna Charta non era certo intesa come uno strumento di «modernizzazione», un concetto che peraltro al tempo non avrebbe avuto alcun senso; al contrario, la corona francese con la sua forte spinta all’accentramento dei poteri, poneva le basi dello Stato moderno; i baroni inglesi, invece, non facevano che riaffermare diritti tradizionali che la feudalità aveva sempre rivendicato nei confronti della corona. In Francia, Filippo IV il Bello si può considerare il sovrano che, fra Due e Trecento, comprese meglio la conseguenza del fatto che i poteri ecumenici si andavano sfaldando e collegò questa realtà con un’altra: il destrutturarsi del sistema feudale a vantaggio delle nuove borghesie cittadine detentrici di forti capitali liquidi. Nei primi anni del XIV secolo, Filippo entrò in conflitto con papa Bonifacio VIII contendendogli il diritto di governare direttamente la Chiesa di Francia e uscì vincitore dalla contesa. Le azioni del sovrano francese, benché apparissero inaudite, si appoggiavano alle elaborazioni in materia di dottrina politica regalistica compiute da celebri giuristi e politici, che non casualmente erano parte della cerchia dei suoi più stretti collaboratori. Fra questi vanno ricordati almeno Pietro Dubois e Guglielmo di Nogaret. Il giurista Pietro Dubois era autore di trattati di differente argomento: dalla liberazione della Terrasanta al sistema per abbreviare le guerre; soprattutto, a lui si attribuisce uno scritto, al tempo restato anonimo, nel quale si proponeva di accusare papa Bonifacio VIII di eresia per avere osato attribuirsi non solo il supremo potere spirituale, ma anche quello temporale. Giudicato un estremista anche nell’ambito dei consiglieri di Filippo IV, il Dubois è tuttavia valutato come uno dei veri e propri fondatori del moderno concetto di politica e di Stato. Consigliere e ministro di Filippo IV, nonché protagonista nella vicenda di Bonifacio VIII, anche Guglielmo di Nogaret è autore di scritti teorici nei quali si in-

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25. La situazione politica dell’Europa prima della scoperta dell’America.

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24. Il re di Francia Filippo il Bello riceve in dono il libro del buon governo, miniatura del 1440. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles.

siste sull’autonomia del potere regio da qualunque altro potere, ivi inclusi quelli ecumenici tradizionali. L’essenza del regalismo – che conoscerà sviluppi ulteriori nel pensiero politico dell’età comunale, quindi in quello europeo cinque-settecentesco – è in sintesi racchiusa nella celebre massima: «Rex superiorem non recognoscit, et imperator est rex in territorio suo». Rompendo definitivamente con la tradizione cristiana, corroborata dal diritto romano, che voleva la Cristianità riunita in un solo corpo socio-politico, il regalismo afferma che i re non riconoscono alcun superiore al di sopra di loro, quindi neppure l’imperatore romanogermanico; ne consegue che i poteri imperiali, cioè le prerogative che dell’imperatore facevano la fonte unica del diritto e che a lui attribuivano la plenitudo potestatis, appartengono in effetti al re all’interno del territorio del suo regno. In questo modo, si denunzia definitivamente il contenuto ecumenico del pensiero politico medievale e ci si avvia alla concezione moderna dello Stato assoluto. Sebbene la cosiddetta guerra dei Cent’Anni, che vide contrapporsi Francia e Inghilterra a cavallo fra XIV e XV secolo, rappresentò una battuta d’arresto per il cammino della monarchia francese, ormai le basi dello Stato moderno erano state gettate, e dalla seconda metà del Quattrocento la Francia emerse come la nazione più organizzata e coesa. Un cammino che, sebbene in modo diverso, l’Inghilterra poté intraprendere solo alla fine di quel secolo, alla conclusione della cosiddetta guerra delle Due Rose, dalla quale emerse la dinastia regnante dei Tudor. Contemporaneamente, nella penisola iberica, il matrimonio tra i due eredi ai troni di Castiglia e di Aragona, rispettivamente Isabella e Ferdinando, celebrato nel 1469, diede inizio alla Spagna moderna.

Ebridi

23. Statua bronzea di papa Bonifacio VIII. Museo Civico Medievale, Bologna.

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Capitolo IX

L’ARISTOCRAZIA

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LA CAVALLERIA A partire dalla fine del X secolo, tra i vari termini fino allora usati per esprimere la dipendenza feudale e il mestiere delle armi, uno andava lentamente emergendo. È il termine miles, che qualifica il combattente a cavallo fornito di armi pesanti e che si può quindi tradurre con la parola «cavaliere». Il cavaliere dei secoli centrali del medioevo non era necessariamente un personaggio d’alto rango: poteva essere anche un libero allodiere, così come non è detto che fosse personalmente un uomo libero (poteva essere anche un ministerialis d’origine non libera). Egli viveva comunque della sua specializzazione, la guerra, e di solito riceveva da un senior quanto gli era necessario per procurarsi il suo costoso armamento. Nel sistema feudale europeo bassomedievale si impose anche l’espressione «feudo di cavaliere», a indicare un beneficio feudale le rendite del quale erano sufficienti a mantenere un cavaliere armato. Il cavaliere era in realtà non tanto e non solo un singolo guerriero, quanto piuttosto un’entità di

1. La miniatura del Psalterium Aureum di Metz, del IX secolo, illustra l’assedio e la distruzione di una città. Stiftsbibliothek, San Gallo. 2. Combattimento fra cavalieri in una miniatura dell’XI secolo. Abbazia di Montecassino. 3. Cavalieri in combattimento a Capua durante una campagna italiana dell’imperatore tedesco Enrico VI. Disegno a penna colorato della prima metà del XIII secolo. Bürgerbibliothek, Berna.

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IX. L’ARISTOCRAZIA

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4. Una cruenta battaglia campale descritta nello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, XIII secolo. Musée Condé, Chantilly. 5. Una scena del Lancelot di Chrétien de Troyes. 6. Prete che comunica un cavaliere, controfacciata della cattedrale di Reims.

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combattimento: aveva infatti bisogno di un gruppo di accoliti, di aiutanti, di apprendisti («scudieri»). Il miles dei secoli X-XI era un guerriero violento, privo di leggi e di freno, che guerreggiava contro antagonisti appartenenti al suo stesso livello socio-politico e istituzionale; si era ancora ben lontani da quell’immagine dello chevalier – in effetti per molti versi destinata a restare un Idealtypus – che si sarebbe poi definita sul piano morale e comportamentale. Ciò pone la questione del definirsi storico e della plausibilità concreta dell’etica cavalleresca. Ma essa, ancor prima di venir proposta in termini positivi, venne delineata nel corso dei secoli XI-XII dal suo contrario, cioè da quel che il cavaliere, per poter dirsi tale, non doveva fare. Se le prime e più chiare espressioni dell’etica cavalleresca si possono leggere nei canoni espressi dalla Chiesa dell’XI secolo, che sono poi i veri e propri patterns dell’ideologia cavalleresca, ne consegue che il latro, il raptor, il praedo, l’effractor pacis – insomma il violatore della Pax e della Tregua Dei stabilite dalla Chiesa per dar sollievo a un’Europa dilaniata dai contrasti – è il precedente e il modello del Raubritter, il cavaliere-predone che diventerà più tardi l’«anticavaliere», l’avversario del guerriero cristiano. Non si deve sottovalutare il lavoro anche propagandistico attraverso il quale la Chiesa riuscì a imporre questa rivoluzione etica, dalla quale nacque un miles concettualmente nuovo, al punto da potersi definire con l’espressione – sin lì usata nel linguaggio monastico e mistico – di miles Christi. Alla demonizzazione del Raubritter concorse la mobilitazione di tutta una serie di valori e di risorse, ivi compresa la rilettura di leggende che affondavano le radici nella mitologia celtico-germanica e che costituivano parte di un patrimonio folklorico diffuso nell’Europa altomedievale. Tra XI e XIII secolo le cronache e la letteratura epica registrano sovente, con molte variabili, il caso del cavaliere che, pur condividendo con i fratelli d’arme la dignità cavalleresca iniziaticamente (o quanto meno cerimonialmente) acquisita e la conoscenza dei riti e delle competenze professionistiche che ciò comporta, non ne condivide però l’ossequio alla normativa etica. Normativa che non corrisponde ancora a nulla di rigorosamente professato, ma che fa comunque parte di quell’insieme etico-comportamentale dal quale nascerà il cosiddetto «sistema dei valori cavallereschi». La complessa figura del trasgressore proietta la sua ombra sull’intera letteratura cavalleresca medievale e rinascimentale, fino a cristallizzarsi in personaggi e addirittura in dinastie precise.

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RITI E COSTUMI Con la coscienza dell’appartenenza a un’élite, a un corpo in qualche misura separato dal resto della società, la cavalleria medievale sviluppò pure una sua cultura che condusse anche a un’etica e a una produzione letteraria specifica (chansons de geste, romanzi cavallereschi). Con la formalizzazione del diritto feudale anche l’ingresso nella cavalleria comincerà a essere regolato da norme: in principio, presumibilmente, forme varie di iniziazione, più tardi (almeno a partire dall’XI secolo) cerimonie più formalizzate, sebbene ancora semplici. È il rito che in italiano si chiama «addobbamento», da un termine originariamente germanico rimasto anche nella lingua inglese, che prevedeva due cose: la concessione delle armi e un segno, una leggera ferita rituale (magari semplicemente uno schiaffo o un colpo sulla nuca o sulla spalla del neocavaliere: i testi italiani la chiamano «collata»); simile alla alapa militaris, lo schiaffo che si dava al soldato romano, e che nel rito cristiano della cresima (che rende, appunto, «soldati di Cristo») si era trasformato in una specie di carezza, che l’officiante fa con la

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IX. L’ARISTOCRAZIA

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mano destra sulla guancia del cresimando. In origine, probabilmente, siamo davanti a una vera e propria prova di forza, di coraggio, di capacità di sostenere il dolore, quindi può darsi che originariamente si trattasse di una vera e propria ferita, davanti alla quale il cavaliere si doveva comportare in modo virile, poi in seguito, naturalmente, tutto diventa semplicemente simbolico. Quando il cavaliere non combatte, la sua attività fondamentale è la caccia. La caccia che si esercita a livello signorile, nelle grandi riserve dei signori feudali, che si esercita nei confronti della grande selvaggina, quindi di vere e proprie belve, come l’orso, come il cinghiale, come lo stesso cervo che è fortissimo e anche piuttosto pericoloso, ed è un’attività al tempo stesso prerogativa che poi diventerà nobiliare, ma anche addestramento concreto alla guerra. All’interno del ceto feudale e dei ranghi dei milites, nel corso dei secoli bassomedievali si andrà formando il ceto nobiliare, la cui condizione cioè viene sancita dalla legge come trasmissibile di generazione in generazione. Sulle origini del fenomeno e sulla sua antichità la storiografia ha a lungo dibattuto. Oggi la tendenza prevalente, soprattutto negli studi di ambito francese e italiano, è quella a considerare la vasta gamma di ceti feudali dirigenti come «aristocrazie»; riservando il termine «nobiltà» per il periodo successivo almeno all’XI secolo (e questo, è bene precisare, nonostante le fonti del tempo non conoscano il termine «aristocrazia», ma impieghino indifferentemente quello di nobiles), quando cioè vi fu una codificazione giuridica dei privilegi legati all’appartenenza familiare, nonché una chiusura del ceto nobiliare, che trasformò i clan familiari da stirpi in lignaggi, grazie alla scelta di privilegiare la patrilinearità a favore del primogenito; una scelta che mirava a evitare la dispersione dei feudi quando questi divennero trasmissibili in eredità. La nobiltà di un lignaggio dovrebbe

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almeno in teoria prescindere dalle maggiori o minori ricchezze delle famiglie titolate: di fatto, le cose rimarranno più fluide e vi sarà a lungo la possibilità di acquisire titoli nobiliari grazie alla compravendita, se non attraverso politiche matrimoniali.

7. Scena di caccia, 1160 circa. Mosaico della parete occidentale della sala di re Ruggero, Palazzo Reale, Palermo.

GLI ORDINI MILITARI Con gli insediamenti latini in Oriente si venne a creare una nuova figura di cavaliere. Le forze che sostenevano il regno latino di Gerusalemme – subito minacciato dal circostante Islam, che, riavutosi dalla sorpresa, passò presto al contrattacco – erano essenzialmente costituite dall’aristocrazia crociata che presto s’imparentò con famiglie nobili siriaco-cristiane o armene, dalle città marinare italiane che avevano partecipato alla presa di numerose città costiere, nelle quali fondarono le loro fiorenti colonie mercantili, dagli Ordini religioso-militari fondati per proteggere i pellegrini. Queste militiae, che noi moderni chiamiamo impropriamente «Ordini religioso-militari», furono un’originale creazione della Terrasanta crociata: si tratta di Ordini religiosi la Regola dei quali era originariamente ispirata a quella canonicale agostiniana, ma che meglio si adattarono poi alla cenobitica benedettina. Al loro interno, oltre ai relativamente pochi sacerdoti, v’era un ampio gruppo di fratres «laici» – non provvisti cioè degli ordini canonici che distinguono chi faccia parte del clero – alcuni dei quali si davano ad attività varie secondo la tradizione inaugurata da Benedetto da Norcia, mentre alcuni altri (distinti in milites e in servientes a seconda che avessero o no, prima di entrare nell’Ordine, ricevuto l’addobbamento) avevano il compito di combattere per difendere i pellegrini e per presidiare le strade. Nel corso del secondo decennio del XII secolo, in due differenti punti della

8. Particolare degli affreschi della Camera del Cervo, bottega italo-francese, 1343: il ritorno dalla caccia col falcone. Palazzo dei Papi, Avignone. 9. Raffigurazione di un cavaliere con lo scudo crociato, affresco del XIII secolo. Cressac, Francia. 10. La chiesa-fortezza di San Giovanni a Portomarín, costruita dagli ospitalieri di San Giovanni sul camino di Santiago de Compostela.

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IX. L’ARISTOCRAZIA

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città di Gerusalemme – cioè attorno alla moschea di al-Aqsa sulla spianata del Tempio, che i crociati chiamavano Templum Salomonis e che in un primo tempo era stata adibita a corte del re, e attorno all’ospedale di San Giovanni, presso la basilica della Resurrezione –, due fraternitates si andarono organizzando fino a ottenere dai pontefici il consenso a trasformarsi in veri e propri Ordini religiosi: erano così nati i Pauperes Christi et salomonici Templi, i templari, e gli ospitalieri, o cavalieri di San Giovanni (in seguito di Cipro, e oggi di Malta). Più tardi si aggiunsero quelli di Santa Maria, che appartenevano esclusivamente alla nazione germanica e furono perciò detti teutonici. L’idea di Ordini religiosi all’interno dei quali vi fossero dei combattenti, giustificata dalle specifiche necessità d’un mondo in stato di endemica guerra nel quale i liberi combattenti scarseggiavano e un ampio territorio doveva essere continuamente sottoposto a controllo, suscitò naturalmente nella Chiesa molte perplessità. Per rimuoverle ci volle tutta l’autorità del più grande mistico del XII secolo, il cisterciense Bernardo abate di Clairvaux (1090-1153, canonizzato nel 1174). Egli si interessò alla fraternitas templare, ne sostenne la legittimazione come militia da parte della Chiesa e, per i templari, scrisse anche un Liber de laude novae militiae in cui si confrontavano i vizi della cavalleria mondana con le virtù di quella dei convertiti alla vita religiosa e si descriveva la Terrasanta come paesaggio allegorico e spirituale. Gli Ordini militari si distinguevano anche come costruttori: le fortezze templari e ospitaliere, edificata l’una dietro l’altra in un duplice cordone parallelo dal nord siriano al sud palestinese a presidio della costa marittima, delle strade dell’interno e delle rive del Giordano, restano ancor oggi testimoni impressionanti d’un grandioso progetto di difesa e di razionalizzazione territoriale. Le nuove istituzioni religioso-militari attrassero ben presto molti cavalieri; esse ricevettero inoltre molte donazioni di beni mobili e immobili, al punto che gli Ordini, nei quali si praticava un’inflessibile povertà personale, divennero tuttavia ricchissimi e impiantarono le loro «magioni» in tutta la Cristianità. Si affidavano loro anche forti somme di danaro, gestendo le quali essi poterono avviare nuove e più efficaci forme di attività bancaria. Depositando ad esempio somme di danaro nelle differenti sedi templari, i mercanti potevano, per mezzo di lettere autenticate dai sigilli dell’Ordine, disporne poi senza spostare fisicamente il contante in qualunque luogo nel quale l’Ordine fosse insediato.

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IL CASTELLO Tra V e VIII secolo, l’Europa è stata di continuo soggetta alle incursioni dei popoli provenienti dalle steppe dell’est, che noi siamo abituati a definire «barbari». Ma con i primi del IX secolo si avviò un fenomeno più grave: l’Europa, già impoverita dal contrarsi dei traffici e dal ruralizzarsi della vita, venne fatta segno di continue incursioni di gruppi numericamente non forti, ma in cambio agguerriti e affamati di preda. Tali incursioni non provenivano soltanto da est (gli ungari o magiari, per origine, lingua e cultura affini a unni, bulgari e àvari), bensì anche da nord (i «normanni») e da sud (gli «agareni» o «saraceni», cioè arabo-berberi dell’Africa settentrionale e di religione musulmana). Sottoposto a questi continui e sanguinosi attacchi, l’impero carolingio vacillò; molti ricchi monasteri vennero saccheggiati, molte città costiere evacuate e magari «rifondate» nell’interno del territorio, lontano dal rischio di attacchi dalla parte del mare. Fino allora soltanto nel V secolo, con i vandali, si era assistito a un fenomeno come questo: degli aggressori provenienti dalla parte del mare. Ma l’islamizzazione dei paesi costieri d’Asia e d’Africa aveva mutato l’equilibrio del Mediterraneo; ad essa si era aggiunta a partire dai primi del IX secolo l’ondata delle popolazioni scandinave, spinte a razziare il continente europeo forse anche in seguito a un miglioramento climatico che aveva in parte sciolto i ghiacci e reso più agevole la navigazione nei mari settentrionali.

11. Due templari, particolare di una miniatura del XIV secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 12. La città di Segovia. In primo piano la chiesa del Santo Sepolcro, consacrata nel 1208 con la partecipazione dei cavalieri del Santo Sepolcro e dei templari. 13. Veduta del castello di Loarre, Aragona, fondato nell’XI secolo.

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I continui pericoli e la costante necessità di difesa caratteristici dei secoli IX-X dettero luogo un po’ dappertutto non solo al crearsi di vuoti di potere, bensì al ridefinirsi di nuovi organismi e al riempirsi quasi «spontaneo» di questi vuoti. In molti luoghi sorsero quasi dal nulla nuovi centri di potere aristocratico, sovente in origine sostenuti dalla pura forza delle loro armi e legittimati in seguito dal fatto stesso che si erano assunti – in mancanza di altri in grado di farlo – l’impegno di difendere gli abitanti di una città o di una regione. L’insicurezza e il bisogno di difesa contro le incursioni barbariche determinarono il sorgere, si può dire «dal basso», di nuove strutture concrete di potere: signorie locali, robustamente impiantate su una base fondiaria e caratterizzate da rapporti di stretta dipendenza fra uomo e uomo. L’idea astratta di Stato, sopravvissuta alla caduta dell’impero romano e ancor viva al tempo di Carlomagno, cedette nel periodo successivo alle realtà immediate, che imponevano la considerazione delle necessità primarie: la difesa, l’alimentazione, la produzione di beni destinati al diretto consumo. L’Europa si andò così riempiendo di «castelli», a difesa dei quali si poneva l’Ordo dei milites: vale a dire di insediamenti fortificati, all’interno della cui cinta muraria si trovavano sì la «torre», il «mastio», il «cassero», cioè la dimora del signore locale con i magazzini delle riserve di derrate e di strumenti di lavoro

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di guerra, ma anche le più modeste abitazioni del personale del suo seguito e dei rustici che al signore erano soggetti. Attorno al castello si ordinavano le varie unità insediative e produttive gestite da personaggi di vario rango – ora caratterizzati dalla loro funzione di combattenti a cavallo, ora invece da quella di agricoltori –, ma tutti legati al «signore del luogo» da un preciso rapporto di dipendenza. L’«incastellamento» fu quindi la fondamentale caratteristica di organizzazione del territorio tra IX e XI secolo, e interessò – in misure e in tempi diversi, ma sempre all’interno di tale periodo – l’intera Europa occidentale. Le varie «castellanie», cioè le circoscrizioni con al centro un castello, erano poi parte di unità giuridiche più vaste, che si ordinavano a loro volta in un sistema di dipendenza gerarchica che almeno in teoria aveva al suo vertice dei possessori di signoria che erano anche pubblici ufficiali: cioè i vari duchi, marchesi e conti, che dipendevano formalmente e direttamente dal sovrano. D’altra parte tale dipendenza era, almeno oltre un certo titolo, puramente formale: il sistema feudale si fondava su una delega di poteri dal vertice alla base e dal centro alla periferia. Almeno in teoria, nessuno sfuggiva a questi legami; nella pratica, libertà personale e anche libero possesso di beni e terre potevano sopravvivere.

14. Castel Beseno, Rovereto. Menzionato fin dal 1151, è uno dei più antichi castelli del Trentino. 15. Disegno colorato raffigurante le distruttive incursioni degli ungari nel 925. Universiteitsbibliotheek, Leida.

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1. Una tenuta agricola, mosaico del III secolo da Uthina. Museo del Bardo, Tunisi.

Capitolo X

2. Cinghiale in bronzo del periodo galloromano proveniente da Neuvy-en-Sullias.

I CONTADINI

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3. Adam Elsheimer (1578-1609), Fuga in Egitto, 1609, particolare. É qui rappresentato un bosco al limitare di una zona acquitrinosa.

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SCHIAVITÙ E SERVAGGIO Il contadino medievale ce lo figuriamo stentato, gracile, macilento, ai limiti quasi del selvaggio: e forse, se potessimo direttamente paragonarlo a quello di età recenti, ci apparirebbe davvero così. In senso assoluto, tuttavia, bisogna dire che anche in questa cupa rappresentazione della vita rurale, siamo ancora una volta vittime di uno strano pregiudizio che ci fa «anticipare» al medioevo una serie di elementi negativi della storia europea che, invece, si sono sviluppati più tardi. Il panorama dell’Europa medievale era molto diverso da quello attuale: villaggi e aree coltivate restavano immersi fra i boschi, le paludi, le aree a pascolo delle alte colline e delle alte montagne. Il contadino medievale – cioè l’abitante di aree diverse dai centri urbani – non era quindi agricoltore, per quanto per noi i due termini siano sinonimi: o, almeno, non era soltanto tale. Egli era anche pastore, cacciatore, allevatore, pescatore, raccoglitore attento di frutti spontanei. Ma la sua storia, nel corso del millennio medievale, era destinata a mutare sensibilmente. Sotto il profilo politico-istituzionale il V secolo conobbe nella pars Occidentis una seppur faticosa riorganizzazione che condusse alle cosiddette «monarchie romano-barbariche», le quali venivano sempre riconosciute formalmente dall’imperatore romano (l’unico ormai esistente, quello di Costantinopoli), mentre le vecchie organizzazioni municipali continuarono a lungo a funzionare. Invece l’economia e gli assetti sociali subirono contraccolpi piuttosto pesanti, aggravati nel secolo successivo – almeno per le regioni mediterranee e in particolare per l’Italia – dagli effetti della guerra Greco-gotica. Uno dei principali mutamenti riguardò lo spopolamento delle città. Un altro la progressiva scomparsa della servitus, la schiavitù classica, in quanto nei latifondi la manodopera agricola schiavistica fu soppiantata dai coloni. Una figura, quella del colono, già conosciuta nei secoli precedenti, ma con uno statuto giuridico nettamente migliore; fra tardoantico e alto medioevo, nonostante la sua libertà personale non fosse messa in discussione (ma si trattava ormai di un valore giuridico-formale vuoto di senso), egli prese a essere sempre più legato alla terra dove lavorava: prestava opere obbligatorie e gratuite, l’entità delle quali era sovente decisa unilateralmente dal propietario; era obbligato ad acquistare prodotti o a servirsi delle infrastrutture nella villa padronale; dipendeva giuridicamente dal latifondista. Ma questa «fuga dalla libertà» aumentava, se non altro, le probabilità di vivere una vita sicura, perché i latifondi avevano i loro vigilantes. La suddivisione del latifondo tra più famiglie di coloni mutò anche il tipo di colture; in precedenza nelle grandi proprietà si erano privilegiate le monocolture: grano, viti, olivi ecc. La lottizzazione e l’assegnazione a diverse famiglie in sostituzione degli schiavi comportò una diversificazione della produzione, che aveva poi circolazione soprattutto all’interno della villa stessa. Sarebbe però errato pensare a un sistema di produzione del tutto autarchico; le rese agrico-

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4. Agrimensori seduti in circolo, particolare di una miniatura del IX secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana. 5. I lavori dei mesi, da un manoscritto dell’inizio del IX secolo. Österreichisches Nationalmuseum, Vienna.

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6. Mese di giugno, miniatura da Les Très Riches Heures du Duc de Berry, 14131416, Musée Condé, Chantilly. 7. Alcuni particolari di un calendario dei lavori agricoli del 1280. Canterbury.

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le potevano risultare superiori rispetto al fabbisogno interno e dunque venir commercializzate; inoltre difficilmente una villa poteva produrre una varietà tale da soddisfare ogni esigenza: proseguirono dunque almeno i traffici di merci pregiate o di articoli d’artigianato. L’ORGANIZZAZIONE CURTENSE Il bosco e la foresta erano ormai divenuti gli elementi dominanti del paesaggio dell’Europa altomedievale, pur nelle profonde diversità dell’area mediterranea rispetto a quella germano-continentale. Nelle poco urbanizzate regioni del nord e nel cuore del continente il rapporto uomo-ambiente era rimasto prevalentemente inalterato rispetto ai secoli precedenti: la Francia settentrionale, a nord della Loira, e le aree dove maggiore era stato il popolamento germanico, dal grande bacino renano a quello dell’Elba, erano rimaste in larga misura paesaggisticamente indifferenti alla penetrazione romana e al suo sistema antropico. Mentre nel sud marittimo l’insieme culturale espresso dal mondo tardoimperiale era continuato, pur nello spopolamento e nella recessione, anche nell’incontro-scontro con un’altra civiltà a base urbana come quella islamica, le grandi formazioni forestali del nord restarono immutate anche in virtù delle caratteristiche del popolamento germanico e del suo rapporto con l’ambiente silvano, fonte primaria di approvvigionamento grazie alla caccia e all’allevamento brado. Ciò che conosciamo della pratica agricola in queste aree rinvia a un impiego assai ridotto del suolo, destinato per lo più ad uso arativo e a prato, dal quale non discendevano risorse alimentari sufficienti. Il bassissimo rendimento (rapporto tra seminato e raccolto) determinato dall’impiego di attrezzature da dissodamento inadatte ai pesanti terreni settentrionali – il grande aratro a ruote, munito di versoio e coltro, si diffonderà lentamente solo dopo l’VIII secolo – rese l’incidenza dei prodotti cerealicoli sussidiaria rispetto all’allevamento brado nei boschi, e in particolare a quello dei maiali. Meno esposti ai condizionamenti climatici dai quali dipendevano i raccolti, i popoli settentrionali furono quindi anche meno esposti alle carestie che resero incerta la sussistenza del mondo mediterraneo, dove tuttavia, al di là del riaffermarsi del bosco e dell’incolto, l’agricoltura era favorita dalla qualità più leggera del suolo. Parte integrante dello sfruttamento alimentare dell’ambiente, il bosco e l’incolto divennero riserve fondamentali alla sopravvivenza, assicurando il fabbisogno proteico a una dieta assai variata. Restarono comunque importanti differenze etniche nel costume alimentare, nel quale i germani introdussero la loro abitudine al consumo di carni di animali di grossa taglia, là dove il mondo romano-bizantino continuò a privilegiare, accanto al consumo mediterraneo di farine e cereali, quello degli ovini. La diffusione dell’incolto ebbe alcuni caratteri positivi che spiegano anche l’importanza assunta dalle vaste sodaglie e dalle aree boschive nel sistema curtense. Si è lungamente voluto che il portato economico di questa organizzazione produttiva sia stata la contrazione verso forme autarchiche di autoconsumo còlte nei loro aspetti di immobilità e di chiusura. È in effetti innegabile che la curtis tendesse a produrre al proprio interno tutto ciò che le necessitava, specie a fronte del venir meno dell’offerta artigianale del mondo urbano; tuttavia proprio la razionalizzazione delle risorse determinò una circolazione di eccedenze che consentì spesso, come per alcuni importanti monasteri dell’Italia padana, la creazione di magazzini nelle aree urbane maggiori o lungo le principali vie fluviali, dove era possibile assicurare uno smercio della sovrapproduzione agri-

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cola. La concentrazione di patrimoni terrieri nelle mani di pochi, come nel caso delle proprietà ecclesiastiche, favorì altresì anche una sia pur relativa circolazione di prodotti agricoli tra corti lontane, incentivando scambi motivati dalle diverse vocazioni produttive, specie là dove si mantennero attività estrattive e una residuale capacità artigianale nel campo della siderurgia. L’organizzazione curtense fu probabilmente l’unica risposta possibile nei quadri ambientali e antropici dell’Europa del tempo. È altresì opportuno ricordare come questo tipo di conduzione non fu il solo modello agricolo dominante nella realtà europea, ma convisse con altre forme di produzione legate alla sopravvivenza della piccola proprietà contadina, né le sue strutture – di per sé, oltretutto, assai poco rigide – si mantennero immutate nel tempo e nello spazio. Accanto alle proprietà del signore, vi erano infatti le terre che a questi non appartenevano e che i contadini detenevano e lavoravano in proprio: nelle aree mediterranee, e dunque anche in Italia, in piena proprietà (allodio); nel centronord d’Europa, invece, la piccola proprietà contadina era molto meno diffusa, e i contadini coltivavano terre che potevano non appartenere né a loro né al signore, ma ad altri membri dell’aristocrazia laica o a enti ecclesiastici, che esercitavano su esse un dominio feudale. Ciò non impediva, però, al signore del castello di esercitare diritti non su queste terre, ma sulle persone fisiche dei contadini, in quanto residenti sui suoi domini.

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8. Il lavoro dei contadini nei campi, miniatura di un manoscritto fiammingo del XIII secolo. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles. 9. San Zeno, Verona, particolare di un battente delle porte bronzee, inizio del XII secolo. In primo piano un aratro munito di ruote.

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MIGLIORAMENTI: PER CHI? L’idea tradizionale di una improvvisa espansione della società europea intorno all’anno Mille è ormai in declino, in favore di una concezione di lungo periodo in cui l’arco cronologico di crescita dell’economia e del popolamento andrebbe individuato fra i secoli VIII e XIII. In questo processo ebbero un ruolo una molteplicità di fattori, quali il carattere dinamico del sistema curtense e della società signorile: anche questi elementi che nella visione storiografica del passato, e ancora oggi nell’immaginario comune, erano individuati come componenti di arretratezza piuttosto che di progresso. Certo, anche sull’idea di progresso bisognerebbe dire qualcosa in più: se lo stato generale dell’economia del X-XI secolo registrava un incremento progressivo, è probabile che questo trend positivo non corrispondesse a un effettivo miglioramento del reddito pro capite e delle condizioni di vita delle popolazioni rurali. Negli anni Sessanta del nostro secolo una parte della storiografia poneva l’accento sul carattere innovativo e «tecnologico» del medioevo – e in particolare dell’XI secolo –, in contrapposizione con l’idea tradizionale di un’Europa medievale immobile, statica. Oggi l’attenzione su questi temi è un po’ meno accesa, e soprattutto la storiografia si è andata attestando sull’idea di un medioevo nel quale, più che inventare, si sfruttavano al meglio tecniche già conosciute. Vediamo brevemente quali furono le modifiche apportate alle tecniche di sfruttamento della terra. Per la cerealicoltura, rivestì grande importanza l’introduzione di nuovi sistemi di aratura. Nei primi secoli altomedievali le popolazioni rurali avevano continuato a servirsi dell’aratro tradizionale mediterraneo: leggero, in legno e con la sola punta rinforzata dal metallo; a partire dall’VIII secolo, ma soprattutto dal X, in molte aree dell’Europa centro-settentrionale (inclusa la pianura padana) venne introdotto un aratro molto più pesante, in metallo, dotato di ruote e con un versoio in grado di rivoltare la zolla. Per muoverlo, si adoperavano cavalli e buoi per i quali era stata introdotta la ferratura degli zoccoli e un nuovo giogo; l’insieme conferiva all’aratura una potenza nuova, in grado di preparare meglio i terreni e renderli più fertili. Sempre nell’ambito delle colture, va ricordata l’introduzione della cosiddetta «rotazione triennale», che annualmente lasciava solo un terzo del terreno a riposo – al posto del tradizionale mezzo –, incrementando le rese; inoltre, questo nuovo sistema di rotazione permetteva, durante la primavera, di seminare con graminacee la porzione di campo che in inverno era stata impiegata per i cereali. Un’altra novità del periodo riguarda l’introduzione del mulino ad acqua, anch’esso in teoria conosciuto prima del X-XI secolo, ma introdotto in modo massiccio in quelle regioni d’Europa in cui la crescita della produzione agricola lo rendeva necessario. Insomma, appare chiaro come nessuna fra queste innovazioni tecniche, da sola, possa spiegare in modo convincente la crescita economica. Se non accostiamo questi fattori al mutamento dei sistemi di gestione delle aziende agricole, sulle quali ci siamo soffermati nel capitolo IV di questo volume, siamo destinati a non comprendere le ragioni più profonde del mutamento in atto intorno all’anno Mille. Fra le concause del complessivo incremento della produzione in questo periodo non sono da trascurare neppure i fenomeni climatici. Sembra infatti che alla fine del X secolo si sia verificato un forte riscaldamento dell’atmosfera terrestre, quindi un miglioramento del clima, almeno nella sua parte boreale, che ha coinciso con alcuni fenomeni: anzitutto, con il ridursi delle piogge e poi, naturalmente, con lo sciogliersi delle calotte polari. Questi fenomeni erano gravidi di conseguenze straordinariamente importanti. Intanto, il ritrarsi delle calotte

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polari e lo sciogliersi dei ghiacci permise il liberarsi del mare del Nord, favorendovi le navigazioni dei vichinghi, che poterono così popolare l’Islanda. Inoltre, il miglioramento del clima influì in maniera benefica su alcune importanti malattie infantili, quali quelle delle vie respiratorie, favorendo l’accrescersi della popolazione. Al tempo stesso, il ridursi delle precipitazioni in certi casi poteva creare condizioni per un’agricoltura migliore. Uniti al trend positivo della produzione agricola, alle innovazioni tecniche, alla cessazione delle epidemie di peste – assenti, a quanto se ne sa, dal VII-VIII secolo –, questi fattori favorirono la crescita demografica e l’ampliamento delle aree messe a coltura. Gli effetti, tuttavia, non furono solo positivi. In un periodo in cui la macroeconomia era in crescita, la situazione dei contadini spesso peggiorava. È in questo periodo che le masse rurali presero a mangiare fondamentalmente cereali e leguminacee, con pochissime integrazioni proteiche. Oltre allo spazio agricolo che si toglieva al bosco, alla foresta o alla brughiera, per destinarlo alle culture cerealicole, c’è da dire che – nel quadro del generale peggioramento del loro status sociale – i contadini perdevano i diritti secolari di caccia e raccolta nelle terre boschive e paludose. Senza dubbio, in questo senso i contadini, dopo l’XI secolo, hanno compiuto un regresso nella qualità della loro alimentazione. Il contadino dell’alto medioevo mangiava meglio perché, potendo sfruttare il bosco e il sottobosco, aveva a disposizione una gamma maggiore di alimenti. Nell’XI secolo, aumentata la popolazione, c’era bisogno di pianificare l’alimentazione in modo diverso; nel frattempo – ed è il dato più importante – cresceva il peso dei valori e dei legami feudo-signoriali. Probabilmente, fra XI e XIII secolo le condizioni fisiche dei contadini peggiorarono, in modo tale che, quando a metà del Trecento la grande epidemia di peste colpì l’Europa e un’ampia parte della popolazione rurale – in certe aree si parla del 60% – soccombette, la causa non fu solo la durezza del morbo, ma anche la carenza di barriere immunitarie dovuta al cattivo standard dell’alimentazione.

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10. Il mese di ottobre, parete orientale dell’Aula Gotica, quinto decennio del XIII secolo. Basilica dei Santi Quattro Coronati, Roma. 11. Ambrogio Lorenzetti (1317-1348), Effetti del Buon Governo, particolare. Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena. La vita agricola è ordinata fuori dalle mura. 12. Hieronymus Bosch, Il figliol prodigo, Museum Boymans van Beuningen, Rotterdam. Il bel particolare qui rappresentato raffigura l’emancipazione che ha toccato sia il mondo rurale, sia quello urbanizzato.

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VERSO LA MARGINALITÀ Il contadino, del resto, questa creatura «di margine» fra il campo coltivato e la sterpaglia dove abitano le fiere e dove si rifugiano eremiti e fuorilegge, è col pastore, spesso ancor più «marginale» di lui, una figura liminare anche in senso antropologico: un anello di congiunzione, come lo presentano talora i romanzi cavallereschi, fra l’umano e il bestiale-demoniaco, fra l’uomo civile del mondo agrario che afferisce e guarda alla città e l’uomo selvatico che infesta i boschi terrorizzando i viandanti attardati. Una sorta di Calibano contorto, dal linguaggio incomprensibile; la gibbosità e i malanni che gli vengono dalla dura fatica cui è sottoposto per guadagnarsi la vita si riflettono – con un’immagine dove l’ironia sfuma nel disprezzo e anche in un lontano senso di paura – nella letteratura e nelle arti plastiche e figurative del tempo. In età comunale, la «satira contro il villano» sarà soltanto un esito lontano di questa lunga tradizione cavalleresca e goliardica, chiericale e intellettuale. In un certo senso, si potrebbe dire che nella società, per esempio in quella italiana del primo Duecento, che già si avviava trionfalmente a divenire, e in larga parte già era, una società cittadina – nel senso che il centro delle decisioni politiche, degli impulsi economici, delle elaborazioni culturali era ormai la città –, il contadino stava sempre più diventando un emarginato, e non stupisce che a tale emarginazione cercasse di sfuggire inserendosi nella corrente dell’inurbamento; per quanto tale corrente fosse lungi dall’essere costituita soltanto di

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contadini e, come un tempo si diceva, di «servi fuggitivi». Ma anche in città si poteva essere emarginati. La povertà, questa vecchia e costante presenza del nostro medioevo, era forse non meno dura in età feudale e precomunale; essa era però anche meno evidente, nella misura in cui le strutture ospitaliere organizzate dalla Chiesa erano in grado di attutirla almeno in parte e soprattutto per il fatto d’esser resa meno tragica, meno «presente», dal momento che la popolazione era più dispersa sul territorio, e quindi meno immediate saltavano agli occhi ingiustizie e sperequazioni; mentre le idee universalmente condivise da tutti sulla stratificazione sociale rendevano più «naturale», meno scandalosa, la realtà che potesse esistere anche una stratificazione socio-economica di ampie proporzioni. Tanto più poi che prestigio e potere non erano, in età feudale e precomunale, così strettamente connessi all’economia monetaria, quindi al bruto possesso del danaro e dei beni mobili e immobili, come più tardi sarebbero divenuti.

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Capitolo XI

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LA RETE VIARIA Le città antiche erano sorte in prevalenza sulle sponde del Mediterraneo, o comunque sulle rive dei grandi fiumi navigabili. La costruzione di strade carrozzabili era sempre stata per l’antichità un grosso problema, e valicare o traforare le montagne una difficoltà tecnica ardua da superarsi. Solo i romani, grazie alla loro economia a base schiavistica e all’organizzazione militare, avevano condotto una coerente politica di costruzioni viarie; ma durante l’alto medioevo in Occidente molte di queste strade romane erano state in tutto o in parte abbandonate o deviate (si pensi soltanto alla via Aurelia, che in molti tratti del litorale tosco-laziale era stata invasa dalle paludi) o ridotte a cave di pietra per la costruzione di edifici, specialmente chiese. A differenza della strada romana, la strada medievale (almeno fino al Duecento) è non lastricata bensì sterrata; non dritta bensì tortuosa, in modo da assecondare la conformazione del terreno nel quale si situa; e più che una carrozzabile è una mulattiera. Nonostante questa cattiva situazione, il medioevo è stato un tempo di viaggi e di viaggiatori. Viaggiavano tutti: i sovrani e i signori per le necessità di governo, i prelati per quelle pastorali, i mercanti per i loro traffici. Si viaggiava in gruppo, a piedi o montati su animali: i carri erano rari, poco agevoli e adibiti soprattutto al trasporto merci. Il cattivo stato delle strade favoriva il trasporto di merci a dorso d’animale piuttosto che su ruote. La manutenzione delle strade e dei ponti – un caratteristico ufficio pubblico – era stata affidata luogo per luogo ai vari domini, con risultati sovente disastrosi:

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1. Scena di viaggio da un salterio databile 1320-1340, British Library, Londra. 2. Durante il medioevo si continuò a usare le vecchie strade romane lastricate come la via Cassia.

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le une e gli altri venivano trascurati, mentre il transitarvi finiva con il costare molto caro a causa dei continui dazi imposti. La rinascita commerciale – che nel XII secolo trovò il suo centro nelle fiere di Champagne, fra Senna e Marna – è quindi essenzialmente legata ai traffici per via d’acqua, il che nell’area continentale interna significa fluviali. Le merci trasportate su grandi barche a fondo piatto («chiatte») via fiume avevano costi più bassi che via terra, viaggiavano più sicure e in maggior quantità. Lungo i fiumi europei si andarono quindi sviluppando delle vere e proprie grandi catene di centri urbani: i corsi d’acqua portanti dell’intero sistema erano il Reno, il Rodano, il Danubio, il Po. Ma collegato al traffico dei grandi fiumi v’era quello di corsi d’acqua anch’essi importanti come la Garonna in Francia, l’Elba nella Germania settentrionale, la Drava e la Sava nei Balcani; anche in Italia, erano navigabili in tutto o in parte, ad esempio, Adige e Arno. Si andavano così configurando sistemi di comunicazione misti, nei quali le merci procedevano per via fluviale – ma anche lungo le strade che sovente fiancheggiavano i fiumi – fin dov’era possibile, per venir scaricate e superare poi, generalmente a dorso di mulo, i passi di montagna. Una linea parallela al corso del Reno collegava le città renane – Colonia, Magonza, Worms, Spira – alla pianura padana, raggiungibile attraverso il passo dello Spluga; da Milano si arrivava comodamente sia al porto tirrenico di Genova sia a quello adriatico di Venezia, sia al nodo stradale di Piacenza, dove si incontrava la grande arteria medievale italiana, la via Francigena (cosiddetta perché usata da chi proveniva dalla Francia), che, dopo aver attraversato il Gran San Bernardo e toccato Ivrea, Vercelli e Pavia, varcava il Po appunto a Piacenza e di là s’inoltrava attraverso il passo della Cisa in Toscana per innestarsi sul percorso dell’antica via consolare romana Cassia e raggiungere Roma. Da lì, seguendo ancora una volta il tracciato di un’altra via consolare – l’Appia Traiana –, si potevano raggiungere i porti pugliesi, dov’era facile (attraversato il canale d’Otranto) giungere a Costantinopoli seguendo ancora una volta una via romana (l’Egnazia) e magari proseguire verso il Vicino Oriente.

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5. Le principali vie medievali di terra e d’acqua e le città più importanti per gli scambi a partire dal XII secolo.

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4. Una delle prime carte con itinerari, a cura del monaco inglese Matthew Paris, prima metà del XIII secolo. British Library, Londra.

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3. La strada sterrata percorsa dai pellegrini del Camino de la Plata, verso Santiago de Compostela, che passa sotto l’arco di Cáparra, simbolo oggi di questo camino.

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LE FIERE E I MERCATI Gli Stati sorti sulle rovine del mondo romano in Occidente mantennero a lungo una relativamente intensa attività di scambi e di commerci. I greco-siriani, in grado di occupare vaste porzioni urbane nella grande area portuale mediterranea, restarono a lungo gli operatori commerciali delle numerose città della Gallia meridionale e della Spagna visigotica, zone in cui dovettero mantenersi le fiere (nundinae) e i mercati che la legislazione tardoantica testimonia. Le città portuali nelle quali più a lungo si mantenne la legislazione romana, con le sue precise prescrizioni circa le dogane e i magazzini, conservano ancora per il VII secolo le tracce dell’esistenza di thelonarii (mercanti locali), a riprova della continuità di una prassi che aveva visto cooperare nell’attività mercantile individui sia stranieri sia indigeni, i quali poi distribuivano le merci nell’interno. I quartieri commerciali che avevano caratterizzato i principali centri mercantili del mondo romano-bizantino sopravvissero forse più a lungo di quanto si sia abituati a pensare, e Gregorio di Tours ci informa dell’esistenza di una simile area specializzata anche nella Parigi merovingia. È del resto in questo stesso contesto che si incontrano non solo le prime fiere, ma anche la nuova funzione cui esse assolsero nel quadro economico del tempo. La grande fiera di Saint-

6. Il vescovo di Parigi consacra l’annuale fiera di Saint-Denis, particolare di una miniatura conservata presso la Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 7. Facciata della chiesa abbaziale gotica di Saint-Denis. 8. Particolare di una miniatura della metà del XV secolo che mostra il banco dei pezzi di armatura in una fiera. Germanisches Nationalmuseum, Norimberga.

Alessandria

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9. Ampolla di Terrasanta con la raffigurazione del Santo Sepolcro. 10. Rilievo della pietra tombale del pellegrino danese Jonas che regge la palma, simbolo del pellegrinaggio a Gerusalemme, mentre la conchiglia lo qualifica anche come pellegrino a Santiago de Compostela.

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Denis, istituita da Dagoberto I, ebbe come scopo quello di costituire un importante cespite di entrate per l’abbazia omonima, che usufruiva per concessione regia di tutte le gabelle e le entrate che in quei giorni si raccoglievano. Nell’VIII secolo Childeberto III ricordava il rilievo internazionale assunto dalla fiera, verso la quale confluivano mercanti sassoni e di altre nazioni. Questo tipo di protezione regia accordato a grandi abbazie prossime ai centri commerciali nel giorno in cui ricorreva la festa del loro santo eponimo o la commemorazione liturgica della fondazione, seppur più evidente nelle epoche successive, testimonia degli adeguamenti strutturali dell’attività commerciale ai nuovi centri di aggregazione del potere territoriale, confermando l’esistenza di una molteplicità di livelli: da quelli prettamente locali – legati allo smercio delle eccedenze di una proprietà signorile o di un villaggio – fino a quelli stimolati dalla domanda di centri urbani maggiori, capaci di catalizzare un’offerta mercantile più vasta. Occasionale o periodica, come nel caso delle fiere, la mobilità mercantile sopravvisse fino alla stagione della rinascenza urbana dell’XI secolo. A partire dall’XI-XII secolo, per favorire gli scambi, si crearono in tutta l’Europa mercati periodici o stagionali che si tenevano in varie città di solito nei giorni consacrati alla festa dei santi patroni locali (e per questo, da feria, «festa», prendevano il nome di fiere). Le più famose avevano luogo sei volte all’anno in quattro diverse città della regione franco-orientale della Champagne, dove ogni centro ospitava il mercato per una durata da tre a sette settimane. In questo modo, si aveva almeno una grande fiera aperta ogni giorno dell’anno. LE VIE DI PELLEGRINAGGIO Il viaggiatore medievale per eccellenza, però, era il pellegrino. Le grandi mete del pellegrinaggio medievale erano Santiago de Compostela in Galizia (Spagna), Roma, Gerusalemme; esse erano alternate a mete secondarie, a pellegrinaggi meno importanti o «minori», soprattutto legati alla devozione dell’arcangelo Michele (Mont Saint-Michel in Normandia, la Sacra di San Michele in Val di Susa, Monte Gargano in Puglia) o a quella per la Madonna (Le Puy, Chartres, Rocamadour). I pellegrini erano protetti dalla Chiesa, che colpiva con la scomunica chi li avesse offesi; erano sovente dei penitenti, riconoscibili per la sacca e il bastone da viaggio; e come segno della loro penitenza e della santità della loro meta portavano indosso – sugli abiti e sui copricapi – dei distintivi speciali. Anche a proposito dei pellegrinaggi è opportuno sottolineare che i secoli altomedievali non erano stati secoli di stasi; vi erano conosciute due forme diverse, per quanto fra loro collegate, di pellegrinaggio: quello prettamente religioso e quello penitenziale. Il primo era diffuso sin dagli esordi del cristianesimo, ma essenzialmente come forma della conversio, del totale mutar di vita quando ci si voleva liberare dalle ansie e dalle tentazioni del mondo. In quel caso, si viaggiava fino a Gerusalemme, dove si viveva da peregrini, cioè da «stranieri», da «esuli», per il resto della vita; l’esempio più celebre è dato dall’esperienza della madre dell’imperatore Costantino, sant’Elena, recatasi in visita e alla scoperta – anche archeologica – dei luoghi santi. Invece, il pellegrinaggio penitenziale o espiatorio aveva origini diverse e più tarde, dovendosi legare al cristianesimo insulare, anglosassone e soprattutto irlandese, poi introdotto nel continente dai missionari ai partire dal VI-VII secolo. Come si evince dagli esempi forniti dai cosiddetti Libri paenitentiales, era il clero a incorrere prevalentemente in questo genere di punizione, in quanto escluso dalle pene riservate ai laici. Originariamente, il pellegrinaggio penitenziale era una forma di condanna molto dura, prevista per reati gravi (dall’omicidio all’in-

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cesto). Fino all’VIII secolo, infatti, non si ha notizia di pellegrinaggi penitenziali diretti a visitare luoghi santi, per cui il pellegrino era in realtà assimilabile a un vagabondo, qualcuno costretto a muoversi in continuazione in terre sconosciute e pericolose, obbligato a vivere di elemosine, impossibilitato a stabilizzarsi, lavorare, rifarsi una vita in altri luoghi. Come Caino dopo l’assassinio di Abele (Genesi 4,12-14), egli doveva recare su di sé i segni del proprio peccato: girava pressoché nudo, senza scarpe, con ferri che gli cingevano i polsi e le gambe. Non è casuale, infatti, che nei testi agiografici altomedievali le catene che si spezzano improvvisamente siano un miracolo piuttosto diffuso: segno della pietà di Dio e di una penitenza che si poteva ormai ritenere esaurita. Altri segni non infamanti, ma che li classificavano come pellegrini, erano il bastone e la bisaccia, o medagliette con sante effigi. I sovrani carolingi avevano più volte emanato direttive volte a scoraggiare tale tipo di pellegrinaggio, motivando il biasimo con ragioni d’ordine pubblico. Contemporaneamente, molti vescovi presero a inviare questo particolare tipo di criminali direttamente al cospetto del pontefice affinché fosse lui in persona a comminare la penitenza. Non tutti gli episcopati, tuttavia, seguivano questo costume; sappiamo anzi che la tradizione oscillò a lungo e molti vescovi consideravano nullo il caso di pellegrini che avessero ricevuto una certa penitenza dal papa senza farla ratificare dal proprio vescovo. Si configurava così un conflitto di competenze del quale a volte i penitenti approfittavano: magari scontenti del giudizio del loro vescovo, preferivano peregrinare sino a Roma in cerca di condanne meno severe. Un conflitto di competenza fra i tanti che opponevano i vescovi al successore di Pietro, durante secoli nei quali ancora non si aveva una

11. La città di Gerusalemme in un particolare della Carta Musiva di Madaba in Giordania, VI secolo, in cui è possibile individuare i principali monumenti: 1. Porta di Damasco; 2. Chiesa del Santo Sepolcro; 3. Chiesa della Madre di Dio; 4. Area del Patriarcato; 5. Foro bizantino; 6. Chiesa della casa di Caifa (?); 7. Basilica della Santa Sion o della Dormitio; 8. Cenacolo (?); 9-10. Piscina e chiesa della Siloam; 11. Chiesa di Santa Sofia e Pretorio (?); 12. Chiesa della Piscina Probatica; 13. Spianata del Tempio; 14. Fortezza Antonia (?).

