L'Espresso 49

Page 42

Settimanale di politica cultura economia N. 49 • anno LXVIII • 11 DICEMBRE 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro GOVERNO Sedotti e bastonati Effetto manovra sui poveri EUROPA Leader spiati con i trojan Ecco il dossier di Bruxelles IDEE Orrori e silenzi della Chiesa secondo lo storico Riccardi INCHIESTA ESCLUSIVA Dagli incendi in Amazzonia allo scempio del territorio italiano. Politiche e stili di vita influenzano clima e ambiente. Affari che chiamano in causa la responsabilità di finanza e industria Chi guadagna dai disastri Poste Italiane s.p.a.sped.in A.P.-D.L.353/03 (conv.in legge 27 /02/04 n.46) art.1comma 1-DCB RomaAustriaBelgioFranciaGerm aniaGreciaLussemburgoPortogalloPrincipato di MonacoSloveniaSpagna € 5,50C.T. Sfr. 6,60Svizzera Sfr. 6,80Olanda € 5, 90Inghilterra £ 4,70
Altan 3
emarinella.com
design Ivana Ortelli PHOTO OLIVIERO TOSCANI

Contro

L’Amazzonia brucia anche per noi Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi 12 Il popolo delle merci si autodivora Angelo Ferracuti 18 Colonialismo ambientale Georg Diez 20 Io in lotta con il virus e Trump colloquio con A. Fauci di M. Cavalieri e D. Mulvoni 22 Curiamo noi stessi ma non il pianeta Giuliano Battiston 26 Philip Morris ringrazia Vittorio Malagutti e Carlo Tecce 30 I Dem vanno in frantumi colloquio con Luigi Zanda di Susanna Turco 38 Sedotti e bastonati Gloria Riva 42 “Noi non paghiamo” contro il caro energia Diletta Bellotti 45 Vent’anni di battaglie per la scienza e la libertà Filomena Gallo 46 Il conte Mascetti alla Juventus Gianfrancesco Turano 48 La nuova frattura occidentale Federica Bianchi 50 Russia, il grande errore tedesco Angelo Bolaffi 54 Le telecamere cinesi in Italia Gabriele Cruciata 56 Taci, l’Europa ti ascolta Luciana Grosso 60 Israele, destra pigliatutto Alberto Stabile 64 Artiglio turco sul Kurdistan Marta Bellingreri 66 Rapiti in Mali e dimenticati Chiara Sgreccia 70 Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione Pierangelo Lombardi 73 Suprematisti di casa nostra Simone Alliva 74 Al servizio degli altri Tommaso Giagni 78

Idee

L’armata del silenzio

26

Lirio Abbate 11

Donatella Di Cesare 84 Una città fondata sul viavai colloquio con Jhumpa Lahiri di Michela Murgia 90 La prevalenza del Fattore K Giuseppe Catozzella 94 Lucian Freud, la regina è nuda Giuseppe Fantasia 98 Marxista, gay e snob, tutti in posa per Procktor 100 Fenomeno Chalamet Claudia Catalli 102

84 66 70 74

Opinioni

Altan 3 Makkox 8 Serra 36 Vicinanza 41 Cacciari 122

Rubriche

Storie

La tregua fragile di Khartoum, lo spettro di un’altra guerra civile

COPERTINA Foto di Jonne Roriz / Bloomberg / Getty

Sommario
11 dicembre 2022 Abbonati a SCOPRI L’OFFERTA SU ILMIOABBONAMENTO.IT L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi Ricevi la rivista a casa tua per un anno a poco meno di €6,00 al mese (spese di spedizione incluse) Le inchieste e i dibattiti proseguono ogni giorno sul sito e sulle pagine social de L’Espresso. UNISCITI ALLA NOSTRA COMMUNITY lespresso.it @espressonline @espressonline @espressosettimanale
numero 49 -
Images Editoriale
La parola 7 Taglio alto 19 Bookmarks 105 Ho visto cose 118 #musica 119 Scritti al buio 119 Noi e voi 120 la corruzione le leggi non bastano
Prima Pagina
Irene Panozzo 106 La memoria rimossa del Maigret antimafia Sara Lucaroni 110 Dall’arte ai media le immagini dal nulla Alessandro Longo 114

INIZIA TUTTO CON UN RESPIRO

Scopri di più in-store e su geox.com

respiro

Impoverimento dei suoli, diminuzione della biodiversità, i delicati equilibri della natura sono costantemente minacciati dalla nostra incuria, avidità e anche stupidità visto che noi di questi ecosistemi facciamo parte.

Il grande polmone del pianeta, la foresta amazzonica nell’ultimo decennio ha emesso più anidride carbonica di quanta ne ha assorbito. E questo perché la foresta pluviale è sottoposta a stress climatici, cioè a un aumento della temperatura e a una diminuzione delle precipitazioni, che portano alla morte gli alberi più grandi. Qualcosa che va ben al di là della deforestazione e prende il nome di «degradazione».

L’altro grande polmone del pianeta, il polmone blu della pianta della Posidonia oceanica che vive nel Mediterraneo e le cui praterie si estendono per circa 12.000 chilometri qua-

drati sequestrano alte quantità di anidride carbonica e le trasformano in ossigeno al pari delle foreste terrestri, un processo ecologico vitale che apporta una delle maggiori produzioni di carbonio e ossigeno in tutto l’ecosistema marino.

La perdita delle praterie di Posidonia è addirittura 4 volte maggiore rispetto alla distruzione delle foreste tropicali di tutto il mondo, una distruzione forse meno nota e meno visibile, ma altrettanto grave per il futuro del pianeta.

Perdere questi due polmoni, terrestre e marino, è quel tipo di male che non si vede ma che investe le nostre vite quotidianamente, rendendole sempre più fragili e in balia di fenomeni estremi che ogni volta ci prendono di sorpresa, come perenni smemorati.

Rischiamo di perdere il respiro e non ce ne rendiamo conto.

7 La parola
© RIPRODUZIONE RISEVATA EVELINA SANTANGELO
Cronache da fuori 8
Makkox 9

Contro la corruzione le leggi non bastano

La corruzione torna nell’agenda della politica e ad annotarla è il ministro della Giustizia Carlo Nordio durante un convegno. Letta così appare una buona notizia per un Paese che purtroppo viene ancora piegato a colpi di mazzette. Dopo l’uscita del ministro è stato necessario l’intervento del procuratore Raffaele Cantone. Con la sua lunga esperienza nella prevenzione e lotta alla corruzione, ha ricordato al Guardasigilli che la ricetta che ha proposto, attraverso una norma per incentivare il pentimento di chi corrompe c’è già, ma «non ha dato risultati».

Occorre capire bene in che modo Carlo Nordio voglia riscrivere le norme sulla corruzione. Come ha suggerito Cantone «è un’esigenza giusta dire che è necessario spezzare la complicità tra corrotto e corruttore, ma la legge Spazzacorrotti l’ha già previsto» e quando fu approvata in Parlamento si disse che con questa norma la corruzione sarebbe stata eliminata. E purtroppo, a oggi, non è così.

Nell’ultimo anno, come spiegano i dati della Guardia di Finanza, quasi sei miliardi di euro sono stati sottratti a chi ne aveva diritto, sei miliardi stanziati per la spesa pubblica e finiti nelle mani sbagliate. Sono storie di corruzione, truffe e sprechi che hanno riguardato fondi statali e dell’Unione Europea, spesa sanitaria e assistenziale, fondi bancari assistiti da garanzia e appalti. Complessivamente i finanzieri hanno denunciato più di 45mila persone e inviato quasi ottomila segnalazioni alla Corte dei Conti per un danno alle casse dello Stato di tre miliardi e mezzo. Il male è quindi ancora vivo nel corpo del Paese.

Il dito contro la linea politica di Nordio l’ha puntato in commissione Giustizia il senatore Roberto Scarpinato (M5s), il quale sostiene, riferendosi al governo, di «depotenziamento della risposta penale nella fase storica in cui le ingentissime risorse economiche del Pnrr hanno mobilitato gli interessi di comitati di affari, delle mafie, di articolate reti corruttive che operano nell’ombra della massoneria deviata». E

Le norme proposte dal Guardasigilli Nordio esistono già. E non funzionano. Perché sono i valori condivisi da una collettività a generare comportamenti virtuosi. Senza cultura della legalità le minacce punitive servono a poco

chiede se «il governo è consapevole del concreto pericolo che ingenti somme di denaro vengano distratte dalle finalità pubbliche e disperse nel buco nero della corruzione e della gestione clientelare del potere pubblico».

Insomma, le inchieste degli ultimi anni ci descrivono l’esistenza in tutto il Paese e in tutte le fasce sociali di una criminalità sistemica. E questa porzione del Paese illegale ha un forte potere di contrattazione sociale e politica.

L’argomento giustizia, come vediamo a ogni governo che si succede, è sempre controverso. Questo condiziona tutte le altre questioni e ogni possibile accordo o soluzione. Dunque si chiede alla politica di assolvere un compito ben preciso: promuovere un’alfabetizzazione sulla cultura della legalità, fondando una nuova etica pubblica. Tra etica e diritto esiste un rapporto inversamente proporzionale. Tanto più si espande la sfera dell’etica, dell’adeguamento spontaneo a regole e a valori condivisi dal corpo sociale, tanto più si restringe la sfera del diritto, momento di imposizione al rispetto delle regole. Non è compito della giurisdizione porre le premesse per la rifondazione dell’etica. Il processo penale è e deve restare una vicenda individuale che non può e non deve assolvere mediante la sua valenza simbolica le funzioni di riorientamento valoriale della collettività.

E la politica non può assolvere il suo compito in questo caso varando nuove leggi, perché non è la norma di legge che

crea il valore ma, al contrario, il valore che produce la norma, anche quella non scritta. Questo compito può e deve essere assolto soprattutto nutrendo la cultura della legalità con esempi pratici e reali. Da qui devono partire il ministro Carlo Nordio e la premier Giorgia Meloni se vogliono contrastare la corruzione. Con la buona pratica della cultura della legalità.

Editoriale Lirio Abbate 11
Esclusivo / Emergenza ambiente L’AMAZZONIA BRUCIA ANCHE PER NOI DI PAOLO BIONDANI E PIETRO MECAROZZI ECCO CHI FINANZIA LE SOCIETÀ ACCUSATE DEI ROGHI NELLE FORESTE BRASILIANE. UN MILIARDO E MEZZO DA EXOR-CNH. DECINE DI MILIONI DA UNICREDIT, INTESA, MPS E AZIMUT

Un incendio nella giungla amazzonica ad Apui, Stato di Amazonas, Brasile

dicembre

11
2022 13 Prima Pagina

ambiente

Dietro gli incendi delle foreste dell'Amazzonia ci sono anche soldi italiani. Finanziamenti per decine di milioni concessi dalle maggiori banche del nostro Paese. E prestiti commerciali per somme molto più alte, almeno un miliardo e mezzo di euro, che arrivano da società finanziarie con la targa italo-olandese del gruppo Exor, che controlla anche la Fiat.

I roghi dolosi che da anni continuano a distruggere le foreste del Brasile, il polmone verde del pianeta, si sviluppano al livello di base dell'industria agroalimentare: il fuoco è l'arma per conquistare nuova terra per gli allevamenti di bestiame e le coltivazioni intensive di soia e olio di palma. Prodotti acquistati dai colossi multinazionali e rivenduti nei supermercati di tutto il mondo. Questa inchiesta giornalistica internazionale, realizzata da L'Espresso in collaborazione con Disclose e altre testate euro-

L’INCHIESTA DE L’ESPRESSO CON ALTRE TESTATE INTERNAZIONALI SVELA DIECI ANNI DI AFFARI EUROPEI CON I COLOSSI DELL’AGROALIMENTARE FINITI NELLE LISTE NERE PER GLI INCENDI

pee, ha ricostruito l'intera catena economica che lega gli incendi in Amazzonia con il cibo che arriva nelle nostre case. I dati raccolti permettono di quantificare, per la prima volta, i finanziamenti concessi da banche e società di 15 Paesi dell'Unione europea, dal 2013 al settembre 2022, alle aziende agricole che sono state accusate pubblicamente di beneficiare della deforestazione dell'Amazzonia. Una cifra enorme: oltre 17 miliardi di euro.

L'inchiesta ha seguito il metodo di lavoro di giornalisti, ricercatori e ambientalisti brasiliani che hanno fatto luce su uno dei disastri ecologici più gravi degli ultimi anni. Erano trascorsi appena undici mesi dalla data passataallastoriadelBrasilecome

«il giorno del fuoco»: 1.457 incendi contemporanei che il 10 agosto 2019 devastarono il Nord dell'Amazzonia. Tra l'11 luglio e il 17 agosto del 2020 una nuova serie di centinaia di roghi dolosi distrugge altri 116 mila ettari diforestenelMatoGrosso,unasuperficiepari all'intera metropoli di Rio De Janeiro. I cronisti di Reporter Brasil e i ricercatori dell'istituto Centro De Vida si mettono a indagare, nell'inerzia quasi totale delle autorità, e riescono a localizzare i focolai d'innesco, utilizzandolefotoaereedellaNasaedell'Entespaziale brasiliano (Inpe). Quei dati vengono incrociati con le mappe catastali, i registri societari, i contratti di forniture agricole. I documenti mostrano che tutti gli incendi sono partiti dai confini di cinque proprietà private. Tra cui spiccano due grandi fattorie che vendono carne e soia a due giganti agroalimentari brasiliani, i gruppi Amaggi e Bom Futuro.Chealorovoltarisultano fornitori, nello stesso periodo, di multinazionali come Jbs, Marfrig e Minerva, che rivendono quei prodotti in tutto il globo.

Con lo stesso metodo, i giornalisti di Disclose, una testata francese indipendente, con lo status di orga-

14 11 dicembre 2022 Esclusivo / Emergenza
Paolo Biondani Giornalista Pietro Mecarozzi Giornalista

nizzazione non governativa senza fini di lucro, hanno identificato oltre 300 società agroalimentari che risultano coinvolte nella deforestazione delle aree più verdi del Brasile, dal Mato Grosso al Cerrado. Questa lista nera si fonda su rapporti ufficiali delle autorità di controllo, magistratura, forze di polizia dello stesso Brasile, oppure su studi e ricerche delle maggiori organizzazioni mondiali di tutela dell'ambiente, da Global Witness a Greenpeace, dal Wwf a Earthsight. Identificate così le aziende a rischio, sono state analizzate le loro fonti di finanziamento, grazie alla massa di dati economici resi pubblici dai ricercatori di Forest and Finance. Il risultato, per l'Europa, è un elenco di oltre 12 mila prestiti, emissioni di obbligazioni, investimenti azionari: 17 miliardi e 516 milioni di euro, versati da 230 banche o società finanziarie della Ue a gruppi agroalimentari accusati di rifornirsi da fattorie e allevamenti brasiliani implicati negli incendi.

Dal 2019 ad oggi, sotto il governo di destra guidato dal presidente uscente Jair Bolsonaro, che il prossimo primo gennaio dovrà cedere il potere al leader rieletto della sinistra Ignacio Lula da Silva, la deforestazione ha raggiunto i livelli più alti della storia brasiliana. Nell'agosto 2022 si è registrato il nuovo record assoluto di 3.358 ro-

IL FUOCO

L'incendio nella foresta pluviale amazzonica, vicino ad Abuna, Stato di Rondonia. A sinistra, veduta aerea di un'area bruciata nella foresta pluviale amazzonica, vicino alla riserva estrattiva del Lago do Cunia, al confine tra gli stati di Rondonia e Amazonas

ghi contemporanei, più del doppio del «giorno del fuoco» di tre anni fa.

Tra le banche italiane, secondo i dati di Disclose, la più esposta è Unicredit, che in questi dieci anni ha finanziato con 36 milioni e mezzo soprattutto società che producono e vendono soia brasiliana. Il primo di questi clienti è la multinazionale Archer Daniels Midlands (Adm), che ha ricevuto prestiti per 16,2 milioni. Seguono Olam con 7 milioni, il gruppo cinese Cofco con 5,4, la società Dreyfus con 4,4 e la multinazionale Bunge con 3,2 milioni. Sotto la presidenza di Bolsonaro, Unicredit ha aumentato questi finanziamenti, saliti da 2,8 milioni del 2019, a 3,5 del 2020, a 4,6 milioni del 2021.

Al secondo posto, tra le banche tricolori, c'è Intesa San Paolo, che ha concesso prestiti per oltre 21 milioni ai colossi della soia e della carne: 6,8 milioni per Olam, 5 per Adm, 4,7 per Cargill, 2,9 per Bunge. Anche Intesa non si è fatta influenzare dalle polemiche sul boom della deforestazione negli anni di Bolsonaro. La banca italiana, che nel 2013 prestava poco più di un milione a tutto il settore agricolo brasiliano, nel 2020 e 2021 ha quintuplicato i finanziamenti, versando più di cinque milioni all'anno alle aziende più criticate dalle maggiori organizzazioni ambientaliste.

11 dicembre 2022 15 Prima Pagina Pagine 12-13: U. Marcelino –Reuters / Contrasto. Pagine 14-15: D. Magno –Afp / Getty Images, Roriz/Bloomberg / Getty Images

Il Monte dei Paschi, la storica banca di Siena da tempo in gravi difficoltà, è chiamata in causa per 10 milioni e 641 mila euro prestati nel 2013 al gruppo Amaggi, per estendere le coltivazioni di soia. Il colosso brasiliano appartiene a una famiglia di miliardari di lontana origine italiana ed è intitolato al fondatore, Andre Maggi. Suo figlio ed erede, Blairo Maggi, è stato anche ministro, senatore e governatore del Mato Grosso. Nel 2006 Greenpeace gli ha assegnato l'ironico premio mondiale per la deforestazione: la «motosega d'oro». L'altro ramo della famiglia, guidato dal cugino Erai Maggi, controlla il gruppo Bom Futuro.

Azimut è un gruppo finanziario italiano con una società di gestione del risparmio che ha scoperto l'Amazzonia negli ultimi mesi. Tra gennaio e settembre 2022 ha investito 7,7 milioni di euro in società estere ora chiamate in causa per la deforestazione. Azimut ha comprato soprattutto azioni di Slc Agricola, per 6,2 milioni, e ha investito altri 667 mila euro in Cresud, 338 mila in Jbs, 185 mila in Adm e 103 mila in Minerva. Almeno fino a tre mesi fa, dunque, il gruppo italiano era tra gli azionisti di questi giganti della soia, carne e olio di palma.

Cnh Industrial è un colosso delle macchine agricole, camion e trattori controllato

GLI INTERESSI

Un operaio fissa l’incendio vicino alla fattoria in cui lavora accanto all'autostrada a Nova Santa Helena, nello Stato settentrionale del Mato Grosso. In alto, da sinistra, la bandiera brasiliana in un'azienda di logistica e stoccaggio di cereali a Sidrolandia, nel Mato Grosso; una foresta bruciata nello stesso Stato; membri della tribù Kayapo bloccano l'autostrada BR163 a Novo Progresso nello Stato di Para

dal gruppo Exor. Ne fanno parte diverse società nate in Italia dalla casa madre Fiat. Dal 2016 l'intero gruppo ha trasferito la sede legale in Olanda. Un'operazione contestata dall'Agenzia delle Entrate, che ha spinto Exor a chiudere la vertenza, l'anno scorso, versando 950 milioni al fisco italiano. Cnh controlla anche una rete di società finanziarie, che fanno da banca domestica: prestano soldi ai clienti che comprano le macchine. Questo sottogruppo, Cnh Industrial Capital, ha prestato almeno un miliardo e 450 milioni di euro a società agroalimentari che ora compaiono nella lista nera dell'Amazzonia.

In questi dieci anni i prestiti sono più che decuplicati. Nel 2013 ammontavano a 15 milioni. Nel 2019, quando è salito al potere Bolsonaro, sono saliti a 198 milioni, nel 2020 a quota 215. Nel 2021 si sono fermati a

16 11 dicembre 2022
/ Emergenza
Esclusivo
ambiente

SOLDI DALL’ITALIA ANCHE AL GIGANTE DELLA SOIA CONTROLLATO DALL’EX

GOVERNATORE DEL MATO GROSSO, CONTESTATO DA GREENPEACE

CON IL “PREMIO MOTOSEGA D’ORO”

160 milioni. Gli affari proseguono, con altri 76 milioni prestati tra gennaio e settembre di quest'anno.

Cnh ha prestato diversi milioni direttamente ai colossi brasiliani della soia e della carne, come Bom Jesus e Amaggi. In gran parte dei casi, però, il gruppo fa intermediazione finanziaria tra i produttori, che comprano le macchine, e il programma statale che versa i sussidi pubblici all'agricoltura brasiliana. Queste operazioni, dove la controparte registrata è l'apparato pubblico, ammontano a un miliardo e 276 milioni.

L'Espresso ha indirizzato una lunga serie di domande a Exor e Cnh. Le due società hanno risposto con una nota scritta precisando che il gruppo opera in Brasile attraverso la controllata locale «Banco Cnh Industrial Capital», che «da più di vent'anni finanzia gli acquisti di macchine per l'agri-

coltura, costruzioni e trasporti»: «Si tratta di una società vigilata dalla Banca Centrale del Brasile, per cui è tenuta a un rigoroso rispetto di tutte le leggi e regolamenti. È importante sottolineare che il sistema finanziario brasiliano è altamente regolato, con molteplici norme dirette a favorire un'agricoltura sostenibile. Il quadro legale è migliorato negli anni e ha spinto l'intero sistema a controllare l'applicazione delle regole ambientali, imponendo anche la chiusura dei prestiti, con multe e sanzioni, per i clienti che risultino non in regola».

«Banco Cnh Capital sostiene la crescita sostenibile del Brasile», conclude la nota del gruppo, e si impegna a «non finanziare soggetti o società coinvolte in attività illegali»: «Tutti i clienti, per ottenere prestiti, devono sottoporsi a procedure di controllo (due diligence) che includono verifiche sui dati raccolti dalle agenzie statali e su condanne penali o civili».

Il problema, evidenziato da questa inchiesta giornalistica, è che la catena agroalimentare è molto lunga, è composta da moltissime aziende di Paesi diversi, ma non esiste alcuna autorità internazionale in grado di controllare l'intera filiera dall'inizio alla fine. Di fatto il sistema funziona a compartimenti stagni: la banca euro-

11 dicembre 2022 17 Prima Pagina Foto:E. Perez / Ap / La Presse, A. Raldes –Afp / GEtty Images, J. Laet /AFP /Getty Images, C. De Souza –Afp / Getty Images

di ANGELO FERRACUTI

Il popolo delle merci si autodivora

Nella primavera del 2019 andai a Xapuri, nello Stato dell’Acre dell’Amazzonia brasiliana sudoccidentale, al confine con Bolivia e Perù. Ero alla ricerca di ciò che restava del mito di Chico Mendes, il leader sindacale e ambientalista ucciso dai latifondisti che aveva saldato le lotte dei seringueiros e quelle dei popoli indigeni per salvare ettari di selva e fare agroecologia nelle riserve estrattive. Erano già tre anni che viaggiavo negli Stati e i paesi della Foresta con il fotografo Giovanni Marrozzini, cercando di raccontare il cuore di tenebra dei popoli indigeni e della natura minacciati, quello che poi è finito nel nostro libro “Viaggio sul fiume mondo” (Mondadori), e già allora l’Amazzonia appariva ai miei occhi per tanti motivi come la cattiva coscienza del mondo occidentale. Per giorni viaggiai con don Luiz Ceppi, l’allievo di Leonardo Boff, uno

dei padri della Teologia della Liberazione, a bordo di un potente fuoristrada, in quel periodo il Brasile, anche grazie al governo Bolsonaro e al suo appoggio incondizionato alla lobby dell’agrobusiness, fu martoriato dagli incendi boschivi, se ne contarono più di ottantamila, i fumi raggiunsero anche i lontani cieli di San Paolo, le immagini delle colonne di fuoco, delle distese di terra bruciata, degli animali in fuga disperati avevano fatto il giro del mondo. «La foresta brucia gridano gli occidentali», mi aveva detto caustico Roland Polanca, ex deputato Pt, quando ero andato ad intervistarlo a Rio Branco: «Ma è per darvi la soia e la carne! L’Italia nell’ultimo anno ha importato venticinquemila tonnellate di bue verde amazzonico».

Quello che ipocritamente chiamano «polmone verde del mondo», come se solo l’ossigeno fosse di tutti, quindi

proprietà anche nostra, ha al suo interno un modello alternativo a quello predatorio del capitalismo consumistico, prodotto da quello che lo sciamano e leader Yanomami Davi Kopenawa nel suo libro “La caduta del cielo” (Nottetempo) chiama «Popolo delle merci», che già contamina con il cibo spazzatura gli stessi indigeni, modificandone le abitudini alimentari, perché per loro la natura è sacra, nel fiume vivono gli spiriti degli antenati, mentre dall’altra parte del mondo, il nostro, abbiamo inquinato tutti i fiumi, i laghi, i mari, costruito selvaggiamente creando dissesti idrogeologici, frane, alluvioni, perdendo contatto con il mondo naturale. Lo scontro di civiltà è dunque tra il nostro mondo artificiale e uno degli ultimi paradisi naturali, l’Amazzonia. Dragare il letto del Rio, provocare sversamenti di petrolio nelle sue acque, far entrare ille-

pea finanzia la multinazionale, che compra dal gruppo cinese, che si rifornisce dalla piccola fattoria dell'Amazzonia, che resta l'unica coinvolta direttamente negli incendi. I dati raccolti da Forest and Finance e Disclose, quindi, non provano responsabilità legali: sono dati soltanto economici, che per la prima volta illuminano l'intera catena alimentare, dalle foreste dell'Amazzonia alle nostre cucine.

Nelle liste dei finanziatori delle aziende a rischio compaiono anche società finanziarie controllate da industrie tedesche delle auto, con cifre molto inferiori a Cnh: Volkswagen Financial Services risulta aver prestato 121 milioni, Mercedes Finance 54. I massimi finanziatori europei sono banche straniere, di gran lunga più esposte di quelle italiane. Al primo posto assoluto c'è il gruppo spagnolo Santander, con 8 miliardi e 616 milioni, al secondo l'olandese Rabobank, con 5 miliardi e 159 milioni. In Francia svetta Bnp Paribas con 473 milioni, in Germania Deutsche Bank con 271 milioni.

L'Espresso ha inviato domande a tutte le banche e finanziarie italiane citate in questo articolo, che per ora non hanno replicato. Tutte le eventuali risposte verranno pubblicate su lespresso.it.

18 11 dicembre 2022
Esclusivo / Emergenza
ambiente
MEDIAZIONI DI UNA SOCIETÀ DELLA HOLDING FIAT SUI SUSSIDI PUBBLICI PER I MEZZI ACQUISTATI DAI CONTADINI. ALLE AZIENDE A RISCHIO 8,6 MILIARDI DA SANTANDER, 5 DA RABOBANK

galmente i cercatori d’oro nei territori indigeni, diboscatori abusivi o cacciatori di frodo che poi rivendono animali pregiati nei mercati internazionali, anche in quello italiano, o far proliferare il turismo invasivo, per i popoli custodi è violare non solo il loro habitat ancestrale ma un immaginario cosmico, quello di chi ha ancora un rapporto simbiotico con la natura. Tanto che secondo alcuni studi la perdita di foresta si dimezza nei territori abitati dai nativi, sono loro i veri guardiani degli ecosistemi, i protettori assoluti della biodiversità. Le loro pratiche quotidiane consistono nella rotazione delle colture, i divieti di caccia stagionali e la sacralità di alcuni alberi, la protezione di quelle risorse che servono alla sopravvivenza della comunità.

Davi Kopenawa l’avevo incontrato a

Boa Vista durante un altro viaggio, grazie a Survival International. Era un periodo drammatico per il suo popolo, i cercatori d’oro stavano invadendo le loro terre demarcate: «È pieno di zattere, anche nei ruscelli, negli affluenti c’è distruzione, e hanno l’appoggio di politici e ricchi impresari di Boa Vista», mi aveva detto addolorato. Era preoccupato anche per i Moxihatetema, che definì «esseri umani che non vogliono avere contatto con gli altri», che vivevano nel loro piccolo paradiso senza tempo, uno degli oltre 100 popoli incontattati brasiliani. Mi disse anche: «La nostra parola d’ordine è proteggere la natura, il vento, le montagne, la foresta, gli animali, ed è questo che vi vogliamo insegnare. I capi del mondo ricco e industrializzato pensano di essere i padroni, ma la vera

conoscenza è degli Shaori. Sono loro il primo vero mondo. E se la loro conoscenza va persa, allora anche il popolo bianco morirà. Sarà la fine del mondo. È questo che vogliamo evitare». Come aveva già compreso Claude Lévi-Strauss «lo sciamano yanomami non separa la sorte del suo popolo da quella del resto dell’umanità». Infatti, il messaggio universale di Davi Kopenawa, la visione del suo sguardo «altro» rispetto al nostro, quello del mondo artificiale e consumistico, va oltre la salvaguardia della foresta amazzonica, riguarda la sopravvivenza di tutti: «La foresta è viva. Può morire solo se i bianchi si ostinano a distruggerla. Se ci riescono, i fiumi scompariranno sotto la terra, il suolo diventerà friabile, gli alberi riseccheranno e le pietre si spaccheranno per il calore. La terra inaridita diventerà vuota e silenziosa. (...) Allora moriremo gli uni contro gli altri e così anche i bianchi. Tutti gli sciamani periranno. Quindi, se nessuno di loro sopravvive per trattenerlo, il cielo crollerà» ha scritto nel suo libro e testamento spirituale del mondo che rischia l’estinzione.

11 dicembre 2022 19 Prima Pagina
Foto: C.
–Afp / Getty
TAGLIO ALTOMAURO BIANI
De Souza
Images
Aree bruciate della foresta pluviale amazzonica vicino ad Abuna, Stato di Rondonia

COLONIALISMO AMBIENTALE

Pochi giorni fa, una persona di alto livello dell’establishment politico-strategico tedesco, facendo il punto sul mondo nei prossimi dieci anni, ha detto qualcosa di notevole durante un incontro a pranzo, altrimenti piuttosto prevedibile, tra persone che la pensano per lo più allo stesso modo: non usa più il termine “Occidente” parlando di politica, ha detto, perché questo termine è troppo carico di brutti ricordi ed esperienze - non può quindi più essere usato in senso costruttivo, poiché i valori che “l’Occidente” ha preteso di sostenere sono stati screditati.

