Un giro in macchina 2019

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Pier Luigi del Viscovo con una prefazione di Pierluigi Bonora

Un giro in macchina

2019

Articoli pubblicati su Il Sole 24 Ore, il Giornale, Harvard Business Review e Al Volante



Per una volta, a me



SOMMARIO PREFAZIONE 10 INTRODUZIONE 11 UN GIRO IN MACCHINA 2019

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LA SPESA COMPLESSIVA PER LE VETTURE PERSO 1,7 MILIARDI. 17 AUMENTA IL RICORSO A NOLEGIO E CHILOMETRI ZERO LA SPESA DEGLI ITALIANI PER L’AUTO

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IL 2019 SARÀ ANCORA UN ANNO COMPLICATO L’incertezza sui motori, il calo dei Km0 e l’eco-tassa frenano li acquisti.

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COSÌ CAMBIA IL MERCATO DEL NUOVO

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VENDERE L’AUTO O LA MOBILITÀ: IN GIOCO C’È IL CLIENTE 25 IN FUMO L’AMBIENTALISMO GRILLINO: DETASSATE LE AUTO PIÙ INQUINANTI Circa 400 milioni di euro di mancato gettito. Dimezzata l’imposta di proprietà per le vetture con oltre 20 anni di età. Mentre i motori di ultima generazione sono colpiti dall’«eco-tassa».

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IN ITALIA CRESCONO LE AUTOMOBILI IBRIDE E A GAS Una vettura su venti monta un propulsore elettrificato. Nel 2018 rialzo del 30%.

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LA CONGIUNTURA È INCERTA E LE FLOTTE NAVIGANO A VISTA 31 Le prospettive delle auto aziendali. Le difficoltà dell’economia spingono alla prudenza ma il noleggio a lungo termine dovrebbe confermare la sua crescita (trainata dal diesel). 5


UN GIRO IN MACCHINA 2019 CARTOLINA DA GINEVRA, ECCO COME È CAMBIATA L’INDUSTRIA DELL’AUTO

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO

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IL MODERATO OTTIMISMO DEGLI OPERATORI

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L’INCERTEZZA TOCCA ANCHE LE FLOTTE

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IL PROBLEMA DELLA CO2 È NEL PARCO CIRCOLANTE 41 Sostenibilità. Controproducente penalizzare le vetture nuove, già poco inquinanti. LE IMPORTAZIONI PARALLELE AGITANO LE ACQUE DEL MERCATO 43 I canali di vendita. Le immatricolazioni di auto già targate all’estero sono 155mila: un fenomeno che pesa sulle dinamiche commerciali in Italia. LO STANDARD WLTP RIDUCE L’OFFERTA

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AUTO, I PERCHÉ DEL CROLLO: FRENANO I NOLEGGI E KM0, 50 BONUS-MALUS NON PERVENUTO LE DUE RAGIONI CHE RENDONO IL MERCATO PIÙ COMPLICATO 52 AUTO EURO ZERO, PER ELIMINARLE BISOGNA TOGLIERE 54 IL TAPPO! AUTO VECCHIE, ECCO CHI SONO GLI ITALIANI CHE NON SE NE DISFANO E PERCHÉ

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FLOTTE AZIENDALI, DIESEL IRRINUNCIABILE MA I 59 VALORI RESIDUI SCENDONO E I CANONI SALGONO AUTO DIESEL, VENDENDONE MENO NON CALERANNO LE EMISSIONI DI POLVERI E NOX 6

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IL RENT-A-CAR RIPORTA IN POSITIVO IL MERCATO DELL’AUTO IN ITALIA

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IL NOLEGGIO PIACE MA NON PUÒ ESSERE SVENDUTO

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CON IL BONUS SULL’USATO VIA LE EURO 0

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IL MERCATO E I NUOVI ORIENTAMENTI

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AUTO E CONCESSIONARI, COME CAMBIA LA DISTRIBUZIONE 70 CON L’ARRIVO DEI MEGA GRUPPI DI DEALER FLOTTE AZIENDALI, PIÙ CONCRETEZZA PER GIUSTIFICARE 74 LA FINE DEI PREZZI AGGRESSIVI TRA “SHARING ECONOMY” E NOLEGGIO

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AUTO, MADE IN ITALY ORMAI MARGINALE. LA NUOVA GEOGRAFIA DELLA PRODUZIONE IN EUROPA

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SPEGNERE LE AUTO? NON SALVA IL PIANETA Ecco i dati: la natura avvelena l’aria più dell’uomo e le macchine meno di tutti.

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AUTO DIESEL, OVVERO. L’AUTOLESIONISMO DELL’EUROPA I veicoli nuovi hanno emissioni irrilevanti. Il problema sono quelli vecchi. Perché allora accanirsi su tutti in modo indistinto danneggiando assieme produttori e consumatori?

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CAR SHARING, IN CRESCITA +30% ALL’ANNO FINO AL 2021

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DIESEL ANCORA IN DISCESA E DECOLLANO LE IBRIDE Ricerca Anfia. In Europa prendono quota le alimentazioni alternative (gas compreso).

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LA FRENATA DELL’USATO PESA SUI BILANCI DEI DEALER Distribuzione. I concessionari soffrono per l’aumento degli stock di vetture di seconda mano.

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UN GIRO IN MACCHINA 2019 METÀ DELLA SPESA DEL NOLEGGIO È DESTINATA A SUV E CROSSOVER Flotte aziendali. Le vetture a ruota alta crescono di quota anche nei parchi delle imprese. Alfa Romeo Stelvio, Jeep Renegade e Nissan Qashqai guidano la classifica dei modelli più scelti.

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EMISSIONI, L’EUROPA INQUINA SOLO PER IL 10% (PERÒ SI SENTE IN COLPA PER TUTTO IL MONDO)

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AUTO, LE MULTE SULLE EMISSIONI DI CO2 INDEBOLISCONO 101 L’INDUSTRIA EUROPEA Una ricerca Standard & Poor’s evidenzia un crollo dei margini dell’industria automotive del vecchio continente a causa dei costi per rispettare le normative per la riduzione dell’anidrite carbonica. FRÖLICH (BMW): “GLI EUROPEI ANCORA NON VOGLIONO 105 LE AUTO ELETTRICHE” AUTO ELETTRICHE, ALLARME ANALISTI: GLI INVESTIMENTI 108 PORTERANNO AD UN “DESERTO DEL PROFITTO” Studio Alix Partners. Le Case affrontano una difficile transizione dal termico all’elettrico. CAR SHARING IN BUONA SALUTE 111 DIESEL ECCO PERCHÉ I NUOVI MOTORI SONO SUPER PULITI DIESEL ECCO PERCHÉ I NUOVI MOTORI SONO SUPER PULITI MA NESSUNO NE PARLA Tutti gli studi scientifici dicono in maniera chiara che dai tubi di scappamento delle moderne vetture diesel Euro 6 escono sostanze inquinanti in quantità talmente basse da non essere significative.

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LA CRISI DELLE PICCOLE IMPRESE DEPRIME IL MERCATO DEI MEZZI La tendenza. Pesano il costo del lavoro e la concorrenza dell’Est.

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AUTO, ENTRO IL 2025 UN CLIENTE SU QUATTRO LA COMPRERÀ ONLINE

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NEL 2021 UN’AUTO SU TRE SARÀ DIESEL

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MERCEDES-BENZ E L’INTEGRAZIONE OFF/ONLINE

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L’AUTOMOBILE, LA CO2 E LA DISINFORMAZIONE TARGATA GREENPEACE Se le auto emettono una dose rilevante di CO2, elimina la produzione di auto e avrai eliminato il problema. Sfortunatamente, non è così.

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ANCHE NELL’AUTO NO ALLA DECRESCITA E SÌ ALLA CULTURA DEL FARE

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AUTO, KM0 E NOLEGGIO TIRANO GIÙ IL MERCATO: ININFLUENTE IL BONUS/MALUS

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I SUV HANNO TAGLIATO LA STRADA ALLE UTILITARIE Segmenti A e B. il boom delle autovetture a ruote alte e l’elettrificazione rivoluzionano il mercato.

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SULL’AUTOMOBILE È IN ARRIVO UNA TEMPESTA PERFETTA 137 Studio McKinsey. Secondo gli analisti Usa l’industria sta attraversando una fase di irreversibile trasformazione tecnologica e dei modelli di business. IL NOLEGGIO AI PRIVATI È SBARCATO ANCHE NEI CENTRI COMMERCIALI Nuovi format. Il caso Authos a Torino.

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IL REBUS DELLA GESTIONE DEI FILE TENUTI IN ARCHIVIO 143 Big data. Ad un anno dal varo, resta l’incertezza sull’applicazione del regolamento dell’Unione Europea in materia del trattamento dei dati personali e di privacy. AUTO EUROPEA PIÙ FORTE O PIÙ DEBOLE? AUTO AZIENDALI: 300MILA VETTURE IN MENO

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ALL’ANNO TASSANDO IL DIPENDENTE

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AUTO AZIENDALI, TASSARE IL BENEFIT OLTRE IL 30% SIGNIFICA 150 PENALIZZARE IL DIPENDENTE SU UNO STRUMENTO DI LAVORO 9


UN GIRO IN MACCHINA 2019 FCA-PSA, ECONOMIE DI SCALA E USA I PILASTRI. COLLETTI BLU AL SICURO, PER ORA

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EICMA E QUELL’INTUIZIONE VINCENTE DI PUNTARE SULLA MOBILITÀ

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VENDITE AUTO NELL’ERA DEGLI HUB

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STRISCIONI, DIESEL E MULTE

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L’ELETTRICO È IL FUTURO. INTANTO PERÒ TOGLIAMO LE AUTO VECCHIE DALLE STRADE

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO

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ZTL E CAR SHARING? PIACCIONO SOLO AGLI SNOB

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DEALER, PROFESSIONE CHE EVOLVE

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AUTO AZIENDALI, IL FALSO MITO GREEN DEL PARCO IBRIDO ED ELETTRICO

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EMOZIONI O SCIENZA? LA TRANSIZIONE ELETTRICA METTE ALLE CORDE LE CASE

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AUTO VECCHIE O D’EPOCA, LA SOGLIA DEI 20 ANNI CHE ALTERA IL MERCATO

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SULL’INTESA NEO DISTRIBUZIONE: PESA IL CASO CONCESSIONARI

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CHI DEVE TEMERE GLI OPERAI NEL CDA

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MERCATO AUTO A VALORE 2019

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MERCATO AUTO A VALORE 2019 - NOLEGGIO

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TRIBUTI 189 10


PREFAZIONE Mai, come in questo momento, comunicare l’automobile e la mobilità necessita di competenza, dati di fatto e di una visione futura legittimata dalla profonda conoscenza di un settore che “soffre”, purtroppo da anni, di strumentalizzazioni e ignoranza diffusa. L’auto, insomma, viene utilizzata per spaventare le persone perché “è brutta, sporca e cattiva”. “Brutta”, in quanto viene descritta come “padrona delle strade” (soprattutto i cosiddetti Suv, come se fossero dei mostri); “sporca”, perché è ritenuta responsabile di tutti i mali che affliggono il pianeta (dall’effetto serra, all’inquinamento tout court); “cattiva”, quando si parla di sciagure della strada, come se fosse il mezzo su quattro ruote a decidere di investire un pedone o di schiantarsi contro un albero (fino a prova contraria, alla guida si trova sempre qualcuno). Attenzione, però, la storia cambia se si parla di vetture elettriche, quelle che piacciono tanto al “popolo gretino”. Improvvisamente, la macchina si trasforma in graziosa, educata e gentile. E che importa se per produrre le batterie vengono sfruttati, fatti ammalare e morire bambini nelle miniere lager africane e sudamericane. E che importa se l’energia proviene dalle combattute fonti fossili: tanto succede in luoghi lontani da casa nostra. E che importa se la caccia alla materia prima sarà all’origine di danni ambientali, speculazioni finanziarie e magari anche guerre. L’oro nero insegna. Questa premessa serve a far capire che dev’essere ristabilita la verità, che bisogna sconfiggere i portatori professionisti (e non, cioè chi dà per buono tutto quello che legge) di “fakes”. Ebbene, l’amico e collega Pier Luigi del Viscovo, con i suoi “Un giro in macchina”, giunto all’edizione 2019, grazie agli articoli pubblicati da “il Giornale”, “il Sole 24 Ore”, “Harvard Business Review” e il magazine “Al Volante”, punta proprio a ristabilire quelle verità che in tanti vogliono tenere nascoste o addirittura cancellare 11


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(parlare di negazionismo non è poi tanto sbagliato). Se emergessero, infatti, per queste persone, molte delle quali sedute su poltrone che contano, sarebbe l’inizio della fine, scotto che significherebbe perdite di business e, soprattutto, di potere e consensi politici ottenuti raccontando balle su balle alla gente. Il professor del Viscovo è in prima linea nella guerra contro la demagogia e l’ideologia. I suoi commenti e i suoi articoli, tutti raccolti in questa nuova edizione del volume, danno sicuramente fastidio a tanti. Ma importante è continuare su questa strada e insistere allo scopo di far capire ai tanti giovani che si fanno incredibilmente manovrare da chi è interessato a far passare certi messaggi, e a quelli che vivono di “pane e social”, sempre pronti a rilanciare tutto quello che sentono dire, pur di ottenere visualizzazioni, che di “fakes” si può anche perire. Pierluigi Bonora il Giornale

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INTRODUZIONE Quando ti metti a sfogliare l’album delle foto, sai che troverai solo cose piacevoli, giacché nessuno fotografa le cose brutte ma solo quelle che vorrà ricordare. Con l’informazione non è proprio così, dovendo riportare tutto e più spesso ciò che non va. Sfortunatamente, quest’anno va di lusso, poiché niente di quanto registrato nel 2019 nel mondo dell’auto e della mobilità potrà mai essere peggio di quanto stiamo vivendo. Il 2019 va inquadrato in un contesto economico di crescente incertezza delle imprese e delle famiglie. La cura da cavallo somministrata dai giallo-verdi per sconfiggere la povertà e per pagare la mancetta elettorale sulle pensioni aveva già iniziato a dare i suoi frutti, rallentando la crescita. Al punto da far intuire a più d’uno che l’annunciato miracolo economico non ci sarebbe stato. Con l’arrivo della bella stagione, il verde è maturato nel rosso, dando quel sapore vetero-sindacale a quanto restava delle ricette economiche. Il sistema automotive, naturalmente autoreferenziale, era già impegnato a spargere incertezza, con l’approccio bipolare per cui una cosa sono le auto che la gente vuole e compra e un’altra quelle che vede raccontate in pubblicità e, ahimè, anche sui giornali. Innanzitutto, è stato l’anno in cui le ibride sono diventate un segmento significativo, con la sola forza del prodotto e della ragione, contro l’oscurantismo della comunicazione, concentrata solo a fabbricare la bolla dell’auto a pile. In più, costruttori e dealer erano impegnati a vendere auto termiche e diesel, ma senza poterle adeguatamente difendere dagli attacchi mediatici e amministrativi. Quasi fossero prodotti clandestini, da far girare sottobanco. 13


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Nel frattempo, la distribuzione finalmente occupava la scena, con grandi gruppi che diventavano più grandi e i costruttori alla ricerca di una dimensione online su cui interagire col cliente, dopo aver negato fino a un paio d’anni prima che le auto si sarebbero mai vendute online. Soprattutto, è stato l’anno del “deserto dei profitti” per i costruttori europei, a cui il mercato non ha dato le risposte attese, o meglio pretese. Un’industria florida, che sfama in Europa 3,2 milioni di famiglie, troppo florida per cinesi e americani, che da importatori vorrebbero diventare esportatori e invece di imparare a fare macchine tentano la soluzione finale: mettere fuori gioco quelle che si fabbricano qui, con la scusa di salvare quel clima che essi alterano più di tutti. Insomma, un anno di smarrimento dovuto al brutale confronto con la realtà. In preparazione inconsapevole di un’eventuale pandemia. Pier Luigi del Viscovo

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UN GIRO UN GIRO IN MACCHINA 2019

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LA SPESA COMPLESSIVA PER LE VETTURE PERSO 1,7 MILIARDI. AUMENTA IL RICORSO A NOLEGIO E CHILOMETRI ZERO

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a spesa degli italiani per acquistare automobili nuove è stata nel 2018 di 38,2 miliardi di stime, del Centro Studi Fleet&Mobility sui dati ufficiali di immatricolazione, con una flessione del 4% sul 2017, chiuso a 39,9 miliardi. È un valore approssimato per difetto, poiché comprende gli sconti ma non gli optional, che porta a un valore medio unitario pari a 19.900 euro, quasi 1% meno di quello registrato nel 2017. Il dato si spiega con gli sforzi fatti dagli operatori per mantenere i volumi con l’uso del prezzo. Fenomeno resosi più necessario in estate, per immatricolare vetture che dal 1° settembre non sarebbero state più in linea con le norme WLTP (Worldwide Harmonized Light Duty Vehicles Test Procedure). Il segmento principale restano i privati e le partite IVA individuali con 21,6 miliardi, in flessione dell’1,5%, e un prezzo medio netto di 19.700 euro, in aumento dell’1,5% rispetto al valore del 2017. Il noleggio ha immatricolato auto per 8,6 miliardi di euro, il 2% in meno rispetto ai quasi 8,8 dell’anno scorso, segnando un valore medio unitario di 19.742 euro, inferiore ai 20.665 del 2017. La performance è stata determinata principalmente dalla maggiore penetrazione del noleggio a lungo termine per i privati. Però ha giocato anche l’aumento degli acquisti ad uso noleggio, da parte di case e concessionarie, di vetture destinate alla vendita a km0. Il canale società ormai rappresenta più le auto-immatricolazioni del settore (ossia quelle vetture che vengono intestate ai concessionari e alle stesse case costruttrici, come demo o in attesa di essere poi rivendute ai privati in forma di usato a km0), che non 17


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gli acquisti realmente riconducibili a società, che pesano il 25% dei volumi. Nel complesso, questo segmento ha registrato una contrazione di quasi il 13%, fermandosi poco sopra gli 8 miliardi di euro rispetto ai 9,2 del 2017. In buona misura è il risultato di una contrazione dei volumi, superiore al 9%, sia da parte delle società operative (-6%) sia nelle auto-immatricolazioni (-10%). Però ha influito pure il maggiore sforzo a cui hanno dovuto far ricorso i costruttori per immatricolare entro il 31 agosto, come dicevamo, auto che dopo non sarebbe stato più possibile immettere sul mercato. Questo ha determinato una forte contrazione del prezzo medio netto, passato dai 21.184 euro del 2017 ai 20.425 di quest’anno. Il fenomeno delle auto-immatricolazioni nel corso del 2018 ha subito alcune mutazioni. Oltre alla forte pressione esercitata in estate, c’è stato un sostanziale mantenimento dei volumi nelle concessionarie, che hanno risentito dell’appesantimento dello stock, mentre le case hanno operato una riduzione dei volumi intorno al 40%. Politica perseguita soprattutto dal gruppo FCA, che ha potuto beneficiare di un mix di vendite molto più favorevole ai marchi e ai modelli ad elevato valore aggiunto. Nello specifico, Jeep ha non solo aumentato il volume delle immatricolazioni di oltre il 70% ma ha anche variato il mix a favore di Compass, che ha un valore medio superiore a Renegade. Anche Alfa Romeo, che in volume ha ceduto qualcosa, ha però concentrato le sue vendite su Stelvio e Giulia e meno su Giulietta, rispetto all’anno precedente, con un valore medio superiore. Questo ha determinato un valore complessivo delle vendite stimabile in circa 9 miliardi di euro, con una flessione rispetto al 2017 del 3,5%, molto inferiore a quella registrata nei volumi (-10,4%). Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 gennaio 2019 18


LA SPESA DEGLI ITALIANI PER L’AUTO

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ono 38,2 i miliardi di euro spesi in Italia nel 2018 per acquistare nuove automobili, 1,7 miliardi in meno rispetto al 2017 (-4,2%).

Il 57% degli acquisti (pari a quasi 21,6 miliardi) è stato effettuato dai privati, segmento che include anche le Partite Iva individuali, con un decremento sull’anno precedente di 321 milioni di euro (-1,5%), con un prezzo medio netto di acquisto pari a 19.702 euro in aumento dell’1% rispetto al valore del 2017. La domanda dei noleggiatori è diminuita del 2%, passando da 8,8 miliardi del 2017 a 8,6 miliardi del 2018 e rappresenta il 22% del totale. Il prezzo medio netto di acquisto dei noleggiatori è pari a 19.742 euro, in contrazione del 2,6% rispetto al prezzo del 2017, che era di 20.265 euro. Tale risultato è stato determinato principalmente dalla maggiore penetrazione del noleggio a lungo termine verso i privati. Inoltre, ha avuto un notevole peso anche l’incremento delle auto-immatricolazioni ad uso noleggio di vetture destinate alla vendita a “Km0“, da parte di Case e concessionarie. Le società, che coprono il 21% del mercato, hanno acquistato auto per 8 miliardi, con una contrazione di 1,2 miliardi di euro (-13%) e un prezzo medio netto di acquisto pari a 20.425 euro (-4%). Il canale società ormai rappresenta più le auto-immatricolazioni (75% del totale segmento) che non gli acquisti realmente riconducibili a società. La flessione in valore del 4% (rispetto al -3% in volume) non dice tutto degli sforzi fatti dall’offerta per aiutare le vendite. Già considerando l’adeguamento dei listini all’inflazione, il gap reale valore/volume è di due punti percentuali, a cui bisogna aggiun19


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gere il fatto che quasi tutto il calo dei volumi (66.000 auto) si è concentrato sulle utilitarie (-57.000 vetture di segmento A e B): poiché sono macchine di valore medio basso, l’impatto sul valore è stato inferiore, ma neutralizzato dai forti sconti praticati. Articolo pubblicato su il Giornale, il 5 gennaio 2019

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IL 2019 SARÀ ANCORA UN ANNO COMPLICATO L’incertezza sui motori, il calo dei Km0 e l’eco-tassa frenano gli acquisti.

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l 2019 è un anno difficile da prevedere per il mercato dell’auto. Dopo un 2018 in flessione, nonostante gli sforzi degli operatori sul prezzo, la domanda naturale dei clienti può raffreddarsi ancora, per l’andamento non più tonico dell’economia generale e perché subirà interferenze importanti, anche contrastanti tra loro. C’è la pressione esercitata da molti Comuni sulla circolazione di auto, da Euro 0 a Euro 4. Se da un lato porta alcuni clienti ad entrare nel mercato del nuovo e semi-nuovo, dall’altro sparge incertezza su quale propulsore scegliere, anche alla luce dei divieti totali per i diesel, più o meno credibili, in un tempo fuori dalla portata degli amministratori che li annunciano. Questo, secondo Michele Crisci di Unrae, potrebbe ridurre ancora il ricorso ai km0, se cui diventa rischioso puntare, facendo mancare 40/50.000 auto – già nel 2018 le auto-immatricolazioni sono diminuite di 33.000 unità. C’è l’impatto del bonus-malus da marzo, il cui primo effetto, già in piccola parte registrato a dicembre, sarà di spingere le immatricolazioni, vere e a km0, delle vetture penalizzate. Due mesi buoni, con anticipazioni da scontare in seguito. Poi il nuovo regime di tasse sulle vetture oltre 160 gr/km di CO2, che le case cercheranno di mitigare assorbendo con extra sconti una buona parte dal malus, secondo le aspettative di De Stefani Cosentino di Federauto. Allo scopo tornerebbero utili i soldi risparmiati sui km0. Nel noleggio, che acquista tante vetture sopra i 160 gr/km, si prevedono varie contromisure. Dopo i primi mesi di corsa alle immatricolazioni per chi deve sostituire entro la primavera, si potrebbero avere casi di rinvio delle sostituzioni con allungamento dei contratti (anche nel rent-a-car) ovvero contratti con durate 21


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più lunghe, in modo da assorbire il maggior costo iniziale e tenere il canone dentro i limiti delle car policy: in ambo i casi, meno immatricolazioni, subito o in prospettiva. Però il noleggio potrebbe risentire anche in positivo di una rivalutazione dell’usato per i modelli colpiti dal malus, che consentirebbe di bilanciare eventuali sforzi dei noleggiatori sui canoni. Ma oltre al malus c’è il bonus, dove le case faranno di tutto per far rientrare nel tetto dei 61.000 euro tanti modelli, giocando con allestimenti e option. Però il plafond di 60 milioni basta per incentivare circa 20.000 auto, più o meno quelle a basso impatto che si sarebbero vendute anche senza bonus. Un’annotazione sul diesel, che è in flessione ma potrebbe ricevere una spinta inattesa proprio dal malus, visto che molti modelli penalizzati nella versione a benzina non lo sono sul diesel, che com’è noto emette meno CO2: questo è positivo. Concludendo, un mercato che oscilla tra 1,8 e 1,85 milioni. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 12 gennaio 2019

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COSÌ CAMBIA IL MERCATO DEL NUOVO

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el 2018 il mercato delle auto nuove ha fatto registrare alcuni cambiamenti sostanziali. Dopo quattro anni di crescita, c’è stata una decrescita (non tanto felice) di 1,7 miliardi di euro rispetto ai 39,9 del 2017, secondo le stime esclusive del Centro Studi Fleet&Mobility. Anche il prezzo medio per vettura è tornato di nuovo sotto i 20.000 euro (era in aumento dal 2012), con una contrazione dell’1% che in realtà non dice tutto sullo sforzo che costruttori e rivenditori hanno fatto per mettere le auto sulle strade. L’aumento dei listini intervenuto in corso d’anno e il diverso mix di segmenti (le piccole hanno ceduto oltre un punto di quota alle medie) hanno prodotto un ulteriore 1,5% di valore, di cui però non c’è traccia, segno che è stato tutto riversato sul prezzo netto. Dunque, tutto considerato, sembrerebbe che il sistema abbia scontato di circa 500 euro a macchina, piazzando comunque 66.000 auto in meno. Perché tanta pressione? Due ragioni. Primo: i target fissati per l’anno erano troppo alti, ovviamente. Negli anni bui della crisi si diceva che il mercato sarebbe risalito e che il livello fisiologico fosse intorno a 1,8 milioni: è bastato un anno, solo uno, di rimbalzo sotto i 2 milioni, per giunta drogatissimo da km0 come mai prima, per dimenticarsene. Secondo: ad agosto i costruttori hanno dovuto immatricolare auto che dopo, col nuovo sistema WLTP, non sarebbe stato possibile immettere sul mercato. Anche questo sapevano da anni. E anche questo hanno finto di scoprirlo a luglio. Così, sotto con i km0 alla rete, aumentati ancora rispetto al 2017, mentre invece le auto-immatricolazioni delle Case diminuivano del 40%. Come mai? Perché FCA ha tirato il freno, potendo guardare più alla qualità che alla quantità delle vendite, grazie al fatto che la strategia di 23


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puntare sui brand premium Jeep, Alfa e 500 ha iniziato a pagare. Nei fatti, Jeep è cresciuta in volume di oltre il 70% e in valore di più, avendo spostato il mix da Renegade a Compass. Alfa, pur avendo perso qualcosa in volume, ha recuperato in valore, spostando le vendite da Giulietta a Giulia e Stelvio, soprattutto. Il risultato netto è stato che il Gruppo FCA in valore ha guadagnato quasi mezzo punto di quota di mercato, secondo le stime preliminari del Centro Studi Fleet&Mobility. Articolo pubblicato su il Giornale, il 16 gennaio 2019

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VENDERE L’AUTO O LA MOBILITÀ: IN GIOCO C’È IL CLIENTE

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l software vale il 10% di un’auto medio-grande e arriverà al 30% nel 2030, secondo McKinsey. Quelli di ultima generazione scambiano dati e tengono connessa l’auto, oltre a farla funzionare, ma un software c’era anche prima: aveva due mani per il volante, due piedi per i pedali e due occhi sulla strada. In tasca al posto del cellulare aveva un gettone telefonico e nessuno lo rimpiange, ma c’è una differenza. Lo smartphone ha rimpiazzato il telefono a gettoni, mentre il software dell’auto aiuta e aggiunge, non sostituisce. La marcia resta un fatto meccanico, di energia prodotta e trasmessa, e dinamico: banalmente, fare una curva senza uscire di strada. In caso di urto, le più sofisticate e reattive centraline cedono il passo alla capacità dei materiali di assorbire l’impatto. Se l’urto non c’è, i trasportati vorranno stancarsi poco nel tragitto e questo dipenderà dalla fisicità della seduta, non dai messaggi o dalla musica in streaming. Insomma, le innovazioni nell’auto sono fantastiche, perché aumentano il piacere e la sicurezza e facilitano gli spostamenti, ma non trasformano la natura della macchina. Eppure, oggi i costruttori tendono a vendere più il software che non le componenti meccaniche. La loro missione dichiarata non è più tanto costruire ottime macchine, quanto offrire mobilità – qualsiasi cosa ciò voglia dire, e un giorno lo scopriremo. È comprensibile, dato che il cliente vuole questo e dà per scontato il resto, ma è rischioso per l’industria, molto rischioso. Sia perché deve comunque costruire auto sempre migliori, ad esempio per ridurre consumi ed emissioni, sia perché queste tecnologie sono frutto di altre industrie, non metalmeccaniche. È vero che i big dell’auto da decenni assemblano componentistica affidata in outsourcing a spin-off dei costruttori o aziende cresciute alla 25


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loro ombra, ma riguarda parti essenziali dell’auto (luci, freni, gomme, interni) e intrinseche al funzionamento, con cui l’automobilista non pensa di stabilire un rapporto. Di contro le innovazioni tecnologiche avanzate, seppure ancillary rispetto alla macchina, sono essenziali per la mobilità del driver e frutto di giganti dai nomi noti, che puntano a mettersi in mezzo tra l’auto (e il suo costruttore) e il guidatore, col quale magari hanno già una relazione, che inizia prima di entrare in macchina e non termina quando il motore si spegne. In conclusione, i metalmeccanici dovrebbero riflettere bene prima di riposizionarsi fuori dal loro perimetro, per non rischiare di vedere il loro prodotto, un sofisticato concentrato di knowhow esclusivo, relegato al ruolo di commodity. Non è chiaro se ci siano alternative, mentre è chiarissimo che senza due portiere e un motore su quattro ruote nessuna app o rete 5G potrà mai accompagnare i bambini a scuola. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 30 gennaio 2019

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IN FUMO L’AMBIENTALISMO GRILLINO: DETASSATE LE AUTO PIÙ INQUINANTI Circa 400 milioni di euro di mancato gettito. Dimezzata l’imposta di proprietà per le vetture con oltre 20 anni di età. Mentre i motori di ultima generazione sono colpiti dall’«eco-tassa».

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e uno compra un’auto ibrida plug-in o addirittura elettrica, aiuta l’ambiente e il Governo aiuta lui con un incentivo, che raddoppia se contestualmente toglie dalle strade (rottama) un’auto vecchia. All’opposto, se la sostituisce con un’auto a motore tradizionale, seppure di ultimissima generazione, che inquina poco, il Governo lo punisce con un’eco-tassa. Fin qui lo spirito ambientalista dell’esecutivo, che poi di fronte al parco auto circolante si arresta e cambia casacca – cosa non difficile, a giudicare dalle immagini quotidiane. Infatti, se uno continua a girare con un’auto di 10/15 anni, che inquina abbastanza ed è poco sicura, il Governo lo lascia tranquillo. Di più, se l’auto ha tra 20 e 30 anni, il Governo lo premia, dimezzando la tassa di proprietà. È l’ennesima illuminazione contenuta nella manovra, al comma 1048: “Autoveicoli e motoveicoli (…) in possesso del certificato di rilevanza storica (…) sono assoggettati al pagamento della tassa automobilistica con una riduzione pari al 50 per cento”. A leggere la norma, in votazione nei prossimi giorni, dovrebbe trattarsi di pochi modelli storici, con scarso impatto ambientale ma grande rilevanza per la cultura motoristica del Paese. Ha certamente senso preservare un patrimonio che poi dà luogo a raduni e manifestazioni, che fanno bene allo spirito e (che male c’è?) all’economia. Il sacrificio dei conti pubblici, stimato in appena 2 milioni di euro, pare sopportabile e giustificato. Sfortunatamente non è così. In Italia poche cose sono facili da ottenere come il certificato di rilevanza storica. Non serve che sia 27


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una Jaguar XJ6 anni ‘90, anche la Tipo di Montalbano può averlo. Nella realtà, pure i numeri sono ben più consistenti. Non esiste un elenco di modelli ritenuti storici. La certificazione si può richiedere alle associazioni, col requisito dell’anzianità e producendo alcune informazioni e documentazioni abbastanza alla portata, ma nessun modello è escluso. Stando alle statistiche di fonte pubblica istituzionale, le sole auto che rientrano nella facoltà sono oltre 3,8 milioni, a cui si aggiungono 600mila motoveicoli. Tuttavia, secondo il Codice della Strada, gli “autoveicoli” (indicati nella norma) comprendono anche gli autocarri, ai quali tra l’altro non è preclusa la certificazione di rilevanza storica, così superando potenzialmente i 5 milioni di mezzi che verrebbero agevolati. L’incidenza economica, minore gettito, arriverebbe dunque potenzialmente a sfiorare i 400 milioni di euro, che nella congiuntura attuale sono rilevanti. Non è detto che tutti chiedano tale certificato e nemmeno che le associazioni lo rilascino a tutti, anche se una certa predisposizione positiva la si può legittimamente prevedere, visto che il certificato si paga. Allora, sorgono alcune domande. Perché tassare chi compra un’auto nuovissima e poco inquinante, spingendo tanti a continuare a usarne una più vecchia, meno sicura e certamente più aggressiva sia verso il clima sia verso l’aria, e mettendo in discussione miliardi di investimenti nell’automotive? Perché incentivare l’acquisto di una macchina elettrica o ibrida plug-in, ma con un tetto di fondi che permette al massimo di raddoppiarne le vendite, quando ciò avverrebbe anche senza incentivi? Ancora, è una coincidenza che l’icona delle auto elettriche, Tesla, abbia annunciato il listino della nuova Model 3 a 59.600 euro, solo “dopo” che l’ultima versione del maxiemendamento bollinata dalla Ragioneria Generale aveva alzato, pare dietro pressioni dei 5S, il limite per accedere al bonus a 61.000 euro? Articolo pubblicato su il Giornale, il 2 febbraio 2019 28


IN ITALIA CRESCONO LE AUTOMOBILI IBRIDE E A GAS Una vettura su venti monta un propulsore elettrificato. Nel 2018 rialzo del 30%.