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12. L’itinerario della via Francigena in Italia. 13. Stampa del 1575 di Antoine Lafréry in cui sono raffigurate le sette basiliche, meta del pellegrinaggio a Roma. 14. Pellegrini verso Roma raffigurati nella prima metà del XIV secolo nella chiesa rupestre della Madonna del Parto a Sutri, alle porte di Roma. 15. Pellegrini, con le insegne della croce e della conchiglia, vanno verso la salvezza con i resuscitati. Particolare dell’architrave della facciata di Saint-Lazare ad Autun.

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disciplina unica e comunemente accettata dei rispettivi ruoli, e in cui le diocesi spesso faticavano ad accettare una supremazia più che simbolica del pontefice. In ogni caso, il prender Roma come riferimento spingeva l’antica pratica del pellegrinaggio penitenziale a una fondamentale modifica: il reo di crimini gravi si avviava ormai verso le stesse mete percorse dai comuni pellegrini, e spesso con questi si confondeva. Progressivamente le due forme di pellegrinaggio si sovrapposero: se il criminale doveva farsi pellegrino, ogni pellegrino era un peccatore in cerca di espiazione. D’altro canto, i pellegrini – fra i quali vi erano anche vecchi, bambini, donne – si affiancavano a girovaghi, mercanti ambulanti, contadini in cerca di nuove terre che fra X e XI secolo, come si è detto, si muovevano con maggiore frequenza. Inoltre, nel corso dell’XI secolo la grande abbazia di Cluny si era fatta promotrice dei pellegrinaggi a Santiago de Compostela in Galizia, all’estremità di nord-ovest della penisola iberica. Esso sarebbe servito infatti, si pensava, a propagandare le guerre cristiane di riconquista contro i musulmani di Spagna. Infine v’era Gerusalemme: controllata dagli Abbasidi, ma visitata da un crescente numero di pellegrini occidentali. Nell’ambito propriamente ecclesiale, una certa diffidenza nei confronti dei pellegrinaggi rimase costantemente: anche perché l’organizzazione ecclesiastica era rigorosamente territoriale, e gli Ordini regolari erano organizzati, dal canto loro, sulla base della stabilitas loci, che impediva al monaco di mutare monastero rispetto a quello nel quale era entrato nell’Ordine. Tuttavia si finì con l’ammettere l’esperienza del pellegrinaggio come fatto centrale nella vita della Ecclesia, sebbene ordinato dalla Chiesa, sancito da un apposito voto e corredato dalle relative indulgenze spirituali. In questo modo la Chiesa provvide a inserirsi, disciplinandolo, nel vasto movimento che animava le strade dell’XI secolo.

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XI. LA STRADA

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clima monsonico che permetteva sviluppi abbastanza rapidi della marina a vela: i monsoni sono infatti venti costanti che, sebbene pericolosi, fanno percorrere grandi distanze in relativamente poco tempo. Attraverso l’oceano Indiano le flotte cinesi, indiane, arabe portavano le spezie di Giava, di Sumatra, della Malesia fino al Corno d’Africa; e dal Corno d’Africa passavano poi all’Egitto attraverso il Nilo, oppure risalivano il mar Rosso e in questo caso arrivavano tanto, di nuovo, in Egitto quanto verso la Siria, la Palestina e così via. Al volgere del millennio il grande commercio mediterraneo era saldamente nelle mani dei mercanti bizantini e soprattutto arabi. Pur se le merci più pregiate provenivano dal continente asiatico, i traffici mediterranei avevano un segmento importante anche nella porzione occidentale del Mediterraneo, una sorta di imperfetto triangolo che collegava Sicilia, Maghreb e al-Andalus. Gli archivi della Geniza del Cairo conservano documenti dai quali emerge una presenza precoce di mercanti occidentali che si muovevano fra questi porti, e anche oltre. Mercanti baresi, veneziani, amalfitani, pisani e genovesi sono attestati in molti porti del Mediterraneo bizantino e arabo già dal X secolo. Dal successivo, tuttavia, alcune fra queste città si fecero più intraprendenti, accostando brevi spedizioni militari al normale traffico dei commerci.

18. Particolare delle Cantigas de Santa María con navi musulmane, XIII secolo. Real Biblioteca de El Escorial.

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16. Astrolabio di epoca carolingia che testimonia l’influenza musulmana nello sviluppo della tecnica. Institut du Monde Arabe, Parigi. 17. Bussola e orologio solare medievale. Museo Naval, Madrid.

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LE VIE DEL MARE Vi erano poi i grandi empori commerciali marittimi, più importanti di quelli dell’entroterra. Costantinopoli era il grande centro di smistamento di tutte le merci che venivano dal mar Nero, dal nord (attraverso i fiumi russi, il Don soprattutto, arrivavano le pellicce, il miele, il legname, l’ambra) e soprattutto dal sud e dall’Estremo Oriente, aree da cui giungevano i prodotti più pregiati. Altri empori importanti erano Antiochia, Alessandria d’Egitto e Damietta sulla foce del Nilo, e Beirut, che era il porto «naturale» della città di Damasco. Damasco a sua volta era il grande emporio a cui arrivavano le merci pregiate, soprattutto le spezie, dal centro dell’Asia o dall’Asia estrema. Ma le spezie potevano anche arrivare dall’Asia per via di mare, attraverso l’oceano Indiano, col favore del


Capitolo XII

LA CITTÀ 1. Giotto, La cacciata dei diavoli da Arezzo, particolare dell’affresco di fine XIII secolo. Basilica superiore di San Francesco, Assisi.

2. Mosaico parietale raffigurante Ravenna alla fine del V secolo. Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna.

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LA RINASCITA URBANA Durante i secoli altomedievali la società conobbe una forte ruralizzazione, parallela allo spopolamento delle città, sempre più colpite dall’insicurezza sociale, dalla carenza di poteri forti che potessero approvvigionarne i residenti, dall’inflazione galoppante che metteva in ginocchio i ceti medi. Non dappertutto il processo di ruralizzazione fu ugualmente sentito: in Italia e in parte della Gallia il sistema urbano decadde in misura minore rispetto alle altre regioni occidentali, ma le linee di tendenza furono comuni pressoché dappertutto. Queste città si reggevano prevalentemente sul governo del consiglio di funzionari detti «decurioni» che decideva in merito a una molteplicità di questioni: la riscossione delle imposte, gli atti pubblici, la manutenzione. L’accantonamento di grandi fortune permetteva il formarsi di piccole clientele, costituite da quegli indigenti che da sempre nelle città dell’impero avevano basato il loro sostentamento sull’evergetismo pubblico. I più fortunati fra i membri del livello medio dell’amministrazione, i «curiali», riuscivano a entrare nel senato, che nel V secolo allentò sensibilmente le maglie del reclutamento, basandolo più sul censo che sull’origine socio-geografica. Attorno alle vecchie famiglie senatorie si formavano più ampie clientele, costituite non solo di indigenti e di bisognosi, ma anche di chiunque avesse necessità di ricorrere a un senatore per intervenire presso un funzionario o per ottenere qualche privilegio. Una inversione di tendenza si registra decisamente almeno a partire dal X secolo. L’insicurezza di quel periodo – attraversato dalle incursioni vichinghe,

3. Planimetria catastale con montagne, fiume, sistema viario e costruzioni. Particolare di una miniatura del IX secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana. 3

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4. Maestro del Registro, Codex Egberti, 985 circa, Annunciazione. Staadtbibliothek, Treviri. Sullo sfondo, presumibilmente, la città e la Porta Nigra.

ungare e saracene – fu uno dei fattori della rinascita dei centri urbani. Le esigenze relative all’organizzazione della sicurezza condussero a ripopolare e a fortificare i centri urbani, alcuni dei quali erano stati a lungo abbandonati o quasi: e i vescovi, che nelle città tradizionalmente avevano il centro della loro diocesi, furono i primi protagonisti di questa rinascita. Attorno a loro si coagulò un’aristocrazia di boni homines provvisti di proprietà mobiliari e immobiliari, di esperienza, di capacità anche militari e difensive, che collaborando con il prelato cittadino configurarono in forme che variano da città a città l’emergere di un’attività comunitaria di governo che certo non coinvolgeva tutti gli abitanti in quanto decisionalmente corresponsabili, ma che li riguardava tutti come oggetto delle scelte dell’oligarchia più potente. IL COMUNE MEDIEVALE A differenza della città antica, che pure aveva sviluppato forme di autogoverno ma che in generale era anzitutto un centro di consumatori, quella medievale si propose anche come un centro di produttori teso a instaurare con il terri-

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torio circostante («contado», «distretto», «territorio») un complesso rapporto d’integrazione e in certi casi di egemonia. Si può in linea generale dire che il «comune medievale» corrisponda a un fenomeno socio-istituzionale diffuso nell’Europa occidentale e centrale fra XI e XIV secolo, che però raggiunse un livello di sviluppo civile e di autocoscienza politica soprattutto nell’Italia centrosettentrionale, più specificamente nella pianura padana, nel Veneto occidentale e in Toscana: insomma, nell’ambito di quello che dall’VIII-IX secolo era stato il Regnum Italicum che dal X ai primi del XIX secolo sarebbe restato istituzionalmente collegato al regno di Germania e al Sacro Romano Impero, per quanto questo collegamento fosse divenuto largamente, in età moderna, una fictio iuris. Ben presto però – in coincidenza con la lotta per le investiture, che nella seconda metà dell’XI secolo pose spesso in dubbio la legittimità dei poteri vescovili – i ceti dirigenti cittadini, fra i quali emergeva sempre più la piccola feudalità che si era inurbata, ma che non per questo aveva abbandonato i suoi possessi extraurbani e le sue attitudini guerriere (e per questo abitava in dimore urbane fortificate, le «case-torri»), acquistarono crescente coscienza di sé e del proprio

5. Porta Soprana o di Sant’Andrea a Genova, (1155-1160). Veduta dall’esterno della cinta muraria.

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XII. LA CITTÀ

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6. Cimabue, particolare dell’affresco di San Marco Evangelista con l’Ytalia rappresentata come una città circondata da mura, fine del XIII secolo. Basilica superiore di San Francesco, Assisi. 7. Celebre è il centro monumentale civile e religioso di Cremona, ove, attorno alla piazza del Comune, si concentrano gli edifici dell’età comunale: il Torrazzo, alto quasi 111 metri, torre civica e campanile; il battistero; la gotica loggia dei Militi; il palazzo del Comune (1206-1246); il duomo romanico di Santa Maria Assunta.

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XII. LA CITTÀ 7

ruolo nelle città: il che accadde talora con l’autorità vescovile, più spesso nonostante essa o contro di essa. Questo sistema di governo cittadino si sviluppò proprio tra XI e XII secolo – in significativa e stretta coincidenza con la maturazione del nuovo sviluppo economico e commerciale delle città occidentali, specie di quelle affacciate sul mare – e colse anche la possibilità di tradursi in termini di diritto pubblico grazie al coinvolgimento, nel nascente movimento appunto definito «comunale», di un forte e intraprendente ceto di giurisperiti. Le oligarchie cittadine costituite di possessores fondiari, di milites, che esercitavano però anche il commercio e nelle città marinare l’attività cantieristica e armatoriale, dettero pertanto luogo al sorgere di magistrature collegiali di consules. Essi venivano eletti in numero e per un periodo variabili da città a città ed erano in genere espressione delle famiglie più ricche e potenti. Solo nella penisola la civiltà comunale, sia pure al suo tramonto – quando cioè le autonomie cittadine si stavano aggregando ed evolvendo nella forma dello «Stato regionale», mentre le istituzioni relative si avviavano verso soluzioni di tipo «signoriale» e quindi principesco –, assunse i caratteri di una piena coscienza autonomica. Nel pieno Trecento fiorentino, Coluccio Salutati giungeva a rivendicare al comune di Firenze la dignità dello Stato superiorem non recognoscens, con ciò denuziando la fino allora praticamente irrilevante ma giuridicamente irrinunziabile dipendenza della città dall’impero. LA CULTURA «BORGHESE» Le città comunali italiane erano anche centri di cultura: molte di esse ospitavano celebri università, ma vi si andavano facendo strada soprattutto le nuove professioni legate allo sviluppo del mondo cittadino e dei ceti medi: giudici, notai, medici. La cultura comunale non coincideva solo con la conoscenza della lingua latina e della teologia. Naturalmente, tale tipo di sapere non venne mai sconfessato: al contrario, nelle città gli studi teologici erano seguiti, e gli stessi Ordini mendicanti ne aprirono alcuni, dotati di vaste biblioteche, accanto ai loro conventi. Ma è sintomatico che in questi studi si facessero spesso discussioni di etica e di politica: la mentalità comunale, aperta a tutto quel che era pratico e concreto, rifuggiva dalle astrazioni e domandava alla stessa teologia di scendere sul terreno della vita sociale, politica, addirittura economica. Il mondo comunale era profondamente laico, senza che ciò costituisse causa di allontanamento dalla fede. I ceti dirigenti cittadini, in parte legati al contado dalle loro proprietà fondiarie e spesso dai loro rapporti di parentela con famiglie feudali, amavano sfoggiare un genere di vita «nobile», e ciò li conduceva ad apprezzare la cultura cosiddetta «cortese», fatta da poemi epici, da composizioni poetiche a carattere erotico, da romanzi cavallereschi. Il pubblico dei banchieri, dei mercanti, degli imprenditori avrebbe inoltre desiderato possedere anche nozioni scientifiche più precise, ma si vedeva ostacolato soprattutto dal fatto che la lingua dei trattati scientifici del tempo restava il latino. Nacquero quindi sunti, versioni o più spesso «volgarizzamenti» di opere a carattere scientifico, quali il Trésor e il Tesoretto di Brunetto Latini e la Composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo. Anche Dante, con il Convivio, compose un trattato di questo tipo. Infine, il comune necessitava di una sua «memoria» storica; anche le fazioni politiche e le famiglie avevano crescente bisogno di fissare in qualche modo i loro ricordi e i loro diritti. L’antica cronistica medievale, a carattere ecumenico e in lingua latina, non era più sufficiente; nacque nel XII secolo, e più ampiamente nel successivo, una cronistica cittadina – e più tardi anche familiare – caratte-

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rizzata dall’uso della lingua volgare e dall’estrema adesione alle cose attuali, immediate, con un taglio politico molto pronunziato. Nonostante l’importanza della cultura nel mondo cittadino, i comuni non misero mai a punto un sistema vero e proprio di «istruzione pubblica»; nel Duecento vi erano maestri privati che tenevano una specie di scuola – in genere nelle loro stesse abitazioni – dove si insegnavano ai fanciulli i primi rudimenti del leggere, dello scrivere, della stessa lingua latina: tali maestri erano spesso sovvenzionati anche dal comune. Per i ragazzi che avevano superato il primissimo livello di apprendimento v’erano nelle città le scuole di «grammatica» (termine questo che indicava genericamente la lingua latina), nelle quali si insegnavano le discipline del trivio e del quadrivio. Ma, soprattutto, importanti erano le scuole di «abbaco», cioè di matematica e computisteria commerciale. Poiché i mercanti erano il ceto emergente delle città comunali, era ovvio che il sistema scolare si adeguasse alle loro esigenze. Fu proprio grazie a questi interessi mercantili che nell’Italia tra Duecento e Quattrocento si sviluppò un ceto medio largamente alfabetizzato, capace di scrivere e in qualche caso anche di comporre opere letterarie. CITTÀ D’EUROPA Oltralpe, invece, l’aristocrazia feudale franco-settentrionale o tedesca diffidava in genere dei centri urbani e li disprezzava, e fin dall’inizio si rifiutò di entrare con essi in un rapporto che non fosse di estraneità o di conflitto. La città, in quelle aree, si affermò e permase come fenomeno essenzialmente legato ai ceti

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imprenditoriali o mercantili. Vi affiorò ben presto una stratificazione in maiores, mediocres e minores, e il potere si accentrò nelle mani delle corporazioni commerciali («ghilde») più ricche, le quali strapparono al sovrano o al signore feudale nella cui circoscrizione la città sorgeva dei diplomi di autonomia, talora pagati economicamente parlando assai cari, talaltra rilasciati addirittura dopo vere e proprie sedizioni. In Fiandra, la città acquistò autonomia politica sulla base di patti fra le «carovane» di mercanti (le «hanse»), le ghilde dei produttori locali e l’autorità signorile (ecclesiastica o laica), alla quale ufficialmente spettava il governo della città: anche sul piano urbanistico si nota questa dicotomia, in quanto la città è costituita da un complesso ordinato su due nuclei, la fortezza signorile e il borgo mercantile. Il movimento ebbe inizio piuttosto presto, intorno agli anni Settanta dell’XI secolo, senza tuttavia una vera e propria istituzionalizzazione, che sarebbe arrivata solo più tardi. In modo simile anche nella Francia del nord la seconda metà dell’XI secolo vide formarsi alcuni comuni. A capo del governo cittadino non vi erano consoli, come in Italia, ma «scabini», figure di giurisperiti, spesso provenienti dall’entourage dei signori. Una particolarità dell’area compresa tra le Fiandre e la Francia centrosettentrionale sta nella coesistenza tra comuni nei quali una coniuratio, cioè un’associazione giurata, veniva specificatamente riconosciuta dalle autorità – un re o un signore – per mezzo di un diploma, detto nelle fonti charte de commune. Un numero maggiore di città disponeva invece di chartes de franchises, cioè «carte

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8. Classe di grammatica. Miniatura da una edizione del X secolo del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 9. Maestro e allievi di una scuola di grammatica. Particolare di un manoscritto della metà del XIII secolo, monastero di Rein, Stiria. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna. 10, 11. Miniature dalla Imago mundi di Goussin de Metz, 1246: un insegnante con un dito alzato (10) e paesaggio con in primo piano il mare e i suoi pesci, poi la terra solcata da un fiume, sulla destra il castello e sulla sinistra la città con la cattedrale (11). 12. Charte de commune accordata nel 1209 dal re Filippo Augusto alla città di Péronne.

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XII. LA CITTÀ

XII. LA CITTÀ 13. Mantello dell’imperatore Enrico II, particolare. Manifattura tedesca, 1020 circa. Diözesanmuseum, Bamberga.

di franchigia», termine che dall’antico dialetto francone si riallaccia al termine frank, «libero». Nel sud della Francia, invece, le cosiddette villes de consulat vissero una prima fase simile a quella italiana, ma il diverso sviluppo e la capacità di controllo della monarchia, nonché la concorrenza delle città italo-tirreniche, non consentirono mai alle città del Midi un’evoluzione paragonabile. Ancora diverso il caso delle città tedesche, che giunsero a uno stato intermedio tra le città vescovili e quelle comunali. Nel corso dei secoli precedenti, in molte città tedesche i vescovi avevano assunto un ruolo centrale; tuttavia, nel corso della lotta che aveva visto affrontarsi il papato e l’impero, riuscirono ad approfittarne i poteri laici locali: tanto le dinastie ducali quanto i forti nuclei mercantili trovavano un interesse comune nell’espansione territoriale e commerciale verso nord e verso est. Le città raggiunsero quindi forme di autonomia utili a favorire tali sviluppi, ma rimasero pur sempre inquadrate nell’ambito di poteri superiori di diversa natura: la Germania conobbe così la coesistenza di città vescovili, di città territoriali, soggette a principi o signori, infine di centri urbani posti direttamente sotto la tutela regia. CENTRI DI PRODUZIONE Oltre che centri di scambio, le città occidentali erano anche luoghi di produzione importanti. Tuttavia, il momento preciso in cui nella lavorazione delle materie prime e nella produzione degli oggetti si passò da un sistema artigianale a uno più propriamente manifatturiero non è facilmente identificabile. Esso varia da luogo a luogo e da merce a merce. In ogni caso, all’interno dell’economia cittadina fra XI e XIII secolo si verificò dappertutto questo mutamento, che presupponeva maggiore disponibilità di materie prime e di denaro, capacità di affrontare i rischi del commercio, sensibilità per le richieste del mercato, capacità di anticiparle e in qualche modo addirittura di determinarle. Un campo di grandi progressi quantitativi e qualitativi è quello del vasellame di terracotta. Con l’introduzione della ruota a pedale, l’artigiano poteva lavorare alla forma del vaso con entrambe le mani: il che permise miglior qualità del prodotto e maggiore rapidità nella lavorazione. Ai primi del Trecento in Occidente cominciarono a circolare ceramiche smaltate con un composto a base di stagno che intendevano imitare la porcellana cinese. Questo procedimento era stato appreso attraverso gli arabi, e le nuove ceramiche condussero a quella che da noi si sarebbe chiamata «maiolica» (il centro di produzione più noto fu Faenza). Alla fine del XII secolo si diffuse in Occidente – soprattutto in Normandia, in Inghilterra e in Italia – l’arte della fabbricazione del vetro, fino allora segreto geloso del mondo orientale. La manifattura del vetro colorato, così importante per le cattedrali del nord, si diffuse a partire dal 1170 circa: i verdi e i rossi si producevano aggiungendo rame alla pasta vetraria, il marrone e il giallo aggiungendovi ferro, l’azzurro con un composto che da un termine arabo si chiamava zàffara. Tessuti e cuoio erano le due grandi risorse nel campo dell’abbigliamento e dell’armamento. Siccome la lavorazione di entrambi era lunga e articolata, essa era in genere concentrata in luoghi precisi, che dovevano rispondere a certe esigenze (per esempio l’abbondanza d’acqua) e che a causa dei prodotti della lavorazione divenivano abbastanza malsani. Sul piano della manifattura tessile, le tre fondamentali innovazioni medievali furono il filatoio a mano, il telaio orizzontale (che spesso era posseduto o noleggiato dai tessitori) e la gualchiera, cioè il mulino per «follare» i panni (e che serviva a ispessire il tessuto battendone le fibre). Nelle città si andò ben presto creando un sistema di «manifattura disseminata»: le varie fasi della lavorazione delle stoffe erano affidate a lavo-

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14. Velluto tagliato su fondo di teletta d’argento, particolare. Manifattura fiorentina, 1540 circa. Museo Nazionale del Bargello, Firenze. 15. Il lavoro dei tintori, particolare di una miniatura dal De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, fine del XV secolo. St John’s College, Cambridge. 16. I monaci assistono all’ascensione al cielo di san Benedetto, particolare di una vetrata, 1145 circa. Musée National du Moyen-Âge (da Saint-Denis), Parigi. 17. Bottega di Veit Hiersvogel, Maria al telaio, particolare di una vetrata, 1505. Parrocchiale di Grossgründlach, in Baviera.

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ratori specializzati, tra i quali emersero presto i «tintori», che lavoravano con strumenti complessi e con materie prime costose. La lavorazione del ferro e la fabbricazione di armi trovarono un grande sviluppo nella Germania renana e in Lombardia, tanto che anche i musulmani erano abituati a combattere con «spade franche» (cioè occidentali); essi difatti im-

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portavano sia metalli grezzi, che poi lavoravano specie in Spagna e in Siria, sia manufatti. L’area mineraria per eccellenza era la Sassonia, donde provenivano i minatori più celebri. Importanti miglioramenti nel campo della costruzione dei forni da fusione permisero una lavorazione dei metalli sempre più rapida.

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LA «GENTE NOVA» Nel corso del XII secolo le contese tra fazioni erano state una costante della vita comunale. Nel frattempo, nuovi ceti si erano andati costituendo: e già alla fine del secolo, o agli inizi del XIII, i rappresentanti maggiori di essi, tenuti fuori dal comune in quanto non appartenenti alle aristocrazie cittadine consolari, chiedevano di entrare a far parte della compagine di governo. Chi era questa, che Dante avrebbe chiamato con disprezzo «gente nova»? Spesso si trattava in effetti di ceti medi rurali inurbati, ben provvisti di mezzi e favoriti dal flusso demografico ascendente, che faceva crescere la richiesta di derrate alimentari sul mercato e favoriva quindi chi possedeva terra coltivabile. Al movimento della conquista del contado da parte della città corrispondeva pertanto un movimento reciproco di conquista della stessa da parte di un ceto emergente rurale che riteneva utile e conveniente inurbarsi e investire i suoi averi in nuova terra, in case in città, in fondachi, in speculazioni bancarie e commerciali. Nelle città di mare, armatori e mercanti si erano arricchiti soprattutto grazie alle crociate e ai proventi del commercio delle spezie e degli articoli di lusso. In tutti i centri, il sempre più vorticoso bisogno di moneta liquida favoriva l’attività dei prestatori di denaro, che ben presto si trasformarono in speculatori e imprenditori («banchieri»); e infine la richiesta di beni di produzione sui mercati europei incoraggiava l’attività manifatturiera. In tutta l’Italia centro-settentrionale si era pertanto costituito un ceto articolato,

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18. Maestro del Biadaiolo, La compra e vendita del grano. Le due immagini si riferiscono alla misurazione e alla vendita del grano. Biblioteca Laurenziana, Firenze. 19. Tre mercanti veneziani di tessuti raffigurati in una miniatura della fine del XIV secolo. Museo Correr, Venezia.

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20. Una trattativa commerciale dal Libro degli Statuti e delle Corporazioni, XIV secolo. Civico Museo Medievale, Bologna. 21

21. Carovana di cammelli del patriarca di Costantinopoli. Particolare degli affreschi di Benozzo Gozzoli (1420-1498). Cappella dei Magi, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze.

composto di banchieri, imprenditori, mercanti, artigiani, cui si aggiungevano i professionisti in campi «liberali» come la giurisprudenza e la medicina: essi erano riuniti in associazioni professionali (arti, corporazioni) che esercitavano un controllo sulla loro perizia specialistica, sulla qualità dei prodotti e dei prezzi, sul diritto di esercitare le varie professioni da parte di nuovi adepti all’organizzazione professionale. Erano i cittadini originariamente detti mediocres o minores, oppure semplicemente populares: essi, non appartenendo alle famiglie dei potentes, dei milites, dei «grandi», dei «magnati», non avevano diritto a entrare nell’organizzazione del comune e quindi a partecipare al governo cittadino. Tuttavia, già a partire dai primi del XIII secolo li vediamo costituire una propria società giurata (il «popolo»), parallela al comune, e contendere ai magnati il potere. La lotta tra magnati e popolani si andò accompagnando nel corso del Duecento a quella interna al ceto magnatizio.

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22. Banchieri italiani raffigurati in una miniatura della fine del XIV secolo. British Library, Londra.

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Capitolo XIII

LA SCOPERTA DELL’ALTRO GLI EBREI Nel mondo cristiano, sia bizantino sia occidentale, le condizioni giuridiche e civili degli ebrei erano condizionate da forti forme d’inferiorità. I rapporti tra cristiani ed ebrei erano tesi fin dal II secolo, e la legislazione dell’impero romano cristiano aveva imposto ai figli d’Israele varie forme di discriminazione. Erano migliori invece sotto l’Islam, tanto più che i musulmani non avevano sviluppato alcuna forma di pensiero filosoficamente antigiudaico, al contrario di quanto era avvenuto in area cristiana, non senza riflessi in un tenace antigiudaismo popolare. Tuttavia, fino all’XI secolo nel mondo latino le loro comunità avevano potuto vivere sostanzialmente indisturbate, e anzi gli imperatori romano-germanici avevano loro accordato protezione. Nella primavera del 1096, le comunità ebraiche di molte città dei bacini renano e danubiano furono aggredite e quasi distrutte dalle torme dei pellegrini infiammati dalla parola apocalittica di predicatori vaganti e guidate da sinistre figure di cavalieri-briganti e di piccoli aristocratici avventurieri. L’appello di papa Urbano II a Clermont aveva avuto una forte e immediata risonanza anche a un livello che potremmo forse definire «popolare». Così, quell’evento che noi siamo abituati a chiamare «prima crociata» è divenuto, per il mondo ebraico, il momento luttuoso e terribile del primo, grande pogrom che la storia europea ricordi. Orde di pellegrini convinti che la fine dei tempi fosse arrivata e prossimo fosse il giorno del giudizio (segno profetico del quale avrebbe dovuto essere la conversio-

2 REGNO D’INGHILTERRA M

ar

el ed

1. Burchard del Monte Sion, Gerusalemme e i luoghi santi, Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 2. Il tracciato della cosiddetta crociata popolare. 3. Papa Urbano II predica la prima crociata durante il concilio di Clermont nel 1095, miniatura dal Livre des Passages d’Outre-mer, 1490 circa. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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Nord PRINCIPATI RUSSI

Londra Colonia Worms

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Parigi REGNO DI FRANCIA Clermont Tolosa CASTIGLIA Toledo Lisbona Siviglia

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SACRO IMPERO o ROMANO-GERMANICO Milano Lione

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Brindisi IMPERO ROMANO Iconio D’ORIENTE Eraclea

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Zona di raccolta della crociata popolare Principali zone di raccolta della I Crociata Mondo cristiano (cristiani latini)

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Mondo islamico Cristiani d’Oriente

Edessa Tarso Tripoli

M e d i t e r r a n e o

Gerusalemme

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XIII. LA SCOPERTA DELL’ALTRO

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4. Frontespizio dell’ultimo libro della Torah. Bibbia manoscritta, Germania, XIII secolo. 5. La Sinagoga sconfitta, miniatura dall’Omiliario di Beda di Verdun, 1180 circa.

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ne d’Israele) si gettarono sulle prospere e pacifiche comunità ebraiche del Reno. Anche se si è ipotizzato che le persecuzioni del 1096 poterono venir «suggerite» ai pellegrini da alcuni abitanti cristiani delle città renane e danubiane, ai quali le fiorenti attività economiche, finanziarie e commerciali degli ebrei davano fastidio. L’orrore iniziò nella Settimana Santa, il Sabato Santo del 1096, a Colonia, dove si teneva una famosa fiera. Nelle valli del Reno, del Meno, della Mosella, del Danubio gli ebrei furono massacrati senza pietà nemmeno per le donne e i bambini; le sinagoghe assalite e profanate, sovente aggrediti anche i vescovi di quelle città che – fedeli del resto a un preciso ordine dell’imperatore Enrico IV – tentarono in più occasioni di difendere i malcapitati fino ad accoglierli nelle loro dimore. Responsabili della mattanza non furono soltanto alcuni predicatori fanatici, sfuggiti alla disciplina ecclesiale. Le cronache affidano all’esecrazione anche i nomi di cavalieri-predoni come il tristo Guglielmo il Carpentiere (che si sarebbe distinto anche durante la crociata, fra 1097 e 1098, per orribili gesta) o il feroce Emicho di Leiningen, rimasto a lungo protagonista d’una cupa saga folklorica germanica. Per l’insieme di queste ragioni, tra XI e XII secolo, gli ebrei furono costantemente favorevoli ai musulmani durante le crociate e le altre forme di confronto militare tra questi e i cristiani. Gli ebrei combatterono per difendere la città di Gerusalemme dai crociati che la conquistarono nel 1099, ne furono espulsi dai vincitori e vi rientrarono solo nel 1187, quando il Saladino la prese a sua volta. Non v’è dubbio che, nei quattro secoli tra i massacri delle comunità ebraiche mitteleuropee perpetrati dai pellegrini «crociati» nella primavera del 1096 e l’espulsione degli ebrei dalla Spagna cristiana – con il corollario della limpieza de sangre –, attraverso le espulsioni delle comunità ebraiche dalla Francia e dall’Inghilterra e l’insorgere delle calunniose leggende legate alle accuse d’infanticidio rituale, maturò in Europa qualcosa che andava oltre l’antigiudaismo dell’apologetica e della scolastica.

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BISANZIO La parola «bizantino» oscilla nel nostro sentire e parlare comune tra la condanna morale per qualcosa di astruso, di complicato, di decadente, di corrotto, e il fascino estetico sottile e persistente che si prova per qualcosa di raffinato, di magico, di sensuale. La cultura che noi definiamo bizantina, e che è propriamente quella ellenofona sviluppatasi appunto nell’impero romano d’Oriente tra VII e XV secolo, giustifica ampiamente, con la sua ricchezza, raffinatezza e complessità, l’uso corrente che noi facciamo di quel sostantivo e di quell’aggettivo. Poiché Bisanzio era la città greca sita sul Bosforo che nel 330 fu scelta dall’imperatore Costantino per edificare sul suo sito, naturalmente ampliandola, la nuova capitale dell’impero, i termini Costantinopoli e Bisanzio possono definirsi sinonimi per indicare ufficiosamente o colloquialmente (e in effetti a ciò servirono) la capitale il cui nome ufficiale era «Nuova Roma». Con il termine «Bisanzio» i moderni usarono però indicare anche molte altre cose: l’impero romano-orientale nel suo complesso; la sua realtà territoriale; la sua civiltà, per cui ordinariamente si parla anche di «civiltà bizantina». Quanto ai romaioi (in greco, letteralmente, «romani»), essi sarebbero stati da allora in poi tutti gli abitanti delle terre soggette all’impero bizantino, che tanto gli europei occidentali quanto gli arabi chiameranno appunto così (Romània nel latino medievale, da cui anche i termini che in italiano indicano la «Romanìa» e la «Romagna»; e Rum in arabo).

6. Sinagoga detta Santa María la Blanca a Toledo, 1200 circa. 7. L’imperatore Costantino IX Monomaco, che suo malgrado assistette alla rottura tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, è ritratto alla destra di Cristo con la moglie Zoe alla sinistra. Particolare del mosaico dell’XI secolo dellatribuna sud di Santa Sofia, Costantinopoli.

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8. Gesù incorona Ruggero II, primo re dei normanni di Sicilia (1130). Mosaico della chiesa di Santa Maria della Martorana, Palermo. 9. Assedio di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204, miniatura del XV secolo. Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi. 10. Gruppo in porfido dei Tetrarchi (fine III-inizio IV secolo d.C.), portato da Costantinopoli a Venezia e collocato sul cantone esterno del Tesoro della basilica di San Marco.

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Nei secoli altomedievali, i rapporti fra Bisanzio e l’Europa latino-germanica furono altalenanti. Un grave momento di rottura si ebbe verso la metà dell’XI secolo, quando Roma, dall’intesa con i bizantini contro i normanni italo-meridionali, che all’epoca minacciavano militarmente la stessa Costantinopoli, cambiò alleanza passando dalla parte dei normanni. Su tale sfondo politico nel 1054 si consumò lo scisma fra le due Chiese, che ebbe come motivazione ufficiale una questione teologica (la disputa sul filioque) e, soprattutto, il fatto che ormai a Occidente si andava elaborando la dottrina del «primato di Pietro», cioè del vescovo di Roma, sulle altre sedi patriarcali (Costantinopoli, Antiochia, Alessandria, Gerusalemme) e quindi della sua egemonia sull’intera Chiesa, mentre i bizantini si mantenevano fedeli alla tesi d’una Chiesa conciliarmente guidata dai vescovi e strettamente controllata dal loro imperatore. Un altro grave momento di crisi si registra alla fine del XII secolo, quando la dinastia degli Angeli perse la Serbia, la Croazia e la Dalmazia e si dimostrò incapace a fronteggiare l’ascesa e l’espansionismo della monarchia bulgara. Il governo di Isacco Angelo ne uscì fortemente screditato, al punto che suo fratello Alessio III si impadronì del potere dopo averlo fatto accecare e rinchiudere insieme al figlio Alessio. Questi, riuscito a fuggire, si rivolse dunque a Venezia: una scelta destinata a innescare una catena di gravi conseguenze. Nel 1202 le forze crociate erano concentrate a Venezia, la quale da parte sua offriva una potente flotta – 50 galee – per trasportarle oltremare. Il contributo veneziano non era tuttavia gratuito

e l’armata crociata non aveva fondi sufficienti a pagare la flotta. L’anziano ma energico doge veneziano Enrico Dandolo propose allora ai crociati di sdebitarsi aiutando Venezia a sottomettere la città dalmata di Zara, che le si era ribellata. La trama tessuta dal Dandolo prendeva forma. È infatti a Zara che si era presentato ai crociati il principe bizantino Alessio, figlio del detronizzato Isacco, chiedendo aiuto per sconfiggere l’usurpatore e promettendo in cambio denaro e addirittura la fine dello scisma tra le due Chiese. Nel luglio 1203, difatti, veneziani e crociati giunsero a Costantinopoli, sconfissero Alessio III e restaurarono sul trono imperiale Isacco e il figlio Alessio IV. Ma la loro prepotenza provocò la rivolta d’una parte dell’opinione pubblica bizantina, stanca delle continue ingerenze occidentali nella politica dell’impero e nella stessa vita della capitale. Ad essa, veneziani e crociati risposero con un feroce saccheggio della città, con il rovesciamento dell’impero bizantino e con la fondazione di un nuovo «impero latino di Costantinopoli. Lo stesso Innocenzo III non poteva approvare questa «crociata tradita». Essa gli aveva l’offerto l’unione delle due Chiese, ma al prezzo di un veneziano nominato patriarca latino di Costantinopoli. In realtà, questa che solitamente si indica come la «quarta» crociata non fece che approfondire il fossato d’incomprensione tra cattolici e ortodossi. L’impero latino entrò in crisi dopo pochi decenni e nel 1261 Michele vIII Paleologo, alleato con Genova, vi pose fine. Pur se la nuova dinastia si impegnerà a fondo nel tentativo di ricostruire una rete di rapporti

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manifestare i primi segni della sua vocazione: lunghi ritiri spirituali, poi visioni (l’angelo Gabriele) e voci che gli parlavano. Muhammad rivelò dapprima queste sue esperienze solo a pochi intimi, che più tardi sarebbero stati suoi vicari e successori («califfi»). Iniziò solo verso la fine del secondo decennio del VII secolo la sua predicazione in pubblico, basata essenzialmente sulla rivelazione monoteistica: egli proclamò la sua fede in un solo Dio (in arabo Allah), dal quale si proclamava «inviato» (rasul) per proseguire e concludere il messaggio dei profeti della Bibbia. La sua predicazione, caratterizzata all’inizio da un duro tono apocalittico e da una ferma opposizione alle tradizioni idolatriche che come abbiamo visto costituivano uno dei motivi della prosperità di Mecca, fu violentemente osteggiata dall’aristocrazia mercantile locale che si arricchiva sul pellegrinaggio alla pietra della Ka‘ba. Muhammad si rifugiò quindi nel 622 in Yatrib (è questa la Hijra «migrazione», italianizzato in «Egira»), dove il suo messaggio fu accettato. Da lì cominciò davvero la sua attività di predicatore, profeta e conquistatore. Il 622 sarebbe divenuto la data dell’inizio della nuova era per tutti i paesi musulmani. Yatrib divenne da allora Medina, in arabo «la città» per eccellenza, in quanto la preferita del Profeta. Nel gennaio 630, l’autorità di Muhammad era divenuta ormai qualcosa alla quale non era più possibile opporsi. Anche i meccani vi si sottomisero, come molte tribù beduine, e il Profeta poté trionfalmente rientrare nella sua città: non senza tuttavia accettare il compromesso del mantenimento del santuario della Ka‘ba, divenuto anzi il centro sacrale dell’esperienza islamica. Il Profeta morì a Medina nel giugno 632. La grande fortuna di Muhammad fu l’incontro positivo con le tribù beduine, che abbracciarono quasi tutte la nuova fede. Grazie ai beduini, con la loro etica fatta di fedeltà personale e familiare, di senso dell’onore, di straordinaria audacia guerriera, di estrema frugalità, il Profeta poté conquistare in pochi anni un vero e proprio impero. La ventata islamica modificò il volto del mondo afro-asiatico-mediterraneo. Nel giro di un venticinquennio, fra l’Egira e la metà del VII secolo, l’impero persiano era stato cancellato e assimilato; l’impero bizantino, fu costretto a rivedere tutta la sua politica territoriale e difensiva, mentre la potenza marinara dell’Islam lo obbligava ad abbandonare la costa africana e spartire con essa una talassocrazia fino allora indiscussa.

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diplomatici sia a Oriente che a Occidente, Bisanzio uscirà duramente provata dagli anni di dominazione latina.

13. Statuetta in bronzo del dio Ilmuqah, Marib, I-II secolo d.C. L’abito è drappeggiato sulla spalla: dall’avvento dell’Islam è questo l’abito obbligatorio per i fedeli in pellegrinaggio a Mecca. 14. L’offerta di una città al Profeta Muhammad. Topkapi Sarayi Müzesi, Istanbul. 15. La carta mostra l’espansione islamica fino al 750. 16. Il Profeta Muhammad davanti alla Ka‘ba in una miniatura antica. 17. In questa miniatura del XVI secolo la Ka‘ba e Mecca sono il centro del mondo.

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12. Frammento di un rilievo alessandrino proveniente da Petra.

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L’ISLAM Dagli antichi regni moabiti, edomiti e nabatei, che erano loro etnicamente affini, gli arabi avevano ereditato una serie di riti e di culti a carattere soprattutto astrale e una quantità di figure mitologiche, specie femminili, prossime alle divinità babilonesi o fenicie. Ma essi – e in modo speciale i beduini, che spostandosi assimilavano rapidamente usi e tradizioni dei popoli con i quali venivano in contatto – avevano sentito profondamente anche l’influenza del popolo che fra tutti era il più affine (per origini etniche, per lingua e per tradizioni) a loro: quello ebraico. Si può dire quindi che nel VI secolo la maggioranza degli arabi professasse una sorta di monoteismo imperfetto: la loro fede era nel Dio unico della Bibbia; ma accanto a tale culto, essi conoscevano e osservavano ancora vari culti idolatrici, fra cui erano fondamentali quelli dei bethel, cioè delle pietre d’origine celeste (erano di solito meteoriti) che si credevano «sede della forza di Dio» (tale il significato della parola beit-el). Il bethel più famoso era la Pietra Nera che si conservava a Mecca. Al santuario della Ka‘ba, dov’essa era custodita, convenivano periodicamente le varie tribù beduine: questo faceva di Mecca anche un ricco centro mercantile. Ma la penisola arabica conosceva anche il cristianesimo: gli abissini vi avevano diffuso il monofisismo, mentre sotto l’egida persiana v’era stata una notevole avanzata del nestorianesimo. Verso il 610 la vita di Mecca fu sconvolta dall’inizio della predicazione di Muhammad, un membro quarantenne della più importante famiglia cittadina, i Banu Quraysh. Un quindicennio circa dopo il matrimonio, egli avrebbe cominciato a

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11. Stele tombale trovata nella regione nordoccidentale dell’Arabia preislamica, proveniente da al-’Ula o da Teima.

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18. Sheyb Egirt Kümbeti, Ahlat, nella regione selgiuchide del lago di Van. 19. L’imperatore Alessio I Comneno (1048?-1118), in aiuto del cui impero minacciato dai selgiuchidi fu promossa la prima crociata. Miniatura conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

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INCONTRI E SCONTRI: LE CROCIATE Il movimento del pellegrinaggio non era soltanto «popolare». Ad esso partecipavano parecchi nobili, che magari si proponevano con le armi di scortare e difendere i viandanti inermi. In questi ceti superiori, il pellegrinaggio poteva anche essere espressione di un certo disagio sociale. In gran parte d’Europa, per i figli cadetti della nobiltà non si prevedevano assegnazioni ereditarie, per cui essi avevano soltanto la scelta fra carriera ecclesiastica o avventura guerriera. Questo aiuta a spiegare l’afflusso di cavalieri venuti un po’ da ogni parte della Cristianità occidentale, ma soprattutto dalla Francia, in quelle guerre combattute contro i musulmani nella penisola iberica e che vanno nel loro complesso sotto il nome spagnolo di Reconquista. La Chiesa romana, nell’XI secolo impegnata nel confronto con l’impero, favorì le campagne dei re spagnoli e incoraggiò la cavalleria europea a intervenire al loro fianco. Nel frattempo, anche al di fuori della penisola iberica alcune imprese militari mostravano una nuova aggressività da parte del mondo occidentale. La rinnovata mobilità interna al continente europeo trovava nuovi sbocchi grazie all’attività di alcune città affacciate sulle coste adriatiche, tirreniche, provenzali, catalane. Questi fenomeni portarono verso la fine del secolo all’avvio di un movimento del quale tuttavia, sul momento, nessuno fu in grado di misurare la portata effettiva: la crociata. Lo stesso nome «crociata» è tardo e nella sua formulazione definitiva non risale a prima del Duecento. In realtà, sembra che il movimento sia nato quasi per caso, e che solo più tardi la Chiesa abbia pensato a teorizzarlo in qualche modo. La crociata non è una «guerra santa», perché la religione cristiana, pur ritenendo in qualche caso (quando siano, ad esempio, di difesa) giuste le guerre, non accorda ad alcuna di esse un carattere santo. Essa rappresenta semmai un’originale fusione di guerra e di pellegrinaggio (ai crociati venivano accordati gli stessi privilegi spirituali che la Chiesa riconosceva ai pellegrini), nata sul modello delle spedizioni antimusulmane di Spagna, di Sicilia e d’Africa settentrionale, durante le quali effettivamente si era andata profilando una specie di sacralizzazione della guerra contro l’infedele, il cui clima si respirava nelle chansons de geste. In Spagna, in Sicilia e in Africa il pontefice aveva assegnato ai capi cristiani la bandiera di san Pietro (simbolo di rapporto feudale, ma anche di benedizione); le cronache di quelle imprese parlano d’interventi divini e di miracoli a favore dei combattenti della fede; la guerra fra cristiani e «infedeli» viene rappresentata come simbolo del conflitto spirituale tra Virtù e Vizio, e così via. Alla fine del secolo si era cioè arrivati a concepire il conflitto contro i musulmani come qualcosa di spiritualmente meritorio. Su ciò fece leva papa Urbano II, il quale nel 1095, in un concilio tenuto a Clermont in Alvernia, sollecitò la nobiltà francese uscita dalla lunga crisi costituita dalle guerre feudali ad accorrere in aiuto dell’impero di Costantinopoli minacciato dai turchi selgiuchidi. Fu quest’orda di guerrieri armati e di pellegrini originariamente seminermi, ma induriti dal lungo viaggio, inferociti dalle privazioni e preda d’un repentino fanatico entusiasmo, che si abbatté su Gerusalemme tra la primavera e l’inizio dell’estate 1099; la città fu espugnata d’assalto il 15 luglio di quell’anno. Negli anni successivi, i crociati riuscirono a conquistare anche l’area circostante la città, fino a impadronirsi di una regione corrispondente alla fascia compresa tra il mar di Levante e il corso del Giordano nel senso est-ovest, e che nel senso nord-sud andava dalla Siria al mar Rosso. Tuttavia, se questa e le successive spedizioni furono un momento di scontro

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armato tra cristiani e musulmani, esse rappresentarono anche un’occasione di incontro. Come scrive il cronista Fulcherio di Chartres: «Abbiamo dimenticato i nostri luoghi d’origine: molti dei nostri li ignorano o addirittura non ne hanno mai sentito parlare. Qui c’è chi già possiede casa e servi con tanta naturalezza come se li avesse ricevuti in eredità dal padre; chi ha preso per moglie – anziché una compatriota – una siriana, un’armena e magari una saracena battezzata; chi ha qui suocero, genero, discendenti, parenti. Uno ha ormai figli e nipoti, un altro beve già il vino della sua vigna, un altro ancora si nutre con i prodotti dei suoi campi. Ci serviamo indifferentemente delle diverse lingue del paese: tanto l’indigeno quanto il colono occidentale sono divenuti poliglotti e la reciproca fiducia avvicina le razze anche più estranee fra loro. Si avvera quanto ha detto la Scrittura: ‘Il leone e il bue mangeranno a una medesima mangiatoia’ (Isaia 65,25). Il colono è ormai diventato quasi un indigeno, l’immigrato si assimila all’originario abitante. Ogni giorno parenti e amici vengono a raggiungerci dall’Occidente, non esitando ad abbandonare laggiù tutto quel che posseggono; perché chi laggiù era povero qui per grazia di Dio ha raggiunto l’opulenza; chi non aveva che qualche soldo qui possiede dei tesori; chi non godeva neppure di una piccola signoria qui si vede divenuto padrone di una città. Perché dunque tornare, dal momento che abbiamo trovato un tale Oriente?».

20. Nel XII secolo a Toledo, ormai passata sotto il governo cristiano, la tradizione andalusa delle maestranze si sposa a quella romanica, dando vita a uno stile detto mudéjar. Nella chiesa di San Román sono presenti, oltre a questi, anche elementi come gli archi a ferro di cavallo, che richiamano la sinagoga di Santa María la Blanca. 21. Esempio di arte islamica con contenuti anche cristiani: Giocatori di polo e Resurrezione di Lazzaro nel bacino di Arenberg, 1290-1310. British Museum, Londra. 22. Fiasca siriana che documenta che l’iconografia cristiana divenne parte integrante del repertorio decorativo islamico, come questa Madre di Dio con Bambino e scene di vita di Gesù. Musée du Louvre, Parigi.

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Capitolo XIV

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1. Costruzione dell’abbazia cisterciense di Maulbronn. Dipinto su tavola, 1450. Evangelisches Seminar, Maulbronn. 2. Navata meridionale della chiesa abbaziale di Pontigny. 3. Veduta del sito di Pontigny.

