VENDERE L’AUTO O LA MOBILITÀ: IN GIOCO C’È IL CLIENTE
I
l software vale il 10% di un’auto medio-grande e arriverà al 30% nel 2030, secondo McKinsey. Quelli di ultima generazione scambiano dati e tengono connessa l’auto, oltre a farla funzionare, ma un software c’era anche prima: aveva due mani per il volante, due piedi per i pedali e due occhi sulla strada. In tasca al posto del cellulare aveva un gettone telefonico e nessuno lo rimpiange, ma c’è una differenza. Lo smartphone ha rimpiazzato il telefono a gettoni, mentre il software dell’auto aiuta e aggiunge, non sostituisce. La marcia resta un fatto meccanico, di energia prodotta e trasmessa, e dinamico: banalmente, fare una curva senza uscire di strada. In caso di urto, le più sofisticate e reattive centraline cedono il passo alla capacità dei materiali di assorbire l’impatto. Se l’urto non c’è, i trasportati vorranno stancarsi poco nel tragitto e questo dipenderà dalla fisicità della seduta, non dai messaggi o dalla musica in streaming. Insomma, le innovazioni nell’auto sono fantastiche, perché aumentano il piacere e la sicurezza e facilitano gli spostamenti, ma non trasformano la natura della macchina. Eppure, oggi i costruttori tendono a vendere più il software che non le componenti meccaniche. La loro missione dichiarata non è più tanto costruire ottime macchine, quanto offrire mobilità – qualsiasi cosa ciò voglia dire, e un giorno lo scopriremo. È comprensibile, dato che il cliente vuole questo e dà per scontato il resto, ma è rischioso per l’industria, molto rischioso. Sia perché deve comunque costruire auto sempre migliori, ad esempio per ridurre consumi ed emissioni, sia perché queste tecnologie sono frutto di altre industrie, non metalmeccaniche. È vero che i big dell’auto da decenni assemblano componentistica affidata in outsourcing a spin-off dei costruttori o aziende cresciute alla 25