Si riferiva, tra l’altro, alla guerra in Iraq dei primi anni 2000, una guerra che si supponeva fosse stata combattuta in nome dell’“Occidente” e di valori “occidentali” come la libertà e la democrazia - una guerra sbagliata e soprattutto illegale, come riconoscono oggi anche coloro che all’epoca la difendevano. Ma cosa significa se le persone al centro dell’establishment smettono di parlare di “Occidente”? Qual è la strategia che sta dietro a questa affermazione che, in apparenza, potrebbe essere considerata un processo di apprendimento? Cosa si ottiene lasciando andare “l’Occidente” - e per chi?

Credo che la dichiarazione sia interessante nel contesto di ciò che è stato e di ciò che sarà, e forse soprattutto nel contesto della crisi climatica. È un’affermazione che allude a un mondo del XXI secolo che sarà strutturato in modo diverso e secondo diverse linee di potere, valori, sistemi politici, un mondo in movimento sostenuto da un discorso altrettanto in movimento. Il senso di questo cambiamento, e qui diventa interessante collegare il passato e il futuro, è a mio avviso quello di rendere “l’Occidente” più agile per agire negli anni a venire, liberando questi Paesi dal bagaglio storico, dal senso di colpa e dalle sue conseguenze. Ed ecco il collegamento che vedo con la

L’AUTORE

DIEZ

Lo scrittore e giornalista Georg Diez ha lavorato per molti anni per la Süddeutsche Zeitung, la Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, Die Zeit e come editorialista politico per Spiegel Online. Ha studiato storia e filosofia a Monaco, Parigi, Amburgo e Berlino. Nel 2016/17 ha trascorso un anno come Nieman Fellow all’Università di Harvard. La natura e la portata delle crisi attuali lo hanno spinto a cambiare rotta e ad aderire a The New Institute

crisi climatica - e la crescente richiesta di un impegno concreto e finanziario da parte delle nazioni responsabili della maggior parte della distruzione, “l’Occidente” appunto. Alla Cop27, la conferenza sul clima che si è conclusa a novembre nella località egiziana di Sharm el Sheikh, è stato il dibattito sulle “perdite e i danni” a dare questo tono: i costi economici del cambiamento climatico nei soli Paesi in via di sviluppo sono stati stimati tra i 290 e i 580 miliardi di dollari entro il 2030, una somma molto probabilmente ancora troppo bassa. Già nell’Accordo di Parigi del 2015 è stato chiaramente affermato che i Paesi del Nord globale, “l’Occidente”, devono riconoscere la loro responsabilità storica e pagare la loro parte per affrontare la crisi climatica.

Come promemoria: “l’Occidente”, principalmente gli Stati Uniti, l’Europa e forse il Giappone, è stato costruito intorno alla promessa di promuovere la democrazia, la crescita, la prosperità, il progresso - un progresso in termini prevalentemente materiali ed economici che è stato criticato in molti modi, in particolare per il fatto che la crisi climatica è stata causata proprio da questa nozione e dalla pratica del progresso. Ci sono molte altre forme di ingiustizia

DI GEORG
L’emergenza climatica porta alla luce la divaricazione tra i Paesi occidentali e il resto del mondo. Che non vuole pagare per i guasti frutto di un modello sbagliato
Oggi
Europa
20 11 dicembre 2022

associate a questo - dall’estrattivismo coloniale e la schiavitù alla continua distruzione delle società del Sud del mondo e la prevalente dipendenza dalla misericordia del Nord del mondo - ma è più urgente notare che “l’Occidente” è responsabile del 92% delle emissioni globali di CO2, mentre “il resto” del mondo sta sopportando il peso della distruzione, attualmente e in futuro.

In questo contesto cosa significa evitare il termine “Occidente”? È emancipatorio o evasivo? O addirittura astuto? Senza dubbio, il dibattito si sposterà nei prossimi anni e diventerà sempre più controverso: dalle “perdite e danni” e dalla questione di come minimizzare o mitigare le conseguenze del cambiamento climatico alla richiesta di veri e propri risarcimenti climatici, un concetto più direttamente legato alla questione del colonialismo e alla responsabilità diretta dei Paesi sviluppati che più hanno tratto profitto dalle ingiustizie del passato. Ciò riguarda direttamente l’Europa e rende necessaria una risposta costruttiva.

Il dibattito sul legame tra colonialismo, capitalismo e prosperità dell’Europa ha preso sempre più piede a mano a mano che le sue conseguenze sono diventate sempre più evidenti. A volte questi dibattiti sono

IL TEMA

“L’Occidente”, termine collegato a valori come la libertà, la democrazia e la prosperità, ha perso credibilità. I paesi industrializzati, legati agli effetti anche negativi della dominazione “dell’Occidente”, hanno l’opportunità di liberarsi dal peso storico. La ricerca di una nuova posizione rispetto alle loro responsabilità nella crisi climatica - lo dimostra la Cop27 - non è però convincente: sistemi di sfruttamento, come quello di risorse naturali sul continente africano, rimangono in atto

più incentrati sull’identità nazionale, come negli Stati Uniti con il riconoscimento del prezzo della schiavitù. A volte sono più culturali, come in Europa con la questione dei musei e della restituzione delle opere d’arte rubate da Paesi africani, asiatici o sudamericani. Ma nel contesto della crisi climatica, questo dibattito coloniale o post-coloniale deve portare, a mio avviso, a proposte concrete su come cercare la giustizia attraverso una massiccia redistribuzione della ricchezza e del denaro.

Non sono ingenuo e so che sarà difficile da realizzare, soprattutto alla luce dei dibattiti attuali che sembrano puntare in un’altra direzione: i discorsi su come cambiare le infrastrutture energetiche nei Paesi del Sud del mondo e le pratiche estrattive riguardanti le materie prime rare necessarie per le batterie e altri strumenti ad alta tecnologia puntano verso un regime neo-coloniale, creando nuove dipendenze e aprendo nuovi mercati. Ma viviamo in un momento cruciale della storia dell’umanità - e il “business as usual” non è un’opzione per coloro che vogliono davvero fare tutto il possibile per salvare il pianeta e il maggior numero di vite possibile.

Per i Paesi europei e per l’Ue in particolare, questo sarebbe un grande momento per riflettere ancora una volta in modo critico sulla propria storia e sul proprio patrimonio e per agire sulla base di una comprensione condivisa delle responsabilità in materia di cambiamenti climatici. Questo potrebbe essere un momento, e persino un movimento, per un nuovo approccio alla comunità mondiale che superi la vecchia logica degli Stati nazionali e abbracci veramente la dimensione planetaria della crisi attuale. Siamo tutti collegati, non solo in questo momento e nel futuro, ma anche attraverso ciò che è accaduto in passato.

In effetti, non è utile usare il termine “Occidente” per andare avanti, ma per ragioni diverse. Non possiamo affrontare i problemi del futuro con il pensiero del passato. Abbiamo bisogno di nuove risposte e di un nuovo vocabolario. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero e di un approccio veramente emancipatorio al cambiamento climatico e alla giustizia climatica.

Traduzione di Amanda Morelli e Nicholas Teluzzi

Foto: S. LaportaAp / Lapresse, GettyImages
Prima Pagina
11 dicembre 2022 21
I soccorsi dopo la frana di Casamicciola a Ischia

a pensione può aspettare. A ottantadue anni, Anthony Fauci, il medico più famoso d’America, non ha intenzione di tirare i remi in barca quando, a fine anno, lascerà tutti gli incarichi governativi. È ancora «appassionato, entusiasta e pieno di energie». Sfrondati gli impegni istituzionali, nella sua seconda vita ha appuntato conferenze e viaggi - anche in Italia - e l’immancabile memoir che inizierà a scrivere già il prossimo anno.

«Non giocherò a golf e non me ne starò seduto a far niente. Lavorerò con lo stesso impegno di adesso. La gente usa la parola pensione, ma è sbagliata», ci dice quando lo raggiungiamo, pochi giorni dopo la sua ultima conferenza stampa alla Casa Bianca. Atto finale di una lunga carriera da servitore

Protagonisti COLLOQUIO CON ANTHONY FAUCI DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI
IO IN LOTTA CON IL VIRUS E TRUMP HA LAVORATO CON SETTE PRESIDENTI. DURANTE LA PANDEMIA È STATO IDOLATRATO E MINACCIATO. ORA VA IN PENSIONE. IL MEDICO PIÙ FAMOSO D’AMERICA SI CONFESSA A L’ESPRESSO L 22 11 dicembre 2022

dello Stato. Ai National Institutes of Health (Nih), l’ente nazionale di sanità, aveva messo piede per la prima volta nel 1968, fresco di laurea. Dal 1984, invece, è al timone del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (Niaid). Fauci è stato lo scienziato a cui gli ultimi sette presidenti si sono affidati per fronteggiare le emergenze sanitarie: Aids, Sars, Ebola, influenza suina, Zika e West Nile. Fino agli anni neri della pandemia, quando ha tracciato la rotta di una nazione in tempesta.  Un “eroe nazionale” lo ha consacrato il presidente Joe Biden. E il catalogo agiografico è di sostanza: biografie, libri illustrati, documentari (uno molto intimo di Natio-

nal Geographic uscito lo scorso anno, un altro in arrivo in primavera per Pbs). Il suo ritratto concettuale, opera dell’artista Hugo Crosthwaite, è alla National Portrait Gallery di Washington, tra quelli di presidenti, celebrità e personaggi che hanno fatto la storia di questo Paese. Anche la cantautrice Joan Baez gli ha dedicato un quadro che lo raffigura, corredato da un affettuoso “Coraggio!” in italiano. Ma per l’altra metà d’America, Fauci è stato “il” nemico. Un sentimento d’odio irrigato dal suo ex titolare, Donald Trump, al tempo impegnato a politicizzare ogni stilla dell’emergenza sanitaria, intralciando il lavoro del virologo con uscitebislacche(ricorde-

Un’immagine di New York nel periodo più duro della pandemia. Qui siamo a Brooklyn, nella zona di Bushwick

Foto:
Stephanie Keith / Getty Images, Tom Williams / Getty Images
Manuela Cavalieri Giornalista
11 dicembre 2022 23 Prima Pagina
Donatella Mulvoni Giornalista

rete la saga della candeggina, indicata come portento contro il virus) e pericolose. Negli annali, di quell’era resterà un’immagine plastica: il medico che si copre disfatto il volto con una mano, costretto a sorbire l’ennesima sparata del presidente.

Schivo, ma estremamente garbato, Fauci attribuisce la sua proverbiale capacità di resistenza alla formazione nel quartiere popolare italoamericano di Bensonhurst, a Brooklyn, dove è nato alla vigilia di Natale del 1940. Nelle vene, sangue meridionale: di Sciacca la famiglia paterna, di Napoli quella materna.

Dottor Fauci, immaginavamo un buen retiro, magari in Sud Italia, a godersi un po’ di meritato riposo. E invece?

«E invece voglio continuare a scrivere, a tenere conferenze. Spero di ispirare le giovani generazioni di scienziati a impegnarsi nella scienza, nella salute e nel servizio pubblico. In realtà, però, verrò presto in Italia, già l’anno prossimo. L’Università di Siena mi conferirà un dottorato ad honorem. Ho molti amici, è probabile che rimanga per un po’». Perché non ha aspettato la fine del primo mandato di Biden?

«Con il presidente abbiamo un ottimo rapporto, ma ho pensato che questo fosse il momento migliore. Quando ho accettato l’incarico di essere consigliere di Joe Biden, mi ero riproposto di restare un anno. Ma non avevo previsto che avremmo avuto un problema ancora persistente con il Covid. Di conseguenza sono rimasto ancora. Ora però va molto meglio, l’anno scorso registravamo 800mila infezioni al giorno e fino a 4mila morti. Adesso siamo scesi a circa 300400 decessi».

Lei ha guidato il Paese durante uno dei frangenti storici più difficili. Cosa si porta dentro di quella fase?

«È stata un’esperienza terribile. Avevamo attraversato gli anni tremendi dell’Hiv, ma l’enormità della mortalità del Covid è stata senza precedenti. C’è però un aspetto positivo: il successo della risposta scientifica. Abbiamo riconosciuto il virus a gennaio del 2020 e undici mesi dopo avevamo un vaccino altamente efficace e sicuro che ha salvato milioni di vite. Anni fa sarebbe stato inimmaginabile».

Pensa che oggi il mondo sia più preparato ad affrontare una sfida simile?

«Sì, se impareremo la lezione degli ultimi

tre anni. Scientificamente eravamo abbastanza preparati, ma dal punto di vista della salute pubblica, almeno negli Stati Uniti, non come pensavamo».

La pandemia ci ha mostrato un’umanità profondamente interconnessa. Un approccio globale ci aiuterà anche, ad esempio, a fronteggiare l’emergenza ambientale?

«Penso che sia assolutamente necessario. Non avremo successo se non agiremo come una comunità globale perché tutto ciò che riguarda un Paese, invariabilmente si ripercuoterà sugli altri. Il Covid è l’esempio perfetto. Non importa che sia iniziato in Cina, tutti i Paesi del mondo ne sono affetti. Se non affrontiamo globalmente una malattia che può infettare chiunque nel mondo, non la sopprimeremo mai. È esattamente la stessa cosa quando si ha a che fare con il cambiamento climatico. Non riguarda un continente, ma tutto il mondo. Se vogliamo affrontare con successo il cambiamento climatico, dobbiamo farlo all’unisono come comunità globale. Altrimenti falliremo».   Quanto è stato complesso lavorare con Trump?

«È stato difficile. Ho grande rispetto per la carica, è stato doloroso contraddirlo pub-

Protagonisti
24 11 dicembre 2022
Donald Trump, Anthony Fauci e l’allora segretario alla Salute Alex Azar sul prato della casa Bianca nel 2020

blicamente. Ma si è reso necessario, per la mia integrità personale e scientifica, per adempiere alla mia responsabilità nei confronti del pubblico americano; e, indirettamente, dato che gli Stati Uniti hanno un ruolo di leadership a livello globale, anche nei confronti dei cittadini di tutto il mondo, compresi quelli italiani. Sono stato attaccato quotidianamente dalla destra fedele al presidente Trump. È un peccato che ci sia questa forte componente antiscientifica. Mi hanno fatto diventare il nemico pubblico numero uno, ma non mi lascio turbare».   Perché l’approccio alla pandemia è stato così politicizzato?

«Non ho mai visto una divisione intensa come quella che viviamo oggi. È molto controproducente, dobbiamo riorganizzarci e resettare tutto. Le differenze ideologiche sono salutari in una società in cui ci sono persone con opinioni diverse, purché siano rispettose l’una dell’altra e disposte a scendere a compromessi per il bene comune. Ma negli ultimi anni sono state così marcate che hanno, ad esempio, interferito nella ri-

«Io però tendo ad essere una persona molto realistica e umile. Quando prendi l’adulazione e il culto dell’eroe troppo sul serio, sei portato ad avere una valutazione irrealistica di te stesso. Non sono un eroe, sono solo Tony Fauci».

Conserva qualcuno dei gadget che la ritraggono?

«La gente me li manda e non voglio mancare di rispetto buttandoli. Ne ho diversi a casa».

Ha lavorato con sette presidenti. Quanto è difficile far prevalere le ragioni della scienza nelle stanze del potere?

«È stata un’esperienza positiva nella maggior parte dei casi. Sono persone con ideologie e circostanze storiche diverse. Ho avuto buoni rapporti con quasi tutti. Anche con Trump all’inizio, finché non ha iniziato a dire cose che ho dovuto contraddire. Ho un ottimo ricordo di George W. Bush. Mi ha dato il privilegio di essere uno degli architetti del President’s Emergency Plan for Aids Relief (il piano di emergenza per la lotta all’Aids, ndr), che ha permesso di salvare oltre 20 milioni di vite in tutto il mondo. Un risultato che, per molti aspetti, non ha eguali. Obama, ad esempio, è un intellettuale brillante, tra le persone più intelligenti che abbia mai conosciuto. Abbiamo dovuto affrontare alcuni problemi impegnativi, come l’Ebola in Africa occidentale e l’epidemia di Zika nell’emisfero occidentale. È stato sempre estremamente stimolante conversare con lui».

sposta alla pandemia».

Lei, sua moglie Christine Grady (a capo del Dipartimento di Bioetica dell’Nih) e le vostre tre figlie avete subito aggressioni e minacce di morte, tanto da rendere necessaria una scorta. Com’è stato quel periodo?

«Inquietante, inconcepibile. Non ha senso che una persona che ha dedicato tutta la vita a preservare la salute dei cittadini del suo Paese, scateni un tale grado di ostilità. Perché mai qualcuno dovrebbe poi voler minacciare la famiglia di un funzionario pubblico? Ma è successo».

Dall’altro lato della barricata, invece, è stata Fauci-mania: figurine, pupazzi, magliette, utensili d’ogni tipo con il suo faccione. Insomma, il culto dell’eroe nazionale.

Era giovanissimo quando, con Reagan, ha dovuto affrontare il primo capitolo dell’Hiv.

«Un uomo di grande integrità; ha fatto molte cose buone, ma non è stato altrettanto energico nel guidare il Paese contro l’Hiv. Impiegò troppo tempo per riconoscere che avevamo un problema serio con Hiv e Aids».  Lei ha detto che uno dei suoi sogni è quello di un vaccino contro l’Hiv. C’è speranza?

«Non lo so, a essere sincero. Stiamo cercando da tempo di svilupparlo. Abbiamo ottimi metodi per prevenire l’infezione con la profilassi pre-esposizione. Ma penso che i progressi scientifici che siamo stati in grado di realizzare con il Covid potrebbero essere utili per lo sviluppo di un vaccino per l’Hiv».

Foto: Drew Angerer / Getty Images
“CONTRADDIRE IL PRESIDENTE È STATO DOLOROSO MA NECESSARIO. PER I SUOI SUPPORTER SONO DIVENTATO IL NEMICO PUBBLICO NUMERO UNO. GLI STATI UNITI NON SONO MAI STATI COSÌ DIVISI” 11 dicembre 2022 25 Prima Pagina

CURIAMO NOI STESSI MA NON IL PIANETA

26 11 dicembre 2022
Il villaggio globale

Shelia McCarley nasce nei dintorni di Muscle Shoals, in Alabama, «su una terra che fu un tempo dei Cherokee». Cresce bevendo l’acqua del pozzo di casa sua e mangiando «i pesci gatto pescati con le sue stesse mani», in acque contaminate dal mercurio e da altre sostanze chimiche. Si trasferisce in California. Con la mezza età, la sua salute inizia a peggiorare. Sempre di più. Fino alla morte. Che rimane «un mistero per le centinaia di sanitari che la seguirono in uno dei più prestigiosi ospedali al mondo», a San Francisco.

È con la storia – non ascoltata – di Shelia McCarley che inizia e finisce “Infiammazione. Medicina, conflitto e disuguaglianza”, (Feltrinelli, 2022), l’ultimo libro di Raj Patel, scritto a quattro mani con Rupa Marya, medico e attivista. Economista politico indo-britannico, esperto di politiche alimentari, docente alla Lyndon B. Johnson school of public affairs dell’Università del Texas, autore di testi tradotti in tutto il mondo come “I padroni del cibo”, (Feltrinelli, 2008), con “Infiammazione” Patel torna a interrogarsi sulle grandi questioni del potere e dell’ingiustizia. Alla ricerca dei parallelismi tra sistemi biologici, economia politica, organizzazione sociale. A partire proprio dall’infiammazione del pianeta: la pandemia è stata solo la punta dell’iceberg. Ma non è solo il nostro corpo a bruciare: è tutta la società coinvolta, è l’intero pianeta Terra colpito da devastante infiammazione. In una interconnessione globale. E contro una crisi multipla, la soluzione non può che essere collettiva.

La storia di Shelia McCarley è molto particolare e insolita, ma lei e Rupa Marya la usate per mostrare il legame causale tra ciò che è individuale e ciò che è sistemico nella salute. Ci spiega meglio? «Il suo è un caso che riflette non tanto l’incapacità dei medici di diagnosticare precisamente le cause della morte, ma quella di riconoscere la lunga esposizione ai fattori legati alla presenza di un’industria chimica che ha oltraggiato la salute dei residenti e reso il suo corpo talmente debole da non riuscire più a

reagire a ciò che ne stava causando la morte. Non è dunque solo la storia di un corpo che viene avvelenato e nessuno sa perché, ma anche di come la medicina fallisca nel riconoscere l’importanza del racconto e dell’ascolto delle storie. Il mondo emerge attraverso il nostro corpo, ma per essere compreso va narrato in modo sociale e storico, non solo individuale».

Alla medicina occidentale convenzionale e alle diagnosi «in medias res», che disconnettono sintomo e contesto, voi opponete l’idea che «ogni diagnosi è una storia». Cosa non va nella diagnosi tradizionale?

«Che è così concentrata sull’individuo da farlo apparire colpevole di malattie fuori dal controllo individuale. Un esempio: vivi

L’ECONOMISTA RAJ PATEL E RUPA MARYA, MEDICO E ATTIVISTA, RIFLETTONO SU MALATTIE E RIMEDI NEL LIBRO “INFIAMMAZIONE”. E METTONO IN CRISI LA MEDICINA INDIVIDUALISTA

in un’area in cui non c’è cibo sano a prezzi ragionevoli, guadagni poco, sei abituato a mangiare cibi grassi. Vai dal dottore, gli dici che non ti senti bene. Lui ti diagnosticherà un diabete di tipo 2. Non dirà che occorre affrontare le ingiustizie di base. Dirà che è colpa tua e che devi mangiare meglio. Ti darà una medicina e “arrivederci”. Noi siamo contro l’individualizzazione di fenomeni sistemici, ma siamo per la scienza. Il nostro è un libro fortemente scientifico. È il sistema occidentale di diagnosi a essere non-scientifico, ignorando i dati di cui dispone». Sostenete che le ideologie coloniali siano vive e vegete e che il colonialismo non abbia soltanto a che fare con l’occupazione delle terre, ma anche con le dinamiche di potere attraverso le quali le «cosmologie» non capitalistiche vengono «uccise, sostituite». Cosa intendete? «Il colonialismo moderno si associa all’idea della missione civilizzatrice: gli individui sono separati dalla natura e possono farne ciò che vogliono. Per la maggior parte delle altre civiltà sulla terra, è un’idea as-

11 dicembre 2022 27 Prima Pagina Foto: Marek Musil / Mediadrumimages / Ipa, Ansa, Ipa
L’economista Raj Patel, sotto il medico e attivista Rupa Marya. A sinistra, la cerimonia del Burning Man nel deserto del Nevada Giuliano Battiston Giornalista

L'ingresso di emergenza del Linda university medical center dopo la sparatoria di San Bernardino in California il 2 dicembre 2015: un attacco di matrice jihadista che causò la morte di 16 persone e il ferimento di altre 24

surda. Ecco perché vanno sostituite, negate. Se la tua visione del mondo si basa sulla moderazione del consumo del mondo naturale, o su idee di reciprocità e rispetto, non si possono fare soldi: quelle idee vanno eliminate. La cosmologia che vede gli umani come l’apice della piramide è molto moderna e unicamente capitalistica. In realtà, siamo un piccolo nodo in un circolo molto più ampio, parte di altri sistemi, di altre reti vitali e di più ampi sistemi sociali». Il nostro corpo è in fiamme, la società è in fiamme, il pianeta è in fiamme: «il mondo è organizzato per andare in fiamme». Ma la medicina è radicata nella stessa cosmologia coloniale che causa l’infiammazione. Tanto che «la storia della medicina moderna è la storia del colonialismo». Una tesi forte... «Siamo abituati a considerare i medici soltanto come coloro che aiutano, ma fanno parte della stessa relazione di potere del resto della società. La medicina non è fuori dalla società, ne è un prodotto. Se la società è coloniale, patriarcale e razzista, lo sarà anche la medicina. Un sondaggio rivela che, negli Usa, per il 40 per cento degli studenti del primo anno delle facoltà mediche i neri hanno la pelle più dura e resistente. Non è vero, ma consente al razzismo di perpetuarsi. Dopo 4 anni di studi, continua a pensarlo il 20 per cento degli studenti bianchi. Il razzismo e il patriarcato non si fermano all’ingresso dei college: la medicina è sempre sta-

ta parte della storia del colonialismo». C’è però una medicina attiva «nella resistenza contro la cosmologia coloniale», la medicina profonda (deep medicine). Di cosa si tratta?

«La medicina profonda è un processo e un progetto. L’idea di base è che non siamo individui, ma sistemi dentro altri sistemi, e che la rivoluzione del pensiero medico passa attraverso lo studio dei modi nei quali i sistemi interagiscono creando benessere o malattie. La medicina profonda espande la pratica della diagnosi, facendo in modo che una storia venga raccontata da più voci. Negli Usa, un medico impiega 20 secondi prima di zittirti, se provi a raccontare come ti senti. In realtà, non esiste una sola storia, ma una comunità di voci che generano malattia e guarigione. Hanno a che fare con la comunitàincuisivive,interroganolenostre relazioni con aria, terra, acqua. Il nostro corpo va ricollocato dentro una rete di cosmologie e reti vitali. Ma sia chiaro: si tratta di una scienza rigorosa, non di folclore». Suggerite di riconnettere ciò che è stato separato, parlate di comunità di cura e attenzione, di immaginazione radicale, con enfasi sulle pratiche collettive. La tendenza però è opposta: trovare soluzioni individuali a problemi sistemici, come mostra il mercato del “benessere”…. «Oggi vengono offerte terapie individualizzate per “decolonizzarsi”. Ma il self-care, la cura di sé individualistica, non è medicina profonda, la quale rimanda a cambiamenti sistemici, tramite azioni necessariamente collettive. Per una trasformazione radicale occorre avere cura con gli altri, farlo insieme, non solo trovare tempo per lo yoga. La nostra società è costruita per rendere infiammato il nostro corpo. Se non ci occupiamo delle cause profonde dell’infiammazione, non c’è yoga che tenga. La buona notizia è che – che si tratti di organizzazioni locali di contadini, di sindacati o gruppi di mutualismo – sempre più c’è una sovrapposizione di battaglie e rivendicazioni. Sempre più si riconosce che viviamo dentro una “policrisi”, una crisi multipla, che è climatica, economica, della salute. Viviamo tempi bui: senza la gioia che viene dallo stare con gli altri, non riusciremmo ad affrontare una sfida così lunga e impegnativa».

28 11 dicembre 2022 Foto: Mintaha Neslihan Eroglu / Anadolu Agency / Getty Images Prima Pagina Il villaggio globale
30 11 dicembre 2022 Politica e lobbies DI VITTORIO MALAGUTTI E CARLO TECCE PHILIP MORRIS RINGRAZIA UNA NORMA NELLA LEGGE DI BILANCIO FA RISPARMIARE ALLA MULTINAZIONALE USA DECINE DI MILIONI DI TASSE. A VOLERLA IL VICEMINISTRO ALL’ECONOMIA LEO E IL RESPONSABILE DELL’AGRICOLTURA LOLLOBRIGIDA. ENTRAMBI DI FDI

Questa è la storia di una norma orfana e di un regalo da decine di milioni di euro per Philip Morris, la multinazionale americana delle sigarette.

È l’ultimo venerdì di novembre e anche l’ultimo budello nel calendario per confezionare la legge di Bilancio sotto le insegne del governo Meloni. Al ministero dell’Economia si scopre che il testo ancora in bozza contiene uno sgravio fiscale da 161 milioni di euro nel triennio per i produttori di tabacco riscaldato. E dunque soprattutto per Philip Morris International, il gruppo Usa che da sempre spadroneggia in Italia con una proficua attività lobbistica. La paternità di quel breve paragrafo, al comma 1 lettera b dell’articolo 28, poi numerato 29, rimane ignota per giorni. Non ne sanno al gabinetto del ministro Giancarlo Giorgetti. Non ne sanno al dipartimento legislativo. E pure Italo Volpe, che il viceministro Maurizio Leo ha riportato al ministero tra i suoi collaboratori, non ne vuole sapere. Il leghista Federico Freni è sottosegretario uscente e rientrante, non ha subìto interruzioni fra Mario Draghi e Giorgia Meloni e, ugualmente senza interruzioni né esitazioni, sostiene con passione il mercato in rapidissima espansione del tabacco riscaldato di cui Philip Morris è in Italia una sorta di monopolista con una quota di circa l’83 per cento. Stavolta però Freni non ne sa di più. Le aziende che fatturano principalmente col tabacco tradizionale, invece, pretendono di sapere. Perché devono sorbirsi rialzi di accisa per 819 milioni di euro nel triennio, che valgono fra i 15 e i 20 centesimi sul prezzo dei pacchetti. Tra l’altro i rincari colpiscono maggiormente i marchi di fascia bassa, invece quelli di Philip Morris sono per lo più compresi nella fascia di prezzo più alta.

È ancora un venerdì, il primo di dicembre, l’avvocato Giacomo Aiello, il capo di gabinetto del ministero dell’Agricoltura, su ordi-

11 dicembre 2022 31
Prima Pagina
L’impianto per la produzione di sigarette Philip Moorris di Kutna Hora nella Repubblica Ceca Carlo Tecce Giornalista Vittorio Malagutti Giornalista

Politica e lobbies

ne del ministro Francesco Lollobrigida convoca una riunione urgente «al fine di esaminare le problematiche inerenti all’attuazione dell’articolo 29 della legge di Bilancio». Nel mentre Philip Morris ha avviato una massiccia campagna di informazione annunciando investimenti e assunzioni. Aiello ha invitato al ministero le società più coinvolte: Japan Tobacco con Didier Ellena, British American Tobacco con Roberto Palazzetti, Philip Morris Italia con Marco Hannappel. E poi ha invitato un solo politico di governo: il viceministro Maurizio Leo, già deputato di Alleanza Nazionale e adesso di Fratelli d’Italia dopo la mancata elezione a una tornata suppletiva romana contro Roberto Gualtieri. Correzione. La paternità di quel breve paragrafo, che coccola Philip Morris e randella la concorrenza, non è più ignota. È materia del dipartimento Finanze e perciò degli uffici del viceministro Leo. S’era scritto di recente che Giulio Tremonti fosse il tributarista e il fiscalista di riferimento di Meloni, va riscritto che il Giulio Tremonti di Meloni è il professor Maurizio Leo.