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UN «MANTO DI CHIESE BIANCHE» I secoli XI e XII rappresentarono una fortunata parentesi per lo sviluppo architettonico: se le città che mantennero a lungo una capacità di crescita assumendo nel tempo un ruolo egemonico rispetto alle altre svilupparono anche nei secoli successivi una struttura monumentale consona al loro ruolo, la maggior parte delle altre non conobbe più un periodo così felice. Ma un sensibile rinnovamento artistico accompagnò in generale i grandi progressi della società europea a partire dall’XI e soprattutto dal XII secolo. In questo periodo i cisterciensi diffondevano in ampie aree d’Europa il «manto di chiese bianche», come le descriveva il cronista Rodolfo il Glabro: era la diffusione di uno stile che nel corso dell’Ottocento sarebbe stato chiamato nel

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4, 5. Timpano (4) del portale occidentale della cattedrale di Saint-Lazare ad Autun, opera dello scultore Gislebertus, che si firma come mostrato nel particolare (5). 6. Particolare delle Opere di misericordia di Benedetto Antelami. Portale del Giudizio Universale, battistero di Parma. 7. Particolare del Crocifisso opera di Giunta Pisano. Santa Maria degli Angeli, Assisi. 8. Profeti con cartigli nel portale della cattedrale di Verona, opera della bottega di Niccolò.

di una filiazione rispetto alla città che più di ogni altra era riuscita a domare e dominare ampi orizzonti. Per la fabbrica del duomo di Pisa furono importati da Roma materiali di spoglio dei monumenti antichi. A Firenze, secondo una tradizione attestata nel Trecento dal cronista Giovanni Villani, si era diffusa la leggenda che il battistero di San Giovanni, costruzione romanica dell’XI secolo, fosse sorto in età costantiniana su un tempio dedicato a Marte. Si trattava di una storia tutt’altro che insolita per il tempo e che si ritrova in altre città: per esempio a Mantova, nel caso della chiesa a pianta circolare (è detta infatti Rotonda) dedicata al martire Lorenzo, pure dell’XI secolo. 4 5 7

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suo complesso «romanico». In realtà, le forme dell’architettura romanica erano le più varie: influenzate dallo stile arabo nell’Italia meridionale normanna e nelle aree di confine cristiano-musulmane della Spagna; dall’arte tardoclassica, paleocristiana e bizantina in Italia; in generale, si tratta di edifici che sostituiscono le coperture lignee usate sino allora con volte a crociera o a botte, poggianti di conseguenza su masse salde e poderose. Le iniziali forme spoglie, care ai cisterciensi, lasciano posto man mano a rilievi scultorei sulle facciate e i capitelli. Emergono i primi nomi di artisti: Gilabertus, Antelami, Niccolò. Le città si dotano di nuove cattedrali, simboli della crescita economica e della nascita delle istituzioni comunali. Le arti «minori» – lavorazione dell’avorio, oreficeria, miniatura – partecipano al rinnovamento. L’eclettismo delle origini si vede bene, per esempio, in Toscana, dove fu soprattutto il modello pisano, di chiara ascendenza bizantina, a influenzare il resto della regione (e non solo, dal momento che influssi pisani si riconoscono persino in Puglia e – soprattutto – in Sardegna). Buscheto, il primo costruttore del duomo, ha un nome di matrice greca; e bizantine saranno parte delle maestranze che nel secolo successivo lavoreranno nel battistero. Gli stessi modelli si rilevano nell’ambito pittorico, soprattutto nell’opera di Giunta Pisano. L’interesse per il mondo antico e l’arte classica non è certo una peculiarità esclusiva del Rinascimento. Lungo tutto l’arco cronologico dei «secoli di mezzo» gli intellettuali si erano interrogati su quanto legava la loro cultura a quella classica e la loro storia a quella dell’antica Roma. In certi momenti e ambienti particolari (l’età di Carlomagno o il Mezzogiorno federiciano, per esempio) questo interesse è stato avvertito in modo particolare; per quanto riguarda la Toscana dell’età dei comuni, città come Pisa e Firenze, all’apice del loro successo, non si sono sottratte alla fascinazione per la Roma antica, proponendo anzi talvolta l’idea

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IL GOTICO Al di là delle Alpi, però, già nella seconda metà del XII secolo un nuovo stile si andava affermando. Anch’esso sarebbe stato conosciuto con un termine non coevo, ma coniato con intenti spregiativi nel corso del Rinascimento: il «gotico», che caratterizzerà ogni ambito delle arti basso- e tardomedievali con le sue forme rivoluzionarie, gli slanci degli archi acuti che sostituiscono le volte a botte, le altezze impressionanti delle guglie nell’Île-de-France, dove l’esempio più celebre è dato dalla cattedrale di Chartres. Abbandonato il romanico, i cisterciensi saranno fra i maggiori diffusori di questo stile in Europa; solo l’Italia è inizialmente scettica sulle forme del gotico, che vi si affermerà più lentamente soltanto nel corso del Duecento. Comunque, gli edifici che nella penisola risentirono per primi di tali influssi furono quelli cisterciensi, come per esempio Fossanova e San Galgano. Un contributo all’introduzione di queste nuove forme architettoniche nelle città venne dagli Ordini mendicanti. Anzi, come notava diversi anni orsono Jacques Le Goff, la maggiore o minore presenza dei conventi e delle chiese degli Ordini mendicanti nei centri abitati può essere assunta quale indicatore del grado di urbanizzazione raggiunto: fra Due e Trecento, città e insediamenti mendicanti formavano un binomio indissolubile. La vocazione pienamente urbana dei domenicani si era manifestata già dalle origini dell’Ordine; al contrario, i primi insediamenti dei francescani erano posti ai margini dei centri urbani. La conquista del «centro» avvenne con una certa gradualità: d’altra parte, entrambi gli

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Ordini avevano necessità di ampi spazi, adatti alla predicazione, il che li spingeva naturalmente a trovare uno sbocco ai margini delle zone più densamente abitate; a Firenze, per esempio, Santa Croce per i francescani e Santa Maria Novella per i domenicani sorsero sì in città, ma al di fuori della seconda cerchia muraria, entro il recinto delle mura arnolfiane. I conventi francescani e domenicani, con le chiese sempre più grandi, si ergevano dotati di enormi piazze antistanti che servivano alla predicazione, nella quale i frati erano maestri. Oltre che predicatori e organizzatori di assistenza per i poveri e gli ammalati, francescani e domenicani fungevano da confessori e da consiglieri spirituali delle principali famiglie aristocratiche e mercantili cittadine, che difatti fondavano le loro cappelle gentilizie nelle chiese mendicanti e beneficavano gli Ordini nei loro testamenti. Per affrescare queste cappelle venivano chiamati artisti di fama crescente. La costruzione più interessante del Duecento italiano si deve proprio all’Ordine francescano ed è la basilica di Assisi, ottenuta dalla sovrapposizione di due chiese. Le Costituzioni di entrambi gli Ordini prescrivevano l’astensione da forme eccessive di sfarzo nelle architetture, anche se il modello di Assisi forniva un esempio di tutt’altro tenore. La decorazione della basilica e i lavori di affresco si protrassero sino al Trecento inoltrato e videro all’opera i migliori artisti italiani, fra cui Cimabue, Duccio di Buoninsegna e Giotto, cioè alcuni fra i migliori rappresentanti del rinnovamento pittorico dei secoli XIII-XIV.

9. Veduta della facciata della cattedrale di Chartres. 10. Alzato della navata maggiore della chiesa abbaziale di Fossanova. 11, 12. Le chiese fiorentine di Santa Croce (11) e di Santa Maria Novella (12), inserite nel contesto urbano. 13. Basilica superiore di San Francesco, Assisi.

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famiglie del ceto gentilizio doveva essere ampiamente superata: anzi, le torri gentilizie rischiavano di venir «scapitozzate» se superiori in altezza a quella pubblica; il luogo in cui sorgeva il nuovo palazzo veniva scelto perché strategico nella vita della città: anche a costo, come già detto, di inglobare edifici preesistenti. I palazzi pubblici erano poli complementari alle cattedrali. Sino al XII secolo la cattedrale era stata l’unico fulcro attorno al quale ruotava l’organizzazione urbana. A partire dal Due-Trecento, come si è detto, il potere laico individuò nel palazzo pubblico un altro polo di centrale importanza per la vita del centro urbano; se a questi edifici si aggiungono l’onnipresente piazza del mercato, sede e simbolo delle funzioni economiche, e le chiese degli Ordini, si ottiene un modello di città policentrica. Inoltre, sino a quel momento si può dire che i centri urbani fossero prosperati in modo piuttosto casuale, assecondando l’aumento della popolazione inurbatasi. Tuttavia, proprio la loro stessa crescita richiedeva ormai qualche forma di programmazione: non si può certo parlare di veri e propri piani urbanistici, quanto piuttosto di maggiore attenzione alla crescita di città che, come si è detto, ospitavano anche centri di produzione importanti al loro interno. Il progetto più importante fu quello pensato per la città di Firenze nella seconda metà del Duecento e affidato all’architetto Arnolfo di Cambio. Fra 1280 e 1300 Firenze aveva una popolazione che oscillava tra le 80.000 e le 100.000 unità. La crescita era stata molto rapida e dunque si rendeva necessaria una risistemazione urbana improntata a criteri di razionalità. Inoltre, nel 1260 la sconfitta di Montaperti (nella quale i ghibellini fiorentini esuli e i senesi avevano sconfitto i guelfi) aveva condotto alla distruzione delle torri, delle case e dei palazzi di parte guelfa e il centro di Firenze era dunque in parte sventrato. Gli interventi principali si concentrarono nella zona settentrionale della città, con l’apertura di una serie di direttrici parallele. Altri interventi furono condotti per migliorare la viabilità lungo e attraverso il fiume, nonché per l’ampliamento e la pavimentazione di alcune piazze. Infine, tra 1284 e 1333 si costruì la nuova cerchia muraria, anch’essa prevista da Arnolfo.

Santa Croce

San Marco Cattedrale San Lorenzo Santa Maria Novella

Bargello Ponte alle Grazie

Badia Palazzo Vecchio

Ponte Vecchio Ponte Santa Trinita Ponte alla Carraia

Chiese Mura romane Seconda cerchia (XII secolo) Terza cerchia (XIV secolo)

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L’EDILIZIA PUBBLICA La piena età comunale corrisponde, sotto il profilo urbanistico-architettonico, al sorgere dei palazzi pubblici: edifici che miravano a significare in modo esplicito il ruolo e il primato del comune. Al tempo del cosiddetto comune «consolare» del XII secolo, la gestione delle cose di governo era il più delle volte sottratta alla discussione nei luoghi pubblici e circoscritta in locali presi in fitto. Ma, soprattutto a partire dal XIII secolo, le città avviarono programmi di edilizia pubblica che nell’Italia centro-settentrionale assunsero particolare rilievo. La costruzione di palazzi pubblici corrispose tanto a una necessità di tipo pratico quanto all’affrancamento simbolico del potere pubblico dalla dipendenza rispetto al ceto magnatizio. Non casualmente, infatti, la realizzazione di palazzi pubblici si collega spesso all’affermazione del comune podestarile. In quest’epoca, il palazzo pubblico viene programmaticamente concepito come un edificio superiore per fasto e proporzioni rispetto a tutte le altre costruzioni laiche; l’altezza delle torri elevate dalle

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14. Piazza IV Novembre a Perugia. La piazza, con al centro la fontana della fine del XIII secolo, è delimitata da importanti edifici civili, tra cui il Palazzo dei Priori del XIII-XIV secolo. 15. La Fontana Maggiore di Perugia, opera di Nicola e Giovanni Pisano su disegno di fra Bevignate da Perugia. 16. Palazzo della Ragione, Padova. Opera trecentesca di Giovanni degli Eremitani, si sviluppa tra i mercati di piazza delle Erbe e piazza della Frutta. 17. Planimetria e sviluppo urbano della città di Firenze.

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18. Muratori al lavoro nelle vetrate di Beauvais. 19. Uno degli affreschi di SaintSavin-sur-Gartempe rappresenta la costruzione della torre di Babele. 20. Scena di cantiere, da un manoscritto del XIII secolo, nella quale sono raffigurate le maestranze al lavoro.

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LE CORPORAZIONI DI MURATORI Protagoniste della fioritura delle città medievali sono le corporazioni di muratori. Al contrario di altre corporazioni che hanno conosciuto piuttosto presto la stesura di statuti, quelle dei muratori hanno perpetuato a lungo le forme di trasmissione orale, al fine probabilmente di mantenere la segretezza sui dati tecnici del proprio mestiere. Una fra le prime menzioni di una gilda di muratori si incontra nel 926 a York e pare esser stata creata per volere del re Athelstan. Per avere notizie sull’organizzazione interna di tali corporazioni bisogna però attendere il periodo della rinascita e dell’espansione economica dell’Europa, quando si cominciano a incontrare testi come il Livre des métiers, una raccolta di statuti delle corporazioni cittadine redatta nel 1268 da Étienne Boileau, prevosto di Parigi sotto Luigi IX il Santo. Nel corso del secolo successivo le testimonianze aumentano e molte provengono dall’Inghilterra: si conoscono statuti dei muratori di York per gli anni 1352, 1370, 1409, e di Londra nel 1356, redatti in latino e in francese (dal momento che sotto la dinastia dei Plantageneti, di origine angioina, il francese è la lingua volgare colta, e tale sarebbe restata molto a lungo). Sono i testi delle Old Charges (gli «Antichi Doveri»), che la tradizione storiografica sul tema individua come i possibili antenati (ma meglio sarebbe dire i modelli, visto che si esclude una linea di continuità diretta) degli statuti della massoneria moderna. I muratori sono indicati talvolta dalle fonti col nome di freemasons, che si incontra per la prima volta in un documento del 1376. Il dibattito sul significato originario del termine è stato vivace in seno alla massoneria moderna e ai suoi studiosi. Oggi restano in piedi due ipotesi: secondo la prima, portata avanti soprattutto dalla storiografia inglese, il freemason sarebbe stato originariamente un operaio più abile degli altri, un tagliatore della freestone (cioè un freestone mason), un tipo particolare di pietra tenera perché sabbiosa o calcarea, e dunque adatta ai lavori più raffinati, quali quelli scultorei, mentre quella dura sarebbe stata lasciata a tagliatori comuni. La seconda ipotesi identifica nel freemason un operaio libero in quanto le sue abilità di costruttore gli garantiscono la stima e la protezione delle autorità civili ed ecclesiastiche. Il citato Livre des métiers composto da Étienne Boileau nel 1268, parla in effetti di franc-mestier. In ogni caso, però, il termine freemason impiegato nel Trecento non suppone una «libertà» dell’operaio dalla corporazione d’appartenenza, alla quale è invece strettamente legato. Fra i vari testi che ci sono giunti, uno ha particolare importanza: è il cosiddetto «Manoscritto regio», datato intorno al 1390 (ma forse copiato da un documento precedente) e conservato al British Museum di Londra. Il testo è diviso in sette parti: una breve storia della corporazione dei muratori; gli statuti della corporazione, in quindici articoli e cinque punti; un ricordo dei quattro santi coronati, patroni dei muratori; la vicenda della torre di Babele; l’elogio delle sette arti liberali; un breve codice di buone maniere. Vi si descrivono sotto forma di precetti le regole di moralità e di comportamento che il muratore esperto deve seguire; si tratta di regole morali, professionali, e di ciò che si deve fare per divenire un membro della corporazione; non mancano le norme a difesa dei membri, come quella che impedisce il lavoro notturno.

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Testi come questo mostrano quanto le corporazioni tenessero alla formazione degli apprendisti, in quanto la regolamentazione delle norme di accesso alla corporazione è il modo migliore per proteggere il mestiere contro i rischi di contraffazione. I maestri muratori sono in possesso di segni di riconoscimento (parole e gesti con la mano) che li qualificano come membri della corporazione anche presso artigiani di altre corporazioni di muratori, provando cioè il possesso degli strumenti dell’arte senza necessità di dover dimostrare ogni volta le proprie conoscenze. L’apprendista comincia a lavorare all’età di dodici anni ed è affidato a un maestro muratore con un contratto settennale. Trascorsi tre anni è sottoposto a una cerimonia di iniziazione; apprende alcuni segni che gli devono servire a farsi riconoscere come apprendista muratore e ottiene l’autorizzazione ad avere un proprio marchio, una specie di firma sotto forma di un piccolo simbolo che d’allora in poi scolpisce nella pietra per identificare il suo lavoro. Al termine dei sette anni diviene a pieno titolo membro della corporazione e, dopo un certo tempo, maestro egli stesso, con la possibilità di istruire apprendisti. Patroni della corporazione erano i cosiddetti santi quattro coronati: Sinforiano, Claudio, Nicostrato e Castorio, quattro scalpellini cristiani, martirizzati in Pannonia nel 304 sotto l’impero di Diocleziano, la cui memoria è stata resa celebre alla fine del Duecento dal racconto del loro martirio contenuto nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine. Oltre ai martiri cristiani, le corporazioni amano annoverare quali loro predecessori figure mitiche di grandi architetti del passato, fra le quali non manca mai un riferimento a Salomone e a Hiram.

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Capitolo XV

L’ISTRUZIONE E LE UNIVERSITÀ 3 1

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1. Raimondo Lullo, chiamato all’Università di Parigi, espone la sua visione del cosmo nel biennio 1297-1299. 2. Trivium: grammatica, dialettica e retorica. Miniatura da una edizione del XII secolo del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 3. Interno della cappella Palatina di Aquisgrana, voluta da Carlomagno e ispirata alla chiesa di San Vitale a Ravenna. 4. Interno di San Vitale a Ravenna.

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LA CULTURA NEI SECOLI ALTOMEDIEVALI Carlomagno aveva scelto quale capitale la città di Aquisgrana, che dotò di monumenti per la Germania del tempo splendidi, e di un sacrum palatium la cui cappella è ispirata a San Vitale di Ravenna. Il regno di Carlo coincise con un generale risveglio della cultura in tutto l’Occidente. Non solo aumentarono le biblioteche monastiche e i centri nei quali, sempre all’ombra delle abbazie, si copiavano antichi codici e si redigevano nuove opere; ma cominciavano a organizzarsi anche scuole, gestite dal clero, delle quali fruivano comunque anche giovani provenienti dalle famiglie aristocratiche laiche e non destinati alla carriera ecclesiastica. L’imperatore pensava infatti che la cultura fosse un ottimo veicolo per il miglioramento del pubblico servizio: e, per quanto personalmente sapesse appena leggere e scrivere, si occupava assiduamente di questioni di filosofia, di teologia, perfino di scienza. Non deve meravigliare il fatto che un semianalfabeta avesse

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XV. L’ISTRUZIONE E LE UNIVERSITÀ 5. Alcuino, particolare di una miniatura di un manoscritto della fine del XII secolo. Museum August Kestner, Hannover. 6. Miniatura dell’Evangeliario del Tesoro di Aquisgrana (inizio del IX secolo). Domkapitel, Aquisgana. 7. Pagina di un trattato, 805 circa, con la rappresentazione delle fasi lunari e solari e l’indicazione dei quattro elementi fondamentali: fuoco, aria, terra e acqua. Dombibliothek, Colonia.

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interessi di questo genere: almeno fino a gran parte del XII secolo, in Occidente, il leggere e lo scrivere rimasero tecniche relativamente non diffuse, considerate inadatte ai ceti aristocratici laicali e demandate a personale specifico subalterno, mentre la cultura era affidata alla tradizione orale e alla memoria. Attorno al sovrano si riuniva in Aquisgrana la Schola palatina: non una vera e propria istituzione, bensì piuttosto un circolo di dotti la composizione e il numero dei quali variava di volta in volta e che era animato e coordinato da un monaco benedettino sassone, Alcuino di York, uno dei più grandi intellettuali del tempo. Non si trattava pertanto di una «scuola» in senso moderno, bensì di una specie di accademia nella quale si disputavano questioni che avevano in un modo o nell’altro sempre a che fare con la gestione del potere. Allo stesso modo, molte riforme patrocinate da Carlo – da quella che uniforma la liturgia a quella che organizza un nuovo modo di scrivere che si diffonde in tutto l’Occidente rendendo i documenti del tempo chiari e leggibili – erano dotate di un carattere e un fine immediati, concreti, pratici. Successivamente, scuole e centri di cultura sorsero all’interno di monasteri, intorno alle cattedrali e alle corti. Ma è solo dopo il Mille che lo studio, l’istruzione e la produzione culturale occidentali registrarono un cambiamento significativo. La combinazione dei rinnovati intensi scambi con il ricco e colto Oriente e dello slancio determinato dalla vita cittadina impose un rapido rinnovamento della cultura. Un nesso con il passato è tuttavia presente anche in questa nuova epoca: fra XI e XII secolo le scuole cattedrali avevano continuato

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a svolgere un ruolo assai importante nelle città europee; esse si organizzarono secondo il sistema d’insegnamento romano, che prevedeva un corso di studi secondo il quadrivium, le quattro discipline matematiche (aritmetica, geometria, astronomia, musica), e il trivium, le tre discipline filosofico-letterarie («grammatica», cioè lingua latina; «retorica», cioè arte di comporre il discorso e di parlare in pubblico; «dialettica», cioè filosofia). Le basi scientifiche erano costituite da repertori enciclopedici come la Naturalis Historia di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.).

8. Vincenzo di Beauvais, Speculum majus, miniatura da una edizione quattrocentesca: trivium e quadrivium. 9. Maestro di geometria che ha sulla cattedra cerchi e solidi circolari. Miniatura da una edizione del XII secolo del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

DALLA LOGICA ALLA SCOLASTICA Lo studio non più soltanto della Scrittura, ma anche della natura e delle scienze fino allora considerate profane e secondarie quando non addirittura pericolose, fu caratteristico dei dotti della scuola cattedrale di Chartres, i quali si ispiravano ampiamente alla tradizione neoplatonica, ma la caratteristica principale del cui impegno intellettuale era l’interesse per tutto quello che era nuovo. Esso non eliminava né sostituiva il culto per le antiche auctoritates: tuttavia, a Chartres era viva la sensazione che la scienza dei moderni potesse superare quella degli antichi non perché migliore, ma in quanto non condannata alla ripetitività del commento bensì suscettibile di ampliarsi e approfondirsi mediante la critica. «Siamo nani sulle spalle dei giganti», si diceva. Si voleva con ciò significare che gli antichi maestri erano stati grandissimi: ma che tuttavia, appoggiandosi a loro, si sarebbe – pur nella propria limitatezza – riusciti a vedere più lontano di

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XV. L’ISTRUZIONE E LE UNIVERSITÀ 10. Lo studio della natura e della scienza, e non solo quello della teologia, fu caratteristico della scuola cattedrale di Chartres. Nella strombatura del portale destro della facciata della cattedrale, abbinate ad Aristotele, Cicerone, Euclide, Boezio, Tolomeo, Donato e Pitagora, sono scolpite le arti: a, dialettica; b, retorica; c, geometria; d, aritmetica; e, astronomia; f, grammatica; g, musica.

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11. Corso di mineralogia. Miniatura da una edizione del XII secolo del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 12. Il filosofo arabo Averroè, particolare dell’affresco della Scuola di Atene di Raffaello. Stanza della Segnatura, Palazzi Vaticani, Città del Vaticano.

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loro. A Chartres si studiavano i testi non soltanto per commentarli, bensì anche per interpretarli e quindi impadronirsene. Una nuova scienza stava assurgendo al rango di chiave del sapere: la logica. Essa insegnava i fondamenti non dello scibile in sé, bensì del metodo con il quale lo scibile andava affrontato. A differenza del vecchio metodo basato sul commento letterale della Bibbia o degli scritti degli antichi, si cercavano ora i criteri atti a comprendere con l’aiuto della sola ragione umana quel che era giusto e quel che non lo era. Alla base di questo rinnovamento c’è l’opera di Pietro Abelardo, un prete che insegnò a Parigi e che fra le sue opere redasse un Sic et Non, vero manuale di logica nel quale si insegna come organizzare razionalmente le scelte intellettuali opponendo argomento ad argomento. Abelardo fu avversato dai tradizionalisti; tuttavia, Graziano compilò la raccolta di diritto canonico chiamata Decretum appunto servendosi del metodo abelar-

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diano, e la logica fu alla base di quel sistema scolastico che rinnovò teologia e filosofia cristiane. I principali esponenti della scolastica furono Alberto Magno, Tommaso d’Aquino e Duns Scoto. Essi applicarono il metodo logico-scientifico allo studio della rivelazione, affermando che anche la teologia è parte della scienza e dunque può essere indagata con gli strumenti dell’intelligenza umana. San Tommaso (1221-1274) aveva studiato inizialmente alla Facoltà di Arti di Napoli, per poi decidere di entrare nell’Ordine domenicano. Dopo un soggiorno a Colonia si trasferì a Parigi, dove iniziò la carriera universitaria, dedicandosi agli studi di teologia. Oltre all’influenza del metodo logico di Abelardo, mediata attraverso il maestro di Tommaso, ossia Alberto Magno, nella formazione della filosofia dell’Aquinate ebbero grande peso le traduzioni latine degli scritti di Aristotele e dei filosofi arabi, in particolare di Averroè.

13. Juste de Gand (1435-1480), San Tommaso d’Aquino conta sulla mano i suoi argomenti. Musée du Louvre, Parigi. 14. Juste de Gand (1435-1480), Duns Scoto. Galleria Nazionale delle Marche, Urbino.

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università ebbe esiti assai importanti anche sul piano della cultura diffusa, dando un forte impulso alla produzione libraria, alla diffusione dei testi e all’alfabetizzazione. Al di fuori della Francia e dell’Italia le università fiorirono con leggero ritardo: nei primi due decenni del Duecento furono fondate Cambridge e Oxford; nel 1218 l’importante polo castigliano di Salamanca. Nel corso del Trecento molti centri universitari sorsero in Germania e nell’Europa centro-orientale: Praga nel 1348, Cracovia nel 1364, Vienna nel 1365, Heidelberg nel 1382, Colonia nel 1388. Altri paesi, come quelli scandinavi, dovettero attendere il Quattrocento: ricordiamo Uppsala nel 1477 e Copenaghen nel 1479. La necessità di disporre di numerose copie di uno stesso testo per i corsi rendeva assai improbabile l’uso dei codici tradizionali, troppo costosi e che richiedevano agli amanuensi tempi lunghissimi. Si elaborò quindi un sistema alternativo, detto «sistema della pecia» dal fatto che i testi, approvati da una commissione universitaria, venivano commissionati a librai (stationarii) convenzionati che li vendevano agli studenti in fascicoli (peciae) a prezzi convenienti. Se inizialmente la costosa pergamena era ancora il materiale più usato, sempre più sovente si adottò la carta, maggiormente economica.

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18. Plinio, Naturalis Historia, nella copia di Nicolò Moscardino per Pico della Mirandola. Biblioteca Apostolica Vaticana. 19. Lo sviluppo delle università nel medioevo.

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19 Uppsala 1447

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Aberdeen 1494 St Andrew 1413

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Glasgow 1451 Dublino 1312

17. Giovan Pietro da Cemmo (1474?1533?), il beato Egidio da Roma in cattedra nell’atto di insegnare, particolare. Biblioteca dell’ex convento di San Barnaba, Brescia.

Cambridge 1209

Greifswald 1456

Oxford

Lüneburg 1471 Chelmno 1386 Colonia 1388 Lovanio 1431 Lipsia 1409 t A Erfurt 1392 Treviri 1473 Magonza 1476 Praga 1348 Parigi Cracovia 1364 Heidelberg 1382 Würzburg 1402 Nantes 1460 Tubinga 1477 Ingolstadt 1472 Orléans Bratislava Angers 1432 Gray 1291 Friburgo 1467 Poitiers 1421 1235 Vienna 1365 1457 Bordeaux Dôle 1437 Basilea 1460 Verona 1339 Besançon 1450 Valladolid 1441 Vicenza 1204 Ginevra 1365 Vercelli 1228 1418 Buda Treviso 1318 Cahors 1332 Grenoble 1339 Torino Pavia Cividale 1353 1395 1361 1413 Valence 1459 Palencia Padova 1222 Pécs Tolosa 1233 Orange 1365 1214 Mantova 1433Ferrara 13911367 Cremona Salamanca Pamiers 1295 Avignone 1413 1414 Bologna Saragozza 1218 Lucca Firenze 1349 1474 Huesca 1354 Aix 1409 Coimbra 1369 Pisa Arezzo 1215 Fermo 1398 Piacenza 1308 Sigüenza 1489 CalatayudLérida 1343 1248 Perugia 1371 Alcalá Montpellier 1421 Siena Orvieto 1378 Lisbona Barcellona 1499 Valencia Perpignan 1447 1411 1357 Roma 1450 1500 Gerona 1446 Studium Napoli 1224 curiae 1245 Studium Siviglia 1254 Salerno editerran urbis r M eo 1303 Ma o

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Prima 1201 1301 1401 del 1200 1300 1400 1500 Fondazione di università per iniziativa del papa per iniziativa di sovrani per iniziativa di città

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Rostock 1432

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16. Lezione di teologia alla Sorbona, da un manoscritto della Postilla litteralis super Biblia di Nicola di Lyra, XIV secolo. Bibliothèque Municipale, Troyes.

LE UNIVERSITÀ FRA DIRITTO E TEOLOGIA Una novità per il futuro della cultura europea è data dalla fondazione delle università, che presentavano per la prima volta programmi di studio definiti con precisione, esami di laurea e una divisione in facoltà. Esse sorsero nel XII secolo come associazioni private di studenti e docenti, ma mirarono subito a un riconoscimento ufficiale da parte delle autorità e alla concessione di benefici a carattere economico e giuridico. Un prototipo di università sorse precocemente a Salerno fra X e XI secolo; non si trattava forse ancora di un vero e proprio istituto universitario, con corsi ed esami di laurea, quanto piuttosto di una scuola di medicina di grande fama in cui si studiavano medicina e filosofia, traducendo in latino testi dal greco e dall’arabo. A farne una università provvide Federico II, che nelle Costituzioni del 1231 istituì esami di laurea pubblici; prima di quella data non abbiamo notizie certe sul funzionamento dell’istituto salernitano. Fu comunque tra XII e XIII secolo che in tutta l’Europa sorsero, talvolta in collegamento con le scuole cattedrali, talaltra in modo autonomo, le principali sedi universitarie. Anche se nel XII secolo il centro di maggior fervore era Parigi (dove pure insegnavano molti italiani, fra cui il teologo e poi vescovo Pietro Lombardo), in varie città d’Italia fiorivano sedi in cui si ripensavano e si rinnovavano la teologia e il diritto. Se si prescinde dal dubbio caso di Salerno, la prima università sorse a Bologna come istituzionalizzazione di alcune scuole di diritto già esistenti e gestite da laici; nel 1222 fu la volta di Padova e nel 1224 di Napoli, anch’essa voluta da Federico II. In ambito cittadino lo sviluppo delle

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15. Studenti dell’Università di Bologna, 1393. Museo Civico Medievale, Bologna.

Copenaghen 1479

per iniziativa di vescovi per iniziativa di capitoli o altre istituzioni ecclesiastiche

Università non realizzate di cui rimangono lettere di fondazioni papali o imperiali (paper universities) Università scomparse intorno al 1500 Spostamenti successivi di una università Università sorte in seguito a spostamenti di professori Scuola già esistente elevata al rango di università

Catania 1444


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20. In questa miniatura del XV secolo, Costanzo l’Africano, monaco benedettino di Montecassino dell’XI secolo che aveva trasmesso in Europa elementi della farmacopea araba, fa una diagnosi mediante l’esame delle urine. Bodleian Library, Oxford. 21. Dialogo tra Ippocrate e Hunayn ibn Ishaq, suo traduttore. Particolare di una edizione pisana del 1330-1340 del De herbis di Manfredus di Monte Imperiale. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 22. Gerardo da Cremona, trattato di medicina tradotto dall’arabo, seconda metà del XIII secolo. Musée National du Moyen-Âge, Parigi. 23. Tolomeo, Cosmographia, particolare del diagramma solare, metà del IX secolo, Costantinopoli. Biblioteca Apostolica Vaticana.

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LE NUOVE SCIENZE La letteratura filosofico-scientifica araba aveva saputo ereditare le grandi tradizioni greca, siriaca, egizia, persiana, e creare una nuova cultura, così come l’arte musulmana era il risultato – con molte varianti locali – di una capacità eccezionale di sintesi. Pur nata come nomade, la cultura islamica aveva saputo adattarsi alla sedentarietà e ai moduli della vita cittadina; le nuove esigenze, soprattutto agrarie, la indussero a sviluppare una straordinaria abilità nel campo dell’ingegneria idraulica; la richiesta di materiale scrittorio, legata a una religione nella quale la conoscenza del Corano era fondamentale, determinò l’introduzione della carta, che gli arabi mutuarono a metà dell’VIII secolo dalla Cina, mentre in Europa nel X secolo si cessava del tutto di coltivare il papiro e ci si affidava alla più costosa pergamena, la pelle di ovino conciata. I rinnovati contatti sia con il mondo bizantino sia con la grande cultura araboislamica (in Spagna, in Sicilia, in Terrasanta), dovuti ai rapporti commerciali nel Mediterraneo e alle spedizioni crociate, riversarono di conseguenza sull’Occidente una quantità di testi e di conoscenze. Fin dalla metà del XII secolo un’équipe di dotti, incoraggiata dall’abate di Cluny Pietro il Venerabile, aveva intrapreso la traduzione del Corano; verso il 1187, cominciava a circolare per l’Europa anche Aristotele grazie a una singolare figura di studioso errante, Gerardo da Cremona, che aveva rinvenuto a Toledo una quantità di trattati di logica, di ottica, di geometria e si era dato all’apprendimento della lingua araba per poterli tradurre. La gran parte di questi testi e di queste conoscenze apparteneva all’antichità greco-romana: ma, mentre a Bisanzio e nel mondo musulmano questo patrimonio culturale era stato conservato, in Occidente era caduto nell’oblio. Ora esso tornava in Europa arricchito anche dalle cognizioni provenienti dalla Persia e dall’India (in modo mediato anche dalla Cina) attraverso l’Islam. Esse erano molto importanti soprattutto per

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quel che riguardava la medicina (come si è detto studiata inizialmente dalla scuola salernitana, da dove poi si diffuse nel resto d’Europa), l’astronomia, la matematica. Secondo una leggenda, una notte il saggio Aristotele apparve in sogno al califfo di Baghdad, al-Mamun (809-833), il quale in seguito a ciò fece tradurre in arabo tutte le opere del grande filosofo greco e fondò nella sua capitale una università, la «Casa del sapere». Tra i docenti di quella università c’era il matematico Mohamed al-Khwarizmi, il cui trattato sul sistema di calcolo che noi chiamiamo «indo-arabico» (basato sulle cosiddette cifre arabe e sull’introduzione dello «0», di origine indiana) divenne la base della matematica moderna. Questo nuovo sistema fu introdotto in Occidente da Leonardo Fibonacci. Questi era nato a Pisa nel 1180 da un pubblico scrivano al servizio del governo cittadino, che lo aveva inviato a Bugia, presso Algeri, per curare gli interessi economici pisani in quella zona. Dopo Bugia, il Fibonacci viaggiò molto in Egitto, in Siria, in Grecia. Tornò in patria ai primi del XIII secolo ed elaborò gli appunti relativi a tutto quel che aveva conosciuto oltremare quanto a pratica di computo, ma anche quanto a vera e propria teoria della matematica. Infatti nel 1202 pubblicò il Liber abaci, una specie di enciclopedia di algebra dove venivano introdotte le cifre arabe, le progressioni aritmetiche e geometriche, le equazioni. Nel 1220 fu la volta della Practica geometriae, dove si sviluppavano vari problemi di geometria euclidea. Naturalmente, quello del Fibonacci non era un interesse scientifico «puro». Egli piegava i suoi trattati alle esigenze pratiche del commercio, mostrando con esempi come le nozioni in essi contenute si potessero usare nel risolvere problemi concreti di compravendita e di cambi di moneta. In questo senso, i suoi scritti sono fondamentali per comprendere correttamente lo sviluppo dei manuali detti «pratiche di mercatura» nel secolo successivo.

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24. Dioscoride, De materia medica, particolare dell’Herbarium medicum, fine VIII-inizio IX secolo, Siria (?), Palestina (?) o Italia meridionale. 25. Miniatura del Simposio dei medici di Muthar ibn al-Hasan, XIII secolo. Biblioteca Ambrosiana, Milano.

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Capitolo XVI

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LO SPAZIO La storia si muove secondo due parametri di fondo: lo spazio e il tempo. Non c’è fatto storico, non c’è istituzione o struttura storica che si possa qualificare se non si determina con chiarezza a quale area geografica ci si riferisce e a quale periodo. Ebbene, forse i concetti di spazio e di tempo sono i concetti che meglio caratterizzano l’uomo e la donna medievali. Osservando e riflettendo sulla loro concezione dello spazio e del tempo, si riesce a capire la distanza che da loro ci separa. Per quanto concerne il concetto di spazio, l’uomo contemporaneo è abituato all’idea dello spazio infinito: che ci sconcerta e ci fa paura, ma che, allo stesso tempo, è l’unica realtà alla luce della quale noi possiamo situare noi stessi, il nostro corpo fisico all’interno dell’universo. L’uomo medievale, invece, aveva un posto determinato in un mondo chiuso. Un dato che lo accomunava all’uomo antico o a quello della Bibbia, che avevano una visione simile alla sua. Non a caso questo concetto di spazio era quello determinato da Aristotele e poi da Tolomeo. Un mondo chiuso, all’interno del quale ci sono spazi nei quali non si può viaggiare (l’Asia degli esseri mostruosi, per esempio, o l’Africa dell’hic sunt leones). Un mondo sostanzialmente limitato all’area mediterranea, sovrastato da un numero perfetto e conchiuso di cieli nei quali si muovono quasi incasto-

1. Beato di Liébana, Imago mundi. La carta (1219-1235), commissionata da Ferdinando III di Castiglia, è centrata sul Paradiso Terrestre e sulla ripartizione dei suoi fiumi che percorrono e dividono il mondo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 2. Al centro il Creatore, con i tratti del Cristo, ha in mano il sole e la luna mentre il mondo emerge dal caos. Così Onorio di Autun (1080-1154) nella sua Imago mundi descrive la creazione. 3. Il cerchio, come le sfere, è la base della costruzione del calendario.

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4. Thomas de Cantimpré, De natura rerum: l’insegnante di astronomia non manca di volgere lo sguardo al firmamento. 5. Giusto de’ Menabuoi, Creazione del mondo, 1374-1378, in cui hanno risalto le sfere celesti. Battistero, Padova.

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nati i pianeti; mentre la Terra al centro di questo mondo sta ferma, e il tutto è fasciato dal Cielo Empireo, infinito, dimora esclusiva e privilegiata di Dio. Lo spazio dell’universo era quindi gerarchicamente, rigorosamente organizzato. Dio era in ogni luogo, ma la sua dimora privilegiata era il limpido, perfetto Cielo Empireo, assolutamente immobile e immutabile, eterno e infinito. L’Empireo – sede di Dio, degli angeli, dei beati – fasciava il Creato, ch’era sorto da un atto di volontà del Creatore e ch’era organizzato in sfere concentriche costituite di una sostanza leggera e sottile (l’«etere») dominate dalle dodici costellazioni e dai sette principali pianeti (due dei quali erano i luminaria, il sole e la luna). Vi era poi uno spazio più immediato. Tra XI e XIII secolo ci si moveva spesso, tuttavia gli orizzonti spaziali oscillavano tra l’infinitamente grande del mondo

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6. Ancora Onorio di Autun ci descrive come una pietra gettata in un buco che attraversi la Terra non potrà superare il centro della stessa, anche dagli antipodi.

intero e l’infinitamente piccolo delle valli e dei boschi nei quali abitualmente ci si moveva. L’abitante del villaggio adiacente era già un «forestiero»: in cambio, nessuno che condividesse la fede cristiana e che fosse in qualche modo legato alla Chiesa latina poteva dirsi davvero «straniero». LA GEOGRAFIA Al centro di questo sistema di sfere concentriche era situato il globo terrestre – la rotondità del quale era nota fin dal mondo antico –, in gran parte occupato dalle terre emerse. Si discuteva molto su come tali terre fossero organizzate. Pareri in merito erano già stati elaborati dai geografi greci e latini dell’antichità ed erano stati poi ripresi dai cosmografi arabi. Alcuni pensavano a una massa

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XVI. IMMAGINARE 7. Riproduzione della Carta a T-O attribuita a Onorio di Autun, XII secolo. Royal Geographical Society, Londra.

di terre emerse poste nell’emisfero boreale, alle quali ne doveva corrispondere un’altra dall’altra parte del globo (gli «antipodi»). Ma questa teoria, sebbene mai del tutto abbandonata, cedette presto all’altra, che immaginava le terre emerse come un disco circondato dall’oceano e diviso in tre grandi masse continentali: una a est, l’Asia, grande quanto le altre due insieme; l’altra a nord, l’Europa; la terza a sud, l’Africa. I tre continenti erano divisi da un grande braccio acqueo orizzontale (costituito dal fiume Tanai che separava l’Europa dall’Asia, e dal Nilo che separava l’Asia dall’Africa) e da uno verticale (il Mediterraneo, che separava l’Africa dall’Europa). I due bracci d’acqua, uniti, venivano a formare una T, lettera sacra della redenzione e figura della croce. Al centro del mondo era posta la città di Gerusalemme, dove il Signore era stato crocifisso ed era risorto. All’estremo Oriente (o secondo altri in un’isola occidentale dell’oceano) sorgeva il Paradiso Terrestre, da cui nascevano i quattro grandi fiumi del mondo: Tigri, Eufrate, Nilo, Gange. Ai margini del mondo, inesplorati, secondo la tradizione abitavano curiose e inquietanti creature fra l’umano e il ferino, i «mostri». Paese per eccellenza di mostri e di meraviglie era l’India, nell’antichità conquistata da Alessandro Magno e poi – si diceva – evangelizzata dall’apostolo Tommaso. Solo a partire dai viaggi in Asia di mercanti e di missionari, nel Duecento, quest’immagine del mondo si andò articolando e modificando. Nel mondo dei vivi, o meglio ai suoi margini, c’era spazio anche per le anime dei defunti. Inferno e (a partire dall’XI secolo circa) Purgatorio si localizzarono in vari luoghi: isole oceaniche, montagne, vulcani (per esempio l’Etna), infine – come volle Dante – in un grande abisso sotterraneo.

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8. Particolare del Paradiso Terrestre, in forma di castello, della carta disegnata nel 1448 dal benedettino Andreas Walsperger. In questa carta Gerusalemme è al centro del mondo. 9. Descrizione di un abitante dell’India in una miniatura del XII secolo.

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IL TEMPO La nostra idea del tempo è fondamentalmente lineare; al contrario, il mondo medievale aveva un’idea che condivide sì la nostra linearità, ma che è anche, allo stesso tempo, ciclica. Per un verso il tempo ritorna continuamente nel ritmo delle opere, dei mesi, delle stagioni, della liturgia, che ogni anno riproponeva l’arco della vita del Cristo come modello cosmico e cronico attraverso il Suo ruolo di Kosmokrator e di Kronokrator; per un altro, è teso tra la creazione voluta da Dio e l’Apocalisse, la fine del mondo, che sfocerà in un regno eterno. Questo era il tempo cosmico scandito appunto dal girare delle sfere attorno alla Terra; il tempo che, come Agostino aveva spiegato, era nato con la Creazione. Il peccato

10. Creazione delle stelle, particolare del Mosaico della creazione. Duomo di Monreale. 11. Disegno di un orologio in una miniatura del Libro della conoscenza dei meccanismi ingegnosi, opera di al-Jaziri, vissuto nel XIII secolo.

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originale, tuttavia, ridefinendo a causa della colpa dell’uomo il rapporto che nella e con la Creazione Dio aveva fissato appunto tra Lui e l’uomo, e tra questi e il creato, aveva determinato il nascere della storia, intesa come progresso verso la soluzione definitiva: la Fine dei Tempi, ch’era appunto per ciò stesso una fine del tempo, e della quale la fine fisica degli uomini, l’arrestarsi della loro vita fisica individuale, era figura. Il tempo umano, quello degli uomini e della storia, trovava un invalicabile termine nei novissima: personali i primi due, collettivi e definitivi i secondi. Dio, presente in ogni luogo, era Signore dello spazio. Ma era anche eterno, quindi Signore del tempo. Per questo lo si rappresentava al centro dei dodici apostoli come il sole al centro delle dodici costellazioni e dei dodici mesi dell’anno. Il tempo dell’uomo, limitato e lineare, aveva dunque un principio e una fine: iniziato con la Creazione, avrebbe avuto fine con il Giudizio Universale. Un computo basato sulla somma dell’età dei patriarchi biblici aveva stabilito che il mondo era stato creato nell’anno 5508; tale computo restò a lungo in uso in Grecia e in Russia. L’Occidente, però, misurava il tempo in modo diverso. Nella penisola iberica, ad esempio, fino al Tre-Quattrocento si faceva partire il conto degli anni dal 38 a.C., data in cui Augusto aveva compiuto la conquista di quella

regione. Tra VI e X secolo prevalse comunque, in tutto l’Occidente, il computo della cosiddetta «era cristiana», avviato in Roma nel VI secolo sulla base dei calcoli di un dotto monaco scita, Dionisio detto «il Piccolo». Egli stabilì che Gesù era nato nell’anno 753 di Roma (in realtà, pare si sbagliasse per difetto di 6 o 7 anni: più probabile sembra il 746-747). Da allora, il mondo occidentale ha diviso la storia in un periodo «avanti Cristo» e uno «dopo Cristo». L’anno, però, non iniziava il 1° gennaio, secondo l’antico uso romano collegato a tradizioni che la Chiesa considerava empie e pagane: per combatterle, il Capodanno era stato spostato. Ma ogni regione d’Europa aveva il proprio. A Roma e in molti luoghi della Germania e dell’Italia esso coincideva con la data occidentale del Natale, il 25 dicembre (a sua volta antica festa solstiziale); altrove valeva invece la data del 25 marzo (l’Annunciazione), o del 1° settembre (secondo l’uso bizantino), o della Pasqua (ch’è una festa mobile, la prima domenica dopo il plenilunio di primavera). I giorni si calcolavano per settimane e si chiamavano con i vecchi nomi romani dei pianeti (il dies Solis era però diventato dies Dominica, «giorno del Signore»), ma più spesso col nome del santo di cui ricorreva la feria (festa liturgica). Alcuni giorni erano particolarmente importanti per le scadenze civili: ad esempio quel-

12. Particolare dei rilievi della facciata del duomo di Modena: la creazione di Adamo ed Eva e il peccato originale. 13. Cacciata dall’Eden di Adamo ed Eva, facciata della cattedrale di Cremona. 14. Beato Angelico, Giudizio Universale. Museo di San Marco, Firenze.

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XVI. IMMAGINARE 15. Fregio con il ciclo dei mesi sulla facciata della cattedrale di Cremona.

16, 18. Formelle con i segni zodiacali che completano la visione cosmologica delle gerarchie e dello scorrere del tempo. Arcata del protiro del portale centrale della cattedrale di Piacenza.

17. Rappresentazione delle costellazioni e delle stelle sotto forma animale del Serpente e dell’Orsa, maggiore e minore.

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lo dell’arcangelo Michele, il 29 settembre, data di scadenza dei contratti agrari. Giorni e mesi venivano scanditi da due ordini di valori: le feste della liturgia della Chiesa e le opere del lavoro agricolo. Sui portali delle chiese, i singoli mesi venivano di solito raffigurati dalla costellazione corrispondente accompagnata dalla tipica operazione produttiva del periodo: in giugno-luglio si miete, in settembre-ottobre si vendemmia, in dicembre si uccide il maiale, e così via. Anche le ore del giorno si misuravano secondo la tradizione latina e la liturgia della giornata, distinguendo terza (le 9), sesta (mezzogiorno), nona (le 15), oppure contando le ore progressivamente a partire dal tramonto, cioè dalle 18 circa (quindi le «due di notte» erano circa le 20). Verso il Duecento, per motivi economici, i grandi orologi meccanici cominciarono nelle città ad accompagnarsi al suono delle campane per scandire le diverse ore. Al tempo della Chiesa andava affiancandosi ormai il tempo del mercante. Si andava profilando la possibilità di concepire il tempo in termini nuovi, non più liturgicamente e ciclicamente qualificati, bensì da un lato soggetto a un’usura irreversibile, dall’altro privato di qualità differenziate e soggetto alle leggi della compravendita, del mercato: un tempo che – contrariamente a quanto ancora sentenziavano i filosofi scolastici – sarebbe stato possibile comprare e vendere, insomma ridurre a dimensioni mercificabili e monetizzabili. DESACRALIZZARE LO SPAZIO E IL TEMPO Rispetto al mondo antico, l’avvento del cristianesimo comportò alcune altre modifiche nel rapporto uomo-tempo-spazio, soprattutto per quanto concerne la sacralità di alcuni luoghi. Nel mondo antico, soprattutto rurale, molti luoghi erano dedicati a divinità particolari: la letteratura antica ne offre ampie testimonianze, come quella in cui Plinio il Vecchio parla della dedicazione degli alberi alle divinità. Alcune specie di alberi erano oggetto di continua protezione, in quanto dedicate ognuna a una sua propria divinità: il farnetto a Giove, l’alloro

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XVI. IMMAGINARE 19. L’immagine della Vergine di Montserrat, luogo impervio e aspro dove le fu dedicata una chiesa, meta di pellegrinaggio dall’XI secolo.

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ad Apollo, l’olivo a Minerva, il mirto a Venere, il pioppo a Ercole. Certe dedicazioni di luoghi particolari alle divinità sono ben note. Si trattava solitamente di boschi, di monti, di fiumi: come il sacro bosco di Nemi, il Monteluco presso Spoleto, il lucus Angitiae del Fucino o le fonti del Clitunno. Ma mille altri dovevano essere i luoghi, ignoti a tutti se non alle ristrette comunità che vi vivevano intorno, dedicati a qualche divinità o provvisti di qualche nume tutelare. L’abolizione del paganesimo decretò anche la fine o l’attenuarsi di questo rapporto tra mondo del divino e mondo naturale. Anche se in ambito cristiano diversi culti, soprattutto dedicati a Maria Madre di Dio, andarono a obliterare vecchi culti pagani legati a luoghi ben definiti: ricreando, se non ufficialmente almeno a livello di cultura «popolare», meccanismi molto simili a quelli conosciuti in ambito precristiano. Oltre alla «desacralizzazione» del mondo naturale, il cristianesimo comportava quello dell’universo temporale. Nell’organizzazione del calendario romano il tempo era originariamente contrassegnato dal ciclo lunare: dies fasti erano quelli in cui era consentito l’agire quotidiano e usuale, dies nefasti quelli in cui esso non era invece opportuno. Tuttavia, i giorni nefasti non erano sempre sacri; si consideravano tali solo quelli consacrati a una divinità da cui prendevano il nome. Scrutare il corso lunare era compito di un pontifex: a lui competeva l’organizzazione calendariale e la convocazione dell’assemblea (Kalendae) in cui si proclamavano i giorni in cui sarebbero cadute le Idi e le None. A partire dalla riforma calendariale condotta sotto il principato di Cesare, però, le Calende, le Idi e le None vennero fissate una volta per tutte in forma scritta sulla base di un mese solare, e dunque scisse dall’osservazione del pontifex. Con tutta probabilità, la riforma avviò – o comunque assecondò – un processo di occultamento del significato sacrale del calendario arcaico, che comunque rimase ben vivo, con il suo corredo di feste e celebrazioni di divinità legate ai momenti «forti» dell’anno, nella mentalità religiosa tradizionale e nelle aree più conservative. I ritmi stagionali del lavoro agricolo contribuiranno senza dubbio al mantenimento di questa memoria tradizionale, che solo la rivoluzione industriale avrebbe messo in crisi.

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LA NATURA E IL CLIMA Le genti del medioevo dipendevano profondamente dalla natura. Una natura, per le dotazioni tecniche dell’epoca, selvaggia e difficile da domare. Il fatto che l’età contemporanea sia, al contrario, legata a un’idea di natura buona, mite e che, per giunta, sta soccombendo alle azioni umane, ci porta a pensare che i popoli dell’antichità e del medioevo fossero in maggiore armonia con il sistema ecologico di quanto lo siamo noi. È probabilmente vero il contrario: la natura impauriva ed era temuta, non amata. Inoltre, la Bibbia insegnava che dopo il peccato originale la natura si era ribellata all’uomo e che, quindi, l’uomo doveva domarla. Anche sotto questo profilo Francesco d’Assisi, con il suo Cantico delle creature, rappresenta una rivoluzione. Che le genti del medioevo fossero in larga parte succubi della natura lo dimostra

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il peso che i mutamenti climatici hanno avuto sugli insediamenti umani e sul loro funzionamento. Il clima medievale segue un andamento altalenante, sia pure su linee temporali molto lunghe. La depressione climatica altomedievale è stata probabilmente una concausa delle migrazioni di popoli dal nord verso il sud. La fine di questa miniglaciazione, tra VIII e IX secolo, corrisponde a una graduale crescita nell’economia europea, che sfocia a sua volta in un miglioramento globalizzato a cavallo tra X e XIV secolo. Come già si è detto, alla fine del X secolo si erano verificati eventi climatici che avevano condotto al contrarsi dei ghiacci tanto polari quanto alpini: in conseguenza di ciò il mare del Nord si liberò parzialmente dalla sua crosta ghiacciata, il che permise ai vichinghi provenienti dalla Norvegia d’insediarsi in Islanda; inoltre il miglioramento del clima favorì il contrarsi delle malattie respiratorie infantili, contribuendo a un deciso incremento demografico e a un allungamento dell’età media della popolazione, dovuto peraltro al fatto che il miglioramento climatico aveva influito positivamente sul lavoro agricolo, sui raccolti e quindi sulla quantità e la qualità dell’alimentazione. Il risultato è stato che fra X e XIII secolo abbiamo avuto un grande espandersi dell’attività agricola: sono i tempi dei grandi Ordini monastici, bonificatori e disboscatori, e della nascita della città medievale, che, non va dimenticato, è una città in gran parte di legno. Tutto questo è corrisposto a un boom demografico accompagnato da un estendersi delle aree coltivabili.

20. Veduta generale di Le-Puy-en-Vélay, meta di un pellegrinaggio mariano dal X secolo. Secondo la tradizione la Madonna apparve e guarì una matrona gallo-romana salita sulla montagna affetta da febbre. 21. Veduta della cappella della Vergine a Glastonbury, meta di un pellegrinaggio dal VI secolo e importante sito celtico dedicato al culto di divinità femminili. 22. San Francesco predica agli uccelli, miniatura conservata presso la Morgan Library & Museum, New York. 23. Due monaci al lavoro, particolare di una miniatura dei Moralia in Job di Gregorio Magno. Cîteaux. 24. Sistema idraulico a ovest dell’abbazia di Igny.

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Capitolo XVII

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1. Affresco a cavallo fra XIII e XIV secolo che raffigura il mese di maggio con corteo di musica e balli. Chiostro dei Canonici della cattedrale di San Lorenzo, Genova. 2. Adamo ed Eva raffigurati sulla base del trumeau del portale sinistro della cattedrale di Notre-Dame, Parigi. 3. Vergini stolte, abside della cappella di Castel d’Appiano, Val d’Adige.