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el 2018 sono state immatricolate 87mila vetture ibride, il 30% più dell’anno precedente. I numeri assoluti non sono tuttavia indicativi quanto lo è il loro peso sugli acquisti totali: 4,5%, ossia quasi uno su venti. Questi propulsori rappresentano la vera innovazione nella motoristica da tanti anni a questa parte e tutto lascia supporre che il fenomeno diventerà sempre più di massa nel prossimo futuro, sotto la spinta delle frequenti e diffuse limitazioni al traffico nei centri urbani, che inopinatamente colpiscono anche i motori benzina e diesel di ultimissima generazione. Per ibrida si intende un’auto spinta alternativamente da due motori, uno termico e uno elettrico, con un distinguo: mentre le ibride più comuni si ricaricano da sole durante la marcia, recuperando l’energia cinetica, le ibride plug-in consentono anche di attaccarsi alla rete elettrica e ricaricare il pacco batterie, che ha una capacità superiore e dunque consente più chilometri in modalità elettrica. Meglio queste ultime, dunque, senza dubbio. Eppure, negli ultimi tre anni la quota delle ibride è più che raddoppiata, passando dal 2,1 al 4,3%, laddove le plug-in hanno chiuso il 2018 allo 0,2% (comunque il doppio dell’anno precedente). È vero che sono più recenti e i modelli disponibili sono davvero pochi, ma non è solo questo. In termini di prezzo, costano intorno a diecimila euro più della corrispondente vettura ibrida, se parliamo di auto fino a 30.000 euro, mentre per quelle da 40/60.000 euro in su il maggior prezzo può superare facilmente i 15mila euro. Si tratta di macchine destinate a una clientela insieme abbiente 29


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e sensibile all’ambiente, tanto che l’offerta appare più sbilanciata sull’alto di gamma che non sulle utilitarie. Diverso il discorso per i motori a gas. Sono ritenuti più eco-friendly, ma non è a questo che debbono la loro quota di mercato, in buona salute sopra l’8% negli ultimi anni. Il driver della domanda è essenzialmente il prezzo del carburante: un terzo in meno per il metano e meno della metà nel caso del GPL, rispetto alla benzina. Sono tanti soldi, che consentono di recuperare in fretta il maggior costo iniziale, contenuto in poche migliaia di euro. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 16 febbraio 2019

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LA CONGIUNTURA È INCERTA E LE FLOTTE NAVIGANO A VISTA Le prospettive delle auto aziendali. Le difficoltà dell’economia spingono alla prudenza ma il noleggio a lungo termine dovrebbe confermare la sua crescita (trainata dal diesel).

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l 2019 è difficile da prevedere, pure con ormai un mese già trascorso, tante sono le variabili che interessano la mobilità delle aziende. “A gennaio 2019 – riporta l’Istat – prosegue il progressivo indebolimento del clima di fiducia delle imprese in atto già dallo scorso luglio e trainato da un diffuso peggioramento sia dei giudizi sia delle aspettative”. Insomma, dal punto di vista dell’andamento generale dell’economia, bisogna mettere in conto che i clienti non si faranno trovare nella migliore condizione per aprire il discorso macchina. La sfida dell’ecobonus Se l’economia appare almeno fluida, dunque, il settore dell’auto non si fa apprezzare certo per nitidezza di orizzonti, innanzitutto sui propulsori. Sette auto business su dieci sono diesel, perché rispetto al motore a benzina è più economico e vanta minore emissione di CO2, che resta il parametro su cui le imprese misurano la loro sensibilità ambientale. Però ci sono i blocchi alla circolazione in alcune aree urbane, di cui tener conto. Secondo Gregoire Chové (Arval) “questo aiuterà le flotte ad abbandonare la filosofia onesize-fits-all in favore di una certa personalizzazione, basata sulle reale esigenze del dipendente, sia lavorative sia private”. Comunque, salvo casi specifici, non ci dovrebbe essere un crollo del gasolio, visto che “i fleet manager – riporta Alessandro Grosso (FCA) – valutano le versioni a benzina, ma poi ripiegano comunque 31


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sul diesel, che ha un TCO (total cost of ownership) più competitivo e emissioni di CO2 inferiori”. Ma soprattutto, questo è l’anno del malus, pensato per affondare ancor più le mani nelle tasche degli automobilisti, punendo e scoraggiando chi decide di lasciare un’auto vecchia, inquinante e poco sicura in favore di una nuova e poco inquinante. Si porrà la questione, caso per caso, su chi debba sopportare il maggior costo, se il cliente o il noleggiatore o il costruttore. Questi ultimi si sono già detti disposti ad assorbire in tutto o in parte il malus, ma lo dicono pensando ai clienti delle loro reti, che certo non beneficiano degli sconti che praticano ai noleggiatori. Questi tra l’altro hanno capacità di assorbire parte del malus grazie al beneficio che prendono dall’usato. Sia importanti concessionari sia il leader dei noleggiatori, Arval, stanno infatti riportando da mesi buone performance dalla rivendita e l’eco-tassa potrebbe migliorare ancora le quotazioni del secondo mercato. Poi ci sono gli incentivi, sulle ibride plug-in e soprattutto sulle elettriche. Si tratta di piccolissime nicchie destinate a raddoppiare le vendite (parliamo di migliaia di pezzi), che potrebbero trovare nelle flotte l’inclinazione green necessaria e soprattutto la disponibilità economica, visto che si tratta di vetture molto costose, sia nel valore iniziale sia in quello residuo, ancora tutto da scoprire e pertanto improntato alla prudenza. Il nlt cresce ma non troppo Nel 2018 i clienti delle auto business hanno segnato il passo, con il NLT a +1% e gli acquisti/leasing a -7%, con 265.000 e 100.000 immatricolazioni rispettivamente, anche se il NLT ha comunque incrementato la flotta gestita intorno al 14%, secondo le prime analisi del Centro Studi Fleet&Mobility. Come si muoveranno questi clienti nel 2019, alla luce dei fattori esogeni sopra riportati? Storicamente, la congiuntura economica negativa ha favorito il 32


NLT, nella misura in cui spinge le imprese a portare fuori bilancio gli asset automobilistici, trasformando gli ammortamenti e l’indebitamento in canoni mensili. Questo porterebbe a una crescita stimabile intorno al 5/6% nel segmento delle PMI, dove il condizionale è d’obbligo, poiché questa domanda arriva all’industria soprattutto attraverso la rete dei broker, che non si stanno rivelando (non tutti e non sempre) all’altezza della complessità del servizio e delle esigenze dei clienti. A parte le convenienze economiche, va detto che il battage mediatico del NLT funziona, in particolare sui privati, da cui “ci aspettiamo un aumento – stima Chové – anche grazie a diversi player assicurativi e bancari che stanno bussando alla nostra porta per distribuire il prodotto. Tuttavia, non sarà una crescita così marcata come si prevedeva un anno fa”. Anche Fabrizio Quinti (Ford) si aspetta “un rallentamento della crescita del NLT sui privati, intesi anche come partite IVA”. In questo segmento giocano due fattori. Da un lato, dei canoni che potrebbero non essere aggressivi come negli ultimi due anni, anche a causa di una revisione dei valori residui da parte di alcuni grossi operatori. Dall’altro, le pressioni delle reti di concessionari, che vogliono giocare su questi clienti con gli stessi sconti riservati ai noleggiatori e che dunque potrebbero limitare le case, almeno nelle offerte eccezionali. “Per le flotte – prosegue Quinti - non registriamo segni negativi sui rinnovi dei contratti in scadenza, ma piuttosto un’attesa temporanea, dettata dall’incertezza sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi”. Dunque, la previsione ad oggi è di un lieve calo, in linea con gli ultimi mesi, dovuto anche alla diminuzione del rent-torent (noleggi a lungo termine usati come forniture al noleggio a breve). Più ottimista la previsione di Grosso (FCA) che vede il “NLT in leggera crescita, ma non così il RAC, sia per le minori pressioni dell’offerta sia perché negli ultimi mesi sono già state immatricolate molte vetture che sono in consegna in queste settimane”. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 19 febbraio 2019 33


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CARTOLINA DA GINEVRA, ECCO COME È CAMBIATA L’INDUSTRIA DELL’AUTO

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a cartolina dal salone di Ginevra riporta un’industria dell’auto tesa, contrariata. Non c’è aria di crisi, eppure manca l’entusiasmo. Parli con i capi delle case e senti più o meno il medesimo mantra: stanno facendo una corsa verso un cambio di tecnologia che non condividono e che il mercato non comprerà. Eppure corrono, inseguiti da un legislatore che gli sposta ogni tanto il traguardo delle emissioni di CO2 più avanti, indifferente alla fattibilità industriale, che è indietro con le infrastrutture e che mostra un cartello dove su un lato c’è scritto “NO CO2” e sull’altro “NO DIESEL”, ignaro dell’incoerenza. Il cambio è quello ormai noto dell’elettrificazione, nelle forme del “full electric” (solo motore a batterie) e dell’ibrido (motore termico più batterie) in misura più o meno capace, a seconda che ci sia o meno la spina. Sulla prima soluzione hanno già scritto il de profundis, nel modo politically correct di oggi: non si dice NO, ma si sposta in avanti il tempo, nella quasi certezza che, trattandosi pur sempre di un galantuomo, sarà lui a togliere le castagne dal fuoco. Sulla seconda le considerazioni che ascolti sono più articolate. Nessuno è contrario, ovviamente, visto che coniuga una sensibilità ambientale con le abitudini di uso dell’auto, tuttavia… Non è una soluzione per le percorrenze medio-alte, perché i consumi aumentano e con essi le emissioni. Quindi i grandi clienti, che oggi pesano un terzo delle vendite, non le compreranno. Gli altri possono seguire questa transizione, ma con i loro tempi. Inutile fare fughe in avanti, per trovarsi da soli in un luogo dove mancano i clienti, che per adesso stanno sostituendo le utilitarie diesel con quelle a benzina, facendo aumentare la CO2. Inoltre, quando 34


dovesse venir fuori che molti di questi motori camminano poco a batteria e molto col termico, rischierebbero di trovarsi di nuovo sotto attacco, accusati di aver aggirato i limiti imposti sulle emissioni – centraline 2, il remake? Purtroppo, questa riconversione industriale sta drenando miliardi di investimento e questo i manager proprio non riescono a mandarlo giù. Sia perché comprendono che chi ha più risorse e investe di più e prima si troverà più esposto. Sia soprattutto perché sono cresciuti con la cultura del mercato, per cui si produce ciò che si vende. Adesso invece la linea è di vendere ciò che si decide di produrre, per non incorrere in sanzioni e multe. E se i clienti non compreranno? Pazienza, gli viene risposto. Ora, si potrebbe obiettare, con ragione, che sia un bene che il regolatore, avendo a cuore interessi sociali, ponga limiti al mercato e all’industria. Se tali limiti perseguono il bene pubblico nei fatti, non solo nelle intenzioni. Gli addetti ai lavori sanno però che non è così. Inquinamento e riscaldamento, nella misura in cui sono attribuibili alle macchine (ed è una misura minima), riguardano quelle obsolete, non le nuove. Di conseguenza, il ricambio andrebbe favorito, non osteggiato, soprattutto agevolando l’acquisto di usato recente a fronte di rottamazione. Ultimo, ma non meno importante, vedono sullo sfondo un’equazione geo-politica che non torna. Riconoscono che la via elettrica è una scelta cinese, e va bene: c’è un interesse legittimo. Ma non capiscono perché l’Europa (e segnatamente la Germania) segua la stessa rotta, andando incontro a una perdita di supremazia tecnologica e a una dipendenza sulle materie prime e sui componenti. Non lo capiscono i manager europei e ancor di meno quelli che ci guardano da fuori, da occidente come da oriente, e si sorprendono. Ma in fondo, la vecchia Europa è stata sempre un mistero per gli altri popoli. In conclusione, senza addentrarsi troppo nelle questioni tecniche 35


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e oggettive, l’impressione è che per la prima volta nella sua storia l’industria automobilistica si trovi a dover fare i conti con un regolatore ostile. Finora, l’interesse delle case e quello dei Paesi avevano sempre coinciso: investimenti, occupazione, ricchezza, evoluzione del prodotto e dei processi produttivi. Ora quella sintonia è svanita e l’industria si sente come un giovane di buona famiglia, educato e ben formato, che improvvisamente deve vedersela per la strada. Non menare le mani, ma almeno alzare la voce? Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 7 marzo 2019

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO Otto auto business su dieci sono diesel, perché? Il motore diesel è competitivo per consumi e costi di gestione, e grazie all’elevata affidabilità è ideale per le lunghe percorrenze. Per quanto riguarda i valori residui, l’usato ancora non sta soffrendo il calo di domanda. I bassi consumi, poi, comportano anche livelli di CO2 molto contenuti. Secondo il Consiglio Nazionale delle Ricerche, pari a quelli di un’auto elettrica, considerando anche la produzione. Quanto inciderà il malus sul business? Il malus colpisce le auto in base alla CO2, che non è un inquinante ma un clima-alterante, e favorirà i motori diesel perché ne emettono meno di quelli a benzina. Creerà confusione, col risultato che i clienti rimandano gli acquisti, raffreddando l’economia. L’obbiettivo era di fare cassa per finanziare gli incentivi alle auto così dette pulite. Superflui, perché le loro vendite sono destinate a crescere da sé. Intervista pubblicata su Al Volate, ad aprile 2019

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IL MODERATO OTTIMISMO DEGLI OPERATORI

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anno espresso ottimismo sull’andamento del mercato moto e scooter 2019 gli operatori che si sono ritrovati a Roma alla Capitale Automobile moto, promossa da Agos e organizzata dal Centro Studi Fleet&Mobility, in concomitanza con RomaMotoDays. Oltre 200 tra concessionari, costruttori dei principali marchi e addetti ai lavori hanno formulato le loro previsioni. Per le moto quasi uno su due ha indicato una crescita, ad una cifra per il 24% dei rispondenti e addirittura superiore al 10% per un altro quarto. Ma anche gli altri non si sono dichiarati pessimisti, con il 43% che prevede un mercato 2019 stabile sui volumi più che dignitosi dello scorso anno, quelle 93mila moto che il mercato non aveva mai richiesto prima. Sugli scooter gli operatori che hanno preso parte al televoto in diretta si sono mostrati più polarizzati. Se il 56% prevede una crescita, seppure su tassi più contenuti, tra il due e il cinque percento, meno di uno su cinque si aspetta gli stessi volumi del 2018. Infatti, un quarto dei rispondenti ha indicato il segno meno, anche qui prevalentemente intorno al 2%. Oltre ai numeri, sono stati affrontati molti altri temi, dalla sicurezza allo sviluppo delle reti distributive, alla luce del crescente ricorso al web da parte dei clienti. Mentre solo un operatore su cinque ritiene che “la vendita online non sfonderà”, due su tre indicano che il prossimo passo dei concessionari è quello dell’integrazione tra online e offline. Sempre più il cliente vorrà incontrare le offerte navigando in rete e anche concludere parte del processo d’acquisto da remoto, pur se il rapporto fisico col dealer resta un punto fermo e non solo per provare la moto (atto irrinunciabile) ma anche per stabilire quel rapporto di fiducia ritenuto necessario. “Un esempio di integrazione è la firma digitale che abbiamo introdotto ormai da alcuni anni – ha detto Valerio Papale di Agos – per risparmiare al cliente uno spostamento solo per motivi burocratici e amministrativi”. Un’industria dunque in salute e in crescita, non solo economica, a cui piace ritrovarsi e confrontarsi. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 12 marzo 2019 38


L’INCERTEZZA TOCCA ANCHE LE FLOTTE

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om’era la battuta, “lo spread me lo mangio a colazione”? Divertente, l’idea che certi indicatori non tocchino la vita reale. Purtroppo non è così, e se a colazione si chiama spread, a ora di pranzo diventano consumi, anche di beni durevoli. L’economia si basa sulle aspettative, che non sono per niente buone, soprattutto per le imprese. Così, è doveroso chiedersi come andrà il mercato delle flotte, che pesa oltre un terzo delle vendite di auto nuove. “Avvertiamo nei clienti un atteggiamento attendista, per l’incertezza sulle prospettive economiche” – ci ha risposto Fabrizio Quinti di Ford. “Per il 2019 prevediamo un certo calo, cominciato nei mesi scorsi, attribuibile anche, ma non solo, a una flessione del rent-to-rent” (acquisti dei noleggiatori a lungo che vengono poi noleggiati al rent-a-car). Il comparto auto però non soffre solo dell’andamento generale dei consumi, ma anche di problemi suoi endogeni. Nel Paese circolano oltre dieci milioni di vetture vecchie, molto inquinanti e poco sicure. Quando lo fanno in Val Padana, una delle aree più industrializzate d’Europa, con un clima non esattamente di brezza marina e riscaldamenti adeguati, le amministrazioni pongono severi limiti alla circolazione. Per le auto vecchie? Non sempre, a volte il divieto colpisce pure le nuove, senza ragione – e senza che i livelli di inquinamento si abbassino, ovviamente. Sia come sia, scatta la corsa alle vetture ibride, vere o presunte. Queste non sono indicate per chi fa lunghe percorrenze, ma se un manager gira prevalentemente in città deve per forza considerarle. Ciò è positivo, secondo Gregoire Chovè di Arval, il leader dei noleggiatori, perché “allontana le aziende dalla filosofia one-size-fits-all, avvicinandole alla personalizzazione dei modelli in funzione delle reali esigenze dei driver”. L’altra moda dei nostri tempi è la criminalizzazione dei nuovi die39


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sel a causa dei vecchi diesel. Un’ordinaria nemesi, che per fortuna si sta sgonfiando e a cui comunque le flotte non stanno troppo abboccando. Il loro primo fornitore di auto, Alessandro Grosso (FCA), riporta che “i fleet manager considerano versioni a benzina, ma poi rimangono sul diesel perché è più efficiente e assicura emissioni di CO2 inferiori”. Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 marzo 2019

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IL PROBLEMA DELLA CO2 È NEL PARCO CIRCOLANTE Sostenibilità. Controproducente penalizzare le vetture nuove, già poco inquinanti.

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’è una grossa partita che si sta giocando tra le grandi aree economico-industriali del mondo, che non risparmia l’auto. È ovviamente una disputa tra chi le fabbrica e chi le compra, ma c’è di più. L’auto rappresenta la mobilità diffusa, personale e quotidiana e pertanto, se fabbricarle e venderle è strategico, farle muovere lo è ancora di più: chi controlla la “pompa” controlla la mobilità di un Paese. Lo sa bene chi ha vissuto gli anni ‘70, quando cambiarono gli assetti del petrolio. Stavolta è diverso, non ci sono conflitti, la partita è giocata a colpi di comunicazione e di opinione pubblica, preoccupata a ragione dell’ambiente. L’anidride carbonica (CO2) è il gas serra che alza la temperatura media del pianeta. La Terra stessa la produce, in quantità variabile, attraverso soprattutto oceani e foreste. Tuttavia, se l’uomo non ci fosse se ne produrrebbe di meno, circa il 3,5% in meno. Poco, si dirà, ma non è un buon motivo per mettere in discussione l’impegno a contenerne le emissioni, anche ripensando alcune attività industriali e sociali. Ad esempio, spostando la produzione di energia elettrica, che pesa un quarto di tutte le emissioni umane (sì, l’elettricità non è ad emissioni zero) verso le rinnovabili, oppure rivedendo il riscaldamento domestico, la seconda fonte di CO2. Anche l’industria dell’auto si fa carico del problema, gravata da un atavico quanto ingiustificato senso di colpa, sebbene non possieda alcuna soluzione, bisogna ammetterlo una volta per tutte. Se tutte le auto scomparissero di colpo, le emissioni di CO2 subirebbero un tracollo dello 0,2% (zero-due-percento, che per quelle europee diventa 0,06%). È pur sempre qualcosa. In verità no, perché queste sono le emissioni delle auto in circolazione. Quelle di nuova immatricolazione sono un 41


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ventesimo del totale e hanno emissioni di gran lunga più contenute. I costruttori ne sono consapevoli, ma sono forzati a spostare il mercato sull’elettrico di cui “non c’è domanda spontanea” – ammette Fabrizio Faltoni di Ford, che aggiunge: “Non vince il cliente, che paga tanto l’auto, per basse autonomie e un uso complicato, e non vince il costruttore, che sostiene alti costi industriali non coperti da ricavi adeguati”. La pressione arriva dai limiti auto-imposti dall’UE, che davanti a un problema grave e imponente (il riscaldamento globale) sceglie la non-soluzione. Sia perché, come dicono i numeri, sono altre le fonti di emissione di CO2 e forse affrontarle sarebbe socialmente più complicato. Sia anche perché, mentre si combatte la CO2 a livello centrale, le amministrazioni locali delle principali città europee combattono il diesel, che è il propulsore più efficiente e dunque con le emissioni minori. Nel solo mese di gennaio, le auto nuove immatricolate hanno una media di emissioni di CO2 di 121 gr/km, rispetto ai 113 gr/km del gennaio 2018: incremento riconducibile alle preferenze per vetture a benzina anziché diesel, a causa dei limiti alla circolazione imposti pure alle macchine di ultimissima generazione. Ovviamente, l’idea del legislatore sarebbe un’altra, di sostituire le vetture termiche con le elettriche, solo che non succede. I costruttori, che ci hanno provato per dieci anni, ti spiegano perché i clienti non le comprano: i prodotti non hanno l’autonomia necessaria, di almeno 7/800 chilometri, poi mancano le colonnine di ricarica e, quando anche ci fossero, imporrebbero soste e code inaccettabili. Sopra il mercato, stanno altre perplessità, non meno rilevanti, come il dominio cinese nella produzione di batterie e nel controllo del cobalto e altri materiali necessari. Secondo Paolo Scudieri, neo-presidente di Anfia, con la transizione all’elettrico “andremmo a barattare ciò che conosciamo con ciò che non abbiamo”. Questa la realtà sottostante, mentre si gioca la partita della comunicazione verso un pubblico che vede una siccità in TV e avverte il bisogno di fare qualcosa, anche la danza della pioggia. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 marzo 2019 42


LE IMPORTAZIONI PARALLELE AGITANO LE ACQUE DEL MERCATO I canali di vendita. Le immatricolazioni di auto già targate all’estero sono 155mila: un fenomeno che pesa sulle dinamiche commerciali in Italia.

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el Sud Italia, per 5 clienti che immatricolano un’auto nuova ce n’è uno che invece immatricola una vettura che era già stata targata in altro Stato europeo. Le 155.000 importazioni parallele valgono l’8% del totale mercato Italia, ma questa incidenza non è la stessa nelle diverse aree del Paese. Se nel centro-nord i volumi sono intorno al 6/7% rispetto al mercato ufficiale, nelle isole sfiorano il 14% e nel sud peninsulare superano il 18%, per toccare in Campania il 28%. Conoscendo le diverse situazioni economiche di queste zone, è facile associare a queste vendite una prevalente motivazione di risparmio. Nessun brand può dirsi estraneo a questi flussi, anche se oltre il 30% è rappresentato da Fiat e un altro 20% abbondante è fatto da Audi e Volkswagen. Diciamo subito che le case e le reti ufficiali non sono affatto contente di queste vendite, che indubbiamente sporcano il mercato. Si dichiarano estranee, anzi vittime, poiché sostituiscono vendite che dovrebbero e vorrebbero fare loro, oltre a far circolare tra i clienti l’informazione di auto disponibili a un prezzo inferiore rispetto a quello praticabile dai canali ufficiali. Allora, qual è il flusso di queste vendite? Per l’esattezza, i flussi, visto che non c’è una fonte unica, sia come soggetti venditori che come paesi di provenienza. Chiariamo che all’inizio del percorso c’è una vendita regolare, fatta attraverso i canali ufficiali, con uno sconto molto forte. Simili abbattimenti di prezzo vengono praticati al rent-a-car, ed è quella la fonte indicata da molti. Non i grandi noleggiatori, certo, che han43


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no accordi di fornitura europei che spesso includono il buy-back, con cui il costruttore ritira a fine periodo le macchine, proprio per evitare che vadano sul mercato al di fuori della propria rete – che invece ha bisogno di usato fresco per accontentare qualche cliente. Piuttosto, si tratta di piccoli operatori, che tengono le auto in flotta per due/tre mesi e poi le rivendono con pochissimi chilometri. Se questo è il grosso del flusso, ci sta pure che qualche operatore faccia il furbo e tenga le macchine ferme per rivenderle ancora prima: in pratica, dei km0 mascherati da rent-a-car. Pur senza arrivare a tanto, bisogna comprendere che l’universo del rent-a-car, soprattutto nel sud-Europa e nel Mediterraneo, non è fatto da grandi operatori multinazionali e qualche medio noleggiatore, tutti genuinamente impegnati a usare le vetture, bensì è costituito da una miriade di piccolissimi operatori, a volte presenti su una sola isola, attivi nelle settimane estive. Alla fine della stagione, le macchine prendono la via dell’Italia, con pochissimi chilometri e un prezzo iniziale scontatissimo, che consente di trovare facilmente il compratore. Appare evidente come le reti ufficiali si sentano spiazzate da queste offerte. Verrebbe da chiedere: ma perché gliele vendono, se poi non sono contente di trovarsele tra i piedi? La risposta arriva subito: se una casa rifiuta la vendita, subito un’altra si propone. La soluzione sarebbe piuttosto di aumentare il controllo sui flussi, per limitare il raggio d’azione dei furbi che ci sono sempre. Anche perché non sono solo macchine rent-a-car e non vengono solo dalle località di villeggiatura del Mediterraneo. Qualche costruttore punta il dito pure sui concessionari di altri Paesi, magari dell’Est-Europa, che spesso hanno anche un’attività di autonoleggio che permette loro di accedere a sconti eccezionali. Questo è il canale dove transitano per lo più le auto più importanti, di brand premium e alto di gamma. Trattandosi di vendite guidate soprattutto dalla convenienza di prezzo, abbiamo anche indagato se non ci fosse all’origine un eccessivo disallineamento dei listini e delle scontistiche tra diversi pa44


esi europei. C’è sicuramente, perché il costo della vita è abbastanza difforme. In particolar modo, nella penisola iberica e nell’est-Europa il cliente acquista le macchine a un prezzo inferiore a quello praticato in Italia. Si tratta tuttavia di una differenza minima, che non può contenere i costi del trasporto e dell’immatricolazione/radiazione, più il margine del commerciante. No, si tratta di vendite fatte a piccoli noleggiatori e poco controllate. Assodato che filiali e concessionarie italiane sono vittime del fenomeno, è interessante analizzare il dettaglio delle statistiche. Tutti i brand risultano oggetto di questo commercio trans-frontaliero, sebbene non tutti allo stesso modo. Il leader di mercato ovviamente subisce oltre il 30% del fenomeno, comprensibilmente visto che qui ha tanta richiesta. All’opposto, i marchi francesi hanno un peso decisamente basso, probabilmente perché il fenomeno prede la via della Francia. Ma i più gettonati sono i brand tedeschi del lusso, con una quota nel mercato parallelo che va dal doppio a quasi quattro volte quella che hanno nel mercato ufficiale. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 marzo 2019

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LO STANDARD WLTP RIDUCE L’OFFERTA

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nche il nuovo processo di omologazione delle vetture, nel suo piccolo, sta contribuendo a cambiare l’offerta automobilistica a cui eravamo abituati.

Il WLTP (Worldwide Harmonized Light-Duty Vehicles Test Procedure), in vigore da settembre dello scorso anno, nasce con l’obiettivo di testare il veicolo nelle condizioni di uso effettivo tanto da prevedere anche un test su strada per la misurazione delle emissioni, RDE (Real Driving Emissions). Di conseguenza, si ritiene che metta in difficoltà i costruttori per la severità dei controlli, che fanno venir fuori performance e prestazioni reali. È così, ma non è questo il grattacapo principale per le case. Non in epoca di limiti alle emissioni di fatto impossibili da raggiungere, sicuramente non risolvibili con un po’ di tolleranza nell’omologazione. Il vero problema è la complessità del processo, che dura più a lungo e prevede un numero più elevato di misurazioni. “Non è più come prima – ti spiegano i capi delle case – quando omologavi la versione base e poi su quella sviluppavi tutti i derivativi che il mercato poteva chiedere. Adesso ogni versione deve fare tutti gli oltre 40 test per ottenere l’omologazione”. Risultato: la produzione si concentra su quello che si vende di più. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una proliferazione di allestimenti, ma d’ora in avanti i listini si asciugheranno e diventeranno di serie molti di quegli optional che imporrebbero alla vettura un’apposita omologazione. Una questione di pigrizia, dunque? No, di soldi. I costruttori sono sotto stress finanziario a causa della transizione verso l’elettrico, che impone costi di trasformazione degli impianti e di produzione, a fronte di ricavi che si annunciano insufficienti, visto che il cliente – seppure dovesse comprarle – non è disposto a pagare il sovrapprezzo relativo. Dunque, si ottimizza tutto e si offrono al mercato solo le auto dove i margini sono positivi. A farne le spese 48


saranno le piccole utilitarie, cominciando dal segmento A: molti costruttori ne sono usciti e altri lo faranno. Secondo Michele Crisci di Unrae, “ogni brand punterà a fare le auto che sa fare meglio e per cui ha più mercato a livello globale”. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 marzo 2019

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

AUTO, I PERCHÉ DEL CROLLO: FRENANO I NOLEGGI E KM0, BONUS-MALUS NON PERVENUTO

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agari non fa notizia, ma sono stati i noleggi e i km0 a tirare giù le vendite di auto nuove a marzo. Il rent-acar, complice una Pasqua ancora lontana in aprile, ha immatricolato molto meno dello stesso mese dell’anno scorso. Anche il noleggio a lungo ha rallentato, ma a questo probabilmente dobbiamo abituarci, almeno per questo 2019. L’altra bella frenata arriva dai km0, poiché i costruttori hanno alzato il piede dall’acceleratore della quota a tutti i costi, vuoi perché qualcuno la quota la sta facendo lo stesso, vuoi perché la rete ha molto stock e va alleggerita, vuoi perché stare a certe quote costa troppo e non vale tanto la pena, soprattutto per il costruttore nazionale. Nella sostanza economica, marzo ha mostrato un mercato più sano, per la parte relativa alle minori auto-immatricolazioni, e più ricco, sia per questo e sia per i minori noleggi, che assorbono sconti molto alti. Poi ci sono i minori acquisti delle società, un migliaio di auto ma meno 11%, che è il sintomo di quanto sentano la recessione in atto e di quanto credano alla ripresa dell’economia. Infine, le quasi 2.000 auto che mancano all’appello dei privati, francamente una goccia pari a meno 1,6%, tanto che ognuno può giustificarla come vuole. Né il bonus né il malus hanno giocato. Il primo perché privo del Decreto e della piattaforma necessaria a richiederlo, il secondo perché le immatricolazioni riguardavano ordini fatti entro febbraio. Prosegue invece l’aumento della CO2, passata da 112,9 grammi/ km del marzo 2018 ai 119,2 del mese scorso, dovuta alla fuga dal diesel a favore dei motori a benzina, sotto le inopinate spinte delle 50


amministrazioni locali, che preferiscono aumentare il contributo al riscaldamento globale pensando di contrastare l’inquinamento delle città. Cosa giustissima, ma perseguibile solo limitando la circolazione delle auto vecchie, senza penalizzare le nuove che di fatto hanno emissioni inquinanti ormai irrilevanti. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 2 aprile 2019

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LE DUE RAGIONI CHE RENDONO IL MERCATO PIÙ COMPLICATO

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l noleggio a lungo termine negli ultimi anni sembrava un treno, che andava sempre e comunque, pure quando il resto del mercato dell’auto registrava qualche battuta d’arresto. Adesso che nei primi due mesi ha fatto segnare -18% negli acquisti, è lecito farsi qualche domanda. Stanno di nuovo prolungando le scadenze dei contratti attivi, rinnovando di meno? No, ti rispondono: il cosiddetto re-contracting è stabile. La verità è che le aziende hanno cominciato a comprare meno, già nell’autunno, e così i noleggiatori sono entrati nel nuovo anno con un portafoglio più scarico rispetto agli anni precedenti. Perché? Due ragioni. Da un lato, quell’incertezza del sistema produttivo sull’andamento dell’economia, con la paura che diventi certezza, che ha fatto tirare il freno a mano a tanti. Dall’altro, dentro il sistema del noleggio, quella spinta verso l’alto dei prezzi, iniziata già lo scorso anno e determinata dalla fine del super-ammortamento e dall’abbassamento dei valori residui sui motori diesel (che pesano circa il 70/80% delle flotte). Peccato, perché la migrazione verso il NLT garantisce il ricambio breve delle auto, migliorando la sostenibilità del parco circolante. Per corollario, la cautela sui VR sta frenando anche quella pratica dei noleggiatori di acquistare auto per lo stock, con sconti fortissimi, per poi offrirle in pronta consegna ai clienti. Anche i costruttori confermano questa attenzione dei noleggiatori ai valori residui del diesel, ma segnalano pure altri fattori che a loro giudizio starebbero alla base del rallentamento. Sul fronte dell’offerta, i noleggiatori sarebbero più selettivi nell’accettazione dei clienti, scottati da un tasso eccessivo di pagamenti in sofferenza. Sul lato della domanda, più di un cliente avrebbe lamentato un’esperienza non all’altezza delle aspettative, specialmente nelle 52


fasi di attesa e poi di consegna della vettura. Due fronti che appaiono diversi ma in realtà sono parte di quel necessario processo di affinamento del business, verso il nuovo segmento dei privati. Sono gli stessi noleggiatori a confermare un cambio di filosofia negli ultimi mesi, in fuga dai volumi ad ogni costo e in favore di una maggiore qualità delle vendite. Per tutto quanto detto sopra, i margini sono entrati in compressione e questo non va bene. Per nessuno e men che meno per delle banche. La gara quest’anno, ti dicono, non è a chi aumenterà di più la flotta, ma a chi l’avrà più profittevole. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 4 aprile 2019

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AUTO EURO ZERO, PER BISOGNA TOGLIERE IL TAPPO!