Il primo venerdì di dicembre all’Agricoltura, a trattare in ossequio al dogma dei “saldi invariati”, che sarebbe non un euro in più o in meno, si ritrovano il ministro (e cognato di Meloni) Lollobrigida, il viceministro Leo in delegazione con il già citato Volpe e il capo della segreteria Edoardo Arrigo, un professionista poco più che trentenne, reclutato al ministero direttamente dalle fila dello studio tributario dello stesso Leo, dove era approdato fresco di laurea nel 2016. All’epoca il giovane Arrigo era accompagnato da un buon curriculum (laurea alla Luiss di Roma e master all’Università di Amsterdam) e una parentela eccellente. Sua madre si chiama Gabriella Alemanno, sorella dell’ex sindaco di Roma, Gianni, e protagonista di un lungo percorso nell’amministrazione fiscale. Il ministero dell’Economia, azionista unico, ha appena designato Gabriella Alemanno nel Consiglio di Ita Airways, l’ex Alitalia adesso in vendita. Tra i tanti incarichi ricoperti in passato c’è anche quello di direttore strategie dei Monopoli, l’ente di Stato a cui è affidato il controllo del mercato dei tabacchi e la riscossione delle relative imposte. L’allora dirigente del ministero delle Finanze venne scelta dal gover-

MILIONI

Il mancato gettito fiscale per effetto della norma sul tabacco riscaldato prevista nella legge di Bilancio 2023

24,2%

La quota di fumatori sul totale della popolazione italiana nel 2022, due punti percentuali in più rispetto al 2019

9,9

MILIARDI

Il numero di stick di tabacco da riscaldare venduti in Italia nel 2021, il 60 per cento in più rispetto al 2020

MILIARDO DI EURO

Il giro d’affari di Philip Morris in Italia nel settore del tabacco riscaldato in base al bilancio 2021 della filiale italiana della multinazionale

83%

La quota di Philip Morris del mercato italiano del tabacco riscaldato

no Berlusconi nel 2003 per poi trasferirsi al vertice dell’Agenzia del Territorio cinque anni dopo, ancora su nomina dell’esecutivo di centrodestra. Va da sé che quando nel 2013 Arrigo venne selezionato da Philip Morris per uno stage estivo nella sede di Losanna, i vertici della multinazionale non erano all’oscuro delle relazioni famigliari dello studente italiano, ormai prossimo alla laurea, che per tre mesi frequenterà la sede della holding svizzera. Suo zio Gianni aveva appena lasciato il Campidoglio sconfitto da Ignazio Marino e la mamma era stata tra le figure di spicco dell’apparato pubblico che vigila sul mercato italiano delle sigarette. A dicembre del 2016, chiuso lo stage in Svizzera, dopo la laurea e il master, a 25 anni, Arrigo venne accolto come esperto di fiscalità internazionale nello studio fondato da Leo. Il giovane tributarista condivide con il viceministro anche la militanza politica. Nel 2017 il suo nome compariva tra gli organizzatori di Atreju, la festa annuale di Fratelli d’Italia. Assieme a Volpe (gabinetto) e Umberto Maiello (legislativo), Arrigo è sbarcato presto al ministero e ha potuto assistere alle fasi di lavorazione della legge di Bilancio.

32 11 dicembre 2022
161
1

IL NUMERO DUE DEL MEF HA PORTATO AL MINISTERO UN SUO GIOVANE COLLABORATORE NELLO STUDIO DI TRIBUTARISTA. CHE AVEVA FATTO UNO STAGE PRESSO LA MULTINAZIONALE

La lettera b del comma 1 dell’articolo 29 non è incomprensibile come lo sono abitualmente le modifiche che intervengono a scrostare o a incrostare la stratificazione normativa. Questo paragrafo si riferisce a una legge del 1995: «All’articolo 39-terdecies, nel comma 3, le parole: “e al quaranta per cento dal 1° gennaio 2023”, sono sostituite dalle seguenti: “al 36,5 per cento dal 1° gennaio 2023, al 38 per cento dal 1° gennaio 2024, al 39,5 per cento dal 1° gennaio 2025 e al 41 per cento dal 1° gennaio 2026”». In pratica l’accisa per il tabacco riscaldato (oppure definito senza combustione) stava per schizzare al 40 per cento e così viene contenuta a 36,5 e gradualmente instradata - ma c’è tempo per ricredersi - verso il 41 per cento. Nel 2019, quando la diffusione di sigarette a tabacco

Sopra, a sinistra: un lavoratore nei campi di tabacco fornitori della Philip Morris presso Caserta. A destra: sigarette prodotte nell’impianto di Kutna Hora

riscaldato era ancora lontana dai 2 miliardi di pezzi e perciò marginale per i fumatori, il primo governo di Giuseppe Conte, formato da leghisti e grillini, dimezzò le tasse su questo specifico prodotto. Nel giro di un paio di anni gli “stick” da riscaldare hanno raggiunto vendite per 6 miliardi di pezzi e lo stesso Conte, questa volta in versione giallorossa alleato con i piddini, varò un rincaro di 5 punti annui per l’accisa, fissata al 30 per cento per il 2021.

L’anno scorso Mario Draghi ha respinto le pressioni di Philip Morris e compagnia e si è giunti a un’accisa del 35 per cento nel 2022 con la prospettiva di arrivare al 40 nel 2023 su una previsione di oltre 15 miliardi di pezzi venduti. Finché, nelle scorse settimane, non è intervenuto Leo. E quel breve paragrafo, invocato da alcuni leghisti e stipato in chissà quale fureria del Tesoro, è infine comparso nella zona della legge di Bilancio sorvegliata dal viceministro con delega per tutti gli affari fiscali. Secondo la relazione tecnica del ministero, per effetto della nuova norma infilata nella legge di Bilancio, l’incasso per le casse pubbliche si riduce di 85,24 milioni di euro nel 2023; 58,81 nel 2024, 17,23 nel 2025. Al conto va aggiunto uno sconto di 19,2 milioni di

11 dicembre 2022 33 Prima Pagina Pagine 28-29: J. Vostarek /Ipa. Pagine 30-31: A.Mamo –Eyevine, Reuters

euro per le sigarette elettroniche nel 2023. Per il prossimo anno, quindi, il prelievo fiscale di 235 milioni di euro dal settore delle sigarette classiche calerà fino a 130 milioni. Con la giustificazione, infondata, che un fumo sia più letale dell’altro e tacendo della scienza che ritiene nocivi l’uno e l’altro, il tabacco riscaldato come quello contenuto nelle normali sigarette.

Con la legge di Bilancio il governo, e per esteso la politica, promuovono una sorta di piano industriale a tutto vantaggio dei quasi monopolisti degli “stick” da riscaldare (Philip Morris) e al relativo indotto agricolo. Infatti, gli agricoltori aderenti a Coldiretti sono in assoluto i principali fornitori per questo tipo di sigarette. La convergenza fra la multinazionale e la grande associazione di categoria è inscalfibile. Il ministro Lollobrigida ha capito con saggezza che non può gestire l’Agricoltura disturbando il patto. Al tavolo ministeriale, rispetto al più riflessivo viceministro Leo, Lollobrigida era inflessibile sul punto. A scortare il provvedimento alla Camera, attento a evitare sorprese, ci sarà il sottosegretario Freni.

La strategia di Philip Morris è la risposta a un mercato che sta cambiando a gran velocità e mette a rischio gli utili

Politica e lobbies

aziendali. In Italia i fumatori sono tornati a crescere: l’ultima rilevazione dell’Istituto superiore di sanità, pubblicata a maggio, annota che il 24,2 per cento della popolazione consuma tabacco, il 2 per cento in più rispetto a tre anni fa. Le statistiche, però, segnalano pure che è mutato il modo di fumare. Le normali sigarette, con l’aggiunta di sigari e tabacco da rollare, hanno visto diminuire i consumi da poco più di 80 miliardi a circa 70 miliardi di pezzi. Il calo delle sigarette tradizionali è stato di fatto compensato dall’incremento degli acquisti degli “stick” da inserire negli appositi riscaldatori, che nel giro di sei anni sono lievitati da zero a quasi dieci miliardi di pezzi venduti nel 2021. Questi numeri fanno dell’Italia il mercato di gran lunga più ricco in Europa per il tabacco riscaldato con una quota del 30 per cento sui 4,7 miliardi di euro di vendite complessive registrate nel 2020 da Eurostat nei 27 Stati dell’Unione. La scommessa su quelli che in bilancio vengono definiti «prodotti a potenziale rischio ridot-

IL MERCATO DELLE SIGARETTE TRADIZIONALI È IN CALO. QUELLO DEGLI STICK IN CRESCITA. LO SCONTO FISCALE GRANTISCE PROFITTI A PM, CHE DEL COMPARTO È QUASI MONOPOLISTA

il viceministro all’Economia Maurizo Leo

to» ha fruttato incrementi a doppia cifra per il fatturato della filiale italiana di Philip Morris. Nel 2021 i marchi di sigarette classiche hanno perso quote di mercato. I ricavi legati al tabacco riscaldato, al contrario, sono quasi raddoppiati rispetto all’anno precedente (1,1 miliardi anziché 677 milioni) e per la prima volta hanno superato gli introiti del fumo tradizionale, di poco superiore al miliardo. Anche i profitti corrono. L’anno scorso gli utili sono aumentati del 25 per cento: da 51,7 a 63,8 milioni di euro. La differenza la fanno le accise, che per gli “stick” da riscaldare sono molto più basse. Più dritta: Philip Morris guadagna in Italia grazie al traino del tabacco riscaldato, protetto dal fisco di Roma.

Prima Pagina 34 11 dicembre 2022 Foto: Monaldo / Reuters, Agf
Marco Hannappel, amministratore delegato di Philip Morris Italia. Sopra:
L'assistente perfetto per la conservazione degli alimenti haier.it

Non solo contante si paga con i polli

Dopo l’aumento della soglia dei pagamenti in contanti, la Lega intende proporre anche la reintroduzione delle sputacchiere nei bar e nei tram, l’estirpazione dei molari mediante tenaglia (o spago legato alla maniglia di una porta) e la macellazione degli animali in casa, con la concia delle pelli appese festosamente su balconi e ballatoi. Si tratta di pratiche profondamente legate alle tradizioni popolari, sostiene Salvini, e gli studiosi gli danno ragione: «È vero, si tratta di autentiche tradizioni popolari. In Europa sono state in vigore fino alla fine del Settecento, ma sono ancora in uso in alcune zone interne del Borneo. È importante che qualcuno si preoccupi di riscoprirle».

Il fenomeno Antropologi di tutto il mondo stanno convergendo in Italia per studiare da vicino il fenomeno del neo-primitivismo. Il pagamento in contanti, srotolando banconote unte legate con

l’elastico o sortendo monete sonanti dalla bisaccia appesa alla cintura, è solo il primo passo verso la restaurazione di usi e costumi che le norme igieniche borghesi hanno inteso soppiantare al solo scopo di mortificare lo spirito popolare. Oltre al contante, si potrà pagare anche con polli, uova e caciocavalli, secondo l’antico spirito del baratto. Lungo i litorali del Veneto verranno ammessi anche i pagamenti in conchiglie.

Gli sport La Lega promuove diversi sport un tempo molto praticati nelle valli prealpine, e poi soppressi dall’ipocrita cultura del politicamente corretto. Tra questi, la palla arroventata e il lancio del coltello. Il secondo è abbastanza noto: si lega una donna a un albero e si lanciano coltelli tutto attorno alla sua figura. Rari gli errori: i celebri lanciatori di coltello della Val Bovazza, per esempio, sbagliavano in media solo un tiro su dieci. In una canzone popolare del luogo, “Il decimo colpo”, cantata tradizionalmente dalle donne, l’invocazione era ricevere il colpo fatale pur di non avere mai più a che fare con i maschi del luogo. Meno nota la palla arroventata:

dopo avere arroventato una palla di ferro fino a renderla incandescente, gli uomini se la lanciavano tra loro, a volte di valle in valle, fino a che uno di loro, il vincitore, riusciva a tenerla in mano perché si era finalmente raffreddata. Vietata dagli spagnoli nel Seicento, ora una proposta di legge dei deputati leghisti Rosita Sbréndolo e Alan Parazzoni propone di reintrodurla.

Il pub modello Salvini ha fatto visita al pub di Cozzonate nel quale, in via sperimentale, non solo non si accettano carte di credito, ma la birra si spilla da un autentico otre di capra e i clienti si accomodano per terra, sdraiati su pelli di vacca e lettiere di paglia. Un rarissimo jukebox a molla e la cassa del 1950, rotta dal 1951, rendono inconfondibile l’atmosfera vintage del locale. Il barman, Alex Gigugini, è l’unico influencer al mondo che non sa di esserlo: i video con le sue bestemmie quando rovescia le birre inciampando nei clienti hanno milioni di visualizzazioni, ma Alex non può saperlo perché non è mai riuscito ad accendere il suo smartphone.

Riforma della Zecca Per favorire il grande ritorno del denaro contante, la Lega punta su una riforma della Zecca. «Le mortificanti banconote oggi in uso - spiega il senatore Robert Magagnozzi - vanno sostituite con denaro più accattivante, più piacevole da maneggiare. Grazie alla carta oleata, per esempio, si possono ave-

re banconote già unte appena fresche di conio. I tagli più piccoli saranno arricchiti di ditate e numeri di telefono scritti a penna. Sono allo studio anche le monete col buco, che è possibile tenere appese alla cintola infilandole in una corda. Ci piacerebbe molto ricominciare anche la produzione di gettoni del telefono. Per ovviare alla scomparsa delle cabine con i telefoni a gettoni, ci sarà un bando, destinato ai giganti della telefonia mondiale, perché si produca, solo per l’Italia, uno smartphone con apposita fessura per poter introdurre i gettoni».

Michele Serra Satira Preventiva 36 11 dicembre 2022 Illustrazione: Ivan Canu
La Lega di Salvini propone di tornare al vecchio e sano sistema del baratto. Più complicato il progetto di ripristinare le cabine telefoniche con l’apparecchio a gettoni

I DEM VANNO IN FRANTUMI

RAPPORTI INTERROTTI CON I TERRITORI. RINCORSA PERDENTE AI POPULISTI. DIALETTICA INTERNA NULLA.

CONGRESSO NATO MALE. LA CRISI DEL PARTITO VISTA DA UN VECCHIO SAGGIO

COLLOQUIO CON LUIGI ZANDA DI SUSANNA TURCO

passaggi difficili sono fatti così: stanano anche chi era abituato a lavorare nella penombra. Così accade a Luigi Zanda, 80 anni, uno dei saggi più ascoltati nel Pd, sollecitato a dire la sua ancora di più ora che, dopo vent’anni, non siede più in Senato. Mentre i dem sono disorientati in Parlamento, schiacciati tra l'attivismo di Conte e del Terzo Polo. Squassati dentro da una corsa alla segreteria dove il profumo di futuro si avverte solo a tratti, alternato a quello di una scissione, ma dove contemporaneamente un Comitato costituente di 90 persone (tra cui Zanda stesso) è chiamato a scrivere il manifesto del “nuovo Pd”. Ammesso che il nuovo arrivi.

Domanda delle cento pistole: il Pd riuscirà a sopravvivere?

«Le sue sorti, dentro un quadro nel quale la sinistra è in difficoltà in tutto l’Occidente, sono legate alla capacità di ricostruire,

intorno ai suoi principi di cultura politica, un partito in grado di offrire soluzioni ai problemi di un Paese moderno del ventunesimo secolo. In poche parole, si tratta di trovare una chiave che metta insieme un vero welfare non assistenzialistico con uno sviluppo stabile del lavoro, dell’economia, dell’industria e della produttività».

La capacità di “offrire soluzioni”, dice lei: non è proprio ciò che manca ora al Pd?

«Parto da un punto di vista diverso: penso che il Pd sia nato senza una seria riflessione sulla sua identità e, di conseguenza, sulla sua linea politica. Aveva ragione Emanuele Macaluso, quando diceva che serviva più tempo per costruirlo: nell’immediato ha funzionato, ma poi è successo come a Ischia, è franato tutto. Penso anche che nella fu-

38 11 dicembre 2022 Politica / Discussione
a sinistra
UN
Susanna Turco
I
Giornalista

sione tra Ds e Margherita si sia persa la forma partito, da sempre un elemento di forza di tutti i partiti di sinistra».

In che modo si è persa? «C’è stata una tendenza a trasformare un partito organizzato in un partito liquido: di conseguenza si è determinata una struttura che ha reso molto labili i rapporti tra territori e vertice. Sono stati creati organismi pletorici, come la direzione nazionale e l’assemblea nazionale che, proprio per la loro composizione, solo di rado hanno affrontato grandi nodi politici. E il più delle volte hanno finito col deliberare all’unanimità o quasi. È venuta meno la dialettica interna, che è stata lasciata alle interviste sui giornali e alle dichiarazioni alle agenzie di stampa».

Assistiamo ad affascinanti discussioni, in questi giorni, circa il grado di critica al liberismo nella Carta dei valori del 2008. Un dibattito attualissimo!

Luigi Zanda ha da poco compiuto ottanta anni. È stato senatore dal 2003 al 2022, e non si è ricandidato alle ultime elezioni. Dal 2013 al 2018 è stato capogruppo del Pd al Senato

«A me non è mai piaciuto attribuire le responsabilità a quelli che c’erano prima di noi. Dobbiamo spostare l'attenzione a ciò che ci serve ora. Un nuovo manifesto che disegni i cambiamenti necessari per il Pd. La Carta dei valori del 2008 a me piaceva. Farci polemica oggi non serve a niente». Però se si rileggono le cronache di quei giorni in cui ci si accapigliava se scrivere “famiglia” o “famiglie” e magari si dimenticava di “antifascismo”, si capiscono già un sacco di cose sul Pd.

«I problemi della sinistra nelle democrazie occidentali sono l’effetto di fenomeni di lungo periodo. Penso al crollo del muro di Berlino, al fallimento del comunismo in Urss, ai colpi di maglio inferti dalle dottrine thatcheriane e reaganiane. Poi, sì, c'è la cronaca, ma è un’altra cosa».

Voliamo molto più basso. L’offerta politica dell’opposizione è questa: i Cinque Stelle, il Pd, il Terzo polo. Non il muro di Berlino, la Thatcher e Reagan. Cosa può fare l’elettore di centrosinistra?

«Capisco che sia difficile da accettare, ma se non ricostruiamo una base di cultura politica, per il Pd il futuro diventa molto, molto difficile. Perché la sua natura è profondamente diversa da quella degli altri partiti d’opposizione. Il M5S nasce dal populismo, e Conte vi sta iniettando una robusta dose di demagogia. Calenda e Renzi sono due campioni di pragmatismo e abili interpreti della tattica politica. Il Pd, anche se non dovesse rendersene conto, è erede di importanti culture politiche che gli consentono di crescere solo sulla base di un pensiero, di un orizzonte di lungo periodo, di una visione strategica».

Abbiamo la controprova?

«Quando il Pd tradisce la sua vocazione e si mette a inseguire il populismo, e lo ha fatto, perde consensi»

Ad esempio?

«Non si modifica frettolosamente il Titolo V della Costituzione per parare i colpi della Lega».

Questo era il governo Amato.

«Non si vota la riduzione del numero dei parlamentari per far felice Conte».

Questo è Zingaretti.

«Non si abolisce il finanziamento pubblico dei partiti perché il populismo incalza». E questo è l'Enrico Letta ante-Renzi. Calenda che dialoga con Meloni insegue

11 dicembre 2022 39 Prima Pagina Foto: M. Scrobogna –
LaPresse

il populismo? Finirà col sostenerla?

«Calenda è un personaggio notevole, dico davvero. Ha una vivacità di movimento politico molto elevata. Così elevata che è difficile persino prevedere dove sarà domani mattina».

C'è chi dice che il Comitato costituente del Pd dovrebbe prendere esempio dalla Costituente del 1946: senza una guida, non si andrà da nessuna parte.

«Non facciamo paragoni fuori luogo. Sono due cose talmente diverse che usare il termine “costituente” per un semplice comitato del Pd mi mette a disagio. Nella mia testa, di Costituente ce ne è stata una sola: era formata da grandi personalità elette, che hanno avuto il tempo necessario per lavorare, delle regole, erano supportate dal pensiero di forze politiche culturalmente molto attrezzate. In ogni caso, penso che i lavori su natura e linea politica del Pd dureranno molto più di quanto il mio partito

smetterei di tirarlo in ballo per vicende del Pd che non lo riguardano più».

Quando governava Renzi lei, capogruppo al Senato, fu tra i pochi a non essere né tra i fan né tra i detrattori. Come si fa l’opposizione al governo più a destra della storia repubblicana?

«Serve una opposizione seria. Non lo è quella di Conte che dà del guerrafondaio a chi vota aiuti all’Ucraina. Non sarebbe serio fare guerra alla legge di bilancio con l’ostruzionismo, rischiando l’esercizio provvisorio. E non mi è nemmeno piaciuto l'approccio con cui Calenda è andato a casa di Giorgia Meloni. Opposizione seria significa presentare emendamenti che abbiano le necessarie coperture, argomentare perché ci faccia molto male incrinare i rapporti diplomatici con la Francia, illustrare quali siano i danni prodotti dall’innalzamento del contante. E poi ogni tanto sarebbe utile qualche novità: una vecchia regola insegna che quando si è in difficoltà bisogna sempre cercare di sparigliare. Capisco bene che possano essere più visibili gli strilli di Conte, ma non credo che convenga al Pd seguirlo su questo nuovo stile».

Una vittoria di Schlein significherebbe rottamare l’attuale classe dirigente?

abbia previsto. Non basterà certamente un mese, a cavallo delle vacanze di Natale». Non le sembra tuttavia che servirebbe qualcuno che guidi il percorso?

«Non dovrebbe fare a me questa domanda, io ero del parere che al Pd servisse un segretario di transizione che avesse come prima responsabilità quella di guidare un cammino di ridefinizione del partito. Un processo che non può durare meno di un anno. Solo alla fine sarebbe diventato possibile eleggere un vero segretario».

È finita con una corsa tra Schlein, Bonaccini, Ricci, De Micheli. Una corsa all’ombra di Renzi, ha scritto Lucia Annunziata.

«Non sono mai stato renziano, ma non mi piace questo modo di catalogare dirigenti attribuendo loro continuità con fasi superate della storia del partito. E non mi sembra che nel Pd ci sia un fantasma da esorcizzare. Renzi ha iniziato una nuova strada:

«Sulla corsa alla segreteria sospendo il giudizio. Credo che le questioni da valutare siano in che modo i candidati pensano di continuare la riflessione su natura e linea politica del Pd; quale è la loro idea sulla forma partito; quale è la loro posizione sulle grandi questioni di politica estera che toccano l’Italia; infine, quali siano le alleanze da stringere. E spero, a proposito, di non sentire più affermazioni generiche del tipo “dobbiamo privilegiare ciò che ci unisce rispetto a ciò che ci divide”».

Schlein, alla domanda su cosa pensi del comunismo, ha risposto che è nata negli anni Ottanta. Anche Giorgia Meloni talvolta ha dato una risposta simile. C’è un momento in cui un giovane politico può dire “non è più un problema mio”?

«Bisogna sapere esprimere opinioni anche su avvenimenti passati: non solo sul comunismo, ma anche sulla rivoluzione francese e americana. O su Romolo e Remo».

Il Pd è sull'orlo del baratro o del declino? «Non mi può fare questa domanda perché io sono inguaribilmente un ottimista».

40 11 dicembre 2022
Prima Pagina Politica / Discussione a sinistra
CHE DÀ DEL GUERRAFONDAIO A CHI VOTA GLI AIUTI ALL’UCRAINA NON FA UN’OPPOSIZIONE SERIA. CALENDA? HA UNA VIVACITÀ ELEVATA. È DIFFICILE PERSINO DIRE DOVE SARÀ DOMANI”
“CONTE

di LUIGI VICINANZA

C’è una questione meridionale dentro il Pd senza identità

Esiste una “questione meridionale” all’interno del Pd in cerca di identità. Il Sud infatti è assente nell’analisi socio-economica e nella prassi politica di quel partito che dei grandi meridionalisti del recente passato avrebbe dovuto raccogliere l’eredità. Assenza ampiamente ricambiata dagli elettori. Un partito cannibalizzato dai Cinque Stelle, muto sulle grandi questioni sociali e ambientali, incerto persino sul disastro di Ischia, disarticolato nella struttura organizzativa e nei meccanismi decisionali.

«Sullo stato dei partiti a Napoli non mi pronuncio. Anche perché non ci sono, non saprei di che parlare», ha rimarcato il sindaco della capitale del Sud, Gaetano Manfredi. Giudizio netto, pronunciato alla presentazione del libro di Stefano Fassina “Il mestiere della sinistra”. Visto il contesto, è apparso chiaro all’uditorio a chi si stesse riferendo. Un partito inesistente in grado di sopravvivere però nei gangli decisionali delle amministrazioni del Mezzogiorno solo grazie alla leadership e al consenso raccolto intorno ad alcune personalità: lo stesso Manfredi a Napoli e Antonio Decaro a Bari, i governatori della Campania e della Puglia, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, due

dem irregolari, mal sopportati dalla nomenclatura romana. Eppure sono le uniche due regioni meridionali ancora governate dal centrosinistra. Pensare che nel 2015 tutti i presidenti del Sud erano targati Pd. Sono caduti uno dopo l’altro per un disfacimento glocal, misto di errori locali e di disattenzioni globali.

“È sparito il Sud” fu il titolo di una copertina dell’Espresso del settembre di sette anni fa, Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Da allora le lande meridionali si sono trasformate ancor più in terre incognite, dove si amplificano tutti i mali della nazione. L’ultimo rapporto Svimez, presentato alla Camera a fine novembre, prevede per il prossimo anno una crescita stentata del Pil, appena +0,5 per cento su scala nazionale. Ma scomponendo territorialmente il dato, si scopre che la ricchezza delle aree centrosettentrionali dovrebbe crescere dello 0,8 mentre il Mezzogiorno va in recessione con -0,4. Il Sud dunque come campo di battaglia per ridurre le diseguaglianze? Per maggiore giustizia sociale? Gli indizi non fanno ben sperare.

Nella corsa al Nazareno il Pd appare indirizzato verso un orizzonte sempre più nordista. Il tandem Stefano Bonaccini-Dario Nardella ri-

propone un partito territoriale tosco-emiliano, capace nell’amministrare bene ciò che hanno sempre amministrato. Anche se in Toscana pezzi strategici di territorio sono stati conquistati dalla destra, da Pisa a Siena. Forse, proprio per scrollarsi di dosso il marchio di fabbrica i due hanno scelto di cominciare da Bari la campagna congressuale.

Con Elly Schlein invece si profila il partito dell’alterità, delle libertà individuali, della critica al neoliberismo, un radicalismo giusto quanto vago. Emiliana è anche Paola De Micheli e marchigiano di Pesaro (quasi romagnolo, verrebbe da dire) Matteo Ricci. Tutti espressione di un’Italia bella, invidiabile, ma lontana dalle tensioni laceranti del Paese. È toccato a un altro emiliano-romagnolo, Matteo Lepore, sindaco di Bologna, ammettere che al partito democratico andrebbe aggiunta una parola-chiave, strategica per l’azione futura: lavoro. Un’ammissione di colpa per un partito arrivato terzo, dopo Fratelli d’Italia e M5S, nel voto operaio delle fabbriche del Nord. Estraneo sia al lavoro tradizionale sia alla parcellizzazione lavorativa della contemporaneità; distante da quella “precarietà persistente”, come la definisce Svimez, che affligge nelle regioni del Mezzogiorno un lavoratoresuquattro.Insomma,laproposta congressuale dem al momento sembra una replica dell’esistente: un partito borghese, dei garantiti, lontano dalle periferie urbane e sociali. Senza Sud.

11 dicembre 2022 41 Prima Pagina Foto: Xxxxx Xxxxxx Il commento
I problemi del Sud sono completamente scomparsi dalle analisi e dall’azione politica di un partito che fatica a dotarsi di un’immagine chiara anche su scala nazionale

La manovra del governo

SEDOTTI E BASTONATI

DI GLORIA RIVA

Leggendo il testo della manovra di bilancio, gli economisti che si occupano di contrasto alla povertà hanno fatto un balzo sulla sedia. A sorprenderli – per l'originalità, sicuramente - è stata l'inedita definizione di occupabilità, ovvero di chi è in grado di trovarsi un posto di lavoro e quindi non ha bisogno del reddito di cittadinanza. Occupabili, secondo gli standard europei e dell'Ocse, sono le persone che negli ultimi due anni hanno avuto un qualche rapporto di lavoro, seppur precario o occasionale. Al contrario, il governo Meloni definisce occupabile chi vive in una famiglia senza minori, disabili e over sessantenni. Tradotto: a settembre i single e le coppie senza figli dovranno dire addio al sussidio. Secondo l'Istat, perderanno l'assegno 846mila individui, mentre il governo stima in 660mila le persone coinvolte, con un risparmio di 734 milioni, cioè un decimo dei complessivi otto miliardi stanziati per il rdc. Del resto quell'indicazione ricalca fedelmente il programma elettorale di Fratelli d'Italia in materia di povertà, che annovera «tra gli impossibilitati a lavorare», e quindi esclusi dall'inserimento lavorativo, «disabili, over sessantenni e nuclei con minori a carico».