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IL CORPO Considerato «età della fede», il medioevo si associa di solito allo spirito, e si considera pertanto nemico di qualunque carnalità e addirittura di qualunque concretezza. Esso sarebbe stato un tempo di negazione e d’umiliazione del corpo, di sottovalutazione di tutto quel ch’era fisico, quindi di affermazione non solo della «spiritualità» e delle «idee», ma addirittura dell’astrattezza. Il pregiudizio d’un medioevo tutto «spirituale» nasce da due idee, entrambe errate nonostante riposino su alcuni elementi effettivi. Prima: la constatazione che la filosofia vincente nel medioevo – quanto meno fino al XIII secolo, quando si andò affermando l’aristotelismo – era il platonismo, noto per la svalutazione del corpo rispetto all’anima e delle cose rispetto alle idee; ma il platonismo trionfò anche nel Quattrocento, epoca nella quale tornò in auge il culto classico

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4. Visitazione, affresco della cappella di Castel d’Appiano, Val d’Adige. La tenerezza dei gesti è particolarmente significativa. 5. Personificazione delle Virtù, particolare: Pudicizia, Misericordia e Fortezza. Ildegarda di Bingen, Scivias. Hessische Landesbibliothek, Wiesbaden. 6. I monaci e i piaceri della vita, miniatura di una edizione olandese del XV secolo del Decameron di Boccaccio. Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi. 7. Abbazia di Maubuisson, a nord di Parigi: latrine viste dal basso. 8. Planimetria dell’abbazia cisterciense di Tintern, vicino a Bristol in Gran Bretagna: in evidenza il dormitorio e le latrine.

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della nudità e si ebbe una tale esplosione di licenza sessuale che ci vollero nel secolo successivo due Riforme, una protestante e una cattolica, per soffocarla. Seconda: la conoscenza superficiale di certe tradizioni mistiche, come quelle collegate con le tecniche di umiliazione e di castigo del corpo; da qui l’idea di un medioevo assediato dalla sporcizia e dalla macerazione della carne attraverso il digiuno e il tormento fisico (il flagello, il cilicio ecc.). Tuttavia, cilici, flagellazioni, finanche mutilazioni erano pratiche già penetrate nel mondo pagano attraverso i culti misterici o conosciute dai germani e soprattutto dai celti per fini diversi, dalle iniziazioni guerriere alle tecniche sciamaniche, le quali consentivano di conoscere il futuro. La stessa «sessuofobia» che ancor oggi spesso si rinfaccia ai cristiani non era affatto loro propria: il cristianesimo elogiava verginità e continenza e regolava l’attività sessuale – al pari di quella alimentare o di quelle connesse con il divertimento – in un modo che può certo aver dato luogo ad alcuni eccessi «eroici», a forme di diniego assoluto o addirittura di autotortura. Tuttavia, quel ch’era centrale nell’insegnamento e nella pratica cristiana era la disciplina, la sobrietà, l’autocontrollo non già come tecniche umilianti e autopunitrici, bensì, al contrario, come mezzi per giungere al controllo del proprio corpo e per conseguire pertanto un’autentica libertà, quella di chi non si lascia sottomettere dagli impulsi incontrollabili dei sensi. Il medioevo fu in realtà non certo materialista, ma tuttavia legato profondamente alla fisicità e addirittura alla carnalità. Contrariamente a quel che si ritiene respingendo «all’indietro» una realtà storica molto più recente, quella mancanza d’igiene corporea che si affermò tra tardo Cinquecento ed età barocca, il medioevo fu un tempo di grande familiarità sia con l’igiene corporea (le «stufe», cioè i bagni, vi erano frequentissimi), sia addirittura con la nudità, ch’era praticata sia pur non promiscuamente in molti ambienti e in varie occasioni.

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Perfino nei monasteri il corpo veniva fatto oggetto di molte cure: v’erano bagni e latrine, si provvedeva a lavare, nutrire e curare gli infermi, si permettevano – sempre con il consenso e sotto la sorveglianza dei superiori – pratiche ascetiche anche molto dure e rigorose, ma sempre commisurate alle forze e alle possibiltà di chi vi si sottoponeva; ordinariamente ci si concedevano agi anche notevoli, che difatti venivan fatti segno di molte composizioni poetiche di tipo satirico: i monaci vestivano abiti comodi, vivevano in ambienti che potevano essere ben riscaldati, si cibavano in modo adeguato e perfino abbondante e gustoso. Ancor oggi, molti dei formaggi, delle conserve e dei liquori che noi mostriamo di maggiormente apprezzare sono d’origine monastica.

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L’AMORE L’amore – come ha detto uno studioso che gli ha dedicato ampie ricerche, Denis de Rougemont – è un’invenzione del XII secolo. La nota vicenda di Abelardo ed Eloisa è eloquente e significativa. Pietro Abelardo nacque a Pallet presso Nantes, nel 1079, studiò a Tours e indi a Loche, ed ebbe come suo maestro il più grande filosofo della corrente «nominalista» del tempo, Roscellino. Si trasferì ben presto a Parigi, che stava allora diventando una delle grandi città di cultura del mondo occidentale. Ivi ebbe come maestro Guglielmo di Champeaux, ma non tardò a entrare in conflitto con lui. Era infatti deluso del suo insegnamento, rispetto al quale si sentiva superiore, e ne era naturalmente ricambiato con astio. Cominciò quindi con l’aprire scuole sue proprie, a Melun e poi a Corbeil; ma nel 1114, a circa trentacinque anni, tornò a Parigi, dove prese a insegnare nella scuola situata sulla montagna di Sainte-Geneviève, piccolo poggio a sud della città che doveva diventare la celebrata sede universitaria cittadina (sorge ancora, ai suoi piedi, la Sorbona). La novità e l’arditezza dei metodi e delle idee di Abelardo ne fecero una spe-

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spargere il veleno della sua filosofia che infirmava le basi della fede. Nonostante protestasse ripetutamente la sua ortodossia cristiana, Abelardo venne condannato nel concilio di Sens (1141). Morì l’anno seguente, in miseria e in disperazione, circondato tuttavia dall’affetto e dall’ammirazione dei più grandi uomini di cultura del tempo. Abelardo è una delle figure senza dubbio fondamentali non solo della cultura del XII secolo, ma di tutta la cultura occidentale. Il suo amore per Eloisa non è stato soltanto un episodio; egli e la sua compagna hanno, si può dire, «inventato» l’amore come sarebbe stato concepito modernamente, come passione e dedizione assoluta di due esseri l’uno per l’altro. IL CARNEVALE Ormai è una festa dedicata soprattutto ai bambini, al più un’allegra mascherata, ma in passato ha avuto un peso ben diverso. Celebrazione sfrenata, sottoposta per questo al controllo delle autorità laiche ed ecclesiastiche e contrapposta al raccoglimento della Quaresima, il Carnevale ha ispirato nei secoli grandi capolavori dell’arte pittorica (si pensi almeno a Brueghel e a Goya), musicale (da Schubert a Berlioz a Paganini), letteraria: Goethe studiò il Carnevale come una delle manifestazioni della natura; e il grande critico Michail Bachtin, nel suo saggio sul compatriota Dostoevskij, così lo descriveva: «Il Carnevale è la festa del tempo che tutto distrugge e tutto rinnova. Così può esprimersi il pensiero fondamentale del Carnevale». Tanta passione e interesse hanno spinto anche a ricerche sulle origini di questa festa, che noi conosciamo certamente come medievale, ma da molti ritenuta ben più antica, addirittura pagana. Fin dal Rinascimento si credeva infatti che il Carnevale discendesse direttamente da feste diffuse nel mondo romano, quali i Saturnalia e i Lupercalia, o greco, come i Dyonisia. In tutte queste celebrazioni i partecipanti si mascheravano e si aggiravano in un apparente stato di possessione delirante, giocando scherzi ai passanti. Molte fra queste feste scomparvero, almeno dal calendario ufficiale, all’inizio dell’affermazione del cristianesimo nel mondo romano; non senza difficoltà, tuttavia: i Lupercalia furono aboliti da papa Gelasio I soltanto nel 496. A livello popolare, feste analoghe a queste continuarono in effetti a esser praticate a lungo tanto in Italia quanto in Spagna e in Francia nei secoli successivi; e indubbiamente alcuni loro caratteri formali – il

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9. Il profeta Osea perdona e accoglie la moglie Gomer (1 Re 17,8-24), particolare di una miniatura della Bibbia di Manerius (XII secolo). Bibliothèque SainteGeneviève, Parigi. 10. Bacio tra Anna e Gioacchino, i genitori della Vergine Maria, in un affresco del XIII secolo. Parete nord della navata della chiesa di Notre-Dame, Pouzauges-le-Vieux, Vandea.

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cie di simbolo dell’intellettuale libero e spregiudicato; e del suo fascino egli si giovò per sedurre una giovane e intelligente fanciulla, Eloisa, che gli era stata affidata affinché le insegnasse la filosofia. Eloisa era la nipote di un canonico della cattedrale, Fulberto, presso il quale Abelardo aveva preso dimora. Ben presto la fama della passione fra i due eguagliò quella del valore intellettuale di Abelardo: dalla relazione fra questi ed Eloisa nacque un figlio, al quale fu posto non già (com’era uso) il nome di un santo del calendario cristiano, bensì quello di uno strumento per l’osservazione delle stelle, Astrolabio. La scelta di questo nome è emblematica dell’atmosfera di esaltazione culturale e sensuale nel quale Abelardo ed Eloisa vivevano in quegli anni. Comunque, nel 1119-1120, i due si unirono segretamente in matrimonio. La situazione non poteva tuttavia essere tollerata dallo zio di Eloisa, che si vendicò facendo crudelmente evirare Abelardo e obbligò la nipote a chiudersi in un monastero. Anche Abelardo avrebbe in seguito abbracciato la carriera monastica, senza trovar pace nemmeno nella sua nuova condizione: anzi, trovandosi a dover svolgere in un monastero le funzioni di abate, fu duramente avversato dai suoi monaci. Frattanto Eloisa, divenuta badessa del monastero del Paraclito, intratteneva con lui una fitta corrispondenza, che ci è rimasta. Il loro amore, ormai troncato sul piano terreno, doveva continuare in Dio. Eppure, in queste lettere – alcune delle quali sono di grande qualità artistica e di sincero slancio mistico – le tracce della passione continuano a mostrarsi. Non fu tuttavia per la sua relazione con Eloisa, del resto sospesa, quanto per le sue idee e la sua attività di maestro, che Abelardo fu duramente perseguitato dal più grande mistico del XII secolo, Bernardo di Clairvaux, che lo accusava di

11. Musici e maschere, particolare di una miniatura del Roman de Fauvel. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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12. Pieter Brueghel il Vecchio, Combattimento tra Carnevale e Quaresima, 1559. Kunsthistorisches Museum, Vienna. 13. Goya, Funerale della sardina, 1812-1819, particolare: visi demoniaci del corteo mascherato.

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travestimento, gli scherzi, la sfrenatezza rituale, le sassaiole – confluirono nel Carnevale. Tuttavia, rimane innegabile che questa festa così come la conosciamo nei secoli medievali era ignota in precedenza. Che spiegazione fornire? Il nome peculiare ha indotto molti a interrogarsi sulle sue origini proprio a partire dall’etimologia del nome. A tale proposito e per un certo tempo aveva conquistato l’ipotesi che «Carnevale» derivasse dal romano currus navalis, la festa che aveva luogo il 5 marzo, festa di Iside, con una processione mascherata all’interno della quale vi era un’imbarcazione (lo Isidis navigium) trainata da un carro. Apuleio ne offre una precisa descrizione nell’XI libro delle Metamorfosi. Molti vollero vedere nell’uso dei cortei carnascialeschi con sfilate di carri (da quelli rinascimentali agli odierni che hanno luogo, per esempio, a Viareggio e a Putignano) proprio una memoria del currus e della nave sacri a Iside. Nel corso del Novecento, però, una nuova tesi si è fatta strada ed è oggi accreditata come la più probabile: il termine «Carnevale» andrebbe interpretato alla luce non di pratiche pagane, ma come un portato dell’idea cristiana di Quaresima, e sarebbe una contrazione dell’espressione carnem levare. Le prime

14. Il sileno ha una brocca di vino in mano e il satiro, sullo sfondo, ha pronta in mano una maschera da sileno ubriaco. Particolare del grande affresco della Villa dei Misteri, Pompei.

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15. Il poeta Adam de la Halle ritratto in una lettera capitale dello Chansonnier d’Arras, 1278 circa. Bibliothèque Municipale, Arras.

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registrazioni di cerimonie che hanno questo nome appartengono alla fine del XII secolo e sono significativamente indicate con i termini carnelevamen, carnelevamine, carnisprivium. Sarebbe insomma una sorta di compensazione popolare per le fatiche del digiuno quaresimale: il che spiega perfettamente il senso del «Combattimento tra Carnevale e Quaresima», soggetto artistico-letterario assai celebrato, nel quale la carnalità che si celebra non è solo quella legata ai peccati della gola: la tavola di Brueghel il Vecchio conservata alla Pinacoteca di Vienna ne è forse l’esempio più eloquente. Non si deve tuttavia dimenticare come non solo il tempo della penitenza, ma pure quello della festa sia attentamente regolato nelle società tradizionali. Il «mondo alla rovescia» del Carnevale, insomma, non è un mondo completamente anomico: per quanto ci si possa sfrenare nelle danze, nelle sassaiole, nella battaglie di arance e farina, nelle parate in costume, anche la trasgressione conosce le sue regole e i suoi divieti: per esempio, nel periodo di Carnevale non si potevano compiere certi lavori, come quelli di filatura. E, soprattutto, la sequenza delle celebrazioni era fissata con una certa precisione: il Carnevale conosce il trionfo nel martedì e nel giovedì grassi, poi muore e viene sepolto, generalmente intorno al mercoledì delle ceneri; spesso il Carnevale declinante era rappresentato da un fantoccio portato in processione e dato alle fiamme, oppure da un uomo in carne ed ossa, che sfuggiva al fuoco fra gli applausi. Segno che il Carnevale dell’abbondanza sarebbe tornato l’anno successivo ad allietare lo spirito e, soprattutto, la carne. Il Carnevale non era una prerogativa dei soli cristiani. Anche le comunità ebraiche conoscevano celebrazioni simili, modellate su quelle dei «gentili»: soprattutto in occasione della festa di Purim, nella quale si celebra la salvezza dal monarca persiano Assuero, e che già prevedeva abbondanti libagioni e pubbliche bevute. Il Purim, in effetti, cadeva quasi in concomitanza con il Carnevale dei cristiani, e dunque si prestava a una sincresi fra le diverse tradizioni; è per questo che i cristiani lo indicavano generalmente con l’espressione «Carnevale degli ebrei». Le fonti narrano di feste di strada in effetti molto simili, e non esitano a elencare liste di cibarie da fare invidia al paese di cuccagna. Nelle case degli ebrei abbienti, poi, il Purim poteva raggiungere picchi di raffinatezza. Ariel Toaff ricorda che nella Roma ebraica del Trecento i pranzi sontuosi del «Carnevale ebraico» prevedevano 24 portate, fra le quali comparivano: «arrosti di daini, i cervi e i montoni allo spiedo, i capponi e le galline al forno, i piccioni alla brace, gli spiedini di cacciagione di volo (pernici, coturnici, folaghe, tortore), i fagiani marinati alla griglia, le anatre e le oche ripiene, la fricassea di colombelli al limone» e ancora «i salsiccioni d’oca, la lingua di vitella, le confetture e i dolci come i biscotti all’anice, la nociata, i caliscioni ripieni di marzapane, i mostaccioli, oltre agli immancabili tortolicchi».

medico e la prostituta) atti a mettere a nudo i vizi dei concittadini; così come le volgarità scatologiche; oppure gli elementi «fantastici»: il corteggio di Hellequin; le fate; la parodia liturgica. Anche nel Carnevale il rituale dell’inversione è ben conosciuto, al pari della denuncia/confessione/espulsione del male e del peccato dalla cerchia della comunità. Al «folle», considerato per la sua condizione un «puro», era generalmente affidato il compito di denunciare le magagne della città e dei concittadini, così come avviene nel Jeu. Non mancano testimonianze di una corrispondenza tra le rappresentazioni teatrali come quella di Adam de la Halle e le feste che si organizzavano nelle città. Per esempio Giovanni Villani descrive nella sua Cronaca (libro VIII, cap. LXX) la rappresentazione dell’Inferno fatta a Firenze nel 1304 «per il dì di calende di maggio in sul ponte alla Carraia e d’intorno all’Arno». Una rappresentazione tenutasi dunque il 1° maggio, cioè nella data d’inizio del ciclo primaverile come il Jeu de la feuillée, organizzata da un’associazione di quartiere. Altro tema tipico è dato dalla mesnie Hellekin, o Hellequin, originariamente re della caccia infernale di probabile origine germanica, che racchiude in questo genere di rappresentazioni tanto l’aspetto «ferico», «fatato», sotterraneo, oscuro (che la tradizione cristiana volge ovviamente in «demoniaco»), quanto quello di propiziazione della fertilità – peraltro tipico delle feste del maggio. Esso si collegava anche all’oscura divinità infera nota come Hel, che univa in sé appunto i caratteri inferi con quelli di divinità dell’abbondanza. Dalla normalizzazione di Hellequin nascerà in età moderna il personaggio di Arlecchino. Ma nel mondo medievale testimoniato dal Jeu siamo dinanzi a feste nelle quali gli elementi comici, festivi, dissacratori, non sono fini a se stessi, puro divertissement, ma si avvicinano a rituali folklorici (sebbene si tratti di un folklore ormai intriso di motivi e temi cristiani) di purificazione e celebrazione di particolari momenti dell’anno.

16. Giullari di strada, particolare del frontespizio di un salterio dell’inizio del XII secolo proveniente da Saint-Rémy, Reims. St John’s College, Cambridge.

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TEATRO E RITUALI DI INVERSIONE Le manifestazioni carnascialesche trovavano un esito quasi «naturale» in alcune rappresentazioni teatrali: fra queste, una fra le più celebri e interessanti è sicuramente il Jeu de la feuillée di Adam de la Halle. In apparenza, il Jeu è un testo di impronta realistica, in quanto gli attori rappresentano persone reali di Arras; lo spettacolo fa parte della vera festa del Calendimaggio o di altra festa d’inizio d’un ciclo a carattere propiziatorio; l’azione si svolge in una piazza della città; alla fine dello spettacolo i personaggi lasciano la scena per recarsi in luoghi realmente esistenti. Tuttavia, allo stesso tempo si ritrovano nel Jeu i tratti della cultura carnevalesca del riso e della beffa, insieme a personaggi topici (quali il

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Capitolo XVIII

NASCITA E MORTE 1. Faccia anteriore con una fitta sequenza di scene della vita di Cristo di una coperta libraria in avorio detta Dittico delle Cinque Parti, fine del V secolo. In basso, la Strage degli Innocenti. Museo del Duomo, Milano.

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L’INFANZIA Da quando, agli inizi degli anni Sessanta del Novecento, lo storico francese Philippe Ariès ha pubblicato uno studio seminale sull’infanzia nel medioevo, il tema è stato dibattuto ampiamente. Ariès aveva sostenuto che l’infanzia è un prodotto culturale, non un dato naturale. Prima dell’età moderna i bambini erano rappresentati come adulti in miniatura; l’alto tasso di natalità e di mortalità infantile avrebbero contribuito a non far considerare l’infanzia come una condizione e un’età a sé stanti, ma semplicemente come il preludio rispetto alla vita adulta, l’unica a essere tenuta in considerazione.

2. Adorazione dei Magi, particolare dell’altare di Ratchis, VIII secolo. Museo Nazionale, Cividale del Friuli. 3. Icona dell’XI secolo con scene dell’infanzia di Cristo. Monastero di Santa Caterina del Sinai.

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Le tesi di Ariès sono state discusse e spesso ricusate. Ma ancora oggi non esiste un accordo generalizzato su quale fosse lo status del bambino medievale; forse perché, come per altre realtà, il periodo è talmente lungo, articolato e complesso da non consentire facili generalizzazioni. Per esempio, si è notato che il Cristo, la Madonna e i santi sono spesso rappresentati durante l’infanzia, oppure alle prese con bambini oggetto di miracoli: come nel caso di san Nicola che riporta in vita alcuni fanciulli finiti in salamoia; e il costume di rappresentare i bambini come piccoli adulti sarebbe da imputare allo scarso realismo dell’arte medievale (almeno fino al tardo Duecento) piuttosto che al disinteresse per quella fascia d’età. Il tema delle «Età dell’Uomo», per contro, prevede che gli infanti in fasce e i bambini siano invece rappresentati ampiamente; così come si conoscono giocattoli specifici per bambini sopravvissuti all’oblio del tempo e non troppo dissimili da quelli d’età moderna. Il cronista Giraldus Cambrensis, vissuto a cavallo tra XII e XIII secolo, racconta nella sua autobiografia (De rebus a se gestis) di come fosse solito, da bambino, costruire monasteri di sabbia, mentre suo fratello si dedicava a più consueti castelli e palazzi; per questo il padre aveva cominciato a chiamarlo «piccolo vescovo», decidendo di dargli un’istruzione adatta alla carriera ecclesiastica. È tuttavia anche vero che il termine stesso per indicare i bambini, ossia pueri, è oltremodo ambiguo: nel latino medievale può significare «fanciullo», «ragazzo», ma anche «seguace» e perfino «teppista». Anche la fascia d’età che dovrebbe delimitare non è ben chiara. Come nel caso della cosiddetta «crociata dei fanciulli» (detti anche «innocenti» o «pastorelli»), l’età dei protagonisti è tutt’altro che ben definita. E questo in un’epoca in cui l’avvio alla vita adulta

(l’educazione militare per gli aristocratici, il lavoro dei campi per i figli dei contadini, il matrimonio per quasi tutti) era assai precoce per i nostri standard. Nel Quattrocento si intensificò poi la devozione per i Martiri Bambini. Altari dedicati agli Innocenti, loro sante reliquie, pale, affreschi e miniature rappresentanti il delitto di Erode, una della scene che abitualmente facevano parte del ciclo della Natività, erano estremamente diffuse all’epoca: e accompagnavano un tempo nel quale la mortalità infantile era a sua volta un fenomeno quotidiano e comune ma dove, accanto alle cause di morte più ovvie quali i parti infelici, le malattie e la denutrizione, bisognava annoverare altre e più specifiche ragioni: le ricorrenti epidemie di peste, ma anche la scoperta della frequenza con la quale si procuravano aborti e si consumavano infanticidi, denunciata con maggiore intensità che in passato dai predicatori.

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4. La Donna, il Figlio, il Drago, particolare di un’Apocalisse ottoniana. Staatsbibliothek, Bamberga. 5. Natività della Vergine, 1313-1314, particolare dell’affresco della Chiesa del Re, Studenica, Serbia. 6. Giotto, Strage degli Innocenti, 13041306, particolare dell’affresco della cappella degli Scrovegni, Padova. 7. Gentile da Fabriano (1370-1427), San Nicola salva i tre giovani in salamoia, predella del Polittico Quaratesi, 1425 circa. Pinacoteca Vaticana. 8. Benozzo Gozzoli (1420?-1497), Sant’Agostino bambino con la madre Monica, 1465, particolare dell’affresco della cappella del Coro, chiesa di Sant’Agostino, San Gimignano.

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LA MORTE Più che la paura della morte, quel che sembra presente nelle culture tradizionali è lo stupore dinanzi ad essa, la coscienza profonda ch’essa sia qualcosa d’innaturale e d’inconcepibile, quindi la volontà di «addomesticarla» e in un certo senso annullarla, preparando il corpo alla resurrezione o l’anima all’eternità. Ciò, in un modo o nell’altro, è presente in tutti i riti funerari del mondo. Altra cosa è la «paura del morire», cioè l’angoscia dinanzi a un passaggio difficile, che diviene necessario affrontare iniziaticamente. Da qui infinite precauzioni rituali, simboliche, per «abituare» il morto all’idea di esser tale, e in quanto tale separato dalla comunità dei viventi. Da qui le infinite leggende sui révenants, i morti che tornano, e le non meno infinite precauzioni per evitare o per dominare e regolare tale ritorno. Da qui gli insegnamenti relativi al vivere come più

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mente migliorata in modo radicale: il vivere era divenuto più dolce e comodo, e l’abbandonare questa terra quindi proporzionalmente più duro. Giunse poi non proprio inattesa, ma comunque sconvolgente, la grande epidemia di peste del 1347-1350, la «Morte Nera». Lo spettro terribile d’una morte crudele, che non lasciava il tempo di prepararsi, che mieteva senza pietà giovani e vecchi, che non consentiva neppure le pratiche di pietà perché i decessi erano troppi e i cadaveri venivano seppelliti in fretta o abbandonati, si abbatté sull’Occidente. In questo clima si proposero anche dei veri e propri manuali di ars moriendi, consigli sull’«arte del ben morire», che divennero diffuso oggetto di lettura devota anche nel mondo laico, tra XIV e XVII secolo. L’ALDILÀ E LA NASCITA DEL PURGATORIO Nel mondo antico, l’aldilà era immaginato come un luogo oscuro e terribile. Per questo motivo la discesa agli Inferi degli eroi – in cerca di rivelazioni – era la prova suprema da affrontare, mentre si conoscevano festività e rituali che avevano lo scopo di tenere lontane le ombre dei defunti che potevano tornare. L’avvento dei culti misterici nel mondo greco e poi a Roma ribaltarono questa concezione, configurando un’immagine meno tetra dell’oltretomba. Una rivoluzione che arrivò a compimento con il cristianesimo, nel quale l’aldilà è il luogo in cui si realizza la giustizia divina, mentre il mondo nel quale viviamo non è che l’immagine offuscata della verità. Per quanto è dato sapere, i primi secoli di diffusione del cristianesimo conoscevano soprattutto l’attesa del giorno del Giudizio Universale e della resurrezione dei corpi; si immaginava che le anime dei defunti conoscessero una sorta di stato di sonno prolungato fino a quel momento. Tuttavia, diversi segni sembrano contraddire questa idea. I primi cristiani avevano tratto dal mondo pagano la pratica del refrigerium, ricordata negli epitaffi e nelle catacombe; il termine poteva indicare di volta in volta il banchetto funerario, il ricordo gioioso dei martiri, le celebrazioni in onore dei defunti, ma anche la possibilità di pregare per le anime al fine di procurar loro la pace. Tra i Padri della Chiesa, inoltre, alcuni, come Agostino e Gregorio Magno, am-

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9. La morte bendata a cavallo, particolare della strombatura della lunetta del portale centrale della facciata della cattedrale di Notre-Dame a Parigi. 10. Coro visto da nord-est e cimitero della chiesa di Saint-Nicolas, Caen.

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o meno lunga fase di preparazione al passaggio finale: è il nucleo del magistero di Platone. Ma è nel mondo medievale, alla fine del periodo che convenzionalmente chiamiamo medioevo, che avviene appunto la grande rivoluzione che inaugura la modernità. La scoperta della paura della morte fa parte di essa. In effetti, fra IV e XIV secolo non c’è traccia di terrore dinanzi alla morte. I morti, nel mondo cristiano, non stanno isolati in città pensate e ideate e costruite per loro, «necropoli»: vengono riuniti in «dormitori» (questo il significato dei termini d’origine greca «catacomba» e «cimitero»), dal momento che la morte è solo un temporaneo letargo che si concluderà con la resurrezione di tutti secondo la promessa del Cristo Salvatore. Quindi, i cimiteri stanno negli abitati: i morti si seppelliscono nelle chiese o attorno ad esse: ed è questo un costume tanto profondamente radicato che la pratica igienica d’origine illuminista che darà luogo di nuovo a neopagane «necropoli» venne in un primo momento avversata nell’Europa dell’inizio dell’Ottocento. Nel pensiero e nell’iconica del medioevo la morte è bensì presente, ma in quanto figura dell’Apocalisse. Non la si teme, per quanto si sappia che i suoi strali sono dolorosi: non solo perché si è convinti ch’essa sia uno stato transitorio, ma anche e forse soprattutto perché da un lato le condizioni del vivere sono talmente dure (la guerra, la fame, le malattie…) da farla apparire semmai un sollievo, dall’altro perché esistono e sono radicati i rituali di «addomesticamento» di essa: si è abituati a vivere nella sua ombra, ad attenderla, a non temerla. È, come dice Francesco d’Assisi, «sora nostra morte corporale». Ma le cose cambiarono nel corso del XIV secolo. La vita, allora, era qualitativa-

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11. Combattimento tra angeli e demoni per accaparrarsi l’anima di una defunta. Particolare di una miniatura del Rupertsberger Codex dello Scivias di Ildegarda di Bingen. Landesbibliothek, Wiesbaden. 12. Processione di flagellanti all’epoca della peste nera in una miniatura del 1360. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles.

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13. Rilievi, con la parabola di Lazzaro e del ricco malvagio, della parete sinistra del portale meridionale della chiesa di Saint-Pierre a Moissac. In alto il festino e, a fianco, Lazzaro accolto nel seno di Abramo. Al centro la morte del ricco e l’Inferno, i cui tormenti sono descritti nella parte in basso. 14. Resurrezione dei morti, particolare della lunetta del portale sinistro, fianco sinistro, della cattedrale di Reims.

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mettevano che, anche se non accedono all’Inferno o al Regno celeste propriamente detti, le anime ricevono, fin dal momento della morte, ricompense o castighi. Di qui la necessità di pregare per loro. È tuttavia a partire dal X secolo che si assiste alla comparsa di una prima iconografia raffigurante il giudizio dell’anima al momento della morte, non della resurrezione; il tema diverrà poi ben noto a partire dal XII secolo, quando i teologi lo prenderanno in considerazione attribuendogli il nome di iudicium. Poiché ormai l’attenzione dei vivi si focalizzava sempre più sulla sorte dell’anima dopo la morte, l’aldilà non era più soltanto una prospettiva ultima, rinviata alla fine dei tempi: il mondo dei vivi e quello dei morti potevano comunicare attraverso suffragi, dei vivi per i morti, come pure intercessione dei morti – e in particolare dei santi – in favore dei vivi, oppure (dato più inquietante, ma ben presente nella letteratura bassomedievale) apparizioni dei morti per comunicare con i vivi. Fu soprattutto nella celebre abbazia di Cluny che il sistema della capitalizzazione della preghiera, in particolare di quella in suffragio dei defunti, giunse al suo più alto grado d’organizzazione e di spiritualità. Cluny era pensata come una vera e propria centrale energetica funzionale alla preghiera: con messe di suffragio si può dire continue, celebrate anche contemporaneamente ai molti altari presenti nella basilica, e con una continuità nella preghiera comunitaria assicurata, nel coro, dall’avvicendarsi dei monaci. Spetta ancora ai benedettini riformati della congregazione cluniacense l’aver avviato a partire dal 1030 la pratica liturgica della festività d’Ognissanti e della celebrazione memoriale dei defunti, nei giorni 1 e 2 novembre, collegando la solennità celto-pagana dell’inizio dell’autunno, che già in quella tradizione era consacrata agli antenati e che veniva folkloricamente rispettata ancora nell’XI secolo nell’ambito di una società contadina peraltro ormai già profondamente cristianizzata, al culto dei santi e al suffragio dedicato alle anime del Purgatorio. È nel contesto di quest’audace e originale proposta acculturativa che l’abbazia di Cluny ha fornito un contri-

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15. Monaci durante l’ufficio dei defunti, miniatura delle Ore di re Renato, Digione, 1437. British Library, Londra.

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16. Corteo degli eletti, particolare della lunetta del portale sinistro, fianco sinistro, della cattedrale di Reims. 17. Affresco di scuola senese del 1346 che raffigura l’uscita delle anime dal Purgatorio, raffigurato come una montagna cava, e che riprende l’iconografia legata a san Patrizio e al pozzo. Monastero di San Francesco, Todi.

buto decisivo anche al precisarsi delle credenze relative al Purgatorio, studiato decenni orsono da Jacques Le Goff. A partire dai secoli XII-XIII, l’aldilà cominciò anche ad avere una sua struttura geografica sempre meglio definita e composta da tre luoghi, come mostra la Divina Commedia: l’Inferno per i dannati, il Paradiso per i beati, e il Purgatorio, in cui coloro che non si sono macchiati di peccati mortali, ma sono comunque peccatori, trascorrono un tempo più o meno lungo. A questi tre luoghi se ne devono aggiungere altri due: il Limbo di coloro che sono vissuti come giusti prima dell’avvento del Cristo, ma non avendo il battesimo non possono dimorare tra i beati; e, per le medesime ragioni, il Limbo dei bambini, periti senza aver ricevuto il battesimo: a loro non sarà mai concesso partecipare alla gioia suprema della contemplazione di Dio. PENITENZA E CONFESSIONE La Chiesa delle origini ammetteva i pagani al proprio interno attraverso il battesimo; a quel punto, nessuno poteva essere escluso dalla comunità salvo che per tre peccati di particolare gravità: l’omicidio, l’adulterio, l’apostasia. Nel tempo, tuttavia, il costume divenne meno rigido e i laici che si fossero resi colpevoli di questi tre peccati potevano esser riammessi in seno alla Chiesa con una seconda (e in taluni casi una terza) riconciliazione. Il peccatore confessava al vescovo in privato, ma era tenuto a fare richiesta di penitenza pubblicamente. Questo genere di confessione viene detta «penitenza pubblica» o «canonica». La condizione del penitente era segnalata da alcuni atti di contrizione e umiliazione manifesti: digiuni, abbigliamento povero, esclusione dalla comunione e così via. In province lontane da Roma, come le isole britanniche e soprattutto a partire dall’Irlanda, si diffuse invece un’altra forma di penitenza, detta «tariffaria», secondo la quale ogni peccato contraeva una sorta di debito verso Dio che andava

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pagato secondo un «prezzo» o «tariffa» penitenziale stabiliti in genere a priori. Si trattava di forme di penitenza spesso meno gravi rispetto a quelle della penitenza canonica. La riforma gregoriana dell’XI secolo soppresse tuttavia la pratica, ritenuta fonte di errore rispetto all’autorità pontificia. Entrarono a quel punto in vigore le Summae Confessorum o Summae de Paenitentia, nelle quali si mescolavano norme penitenziali (come i digiuni), indicazioni su come accogliere ed educare il penitente, conseguenze giuridiche del peccato (che a quel punto si configurava quindi anche come reato). Inoltre, secondo una tradizione in auge nel mondo germanico, che a sua volta aveva influenzato quello latino, si diffuse la possibilità di riscattare un peccato con una somma di denaro proporzionata, detta compositio. Il che prese a comportare il fatto che molti benestanti «componevano» il proprio peccato finanziando preghiere o messe, ma anche poveri o sacerdoti che compivano al loro posto penitenze o pellegrinaggi penitenziali. Com’è facile immaginare, la pratica dette vita a numerosi abusi, e per questo ci si orientò a volgere le composizioni nelle cosiddette «indulgenze». Alla base dell’indulgenza sta il concetto che il peccato rompe la legge di Dio in due modi: si compie un atto che inficia la condizione dell’anima e si compie un’azione riprovevole nei confronti della società. Nel primo caso era necessario pentirsi e confessare sinceramente; nel secondo bisognava invece purgarsi attraverso le opere di misericordia, le preghiere, le messe, i pellegrinaggi e così via. Anche in questo caso non mancarono gli abusi, che a partire dal XV secolo agitarono la coscienza di molti cristiani e nel Cinquecento costituirono l’argomento principale della polemica di Martin Lutero nei confronti di Roma. Fra le azioni meritorie, le preghiere per i defunti e le richieste di intercessione erano comuni. In questo modo la nascita del Purgatorio si stabilizzò e si rafforzò anche come conseguenza dell’accrescersi di tali pratiche penitenziali.

18. Spaccato della Terra che mostra gli orrori dell’Inferno. Particolare della miniatura di un esemplare del Pellegrinaggio della vita umana di Guillaume de Degulleville, 1400-1410. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles.

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Capitolo XIX

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1. Hans Memling (1433-1494), Le sette gioie della Vergine, 1480. Alte Pinakothek, Monaco di Baviera. Donato alla cappella dei Conciatori di Bruges dai committenti, inserisce il tema mariano in un ampio paesaggio in cui risalta la presenza di un porto e di navi. 2. Veduta del Sognefjord, Norvegia. 3. Pianta della città di Elbing, nei territori dei cavalieri teutonici. La città nuova cresce intorno al nucleo più antico ai piedi del castello. 4. Pianta della città di Lubecca, sviluppatasi attorno al mercato.

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VERSO IL NORD È nei secoli centrali dell’età medievale che l’Europa comincia ad assumere i confini che le riconosciamo ai nostri giorni. In questa graduale costruzione si fondono istanze politiche, commerciali, missionarie. Con la riorganizzazione dei poteri avviata da Carlomagno e ripresa dagli imperatori sassoni, si cominciò gradualmente a ritrovare pace e sicurezza e con esse rinacque il commercio. L’asse continentale si era però intanto decisamente spostato verso nord e verso est, mentre il Mediterraneo era divenuto un lago musulmano e bizantino. Il mondo germanico cristiano si stava espandendo in direzione dell’Elba e dell’Oder, mentre in quello scandinavo si andavano organizzando razionalmente impianti diocesani ed empori commerciali. In Germania, accanto alle antiche città renane o danubiane, a partire dal X secolo si svilupparono nuovi centri, favoriti dall’autorità imperiale o aristocratica, che gestirono l’espansione verso l’Europa settentrionale e orientale. Nacquero così – dalle coste fiamminghe del mare del Nord fino ai fiumi russi – nuove città, organizzate di solito attorno a due centri: un «castello» o fortezza signorile fortificati, dove sorgeva anche la cattedrale, e un’area mercantile dove

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si addensavano i fondachi e i depositi di merci. Intanto, la ripresa demografica e la messa a coltura di sempre nuovi spazi, un tempo occupati da foreste o da paludi, determinava la nascita di centri urbani nuovi (detti appunto «villenove»), dotati di un regime fiscale privilegiato in quanto i signori di quelle aree miravano ad attirarvi i contadini privi di terra, consapevoli che l’accrescimento della produzione – che avrebbe immesso sui mercati europei derrate alimentari sempre più richieste, nella misura in cui la popolazione cresceva – li avrebbe arricchiti. Sulle terre di confine i franchi fondarono diverse città, o cercarono di aumentare l’importanza di quelle già esistenti: alla prima categoria appartiene Amburgo, alla seconda Brema. Agli inizi del IX secolo i due centri diedero vita, per volontà di Ludovico il Pio, a un arcivescovato preposto a organizzare le missioni verso la Scandinavia e le regioni orientali. Nei decenni successivi, infatti, il vescovo Anscario si recò in Danimarca, ben accolto dal re cristiano Aroldo. Nel corso del X secolo in Scandinavia si erano distinti i tre regni di Danimarca, Norvegia e Svezia, cristianizzati sommariamente nei secolo successivo. I movimenti di abili guerrieri e marinai provenienti dalla Scandinavia avevano modificato in molti modi le sorti di diverse regioni d’Europa. A sua volta, la penisola scandinava aveva conosciuto una storia statuale piuttosto complessa, soprattutto a causa del confronto con le mire espansionistiche della corona e delle città tedesche. La Danimarca aveva condotto una politica espansionistica di grande intraprendenza, volta sia a occidente – verso l’Inghilterra – che a oriente, strappando terre agli slavi e ai balti e assoggettando brevemente persino la Norvegia. Nel Duecento, tuttavia, l’ascesa tedesca nel Baltico aveva portato un

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5. Stavkirche (chiesa lignea) di Borgund, il cui legno è stato tagliato alla fine del XII secolo.

ISLANDA

6. Il mondo occidentale nell’anno Mille.

Fær-Øer Norvegesi Shetland

REGNO DEI PITTI

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E DEGLI SCOTI

Stato polacco nel 992 Missioni cattoliche Stato di Kiev nel 912 Espansione dal 912 al 1054 Impero bulgaro dello zar Samuele verso il 996 Mondo musulmano alla fine del X secolo Regni cristiani della penisola iberica Impero bizantino

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IRLANDA

Stavanger Svedesi

Suzdal Novgorod

Bulgari del Volga

REGNO DI DANIMARCA

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STATO DI KIEV Amburgo Brema Londra Magdeburgo CONTEA DI Canterbury POLONIA Kiev BARCELLONA Parigi REGNO DI MISNIA EGNO DI R R. DI GERMANIA Peceneghi NAVARRA FRANCIA OSTMARK Santiago de Bordeaux REGNO CARINZIA Compostela REGNO D’UNGHERIA REGNO DI LEÓN Cherso D’ITALIA CROAZIA ero BOSNIA IMPERO Lisbona Mar N STATI CALIFFATO BULGARO DELLA Costantinopoli Roma DI CORDOVA CHIESA Napoli Tangeri IMPERO BIZANTINO Tunisi PRINCIPATI Hammadidi DI ZENATA Ziridi Mar Mediterraneo Damasco Tripoli Gerusalemme Alessandria

Oce

Missioni dell’arcivescovo di Brema-Amburgo verso la Scandinavia Spedizioni scandinave

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Sacro Romano Impero Il Regno di Danimarca nell’anno Mille

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Fatimidi

Il Cairo

GEORGIA

Buwayhidi IRAQ Carmati

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duro colpo alla potenza danese; in seguito alle sconfitte subìte, il sovrano Erik V (1259-1268) era stato costretto ad accordare privilegi al Danehof, l’assemblea legislativa dell’alto clero e dell’aristocrazia del regno. Nel decenni successivi e sino al Trecento inoltrato la corona subirà una forte crisi. La Norvegia del XII secolo è scossa dalle lotte per l’elezione del sovrano che oppongono l’alto clero al «partito» aristocratico; nonostante l’appoggio al clero di Innocenzo III, l’aristocrazia ebbe la meglio e riuscì a eleggere quale re Sverre (1184-1202), che dette origine a una monarchia ereditaria. Nel corso del Duecento i marinai norvegesi furono protagonisti di esplorazioni e colonizzazioni di nuove terre, come l’Islanda, la Groenlandia e le Ebridi (cedute alla Scozia nel 1266). La prima dinastia stabile della Svezia fu quella degli Sverker, che regnò con alterne fortune fra 1130 e 1250; gli successe il conte Birger, che instaurò rapporti amichevoli con Norvegia e Danimarca, concesse privilegi alle città hanseatiche e perfezionò l’annessione della Finlandia. Nella seconda metà del secolo vi furono diversi sommovimenti sociali che con lo Statuto di Alsnö gettarono le basi di una cavalleria nobile ereditaria ed esente da imposte, che terrà in scacco il sovrano sino al secolo successivo.

7. Maiestas Domini, placchetta dedicatoria in avorio dell’antependio di Magdeburgo, 962-973. L’imperatore Ottone I offre al Signore il modellino del duomo. The Metropolitan Museum of Art, New York. 8. Cristo davanti a Pilato, pannello in avorio dell’antependio di Magdeburgo. Bayerisches Nationalmuseum, Monaco di Baviera.

VERSO L’EST Gli Ottoni avevano creato una rete di città lungo la frontiera cristiana orientale, con la funzione che era stata di Amburgo e Brema nei confronti del settentrione. La più importante fra tutte era Magdeburgo, attiva già agli inizi del IX secolo quale centro commerciale. Distrutta dagli slavi, fu rifondata per volontà di Ottone I e dal 962 divenne sede arcivescovile. A Magdeburgo compì la sua formazione il vescovo Adalberto da Praga, che volle intraprendere una missione tra gli slavi dell’Oder; tuttavia questi si ribellarono molto presto alla predicazione

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9. Battesimo di Boris, khan dei bulgari, miniatura da un manoscritto del XII-XIV secolo. Biblioteca Apostolica Vaticana. 10. La stabilizzazione degli slavi intorno al Mille.

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del vescovo e lo martirizzarono insieme ai suoi discepoli. Liberarsi di Adalberto non preservò gli slavi dell’Oder dall’arrivo di nuovi missionari, seguiti infine da una conquista militare che li decimò così come in passato era avvenuto per i sassoni. Alla fine del X secolo Magdeburgo aveva già sei diocesi suffraganee, e da queste, affiancate alle tradizionali sedi di Amburgo e Brema, partivano le missioni dirette nei territori slavi. Le cronache riportano che intorno al 1111 tutti gli slavi si sottomisero formalmente a Enrico X di Sassonia, detto il Superbo. In realtà, la conversione e la sottomissione richiesero tempi più lunghi. Solo con una campagna di continuo martellamento i tedeschi riuscirono ad aver ragione delle resistenze slave. Altre regioni subirono nella seconda metà del secolo l’aggressione dei danesi. La Bulgaria, i Balcani, l’Ungheria, la Boemia, la Polonia avviarono a partire dal X secolo politiche indipendenti, nonostante la pressione di vicini potenti quali Bisanzio e la Germania, e l’impatto di invasioni come quella mongola del 1241. Gradualmente, e con continuità dopo il X secolo, tutte queste regioni divennero parte integrante della politica europea, almeno fino all’avanzata turca del TreQuattrocento, che ne conquistò le più meridionali. La Bulgaria, regione popolata di slavi, ma occupata nel VII secolo da popolazioni mongole, aveva formato un regno indipendente già negli anni successivi con la fusione fra i due elementi etnici, ormai cristianizzati; ai primi del X secolo la

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La Russia di Kiev alla fine del

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secolo

La Grande Moravia sotto Svatopluk alla fine del IX secolo Impero bulgaro ai tempi di Simeone (fine IX, inizio X secolo) Croazia ai tempi di Tomislav (metà X secolo) Novgorod

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Bulgaria di Simeone I (893-927) aveva persino minacciato Costantinopoli, ma successivamente era stata sottomessa dai bizantini per riacquistare l’autonomia solo nel XII secolo; la fondazione dell’impero latino d’Oriente nel XIII secolo dette modo ai bulgari di avere una seppur breve possibilità di espansione territoriale. Nel 1217 la regione della Serbia, sino allora sottoposta al governo degli stessi bulgari e dei bizantini, acquisì la sua indipendenza e dette vita a un regno poi estesosi a comprendere l’Epiro, la Macedonia, l’Albania. Sotto Stefano Dushan (1331-1355) iniziò la costruzione della cosiddetta Grande Serbia, a danno di Bisanzio. Tuttavia nel corso dello stesso secolo tanto la Bulgaria quanto la Serbia vennero inglobate dall’avanzata turca. La dinastia ungara degli Arpad, fondata da Stefano I il Santo (997-1038), aveva creato un regno i cui confini erano ben più ampi dell’attuale Ungheria. Il sovrano Bela III (1173-1196) ottenne l’annessione di Croazia, Dalmazia e Bosnia dopo una lunga lotta con Bisanzio. Nel 1222 Andrea II (1205-1235) emanò la Bolla d’Oro, con la quale l’alta nobiltà e il clero ottenevano – quasi contemporaneamente a quanto avveniva in Inghilterra con la Magna Charta – garanzie di

11. Pie donne al sepolcro, affresco della chiesa di Prilep, Macedonia. 12. Ritratto di re Milatin che regge il modello della chiesa, 1320 circa. Particolare dell’affresco del naos della chiesa dell’Annunciazione a Gra/anica, Serbia.

Roma Ohrid

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Tessalonica

Costantinopoli

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XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA

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13. Navata della cattedrale di Cracovia, 1346-1364. La costruzione della cattedrale fu patrocinata da Casimiro il Grande (1333-1370). 14. Il regno di Polonia alla morte di Casimiro il Grande (1370).

mantenimento dei loro privilegi con l’istituzione di una dieta che sottoponeva l’operato del sovrano a un controllo; si formano inoltre assemblee locali con diritto di lagnanza nei confronti del re. Tuttavia, pochi anni dopo, nel 1241, l’Ungheria sarà travolta dall’avanzata mongola e il potere regio ristabilito solo molti decenni più tardi sotto la casa d’Angiò (1307-1382). La Boemia bassomedievale si legò saldamente alla corona tedesca e dell’impero, rispetto al quale nel X secolo il regno si era dichiarato vassallo. La dinastia dei Przemyslidi, emersa nel corso del IX secolo fra le grandi famiglie delle signorie fondiarie, conobbe una grande espansione nel corso del Duecento, sotto Ottocaro II (1253-1278). Aprendo le frontiere del regno all’Ordine teutonico, il sovrano riuscì ad annettersi diverse regioni circostanti, incluse l’Austria, la Stiria, la Carniola, la Carinzia, parte della Slovacchia. Tale era la potenza raggiunta dal suo regno che nel 1273 Ottocaro poteva puntare all’elezione alla corona imperiale; gli venne tuttavia preferito Rodolfo d’Asburgo, che pretese la restituzione di territori della corona usurpati. Gli eserciti si scontrarono a Marchfeld e Ottocaro perì nella battaglia. La dinastia przemyslide rimase al potere per alcuni altri decenni, senza ritrovare più lo slancio del passato, e nel 1310 fu sostituita dai Lussemburgo. Anche in Polonia si era costituito un regno nel corso del X secolo sotto la dinastia dei Piasti, in stretto contatto con la Germania. Proprio il potente vicino è d’ostacolo alla formazione di un grande regno slavo che, oltre alla Polonia, includa la Boemia. Tuttavia la Polonia dei Piasti conduce una politica autonoma di espansione verso nord-est, a danno delle tribù slave ancora pagane; nella prima metà del XII secolo vengono occupate la Pomerania e i territori fra Elba e Oder. Nel 1138 i membri principali della casata si dividono i territori del regno, che rimane così diviso in molte parti: la Piccola Polonia, intorno a Cracovia, spetta al più anziano; Masovia, Cuiavia, Grande Polonia, Slesia, Pomerelia, cioè l’insieme dei territori a nord, vengono affidate agli altri membri come ducati. Il secolo successivo è costellato dalle lotte che oppongono le diverse realtà politiche di Polonia, che riceverà un grave colpo con l’invasione mongola del 1241 e dall’avanzata tedesca sul Baltico. L’unità del regno fu restaurata soltanto al tempo di Casimiro III il Grande (1333-1370).

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Confini del regno di Polonia nel 1031 Regno di Polonia nel 1370

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15. Il maestoso castello monastico dell’Ordine teutonico di Marienburg, la cui costruzione inizia nel 1280. Al suo interno, tra il 1382 e il 1399, si costruisce anche il Palazzo del Gran Maestro dell’Ordine teutonico. 16. L’espansione dei cavalieri dell’Ordine teutonico.

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ESTONIA POMERANIA SAMOGIZIA Königsberg

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LA CONQUISTA DEL BALTICO Intorno al Mille sul Baltico furono fondate colonie mercantili importanti, frutto della colonizzazione concorrenziale di tedeschi e scandinavi, coinvolti attivamente in un’opera di fondazione di centri urbani di frontiera. Non è chiaro perché molte di queste attive e popolose colonie siano declinate a partire dall’XI secolo; forse esse ebbero a soffrire della concorrenza tedesca, che avrebbe condotto a termine la conquista del Baltico nei secoli a venire. Protagonisti principali di tale conquista furono i cavalieri dell’Ordine teutonico e dei portaspada, nati con l’appoggio di Innocenzo III per condurre crociate antipagane sul Baltico, che arriveranno alla fusione nel 1237. Le campagne militari furono particolarmente spietate: i pagani erano stretti fra due possibilità; se rifiutavano la conversione, questa arrivava non più con i missionari, bensì con gli eserciti. Se invece accettavano le condizioni imposte loro, divenivano preda degli interessi dei mercanti e della selvaggia colonizzazione sassone, rischiando così una rapida assimilazione. La resistenza proseguì dunque per buona parte del Duecento. Le campagne si conclusero infine con esiti diversi per i tre principali raggruppamenti etnico-tribali: i lettoni furono i primi ad accettare la conversione, ma protrassero lungo tutto il XIII secolo la resistenza; sconfitti, dovettero cedere alla colonizzazione tedesca. Più tenace l’opposizione dei prutheni (prussiani), che subirono una violenta offensiva dell’Ordine intorno al 1230. Nel 1226 la Prussia venne affidata al governo dell’Ordine, e dal 1234 il territorio e i suoi nuovi conquistatori furono posti sotto la protezione diretta del pontefice. Nel 1249 i balti vennero costretti a stipulare un trattato in cui accettavano di abbandonare i costumi tradizionali; tuttavia il conflitto perdurò anche nella seconda metà del secolo, e anzi dal 1250 poté avvalersi di una unione fra le tribù baltiche rimaste ancora libere sino a una resa che rasentò la

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XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA

XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA

totale distruzione. Infine, i lituani riuscirono a mantenere un po’ più a lungo la propria indipendenza, approfittando dei contrasti fra tedeschi e polacchi per il primato nella regione. Divenuti confederati dei polacchi nel Trecento, accettarono con la sottomissione politico-militare anche la conversione e dal 1370 una parte della regione con gli empori di nuova fondazione tedesca entrò a far parte dell’Hansa; nel 1386, l’Ordine teutonico ormai in declino, una parte della Lituania divenne un granducato sotto la sovranità polacca. Fra il IX e l’XI secolo l’elemento slavo della futura Russia, preponderante, unito a quello vichingo orientale (o variago), aveva dato vita a un grande Stato che aveva il suo centro nella città di Kiev, ma si estendeva a nord sino alla Finlandia. Verso la metà del XII secolo, però, alla decadenza del regno si accompagnò la crescita di Mosca. Nel corso del Duecento l’invasione mongola diede origine

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all’impero dell’Orda d’Oro, mentre Kiev passò alla Polonia. Con Ivan I (13251341) il principato di Mosca riuscì a rendersi indipendente dai tatari o tartari, pur pagando loro tributi. Ebbe così inizio la riunificazione delle terre russe, che proseguì per circa un secolo e mezzo.