ELIMINARLE

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na vasca da bagno è l’immagine che meglio descrive il parco auto circolante in Italia. Sul fondo c’è acqua sporca, composta di vetture vecchie, poco sicure e molto nocive per l’ambiente, sotto il profilo dell’inquinamento (polveri sottili e ossidi di azoto) e del clima (emettono molta CO2). Si tratta delle cosiddette Euro 0, immatricolate prima del 1993. Man mano che si sale verso la superfice l’acqua migliora, perché le auto più recenti, rispondendo alle normative Euro, hanno via via ridotto sia le emissioni inquinanti sia i consumi – e dunque la CO2 – fino ad arrivare alle attuali Euro 6, il cui impatto è decisamente marginale. Come liberarsi delle Euro 0 è la domanda che affligge il settore e le amministrazioni pubbliche, centrale e locali. Finora la strategia è stata quella di aiutare i proprietari di queste vetture, che volessero rottamarle, con un incentivo sull’acquisto di un’auto nuova, in varie tornate iniziate nel 1997 e culminate con la madre di tutte le rottamazioni, quella del 2009/10, che costò all’erario oltre 1,2 miliardi al netto del maggior gettito IVA. Nessuna di queste ha prodotto risultati apprezzabili sulle Euro 0, specialmente se confrontati con le radiazioni di auto meno vecchie. Esiste evidentemente uno zoccolo duro di italiani per i quali l’acquisto di un’auto nuova è fuori portata. Tornando alla nostra immagine, possiamo dire che incentivando l’immissione di nuove auto gli automobilisti tendono a espellere l’acqua che sta nel mezzo, piuttosto che quella sporca in basso: in pratica, esce dai bordi e non dal fondo. Venerdì 12, in occasione della Capitale Automobile promossa da Agos e ospitata dall’Automobile Club d’Italia, è stato chiesto agli oltre 150 partecipanti, tutti esperti del settore, di indicare quale strada percorrere per spingere i proprietari di vecchie Euro 0 54


a radiarle, considerando anche l’ipotesi di aiutare con un incentivo chi volesse acquistare un’auto usata più recente, da Euro 4 in avanti. Cosa cambierebbe è presto detto. Il prezzo medio di un’auto usata è intorno a 7.000 euro, laddove quello delle vetture nuove supera i 20.000. È evidente come un incentivo, diciamo di 2.000 euro, avrebbe un peso enormemente maggiore sull’acquisto dell’usato, rendendo la barriera economica superabile in maniera più agevole. Ma cosa hanno suggerito gli esperti? Uno su tre ha affermato che bisognerebbe “incentivare chi acquista un usato fresco, da Euro 4 in avanti”, mentre solo il 4% dei rispondenti ha proposto di “incentivare chi acquista un’auto nuova Euro 6d”. Il maggior favore, quasi 4 su 10, è stato per la soluzione salomonica di “incentivare sia l’usato fresco sia il nuovo”. Dunque, nel complesso possiamo dire che il 72% vede con favore l’incentivo sull’usato, come unica soluzione oppure insieme all’incentivo per l’acquisto di un’auto nuova. L’altro risultato interessante è stato poi quel quarto di rispondenti che ha suggerito di non dare “alcun incentivo ma vietare la circolazione delle Euro 0” – come dire: le vecchie auto inquinanti e clima-alteranti non le vogliamo più, arrangiati! È un’ipotesi, per ora in conflitto con la politica attuale di agevolare i possessori di auto vecchie, che pagano il bollo dimezzato se l’auto ha più di vent’anni ovvero non lo pagano affatto (oltre 30 anni). In conclusione, l’idea di far uscire l’acqua sporca dal fondo, togliendo il tappo, sembra trovare consensi, anche perché questo genererebbe comunque un tiraggio dal basso che porterebbe ad alimentare la domanda di vetture nuove. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 15 aprile 2019

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AUTO VECCHIE, ECCO CHI SONO GLI ITALIANI CHE NON SE NE DISFANO E PERCHÉ

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olti conservano il ricordo che i nostri genitori la macchina la tenevano tanti anni, mentre oggi la si cambia più frequentemente. Sarà, ma una volta le macchine poi finivano allo scasso. Adesso invece sembrano avere più vite di un gatto e vengono vendute. L’anno scorso un’auto ogni dieci vendute usate era stata immatricolata nel secolo scorso, ossia aveva già vent’anni nelle ruote. Un fenomeno che sta crescendo proprio in questi anni. Sempre nel 2018, le vetture usate con oltre 10 anni di vita erano il 43% degli oltre 3 milioni di trasferimenti, rispetto al 29% del 2012, appena sei anni prima. Alla luce di questa attività di compravendita, non ci possiamo sorprendere se poi scopriamo quanto il nostro parco circolante sia vecchio. Nel 2018, su 39 milioni di targhe registrate al PRA, quasi il 17% risultava avere oltre 20 anni. Alla fine del secolo scorso la percentuale era l’8%, meno della metà. In numeri assoluti, le “signorine” ultraventenni sono passate da 2,7 milioni del 2000 a 6,5 milioni del 2018. Perché dunque si conservano e si usano auto così vecchie? Proprio negli anni in cui l’assistenza preventiva e programmata ha affiancato quella riparativa, che si occupava dell’auto solo quando non camminava più – famosa la frase: “guardi, 100.000 chilometri senza mai aprire il cofano!”. Hanno affrontato il tema gli esperti del settore, riuniti venerdì 12 alla Capitale Automobile, evento promosso da Agos e curato da Fleet&Mobility. Ovviamente, fenomeni così vasti hanno più di una motivazione, ma due sembrano di maggiore rilevanza. Da un lato, il fattore demografico. Ci sono molti più anziani. Se alla fine del secolo le persone over 65 anni erano poco più di 10 milioni, nel 2018 hanno sfiorato i 14 milioni, con un incremento superiore al 33%. Non è irrealistico pensare che un automobilista di 70/80 anni abbia meno inclinazione di un giovane adulto a cambiare l’au57


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to. Forse perché tende a usarla meno, o perché c’è abituato e non vuole lo stress di un’altra vettura. Magari è meno sensibile alle innovazioni tecnologiche che accompagnano le nuove proposte. Forse ha anche delle priorità economiche diverse, con le difficoltà che molti giovani adulti incontrano e che li portano a dipendere ancora, in parte, dai genitori. Dall’altro lato, non è un mistero che le auto abbiano fatto dei progressi enormi in termini di qualità. L’ultimo decennio del secolo scorso ha visto diffondersi alcune innovazioni che hanno contribuito ad allungare la vita delle vetture, dalle vernici resistenti alla ruggine all’airbag, dall’ABS all’aria condizionata. Certo, non sono mancate negli ultimi vent’anni innovazioni altrettanto importanti. La tecnologia di bordo, la riduzione dei consumi e delle emissioni inquinanti, e soprattutto il body, con l’avvento dei SUV e dei crossover. Tuttavia, è innegabile che si tratti di evoluzioni più selettive, che richiedono qualità non sempre largamente diffuse tra gli automobilisti. Parliamo della sensibilità all’ambiente o all’estetica, per non dire della capacità di utilizzare dispositivi avanzati – che è quanto stanno scoprendo i grandi produttori di smartphone, i cui modelli di punta fanno fatica a sfondare tra il grande pubblico, che trova poco percettibili o apprezzabili le differenze con i modelli precedenti, sicuramente non paragonabili al passaggio dalla tastiera al touchscreen. Insomma, se nel secolo scorso i clienti erano più inclini a giubilare le vetture che raggiungevano la maggiore età, adesso si mostrano molto più conservativi, perché più vecchi loro e perché meno vecchie le macchine. Apparentemente, non un problema dell’industria, che si rivolge ai compratori di auto nuove, distanti dai possessori di macchine del ‘900. Queste però fanno da tappo, data la quantità assoluta di vetture in circolazione, 630 ogni 1000 abitanti. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 aprile 2019 58


FLOTTE AZIENDALI, DIESEL IRRINUNCIABILE MA I VALORI RESIDUI SCENDONO E I CANONI SALGONO

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’industria dell’auto attraversa un periodo di ripensamento senza precedenti. Strategie nuove, che prevedono di riformulare la missione stessa dei costruttori, da metalmeccanici a service provider, al tempo stesso mettendo in cantiere decine di modelli basati su propulsori nuovi, elettrificati. Molti sono ibridi, ossia coniugano la trazione elettrica con quella termica, ma non pochi pretendono di affidare la mobilità alle sole batterie. Si tratta di prodotti nuovi, che i clienti non hanno mai utilizzato e nessuno può dire quanti di essi li adotteranno. Anche perché, diciamolo, c’è nell’aria una certa smania di futuro, che a qualcuno pare eccessiva. Nel senso che quando inesorabilmente arriverà potremmo scoprirlo stranamente e fastidiosamente somigliante al presente. Intendiamoci, il cambiamento sta nelle cose e non si discute. Piuttosto, sono il passo e la direzione da trattare con prudenza. Nel settore business, le auto sono strumento di lavoro e vengono valutate nel presente, secondo convenienza. In questi mesi, le imprese sanno che il diesel sta sopportando una significativa caduta di fascino, per usare un eufemismo. Perdere quasi 13 punti di quota di mercato nei primi due mesi è più di un segnale. Però quello è il mercato complessivo e include tante utilitarie, che non fanno tanti chilometri e magari era una forzatura prenderle a gasolio. Un’auto business risponde ad altre esigenze. Le percorrenze sono maggiori e l’affidabilità del propulsore conta almeno quanto la sua parsimonia alla pompa. Se poi aggiungiamo che il diesel ha emissioni di CO2 inferiori al benzina di circa il 20%, diventa ancor più difficile abbandonarlo. In effetti, gli addetti ai lavori riportano che i fleet manager valutano gli altri propulsori, specialmente quelli ibridi che permettono ai manager di girare tranquillamente 59


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anche in presenza di limiti alla circolazione. In più di un caso queste vetture vengono effettivamente ordinate, introducendo un concetto di personalizzazione della company car, che non guasta, rispetto alla massificazione a cui eravamo abituati. Però in genere la scelta alla fine cade ancora sul diesel, per quanto detto sopra e grazie al fatto che quelli di ultima generazione presentano dei parametri di impatto ambientale davvero minimi. Dunque business-as-usual? Non proprio, perché fuori, oltre le flotte, c’è sempre il mercato. Dell’usato, ma pur sempre mercato. Oggi assorbe i diesel senza battere ciglio, stando a quanto riferiscono i concessionari e i responsabili re-marketing dei noleggiatori, che sono in assoluto e di gran lunga i più grandi venditori di usato del Paese. Ma quanto durerà? Chi adesso ordina una vettura business sta innescando un processo, che porterà quella stessa auto sul mercato come usato nell’arco di circa 40 mesi: parliamo del 2022/23. Quanto in basso sarà arrivata la domanda di auto a gasolio? I noleggiatori si proteggono abbassando i valori residui, cosa che stanno facendo con gradualità già da tempo. Ma minore è il valore residuo e maggiore è la parte di ammortamento che va a finire spalmata sui canoni mensili, che aumentano. Così le imprese si trovano a pagare di più le macchine, in ossequio alla furia che vuole i nuovissimi diesel come il male assoluto e, per corollario, la loro scomparsa come la grande soluzione all’inquinamento e al riscaldamento globale. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 aprile 2019

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AUTO DIESEL, VENDENDONE MENO NON CALERANNO LE EMISSIONI DI POLVERI E NOX

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a fuga dal motore diesel porterà un beneficio ambientale? Per adesso come sappiamo comporta un danno economico all’Europa, nella misura in cui una sua industria portante, l’auto, perde di competitività verso i costruttori nord-americani e asiatici. La domanda è: ne vale la pena? Meno macchine diesel nuove, Euro 6d, faranno diminuire sensibilmente le emissioni inquinanti, principalmente polveri sottili (PM 10 e 2,5) e ossidi di azoto (NOx)? Stando alle analisi (ormai ce ne sono di varie fonti) sembrerebbe proprio di no, per due motivi. Il primo è che sono i vecchi motori diesel a inquinare, non quelli di ultima generazione. Tra un motore Euro 1 (1993) e uno di oggi ci passa il 95% in meno di emissioni. In termini concreti, significa che abbiamo un problema sociale: tanti cittadini che posseggono e usano (poco o meno poco) un’auto nociva per l’ambiente. 13,7 milioni di macchine ante Euro 4, pari a oltre un terzo del parco circolante. Scoraggiare l’acquisto di nuovi diesel fa sentire meglio gli illusi, ma il problema nemmeno lo scalfisce. Il secondo è che i diesel sono una fonte minore di questi inquinanti. Secondo le analisi di Aeris Europe, un organo consultivo, nel 2015 il 40% degli NOx proveniva dal trasporto su gomma e segnatamente il 14% dalle auto diesel. Tutte. Con l’avvicendamento delle vecchie con le nuove Euro 6d si stima un dimezzamento entro il 2025. Inoltre, a febbraio di quest’anno alcuni test RDE (real drive emission) dell’ADAC (Allegemeiner Deutscher Automobil Club) ha mostrato che alcune auto hanno già emissioni di NOx prossime allo zero. Per il particolato la questione è addirittura inconsistente. Dalla stessa analisi risulta che quello riconducibile alle auto diesel è appena il 4% del totale, poca roba a confronto con quello prodotto dalle abitazioni (46%) o col 44% proveniente dall’industria, dai rifiuti e da altre attività. Non solo, di quel 4% dagli scarichi ne esce solo la metà e in forte 61


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diminuzione, via via che le Euro 6d sostituiscono le auto più vecchie. L’altra metà deriva da usura di freni e pneumatici e, soprattutto, dal sollevamento dal suolo, come le giornate di pioggia indicano a tutte le amministrazioni e come un’apposita analisi, condotta da Dekra per la città di Stoccarda, ha scientificamente confermato: c’è una relazione inversamente proporzionale tra il numero di giornate di lavaggio delle strade e il numero di giorni di allarme e sforamento dei valori di PM. I 65 giorni di sforamento, registrati con soli 27 giorni di lavaggio, sono diminuiti a 23 quando i giorni di lavaggio sono saliti a 89. Chiarito questo, Dekra ha proseguito l’indagine, misurando il livello di PM in una stazione della metropolitana, dove ha riscontrato un valore di 60 microgrammi/m3, il 20% superiore ai limiti dell’UE, che saliva fino a 655, ben 13 volte il livello massimo, nei momenti di avvicinamento e arrivo del treno in stazione. Per soprammercato, potremmo aggiungere che le minori vendite di auto diesel, che resta il motore più efficiente, stanno determinando un innalzamento delle emissioni di CO2. Ma in realtà avrebbe poco senso, perché la CO2 riconducibile a tutte le macchine circolanti nell’UE è circa lo 0,06% del totale che il Pianeta produce ogni anno, tanto che l’intera faccenda delle multe basate sulla CO2 ha davvero scarso fondamento. In conclusione, di fronte alla oggettiva difficoltà ad affrontare le vere cause dell’inquinamento (riscaldamenti e, in misura minore, vecchie auto), sembra che sia una tacita intesa a consolarsi spingendo i consumatori a non comprare più auto diesel. È possibile che ciò sia frutto di banale disinformazione, eventualmente ben alimentata da fonti estranee e non coincidenti con gli interessi economici e ambientali delle comunità che soffrono livelli eccessivi di inquinamento – e che purtroppo continueranno a soffrire. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 29 aprile 2019

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IL RENT-A-CAR RIPORTA IN POSITIVO IL MERCATO DELL’AUTO IN ITALIA

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e immatricolazioni di aprile hanno segnato quasi 3.000 macchine in più rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Robetta di stagione. Senza le 7.400 auto in più del rent-a-car (che ha spostato ad aprile quello che non aveva fatto a marzo, causa calendario pasquale) la musica sarebbe stata un’altra. I privati continuano ad acquistare più dello scorso anno. Che significa? Come si legge questo dato? Nei privati ci finiscono anche le Partite IVA non societarie, che in Italia sono intorno ai 4 milioni, di cui una metà intestataria di un’auto. Sono gli stessi clienti che hanno alimentato la crescita del NLT negli ultimi 4 anni. Ora il NLT sta acquistando meno: mancano 7.800 macchine nel quadrimestre e aprile è in positivo solo grazie a una bella iniezione di 4.600 auto sui noleggiatori captive - quelli grandi, di volume, hanno fatto -11% nel mese e -17% nel quadrimestre. Sempre i privati, poi, comprano anche il nuovo a km0, che statisticamente vale come usato. Ad aprile le case hanno continuato a fare meno auto-immatricolazioni (soprattutto quelle dirette, ma questi sono interna corporis in cui è bene non entrare): meno 10.000 e meno 37.500 nei 4 mesi. È un fatto positivo, perché significa che stanno vendendo meglio, senza scontare troppo, ossia portando a casa più valore per ogni auto costruita – questa è la loro funzione, creare ricchezza. A distribuirla poi ci pensa il sistema politico. Però, se uno vuole una macchina nuova e non la trova a km0, finisce che se la fa immatricolare, portando su il canale privati. In conclusione, il mese si legge alla luce della stagionalità del rent-a-car, mentre l’anno continua a navigare a vista, scambiando ferro (km0) con soldi (margini). Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 maggio 2019 63


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IL NOLEGGIO PIACE MA NON PUÒ ESSERE SVENDUTO

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i fa presto a parlare di sharing economy, con oltre un milione di veicoli a noleggio nel 2018. Ma, a parte i distinguo tra lungo termine (che di sharing non ha proprio nulla) e breve o brevissimo (car sharing) termine, è importante puntare l›attenzione sull›economy, prima che sullo sharing. Nel senso che questi business, prima di essere al passo coi tempi, devono tenere in equilibrio l’equazione fondamentale dell’economia, quella dei conti. Intendiamoci, le aziende del noleggio a lungo e breve termine producono utili per gli azionisti e il 18esimo Rapporto sull’andamento del settore, relativo al 2018 e curato come ogni anno dal Centro Studi Fleet&Mobility, si concentra solo sugli aspetti di mercato, domanda e offerta. Però avverte, in più di un passaggio, che c’è una forte pressione sui margini, tanto che il modello di business costruito troppo sulla leva del prezzo pare aver bisogno di una registrata. Come emerge proprio dai numeri. Cominciamo dal rent-a-car (RAC). Con 1 miliardo e 229 milioni, il giro d’affari è cresciuto dell’1,8%. Bene. Peccato che i volumi siano cresciuti di più, due volte e mezzo di più, a oltre 36,3 milioni di giorni (+4,7%). Infatti, tutti gli indicatori dei ricavi sono peggiorati: il prezzo per noleggio (-1,4%), il prezzo per giorno (-2,8%) e il fatturato ricavato da ogni veicolo in flotta (-6%). Inoltre, questa ricerca dei volumi attraverso il prezzo si è anche accompagnata a una migliore qualità delle vetture noleggiate, dalle piccole alle utilitarie, che sicuramente avrà pesato sui costi, con ulteriore compressione dei margini. La ricetta prezzo per volumi ha funzionato, salvo nel canale coperto dai broker, che pesa il 40% dei volumi, ma ha diminuito la sua quota di ricavi dal 37 al 35%, confermandosi il tallone d’Achille del settore. 64


Il noleggio a lungo termine (NLT) ha mostrato nel 2018 dinamiche simili, con una crescita dei volumi spinta dall’aggressività dei canoni, sebbene originate da fattori diversi. Avendo scavallato a fine anno la soglia di 900.000 veicoli a noleggio, la flotta media dell’anno risulta aumentata del 16%, ben più del fatturato (+12% a 5,5 miliardi). Nonostante si sia registrato, anche in questo caso, uno spostamento di mix dalle utilitarie alle vetture medie, il canone medio mensile ha subito una contrazione superiore a 3 punti percentuali. Ultimo ma certo non meno importante, specialmente per capire la sharing economy, il car sharing. Il servizio si è stabilizzato nel corso del 2018 su una base inferiore di clienti attivi (diminuiti del 20%) che però hanno sviluppato il 27% in più di noleggi. Pure in questo caso, tuttavia, c’è un punto di domanda enorme che riguarda l’equazione costi/ricavi e che chiama in causa il prezzo del servizio (troppo basso) e pone dunque dubbi sulla sua sostenibilità. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’8 maggio 2019

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CON IL BONUS SULL’USATO VIA LE EURO 0

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i sta facendo strada l’idea che lo strumento davvero efficace, per spingere chi possiede una vecchia auto a rottamarla, sia quello di dargli dei soldi per comprarsene una più recente. Il problema è che gli italiani non rottamano le auto vecchie di 30 anni, poco sicure e molto inquinanti. Le Euro 1/2/3, ossia immatricolate dal 1993, vengono radiate in ragione dell’8% all’anno e la percentuale è in crescita di circa mezzo punto ogni anno, tanto che è verosimile prevedere che in meno di un decennio ce ne saremo sbarazzati del tutto. Invece quelle antecedenti, le cosiddette Euro 0, sono molto più resistenti: il tasso di radiazione è inferiore all’1% all’anno e si tratta di 3,8 milioni di targhe. Vero è che moltissime di queste figurano solo nel P.R.A. e nella realtà sono state dismesse e abbandonate (chissà in che luogo e in che forma?), tanto che l’Unrae le stima in circa 1,5 milioni, come è anche probabile che i loro proprietari le usino poco. Ben venga dunque la proposta che Ercole Messina, presidente di AIRVO, l’associazione dei rivenditori di auto usate, ha presentato al MiSE al viceministro Galli, di incentivare l’acquisto di un’auto usata Euro 4, a fronte della rottamazione di una più vecchia. L’iniziativa è in linea con quanto già raccomandato al viceministro e allo stesso ministro Di Maio dal presidente dell’ACI, Angelo Sticchi Damiani, e dal presidente dell’Associazione Nazionale Consumatori, Massimiliano Dona, che consegnò al Governo anche un’analisi predisposta dal Centro Studi Fleet&Mobility. La logica che regge queste raccomandazioni è semplice: assumendo che chi guida un’auto molto vecchia lo faccia quasi sempre per convenienza economica, la distanza che lo separa da un’auto nuova è in media di oltre 20.000 euro, laddove il prezzo medio delle vetture usate si stima intorno ai 7.000 euro. 66


Se il Governo davvero vuole incidere sulla sicurezza e sulle emissioni nocive delle auto, deve smetterla con le iniziative demagogiche come l’eco-bonus/malus, che hanno prodotto solo confusione e rallentato le scelte d’acquisto degli italiani, per concentrare i soldi dei contribuenti sugli automobilisti disponibili a rottamare una macchina vecchia, scambiandola con una usata meno inquinante e più sicura. Articolo pubblicato su il Giornale, l’8 maggio 2019

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IL MERCATO E I NUOVI ORIENTAMENTI

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ltre un milione di veicoli a noleggio sulle nostre strade. Non c’è che dire, ne ha fatta di strada questo sistema di considerare l’auto (e anche i furgoni) come un prodotto di consumo a tempo determinato, che intercetta più di 7 miliardi di spesa degli italiani e pesa un quarto delle immatricolazioni. “I dati testimoniano l’inarrestabile evoluzione della mobilità italiana con il graduale passaggio dalla proprietà all’uso dei veicoli”, dichiara Massimiliano Archiapatti, presidente ANIASA, l’associazione dei noleggiatori. Il rent-a-car vale 1,2 miliardi di euro e con le sue 130.000 macchine e furgoni riesce a far girare per 36 milioni di giorni. Va tutto bene, salvo un persistente strabismo tra la curva dei volumi e quella dei ricavi, ad indicare un costante ricorso alla leva del prezzo. Confermato anche dai dati del primo trimestre dell’anno in corso, che mostrano un aumento dei volumi del 2% a fronte di ricavi in linea con quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. Poi c’è il car sharing, la novità di questi anni. L’uso del servizio è cresciuto fino a quasi 12 milioni di noleggi di circa mezz’ora l’uno, di media, con le stesse 6.600 auto che già c’erano l’anno prima. Però, dato interessante, a usare il servizio sono stati 640.000 clienti, il 20% in meno rispetto all’anno precedente. Insieme, RAC e car sharing sono espressione di un nuovo modo di intendere la mobilità individuale, fatta di veicoli in comune, da usare quando servono e poi lasciare ad altri. Infine, la componente più rilevante, il noleggio a lungo termine, che pesa per 900mila veicoli e oltre 5,5 miliardi di giro d’affari e ha concluso verso la fine del 2018 una crescita iniziata nel 2015, fondata su un mix di fattori: il quantitative easing della BCE, le forti pressioni dei costruttori e il super-ammortamento. La spinta è arrivata soprattutto dagli automobilisti, con o senza partita IVA, 68


che scelgono di avere l’auto senza esserne proprietari. Il cambio culturale è significativo ed è giusto così, in ossequio al principio per cui si compra ciò che si rivaluta e si affitta ciò che si svaluta. L’uso rimane esclusivo, tanto che è improprio parlare di sharing/ condivisione, cosa ben diversa dal rent/noleggio. Nel dubbio, basta chiedere le chiavi all’amministratore delegato. Articolo pubblicato su il Giornale, il 15 maggio 2019

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AUTO E CONCESSIONARI, COME CAMBIA LA DISTRIBUZIONE CON L’ARRIVO DEI MEGA GRUPPI DI DEALER

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a formazione di grandi gruppi della distribuzione auto dovrebbe continuare nel prossimo decennio, secondo quanto espresso al Sole24Ore da molti operatori del settore, capi di case auto, titolari e manager di concessionarie. Lo scenario è occupato da alcuni fatti ormai chiari che spingono verso una concentrazione. Il primo è che occorre recuperare diversi punti di margine lungo la filiera. Fatto cento il prezzo di listino al cliente finale, oggi circa due terzi sono impegnati dalla produzione, fino al momento in cui l’auto esce dalla fabbrica. Nei prossimi anni, questa percentuale è destinata a crescere, a causa degli investimenti che l’industria europea sta pianificando per farsi trovare pronta con il prodotto di domani: sistemi di connessione e di assistenza alla guida, ma soprattutto l’elettrificazione, che costringe a notevoli trasformazioni in produzione. Di conseguenza, quei 30/35 punti di margine che oggi vengono impiegati per far arrivare la macchina a un cliente dovranno comprimersi, imponendo la ricerca di efficienze lungo la filiera. Già questo sarebbe sufficiente a spingere verso economie di scala che, riducendo i costi fissi, consentono di vendere auto con profitto. Ma c’è di più. Molto di più. Il dealer ormai non è l’unico canale di distribuzione: il sistema del noleggio già oggi trasferisce al mercato più di un’auto ogni quattro, spuntando sconti superiori al concessionario e non sopportando i suoi costi di struttura, di organizzazione e di magazzino. A questa fetta, destinata a crescere, si affiancherà il sistema dell’offerta di mobilità (car sharing e derivati), generando ulteriore pressione competitiva sul business dei concessionari. In secondo luogo, il più volte annunciato rimescolamento del70


le attività dentro la rete pare che debba diventare realtà. Parliamo innanzitutto dei servizi di vendita (finanziari e assicurativi) e post-vendita (assistenza e ricambi), a cui si aggiungeranno quelli relativi al ciclo di vita del veicolo (dall’usato al fine vita) e al suo utilizzo: i famosi servizi di mobilità, di cui si sa l’esistenza, sebbene la scienza non li abbia ancora definiti – e nemmeno l’economia. Nell’insieme, queste attività vanno a pesare di più rispetto alla vendita del nuovo, nei ricavi e soprattutto nei margini, e per erogarli servono organizzazioni grandi e strutturate, sia per territorio che per competenze professionali. Inoltre, parlando con gli operatori si percepisce una sensazione indefinita, non ancora un’idea, che quel disorientamento dei clienti che rallenta gli acquisti, adesso attribuito al bonus-malus, sia in realtà agganciato alle grandi trasformazioni che i costruttori stanno cavalcando mediaticamente, soprattutto l’elettrificazione e la guida autonoma. Insomma l’automobilista, bombardato da troppi e troppo ravvicinati cambiamenti, non avrebbe ben chiaro che auto dovrà guidare domani. Se così fosse, nei prossimi anni i clienti potrebbero mostrarsi un po’ tiepidi verso le auto nuove, concentrandosi di più sull’esistente, con un diffuso quanto strisciante “effetto Cuba”. Ad esempio, la scelta di offrire la Smart solo elettrica ha scatenato una vera e propria caccia ad accaparrarsi gli ultimi modelli termici, prima che scompaiano. Il corollario è un aumento del peso dell’usato e di tutti i servizi che vi ruotano attorno – pochi, per ora, ma previsti in forte aumento. Per l’assistenza il discorso è duplice: da un lato il ciclo di manutenzione si allunga sempre di più, dall’altro la vita delle auto tende ad aumentare, non ad abbreviarsi – al di là dell’obsolescenza legata alle emissioni, oggettivamente forzata. Proprio questi fenomeni renderanno tutti i servizi più articolati e complessi, imponendo al concessionario di giocare un ruolo attivo. Che tradotto nel linguaggio dell’imprenditore significa due cose: grandi professionalità manageriali e solide capacità finanziarie – in una parola, crescita oltre la dimensione familiare. Il terzo fenomeno all’orizzonte è proprio la centralità dell’opera71