Cristiano Gori, professore di Politiche Sociali all'Università di Trento, ideatore del Rei, il reddito di inclusione, cioè l'antenato del reddito di cittadinanza targato M5S, sta verificando se altri Paesi utilizzino questa definizione di occupabilità: «Sembra che alcuni esperimenti siano stati fatti in America Latina, di sicuro nessun Paese occidentale l'ha mai usata», risponde Gori, che evidenzia qualche perplessità: «Finora l'occupabilità è stata definita su base individuale, dipende dalla storia di ciascuno e dalla capacità di stare nel mercato del lavoro, ora diventa un'occupabilità “familiare”». Con questa nuova prospettiva, paradossalmente, «si allontana-

no dal mercato del lavoro persone che avrebbero potenzialmente più possibilità di rientrarvi, mentre in alcuni casi si esclude dal sostegno chi è fragile e con bassa scolarizzazione, i disoccupati di lungo corso, i cinquantenni poco appetibili per il mercato del lavoro, chi vive in contesti dove il lavoro non c'è, i neet scoraggiati con età compresa fra i 18 e i 29 anni». Se il nuovo criterio di occupabilità è la base di partenza della riforma del reddito di cittadinanza, che tecnicamente viene abrogato per tutti a partire dal 2024, c'è

42 11 dicembre 2022
RIVISTO IL CRITERIO DI OCCUPABILITÀ, SINGLE E COPPIE SENZA FIGLI SARANNO TAGLIATI FUORI DAI SUSSIDI. PROVE GENERALI DELLA RICETTA MELONI SU WELFARE, FISCO E PENSIONI

poco da stare tranquilli: «Ci opporremo a questo nuovo criterio, che rischia di scatenare la protesta delle fasce più deboli della popolazione in un momento di esponenziale aumento della povertà», dice Stefano Sacchi, economista, docente di Scienze politiche del Politecnico di Torino e al vertice dell'Alleanza contro la povertà. Anche i sindacati, allarmati, hanno scelto la via della protesta contro la manovra. La Cgil avrebbe preferito uno sciopero generale, ma ha vinto la linea morbida della Uil, con manifestazioni dilatate nell'arco di cinque giorni fra il 12 e il 16 dicembre. La prima Regione a scendere in piazza sarà la Calabria lunedì 12, poi la Sicilia il 13, nei giorni successivi manifesteranno le restanti regioni, infine venerdì sarà la volta di Lombardia, Emilia Romagna e Toscana. La decisione dei sindacati di andare allo scontro con il governo viene soprattutto dalla presa di coscienza che molte delle misure introdotte in finanziaria rappresen-

tano - in miniatura - le riforme che il governo si appresta a varare nel 2023: fisco, mercato del lavoro, pensioni, welfare state.

Oltre alla riforma del reddito di cittadinanza, che desta preoccupazione soprattutto per la decisione di ridurre il numero di percettori in un momento di forte impoverimento della popolazione (sono 5,5 milioni, mai così tanti nella storia del Paese), nel 2023 si aprirà anche il cantiere pensioni. Anche qui, le premesse non sono incoraggianti: «Non si può fare cassa sui nostri anziani», dice il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, riferendosi al taglio della perequazione. È Bankitalia a stimare che, con la modifica dei criteri di indicizzazione al costo della vita delle pensioni, il governo risparmierà 3,3 miliardi nel 2023 e altri 15 miliardi nel biennio successivo. Soldi che tuttavia vengono tolti alle tasche dei percettori di pensione. Inoltre, secondo i conti della Fondazione Di Vittorio, Quota 103 è l'ennesima soluzione tampone e interesserà solo 10 mila italiani. Ma il punto più dolente in materia previdenziale è Opzione

11 dicembre 2022 43 Prima Pagina
/
Foto: F. Villa
Getty Images
Gloria Riva Giornalista Il pranzo del giorno di Santa Elisabetta per i più bisognosi organizzato dalle Fraternità francescane in collaborazione con la Caritas a Catania

Donna, una soluzione di per sé poco allettante, perché già in precedenza il ricalcolo dell'assegno con il metodo contributivo comportava il taglio del 30 per cento della pensione, e ora, con le modifiche previste dalla manovra, l’opzione diventa quasi inaccessibile. Infatti l'innalzamento di due anni del requisito anagrafico e la decisione di concedere l'anticipo pensionistico solo a disoccupate, care giver e invalide, restringe a poche centinaia di donne la platea delle aventi diritto. Sempre sul fronte previdenziale, continua a essere ignorato il problema giovani, nonostante i buchi contributivi e i bassi salari degli under quarantenni siano l'anticamera di una bomba sociale, che rischia di esplodere non appena questi individui, con i loro versamenti striminziti e le loro carriere discontinue, arriveranno all’età pensionabile.

C'è poi il grande tema della riforma fiscale. In manovra le misure più significative sono l'aumento del tetto al contante da mille a cinquemila euro, l'esonero dall'obbligo di accettare pagamenti elettronici fino a 60 euro, ma soprattutto l'anomalia tutta italiana di far pagare le tasse solo ai pensionati e ai lavoratori dipendenti, riservando agli autonomi la flat tax e, praticamente, smentendo l'articolo 53 della Costituzione che recita «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Anche Fabrizio Balassone di Banca d'Italia dice che: «In un periodo di inflazione elevata, la coesistenza di un regime a tassa piatta e di uno soggetto a progressività come l'Irpef comporta un'ulteriore penalizzazione per chi è soggetto a quest'ultimo». E l'Ufficio parlamentare di Bilancio evidenzia che se la strada della manovra fiscale è questa, allora bisognerà rivedere al ribasso i servizi, ovvero scuola e sanità.

La manovra del governo

Infine, il primo passo della tanto attesa riforma del mercato del lavoro è la reintroduzione dei voucher fino a 10mila euro: «Così il governo sembra dire che fino a quella cifra non si applicano i contratti», commenta Pierpaolo Bombardieri della Uil. Si va quindi nella direzione opposta alla stabilizzazione di cui «giovani e donne avrebbero estremamente bisogno», spiega l'economista Sacchi, secondo cui bisognerebbe invece ridurre il massiccio ricorso ai contratti a termine. Ma questo andrebbe contro il mantra di Giorgia Meloni: «Non va disturbato chi produce». Gli imprenditori non saranno disturbati, ma neppure aiutati, perché al palo restano anche le politiche industriali e una soluzione al mismatching: «Servirebbe un sistema centralizzato per favorire le politiche attive del lavoro, così come chiedono le imprese. Al contrario ci si sta basando solo sul programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) che è un gigantesco buco nell'acqua, con relativo spreco di cinque miliardi di euro», commenta Sacchi. L'assenza di un partito politico a sostegno della ministra del Lavoro, Marina Calderone, rischia di bloccare qualsiasi iniziativa sul tema delle politiche attive. Infatti le Regioni, per lo più a trazione centro destra, respingono ogni interferenza del governo, rivendicano il proprio diritto decisionale in materia di lavoro e mani libere nella scelta di come destinare i cinque miliardi del programma Gol, finanziati dal Pnrr. E qui si torna al reddito di cittadinanza, perché levare il sussidio a un gran numero di percettori è possibile se si investe sulla creazione di nuovi posti di lavoro nell'industria e nei servizi, affiancando al reclutamento corsi di formazione e modelli di collocamento in sintonia

con le esigenze delle imprese. «Al contrario, togliere il rdc senza un reale aumento dei posti di lavoro e una strategia seria sulle politiche attive significa generare malcontento», prevede Stefano Sacchi. All'orizzonte si profila quindi una stagione di massicce proteste da parte dei poveri, dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, i più danneggiati dalla manovra e, probabilmente, anche dall'imminente stagione di riforme.

Prima Pagina 44 11 dicembre 2022 Foto: Agf
DAL 12 AL 16 DICEMBRE SCENDONO IN PIAZZA LE REGIONI. MENTRE LA POVERTÀ RAGGIUNGE LIVELLI RECORD SI TOCCANO GLI AIUTI. INDICE PUNTATO ANCHE CONTRO LA FLAT TAX PER GLI AUTONOMI
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia

“Noi non paghiamo” contro il caro energia

Non possiamo pagare le bollette, non vogliamo pagare le vostre guerre, non pagheremo la vostra crisi». Così recita lo slogan del movimento “Noi non paghiamo”: il 30 novembre ha concluso la campagna che aveva l’obiettivo di raggiungere un milione di adesioni per uno sciopero delle bollette abbastanza significativo da indurre le società energetiche e il governo ad agire contro il caro bollette. Nonostante la campagna non sia riuscita a raggiungere l’obiettivo, è riuscita a rafforzare una narrazione importante: intanto esplicitando gli spaventosi numeri della crisi. In Italia quasi 5 milioni di persone non sono riusciteapagarelebollette,3milioni in più dell’anno precedente. Da dicembre “Noi non paghiamo” si è allargata a tutti i temi del carovita: non solo le bollette, ma la spesa alimentare, la scuola, la sanità, la casa. La campagna si ispira all’inglese “Don’t pay,” nata nella primavera del 2022 con analoghe motivazioni e importanti successi sebbene lenti. D’altronde, come tutti i movimenti strutturali pretende, per arrivare a smantellare i cardini, tempi lunghi e ponderati. Le fiere nell’arena non sono certo innocue: sono le multinazionali, come Shell, BP, TotalEnergies, Equinor ed Eni, che nel secondo trimestre del 2022 hanno visto profitti di oltre 37 miliardi di dollari. Profitti che derivano anche dalla speculazione sui prezzi energetici. Il carovita quindi, va esplicitato con molta chiarezza, nasce da quanti traggono profitti dalla guerra e dalla crisi energetica, crisi che

loro stessi hanno contribuito ad alimentare. Una ricchezza che deriva dalla distruzione del pianeta, dalle crisi autoalimentate, dalle guerre narrate in un certo modo, dall’utilizzo di risorse nocive. Sono ricchezze legate a doppio filo con la speculazione sugli affitti e sugli spazi pubblici. Il movimento “Noi non paghiamo” si muove tra le piazze e le vie d’Italia tracciando i legami tra sopravvivenza, morale e scelta e rivendica l’accesso all’energia come bene essenziale. A chi aderisce si chiede di autoridursi o sospendere il pagamento delle bollette.

Nel suo libro del 2007, “Shock Economy”, Noemi Klein sviluppa il concetto di «capitalismo dei disastri» (Disaster capitalism). Il termine è definito da due caratteristiche interconnesse: 1. I disastri e le crisi vengono sfruttati come opportuni-

tà di profitto; 2. La risposta ai disastri e alla crisi viene sfruttata per espandere il libero mercato e altre condizioni di guadagno finanziario privato. Il «capitalismo dei disastri» è la cornice principale attraverso la quale gli attori influenti all’interno del sistema capitalistico rispondono alle crisi, ai disastri e alle catastrofi. Questo processo non solo è moralmente riprovevole, ma ci permette di identificare e comprendere come il capitalismo riproduca le condizioni per la propria espansione in mezzo ai disastri e alle crisi croniche che esso stesso ha creato. Il capitalismo dei disastri, come il serpente che si morde o inghiotte la sua coda, l’uroboro, esemplifica bene questo movimento: fagocita tutto e pure se stesso, all’infinito. Certo, solo finché non gli si taglia la testa.

11 dicembre 2022 45 Prima Pagina Foto: M. Scrobogna / LaPresse L’intervento
di DILETTA BELLOTTI
Manifestazione contro il caro bollette davanti alla Cassa depositi e prestiti a Roma

Venti anni di battaglie per la scienza e la libertà

Era il novembre 2002 quando Luca Coscioni decise di fondare l’associazione che ancora oggi porta il suo nome. L’obiettivo principale era promuovere la libertà di ricerca scientifica a partire da quella sulle cellule staminali embrionali che in quegli anni iniziava a promettere nuove possibilità alla scienza, per la vita delle persone, ma che era al centro di pulsioni conservatrici da parte della politica in mezzo mondo. Luca partiva dalla propria condizione di persona affetta da Sla ma allargava le sue preoccupazioni e occupazioni al metodo scientifico inteso come strumento per rafforzare la democrazia. Quella libertà di ricerca, che proprio in questi giorni viene messa a repentaglio dalle logiche del profitto, mentre i progressi nel campo della terapia genica vengono cancellati. Lo dimostra il caso della Chiesi farmaceutici che ha comunicato la messa in liquidazione volontaria di Holostem Terapie avanzate, il “gioiello” della ricerca guidata da Michele De Luca, co-presidente dell’Associazione, e Graziella Pellegrini, che, da 14 anni è un punto di riferimento nel panorama scientifico internazionale nel campo delle malattie rare, unica realtà al mondo a poter curare i “bambini farfalla” (epidermolisi bollosa). Oggi se nessuno interverrà, non si potrà più salvare la vita di tanti bambini in tutto il mondo.

Dal 2015 l’Associazione ha posto il “diritto alla scienza” al centro del proprio agire in Italia e a livello internazionale, denunciando come tale diritto continui a essere arbitrariamente compresso da molte leggi. Se molti degli argomenti articolati negli anni sono stati inclusi nel Commento generale sulla scienza dell’Onu nel 2020, a ottobre scorso le Nazioni Unite hanno fatto proprie le nostre denunce di violazione del diritto alla scienza e della possibilità di usufruire dei benefici della ricerca.

In onore al motto “dal corpo delle persone al cuore della politica” l’Associazione Luca Coscioni continua ad attivare gli strumenti che la democrazia mette a disposizione per conquistare riforme di libertà. Con Luca e dopo di lui sono stati presentati tre referendum, contro la legge 40, per depenalizzare l’omicidio del consenziente e legalizzare la cannabis; due proposte di legge popolari, per legalizzare l’eutanasia e regolamentare la marijuana. Sono state ottenute pronunce di tribunali locali e internazionali contro i divieti in materia di procreazione medicalmente assistita, e, più di recente, grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato la Corte costituzionale ha depenalizzato l’aiuto fornito solo a chi era nelle condizioni di DJ Fabo, con una sentenza (“Cappato / Antoniani”). Tale sentenza ha consentito a Federico

L’Associazione Luca Coscioni nasceva nel 2002. Un impegno costante perché i progressi della ricerca si traducano in miglioramento delle condizioni di vita delle persone

Carboni, tetraplegico, dopo la verifica delle sue condizioni, l’accesso all’aiuto al suicido senza che questo configurasse reato. Grazie a queste azioni il Parlamento nel 2017 ha adottato una legge sulle disposizioni anticipate di trattamento che consente anche in Italia il “testamento biologico”.

La leadership di Luca ha fatto sì che altre persone malate si siano avvicinate all’Associazione divenendone dirigenti e “campioni” di alcune lotte. Piergiorgio Welby co-presidente dell’associazione, si è battuto per il diritto di voto ai malati intrasportabili e ha dedicato gli ultimi tre mesi della sua vita a pretendere l’eutanasia. Decine di persone con disabilità hanno attivato, con l’assistenza dell’associazione, cause contro discriminazioni e barriere architettoniche.

La XIX Legislatura difficilmente si caratterizzerà per riforme di libertà, non per questo non offriremo al dibattito pubblico e istituzionale quel che ancora occorre affinché la Repubblica italiana rispetti i propri obblighi internazionali in materia di diritti umani. Il 13 dicembre, a Roma, in occasione dell’inaugurazione del ventesimo anno dell’Associazione, presenteremo una serie di petizioni parlamentari. Un “programma di riforme per la vita”, del diritto, della scienza, della democrazia, delle persone, frutto di iniziative puntuali e distillati di storie, sofferenze, speranze di chi chiede di poter essere lasciato libero di scegliere - in scienza, coscienza e conoscenza - in fasi cruciali della propria esistenza.

*Segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni

46 11 dicembre 2022 Prima Pagina
L’intervento
di FILOMENA GALLO*

IL CONTE MASCETTI ALLA JUVENTUS

DI GIANFRANCESCO TURANO

L’Italia che osserva da lontano il mondiale qatariota non potrà applicare la legge del 1982 e del 2006, quando le inchieste della magistratura e le retrocessioni per illecito sportivo furono il presagio della vittoria finale degli azzurri. Per di più, lo scandalo che ha investito la Juventus è triste come una melina a centrocampo. Invece dei pirati del totonero e delle auto della polizia sulla pista dell’Olimpico (1982), invece di arbitri chiusi nello spogliatoio e sorteggi taroccati (2006), bisogna accontentarsi della piatta realtà contabile in versione anglicizzata. Il comunicato della Juve del 28 novembre, quello che ha messo alla porta il presidente bianconero Andrea Agnelli e il suo vice Pavel Nedevd, parla di «constructive obligation», di «straight line approach» e, in un montaggio con la lingua latina, di «accrual pro rata temporis». Quando riemerge l’italiano, con le «legittime metodologie di contabilizzazione alternative», si prova delusione.

Meglio ricordare le parole del direttore finanziario bianconero Stefano Cerrato che in una telefonata intercettata dalla Procura di Torino chiedeva: «Posso supercazzolarli in modo più raffinato?» Si riferiva ai guardiani del faro della Consob e chi sa che ne direbbe il conte Mascetti a sapersi patrono di una lista di reati finanziari.

Ma il calcio è pur sempre questione di pronostici, che sono come i rigori: non li sbaglia solo chi non li tira. Come finirà l’affare Juventus? Intanto bisogna separare il fronte penale da quello sportivo.

A leggere i documenti dell’inchiesta giudiziaria Prisma, i bilanci della Juve presentano due forme di distorsione. Una permanente prodotta dalle plusvalenze programmate a tavolino per evitare un patrimonio netto negativo, come nel 2018-19. E l’altra occasionale legata agli accordi sulla riduzione dei salari per il Covid-19 (esercizi 2019-20 e 2020-21). Questi accordi hanno escluso dal conto economico una quota sostanziale dei costi aziendali, pari a varie decine di milioni, in forza di scritture private che restituivano a Giorgio Chiellini, Cristiano Ronaldo e compagni la porzione di stipendio tagliato in nome della pandemia. Il solo CR7 ha chiesto il rim-

borso di circa 20 milioni di euro. Pochi giorni fa, il bilancio 2021-2022 della Juventus è stato rettificato secondo i suggerimenti della Consob con un ritocco del risultato netto per un rosso finale di 239,3 milioni contro i meno 226,8 milioni dell’esercizio precedente. L’aggregato del triennio è vertiginoso, con perdite complessive per 559 milioni di euro.

Oltre alle false comunicazioni e all’intralcio agli ordini di vigilanza, la magistratura torinese ipotizza l’aggiotaggio sulle quotazioni in Borsa del titolo Juventus. Ma una condanna per aggiotaggio in Italia è più rara di un orso bianco a Pantelleria. Quanto alle plusvalenze, la storia degli scandali calcistici nazionali, alla quale Wikipedia dedica venticinque voci a partire dal “caso Rosetta” del 1923, Inter e Milan ci sono già passate senza danno una quindicina di anni fa, quando ancora la Procura di Milano era uno spauracchio. Le assoluzioni nel processo alle due grandi di San Siro fanno giurisprudenza e non la cambierà certo il sito Tranfermarkt. Alla fine, vale il principio che fra privati la compravendita di un bene può oscillare enormemente in termini di prezzo. Insomma, qualche condanna potrà e forse dovrà arrivare ma riguarderà i salari e non saranno condanne pesanti.

Sul fronte delle sanzioni sportive il sistema si sta mobilitando per evitare catastrofi proprio mentre cercava un

48 11 dicembre 2022 Il commento
John Elkann e il cugino Andrea Agnelli, Presidente dimissionario della Juventus Gianfrancesco Turano Giornalista

nuovo assetto dopo il ripristino del ministero dello Sport e la nomina di Andrea Abodi. Il neoministro sta orientandosi su temi come la rateizzazione del debito fiscale dei club, che sarà la vera piattaforma unitaria fra i presidenti della Lega di A, e non ha bisogno di uno tsunami sulla squadra più vincente in Italia.

«La Juventus probabilmente non rimarrà sola», ha commentato Abodi. «Bisogna fare pulizia evitando il giustizialismo. Abbiamo bisogno di sapere presto cosa sia successo e assumere decisioni per dare credibilità al sistema nel segno dell’equa competizione e questo negli ultimi anni non è capitato». Il passaggio sul giustizialismo è già una dichiarazione di intenti.

Contrari all’overdose di giustizia sono gli altri due elementi della trinità di cui Abodi fa parte e che comprende Giovanni Malagò, presidente del Coni, e Gabriele Gravina, numero uno della Federcalcio (Figc) che era fra i commensali della cena organizzata da Agnelli il 23 settembre 2021 insieme ai vertici del Milan, dell’Inter, del Bologna, del Genoa, dell’Atalanta, dell’Udinese e della Lega di serie A.

Gravina è stato il primo a indossare la divisa da pompiere e ad aprire il bocchettone dell’idrante per tenere

l’incendio Juve sotto controllo. Nel frattempo, il mondo della giustizia sportiva si è mosso con la richiesta di accesso agli atti di Prisma da parte del procuratore federale Giuseppe Chinè, estromesso a fine ottobre dal ruolo di capo gabinetto del Mef. Chinè ha aperto un fascicolo che potrebbe portare a deferimenti per i dirigenti e il club, con richiesta di sanzioni che vanno fino alla retrocessione. Ma il bis di Calciopoli 2006 appare alquanto improbabile per il club controllato da Exor, la finanziaria olandese di John Elkann e famiglia che ha coperto le perdite di gestione del cugino Andrea.

La metodologia di contabilizzazione alternativa ha consentito alla Juve un’iscrizione al campionato alla quale non aveva diritto? La risposta sarà no. La seconda domanda riguarda il diritto della Juve a operare sul calciomercato a partire da scritture contabili false. Qui potrà esserci qualche punto di penalizzazione per distorsione della concorrenza. E anche qui, non è detto.

In questo campo il metro di riferimento è quello del Psg. La squadra dell’emiro del Qatar Tamim al Thani da anni strapazza ogni regola di fair play finanziario e compra a peso d’oro in nome di un’alleanza politica con il capo della Uefa Aleksander Ceferin, nemico di Infantino e del progetto Superlega propugnato da Agnelli, ex amico di Ceferin. Proprio l’avvocato sloveno sarà chiamato a decidere sull’assegnazione degli Europei del 2032, ai quali l’Italia si è candidata a metà novembre assieme a Turchia e Regno Unito-Eire. Da qui a marzo bisogna entrare nel concreto con il programma e le garanzie finanziarie di circa 2 miliardi. La decisione dell’Uefa è fissata al prossimo settembre e la vit-

toria è uno degli obiettivi della triade Abodi-Gravina-Malagò. Non sarà facile. Con la Juventus a pezzi diventerebbe missione impossibile. Agnelli ha ascoltato chi gli suggeriva di mettersi da parte non tanto per evitare un arresto che il gip torinese ha già respinto, quanto per consentire un repulisti rapido e indolore. Sui club incombono partite vitali come l’allungamento della durata dei diritti tv o la rateizzazione del debito fiscale senza multe e penalizzazioni in classifica. In fondo, la creatività finanziaria è diventata una componente del calcio come il fuorigioco. La Fifa, seconda a pochi in quanto a scandali, ne ha preso atto. L’ordine implicito a chi valuta i bilanci è di usare i guanti di velluto perché nel circo globale del football tutto il mondo è paese.

11 dicembre 2022 49 Prima Pagina Foto: Daniele BadolatoJuventus FC/Juventus FC via Getty Images
LA CREATIVITÀ FINANZIARIA È DIVENTATA UNA COMPONENTE DEL CALCIO COME IL FUORIGIOCO. PER QUESTO E PER GLI INTERESSI IN BALLO SU EUROPEI E DIRITTI TV NON CI SARÀ LO TSUNAMI

LA NUOVA FRATTUR

LA CRISI ENERGETICA METTE A DURA PROVA ALLEANZE. USA E EUROPA, COMPLICE IL PERICOLO CINESE, SI ALLONTANANO E ALL’INTERNO DELL’UE LE SCELTE DI FRANCIA

E GERMANIA DIVIDONO L’UNIONE

DI FEDERICA BIANCHI

Il rischio è la Grande Frattura proprio nel momento di massima compattezza contro l’Invasore. Quella tra Stati Uniti e Unione Europea sarebbe una Frattura Madre che finirebbe per allargare le latenti fratture interne al Vecchio Continente. Con il risultato di indebolirlo definitivamente, disintegrando ogni ambizione di autonomia strategica.

Ad avere infilato il cuneo nel terreno arido, come fosse la ghianda dello scoiattolino di “Ice Age”, è il Green Deal in versione americana nato in risposta all’inflazione fuori controllo che, dopo decenni di assenza, con la pandemia e la guerra russa, è tornata ad erodere l’economia occidentale. Degli oltre 700 miliardi in dieci anni previsti dal programma del presidente Joe Biden per combattere l’inflazione, 369 sono sotto forma di sussidi all’acquisto di pompe di calore, pannelli fotovoltaici e veicoli elettrici. Ma - punto dolente - solo se l’assemblaggio finale è fatto negli Usa. Risultato: il made in Usa potrebbe mettere fuori gioco non solo il made in China ma anche il made in Europe: «Una vera e propria violazione del libero commercio», ha accusato immediatamente la Commissione europea. «Il rischio è che il Piano Usa di riduzione dell’inflazione porti ad una competizione ingiusta, chiuda i mercati e spezzi le stesse catene di rifornimento cruciali che già sono state messe alla

prova durante il Covid», ha detto la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Una mossa, quella americana, che, nata per compattare un Congresso diviso, è stata ricevuta come un insulto da una Bruxelles alle prese con gli altissimi prezzi dell’energia conseguenza della guerra in Ucraina, combattuta al fianco degli Stati Uniti. «L’Europa tassa le emissioni da anni e ha una serie di incentivi del valore di 40 miliardi l’anno da tempo», spiega David Leimann del think-tank Bruegel: «Ma non vuole entrare in una gara con gli Usa a chi spende di più per sostenere il proprio mercato». Il presidente francese Emmanuel Macron, nonostante lo schiaffo americano ricevuto con la vendita di sottomarini all’Australia, è stato il primo leader europeo a volare a Washington, e a essere ricevuto con tutti gli onori, per farsi portavoce delle rimostranze e delle richieste comuni. Pochi giorni prima il leader tedesco Olaf Scholz era volato a Pechino con al seguito uno stuolo di imprenditori tedeschi per ricordare che, al di là di ogni proclama, la Germania, e l’Europa, hanno ancora bisogno della Cina. Ma sarà difficile per l’Europa essere equidistante: Washington chiede di scegliere tra lei e Pechino. Le fratture sono il marchio di questa nuova epoca.

50 11 dicembre 2022
L’economia mondiale
Il presidente francese Emanuel Macron con il collega americano Joe Biden a Washington Federica Bianchi Giornalista

TTURA OCCIDENTALE

Fino ad oggi era soltanto la Cina a finanziare le sue aziende con massicci aiuti di Stato. Adesso gli Usa, che per anni hanno delocalizzato in Cina, hanno ripreso non solo a produrre in America ma anche a rifinanziare direttamente la propria industria. L’obiettivo è quello di non farsi mettere fuori gioco dalla Cina: non tanto per vincere quanto per non perdere. Ovvero, per non diventare dipendenti, soprattutto in settori chiave come quello della sicurezza energetica, dalla seconda economia mondiale, sua rivale diretta. «L’ultimo dei moicani», come l’ha definita il commissario francese Thierry Breton, è rimasta l’Europa ma il ritornello del libero commercio in libere democrazie appartiene a un’altra epoca. Adesso il Vecchio Continente rischia di rimanere intrappolato tra i due nuovi giganti del neo-protezionismo, alla mercé di entrambi se non sceglie e non investe a 27.

Così von der Leyen ha annunciato domenica scorsa che è ora di consentire agli Stati europei di avere accesso agli aiuti di Stato. Anatemi assoluti fino all’altro ieri sono stati il bersaglio contro cui la commissaria danese Margrete Vestager si è scagliata nel costruire la sua carriera in Europa. Non più. Ma nessuno Stato europeo potrà fare da solo. I più ricchi, quelli con maggiore spazio per indebitarsi come la Germania, nell’accaparrarsi le risorse distorcerebbero il mercato unico, mettendo fuori gioco, ad esempio, un Paese come l’Italia, seconda potenza manifatturiera del Continente. Il risultato finale sarebbe il collasso del mercato comune.

La soluzione messa sul piatto da von der Leyen si chiama, ancora una volta, «fondo comune»: «La politica industriale comune richiede un fondo comune. L’obiettivo è quello di essere leader nella transazione ecologica e questo vuol dire che nel medio termine dobbiamo aumentare le risorse europee per la ricerca, l’innovazione e i progetti strategici comuni». Non tutti

11 dicembre 2022 51 Prima Pagina
Foto: Doug Mills / POOL / AFP / Getty Images

sono d’accordo. Non la Germania che, dall’inizio dell’autunno, ha allargato la crepa latente che da sempre la separa dalla Francia. Insieme ai soliti frugali del Nord chiede di aspettare e di utilizzare invece le risorse già mobilitate con i Recovery plan e con Repower Eu. Se potesse, direbbe «prima la Germania».

Con la chiusura dei rubinetti del gas russo da cui dipendeva la sua economia, Berlino è andata in panico: lo scopo principale del governo è ora garantire l’energia ai cittadini e, soprattutto, alle imprese perché continuino ad alimentare la produzione. «Non c’è nulla che spaventa più il governo tedesco dello spettro della deindustrializzazione», sottolinea la studiosa tedesca Liana Fix, fellow presso il “Council of foreign relations”. La Germania si sta giocando senza remore il jolly fiscale costruito in vent’anni di parsimonia: ha dato vita a un massiccio piano di sussidi del costo dell’energia, che è disposta a comprare senza guardare il cartellino del prezzo, e, al contempo, ha imposto ai cittadini un taglio dei consumi di almeno il 20 per cento. Per le imprese la riduzione è più complessa. Secondo un recente rapporto dell’Ifo, l’Istituto di statistica tedesco, un’azienda su 5 ha dovuto chiudere a causa dell’eccesivo prezzo dell’energia e altrettante chiuderanno se verrà loro chiesto di ridurre ulteriormente i consumi. «In Germania

La stazione di compressione Gazprom Pjsc Slavyanskaya, il punto di partenza del gasdotto Nord Stream 2, a Ust-Luga, in Russia

manca l’infrastruttura per fare arrivare gas aggiuntivo, a differenza che in Italia», spiega Karen Pittel, direttrice del Centro per l’energia e il clima dell’Ifo e professoressa all’università di Monaco: «Non possiamo permetterci di dire di no a nessun venditore, a nessun prezzo».

Ma così le fratture si approfondiscono e lambiscono gli alleati. Da una parte c’è la Francia (e la maggioranza dei Paesi europei) e dall’altra la Germania (con la fida Olanda). Impegnate da mesi in un braccio di ferro sul tetto al prezzo del gas, la soluzione a lungo annunciata non è ancora all’orizzonte. La Germania, con un’economia in rallentamento, non vuole mettere a rischio i suoi approvvigionamenti e non accetta soluzioni comuni che comportino il finanziamento dei consumi energetici dei cittadini di altri stati europei a scapito dei propri. La Francia, dal canto suo, non vuole perdere le vendite di energia nucleare permettendo all’infinita energia rinnovabile prodotta dalla penisola iberica di attraversare il suo territorio e arrivare in Germania. Il ricatto è reciproco. Non solo. La lotta per l’accaparramento dell’energia rischia di allargare le faglie tra le due potenze europee anche su altri fronti: dall’idea di Europa comune (e quindi di chi fare entrare a Est) a quella della Difesa, con Parigi in prima linea per promuovere acquisti di armamenti europei e Berlino ottimo cliente degli americani presso cui si fa garante della sicurezza dei Paesi dell’Est Europa.