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Estensione del principato di Kiev alla fine del X secolo Confini della Grande Moravia all’inizio del IX secolo Regni e principati dell’Europa orientale Confini verso la fine del X secolo

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Estensione del principato di Kiev all’inizio del X secolo

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Area di espansione slava verso l’Oriente Bulgari del Volga

L’ESPANSIONE NEL MEDITERRANEO Alcuni storici hanno usato il concetto di «rivoluzione commerciale» per indicare il complesso di fatti economici, sociali, tecnologici che hanno accompagnato il ridursi in Europa dell’importanza dell’agricoltura come fattore trainante dell’economia, e l’affermarsi di attività diverse: il commercio, l’artigianato su scala manifatturiera, gli strumenti di cambio e di credito. La città è naturalmente il luogo privilegiato nel quale avviene questo mutamento, del quale essa è in parte causa e al tempo stesso effetto. Ma, beninteso, la città non basta a spiegare il mutamento, così come i miglioramenti climatici e l’esplosione demografica successivi al X secolo non possono esserne ritenuti deterministicamente le sole cause lontane. In tutti questi elementi, possiamo scorgere fattori e componenti del nuovo tipo di economia, di dinamica sociale, di ripartizione della proprietà e del lavoro che si era affermato già a partire dall’XI-XII secolo ed era giunto a piena maturazione nel Duecento. Fu però chiaramente la «contingenza» che vide riuniti tutti questi fattori a determinare la «rivoluzione commerciale», che divenne evidente in tutta la sua pienezza nel Duecento. In alcune città marinare italiche attività economica e autonomia politica datavano già dall’alto medioevo. In questi centri – ai quali se ne aggiungeranno poi alcuni provenzali, come Marsiglia, o catalani, come Barcellona – si sviluppano, in complesso rapporto con l’antica aristocrazia urbana o con quella nuova d’origine bassofeudale inurbata da poco, ceti dediti specificamente ad attività mercantili e armatoriali. Ad essi si deve l’affermarsi di un nuovo e più audace modo di fare affari: quello di riunirsi in «compagnie», «commende», societates, mettendo in comune capitali e accettando certi rischi allo scopo di realizzare precisi guadagni. Poiché i grandi commerci si svolgevano per vie marittime, essi avevano naturalmente bisogno di navi e di naviganti: ed ecco che le città marittime si riempirono di cantieri con i relativi lavoratori addetti e di marinai. Durante il XII secolo si verificò un mutamento profondo, testimoniato dal fatto che durante la prima crociata tutti avevano viaggiato per via di terra, con l’eccezione delle navi pisane e genovesi sopraggiunte in un secondo momento

17. La chiesa di Santa Sofia a Novgorod, 1045-1050. 18. Carta della Rus’ di Kiev. 19. Cattedrale della Dormizione della Madre di Dio, 1158-1160, fatta costruire dal principe Andrej Bogolijubskij, che voleva fare della sua capitale Vladimir la prima città della Russia. 20. I principati russi del XII secolo, dove emergerà Mosca. 21. Intarsio ligneo con la raffigurazione di una nave, 1300 circa. Museu Nacional de Catalunya, Barcellona.

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22. Particolare dell’Iter de Londinio in Terram Sanctam di Matthew Paris, XIII secolo, con il porto d’approdo dei pellegrini, sino al 1291, di San Giovanni d’Acri. Corpus Christi College, Cambridge.

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per consolidare le conquiste; nella seconda, ci si era serviti di navi solo quando erano stati i bizantini o i normanni di Sicilia a procurarle; ancora la terza grande spedizione crociata venne programmata come un viaggio per via di terra dai tedeschi di Federico Barbarossa, anche se già allora inglesi e francesi sceglievano il mare. A partire dal Duecento non si riteneva più possibile raggiungere Costantinopoli per via di terra, e non perché essa fosse rischiosa o troppo lunga (lo era anche prima): ma soltanto a causa del fatto che nel frattempo la nave era divenuta un mezzo di comunicazione normale, consueto. E anche gli orgogliosi rappresentanti dell’aristocrazia feudale e guerriera avevano posto da canto la loro avversione al mare e alla navigazione. Fu questa una rivoluzione economica e in parte sociale. Non ancora tecnologica, in quanto – salvo forse per le dimensioni – l’accresciuta mobilità marittima non condusse a sostanziali modifiche nei tipi nautici, che continuarono a rispondere alle tradizionali condizioni di navigazione nel Mediterraneo. In genere, le navi mediterranee continuarono fino al XIV secolo a essere di due fondamentali tipi. Il primo era costituito dalla leggera e allungata galea a remi, che ospitava pochi marinai e passeggeri, ma aveva bisogno di 150-250 rematori, veloce, anche se gli addetti ai remi dovevano praticamente toccar porto e riposare ogni giorno. Il secondo rappresentato dalla nave «rotonda», di alto bordo e di stiva capace, a una sola grande vela e adatta al commercio. Utile per il trasporto di mercanzie ingombranti, non aveva bisogno né di troppo personale, né di troppo frequenti scali: ma in cambio era lenta, scarsamente maneggiabile, mal difendibile. A

questi due tipi fondamentali (presenti con diverse varianti) si aggiungevano gli «uscieri», navi propriamente da trasporto dei cavalli da guerra, caratterizzate da grandi sportelli sulle fiancate che si aprivano per far entrare e uscire gli animali e che venivano impeciati durante la navigazione. La costruzione di una nave richiedeva molti elementi: legname per lo scheletro e il fasciame; pece; canapa per le gomene; tela per le vele. La presenza di un attivo cantiere alimentava quindi il commercio d’importazione e il disboscamento necessario a procurarsi la materia prima. Esisteva pertanto un circolo di interdipendenza tra attività del cantiere, urbanesimo, sviluppo del commercio anche con l’entroterra, popolamento delle aree boschive, messa a coltura dei terreni disboscati.

23. Porto dell’isola di Maiorca, nodo importante per il commercio nel Mediterraneo. Retablo opera di Pere Niçart, Sant Jordi, fine del XV secolo. Museu Diocesà, Palma di Maiorca.

CITTÀ DI MARE, CANTIERI, FONDACHI Intorno al Mille alcune delle città italo-bizantine affacciate sul mare avevano già raggiunto livelli di vita e capacità commerciali assai elevate. Dal principio del IX secolo Amalfi, Napoli e Salerno battevano una moneta propria, che derivava dal tarì arabo, segno che l’Islam, non solo Bisanzio, era la loro area privilegiata di scambio. Fra tutte le città italo-bizantine, comunque, doveva esser Venezia a spiccare il volo verso un futuro di grande portata, riuscendo nei secoli a intrecciare interessi fondiari e commerciali con attività agricole e finanziarie in un impero marittimo di immensa portata. Le città italo-meridionali, inquadrate precocemente nel regno normanno, non smisero di esercitare funzioni commer-

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XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA

XIX. UN MONDO CHE SI ALLARGA

più lontano, attraverso la «via della seta» che metteva in comunicazione l’Asia sudoccidentale con la Cina. Da lì partivano verso l’Europa i preziosi carichi di spezie indispensabili alla medicina, all’alimentazione, alla conservazione dei cibi, ma soprattutto all’attività manifatturiera e anche all’arte (per esempio le materie coloranti, che servivano tanto a tingere le stoffe tessute in Occidente quanto alla pittura e alla vetreria); ma lì giungevano anche i panni di lana e le tele di canapa, i prodotti alimentari, il legname da costruzione, i pani di metallo greggio e le armi, ch’erano prodotti occidentali sempre più richiesti in Oriente e sempre meglio pagati, per quanto i papi cercassero con ogni mezzo – scomunica inclusa – di fermar la vendita di armi ai saraceni da parte di mercanti cristiani. In questo modo, nel corso del Duecento, la bilancia commerciale (fino allora favorevole all’Oriente) s’invertì, e grazie all’afflusso di oro nelle casse dei mercanti latini l’Europa poté accedere alla coniazione della moneta d’oro, dal IV al XIII secolo privilegio praticamente esclusivo dei bizantini e di alcuni potentati musulmani. Se Venezia, con la quarta crociata, aveva riconfermato il suo controllo su Costantinopoli, pisani e genovesi puntarono immediatamente sui porti egiziani di Alessandria e Damietta, dove fondarono colonie commerciali sfidando la condanna del papa, che aveva proibito i traffici con il mondo musulmano. Genova poi cercò di estendere i suoi interessi commerciali oltre il Bosforo, nei porti del mar Nero, dai quali si commerciava l’allume, a contatto con i tartari dell’Orda d’Oro e con i principati russi, in modo da sfruttare le correnti mercantili che attraverso il Volga e il Don provenivano dal Baltico, oltre alle carovaniere dell’Asia centrale che approdavano ai porti della Crimea e al grano ucraino che poteva rifornire l’Occidente.

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24. Il porto di Venezia in un disegno della fine del XV secolo, opera del canonico tedesco Bernhard von Breydenbach. Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia. 25. Pianta di Genova e del suo porto nel XV secolo: borghi …… mura del 1155 –––– mura del 1320 .-.-.-.mura del 1346 - - - -

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ciali, ma non poterono mai svilupparle di pari passo con quelle politiche, così come avvenne per Venezia. Resa sicura la navigazione in Adriatico tra il IX e il X secolo con la forza e con gli accordi, al principio dell’XI secolo la rete di interessi commerciali dei veneziani si estendeva fra Costantinopoli, la costa siro-libano-palestinese, il Nord Africa e la Sicilia. Nonostante i reiterati divieti imperiali, da Oriente e da Occidente, e papali, Venezia vendeva agli arabi generi proibiti come il legname, il ferro e gli schiavi provenienti soprattutto dall’Istria, dalla Slovenia e dalla Croazia. Contemporaneamente, altre città marittime italiane stavano lanciando una loro politica autonoma: tra queste emersero presto Genova e Pisa. Furono dunque queste tre città a imporre, in concomitanza con la prima crociata, dei veri e propri itinerari che si snodavano su un asse est-ovest e viceversa, che univa i loro porti a Costantinopoli e alle colonie mercantili che le tre città avevano fondato tanto nell’impero bizantino quanto sulla costa siro-libano-palestinese, con l’appoggio dei principi crociati. I molti conflitti che scaturirono nel XII-XIII secolo tra loro ebbero sovente, appunto, origine da tensioni nate «oltremare». Ad esempio l’inimicizia tra Genova e Pisa cominciò a configurarsi quando si trattò di stabilire quale fra le due città avrebbe dovuto stabilire la sua egemonia sulle grandi isole di Corsica e di Sardegna; e continuò poi sia in Costantinopoli, sia in Acri e in Tiro (i due massimi porti del regno crociato), dove i «quartieri» veneziano, pisano e genovese erano contigui. Queste colonie commerciali delle città italiche sorgevano in quartieri urbani ben distinti dagli altri, addirittura dotati di loro fortificazioni, e prospicienti il mare: disponevano pertanto d’infrastrutture portuali, avevano fondachi e arsenali ed erano popolate da cittadini della madrepatria che passavano parte dell’anno su una sponda e parte sull’altra del Mediterraneo. Esse erano empori commerciali di straordinaria importanza, ai quali giungevano le merci dalle grandi città mercantili dell’entroterra come Damasco e Aleppo e addirittura da

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26. Arsenale di Venezia con una nave in costruzione. Particolare di un disegno del XV secolo, opera del canonico tedesco Bernhard von Breydenbach. Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia. 27. Hartmann Schedel, veduta di Costantinopoli, incisione colorata, Norimberga, 1493.

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Capitolo XX

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GLI ERETICI Il travaglio che aveva colpito le istituzioni politiche ed ecclesiastiche nell’XI secolo e la riforma detta «gregoriana» avevano portato alcune modifiche nell’ambito della predicazione e, più in generale, del rapporto tra clero e laici. Le decisioni conciliari non risolvevano però il problema della «cura delle anime», che anzi sembrava in procinto di emergere con nuove istanze e nuove esigenze. Mancava una riforma effettiva della predicazione che, oltre a definirne le competenze, riuscisse a mutarne i contenuti, aggiornandoli ai tempi. Di fronte a queste carenze, i laici reclamavano in modo sempre crescente un proprio ruolo all’interno della vita religiosa, scontrandosi però con la necessità, proclamata dal clero, di mantenere un controllo sui contenuti – e dunque sulla conformità alle dottrine della Chiesa – della predicazione. I primi segnali delle richieste di una maggiore partecipazione del laicato nella

1. Benozzo Gozzoli (1420?-1497) Incontro tra san Domenico e san Francesco, affresco, 1450-1452. Chiesa di San Francesco, Montefalco (Perugia). 2, 3. Le autorità spirituali (2) e le autorità temporali (3), particolari dell’Exultet della metà del XIII secolo conservato presso il Museo Diocesano di Salerno. La riforma gregoriana è fondamento della laicità dello Stato.

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4. Papa Innocenzo III riceve nel 1199 la Regola degli umiliati, che approverà nel 1201 revocando la scomunica comminata da Lucio III. Miniatura, Biblioteca Ambrosiana, Milano. 5. Linee di diffusione dell’eresia catara da Oriente a Occidente.

XX. NEMICI INTERNI E MARGINALI

vita della Chiesa si erano già manifestati nella seconda metà dell’XI secolo con la formazione a Milano del movimento detto patarino; ma fu soprattutto dalla metà del XII secolo che il problema cominciò a porsi in tutta la sua urgenza con l’estendersi di fenomeni non-conformisti o propriamente ereticali. Nel 1173 il mercante lionese Pietro Valdo fondò su questi presupposti la comunità dei pauperes Lugdunenses, i «poveri di Lione», ripromettendosi di diffondere il suo ideale con la predicazione. La richiesta fu respinta prima dal vescovo di Lione, poi dalla Chiesa di Roma, che li condannò quali eretici: solo i chierici potevano predicare; quanto alla vita in preghiera e in povertà, chi avesse voluto seguirla avrebbe potuto accedere a un qualunque Ordine monastico. L’esempio di Valdo fu dunque seguito specie in Lombardia e in Toscana, dov’erano ancor vivi i ricordi della patarìa: nacquero sodalizi penitenziali come i «poveri lombardi» (che vivevano in comune e in comune mettevano anche i frutti del loro lavoro) e gli «umiliati», un movimento nato fra i lavoratori subordinati della lana nelle grandi città, che più tardi sarebbe stato almeno in parte riguadagnato all’ortodossia. Ancora nel corso dell’XI secolo, in Germania, nel sud della Francia e nell’Italia centro-settentrionale si diffusero i «catari» (dal greco katharos, «puro»). I catari predicavano cose in apparenza simili a quelle dei propagandisti patarini del tempo della riforma: il che – insieme con l’assonanza dei due termini – fece sì che in seguito i due movimenti si confondessero nell’opinione pubblica e che le parole «eretico», «cataro» e «patarino» acquistassero lo stesso significato. In realtà, però, i catari insistevano sulla necessità, per la Chiesa, di essere povera in quanto anzitutto la ricchezza era qualcosa di materiale; e, appoggiandosi ai passi del Vangelo nei quali Gesù sottolinea l’opposizione irriducibile tra il Suo regno e questo mondo, giungevano a prospettare un’opposizione altrettanto irriducibile fra Spirito e Materia, Luce e Tenebra, Bene e Male. Tutto il creato diveniva una sorta di enorme tranello nel quale Satana (i cui poteri venivano allargati fino a farlo divenire una specie di Anti-Dio) aveva irretito lo spirito dell’uomo che anelava a tornare alla Luce. Diveniva quindi peccato gravissimo l’atto sessuale: non in sé (come poteva essere per la morale cristiana), ma in quanto causa di generazione, cioè di creazione di una prigione per un altro spirito. È probabile che forme di manicheismo fossero giunte in Europa ai primi del

XII secolo attraverso l’impero bizantino e i Balcani, o magari di ritorno con i pellegrini che tornavano dalla Terrasanta, e difatti «bulgari» erano detti sovente i suoi propagandisti. Naturalmente, la propaganda catara non sarebbe stata efficace se non proponendosi nelle forme del cristianesimo popolare, il cui più diffuso strumento – in tempi di delusione per la riforma che aveva fondato nella Chiesa lo strapotere del clero – era la denunzia della mondanità delle gerarchie ecclesiali. E non c’è dubbio che molti aderirono alla setta proprio con la volontà di divenire migliori cristiani. Contro i catari agli inizi del Duecento fu bandita una crociata che si protrasse fra Provenza e Linguadoca per decenni, complici la corona di Francia e i suoi alleati, i feudatari del nord, che in tal modo ebbero la possibilità di sottomettere le ricche e autonome terre del Midi.

6. Incontro tra san Francesco e santa Chiara, particolare della Tavola di santa Chiara. Convento di Santa Chiara, Assisi. 5 ico

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7. San Domenico con i suoi compagni a Roma e mentre riceve da san Pietro e da san Paolo il bastone e il Vangelo da pellegrino predicatore. Particolare di un manoscritto del XV secolo. Musée Condé, Chantilly.

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UNA RIVOLUZIONE: GLI ORDINI MENDICANTI Papa Innocenzo III, ponendosi dinanzi ai risultati di questi gruppi «spontanei», li guardava con molta diffidenza. La loro autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica li rendeva esposti all’eresia. Ma nel 1210 egli approvò invece l’iniziativa di un cittadino più o meno trentenne di Assisi, Francesco di Pietro Bernardone, il quale con alcuni compagni si era dato una «regola di vita» che prescriveva la completa povertà, il lavoro manuale, la predicazione portata più con l’esempio che con la parola. Francesco era il devoto ideale per Innocenzo: la sua vita era assolutamente povera e pura, ma al tempo stesso egli si dirigeva costantemente alla Chiesa per ricevere da essa direzione e insegnamento. Francesco non voleva certo fondare un Ordine: e dal canto suo Innocenzo era diffidente nei confronti delle fondazioni nuove. Approvò quindi a voce (ma senza impegnarsi con un documento scritto) la «formula di vita» del gruppo di Assisi, e fece concedere a Francesco la «tonsura», cioè il taglio di capelli in una certa foggia che era il segno esteriore dell’appartenenza di qualcuno al clero e lo autorizzava a predicare. In questo modo l’esperienza francescana fu inserita entro la compagine disciplinare della Chiesa. Francesco d’Assisi aveva ispirato anche la fondazione di un gruppo di penitenti di sesso femminile a capo delle quali era una giovane della nobiltà assisana, Chiara Scifi; e aveva fondato una confraternita di laici che, prendendo la sua esperienza come modello, intendevano vivere secondo lo spirito di essa senza tuttavia abbandonare la loro attività e la loro famiglia. Furono questi, rispettivamente, il «secondo Ordine» francescano, le clarisse, e il terzo, detto appunto dei «terziari». Ormai la fraternitas fondata da Francesco era divenuta un Ordine anche a causa della sua grande popolarità. Fu confermato da papa Onorio III e per esso Francesco redasse nel 1221 e nel 1223 due successive Regole. Furono quelli i suoi ultimi atti pubblici di rilievo: ammalato e forse amareggiato, egli si ritirò in disparte lasciando ad alcuni suoi discepoli la guida dell’Ordine, non senza tuttavia le rigorose consegne di vivere sempre del proprio lavoro e secondo la Regola interpretata letteralmente, senza addolcimenti di sorta. Per certi versi parallela all’esperienza di Francesco fu quella di un chierico spagnolo, Domenico di Guzmán, canonico della cattedrale di Huesca. I francescani avevano preso il nome di «frati minori», a indicare la loro vocazione all’umiltà; i seguaci di Domenico assunsero quello di «frati predicatori», in quanto Domenico, rimasto colpito dalla sfida che gli eretici avevano portato alla Chiesa, ma anche dall’efficacia della loro propaganda basata sulla predicazione, aveva scelto di contrastare la loro opera non solo con la povertà di vita, ma anche con la

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XX. NEMICI INTERNI E MARGINALI

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parola. I domenicani avevano quindi bisogno di prepararsi culturalmente molto bene, in quanto la loro funzione principale doveva consistere nell’ascoltare le confessioni e predicare. Domenico ottenne che la confraternita diventasse un Ordine nel 1215. Quando morì, nel 1221, cinque anni prima di Francesco, i domenicani erano ormai una grande forza, sparsa in tutta l’Europa.

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8. Scene della vita di san Domenico, particolare dell’affresco di Andrea di Bonaiuto (1343-1377) Allegoria della Chiesa, 1365-1367. Cappellone degli Spagnoli, Santa Maria Novella, Firenze. 9. Lorenzo Lotto (1480-1556), La prova del fuoco dei libri ortodossi ed eretici. La predella descrive il miracolo compiuto da san Domenico davanti ai teologi albigesi, per cui bruciano solo le opere eretiche. Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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L’INQUISIZIONE Nel corso del XII secolo tanto la Chiesa quanto l’impero si erano opposti con fermezza al diffondersi del catarismo. Nel concilio di Verona del 1184 furono pubblicate alcune durissime Constitutiones: i detentori del potere a qualunque livello dovevano, pena la scomunica, obbligatoriamente punire i catari, allontanarli da eventuali pubblici uffici e confiscarne i beni; mentre la gente comune era tenuta a sua volta a denunziare ai propri vescovi chiunque fosse sospetto d’eresia, e i vescovi stessi erano obbligati a visitare almeno due volte all’anno tutti i centri demici delle loro rispettive diocesi allo scopo d’individuare gli eretici, isolarli e segnalarli alle autorità laiche per sottoporli alle previste sanzioni. Nel 1231, quando già era in atto da tempo la repressione armata nei confronti dei catari del Midi, Gregorio IX inasprì ulteriormente queste sanzioni. È da questo momento che il termine inquisitor – che fino allora designava semplicemente l’incaricato di un’inchiesta – assume il valore di «inquisitore» nel senso che siamo abituati ad attribuirgli. È l’avvio della cosiddetta «inquisizione vescovile», che si rivelò tuttavia inadeguata e insufficiente. Molta gente proteggeva e nascondeva gli eretici. Gli stessi vescovi erano scontenti di questa crescente egemonizzazione da parte della sede romana, che riduceva le loro prerogative, e preoccupati che la persecuzione degli eretici non desse adito a una serie infinita di alibi per vendette politiche o personali. Papa Gregorio IX reagì conferendo nuova autorevolezza all’Ordine dei frati predicatori, da lui incaricati nel 1221 di occuparsi tanto della repressione degli eretici quanto della riforma della Chiesa. La bolla pontificia Ille humani generis dell’8 febbraio 1232 affidava il negotium

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fidei ai domenicani, disponendo che i vescovi li appoggiassero senza riserve; il 21 agosto 1235 il papa nominava inquisitore generale per tutto il regno di Francia il domenicano Roberto, detto «il Bulgaro» perch’era stato egli stesso cataro prima di convertirsi. Poco dopo, anche i francescani furono associati al compito fino allora riservato ai domenicani. L’attività di ricerca degli eretici doveva andar di passo con una sistematica predicazione in grado di contestare l’insegnamento eterodosso e l’influenza dei «buoni cristiani» sulle popolazioni. Inoltre, la sede romana aggirò l’ostacolo costituito dalla resistenza episcopale appoggiandosi di più alle autorità laiche, le quali non chiedevano in fondo di meglio: esse consideravano difatti gli eretici un pericolo anche civile, e d’altronde non dispiaceva loro arricchirsi lucrando sulle confische dei beni dei condannati. In teoria, i poteri laici non avevano alcuna prerogativa nel riconoscimento e nella condanna degli eretici, che spettava alla Chiesa: essi potevano solo eseguire materialmente le condanne. Tuttavia, sul piano politico concreto, la strada era aperta per una quantità di pressioni dirette o indirette, che avrebbero condotto nel tempo in molti casi a una fatale subordinazione dei tribunali ecclesiastici alle autorità civili, come ben si vide in casi come il processo ai templari o quello a Giovanna d’Arco. Alla luce delle bolle, delle «decretali», degli atti dei concili e dei manuali si può tracciare un quadro schematico della procedura inquisitoriale, con l’avvertenza tuttavia che molte senza dubbio furono le deroghe, molti gli abusi, e che insomma alquanti caratteri «garantisti» della normativa che da queste fonti emerge poterono essere – e furono in realtà – negletti o calpestati nella pratica. Gli inquisitori visitavano i luoghi oggetto della loro inchiesta su segnalazione delle commissioni preposte a vigilare contro l’espandersi dell’eresia o su denunzia che restava anonima per tutelare i denunzianti dalla vendetta dei parenti o degli amici dei denunziati. Si apriva così il tempus gratiae: con un «sermone generale» s’invitavano tutti quelli che a qualunque titolo avessero avuto contatto con gruppi ereticali a presentarsi spontaneamente, facendo ammenda e ricevendo una penitenza. Un certo periodo di tempo – solitamen-

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10. Il concilio Lateranense IV del 1215, che condannò l’eresia catara, nel disegno di Guillaume de Tudèle e di un anonimo continuatore, 1210-1230 circa. 11. L’abside monumentale della cattedrale di Albi, il cui aspetto militare appare come un monito per i catari sconfitti.

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XX. NEMICI INTERNI E MARGINALI

12. Santa Elisabetta veste gli ignudi e assiste gli ammalati. Walraff-Richartz Museum, Colonia. 13. San Francesco nudo per le vie di Assisi, miniatura dalla Legenda Maior. Istituto Storico dei Cappuccini, Roma. 14. L’assistenza ai lebbrosi da una miniatura della Franceschina della Porziuncola, Assisi.

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XX. NEMICI INTERNI E MARGINALI

te un mese – era lasciato a eretici e a testimoni per presentarsi. Trascorso quel periodo si avviava l’inchiesta relativa ai sospetti che non si erano spontaneamente rivolti agli inquisitori. Gli imputati sospetti di particolare pericolosità, o anche solo dichiarati inclini alla fuga, venivano fatti arrestare. Benché si potesse condannare un imputato anche sulla base delle prove, la Chiesa preferiva la confessione: per questo, i giudici potevano a loro discrezione adottare anche mezzi costrittivi: la carcerazione preventiva, che poteva essere indurita dall’incatenamento, dal digiuno, dalla veglia forzata. Se le prove non erano sufficienti né a condannare, né a scagionare l’imputato, e la detenzione non aveva indotto l’imputato a confessare, si poteva ricorrere alla tortura. Se l’imputato confessava sotto tortura, egli era obbligato a confermare il contenuto della sua confessione più tardi, a tormento finito. La conferma veniva trascritta nei verbali del processo come confessione «spontanea»: il che spiega come di rado la tortura venga menzionata in tali verbali, e fosse nondimeno sovente applicata. Le condanne più dure andavano, in ordine crescente, dalla confisca dei beni alla prigione e alla morte. Quest’ultima riguardava i rei «impenitenti» – che cioè, convinti d’eresia, rifiutavano di abiurare e di chieder perdono – e i relapsi, cioè quelli che, dopo aver confessato, ritrattavano una confessione formalmente resa e mostravano di voler tornare all’errore. I POVERI, I MENDICANTI, GLI AMMALATI Con Francesco d’Assisi la simbolica e l’immaginario stessi della fede cristiana saranno mutati per sempre sotto molti aspetti, fra i quali la considerazione per i poveri e i reietti della società. Dietro ogni povero, dietro ogni infelice, Francesco vedeva Gesù. Una delle sue prime attività era stata quella di vagare per le campagne assisane restaurando chiesette abbandonate e pericolanti. E, come il Cristo era povero e nudo, anche Francesco aveva scelto di vivere povero e nudo. Il Duecento era un mondo di miseria, ma anche di rapide e straordinarie fortune. E Francesco, uniformandosi al modello del Re dei Re che aveva voluto nascere povero di tutto nella stalla di Betlemme, scelse la povertà volontaria: con ciò inviando al mondo del suo tempo un messaggio ch’era anche una sfida. Se quello era il mondo del trionfo del denaro, egli avrebbe dimostrato non già di cercarlo a sua volta (come fanno i poveri che non sono tali per loro libera scelta), bensì di stimarlo «meno delle pietre». Se quello era il mondo nel quale si cominciava ad apprezzare sempre più la scienza e la cultura, il mondo delle università, egli avrebbe vissuto come perfetto ignorante e anzi come un «pazzo», come un «giullare», dimostrando che nell’abiezione liberamente scelta c’è la perfetta letizia, e che vivere in povertà può significare vivere lietamente. Povertà come scelta gioiosa; vivere facendo penitenza, ma senza mostrare la fatica e il dolore della penitenza. Francesco non è soltanto un asceta della rinunzia: sovverte i valori del suo secolo, capovolge i giudizi correnti, sembra vivere il cristianesimo come un continuo paradosso eppure al tempo stesso con semplicità e adesione alla lettera del Vangelo, assolute. Da un uomo come lui, che avrebbe potuto avere tutto dalla vita e a tutto aveva rinunziato per seguire l’esempio del Cristo, ci si aspetterebbe un duro giudizio sulla Chiesa del suo tempo e sulla debolezza dei ministri del sacerdozio. Molti asceti perfettamente ortodossi avevano espresso giudizi del genere, ch’erano inoltre caratteristici della propaganda ereticale. Francesco, invece, insiste sulla necessità che si amino e si rispettino i sacerdoti senza pretendere da loro prove di cristianesimo superiori a quelle che essi riescono a dare.

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Che il suo modo di vivere così semplice e povero avrebbe potuto farlo prendere per un «perfetto» cataro egli lo sapeva. Ma a ciò poneva facilmente rimedio differenziandosi sempre secondo un modello di carità. I catari non potevano mangiare niente che fosse «il prodotto della generazione»: quindi né carne, né uova, né derivati del latte. Francesco mangiava sempre tutto quel che gli veniva posto dinanzi. Ancora, i maestri catari predicavano che il mondo è un inganno del Dio delle Tenebre e della Materia, che il creato è stato fatto dal Dio malvagio: Francesco rispose scrivendo il Cantico delle creature, che non è soltanto una grande poesia, ma è anche un perfetto trattato di teologia anticatara. Scegliendo la povertà, l’umiltà e l’obbedienza assolute, non volle dettare alcun modello universalmente valido: tale durissima norma di vita era soltanto sua e di quelli che liberamente vorranno seguirla. Ma, per loro, era assoluta e non ammetteva deroghe. Per quanto egli avversasse denaro, cultura, comodità non di per sé, bensì in quanto reputava che la sua via si basasse sulla rinunzia ad esse. E dovette vedere con crescente apprensione che i francescani stavano invece diventando colti, accettando doni e ricchezze (anche se formalmente queste non venivano incamerate dall’Ordine, bensì dalla Santa Sede); addirittura – con la scusa di poter meglio servire il prossimo – qualcuno di loro chiedeva che si temperasse la Regola che egli aveva redatto nel 1221. Francesco accettò dunque di stenderne una seconda, nel 1223, ma ad essa pretenderà che i francescani siano assolutamente fedeli, accettandola alla lettera e «senza commento», cioè senza interpretazioni. Nel 1224, sul monte della Verna, ricevette le stimmate; la sua condivisione delle sofferenze di Cristo offriva un nuovo volto al cristianesimo: non più solo religione del trionfo, simbolizzato dal Cristo in gloria, ma anche della condivisione del dolore degli ultimi e della redenzione, testimoniate dal Cristo sofferente appeso alla croce.

15. Sano di Pietro (1406-1481), San Bernardino predica nel Campo, duomo di Siena. Restano celebri le prediche di san Bernardino dedicate ai temi della proprietà, dei commerci e contro l’usura.

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Capitolo XXI

LA SCOPERTA DELL’ASIA

3. Carovane di cammelli nel particolare di una carta del XVI secolo. Palazzo Ducale, Venezia.

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1. Muhammad Siyah Qalam, Campo di nomadi, inizi del XV secolo. Opera di ambiente centroasiatico con forti influenze cinesi. Topkapi Sarayi Müzesi, Istanbul. 2. Il caravanserraglio di Ribat-i Sharaf, 1114-1154. Nella regione iraniana del Khorasan, è posto su una direttrice carovaniera fondamentale che conduce a Bukhara e a Samarcanda.

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LE VIE COMMERCIALI TRA ASIA ED EUROPA I romani conoscevano la «via dell’incenso», che dall’estremità della penisola arabica conduceva le preziose spezie provenienti via mare dall’India o dalla Cina fino al Mediterraneo; essi avevano anche rapporti mercantili, sia pur mediati, con l’Estremo Oriente. I contatti diretti con l’Asia profonda erano rimasti però assai scarni. Se gli europei sapevano poco dell’Asia, molto più di loro sapevano gli arabi, che erano abituati a viaggiare in quel continente e a commerciare con esso. Fin dal IX secolo i mercanti del golfo Persico frequentavano la Cina, mentre le navi giavanesi giungevano, favorite dal regime dei venti detti «monsoni», fino alla penisola arabica. Anche per via di terra il commercio era florido. L’antica «via della seta» collegava le fertili pianure cinesi del Chang Jiang (Fiume Azzurro) e dello Huang He (Fiume Giallo), protette dalla «Grande Muraglia», alle metropoli arabo-iraniche (Shiraz, Isphahan, la stessa Baghdad) attraversando il deserto del Gobi, le oasi turkestane e sfiorando lo Himalaya. Tra Cina e Persia si erano andati creando piccoli regni, vassalli ora dell’uno, ora dell’altro dei due grandi imperi, e le merci passavano di carovana in carovana. L’organizzazione mercantile prevedeva che singoli convogli facessero soltanto percorsi brevi, di oasi in oasi, per poi affidare i carichi ad altri convogli dello stesso tipo. Gli uomini, insomma, viaggiavano relativamente: ma le merci e con esse le idee e i culti compivano, al contrario, lunghi itinerari in relativamente poco tempo.

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XXI. LA SCOPERTA DELL’ASIA

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4. Dipinto cinese con carovana di mongoli, XIV secolo. Collezione privata. 5. I domini africani del Prete Gianni in una carta di Visconte Maggiolo, XVI secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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Le merci più richieste e pregiate erano l’oro e l’argento di Sumatra, della Malesia e della Corea; il sandalo, il bambù, l’albero della canfora, da cui si estraeva un’apprezzata essenza; aromi come l’incenso e il muschio; pietre preziose come rubini e zaffiri, provenienti da Ceylon o dall’India. Ma il mercato più ricco era forse quello delle spezie vere e proprie: pepe, noce moscata, chiodi di garofano, cinnamomo. Alcuni di questi prodotti servivano all’alimentazione, così come le derrate di minor pregio e quindi di costo minore, che però venivano esportate in quantità più rilevanti (zucchero di canna, riso, cereali). Le merci pesanti, comunque, e poco costose si trasportavano di solito per mare: non vi sarebbe stata convenienza a portarle via terra a dorso d’asino o di cammello. Di queste grandi civiltà gli occidentali delle nascenti civiltà comunali (per i quali la conoscenza dell’Asia si limitava alla penisola anatolica – l’«Asia Minore» – e alle zone più prossime al litorale libano-palestinese) non sapevano alcunché. Le notizie sull’Asia offerte dagli antichi erano per la maggior parte fantastiche. Gli occidentali erano certo molto interessati ai luoghi di provenienza di quelle spezie che erano parte importante della loro vita oppure alle gemme e alle stoffe preziose di cui i principi e la liturgia cristiana facevano grande uso: ma sulle origini di tutte queste merci erano disposti ad accettare delle fiabe. Verso la metà del XII secolo era tuttavia giunta per il tramite bizantino in Europa – anche alla corte di papa Alessandro III e dell’imperatore Federico I – una «lettera del Prete Gianni», che parlava delle varie meraviglie dell’Asia e di un grande e potente regno cristiano là esistente, a capo del quale sarebbe stato un misterioso re-sacerdote appunto detto «Prete Gianni». Scritto quasi certamente propagandistico, la lettera conteneva comunque certe allusioni a fatti storici reali: ad esempio alla organizzazione di alcuni regni turco-mongoli nel centro dell’Asia, oppure all’esistenza di varie comunità cristiano-nestoriane disseminate lungo la «via della seta» dall’Iran fino alla Cina.

L’ASSALTO MONGOLO Nel corso del XII secolo si assisté al vero e proprio risveglio dei mongoli, pastori nomadi che abitavano l’odierna Mongolia orientale, a sud-ovest della Manciuria. Gli arabi li chiamavano tatar: termine da cui i latini derivarono la parola «tartari», che ricordava l’Inferno pagano, il Tartaro. Era un gioco di parole eloquente. In pieno deserto dell’Asia, a sud del lago Balkash, si era andato creando un nuovo «impero» nomade, detto del Qara-Khitai; i regnanti Song, per difendersi chiamarono in loro aiuto altre popolazioni turco-mongole, i jürchen stanziati tra Mongolia e Manciuria. Ma questi dilagarono ben presto nella stessa Cina settentrionale. Com’era accaduto nel V secolo nell’impero romano d’Occidente, ora l’impero cinese dava segni di cedimento sotto la pressione dei «barbari». Tuttavia, il territorio vastissimo tra i grandi fiumi siberiani e la Grande Muraglia era popolato di tribù nomadi in continua guerra fra loro; in questa situazione, essi erano poco pericolosi finché non trovarono un khan (capo) in grado di unificarli. Della nascita di Temudjin si sa ben poco; se ne ignora perfino la data, che si fa addirittura oscillare di una dozzina d’anni, tra 1155 e 1167. Era figlio di un capotribù stanziato nell’alto corso dell’Onon, a est del lago Baikal, e secondo la leggenda visse l’infanzia e la prima giovinezza tra le lotte e le vendette che coinvolgevano tribù differenti. La sua ascesa cominciò quando entrò a servizio del khan dei keraiti, una tribù turco-mongola di religione cristiana e di confessione nestoriana. Temudjin sposò la figlia del capo keraita, Borte, e da quel matrimonio ottenne le basi per ampliare successivamente il suo dominio, battendo e assimilando alla propria le tribù vicine. Nel 1206, l’intera area del Gobi era sotto il suo dominio: nel grande kuryltai (grande dieta tribale) indetto alle sorgenti del fiume Onon egli fu proclamato Gran Khan, cioè khan supremo, di tutti i mongoli, che avevano ormai trovato una specie di unità «nazionale». Fu allora che egli ricevette il nome di Genghiz Khan, «Signore universale».

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6. Ritratto di Genghiz Khan (1162-1227), creatore del grande impero mongolo. Museo Nazionale del Palazzo, Taipei. 7. Carta della formazione dell’impero mongolo fino alla morte di Genghiz Khan. 8. Assedio di Baghdad da parte dei mongoli nel 1258. Miniatura della seconda metà del XIII secolo dalla Storia Universale di Rashid al-Din. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

Dopo aver unificato le genti mongole, nel 1211 Genghiz Khan avviò la campagna per la conquista della Cina; intanto, fra 1219 e 1220, i mongoli sottomettevano il regno irano-persiano del Kwarezm (tra Baikal e Iran orientale): furono prese tanto Bukhara quanto Samarcanda, dopodiché il conquistatore si diresse a nord, verso le steppe russe, abbattendo il regno detto «della Grande Bulgaria» e deportandone la popolazione. Genghiz Khan era un conquistatore e un organizzatore di popoli: non era tuttavia un riformatore istituzionale. La sua «legislazione» partiva dalle tradizioni e dalle necessità delle genti mongole, pastori di cavalli, di cammelli e di capre. Come le varie tribù si muovevano continuamente alla ricerca di pascoli, ora espandendosi ora ritraendosi su se stesse, così Genghiz Khan dette al suo «impero» il carattere dell’organizzazione politico-militare mobile, senza trascurare però di imprimergli una forma sempre più gerarchizzata. Le tribù restavano indipendenti fra loro: tuttavia a capo di esse c’era la famiglia «imperiale», il cosiddetto «casato della stirpe aurea», considerato sacro in quanto direttamente figlio della massima divinità del popolo mongolo, il Tengri (il Cielo). Nucleo dell’impero rimase sempre l’ulus, cioè l’intera unità costituita da una tribù e dal suo patrimonio: con l’impero, questo concetto si trasferì all’insieme delle terre conquistate, che divennero l’ulus della famiglia imperiale. I singoli khan continuavano ad avere una grande autonomia, ma tutti erano tenuti alla fedeltà e al rispetto per il Gran Khan, che sorvegliava le sue terre attraverso un ben organizzato e rapido sistema d’intendenti e di corrieri. Le credenze dei mongoli erano anzitutto animistiche e sciamanistiche: esse trovavano tuttavia il loro culmine in una specie di monoteismo cosmico, che li avrebbe resi particolarmente disposti ad accettare le religioni buddhista, cristiana e musulmana. Proprio l’aspetto religioso è uno dei più affascinanti della

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Domini di Genghiz Khan (1207) Itinerari di Genghiz Khan e dei suoi luogotenenti L’impero mongolo alla morte di Genghiz Khan, 1227 (confini approssimativi)

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10. Miniatura del XIV secolo che ricostruisce una battaglia combattuta da Genghiz Khan all’inizio del XIII secolo. British Library, Londra.

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Gli imperi dell’Asia agli inizi del XIII secolo Novgorod

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9. Prigionieri di Genghiz Khan. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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personalità di Genghiz Khan: egli, modello in questo di tutti i capi mongoli, era estremamente tollerante nelle questioni religiose. Ma la sua, in realtà, non era «tolleranza»: al pari di tutto il suo popolo, Genghiz Khan aveva una visione magica più che propriamente religiosa del mondo; e nei vari culti cercava gli elementi, le «forze», che avrebbero, volta per volta, potuto favorirlo. Questo spiega perché alla sua corte vi fossero sacerdoti e si recitassero liturgie un po’ di tutti i culti religiosi. LA PAX MONGOLICA Quando Genghiz Khan scomparve, nel 1227, il suo impero andava dalla Siberia al Kashmir e al Tibet, dal mar Caspio al mar del Giappone. Aveva compiuto immensi genocidi, grandi deportazioni di intere masse, fondato e distrutto città dalle fondamenta. Ma aveva edificato un impero solido, pacifico, dove la pax Mongolica, inflessibile ma anche equa, permetteva di convivere a genti diverse per lingua, stirpe, religione. Gli successe il figlio Ogödäi, e subito i mongoli ripresero il programma di conquiste. Il nipote di Genghiz Khan, Batu, si gettò sull’Europa. Nel 1240 Kiev cadeva sotto i suoi colpi. Un sordo terrore s’impadronì della Cristianità. Gli Annali di Novgorod definivano questi uomini terribili, di cui non si conoscevano né la lingua né le origini e che apparivano d’aspetto ferino più che umano, una punizione di Dio per i peccati dell’umanità. Riaffiorava il mito di Gog e Magog. Nella primavera del 1241 i cavalieri di Batu Khan, impadronitisi di quel territorio tra il Volga e il mar Nero che sarebbe stato il nucleo del regno dell’Orda d’Oro, si riversarono sulla Polonia, sulla Boemia, sull’Ungheria. La migliore cavalleria cristiana non resse all’urto di quelle torme, che alla fama di una assoluta crudeltà univano una disciplina e una abilità strategica eccezionali.

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XXI. LA SCOPERTA DELL’ASIA

XXI. LA SCOPERTA DELL’ASIA

11. Khubilai Khan in un ritratto anonimo del XIII secolo.

Il pericolo parve estremo. Ma Batu dovette ritirarsi dalla porzione d’Europa conquistata, in parte perché le vittorie gli erano costate troppe perdite e la sua minacciava di trasformarsi in un’avanzata folle senza rifornimenti e senza appoggi logistici, in parte perché la morte di Ogödäi richiamava nuovamente i capi mongoli a Karakorum per il kuryltai. Fu eletto al trono Güyük (12411248), che non ebbe modo tuttavia di riprendere la campagna contro l’Europa. Dopo di lui, i mongoli mutarono rotta e politica: non puntarono più sull’Europa e sul Mediterraneo, bensì sulla Cina, dove nel 1279 la dinastia Song crollò definitivamente e al suo posto salì sul trono, per la prima volta dopo millenni, un non-cinese, il Gran Khan Khubilai. Ebbe così inizio quella che nella storia cinese è ricordata come la dinastia straniera, gli Yuan. L’ordine della pax Mongolica e la buona organizzazione carovaniera dell’impero tartaro permettevano ormai di viaggiare con relativa sicurezza e anche con una certa rapidità, mettendo in contatto diretto gli europei con le ricchezze della Cina e dell’Estremo Oriente asiatico. Molti furono i mercanti occidentali che si avventurarono lungo queste vie carovaniere, cercando di aggirare il tramite arabo che in passato era stato loro necessario per acquistare le merci preziose d’Oriente. In particolare i veneziani, sempre interessati a tutto quel che riguardava le strade dell’Asia e le sue merci, si erano posti da tempo la questione del rapporto con i mongoli. Nel 1260 due mercanti della città, Matteo e Nicolò Polo, partirono da Costantinopoli alla volta del khanato mongolo della Russia settentrionale e di lì procedettero fino a Bukhara nell’Uzbekistan e poi alla residenza estiva del Gran Khan Khubilai, a nord della Grande Muraglia. Presso Khubilai rimasero circa

12. L’impero mongolo alla fine del XIII secolo. 13. La corte dei mongoli affida agli ambasciatori lettere per papa Innocenzo IV. Miniatura da una edizione del XV secolo dello Speculum Historiale di Vincenzo di Beauvais, XIII secolo. Musée Condé, Chantilly.

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13 12 14 Khanato di Giaghatai Impero degli ilcani fondato da Hulagu (1256-1265) REGNO DI S VEZIA

Khanato di Qipchaq, derivato dall’eredità di Giuci Impero del Gran Khan, derivato dall’eredità di Ogoday

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dal 1279 al 1368

Zona dominata da Khubilai (1260-1294) Conquista della Cina dei Song, iniziata nel 1234 Estensione dell’Impero mongolo alla fine del XIII secolo Regioni vassalle Spedizioni militari Batu (1226-1255) Khubilai (1249-1294) Spedizione della flotta di Khubilai verso Giava (1293) Hulagu (1256-1265) Chormagan (1236-1244) Invasioni mongole dal 1292 al 1308 Quaidu (1277-1301)

un anno, conobbero la splendida Pechino e quindi, dopo un lungo viaggio di ritorno, rientrarono a Venezia nel 1269. Pare avessero promesso al Gran Khan che sarebbero tornati recando notizie e doni dall’Europa; e difatti, nel 1271, si misero nuovamente in cammino alla volta dell’Estremo Oriente, incoraggiati

14. Zhu Derum, Caos primordiale – Hunlun, rotolo orizzontale, inchiostro su carta. Dinastia Yuan, 1349. Museo di Shanghai.

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15. Marco Polo varca un ponte su un fiume cinese. Particolare di una miniatura dal Livres des Merveilles, fine XIV-inizio XV secolo. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

dal nuovo papa Gregorio X, che pure riponeva nei mongoli grandi speranze missionarie. Stavolta essi viaggiarono più a lungo e il figlio di Nicolò, Marco, che era con loro, rimase in Cina alla corte e al servizio del Gran Khan fino al 1292, narrando le sue esperienze in quel libro, Il Milione, ch’è senza dubbio uno dei capolavori della letteratura europea di viaggio del medioevo. EUROPEI E CRISTIANESIMO IN ASIA Al di sotto dell’enorme terrore sollevato, la comparsa dei mongoli aveva rinverdito le illusioni escatologiche sul misterioso popolo cristiano d’Oriente che già l’Europa conosceva polarizzate nel mito del Prete Gianni. La stessa avanzata di Batu Khan, che a un certo punto era sembrato puntar deciso verso le valli del Reno e del Danubio, era stata interpretata da alcuni come la rivendicazione delle spoglie dei Re Magi, che i mongoli avrebbero considerato gli antenati regali del loro popolo e che avrebbero voluto strappare alla città di Colonia e portare con sé. Queste leggende creavano un diffuso senso di speranza e di volontà d’intendersi con gli uomini delle steppe, sfruttando i legami della comune fede cristiana, vera o supposta che fosse. Il nuovo papa Innocenzo IV, pur accennando più volte alla crociata contro i tartari, era nei loro confronti orientato piuttosto verso la penetrazione pacifica e i rapporti diplomatici. La notizia che presso i mongoli avessero grande credito i membri della Chiesa nestoriana, per quanto esagerata in parte dagli ambienti nestoriani stessi, in parte dall’eccessivo ottimismo degli occidentali, aveva un suo nucleo di verità. Per stringere rapporti con loro, si pensò di penetrare nell’Asia mongolica per due vie: a sud attraverso il khanato di Persia, a nord per la strada della Russia e delle steppe dell’Asia centrale. L’incarico per queste spedizioni, ch’erano

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16. Bahram Gur uccide il drago, miniatura mongola dal grande poema epico persiano Shah-nama, 1335 circa. The Cleveland Museum of Art.

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al tempo stesso diplomatiche e missionarie (ma che in parte dovevano anche servire a rendersi conto dell’effettiva potenza mongola), venne affidato a frati domenicani o francescani, i quali scrissero, sulle loro esperienze, alcuni interessanti diari di viaggio che in qualche modo – come nella Historia Mongolorum di Giovanni del Pian del Carpine – sono ancora oggi strumenti fondamentali nella conoscenza storico-geografica dell’Asia. Oltre al papa, anche il re di Francia Luigi IX – molto interessato in particolare ai mongoli di Persia, dai quali sperava di ottenere aiuto contro i musulmani durante una spedizione crociata che egli aveva organizzato nel 1248 – inviò messi al Gran Khan: si trattava di due francescani, Guglielmo di Rubruck e Bartolomeo da Cremona, che per il loro viaggio da Acri in Palestina e ritorno impiegarono circa tre anni (1253-1256). Tuttavia, alla fine del XIII secolo, sia i mongoli dell’Orda d’Oro, sia quelli del khanato di Persia, si convertirono all’Islam. Restava ancora il Gran Khan, che da imperatore «cinese» propendeva semmai per una sorta di conciliazione tra buddhismo e taoismo. Nel 1294 era a Pechino Giovanni da Montecorvino, frate francescano, il quale fondò il primo vescovato latino nell’impero sino-mongolo, e ai primi del Trecento altri francescani lo seguirono. L’attività ecclesiale e missionaria di questi religiosi fu ampia e generosa: ma la caduta degli imperatori sino-mongoli, nel 1368, portò la Cina a chiudersi per reazione su se stessa e in modo particolare a chiudersi agli occidentali, tanto più malvisti in quanto non solo «barbari», ma anche stranieri favoriti dagli odiati Yuan. L’Occidente si trovò così precluso il mondo estremo-orientale per via di terra: ma continuò a cercarlo, tentando di circumnavigare Africa e Asia per giungere di nuovo alle Indie. Alla fine del Quattrocento, Cristoforo Colombo avrebbe sperato ancora di mettersi in contatto con il Gran Khan.

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17. Ritratto della fine del XIX secolo del fiammingo Guglielmo di Rubruck, ambasciatore del re di Francia Luigi IX presso la corte dei mongoli nel XIII secolo.