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tore sul territorio. Da questi nuovi distributori medio-grandi l’industria si aspetta un supporto non marginale nel tradurre in fatti quella strategia/scommessa che la vorrebbe trasformata da metalmeccanica in mobility provider, ruolo in cui la sintonia costante con l’automobilista è essenziale. Se finora i costruttori sono stati un po’ sordi nell’ascoltare la voce del cliente quando veniva riportata dalla rete, d’ora in avanti la funzione di intelligence del punto vendita sarà un asset e organizzazioni così grandi bilanceranno i rapporti all’interno della filiera. Al punto che molte case si interrogano sulla funzione delle loro sales company nazionali, quando la concessionaria che avranno di fronte sarà un’azienda molto più grande e strutturata, in grado di dialogare direttamente con la sede centrale e con la fabbrica e di avere una capacità di marketing territoriale superiore. Il fatto che sempre più senior manager delle case vadano ad arricchire le file di importanti dealer non fa che agevolare il processo. Se questa è l’evoluzione probabile, è opportuno vedere come sta muovendo i primi passi e cosa hanno in animo di fare gli attori che dovrebbero implementarla in larga scala, ossia gli stessi concessionari, i quali fanno notare alcuni particolari. Primo, che la formazione di grandi gruppi è per ora un fenomeno cisalpino, che salvo un’eccezione non passa l’appennino tosco-emiliano, anche se alcune realtà del mezzogiorno sembrano avere le carte in regola per diventare molto più grandi. Non sorprende, visto che il mercato più ricco favorisce questi progetti orientati fortemente, se non esclusivamente, a obiettivi di redditività. Secondo, che i grandi gruppi tendono (anche qui con una o due eccezioni) a costruirsi intorno a marchi premium e lusso, dove i margini sono rispettabili e c’è più spazio per i servizi. Terzo, che pare al momento rilevante l’iniziativa di capitali stranieri, a conferma che il mercato italiano può essere remunerativo, ben oltre quanto riesca a fare la media dei concessionari – forse proprio per le scarse dimensioni e la gestione familiare. Quarto, che per quanto la formazione di grandi gruppi possa continuare – e tutto lascia supporre che lo 72


farà – molti operatori continueranno a giocare in prima persona. Da un lato, perché non si percepisce nei concessionari una grande voglia di uscire dal business e, se dovessero farlo, sarebbe per loro preferibile vendere piuttosto che fondersi dentro un’entità strutturata, data la natura individualista. Dall’altro, perché la presenza radicata nel territorio è un valore chiave per tutta la filiera. Secondo autorevoli operatori, non ci dovremmo sorprendere se domani alcune regioni venissero coperte attraverso dealer locali facenti capo a gruppi distributivi più grandi (modello hub) e non alla sales company, a sua volta ridimensionata, come detto. Ciò porterebbe una redistribuzione con efficienza di alcuni costi e un conseguente recupero di margini. In conclusione, se il novecento ha costruito una distribuzione automobilistica centrata sulla vendita del nuovo in chiave transazionale e in mercatini captive (cos’altro è la concessionaria monobrand di piccola taglia?), il nuovo secolo vedrà anche in Italia una distribuzione più indipendente, che persegue la redditività attraverso le dimensioni e con politiche commerciali autonome, centrate sulla vendita al cliente di auto nuove affianco all’usato e a tutti i servizi di cui avrà bisogno, in ottica relazionale lungo tutto il ciclo di vita. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 20 maggio 2019

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FLOTTE AZIENDALI, PIÙ CONCRETEZZA PER GIUSTIFICARE LA FINE DEI PREZZI AGGRESSIVI

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erve un marketing robusto ai noleggiatori a lungo termine per far accettare ai clienti che i canoni aggressivi, visti fino a buona parte dello scorso anno, saranno solo un ricordo. Il marketing dovrà spiegare che il noleggio non è conveniente perché fa risparmiare, ma è qualcosa di più, un insieme di risposte per quegli automobilisti che vogliono essere seguiti e assistiti – e anche, perché no? coccolati. È una strada difficile, oltre che in salita, perché poi il sistema di erogazione del servizio deve riuscire a far spuntare un sorriso al cliente, a fargli raccontare agli amici che sì, ha fatto la scelta giusta, che non ha avuto brutte sorprese ma solo maniglie a cui aggrapparsi nei momenti di necessità. Ottenere questo non sarà semplice, per i colossi del noleggio che si sono specializzati alla corte delle imprese che chiedono di limare ogni anno il canone, a loro volta ingaggiate nella corsa all’ottimizzazione. Pure i nuovi clienti sembrano sensibili al prezzo in fase di acquisto/decisione, ma nel corso della somministrazione del servizio vogliono di più. Per loro usare l’auto è ogni giorno più complicato e, quando l’auto chiede attenzione e tempo, si aspettano di essere compresi e agevolati. La cultura del noleggiatore dovrà dunque girarsi, verso quelle parole tanto famose quanto poco praticate: customer experience, consumer delight, unexpected excellence, e simili. La strategia è obbligata, essendo venute a mancare le congiunzioni astrali degli anni scorsi, che hanno permesso un’aggressività imbattibile e hanno forse illuso qualcuno che a botte di prezzi si potessero conquistare (e mantenere) i nuovi clienti singoli, come fatto con le flotte. Il quantitative easing della BCE ha fornito la materia prima ai banchieri-noleggiatori, ma anche le coperture assicurative hanno contribuito, soprattutto nelle zone dove per il 74


singolo i premi sono oggettivamente distanti da quella mutualità che starebbe alla base del contratto assicurativo. Ancora di più, sono la fine del super-ammortamento e la minore voracità di volumi dei costruttori (è presto per dire se apparente o duratura) a far lievitare i costi dei noleggiatori, i quali stanno ormai da mesi anche proteggendo gli asset abbassando il valore residuo delle vetture diesel – il cui peso nelle flotte supera il 70% in volume e l’80% in valore. Si apre così una nuova stagione di mercato per il NLT, dopo tre anni in cui le risposte positive sono arrivate, eccome. La flotta gestita a fine 2018 aveva superato le 900.000 unità, da meno di 600.000 a fine 2015. Che sia stata una crescita guidata dal prezzo emerge dal confronto dei volumi (più 55% nel triennio) col giro d’affari, aumentato nel medesimo periodo di 1/3. Anche lo scorso anno la flotta media è aumentata del 16%, mentre i ricavi solo del 12. La distanza è data da una contrazione del canone medio, stimata superiore al 3%. Inoltre, nel 2018 il mix (e il costo) delle vetture in flotta si è leggermente elevato, con le utilitarie (segmenti A e B) che hanno ceduto intorno a un punto di quota a favore delle vetture medie (segmenti C e D). Considerando che solo i nuovi contratti entrano in gioco, è probabile che nel 2018 siano stati noleggiati veicoli più costosi a un canone molto aggressivo. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 28 maggio 2019

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TRA “SHARING ECONOMY” E NOLEGGIO

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astro Don Gesualdo, definito dalla critica letteraria “la metonimia del desiderio di possedere le cose”, probabilmente non avrebbe mai noleggiato una macchina, tale era l’attaccamento alla “sua” roba. Noi oggi stiamo pian piano abbandonando certi legami, ad esempio con l’auto. Al giro di boa di un milione di veicoli a noleggio, certificato dal Rapporto Aniasa (l’associazione dei noleggiatori) curato dal Centro Studi Fleet&Mobility, sono opportune alcune considerazioni, cominciando proprio dalle parole di Massimiliano Archiapatti, il presidente dell’associazione: “Il noleggio veicoli è ormai entrato nei meccanismi decisionali del cliente di mobilità ed è diventato una formula sempre più agevole per ogni tipo di necessità sia privata, che collettiva o aziendale”. La realtà dell’autonoleggio, a cui va sicuramente il merito di accompagnarci ormai da decenni verso un nuovo rapporto con l’auto, è piuttosto articolata. C’è quella della macchina condivisa, ossia il rent-a-car e il car sharing. Con appena centomila vetture o poco più, il rent-a-car riesce a soddisfare oltre 5 milioni di esigenze di mobilità, quando serve, dove serve e per il tempo che serve. Ogni veicolo usato da più di 44 clienti in un anno. Il car sharing fa molto di più, con meno di 7.000 auto. Lo scorso anno ha fornito mobilità ben 12 milioni di volte, a 640mila clienti, che hanno usato il servizio quasi 20 volte nell’anno: è o non è sharing economy? Sicuramente la strada è quella giusta, sebbene pare che siamo ancora distanti da quella meta che vorrebbe la rinuncia alla macchina propria, affidando la mobilità quotidiana alla condivisione. Probabilmente, c’è un gap da colmare nei prossimi anni (ma mesi sarebbe meglio) per rendere il rent-a-car facilmente disponibile come il car sharing, senza quelle liturgie che adesso fanno cominciare ogni mobilità con una bella e lunga sosta nella stazione di noleggio. 76


Poi c’è il noleggio a lungo termine, con i suoi 900mila tra auto e furgoni, i cui clienti rinunciano alla proprietà del mezzo (ed è la vera novità culturale), preferendo averne l’uso fino a una certa data (altro elemento di novità), seppur esclusivo. Qui la sharing economy non c’entra nulla. Qualcuno ha pure provato a condividergli la macchina, ma non l’hanno presa bene. Articolo pubblicato su il Giornale il 29 maggio 2019

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AUTO, MADE IN ITALY ORMAI MARGINALE. LA NUOVA GEOGRAFIA DELLA PRODUZIONE IN EUROPA

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n giorno non lontano gli Stati Uniti potrebbero vincere il Campionato del Mondo di calcio. Eppure, non sono stati i ragazzini americani a giocare a pallone nelle strade, ma gli italiani e i brasiliani. Molte attività umane hanno una fase epica, le cui radici affondano nella cultura popolare, ma poi si sganciano e si industrializzano, nel senso che diventano frutto di investimenti e di altri fattori “produttivi”. La produzione di automobili non fa eccezione. Nata in quattro grandi Paesi europei, Germania, Regno Unito, Italia e Francia, per decenni la produzione si è sviluppata dentro il sistema imprenditoriale e industriale dei rispettivi Paesi, tanto che ancora oggi a noi piace celebrare quei tempi epici e i luoghi (la motor valley) che l’hanno cullati. Oggi non è più così. Stando ai dati Acea, l’Europa ha una produzione di 17 milioni di auto, localizzata per 1/3 in Germania, e va bene, il 10% in Francia e il 10% in UK, e già sembra poco, mentre il Bel Paese ne sforna poco più del 4%, decisamente pochine per chi annovera tra i suoi eroi grandi costruttori, geniali carrozzieri e piloti formidabili. Senza tanta epopea, o meglio ancora senza alcuna epopea, la Spagna produce quasi il 14% delle macchine, e altrettante ne fanno la Repubblica Ceca e la Slovacchia insieme, mentre un restante 15% è distribuito negli altri Paesi. Quando si guardano queste statistiche, il pensiero va subito all’occupazione. L’Unione Europea impiega ben 2,5 milioni di addetti diretti nella produzione di auto e veicoli commerciali, oltre a 900mila per la fabbricazione di componentistica. La somma dei due conta per oltre l’11% di tutta l’occupazione manifatturiera. Tornando agli addetti diretti, oltre 1/3 di essi lavora in Germania, poco meno del 9% in Francia e meno del 7% sia in UK che 78


in Italia. Detto diversamente, quasi un lavoratore, su due che in Europa fabbricano macchine, non appartiene a quella tradizione motoristica di cui sopra. La nuova geografia industriale è il frutto di logiche economiche che hanno accantonato quella passione pionieristica, per lasciare spazio all’efficienza, declinata a vari livelli. Sicuramente molte scelte di localizzazione si spiegano col costo del lavoro, che non è solo il salario netto ma tutto il carico che l’impresa sopporta, sia in termini fiscali sia, meno visibile, in termini di relazioni con la fabbrica e con i lavoratori. Tuttavia, questi fattori da alcuni anni appaiono più gestibili e anche meno totalizzanti come causa degli insediamenti. Proprio in Italia, FCA ha provato nei fatti che con la necessaria determinazione è possibile avere una manodopera di alta qualità (world class manufacturing) poggiata su nuove relazioni industriali e su un’automazione spinta che attenua il surplus di costo del lavoro. L’altro fattore importante è la logistica. Le distanze tra fabbrica e fornitori sono un elemento chiave per tenere le scorte di magazzino sotto una soglia accettabile finanziariamente, come pure la distanza con i mercati di sbocco. Anche in questo caso, i soli chilometri non spiegano del tutto. Le distanze si calcolano in ore e giorni, che dipendono da variabili quali il sistema dei trasporti e della viabilità. In ultimo, ma non meno importante, c’è lo sfondo, il contesto, fatto di tante cose piccole e meno piccole, più o meno distanti dal sistema industriale, che messe insieme costituiscono il livello generale di ospitalità del Paese rispetto a un insediamento produttivo. Per fare un esempio, quando Volkswagen inaugurò nell’ottobre 2016 lo stabilimento di Posznan, Polonia, erano trascorsi appena 23 mesi dal momento della decisione di costruirlo. La dimensione strettamente economica è fondamentale, poiché l’industria automobilistica europea compete sul mercato mondiale. Dei 17 milioni di auto prodotte, 5,3 prendono la via del mare, verso l’Asia (35%), il Nord America (32%) e le altre destinazioni, 79


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per un valore complessivo di 128 miliardi di euro nel 2017, a fronte di 3 milioni di auto importate, pari a 38 miliardi di euro. Insomma, la bilancia commerciale di questi anni è ampiamente positiva e tende ai 90 miliardi. La probabile fusione FCA-Renault ha il merito di aver acceso i riflettori sull’auto come attività industriale e produttiva. Si tratta di un grande patrimonio dell’economia europea, da cui dipende il benessere non di molti, ma di tutti i cittadini dell’Unione. Esserne consapevoli, nelle stanze dei bottoni, non può che fare bene. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 31 maggio 2019

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SPEGNERE LE AUTO? NON SALVA IL PIANETA Ecco i dati: la natura avvelena l’aria più dell’uomo e le macchine meno di tutti.

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a noi anche i ragazzini delle medie usano Greta per strappare un sorriso, perché oggettivamente si presta, col suo sorriso inquietante sotto quell’impermeabilino giallo nordico, tipico dei bambini che vanno a scuola a piedi sotto la pioggia (noi ce li portiamo in macchina davanti all’ingresso, in tripla fila, per paura che l’acqua li restringa). È che siamo fatti così, scherziamo su tutto, senza che ciò implichi alcuna volontà di sminuire la gravità del tema ambientale, che merita – e riceve – tutto il rispetto possibile, a cominciare proprio dai giovanissimi. Appunto perché è una cosa seria e merita rispetto, l’alterazione climatica va affrontata in punto di verità scientifiche, lasciando fuori dalla porta mode e pregiudizi di ogni genere. Le questioni sono essenzialmente due: l’impatto sulle alterazioni climatiche dell’economia dei fossili e, dentro di essa, il peso delle auto europee, visto che è su queste che si sono presi i provvedimenti più incisivi – e più costosi, danneggiando la competitività dell’industria e la sua occupazione. Detto diversamente, noi europei stiamo per pagare un prezzo altissimo, da soli, per frenare il riscaldamento del pianeta. Abbiamo o no il diritto di sapere se otterremo tale risultato o se invece stiamo comprando un ‘pacco’, per dirla alla napoletana? La Terra oggi ha un clima più caldo di 0,8 gradi rispetto al 1880, allorché si concluse la “piccola età glaciale”, un raffreddamento di uno/due gradi (nel 1870 il porto di New York ghiacciò fino a Staten Island) iniziato nel 1300 dopo il lungo periodo caldo medievale, che invece aveva causato la scomparsa di molti ghiac81


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ciai. In quegli anni cominciava pure la rivoluzione industriale con l’energia prodotta dal carbone ad elevate emissioni di CO2. È su questo che poggia il nesso di causalità. La temperatura globale dipende dal calore che arriva dal Sole e dalla quantità di esso che il pianeta riesce a scambiare nello spazio. Semplificando, alcuni gas serra (principalmente vapore acqueo e CO2) trattengono il calore dentro l’atmosfera, provocando il riscaldamento. Per dirla tutta, gli scienziati stanno tuttora studiando per capire quanto i cicli solari (ossia il calore in ingresso) influiscano sulle oscillazioni climatiche. Restando sulla CO2, osservano che è aumentata costantemente, da meno di 300 parti-per-milione di metà Ottocento alle 410 attuali, mentre le variazioni climatiche mostrano un andamento frastagliato, con due cali bruschi all’inizio del secolo scorso e dopo il 1945. Il pianeta produce anidride carbonica nell’ordine di 800 miliardi di tonnellate (Gt) all’anno. Le cifre oscillano da un anno all’altro, ma possiamo affermare che la massima parte derivi dagli oceani (41%), dal suolo (27%) e dalla vegetazione (27%). Le attività umane, inclusa la deforestazione, valgono circa 42 Gt, il 5% del totale, con la Cina al primo posto (27%) seguita dagli USA (15%) e dall’Europa (10% ma in calo). Metà delle emissioni umane viene dalla combustione di fossili per ottenere elettricità e riscaldare le case. Il sistema dei trasporti terrestri, marittimi e aerei vale 6,6 Gt, pari al 16% della CO2 antropogenica, dove le sole auto ne emettono 2 Gt, meno del 5%. Tornando alle politiche industriali europee, che stanno mettendo all’angolo il settore automobilistico con 3,4 milioni di addetti, le emissioni riconducibili al parco circolante in Europa sono 0,7 Gt/anno, un centesimo di quelle antropogeniche. Se per incanto tornassimo in Europa ai carri trainati da animali, le emissioni globali del pianeta diminuirebbero qualcosa meno di un millesimo. Articolo pubblicato su il Giornale, il 5 giugno 2019 82


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AUTO DIESEL, OVVERO. L’AUTOLESIONISMO DELL’EUROPA I veicoli nuovi hanno emissioni irrilevanti. Il problema sono quelli vecchi. Perché allora accanirsi su tutti in modo indistinto danneggiando assieme produttori e consumatori?

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nziano si frattura femore ma lo operano alla gamba sbagliata”. Una notizia, fortunatamente rara, di mala-sanità, che torna molto utile per descrivere, in maniera sintetica ed efficace, il dibattito sulle auto. Le automobili inquinano? Sì. C’è un problema, un femore fratturato. Tutte, indistintamente? No. Quelle nuove, le Euro 6d, hanno emissioni trascurabili: i femori sono due, ed uno è sano. Ma allora, ha un senso intervenire sulle auto nuove, in termini di immatricolazione e circolazione? Come vendetta, sì. Come soluzione del problema, no: è la riparazione dell’arto sbagliato. Eppure, le cose stanno proprio così. Verso la fine del secolo scorso, l’UE iniziò a imporre dei limiti alle emissioni delle auto, a salvaguardia dell’aria e del clima. In realtà, del clima se ne stavano già occupando da decenni i vari governi nazionali, incentivando fiscalmente le vetture diesel, poiché emettono meno CO2 – ma lasciamo perdere. Dicevamo dei limiti. L’industria ha fatto ogni sforzo possibile per stare dentro i parametri fissati, che dal 1993 ad oggi si sono via via abbassati, da Euro 1 fino a Euro 6d, diminuendo le sostanze inquinanti circa del 95%. Si può fare di meglio? Sempre. È il massimo che si poteva ottenere? Sì, in condizioni normali, ossia restando nella produzione e distribuzione di massa. Il contesto è un fatto rilevante. La sfida non è un’auto ottimale, ma un’auto ottimale che sia compatibile con le strutture esistenti e alla portata del consumatore medio. Il miglioramento sulle sostanze inquinanti è 84


stato raggiunto senza traumi per l’industria, per il mercato e per le strutture. La ricerca sui propulsori e sui carburanti ha potuto fare passi avanti, in un ventennio, con gradualità. Il prezzo dei prodotti non ha subito oscillazioni rilevanti in dipendenza di tali innovazioni. Le strutture per la circolazione, il rifornimento e lo stazionamento delle vetture non hanno richiesto investimenti. Oggi noi usiamo macchine che funzionano in tutto e per tutto come quelle del secolo scorso, salvo che allo scarico hanno emissioni inquinanti trascurabili. Problema risolto, dunque? Assolutamente no: il femore rotto è… ancora rotto. Solo che la soluzione non sta nella produzione o nell’uso di auto nuove. In Italia risultano 39 milioni di auto, di cui oltre 17 sono Euro 3 e 4, mentre 9 sono Euro 2 o antecedenti. L’operazione chirurgica appropriata è l’eliminazione, graduale e indolore quanto si vuole, di queste vecchie auto. È un problema sociale, e come tale ricade sulla società. Punire chi acquista e usa una macchina nuova può dare un senso di conforto al pubblico, ma non ha alcun effetto sul femore rotto. Le polveri? Sotto il tappeto Teniamo un attimo il paziente da parte, per approfondire la questione delle emissioni, basandoci sugli studi di Aeris Europe, un organo consultivo. Le due principali sostanze inquinanti sono le polveri sottili (PM, particulate matter) e gli ossidi di azoto (NOx). Questi ultimi nel 2015 erano riconducibili per il 40% al trasporto su gomma, tutto incluso: camion, furgoni, bus e macchine – col distinguo che a quelle a benzina era attribuibile appena il 2% rispetto al 14% delle diesel. Il riferimento al 2015 è importante, perché questi valori sono figli di un certo mix di vetture, tra vecchie, vecchissime e nuove. Con la diffusione delle Euro 6 in sostituzione delle altre, si prevede che le emissioni di NOx delle auto si dimezzeranno entro il 2025, mentre l’evoluzione prosegue, tanto che a febbraio di quest’anno alcuni test RDE (real drive emission) dell’ADAC (Allegemeiner Deutscher Automobil Club) hanno evi85


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denziato come diversi modelli presentino emissioni NOx prossime allo zero. Quanto al PM, non è più un problema dell’industria automobilistica – se mai lo sia stato. Sempre dalla medesima analisi riferita al 2015, la fonte principale del PM 2,5 (ossia il particolato più sottile – e dunque più nocivo) erano le abitazioni col 46% mentre un altro 44% proveniva da industria, rifiuti e altro. Quello derivante dal trasporto su gomma era il 10% del totale e quello riconducibile alle auto diesel il 4%. Oltre alla considerazione più ovvia – 4%: di che stiamo parlando? – va specificato che dallo scarico proveniva solo metà circa del particolato, pure in forte diminuzione con la diffusione delle Euro 6, di cui abbiamo già detto. L’altra metà derivava dall’usura di pneumatici e freni e dal rotolamento delle ruote, che sollevano le polveri dal suolo. Infatti, quando piove i livelli di PM non salgono mai. Quando non piove, si potrebbero lavare le strade, come suggerito da Dekra alla città di Stoccarda, in base a un’accurata analisi da cui emergeva che più giorni si lava e meno giorni sale il PM. Il problema con questa fonte di PM è che anche un’auto ad aria compressa lo solleverebbe lo stesso. Meglio allora smetterla con le macchine e usare i mezzi pubblici, preferibilmente su rotaia. Magari no. Dekra ha misurato il livello di PM nella metropolitana di Stoccarda: 60 microgrammi/m3, 20% sopra il limite massimo stabilito dall’UE – quando non passa il treno. Già, perché con l’avvicinarsi del treno in stazione il livello sale vertiginosamente, fino a 655 µgr/m3, tredici volte il limite. Diesel giù, gradi su In barba a queste e molte altre evidenze, la demonizzazione delle vetture diesel sta proseguendo. In Italia nel primo trimestre la quota delle auto diesel è scesa al 44%, dal 55 di un anno prima. Dieci punti sono andati al benzina e uno o poco più alle ibride, auto che consumano di più e dunque emettono più CO2, che contribuisce 86


al riscaldamento globale e che l’UE vuole assolutamente abbattere: nel periodo siamo passati da 113 a 121 gr/km. Per l’industria è un problema, visto che nel 2021 sopra i 95 gr/km scatteranno le multe della Commissione Europea. Per l’ambiente e per il riscaldamento globale cambia poco o niente, visto che la CO2 riconducibile alle auto europee è appena lo 0,06% di tutta quella prodotta dal pianeta. In sintesi, le cose stanno più o meno così. L’UE conduce una sua battaglia ascetica contro una delle sue industrie maggiori e migliori, per abbattere delle emissioni di cui il pianeta nemmeno si accorge. Le amministrazioni locali invece conducono un’altra battaglia, contro un’eccellenza tecnologica, le auto diesel nuove, operando il femore sano. Il paziente continua a girare con le auto vecchie e inquinanti, il femore rotto, tanto non sente dolore. Il resto del Mondo porge il bisturi, fregandosi le mani dell’autolesionismo degli europei. Articolo pubblicato su Harvard Business Review Italia, a giugno 2019

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CAR SHARING, IN CRESCITA +30% ALL’ANNO FINO AL 2021

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’uso del car sharing, inteso come numero di noleggi, dovrebbe aumentare nei prossimi tre anni in una forbice compresa tra il 20 e il 40% all’anno, in media. È quanto si aspettano i due terzi degli addetti ai lavori intervenuti alla Capitale Automobile, che hanno risposto al sondaggio proposto dal Centro Studi Fleet&Mobility. Si tratta di un valore in linea con quanto registrato nel periodo 2015/2018, frutto però di dinamiche diverse, specialmente nell’ultimo anno. Fino al 2017 il maggior utilizzo del servizio era stato originato da un crescente numero di clienti attivi (che usano almeno una volta in sei mesi), che però ricorrevano al servizio ogni anno di meno, mediamente. Dunque, ogni anno più clienti che facevano via via meno ricorso al car sharing per muoversi in città, Roma e Milano prevalentemente. La fotografia del 2018 è decisamente diversa. Il 20% in meno di clienti attivi, che però hanno intensificato l’utilizzo del servizio, fino quasi a raddoppiarlo: circa 12 milioni di noleggi rispetto ai 7 dell’anno precedente. Dal punto di vista dell’impatto sociale, sembrerebbe che il nuovo modo di usare l’auto (quando serve, dove serve, finché serve) stia davvero diventando un’abitudine, per un certo manipolo di persone che possono così valutare la rinuncia alla seconda o terza auto. Auspicabilmente, la maggiore offerta del servizio, in termini di auto disponibili e di territorio dove muoversi, potrebbe aumentare il numero degli utilizzatori abituali – sempre che anche il problema del parcheggio sia affrontato e reso meno difficile. Certamente, il maggior utilizzo dello scorso anno ha portato una ventata di positività pure nei conti degli operatori, che hanno visto crescere l’utilizzo (e dunque i ricavi) per singola vettura, potendo bilanciare i costi, che restano comunque eccessivi e ancora non in equilibrio, soprattutto per i danni che vengono arrecati alle auto. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’11 giugno 2019 89


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DIESEL ANCORA IN DISCESA E DECOLLANO LE IBRIDE Ricerca Anfia. In Europa prendono quota le alimentazioni alternative (gas compreso).

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olto rumore, e da tanti anni, sulle nuove auto a batteria, al punto che gli automobilisti non sanno più cosa pensare: nei sondaggi dichiarano che sarà la prossima auto e poi vanno regolarmente sul motore termico. Ben venga allora lo studio di Anfia, l’associazione dell’industria automobilistica, che fa il punto sulle vendite e sui trend in Europa, alla luce del primo trimestre dell’anno. Il fenomeno principale è il calo del diesel, passato dal 38 al 32% delle vendite sotto la spinta dei divieti annunciati da alcune importanti città, le cui amministrazioni ritengono così di limitare drasticamente le emissioni di polveri sottili e ossidi di azoto. I dati scientifici smentiscono, ma non pare abbiano corso legale di questi tempi. L’Italia è il secondo Paese, dietro l’Irlanda, per quota di immatricolazioni diesel (il 44% del totale). Tra i grandi mercati, seguono Francia e Germania col 35 e 33% rispettivamente e appena sopra la media europea, mentre la Spagna e il regno Unito stanno più in basso, al 28 e al 27%. Su tre persone che in Europa, rispetto a un anno fa, non scelgono il diesel come nuova auto, due optano per una macchina a benzina, la cui penetrazione sulle vendite è passata dal 55 al 59%. In questa motorizzazione l’Italia si colloca nella parte bassa, ultima tra i grandi mercati col 43% di penetrazione sulle vendite. Praticamente in linea con la media europea Francia e Germania, mentre la Spagna è sopra il 61% e il Regno Unito sfiora il 67%. 90


Le motorizzazioni alternative hanno raccolto due punti di quota, passando dal 7 al 9% delle vendite, pari a 376mila macchine nei primi 3 mesi dell’anno. Però sotto questa etichetta ci sono propulsori assai diversi tra loro, per tecnologia e perché vanno a soddisfare bisogni differenti degli automobilisti, tanto che ha poco senso tenerli insieme. Ci sono infatti le macchine ibride ed elettriche, insieme alle auto a gas (metano e GPL), di cui sono ghiotti gli italiani – tre su quattro le compriamo noi, perché si risparmia sul pieno. Le vendite di queste ultime nel trimestre sono in flessione, ma bisogna segnalare che ci sono forti ritardi in produzione per molti costruttori. Le auto ibride sono quelle più gettonate (parliamo comunque di meno del 5% delle vendite) perché offrono un minimo di propulsione elettrica e consentono di camminare quando le altre stanno ferme per i divieti, senza dover rinunciare alla comodità del motore termico: fai il pieno in due minuti e non ci pensi più. Esistono anche nella versione più elettrificata, le ibride plug-in, che coprono un altro 1% del mercato, ma sono in calo, forse a causa del costo eccessivo. A fare più notizia sono le auto elettriche, sebbene siano la scelta di un automobilista su 50: 84.000 macchine immatricolate nel primo trimestre (quasi il doppio rispetto al 2018), di cui 23.000 in Norvegia. Nei cinque principali mercati, che nel complesso hanno immatricolato 36.447 auto solo a batteria, la Germania è al primo posto, con 16mila, seguita dalla Francia con 10.600 e dal Regno Unito con 6.000 unità. L’Italia è ultima con 1.200 pezzi, dietro alla Spagna, a 2.750. Secondo l’Anfia, questo segmento “è dipendente dagli incentivi, che richiedono un impegno continuo e oneroso da parte degli Stati”. Nonostante per queste auto la bilancia commerciale europea sia ancora positiva, con 2,9 miliardi di export (4,7 se contiamo la Norvegia, che è parte dell’EFTA ma non dell’UE) contro 1,6 di import (metà dalla Corea), l’associazione della filiera industria91


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le mette l’accento sulla dipendenza europea nella produzione di batterie e nell’accesso alle materie prime. L’UE sul fronte delle batterie e dei sistemi di accumulo, uno dei settori che determineranno il vincitore nella sfida sul mercato dell’automobile, deve sicuramente recuperare il ritardo rispetto ai colossi asiatici e statunitensi (che controllano quasi il 90% del mercato globale), con l’obiettivo di creare una catena del valore competitiva in Europa per evitare una dipendenza tecnologica dai concorrenti (Cina e USA). Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 18 giugno 2019

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LA FRENATA DELL’USATO PESA SUI BILANCI DEI DEALER Distribuzione. I concessionari soffrono per l’aumento degli stock di vetture di seconda mano.

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ella gestione del business di vendita di auto usate, tutti i principali indici finanziari della concessionaria media sono in marcato peggioramento, nel primo trimestre dell’anno. Lo riporta l’osservatorio trimestrale Agos curato dal Centro Studi Fleet&Mobility. Lo stock è salito di oltre il 3% e questa in sé potrebbe pure passare per una buona notizia, visto che i concessionari ancora intercettano troppo poco di questo mercato che è di gran lunga più profittevole per loro, per importanti ragioni. Prima fra tutte, che possono scegliere cosa acquistare in base alla domanda che vogliono soddisfare, senza imposizioni di modelli, versioni e quantità da parte dei costruttori. È così che funziona ogni commercio al dettaglio del mondo. Il problema è che la maggiore disponibilità di offerta non incontra una domanda più alta, anzi. Questo stock di auto impiega più tempo a uscire, rimanendo sul piazzale in media 75 giorni, il 9% in più del valore medio dello scorso anno, quando uno stock inferiore, 85 auto, girava ben 5,3 volte. Nel primo trimestre invece, il magazzino ha girato a una velocità di 4,9 volte nell’anno. Quanto questa minore vivacità delle vendite sia legata al prezzo medio è difficile dirlo. È un fatto che il valore medio a livello nazionale, che dunque sconta differenze anche marcate tra le diverse aree del Paese, si è attestato nei primi tre mesi a 8.335 euro, rispetto agli 8.218 del 2018. Non si tratta di un incremento sensibile, appena sopra un punto percentuale, che infatti non è stato sufficiente a 93


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recuperare il gap sui ricavi dovuto alla flessione dei volumi, che si è attestata intorno al 5%. Il riflesso di quest’andamento commerciale sui conti dei concessionari si fa sentire. Proiettati su base annua, questi indicatori segnalano una probabile diminuzione dei ricavi da vendita di usato sopra il 3%, a fronte di un costo dello stock che lievita verso il 5%. Di questo passo, il 2019 proietta un uso della leva finanziaria nell’usato che sfonda il tetto del 20%, come non accadeva dagli anni della crisi. Diamo allora un’occhiata alla storia recente della gestione di questa importante attività dei concessionari. Alla ripresa c’erano stati due anni, 2015 e 2016, di robusta crescita, con ricavi aumentati nei 24 mesi di oltre il 50% e con uno stock che cresceva di conseguenza, ma senza mai dilatarsi oltre il necessario, tanto che la leva finanziaria passava dal 22,7% del 2014 al 18,6 del 2016. Erano gli anni in cui la giacenza media calava bruscamente da 83 a 68 giorni, dove sarebbe rimasta fino allo scorso anno, grazie a una rotazione veloce che girava le scorte 5,4 volte, una volta in più rispetto al 2014. Nel 2018, a fronte di un raffreddamento delle vendite, i concessionari erano stati pronti a ridurre lo stock, riuscendo a tenere il rapporto ricavi/stock sotto il 19%. Operazione che invece non sembra essergli riuscita nel primo trimestre, nonostante una domanda di usato che ha sfiorato il 3% di incremento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Nel periodo, le auto-immatricolazioni (in gran parte km0) dei concessionari hanno subito uno stop intorno al 15%, con automatico sollievo dell’esposizioni finanziarie. Proprio questo maggiore ossigeno potrebbe aver indotto gli operatori a tenere la manica più larga sul magazzino di vetture di seconda mano. Resta il fatto che le reti ufficiali devono ancora recuperare buona parte dello spazio nel mercato dell’usato che avevano nel decennio scorso (non il secolo scorso). Fatto 100 il volume di auto usate che 94


il concessionario medio vendeva nel 2007, lo scorso anno alle vendite mancava ancora un terzo di quel volume, mentre il mercato in generale si era riallineato esattamente sugli stessi livelli di dodici anni prima. Due le ragioni più probabili. Da un lato l’eccessiva ancora dipendenza del business dal ritiro delle permute sulla vendita del nuovo. Dall’altro lo sviluppo delle piattaforme online, che rendono più facile l’incontro della domanda privato-privato. Due gap da colmare, e anche in fretta. Perché sempre più i bilanci si faranno sull’usato. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 18 giugno 2019

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METÀ DELLA SPESA DEL NOLEGGIO È DESTINATA A SUV E CROSSOVER Flotte aziendali. Le vetture a ruota alta crescono di quota anche nei parchi delle imprese. Alfa Romeo Stelvio, Jeep Renegade e Nissan Qashqai guidano la classifica dei modelli più scelti.