«Biden vorrebbe aiutare l’Europa ma non potrà modificare il suo programma di aiuti contro l’inflazione», sentenzia pessimista l’ europarlamentare tedesco esperto di geopolitica Reinard Butikofer: «Il Congresso non lo permetterà».

Washington ha tempo fino al 31 dicembre per interpretare creativamente il testo, come ha promesso a Macron e come sta ora negoziando con i tecnici della Commissione. Una soluzione sul finanziamento delle nuove tecnologie rinnovabili sarebbe nell’interesse di tutto l’Occidente. Anche perché nemmeno a Washington conviene infilare troppe ghiande nel terreno arido, creando lunghe fratture: il rischio, prima o poi, è quello di finirci intrappolati dentro.

52 11 dicembre 2022 Prima Pagina
Rudakov / Bloomberg via Getty Images
Foto: Andrey
L’economia mondiale

RUSSIA, IL GRANDE

DI ANGELO BOLAFFI

Alcune profezie si avverano quando sembrava fossero state dimenticate: Nikita Chruscev oltre sessant’anni fa, allora segretario generale del Pcus, aveva affermato che la frontiera fra le due Germanie di cui il Muro di Berlino era il simbolo «è una frontiera che è stata tracciata da una guerra e solo un’altra guerra potrebbe cambiarla». La guerra di aggressione all’Ucraina della Russia di Putin è quella guerra minacciata da Chruscev che, saggiamente, l’Urss d Gorbaciov aveva scelto di non dichiarare la notte del 9 novembre del 1989. Certo Putin non pensa di poter cancellare l’unificazione tedesca. Ma ritiene che la fine del dominio russo sull’Europa dell’Est e del Sud-est, divenuto irreversibile a seguito della caduta del Muro di Berlino, è all’origine della «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo», come nell’aprile del 2005 aveva definito la fine dell’Unione Sovietica. Per questo la “nuova Jalta” di Putin , l’occupazione manu militari della Crimea nel 2014, non fu come molti, soprattutto in Germania, giudicarono un transitorio re-imbarbarimento della politica russa. Ma l’inizio di una politica revisionista volta a stravolgere con la forza l’ordine geopolitico europeo. Una decisione da grande potenza tipica del XIX secolo in piena continuità con la tradizionale politica espansionista degli zar ( e di Stalin) con l’obiettivo di edificare in contrapposizione all’Occidente e all’Unione europea una sfera di influenza a egemonia russa nel Vecchio Continente.

Per questo, se la data del 9 novembre 1989 era stata interpretata come “la fine della storia”, quella del 24 febbraio 2022 ha indubbiamente segnato “la fine della fine della storia”. Una Zeitenwende (svolta epocale), secondo l’espressione usata il 27 febbraio nel suo discorso al Bundestag dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz, che impone all’Europa e in primo luogo alla Germania di «pensare l’impensabile». Di prendere atto che non è più possibile fare affidamento su vecchie certezze geopolitiche ed è inevitabile una radicale riconversione strategica, politica ed economica. Con onestà e coraggio l’intera classe dirigente tedesca, con l’eccezione della ex Cancelliera Angela Merkel che salvo un paio di reticenti e criptiche dichiarazioni si è chiusa in uno sdegnato silenzio, ha ammesso di aver dato prova di cecità geopolitica commettendo un grave errore di valutazione strategica: la fine della

guerra fredda sul Vecchio Continente non è stata l’inizio della “pace perpetua”. Una vera e propria collettiva autocritica da parte della Germania, dunque, per aver colpevolmente sottovalutato gli avvertimenti e le parole di allarme provenienti dai paesi dell’est europeo. Nell’illusione che la strategia del Wandel durch Handel, mutamento mediante rapporti commerciali, con la Russia di Putin consentisse alla Germania di salvaguardare i vantaggi economici della globalizzazione grazie al gas russo a basso prezzo, e al tempo stesso garantire la sicurezza europea: «il mondo è diventato un altro il 24 febbraio (..) lo scoppio della guerra in Europa è anche il fallimento di decennali sforzi politici, compresi quelli fatti da me, proprio per (…) integrare più saldamente la Russia nella architettura della sicurezza europea. (…) il 24 febbraio ha segnato la fine di un’epoca». Questa l’impegnativa affermazione fatta dal presidente Frank-Walter Steinmeier lo scorso 16 novembre a New York quando è stato insignito del premio intitolato a Henry Kissinger.

Ma se è vero che la gran parte della classe politica tedesca, con eccezione dei “soliti noti” della Linke e della Afd, è impegnata in questa radicale revisione del rapporto della Germania con la Russia e con i paesi dell’est europeo, questo vale soprattutto per la Spd. E non solo perché oggi esponenti del partito socialdemocratico occupano i ruoli

54 11 dicembre 2022 L’intervento
Angela Merkel con Olaf Scholz

apicali del paese ma perché storicamente, dopo la seconda guerra mondiale e dopo la catastrofe tedesca, è stata la Spd a sviluppare una politica di dialogo con la Russia anche quando era ancora Unione Sovietica. È dunque lecito, come qualcuno ha sostenuto, ricercare nella Ostpolitik lanciata da Willy Brandt nel segno del Wandel durch Annährung, del mutamento attraverso l’avvicinamento, l’origine di quello che si è oggi rivelata una tragica illusione o addirittura un imperdonabile errore? E perché una azione politica che ha funzionato con l’Unione Sovietica di Breznev ha fatto totalmente fallimento con la Russia di Putin?

Attorno a questi interrogativi è in corso in Germania una accesa discussione. Secondo Heinrich Winkler, il più autorevole storico tedesco (per altro molto vicino alla Spd), tra la Ostpolitik lanciata nel 1963 dall’ex Borgomastro di Berlino (Ovest) e quella seguita poi negli anni successivi dalla stessa Spd c’è stata una radicale soluzione di continuità. Con la fine della Cancelleria di Brandt e l’arrivo di Helmut Schmidt alla guida della Germania, la Ostpolitik ha subito una crescente torsione in senso realpolitisch sotto l’influenza di Egon Bahr, il più kissingeriano degli esponenti social-

democratici, trasformandosi in un “partenariato per la sicurezza” tra Germania e Unione Sovietica. Una alleanza che in nome delle ragioni dell’equilibrio europeo (e di quelle della Russia) ha progressivamente perso di vista l’impegno per la difesa dei diritti civili nei paesi dell’est europeo che della fase brandtiana della Ostpolitik era una componente essenziale. Clamorosamente rivelatore in questo senso l’aperto sostegno del governo tedesco allo stato d’emergenza proclamato in Polonia nel 1981 dal generale Jaruzelski contro il movimento di Solidarnosc. Ancora nel maggio del 2014 poco prima di morire in una intervista al settimanale Die Zeit l’ex cancelliere Schmidt, a conferma del lato oscuro di quel Russian-Komplex della Germania di cui parla lo studioso Gerd Koenen, definiva legittima l’occupazione della Crimea e negava l’esistenza dell’Ucraina come stato-nazione.

Ma c’è un ulteriore aspetto solitamente ignorato dal dibattito italiano che invece è ritornato nel corso di questa faticosa rilettura da parte della Spd della propria politica verso l’est: e cioè il momento dell’interesse nazionale tedesco. Mentre la Cdu si è sempre mostrata molto attenta al primato in politica estera delle ragioni dell’atlantismo (Konrad Adenauer) e dell’europeismo(Helmut Kohl) la

Spd sin dai primissimi anni del secondo dopoguerra ha sostenuto l’obiettivo della riunificazione nazionale del paese opponendosi alla adesione della Germania Ovest alla Nato e appoggiando, come fece il suo primo presidente Kurt Schumacher, lo scambio proposto da Stalin tra riunificazione e neutralizzazione della Germania. Per questo, ha sostenuto lo storico Andreas Wirschig, se il momento centrale della politica della Ostpolitik di Brandt era quello di arrivare al superamento della divisione della Germania, allora dopo la riunificazione del paese nel 1990 essa aveva perso il proprio senso. E quindi non può in alcun modo essere ritenuta corresponsabile degli errori successivamente commessi in suo nome.

11 dicembre 2022 55 Prima Pagina Foto: C. Bilan / Ipa
È FINITA L’ILLUSIONE DI COSTRUIRE LA PACE SULL’ECONOMIA. L’AUTOCRITICA PER NON AVER VISTO IL PERICOLO PUTIN RIGUARDA LA POLITICA DELLA MERKEL. MA SOPRATTUTTO QUELLA DELLA SPD
ERRORE TEDESCO

A

Napoli alcuni agenti cinesi sotto copertura avrebbero installato delle telecamere per sorvegliare il territorio cittadino. È uno dei dettagli più inquietanti emersi dopo l’esclusiva che L’Espresso ha pubblicato domenica 4 dicembre in cui si svela come la Cina sia riuscita a sfruttare alcuni accordi stipulati con l’Italia per costruire una rete di stazioni di polizia non ufficiali sul territorio italiano.

Le evidenze dell’esistenza di questo sistema di telecamere sono state fornite dalla Ong spagnola Safeguard Defenders, che lunedì ha pubblicato un ampio report intitolato Patrol and persuade – Pattugliare e persuadere. Il sistema sarebbe stato installato all’interno di un’area residenziale abitata in prevalenza da cittadini cinesi, con tutta probabilità con funzione deterrente nei confronti di atti di criminalità. Un fatto molto grave e lesivo dei più essenziali principi di sovranità territoriale.

IL RICONOSCIMENTO FACCIALE

Il governo cinese è noto per il suo ampio utilizzo di telecamere a riconoscimento facciale, per le quali negli ultimi anni ha stanziato fondi per 210 miliardi di dollari, maggiori rispetto a quelli stanziati per le forze armate e in generale il mantenimento di tutto l’apparato militare.

Queste telecamere “intelligenti” sono

LE TELECAMERE CINESI IN ITALIA

DI GABRIELE CRUCIATA

56 11 dicembre 2022 Operazione Fox Hunt

in grado di riconoscere l’identità delle persone riprese grazie a un software di intelligenza artificiale agganciato a enormi database di persone. Se ne sono registrati degli utilizzi a scopo preventivo – come ad esempio nel caso del Casinò Venetian di Macao, noto per le operazioni di riciclaggio di denaro sporco – ma anche repressivo. Il caso più noto in assoluto è quello degli uiguri, minoranza musulmana cinese oggetto di durissime repressioni da parte di Pechino, che utilizza telecamere simili per individuare e stanare i soggetti da colpire.

Alcune inchieste di Wired avevano già dimostra-

to l’esistenza e mappato la vasta rete di telecamere cinesi in Italia, anche all’interno di strutture sensibili come le sedi dell’amministrazione pubblica. Si trattava di sistemi installati da società private a forte rischio di connivenza col regime, e per questo anche inserite in black list dagli Stati Uniti. Ma gli ultimi aggiornamenti sembrerebbero aprire allo scenario ben più inquietante di telecamere installate direttamente da Pechino senza alcun consenso da parte delle autorità italiane.

I TENTACOLI INTERNAZIONALI

La questione delle telecamere di Napoli si innesta nel più ampio contesto della rete clandestina di stazioni di polizia cinesi sparse in tutto il mondo. Ben due località hanno fatto partire il progetto proprio dall’Italia con le stazioni di Milano, definite dalle stesse autorità cinesi come “progetti pilota”. Ad oggi le stazioni di polizia d’oltreoceano sono più di cento, sparse in tutto il mondo. Tra i Paesi colpiti anche Regno Unito, Canada, Portogallo,

L’ESCLUSIVA

L’inchiesta de L’Espresso (n.48) sui finti uffici servizi cinesi, basi della polizia di Pechino per il rimpatrio di dissidenti. Al centro, poliziotti cinesi a Roma in pattugliamento congiunto con agenti italiani

SONO STATE INSTALLATE A NAPOLI PER CONTROLLARE I CONNAZIONALI DALLE STAZIONI DI POLIZIA APERTE SOTTO LA COPERTURA DI CENTRI SERVIZI PER

LA COMUNITÀ RESIDENTE ALL’ESTERO

Paesi Bassi e Stati Uniti. Tutti Paesi in cui la reazione alla notizia è stata durissima, con indagini aperte dalle unità antiterrorismo o per la sicurezza nazionale.

Mentre in Italia Luciana Lamorgese, ministra dell’Interno nel momento in cui a settembre per la prima volta si seppe dell’esistenza di simili stazioni, ha preferito commentare affermando che ciò «non destava particolare preoccupazione».

Tuttavia alcuni dei documenti citati da Safeguard Defenders indicano come la Cina abbia dichiaratamente utilizzato gli accordi stipulati con l’Italia per penetrare l’Occidente. Abbiamo provato a domandare a Viminale e Farnesina perché gli accordi siano stati prima firmati e poi rinnovati nonostante la pubblicità di que-

11 dicembre 2022 57 Prima Pagina Foto: Awakening / Getty Images
Gabriele Cruciata Giornalista

sti documenti, ma nessuno ha fornito una risposta.

NON SOLO ACCORDI CON L’ITALIA

Gli accordi sotto accusa sono stati firmati dall’Italia tra il 2015 e il 2017. Uno di questi riguarda dei pattugliamenti congiunti di poliziotti italiani e cinesi che si sono svolti sul territorio italiano tra il 2016 e il 2019. Nonostante alcune fonti abbiano raccontato a L’Espresso che all’epoca al Viminale si respirava aria di «semplice accordo pro forma», utile più all’immagine che alla sostanza, alcuni dei documenti visionati da L’Espresso dimostrano che secondo la Cina è proprio grazie a questi accordi che si è riusciti a installare le prime stazioni segrete di polizia in Italia.

Tra il 2018 e il 2019 la Cina ha siglato patti simili anche con la Croazia e la Serbia (la prima membro Ue, la seconda Paese candidato dal 2012). I pattugliamenti congiunti sono iniziati in particolare a Zagabria, capitale croata, dove a luglio scorso alcuni agenti cinesi hanno iniziato a lavorare fianco a fianco dei colleghi croati. Attività simili sono partite anche a Belgrado, capitale serba, e in Sud Africa, dove già da vent’anni alcuni accordi bilaterali hanno portato alla nascita di strutture chiamate “centri servizi cinesi d’oltreoceano”, che però – precisa il consolato cinese – «sono solo centri culturali con nessun potere di polizia».

SORVEGLIANZA E PERSUASIONE

Nei resoconti delle autorità cinesi già riportati in “110 Overseas” a settembre si

RIMPATRIATI SENZA ESTRADIZIONE UOMINI E DONNE IN FUGA DAL REGIME E RICERCATI UFFICIALMENTE PERCHÉ CORROTTI. SONO RIENTRATI CON LA MINACCIA DI RITORSIONI SUI FAMILIARI

I delegati militari cinesi arrivano alla Grande sala del popolo prima della terza sessione plenaria del Parlamento cinese. A sinistra, una guardia di sicurezza durante la cerimonia di chiusura del Congresso nazionale del popolo cinese

legge che tra gli obiettivi delle stazioni d’oltreoceano vi sono quelli di aiutare la popolazione cinese all’estero e di monitorarne l’opinione pubblica. Con toni entusiastici si afferma anche che grazie alle attività delle stazioni è stato reso possibile il rientro in Cina di alcuni «fuggitivi», cioè persone che si nascondevano dal regime.

Il termine utilizzato più di frequente è quello della «persuasione al ritorno». I fuggitivi cioè non vengono riportati attraverso l’estradizione – quasi mai concessa nei confronti della Cina alla luce del mancato rispetto dei diritti umani – ma attraverso pratiche extragiudiziali che tra l’altro prevedono le minacce nei confronti dei parenti rimasti in patria.

Tutto è iniziato con l’operazione FoxHunt – caccia alla volpe -, che il governo cinese ha avviato nel 2014 proprio con l’obiettivo di stanare i fuggitivi e riportarli in patria «con qualsiasi mezzo necessario». E grazie alla rete di stazioni aperte in primis in Italia Pechino riesce sempre di più ad esportare questo suo sistema di terrore politico nel mondo intero.

58 11 dicembre 2022 Prima Pagina Foto: G. Chai Hin –Afp / Getty Images, F. Li / Getty Images
Fox
Operazione
Hunt

Lo scandalo spyware

TACI, L’EUROPA TI ASCOLTA

DI LUCIANA GROSSO ILLUSTRAZIONE

governi di almeno quattro Paesi europei hanno usato software spyware per controllare e spiare i cellulari dei loro cittadini, senza che questi fossero in nessun modo coinvolti in inchieste giudiziarie o in questioni di sicurezza nazionale; almeno quattordici Paesi europei hanno invece comprato questo tipo di software anche se, almeno per ora, non c’è prova del fatto che lo abbiano poi effettivamente usato; altri hanno acconsentito a fare da base alla vendita e alla produzione di questi software, voltandosi dall’altra parte mentre venivano venduti a regimi dittatoriali sparsi per il mondo; l’Ue, intesa come istituzione e organi legislativi, sembra non fare una piega, preferendo opporre un garbato ma fermo sorriso alle molte domande poste dagli eurodeputati della commissione di inchiesta dedicata a capire come e quanto l’uso di questo tipo di software spia è tollerato e consueto in Ue.

Sono questi i quattro cardini attorno a cui, in queste settimane, e nella quasi totale indifferenza, si sta disegnando uno degli scandali più gravi dell’Europa contemporanea.

«Dicono che sia il Watergate europeo, ma la definizione è sbagliata, anche dal punto di vista cinematografico. Se da questo scandalo qualcuno mai dovesse trarre un film, credo somiglierebbepiùa“LeVitedegliAltri”chea“TuttigliUomi-

60 11 dicembre 2022
DI EMANUELE FUCECCHI
LA BOZZA DELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE: I GOVERNI DI UNGHERIA, GRECIA, POLONIA E SPAGNA HANNO UTILIZZATO TROJAN FUORI CONTROLLO. ALTRI 14 LI POSSIEDONO I

ni del Presidente”».

A raccontarci così, con una metafora cinematografica, tanto efficace quanto paurosa, la realtà dello scandalo silente che sta attraversando le cancellerie europee è l’eurodeputata olandese Sophie in 't Veld (Renew Europee), presidente della commissione di inchiesta del Parlamento Pega (dal nome del software spyware più famoso al mondo, Pegasus). La commissione è nata lo scorso 10 marzo per indagare su presunte violazioni o cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Ue in relazione all’uso di Pegasus e di altri software di sorveglianza spyware equivalenti. Poche settimane fa è uscita la prima bozza delle conclusioni della commissione di inchiesta, che dice: «Lo scandalo spyware non è una serie di casi nazionali isolati di abuso, ma un vero e proprio affare europeo».

Per capire perché i risultati della commissione (ancora in corso) sono importanti, occorre prima spendere due parole su come funziona questo tipo di software-spia.

I software-spia possono essere installati a distanza su un dispositivo (tipicamente un cellulare) in modi tanto ingegnosi quanto rudimentali (in certi casi basta una mail di phi-

shing, o una falla qualsiasi su una app qualsiasi tra le decine che ognuno di noi ha installato sul cellulare). Una volta che questo software spia è entrato nel nostro cellulare succedono due cose: la prima è che noi non ci accorgiamo di niente, la seconda è che chi è dall’altra parte e ha installato il software, di fatto, entra in possesso del nostro telefono e di tutto quello che c’è dentro: password, foto, mail, messaggi, anche vecchi di anni. Tutto. Non solo, ma questo qualcuno, chiunque sia, può anche attivare a suo piacimento (e senza che noi possiamo in nessun modo accorgercene) microfono e videocamera.

«Parliamoci chiaro - continua l’europdeputata in ’t Veldsappiamo tutti che esistono questioni di sicurezza nazionale molto gravi, penso per esempio al terrorismo, per cui questo sistema è stato autorizzato e si è rivelato non solo utile, ma decisivo.Cosìcomesappiamotutticheiservizidiintelligence, da che mondo è mondo, spesso si muovono in una zona grigia, ma sempre per ragioni di sicurezza nazionale e sempre all’internodiunsistemadiautorizzazionieresponsabilità Ma in questo caso non stiamo parlando di niente di tutto questo, sia perché non riguarda questioni di sicurezza nazionale, sia perché non è qualcosa che viene fatto in un ambito controllato o regolamentato. Se il cellulare, per esempio, di un sospetto terrorista o di un criminale viene messo sotto controllo,

11 dicembre 2022 61 Prima Pagina
Luciana Grosso Giornalista

Lo scandalo spyware

questa decisione viene presa da un giudice che stabilisce con precisione i limiti temporali e oggettivi, cioè cosa si può fare e cosa no, di questo controllo. Nel caso dello spyware, invece, non c’è nessuna regola, nessun limite, nessuna linea da non oltrepassare. Inoltre è quasi impossibile risalire a chi lo ha installato, il che fa sì che non ci sia nemmeno nessuno chiamato a risponderne. Ma se questo è vero, cioè se nessuno viene chiamato a rispondere delle sue azioni, se non c’è modo o legge e strumento che consenta a un cittadino qualsiasi di difendersi davanti a un torto subito, questo significa chiaro e semplice che la democrazia è sospesa, che non c’è più».

Secondo il rapporto, almeno quattro governi europei avrebbero autorizzato o favorito l’uso di questo tipo di sorveglianza, invisibile, incontrollata e incontrollabile, su persone che non rappresentano nessun tipo di minaccia per la sicurezza nazionale, ma solo un grattacapo per il governo in carica: Ungheria, Polonia, Grecia e Spagna. In particolare, in Ungheria, «l’uso di Pegasus sembra essere parte di una operazione calcolata e strategica di distruzione della libertà di stampa e di espressione. Il governo di Fidesz ha usato questi spyware per avviare un regime di minaccia, ricatto e pressioni contro la stampa indipendente». In Grecia, è cronaca di questi giorni, il sistema sarebbe stato usato per mettere sotto controllo decine di politici e giornalisti di opposizione (il primo a denunciare lo scandalo, lo scorso luglio, è stato, ironia della sorte, l’eurodeputato del partito socialista greco, il Pasok, Nikos Androulakis il cui cellulare sarebbe stato trovato infettato proprio dai tecnici dell’Europarlamento). Episodi simili sembrano essersi verificati in Polonia.

Diverso è, invece, il caso della Spagna. Lì, infatti, il governo sembra aver ricoperto la doppia veste di intercettatore e di intercettato. Intercettatore perché sembra che Madrid abbia spiato almeno 65 persone (solo 18 delle quali previa regolare autorizzazione) tra giornalisti e attivisti per l’indipendenza catalana, insieme a loro amici e familiari, nell’ambito di quello che la stampa spagnola ha battezzato “Catalangate”. Nelle vesti di intercettato, invece, sembra che il governo spagnolo abbia subito la sorveglianza del Marocco, e in particolare che siano stati messi controllo il telefono del primo ministro Pe-

dro Sanchez, del ministro della Difesa Margarita Robles e di quello dell’Interno Fernando Grande Marlasca.

Sempre dal Marocco sembra sia arrivato lo spyware che per anni ha abitato nel telefono dell’ex premier italiano Romano Prodi, nel periodo in cui era inviato speciale dell’Onu per il Sahel. Ma l’uso e l’acquisto di questi sistemi verso target politici da parte di almeno governi europei che hanno fatto della difesa della democrazia la loro cifra, non è il solo problema. Ce ne sono almeno altri due. Il primo è il fatto che alcuni Paesi europei, proprio per il fatto di far parte dell’Ue e dunque di avere accesso regole commerciali favorevoli sono diventati una sede sicura e, per così dire, pratica, per chi vende e produce (spesso a regimi dittatoriali o repressivi, che si macchiano di palesi violazioni dei diritti umani) questo tipo di software. In base alla bozza del rapporto del Parlamento, l’elenco degli Stati europei che danno ospitalità a chi fa questo tipo di commercio e affari è molto più lungo di quattro (e comprenderebbe seppure in misura minima anche l’Italia, dove avrebbero sede almeno due aziende del settore): «Almeno due Stati membri, Cipro e Bulgaria, sono degli “export hub” per gli spyware; l’Irlanda offre condizioni fiscali favorevoli a chi vende questi sistemi su larga scale; il Lussemburgo è invece l’hub bancario usato da molti degli attori del settore».

L’altro problema messo in luce dalle indagini di Pega è che le istituzioni europee, dalla commissione all’Europol, benchè messi al corrente e in guardia rispetto all’uso illegittimo di spyware nei loro Paesi non sembrano essersi mossi in nessun modo: non per punire chi ha commesso o commette queste palesi violazioni dello stato di diritto (e, per dirla tutta, anche del più banale Gdpr, fiore all’occhiello della legislazione europea) e neppure per avviare una regolazione chiara che impedisca gli abusi. «Questi strumenti informatici possono essere usati sia per ragioni di sicurezza nazionale, sia dalla criminalità comune, sia dai dittatori. La differenza tra questi modi di usarli, e questi utenti, la fa il fatto che ci siano o meno delle regole precise che dicano quando, come e perché. E al momento queste regole non ci sono. E quindi, se non ci sono regole, non c’è neppure differenza».

62 11 dicembre 2022
Prima Pagina
Foto: Dominique Mollee / Alamy / Ipa, LaPresse, Bernat Armangue / AP Photo / LaPresse L’eurodeputata olandese Sophie in ‘t Veld; Romano Prodi, spiato dal Marocco da inviato Onu per il Sahel; il premier spagnolo Pedro Sanchez

DI ALBERTO STABILE

assalto della estrema destra suprematista e nazionalista a Israele s’è di fatto concluso con il trionfo di quelli che fino a qualche anno addietro figuravano negli elenchi dei commissariati riservati agli estremisti, sovversivi, ma che oggi, grazie al successo elettorale ottenuto insieme con il Likud di Benjamin Netanyahu, si accingono a mettere le mani su alcuni meccanismi vitali dello stato ebraico.

Dal funzionamento della Polizia, ai principi che ispirano l’appartenenza alle celebrate Forze di Difesa Israeliane, o Idf, come viene denominato l’esercito; dall’attività degli Insediamenti ebraici nei Territori Occupati, destinati ad una vertiginosa espansione, ai diritti e doveri dei cittadini ara-

turale: l’Autorità per la difesa dell’Identità Ebraica e della Famiglia, istituita nell’ambito dell’ufficio del Primo Ministro. Un incarico la cui denominazione dice tutto.

Il quarto perno di questa controrivoluzione culturale è rappresentato dal capo del partito ultra ortodosso sefardita, Shas, Arieh Dery, il quale s’ è guadagnato la gratitudine eterna del premier incaricato accettando la proposta di Netanyahu di condividere l’incarico di Ministro delle Finanze, tramite una rotazione di due anni per ciascuno, con Smotrich, il quale in un primo momento pretendeva il Ministero della Difesa.

bi-israeliani; dai programmi scolastici sospetti di eccesso di liberalità, alla “difesa della dell’Identità ebraica e della Famiglia”; dall’ordinamento giudiziario, sospetto di troppo “interventismo” e “sinistrismo”, alla Legge del Ritorno: nulla, secondo gli accordi appena sottoscritti tra Netanyahu e i principali alleati di governo sarà sottratto alla furia controriformista della nuova maggioranza.

I cui pilastri sono tre, più un quarto di rincalzo: Itamar Ben-Gvir, capo del partito Otsma Yehudit, Potere Ebraico, il suo partner di sempre, Bezalel Smotrich, Partito Sionista Religioso, e Avigdor (Avi) Maoz, del partito Noam (Piacevolezza), il quale, pur avendo ottenuto un solo seggio in parlamento (gli altri ne hanno totalizzato altri 13) ha avuto un incarico di livello ministeriale assai rilevante sul piano cul-

La pretesa di Smotrich, in effetti, aveva minacciato di mandare tutto all’aria. Il ministero della Difesa è considerato in Israele un incarico strategico di grandissima rilevanza, secondo soltanto a quello del premier. La stessa considerazione ne ha anche l’alleato e protettore americano, che ogni anno versa allo stato ebraico tre miliardi di dollari in aiuti militari. Ora, Smotrich è un tipo di estremista che l’America di oggi trova indigesto: fautore della separazione tra donne ebree e donne arabe nei raparti di maternità. Nemico dei gay: in segno di disprezzo verso la gay proud parade di Tel Aviv ha organizzato la Beast Parade, la parata delle bestie. E recentemente ha minacciato che agirà contro le organizzazioni per i diritti umani e Ngo varie che «rappresentano una minaccia esistenziale per lo Stato d’Israele».

Ma se ha accettato di scambiare il ministero della Difesa con quello delle Finanze, Smotrich non sembra aver rinunciato al suo obiettivo principale di mettere sotto controllo l’Amministrazione civile, che rappresenta il braccio amministrativo dell’occupazione militare, da cui dipende la vita quotidiana dei due milioni e ottocentomila palestinesi che vivono nei territori (senza considerare i quasi due milioni di Gaza e i cinquecentomila di Gerusalemme Est). Amministrazione civile che, finora, è sempre stata di competenza della Difesa.

Se Smotrich fosse stato accontentato, questo passo avrebbe implicato per i palestinesi un ulteriore inasprimento

64 11 dicembre 2022 Medio Oriente
L’ ISRAELE,
I CAPI DEI PARTITI ESTREMISTI ALLEATI DI NETANYAHU HANNO OTTENUTO POSIZIONI-CHIAVE. DA DOVE VOGLIONO INASPRIRE I RAPPORTI CON I PALESTINESI. GIÀ CI STANNO RIUSCENDO
DESTRA PIGLIATUTTO

dell’occupazione e per i settecentomila coloni che vivono nei territori una totale libertà di azione. L’idea di Smotrich, è che bisogna costruire quanto più è possibile in tutta la West Bank in modo da non lasciare ai palestinesi neanche un fazzoletto di terra per il loro futuro, sempre più improbabile, Stato.