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Capitolo XXII

SCIENZA E MAGIA

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LA RINASCITA MAGICO-FOLKLORICA A partire dai secoli XI e XII il rinnovamento della vita sociale concise con la reintroduzione in Occidente di branche della cultura scientifico-filosofica di matrice classica o tardoantica, veicolata dalla riscoperta di molti testi greco-latini, passati magari attraverso elaborazioni e traduzioni arabe ed ebraiche. Nella conoscenza di questi testi l’Italia giocò un ruolo importante: tra i secoli XI e XII erano fioriti numerosi centri di traduzione dal greco e dall’arabo. A Montecassino e a Salerno erano stati volti in latino numerosi trattati di medicina; in Sicilia, presso la corte di Guglielmo I si erano avute traduzioni di Platone, Aristotele, Tolomeo e Diogene Laerzio; all’incirca nello stesso periodo, cioè verso la metà del XII secolo, Giacomo Veneto compiva la più ampia traduzione latina del corpus aristotelico, mentre pochi anni più tardi Gerardo da Cremona traduceva dall’arabo una settantina di opere, fra cui numerose di argomento astrologico. In certi ambienti, come la scuola di Chartres, l’interesse per la filosofia – questa volta soprattutto neoplatonica – si accompagnava all’indagine nel campo delle discipline «magiche», intese come più profondi metodi di ricerca delle cause occulte che producono i fenomeni naturali. L’eredità della scuola di Chartres in materia di magia naturale trovò in seguito numerosi cultori: nel XII secolo si deve ricordare soprattutto Giovanni di Salisbury; nel successivo, almeno Vincenzo di Beauvais, Alberto Magno, Ruggero Bacone. Nei loro scritti, accanto all’apprezzamento per la magia naturale, compariva per la prima volta una chiara distinzione fra questa e la magia di tipo cerimoniale, inficiata dalla minaccia demoniaca e dunque ovviamente illecita. Giovanni di Salisbury, per esempio, nelle pagine del Policraticus condannava la divinazione, in quanto essa si avvaleva dell’intermediazione dei demoni. La distinzione fra magia naturale – lecita – e magia cerimoniale – illecita perché demoniaca – non era però sempre facile. Ruggero Bacone dedicò un trattato – intitolato Segreti dell’arte della natura e confutazione della magia – alla distinzione tra i due ambiti e alla condanna della magia cerimoniale, considerata essenzialmente come una truffa; al contrario, egli valutava in modo positivo quelle figure di guaritori e guaritrici tradizionali, esperti di una medicina naturale che si basava su antiche conoscenze empiriche. Gli enciclopedisti duecenteschi come Vincenzo di Beauvais e Alberto Magno partecipavano in pieno alla grande scoperta delle corrispondenze tra uomo e natura; con questa giustificavano e facevano proprie, ad esempio, le credenze del mondo tradizionale circa i poteri delle pietre (quali il corallo, la malachite, il diamante, l’ambra – anch’essa annoverata fra le pietre) sorretti in questa loro convinzione da testi antichi – e su tutti la Storia naturale di Plinio – o dagli enciclopedisti altomedievali che ne avevano epitomizzato le conoscenze. Nel XII secolo Marbodo di Rennes scrisse un celebre «lapidario», ossia una trattato sulle proprietà delle pietre, denso di informazioni sulle virtù magico-terapeutiche delle gemme, ripreso successivamente tanto da Alberto Magno (nel suo scritto Sui minerali) quanto da Vincen-

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1. L’universo come appare in un disco usato per la formulazione degli oroscopi, anche in caso di malattia, dal Dragmaticon Philosophiae Magistri Choncis, XIII secolo. Bibliothèque de la Faculté de Médecine, Montpellier. 2. Vincenzo di Beauvais, Speculum Naturale.

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zo di Beauvais, nello Specchio della natura. Fra l’altro, entrambi questi autori – seppur con qualche scetticismo il primo –, al pari di Bacone, sulla scorta di un testo schiettamente magico qual era la Tabula smaragdina, prendevano in seria considerazione le credenze alchemiche circa la possibilità di trasmutare i metalli e di ottenere artificialmente l’oro, partendo dalla Materia Prima che non è dotata di alcun attributo e aggiungendo ad essa i caratteri del più pregiato fra i metalli.

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3. I lapidari, illustrazione dell’Hortus sanitatis di Juan de Cuba, stampato a Magonza nel 1491 e conservato presso la Biblioteca Universitaria di Pavia. 4. Richiesta di oroscopo fatta da una coppia per i due figli a un astrologo. Miniatura del XV secolo, Universiteitsbibliotheek, Gand.

NECROMANTI, ASTROLOGI, ALCHIMISTI: LA MAGIA «COLTA» V’era tuttavia un tipo di magia cerimoniale verso la quale la condanna era generalizzata: l’arte necromantica, cioè la divinazione attraverso l’evocazione di defunti, che nel medioevo divenne «negromanzia», cioè un insieme di pratiche magiche ritual-cerimoniali delle quali si servivano quanti volevano raggiungere scopi occulti e illeciti. Ma di quali strumenti si servivano i «negromanti»? È possibile identificarne certi caratteri di fondo a partire da alcuni libri che venivano usati dagli stessi «maghi». Fra questi, i più celebri sono quelli che si riteneva tramandassero notizie sui presunti poteri magici del biblico re Salomone. Al leggendario sovrano si attribuiva infatti la stesura di numerosi testi magici. La Clavicula Salomonis era forse il più noto di tutti. In esso le preghiere devote a Dio si accompagnano a una accentuazione della necessità per l’officiante il rito di requisiti di castità, digiuno e nitore; tuttavia la finalità appariva tutt’altro che devota, essendo sovente rivolta a procurarsi mezzi magici per seminare morte, discordia e distruzione. L’appello ai demoni perché conferiscano volontà e potere si accompagna in modo blasfemo ai richiami – attraverso preghiere e formule – ai profeti dell’Antico Testamento e allo stesso Dio, chiamati a maledire i demoni al fine di costringerli a obbedire alla volontà dell’evocatore. L’astrologia non presentava apparentemente le stesse minacciose incognite della magia necromantica. Tuttavia essa divenne, in modo crescente a partire dal Duecento, un fenomeno preoccupante. Contro di essa – e contro l’interesse che suscitava – si era espresso chiaramente soprattutto Tommaso d’Aquino, sottolineandone l’incompatibilità con il libero arbitrio. Ciò che colpiva particolarmente era l’ampio consenso che queste tecniche andavano raccogliendo presso le élites di potere. L’uso della magia e dell’astrologia per scopi politici era diffuso in molti fra i comuni e le signorie medievali. È significativo il carteggio intercorso nel 1474 tra Galeazzo Maria Sforza e i suoi ambasciatori, nel quale il duca di Milano commentava con ira e preoccupazione i pronostici a lui sfavorevoli elaborati dagli astrologi Girolamo Manfredi, Marsilio da Bologna e Pietro Bono Avogaro. Nelle corti europee alcune forme divinatorie, connesse soprattutto con l’astrologia, avevano anche un ruolo pubblico e ufficiale: il «punto» stellare si rilevava costantemente quando si fondavano cinte murarie o edifici e prima d’intraprendere un viaggio o di cominciare una battaglia; nel Trecento Carlo V di Francia volle a Parigi un collegio di astrologi per formulare oroscopi e tradurre in volgare i migliori testi sull’argomento; e nel secolo successivo Mattia Corvino d’Ungheria fece lo stesso con la sua corte di Buda. L’ERMETISMO Ma fu soprattutto la rinascita platonica e neoplatonica (più propriamente plotiniana), insieme con l’arrivo dei testi ermetici, a giustificare un rilancio della magia che, partito da Firenze, sarebbe dilagato nei due secoli successivi per

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l’intero continente. Che cos’erano dunque i testi ermetici? Il manoscritto greco degli Hieroglyphica di Orapollo, recato nel 1419 a Firenze, accese l’interesse per la letteratura misteriosofica alessandrina e fondò le basi per quel «mito egizio» che avrebbe conosciuto straordinaria fortuna e lunghissima vita nella cultura moderna, specie nell’esoterismo settecentesco. La riscoperta dei testi ermetici, che trovò il suo apogeo nella traduzione ficiniana del Corpus hermeticum nella Firenze del 1463, costituiva il punto d’arrivo di una concezione, sviluppatasi lentamente nei due-tre secoli precedenti, che, legando strettamente cielo e terra, cosmo e singoli elementi, faceva dell’uomo il centro dell’universo: era insomma il completamento della vecchia idea dell’uomo come microcosmo, specchio e sintesi del macrocosmo. Secondo Marsilio Ficino (1433-1499) il mago capta, coordina, organizza le forze celesti, finalizzandole all’interesse dell’uomo e della sua salute, fisica quanto spirituale: un dato importante per lo studioso, medico e figlio di medico. Rivendicando la piena dignità della magia come arte benefica e come scienza divina, il Ficino si rifaceva ai Magi evangelici, per ricordare che mago non significava «operatore di malefici», bensì «sapiente» e «sacerdote». Sulla scorta del magistero di Platone e dei neoplatonici, il formare mediante tecniche e materiali appropriati un’immagine simile al suo modello superiore significava esercitare una forza,

5, 6. Distillatore con canna a serpentina (5); vasi refrattari per la fusione dei metalli (6). Ms. Aldini, XV secolo, Biblioteca Universitaria di Pavia.

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XXII. SCIENZA E MAGIA

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un’attrazione, su quel modello stesso: era il principio della «simpatia universale» della catena degli esseri collegati dalla somiglianza e dalla corrispondenza mimetica. Il cosmo, agli occhi del Ficino, non era più un coacervo di elementi passivi, bensì un essere, un tutto animato. Nell’armonia del cosmo, dagli astri alle pietre, v’è dunque un continuo richiamarsi e rispondersi di occulte virtù che a vicenda si integrano e si completano: l’universo è vivo e composto di segrete corrispondenze che è compito dell’uomo – di un particolare tipo di uomo – indagare. Attento alle implicazioni illecite che l’arte magica poteva contenere, il Ficino sottolineava che le creature demoniache potevano sì essere attirate, invitate, indotte a porsi in contatto con l’uomo: non già però da lui costrette. Rimaneva comunque, in comune con le tradizionali figure di operatori «magici», il carattere non solo teoretico e speculativo della riflessione ficiniana. L’atto magico non ha luogo laddove non vi sia anche il «fare» concreto: disegnare e plasmare effigi, tracciare segni, bruciare aromi, forgiare talismani. Il mago del Ficino è quindi non solo medico e sacerdote, bensì anche conoscitore di sostanze fisiche e di metalli, plasmatore di oggetti, insomma artefice e artista: non sfuggirà certo il nesso di questa riflessione, condotta nella Firenze del secondo Quattrocento, con quel medesimo ambiente nel quale si affermava un concetto dell’artista come essere quasi sovrumano. E non a caso proprio nell’ambiente artistico la magia avrebbe trovato nel corso del secolo successivo alcuni fra i suoi più fedeli e fervidi cultori.

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7. Ippocrate, Galeno e Avicenna conversano di argomenti zoologici, illustrazione dell’Hortus sanitatis di Juan de Cuba, stampato a Magonza nel 1491 e conservato presso la Biblioteca Universitaria di Pavia.

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L’OFFENSIVA ANTIMAGICA Vi era tuttavia una nutrita parte della società, soprattutto negli ambienti cittadini laici di media cultura, che negli stessi anni andava sviluppando un atteggiamento parzialmente – e in alcuni casi molto – diverso nei confronti del fatto magico. Il Dante delle opere volgari è in qualche misura indicativo di questa tendenza. Nell’Alighieri la magia si collegava strettamente alla frode e all’inganno del demonio, la sola creatura cui è dato modificare, sia pure nell’apparenza piuttosto che nella sostanza, la natura e le sue leggi. Le «magiche frodi» si esercitano prevalentemente attraverso la divinazione, punita nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno. Qui la «frode» viene distinta nei suoi vari aspetti: in primo luogo si rammentano «ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura» (Inferno, XI, 58-60). Fra «chi affattura» vi sono anche gli indovini: da quelli celebri dell’antichità sino ai contemporanei, tra cui Michele Scoto, nonché «le triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine; / fecer malìe con erbe e con imago» (Inferno, XX, 121-123). Naturalmente, non era solo Dante a rappresentare il pubblico dei centri urbani fra Due e Quattrocento: da quello culturalmente elevato degli ambienti professionisti di medici, notai e giurisperiti al ceto dei mercanti e degli imprenditori. In Toscana, per esempio, a fronte di un certo interesse, attinto dalla cultura filosofico-teologica, astronomica, fisico-naturalistica, nonché dai bestiari, dagli erbari, dai lapidari, e presente in autori come Brunetto Latini, Bono Giamboni, Dino Compagni, Francesco da Barberino, Cecco d’Ascoli, molti altri mostravano un completo distacco, se non addirittura un’avversione per il fatto magico, privato di ogni connotato filosofico o empirico-naturalistico che sia, e ridotto invece a burla e truffa. La novellistica del Trecento è, in quest’ottica, esemplare. Figure come quelle dei toscani Giovanni Sercambi e Franco Sacchetti (autori rispettivamente delle raccolte note come Novelliere e Trecentonovelle) testimoniano appieno, sia

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pure con differenti sfumature, l’estraneità verso qualunque forma di pensiero e d’azione che esulasse dalle certezze della società borghese e di un cristianesimo privo di slanci o di curiosità intellettuali: l’universo magico, che comprendesse filosofi di alto profilo o postulanti truffaldini, era guardato con sospetto e, se possibile, ridicolizzato; al pari di coloro (in generale si trattava di «rustici»: è qui evidente la polemica del cittadino contro il contado) che, vittime della superstizione e della stupidità, erano facili prede di raggiri. Ancora più significativamente, la magia «dotta», che come si è detto aveva trovato spazi ormai da almeno un secolo nelle corti europee, non veniva mai neppure presa in considerazione; ignorata al pari di quella vasta corrente di pensiero in cui il confine tra nuove scienze e magia appariva tutt’altro che tracciato in modo definitivo. Il crescente interesse verso l’ambito magico da una parte, l’avversione di una parte della società per lo stesso ordine di fenomeni dall’altra: queste due opposte tendenze non potevano che condurre a un inasprimento del punto di vista ecclesiastico e giurisdizionale verso la magia e coloro che la praticavano (o erano accusati di farlo). L’insorgere negli stessi anni di un nonconformismo ereticale e il pericolo che esso rappresentava per la disciplina della Cristianità

8, 9. Mandragora maschio (8) e Mandragora femmina (9). Illustrazioni dell’Hortus sanitatis di Juan de Cuba.

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rendevano la Chiesa di Roma più guardinga e la inducevano a mettere a punto gli strumenti inquisitoriali in grado non solo di rintracciare l’eresia, ma anche di identificarne il retroterra socio-culturale. Gli stessi strumenti, supportati da rinnovate riflessioni di carattere teologico e demonologico, nonché l’inquisizione, furono impiegati per controllare l’adesione alle pratiche magiche.

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10. Eretici al rogo, miniatura dall’Imago mundi del cosmografo Gauthier de Metz, 1464 circa. Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles. 11. Ultima visione allegorica del medioevo, dopo la carestia, le guerre, l’insicurezza, questa immagine, da un manoscritto del XIV secolo, rappresenta il ricorso agli scongiuri e agli incantesimi secondo l’uso della stregoneria.

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LA STREGONERIA L’equiparazione fra magia ed eresia di fronte all’inquisizione fu un’acquisizione progressiva, che si può far cominciare nel 1233 con la bolla Vox in Rama di Gregorio IX e appare completata nel 1326, quando la Super illius specula di Giovanni XXII consentì di applicare le normali procedure inquisitoriali nei processi di magia. A fare le spese di questo processo fu soprattutto quell’insieme di pratiche che nel tempo saranno definite complessivamente come «stregoneria». È necessario sottolineare con forza il fatto che, sotto questa voce, confluì un insieme di elementi anche molto lontani gli uni dagli altri; elementi che solo alla luce dell’applicazione (da parte dei «cacciatori» di streghe) di criteri di interpretazione uniformanti poterono esser letti come un fenomeno unico. In Italia, per esempio, un più intenso recupero della cultura classica condusse a rievocare la figura della strega del mondo antico, inizialmente solo con un polemico intento di comparazione rispetto alle praticanti di bassa magia e forse alle donne che compivano aborti, magari con mezzi che univano alle rudimentali conoscenze di ostetricia anche qualche rituale a sfondo magico. Il primo a proporre con forza questo parallelo fu presumibilmente, nella prima metà del Quattrocento, un predicatore francescano del movimento riformato dell’Osservanza: Bernardino da Siena. In Francia la congiunzione di sentimenti antiereticali e antimagici dette vita a episodi di persecuzione su ampia scala, quali le vauderies di Arras e Lione (1459-1460). Qualcosa di almeno in parte simile dovette accadere anche in alcune aree dell’attuale Svizzera; per esempio nel Pays de Vaud, nella Svizzera romanda, sono stati esaminati diversi processi quattrocenteschi dai quali si evidenzia il legame esistente tra le accuse di eresia, quali si erano conosciute nei secoli precedenti in queste stesse terre a carico dei valdesi, e quelle di stregoneria; si può notare che qui le prime «cacce» perseguirono più spesso soggetti maschili, e non donne, come accadrà in seguito. Nelle regioni francofone e germanofone alcuni elementi della tradizione celtica e germanica giocarono forse un ruolo non molto diverso da quello che le streghe di memoria classica stavano esercitando in Italia: servirono cioè a inquadrare secondo parametri culturali conosciuti i fenomeni magici coevi. Si pensi soprattutto a quelle figure di «Signore notturne» o «dell’abbondanza», legate come si è già detto tanto alle tradizioni infere quanto ai miti della fertilità e della rinascita celto-germanici. Molti aspetti di queste complesse tradizioni (il volo magico, la capacità di penetrare nelle abitazioni attraverso porte e finestre chiuse, il legame con il mondo infero) figureranno nell’immaginario dei secoli tardomedievali e moderni quali caratteri precipui delle streghe. Al contrario di quanto a lungo si è affermato a proposito di una presunta, particolare efferatezza della Spagna nelle persecuzioni contro le streghe, il paese si sottrasse invece a quelle esplosioni incontrollate di violenza che altrove seminarono il terrore. Altre regioni d’Europa (l’attuale Gran Bretagna, la Germania settentrionale, la Scandinavia, l’intera Europa orientale) videro uno sviluppo del fenomeno molto più tardo, che esula ampiamente dai termini cronologici che siamo soliti considerare come medievali.

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Capitolo XXIII

LINGUE E LETTERATURA 1. Scena di combattimento ripresa dalla Chanson de Roland, racconto molto popolare, nell’architrave del portale centrale della chiesa di Saint-Pierre ad Angoulême, costruita nel corso del XII secolo.

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2. Carta d’Europa con le varie lingue romanze e germaniche che si affiancheranno al latino tra l’XI e il XV secolo.

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IL LATINO E I «VOLGARI» Nonostante il latino sia rimasto a lungo ben oltre il medioevo la lingua principale di cultura e di comunicazione ufficiale per il continente europeo, le lingue volgari assunsero presto un ruolo importante. Nel periodo altomedievale vanno citati almeno tre casi. 1. Nella seconda metà del IV secolo il vescovo ariano Ulfila tradusse la Bibbia in goto. Ulfila era di origini greche, ma i suoi nonni erano stati rapiti dai goti. Il giovane Ulfila, perfetto conoscitore di più lingue, pare svolgesse attività diplomatiche per i goti presso la corte bizantina. In seguito a questi prolungati

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3. Frammenti dell’alfabeto gotico della traduzione della Bibbia di Ulfila. Codex Argenteus, VI secolo. Uppsala Universitetsbibliotek, Uppsala.

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XXIII. LINGUE E LETTERATURA

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rapporti nel 348 fu designato vescovo dei goti; nei decenni di episcopato, tra molti travagli, condusse a termine la sua opera di traduzione della Bibbia in lingua gota, per la quale aveva a disposizione due scritture: i caratteri dell’alfabeto greco e le rune. Dalla sintesi originale di entrambe nacque la prima scrittura germanica letteraria. 2. Nell’843, dopo lunghe guerre tra gli eredi di Ludovico il Pio (figlio ed erede di Carlomagno), le parti in causa giunsero a firmare una trattato di pace e di divisione dell’impero. Carlo il Calvo si aggiudicava la «Francia occidentale», corrispondente a gran parte dell’odierna Francia, e Ludovico il Germanico la «Francia orientale», cioè l’area fra il Reno e l’Elba, nucleo storico della futura Germania. Oltre al testo in latino, le due parti redassero anche una versione nelle lingue volgari, pesantemente differenziate nonostante il comune retroterra franco. 3. Nell’813, durante il concilio di Tours, si prese atto che le omelie rivolte al popolo nelle chiese erano poco efficaci perché in latino, poco comprensibile ai più: si statuì che da quel momento in poi si sarebbe dovuto predicare nelle lingue volgari. Tuttavia, bisogna attendere il XII secolo perché i volgari vengano utilizzati anche come lingue letterarie. In Francia chansons de geste e poesia a carattere profano adottarono subito la lingua d’oc o d’oïl, che permetteva una fruizione ben più ampia delle opere. In Italia la prima opera in volgare è il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, forse composta in momenti diversi, ma generalmente datata nella sua forma definitiva al 1226.

4. Lancillotto, miniatura del XIV secolo. British Library, Londra. 5. Visione di Lancillotto, miniatura da un manoscritto del Lancelot du Lac, Arras, 1260 circa. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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L’AMOR CORTESE La letteratura d’oltralpe tanto in prosa quanto in versi aveva sviluppato un profondo interesse verso il racconto e l’analisi del sentimento amoroso. Nella letteratura cavalleresca esso rappresenta sovente un elemento centrale o comunque assai importante del tessuto narrativo. L’amor cortese si trova spesso non solo descritto, ma anche implicitamente analizzato e discusso. In alcune delle opere di uno dei più notevoli romanzieri medievali, Chrétien de Troyes, questa volontà è ben evidente: ad esempio, Erec et Enide pone il problema del contrasto fra i doveri cavallereschi e quelli d’amore, concludendosi in un elogio delle virtù del matrimonio e della fedeltà coniugale – se liberamenti scelti – contro l’adulterio.

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Altri romanzi si spingevano però assai oltre. Il Lancelot – parte di un’immenso ciclo nel quale si raccontano le gesta dei cavalieri della Tavola Rotonda e della queste del Graal –, appoggia la tesi che il cavaliere debba assolvere i suoi doveri verso la dama anche a costo di andar contro le leggi di cavalleria: così, quando la regina Ginevra è còlta dal rimorso perché la sua passione e la gelosia per l’amante impediscono a questi quella che era considerata la suprema avventura per un cavaliere della Tavola Rotonda, cioè la ricerca del Graal, Lancillotto la rassicura affermando che il suo primo dovere è offrire alla regina ciò che egli è in quel preciso momento: il migliore fra tutti i cavalieri. La vicenda amorosa del Lancelot è simile a quella del Tristan et Iseut, che trovò nel corso del medioevo un numero pressoché infinito di rivisitazioni e riscritture, proponendosi quasi come un racconto dai contorni mitici: la storia di un amore folle che conduce i due amanti alla morte. La leggenda di Tristano e Isotta, che affondava le sue radici nel mito e nel folklore più remoti, rappresenta la visione dell’amor cortese portato al suo limite più estremo. Generalmente, difatti, l’amore era concepito come una forza ispiratrice delle azioni più nobili e belle, come un sentimento morale che elevava la volontà degli uomini e li spingeva alle grandi missioni. Era il prodotto di una società aristocratica, della quale il poema cavalleresco in lingua romanza rappresenta l’espressione culturale più alta; in esso, infatti, si evidenziava un tipo di morale e di formazione differenti rispetto a quelle clericali, in cui avevano un ruolo dominante la forza, il coraggio, l’amor profano e il desiderio maschile. La barriera che nella corti separava le donne – almeno quelle sposate – dai giovani cavalieri diveniva l’ostacolo da superare, come in un gioco di ruolo: un gioco che si faceva ancor più difficile quando l’oggetto del desiderio era una donna di condizione superiore, magari la moglie del proprio signore.

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6. Miniatura di una Estoire del Saint Graal, nord della Francia, 1290 circa. Bibliothèque Nationale de France, Parigi. 7, 8. Lettera capitale istoriata (7) e miniatura (8) da un manoscritto del Perceval di Chrétien de Troyes, Arras, 1260 circa. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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Il matrimonio medievale era essenzialmente una questione di rapporti tra famiglie e lignaggi; l’interesse della famiglia doveva prevalere sulla volontà dei singoli, il che comportava un’assenza di passione nelle unioni matrimoniali. Inoltre, molto spesso le famiglie miravano a combinare un buon matrimonio per il primogenito e si disinteressavano delle nozze degli altri figli, al fine di non disperdere il patrimonio. Giovani scapoli desiderosi di correr l’avventura, e magari, alla fine, accasarsi favorevolmente, affollavano le corti dei signori, al servizio dei quali si ponevano. Questo il milieu cavalleresco nel quale si affermava, adattata, la fine amour di cui avevano cantato i lirici provenzali. Nell’ambiente di corte, tuttavia, l’amore tra il giovane cavaliere e la moglie del suo signore – sia pur non consumato – poneva un problema di fedeltà non secondario per la cultura cavalleresca: si doveva fedeltà alle regole del gioco d’amore o al proprio signore? Come s’è visto, la letteratura forniva risposte e opzioni diverse rispetto alla questione.

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9. Codex Forogiuliese, dei primi del IX secolo, contenente la Historia Langobardorum di Paolo Warnefrido (Paolo Diacono). Museo Archeologico Nazionale, Cividale del Friuli. 10. Foglio della Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda il Venerabile, VII secolo. Universitäts- und Landesbibliothek Münster.

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XXIII. LINGUE E LETTERATURA

ANNALI, CRONACHE, NOVELLE, SAGHE, VITAE A partire dall’XI-XII secolo il mondo medievale conobbe una proliferazione – visibile nell’arte delle cattedrali così come nella letteratura – di temi a carattere folklorico. Accanto e insieme alla cultura «dotta» delle scuole e delle università, emergeva un sostrato di idee forse elaborate oralmente nei secoli precedenti, ma che la rinascita culturale di quegli anni portava ora prepotentemente alla luce. La cultura non scritta, spesso chiamata in modo ambiguo «popolare», affondava le proprie radici nelle molte diverse culture pagane che avevano abitato l’Europa. Ma ormai i residui di tali culture venivano riletti in chiave pienamente cristiana. Si può anzi affermare che tale condivisione di motivi dalle diverse origini sia il portato più innovativo e interessante dei secoli centrali del medioevo. Il «mito» del santo Graal è forse la più nota elaborazione culturale di quei secoli. Nato nel XII secolo nelle pagine del Perceval, opera incompiuta del poeta Chrétien de Troyes, esso conobbe in epoca successiva infinite variazioni e riletture. Il Graal è originariamente una misteriosa coppa che contiene l’ostia consacrata della quale si nutre il Re Pescatore; egli è un re ferito, e la sua malattia coincide con la disgrazia nella quale versa il suo regno. Versioni successive del «mito» fecero del Graal la coppa che aveva contenuto il sangue versato da Gesù Cristo, unendo così temi fiabeschi – forse di origine celtica – con il racconto cristiano. Protagonisti, nel corso di un ampio numero di romanzi, della ricerca avventurosa del Graal divennero i cavalieri della Tavola Rotonda, riuniti intorno ad Artù. Tuttavia, sebbene i secoli medievali siano generalmente, nell’immaginario comune, strettamente legati alla letteratura cavalleresca, non bisogna dimenticare che molti altri furono i generi letterari che presero piede in quei secoli. Sulla scorta dell’annalistica romana, l’alto medioevo conobbe la redazioni di annali monastici e regi; accanto ad essi v’erano le storie che narravano, a metà tra storia e mitologia, le gesta e le migrazioni dei popoli germanici fino al loro insediamento a ovest del Reno e alla formazione dei regni romano-barbarici. Tra queste vanno ricordate almeno quelle di Gregorio di Tours, Beda, Paolo Diacono. I secoli bassomedievali videro poi una vera proliferazione di cronache legate alle crociate oppure celebrative delle vicende dei comuni, nelle quali il latino si alterna al volgare. Molte fra queste cronache, pur avendo a cuore soprattutto vicende concrete e contemporanee, si presentano come cronache «universali», ponendo l’inizio della narrazione nella storia biblica.

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In qualche modo collegabili alle storie romano-germaniche sono le saghe norrene in prosa e in versi. La materia di cui sono composte affonda le sue origini nell’antichità dei popoli nordici, ma la trasmissione rimase solo orale fino alla cristianizzazione. I due principali autori sono l’islandese Snorri Sturluson, compilatore dell’Edda, e il danese Saxo Grammaticus, autore dei Gesta Danorum. Nonostante sia presente l’influsso cristiano, l’insieme di questi testi è prezioso per conoscere la mitologia e la religione dei popoli scandinavi (largamente simile a quella dei germani), che altrimenti avrebbero lasciato tracce solo nel patrimonio folklorico. Una forma di racconto che ha le sue origini nell’età tardoantica e che rivestì grande importanza nei secoli successivi è data dalle Passiones, poi Vitae, dei santi. L’agiografia rappresenta un genere letterario fondamentale per comprendere il medioevo, al di là della sterile distinzione tra gli elementi fantastici (prevalenti) e quelli reali delle biografie dei santi, peraltro già ampiamente operata dai padri bollandisti a partire dal XVII secolo. Le Vitae esemplari dei santi, pure numerose nei secoli precedenti, dal Duecento vennero riunite in grandi raccolte, che servivano poi spesso nella predicazione e quale ispirazione nelle arti figurative. La più celebre di queste opere è la Legenda aurea del domenicano Jacopo da Varagine. Prodotto tipico della cultura italica comunale (toscana soprattutto) sono le novelle, genere collegato con gli exempla, i brevi racconti che i predicatori popolari bassomedievali inserivano all’interno delle loro lunghe prediche per renderle più gradevoli. Dall’anonimo Novellino tardoduecentesco fino all’apoteosi del Decameron (o, per uscire dall’Italia, dei Canterbury Tales di Chaucer, peraltro indebitati con l’opera di Boccaccio), le raccolte di novelle sono una fra le molte forme di racconto originali prodotte dalla cultura medievale.

11. Sacramentario di Fulda, 980 circa, con scene della vita di san Bonifacio. Biblioteca Capitolare, Udine. 12. San Lazzaro militare e vescovo, particolare della miniatura di una edizione della Legenda aurea di Jacopo da Varagine del 1400-1410. University Library, Glasgow.

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XXIII. LINGUE E LETTERATURA

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13. Valva di scatola per specchio con scene cortesi, opera di un intagliatore francese, 1350 circa. Museo Civico d’Arte Antica, Torino. 14. Coppia a cavallo in una scena agreste da un libro devozionale di ambiente francofiammingo della fine del XV secolo, per uso personale dei monaci benedettini di San Martino alle Scale a Monreale. Biblioteca Centrale, Palermo. 15. Miniatura con falconiere e scena cortese tratta dal quattrocentesco Decameron di Giovanni Boccaccio conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana.

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LA DIFFUSIONE DELLA LETTERATURA CAVALLERESCA IN ITALIA In Francia, gli ardori dell’amore cavalleresco sembrano attenuarsi nel corso del Duecento. Anche se proprio in questo secolo l’epica cavalleresca offre alcuni tra i suoi frutti più interessanti, l’ideale cortese assunse progressivamente i contorni di un rituale in cui i gesti convenzionali prevalevano sulle passioni furiose e pericolose degli esordi. La tragica vicenda di Tristano e Isotta si stempera, si addolcisce in romanzi come Floire et Blancheflor e Aucassin et Nicolette, nei quali il puro amore dei giovani amanti finisce per trionfare contro la volontà del mondo. Intanto, fra XII e XIII secolo la lingua d’oïl aveva avuto una straordinaria penetrazione in Italia, come testimoniano la diffusione di manoscritti in francese – ma prodotti in Italia –, nonché i molti francesismi che caratterizzavano tanto i volgarizzamenti quanto gli originali italiani in prosa. La preminenza di tale idioma era generalmente riconosciuta e si doveva prevalentemente alla ricca produzione letteraria che l’aveva adottata nella composizione di liriche e romanzi di successo. I rapporti commerciali tra la Francia e l’Italia favorivano la trasmissione di motivi letterari e della stessa lingua. La regione maggiormente interessata da tali scambi era certamente – per ovvi motivi storico-geografici – il Piemonte, ma ben presto fu l’area che aveva il suo centro nella marca Trevigiana, e si irraggiava sino a Padova, Verona, Ferrara e Bologna, ad assumere un ruolo guida in questo campo, dando origine a una produzione letteraria nota come «franco-veneta». Rispetto ai molteplici generi letterari fioriti oltralpe, nel Lombardo-Veneto fu l’epica cavalleresca a esser recepita con maggiore intensità, fino a ricoprirvi un ruolo assolutamente centrale. Inizialmente, essa era stata conosciuta attraverso

manoscritti francesi o grazie a giullari della medesima nazionalità; si passò dunque ai volgarizzamenti, come quelli assai noti della Chanson de Roland, e infine alla composizione di opere originali in franco-veneto, che pure attingevano argomenti dalla ricchissima tradizione di area francese. Ben presto, anche altre regioni d’Italia – e in particolar modo la Toscana – maturarono la medesima passione per questi temi. Proprio il romanzo di Tristano ebbe una straordinaria diffusione nell’Italia del Due-Trecento. Il cosiddetto Tristano Riccardiano si rivolgeva probabilmente all’ambiente toscano comunale e mercantile, come testimoniano i caratteri paleografici e linguistici dei numerosi manoscritti che ci sono pervenuti. Alcuni elementi interni al testo lo confermerebbero indirettamente: il dono di armi e cavalli di Tristiano al momento dell’addobbamento del suo scudiero richiamerebbe la pratica fiorentina di parte guelfa di offrire questo genere di doni ai nuovi cavalieri; i colori dello scudo di Artù – oro e azzurro – e dello stemma di Tristano – vermiglio – sono quelli adottati dall’araldica delle famiglie fiorentine nella prima metà del Trecento. Ma l’adattamento più sensibile della vicenda originaria al gusto del pubblico cui il volgarizzamento era rivolto si coglie proprio nella diversa concezione dell’amore che traspare da queste pagine. Venuto meno il contrasto tra la fedeltà dovuta al signore e quella per la propria dama, possibile solo in un contesto di cavalleria feudale, al pubblico delle città italiane si riservava una visione ben diversa dell’amore tra i due giovani: non c’è più traccia del pessimismo degli amanti, segretamente consci del destino fatale che li attende; il Tristano Riccardiano è invece percorso da sentimenti ben diversi, in cui è la gioia il motivo preminente. Anche se la passione fra i due sboccia, come nella versione originale, perché bevono il filtro magico, appare chiaro che un sentimento di forte simpatia era già presente, e lo stesso padre di Isotta esprime al momento di separarsi dalla figlia l’auspicio che ella vada in sposa a Tristano e non ad altri. Anche nei modelli francesi tardi della leggenda, tuttavia, si deve rilevare che l’espediente del filtro perde progressivamente importanza: segno di un mutamento del gusto e della sensibilità del pubblico piuttosto simile a quello rilevato per l’Italia. Un particolare ancora più importante della nuova versione è la colorazione negativa della figura del re Marco: il conflitto tra lui e Tristano diviene la contrapposizione tra un re ingiusto e traditore – perché la pacifica convivenza fra il re e la cavalleria e il benessere di tutto il regno richiederebbero che Marco perdonasse i due amanti e ne riconoscesse la passione – e il più valente e cortese dei cavalieri. Il Tristano Riccardiano appiana dunque le principali asprezze della leggenda e la conforma al gusto dei ceti urbani, desiderosi di belle storie di cavalleria, ma ormai estranei a quel mondo feudale da cui erano originariamente scaturite. La poesia dei trovatori francesi e dei Minnesänger tedeschi, anch’essi cantori dell’amor cortese, ebbe nella trasposizione italica i suoi rappresentanti migliori e più originali presso la Magna Curia di Federico II di Svevia. In essa trovò posto una vera e propria «scuola» poetica (nel senso di circolo fecondo di intellettuali in rapporto fra loro), in cui la tradizione poetica francese venne fusa con influenze provenienti da varie culture, soprattutto quelle greca e araba, e dette vita a un modo di poetare nuovo che si espresse in un linguaggio aulico e purissimo, un siciliano di qualità davvero elevata. Tra i poeti della «scuola siciliana» hanno rilievo gli stessi Federico II e i suoi figli Enzo e Manfredi. Le poesie della scuola siciliana, insieme con il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi, sono tra i fondamenti della letteratura italiana.

16. Tre scene da un Tristan et Iseut di inizio XV secolo con un finale, diverso da quello tradizionale, che si apre alla riconciliazione: re Marco torna al capezzale di Tristano. Österreichische Nationalbibliothek, Vienna.

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17. Particolare di una miniatura che riguarda la formazione di Tristano, dal Tristan (1240-1250) di Ulrich von Türheim. Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera. 18. Particolare di una miniatura di un’edizione di inizio XV secolo del Parzival di Wolfram von Eschenbach (1170-1220). Universitätsbibliothek, Heidelberg.

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…E IN GERMANIA In Germania, l’esito più alto della letteratura cavalleresca si ha ai primi del Duecento con il Parzival di Wolfram von Eschenbach. Pur rifacendosi fedelmente al Perceval di Chrétien de Troyes, Wolfram gli premette due libri nei quali si narra la storia di Gahmuret, padre dell’eroe, e dell’infanzia del piccolo Parzival con la madre nella foresta di Soltane; inoltre nei quattro libri finali conclude la storia, che Chrétien aveva lasciato incompiuta. Con quello che molto probabilmente è un espediente letterario, l’alibi del libro del poeta provenzale Kyot che gli sarebbe fonte e guida – un poeta e un libro di cui non abbiamo altrimenti notizia alcuna –, Wolfram intreccia le vicende di Parzival con quelle di Klingsor e di Lohengrin e per un verso immette nell’Abenteuer del romanzo un soffio di spiritualità profonda e partecipata ben diversa dalla levità di Chrétien, per un altro modifica profondamente contesto e immaginario graalici, che nel poeta della Champagne avevano un tono e un colore essenzialmente cortesi e «celtici» (ma, sul supposto celtismo delle immagini e dei simboli di Chrétien, come si dirà, le polemiche infuriano tuttora), mentre nel poeta tedesco si assiste a una forte trasformazione orientale: ancorché d’un Oriente islamico, più propriamente arabo-persiano, largamente fiabesco. Nel Parzival, pur ispirandosi a motivi ancora e sempre tratti da Chrétien –

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sebbene da un altro romanzo, l’Erec et Enide –, Wolfram tesse un alto elogio dell’amore coniugale, mentre la dialettica chrétieniana è riletta in termini di più radicale opposizione tra missione spirituale e carattere mondano della cavalleria, tra una queste il cui oggetto è il senso dell’essere e della vita e un’aventure fine a se stessa. L’eroe viene posto sovente dinanzi all’errore e alla perdita del retto cammino: non solo, per pietà, evita di formulare ad Amfortas la domanda liberatrice relativa al suo dolore, ma giunge ad allontanarsi da Dio e a farsene nemico prima della redenzione, quando l’eroe porrà finalmente al Re Ferito la domanda liberatrice e redentrice. Il Re Ferito Amfortas guarisce d’incanto, mentre i cavalieri del Graal, in ginocchio, riconoscono in Parzival il loro nuovo, giovane re. La sacra reliquia, qui, non è la coppa che contiene l’ostia e che già contenne il sangue del Cristo, come in Chrétien, né è ancora il calice dell’Ultima Cena e di Giuseppe d’Arimatea: è una pietra preziosa, il lapsit exillis. Attorno alla definizione del Graal data da Wolfram si è scatenata una ridda d’ipotesi. L’accostare il lapsit exillis al lapis elixir, interpretabile come «pietra filosofale», potrebbe consentire un più stretto collegamento con la cultura arabomusulmana a carattere ermetico, che come abbiamo detto percorre l’opera di Wolfram. Segno di come ormai, in quest’epoca, la circolarità della cultura fra Oriente e Occidente sia un dato di fatto imprescindibile.

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19. Composizione della pietra filosofale, da un manoscritto arabo del XIV secolo. Biblioteca Riccardiana, Firenze. 20. Il cavaliere Wolfram von Eschenbach con il suo scudiero in una miniatura del Codex Manesse, inizio del XIV secolo. Universitätsbibliothek, Heidelberg.

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Capitolo XXIV

LA NUOVA ARTE FIGURATIVA

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LA RIVOLUZIONE DI GIOTTO La grande svolta figurativa della seconda metà del Duecento partì dalla scultura, legandosi soprattutto al nome e al magistero di Nicola Pisano (originario della Puglia, nella quale aveva certo assorbito il classicismo federiciano), attivo negli anni Sessanta del Duecento in Italia centrale. Il primo a tradurre in immagini le intuizioni plastiche fu Cimabue; a confronto con i pittori della precedente generazione, quali il fiorentino Coppo da Marcovaldo e Guido da Siena, la sua opera appariva già ampiamente slegata dalle forme bizantine che ancora avevano dominato nei decenni precedenti. I primi decenni del Trecento si aprono all’insegna di una duplice interpretazione dell’eredità di Cimabue.

1. Mosaici della cupola del battistero di Firenze attribuiti a Coppo da Marcovaldo. 2. Cimabue, Crocifisso. Museo di Santa Croce, Firenze. 3. Pulpito del battistero di Pisa, opera di Nicola Pisano, 1260.

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6. Giotto, Ascensione di san Giovanni. Cappella Peruzzi, Santa Croce, Firenze. 4. Giotto, Morte e Ascensione di san Francesco, cappella Bardi, Santa Croce, Firenze. 5. Giotto, Crocifisso. Tempio Malatestiano, Rimini.

Quella di Giotto per un verso, quella di Duccio di Buoninsegna per un altro. Giotto aveva lavorato con diverse commissioni tra Firenze, Assisi e Padova. Ma è al Giotto più tardo delle cappelle Bardi e Peruzzi in Santa Croce (1320-1325) che si deve guardare per comprendere l’innovazione «narrativa» della sua pittura. La commissione gli veniva da due delle più influenti e ricche famiglie fiorentine, in un periodo in cui la città era nel pieno della fase espansionistica, e la crisi ancora lontana. I soggetti scelti sono significativi: per la cappella Bardi alcune fra le storie di san Francesco, tratte dalla vita ufficiale scritta da Bonaventura; la scelta degli episodi si appunta su momenti della vita e della morte del santo: dalla scelta iniziale di povertà, con Francesco che si spoglia delle vesti dinanzi al vescovo di Assisi e al padre Bernardone, all’approvazione della Regola; dalla prova del fuoco dinanzi al sultano alla morte, con Francesco disteso nella bara e l’incredulo Girolamo che ricerca le stimmate; non mancano miracoli – l’apparizione di Francesco a sant’Antonio in una chiesa di Arles – e visioni, come quelle del frate e del vescovo di Assisi Guido; l’episodio centrale della vita di Francesco, le stimmate, è all’esterno della cappella, in alto. Collegati alle scene della vita, vi sono quattro riquadri di santi dell’Ordine. Nel complesso, quindi, siamo di fronte a un’interpretazione del significato dell’esperienza francescana – sia del fondatore che dell’Ordine – pienamente trecentesca, in cui gli aspetti carismatici e innovatori del movimento vengono accantonati in favore di una sua ridefinizione istituzionalizzata. Nella cappella Peruzzi la scelta dei temi si lega meno direttamente all’attualità, presentando affreschi con episodi della vita di Giovanni Evangelista e del Battista, in cui l’ispirazione naturalistica e al tempo stesso classicheggiante di Giotto

7. Duccio di Buoninsegna, Tentazione sul monte. The Frick Collection, New York.

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emerge in tutta la sua forza. Era una lezione che nei decenni successivi avrebbe trovato proprio in Santa Croce diversi seguaci. Con Giotto si può dire iniziato il superamento della visione figurativa medievale, passando dalla forma piatta delle figure ad essa propria a una realizzazione aperta e trasparente del piano attraverso il quale era possibile osservare uno spazio aperto. A fronte del classicismo naturalistico di Giotto, Duccio di Buoninsegna sviluppava un’ispirazione in grado di unire il retroterra italo-bizantino e neoellenico al gusto della miniatura francese, in questo mostrando un’adesione al gotico d’oltralpe – seppure dai tratti molto personali – certo più accentuata rispetto alle coeve tendenze. Tralasciando i giudizi di valore che in passato hanno voluto leggere nell’esperienza di Firenze una maggior vocazione alla «modernità» rispetto alla presunta arretratezza ideologica di Siena, è indubbio che l’adesione a forme figurative così diverse rappresentava una scelta stilistica e al contempo concettuale ben precisa, che andava di pari passo con le inclinazioni politiche e culturali delle due città. 9

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8. Simone Martini, Sogno di sant’Ambrogio. Cappella di San Martino, basilica inferiore di San Francesco, Assisi.

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ARTE SACRA, ARTE PROFANA Miglior seguace di Duccio fu il suo concittadino Simone Martini, il quale si rivelò con la commissione di una Maestà eseguita nel 1315 per il Palazzo Pubblico. La sua opera si lega idealmente alla realtà della Siena aristocratica, così lontana dalla Firenze borghese dei giotteschi: a influenzarlo erano la miniatura francese, gli ideali del mondo cavalleresco espressi da quella corrente per la quale è stato coniato il nome di gotico internazionale; non casualmente la sua attività di pittore condurrà Simone nelle due sedi che meglio erano in grado di esprimere la cultura cortese: la Napoli angioina e la corte papale di Avignone. I decenni finali del Trecento furono un momento di tumulti sociali e di tensioni religiose: da una parte abbiamo il tentativo dei ceti subalterni di guadagnare spazi politici, dall’altro confusi intrecci di esigenze spirituali di matrice differente, che vedevano convivere il misticismo con i primi tentativi di rinnovamento degli Ordini religiosi che sarebbero stati terreno di coltura per il sorgere delle Osservanze. L’insieme di queste tendenze, spesso divergenti, conferì talvolta alle realizzazioni artistiche di fine secolo un taglio per così dire popolare e didattico, che tuttavia preludeva all’apertura di una nuova, straordinaria stagione artistica. A partire dal Trecento si diffondono anche rappresentazioni, talvolta allegoriche, di soggetti profani, intesi a illustrare o celebrare momenti della vita politica dei comuni. Agli inizi del secolo nel salone del Palazzo del Podestà di Firenze Giotto aveva dipinto un affresco sul tema «Il comune ch’è rubato da molti» (G. Vasari), poi andato distrutto. Se ne conoscono grosso modo i contenuti: il comune era rappresentato come un sovrano in trono, protetto dalle quattro Virtù cardinali ma assalito da figure che ne insidiano il potere. È stato interpretato come un’immagine dell’alta borghesia di governo preoccupata di difendersi dagli altri ceti sociali, ma vista la collocazione nel Palazzo del Podestà potrebbe anche esser letto come una condanna delle parti. Più chiara l’interpretazione per l’affresco nella Sala della Giustizia nel Palazzo dell’Arte della Lana, del 1340 circa, sempre a Firenze. Qui è raffigurata una sorta di battaglia tra le quattro Virtù cardinali e i Vizi, al centro della quale si trova il console romano Bruto, simbolo della giustizia. È fiorentino anche il celebre manoscritto detto del «Biadaiolo», databile alla fine del terzo decennio del secolo, in cui le miniature narrano con grande realismo e gusto per la descrizione della vita quotidiana – impensabile nell’arte monumentale toscana del tempo – le vicende della carestia che negli anni precedenti aveva colpito larga parte della Toscana.

9. Simone Martini, Guidoriccio da Fogliano, 1335. Palazzo Pubblico, Siena. 10. Simone Martini, Vergine dell’umiltà, prima del 1343. Cattedrale di Notre-Damedes-Doms, Avignone.

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Ma gli esempi più significativi di questo genere di pittura ci vengono da Siena. Sulle pareti del Palazzo Pubblico nel 1314 vennero affrescati episodi della Resa di Giuncarico; nel 1335 è la volta del capolavoro di Simone Martini, dedicato a Guidoriccio da Fogliano, capitano dei senesi all’assedio di Montemassi, raffigurato a cavallo da solo, sullo sfondo di un paesaggio vuoto, interrotto solo dall’apparizione in lontananza di borghi fortificati. Alcuni anni più tardi, fra 1338 e 1340, ancora nel Palazzo Pubblico (Sala della Pace), Ambrogio Lorenzetti dette vita al più vasto ciclo pittorico profano di quei secoli: le composizioni – il Buon Go-

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11. Ambrogio Lorenzetti, Effetti del Buon Governo, particolare, 1338-1340. Sala della Pace, Palazzo Pubblico, Siena.

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verno, gli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, il Malgoverno e i suoi effetti – accostano rappresentazioni allegoriche delle Virtù (nel Buon Governo) e dei Vizi (nel Malgoverno) a scene di perfetto realismo in cui sono descritti paesaggi urbani e rurali, vivacizzati da momenti di vita quotidiana. A questi affreschi si accompagnava nella Sala dei Nove il Mappamondo, grande raffigurazione dei domini senesi, oggi purtroppo distrutta. Vi è poi un altro genere di affresco profano, pure a carattere pubblico, ma di natura del tutto diversa da quanto visto sinora: si tratta della cosiddetta «pittura infamante», che si configurava come un supplemento di punizione o come un elemento atto a dare pubblicità a un determinato atto criminoso. Potevano subire l’onta della pittura infamante i falliti con dolo, gli ufficiali corrotti, i malversatori, i falsari, gli assassini, i traditori. Spesso questa pena colpiva coloro che si erano resi responsabili di tradimento verso il comune, assumendo così un carattere pienamente pubblico. Oltre che a scopo celebrativo o polemico, nel Trecento i soggetti profani venivano affrescati anche per puro piacere estetico. Si tratta di raffigurazioni ispirate alla miniatura gotica francese, di ambientazione cortese. Più che altro, questi cicli venivano commissionati da famiglie patrizie per le proprie residenze. Nei decenni successivi, con l’accrescersi dell’interesse per la storia e l’arte classica, ai personaggi dei romanzi francesi o del Decameron si comincerà a preferire soggetti tratti dalle opere degli antichi o dai volgarizzamenti che di queste si facevano; Boccaccio, con le sue Genealogiae, rimase ancora un protagonista della cultura figurativa del tempo.

IL XV SECOLO Agli inizi del XV secolo la situazione della pittura non sembra differire sostanzialmente da quella trecentesca per quanto concerne la committenza (grandi famiglie, corporazioni, enti religiosi) e l’organizzazione del lavoro; i prodotti delle botteghe degli artisti hanno quindi una fruizione pubblica, così come era stato nei secoli passati. Tuttavia, almeno in alcuni centri urbani - non sempre necessariamente maggiori - nei quali per vari motivi le istituzioni e l’organizzazione del lavoro di tipo corporativo non si erano mai affermate in maniera decisa oppure erano state più facilmente superate, si affermavano nuovi tipi di committenza e di artisti, che si presentano più liberi da tradizioni e convenzioni; il restringersi del potere nelle mani di ristrette élites comportava che la fruizione delle opere d’arte potesse divenire un fatto del tutto privato, scisso dalla vita collettiva delle città. Contemporaneamente, la cultura umanistica prima, rinascimentale poi, vedono la nascita di una nuova concezione dell’artista che, se non è ancora del tutto slegato dalla tradizione collettivistica del lavoro in bottega (avranno questi esordi, come vedremo, tutte le figure di spicco del Quattrocento), comincia a proiettarsi con sempre maggior decisione verso una dimensione individualistica e una più precisa coscienza del proprio ruolo di intellettuale, che crea e dirige il gusto estetico e al contempo elabora una riflessione sul rapporto con l’antico e con i modelli dell’età classica che avrebbe travalicato l’ambito puramente artistico per dar vita a una morale e a una concezione del mondo almeno parzialmente nuove. Le arti figurative quattrocentesche si collocano dunque a metà strada tra innovazione e perpetuazione di modelli tradizionali; all’evoluzione del settore con-

12. Francesco del Cossa, Mese di aprile, particolare degli amanti nel trionfo di Venere. Palazzo Schifanoia, Ferrara.

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13. Piero della Francesca, Annunciazione, particolare del polittico di sant’Antonio. Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia.