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a cifra pagata dai noleggiatori nel 2018 per immatricolare 435mila vetture (appena lo 0,5 in più) a un prezzo medio di 21.403 euro è 9,3 miliardi di euro (più 6% rispetto all’anno precedente. Come si spiega questa diversa crescita valore/volume, mettendo pure in conto che è stato un anno in cui i costruttori hanno picchiato forte, in questo canale, sugli sconti, aumentati di oltre un quarto di miliardo? La risposta si chiama SUV, il cui peso sul mercato complessivo è passato, in valore, dal 40 al 48% - in pratica, metà della spesa per auto nuove è finita nei SUV e nei Crossover. Anche nei noleggi si registra il medesimo fenomeno trendy, scorrendo la classifica dei top 15 best selling models immatricolati a uso noleggio dell’analisi sul mercato in valore, curata dal Centro Studi Fleet&Mobility, che rappresentano il 37% dei volumi e il 34% del valore. In questo gruppo, i sette modelli SUV/crossover sono passati in volume, da un anno all’altro, dal 10 al 15% di quota, mentre in valore il quadro è un po’ diverso. Si conferma la crescita di 5 punti di quota, che però passa dal 12 al 17%. Come numero di auto immatricolate a uso noleggio, la reginetta si conferma la Panda col 5,7% di quota, seguita da un podio tutto FCA, composto da 500X (3,5), Tipo (3,4) 500 (3,0) e Renegade (2,5). In termini di valore le cose cambiano alquanto. Con un prezzo medio di 54.598 euro, il più elevato, Stelvio col 96


3,9% del mercato noleggio guida il drappello dei SUV/crossover formato da 500X (2.9 in terza posizione dietro a Panda), Renegade (2,4 al quinto posto dopo Tipo), Qashqai e Compass appaiati sul 2,2, Tiguan nono col 2,1 e 3008 in dodicesima posizione con l’1,8%. Gli altri modelli dei top 15, dopo Panda e Tipo, sono la sempiterna Golf, in ottava posizione col 2,2% di quota in valore seguita a ruota dalla 500L col 2% e dall’A4 con 1,9. Poi troviamo la 308 e la A3 in 13esima e 14esima posizione rispettivamente, ma entrambe con 1,8% di quota, e infine la 500, a 1,7. Se la classifica dei 15 modelli più gettonati nel noleggio copre un terzo del mercato, i top 15 brand arrivano all’86%. In testa c’è ovviamente Fiat, col 13,4% in valore, seguito da Audi con l’8,8 e Volkswagen col 7,8. Ancora un brand premium in quarta posizione, si tratta di BMW col 6,6%, seguito da Ford col 6,2. In sesta posizione Alfa Romeo col 6,1%, poi Mercedes al 5,9 e Peugeot al 5,8. Renault si piazza al nono posto col 5,3 davanti a Jeep al 5% di quota in valore. Seguono Citroen (3,7), Nissan (3,4) e Opel (2,9), prima di Toyota col 2,9 e Land Rover al 2,5. Infine, forse la rilevazione più importante per capire le strategie commerciali dei top 15 brand del mercato: la penetrazione delle vendite a noleggio sul totale delle vendite. Audi è il brand che più di ogni altro fa affidamento sui noleggiatori, col 42% dei ricavi che vengono da questo canale, davanti ad Alfa Romeo, col 39%, e BMW col 32. Seguono tre brand, Nissan, Mercedes e Land Rover, tutti con una penetrazione del noleggio pari al 28% dei ricavi. Poi altri tre brand generalisti, Fiat col 27%, Citroen col 26 e Peugeot col 25%, prima di un altro premium, Jeep, col 23% delle vendite fatte ai noleggiatori. Canale via via meno rilevante per gli ultimi cinque brand, nell’ordine Renault e Ford (22%), Volkswagen (20%), Toyota (17%) e Opel (15%). Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 18 giugno 2019 97


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EMISSIONI, L’EUROPA INQUINA SOLO PER IL 10% (PERÒ SI SENTE IN COLPA PER TUTTO IL MONDO)

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’Unione Europea oggi è responsabile solo del 10% delle emissioni di CO2 antropiche” (da attività umane – a loro volta circa il 5% della CO2 che il pianeta produce complessivamente). Lo ha ricordato Claudio Spinaci, presidente dell’Unione Petrolifera, all’assemblea annuale, citando dati dell’International Energy Agency. Questa CO2 è in buona parte riconducibile all’uso di fossili per produrre energia. Per alterare meno il clima bisogna consumare meno energia e spingere quella da fonti rinnovabili. Guardando avanti al 2040, la domanda di energia mondiale è prevista in crescita del 30%, ma non in tutte le aree. Mentre il fabbisogno di Giappone e Stati Uniti rimane stabile, quello dell’UE diminuirà del 15%, grazie agli elevati standard di efficienza – tradotto: la usiamo meglio e dunque ne serve meno. Ad aumentare saranno le altre aree geografiche, Cina e India in testa. Asia-Pacifico, Africa e Medio-Oriente assorbiranno il 63% dell’energia (oggi sono al 54). La buona notizia è che metà della maggiore energia sarà da fonti rinnovabili, che copriranno il 20% del fabbisogno (oggi sono al 14). L’Italia soddisfa la sua sete di energia per un terzo col gas e un altro terzo col petrolio, mentre le rinnovabili pesano per il 20%. Come leggere questi numeri, nello scenario di fortissima attenzione ai cambiamenti climatici? Innanzitutto, stando alla larga dagli estremismi, che allontanano dall’obiettivo. Da un lato, negare l’impatto umano sul riscaldamento è insostenibile – sebbene molti studi siano in corso per misurare quanta parte di esso sia effettivamente riconducibile alle attività umane, visto che i cicli climatici ci sono sempre stati. Dall’altro, ipotizzare di tornare a 98


una vita “amish-style” è altrettanto pericoloso. Non solo perché la gente, dopo una manifestazione sotto il sole, potrebbe aprire una bottiglietta di plastica, invece di fermarsi alla fontanella, alla vecchia maniera. Ma soprattutto perché non tutte le aree del mondo condividono la medesima sensibilità e disponibilità a politiche clima-compatibili. Comprensibilmente, visto che Asia, Africa e Sud-America sono in espansione economica e demografica. Oltre alla produzione per sé devono anche sfornare quella che noi abbiamo delocalizzato, per i costi ma anche per i severi vincoli ambientali che ci siamo dati: in pratica, usiamo questi Paesi come tappeto sotto cui mettere la nostra polvere. “I problemi non vanno negati, sostiene Spinaci, ma neanche affrontati con soluzioni semplicistiche che ci porterebbero indietro di decenni rispetto al benessere raggiunto, che va esteso ad altre aree geografiche e non limitato.” La via non estremista passa, come al solito, per la crescita economica (non selvaggia) e culturale. L’osservazione del mondo dice proprio questo: l’ambiente è più maltrattato dove più basse sono le condizioni economiche e culturali. Poi ci siamo noi, gli europei, il grande mistero. Ci poniamo obiettivi troppo ambiziosi, che da soli non possiamo oggettivamente raggiungere (perché pesiamo sempre solo il 10%), e troppo ravvicinati. Come nei limiti alle emissioni delle auto, che finiscono per indebolire e rendere attaccabile dall’esterno un’industria di punta, che dà lavoro a 3,4 milioni di persone. La pretesa è di imporre tecnologie (il motore elettrico) ancora non pronte come prodotto, oltre che prive di infrastrutture e comunque non sostenibili, finché l’elettricità sarà di provenienza fossile in maggior parte. Per tacere dell’incomprensibile guerra al motore diesel, priva di alcun fondamento scientifico. Ma allora, come mai un popolo ad altissima scolarizzazione, che sforna geni nell’arte e nella cultura e campioni nell’industria, con gli standard di vita più elevati e una storia millenaria cui attin99


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gere, vuole compiere scelte tanto autolesioniste quanto inutili? D’accordo, in politica oggi non abbiamo dei giganti, ma non può essere solo questo. Che sia proprio la storia, che diventa fardello? O il nostro benessere, che diventa colpa davanti alle immagini in TV? Si avverte un bisogno individuale, di non volersi accollare una responsabilità che nessuno vorrebbe reggere. Possiamo? No, secondo Churchill: “Il prezzo della grandezza è la responsabilità”. Articolo pubblicato su il Giornale, il 23 giugno 2019

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AUTO, LE MULTE SULLE EMISSIONI DI CO2 INDEBOLISCONO L’INDUSTRIA EUROPEA Una ricerca Standard & Poor’s evidenzia un crollo dei margini dell’industria automotive del vecchio continente a causa dei costi per rispettare le normative per la riduzione dell’anidrite carbonica.

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a strada intrapresa dall’UE di multare i costruttori di auto (OEM) per le vendite eccedenti la soglia di 95 gr/km di CO2 sta iniziando a dare i suoi frutti. E sono avvelenati. Standard & Poor’s (S&P) ha appena completato un’analisi che mette in relazione stretta i profitti dell’industria con gli investimenti e i costi legati alla produzione e alla distribuzione di vetture a propulsione totalmente o prevalentemente elettrica. Non si tratta di un’indicazione di rating, tuttavia il messaggio arriva forte e chiaro, anche alla luce del fatto che tali investimenti potrebbero non essere ripagati dalle vendite, visto che la domanda di auto elettriche è decisamente marginale e difficilmente nei prossimi mesi aumenterà di quanto basta. Su questo, occorre parlare di grandezze. Quante auto elettriche servono per evitare le multe? E di che tipo di auto elettriche si tratta? L’industria si guarda bene dal fornire indicazioni a riguardo, ma uno studio di Alix Partners (una società di analisi del settore) qualche cifra la dà. Mediamente, una quota di auto solo elettriche (BEV) pari al 4% delle vendite totali consentirebbe una riduzione delle emissioni medie di 5 grammi, verso la soglia dei 95 gr. Nel 2018, le auto nuove acquistate dagli europei stavano appena sopra i 120 gr/km, livello al quale sarebbe necessario, per evitare le multe, un 20% di auto elettriche (BEV, senza altro propulsore). Il condizionale è d’obbligo. 101


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Innanzitutto, perché il livello sta salendo, non scendendo, dato che da un paio d’anni i consumatori europei acquistano meno motori diesel (che emettono meno CO2) di prima. È la conseguenza della guerra mossa da alcune amministrazioni, locali ma con una grande eco, al motore diesel, accusato di essere altamente inquinante. Guerra che l’industria ha scelto di perdere senza combattere, nonostante la scienza abbia certificato che i nuovi motori diesel sono ormai marginalmente inquinanti e che dunque sarebbe opportuno spingerli, in sostituzione di quelli vecchi, non bloccarli provocando un dannoso “effetto Cuba”. A ciò si aggiunga, tornando al condizionale e alle elettriche BEV, che attualmente la loro quota nell’UE è intorno a mezzo punto percentuale e sembra difficile che possano guadagnarne 19 nel giro di un paio d’anni. Ovviamente, non tutti i costruttori si trovano nella medesima posizione. Intanto, più utilitarie un gruppo vende e più il suo livello delle emissioni è basso. Di contro, i clienti delle auto premium sembrano meglio disposti verso le batterie. Inoltre, il peso delle multe, per ogni grammo di CO2 eccedente, non sarà uguale per tutti, in valore assoluto: da poche decine fino a alcune centinaia di milioni, a seconda dei volumi. L’impatto sull’EBITDA, che è ciò che conta, sta intorno a un punto percentuale (per singolo grammo) per quasi tutti i gruppi, ma con punte fino al 3/3,5% per i francesi, secondo tale analisi. Di conseguenza, variano le strategie con cui ognuno va incontro al traguardo dei 95 grammi. C’è chi ha investito da anni nello sviluppo e nell’offerta di modelli elettrici, ma questo ad oggi non sembra essersi rivelato un vantaggio. C’è chi sta investendo molto proprio in questi anni e chi invece è stato prudente, proprio per i costi legati alla produzione di questi veicoli e al rischio, piuttosto concreto, che i clienti possano non comprarli. È il caso di FCA che, scettica verso l’esistenza di una domanda di auto elettriche, ha preferito negli anni perseguire l’azzeramento del debito, cosa 102


che avrà il suo peso, allorché i rating del settore dovessero entrare in sofferenza. La soluzione annunciata, di raggruppare le emissioni con Tesla, va nella direzione di operare sui costi e non sugli investimenti, anche per stare al riparo da un ulteriore rischio, quello sui valori residui, legati alle innovazioni che nei prossimi anni interverranno nella tecnologia delle batterie. È vero, elettrificazione non significa solo motore elettrico. Ci sono le cosiddette ibride, con emissioni di CO2 che vanno da 20 a 65 grammi/km. Queste vetture sono ovviamente sotto il limite del 95 grammi e dunque vanno bene per sé, ma il loro contributo alla causa è marginale. Insomma, l’industria è stata messa all’angolo da una politica miope e autolesionista. A parte gli ingenti investimenti in corso, più auto elettriche si venderanno e meno margini ci saranno nei bilanci, dato che il costo di produzione è maggiore dei modelli a motore termico. Se ne dovessero vendere poche, i margini salirebbero ma poi verrebbero assorbiti dalle multe. Un dilemma perfetto, non c’è che dire. Alla fine, l’aspettativa di S&P è di una diminuzione degli utili dei costruttori, che favorirà le scelte di consolidamento, per assorbire gli investimenti su volumi maggiori attraverso economie di scala. Il problema è che il mercato delle acquisizioni e fusioni non sarà chiuso, come qualcuno forse immagina, bensì aperto. Nel caso, potrebbero sedersi al tavolo capitali industriali cinesi, che non chiedono di meglio che mettere le mani su brand e tecnologie automobilistiche europee, come già hanno iniziato a fare con Volvo, Daimler e PSA. L’aspetto inquietante dell’intera vicenda è l’inutilità, ai fini ambientali. Le misurazioni della CO2 proveniente dalle emissioni delle macchine in Europa parlano di 0,7 gigatons/anno, meno di due centesimi di tutta quella prodotta dall’uomo, che a sua volta è il 5% del totale che il pianeta produce ogni anno. Questo 103


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valore deriva dall’intera flotta auto circolante. Quelle di nuova immatricolazione stanno su 120 gr/km. Colpire l’industria, che impiega 3,4 milioni di addetti, per passare da 120 a 95, che sollievo darebbe al riscaldamento globale? Non solo. Quanto è corretto valutare solo la CO2 allo scarico, tralasciando quella derivante dalle produzioni delle batterie e dell’energia, che secondo il CNR porterebbero l’output complessivo poco sopra quello di un motore diesel di ultima generazione? Certo, se l’energia venisse di più da fonti rinnovabili la bilancia penderebbe a favore delle auto elettriche. Ma non è così. Se il regolatore avesse fatto i compiti, lo saprebbe. La buona notizia è che tutto questo durerà appena un decennio. Il limite di 95 grammi sarà superato nel 2025, quando scenderà a 80 grammi e poi ancora nel 2030, sotto i 60 grammi. A quel punto, considerando anche la diffusione delle ibride, circa un’auto su tre dovrebbe essere a emissioni zero. Ai volumi di oggi, parliamo di quasi sei milioni di pezzi. Ma, com’è noto, l’altra soluzione potrebbe essere di abbassare il denominatore. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 24 giugno 2019

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FRÖLICH (BMW): “GLI EUROPEI ANCORA NON VOGLIONO LE AUTO ELETTRICHE” “Non c’è alcuna domanda di auto elettriche (BEV) da parte dei clienti. Nessuna. Ci sono richieste da parte del legislatore, ma non dei clienti”.

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on questo sasso nello stagno, Klaus Frölich, direttore dello sviluppo di BMW, ha squarciato il velo sulle auto elettriche, intervenendo all’evento #NextGen di Monaco di Baviera pochi giorni fa. La notizia non è quello che ha detto, perché già le statistiche ufficiali lo indicano ormai chiaramente. La notizia è che lo ha detto. Tanti osservatori del mercato non si chiedevano SE i costruttori avrebbero mai ammesso questo deficit di clienti, ma QUANDO. Già lo scorso anno l’allora numero uno di Mercedes, Dieter Zetsche, aveva avvisato che l’industria non sarebbe stata in grado di rispettare i limiti alle emissioni di CO2 fissati per il 2021, non a causa di mancanza di offerta ma per un evidente difetto di domanda. Poi era stato Carlos Tavares, leader di PSA (Peugeot, Citroen e Opel), a uscire allo scoperto, rappresentando una serie di ostacoli e dubbi sulla reale capacità di questa tecnologia di affermarsi nel mercato. Nessuno però era stato così chiaro, finora. Troppo chiaro, evidentemente, se BMW ha poi sentito il bisogno di tornare sull’argomento, come riportato oggi dall’Ansa, affidando allo stesso Frölich il compito di spiegare che “sfortunatamente i miei commenti non sono stati citati per intero”; che “l’elettromobilità, tecnologia in cui Bmw ha investito molto già dal 2004, è in crescita”; che “a partire dal 2021 potremo offrire ogni tipo di gruppo motopropulsore BEV, PHEV o motori a combustione interna attraverso queste architetture, a patto che esista una domanda di mercato 105


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sufficiente”; che “negli ultimi anni, tuttavia, la domanda dei consumatori di veicoli elettrificati è stata generalmente molto limitata e guidata principalmente da regolamenti o miglioramenti rapidi in materia di incentivi e infrastrutture”; infine che “tuttavia rimaniamo convinti che sia assolutamente essenziale continuare ad offrire ai clienti diverse opzioni di propulsione per il futuro prevedibile. A seconda delle loro abitudini di guida, un veicolo a combustione interna o un PHEV (ibrido plug-in) può essere l’opzione migliore. Dopotutto, i desideri e i requisiti del cliente variano ancora da Regione a Regione in tutto il mondo”. Spiegazioni e precisazioni importanti, che tuttavia non modificano la portata e il senso di quanto affermato inizialmente, peraltro abbastanza cristallino: “Se noi avessimo una grande offerta, sostenuta da forti incentivi, potremmo inondare l’Europa con milioni di auto elettriche, che però gli europei non acquisterebbero. Da quello che vediamo, le BEV sono per la Cina e la California, mentre altrove si preferiscono le ibride plug-in (PHEV) con una buona autonomia”. La rilevanza della dichiarazione è stata confermata dalle reazioni raccolte presso alcuni esponenti di vertice di altri costruttori. Molti di loro sono consapevoli della freddezza della domanda dei clienti e, di conseguenza, preoccupati che gli ingenti investimenti che l’industria sta sostenendo possano trasformarsi in un fardello pericoloso. Il rischio, recentemente paventato pure da Standard & Poor’s, è di indebolire una delle principali industrie del continente, che dà lavoro a 3,4 milioni di persone, esponendola a possibili raid da parte di concorrenti extra-europei. Per tornare alle parole di Frölich, “quello che i sostenitori delle auto elettriche non considerano è che il consumatore europeo non è pronto ad assumersi il rischio di un’auto elettrica, perché le infrastrutture di ricarica non ci sono e il valore residuo è un’incognita. I clienti in Europa non le comprano. Noi abbiamo spinto queste macchine nel mercato ma non le vogliono. Noi possiamo consegnare un’auto elettrica a ogni persona, ma non le comprerebbero”. 106


In conclusione, ciò che davvero stupisce non è la risposta, più o meno tiepida, da parte dei clienti né il successo o insuccesso di un’innovazione tecnologica. Un’economia di mercato solida quanto quella europea compie continuamente tentativi e assorbe le risposte dei consumatori, quali che siano. Invece, è francamente incredibile, nella culla dell’illuminismo, il clima di soffocamento che aleggia su questo specifico progetto, che rende difficile sollevare dubbi (con buona pace di Descartes) e formulare quelle domande che una radicata cultura di mercato e di marketing suggeriscono. A cominciare dalla più semplice di tutte: assodato che ‘emissioni zero’ allo scarico non significa ‘emissioni zero’ sul ciclo completo, a che servono le auto a batteria? Senza una risposta accettabile, è improbabile che i clienti acquistino. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 3 luglio 2019

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AUTO ELETTRICHE, ALLARME ANALISTI: GLI INVESTIMENTI PORTERANNO AD UN “DESERTO DEL PROFITTO” Studio Alix Partners. Le Case affrontano una difficile transizione dal termico all’elettrico.

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n ‘deserto del profitto’. Così Alix Partners, una società di consulenza, descrive il territorio verso cui si sta addentrando l’industria automobilistica. Siamo al terzo indizio in poche settimane. Prima Standard & Poor’s ha avvisato che l’outlook sui margini tende al brutto a causa dei troppi investimenti, a fronte dei quali la risposta del mercato appare quanto meno improbabile. Poi è stata la volta addirittura del numero due di BMW, che ha fatto outing sulla completa indisponibilità dei cittadini europei ad acquistare auto solo elettriche. Con tre indizi, comincia a materializzarsi una prova: ma di cosa? Gli analisti guardano con preoccupazione ad alcuni indicatori del settore. Il più importante è la quantità impressionante di soldi che i costruttori stanno investendo, da qui al 2023: 225 miliardi di dollari per l’elettrificazione della gamma e altri 50 per la guida autonoma, stando alle stime di Alix Partners. Per dare un riferimento, 275 miliardi è la metà dei 553 miliardi di EBIT che i costruttori di auto e veicoli leggeri hanno generato nel quinquennio 2014/18. Sebbene non siano un’automatica erosione dei profitti di pari importo e per quanti risparmi possano fare, e li stanno facendo (e chissà che questo non si riveli parte del problema), è facile comprendere la dimensione della minore redditività. A questo punto, va detto che l’impresa deve costantemente fare investimenti, per andare incontro alle opportunità di nuova domanda che si prospettano all’orizzonte. Quando, si prospettano. Se, si 108


prospettano. Gli analisti in verità dipingono un trend tutt’altro che espansivo nei prossimi anni. Il primo mercato del Mondo, la Cina, che ha generato in questo decennio i due terzi della crescita, pare stia tirando il freno: si proietta un meno 8% quest’anno. Gli Stati Uniti sono entrati nella fase calante del ciclo e l’Europa, per bene che possa fare, non darà i volumi necessari. Insomma, investimenti sì, ma non per vendere più macchine: sorge il dubbio se Herny Ford li farebbe. Ma allora, se non dal mercato, da dove arriva la spinta a simili impegni? Quella verso l’elettrificazione dai governi, che impongono limiti alle emissioni impossibili da rispettare e inutili sotto il profilo ambientale, come ormai tutti sanno – limiti accompagnati da multe miliardarie. Quella verso la guida autonoma dai giganti dell’ICT, che vogliono a tutti i costi tenere agganciati i clienti quando si spostano in macchina e che spingono la partita ben oltre la normale assistenza alla guida (i cosiddetti ADAS – advanced driver assistance systems). Il punto è che né gli informatici e men che meno i governi conoscono gli automobilisti bene quanto i costruttori di auto, che da oltre cento anni gli offrono il prodotto giusto, che regolarmente comprano. Non sanno cosa vogliono e cosa invece giudicano inutile o irrilevante. Cosa è cambiato in questo primo scorcio di secolo? Intanto, la politica per la prima volta, in occidente, compie scelte che prescindono dall’interesse e dalle possibilità dei costruttori. Poi, mai prima sulla scena c’era stata un’altra industria che aveva insieme capacità d’innovazione e risorse enormi. Davanti a questi due fenomeni, i costruttori forse si sono sentiti un po’ incalzati. In altri termini, è la prima volta che non sono loro, i car makers, a dettare l’agenda dello sviluppo. Per fare un piccolo esempio banale, le cinture di sicurezza a tre attacchi furono installate di serie nel 1959 da Volvo e poi dagli altri costruttori, ma solo nel corso degli anni ‘70 divennero obbligatorie in Europa. Si sa che decidere sotto pressione non è mai foriero di buone scelte, specie per chi non c’è 109


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abituato. Quale che sia la causa, è più importante capire l’impatto che avranno questi cospicui investimenti con poco mercato e scarsi profitti. Un generale indebolimento finanziario dell’industria automobilistica, che già lo scorso anno ha mandato un’avvisaglia: una flessione del 20% dei profitti, pari a 25 miliardi di dollari, nonostante una contestuale riduzione di 44mila addetti, la prima dopo la crisi 2008/10. Un’industria finanziariamente debole diventa facilmente scalabile da parte di chi punta ad accedere a tecnologie e nuovi mercati, come i produttori cinesi. Produttori che in questi ultimi anni hanno visto scendere l’utilizzo dei loro impianti intorno al 75% e, nell’ultimo anno, sotto il livello critico del 70%. Non è difficile ipotizzare come, dal loro punto di vista, si potrebbe sfruttare una tale capacità, allorché avessero accesso ai mercati occidentali con brand e reti già consolidate. In conclusione, è vero che i costruttori, dopo più di un secolo di mobilità individuale a motore, oltre a meritare fiducia e rispetto, hanno le spalle per reggere questa nuova sfida. Sicuramente le attuali strategie sono il frutto di analisi e di valutazioni accurate e approfondite. Magari è solo il caso di fare un tagliando, una specie di stress test, per controllare che tutto vada confermato. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 10 luglio 2019

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CAR SHARING IN BUONA SALUTE

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l car sharing diventerà mai un business o resterà un altro eterno Peter Pan, un enfant prodige buono per far chiacchierare i futurologi di professione? Era questa la domanda che ormai girava nell’aria da qualche tempo, visto che questo servizio innovativo fa fatica a uscire dalle zone centrali di Milano e Roma e, soprattutto, non riesce a stare in piedi economicamente. Cerchiamo di capire se sia possibile azzardare una risposta. I volumi del servizio (numero di noleggi) sono quasi raddoppiati nell’ultimo anno e, secondo gli esperti intervenuti alla Capitale Automobile che si sono espressi in un sondaggio del Centro Studi Fleet&Mobility, dovrebbero continuare a crescere nei prossimi tre anni a due digit, in una forbice compresa tra il 20 e il 40%. È un segno di buona salute, tuttavia il dato assume una valenza davvero positiva se letto insieme ad altri, in particolare quelli sulla fonte di questo utilizzo. Vediamoli. Fino al 2017, l’uso del car sharing aumentava per il crescente numero di clienti attivi (quelli che noleggiano almeno una volta in sei mesi) che però tanto attivi non erano, anzi. Ogni anno erano di più ma ricorrevano al servizio meno frequentemente. E non andava mica bene. Ricordiamoci bene che l’idea alla base del car sharing è di spingere le persone a dismettere un’auto propria, in uso esclusivo, che ha un tempo medio di impiego inferiore a due ore al giorno e dunque, per corollario, sta ferma a lungo occupando uno spazio prezioso, che attualmente viene sottratto alla circolazione, rallentando il traffico e generando più emissioni del necessario. Per sortire un simile effetto, il servizio deve entrare nelle abitudini quotidiane dei suoi clienti, altrimenti rimane solo un taxi senza conducente. Ora, pare che ciò stia avvenendo. Nel 2018 il doppio dei noleggi è stato effettuato dal 20% in meno di clienti attivi, che però hanno usato il servizio in modo più intensivo. Al di là dei numeri, 111


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significa che si sta formando un gruppo di clienti che trova comodo ricorrere al car sharing, in più e più occasioni. Insomma sì, può diventare adulto, perché se aumenta l’utilizzo anche i conti possono prima o poi diventare positivi, a patto che si riducano i danni da vandalismo verso questi mezzi. Ma questa è una storia di civiltà, non di mobilità. Articolo pubblicato su il Giornale, il 10 luglio 2019

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DIESEL ECCO PERCHÉ I NUOVI MOTORI SONO SUPER PULITI MA NESSUNO NE PARLA Tutti gli studi scientifici dicono in maniera chiara che dai tubi di scappamento delle moderne vetture diesel Euro 6 escono sostanze inquinanti in quantità talmente basse da non essere significative.

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ella vicenda del diesel due cose colpiscono: la assoluta asimmetria fra problema e soluzione e il silenzio assordante dei costruttori.

Tutti gli studi scientifici dicono in maniera chiara che dai tubi di scappamento delle moderne vetture diesel Euro 6 escono sostanze inquinanti in quantità talmente basse da non essere significative. Abbiamo avuto l’occasione di misurarle in un test su un percorso misto urbano ed extra-urbano, con vetture di serie: una Peugeot 3008 e una BMW 216, entrambe diesel, ovviamente. Gli altri automobilisti ci guardavano con curiosità a causa dell’ingombrate apparecchiatura Bosch attaccata allo scarico della macchina. Alla fine abbiamo ricevuto il responso. Tecnicamente, entrambe le vetture si sono posizionate molto al di sotto dei limiti che entreranno in vigore nel 2020 (per le omologazioni) e nel 2021 (per le immatricolazioni) col nome di Euro 6d finale. Parliamo degli ossidi di azoto, noti come NOx, che dovrebbero stare sotto 120 milligrammi/km. Entrambe le vetture si sono posizionate, in diverse condizioni di guida, tra 10 e 80 mg/km. In particolare, la Peugeot provata dal sottoscritto a 40 mg/km. Sarà, ma cosa significa in valori assoluti, per chi passeggia sul marciapiede dove circolano le auto diesel? Saltando alcuni passaggi di 113


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calcolo, significa che gli ossidi di azoto che inala provengono per il 60% dai trasporti su strada, incluse le auto diesel per un buon 17%, riferito però a tutte le auto in circolazione: quelle Euro 6 (non di ultimissima generazione, tipo quelle testate) contribuiscono per meno dell’1%. Dunque, la loro vendita non andrebbe contrastata, come sta accadendo per provvedimenti incomprensibili e supportati da tanta disinformazione, bensì incoraggiata, per svecchiare le strade da tutte quelle auto vecchie inquinanti. Vetture che invece non vengono penalizzate, se non sporadicamente. Ma oltre gli NOx ci sono le polveri, il PM declinato in base allo spessore (10, 2,5 o anche 1). Qui i dati sono ancora più netti, senza bisogno di troppi calcoli. I nuovi diesel ne emettono una porzione davvero risibile, al limite della misurabilità, grazie all’efficacia dei moderni filtri anti-particolato (FAP) e alla rigenerazione di queste particelle. Anche le emissioni degli scarichi di quelli già (o ancora) in circolazione arrivano al 3 o 4% del totale delle polveri, provenendo la massima parte da fonti “non transport”. Insomma, dai tubi di scappamento di tutte le auto in circolazione, anche quelle più vecchie, esce una quantità di inquinanti comunque parziale rispetto ad altre fonti, riscaldamenti domestici su tutte. L’espressione “tubo di scappamento” è adoperata per indicare che una vettura ha un impatto ambientale ben più ampio di quanto misurato agli scarichi. Ci sono emissioni legate alla produzione del veicolo e dei suoi componenti ed emissioni derivanti dal suo movimento, come le particelle rilasciate da freni e pneumatici o semplicemente sollevate dal suolo al rotolamento delle ruote. Tanto che basterebbe lavare le strade per ridurre di molto l’inquinamento da trasporto. L’alternativa sarebbe di eliminare i trasporti, ma forse non conviene. Fin qui l’asimmetria tra problema e soluzioni. Poi però c’è il discorso legato alla comunicazione. Tanti esponenti del settore, anche in posizioni di vertice nell’industria e nelle istituzioni, si incontrano e si interrogano sul perché i costruttori di automobili, 114


che hanno sviluppato la tecnologia diesel al livello più sofisticato e compatibile del mondo, subiscano senza profferire parola questa guerra, tanto santa quanto inutile a perseguire i suoi scopi. Non è solo che non si spendano a favore del motore diesel, quanto il fatto che addirittura rifuggano da ogni manifestazione a suo favore. Eppure, si tratta di un patrimonio tecnologico europeo, essenziale per la competizione di queste imprese sulla scena mondiale, in cui sono coinvolti i destini di 3,4 milioni di addetti. Sicuramente l’attacco portato dallo scandalo delle centraline ha colpito, tanto che hanno supinamente accettato di farlo passare come scandalo dell’intera tecnologia diesel. Resta da chiedersi se sia questa la sola ragione di tanto silenzio e se sia comunque giusto verso i milioni di automobilisti, che si trovano bene con questi propulsori e che li sostituirebbero volentieri con altri ancora migliori, se solo non venissero disorientati. A ognuno di loro sarà capitato di passare col rosso o parcheggiare in divieto di sosta: hanno pagato la multa e girato pagina. Forse sarebbe ora di ricominciare a vivere. O almeno a parlare. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 luglio 2019

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LA CRISI DELLE PICCOLE IMPRESE DEPRIME IL MERCATO DEI MEZZI La tendenza. Pesano il costo del lavoro e la concorrenza dell’Est.