Quello che è sicuramente riuscito ad ampliare potere e competenze del suo incarico è stato il neoministro per la Sicurezza Nazionale (ex Sicurezza Pubblica) Itamar Ben Gvir, il quale, oltre a mantenere il controllo della Polizia di Frontiera (Magav) branca della polizia nazionale con compiti di controllo delle frontiere e, dunque, anche a Gerusalemme e nelle zone rurali bordeggianti con i Territori palestinesi, avrà la possibilità di interferire nell’attività del Servizio di Sicurezza Interna, o Shin Bet, e particolarmente del Dipartimento “Terrorismo ebraico”.

Il fatto che sia Ben Gvir ad occupare quel posto, è, secondo un dirigente dei servizi speciali rimasto anonimo,“un’amara barzelletta”. Seguace del partito razzista e anti arabo, Kach, guidato dal Rabbino Meir Kahane, fino a quando, nel 1994, non è stato messo al bando come organizzazione terroristica, Ben Gvir , è stato condannato per sostegno ad organizzazione terroristica e arrestato più volte per attività sediziosa. Adesso avrà ai suoi ordini gli uomini che fino all’anno scorso lo consideravano un agitatore pericoloso.

Ma a riprova che il successo elettorale dell’estrema destra è frutto di uno sbandamento della società israeliana nella stessa direzione, i modi spicci e i propositi minac-

ciosi di Ben Gvir hanno trovato un’eco favorevole nel mondo giovanile, sia tra gli studenti che tra i militari di leva.

Hebron, venerdì 25 novembre. Alcuni pacifisti israeliani di una Ngo che lavorano con i palestinesi vengono fermati dai militari. Scoppia un alterco: uno degli attivisti viene colpito con un pugno al volto che gli procurerà una frattura. Un altro soldato, Yariv Levi, viene ripreso da una telecamera mentre, dopo aver minacciato un’altra attivista («ti spacco la faccia»), si lascia andare contro i pacifisti: «Adesso verrà Ben Gvir e metterà le cose a posto, qui. È tutto. Avete perso. Il divertimento è finito...». Proteste della Ngo e provvedimento del comandante della Brigasta Givati, cui appartengono i militari in questione, Aviram Alfasi: dieci giorni agli arresti per Levi, mentre proseguono le indagini sull’aggressione fisica ad opera dell’altro militare. Apriti cielo. Il padre di Yariv interviene pubblicamente accusando le gerarchie fino al Capo di Stato maggiore, Cochavi, di aver commesso un’ingiustizia per aver condannato il figlio. Ma come si son permessi, «i nostri eroici soldati rischiano la vita ogni giorno per la patria e loro...». Interviene Ben Gvir, il quale, lungi dal condividere l’operato degli ufficiali, solidarizza col il genitore per quella che definisce «un’ingiustizia sproporzionata». Kochavi ribadisce che violenza fisica e verbale contro i civili sono contrarie ai valori delle Idf (tranne che i civili in questione non siano palestinesi, si potrebbe aggiungere, n.d.r.). La pena viene accorciata: sei giorni invece che dieci.

Nahum Barnea, grande giornalista israeliano, dice che l’episodio di Hebron è soltanto la punta dell’iceberg. «Non esiste più l’Israele di una volta. Il peggio deve ancora venire».

11 dicembre 2022 65 Prima Pagina Foto: J. Guez –Afp / Getty Images
Nel cartellone in bianco e nero da sinistra: Itamar Ben-Gvir, Benjamin Netanyahu, Bezalel Smotrich e Avi Maoz Alberto Stabile Giornalista
Effetto guerra
FORTE DEL PROPRIO RUOLO DI MEDIATORE CON PUTIN, ERDOGAN PROVA LA SPALLATA A NORD-EST DELLA SIRIA. E IL TERRITORIO RISCHIA DI ESSERE SACRIFICATO IN NOME DELL’EQUILIBRIO ARTIGLIO TURCO SUL KURDISTAN 66 11 dicembre 2022
DI MARTA BELLINGRERI

na massa ingente di persone si riversa nelle vie di Kobane, Derik, Qamishlo, nel NordEst della Siria. Alcuni sono funerali, altre manifestazioni di protesta. Urla di dolore si confondono a quelle di rabbia. Nonostante la paura di un imminente attacco turco, la popolazione araba e curdo siriana di questo lembo di terra a Est dell’Eufrate scende in strada per opporsi a qualsiasi incursione del nemico alla frontiera. I funerali si trasformano in cortei per salutare le vittime civili e militari dell’operazione voluta da Ankara, “Spada ad artiglio”: dal 20 novembre colpisce con bombardamenti e droni il territorio governato dai curdi, l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria (Aanes), e ha già causato una settantina di vittime. Tra queste, anche soldati dell’esercito governativo di Damasco. La presenza di piazza testimonia che l’unità (non solo territoriale) è più forte del tentativo del presidente turco Erdogan di spezzarla. L’epifania

di una sua invasione via terra, per controllare le città di Tel Rifaat, Kobane e Manbij, e così «sbarazzarsi» al confine delle Forze siriane democratiche (Sdf), curdo-arabe, resta nelle mani della diplomazia di Mosca. Ovvero del successo o meno del tentativo di convincere i curdi ad andarsene da quelle città, senza nessuna battaglia. O, dall’altro lato, del tentativo di far incontrare Erdogan con Assad, il dittatore ancora a capo del governo siriano. Ma nessuno dei due tentativi sembra stia riuscendo. Fin dal primo giorno, Khalil Bozane non ha avuto dubbi. «La Russia ha consentito il passaggio degli aerei turchi nelle proprie aree. Putin ha dato il consenso ad Erdogan per procedere. Non possono fare l’uno a meno dell’altro», conclude, riferendosi al ruolo del presidente turco nella Nato per le trattative con Putin sull’Ucraina. Khalil Bozane vive a Kobane e lavora per il corrispettivo del ministero dell’Interno dell’Amministrazione autonoma del NordEst della Siria. Dell’attacco su larga scala non è sorpreso: lo aspettavano da mesi, da anni. Anzi quella minaccia non si è mai fermata, soprattutto «in vista delle prossime elezioni turche del giugno 2023», dice Bozane a L’Espresso al telefono, dalla manifestazione di Kobane dove marcia insieme ai suoi concittadini. «Erdogan deve raccattare consenso», fingendo di proteggere la sua popolazione. L’operazione è infatti partita in risposta all’attentato terroristico nel centro di Istanbul, domenica 13 novembre, di cui vengono ritenute responsabili le Unità di protezione del popolo (Ypg) curde, parte delle Forze siriane democratiche. Nonostante abbiano negato qualsiasi coinvolgimento, Erdogan schiera le sue truppe, pronte ad andare a fondo, in qualsiasi momento. Lo spalleggiano le milizie armate dell’Esercito nazionale siriano, formate ed equipaggiate dalla Turchia, e che occupano già i territori di Afrin e la zona tra Ras al-Ain e Tal Abyad, frutto delle precedenti operazioni militari turche del 2018 e 2019.

Mazloum Abdi, comandante delle Forze siriane democratiche, lo dichiara in termini più diplomatici, ma il significato è lo stesso: «La Russia ha la piena responsabilità di fermare gli attacchi e prendere una posizione ferma, basata sugli accordi di Sochi nel 2019». Evitando l’escalation militare della Turchia, «la Russia si farebbe garante dell’accordo di cessate il fuoco concordato nel 2019». A conclusione di quell’ultima invasione via terra, tra ottobre e novembre 2019, il dispiegamento delle forze governative siriane e russe nella regione, avrebbe avuto il compito di impedire qualsiasi azione militare turca. Abdi ha dovuto anche annunciare l’arresto delle operazioni anti-Isis, anche quelle congiunte con le truppe americane, proprio per fronteggiare le bombe turche. E sono proprio gli Stati Uniti che la Turchia sta testando. Alleati delle Forze siriane democratiche nella battaglia che ha liberato il territorio del Nord-Est della Siria dal gruppo terroristico dello Stato Islamico,

Foto: B. Ahmad –Ap / La Presse
Curdi siriani ai funerali delle vittime degli attacchi aerei turchi. I raid avrebbero causato già oltre settanta morti e una nuova massiccia ondata di profughi
U
Marta
11 dicembre 2022 67 Prima Pagina
Bellingreri Giornalista

anche gli americani hanno bisogno di Ankara sul fronte ucraino. La Turchia ha contribuito a mediare un accordo sostenuto dalle Nazioni Unite per sbloccare i cereali del Mar Nero. Ma più che mediatore innocuo, Erdogan sotto il tavolo ha tutte le sue carte da giocare. Non per ultima, la sua firma mancante per garantire a Svezia e Finlandia l’ingresso nella Nato. Sul piatto, vuole in cambio l’estradizione dei curdi dai Paesi scandinavi. Il primo, presunto affiliato al Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan) è già stato spedito a Istanbul pochi giorni fa ed è stato immediatamente arrestato.

Effetto guerra

anni di guerra: la rivoluzione contro la dittatura di Assad e la successiva corsa, da un fronte all’altro, a fianco dei feriti. Per questo è ricercata da tutti: dal governo di Assad, dall’Isis, dalla Turchia. Dopo aver visto nelle settimane passate le esplosioni in più villaggi, Jamila conclude con il messaggio più triste. «Ci siamo abituati alla guerra. Andiamo avanti». Il problema sarà come ricominciare daccapo con feriti, funerali, campi per sfollati. E chi è già stato sfollato negli anni passati, «lo sarà per una seconda o terza volta».

Nel villaggio di Teqil Beqil, non distante da Derik, una centrale elettrica è stata colpita all’inizio dell’operazione tra il 19 e il 20 novembre: nel doppio attacco a poche ore di distanza 11 civili sono rimasti uccisi, lasciando i villaggi dell’area senza elettricità. Una settimana dopo, il 28 novembre, sono state uccise otto guardie del campo di al-Hol, dove risiedono famiglie sospettate di aver far parte dell’organizzazione Stato Islamico e dove alcune cellule sono attive, come dimostrano i numerosi omicidi nel corso degli ultimi anni. Nel primo caso, gli americani sono stati testimoni dei civili uccisi, come riportano alcuni parenti delle

LA RUSSIA HA CONSENTITO IL PASSAGGIO

DEGLI AEREI NELLE PROPRIE AREE PER L’ATTACCO SU VASTA SCALA CON BOMBE E DRONI. FORMALMENTE UNA RISPOSTA ALL’ATTENTATO DI ISTANBUL

Nella prima settimana di “Spada ad artiglio” un drone turco ha colpito una base ad Hasakah, in Siria, arrivando a 300 metri dalle truppe americane. Senza nominare l’alleato Nato, il Pentagono ha dichiarato che l'attacco ha «minacciato direttamente» le forze statunitensi e continua ad opporsi fortemente a un ingresso via terra. «Il proseguimento del conflitto, in particolare un’invasione via terra, metterebbe gravemente a rischio le conquiste faticosamente ottenute dal mondo contro l’Isis e destabilizzerebbe la regione», ha affermato un portavoce del Pentagono. Con l’evacuazione del suo personale dal Nord-Est della Siria verso Erbil, nel Kurdistan iracheno, gli Stati Uniti mostrano che non solo la minaccia è reale, vicina, ma che loro hanno già pronta la via di fuga. I loro alleati curdi e arabi dell’Amministrazione autonoma non hanno invece scelta.

«L’ennesima invasione della Turchia provocherebbe, oltre a nuove vittime, un’enorme ondata di sfollati in una Siria già prostrata da instabilità, crisi economica, e dallo spettro del colera», dice Jamila (non pubblichiamo il cognome per proteggere la sua identità) che lavora come coordinatrice medica. Nella voce di Jamila ci sono oltre dieci

vittime al Rojava information center. Nel secondo caso, il pericolo dell’Isis e lo sforzo di contenerlo è il motivo per cui gli Stati Uniti non hanno lasciato la Siria. Proprio nei giorni in cui è stata resa pubblica la notizia dell’uccisione in ottobre del leader dell’Isis e l’annuncio del nuovo, la Turchia colpisce i luoghi dove si prova a contenere l’Isis, come il campo di al-Hol e la prigione di Jerkin. Nel campo, dopo l’attacco, si è registrato un tentativo di fuga in contemporanea. Secondo il giornale Al-Monitor, invece, alcuni pozzi di petrolio e strutture collegate sono stati danneggiati dall’aggressione turca, vicino al confine con l’Iraq. Di questi, potrebbero essere clienti diverse compagnie petrolifere internazionali. Dove altro vuole arrivare Erdogan?

«Né russi né americani: a nessuno importa di noi» dice Khalil Bozane, ancora dalla sua marcia. «Per questo protestiamo: resta a noi popolo farci carico del nostro destino».

Foto: B. Ahmad –Ap / La Presse
Prima Pagina 68 11 dicembre 2022
Gli effetti di un attacco turco alla centrale elettrica di Teqil Beqil
L’ESPRESSO. TUTTO CIÒ CHE ERA E TUTTO IL NUOVO CHE VERRÀ. lespresso.it L’ESPRESSO INIZIA UNA NUOVA STORIA. LE GUIDE DE L’ESPRESSO NELLE MIGLIORI LIBRERIE E SU AMAZON.

Ostaggi in Africa

RAPITI IN MALI E DIMENTICATI

DI CHIARA SGRECCIA

Resta il silenzio a coprire le voci di tre italiani rapiti in Mali lo scorso maggio: Rocco Langone, la moglie Maria Donata Caivano e il figlio Giovanni, scomparsi verso le otto di sera del 19 maggio 2022 dalla loro casa a Sincina, un villaggio rurale a undici chilometri da Koutiala, nella regione di Sikasso, nel sudest del Paese, vicino al confine con il Burkina Faso. A opera di «uomini armati», scrivono le agenzie di stampa subito dopo l’accaduto. Probabilmente, banditi locali che hanno rivenduto gli ostaggi - assieme ai tre italiani è stato rapito anche un cittadino del Togo - ai gruppi jihadisti che sono presenti nel Sahel, la regione nordafricana che separa il Sahara dalla savana sudanese, conosciuta per la sua instabilità, conseguenza anche della precarietà politica che caratterizza da anni il Mali.

«A seguito del rafforzamento degli accordi di cooperazione tra il governo maliano della giunta militare e il Cremlino, l’Unione europea e la Francia hanno sospeso le missioni attive nel Paese mentre la Russia ha potenziato l’invio di armi, equipaggiamenti e personale militare con non meglio precisati compiti di training e di formazione ma anche di presenza sul ter-

ritorio. Sebbene la notizia non sia stata confermata dal governo di Bamako, si crede che siano circa un migliaio i mercenari del gruppo Wagner impegnati, assieme ai soldati maliani, in violente operazioni militari che starebbero spingendo i gruppi jihadisti o a ripiegare verso il Nord, area di cui già hanno il controllo, o a cercare nuovi territori e canali per finanziarsi». Ecco perché, come spiega Andrea de Georgio, Associate research fellow all’Istituto per gli studi di Politica internazionale, che ha vissuto in Mali per 6 anni, il rapimento dei tre italiani e del togolese, anche se è avvenuto nel Sud-Est del Paese, zona in cui le forze jihadiste non sono solite agire, per modus operandi può essere collegato a molti altri sequestri che ci sono stati negli ultimi anni. Come quello della suora colombiana Gloria Cecilia Narváez, rapita nella zona di Koutiala e liberata dopo quattro anni e otto mesi di prigionia, ad ottobre 2021. «O come è successo a padre Maccalli, prelevato in Niger e poi portato nel Nord del Mali. Rilasciato insieme a Nicola Chiacchio, alla coo-

perante francese Sophie Petronin e al politico maliano Soumaila Cisse, a ottobre 2020. Con molta probabilità, anche i cittadini rapiti a maggio sono stati trasportati nel settentrione maliano, sotto il controllo del Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani, una delle due più importanti sigle jihadiste che operano nel Sahel, di cui fa parte anche la Katiba Macina, branca qaedista a cui, da quanto sappiamo, gli uomini armati hanno consegnato gli ostaggi dopo il rapimento», sostiene de Georgio, sulla base degli studi condotti fino a oggi e delle fonti che ha sul territorio.

«Il Gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani (Gism) è, infatti, noto per le sue abilità nel trattare con i governi occidentali per la liberazione degli ostaggi, grazie a canali per i negoziati che sono aperti da anni. Si tratta di un vero e proprio business per i gruppi jihadisti che si finanziano con gli euro che ricevono dai governi europei: un francese vale più di un italiano che vale più di uno spagnolo», spiega de Georgio. «Anche se, ultimamente, al denaro si è aggiunta la richiesta di scambio di prigionieri, come è successo per il rilascio di Padre Maccalli». Che al telefono

70 11 dicembre 2022
Un soldato francese durante la missione, cessata, nel Sahel

ha una voce flebile e cauta. Non ha molta voglia di dilungarsi nel racconto che ha già fatto tante volte, di ricordare le giornate interminabili che ha trascorso nelle mani dei jihadisti, dal 17 settembre del 2017 all’8 ottobre 2020. Di far riemergere la sofferenza «che è lunga, dura e difficile da affrontare. Per questo dobbiamo continuare a pregare. Perché ci sono altri ostaggi che affrontano la medesima sofferenza», aveva dichiarato il giorno dopo la liberazione. E lo stesso dice oggi dalla Società delle missioni, l’istituto di Genova dove risiede: «Sono vicino alle famiglie e alle perso-

ne rapite per quello che stanno vivendo». Così, dopo qualche secondo di attesa in cui da un capo all’altro del telefono passa solo il ronzio prodotto dalla linea fissa, Padre Maccalli si congeda. Con lo stesso silenzio imperfetto che contraddistingue la chiamata quando nessuno parla, Annamaria Langone, la sorella di Rocco, che da mesi non dice più nulla a proposito del rapimento, ha preferito non rispondere a L’Espresso. Abita a Ruoti, il piccolo comune vicino Potenza in cui Langone ha vissuto prima di trasferirsi con la moglie a Triuggio, in provincia di Monza e Brianza, dove marito e moglie sono rimasti fino al 2019 quando hanno raggiunto il figlio a Sincina, in Mali. Lì erano conosciuti come la “famiglia Coulibaly” e secondo alcune testimonianze stavano progettando di avviare una sala del Regno, luogo di culto dei testimoni di Geova. «Non ero a conoscenza del loro credo religioso. Erano una famiglia riservata che, anche geograficamente, risiedeva in una zona ai margini del Comune, vicino al fiume Lambro, per cui sono pochi gli abitanti di Triuggio che li conoscevano bene», spiega il sindaco Pietro Cicardi. «Io ci ho avuto a che fare più volte in quanto primo cittadino ma da mesi non ho nessun tipo di notizia, né per via del fratello di Giovanni che mi capita di incontrare visto che abita in un paese poco distante da qui, né per le vie ufficiali». Non ha notizie aggiornate neanche Felice Faraone, assessore alla Cultura del comune di Ruoti che è rimasto in contatto con i parenti degli italiani sequestrati.

Dopo quasi 7 mesi dal rapimento, su Rocco Langone, Maria Donata Caivano, il figlio Giovanni e il cittadino togolese che era con loro, è sceso un profondo silenzio. Come solitamente succede durante i sequestri per mano di gruppi terroristici, il ministero degli Esteri chiede il massimo riserbo: «in accordo con la famiglia. Per non complicare la vicenda che stiamo seguendo con la massima attenzione. Per questo non possiamo dare ulteriori informazioni da diffondere», fanno sapere dalla Farnesina. Perché per accrescere la situazione di pericolo in cui si trovano gli ostaggi basta poco. Ma resta lo sconforto in chi si interroga sulla sorte dei prigionieri e l’aura di mistero sulle trattative tra i governi dei Paesi occidentali e le forze jihadiste. Che sopravvivono anche grazie alle ingenti somme di denaro pagate dagli Stati come riscatto.

11 dicembre 2022 71 Prima Pagina Foto: T. Coex –AFP / Getty Images
LA
ALLE
E
SI TRATTA CON GRUPPI JIHADISTI PER
FAMIGLIA ITALIANA, FORSE CEDUTA
BANDE CHE IMPERVERSANO NEL SAHEL, SPINTE A NORD DA GOVERNATIVI
MERCENARI RUSSI DELLA WAGNER
iltuofreepressdinotiziequotidianeancheonlinesumetronews.it

Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione

Viva l’Italia del 12 dicembre», canta Francesco De Gregori. Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, nella sede della Banca nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, esplode la bomba che — è stato scritto — fa perdere l’innocenza a una generazione. Autorimaterialidell’attentato,cheuccide 17 persone e ne ferisce 87, sono i neofascisti di Ordine nuovo. L’organizzazione eversiva, nata in seno al Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante, viene sciolta nel 1973, perché ritenuta una ricostituzione del partito fascista vietata dalla XII disposizione finale della Costituzione.

Basta, dunque, una data in una celebre canzone per indicare con immediatezza un evento divenuto luogo di memoria. Ma fino a che punto quella memoria è depositata nella narrazione consapevole della storia nazionale? E, in particolare, quanto è comprensibile al mondo della scuola?

Ancorché non istituzionalmente riconosciuta nel nostro affollato “calendario civile”, la data del 12 dicembre è bene che sia oggetto di una riflessione dedicata. E l’occasione può senz’altro essere un corso di aggiornamento e formazione per insegnanti, che aiuti a trasformare momenti di celebrazione in occasioni di conoscenza e di riflessione, tra storia, cultura ed educazione alla cittadinanza, attenti al contesto storico e alle complesse dinamiche della memoria collettiva. È quanto l’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea di Pavia ha provato a fare in un ciclo di lezioni conclusosi lo scorso novembre, che agli insegnanti era anzitutto rivolto e che ave-

va per tema proprio gli eventi e i problemi del nostro calendario civile.

La “strategia della tensione”, che ha inizio quel 12 dicembre di cinquantatré anni fa, non si esaurisce nella sola politica stragista, ma si deve assumere come un fenomeno storico di lunga durata nell’Italia repubblicana. Per questo una seria riflessione sul tema rinvia alle condizioni storico-politiche ed economico-sociali che resero possibile il verificarsi di quegli eventi. In tal senso, il 1969 è davvero una data periodizzante nella storia della Repubblica, tra istanze di trasformazione e tendenze restauratrici, il cui sguardo è rivolto al passato di fronte alle tensioni del presente. Con la “stagione delle stragi” si inasprisce lo scontro sociale; si opera per spostare a destra l’opinione pubblica, prima ancora che l’asse della politica; si evocano governi d’ordine, fino alla esplicita rottura degli assetti istituzionali. Nella sostanza una dinamica eversiva nella quale lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva fin lì mai

tentata, forte delle connessioni più disparate con uomini e apparati dello Stato, in un reticolo di poteri più o meno occulti. Tra vergognose rimozioni e frettolose ricomposizioni si consumano crisi e tensioni che investono le Forze armate, le relazioni industriali, il sistema politico e l’ordine pubblico.

Non meno importante è, infine, lo scenario internazionale, laddove le rigidità dei blocchi contrapposti in tempi di Guerra fredda si misurano con il processo di distensione degli anni Sessanta e, al suo interno, un sistema dei partiti bloccato in cui si consuma la crisi del centrosinistra. Una faticosa e, per molti aspetti, drammatica, crisi di transizione che porta il Paese dalla fase storica espansiva degli anni Cinquanta e Sessanta al progressivo esaurimento di quel modello.

*Presidente dell’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

11 dicembre 2022 73 Prima Pagina Foto:Publifoto / La Presse Calendario civile
L’interno della Bna, in piazza Fontana a Milano, dopo l’attentato del 12 dicembre 1969

SUPREMATISTI DI CASA NOSTRA

DI SIMONE ALLIVA

Neofascisti / La minaccia
74 11 dicembre 2022

è una battaglia sottotraccia che corre nel mondo dell’antiterrorismo italiano di cui si leggono sporadicamente le cronache e che non riusciamo a mettere a fuoco: quella al terrorismo bianco. Globalizzato e fuso tra il neofascismo italiano e il suprematismo americano. Un fenomeno in Italia ancora allo stato embrionale ma in crescita.

Basta leggere con qualche attenzione le brevi di cronaca. A Genova a fine novembre sono stati arrestati tre ragazzi di 21 anni. L’operazione delle indagini “Blocco Est Europa”, prende il nome dal gruppo Telegram in cui i partecipanti esaltavano gli autori delle stragi nelle scuole, professavano simpatie per Hitler, progettavano stragi. E si scambiavano centinaia di immagini e video di decapitazioni, suicidi, violenze sessuali anche a danno di minorenni, il tutto condito di commenti xenofobi, misogini e suprematisti. Alcuni avevano avviato una vera «campagna di addestramento» al tiro con armi ad aria compressa utilizzando come «bersaglio» effigi di importanti cariche dello Stato in varie zone abbandonate della città.

A metà novembre, come ha già raccontato L’Espresso, in Campania sono stati cinque gli arresti per associazione sovversiva, istigazione all’odio razziale, porto e detenzione di armi. Il gruppo neonazista era riunito sotto la sigla “Ordine di Hagal”, con sede a San Nicola la Strada, alle porte di Caserta. Ancora un mese prima la polizia aveva arrestato un neonazista italiano di 23 anni che era pronto a commettere un attentato per «difendere la razza bianca», sul modello della strage di Buffalo e altri massacri.

A Sammichele di Bari nell’abitazione di Luigi Pennelli sono state trovate una carabina ad aria compressa, balestre, archi e mazze da baseball con simboli nazisti. Gli inquirenti sostengono che Pennelli era in procinto di comprare una stampante 3D per fabbricare una ghost gun, una pistola fantasma, cioè un’arma senza matricola e non tracciabile. Nell’ordinanza di cu-

A PREDAPPIO

Il raduno a Predappio, in provincia di Forlì, dove c’è la tomba di Mussolini, nell’anniversario della marcia su Roma. Sotto, bandiere naziste e fasciste vendute al mercato dei souvenir

stodia cautelare, la giudice per le indagini preliminari Paola De Santis ha scritto che l’uomo era pronto a commettere un attentato per compiere il «sacrificio estremo a difesa della razza bianca».

Negli ultimi cinque anni si sono moltiplicati i casi di radicalizzazione e le indagini condotte dalla Digos della polizia di Stato e dal Ros dei carabinieri, che si scambiano informazioni ogni giovedì attraverso il Comitato analisi strategica antiterrorismo, spesso evidenziano i collegamenti ideologici o persino operativi con gruppi all’estero.

Secondo un recente report pubblicato dall’Università di Oslo, il nostro Paese è al terzo posto in Europa occidentale per numero di eventi terroristici riconducibili all’estrema destra. Una galassia nera che può vantare una struttura orizzontale, lontana da quella dei leader e delle gerar-

DALLA LIGURIA ALLA CAMPANIA, GIOVANI E NON, RAZZISTI E NOSTALGICI SI SCAMBIANO MESSAGGI BELLICOSI, DRITTE SULLE ARMI E PROGETTANO ATTENTATI. TUTT’ALTRO CHE FOLCLORE

chie (com’è stato per Ordine nuovo in Italia, per esempio), e costituita da piccole cellule e singoli individui che condividono un’ideologia. I social forniscono degli spazi in cui le persone possono radicalizzarsi: più questi sono chiusi, più diventano delle “echo chambers” (camere d’eco) dove i partecipanti si fomentano reciprocamente con tesi estremiste e senza contraddittorio.

Secondo un report di Europol del 2020 sulla situazione e l’andamento del terrorismo nell’Ue, negli ultimi anni, le applicazioni di messaggistica istantanea criptata come WhatsApp o Telegram sono state largamente utilizzate per coordinare e pianificare gli attacchi terroristici e la preparazione delle campagne di reclutamento. A questi si aggiunge 4chan, il forum statunitense che ha dato origine alla cosiddetta alt-right. E VKontakte, il social network russo noto per le sue regole di moderazione molto blande.

Foto: Espen Rasmussen / VII / Redux / Contrasto, Getty Images
C’
Simone Alliva Giornalista
11 dicembre 2022 75 Prima Pagina

Sono i «covi virtuali» in cui è possibile intravedere una grammatica fondata da capisaldi della cultura neo-nazista: ad esempio il romanzo “The Turner”, pubblicato nel 1978 dall’ideologo nazista americano William Luther Pierce. Un manuale operativo per aspiranti terroristi. E poi meme, bandiere, iconografie, simboli che dal principio dei tempi raccontano una storia: basta alzare gli occhi per capirla. Ma anche eroi nostrani come Luca Traini, il neofascista responsabile dell’attentato del 3 febbraio 2018 a Macerata, condannato a 12 anni di carcere con l’accusa di strage, porto abusivo d’armi e danneggiamenti con l’aggravante dell’odio razziale. Spesso citato all’interno di questi gruppi come un esempio da seguire.

«La radicalizzazione nella galassia suprematista avviene ormai quasi esclusivamente online», spiega Matteo Pugliese, ricercatore dall’Università di Barcellona, esperto di terrorismo e sicurezza internazionale: «Tramite forum come 4chan in cui vengono veicolate le teorie cospirazioniste e la propaganda estremista, ma anche in chat criptate, dove i militanti pensano di potersi esprimere senza freni. La simbologia è un elemento importantissimo per l’estremismo di destra, che include un mix di nazismo e antisemitismo, richiami esoterici (come l’Ordine di Hagal a Napoli e il Sole Nero a Savona) ma anche al cristiane-

STRAGE

Luca Traini, autore della sparatoria contro migranti del 3 febbraio 2018 che causò il ferimento di sei persone a Macerata. Traini è stato condannato , a 12 anni con il rito abbreviato per strage aggravata dall'odio razziale e porto abusivo d'arma. In alto, tazze ricordo con simboli nazifascisti

simo con le crociate e i templari».

Il colpo d’occhio sulle ultime misure cautelari è generazionale. Gli aspiranti terroristi sono tutti giovanissimi, dai 20 ai 24 anni. «Quando abbiamo a che fare con cellule strutturate, i capi sono anche over 40, come a Napoli, e fanno proselitismo di persona. Mentre nel caso di singoli radicalizzati la dimensione digitale diventa centrale, l’età media si abbassa fino all’adolescenza - sottolinea Pugliese - e tende a coinvolgere individui con poche interazioni sociali, che passano molte ore davanti al computer, in alcuni casi con il fenomeno degli “Incel”, celibi involontari che sviluppano sentimenti misogini perché si sentono rifiutati, come nel caso di Andrea Cavalleri a Savona, il ragazzo di 23 anni, arrestato lo scorso anno e che voleva fare una strage di donne ed ebrei».