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tribuisce anche un rinnovamento tecnico della pittura su tavola che si affermò in Italia dopo la metà del XV secolo, con il passaggio dalla pittura a tempera a quella a olio. L’esigenza di unire in uno stesso dipinto sfondi trasparenti e forme in primo piano più plastiche portò all’uso di tinte più acquose, dette «tempere magre», insieme con altre più dense e compatte, le «tempere grasse», in cui le sostanze colloidali erano di tipo oleoresinoso. Si raggiunse così pian piano la tecnica della pittura a olio (vegetale di noce o di lino), che, unito alla trementina, conferiva maggior lucentezza alle tele. Alle innovazioni nel campo della tecnica si aggiunsero però mutamenti ben più importanti sotto il profilo della concezione dello spazio figurativo. La cosiddetta «prospettiva» rivoluzionava infatti le modalità pittoriche – ma anche scultoree e architettonico-urbanistiche, come vedremo – in modo profondo. L’invenzione della «prospettiva» è attribuita al Brunelleschi, che, rifacendosi alla geometria euclidea, applicò alla raffigurazione pittorica alcuni princìpi dell’ottica; il quadro doveva essere il punto di intersezione piana della piramide visiva dei raggi che uniscono l’occhio dello spettatore all’oggetto. Tuttavia, nel campo

della pittura la «prospettiva» quattrocentesca vide il suo grande interprete in Piero della Francesca. Nell’ultimo periodo della sua vita Piero scrisse tre trattati di geometria e di prospettiva: il De quinque corporibus regolaribus, il De prospectiva pingendi e il De abaco. In essi chiarisce il suo punto di vista in materia pittorica, peraltro evidente anche dall’analisi delle sue opere: immagini fondate su una forte essenzialità monumentale, costruite su criteri geometrico-matematici rigorosi e resi vivi da un felice uso del colore che teneva in conto le variazioni cromatiche in base alla distanza del soggetto-oggetto nello spazio. Anche se il rapporto di Piero con l’arte classica, inteso tanto come ricerca programmatica di un nitore e di un rigore di fondo che ne caratterizzasse lo stile, quanto come ripresa di particolari specifici dell’arte antica, è un dato sottolineato spesso dai suoi critici, nel suo lavoro non mancano però forti agganci con temi e motivi dell’arte religiosa medievale.

14. Paolo Uccello, Presentazione di Maria al Tempio. Duomo, Prato.

IL RINNOVAMENTO ARCHITETTONICO Dal punto di vista teorico, la tesi umanistica d’una corrispondenza puntuale tra uomo e cosmo informa di sé anche l’arte e la scienza del XV secolo. Anche sul pia-

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15. Filippo Brunelleschi, Ospedale degli Innocenti, particolare della facciata. Firenze. 16. Filippo Brunelleschi, basilica di San Lorenzo, interno, 1420-1470. Firenze. 17. Leon Battista Alberti, Tempio Malatestiano, facciata, dal 1147. Rimini. 18. Frontespizio dell’edizione del 1535 del De architectura di Vitruvio.

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no filosofico-scientifico si abbandonano gradualmente (per quanto mai completamente) le antiche certezze aristotelico-tomistiche, e si impara a guardare la natura con occhio spregiudicato, in ciò sviluppando anche istanze già vive nella cultura due-trecentesca (per esempio nell’investigazione scientifica del francescano Ruggero Bacone e dei calculatores di Oxford). Indagine artistica e indagine scientifica sono anzi strettamente connesse, come si vede negli studi sulla prospettiva di Paolo Uccello condotti alla luce delle ricerche matematiche; oppure nei lavori architettonici di Leon Battista Alberti e di Filippo Brunelleschi, dove innovazione estetica e calcoli di statica coincidono; o ancora nelle appassionate domande che Leonardo da Vinci pone alla natura nell’ansia di strapparle segreti (sull’anatomia umana e animale, sul volo, sul comportamento dei liquidi e così via), che poi gli serviranno nella sua attività di pittore non meno che in quella d’ingegnere. Tra le varie arti, fu senza dubbio l’architettura a qualificare il rinnovamento quattrocentesco: essa andò con sempre maggior chiarezza riflettendo gli attenti studi che parecchi artisti-costruttori-architetti-ingegneri avevano perseguito al fine di ottenere nella rappresentazione e nella gestione degli spazi nuove soluzioni che tenessero presenti come modelli le opere classiche, attraverso le quali si cercava di raggiungere le perfezioni delle forme. L’architettura medievale, pur basandosi su una ricca circolazione di forme e di dati, e quindi su un’attitudine fondamentalmente eclettica rispetto alle soluzioni morfologiche e stilistiche, si fondava sulla larga e solida tradizione empirica delle corporazioni dei costruttori e otteneva soluzioni sovente senza dubbio mirabili attraverso calcoli ed espedienti tecnici che sembrano tuttavia costantemente basati sulla prassi; allo stesso modo l’impiego di simboli e di allegorie appare nei secoli XI-XIV ispirato a un ampio patrimonio interpretabile tuttavia con la massima libertà. Il cardine fondamentale dell’architettura rinascimentale appare al contrario quello di un’elaborazione teorica tesa alla realizzazione di forme ben programmate, studiate per l’uomo e a misura d’uomo: forme che trovavano in se stesse e non altrove – ad esempio in un sistema di riferimenti teologico-simbologici – la propria ragione di esistere. L’architettura rinascimentale tiene pertanto il rapporto tra monumento e contesto ambientale in una ben più profonda considerazione di quanto avvenisse nel medioevo: e in ciò si rivela funzionale ai sistemi oligarchici o signoriali, in prospettiva assolutistici, all’interno dei quali essa poté operare. La misura e le proporzioni architettoniche non sono più sufficienti a render conto della cifra specifica di un monumento, che risulta appunto esclusivamente leggibile all’interno di uno scenario, di un contesto pensato per esso; ne deriva che non esiste un’architettura rinascimentale che non sia legata all’elaborazione urbanistica dello stesso periodo; e che anzi, di più, architettura e urbanistica tendono vieppiù a coincidere. Il nuovo metodo di progettare piazze, chiese e palazzi era basato su un organico insieme di regole matematiche e geometriche le quali permettevano all’architetto di progettare la propria opera senza tuttavia essere obbligato anche a realizzarla: anzi, l’architetto si distingueva proprio in ciò dal suo collega medievale, nel non dover esser costretto a lavorare anche come un capomastro. Per quel che attiene all’altra connotazione tipica rinascimentale, cioè la «riscoperta dell’antico», si deve tener presente che la tradizione classica – mai davvero perduta nel mondo medievale – venne rinvigorita durante il XV secolo attraverso uno studio scrupoloso sul piano di quel che restava degli antichi monumenti, soprattutto romani, e della loro reinterpretazione sulla scorta di fonti letterarie, tra cui ebbe una fondamentale importanza Vitruvio, il cui trattato De architectura, venne rinvenuto in un codice cassinese tra 1414 e 1416 e, da allora vorticosamente circolato e citato, ottenne un’edizione a stampa nel 1486.

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Capitolo XXV

LA CRISI DEL TRECENTO LA FAME Il fatto che la crisi demografica del Trecento si sia manifestata attraverso la fame assai prima che attraverso la peste ha indotto a ritenere che la sua causa stia prima di tutto in un rapporto sfavorevole fra l’aumento della popolazione e quello della produzione. In assenza di una vera e propria rivoluzione nei metodi agricoli e nelle tecnologie, il massiccio aumento demografico dei secoli precedenti era stato reso possibile essenzialmente attraverso l’estensione delle superfici coltivate; ma verso la fine del Duecento ogni superficie disponibile era stata ormai dissodata, sicché la produzione cessò di aumentare. La popolazione, per contro, continuava a crescere: era quindi inevitabile che l’alimentazione peggiorasse, almeno per i ceti più sfavoriti. Nei primi due decenni del Trecento, il continente europeo dovette affrontare una fase di raffreddamento e di generale peggioramento climatico. Il freddo e l’umidità portavano malattie e fame, ed entrambe queste cose determinavano una destabilizzazione anche socio-economica particolarmente forte tra i ceti meno abbienti, già in una condizione generale di debolezza. Il primo sintomo delle difficoltà che minacciavano l’Europa è rappresentato dalla grande carestia del 1315-1317. Che alcune annate consecutive di cattivi raccolti debbano inevitabilmente far lievitare i prezzi e lasciare esposti alla fame i ceti meno protetti della popolazione è, naturalmente, un dato di fatto in qualsiasi economia preindustriale; anche la prospera Europa del XIII secolo non era stata immune da carestie. Queste tuttavia, quando si erano manifestate, avevano avuto generalmente un carattere locale; e lo sviluppo raggiunto dalla rete commerciale aveva permesso alle autorità, soprattutto cittadine, di ridurne gli effetti importando grano da altre regioni non colpite da cattivi raccolti, mantenendo così entro limiti accettabili l’aumento dei prezzi e la conseguente mortalità. La carestia provocata dai disastrosi raccolti degli anni 1315-1317 si caratterizzò invece proprio per la sua ampiezza, dal momento che, salvo singole regioni risparmiate dai capricci del clima, la maggior parte dell’Europa si trovò contemporaneamente in difficoltà. Un susseguirsi casuale di condizioni climatiche negative danneggiò i raccolti in modo tale da provocare una crisi di cui, per durata, gravità ed estensione, si era perso il ricordo. I prezzi dei cereali aumentarono di molte volte, provocando la morte di molte persone e moltissimo bestiame per gli effetti della denutrizione e delle malattie che essa portava con sé: nella città di Ypres, che contava 2025.000 abitanti, morirono in sei mesi, fra il primo maggio e il primo novembre 1316, 2.794 persone, ossia più di un abitante su dieci. 1

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1. Pieter Brueghel il Vecchio, Trionfo della morte, 1562 circa. Museo del Prado, Madrid. Dopo l’epidemia di metà XIV secolo, la peste continuò a imperversare in Europa a diverse ondate nel corso del XV e del XVI secolo, fino alla pandemia del 1630. 2. La Fame, particolare di una miniatura del Commento all’Apocalisse scritto nel 786 da Beato di Liébana. L’Apocalisse da cui è tratta questa miniatura fu realizzata nel 1047 su commissione di Ferdinando I di Castiglia e della moglie Sancha di León. Biblioteca Nacional de España, Madrid.

LA PESTE Tuttavia, fu un evento inatteso e imponderabile quello che determinò il tracollo del continente europeo. Nel corso del 1346, una grave epidemia di peste era scoppiata in Asia; nel 1347 essa venne trasportata in Europa, forse da navi genovesi che facevano la spola tra mar Nero e Mediterraneo cariche di grano

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XXV. LA CRISI DEL TRECENTO

XXV. LA CRISI DEL TRECENTO

che la popolazione del continente europeo ascendesse al 60% di quella che era stata due secoli prima, alla fine del Duecento; e sarebbe stato necessario attendere fino al Settecento perché i vuoti causati dal tracollo trecentesco si riempissero. Tanto per dare qualche cifra, in un campo nel quale le fonti rimasteci non consentono calcoli precisi, pare che la popolazione inglese nel 1348 arrivasse a 3.750.000 abitanti (secondo alcuni studiosi a 5.000.000), mentre nel 1430 giungeva appena ai 2.100.000-2.300.000 (con un decremento secondo le stime più ottimistiche del 44%, inferiore a quello peraltro registrabile in certe zone d’Italia, dove si arrivò a oltrepassare il 50%). A Firenze, la popolazione nel 1348 toccava forse i 100.000 abitanti; un secolo e mezzo più tardi non vi erano che, forse, 60.000 cittadini.

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3. Effetti della peste, miniatura dal secondo libro delle Croniche di Giovanni Sercambi (1348-1424). Archivio di Stato, Lucca. 4. Malati di peste, particolare della Bibbia di Toggenburg, 1411 circa. Staatliche Museen, Berlino.

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della Crimea. Si diffuse nel porto di Messina, poi in altre località tirreniche, per dilagare infine ovunque. Occorre precisare il carattere incerto, forse non particolarmente allarmante, delle prime battute della pestilenza: arrivata in Italia e nella parte occidentale del Mediterraneo nell’autunno del 1347, subì una sorta di «congelamento» invernale, poiché i mesi tra dicembre e marzo non sono idonei al proliferare degli agenti del contagio, soprattutto le pulci; indi riapparve di nuovo, per infierire a lungo e crudelmente, a partire dalla primavera. Dal marzo al maggio l’avanzata del contagio dalle coste verso l’interno si fece allucinante: e le disgraziate città che non ne erano state ancora toccate assistevano terrorizzate al suo progredire, si affannavano a cercar notizie, spiavano inquiete all’interno delle proprie mura la comparsa dei segni del male. La peste infierì per tre lunghi anni nel continente, tra la fine del 1347 e l’estate del 1350. Era dal VI secolo che in Europa non si aveva una così terribile pandemia; epidemie locali di malattie varie erano state sperimentate dalla popolazione europea durante i secoli XI-XIII, ma sempre con esiti, demograficamente parlando, blandi. Ora, viceversa, la violenza dell’epidemia e forse il suo incontrarsi con una popolazione indebolita da lunghi anni di carestie e talora ammassata in centri urbani nei quali l’igiene era molto precaria causarono una vera calamità continentale. Le fonti descrivono il rapido decorso della malattia, l’apparizione del sintomo principale, il bubbone, nella zona ascellare o inguinale; il passaggio dalla forma bubbonica a quella secondaria, polmonare, segnato dall’espettorazione sanguigna. L’Europa uscì dall’epidemia gravemente debilitata: in certe aree, come l’Inghilterra, pare che addirittura il 25% della popolazione perisse durante il suo corso; altrove – in certe zone della Francia, della Germania, dell’Italia stessa – i decessi giunsero al 30-35% e talora superarono questo alto limite. L’epidemia scomparve nel corso del 1350-1351; continuò tuttavia a serpeggiare per il continente, permanendo in esso allo stato endemico e ricomparendo a successive ondate durante i secoli XV e XVI fino alla successiva pandemia del 1630. Il ristagno demografico rimase grave, e forse alla fine del Quattrocento il livello della popolazione europea prese di nuovo a salire. In quel periodo si è calcolato

LA GUERRA Questa grave situazione, come abbiamo visto divenuta presto cronica, non deve essere imputata tutta e soltanto alla peste. Il Tre-Quattrocento rappresentò per l’Europa un duro periodo di guerre continentali che, non troppo sanguinose per i combattenti, si rivelavano rovinose per le popolazioni civili. Più che di scontri in campo aperto, queste guerre erano fatte di razzie, di saccheggi, di incendi di campi coltivati, d’interruzione di vie commerciali; esse costituivano un’emorragia continua di ricchezza e una causa costante di carestia e di epidemia per le condizioni che determinavano. La cosiddetta guerra dei Cent’Anni devastò larghe porzioni di territorio francese proprio a cavallo tra i secoli XIV e XV, con operazioni di guerriglia, razzie, assedi che ridussero la Francia alla disperazione e alla miseria. Molti contadini privi di sostentamento cercavano rifugio nelle città, dove almeno alcune istituzioni caritatevoli assicuravano loro un minimo di sopravvivenza giornaliera; ma questo afflusso di sventurati all’interno delle mura urbane minacciava i ceti subalterni cittadini, in quanto abbassava il costo del lavoro introducendo un sovrappiù di offerta di manodopera. Insomma, nelle città e nelle campagne del Trecento i più poveri – quando non si adattavano all’accattonaggio – erano oggetto di un malessere che la congiuntura (le epidemie e le frequenti guerre) accresceva. Da qui le molte rivolte che, anche se originate in campagna, non mancavano di dilagare nelle città, coinvolgendo di solito i diseredati e gli emarginati, ma talora anche frange più agiate e coscienti di piccoli artigiani e di produttori subalterni. Le campagne francesi furono a più riprese corse, tra il secondo e il sesto decennio del Trecento, da folle di pastoureaux (letteralmente «pastorelli»), i quali collegavano la loro tumultuosa volontà contestativa nei confronti dei ricchi e dei signori feudali a un’ansia di palingenesi collettiva che si ispirava all’Apocalisse e all’idea di una crociata che avrebbe purificato la Cristianità dai suoi nemici interni. Si faceva strada, in queste folle, la confusa idea cristiana – forse rinnovata dall’esperienza francescana, e senza dubbio tinta di colori ereticali – dell’elezione dei poveri: i miseri e i diseredati erano, in realtà, il «popolo eletto». Questi temi serpeggiavano nella rivolta dei contadini francesi detta jacquerie (forse dal nome burlesco jacques, che si dava ai lavoratori della terra), che tra 1356 e 1358 condusse al rogo di molti castelli. Ma non erano assenti neppure nella rivolta parigina del 1356, a capo della quale si pose lo stesso «prevosto» dei mercanti Étienne Marcel. Inoltre, lo spopolamento dell’Europa conseguente alle pestilenze e il susseguirsi di carestie rendevano obsolete le vecchie milizie cittadine e le cavallerie feudali.

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5. La Guerra, particolare di una miniatura del Commento all’Apocalisse di Beato di Liébana del 1047 (vedi fig. 2). Biblioteca Nacional de España, Madrid.

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XXV. LA CRISI DEL TRECENTO

Occorrevano milizie di mestiere, continuamente mobilitate e ben addestrate, che facessero della guerra un’occupazione permanente senza sottrarre con ciò forze al lavoro e alla produzione. Tanto più che né i regimi oligarchici, né quelli signorili gradivano che i ceti subalterni dei loro Stati fossero armati ed esperti in cose militari. Nacque in tal modo un’istituzione militare, e in un certo senso economica, nuova: la «compagnia di ventura». Si trattava in fondo di una specie di società commerciale, i componenti della quale erano armati ed esperti in cose di guerra. I governi desiderosi d’ingaggiare un esercito stipulavano con queste compagnie un regolare contratto detto «condotta» (da qui il termine «condottiero» a indicare i capi delle compagnie). Il loro ruolo nei conflitti fra le signorie italiane fu importante. Tuttavia, unici gruppi armati e organizzati militarmente in un mondo come quello italiano, ancora molto ricco nonostante la crisi socio-economica, essi

6. Disegno tardoquattrocentesco di un arciere inglese che impugna l’arco lungo, impiegato nella guerra dei Cent’Anni. Christ Church Picture Gallery, Oxford. 7. Disegno che descrive l’assedio di Calais nel 1426 da parte degli inglesi. Manoscritti di Warwick, 1484-1490. British Library, Londra.

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9. Paga dei mercenari, particolare dell’affresco giottesco della cappella di San Martino, basilica inferiore di San Francesco, Assisi. 10. Il sacerdote John Ball a cavallo va incontro a Wat Tyler, capo della rivolta dei contadini del 1381. British Library, Londra.

Mare del Nord

Lubecca Brema

Londra Rivolte urbane 1250-1290 1290-1340 1340-1375 1375-1400 Rivolte contadine

Bruges Calais Amiens Rouen

St-Malo

Parigi

Reno

Danzica

11. Rivolte contadine e urbane dalla metà del XIII secolo alla fine del XIV.

Gand

Colonia Doual Liegi Huy Coblenza Magonza

Magdeburgo

Norimberga

Provins Spira Strasburgo

Augusta

Zurigo Cahors 6

Da

nub io

Le Puy Milano

Beziers

Genova

Montpellier

Parma Venezia Bologna

Siena Toledo Cuenca

8. Il grafico mostra il calo della popolazione dal 1345 al 1410.

Cordova

Tortosa Barcellona Valencia

Firenze Perugia

Viterbo

Chieti Roma

Baenza Jaén

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Alicante M a r

M e d i t e r r a n e o

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XXV. LA CRISI DEL TRECENTO

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impedivano sostanzialmente l’instaurarsi di un qualunque sistema di pace duratura, che li avrebbe lasciati senza lavoro. In effetti, nell’Italia trecentesca e primo-quattrocentesca fu quasi impossibile stipulare paci durevoli: le compagnie, disoccupate, si davano al saccheggio e diventavano molto più pericolose di quanto lo fossero in guerra. Arruolare una compagnia di ventura equivaleva pertanto, per qualunque governo, a pagare una sorta di tassa a questi soldati di professione (nacque allora il termine di «soldato», derivante da «assoldato», cioè mercenario) per impedire che essi si dessero a eccessi.

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LE CONSEGUENZE ECONOMICHE Il decremento demografico si rifletté anzitutto sulle campagne, dove andò tuttavia di pari passo con un movimento profondo di ridefinizione della proprietà agricola e del mercato dei prodotti e dei salari. Il fenomeno più vistoso che in questo campo si determinò fu senza dubbio quello dei «villaggi abbandonati» (lost villages in Inghilterra, Wüstungen in Germania, villages désertés in Francia). Si tratta di insediamenti, di solito nati in zone impervie (montagne, margini di paludi, aree poco fertili) nelle quali la coltivazione era difficile ma resa necessaria dalla forte pressione demografica dei secoli XI-XIII: ora viceversa la crisi demografica aveva aperto grossi vuoti nelle terre migliori, quelle di pianura o di mezza collina, e quindi i villaggi in area disagiata vennero abbandonati. Intanto, però, la crisi demografica aveva determinato il crollo dei prezzi dei cereali, mentre – a causa del diminuito numero dei contadini – il costo della manodopera era salito. Ciò consigliava una riconversione delle terre un tempo destinate alla coltivazione dei cereali: ora, si rivelava più remunerativo coltivarvi piante a usi «industriali» (canapa, lino, luppolo, piante coloranti come la robbia e il guado, e così via) oppure ridurle a pascolo per animali da allevamento. Anche le signorie fondiarie passavano momenti difficili. Caduta dei prezzi dei cereali e lievitazione dei costi della manodopera ne tagliavano i redditi, minacciati anche dalla svalutazione della moneta che colpiva le rendite incassate in danaro liquido. Si profilò pertanto, in tutta l’Europa, una diffusa tendenza da parte di piccoli proprietari terrieri a vendere le loro proprietà, il che causò un concentrarsi della terra e delle ricchezze fondiarie in un più limitato numero di mani, mentre i grandi proprietari terrieri si volgevano sempre più alla conduzione indiretta dei loro beni fondiari; li cedevano in affitto oppure, come accadeva per esempio in Toscana, dietro stipulazioni di uno speciale contratto, detto «mezzadria», che prevedeva la spartizione dei raccolti tra proprietario e lavoratore del fondo. È possibile che dietro tale atteggiamento, diffuso tra i ceti abbienti del Tre-Quattrocento, si debba leggere un processo profondo di lenta estraniazione dalla terra di un gruppo dirigente che preferiva abitare nelle grandi città o nelle vicinanze delle corti dei sovrani e godere dei frutti di rendite fondiarie piuttosto che curare direttamente i suoi possessi agricoli. Il fenomeno dell’allontanamento dei ceti dirigenti dalla terra non è tuttavia generale nell’Europa del tempo. In certe zone, anzi – ad esempio in Italia meridionale, in Spagna, in Europa orientale –, i signori locali si radicarono ancor più fortemente al centro delle loro aziende agricole, e il decremento demografico li indusse ad accentuare le pretese e a gravare ancora di più la mano sui contadini, che dovettero così pagare per intero il peso della crisi. Ciò si verificava in genere in aree che non avevano sviluppato né una vera e propria civiltà urbana, né un ceto protoborghese. Anche nelle città i primi segni della crisi che stava arrivando si mostrarono ben presto, anzitutto sotto forma di un ristagno nella produzione e dello smercio di

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certi prodotti (soprattutto quelli tessili) e nel conseguente stallo dei rapporti fra la grande moneta d’oro (strumento dei traffici internazionali) e le monete d’argento o di metallo più vile che costituivano il materiale di ordinario pagamento dei salari. Fino al 1320 circa, tale rapporto si era andato qualificando nel senso di una crescita costante del valore dell’oro, segno di una sostanziale buona salute dei traffici internazionali; tra 1320 e 1340 questa tendenza si andò invertendo, il che causò non pochi disagi. Intanto, una serie di grossi prestiti concessi dalle banche fiorentine (delle famiglie Acciaioli, Bardi, Peruzzi ecc.) ai sovrani europei, e mai restituiti, provocava un susseguirsi di fallimenti bancari, a loro volta destinati a tradursi in gravi dissesti per le medie e piccole imprese mercantili che a quelle grandi banche avevano affidato la gestione dei loro capitali. Fallimenti a catena, svendite di beni mobili, nuovi concentramenti di ricchezza e generale impoverimento furono gli esiti di un ristagno economico-finanziario che era profondamente collegato alla crisi generale.

12. Hieronymus Bosch (1453-1516), Adorazione dei Magi, 1485-1500 circa, particolare: in primo piano una casa abbandonata, sullo sfondo la florida città. Museo del Prado, Madrid. 13. Contabili al lavoro con i libri mastri, da un codice miniato conservato alla Bibliothèque Royale Albert Ier, Bruxelles. 14. Andrea del Castagno (1421-1457), Niccolò Acciaioli, 1449-1450 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze.

RIFLESSI CULTURALI Un diffuso sentimento religioso, l’idea di una giustizia non più soltanto celeste, bensì anche immanente, il sorgere di una problematica legata al tema evangelico dell’uguaglianza: questi i confusi, ma robusti elementi d’una religiosità collettiva che già profilava il sorgere di quella che nel mondo moderno siamo abituati a definire la «questione sociale». Senza dubbio, si trattava di una religiosità disordinata e animata da impulsi irrazionali. La congiuntura aveva seminato il terrore: la gente non riusciva a spiegarsi il perché del susseguirsi delle annate cattive, delle epidemie, delle guerre, delle notizie terribili che di tanto in tanto la raggiungevano (come quelle relative a strani fenomeni celesti, che le cronache sovente registrano, o all’avanzare dei turchi nella penisola anatolica e dei tartari nel sud della Russia). La risposta

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XXV. LA CRISI DEL TRECENTO

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15, 16. I tre vivi (15) e i tre morti (16), dal Salterio di Bona di Lussemburgo di Jean Le Noir (attivo tra 1335 e 1375). Pittura su pergamena, anteriore al 1349. The Metropolitan Museum of Art, Cloisters Collection, New York. 17. Imago mortis, disegno da un libro illustrato del 1493.

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più immediata stava in un’azione particolarmente energica del diavolo e delle forze del male tese a infliggere ai fedeli prove più dure in coincidenza con l’approssimarsi della fine del mondo, che sarebbe stata annunziata secondo la tradizione apocalittica dal rivelarsi dell’Anticristo. Questa sensibilità religiosa imbevuta di paura, e in parte favorita anche dai predicatori popolari, che se ne servivano per incrementare le donazioni alla Chiesa e l’acquisto di indulgenze, si contava anche nella letteratura e nell’arte del tempo, con i suoi «Trionfi della Morte», le sue «Danze macabre», i suoi «Incontri dei morti con i vivi»: temi paurosi, che mostrano come in realtà questa crisi fosse profonda, tutto sommato una crisi di crescita. Le popolazioni del Trecento avevano, o almeno mostravano, una paura della morte ignota nei secoli precedenti: e ciò senza dubbio perché, negli anni della crisi, la morte è più drammaticamente presente nella società; ma anche perché, intanto, si è imparato a vivere meglio e ad affezionarsi quindi maggiormente all’esistenza. La religiosità del tempo si esprimeva del resto, da parte di molti, nell’adesione a gruppi eterodossi come i «fraticelli», che propugnavano una Chiesa più spirituale e libera, quindi, dalle mondanità; ma soprattutto nel proliferare di confraternite laicali di devozione, all’interno delle quali si pregava, si facevano pellegrinaggi, ci si flagellava in segno di penitenza (famosa restò la cosiddetta «devozione dei Bianchi» del 1399), ma si compivano anche numerose opere di bene, come elemosine e fondazioni di ospizi per i poveri, gli ammalati, i fanciulli abbandonati. Il sentimento religioso, insomma, offriva anche una prima, seppur incompleta risposta alla «questione sociale».

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Il nuovo clima devozionale presiedette anche alla nascita, specie in Italia e in Fiandra – cioè nelle aree più popolose d’Europa –, di un modo diverso d’intendere la stessa esperienza mistica: la devotio moderna, che ebbe rappresentanti come Brigida di Svezia, Caterina da Siena, Enrico Suso, Tommaso da Kempis, e che si caratterizzava per un’adesione meno liturgico-formale ma più intima, più immediata, alla religione avvertita essenzialmente come valore umano. In questo clima nacque quello che rimane forse il più celebre trattato di meditazione cristiana di qualunque tempo, l’Imitazione di Cristo (generalmente attribuito allo stesso Tommaso). Nacquero o si intensificarono anche alcuni culti, come quello per san Sebastiano, considerato protettore dalla peste.

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18. Andrea del Bartolo (1460-1524), particolare dell’altare portatile con santa Caterina da Siena. Galleria dell’Accademia, Venezia. 19. Vincenzo Foppa (1427-1515 ca.), Martirio di san Sebastiano, particolare, 1485 circa. Affresco staccato da Santa Maria di Brera. Pinacoteca di Brera, Milano.

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Capitolo XXVI

VERSO IL RINASCIMENTO

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UNA NUOVA ERA? La lunga e possente febbre sociale, economica e spirituale che aveva sconvolto la società europea del Trecento non mancò comunque di provocare una risposta da parte dei ceti dirigenti: risposta che si configurò come un vero e proprio riassetto economico e produttivo e del quale la concentrazione dei beni fondiari in un numero minore di mani, e quindi la riduzione numerica della piccola proprietà agricola, è solo un aspetto. Dopo i grandi fallimenti a catena degli anni Quaranta, le case bancarie impararono a darsi una struttura più flessibile, in modo che il fallimento di una qualche filiale non comportasse il cedimento dell’intero complesso. Inoltre, il monopolio della produzione tessile, fino a metà Trecento tenuto dai fiamminghi (anche in Toscana ci si accontentava in genere di rifinire e tingere le stoffe fiamminghe), tese a lasciare spazio a Inghilterra, Paesi Bassi, Italia. Si facevano intanto largo anche attività «industriali» dislocate ora non più in città, bensì in campagna, dove la manodopera era più docile e a miglior mercato: esse sfruttavano soprattutto i corsi d’acqua, ed erano quindi essenzialmente la tessile, la metallurgica, la cartaria. In relazione alla ridefinizione agricola, con la riduzione degli spazi destinati ai cereali a vantaggio di piante «industriali», anche la manifattura tessile gettò ora sui mercati non soltanto panni di lana, ma anche tele di lino e di canapa, sollecitata anche da una nuova moda che imponeva camicie e sottovesti. Crebbe altresì di parecchio la domanda della seta, mentre si sviluppò in modo decisivo la manifattura del vetro. Insomma, si ha la sensazione che dopo la metà del Trecento la popolazione europea, per diminuita e impoverita che fosse, consumasse globalmente di più: il volume delle merci viaggianti aumentò, e crebbe il volume di quelle cosiddette «povere» (vini, prodotti alimentari in genere, stoffe): il che impose l’uso di nuovi tipi di nave, adatte a stazze più forti e tali da reggere alla navigazione oceanica in quanto, nel frattempo, i porti del Baltico e del mare del Nord avevano aumentato la loro importanza. Nacque così la nave da carico di tipo oceanico per eccellenza, l’alta e panciuta «cocca», in grado di trasportare grosse quantità di merci. A fronte di questi progressi nel campo del commercio e della manifattura, si inauguravano o si perfezionavano gli strumenti della contabilità e del credito: la «partita doppia», la «lettera di cambio» e così via. Il surplus di queste attività veniva in parte anche reinvestito nella proprietà fondiaria: in questo modo, si andò facendo strada, specie in Italia, un ceto imprenditoriale e dirigente nuovo, che era contraddistinto da connotati ormai «capitalistici», ma che al tempo stesso conduceva un tipo di vita nobiliare, in parte addirittura imparentandosi con famiglie di antica nobiltà feudale e riscoprendo e rivalutando tradizioni nobiliari. Si era dunque all’alba di una nuova era? Il termine «Rinascimento» è entrato nel lessico culturale italiano come calco sul francese Renaissance, coniato nell’Ottocento dallo storico francese Jules Michelet a qualificare il periodo del-

1. Hans Memling (1433-1494), Tommaso Portinari, 1470-1472. The Metropolitan Museum of Art, New York. 2. Beato Angelico (1395-1455), Trittico di Perugia, 1437, Pinacoteca Vaticana. Nel dipingere una scena della vita di san Nicola, l’Angelico ci consegna l’immagine di un porto del Quattrocento. 3. Piero di Crescenzi (1230-1320), Livre des profits ruraux, Bruges, 1470. Morgan Library & Museum, New York. Nella miniatura i lavori agricoli si svolgono sotto gli occhi attenti di un fattore.

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XXVI. VERSO IL RINASCIMENTO

XXVI. VERSO IL RINASCIMENTO

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la prima età moderna corrispondente grosso modo al XVI secolo (ma in parte già avviato nel secolo precedente) e in cui – dopo la parentesi di torpore e di barbarie del «medioevo» – sarebbero rinate civiltà, cultura, arte antiche, animate naturalmente da un soffio innovatore. Sebbene questo schema sia oggi ampiamente superato, non v’è dubbio che, già dagli ultimi decenni del Trecento e poi nel corso del Quattrocento, molte cose nella vita e nella cultura europee mutarono profondamente.

4. Piero di Cosimo (1462-1521), Venere, Marte e Amore, particolare, 1490 circa. Gemäldegalerie, Berlino. 5. Foglio di un’edizione del 1460 dell’Eneide di Virgilio. Bibliothèque Nationale de France, Parigi.

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LA CULTURA UMANISTICA Si è abituati a definire «umanistica» la cultura italiana del Quattrocento, caratterizzata da una volontà di distacco rispetto alle tradizioni medievali e da un rapporto privilegiato con la civiltà classica greco-romana, intesa come modello al quale ispirarsi, anche se non da imitare pedissequamente; e nell’umanesimo si è abituati a vedere il momento preparatorio del Rinascimento. Termini come umanesimo, umanista e umanistico sono naturalmente moderni: essi hanno tuttavia la loro radice primaria nel culto delle humanae litterae, cioè della cultura propriamente filosofica e letteraria maturata soprattutto nella Roma della cosiddetta «età aurea», vale a dire tra I secolo a.C. e I secolo d.C.; la ricerca di un modello stilistico preciso – che era anche modello etico – implicava una scelta e degli scarti. Insieme con la restaurazione di una lingua latina letteraria più bella e corretta – la lingua di Cicerone e di Virgilio –, si guardava evidentemente ai valori morali e politici che gli autori della latinità «aurea» avevano proposto. Conseguentemente ci si ispirava a un ideale umano di moderazione e di serenità e a un ideale politico di aristocratica libertà che era del resto molto adatto a essere apprezzato dalle élites delle città italiane tre-quattrocentesche, le quali – non diversamente, almeno in apparenza, dalla Roma del I secolo a.C. – erano incerte tra forme di governo repubblicano e soluzioni signorili-principesche. Al di là delle premesse ideali e delle realizzazioni intellettuali dell’umanesimo, la nuova cultura non fu priva di compromessi. Anzitutto, con le strutture gerarchiche e dogmatiche della Chiesa. Gli umanisti sono sovente sacerdoti, e

pongono le loro conoscenze anche al servizio della fede; la loro stessa investigazione scientifica non giunge mai – almeno esplicitamente – a intaccare il dogma religioso. Anche il rapporto tra virtus e fortuna finisce con l’esser vissuto in modo del tutto antifatalistico (dal momento che fatalismo e predestinazione sono valori contrari al dogma cristiano dell’onnipotenza di Dio e del libero arbitrio dell’uomo), come un’esaltazione volontaristica delle migliori doti umane: l’intelligenza, l’audacia, la sapienza. Il continuo riferimento alla mitologia antica, indispensabile in una letteratura e in un’arte che si giustificano attraverso il modello classico, si accorda con il cristianesimo attraverso la lettura allegorica dei simboli e dei miti, che rinvia regolarmente a valori cristiani. Non mancano, certo, voci rigoristiche contro il «paganesimo» della moda umanistica: esse avranno fortuna nel secolo successivo e saranno elemento non di piccolo peso nella diffusione della Riforma luterana. Ma, in pieno Quattrocento, si può dire che gli stessi papi e perfino molti spiriti pii aderiscano senza problemi di coscienza alla moda e ai valori culturali che essa suggerisce. Inoltre, il lavoro degli umanisti non è né gratuito, né disinteressato. Al contrario, proprio in quanto artisti e studiosi sono talvolta persone di umile origine, essi necessitano di mezzi e di serenità sia professionali sia interiori, e si volgono dunque alla ricerca di mecenati e di protettori; che trovano, regolarmente, nei grandi principi del tempo. Una protezione, quella di tali personaggi, sovente generosa, ma non gratuita. Dal poeta e dall’architetto che egli protegge e finanzia, il principe si aspetta celebrità e gloria: la maggior parte delle opere d’arte del Quattrocento, le migliori incluse, è difatti costituita da opere celebrative fatte su commissione.

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L’ETÀ DELLE INNOVAZIONI Il pensiero umanistico è ricco pertanto di realizzazioni pratiche: raramente lo studioso è un puro intellettuale da tavolino, più sovente è anche artigiano, e nel suo lavoro arte e tecnologia s’incontrano. Il pittore quattrocentesco sa di matematica poiché deve impostare le sue opere secondo le norme della prospettiva, ma anche di merceologia e di chimica in quanto deve acquistare le materie prime per fabbricare i colori e studiarne il comportamento a contatto con le tavole di legno o le mura degli affreschi; lo scultore conosce le norme della geometria, ma anche le regole dell’arte degli scalpellini e i segreti della struttura della pietra; il fonditore getta in bronzo statue, ma anche campane e cannoni. Il mondo intellettuale del Quattrocento non ha nulla di astratto e di libresco: è un mondo di artigiani che lavorano e vivono a contatto con la loro gente e i loro problemi. Questo legame fra cultura umanistica ed esercizio del potere spiega come, nel corso del Quattrocento, si sia affermata una serie di invenzioni e di scoperte che hanno cambiato la faccia di quello che fino allora era stato il mondo conosciuto. La polvere da sparo era conosciuta da molti secoli in Cina, dove però non serviva a scopi militari; in Europa era usata fin dal Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionare l’arma da fuoco sino a farne uno strumento d’assedio tanto efficace da obbligare l’architettura militare a inventare tutta una serie di nuovi accorgimenti protettivi. Anche la stampa era usata già da prima del Quattrocento per la riproduzione rudimentale di brevi scritti o disegni, che venivano incisi su matrici di legno e poi impressi su fogli: fu tuttavia a partire dal Quattrocento – e soprattutto da quando, intorno al 1455, Johann Gensfleisch, detto Gutenberg, ebbe inventato i caratteri mobili – che essa divenne un nuovo formidabile strumento di diffusio-

6. Antonio del Pollaiolo (1431-1498), Ercole e Anteo, 1475 circa. Galleria degli Uffizi, Firenze. 7. Il torchio di Gutenberg a Magonza.

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8. Particolare di un disegno che descrive la conquista della città di Rouen da parte di Enrico V dopo un assedio di sei mesi, nel 1418-1419. Manoscritti di Warwick, 1484-1490. British Library, Londra.

ne della cultura e della propaganda. Allo stesso modo, la cosmografia – rinnovata dagli apporti antichi riscoperti dagli umanisti – s’impose nel XV secolo non come scienza speculativa, bensì come strumento per l’ampliamento della terra e per l’arricchimento dei sovrani che ebbero l’audacia e la fortuna di promuovere i viaggi oceanici e le scoperte.

9. Pianta cinquecentesca del Castello Sforzesco di Milano.

NAVI E CARTOGRAFI La grande protagonista della navigazione mediterranea medievale era stata la galera o galea, ma fra Duecento e Trecento importanti innovazioni nel campo dei trasporti erano state determinate dall’accresciuto volume di merci circolanti per il continente europeo. In particolare, il peso rilevante dell’area baltica e delle coste della Fiandra quali esportatrici di prodotti vari, sia nel campo della pesca sia in quello manifatturiero (panni di lana), aveva determinato la necessità di elaborare modelli nautici nuovi rispetto alla galea, poco adatta al commercio e per nulla alla navigazione atlantica, in quanto incapace di tenere il mare in tempesta. Questi nuovi tipi nautici si chiamavano «cocca» o «caracca»: erano navi a grande stiva, a velatura ampia anche se non ancora maneggevole, ed erano in grado di percorrere, sia pure non lontano dalle coste, l’Atlantico tra Baltico e stretto di Gibilterra. Più o meno negli stessi decenni erano entrati in uso la bussola – forse importata dai cinesi attraverso gli indiani e gli arabi – e il sestante, che insieme servivano a determinare la posizione, favorendo il passaggio dalla navigazione costiera a quella d’alto mare; inoltre si erano fatti progressi notevoli nel campo della cartografia, abbandonando gli schemi cosmografici medievali e confezionando invece carte nautiche e descrizioni di coste e fondali, dette «portolani», molto precise. L’interesse geografico e cosmografico, nel XV secolo, era del resto parte del rinnovamento culturale di quel tempo. Nel 1410 tornava in circolazione in Occidente la Cosmographia di Tolomeo nella traduzione latina di Jacopo d’Angelo da Scarperia. Mentre i cartografi si trovavano a disposizione strumenti di navigazione sempre migliori, la critica cosmografica si esercitava su alcuni proble-

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mi fondamentali: quanto poteva essere largo l’oceano che separava l’Europa dall’Asia? Era possibile, quindi, giungere all’Estremo Oriente non già circumnavigando il continente africano e passando attraverso l’oceano meridionale, bensì navigando con la prua sempre rivolta a occidente? A lungo era prevalsa l’idea che il limite dell’oceano fosse invalicabile; per la difficoltà dell’impresa, e non certo perché si pensava che la Terra fosse piatta, un’idea di lontana ascendenza biblica, ampiamente superata da quando gli scritti aristotelici erano ricomparsi nel mondo europeo. Le cose mutarono con il Quattrocento: il fatto che fosse di nuovo in circolazione la Cosmographia di Tolomeo aveva riproposto la tesi del rapporto paritario fra terre emerse e acque, e pertanto allontanato di parecchio le coste della penisola iberica da quelle della Cina. Non si era adattato tuttavia alla tesi tolemaica il geografo e astrologo fiorentino Paolo del Pozzo Toscanelli, il quale aveva per conto suo elaborato un calcolo, relativo alla distanza tra penisola iberica e Cina, che configurava la faccenda in modo più ottimistico di quanto essa fosse esposta in Tolomeo. Il Toscanelli espose le sue teorie in una lettera al canonico lisbonese Fernam Martins, nel 1474; i due si erano conosciuti durante il concilio di Firenze e avevano evidentemente parlato a lungo della possibilità di raggiungere la Cina navigando dalla penisola iberica verso occidente.

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10. Carta nautica di Albino Canepa, XV secolo. Società Geografica Italiana, Roma. 11. Copia in facsimile dell’Atlante Tolemaico realizzato nel 1472 da una bottega fiorentina. Biblioteca Apostolica Vaticana.

OLTRE IL MEDITERRANEO Sul piano pratico le navigazioni esplorative presero inizialmente la strada dell’Africa, in vista d’una sua possibile circumnavigazione. Stava probabilmente in qualche rapporto con programmi di questo tipo la spedizione genovese dei fratelli Vivaldi, salpata da Genova nel 1291 per esplorare l’oceano oltre lo stretto di Gibilterra, e mai più tornata. Alle Canarie giungeva ai primi del XIV secolo il genovese Malocello; fra 1340 e 1350 si scopriva poi l’isola di Madera; e più tardi, fra 1427 e 1432, si toccava l’arcipelago delle Azzorre. Frattanto, cominciavano a circolare notizie relative alle ricchezze in oro del Sudan e del Mali: e iniziavano le spedizioni che tentavano di giungere alla foce del Niger. Nel 1487, il portoghese Bartolomeo Diaz varcava il capo di Buona Speranza,

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XXVI. VERSO IL RINASCIMENTO

XXVI. VERSO IL RINASCIMENTO

14. Battaglia navale del 1475 tra portoghesi e genovesi raffigurata su un ex voto della chiesa di San Pedro, Zumaia, Spagna. 15. Le vie delle grandi scoperte geografiche. 16. Incisione del 1585. Vi è raffigurata la città di Santo Domingo, fondata nel 1497 da Bartolomeo Colombo, fratello di Cristoforo, nell’isola di Hispaniola.

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Moscovia Azzorre 1413

Cristoforo Colombo Hispaniola 1493

Madeira 1419 Persia Impero mongolo Canarie Egitto 1341 Arabia Capo Bianco Senegambia 1445-46 Is. Capo Verde Goa Gambia Etiopi a 1450 Calicut 1490 A. Cadamosto Nuno Tristao Oce A. Fernandes Diogo Zaire an o Cao Angol a In 1482-86 di an Capo di Amerigo Buona Speranza Vespucci 1487 1499 Via della seta e itinerari dei missionari nel XV secolo Via verso Oriente intorno all’Africa Via verso Oriente attraverso l’Atlantico

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Cristoforo Colombo San Salvador 1492 Cristoforo Colombo Trinidad 1502-1504 O ce an

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13. Eduardo Cano de la Peña (18231897), Cristoforo Colombo nel convento della Rebida, dove espone il suo piano di navigazione. Museo del Prado, Madrid.

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aprendo così la via verso l’oceano Indiano; e nel 1497 salpava da Lisbona Vasco da Gama, che sarebbe giunto alle coste dell’India. Il grande organizzatore delle prime fra queste straordinarie imprese marittime era un principe portoghese, Enrico detto appunto «il Navigatore» (1394-1460). Egli aveva riunito nel sud del Portogallo, l’Algarve, un vero e proprio centro di studi al quale convenivano navigatori, astronomi e cartografi. Tuttavia, l’impresa più importante e rivoluzionaria del secolo partì non dalla circumnavigazione dell’Africa, bensì dal problema che si erano posti il Toscanelli e il Martins. Le notizie sulla biografia di Cristoforo Colombo non sono sempre e del tutto certe. Tra il 1478 e il 1479 egli si stabilì in Portogallo, dove sposò la figlia di un piacentino, Bartolomeo Pelestrello, che era divenuto governatore di Porto Santo, nell’isola di Madera. L’interesse per la cosmografia e l’idea che le coste asiatiche non distassero troppo da quelle europee risale a questo soggiorno: Colombo studiava gli antichi geografi, ma al tempo stesso interrogava i marinai e raccoglieva le leggende circa le isole occidentali. Nel 1488 lo scritto del Toscanelli al Martins lo rafforzò nelle sue idee. Ben presto, Cristoforo Colombo cominciò a inseguire l’idea di un viaggio che attraversasse l’oceano puntando verso occidente, anziché giungere all’Oriente attraverso la lunga e rischiosa circumnavigazione del continente africano. Mettendo insieme in modo abbastanza confuso notizie desunte da Plinio, dai geografi arabi, dal d’Ailly e dal Piccolomini egli aveva elaborato un sistema cosmografico coerente, ma caratterizzato da colossali errori: ad esempio, riteneva la Terra molto più piccola della realtà e calcolava la lunghezza dell’equatore pari a 30.000 chilometri circa (cioè un quarto circa della sua effettiva lunghezza); pensava pertanto che per raggiungere le isole di Cipango (il Giappone) sareb-

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12. Ritratto di Enrico il Navigatore (13941460). Particolare dei pannelli di san Vincenzo attribuiti a Nuño Gonçalves, prima del 1460. Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona.

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be stato sufficiente dalle coste iberiche un viaggio di appena 5.000 chilometri, mentre l’effettiva distanza in chilometri tra le due coste è di 20.000. Una commissione di dotti riunita in Salamanca esaminò accuratamente le tesi e le confutò una per una. Oggi, abbiamo modo di controllare come i dotti di Salamanca fossero – rispetto alla verità obiettiva dell’assetto dei continenti sulla superficie terrestre – molto più nel giusto che Colombo. Il fatto è che sia quelli, sia questo ignoravano la presenza di un continente intermedio posto tra Europa e Asia, e che si collocava non lontano dal punto nel quale Colombo sosteneva fossero le coste dell’Asia stessa. Questo particolare avrebbe a lungo mantenuto l’equivoco: finché visse, Colombo non ammise mai di avere sbagliato i calcoli, e che le terre che aveva scoperto non fossero una parte del continente asiatico. Dopo la riunione di Salamanca, le speranze di essere finanziato dai Re Cattolici, per Colombo, erano molto esigue: egli tuttavia mise in moto tutte le sue risorse e le sue conoscenze per indurre i sovrani ad aiutarlo. E alla fine riuscì: il 17 aprile 1492 fu firmata la convenzione di Santa Fe, con la quale si concedevano tra l’altro a Colombo i titoli di ammiraglio, viceré e governatore delle terre che avesse scoperto e conquistato. Il 3 agosto di quell’anno salparono dal porto di Palos tre navi di modesta grandezza (due «caravelle» e una cocca leggermente più grande), armate con capitali in parte spagnoli, in parte fiorentini; e il 12 ottobre Colombo giungeva in vista di un’isola che egli identificò come uno degli avamposti del territorio di Cipango e che gli indigeni chiamavano Guanahani, mentre egli le impose il nome di San Salvador (l’identificazione di quest’isola è incerta, ma si tende a ritenere si trattasse dell’isola di Watling nelle Bahamas). In successive spedizioni, Colombo arrivò a Cuba (da lui identificata con Cipango) e a Haiti, cioè all’isola di Hispaniola, che egli credette essere il Catai. Colombo compì tra 1492 e 1504 quattro successivi viaggi tra la Spagna e quello che ormai veniva chiamato il «Nuovo Mondo». La sua attività come viceré e come governatore non fu felice: non seppe mantenere la disciplina tra i coloni spagnoli, commise crudeltà contro gli indigeni, fu addirittura accusato di atti di ruberia. Tuttavia, con questo straordinario allargamento delle dimensioni del mondo conosciuto dagli europei è tradizione – non certo univocamente accettata, tuttavia ancor solida – aprire alla storia il periodo detto «età moderna».