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a Polonia è il principale trasportatore d’Europa, con una quota del 18% sul totale delle merci movimentate su strada, pur rappresentando appena il 3% del PIL dell’UE. La Germania, che invece è il maggior soggetto economico, col 21% del PIL, pesa per il 16% sui trasporti. In proporzione, se la passa meglio di Francia e UK, le due seconde economie del gruppo dei 28, che hanno una quota dei trasporti del 9 e 8%, rispettivamente. L’Italia, che pesa per l’11% del PIL, trasporta il 6% delle merci. Già queste cifre macroeconomiche fanno intuire che il trasporto su gomma è un’industria dove si muovono meglio le nuove economie del continente, grazie ad alcuni vantaggi competitivi. Innanzitutto, il minor costo del lavoro, che è la seconda voce di spesa di un veicolo industriale, al 26%, dietro al carburante (30%), secondo uno studio di ACEA, l’associazione europea dei costruttori. Per dare una consistenza a questo fattore, vengono in soccorso alcuni numeri del CNR (Comité National Routier). Un autista polacco guadagna il 21% di quanto si porta a casa il suo collega italiano, trattato comunque peggio del francese, che trova in busta il 18% in più. Ma dal lato dell’impresa di trasporti le cose stanno diversamente. Non tanto nel confronto con il sistema polacco, visto che i rapporti restano pressocché invariati (il costo azienda dell’autista polacco è il 22% di quello che costa all’impresa italiana un autista), quanto piuttosto con quello francese: pur guadagnando molto di più, l’autista polacco rappresenta per la sua azienda un costo pari al 98% di quanto costa il collega italiano. Ormai da anni le aziende nazionali di autotrasporto denunciano i medesimi problemi, come principali fattori di minor competiti116


vità rispetto alla concorrenza dell’est: la pressione fiscale, le difficoltà burocratiche e i costi di gestione, ossia appunto il costo del lavoro e del carburante e le spese di assistenza e manutenzione. Secondo un’analisi di GiPA, in media il costo di un autista in Europa è il 70% di quello italiano: si chiama cuneo fiscale, ed è un grande problema dell’economia italiana. La pressione fiscale fuori dai nostri confini poi è addirittura in media al 60%, rispetto a quella italiana. Non c’è molto che le imprese possano fare, se non subire e adeguarsi, come dichiara di fare il 56% di esse, laddove alcune parlano apertamente di delocalizzazione dell’attività all’estero. Oltre il solito cahier de doléances, a cui siamo abituati, qual è stato l’impatto di tali squilibri? Nel decennio 2008-2017, sempre secondo un’analisi di GiPA, è scomparso il 27% delle imprese di autotrasporto, pari a oltre 34mila aziende. A pagare il prezzo più alto sono stati come sempre i più piccoli, quelli che hanno fino a 5 camion, di cui ne sono scomparsi quasi 32mila. Questa moria ha eliminato 134.000 mezzi, pari al 22% del nostro parco circolante, e altrettanti posti di lavoro (dietro ogni volante c’è un autista) di cui circa 110.000 cosiddetti padroncini, autisti in proprio generalmente privi di ammortizzatori sociali. Il paradosso, tipicamente italiano, è che il settore dell’autotrasporto in prospettiva non riesce a soddisfare la sua domanda di personale specializzato. “Nei prossimi cinque anni – spiega Franco Fenoglio, presidente della sezione veicoli industriali di Unrae – mancheranno circa 15.000 autisti e 5.000 meccanici. Si tratta di profili professionali molto diversi e più preparati, a cui si chiedono mansioni sempre più sofisticate, tanto che più che meccanici andrebbero definiti meccatronici, mentre gli autisti da semplici guidatori diventano degli operatori della logistica.” In un simile scenario economico, è difficile aspettarsi una vivacità degli operatori sul fronte delle immatricolazioni, che infatti stanno ancora sotto di un quarto rispetto al 2008, nonostante il super-ammortamento (non rinnovato) e la Legge Sabatini. Un 117


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ricambio del parco obsoleto, che porterebbe sulle strade più sicurezza e meno inquinamento, riguarda tuttavia più i camion “in conto proprio” (che pesano la metà del parco ma hanno i due terzi dei mezzi ante Euro 4) che non le flotte e i padroncini. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 luglio 2019

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AUTO, ENTRO IL 2025 UN CLIENTE SU QUATTRO LA COMPRERÀ ONLINE

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na bellissima nuova concessionaria Mercedes in Olanda, a L’Aia, costruita davvero intorno al cliente, nel senso di farlo sentire a proprio agio in ogni posto e in ogni momento. Le due cose che colpiscono di più del nuovo format, battezzato Best Customer Experience 4.0, sono l’integrazione off/online e il ritorno economico. Partiamo da quest’ultimo, in modo da tranquillizzare circa quel solito piccolo dubbio che sorge ogni volta che si tratta di dare qualcosa di più al cliente: bello, d’accordo, ma quanto mi costa? Ecco, in questo caso, nonostante l’impiego di spazi e risorse professionali altamente qualificate, il costo per unità venduta di questo impianto è inferiore a quello che era nella stessa concessionaria prima del rinnovamento del format e dei processi: abbiamo recuperato efficienza, ci ha spiegato il suo responsabile. Detto questo, che non è un dettaglio, possiamo esaminare il cuore di questo nuovo modo di relazionarsi con il cliente, partendo dalla questione più ampia che sta attraversando la nostra società, con le ricadute più radicali su di essa: l’acquisto online. Britta Seeger, una simpatica giovane signora che guida il marketing e le vendite di Mercedes e siede nel board di Daimler, lo dice senza mezzi termini: “Ci aspettiamo che entro il 2025 un quarto delle nostre vendite mondiali avverrà online”. Non male, per un’industria che fino a un paio di anni fa era monolitica nel giurare che no, mai (mai!) le macchine si sarebbero vendute su internet. Tuttavia, continua Britta, “il contatto umano continua a giocare un ruolo importante, tanto che oltre l’80% dei clienti vorrà ancora ricevere consigli di persona e fare un test drive: pertanto, secondo noi le vendite fisiche continueranno a essere irrinunciabili”. Insomma, online sì, ma anche test drive e una persona comunque la voglio incontrare. Sta tutto 119


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qui il valore innovativo del progetto Mercedes, nell’integrazione off/online. “Con ‘Best Customer Experience 4.0’ stiamo facendo un passo avanti verso il futuro della nostra organizzazione commerciale, per rendere l’intero customer journey del nostro cliente il più facile possibile, senza soluzione di continuità tra online e offline”. Il fulcro di tutto è l’ambiente digitale del cliente Mercedes, l’ormai noto ‘Mercedes me’, che si declina in una app e in un’identità digitale, la Mercedes me ID, che tutti possono crearsi, non solo i possessori di un’auto con la stella a tre punte. Con questo profilo, il cliente inizia a esplorare l’offerta Mercedes da remoto, ben prima di entrare in concessionaria. Con la differenza che quando deciderà di farlo, non si sentirà come gli eroi di Jurassik Park, che entrano in un mondo passato, dove tutto comincia e finisce con strette di mano e brochure di carta. Al suo ingresso nello show-room, oltre a ricevere la più cortese delle accoglienze, per farlo sentire a suo agio, sarà immediatamente riconosciuto e agganciato al suo profilo. A quel punto, il secondo passaggio è con lo specialista di prodotto, che fornisce tutti i dettagli e consiglia il cliente fino a individuare la vettura e gli accessori più adatti alle sue esigenze. Non solo fisicamente, ma anche e sempre su una piattaforma digitale, in modo da aggiungere cose senza partire ogni volta da zero. In altre parole, la stessa concessionaria, dove ci sono le macchine e si possono toccare, è ricca di schermi dove le immagini declinano e fanno vivere le diverse versioni e i particolari dei prodotti. Piano piano l’oggetto si delinea, sia in concessionaria che da remoto, perché “la digitalizzazione sta cambiando il nostro modo di vivere e fare business – è sempre Britta che parla – dato che i clienti nel mondo si aspettano di poter interagire online con i brand ovunque e in ogni momento”. Infine, ma non è la fine, si incontra il venditore, a cui spetta il compito di concretizzare la scelta nei suoi termini economici. Non è la fine, dicevamo, perché la relazione continua fino alla consegna (molto celebrativa, com’è giusto che sia) e poi oltre, nell’uso dell’auto e negli interventi di assistenza. Proprio qui 120


Mercedes ha effettuato un altro cambiamento di filosofia. Forse prendendo spunto dalla ristorazione moderna di qualità, l’area dei meccanici non è più un luogo impenetrabile, dove accadono cose che il cliente non deve nemmeno sapere. Al contrario, le pareti sono di vetro e c’è una persona che spiega al cliente quale intervento quel signore con i guanti stia compiendo al cuoricino della sua auto, che presto tornerà a battere. In prospettiva, l’identità digitale darà al cliente l’accesso a tanti servizi online tesi ad agevolare la sua mobilità, che sia a bordo di una Mercedes ma anche no. Sebbene il sospetto sia che Mercedes desideri che comunque i clienti ce l’abbiano, una Mercedes. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 25 luglio 2019

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NEL 2021 UN’AUTO SU TRE SARÀ DIESEL

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e auto diesel non usciranno di scena, contrariamente a quanto più volte ventilato. Gli addetti ai lavori intervenuti alla Capitale Automobile hanno risposto al sondaggio lanciato dal Centro Studi Fleet&Mobility con un televoto in diretta, sulla quota delle auto diesel nelle immatricolazioni del 2021. Uno su due ha dichiarato una previsione tra il 30 e il 40%, mentre uno su quattro addirittura sopra il 40%. Solo uno su cinque ha previsto una quota compresa tra il 20 e il 30% e valori inferiori sono stati indicati da percentuali marginali di votanti. Tali previsioni vanno incastrate nella realtà di questi mesi, che sta registrando una flessione nelle vendite di diesel, anche se proprio dalla Germania arrivano segnali, per ora flebili, di un’inversione. In Europa la quota di mercato è passata dal 51% del 2015 al 36% del 2018. Un calo di ben 15 punti percentuali, che sta proseguendo in questi primi mesi, certamente riconducibile almeno per buona parte al diesel-gate, lo scandalo scoppiato in America che però molti movimenti di opinione europei hanno golosamente abbracciato, decidendo che l’eliminazione dei nuovi diesel fosse la soluzione ai problemi di inquinamento. Pure in Italia la quota è scesa, dal 56% del 2015 al 52% dello scorso anno, ma per cause forse diverse. Intanto, nei mesi successivi al diesel-gate aumentò fino al 57%: probabilmente avevamo capito che non c’era assolutamente motivo di abbandonare un motore molto efficiente e pochissimo inquinante. Poi lo scorso anno sono arrivati i divieti alla circolazione di alcune importanti città, colpendo la libertà di movimento delle persone e spingendo alcuni verso i motori a benzina e altri verso quelli ibridi, soluzione che per un’utilitaria può anche funzionare, ma certo non per auto più grandi destinate a percorrenze più elevate. Altri ancora sono rimasti alla finestra, in attesa di capire che succede. Insomma, la 122


botta c’è stata e continua. Nei primi 5 mesi dell’anno, la quota è scesa al 43%: un anno prima era 11 punti sopra. Il timore che questo motore uscisse definitivamente dalle opzioni d’acquisto era forte e legittimo. Invece, gli operatori che stanno sul mercato tutti i giorni prevedono che la discesa stia per terminare, atterrando su un valore non troppo più in basso di oggi. Articolo pubblicato su il Giornale, il 14 agosto 2019

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MERCEDES-BENZ E L’INTEGRAZIONE OFF/ ONLINE

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i chiama “Best Customer Experience 4.0” il nuovissimo format di salone Mercedes che abbiamo visto a L’Aia, in Olanda, e che integra le dimensioni online e offline del processo di acquisto dell’auto. Britta Seeger, responsabile marketing e vendite di Mercedes e membro del board di Daimler, va dritto al punto: “Ci aspettiamo che entro il 2025 un quarto delle nostre vendite mondiali avverrà online”, tuttavia, continua Britta, “il contatto umano continua a giocare un ruolo importante, tanto che oltre l’80% vorrà ancora ricevere consigli di persona e fare un test drive: pertanto, secondo noi le vendite fisiche continueranno a essere irrinunciabili”. Da qui l’integrazione off/online. “Con ‘Best Customer Experience 4.0’ stiamo facendo un passo avanti verso il futuro della nostra organizzazione commerciale, per rendere l’intero customer journey del nostro cliente il più facile possibile, senza soluzione di continuità tra online e offline”. Grazie al profilo digitale, Mercedes me ID, il cliente naviga nell’offerta Mercedes da casa, prima di arrivare in concessionaria dove troverà un’accoglienza top class, che partirà proprio da quanto già presente nel suo profilo. Sarà solo dopo questo warm welcome che passerà a incontrare lo specialista di prodotto, che gli darà tutti i dettagli e i consigli per individuare la vettura e gli accessori più in linea con le sue esigenze. È un modo nuovo di accompagnare il cliente, perché “la digitalizzazione sta cambiando il nostro modo di vivere e fare business – continua Britta – dato che i clienti nel mondo si aspettano di poter interagire online con i brand ovunque e in ogni momento”. Il terzo incontro è con il venditore, per definire gli aspetti economici dell’acquisto. Ma l’esperienza continua, con la celebrazione della consegna dell’auto, quando davvero il cliente riceve il massi124


mo dell’attenzione e tutte le risposte operative per fruire al massimo del nuovo acquisto. Da quel momento, sempre accompagnato dalla sua identità digitale Mercedes me ID, il cliente potrà accedere a tanti servizi accessori, che riguardano sia la gestione della macchina, come ad esempio gli interventi di assistenza, sia anche (e sempre di più in futuro) i servizi legati alla sua mobilità. A bordo di una Mercedes, auspicabilmente. Articolo pubblicato su il Giornale, il 21 agosto 2019

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L’AUTOMOBILE, LA CO2 E LA DISINFORMAZIONE TARGATA GREENPEACE Se le auto emettono una dose rilevante di CO2, elimina la produzione di auto e avrai eliminato il problema. Sfortunatamente, non è così.

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reenpeace ha riunito 15.000 persone sabato 14 settembre, in occasione del Salone di Francoforte, al grido di “make love not CO2”, indicando nella produzione di auto una fonte importante di anidride carbonica, il gas serra responsabile del riscaldamento globale. Il ragionamento è semplice: se le auto emettono una dose rilevante di CO2, elimina la produzione di auto e avrai eliminato il problema. Sfortunatamente, non è così. In sintesi, e anticipando le conclusioni, continueremmo ad emettere CO2, ma possiamo scegliere di farlo in un’economia in salute oppure avendo danneggiato seriamente uno dei suoi (nostri) pilastri. Entrando nel merito, in questa commedia, che vorrebbe a tutti i costi diventare tragedia, ci sono tre soggetti: Greenpeace, l’industria automobilistica e i cittadini. Greenpeace poggia la sua chiamata alle armi su dati recentemente diffusi, la cui comunicazione molto discutibile recita. “Il settore automobilistico, con 86 milioni di auto vendute nel 2018, si stima sia responsabile di 4.8 gigatonnellate (Gt) di CO2 equivalente, circa il 9% del totale delle emissioni globali di gas serra, più delle emissioni dell’intera Unione Europea (4.1 Gt)”. Come stanno davvero le cose? Le auto vendute oggi emettono intorno a 100/130 gr/ km di CO2 (arrotondiamo a 150, per eccesso) e percorrono circa 20.000 km/anno. La calcolatrice dice 250 milioni di tonnellate di CO2, ossia un ventesimo (1/20) di quella denunciata da Greenpeace, che si può ottenere, senza mentire, accostando dati reali di grandezze diverse. Il “settore automobilistico” sono tutte le auto 126


in circolazione, circa 1,3 miliardi, le cui emissioni possono essere effettivamente nell’ordine di alcune Gt. Però queste macchine ormai sono nelle mani degli automobilisti, che non interessano. Infatti, Greenpeace non va a manifestare al casello della tangenziale alle 8,30 del mattino, perché gli automobilisti li falcerebbero. Per chiamare in causa i costruttori occorre inserire quel riferimento alle vendite 2018, altrimenti il giochino non regge. Allora, è ipotizzabile che Greenpeace non sia arrivata ai costruttori seguendo la pista della CO2, ma al contrario arrivi alla CO2 partendo dai costruttori, che sembrano il vero obiettivo. Sempre nello stesso report, Greenpeace attribuisce a ogni auto venduta nel 2018 circa 50 tonnellate di CO2 di emissioni, escluse quelle legate alla produzione (che non conviene calcolare perché poi andrebbero fuori limite anche quelle elettriche, la vera finalità di Greenpeace). Ora, sempre la calcolatrice dice che una macchina prodotta nel 2018 per emettere 50 tonnellate di CO2 deve percorrere 333.000 chilometri. A una velocità media di 30 km/h, l’auto dovrebbe camminare ininterrottamente in un anno 463 giorni. Stabiliti alcuni punti fermi, occupiamoci del bersaglio grosso, il pianeta e la sua temperatura, che sta a cuore a tutti. Prendendo per buona la stima di 4.8 Gt di CO2 emesse da tutte le auto del mondo, secondo Greenpeace rappresenterebbero “circa il 9% del totale delle emissioni”. Ora, la CO2 prodotta ogni anno dal pianeta si aggira intorno alle 800 Gt, di cui una piccola parte (intorno al 5%, circa 40) derivante da attività umane. Così, quella emessa da tutte le auto del pianeta si aggira sullo 0,6% del totale. Ecco perché bloccare la circolazione di auto non sarebbe una soluzione al contenimento della CO2, cosa che infatti Greenpeace non chiede, accontentandosi di fermare le vendite di automobili a motore termico – e nemmeno tutte, solo quelle europee, a quanto pare. Come si legge nel rapporto, “le auto diesel e benzina dovranno essere rapidamente abbandonate, con uno stop alle vendite previsto in 127


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Europa per il 2025 per le nuove auto e per il 2028 per le ibride (…) per costruire veicoli elettrici piccoli, efficienti e avere una filiera di produzione sostenibile”. Non solo, devono anche impegnarsi a “superare il modello che porta a produrre sempre più auto (…) anche fornendo servizi che siano complementari al trasporto pubblico, come ad esempio car sharing e car pooling”. In parole semplici, si persegue l’estinzione dell’industria automobilistica, o almeno di quella europea, senza minimamente intaccare davvero le emissioni di CO2. Che porta a due domande. Cui prodest? E come mai l’industria si fa portare per mano di buon grado verso il patibolo, senza reagire? A rispondere alla prima domanda si rischia la dietrologia, dunque è meglio lasciare che ciascuno veda per conto suo chi è il vero portatore di una mobilità elettrica, mettendo insieme i fatti: deficit di tecnologia sul motore termico, squilibrio della bilancia commerciale automobilistica, disponibilità delle materie prime per le batterie. Poi, è talmente grande che è impossibile non vederlo. Abbiamo rivolto la seconda a Michele Crisci, presidente dell’Unrae (l’associazione dei costruttori esteri). “Premesso che chi veicola informazioni, soprattutto se si tratta di dati scientifici con la capacità di influenzare i mercati, deve verificare con competenza la correttezza dei dati, in questo caso voglio pensare che siano persone non competenti, senza ipotizzare altro. Detto questo, perché non reagiamo? In realtà, devo dire che la verità scientifica, stabilita dal CNR su richiesta di Unrae, l’abbiamo rappresentata ai ministeri e ai ministri interessati e a molte amministrazioni locali importanti. Però ammetto che avremmo potuto comunicarla di più al pubblico, ai nostri clienti”. “La ragione sta probabilmente nel fatto che noi costruttori ci stiamo muovendo contemporaneamente su due piani. Da un lato, la direzione che abbiamo intrapreso è quella dell’elettrificazione, su cui siamo costretti ad accelerare da alcuni fattori esterni. A cominciare dall’obbligo che ci viene dal regolatore di stare entro parametri di emissioni 128


molto stretti, raggiungibili solo con un certo numero di auto elettriche immesse sul mercato, per niente facile da ottenere a causa di una risposta ancora molto flebile da parte degli automobilisti. Ma non è solo questo, ci sono anche le pressioni che arrivano dagli analisti finanziari, che premiano le politiche ambientali delle aziende, a prescindere dal loro impatto effettivo”. “Dall’altro lato, dobbiamo anche spingere sulle auto tradizionali, che hanno un impatto ambientale minimo, trascurabile, favorendo il ricambio del parco circolante, con vetture nuove e pure con quelle usate di ultima generazione, che magari non ci aiutano a stare dentro i limiti imposti dall’UE, ma portano un reale beneficio all’ambiente”. Il discorso sembra filare: la prospettiva è l’elettrico (full e ibrido) e nel frattempo vendiamo motori termici il cui impatto è trascurabile. Ma non funziona agli occhi dei clienti, perché se il motore termico è sostenibile viene meno la ragione di passare all’elettrico. Già, i clienti. Se non fosse per loro, verrebbe da chiedersi perché perseguire la verità dei fatti. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 19 settembre 2019

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ANCHE NELL’AUTO NO ALLA DECRESCITA E SÌ ALLA CULTURA DEL FARE

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siste una parte sana nelle istituzioni pubbliche operative e l’abbiamo vista all’opera in occasione della presentazione del Milano Monza Motor Show”. Ha cominciato Angelo Stichi Damiani, il Presidente dell’Automobile Club d’Italia, un ente pubblico, spiegando come tale manifestazione sia il risultato di un investimento fatto dall’ACI sull’autodromo di Monza, che impone di essere messo a reddito per ripagarsi. È il modo sano di usare soldi dei contribuenti. Con la consueta eleganza, ha specificato che non si tratta di un trasferimento della manifestazione Parco del Valentino da Torino a Monza, sebbene poi dai successivi interventi sia emerso quanto abbia pesato sull’operazione una cultura moderna e produttiva, che abita da quelle parti e viene incarnata dai suoi amministratori locali, senza rilevanza di colore politico. Il governatore Fontana ha raccontato di aver ascoltato e prontamente accolto l’idea di Andrea Levy di portare la sua bella manifestazione in Lombardia, perché fa parte delle cose che fanno crescere l’economia del territorio: “Noi siamo felici con la crescita, non con la decrescita”. Il Sindaco Allevi (Monza) ha trasmesso sicurezza sulla capacità di gestire in due/tre giorni mezzo milione di visitatori: “Ne gestiamo 200mila ogni Gran Premio e abbiamo ospitato 700mila fedeli in occasione della visita di Papa Francesco. Sì, sappiamo cosa fare”. Il Sindaco Sala (Milano) ha annunciato che sono già in moto per far arrivare la metropolitana a Monza – ci vorranno dieci anni, ma i cittadini l’avranno. “Sulla mobilità, le ideologie stanno a zero e bisogna ragionare sui numeri”, ha aggiunto Sala, facendo eco a Sticchi Damiani: “I diesel di ultima generazione inquinano quanto un’auto elettrica, ma purtroppo questo lo diciamo in pochi”. Insomma, difficile non andare col pensiero ad altre due importan130


ti realtà, Torino e Roma. La prima ha letteralmente preso a calci la più bella e innovativa manifestazione motoristica degli ultimi anni, che coniuga pubblico, tempo libero e passione per le auto con costi molto contenuti. La seconda appare addirittura incapace, e non da pochi anni, non tanto di meritarsi l’organizzazione dei grandi eventi (che pure le spetterebbero) quanto di far funzionare le infrastrutture logistiche che già ha, tipo scale mobili, per capirci. Articolo pubblicato su il Giornale, il 20 settembre 2019

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AUTO, KM0 E NOLEGGIO TIRANO GIÙ IL MERCATO: ININFLUENTE IL BONUS/MALUS

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ettembre effervescente quanto privo di alcun significato, visto il confronto con lo stesso mese dello scorso anno, che era stato pesantemente condizionato in negativo dal passaggio alle omologazioni col sistema WLTP (Worldwide harmonized light vehicles test procedure): i costruttori non avevano tutto il prodotto disponibile e inoltre avevano dovuto gonfiare la rete ad agosto targando tutte le macchine già omologate col sistema NEDC (New European Driving Cycle). Molto più interessante invece analizzare i nove mesi dell’anno, che mostrano una flessione del 2%, ma con dinamiche nuove rispetto agli anni scorsi, e un effetto quasi nullo del bonus/malus. Al mercato mancano circa 30mila immatricolazioni rispetto ai nove mesi 2018. Vediamo di capire come mai e cosa è successo. Cominciamo con l’offerta, che ha diminuito di 50.000 unità le auto-immatricolazioni: si pronuncia km0, alla cui mancanza hanno risposto i privati, acquistando macchine da targare in ragione di quasi 20mila in più. Altre 17mila sono finite nelle società di NLT captive, col sospetto che sempre della stessa cosa si tratti. Sia perché in fondo anche a questo serve una captive, sia perché le società NLT non-captive sono calate degli stessi volumi e un sospetto sorge. Dunque, a tirar giù le vendite sono stati il calo dei noleggiatori, dovuto al fatto che lo scorso anno ancora beneficiavano, in parte, del super-ammortamento, insieme alla frenata dei km0, al netto dei privati e delle captive. Uno sguardo agli effetti del bonus/malus sulle emissioni nel periodo marzo-settembre, proposto da Unrae (associazione dei costruttori) evidenzia alcuni fenomeni interessanti. Primo, ha interessato il 4 (quattro) percento del mercato, di cui lo 0,9% nella fascia del bonus (quelle auto a basse emissioni la cui vendita dovrebbe aiuta132


re la lotta al riscaldamento del pianeta). Sono state immatricolate, con beneficio, poco più di 10.000 unità, rispetto alle 6.000 dello scorso anno, con un incremento che però è in linea con quello che già c’era stato nel 2018, senza incentivi. Come avevamo previsto da queste colonne, soldi dei contribuenti spesi senza alcun ritorno concreto. Quasi il 3 e mezzo percento dell’intervento ha interessato invece le auto da punire: le vendite sono aumentate del 43%. Qualcuno potrebbe dolersene ma, come anche avevamo detto all’epoca, questo malus altro non era che un mezzo per finanziare il bonus. A conti fatti, pare proprio che stia andando così. “Much ado about nothing”, avrebbe detto Shakespeare. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 2 ottobre 2019

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I SUV HANNO TAGLIATO LA STRADA ALLE UTILITARIE Segmenti A e B. il boom delle autovetture a ruote alte e l’elettrificazione rivoluzionano il mercato.

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o scorso anno gli italiani hanno immatricolato un milione di utilitarie, segmenti A e B, dando un contributo al totale superiore a metà del mercato (53%). 36 mesi prima, nel 2015, ne avevano acquistato 50 mila in meno, ma in ragione di 6 ogni 10 immatricolazioni. In pratica in 3 anni il mercato cresceva del 21% e la domanda di auto piccole appena del 5%. Il quadro in termini di soldi è ancor più significativo. Secondo le analisi del Centro Studi Fleet&Mobility, la quota in valore passava dal 44 al 35%, con una flessione di 9 punti, superiore ai 7 persi come targhe. Le utilitarie ovviamente costano meno della media del mercato, ma mentre nel 2015 un punto di quota in volume valeva 0,73 punti in valore, nel 2018 lo stesso rapporto era sceso a 0,66. Dove hanno orientato le loro preferenze gli italiani? Sulle vetture medie, segmento C, la cui quota in valore è passata dal 30 al 38% (dal 27 al 33 per chi conta i pezzi). Certo, viaggiare più comodi piace a tutti, ma cosa ha spinto così tanti automobilisti in così breve tempo a volere un’auto più grande? La voglia di SUV. La scelta non è stata dettata tanto dallo spazio quanto dalla forma, il body, che ha avuto una penetrazione impressionante nel nostro Paese (e non solo, visto che è un fenomeno mondiale) al punto che ormai ogni due euro che vengono spesi per nuove macchine uno va a finire in un SUV. Nel decennio la quota in volume è arrivata a superare il 40% (era il 12 nel 2010, quando queste macchine erano prevalentemente concentrate sull’alto di gamma). In questo 2019 di passione 134


(e flessione) l’unico segmento che cresce è proprio quello dei SUV. Una performance simile era possibile solo sviluppando vetture sport-utility per la fascia media. Cosa che i costruttori hanno fatto di buon grado, chi prima chi dopo, avendo intuito che la strategia vincente fosse appunto di vendere magari non tantissime macchine, ma di valore più elevato in modo da portare a casa più margine. È la strada intrapresa da FCA, di cui tutti osservano la minore quota di mercato, ma non tutti valutano la qualità economica di quelle vendite. Questa della ricerca del margine è una motivazione forte per lo spostamento dalle utilitarie ai crossover di taglia media, in un’epoca in cui i costruttori hanno bisogno di sempre maggiori risorse da investire nell’auto elettrica. Un’analisi di Reuters le quantifica in oltre 300 miliardi di dollari, di cui 140 tirati fuori dalla Germania e destinati per il 50% a rimanere in Germania e 50% ad andare in Cina, che aggiunge altri 57 miliardi che però investe in casa sua, come fanno gli altri paesi (USA, Giappone, Corea, Francia e altri) con i restanti 100 miliardi. Proprio la strada della propulsione elettrica conduce più verso l’alto di gamma che verso le utilitarie. Nonostante la fiabesca proposizione d’acquisto fondata sull’aria meno inquinata nelle città, la realtà è diversa. Da un lato, l’auto elettrica è uno status symbol appannaggio di chi se la può permettere, ossia chi ha un garage privato e possiede comunque un’altra macchina, e rivolge l’attenzione ai grandi SUV elettrici. Dall’altro, ai costruttori la propulsione elettrica interessa per stare mediamente sotto una certa soglia di emissioni di CO2 (e poco importa se poi quell’elettricità sia fatta bruciando carbone e dunque emettendo molta anidride carbonica). A tal fine, conta più che sia una grande a essere scelta elettrica che non una piccola, che anche termica già emette poco di suo. Opinioni? Forse, ma ricavate dai piani annunciati dai costruttori e analizzati da McKinsey, una società di consulenza, se135


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condo cui avrebbero in animo di lanciare circa 300 vetture elettriche (BEV) entro il 2025. Di queste, quelle utilitarie non arrivano al 25%, mentre il grosso si divide equamente tra la taglia media (segmento C) o addirittura superiore. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 ottobre 2019

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SULL’AUTOMOBILE È IN ARRIVO UNA TEMPESTA PERFETTA Studio McKinsey. Secondo gli analisti Usa l’industria sta attraversando una fase di irreversibile trasformazione tecnologica e dei modelli di business.