Non è il terrorismo di estrema destra che abbiamo conosciuto tra gli anni Settanta e Ottanta, non punta a destabilizza-

Neofascisti / La minaccia
76 11 dicembre 2022

SECONDO UN

DELL'UNIVERSITÀ

mo ancora in uno «stato embrionale», come ha detto in un’intervista all’Adnkronos Eugenio Spina, capo del Servizio per il contrasto dell’estremismo e del terrorismo interno.

re il Paese ma a difenderlo «dall’invasione», «dalla sostituzione etnica» o a creare un «etno-Stato» bianco. Di fronte a tutto questo risulta difficile parlare di «lupi solitari», cioè persone prive di legami con gruppi o movimenti. «È un concetto molto contestato dagli esperti - spiega Pugliese - c’è sempre un legame con una rete di appoggio che radicalizza il soggetto, fornisce materiali di addestramento o assemblaggio di esplosivo, o suggerisce persino obiettivi».

Lo aveva raccontato su queste pagine Rosaria Capacchione. L’ideatore di una strage alla caserma dei carabinieri di Marigliano, nel Napoletano, Giampaolo Testa, aveva ricevuto un addestramento militare in Polonia e Ucraina con gruppi di estrema destra. Proprio il massacro di Christchurch viene menzionato nelle intercettazioni di Testa. Se negli Stati Uniti e in altri Paesi europei questo modello di terrorismo è solido da anni, in Italia sia-

L'arrivo di neonazisti ad Albano Laziale, nel 2013, per il funerale del gerarca nazista Erich Priebke. Tatuaggi che inneggiano al duce sulle braccia di un attivista, davanti al cimitero dove è sepolto Mussolini, a Predappio, in provincia di Forlì

Per Ranieri Razzante, già consigliere per la cybersecurity del sottosegretario alla Difesa nel governo Draghi e direttore del Centro ricerca sicurezza e terrorismo (Crst) «in Italia, come in Europa, non abbiamo una strumentazione del tutto adeguata o aggiornata alle cyber-minacce. Bisognerebbe urgentemente muoversi per costituire un’agenzia europea di difesa comune. Abbiamo privilegiato per anni, come era giusto che fosse, la difesa agli attacchi tradizionali e non a quelli cyber. Nei nostri modelli culturali non c’è stata attenzione sufficiente alle guerre ibride e soprattutto a nuove modalità di attacco. Servirebbe una presa di coscienza mondiale, delle istituzioni Ue e sovrannazionali, per un “codice unico”, che realizzi norme comuni e policy di intervento rapido e intrastatuale».

Intanto nelle chat controllate costantemente dalle forze dell’ordine c’è una dimensione psichica, individuale e collettiva, che monta. Rabbia in folle, gira a vuoto, promette di uscire fuori e vendicarsi. Un velo bianco che non si vede ma si sente.

Foto: Ansa, Getty Images (2), Agf
POSTO IN EUROPA OCCIDENTALE PER NUMERO DI EVENTI TERRORISTICI RICONDUCIBILI ALL'ESTREMA
REPORT
DI OSLO, IL NOSTRO PAESE È AL TERZO
DESTRA
11 dicembre 2022 77 Prima Pagina

caduto un ago durante il laboratorio di cucito. Intorno a un tavolo ingombro di stoffe, sei donne non vedenti e ipovedenti stanno realizzando bambole per un mercatino. Martina Spezzi, 21 anni, può cercare l’ago sul pavimento perché ha il privilegio della vista. Da agosto è volontaria del servizio civile presso l’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti. E in questa stanza della sede romana, vicino a un quadro che rappresenta note musicali, annuncia festosa di aver trovato l’ago.

Sono trascorsi cinquant’anni dall’istituzione, nel dicembre 1972, del servizio civile

78 11 dicembre 2022 Vite di impegno
DI TOMMASO GIAGNI FOTO DI ALESSANDRO PENSO
È LA SOLIDARIETÀ O LA DIVISA. A CINQUANT’ANNI DALL’ISTITUZIONE DEL SERVIZIO CIVILE, A 17 DALLA FINE DELLA LEVA, CONFRONTO A DISTANZA TRA DUE GIOVANI DONNE. LA STORIA E LE SCELTE AL SERVIZIO DEG

DEGLI ALTRI

come obiezione di coscienza al servizio militare. Oggi si chiama servizio civile universale, Martina ha scelto di svolgerlo con l’Uici perché ha persone ipovedenti in famiglia: «Diciamo che ci vivevo già con questa cosa. Ma tutti dovrebbero svolgerlo qui, secondo me: è una crescita personale proprio». Il suo compito principale è l’accompagnamento assistito. Dove serve: a fare una visita medica, al mercato, alla posta. È un servizio di cui l’Uici si occupa da anni per conto del Comune di Roma, in convenzione, attraverso una rete di volontari che copre turni dalla mattina presto fino a sera.

Dopo il diploma alberghiero, Martina ha iniziato l’università. È al secondo anno di

IL QUOTIDIANO

Filomena Rosotta, 20 anni, all'interno dell’80° Reggimento addestramento volontari “Roma” a Cassino. A sinistra, Martina Spezzi, 21 anni di Roma nella sede dell’Unione italiana ciechi e ipovedenti dove presta servizio civile

Infermieristica, vuole fare dell’assistenza il suo mestiere. Di recente ha avuto il Covid e non è potuta uscire, le è pesato allontanarsi dagli assistiti: «Si crea un rapporto, ci telefoniamo, sono come nonni. Insomma mi mancavano». Il servizio mette auto a disposizione, ma lei preferisce spostarsi a piedi. «A volte conoscono le strade e mi guidano loro». Accompagna fino agli appartamenti, se occorre. «Ci sono persone che non hanno mai visto la loro casa. Allora gliela descrivo». Sorride: «In effetti sto sempre a descrivere».

Linea C, cambio, linea A, cambio, linea B. Tre metropolitane, dalla periferia est di Roma, solo per raggiungere la sede in centro. Martina lavora 5 ore al giorno, dal lunedì al venerdì, per 444 euro netti al mese. Non si fanno i dodici mesi di servizio civile per soldi, ma la cifra lascia sbalorditi comunque. «Il budget è rimasto indietro, a quando era di 800.000 lire», scuote la testa Giuliano Frittelli, presidente della sezio-

11 dicembre 2022 79 Prima Pagina Foto: Maps Images
Tommaso Giagni Scrittore

ne Uici dell’area metropolitana di Roma. «Il nostro bando chiamava 90 persone e ne abbiamo una quarantina». Non si riesce a soddisfare ogni richiesta. L’Uici a Roma ha circa 1.200 soci ma il servizio si rivolge a tutti i residenti, quindi vanno aggiunte diverse centinaia di persone. Frittelli parla da dietro una scrivania, su cui troneggia una vecchia macchina per scrivere in braille. Lo inorgoglisce il servizio d’accompagnamento assistito: «È un fiore all’occhiello per Roma, c’è in poche altre città».

È anche un lavoro delicato, oltre che necessario. «Impegnativo», dice Martina. La dimensione psicologica, la responsabilità di una persona che si affida, gli imprevisti. Lei e gli altri giovani in servizio civile all’Uici hanno una chat, si confrontano. Impegnativa è Roma. Martina esce per accompagnare una delle donne del corso di cucito. Vediamo così lei e la signora Maria, 76 anni, muoversi a braccetto tra monopattini, marciapiedi spaccati, auto parcheggiate dove non si può. «Attenta, c’è un po’ di salitella». Devono arrivare a Colli Albani, conviene fare più strada a piedi invece che affrontare, alla stazione Termini, il caos di un cambio di linea metro. Chiacchierano, parlano di sushi, che piace a entrambe. Martina ogni tanto si interrompe per avvertire: «Marciapiede», o: «Eccoci», quando scatta il verde al semaforo. Pren-

LA ROUTINE

Filomena Rosotta a mensa nella caserma di Cassino. A destra, in palestra. In alto, durante un’ esercitazione. Al centro, Martina Spezzi, con due ragazze non vedenti nella sede dell’Uici, discutono di manicure

dono la metropolitana, sempre a braccetto. Le persone intorno si comportano a seconda delle sensibilità, c’è chi agevola il tragitto e chi neanche si sposta.

L’espressione di Filomena Rosotta la fa ancora più giovane dei suoi 20 anni. È nata dopo l’attacco alle Torri Gemelle e si è arruolata lo scorso ottobre, quando la guerra in Ucraina già spingeva sull’Europa. Viene da Aversa, provincia di Caserta: «L’unica femminuccia di quattro figli. L’unica ad arruolarsi. Ho portato io la novità», ride: «Ai miei fratelli, chiedono: come mai ha scelto questa vita?». La leva obbligatoria è stata sospesa nel 2005: si sceglie, in effetti, di essere in una caserma come

80 11 dicembre 2022 Vite
di impegno
***

questa di Cassino (Frosinone), ai piedi dell’abbazia.

Mena ha la mimetica col cognome cucito all’altezza del cuore, sulle maniche lo scudo dell’Italia e quello del reggimento. L’80°, uno dei quattro di addestramento volontari che avviano all’esercito. Per appartenere al primo blocco di Vfp1 del 2022, ha superato test di cultura generale, test fisici, test psicologici. Concluse le undici settimane di formazione, passerà in area operativa o logistica, il tutto dura un anno. L’esercito è stato una folgorazione a tredici anni, il giorno in cui vide alcuni militari impegnati nell’Operazione strade sicure: «Mi misero una sicurezza addosso». Si è diplomata al liceo scientifico, più avanti le piacerebbe prendere la laurea al corso per sottufficiali. Il primo obiettivo

comunque è diventare maresciallo, anche per insegnare ciò che stanno insegnando a lei.

Le donne sono state ammesse nelle forze armate nel 1999. In questo reggimento sono quasi un centinaio, Mena ci mostra la sua camerata dove alloggiano in otto. Sveglia alle 6, 45 minuti per prepararsi: «Dev’essere tutto perfetto, il posto branda e l’armadietto. All’inizio le difficoltà ci sono state. A casa ero la prima a essere pronta quando bisognava uscire, qui devo essere ancora più precisa, ogni minuto è prezioso». Il suo posto branda è in ordine, a formare il «cubo». La coperta di lana mostra le iniziali dell’esercito italiano. Sul materasso c’è una sedia. Non vediamo una scrivania, chiediamo a Mena dove si sieda e allora alza, dall’ultima parte del letto, un ripiano di legno: «Ecco. Qui studio». Che cosa? «Il fucile, la bomba a mano», spiega, «le tradizioni del nostro reggimento». Tiene i capelli raccolti secondo la regola, non può truccarsi né portare monili, l’unica ammessa è la fede nuziale. Ci mostra il suo armadietto. In basso, il comparto delle scarpe, dove la sera ripone i pesanti anfibi. Alle 22,15 il contrappello, qualche minuto per mettersi a letto. «Io e la mia collega», indica il posto branda accanto al suo, «siamo le prime ad addormentarsi».

A comandare il reggimento è il colonnello Valerio Lancia, classe 1974. Mentre ci fa strada per entrare nel suo ufficio, si ferma: saluta la bandiera di guerra, che rappresenta l’unità ed è custodita in una teca. «Qui si diventa militari», dice poi, con un gesto ampio che raccoglie la caserma. Qui, allievi e allieve sono in 433, hanno tra i 19 e i 25 anni e appunto sono alla prima esperienza militare. Tre su quattro provengono da Sud e Isole. Ricevono vitto, alloggio e circa 1.050 euro netti al mese. «Imparano le basi, non solo pratiche ma anche etiche. Sento una responsabilità

11 dicembre 2022 81 Prima Pagina Foto: Maps Images
MARTINA SPEZZI È VOLONTARIA ALL’UNIONE CIECHI. IL RIMBORSO È DI 400 EURO AL MESE. FILOMENA ROSOTTA NE GUADAGNA MILLE. È AL CORSO DELL’ESERCITO E VUOLE FARE CARRIERA

come da genitore, perché è coinvolto un piano umano». Di ripristinare la leva obbligatoria si è parlato negli ultimi mesi, benché la professionalizzazione abbia impresso una svolta che ha cambiato le cose in profondità. «Vengono qui perché vogliono starci. Per chi è nel mio ruolo, significa avere maggior facilità a lavorare ma anche una difficoltà in più, perché non devi deluderli». Ogni giorno il comandante condivide la tavola a mensa con tre allievi: «Per conoscerli, per capire. Aiutare ad ambientarsi. L’impatto può essere duro, per esempio per la condivisione degli spazi. Ma da quella condivisione nasce il gruppo, il Noi». Allievi e allieve sono ritenuti all’inizio di un percorso. Il comandante lo illustra anche in rapporto alla scelta che cinquant’anni fa obiettava al servizio militare. «Questo primo anno gli permette di rimanere, mentre il servizio civile è a termine. Ma entrambe sono esperienze di altruismo e solidarietà. Entrambe servono il Paese, sta già nel nome».

Mena stamattina ha già seguito una lezione teorica, poi una conferenza sui compiti dell’opera che assiste gli orfani di militari dell’esercito. Poi ha svolto attività fisica all’aperto e in palestra, dove ha imparato la tecnica per salire la corda. Il tempo libero è poco, a lei piace occuparlo leggendo: «Mi piacciono le storie che mi tirano su di morale». Usciamo dagli alloggi. Me-

na ci dice che può tornare a casa ogni weekend, se ottiene il permesso di fine settimana: «Se ti comporti bene. Per ottenere una cosa devi guadagnartela». Nel piazzale dell’alzabandiera risuonano le marce. Presto allievi e allieve giureranno fedeltà alla Repubblica, a concludere queste prime settimane. Lei si ferma per indossare un casco, imbraccia un fucile, e la seguiamo in una stanza buia. È un simulatore di tiro: c’è uno schermo su una parete, sensori intorno a Mena, il fucile è caricato ad aria compressa. Si accovaccia e inizia a sparare contro un bersaglio sullo schermo. I risultati dei tentativi compaiono su un computer e danno un punteggio. Quando torniamo alla luce, Mena ci spiega che le piace davvero esercitarsi a sparare. Sorride e sembra avere meno di vent’anni, dice: «Mi sento a mio agio».

Prima Pagina 82 11 dicembre 2022 Foto: Maps Images
Vite di impegno
Filomena Rosotta imbraccia l’arma durante l’addestramento a Cassino.In alto, Martina Spezzi insieme a Maria al mercato “STUDIO DA INFERMIERA. HO AVUTO IL COVID, MI MANCAVANO I MIEI ASSISTITI, SONO COME NONNI”. “ARRUOLATA PER VOCAZIONE. MI PIACE QUESTA VITA, MI LAUREERÒ DA SOTTUFFICIALE”

L’armata del silenzio

Il ruolo di Pio XII nella seconda guerra mondiale. Le parole di Francesco sul conflitto attuale. L’imparzialità della Chiesa. Lo storico Andrea Riccardi riflette sul tacere come strategia per la pace

di Donatella Di Cesare illustrazione di Gianluca Folì

84 11 dicembre 2022 La storia e il presente
11 dicembre 2022 85 Idee

appena uscito il libro di Andrea Riccardi, “La guerra del silenzio. Pio XII, il nazismo, gli ebrei” (Laterza), in cui viene affrontato un capitolo oscuro e controverso del Novecento sulla base di documenti consultabili per la prima volta. È un’opera che rappresenta certamente il culmine degli studi condotti nel corso di molti anni dall’autorevole storico e che è destinata a far discutere. Il suo libro sul “silenzio” di Pio XII, un tema delicato e incandescente, viene alla luce da una lunga ricerca, resa possibile anche dalla riapertura degli Archivi Vaticani che, se fosse stata tempestiva, avrebbe evitato il consolidarsi di stereotipi e giudizi affrettati. Lei ribadisce che «il lavoro dello storico non è quello del giudice» e che occorre anzi-

tutto comprendere.

«Il tema del pontificato di Pio XII e del suo atteggiamento nella Seconda guerra mondiale è oggetto di discussione da più di mezzo secolo. È un topos della storia contemporanea. Tuttavia la discussione si è svolta finora senza potere utilizzare la fonte primaria della ricerca, gli Archivi Vaticani. La loro recente apertura, voluta da papa Francesco, ha schiuso allo studio un materiale immenso. Mi sono sempre chiesto se la lentezza nel mettere a disposizione questi archivi abbia giovato all’interesse stesso della Chiesa. Certo non ha giovato alla ricerca, che ha dovuto lavorare su fonti secondarie. Per quello che abbiamo finora visto, il materiale archivistico vaticano è di grande interesse. Non si trova un

documento “esplosivo” ma, secondo me, esistono fonti ricchissime, non solo per scrivere la storia della Santa Sede in guerra, ma anche per la testimonianza che offrono sulle sofferenze e i dolori del conflitto. Penso alle lettere di chi domanda aiuto e descrive la propria situazione, lettere provenienti da ogni parte del mondo». Che cosa significa “silenzio”? Quello di Papa Pacelli sembra inscriversi all’interno di un più vasto silenzio, quello sull’antisemitismo e sulla Shoah, di cui l’Europa non si è sbarazzata neppure dopo il 1945. Ma nelle sue pagine scopriamo che il Papa stesso accennava al proprio silenzio, parlandone, anzi, al plurale. Ci sono stati tanti “silenzi”?

«Ci sono tanti “silenzi” durante la Seconda guerra mondiale. Il papa stesso parla durante la guerra con monsignor Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, a proposito dei “miei silenzi” sul comportamento tedesco. Allora “silenzio” era anche un termine usato in Vaticano. Nel mio libro dico che, prima di tutto, ci sono i silenzi di Pio XII sulla Polonia, sofferti dai cattolici polacchi. I silenzi – cioè richiami ai principi

86 11 dicembre 2022 La storia
il
e
presente
“La mia posizione verso papa Pacelli non vuole essere giustizialista. Nemmeno apologetica. Il compito dello storico non è giudicare ma comprendere”
In alto: Papa Pio XII; Andrea Riccardi, storico, politico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio
È

NELL’ARCHIVIO DEI PAPI

più che condanne esplicite – si collegano all’ “imparzialità” della Santa Sede in guerra: cercare di mediare per la pace tra combattenti e soprattutto assicurarsi lo spazio per l’impegno umanitario, che fu grande durante il conflitto».

Chi segue l’itinerario che lei delinea, passando per i decenni della guerra, non può far a meno di ammirare l’equilibrio esemplare con cui lei affronta le questioni più complesse. Tuttavia non si può dire che lei non abbia una propria posizione, che emerge là dove scrive: «Pio XII non ha parlato apertamente degli ebrei durante la guerra, ma ha operato per una politica di asilo e ha fatto pressioni diplomatiche su vari Stati Europei». Relegato in quella che lei chiama «l’isola vaticana», Pacelli ha operato nella misura del possibile?

«La mia posizione non vuol essere giustizialista. Nemmeno apologetica. Ma il compito dello storico non è giudicare, ma comprendere. Pierre Milza conclude su Pio XII con un’“assoluzione per insufficienza di prove”. Per me non è questione di assoluzione o condanna. Certo ho la mia

Si intitola “La guerra del silenzio” (Laterza) l’ultimo libro di Andrea Riccardi, un saggio che esamina la controversa figura di Pio XII alla luce di importanti e nuovi documenti, consultati per la prima volta grazie all’apertura dell’Archivio Apostolico Vaticano. L’accesso a un patrimonio prezioso che consente di far luce, ora, su pagine ambigue della storia, come il discusso “silenzio” della Chiesa di fronte a momenti cruciali.

sensibilità, quella di qualcuno che ha conosciuto papi molto più interventisti, come Giovanni Paolo II o Francesco. Bisogna anche dire che il papato allora era un’isola nell’Europa nazista e che la sua “forza” era davvero debole».

Seppure indirettamente, il suo libro è anche un grande ritratto, con colori umani, di Pio XII. Un diplomatico? Un asceta? Un timido? Un pavido?

«Timido, un po’ incerto, lento nel decidere, scrupoloso, un carattere mistico… Taluni nella Chiesa (non solo fuori) gli hanno rimproverato la sua lentezza nella decisione o i suoi toni diplomatici. Non va dimenticato che fu un papa popolarissimo in Italia e in Germania, specie dopo la guerra. A Roma, era il papa romano e il difensore della città. Tuttavia, in pochi mesi, la sua popolarità fu eclissata da Giovanni XXIII, papa bonario, umano, per nulla ieratico com’era stato Pio XII. Va ricordato che Roncalli, durante la guerra, lavorò moltissimo per aiutare gli ebrei ed ebbe una coscienza profonda del rapporto tra cristiani ed ebrei: questi sono per lui i parenti di Gesù».

11 dicembre 2022 87 Idee
Foto: Fotografia Felici SDFLaPresse, P. ScavuzzoAgf, M. MiglioratoCPP, S. SpazianiLaPresse

Sopra: il cardinale

Roncalli-Papa Giovanni XXIII. A destra: 1945, bambini durante la liberazione di Auschwitz; dalla mostra “16 ottobre1943. La razzia”, Fondazione del Museo della Shoah, ebrei costretti ai lavori forzati lungo gli argini del Tevere

Pacelli non voleva pregiudicare i pochi spazi che restavano per fornire aiuti agli ebrei e per realizzare interventi umanitari. Era anche preoccupato per i cattolici tedeschi: avrebbero retto a uno scontro tra il Papa e il Terzo Reich? Ma c’era una certa impreparazione verso il nazismo, che non era solo barbarie, come oggi si dice, bensì un progetto teologico-politico. Aveva di mira tutta la tradizione giudeo-cristiana. L’attacco sferrato all’ebraismo preannunciava quello al cristianesimo. Lo capirono molto presto grandi filosofi come Hans Jonas. Paolo di Tarso e Gesù di Nazareth, in quanto ebrei, erano il bersaglio dell’antimessianismo nazionalsocialista. Pio XII ha sottovalutato tutto ciò? Ostacolato forse da secoli di antigiudaismo? E quanto avrà influito anche la sua tenace ostilità al giudeobolscevismo?

«Pio XII aveva chiaro che il cattolicesimo era, in caso di vittoria nazista, un obiettivo primario da colpire da parte di Hitler il quale, del resto, aveva progettato di invadere il Vaticano e deportare il papa dopo

l’8 settembre 1943. Aveva chiaro il disegno nazista di strappare il cristianesimo alle sue radici ebraiche. Il giudizio sul nazismo nel suo insieme non era, però, del tutto consapevole – non aveva capito la realtà di quella “macchina infernale”. Si sperava di agire ai fini della pace, specie all’inizio del pontificato. Mi riferisco all’ala più moderata. Si si pensava, dunque, così, senza accorgersi che era un sistema totalitario». Al di là del dramma del 16 ottobre 1943, quando gli ebrei romani furono deportati ad Auschwitz, colpisce il silenzio di Pio XII dopo il 1945. Lei stesso scrive: «Dopo la metà degli anni Quaranta la Chiesa non si misura con il dramma ebraico».

«Il comportamento della Santa Sede il 16 ottobre, giorno della razzia degli ebrei romani, che ebbe luogo sotto le finestre del papa, ci pone molti interrogativi. Fu un eccesso di fiducia nella diplomazia e in particolare nell’ambasciatore tedesco in Vaticano, un doppiogiochista che sembrava rappresentare il nazismo moderato. Il Vaticano credette di aver sottratto alcuni ebrei alla deportazione. È un episodio evi-

88 11 dicembre 2022 La storia e il
presente

dente di silenzio. Quello, però, che mi colpisce molto (e di cui poco si è parlato) è il silenzio dopo il 1945, allorché andava emergendo il dramma della Shoah. La Chiesa non si fece carico di un impegno contro l’antisemitismo, a cui pure venne sollecitata. Dopo la guerra si sentiva vittima della persecuzione comunista (e lo era davvero), mentre il dramma ebraico era secondario. Poi vari dirigenti comunisti dell’Est erano di origine ebraica: di qui il mito del giudeocomunismo». Nel libro lei affronta una questione attualissima: il complesso ruolo dell’istituzione papale lacerata non solo tra i totalitarismi, ma anche tra i nazionalismi. Lei parla di “Internazionale cattolica”. E distingue tra neutralità e imparzialità. La Chiesa non può essere neutrale come uno Stato, già solo perché i suoi fedeli sono presenti nei Paesi in guerra. Non si tratta, però, neppure di neutralità nel senso di indifferenza o equidistanza, come si usa dire oggi fraintendendo il pensiero pacifista, bensì di partecipazione attiva alla costruzione della pace. Il Papa può essere

allora imparziale proprio in quanto interprete dell’aspirazione alla pace dei popoli?

«La Chiesa era l’unica internazionale durante la Seconda guerra mondiale, accanto alla Croce Rossa – però di tutt’altra ampiezza. Il rapporto con le diverse Chiese nazionali doveva tener conto anche degli orientamenti degli episcopati, non sempre aderenti alla sensibilità di Roma. L’episcopato ungherese, come pure quello slovacco, erano molto prudenti, quando non si identificavano addirittura con i governi collaborazionisti. La Chiesa viveva in mezzo a quelle contraddizioni: partecipazione appassionata e anche rischiosa ai drammi della gente e imparzialità; diplomazia e impegno quotidiano; leadership morale e necessità del compromesso. Del resto, alcuni problemi si ripropongono anche oggi per il papato. La Chiesa continua ad essere ostile alla guerra: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male», ha scritto papa Francesco nell’enciclica

“Fratelli tutti”. Non è facile interpretare concretamente il rifiuto della guerra e l’aspirazione alla pace nelle situazioni concrete. Si pensi all’Ucraina. Francesco cerca di essere vicino alla parte che maggiormente soffre, cioè gli ucraini, ma è pure attento alla Russia, interlocutore decisivo se si vuol uscire dal conflitto. Tutto questo rischia di spiacere agli uni e agli altri. Le contraddizioni esistono. Una volta diceva Giovanni Paolo II: «Le contraddizioni non sono mie, sono della storia». La posizione della Chiesa, che non accetta la logica bellica e il pensiero che ne consegue, rivela come la guerra è davvero un terreno impossibile per chi ha uno sguardo globale sulla realtà».

11 dicembre 2022 89 Idee Foto: BettmannGettyImages, Universal History ArchiveUniversal Images Group / GettyImages, M. FrassinetiAgf
“Quello che mi colpisce molto è il silenzio dopo il 1945, quando andava emergendo la tragedia della Shoah.
Il dramma ebraico era secondario”

viavai Una città fondata sul

bellezza e la trascuratezza. L’ospitalità

l’ostilità.