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INDICE DEI NOMI E DEI LUOGHI Le occorrenze in tondo si riferiscono al testo, quelle in corsivo alle pagine dove compaiono le didascalie

Abbasidi 116 Abelardo 156, 157, 177, 178, 179 Abele 47, 115 Abissini 138 Abramo 190 Acciaioli, famiglia fiorentina 263 Acciaioli Niccolò 263 Acri (Akko) 204, 206, 225 Adalberone di Laon 39 Adalberto da Praga, santo 197, 198 Adam de la Halle 182, 182, 183 Adamo 45, 64, 169, 174 Adamo da Brema 22 Adige, fiume 112 Adriano IV, papa 75 Adriatico, mare 61, 112, 206 Aethelwold di Winchester, santo 52 Africa 20, 27, 82, 99, 119, 139, 140, 163, 166, 206, 218, 225, 271, 272 Agareni, v. saraceni Agnese, moglie di Enrico III 56 Agostino di Ippona, santo 20, 28, 32, 167, 186, 189 Ahlat 140 Alamanni 20 al-Andalus, v. Andalusia al-Aqsa 98 Alarcos (al-Arak) 83 Alarico 20, 22 Albania 199 Alberti Leon Battista 254, 254 Alberto Magno, santo 157, 227 Albi/albigesi 212, 213 Alcantara, Ordine di 83 Alcuino di York, beato 154 Aleppo 206 Alessandria d’Egitto 28, 29, 47, 118, 136, 207 Alessandro Magno 73, 74, 166 Alessandro II, papa 56 Alessandro III, papa 218 Alessio I Comneno, imperatore 140 Alessio III Angelo, imperatore 136, 137

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Alessio IV Angelo, imperatore 136, 137 Alfonso VIII, re di Castiglia 83 Algarve 84, 272 Algeciras 82 Algeri 161 Alghero, cattedrale 85 Alighieri Dante, v. Dante Alighieri al-Jaziri 167 al-Mamun 161 al-Mansur 83 Alpi 146 Alsnö, Statuto di 197 al-’Ula 139 Alvernia 140 Amalfi/amalfitani 119, 205 Ambrogio di Milano, santo 248 Amburgo 196, 197, 198 America 12, 13, 90 Amfortas 243 Amore, divinità 268 Anahita, dea 72 Anatolia 39, 49, 218, 263 Anchin, abbazia 52 Anchise 14 Andalusia 82, 83, 84, 119 Andrea II, re d’Ungheria 199 Andrea del Bartolo 265 Andrea del Castagno 263 Andrea di Bonaiuto 212 Angeli, dinastia bizantina 136 Angiò, dinastia francese 66, 67, 86, 88, 150, 200, 248 Angli 20, 32 Anglia, v. Inghilterra Anglosassoni 85, 114 Angoulême, Saint-Pierre 235 Anna, madre di Maria Vergine, santa 178 Anscario, vescovo 196 Anselmo, vescovo di Lucca 62 Anselmo da Baggio, v. Alessandro II Antelami Benedetto 144, 145 Anteo 269

Antiochia 31, 47, 118, 136 Antonello da Messina 28 Antonio abate, santo 48 Antonio da Padova, santo 48, 246, 252 Antonio del Pollaiolo 269 Apollo 172 Appia Traiana, via consolare 112 Apuleio 181 Aquileia 15 Aquisgrana 153, 154 cappella Palatina 152 concilio 52 Domkapitel 155 Domschatz 72 Dom St. Maria, Chorhalle 72 Aquitania 43, 55, 66, 66, 67, 88 Arabia/arabi 31, 82, 84, 99, 119, 128, 135, 138, 139, 139, 144, 157, 157, 160, 160, 165, 205, 206, 217, 219, 222, 227, 241, 242, 243, 243, 270, 272 Aragona 56, 82, 83, 84, 91, 91, 99 Arenberg 141 Arezzo 121, 124 Ariès Philippe 185, 186 Ario di Alessandria/arianesimo 28, 29, 30 Aristotele/aristotelismo 157, 157, 160, 161, 163, 175, 227, 253, 270 Arlecchino/Hellequin 183 Arles 37, 246 Armenia 31 Arno, fiume 112, 183 Arnolfo di Cambio 149 Aroldo, re di Danimarca 85, 196 Arpad, dinastia ungara 199 Arras 182, 232, 236, 237 Bibliothèque Municipale 182 Artù 238, 241 Asburgo 72, 78, 200 Ascanio 14 Ascoli Piceno 9, 230 Asi, divinità nordiche 22, 24

Asia/asiatici 20, 39, 99, 118, 119, 139, 163, 166, 207, 216, 217, 218, 219, 222, 224, 225, 257, 271, 271, 273 Assia 35 Assisi 147, 211, 214, 246 Porziuncola 214 San Francesco 87, 121, 124, 147, 147, 248, 261 Santa Chiara 210 Santa Maria degli Angeli 145 Assuero 182 Asti 9 Astolfo, re longobardo 53 Astrolabio 178 Asturie 82, 82 Atanasio di Alessandria, santo 29 Atene 157 Athelstan 150 Atlantico, oceano 270 Attila 20, 21, 23 Augusto, imperatore 14, 73, 168 Aurelia, via consolare 111 Austria 78, 200 Autun, Saint-Lazare 118, 145 Àvari 99 Averroè 157, 157 Avicenna 230 Avignone 248 Notre-Dame-des-Doms 249 Palazzo dei Papi 97 Avogaro Pietro Bono 228 Azzorre, arcipelago 271 Azzurri Francesco 9 Babele, torre 150, 150 Babilonesi 73, 138 Bachtin Michail 179 Bacone Ruggero 227, 228, 254 Baghdad 161, 217, 220 Bahamas 273 Baikal, lago 219, 220 Balcani 20, 112, 198, 211 Baldovino III, re di Gerusalemme 66 Baleari 84 Balkash, lago 219 Ball John 261 Balti 196, 201 Baltico, mare 196, 200, 201, 207, 267, 270 Bamberga 56 Diözesanmuseum 129 Staatsbibliothek 186

Banu Quraysh 138 Barbari 19, 20, 24, 32, 42, 69, 99, 100, 103, 219, 225, 238 Barberino di Mugello 230 Barcellona 82, 84, 85, 203 Museu Nacional de Catalunya 203 Bardi, famiglia fiorentina 246, 246, 263 Baresi 119 Baronio Cesare 16 Bartolomeo Anglico 129 Bartolomeo da Cremona 225 Baschi 82 Basilea, concilio 56 Basilio il Grande, santo 49, 49 Batu Khan 221, 222, 224 Baviera 62, 129 Bayeux, Centre Guillaume le Conquérant 57 Beato Angelico 169, 267 Beato di Liébana 163, 257, 259 Beatrice di Lorena 62 Beaugency, sinodo 66 Beauvais 39, 94, 150, 155, 222, 227, 227, 228 Becket Thomas, v. Tommaso Becket Beckford William 11 Beda il Venerabile, santo 33, 134, 238, 238 Beduini 138, 139 Beirut 118 Bela III, re d’Ungheria 199 Benedetto da Norcia, santo 47, 49, 50, 51, 52, 55, 97, 129 Benedetto Antelami, v. Antelami Benedetto d’Aniane 52 Benozzo Gozzoli, v. Gozzoli Bergamo 62 Berlino Gemäldegalerie 268 Staatliche Museen 258 Berlioz Hector 179 Berna, Bürgerbibliothek 93 Bernard di Ventadour 66 Bernardino da Siena, santo 215, 232 Bernardo di Clairvaux, santo 66, 98, 178 Bernardone, v. Pietro Bernardone Bernhard von Breydenbach 206, 207 Bernone, santo 55 Berry, duca di 42, 104 Betlemme 214 Bevagna 9 Bevignate da Perugia, frate 149

Bingen 64, 64, 65, 176, 189 Birger, conte 197 Bisanzio 53, 69, 70, 72, 135, 136, 138, 160, 198, 199, 205; v. anche Costantinopoli e Istanbul Bizantini 15, 31, 53, 69, 73, 104, 113, 119, 133, 135, 136, 137, 139, 144, 160, 169, 195, 199, 204, 205, 206, 207, 211, 218, 235, 245, 248 Bobbio, monastero 33 Boccaccio Giovanni 176, 239, 240, 250 Boemia 78, 79, 198, 200, 221 Boezio 25, 157 Bogolijubskij Andrej 203 Boileau Étienne 150 Bologna 228, 240 Museo Civico Medievale 90, 131, 158 Università 158, 158 Bona di Lussemburgo 264 Bonaventura, santo 246 Bonifacio, marchese di Toscana 62 Bonifacio (Wynfrith), santo 34, 35, 35, 239 Bonifacio VIII, papa 90, 90 Bonn 36 Bono Giamboni 230 Borges 9 Borgogna 20, 57, 67 Borgund 196 Boris, khan dei bulgari 198 Borte, moglie di Genghiz Khan 219 Boscherville 36 Bosch Hieronymus 108, 263 Bosforo 135, 207 Bosnia 199 Bourges, Saint-Étienne 60 Bouvines 88, 88, 89 Brandeburgo 79 Brema 22, 196, 197, 198 Brescia 62 convento di San Barnaba 158 Bressanone, duomo 81 Bretagna 67 Brigida di Svezia, santa 265 Brisighella 9 Bristol 176 Britannia 20, 34 Brueghel Pieter (il Vecchio) 179, 180, 182, 257 Bruges 267 Brunelleschi Filippo 252, 254, 254

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Brunetto Latini 124, 230 Bruto 248 Bruxelles, Bibliothèque Royale Albert Ier 35, 51, 90, 106, 189, 193, 232, 263 Buda 228 Bugia (Algeria) 161 Bukhara 216, 220, 222 Bulgaria/bulgari 99, 116, 198, 199, 211, 213, 220 Buona Speranza, capo 271 Buon Pastore 15 Burchard del Monte Sion 133 Burgos, Real Monasterio de las Huelgas, Museo de Telas Medievales 82 Burgundi 20, 24 Buscheto 144 Cadalo, antipapa 56 Caen, Saint-Nicolas 188 Cagliari, Santa Maria di Bonaria 85 Caifa 115 Caino 115 Cairo, Il 119 Geniza 119 Museo di Arte Copta 48 Calais 260 Calatrava, Ordine di 83 Calcedonia, concilio 31 Caledonia, v. Scozia Calibano 108 Cambridge 159 Corpus Christi College 204 St John’s College 129, 183 Campi Catalaunici (Châlons-sur-Marne) 21 Canarie, isole 271 Cancor, conte dei franchi 54 Canepa Albino 271 Cano de la Peña Eduardo 273 Canossa 40, 61, 62 Cantabrici, monti 82 Canterbury/Doruvernis 32, 86, 86, 104, 239 Canuto il Grande (Knut), re di Danimarca 84, 85 Capeto Ugo, v. Ugo Capeto Cappadocia 49, 49 Capua 93 Carinzia 200 Carlo IV, imperatore 78, 79 Carlo V, re di Francia 228 Carlo il Calvo, imperatore 53, 236

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Carlomagno 69, 70, 70, 72, 74, 81, 84, 88, 100, 144, 152, 153, 154, 195, 236 Carniola 200 Casimiro III il Grande, re di Polonia 200, 200 Caspio, mare 221 Cassia, via consolare 111, 112 Cassiodoro Flavio Magno Aurelio 25, 28 Castel Beseno 101 Castel d’Appiano 174, 176 Castiglia 83, 84, 91, 91, 159, 163, 257 Castorio, santo 151 Catai 273; v. anche Cina Catalogna/catalani 58, 82, 84, 85, 140, 203 Catari 210, 211, 212, 213, 215 Caterina da Siena, santa 265, 265 Cavalieri teutonici, v. Ordine teutonico Cecco d’Ascoli 230 Celso 27 Celti 19, 20, 33, 36, 42, 49, 66, 94, 173, 176, 232, 238, 242 Cesare 16, 19, 73, 172 Cesario di Arles, vescovo 37 Ceylon 218 Châlons-sur-Marne 21 Champagne 66, 67, 112, 114, 242 Champeaux 177 Chang Jiang (Fiume Azzurro) 217 Chantilly, Musée Condé 39, 42, 51, 94, 104, 210, 222 Chartres 114, 155, 156, 227 cattedrale 58, 60, 146, 147, 155, 157 Chaucer Geoffrey 239 Chiara Scifi, santa 210, 211 Childeberto III 114 Chrétien de Troyes 66, 94, 236, 237, 238, 242, 243 Chrodegang, arcivescovo di Metz 54 Ciacconio Alfonso 57 Cicerone 157, 268 Cimabue 124, 147, 245, 245 Cina 31, 160, 207, 217, 218, 219, 220, 224, 224, 225, 269, 271; v. anche Catai Cipango 272, 273; v. anche Giappone Cipro 98 Cisa, passo 112 Cîteaux 173 Città del Sole 9 Città del Vaticano

Biblioteca Apostolica Vaticana 14, 40, 53, 57, 62, 63, 88, 104, 121, 140, 159, 160, 198, 240, 271 Musei Vaticani, Stanza di Eliodoro 23 Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura 157 Pinacoteca Vaticana 186, 267 San Pietro 69, 76 Santa Maria in Turri 76 Civate, oratorio di San Benedetto 47 Cividale del Friuli, Museo Nazionale 185, 238 Clairvaux 66, 98, 178 Clark Kenneth 10 Claudio, santo 151 Clemente II, papa 56 Clemente Alessandrino 27 Clermont, concilio 133, 133, 140 Clitunno 172 Clotario, re di Francia 58 Cluny, abbazia 40, 47, 54, 55, 116, 160, 191 Colomba, santo 33 Colombano, santo 33, 33, 34 Colombo Bartolomeo 273 Colombo Cristoforo 225, 272, 273, 273 Colonia 79, 112, 134, 157, 159, 224 Dombibliothek 155 Walraff-Richartz Museum 216 Colonna Sciarra 78 Coluccio Salutati, v. Salutati Constable John 11 Cooper 12 Copenaghen 159 Nationalmuseet 20 Coppo da Marcovaldo 245, 245 Corbeil 177 Cordova 84 Corea 218 Corrado II, imperatore 55 Corrado III, imperatore 66 Corsica 206 Costantino 14, 28, 28, 29, 47, 53, 76, 114, 135, 135 Costantino IX Monomaco, imperatore 135 Costantinopoli 14, 21, 24, 25, 29, 47, 69, 73, 103, 112, 118, 131, 135, 135, 136, 136, 137, 140, 160, 199, 204, 206, 207, 207, 222; v. anche Bisanzio e Istanbul

Costanzo l’Africano 160 Cracovia 159, 200, 200 Cremona 124, 160, 160, 225, 227 Santa Maria Assunta 124, 169, 170 Torrazzo 124 Crescenzi, famiglia romana 54 Cressac 97 Creusa 14 Crichton Michael 9 Crimea 207, 258 Croazia 136, 199, 206 Cuba 228, 230, 231, 273 Cuiavia 200 Daci 19 Dagoberto I 114 D’Ailly 272 Dalmazia 136, 137, 199 Damasco 115, 118, 206 Biblioteca del Patriarcato siroortodosso 49 Damietta 118, 207 Dandolo Enrico, doge 137 Danehof, assemblea danese 197 Danimarca/danesi 84, 85, 114, 196, 197, 198, 239 Dante Alighieri 124, 130, 166, 230 Danubio, fiume 20, 112, 133, 134, 195, 224 Darmstadt, Hessisches Staatsarchiv 89 Degulleville 193 Diaz Bartolomeo 271 Digione 191 Dino Compagni 230 Diocleziano 151 Diogene Laerzio 227 Dionisio il Piccolo 169 Dioniso 15 Dio Padre 15, 20, 28, 29, 31, 36, 37, 39, 61, 65, 66, 73, 76, 78, 94, 115, 163 Dioscoride 161 Disibodenberg, monastero 64 Domenicani 37, 146, 147, 157, 212, 213, 225, 239; v. anche Ordini mendicanti Domenico di Guzmán, santo 209, 210, 211, 212, 212 Don, fiume 118, 207 Donato 157 Donizone, monaco 62 Dostoevskij Fëdor Michajlovi/ 179 Douai, Bibliothèque Municipale 33, 52

Drava, fiume 112 Dubois Pietro 90 Duccio di Buoninsegna 147, 246, 247, 248 Duero, fiume 82, 82 Dumézil George 39, 73 Duns Scoto Giovanni 157, 157 Dunstan, arcivescovo 52 Durand Gilbert 73 Earconbert, re di Kent 32 Ebridi, isole 197 Ebro, fiume 82 Eco Umberto 9 Edgar, re d’Inghilterra 52 Edoardo III, re d’Inghilterra 43 Edoardo di Woodstock 43 Edomiti 138 Efeso, concilio 31 Efrem il Siro, santo 49 Egberto, vescovo 122 Egidio da Roma, beato 158 Egitto/egizi 28, 31, 48, 48, 49, 73, 74, 102, 118, 119, 160, 161, 207, 229 Egnazia, via 112 Elba, fiume 22, 104, 112, 195, 200, 236 Elbing 194 Elena, madre di Costantino 28, 114 Eleonora d’Aquitania 66, 66, 67, 88 El Escorial, Real Biblioteca 82, 119 Eliade Mircea 73 Elisabetta, santa 214 Elisabetta di Boemia 79 Eloisa 177, 178, 179 Elsheimer Adam 102 Emicho di Leiningen 134 Enea 14 Enrico II, re d’Inghilterra 66, 66, 67, 86, 87, 87, 129 Enrico III, imperatore 55, 56 Enrico IV, imperatore 39, 40, 56, 62, 63, 134 Enrico V, imperatore 62, 270 Enrico VI, imperatore 93 Enrico X il Superbo, duca di Sassonia 198 Enrico il Leone, duca di Sassonia e di Baviera 89 Enrico il Navigatore, principe di Portogallo 272, 273 Enrico Suso, beato 265 Enzo, figlio di Federico II 241

Epiro 199 Ercole 172, 269 Erik V, re di Danimarca 197 Erode 187 Estremo Oriente 118, 217, 222, 223, 225, 271 Ethelbert, re di Kent 32 Etiopia 31 Etna 166 Euclide 157 Eude, conte di Parigi 88 Eufrate, fiume 166 Europa/europei 12, 14, 17, 20, 23, 32, 36, 39, 40, 49, 51, 52, 54-56, 59, 7074, 81, 81, 90, 91, 93, 94, 99-101, 103-106, 108, 112, 114, 123, 126, 130, 133-136, 140, 143, 146, 150, 155, 158, 159, 160, 160, 161, 166, 169, 173, 188, 195, 196, 198, 203, 207, 210, 212, 217, 218, 221-224, 228, 231, 232, 235, 235, 238, 257, 257, 258, 259, 262, 263, 265, 267273 Eusebio di Cesarea 27, 28 Eutiche 31 Eva 45, 169, 174 Evola Julius 9 Ezio 21, 22 Fær Øer 49 Faenza 128 Falco Giorgio 13 Fayyum 48 Federico I di Svevia detto il Barbarossa 9, 75, 76, 76, 77, 78, 204, 218 Federico II di Svevia 77, 78, 89, 89, 144, 158, 241 Fenhir, lupo 24 Fenici 138 Ferdinando I, conte di Castiglia 257 Ferdinando II, re d’Aragona 91, 91 Ferdinando III, re di Castiglia 163 Ferrara 240 Palazzo Schifanoia 251 Fiandre 33, 49, 67, 127, 265, 270 Fibonacci Leonardo 161 Ficino Marsilio 229, 230 Filippo II Augusto, re di Francia 88, 88, 89, 127 Filippo IV il Bello, re di Francia 90, 90 Filippo il Macedone 75 Finlandia 197, 202

279


Firenze 124, 144, 145, 147, 149, 149, 183, 228, 229, 230, 246, 248, 259 battistero di San Giovanni 145, 245 Biblioteca Laurenziana 131 Biblioteca Riccardiana 243 concilio 271 Galleria degli Uffizi 263, 269 Museo di San Marco 169 Museo di Santa Croce 245 Museo Nazionale del Bargello 129 Ospedale degli Innocenti 254 Palazzo dell’Arte della Lana 248 Palazzo del Podestà 248 Palazzo Medici-Riccardi 131 Ponte alla Carraia 183 San Lorenzo 254 Santa Croce 147, 147, 246, 247 Santa Maria Novella 147, 147, 212 Santa Trinita 12 Focide, monastero di Hosios Loukas 28 Foligno 9 Follett Ken 9 Fonte Avellana 55 Fontevrault, monastero 66 Fonthill Abbey 11, 11 Foppa Vincenzo 265 Fossanova, abbazia 146, 147 Francescani 37, 78, 146, 147, 211, 213, 215, 225, 232, 254, 259; v. anche Ordini mendicanti Fancesco da Barberino 230 Francesco d’Assisi, santo 87, 121, 124, 147, 172, 173, 188, 192, 209, 210, 211, 212, 214, 214, 215, 236, 241, 246, 246, 248, 261 Francesco del Cossa 251 Franchi 20, 24, 32, 33, 40, 53, 54, 72, 196 Francia 33, 49, 52, 64, 66, 67, 69, 81, 86, 88-90, 90, 91, 97, 104, 112, 127, 128, 134, 140, 158, 179, 210, 211, 213, 225, 225, 228, 232, 236, 237, 240, 258, 259, 262 Francigena, via 112, 116 Francoforte 79 Franconia 62 Freyer/Freyja 22 Frisia 33, 35 Frisinga 35 Frisoni 32 Fucino 172 Fulberto, zio di Eloisa 178

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Fulcherio di Chartres 141 Fulda 239 abbazia 35 San Michele 35 Gabriele, arcangelo 139 Gahmuret 242 Galeno 230 Galizia 82, 114, 116 Gallia 20, 24, 113, 121 Gallo, santo 33 Gama, v. Vasco da Gama Gand, Universiteitsbibliotheek 157, 228 Gange, fiume 166 Gargano, monte 114 Garonna, fiume 112 Gauthier de Metz 232 Gelasio I, papa 179 Geminiano, santo 63 Genghiz Khan 219, 220, 220, 221 Genova/genovesi 112, 119, 137, 203, 206, 206, 207, 257, 271, 273 Porta Soprana o di Sant’Andrea 123 San Lorenzo 174 Genserico 22 Gentile da Fabriano 186 Gerardo (Gherardo) da Cremona 160, 160, 227 Germani 15, 19, 19, 20-24, 31, 33, 36, 37, 42, 61, 64, 66, 70, 72-74, 76, 77, 78, 79, 86, 91, 94, 98, 104, 133, 134, 136, 176, 183, 193, 195, 232, 236, 238, 239 Germania 20, 22, 33, 35, 49, 54, 57, 64, 70, 72, 78, 79, 89, 112, 123, 128, 129, 134, 153, 159, 169, 195, 198, 200, 210, 232, 238, 242, 258, 262 Gerolamo, santo 27, 28 Gerusalemme 74, 83, 97, 98, 114, 114, 115, 116, 133, 134, 136, 140, 166, 166 basilica della Resurrezione 98 ospedale di San Giovanni 97, 98 Santo Sepolcro 99, 114, 115 Tempio 47, 98, 115 Gervais du Bus 37 Gesù Cristo 13, 15, 23, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 47, 47, 65, 73, 74, 94, 98, 135, 136, 141, 163, 167, 169, 185, 186, 188, 192, 197, 210, 214, 215, 238, 243, 265 Ghirlandaio Domenico 12

Giacomo Veneto 227 Giappone 221, 272; v. anche Cipango Giava 119 Gibilterra 270, 271 Gilabertus 144 Gioacchino, padre di Maria Vergine, santo 178 Giordania 115 Giordano, fiume 98, 140 Giotto 87, 121, 147, 186, 245, 246, 246, 247, 248 Giovanna d’Arco 213 Giovanni VIII, papa 53 Giovanni XXII, papa 78, 232 Giovanni Battista, santo 246 Giovanni da Montecorvino 225 Giovanni degli Eremitani 149 Giovanni del Pian del Carpine 225 Giovanni di Lussemburgo 79 Giovanni di Salisbury 227 Giovanni Evangelista, santo 97, 98, 145, 204, 246, 247 Giovanni Pisano 149 Giovanni Senzaterra, re d’Inghilterra 87, 88, 89 Giovan Pietro da Cemmo 158 Giove 37, 170 Giraldus Cambrensis 186 Girolamo, cavaliere 246 Gislebertus 145 Giuliano 27 Giuncarico 249 Giunta Pisano 144, 145 Giuseppe d’Arimatea 243 Giustiniano 77 Giustino, santo 27 Giusto de’ Menabuoi 164 Glasgow, University Library 239 Glastonbury 173 Gniezno 40 Gobi, deserto 217, 219 Goethe Johann Wolfgang 179 Goffredo III il Barbuto, duca di Lorena 62 Goffredo IV il Gobbo, duca di Lorena 62 Gog 221 Gomer 178 Gonçalves Nuño 273 Gormaz 82 Gotha, Forschungs- und Landesbibliothek 70

Goti 13, 24, 25, 82, 103, 235, 236 Gotland 37 Goussin de Metz 127 Goya Francisco 179, 180 Gozzoli Benozzo 131, 186, 209 Graal 9 Granada 84 Gran Bretagna 176, 232 Grande Muraglia 20, 217, 219, 222 Gran San Bernardo 112 Graziano 156 Grecia 28, 161, 168 Gregorio I Magno, papa 32, 32, 49, 51, 173, 189 Gregorio II, papa 35 Gregorio VII, papa 39, 56, 57, 57, 62, 63 Gregorio IX, papa 212, 232 Gregorio X, papa 224 Gregorio di Tours, santo 113, 238 Groenlandia 45, 197 Grossgründlach 129 Guadalquivir, fiume 84 Guanahani 273 Guascogna 66, 86, 88 Guelfo V, duca di Baviera 62 Guénon René 9 Guglielmo I, re di Sicilia 227 Guglielmo II, re di Sicilia 57 Guglielmo X, duca di Aquitania 55, 66 Guglielmo di Champeaux 177 Guglielmo di Nogaret 90 Guglielmo di Rubruck 225, 225 Guglielmo d’Ockham 78 Guglielmo il Carpentiere 134 Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia 56, 57, 67, 85, 85, 86, 86 Guido, vescovo di Assisi 246 Guido da Siena 245 Guidoriccio da Fogliano 249, 249 Guillaume de Degulleville 193 Guillaume de Tudèle 213 Guillaume de Tyr 66 Gutenberg (Johann Gensfleisch) 269, 269 Güyük Khan 222 Haiti 273 Halle, v. Adam de la Halle Hannover, Museum August Kestner 155 Hansa (Lega anseatica) 202 Hartmann Schedel 207

Hastings 57, 85 Heidelberg 39, 159 Universitätsbibliothek 43, 242, 243 Heinrich Johann 10 Hel, divinità infera 183 Hellequin/Hellekin, v. Arlecchino Himalaya 217 Hinton St Mary 32 Hiram 151 Hispaniola, isola 273, 273 Hohenstaufen, dinastia tedesca 77 Hsiung-Nu 20 Huang He (Fiume Giallo) 217 Hudson, fiume 12 Huesca 211 Hunayn ibn Ishaq 160 Igny, abbazia 173 Il Cairo, v. Cairo Ildebrando di Soana, v. Gregorio VII Ildegarda di Bingen, santa 64, 64, 65, 66, 176, 189 Île de France 67, 146 Ilmuqah, divinità 139 Impero latino d’Oriente 199 Impero romano 14, 16, 20, 30, 31, 33, 69, 72, 100, 133 d’Occidente 13, 20, 24, 25, 31, 53, 72, 103, 219 d’Oriente 21, 24, 31, 69, 72, 135 Impero romano-germanico, v. Sacro Romano Impero India/indiani 31, 119, 160, 161, 166, 166, 217, 218, 225, 270, 272 Indiano, oceano 118, 119, 272 Indo, fiume 39 Inghilterra 11, 12, 20, 32, 33, 35, 56, 66, 67, 81, 84, 85, 85, 86, 88, 89, 91, 128, 134, 150, 196, 199, 258, 262, 267 Innocenzo III, papa 83, 87, 87, 137, 197, 201, 210, 211 Innocenzo IV, papa 222, 224 Iona, isola 33 Ippocrate 160, 230 Ippolito, presbitero 47 Iran 72, 220 Irene, imperatrice 69, 69 Irlanda/irlandesi 32, 33, 49, 84, 114, 192 Irminsul, v. Yggdrasill Isabella di Castiglia 91, 91 Isacco Angelo, imperatore 136, 137

Isaia 141 Iside 181 Islanda 23, 45, 49, 108, 173, 197 Isotta/Iseut 237, 240, 241, 241 Isphahan 217 Israele 15, 133, 134 Istanbul, v. anche Bisanzio e Costantinopoli Santa Sofia 69, 135 Topkapi Sarayi Müzesi 139, 216 Istria 206 Italia 15, 16, 20, 21, 24, 25, 49, 53, 57, 61, 62, 69, 70, 71, 75, 78, 79, 103, 104, 105, 112, 116, 121, 123, 126128, 130, 144, 146, 148, 158, 159, 161, 169, 179, 210, 227, 232, 236, 239, 240, 241, 245, 251, 258, 259, 262, 265, 267 Iulius, dominus 41 Iuti 32 Ivan I di Russia 203 Ivrea 112 Jacopo d’Angelo da Scarperia 270 Jacopo da Varagine 151, 239, 239 Jean Le Noir 263 Jonas, pellegrino 114 Juan de Cuba 228, 230, 231 Juste de Gand 157 Karakorum 222 Kashmir 221 Kells 33 Keraiti 219 Kent/Cantia 32 Khorasan 216 Khubilai Khan 222, 222 Kiev 202, 203, 203, 221 Klingsor 242 Königswinter 36 Kwarezm 220 Kyot 242 Lafréry Antoine 116 Lancillotto/Lancelot 66, 94, 236, 237, 237 Lanfranco 63 Las Navas de Tolosa 83 Lattanzio 27 Lazzaro, povero 190 Lazzaro di Betania, santo 141, 239 Legnano 9

281


Le Goff Jacques 9, 146, 192 Leida, Universiteitsbibliotheek 101 Leiningen 134 Leonardo da Vinci 254 Leone I Magno, papa 21, 23, 53 Leone III, papa 69, 70, 72 Le-Puy-en-Vélay 114, 173 L’Estany, monastero di Santa María 58 Lettoni 201 Libano 49, 206, 218 Liegi, abbazia di San Lorenzo 51 Lille 89 Linguadoca 211 Lione 210, 232 Bibliothèque Municipale 66 Lisbona 272 Museu Nacional de Arte Antiga 273 Lituania/lituani 202 Liuthar 72 Loarre 99 Loche 177 Lohengrin 242 Loira, fiume 40, 67, 84, 88, 89, 104 Lombardia 61, 129, 210, 240 Londra/Londinium 10, 12, 33, 150, 204 British Library 43, 52, 66, 86, 89, 111, 112, 131, 191, 220, 236, 260, 261, 270 British Museum 32, 141 Royal Geographical Society 166 Longobardi 22, 25, 53, 53, 59, 62, 69 Lorena 62, 67 Lorenzetti Ambrogio 108, 249, 250 Lorenzo, santo 47, 51, 145, 174, 254 Lorenzo de’ Medici il Magnifico 12, 13 Lorsch, abbazia 54 Lotto Lorenzo 212 Lubecca 194 Lubin, santo 60 Lucano 14 Lucca 62 Archivio di Stato 258 Biblioteca 65 Lucio III, papa 210 Ludovico II, imperatore 76 Ludovico IV il Bavaro, imperatore 78, 79 Ludovico il Germanico, re della Francia orientale 236 Ludovico il Pio, imperatore 51, 52, 52, 196, 236 Luigi VI, re di Francia 66 Luigi VII, re di Francia 66, 66, 88

282

Luigi IX il Santo, re di Francia 150, 225, 225 Lullo Raimondo 152 Lussemburgo 78, 79, 200, 264 Lutero Martino 193 Luxeuil, monastero 33 Macedonia 24, 199, 199 Madaba 115 Madera, isola 271, 272 Madrid Biblioteca Nacional de España 257, 259 Museo del Prado 257, 263, 273 Museo Naval 118 Magdeburgo 16, 197, 197, 198 Maghreb 83, 119 Magi 74, 131, 185, 224, 229, 263 Magiari, v. Ungheria/ungari Magog 221 Magonza, cattedrale 35, 79, 112, 228, 230, 269 Maine, contea (Francia) 88 Maiorca 205 Malesia 119, 218 Mali 271 Malocello 271 Malta 98 Manciuria 219 Manerius 178 Manfredi, figlio di Federico II 241 Manfredi Girolamo 228 Manfredus di Monte Imperiale 160 Manica 76 Mantova 62 rotonda di san Lorenzo 145 Maometto, v. Muhammad Marbodo di Rennes 227 Marca Trevigiana 240 Marcel Étienne 259 Marchfeld 200 Marco, evangelista 124 Marco, re (Tristano e Isotta) 241, 241 Mare del Nord 45, 108, 173, 195, 267 Maria di Champagne 66 Maria Vergine, madre di Gesù 15, 31, 31, 51, 98, 114, 115, 129, 141, 172, 172, 173, 178, 178, 186, 186, 194, 203, 249, 253 Marib 139 Marienburg 201 Mario (Caio) 16

Marna, fiume 112 Marsiglia 203 Marsilio da Bologna 228 Marsilio da Padova 78 Marsilio Ficino, v. Ficino Marte 37, 145, 268 Martini Simone 248, 248, 249, 249 Martino di Tours, santo 240, 248, 261 Martins Fernam 271, 272 Marziano Capella 127, 152, 155, 157 Masovia 200 Matilde di Canossa 40, 61, 61, 62, 62, 63 Matthew Paris, monaco 112, 204 Mattia Corvino d’Ungheria 228 Maubuisson, abbazia 176 Maulbronn abbazia 143 Evangelisches Seminar 143 Mecca 138, 139, 139 Ka‘ba 138, 139 Medina (Yatrib) 139 Medio Oriente 31 Mediterraneo, mare 17, 45, 84, 85, 99, 103-106, 111, 113, 119, 139, 160, 163, 166, 195, 203, 204, 205, 206, 217, 222, 257, 258, 270, 271 Melchisedek 47 Melun 177 Memling Hans 194, 267 Mercurio 37 Meseta, altopiano 84 Mesopotamia 31 Messina 258 Metz 54, 93, 127, 232 Mezzogiorno 144 Michele, arcangelo 114, 170 Michele VIII Paleologo 137 Michele Scoto 230 Michelet Jules 267 Midi (Francia) 128, 211, 212 Milano 78, 112, 210, 228 Biblioteca Ambrosiana 161, 210 Castello Sforzesco 270 Museo del Duomo 185 Pinacoteca di Brera 265 Santa Maria di Brera 265 Mincio, fiume 21 Minerva 172 Minucio Felice 27 Moabiti 138 Modena 62 Archivio Capitolare 63

duomo 45, 169 Mohamed al-Khwarizmi 161 Moissac, Saint-Pierre 190 Monaco di Baviera Alte Pinakothek 194 Bayerische Staatsbibliothek 54, 194, 197, 242 Mongolia/mongoli 198, 200, 202, 218, 219-222, 220-222, 224, 225, 225 Monica, madre di Agostino 186 Monreale duomo 167 San Martino alle Scale 240 Montaperti 149 Montecassino, abbazia 39, 50, 51, 93, 160, 227 Montecorvino 225 Montefalco, San Francesco 209 Monteluco 172 Montemassi 249 Monte Sion 133 Monticelli Ottaviano 76 Montpellier, Bibliothèque de la Faculté de Médicine 227 Mont Saint-Michel 114 Montserrat 172 Monza, duomo 32, 71 Mosca 202, 203, 203 Mosè 28 Mosella, fiume 134 Muhammad (Maometto) 138, 139, 139 Muhammad Siyah Qalam 216 Münster, Universitäts- und Landesbibliothek 238 Muthar ibn al-Hasan 161 Nabatei 138 Nag Hammadi 28 Nantes 177 Napoli 157, 158, 205, 248 Naqsh-i Rustam 72 Narni 9 Narsete 72 Navarra 82, 83 Nemi 172 Nero, mare 118, 207, 221, 257 Nerthus/Njordhr 22 Nestorio/nestorianesimo 29, 31, 138, 218, 219, 224 Neuvy-en-Sullias 102 New York 12 The Frick Collection 11, 247

The Metropolitan Museum of Art 197, 267 The Cloisters (Metropolitan) 12, 12, 264 Morgan Library & Museum 173, 267 Niccolò II, papa 56 Nicea, concilio 24, 28, 29, 31, 47 Nicola, santo 186, 186, 267 Nicola di Lyra 158 Nicola (Niccolò) Pisano 144, 145, 149, 245, 245 Nicolò Moscardino 159 Nicostrato, santo 151 Niederdollendorf 36 Niger, fiume 271 Nilo, fiume 118, 119, 166 Nocera Umbra, necropoli 16 Nogaret 90 Noraduz 31 Norcia 97 Norimberga 207 Germanisches Nationalmuseum 113 Normandia 36, 56, 66, 67, 85, 85, 88, 114, 128 Normanni 56, 62, 74, 78, 84-86, 99, 136, 136, 144, 204, 205 Northmore Pugin Augustus Welby 12 Norvegia/norvegesi 23, 84, 173, 194, 196, 197 Novalis 16 Novgorod 29, 221 Santa Sofia 203 Ockham 78 Oder, fiume 84, 195, 197, 198, 200 Odino (Odhinn/Wotan) 21, 22, 23, 36, 37 Odoacre 24, 24 Ogödäi Khan 221, 222 Onon, fiume 219 Onoria 21 Onorio, imperatore 20, 22 Onorio III, papa 211 Onorio di Autun 163, 165, 166 Orapollo 229 Orcadi 49 Orda d’Oro 203, 207, 221, 225 Ordine templare 9, 98, 99, 213 Ordine teutonico 200, 201, 201, 202 Ordini mendicanti 37, 124, 146,

147, 211; v. anche domenicani, francescani Orfeo 15, 15 Origene 27 Osea 178 Ospitalieri/cavalieri di San Giovanni 97, 98 Ostrogoti 20 Otranto 12, 112 Ottocaro II, re di Boemia 200 Ottone I, imperatore 70, 197, 197 Ottone II, imperatore 40 Ottone III, imperatore 54, 72 Ottone IV di Braunschweig, imperatore 89 Ottoni, dinastia tedesca 197 Ovidio 14 Oviedo 82 Palazzo del Naranco 82 Oxford 78, 159, 254 Bodleian Library 160 Christ Church Picture Gallery 260 Pacomio, santo 49 Padova 78, 158, 240, 246 battistero 164 cappella degli Scrovegni 186 Palazzo della Ragione 149 Paesi Bassi 267; v. anche Fiandre Paganini Niccolò 179 Palatinato 79 Palermo Biblioteca Centrale 240 Palazzo Reale e cappella Palatina 57, 97 Santa Maria della Martorana 136 Palestina 48, 119, 161, 225 Pallet 177 Palma di Maiorca, Museu Diocesà 205 Palos 273 Pannonia 21, 151 Panvinio Onofrio 57 Paolino di York, santo 33 Paolo Diacono (Paolo Warnefrido) 238, 238 Paolo di Tarso, apostolo 47, 210 Paolo Uccello (Paolo di Dono) 253, 254 Parigi 88, 88, 113, 113, 150, 156, 157, 158, 176, 177, 228, 259 Bibliothèque de l’Arsenal 136, 176 Bibliothèque Nationale de France 37, 47, 85, 99, 113, 127, 133, 152,

283


155, 157, 160, 163, 179, 218, 220, 224, 236, 237, 268 Bibliothèque Sainte-Geneviève 178 Institut du Monde Arabe 118 Musée du Louvre 141, 157 Musée National du Moyen-Âge 129, 160 Notre-Dame 174, 188 Palazzo del Louvre 88 Sainte-Geneviève 177 Sorbona 78, 152, 158, 177 Parma 9, 56 battistero 145 Parzival (Perceval) 237, 238, 242, 242, 243 Passau 35 Patarini 210 Patrizio, santo 32, 33, 49, 192 Pavia 112 Biblioteca Universitaria 228, 229, 230 Pays de Vaud 232 Pechino 223, 225 Pelagio II, papa 47, 82 Pelestrello Bartolomeo 272 Pere Niçart 205 Péronne 127 Persia/persiani 19, 28, 31, 39, 73, 74, 138, 139, 160, 182, 217, 220, 224, 225, 242 Persico, golfo 217 Perugia 209, 267 Fontana Maggiore 149 Galleria Nazionale dell’Umbria 252 Palazzo dei Priori 149 Piazza IV Novembre 149 Peruzzi, famiglia fiorentina 246, 247, 263 Petra 139 Petronio Massimo 22 Piacenza 112 cattedrale 170 Pian del Carpine 225 Pianura padana 104, 106, 112, 123 Piasti, dinastia polacca 200 Piccolomini Enea Silvio (Pio II) 272 Pico della Mirandola 159 Piemonte 240 Pier Damiani, santo 55 Piero della Francesca 17, 51, 252, 252 Piero di Cosimo 268 Piero di Crescenzi 267

284

Pietro, apostolo 28, 45, 47, 53, 53, 54, 56, 76, 115, 136, 140, 210 Pietro II, re d’Aragona 83 Pietro Abelardo, v. Abelardo Pietro Bernardone 211, 246 Pietro il Venerabile, santo 160 Pietro Lombardo 158 Pietro Valdo 210; v. anche valdesi Pilato 197 Pio II, papa, v. Piccolomini Enea Silvio Pipino di Heristal 33 Pipino il Breve 53 Pirenei 82, 84 Pisa/pisani 119, 144, 160, 161, 203, 206, 207 battistero 245 duomo 145 Pitagora 157 Plantageneti 84, 86, 88, 150 Platone/platonismo 27, 155, 175, 188, 227, 228, 229 Plinio il Vecchio 155, 159, 170, 227, 272 Po, fiume 61, 62, 112 Poitiers, Bibliothèque Municipale 58 Poitou 88 Pollaiolo, v. Antonio del Pollaiolo Polo Marco 224 Polo Matteo 222 Polo Nicolò 222, 224 Polonia/polacchi 40, 198, 200, 200, 202, 203, 221 Pomerania 200 Pomerelia 200 Pompei, Villa dei Misteri 181 Pompeo Magno 16 Pontigny, abbazia 143 Porfirio 27 Portinari Tommaso 267 Portogallo 84, 272 Portomarín, San Giovanni 97 Porto Santo 272 Praga 79, 159, 197 cattedrale di San Vito 78, 79 Prato, duomo 253 Prete Gianni 218, 218, 224 Provenza 211 Prussia/prussiani 201 Przemyslidi, dinastia boema 200 Puglia 114, 144, 245 Putignano 181 Qara-Khitai 219

Quaratesi, polittico 186 Radegonda, santa 58 Raffaello Sanzio 23, 157 Ragnarök 24 Rashid al-Din 220 Ratchis, re longobardo 185 Ratisbona 35 Ravenna 20, 24, 25, 69, 121 battistero degli Ariani 30 mausoleo di Teodorico 24 Sant’Apollinare Nuovo 25, 121 San Vitale 47, 69, 152, 153 Rebida, convento 273 Reggio Calabria, Museo della Magna Grecia 28 Reggio Emilia 63 Reims 72 Saint-Rémy 94, 183, 190, 192 Rein, monastero 127 Renato d’Angiò 191 Rennes 227 Reno, fiume 20, 104, 112, 129, 133, 134, 195, 224, 236, 238 Repton Humphrey 10 Repubblica di San Marino 10 Archivio di Stato 9 Palazzo Pubblico 9 Ribat-i Sharaf 216 Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra 87 Rimini, Tempio Malatestiano 246, 254 Ristoro d’Arezzo 124 Roberto il Bulgaro 213 Rocamadour 114 Rodano, fiume 112 Roderico 82 Rodolfo d’Asburgo, imperatore 200 Rodolfo il Glabro 143 Roma 14, 15, 16, 20, 21, 22, 24, 32, 33, 35, 47, 53, 54, 56, 57, 62, 69, 70, 76, 78, 112, 114, 115, 116, 116, 135, 136, 144, 145, 158, 169, 182, 189, 192, 193, 210, 210, 232, 268 concilio Lateranense I 57 concilio Lateranense IV 213 sinodo Lateranense (1059) 56 Biblioteca Casanatense 65 Foro di Traiano, Colonna Traiana 19 Istituto Storico dei Cappuccini 214 Museo dell’Alto Medioevo 16

Museo Nazionale Romano 12 San Lorenzo fuori le mura 47 San Nicola al Patriarchio Lateranense 57 Santa Sabina 27 Santi Quattro Coronati 108 Società Geografica Italiana 271 Romagna 135 Romani 19, 20, 24, 25, 28, 54, 69, 70, 74, 75, 111, 135, 169, 217, 254 Romania 135 Romolo Augustolo, imperatore 24, 69 Roscellino 177 Rosso, mare 119, 140 Rotari, re longobardo 59 Rotterdam, Museum Boymans van Beuningen 108 Rouen 88, 270 Rougemont Denis de 177 Rovereto 101 Rubruck 225, 225 Ruggero II, re di Sicilia 97 Rupertsberg 189 Russia 168, 202, 203, 222, 224, 263 Sabellio 28 Sacchetti Franco 230 Sacro Romano Impero 15, 70, 72, 73, 77, 123 Saint-Denis 113, 113, 114, 129 Saint-Savin-sur-Gartempe 150 Saladino 134 Salamanca 91, 159, 273 Salerno 158, 205, 227 Museo Diocesano 39, 209 Salisbury 11, 11, 227 Salomone 47, 99, 151, 228 Salutati Coluccio 124 Samarcanda 216, 220 Sancha di León 257 Sancho, re di Aragona 56 Sancho VII, re di Navarra 83 San Galgano, abbazia 146 San Gallo 33 Stiftsbibliothek 93 San Gimignano, Sant’Agostino 186 San Giovanni d’Acri, v. Acri Sano di Pietro 215 San Salvador 273 Sansepolcro, Museo Civico 51 Santa Fe 273 Sant’Antonio, monastero (Egitto) 48

Santiago, Ordine di 83 Santiago de Compostela 66, 97, 112, 114, 114, 116 Santo Domingo 273 Saraceni 82, 99, 122, 141, 207 Sardegna 84, 144, 206 Sassetti, famiglia fiorentina 12 Sassoni 20, 32, 33, 35, 70, 75, 114, 154, 195, 198, 201 Sassonia 54, 79, 130, 198 Saturno 37 Sava, fiume 112 Saxo Grammaticus 239 Scandinavia/scandinavi 22, 23, 36, 99, 159, 195, 196, 201, 232, 239 Scarperia 270 Schubert Franz 179 Sciti 19 Scott Walter 12 Scozia/Caledonia 33, 49, 84, 197 Sebastiano, santo 265, 265 Segovia 99 Selgiuchidi 140, 140 Senna, fiume 40, 67, 112 Sens, concilio 179 Serbia 136, 186, 199, 199 Sercambi Giovanni 230, 258 Sforza Galeazzo Maria 228 Shanghai, Museo 223 Sheyb Egirt Kümbeti 140 Shiraz 217 Siberia 221 Sicilia 56, 84, 119, 136, 140, 160, 204, 206, 227, 241 Siena 10, 232, 245, 248, 249, 265, 265 duomo 215 Palazzo Pubblico 108, 248, 249, 249, 250 Silla 16 Silvestro I, papa 53 Simeone I, zar di Bulgaria 199 Simmaco 25 Simon Mago 54 Sinai, monastero di Santa Caterina 29, 185 Sinforiano, santo 151 Siria 31, 48, 119, 130, 140, 161, 161 Skellig, isola 32 Slavia/slavi 84, 196, 197, 198, 198 Sleipnir, cavallo di Odino 37 Slesia 200 Slovacchia 200

Slovenia 206 Snorri Sturluson 239 Sognefjord 194 Soltane, foresta 242 Song, dinastia cinese 219, 222 Sorbaia 62 Spagna 20, 24, 56, 82, 83, 91, 113, 114, 116, 130, 134, 140, 144, 160, 179, 232, 262, 273, 273 Spira 112 Spirito Santo 29, 54, 178 Spluga, passo 112 Spoleto 62, 172 San Pietro 45 Stazio 14 Stefano, santo 47 Stefano I (il Santo), re d’Ungheria 199 Stefano II, papa 53, 53 Stefano IX, papa 62 Stefano Dushan, zar dei serbi 199 Stiria 127, 200 Stoccolma, Historiska Museet 37 Strasburgo 35 Studenica, chiesa del Re 186 Subiaco, Sacro Speco 51 Sudan 271 Sumatra 119, 218 Sutri 75, 116 Sverker, dinastia svedese 197 Sverre, re di Norvegia 197 Svevia/svevi 20, 89 Svezia 22, 196, 197, 265 Svizzera 232 Tabarka 27 Tacito 20, 22, 36, 42 Taipei, Museo Nazionale del Palazzo 220 Tanai, fiume 166 Tariq ibn Ziyad 82 Tarragona 82 Tartari 203, 207, 219, 222, 224, 263 Tebaide, deserto 49 Teima 139 Templari, v. Ordine templare Temudjin, v. Genghiz Khan Teodorico 12, 13, 24, 24, 25 Teodosio, imperatore 28 Terra-Madre 22 Terrasanta 27, 90, 97, 98, 114, 160, 204, 211 Tessalonica, editto 28

285


Teutonici, v. Ordine teutonico Thomas de Cantimpré 164 Thor 20, 22 Tigri, fiume 166 Tintern, abbazia 176 Tiro 206 Tirreno, mare 61, 112, 128, 140, 258 Toaff Ariel 182 Todi, monastero di San Francesco 192 Toledo 141, 160 San Román 141 Santa María la Blanca 135, 141 Tolomeo Claudio/tolemaico 73, 157, 160, 163, 227, 270, 271 Tolosa 67, 82, 83 Tommaso, apostolo 166 Tommaso Becket, santo 86, 86 Tommaso d’Aquino, santo/tomismo 157, 157, 228, 253 Tommaso da Kempis 265 Torino, Museo Civico d’Arte Antica 240 Tortosa 82 Toscana 61, 62, 112, 123, 144, 210, 230, 239, 241, 248, 262, 267 Toscanelli Paolo dal Pozzo 271, 272 Tours 113, 177, 236, 238 Trentino 101 Treviri 79 Dombibliothek 44 Porta Nigra 122 Staadtbibliothek 122 Tripoli, San Nicola 49 Tristano 66, 237, 240, 241, 241, 242 Troyes 66, 94, 236, 237, 238, 242, 243 Bibliothèque Municipale 28, 158 Tudèle 213 Tudor, dinastia inglese 91 Tunisi, Museo del Bardo 41, 102 Tunisia 27 Turchi 15, 66, 140, 263 Turingia 35 Turpino di Reims, vescovo 72 Tuscolo, conti di 54 Twickenham, Stawberry Hill 10, 10, 11 Tyler Wat 261 Tyr 66 Udine, Biblioteca Capitolare 239 Ugo Capeto, re di Francia 88 Ulfila, vescovo 235, 235 Umbria 61, 252

286

Ungheria/ungari 24, 99, 101, 122, 198, 199, 200, 221, 228; v. anche Pannonia Unni 20, 21, 24, 99 Uppsala 22, 159, 235 Urbano II, papa 47, 62, 133, 133, 140 Urbino, Galleria Nazionale delle Marche 17, 157 Urlich von Türheim 242 Uthina 102 Utrecht 33 Uzbekistan 222 Val d’Adige 174, 176 Valdesi 232; v. anche Pietro Valdo Val di Susa 114 Valentiniano III, imperatore 21, 22 Valla Lorenzo 53 Van, lago 140 Vandali 20, 22, 82, 99 Vani, divinità nordiche 22 Vasari Giorgio 248 Vasco da Gama 272 Veit Hiersvogel 129 Venere 37, 172, 251, 268 Veneto 123, 240, 241 Venezia/veneziani 112, 119, 136, 136, 137, 205, 206, 206, 207, 207, 223 Biblioteca Nazionale Marciana 206, 207 Galleria dell’Accademia 265 Museo Correr 131 Palazzo Ducale 217 Tesoro della basilica di San Marco 136 Ventadour 66 Varagine (Varazze) 151, 239, 239 Vercelli 112 Verdun 134 Vergina 75 Verna 215 Verona 240 cattedrale 145 concilio 212 San Zeno 44, 106 Viareggio 181 Vichinghi 45, 85, 108, 121, 173, 202 Vicino Oriente 112 Vienna 159 Kunsthistorisches Museum 180, 182, 212

Österreichische Nationalbibliothek 127, 241 Österreichisches Nationalmuseum 104 Weltliche Schatzkammer, Hofburg 74, 75 Villani Giovanni 53, 63, 88, 145, 183 Vincenzo, santo 273 Vincenzo di Beauvais 39, 94, 155, 222, 227, 227, 228 Virgilio 14, 15, 268, 268 Visconte Maggiolo 218 Visconti, famiglia milanese 78 Visigoti 20, 24, 82, 113 Vistola 84 Vitruvio 254, 254 Vivaldi, fratelli 271 Vladimir 203 Volga, fiume 207, 221 Voltaire 16

CREDITI ICONOGRAFICI Il numero fuori parentesi indica il capitolo, quello tra parentesi l’illustrazione

Archivio Centro Studi per la Cultura Popolare, Bologna: 9 (13), 11 (3); Archivio Fotografico dei Musei Vaticani © Musei Vaticani: 2 (8), 15 (2); BAMS-Photo Rodella: 9 (14), 12 (7), 14 (11, 12, 14, 15, 16); Massimo Capuani: 5 (7); Novella Castrataro: 20 (8); © Thomas Roessler: 1 (7); Foto Mauro Magliani, Padova: 1 (17), 16 (5), 26 (6), 24 (12, 14); Angelo Stabin: 5 (28).

BAMS-Photo

Tra le immagini dell’Archivio Jaca Book segnaliamo: Rodella/Jaca Book: 4 (11, 14), 5 (1, 4), 6 (3), 7 (1), 11 (7, 15), 12 (5), 14 (4, 5, 8, 9, 18), 15 (4, 10), 16 (12, 13, 15, 16, 18), 17 (1, 2, 3), 18 (9, 13, 14, 16), 23 (1), 24 (1); Arnaldo Vescovo/Jaca Book: 3 (1). Quanto non menzionato appartiene all’Archivio Jaca Book.

Walhalla/Valhöll 37 Walpole Horace 10, 12 Walsperger Andreas 166 Warwick 260, 270 Watling, isola 273 Wessex 33 Westminster 85 Wiesbaden, Landesbibliothek 64, 176, 189 Willibrord, santo 33, 34, 35 Wiltshire 11 Wolfram von Eschenbach 242, 242, 243, 243 Worms 57, 57, 112 Wyatt James 11, 11 Wynfrith, v. Bonifacio, santo Yatrib, v. Medina Yemen 139 Yggdrasill (Irminsul), albero sacro 21, 23 York/Eboracum 33, 150, 154 Ypres 257 Yuan, dinastia mongola 222, 223, 225 Zara 137 Zenone, imperatore 24 Zhu Derum 223 Zoe, imperatrice 135 Zumaia, San Pedro 273

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Selezione delle immagini e impaginazione Graphic Srl, Milano Stampa e legatura Grafiche Flaminia, Foligno (Pg) luglio 2012


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