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opo il “deserto dei profitti” evocato da Alix Partners, un altro gigante della consulenza strategica, McKinsey, parla di “tempesta perfetta” che si prospetta per l’industria automobilistica, sempre a causa della montagna di investimenti che sta prosciugando i profitti. Il 6.3% di EBIT (pari a 120 miliardi di dollari) prodotto dai costruttori nel 2018 già quest’anno è un miraggio, come pure il 7.1% (55 miliardi) lo è per i loro fornitori, e i prossimi saranno peggio. Dove sono diretti tutti questi investimenti? In parte verso lo sviluppo di un’auto nuova, in grado di dialogare con l’ambiente (connessa) e di muoversi da sola (autonoma). È la nuova frontiera della mobilità individuale. Il grosso dei soldi però va nello sviluppo di macchine a batteria: 275 miliardi di dollari investiti dai costruttori finora e si continua così. Per lanciare, secondo le previsioni di IHS Automotive, oltre 300 nuovi veicoli elettrici da qui al 2025, concentrati più sull’alto di gamma (dove sono i margini e i clienti sensibili alle mode) e meno sulle utilitarie, dove tuttavia ci sono i volumi e ci sarebbe anche lo scopo: abbassare le emissioni nelle città. Ma questi equilibri si spiegano alla luce della reale finalità di questa offerta: evitare/ridurre le multe diminuendo le emissioni di CO2 del mix delle vendite. Serve a poco spingere i clienti a scegliere un’auto piccola elettrica anziché con motore termico, che già emette poca anidride carbonica. No, perché ne valga la pena, l’operazione va fatta sui grandi SUV. O almeno tentata. L’analisi 137


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stima che per evitare le multe pesantissime in arrivo i clienti europei nel 2021 dovrebbero acquistare 2,2 milioni di auto elettriche e ibride plug-in, appena 11 volte quanto hanno acquistato lo scorso anno. Non accadrà. È più probabile che all’ultimo la nuova Commissione sceglierà di non uccidere la sua gallina dalle uova d’oro. Nel frattempo, gli investimenti bruciano cassa. Sul fronte dei costi di produzione, il coro è quasi unanime nel sostenere che ormai hanno già grattato il fondo e ulteriori efficienze non sono la soluzione. McKinsey assicura che l’introduzione dell’intelligenza artificiale potrebbe portare all’industria nel suo complesso oltre 200 miliardi di dollari, pari a 9 punti di EBIT, ma è tutto da verificare e in ogni caso si tratta del prossimo decennio. Insomma, i costruttori si rendono conto che stanno mangiando un elefante e che potrebbero non riuscirci, non singolarmente. Allora cercano di unire le forze. Gli esperti di McKinsey hanno contato 254 partnership dal 2014 a oggi, di cui 2/3 orientate a sostenere il peso degli investimenti sui motori tradizionali e su quelli elettrici, con le aziende di tecnologia concentrate solo su questi ultimi, in ragione di un’alleanza su quattro. Le altre 95 partnership (1/3) sono invece dedicate alla connettività e alla mobilità, le aree dei futuri auspicati profitti, con una presenza di aziende di tecnologia pari a tre su quattro. I giganti della tecnologia hanno risorse e liquidità enormi in grado di scuotere l’industria dell’auto, eppure aprono il borsellino solo per sedersi dove ci saranno i profitti, lasciando ai costruttori la ricerca di efficienze nel business tradizionale. Come pure l’analisi evidenzia, c’è il rischio che la catena del valore formata dai costruttori e dai loro fornitori tenda a dissolversi, lasciando sempre più spazio ai produttori di tecnologia e ai regolatori, locali o sovranazionali che siano. Tanto che appare lecito interrogarsi se questi sviluppi siano ancora un affare da metalmeccanici. I quali forse dovrebbero resistere alle sirene, nel senso di non trascurare i tradizionali punti di forza e di unicità: l’abilità di 138


disegnare, progettare e costruire prodotti eccellenti, senza i quali ogni futura soluzione di mobilità resta inapplicabile. I clienti la vogliono connessa? Sì. Autonoma? Pure, fin dove si può. Ma che sia un’auto. Come si dice: where is the beef? Cos’è che ingolosisce i costruttori di macchine, in questo business della mobilità? Dalle stime di McKinsey, dovrebbero essere i soldi: ben 2.500 miliardi di dollari di nuovi ricavi derivanti dal business dei servizi e della mobilità, che è più di quanto vale oggi la vendita di 90 milioni di veicoli. Possibile, ma potrebbe anche esserci dell’altro. Tipo la volontà di non diventare dei semplici fornitori di hardware in un mondo di clienti che si spostano e comunicano. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 9 ottobre 2019

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IL NOLEGGIO AI PRIVATI È SBARCATO ANCHE NEI CENTRI COMMERCIALI Nuovi format. Il caso Authos a Torino.

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n modo nuovo di vendere e/o noleggiare macchine, nato a Torino dal genio italico di un imprenditore meridionale, che stiamo esportando in tutto il mondo. È questa la cifra socioeconomica dello Smart Lab, la creatura nata dalla mente di Francesco Di Ciommo due anni fa, quando ha raccolto la sfida della concessionaria Authos, che navigava in acque difficili. Il rilancio è stato fondato su alcune direttrici strategiche innovative. A cominciare dall’offerta del noleggio a lungo termine, che legge una trasformazione nei bisogni del cliente, sensibile più a un’offerta di mobilità complessiva che non al semplice acquisto dell’auto. Questa non è più vista come un oggetto di proprietà, ma come l’utilizzo di un servizio, con una media di tre anni. Certo, non per tutti i consumatori è così. Ma neppure per nessuno, ed è stata questa la scommessa vincente: dovendo resuscitare una concessionaria moribonda, ha preferito puntare sulla differenza, anziché inseguire l’omologazione. I fatti gli hanno dato ragione. Nel 2017 lo Smart Lab è diventato una realtà operativa, occupando un’isola nel centro commerciale “Le Gru” a Torino dove ha incontrato una media di 40.000 persone al giorno, da cui sono scaturiti oltre 1.000 contratti, in due anni. Questa è l’altra direttrice strategica: il tempo del cliente è una risorsa da rispettare. Così, lo Smart Lab sorge dove c’è il consumatore, anziché chiedergli di trovare il tempo per andare in salone. Ma per parlare di vera innovazione non basta un caso di successo. Un laboratorio che voglia essere rispettato deve proporre un’inno141


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vazione che sia replicabile in altri contesti. Elena Ford in persona (sì, proprio lei, la pronipote del fondatore – visto che si tratta di una concessionaria Ford) ha voluto accertarsi che questo successo non fosse figlio di qualche congiuntura favorevole. Dopo aver toccato con mano, in una visita a marzo di quest’anno, ha decretato che questa formula potesse e dovesse viaggiare. Detto fatto, sono nate iniziative simili prima a Bruxelles, nel centro commerciale Docks, e poi in Germania, nell’Europe Galerie di Saarbrucken, sempre sotto la supervisione di Di Ciommo, nel frattempo nominato Guru Retail del brand dell’ovale blu e celebrato anche da Forbes. Ora il modello è allo studio per essere adottato da Ford in Norvegia, mentre in Canada ha aperto a giugno a Quebec City. La prossima meta è la Cina, seguita da Brasile e Sud Africa. Gli italiani, quando ci si mettono … Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 29 ottobre 2019

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IL REBUS DELLA GESTIONE DEI FILE TENUTI IN ARCHIVIO Big data. Ad un anno dal varo, resta l’incertezza sull’applicazione del regolamento dell’Unione Europea in materia del trattamento dei dati personali e di privacy.

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a company car del manager di una qualsiasi azienda italiana è dotata di una scatola nera che registra i movimenti e altri dati che pone alcune domande. Per quanto tempo le informazioni devono essere conservate? Chi ha il diritto di conoscerle? Nel caso che vengano richiesti dalle autorità di pubblica sicurezza per un’indagine, bisogna comunicarlo al titolare dei dati? A un anno dall’operatività del GDPR (General Data Protection Regulation, il regolamento dell’Unione Europea in materia di trattamento dei dati personali e di privacy) il settore delle flotte inizia a confrontarsi con l’osservanza delle norme, alla luce del pronunciamento del Garante per la Protezione dei Dati Personali (privacy). Questi, col provvedimento n. 396 del 28 giugno 2018, nel mettere al centro gli aspetti relativi alla geolocalizzazione del veicolo, ha posto l’enfasi sul principio di proporzionalità, per cui la liceità del trattamento dei dati trova il suo limite nella realizzazione della finalità a cui il trattamento stesso tende: laddove il trattamento dei dati ecceda tale finalità diventa non più pertinente. Come si capisce, diventano essenziali alcune valutazioni di merito, a cui sono chiamati gli operatori della telematica, che ne avvertono il disagio. Una norma stringente, puntuale, sarebbe di gran lunga più confortevole, nella misura in cui porrebbe appunto dei confini precisi tra cosa fare e cosa non fare e, soprattutto, uguali per tutti. Per questo gli operatori della telematica associati ad Aniasa (l’associazione dei noleggiatori) hanno lavorato negli 143


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ultimi mesi per delineare alcune fattispecie concrete che, a loro avviso, avrebbero bisogno di un’indicazione circoscritta da parte del Garante. Lo scopo è non ritrovarsi sul mercato a offrire dei servizi che recepiscano i vincoli del GDPR in modo variabile, a seconda delle diverse sensibilità dei legali che stanno dietro ai vari operatori. Ovviamente, alcuni si sentono penalizzati da interpretazioni eccessivamente restrittive, laddove altri magari potranno rischiare di essere giudicati troppo permissivi. È ciò che accade quando nel business si usa il common sense, un attributo che sempre più di frequente viene evitato. Entrando nel merito, i punti in questione sono i seguenti. Innanzitutto, il periodo di conservazione dei dati. Oggi ogni soggetto operatore si muove in autonomia, creando una varietà di offerte sul medesimo servizio. Seguendo il principio di proporzionalità, il tempo dovrebbe essere tale da consentire di perseguire la finalità del servizio. Il punto è che i dati sono molteplici e servono a tanti scopi, dalla ricostruzione della dinamica di un sinistro alle violazioni del Codice della Strada. Di conseguenza, gli operatori dovrebbero configurarli e gestirli in maniera segmentata, con evidenti complicazioni e aggravi di costo. Oppure ignorare simili sottigliezze e rischiare, assumendo che una finalità agisca da salvacondotto per tutti i dati. Faccenda più che opinabile. L’altra fattispecie, come anticipato, è legata a quei casi in cui i dati relativi ai movimenti di un driver siano osservati dall’autorità di pubblica sicurezza, nel corso di un’indagine. La normativa impone agli operatori di informare il titolare dei dati, ossia il soggetto osservato, della richiesta di acquisizione dei dati. La preoccupazione degli operatori è che, rispettando la lettera del GDPR, possano compromettere l’attività investigativa. Una possibilità di mettere tutti d’accordo potrebbe essere l’indicazione da parte del Garante di impostare le scatole nere sulla 144


posizione “privacy-by-default”. Impostazione che verrebbe automaticamente annullata in caso di crash e/o di SOS. Un ulteriore terreno di incertezza è quello dell’intervallo di raccolta dei dati di geolocalizzazione. Oggi gli operatori possono impostare sia la frequenza di generazione del dato (un secondo o frazioni) sia la modalità di pubblicazione (secondi o minuti). Anche qui, il principio di proporzionalità impone che tali intervalli siano dimensionati in funzione delle finalità: infatti, ognuno si regola in modo diverso. Ultimo, ma non ultimo, l’opportunità di considerare estranei al perimetro della Privacy i dati relativi alla diagnostica del veicolo. Insomma, una materia nuova e sfaccettata, su cui gli operatori delle flotte e della telematica avranno modo di confrontarsi il prossimo 23 novembre a Roma, in un tavolo organizzato appositamente per loro dal Centro Studi Fleet&Mobility. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 29 ottobre 2019

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AUTO EUROPEA PIÙ FORTE O PIÙ DEBOLE?

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’industria automobilistica europea, a metà del prossimo decennio, dovrebbe essere in buona salute, secondo gli addetti ai lavori che hanno risposto al sondaggio condotto dal Centro Studi Fleet&Mobility alla Capitale Automobile. Forte più o meno come oggi per il 47% del campione, se non di più per il 24%. Ma perché questa domanda? E perché il 29% prevede che sarà più debole? Perché importanti studi di consulenza, accreditati a livello mondiale, hanno lanciato allarmi sulle strategie che i costruttori europei stanno perseguendo: in arrivo una “tempesta perfetta” che porterebbe a un “deserto dei profitti”. Immagini roboanti che nel gergo della competizione industriale disegnano un quadro chiaro: senza profitti i titoli di questi gruppi diventano facile preda di altri cacciatori, specialmente orientali: Cina in testa, ma anche Corea e Giappone. Fanta-finanza? Già oggi sono cinesi i proprietari di Volvo e i principali azionisti di Daimler e PSA, mentre Nissan alza la voce con Renault. Non si parla di macchine, ma di 3,5 milioni di addetti in Europa, l’11% di tutto il manifatturiero, che fabbricano le migliori auto del mondo, che infatti tutto il mondo acquista. L’Europa esporta auto per 138 miliardi di euro, di cui il 36% prende la via dell’oriente e il 32% quella del nord America. Certo, restituiamo il favore importando a nostra volta, ma per appena 54 miliardi. No, non si tratta di macchine e tantomeno di CO2 e polveri sottili, ma di posti di lavoro e bilancia commerciale: un surplus di 84 miliardi di euro, precisamente. Perciò Ernesto Auci, decano del giornalismo economico, si chiede “perché l’Europa abbia scelto di uccidere la propria industria automobilistica che aveva un primato nel diesel”. Scelte politiche scellerate che inseguono opinioni pubbliche ben orchestrate. A Bruxelles, pretendono di risolvere il riscaldamento 146


globale da soli impedendo la vendita di qualche milione di macchine, di fatto rallentando il ricambio. Nelle capitali, si illudono di pulire l’aria vietando i diesel, anche recenti, invece di lavare le strade e di cambiare le caldaie. Ma perché l’industria non reagisce? Forse proprio perché in cento anni non l’ha mai dovuto fare, di rispondere al fuoco amico. Solo che ora la politica sta da una parte e i clienti, con i soldi, dall’altra: dilemma. Articolo pubblicato su il Giornale, il 30 ottobre 2019

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AUTO AZIENDALI: 300MILA VETTURE IN MENO ALL’ANNO TASSANDO IL DIPENDENTE È un impatto pesante quello del provvedimento previsto in manovra che ipotizza di estendere la tassa, oggi limitata all’uso promiscuo delle auto aziendali, all’intero valore.

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osa accadrebbe nel panorama automobilistico italiano se dovesse passare la norma che tassa i dipendenti, che hanno in assegnazione una company car, per l’intero valore, e non solo per la quota di uso privato, com’è oggi? L’effetto più probabile e più diffuso sarebbe che ogni dipendente restituirebbe la macchina all’azienda, con tanti ringraziamenti. Di che numeri stiamo parlando e che impatto avrebbe sul settore? Gran parte delle aziende medie e grandi prendono le auto in noleggio a lungo termine. In Italia a fine anno saranno poco meno di 800mila, secondo le stime più aggiornate del Centro Studi Fleet&Mobility. Dati sulle auto non in noleggio non sono così aggiornati, ma possiamo agevolmente ipotizzare che il loro numero superi il milione. In pratica, si tratterebbe di circa 2 milioni di assegnatari di company car, complessivamente. Questi soggetti hanno un ciclo di sostituzione dell’auto intorno ai 42 mesi (tra 3 e 4 anni). Significa una capacità di immatricolazione poco sotto le 600.000 unità all’anno, che è in linea con le segmentazioni del mercato. Se queste macchine passassero nella proprietà dei dipendenti come privati cittadini, il loro turnover aumenterebbe a 7 anni, facendo scendere le relative immatricolazioni sotto le 300.000 unità. Si tratta di un crollo del mercato auto di quasi il 16%. A questi numeri vanno aggiunte le minori dotazioni delle flotte dei noleggiatori a breve termine, il rent-a-car, poiché l’11% della loro attività è assorbita dal noleggio a lungo termine, per 148


attività di replacement. Questo scenario sarebbe critico dal punto di vista economico, per i costruttori ma anche e soprattutto per la distribuzione, che solo recentemente ha ripreso a fare utili in maniera diffusa, dopo gli anni di perdite a metà decennio, che causarono la chiusura di 800 concessionarie con una perdita di circa 50.000 posti di lavoro, quasi il 30% degli addetti. Ma non solo. Le emissioni inquinanti (NOx) e clima-alteranti (CO2) delle auto nuove sono infinitamente inferiori a quelle più obsolete e il noleggio è in assoluto il sistema più efficace per garantire che chi si sposta per lavoro e fa tanti chilometri abbia sempre motori di ultima generazione. Da un’analisi del Centro Studi Fleet&Mobility per Aniasa, emerge che la flotta a noleggio si posiziona su valori di emissioni inferiori del 60/70% rispetto alla media del parco circolante. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 31 ottobre 2019

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AUTO AZIENDALI, TASSARE IL BENEFIT OLTRE IL 30% SIGNIFICA PENALIZZARE IL DIPENDENTE SU UNO STRUMENTO DI LAVORO Per l’associazione dei noleggiatori Aniasa, si tratterebbe di “una misura assurda, in quanto si tassa non solo l’uso privato dell’auto (come già è) ma quello lavorativo”.

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assare le auto aziendali oltre il 30% significa tassare uno strumento di lavoro al pari di una scrivania o di un computer da ufficio. Infatti, il 70% del valore dell’auto, che oggi non viene tassato, è relativo all’uso per lavoro, come andare a visitare clienti o spostarsi da una sede all’altra dell’impresa. Il 30% invece si riferisce alla parte di macchina che il dipendente non usa per lavoro, ma per i suoi scopi privati, tipo il sabato e domenica o quando sta in ferie. In queste occasioni, potendo godere dell’auto aziendale, riceve un benefit che costituisce retribuzione in natura e dunque va assoggettata a tassazione, come oggi accade. Diversamente, quando un dipendente si muove in auto per lavoro sta usando uno strumento dell’impresa, finalizzato al perseguimento dell’oggetto sociale, alla pari di un furgone, un computer o un biglietto aereo. Pensare di far pagare le tasse al dipendente su quel 70% è come fargliele pagare perché gode di una scrivania o di un viaggio in treno, niente di più e niente di meno. Anche secondo l’Aniasa, l’associazione dei noleggiatori, si tratta di “una misura assurda proprio da un punto di vista concettuale, in quanto si tassa non solo l’uso privato dell’auto (come già è) ma quello lavorativo”. Se dovese passare, l’effetto sarebbe devastante, secondo l’Aniasa: “Così si uccide il settore e si penalizzano i lavoratori. Questa misura affossa definitivamente il mercato dell’auto e colpisce in busta paga 150


oltre 2 milioni di lavoratori. Produci fatturato per l’azienda? Sostieni la produzione e il benessere aziendale? Tassato!”. Anche Michele Crisci, presidente di Unrae, associazione dei costruttori, argomenta sul punto: “Con questa norma le auto aziendali diminuirebbero del 70/80%, perché nessun dipendente sarebbe disposto a farsi tassare per lavorare e opterebbe per usare la propria auto, addebitando i chilometri all’azienda”. Questa eventualità porterebbe a una conseguenza nefasta: rallenterebbe il ciclo di sostituzione delle auto, che le aziende cambiano ogni 3 anni mentre i privati ogni 7. Ciò significherebbe avere sulle strade auto più vecchie, che sono meno sicure e più inquinanti, oltre a mettere in ginocchio il sistema produttivo e distributivo, già non in ottima salute. Vogliamo rifiutare l’idea che il provvedimento allo studio voglia penalizzare il dipendente che lavora in macchina, che già è esposto a rischi e a intemperie. Molto probabilmente, si tratta solo di approfondire e conoscere meglio la materia. Anzi sarebbe meglio conoscerla completamente e prima di formulare ipotesi normative. Su questo puntano il dito le associazioni. Aniasa: “Il Governo che a parole con il Tavolo sull’Auto dichiara di voler supportare la filiera delle quattro ruote, ne sta determinando il collasso”. Rincara la dose Crisci: “Non ha senso formare dei tavoli con il Governo se poi non siamo nemmeno consultati quando ipotizzano provvedimenti simili”. Adesso però tutti sono informati su tutto. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 31 ottobre 2019

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FCA-PSA, ECONOMIE DI SCALA E USA I PILASTRI. COLLETTI BLU AL SICURO, PER ORA La fusione FCA/PSA è il miglior approdo per entrambi i gruppi, in un’ottica di lungo e di breve termine.

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a dimensione di circa 9 milioni di veicoli prodotti all’anno dà la scala adeguata a reggere gli investimenti, soprattutto sull’automazione e sulla connettività.

Oltre a questo, l’altro pilastro forte del merge è quello geografico. PSA è molto ben posizionata in Europa, con oltre il 16% di quota. In Sud America FCA, con Fiat e Jeep, è decisamente messa bene, ma anche PSA non scherza. La Cina è un altro discorso, lì il lavoro è tutto da fare, ma probabilmente hanno più chance i brand di lusso, Jeep, Maserati e Alfa Romeo, che non quelli generalisti, che devono vedersela con i marchi locali, i quali già adesso coprono metà della domanda. Nell’azionariato di PSA c’è la cinese Dongfeng, che rimane ma tenendosi le mani libere. Da qui la vediamo come sponda per il mercato cinese, ma da lì è probabile che vedano la cosa all’opposto, come una sponda europea per le produzioni cinesi, che magari potrebbe anche essere una carta in più, nel segmento low cost. Quelle vetture presto o tardi sbarcheranno a Trieste e allora sarà meglio averle in casa che fuori la porta a bussare alle concessionarie. Poi c’è il Nord America, il vero asset di FCA e capolavoro del compianto Marchionne. Invece nell’immediato, l’incastro combacia bene su due piani. Quello industriale e dei prodotti e quello finanziario. Sul primo, FCA ha una capacità produttiva di primissima qualità ma sottoutilizzata. Il che, se nel lungo termine una questione oggettivamente la pone, nel breve non dispiace ai francesi che su alcune produzioni vorrebbero essere più fluidi e veloci. Sarà per questo che il comuni152


cato congiunto sottolinea, in più di un passaggio, che non ci sono all’orizzonte chiusure di impianti in Italia. Sui prodotti, non è un mistero che i due futuri partner stanno vivendo gli effetti di due strategie opposte perseguite negli anni scorsi. PSA ha puntato al rinnovo della gamma, che oggi è in grande spolvero e le cui piattaforme tornano utili a FCA per accelerare l’approdo sul mercato di nuovi modelli, che servono come il pane. Di contro, il gruppo italo-americano ha fatto ogni sforzo per azzerare il debito e ampliare la sua capacità finanziaria, anche in vista di un matrimonio. Che è appunto il secondo piano di incastro: il polmone di liquidità, essenziale per affrontare gli investimenti necessari ad aprire nuovi mercati e finanziare l’innovazione di prodotto. Oltre a questi vantaggi nello sviluppo e nel time-to-market, il matrimonio porta con sé importanti sinergie, individuate nell’area dell’innovazione e degli acquisti: di nuovo, non sembrano in discussione i colletti blu. Si prevedono efficienze del valore di 3,7 miliardi di euro all’anno, da raggiungere verso la metà del prossimo decennio, con un costo one-time di queste sinergie stimato in 2,8 miliardi. Però, nel prossimo futuro di FCA e di PSA, come degli altri costruttori, ci sono le multe che l’UE dovrebbe infliggere per lo sforamento dei limiti alle emissioni di CO2. I due gruppi sono su livelli piuttosto simili e anche piuttosto alti: secondo una recente analisi di Alix Partners, società di consulenza del settore, potrebbero scattare sanzioni tra 0,5 e 0,7 miliardi di euro per ciascuno dei due gruppi, anche se per FCA ci sono da mettere in conto le quote acquistate da Tesla. Tanti soldi, ma sempre pochi rispetto a quanto stanno investendo gli altri, senza alcuna garanzia di ritorno. Qualcuno dirà, ed è vero, che PSA è più avanti nell’offerta di modelli elettrificati. Ma si tratta appunto di offerta, laddove le multe si misurano sulla domanda, ossia sulle auto acquistate dai clienti, che al momento non ne vogliono tanto sapere. Ad ogni modo, la faccenda è discutibile da molti punti di vista e resta da vedere se veramente la Commissio153


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ne vorrà penalizzare, sull’altare dell’opinione pubblica, un’industria che occupa 3,5 milioni di addetti. In questa partita, che è tutta politica, essere il secondo gruppo europeo e rappresentare due Paesi chiave, Francia e Italia, qualche vantaggio potrebbe portarlo. Detto degli orizzonti positivi e dei vantaggi, guardiamo alla preoccupazione che sempre accompagna queste operazioni: i livelli occupazionali. Nell’immediato non ci dovrebbero essere contraccolpi, sia per gli impegni dichiarati e sia perché qualche linea di produzione potrebbe addirittura tornare utile. Però nel lungo termine nessuno può dire, con apprezzabile sicurezza, quanti stabilimenti italiani potranno ancora girare. Ma la questione deve essere ben posta. Così com’è oggi, FCA non avrebbe possibilità di competere da sola. Solo unendosi a un altro gruppo mondiale può avere buone chance di proseguire con i suoi brand e i suoi impianti. PSA è di gran lunga il miglior partner, perché condivide la stessa cultura europea di attenzione alle ricadute sociali e la presenza forte di una famiglia nell’azionariato. Chi ha a cuore le sorti dei lavoratori, deve sapere che senza una fusione come questa si potrebbe rischiare tra qualche anno un take-over, quasi certamente orientale, oppure uno spezzatino. Detto questo, a una tale preoccupazione le istituzioni possono e devono dare una risposta. Che non è quella di prestare soccorso, nelle forme più fantasiose, bensì di rendere le produzioni in suolo italico competitive. Finora, bisogna ammettere che FCA ha fatto la sua parte, rilanciando un sito, Pomigliano, dichiarato da molti irrecuperabile e trasformandolo in un esempio di world class manufacturing, studiato e ammirato dagli altri costruttori, e replicando poi a Melfi e Cassino. Certo, se poi quel lavoro continua a essere gravato da un prelievo fiscale eccessivo, diventa tutto più difficile. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, l’8 novembre 2019 154


EICMA E QUELL’INTUIZIONE VINCENTE DI PUNTARE SULLA MOBILITÀ Con Eicma 2019 Milano ha battuto un colpo. Un altro, tanto che ormai non fa quasi più notizia. La 77esima esposizione internazionale del ciclo e motociclo ha ospitato 1800 brand da 40 Paesi. Non è tutto il mondo, ma ci manca poco. Passeggiando tra gli 8 padiglioni si incrociavano visitatori di ogni nazionalità. Se poi vogliamo ricordare che all’inizio di questo decennio questa iniziativa navigava a vista, il risultato odierno è ancor più rimarchevole. Allora, nel 2010, il settore era ancora tramortito dal crollo delle vendite seguito alla crisi del 2008/9. Non era facile vedere che il settore delle due ruote, a dispetto dei numeri, stava per iniziare a raccontare una storia interessantissima, su quel proscenio che oggi tutti calcano: la mobilità urbana. Per la fortuna di Eicma e di Milano, la persona giusta al posto giusto decise che sì, Ancma (l’associazione di Confindustria proprietaria del salone) poteva scommettere su questo appuntamento e rilanciarlo. Oggi è banale notare come buona parte delle esposizioni sia dedicata a biciclette, monopattini, quad e altri oggetti di varia mobilità, che hanno in comune una cosa sola: l’agilità per spostarsi su distanze brevi in ambienti molto affollati o comunque difficili. Averlo immaginato dieci anni fa è la differenza che passa, quando si guardano moto e scooter, tra vedere i prodotti e vedere i clienti che li usano e l’ambiente in cui si muovono: si chiama marketing. Scendendo nell’agone commerciale, va detto che tutte le novità che il salone ha proposto sono indirizzate a una domanda in crescita, come ci spiega Valerio Papale di Agos, la finanziaria leader nel settore due ruote che dunque ha il polso del cliente. “Guardando al perimetro dei finanziamenti Assofin, nel primo semestre dell’anno le operazioni di finanziamento di moto e scooter sono stati 44.279, segnando una crescita del 6,5%, in linea con il 6,4% segna155


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to dalle immatricolazioni, con un importo medio in crescita a 4.800 euro. Il finanziamento è strategico per sostenere la vendita dei brand con cui collaboriamo e noi siamo all’Eicma perché è un ottimo punto di osservazione, per comprendere come progettare la nostra offerta per andare incontro alle esigenze dei nostri partner e dei clienti, che è l’orientamento del nostro azionista Credit Agricole”. Articolo pubblicato su il Giornale, il 13 novembre 2019

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VENDITE AUTO NELL’ERA DEGLI HUB Il mercato. Il processo di concentrazione delle concessionarie ha aumentato la redditività ma anche le rimanenze e i debiti. L’ipotesi della trasformazione in grossisti per soggetti più piccoli.

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a concessionaria media italiana ha prodotto lo scorso anno un fatturato di 38,6 milioni di euro, cifra mai vista prima e superiore dell’80% alla media del periodo 2004/2013, incluso il 2007, quel famoso “livello pre-crisi” che qualcuno ricorda nelle serate invernali davanti al camino (e pure in quelle estive) come l’età dell’oro. Secondo l’Osservatorio Bilanci Dekra di oro, a vendere macchine, non ce n’è mai stato tanto come adesso, come fatturato e ancor più come redditività (EBT), da pochi anni stabilmente intorno a 1,3%: non alta, certo, ma da valutare nel suo contesto. Dove c’è oro, c’è una corsa all’oro. Le Case automobilistiche, che governano le concessionarie, hanno subito trovato il modo di impiegare la ricchezza prodotta, gonfiandole di stock di prodotto. Tra il 2014 e il 2018 le rimanenze e i debiti verso fornitori sono più che raddoppiati, arrivando a 9,2 e 7,6 milioni, rispettivamente. Nello stesso periodo, anche i debiti verso le banche sono aumentati di oltre il 50%, a 2,4 milioni. Questo stock è molto più conosciuto col suo nome commerciale: km0. Secondo il Market Report di Agos sulle auto usate (che tali sono le km0) nel periodo in questione sono raddoppiate arrivando a oltre 200.000 unità e sfiorando l’11% rispetto alle vendite di auto nuove. Ora, in un’economia di mercato, uno con i suoi soldi ci fa ciò che vuole, anche le km0. Meglio analizzare come ha fatto questo settore ad aumentare così tanto, in pochi anni, la sua capacità di creare ricchezza. Una 157


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parola: concentrazione. I 3.450 dealer del 2004 sono diventati 1.428 nel 2018: nel giro di 14 anni quasi sei concessionarie su dieci non ci sono più. Chi pensasse che ora il sistema è in equilibrio, che si può riprendere a lavorare secondo gli schemi soliti, rischierebbe di essere tra i prossimi a uscire di scena. La trasformazione non ha solo espulso i più deboli. Ha pure consentito ai più forti di crescere ancora. Nel 2014 le concessionarie sopra 100 milioni di fatturato erano 26 (1,5% del totale) con un giro d’affari medio di 142 milioni e una ricchezza totale prodotta pari a 13 milioni. Lo scorso anno erano 77 (il 5,4%) con fatturato medio a 175 milioni e ricchezza totale pari a 156 milioni. C’è in Italia un processo di formazione di grandi gruppi della distribuzione automobilistica, che potremmo definire mega-dealer. Sono aziende moderne, gestite da manager professionisti, che dialogano alla pari con le Case mandanti, a livello nazionale come a livello europeo. Hanno capacità finanziarie e le competenze per governarle e impiegarle, servendo le loro finalità e pure quelle delle Case, se e quando coincidono. Poi hanno una forza di attrazione dei clienti che sovente eccede quella delle altre concessionarie della rete. Insomma, si materializzano dentro il network distributivo come un corpo diverso, mai visto prima. Un’ipotesi non remota è che a queste imprese venga chiesto di operare non solo come rivenditori diretti ma anche come grossisti, intermediari verso alcuni concessionari minori. Una sorta di dealer hub, con la funzione di tenere in armonia sul territorio l’offerta e la presenza di una piccola rete di operatori, che singolarmente farebbero fatica. È probabile che nei prossimi anni assisteremo a un rimodellamento della struttura distributiva, anche in coincidenza con la diffusione delle relazioni digitali col cliente, che affiancheranno sempre più il contatto fisico nel punto vendita. Cose che già oggi sono realtà nella grande concessionaria Mercedes a L’Aia o nel format Smart Lab di Ford, partito da Torino e già replicato in tutti i continenti. 158


I driver di queste evoluzioni sono da un lato il cliente, con le sue nuove abitudini, e dall’altro la necessità delle Case di ridurre il peso economico della distribuzione, per far fronte agli ingenti investimenti che stanno sostenendo. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 26 novembre 2019

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STRISCIONI, DIESEL E MULTE

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a giostra è cominciata. A novembre e dicembre i consumatori toccheranno con mano che significa imporre per legge di guidare un’auto a emissioni di CO2 contenute. Senza troppi distinguo, chi ha ordinato una vettura con emissioni contenute si prepari a vedersela consegnare nel nuovo anno, mentre per le altre si farà di tutto per anticiparne l’immatricolazione. Anzi, per dirla tutta, tante auto ad emissioni non particolarmente basse saranno targate entro l’anno a prescindere e saranno oggetto di buoni affari per i clienti. Meglio fare un forte sconto che doverle poi trovare nel computo totale delle emissioni del 2020 e pagare le multe. Sì, le multe che la Commissione Europea comminerà sulla base delle emissioni medie delle auto vendute da ciascun gruppo automobilistico. Ora, il ruolo dei governi è proprio questo: orientare i mercati attraverso le regole. In molti casi, le regole agevolano o ostacolano i consumi di determinati beni e servizi. Si pensi ai prodotti di prima necessità ovvero alle armi da fuoco. Nell’auto, tutta la storia europea dagli anni ‘70 ha registrato ad esempio un’agevolazione verso i motori diesel, perché più efficienti e dunque con meno emissioni di CO2, che è un clima-alterante e non un inquinante. Tanto che questa tecnologia è diventata un’eccellenza del vecchio mondo. Poi purtroppo recentemente si sono fatti infinocchiare da un movimento americano, che mal tollera il deficit commerciale nell’auto e ha deciso di colpire proprio il gioiello della corona. Tutto lecito. Peccato che la corona non abbia reagito e abbia chinato il capo. L’ha fatto a Bruxelles, e ci può stare visto il livello della politica, sensibile più a Greta che ai fatti scientifici. Quello che non torna è che l’abbiano chinato pure i costruttori, invece di urlare forte che no, questo propulsore non si tocca perché le sue emissioni inquinanti (polveri sottili e NOx) sono ormai irrilevanti, come ha mostrato alla Capitale Automobile un video di Bosch 160


sui test in stato di guida normale (RDE). Tanto che qualcuno ha suggerito di esporre fuori a ogni concessionaria un grande striscione sulla sostenibilità ambientale del diesel. Una boutade? Certo, ma potrebbe accadere, proprio a causa delle multe, visto che il diesel emette meno CO2 del benzina: la crudele ironia della vita. Articolo pubblicato su il Giornale, il 27 novembre 2019

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L’ELETTRICO È IL FUTURO. INTANTO PERÒ TOGLIAMO LE AUTO VECCHIE DALLE STRADE Togliere dalle strade una sola auto vecchia equivale ad azzerare le emissioni di ben diciannove auto Euro 6.

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el 2030, un’auto su tre in Italia sarebbe elettrica, mossa solo da batterie, secondo le previsioni di uno studio congiunto di Automobile Club d’Italia, Enea e CNR. Per molti, questa sarebbe una notizia. Invece per Angelo Sticchi Damiani, presidente dell’ACI, la notizia è un’altra: quell’82% di vetture che ancora gireranno mosse da un motore termico, magari unite a quel 10% di ibride, che avranno principalmente un propulsore a combustione interna, insieme a uno elettrico. Tener conto di questa presenza di motori termici assegna dei compiti precisi. All’industria, quello di continuare a sviluppare le tecnologie, senza il timore di apparire “fuori moda”. Tutte le tecnologie, dal diesel al biometano, dall’ibrido al benzina, fino all’elettrico, su cui siamo ancora abbastanza indietro. Secondo Sticchi Damiani, “grazie all’evoluzione costante delle tecnologie, alla naturale crescita dell’elettrificazione e alle spontanee scelte del mercato è possibile raggiungere, progressivamente e senza forzature, una nuova mobilità sostenibile che salvaguardi il diritto universale alla mobilità e garantisca un significativo miglioramento della qualità dell’aria e la tenuta del forte settore automobilistico italiano”. Alla politica, quello di non ignorare che la sostenibilità della mobilità passa soprattutto per lo svecchiamento del parco, che va aiutato senza ideologie. “Quando qualche sindaco, preso dall’entusiasmo, vieta l’ingresso alle vetture Euro 4 sbaglia – aggiunge Sticchi Damiani – perché un’Euro 4 inquina il 50% in meno di un’Euro 3”. 162


Un terzo delle auto sulle nostre strade, 13,7 milioni, è ante Euro 4, ossia con un’anzianità da 13 a oltre venti anni, con tutto ciò che significa in termini di misure di sicurezza attive e passive, oltre che di sostenibilità ambientale. Un’auto di oggi emette sostanze inquinanti venti volte inferiori a quelle del secolo scorso. Detto diversamente, togliere dalle strade una sola auto vecchia equivale a azzerare le emissioni di ben diciannove auto Euro 6. Proprio qui sta il punto: che non vengono tolte dalla circolazione. Le Euro 2 e 3, che hanno anche un mercato all’estero, vengono radiate in ragione di meno del 10% all’anno: significa che per eliminarle impiegheremo dieci anni. Le Euro 1 hanno una velocità di uscita che è la metà: ci vorranno vent’anni per farle fuori. Per le Euro 0, antecedenti al 1992, neppure vale la pena fare il calcolo, visto che sono inamovibili, anche perché vengono premiate dallo Stato col dimezzamento e poi azzeramento del bollo, con la scusa che sarebbero storiche. Ai media, quello di scendere con i piedi per terra, lì dove stanno le ruote gommate su cui si muovono i cittadini. Eventualmente chiedendosi quanto sia probabile (ma credibile è più appropriato) che in undici anni 3,3 milioni di auto elettriche vengano immatricolate nel Bel Paese. Si tratta di 300mila all’anno, a cominciare dal prossimo. Ora, se partiamo dal dato vero di mercato, che parla di 6.000 targhe nel 2019, pare quanto meno ottimista prevedere di moltiplicare per cinquanta. È vero che una media è una media, ma è altrettanto vero che se le 300mila non le vendi l’anno prossimo poi quello dopo te ne toccano 600mila, e così via. Forse è il tempo di accettare il fatto che togliere dalle strade le auto inquinanti è molto più green che metterne poche migliaia di elettriche. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 28 novembre 2019

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO L’automobile del tutto elettrica che invade le flotte aziendali: quando questo scenario di vanterà realtà? Mai. Per i clienti non soddisfa alcun bisogno e non ci saranno le infrastrutture. Qualche punto di quota di mercato verrà conquistato dall’elettrico, ma non nelle flotte. E quindi la tendenza qual è nel business? Diesel soprattutto, con un po’ di ibrido per chi non fa tanti chilometri e deve muoversi in ambiti cittadini. Nei prossimi anni, quale tecnologia prenderà invece piede fra i veicoli aziendali? La connettività. È l’unica cosa praticabile e desiderata dai clienti. Ma bisogna risolvere aspetti normativi e inibire l’utilizzo visivo e tattile dello schermo, per evitare pericolose distrazioni. Invece, l’automobile a guida autonoma non si diffonderà mai, né nel business né altrove. Ci saranno certo sistemi di assistenza alla guida sempre più sofisticati, ma senza pilota mai. Tranne forse in ambienti chiusi e comunque vietati alla circolazione umana, tipo in aeroporto. Intervista pubblicata su Al Volate, a dicembre 2019

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ZTL E CAR SHARING? PIACCIONO SOLO AGLI SNOB

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opo la pioggia tornerà il problema dell’inquinamento in città. Certo, potrebbero lavare le strade, ma sarebbe troppo disturbo. Più facile vellicare le coscienze dei nobili di spirito, che come tali sono sempre inclini alla contrizione e alla mortificazione, inducendoli a condannare la circolazione delle auto. Tanto più che non riguarda loro direttamente, i puri che portano il peso del pianeta, ma quei malcapitati, non nobili, che sono costretti a girare in macchina per andare a lavorare e produrre quella ricchezza che poi viene distribuita, anche ai nobili. Qualcuno potrebbe obiettare che sia una rappresentazione sbagliata, che in realtà siano in tanti a voler bandire le macchine. Che sono colpevoli a prescindere, oggi per l’inquinamento, ma già ieri perché emblema di uno status sociale non abbastanza miserabile né sofferente e comunque incline a sollevarsi, col lavoro e con la voglia di ostentarlo pure, dove la rappresentazione è ancor meno perdonabile della sostanza. Bene, questi dovrebbero riflettere sui risultati di un sondaggio Ipsos presentato alla Capitale Automobile. Alla domanda se e quanto sarebbero favorevoli a lasciar entrare nelle ZTL (zone a traffico limitato, il centro-città) solo veicoli elettrici o ibridi, quelli contrari sono di gran lunga più numerosi dei favorevoli, specialmente quando si tratta di veicoli privati. Se però si parla di mezzi pubblici, allora i favorevoli superano i contrari, seppur di pochissimo. Come a dire, visto che ci tieni tanto all’ambiente, smetti di inquinare facendo girare degli autobus vecchi di oltre 12 anni, quando l’età media europea è di 7. Ma è nei dettagli, dove notoriamente si annida il demonio, che si scopre il dato forse più significativo: i più favorevoli alla limitazione sono quelli di età compresa tra 50 e 64 anni e quelli laureati. Perché 166


questi gruppi siano più orientati a limitare l’accesso ai soli veicoli elettrici o ibridi il sondaggio non lo dice. È lecito ipotizzare che siano persone che più delle altre vivano in centro e abbiano uno stile di vita meno affannato e più confortevole? Forse. L’altra domanda, conseguente a quella sul divieto, era se e quanto sarebbero disponibili, le persone intervistate, a sostituire l’auto privata con i mezzi pubblici o con il car sharing. Qui il no, nein, niet, è ancor più diffuso, al 40% verso i mezzi pubblici e, udite udite, sopra il 60% verso il car sharing. Il responso lascia poco spazio alle interpretazioni. Le persone vogliono muoversi con tutta la libertà garantita dal proprio veicolo. Dove tenere l’ombrello se dovesse piovere, la sacca per lo sport e le buste per il supermercato. Certo, ci sono quelli favorevoli. Sempre loro, i laureati o diplomati e quelli di età compresa tra 50 e 64 anni. Insomma, la pancia produttiva del Paese, quelli che lavorano e si sbattono, tra i 30 e i 50 anni, portando avanti una famiglia giovane, con figli in età di accompagno, sono disponibili a fare tutto, ma almeno lasciategli un mezzo per muoversi. Però le città sono inquinate e congestionate. Giusto. Allora sarà il caso che chi le gestisce le doti di strutture per fluidificare il traffico, cominciando dai parcheggi per togliere le auto dalle strade. Che andrebbero lavate, ogni tanto. Articolo pubblicato su il Giornale, l’8 dicembre 2019

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DEALER, PROFESSIONE CHE EVOLVE

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he mestiere sarà quello del concessionario auto, nei prossimi anni? Un mestiere di cambiamento. Riconvertire l’attività sarà in assoluto l’impegno più sfidante per questi imprenditori. Entrano nel prossimo decennio vendendo macchine. Non ne usciranno vendendo macchine. Un sondaggio tra addetti ai lavori, condotto recentemente alla Capitale Automobile, ha indicato quale sarà la funzione principale dell’autosalone nel 2025. Per il 37%, far vedere e provare i prodotti. Secondo un terzo dei rispondenti, la funzione principale sarà la vendita di servizi, dall’assistenza alla ricarica delle batterie, dal car sharing al renta-car. Il 22% ha invece indicato come prioritaria la funzione di aiutare il cliente a scegliere il prodotto più adatto alle sue esigenze. Niente di nuovo, si dirà. Tutte cose che fanno da anni. Vero, ma erano sempre stati impegni ancillari o funzionali alla vera missione: vendere macchine. Adesso meno di un rispondente su dieci indica come principale la firma di contratti di vendita o di noleggio a lungo termine di macchine. La causa del cambiamento è facilmente intuibile. Il processo di acquisto o noleggio si sviluppa sempre più come un’intermittenza tra online e offline. In questa ubiquità, le cose che hanno una natura fisica continueranno a occupare lo spazio offline. C’è bisogno di un posto per provare un’auto, per vederla, per fare un controllo, per prenderla per un giorno o poche ore. Quel posto sarà il salone, o anche il salone, se si vuole. Poi ci sono le cose che sul digitale vanno anche meglio. A cominciare dall’analisi dell’auto, delle sue dotazioni e caratteristiche, per finire al confronto tra le varie soluzioni economiche. Che ormai prescindono da prezzo della vettura e si materializzano in una rata o canone mensile, in una durata, in servizi inclusi/esclusi e nelle condizioni di accesso agli stessi. Pacchetti più o meno chiusi o leg170


germente modificabili, ma difficilmente trattabili nel quantum. Ecco allora che quella necessità di incontrare una persona per negoziare tende a scomparire. Capito. Ma dove starebbe quel grande cambiamento? Nel fatto che l’organizzazione dovrà diventare capace di generare ricavi e margini dai servizi più che dalla vendita. Non è complicato, basta togliere l’auto dal centro e metterci il cliente. Roba da poco. Articolo pubblicato su il Giornale, l’11 dicembre 2019

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AUTO AZIENDALI, IL FALSO MITO GREEN DEL PARCO IBRIDO ED ELETTRICO Un’auto diesel emette allo scarico 28 volte meno polveri sottili di una vettura degli anni ‘90.

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el primo semestre i noleggiatori a lungo termine hanno ridotto gli acquisti di auto diesel dal 75 al 66%, spostandosi sul benzina, passato dal 17 al 25%. Una decisione più emotiva che razionale, visto che le imprese hanno preso da tempo come riferimento il controllo delle emissioni di CO2 (un gas serra e non un inquinante) e che il motore diesel ne produce meno di quello a benzina. Le macchine elettrificate, o ibride, erano e sono al 5%, stabili, poiché finora i fleet manager sono stati prudenti, frenati dalla confusione sulle diverse tecnologie di ibrido. A una propulsione termica di base, tutte affiancano un motore elettrico, ma con una diversa autonomia. Ora, mentre tutte assolvono più o meno al problema di accedere al centro delle città, quelle con un range limitato poi ricorrono troppo al motore termico e i consumi schizzano. I costruttori però stanno presentando molti modelli ibridi plug-in, che associano un’autonomia più elevata a un propulsore di ultima generazione, parco nei consumi quasi quanto l’attuale diesel. Ci sono anche modelli ibridi plug-in diesel, offerti su vetture premium e alto-di-gamma, essendo una tecnologia top ma anche costosa. Dunque, c’è da aspettarsi una crescita di tali macchine nelle flotte, quando si sarà posata la polvere sollevata dal cambio della fiscalità, che al momento ha avuto l’effetto di sospendere gli ordini. Oltre le emissioni di gas serra, c’è la qualità dell’aria. Diciamo subito che se tutte le macchine fossero in noleggio a lungo termine (NLT) o comunque gestite da società, il problema dell’in172


quinamento in Val Padana e in molti centri urbani sarebbe già risolto, perché la rotazione con cui sostituiscono le vetture produce l’effetto di avere a disposizione sempre i modelli di ultima generazione. Questi, godendo delle tecnologie più avanzate e rispondendo alle normative attuali molto stringenti, l’Euro 6d, hanno un impatto ambientale decisamente sostenibile. In Italia sono registrate 39 milioni di macchine, la cui età media è superiore agli undici anni, poiché convivono alcuni milioni di vetture recenti insieme ad altrettanti milioni di auto di venti e più anni. Ora, in questo secolo la normativa sulle emissioni è diventata molto stretta, alzando costantemente l’asticella alla tecnologia, che è riuscita a fare passi avanti notevolissimi. Ad esempio, un’auto diesel di oggi emette allo scarico 28 volte meno polveri sottili (PM) di una degli anni ‘90, mentre sugli ossidi di azoto (NOx) siamo a 12 volte meno. Si tratta dei due estremi, per dare l’idea di cosa abbia significato l’evoluzione tecnologica. Guardando al quadro complessivo, ci sono differenze marcate tra il parco circolante italiano e quello dei noleggiatori, che può essere rappresentativo delle flotte aziendali, visto che rispondono alla stessa logica di ruotarle al massimo ogni quattro anni. Secondo un’analisi del Centro Studi Fleet&Mobility, il parco circolante italiano emette ossidi di azoto (NOx) in ragione di 0,12 gr/km nel caso di vetture alimentate a benzina e 0,30 g/ km per il diesel. Il noleggio si posiziona su valori inferiori della metà, per il benzina, e del 73% in meno per il diesel. Sulle polveri (PM), le emissioni medie sono di 0,032 gr/km, laddove le flotte sono a 0,005 gr/km, ossia l’84% in meno. Sia chiaro che parliamo esclusivamente delle polveri allo scarico, che restano una parte piccolissima di quelle prodotte dalla circolazione. Secondo rilevazioni scientifiche (tra cui Timmers & Achten) circa il 60% del particolato prodotto dalla circolazione automobilistica deriva dal sollevamento della polvere dal suolo, tanto che 173


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basterebbe lavare le strade per eliminarlo, mentre un ulteriore 35% viene dall’usura di freni, gomme e asfalto. Come detto, il merito di questo bassissimo impatto è ascrivibile solo alla rotazione delle auto, non a sensibilità ambientali. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 dicembre 2019

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EMOZIONI O SCIENZA? LA TRANSIZIONE ELETTRICA METTE ALLE CORDE LE CASE Il peso degli investimenti.

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o scorso anno nel Mondo sono state vendute 1,35 milioni di auto elettriche e poco più di 600.000 ibride plug-in. Le due tecnologie apparentemente si somigliano, ma in realtà sono profondamente diverse, sia per chi le fabbrica sia per chi le usa. Secondo uno studio di Alix Partners, società di consulenza del settore, per assemblare il motore termico e la trasmissione che servono a muovere le macchine a combustione interna (ICE) ci vogliono in media 6,2 ore di manodopera. Nel caso di auto ibrida plug-in (PHEV), le ore salgono a 9,2 (quasi il 50% in più) per l’assemblaggio aggiuntivo del motore elettrico e del pacco batterie. All’opposto, per un’auto solo elettrica le ore scendono a 3,7, ossia il 40% in meno, poiché la trasmissione è meno impegnativa e il motore termico nemmeno c’è. Per i clienti, le differenze non sono sulla scala più/meno, ma su quella aggiunta/rinuncia. Un’auto PHEV consente di non rinunciare alle comodità oggi scontate nell’uso dell’auto: l’autonomia lunga e il rifornimento dovunque e in pochi minuti. Al tempo stesso, aggiunge tutti quei plus emotivi di ispirazione ambientalista, che danno la sensazione di non inquinare l’aria e non riscaldare il pianeta con le emissioni. Queste componenti, sebbene emotive, sono fondamentali nelle scelte che i governi stanno cercando di imporre al settore automobilistico. Se la partita si giocasse sui fatti, staremmo guardando ad altri cambiamenti. Le rilevazioni scientifiche dicono infatti che le macchine che circolano nel Mondo fuori dall’Europa emettono il 4% della CO2 antropica, mentre quelle europee il 2%. Circa il 25% proviene dalle centrali di 175


UN GIRO IN MACCHINA 2019

produzione di energia elettrica e un altro 23% dai riscaldamenti domestici. Sia detto per inciso, la CO2 antropica pesa il 5% di quella prodotta ogni anno dal pianeta. Anche sull’inquinamento i dati scientifici indicano che le polveri allo scarico delle vetture nuove sono addirittura inferiori a quelle presenti nell’aria, mentre gli ossidi di azoto emessi allo scarico pesano meno del 16% del totale e la proiezione al 2030 è del 7%, grazie al ricambio fisiologico del parco auto. Ma questo secolo è guidato dalle emozioni più che dalla scienza. L’UE sta imponendo una transizione verso le auto elettriche a suon di multe e i costruttori si stanno adattando. Fino allo scorso anno, l’offerta di vetture BEV e PHEV non arrivava a cento modelli. Nel quinquennio 2019/23 ne sono attesi altri 400, secondo un’analisi di McKinsey, di cui circa la metà nei segmenti alto-di-gamma (D+E) e un altro terzo nel segmento C, le compatte. Considerando che queste vetture elettrificate hanno dei prezzi superiori a quelle termiche normali, appare evidente che la migliore risposta sia attesa dalla parte alta della piramide sociale, quella con maggior disponibilità economica e magari più sensibile alle spinte ambientaliste. Ora, la domanda è quanto grande sia tale risposta e quando arriverà. Perché gli investimenti dei costruttori sono davvero ingenti, nell’ordine delle decine di miliardi. Per costruttore. Per dare una cifra, siamo intorno a 2.400 dollari per auto venduta, circa il 10% del prezzo, in media. Al momento, stanno facendo fronte con taglio dei costi, a cominciare dal personale. Solo i tedeschi hanno in programma di ridurre oltre 15mila addetti nei prossimi anni. Poi rinunciano ai profitti. Secondo Alix Partners, l’EBIT ha segnato una decrescita media cumulata del 10% in un solo anno, tra il primo trimestre 2018 e il primo trimestre 2019. I profit warning agli analisti ormai non fanno più notizia. Ma è ossigeno che brucia rapidamente. Devono arrivare i clienti, in massa e in fretta. Ad oggi, sei compratori di auto BEV ogni dieci stanno in Cina e 176


quattro sparsi nel resto del mondo. Per le PHEV è l’inverso, ma la torta è meno della metà. Però è ancora una domanda troppo flebile e difficile da misurare e proiettare, poiché questi numeri sono eccessivamente viziati dalle politiche dei governi, che vanno dai limiti alle emissioni per i carburanti agli incentivi per l’acquisto di auto elettriche, fino alle limitazioni agli investimenti in impianti per costruire auto termiche, come in Cina. Ultimo ma non ultimo, il tema delle reti di colonnine per la ricarica. Solo per l’Italia, come riportato da un recente studio di ACI, Enea e CNR, si parla di un investimento compreso tra 5,4 e 7,5 miliardi. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 17 dicembre 2019

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

AUTO VECCHIE O D’EPOCA, LA SOGLIA DEI 20 ANNI CHE ALTERA IL MERCATO Vanno incentivate le auto storiche, non quelle vecchie.

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e auto vecchie inquinano tanto di più di quelle recenti e sono molto meno sicure. È questa la priorità che deve ispirare le decisioni del regolatore sul parco circolante. In tale quadro fattuale, vietare la circolazione a vetture Euro 4/5 o addirittura Euro 6, limitando la mobilità di chi magari non ha grandi disponibilità, è cosa quanto meno delicata e da gestire con prudenza, accompagnandola con incentivi altrettanto efficaci e mirati, che hanno un costo per l’erario. Tali provvedimenti poi diventano incomprensibili quando lo stesso regolatore incentiva l’uso di quelle molto vecchie: da quest’anno, le auto con più di 20 anni sono soggette a una tassa di possesso pari alla metà, se sono dichiarate storiche. Per essere considerate tali, le vetture hanno bisogno del certificato di rilevanza storica (CRS) che può essere rilasciato a ogni auto, a patto che soddisfi alcuni requisiti minimi: lo stato di conservazione del veicolo e il fatto che corrisponda alla versione originale, per carrozzeria, motore e telaio. Secondo il presidente dell’Automobile Club d’Italia, Angelo Sticchi Damiani, si tratta di una misura che non andrebbe continuata, per il peso economico e per la filosofia che l’ispira. “Per l’anno in corso – sostiene – abbiamo calcolato che il minor gettito sfiorerà i 7 milioni di euro, a fronte dei 2 che erano stati previsti nella Finanziaria 2019. Nel 2020 stimiamo che la perdita per l’erario sarà intorno ai 25 milioni. Risorse pubbliche che potrebbero essere utilizzate più intelligentemente per aiutare il rinnovo del parco circolante. Ma soprattutto, diamo un messaggio sbagliato, di conservare le auto fino a 18/19 anni, perché 178


poi diventano un affare. Si tratta di un’alterazione del mercato che lo indirizza verso una direzione contraria agli interessi dell’ambiente e della sicurezza”. Le auto sono un prodotto importante, che hanno segnato la cultura del ‘900 e preservare quelle che hanno valore storico è importante. “Sappiamo che le auto oltre i 30 anni sono da ritenersi storiche, come anche la FIVA, Fédération Internationale des Véhicules Anciens, ha confermato recentemente – prosegue Sticchi Damiani – mentre su quelle di vent’anni si dovrebbe consentire il certificato di rilevanza storica (CRS) a una lista di modelli, stabilita in base al design, alla tecnologia e all’innovazione”. Questa lista, formata su iniziativa di Ruoteclassiche, è stata sottoscritta da tutti i principali attori del motorismo storico, con l’eccezione dell’ASI (Automotoclub Storico Italiano). L’umanità tiene alla conservazione degli oggetti che hanno segnato la sua evoluzione, nell’arte come nella tecnologia. Anche per le auto è giusto che sia così, ma separando il grano dal loglio. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 18 dicembre 2019

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

SULL’INTESA NEO DISTRIBUZIONE: PESA IL CASO CONCESSIONARI L’altra faccia della fusione.

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ella fusione FCA/PSA, dopo gli impianti e gli staff amministrativi, arriverà il momento di ottimizzare le reti di distribuzione, che troppe volte passano sotto silenzio. Lo scenario nel nostro Paese presenta caratteristiche interessanti. Innanzitutto, gran parte del business ruota attorno ai brand generalisti, Fiat e Lancia da un lato e Peugeot, Citroen e Opel dall’altro. Sono tutti mandati che non hanno fatto sorridere i concessionari, negli ultimi anni, stando all’indagine sulla soddisfazione condotta da Quintegia. Nessuno di essi figura tra i Top 20 negli ultimi tre anni. Una ragione di fondo può essere che tutti i marchi di volume abbiano sopportato la pressione maggiore da parte dei costruttori. Sono stati gli anni dei chilometri zero e dello stock eccessivo di auto presso le reti, le cui finanze hanno accusato il colpo. Secondo l’analisi dei bilanci condotta da Dekra, tra il 2014 e il 2018 (ultimo dato disponibile) le rimanenze sono più che raddoppiate (+109%) così come i debiti entro i 12 mesi verso fornitori (le case, +105%). Questioni di famiglia, si dirà. Forse, ma sta il fatto che anche i debiti a breve verso le banche sono cresciuti della metà (+56%). Inoltre, i due gruppi hanno perseguito negli anni due strategie diverse, sulla distribuzione. PSA ha cercato, con delle eccezioni, di tenere i mandati Peugeot e Citroen separati, affidandoli a imprenditori diversi, ancorché pluri-mandatari. All’opposto, FCA ha puntato alle sinergie tra i brand, anche se i marchi premium Alfa Romeo e Jeep in molti casi hanno seguito una strada diversa. 180


Quando tra un paio di anni la fusione scenderà a livello strada, nei negozi, troverà questa realtà da gestire. L’altra considerazione è che nel frattempo l’evoluzione che sta interessando la vendita di automobili avrà compiuto altri passi, verso la concentrazione e la digitalizzazione. Chi disegnerà la rete o le reti che porteranno le auto di FCA/PSA ai clienti guarderà non allo status quo ma al futuro. Il rapporto col cliente si sposterà sempre più sul web, anche per l’acquisto o il noleggio, senza che ciò arrivi a marginalizzare il salone: semplicemente, dovrà ripensare la sua missione e quel che ne consegue, in termini di strutture e competenze. In parallelo, la distribuzione dovrà funzionare con costi inferiori, perché minori saranno i margini che la vendita gli lascerà. Già adesso un concessionario con oltre 200 milioni di giro d’affari produce in media un risultato della gestione corrente del 16,6%, laddove gli altri stanno sotto il 9%, grazie a un peso della struttura (gestione, personale e ammortamenti) pari all’81,4% dei margini che restano dalla vendita, a fronte degli altri dealer che viaggiano sopra il 90%. Il corollario si chiama concentrazione. Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore, il 19 dicembre 2019

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

CHI DEVE TEMERE GLI OPERAI NEL CDA Fiat-Peugeot ok alla fusione. La svolta: operai nel CDA.

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roppo entusiasmo, di sindacati e loro sostenitori, per la presenza nel CDA del nuovo gruppo FCA/PSA di due esponenti dei lavoratori, uno per gli italoamericani FCA e uno per i franco-tedeschi PSA. Il massimo organo di governo del quarto gruppo automobilistico mondiale, che opera in cinque continenti, affronta scelte difficili, in conflitto con la natura del sindacato. L’evoluzione dell’industria comporta ogni tanto delle ristrutturazioni di organico, frutto di congiunture negative, di scelte sbagliate (perché gli uomini sbagliano), di nuove tecnologie o di modi diversi di fare le cose, ad esempio ricorrendo all’outsourcing, che sposta posti di lavoro. Di fronte a ognuna di queste, il CDA sceglierà sempre la sopravvivenza, che in soldoni significa sacrificare qualcuno per salvare tutti gli altri. In tali circostanze, l’obiettivo dovrebbe essere quello di tutelare non il posto di lavoro ma il lavoratore, riqualificandolo e aiutandolo a rientrare nel sistema produttivo da un’altra parte. Insomma, l’esatto opposto di quanto il sindacato sta facendo da anni con Alitalia. Con la piccola differenza che Alitalia non muore perché la sostengono i contribuenti. Quei due in CDA potrebbero sentire a quel punto un retrogusto amarognolo, coma da polpetta avvelenata. L’altro lato ruvido è quello internazionale. Prima o poi quel CDA troverà sul tavolo una decisione difficile, che metterà in contrasto i lavoratori di un impianto italiano con quelli di uno francese, tedesco o americano, con buona pace per quelli serbi, turchi o 182


messicani. In quel caso lo spirito fraterno che porta i lavoratori di tutto il mondo a unirsi quando le battaglie sono rigorosamente locali si troverà ad applicare la famosa internazionale socialista. Poi Re David della CGIL auspica che “siano le lavoratrici e i lavoratori ad eleggere i propri rappresentanti” e che ci sia “un rafforzamento e un rinnovamento delle relazioni sindacali e dei diritti dei lavoratori nel contrattare la propria condizione”. Si riferisce ai suoi iscritti che a Pomigliano votarono per la chiusura dello stabilimento anziché accettare pause più brevi. Infine, Bentivogli della CISL, uno dei più aperti e intelligenti sindacalisti in circolazione, che non resiste alla sirena Greta e parla della “possibilità concreta di investire sulla nuova mobilità elettrica e a idrogeno e verso la guida autonoma”. Si tratta di quegli investimenti guidati dalla piazza, a sua volta guidata da qualcuno, che hanno già prodotto in Germania decine di migliaia di esuberi. Allora uno capisce che tra un’ideologia e i lavoratori un sindacalista sceglie sempre e comunque l’idea. Poi non gli va bene che i lavoratori scelgano qualcun altro. Articolo pubblicato su il Giornale, il 19 dicembre 2019

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MERCATO AUTO A VALORE 2019 Mercato auto e fuoristrada - valori assoluti

Rapporto tra performance a valore e volume

Gruppi automobilistici e alimentazione

“Nota. Alcune % di alimentazione possono non battere a 100 per non alterare la quota arrotondando i decimali”

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

Top 15 brand e model

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MERCATO AUTO A VALORE 2019 - NOLEGGIO Mercato auto e fuoristrada - valori assoluti

% noleggio su vendita in valore - top 15 brand

Ntl e Rac

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UN GIRO IN MACCHINA 2019

Top 15 brand e model

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TRIBUTI Può diventare stucchevole ringraziare ogni anno le stesse persone, dunque non lo farò. Anche perché non è che uno possa cambiare amici ogni 12 mesi. Tanto più che quelli che ho, Pier Luigi e Mario, ormai mi conoscono e mi sopportano. Voglio però ringraziare Lello Naso del Sole24Ore, responsabile dei Rapporti, avendo raccolto il testimone da Laura. Grazie al suo bel carattere, abbiamo subito stabilito un’intesa professionale e umana che rende tutto facile – per me, se non per lui. Una parola speciale la riservo a Pier, che ha accettato di scrivere una bella prefazione.

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Finito di stampare nel mese di Giugno 2020


Pier Luigi del Viscovo UN GIRO IN MACCHINA 2019 Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione anche parziale.


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TRIBUTI

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pages 189-192

SULL’INTESA NEO DISTRIBUZIONE: PESA IL CASO CONCESSIONARI

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AUTO VECCHIE O D’EPOCA, LA SOGLIA DEI 20 ANNI CHE ALTERA IL MERCATO

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AUTO AZIENDALI, IL FALSO MITO GREEN DEL PARCO IBRIDO ED ELETTRICO

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EMOZIONI O SCIENZA? LA TRANSIZIONE ELETTRICA METTE ALLE CORDE LE CASE

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO

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L’ELETTRICO È IL FUTURO. INTANTO PERÒ TOGLIAMO LE AUTO VECCHIE DALLE STRADE

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STRISCIONI, DIESEL E MULTE

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FCA-PSA, ECONOMIE DI SCALA E USA I PILASTRI COLLETTI BLU AL SICURO, PER ORA

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AUTO AZIENDALI, TASSARE IL BENEFIT OLTRE IL 30% SIGNIFICA PENALIZZARE IL DIPENDENTE SU UNO STRUMENTO DI LAVORO

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FLOTTE AZIENDALI, DIESEL IRRINUNCIABILE MA I VALORI RESIDUI SCENDONO E I CANONI SALGONO

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AUTO, I PERCHÉ DEL CROLLO: FRENANO I NOLEGGI E KM0 BONUS-MALUS NON PERVENUTO

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LA CONGIUNTURA È INCERTA E LE FLOTTE NAVIGANO A VISTA

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DUE PAROLE CON PIER LUIGI DEL VISCOVO

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CARTOLINA DA GINEVRA, ECCO COME È CAMBIATA L’INDUSTRIA DELL’AUTO

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LA SPESA COMPLESSIVA PER LE VETTURE PERSO 1,7 MILIARDI AUMENTA IL RICORSO A NOLEGIO E CHILOMETRI ZERO

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INTRODUZIONE

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LA SPESA DEGLI ITALIANI PER L’AUTO

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IL 2019 SARÀ ANCORA UN ANNO COMPLICATO

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VENDERE L’AUTO O LA MOBILITÀ: IN GIOCO C’È IL CLIENTE

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COSÌ CAMBIA IL MERCATO DEL NUOVO

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IN FUMO L’AMBIENTALISMO GRILLINO DETASSATE LE AUTO PIÙ INQUINANTI

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IN ITALIA CRESCONO LE AUTOMOBILI IBRIDE E A GAS

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pages 29-30
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