Mentre mi stavo innamorando di Roma, il fioraio bengalese del mio quartiere mi ha raccontato di essere stato picchiato per motivi razziali. Il mio rapporto con la città è nato dentro a questa contraddizione: un amore che non volevo fermare arrivava intrecciato a una violenza che non potevo negare». Jhumpa Lahiri, scrittrice statunitense di ascendenza indiana, premio Pulitzer e romana d’adozione da più di dieci anni, mi spiazza così, con voce pacata e parole esplosive, in una conversazione che ha per pretesto il suo libro “Racconti romani” (Guanda). «La prima storia riprende proprio ciò che mi disse quell’uomo al mio arrivo, facendomi sentire come quelle persone che vanno in vacanza in posti meravigliosi dove però per chi ci abita la vita è dura. Non puoi negare che la Grecia sia stupenda, ma nemmeno che chi ci vive soffra per condizioni economiche di cui anche tu, turista di massa, sei complice col tuo stare bene. Io ero così davanti a lui, in apparenza dentro la sua stessa realtà, ma anche

fuori, perché non mi toccava personalmente. Sin da allora volevo stabilire una linea di comunicazione con quella Roma silenziosa, anzi silenziata, e per questo il protagonista del mio racconto è muto: la violenza gli ha tolto le parole». In queste storie brevi il razzismo è molto presente. «Sì, ma il tema del libro è piuttosto la diversità e la sua non risolvibilità, una contraddizione che mi accompagna da sempre e che non credo mi abbandonerà». Negli Usa del melting pot, Lahiri bambina desiderava la divisa scolastica che rendeva tutti uguali, mentre sua madre non ha mai dismesso gli abiti indiani, rifiutando il mimetismo culturale. La convivenza di questi due atteggiamenti era un problema? «Lo era. Quando mettevo i jeans mia madre alzava gli occhi al cielo e io sapevo che pensava: devo sopportarlo perché siamo in questo Paese maledetto, ma la mia Jhumpa è l’altra, non questa ragazza travestita da americana. Quando venivano a trovarci gli amici indiani, dovevo vestirmi in modo tradizionale. Oggi mi rendo conto che mia madre aveva solo paura di perdermi e di perdere se stessa in una cultura così distante dal suo mondo di

90 11 dicembre 2022 Letteratura e identità
colloquio con Jhumpa Lahiri di Michela Murgia illustrazione di Marta Pantaleo La e L’accoglienza e il razzismo. “Racconti romani” della scrittrice premio Pulitzer mette al centro la Capitale. E le sue contraddizioni

partenza». Durante la conversazione Jhumpa Lahiri è vestita come una regina di Saba d’occidente, elegante con poco, con quel tipo di bellezza ieratica che ogni volta che togli un orpello risplende di più, ma è evidente che il rapporto con la rappresentazione di sé non deve essere sempre stato così risolto. L’abbigliamento nei suoi racconti è marcatore di identità e catalizzatore di insofferenza culturale. Un giorno qui saranno tutti vestiti così, si sente dire con sprezzo rassegnato la protagonista velata di una delle storie. «Quanto conti l’abbigliamento l’ho imparato a mie spese anni fa in vacanza con un’amica più anziana, quando una sua conoscente mi chiese da quanto tempo fossi in Italia. Aveva dedotto in automatico che fossi la badante perché ero in tuta e avevo la pelle più scura della loro. In Italia molti non si aspettano che le persone di un’etnia marginalizzata possano appartenere alla loro stessa classe sociale». Quanto sia vero lo stiamo imparando col caso Soumahoro, dove - a prescindere dalle circostanze - l’enfasi mediatica sulle borse firmate di sua moglie rivela un pensiero insieme razzista e classista: il povero per essere simpatico deve restare povero e la donna nera povera non può superare la sua condizione fino a poter indossare la stessa borsa Vuitton della donna bianca ricca che l’ha aiutata, oppure salta il patto della solidarietà pelosa. «È vero anche il contrario: se sono vestita con segni che rivelano che sono benestante, ma mi rivolgo in bengalese all’uomo al banchetto del mercato, gli genero disorientamento, si chiede chi sono, perché gli appaio così. La tensione della diversità e del pregiudizio scende solo quando ci si parla. La chiave di questa contraddizione ce l’hanno le seconde generazioni, sono loro il passaggio di sintesi. Quell’essere una cosa e anche l’altra (e fino in fondo nessuna delle due) ti fa vivere divisa, io sono vissuta così, ma tra quindici anni vorrei vedere questa città pervasa dalle seconde generazioni, per capire se si infileranno nel branco, cercando di scomparirvi omologandosi, o se riusciranno a ibridarla come sono ibridi loro». I personaggi dei racconti non hanno il nome proprio, se non uno che si fa chiamare Dante Alighieri per giustificare una vena poetica, e il tuo stesso nome – Jhumpa – è solo una parte del lunghissimo nome di nascita che ti hanno dato i tuoi genitori. Da dove viene questa scelta di non nominare o usare nomi sostitutivi? «I nomi possono essere il primo elemento del disagio culturale. Nel mio se-

11 dicembre 2022 91 Idee

condo libro (Ndr. “L’omonimo”) parlo del peso dei nomi che dobbiamo ereditare, dove il protagonista si chiama Gogol, che è un nome russo, ma lui non è russo e quindi subisce un cortocircuito identitario che lo fa soffrire. C’è di mezzo la mia esperienza, ovviamente. In Usa all’appello scolastico ogni volta che l’insegnante arrivava al mio nome volevo morire, perché non riuscivano a dirlo correttamente e la mia diversità era ribadita ogni giorno, unita alla violenza di non voler imparare la giusta pronuncia. Arrivavano le Sharon, le Jennifer, le Marion e poi io, la straniera, che imprecavo contro i miei genitori perché mi avevano dato un nome che mi avrebbe fatta rimanere un’estranea per sempre. Era un processo che avevo già visto vivere a mia madre, che si chiama Tòpoti, nome semplice che però negli Stati Uniti nessuno riusciva a pronunciare. Stanca di correggere ogni volta, si è arresa e ha detto: “chiamatemi Tìa”, il suo nome informale, così lei per il suo mondo americano è Tìa, dentro casa e per gli amici è Tòpoti. Due nomi, ma anche due persone. A volte rifletto sul fatto che Tòpoti per analogia di suono è simile alla parola greca tìpota, che vuol dire niente. Se nessuno ti ritiene così importante da imparare il tuo nome, ti sta dicendo che è questo che sei per lui: niente». Lahiri, che oltre che scrittrice è docente alla Columbia University (dopo Princeton), ha una famiglia cosmopolita e multilingue, dove la questione dell’identità, tutt’altro che superata, è però troppo complessa per essere risolta con l’adesione agli stereotipi culturali. «Con mio marito abbiamo due figli di colori leggermente diversi e qui in Italia il maschio si è sempre sentito dire “tu potresti essere italiano”, come se fosse un complimento. Italiano non vuol dire niente, Roma è un flusso di gente sin dalla sua fondazione, è sorta senza confini proprio per poter creareilpopoloromanocheinformaautoctona non esisteva, ma questo sentirsi ripetere sin da piccoli chi poteva essere scambiato per italiano e chi no introduceva nelle loro teste una scala di valore: uno poteva rilassarsi e pensare “sono stato accettato”, l’altra no. Anche se quella distinzione vale solo in Italia, non è una dinamica irrilevante per chi come noi ci vive da dieci anni. Personalmente la sperimento ancora come una violenza. Se andiamo a una festa e ci si scambiano strette di mano, il mio nome suscita cortesia, quello di mio marito Alberto scatena familiarità, perché suona italiano e lui è bianco, ma mio ma-

rito è spagnolo. Mio figlio Octavio diventa sistematicamente Ottavio, che è un modo per dire: semplificando il tuo nome ti rendiamo più nostro. Lui giustamente quella “c” la rivendica. Mia figlia Noor, con quel nome persiano, convive con più fatica col pregiudizio che la vorrebbe eterna straniera. La nostra famiglia sperimenta queste cose tutti i giorni, nonostante per me patria e identità non significhino niente e abbia cercato di crescere i miei figli nello stesso modo. Roma per anni mi è piaciuta anche per questo: è nata luogo di tutti e non mi sono mai sentita espatriata». È ancora vero, dopo dieci anni? Con l’avvento del sovranismo al governo c’è una forte enfasi sull’italianità, prima gli italiani, cosa sia e cosa non sia italiano. In che modo l’italiana Jhumpa Lahiri si sente ancora cittadina di un Paese che ha bisogno di escludere per sentirsi se stesso? «Il clima è cambiato. C’è una sovrarappresentazione dell’italianità, e io - che insieme a questo posto ho scelto di abitare anche la sua lingua - mi chiedo: chi è di questo posto? Io qui conosco solo persone che vengono da fuori Roma e per me è questo arrivare dicontinuodaun“fuori”l’essenzadellaromanità. Anche questo mio gesto di scrivere in italiano, creando una versione linguistica del passaggio culturale che ho fatto venendo qui, mi spinge a dire che io non sono di questo posto, ma anche sì. Per me è stato vero in ciascuno dei luoghi che ho abitato, ma a Roma è più vero, perché me la sono scelta». In questo libro di racconti l’Italia viene fuori come un Paese incapace di rapportarsi serenamente alla diversità, che è sempre minaccia e mai ricchezza e potenzialità di incontro. Non hai paura che ti dicano che vieni da fuori e ti permetti di criticare un Paese che non è il tuo? «Il punto è che in realtà è il mio, qualunque cosa significhi questo aggettivo possessivo. I turisti possono dire quanto è bella Roma, ma solo gli abitanti possono dire quanto è brutta senza che significhi non amarla». Sorride e mi rendo conto che nella conversazione lo ha fatto pochissimo. Dovevamo parlare di un libro, ma quando un libro parla così duramente di noi è difficile essere lievi. «Sai cosa mi offende? Quando mi presentano dicendo: “Questa è Jhumpa Lahiri e scrive nella nostra lingua”. Nessuno a New York direbbe che chi parla inglese utilizza la loro lingua. La lingua non è di chi la usa?». Non ho una buona risposta, non ancora.

92 11 dicembre 2022 Foto: Agf / Luca Righi/KartuPhoto/Rosebud2 Idee
Letteratura e identità
Dall’alto: le scrittrici Jhumpa Lahiri e Michela Murgia

La prevalenzadel

94 11 dicembre 2022 Soft power
asiatico la chiamano “hallyu”, l’onda che contagia il pianeta con film, serie tv, musica, videogame. Uno scrittore indaga l’anima
di Giuseppe Catozzella
Nel Paese
della Corea-mania
Fattore K
Sotto: i BTS, la boy band sudcoreana di K-pop. Nell’altra pagina, in senso orario: un’immagine della serie tv “Squid Game”; la scrittrice sudcoreana Han Kang; lo scrittore Ko Un

Mi ostino a cercare il volto di Seul. Forse non c’è. Forse invece è nei lineamenti plastificati, chirurgici, di molti tra le ragazze e i ragazzi che corrono su e giù per gli stradoni illuminati di Sejong-daero, o di Itaewon, dove ho l’hotel. Forse è in questo loro essere eterei, è negli sguardi vacui puntati a un orizzonte che non arriva mai, nel loro esserci e non esserci allo stesso tempo. Inafferrabili. Inconsistenti. Uno dei nomi della Corea – non quello occidentale diffuso da Marco Polo e ricalcato su Goryo (da cui Corea), nome con cui i cinesi chiamavo l’antica dinastia coreana – è “regno eremita”, dal momento che i coreani fino a due secoli fa sono stati chiusi al resto del mondo, impermeabili dentro il susseguirsi delle dinastie, dai Silla all’ultima degli Joseon. C’è tanto di questa chiusura in quell’evanescenza, ma c’è anche l’alienazione delle dominazioni straniere, quella giapponese e cinese, e la divisione forzata sulla linea del 38esimo parallelo alla fine della Seconda guerra mondiale: l’occupazione russa a Nord, quella americana a Sud.

Parlare con uno sconosciuto qui è impossibile, in ascensore per esempio non ci si saluta, non ci si guarda. Non è fingere di non vedere; è letteralmente non vedere, e la differenza è un abisso. A New York si finge di non vedersi, a Londra si finge di non vedersi, a Parigi, a Milano si finge; a Seul non ci si vede. Gli abitanti di Seul hanno raggiunto l’invisibilità. E forse è proprio questa la sua anima, e quindi quella della core-

an-wave, della k-wave, della Corea-mania, dell’“hallyu” come la chiamano qui, che dall’estremo oriente e dal sudest asiatico è arrivata in India, in Pakistan, in Bangladesh prima, poi in America latina e nel Maghreb e infine ha colonizzato l’immaginario più difficile da espugnare, poiché matrice di quello da cui l’“hallyu” è partito, superandolo: l’immaginario occidentale, americano ed europeo. K-pop, k-drama, giochi elettronici, non c’è ragazzo occidentale sotto i trent’anni che non sappia di cosa si tratti. Band come i BTS, le Blackpink, e prima di loro i Seo Taiji and Boys, i TVX, lo Psi del tormentone mondiale del 2012 Gangnam Style, la prima canzone della storia a raggiungere il miliardo di visualizzazioni su YouTube (ora, guardo, è a più di 4,5), sono un vero e proprio assalto culturale. Ma cosa c’è dentro questo abisso, dentro questa vacuità così perfettamente smerigliata da diventare prismatica e riuscire a generare tanto trend globali come Dynamite o Butter dei BTS quanto serie tv come “Squid game” o film acclamati dalla critica come il “Parasite” di Bong Joon-ho, la prima Palma d’oro coreana a Cannes? E ancora: c’entra qualcosa il cult del 2004 “Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera” di Kim Ki-duk con il “Parasite” del 2019? Quello che è avvenuto tra i due è proprio il cambio della politica estera coreana: da una posizione culturale “di contenimento”, che negli anni Ottanta e Novanta faticava a strapparsi dai lacci della guerra civile e delle dominazioni culturali (seppur iniziando a investire in industrie creative e in

11 dicembre 2022 95 Idee Foto: GettyImages (3)

Soft power

start-up culturali), a una politica espansionistica. L’anno di svolta è il 2014: il primo in cui il governo ha stanziato l’1 per cento del Pil nella cultura, con l’intento scientifico di soppiantare a livello globale il soft power americano: uccidere il padre, superare il maestro. Un miliardo di dollari quell’anno fu investito in industrie culturali, e da allora è in crescita.

Capisco che la loro invisibilità, la loro incorporeità oltre a essere straniante è anche un potere; e forse è proprio il potere magico che sognavo da bambino. Qui i corpi non si scontrano ma si attraversano come ologrammi che esistono davvero solo dentro il metaverso. Ma ogni potere ha il suo risvolto, e il più famoso è la solitudine. L’abbiamo vista apparire come uno spettro durante la cosiddetta “strage di Halloween” del novembre scorso, nelle strette strade della movida di Itaewon, proprio dietro l’Imperial Palace hotel dove risiedevo, invitato da Michela Magrì, l’infaticabile direttrice dell’Istituto di cultura italiano, per incontrare l’editore coreano del mio ultimo romanzo, “Italiana”, e a tenere conferenze in alcune università. Centosessanta ragazzi morti schiacciati da corpi dei quali non hanno potuto evitare la materialità, e centinaia di altri che lì in mezzo continuavano a ballare, a bere, a scattare foto alle sagome distese sui marciapiedi. Quanta solitudine reale deve esserci nel gesto che con una mano regge il bicchiere, con l’altra fotografa il corpo morto per usarlo sui social? Nel gesto che annulla il tragico e lo trasla nel metaverso?

L’anima della corean-mania risiede sì nell’essere un regno eremita; sì nella colonizzazione culturale americana spinta all’eccesso; ma anche tanto, mi sembra, nella fulminante espansione economica che è seguita alla sanguinosa guerra civile da quattro milioni di morti iniziata nel 1950 e mai formalmente terminata, in assenza di un trattato di pace (nessuno si

spaventa più quando il dittatore nordcoreano Kim Jong-un volta i razzi atomici verso il 38esimo parallelo). Ma se non si parla di questa spaventosa accelerazione non credo si possa capire questo immaginario solo plasticamente violento che è arrivato a dominare il mondo. Paese poverissimo fino agli anni Sessanta, poi il “miracolo sul fiume Han” e in meno di mezzo secolo è la quarta economia orientale, l’undicesima al mondo. Forse il Paese tecnologicamente più avanzato. Ma la promessa reale dell’accumulo di una ricchezza nel corso di una vita ha generato uno smisurato senso della competizione (nell’area di Seul oggi vivono 30 milioni di persone), mescolato con il modello pedagogico cinese maoista. Così le ultime due generazioni sono cresciute passando per tappe obbligate: i migliori voti per accedere ai migliori istituti per arrivare ai migliori lavori e a salari milionari. La competizione inizia all’asilo, poi fino alle superiori dove le lezioni finiscono alle quattro di pomeriggio e proseguono negli “hagwon”, le accademie private in cui si approfondiscono le materie scolastiche e si studia musica, danza, arti marziali. Devi essere il primo. Se non ti puoi permettere gli “hagwon” sei un fallito, meriti di nasconderti. Così per strada è pieno di ragazzi in “dobok”, la divisa di taekwondo, il tempo per cambiarsi tra un “hagwon” e l’altro non c’è, si arriva a studiare fino a ventuno ore al giorno: l’obbligo è conquistarsi un posto in una delle Sky, la

96 11 dicembre 2022
I visi sono splendenti, uguali, che siano uomini o donne: tutti spinti verso una standardizzazione surreale. E i loro corpi sono invisibili, l’isolamento è una regola

Seoul national university, la Korea University e la Yonsei. Se non riesci non sarai mai un milionario. Normale dunque che la Corea sia da anni il Paese con più suicidi nell’area Ocse, specialmente tra i giovani, circa cinquanta al giorno. Dopo l’ondata che ha travolto anche giovanissime star del cinema e della musica (Song Yoo-jung, Choi Jin-sil, Kim Jong-hyun, Goo Hara, Cha In-ha, Sulli, Oh In-hye tra gli altri) è nato un dibattito non pubblico (il suicidio è tabù) ma accademico. L’opinione è che ci sia una correlazione tra il “miracolo sul fiume Han”, la competitività e l’infelicità. Che sia questa, quindi, l’altra faccia dell’“hallyu”? Che sia questo che si nasconde (così come nella k-beauty, i cosmetici) in prodotti culturali che sembrano nati già masticati, pronti per essere digeriti, in cui la violenza è senza sangue e non sfiora la carne ma solo la forma, in cui un tragico conflitto non riesce a bucare la superficie dei testi, delle sceneggiature, delle inquadrature, eppure e proprio per questo si impone nel mondo? Che sia in questo doppio fondo che è finita la vera violenza, tragica, senza speranza che ancora possedeva l’estetica di Kim Ki-duk?

Ma questo secondo volto diventa reale. L’impossibilità di un conflitto, perso una volta per tutte con i quattro milioni di morti della guerra civile, si mostra in modelli estetici senza identità, raggiunti con la chirurgia plastica. I visi sono splendenti, ma sono tutti uguali, che siano uomini o don-

Qui sopra: Rosé, Jennie, Lisa, e Jisoo, le quattro ragazze delle Blackpink; un’immagine dal drama coreano “Vincenzo”. Nell’altra pagina, dall’alto: il cantante e produttore Psy; il regista Bong Joon-ho; il regista Hong Sang-soo

ne: tutti sono spinti verso una standardizzazione surreale. È il metaverso che è diventato realtà: lo smartphone è più ancora che da noi un’appendice vivente, conclamata è la dipendenza dalla tecnologia, la vera imperatrice del Pil. Quindi l’isolamento sociale è la regola, al ristorante le giovani coppie consumano i pasti senza parlarsi, ognuno dialogando con la sua versione virtuale. Ci si sfoga però nell’alcol e nelle “pc bang”, dove qualcuno porta anche il cuscino e il plaid, così da sdraiarsi in un angolo a un certo punto della notte in quelle gigantesche sale gioco aperte h24 dove ci si sfida a League of legends, Starcraft, Overwatch. Quando escono, ne ho visti due, ventenni, una domenica mattina, hanno occhi assenti da robot. Dietro di loro usciva un cinquantenne, il cappotto aperto sul vestito di sartoria, scarpe lucide e capelli dritti. «Ubriaco di soju», mi ha detto la traduttrice letteraria dall’italiano al coreano che mi accompagnava a fare un giro nella più grande libreria di Seul, non lontana dal palazzo reale di Deoksugung, le cui mura sono celebri poiché appaiono nel k-drama Goblin. «Forse è manager alla Samsung, o alla LG, o alla Hyundai e ieri hanno chiuso un contratto importante. Quando succede è obbligatorio ubriacarsi. È il capo che comanda i giri di soju, non ci si può rifiutare. Gli astemi stanno male. Alcuni finiscono col dormire nelle “pc bang”». La Corea è un viaggio nel futuro.

11 dicembre 2022 97 Idee Foto: GettyImages (4)

Lucian Freud la regina è nuda

Negli ultimi anni della sua vita, Lucian Freud (1922-2011) aveva deciso di lasciare la sua casa-studio londinese a Paddington per il più borghese e ricco Notting Hill, ma ogni volta che vi tornava per comprare una tela o i colori, i commercianti del quartiere che lavoravano al mercato della carne di Smithfield, quando lo vedevano, gli gridavano: «Ehi Lou, come ti va?». Lo racconta Geordie Greig nel suo libro “Colazione con Lucian Freud: ritratto di una vita nell’arte” (Mondadori, 2015), ricordando come tra loro ci fosse un rapporto di confidenza e a suo modo di affetto. Fu lui -

che era già una rock star dell’arte contemporanea - ad averlo creato e permesso, perché gli piacevano queste liason con le zone più rudi della società, come gli piaceva allo stesso modo frequentare Ascott House, la casa di famiglia nel Buckinghamshire dell’aristocratico banchiere Sir Evelyn de Rothschild, dove ammirava i dipinti di cavalli del XVIII secolo di George Stubbs.

L’alto e il basso, dunque, una costante che Freud – figlio di due ebrei (padre architetto, madre storica e filologa) costretti a fuggire da Berlino all’arrivo di Hitler quando lui aveva 11 anni - riusciva a mixare nella realtà sociale come sulla tavolozza dei colori,

creando opere con ragazzotti presi dalla strada o giovani modelle, con familiari e altre super star, da Jerry Hall a Kate Moss (ritratte entrambe col pancione) e il generale Andrew Parker Bowles (ex marito di Camilla, l’attuale regina consorte), da Stephen Spender a David Hockney e Francis Bacon, di cui fu amico (grazie a Graham Sutherland), amante e poi nemico. «Viaggio in verticale invece che in orizzontale», diceva riguardo la sua promiscuità sociale, senza sapere che avrebbe esercitato un gran fascino su ogni generazione futura. Nell’imperdibile mostra che gli dedica fino al 22 gennaio del prossimo anno la National Gallery –Lucian Freud: New Perspectives –

Vite nell’arte
98 11 dicembre 2022
di Giuseppe Fantasia

“l’alto” è rappresentato dal celebre ritratto che fece alla Regina Elisabetta II. Fu lei a chiederglielo, nel 2000, sulla scia di un’abitudine secolare secondo la quale grandissimi pittori avevano ritratto i suoi predecessori (Enrico VIII da Holbein, Carlo V da Tiziano, Carlo I da Van Dick). Non potendo pretendere che fosse la sovrana ad andare nel suo studio, fu costretto a recarsi ogni giorno a St.James Palace per sedici mesi di seguito fino al dicembre del 2001, chiedendo però alla sua regale modella di indossare la corona di diamanti. Quando il quadro, di piccole dimensioni, fu reso pubblico, fu criticato per il suo stile provocatorio e alcuni giornali inglesi paragonarono

l’effigie della Regina a quella di “un travestito”, ignorando che l’opera era piaciuta molto alla diretta interessata. Ma c’è di più. Se visiterete la mostra londinese – che da febbraio 2023 si sposterà al Museo Nacional Thyssen-Bornemisza di Madrid, continuando a celebrare il centenario della sua nascita (l’8 dicembre 2022) – nella sala dedicata ai suoi quadri più intimi – dove c’è il ritratto di lui allo specchio con i figli (1965), i “Due Uomini sul letto” (1987/8) e “Double Portrait” (1985/6), uno dei suoi più conosciuti, già esposto alla Tate Britain nel 2002 e alla Royal Academy of Arts poco prima della pandemia – ce ne sono anche diversi dedicati a sua madre. La somiglianza tra quelle due donne così agli antipodi è impressionante. Fu quello un modo per Freud di dimostrare affetto, più che amore, a entrambe? Chi può dirlo, anche perché aveva tutto un modo particolare di intenderlo e manifestarlo. Donne, uomini, amici, amanti e…molto altro ancora. La sua mancanza di regole significava che faceva quel che si sentiva al momento e voleva, perseguendo la sua arte e i suoi piaceri a qualunque costo, senza mai giungere a compromessi. La sua è stata una vita sfacciatamente egoista che era felice di difendere e di vivere appieno, nonostante le accuse di infedeltà, crudeltà e di assenza continua.

Aveva un fascino e un carisma a cui pochi riuscivano a sfuggire e nonostante gli eccessi (risse, droghe, alcol e sesso, non per forza in quest’ordine), morì sereno a 88 anni, si sposò due volte, ebbe un numero imprecisato di amanti e ben quattordici figli che, ovviamente, posarono per lui, alcuni dei quali anche nudi. Tra questi, Freddy, a ventinove anni restò ore e ore senza

vestiti davanti al padre per un ritratto frontale a grandezza naturale. La nudità è stato uno dei tratti distintivi della sua pittura e alla National Gallery («uso la galleria come fosse un dottore, vengo qui per idee e aiuto», si legge all’ingresso della mostra curata da Daniel F. Herrmann), ce ne sono diversi che dimostrano quanto il profondo interesse che aveva per la rappresentazione e la materialità della pittura, lo conducesse ad un’appassionata indagine sul corpo umano, compreso il proprio in età avanzata, come noterete nell’espressivo “Painter Working, Reflection” (1993) o nell’ultimo del 2011, davanti una parete dipinta con pennellate di vario colore.

Una magnifica ossessione, quella di Freud, con corpi mostrati in tutti i loro pregi e difetti, poco importa se belli o brutti, grassi o magri. «Voglio che la pittura sia carne», diceva e il suo“Thebodyaslandscape”(1979/80) evidenzia a parole, oltre che con l’immagine, che il corpo era davvero per lui un paesaggio da scoprire, usare e conservare, persino rovinare, comunque da mostrare, condividere, disegnare e toccare. L’intelletto e l’emozione collimavano nel suo lavoro e nella sua vita: usava le persone da cui era attratto per produrre quadri che fondevano impatto visivo e intento psicologico. I suoi nudi, splendidi nella loro evidenza e drammaticità, catturavano la verità che aveva di fronte: dalle cosce aperte di donne o di uomini che mostravano i genitali allo sguardo assente di persone inconsolabili in pose altrettanto imbarazzanti. «Per gli altri, sì, ma non per lui, che non conosceva imbarazzo», ci disse quattro anni fa, a Firenze, l’artista Marina Abramović, sua grande fan, evidenziando come Freud fosse riu-

Foto per gentile concessione di: Lucian Freud Archive –Bridgeman Images / National Galley London
I ritratti delle star e di Elisabetta II. I corpi come paesaggi da esplorare. L’esistenza piena di eccessi, droghe, amanti. A Londra l’imperdibile mostra del grande pittore
11 dicembre 2022 99 Idee
Qui sopra: il quadro di Lucian Freud “Ragazza con rose”, 1947-8. Sotto: “I rifugiati”, 1940-1. Nell’altra pagina: "Bella e Esther", 1988

scito a cambiare l’umore e il linguaggio della ritrattistica.

Sono nudi, i suoi, che spiccano tra le opere giovanili presenti in mostra, tra cui un autoritratto (1940), “I Rifugiati” (1941), “La stanza del pittore” (1944), “La donna con il tulipano“, “La donna con il narciso” e “La Donna col gattino” (tutti e tre del 1947), senza dimenticare quello in cui è giovanissimo e bellissimo, dove indossa una camicia celeste dello stesso colore dei suoi occhi vicino una foglia dorata, quello in cui ha un abito nero come la cravatta tenendo in mano una piuma o un altro ancora con un vaso di giacinto (1948). Particolari davvero e dal forte impatto, sono tutti quelli ambientati sui letti, mobili molto amati da Tracey Emin e Antonio Marras, per non parlare poi dell’iconico “Girl with white dog” (1950/52) dove c’è la sua prima moglie, Kitty Garman, con un seno fuori dal vestito e un bull terrier bianco vicino, a dir poco incantevole. Sì, perché quelli di Freud sono quadri emotivi prima che artistici, un invito a ricordarci che l’emotività inizia proprio da noi, altrimenti è solo assenza.

Marxista, gay e snob tutti in posa per Procktor

Sempre a Londra, oltre alla mostra alla National Gallery, anche il Garden Museum (gardenmuseum.org.uk) dedica a Lucian Freud - l’uomo dai mille vizi che la mattina si alzava tardissimo e usciva dal suo studio in Kensington Church Street, solo per andare a fare colazione nel vicino Clarke’s – la mostra “Plant Portraits”, a cura di Giovanni Aloi, che evidenzia come le piante fossero parte integrante del suo lavoro oltre ai nudi, andando ad esplorare la sua capacità di catturarne l’essenza sfuggente. Anche l’Italia risponde a suo modo a questi festeggiamenti per il centenario con “A View From a Window”, un percorso monografico a cura di Tommaso Pasquali su Patrick Procktor (1936-2003), protagonista imprescindibile, ma tuttora poco noto, del panorama artistico londinese degli anni Sessanta e Settanta. Lui e Lucian Freud erano amici, alcuni ipotizzano anche qualcosa in più, ma la conoscenza della verità, in questo caso, conta davvero molto poco. Quello che conta, sono le opere che troverete esposte al Palazzo Bentivoglio di Bologna fino al 5 febbraio del prossimo anno. Ciò che regala al visitatore è il ritratto vivente di una figura contraddittoria e flamboyant come Procktor, che nella vita fu marxista e snob, omosessuale e padre di famiglia, viaggiatore in luoghi esotici e assiduo frequentatore di Venezia. Sia in pittura che nel medium privilegiato dell’acquerello, Procktor è stato capace di caricare di tensioni nuove e personali i generi tradizionali del ritratto e del paesaggio, calandoli nell’autobiografia e mettendoli in discussione, in un costante gioco ironico tra profondità della rappresentazione e valori di superficie. Sul divano di casa sua, a Manchester Street, posavano gli amici intellettuali, i figli, i colleghi artisti e gli amanti (tra cui lo stilista Ossie Clark, il fotografo e costumista Cecil Beaton, l’interior designer Christopher Gibbs e il regista Derek Jarman), un po’ come accadeva da Freud, con cui condivideva (anche) l’amore per il colore pastello. (Patrick Procktor. “A View From a Window” - Palazzo Bentivoglio, via del Borgo di San Pietro 1, Bologna www.palazzobentivoglio.org) G.F.

Foto per gentile concessione di: Lucian Freud Archive –Bridgeman Images / National Galley London, C. Favero
Vite nell’arte
100 11 dicembre 2022 Idee
Sopra: ritratto di John Minton. In basso: “Juliet Benson” di Patrick Procktor

Fenomeno

Chalamet

Più che un attore è diventato un fenomeno. L’idolo delle nuove generazioni Timothée Chalamet non è solo riuscito a costruire una carriera invidiabile alternando film d’autore a opere mainstream di successo. Ha saputo anche seguire un percorso parallelo da icona della moda tale da garantirgli ad ogni uscita pubblica un’attenzione mediatica senza pari.

A soli 26 anni è il divo 2.0, rigorosamente fluido, allergico alle etichette, per nulla macho, ironico e alla mano, capace come pochi altri suoi colleghi di mettere d’accordo critici di tutto il mondo e spettatori (e spettatrici) di ogni età. Sul grande schermo sfoggia capelli rossi e jeans strappati nel road movie romantico di Luca Guadagnino “Bones and all”, in cui veste i panni del tormentato Lee, cannibale dal cuore puro. Lui preferisce definirlo un outsider: «È un ragazzo che vive ai margini, isolato, che prova un desiderio forte di contatto con l’altro. Una sensazione che abbiamo sperimentato tutti in pandemia: per capire chi siamo abbiamo un disperato bisogno del contatto con l’altro».

Malgrado sia girata da un cineasta italiano, è una storia profondamente americana: «Siamo nel Midwest degli anni Ottanta, nell’America reaganiana in cui si respirava un’atmosfera di promesse poi disattese, che ha lasciato ferite e cicatrici ancora oggi aperte». Non esita a parlare di certi autoritarismi di oggi come di «un chiaro ritorno al passato: certi governi nazionalisti che emergono qua e là oggi celebrano

Emblema di stile,icona di fluidità, idolo dei più giovani. E ora, nel nuovo film di Guadagnino, un cannibale dal cuore puro. Ma altre sfide già lo aspettano: il sequel di “Dune”, il ruolo di Willy Wonka

l’individualismo, anziché condannarlo». Invece le nuove generazioni scalpitano per avere «esempi e modelli diversi: film come il nostro mostrano proprio la difficoltà tipica dei giovani di vivere isolati dagli altri, di sentirsi diversi, sbagliati, in perenne lotta per essere riconosciuti come meritevoli di amore». Amore a ventisei anni è una parola che fa paura? «So di essere ancora molto giovane per parlarne, ma con Taylor Russell - splendida compagna di scena, attrice sensazionale e vera protagonista del film - abbiamo fatto lunghi discorsi sul folle amore dei nostri personaggi, che lo vivono come un sentimento potente, un misto di cura, salvezza, terapia».

A guidarli è stato un attento Luca Guadagnino, che Chalamet considera «una sorta di padre». Di più: «Mi ha guidato dall’inizio alla fine come aveva fatto in “Chiamami con il tuo nome”, film a cui devo tanto, è stato una svolta nella mia carriera. Questa volta mi ha permesso di lavorare anche sulla sceneggiatura e ha continuato ad avere con

Chalamet, 26 anni. Nella pagina a fianco: un’immagine del film “Bones and all” di Luca Guadagnino

Timothée
Protagonisti

me un dialogo costante. Da lui mi sento compreso, incoraggiato e sostenuto». Lo considera un regista unico al mondo, il motivo? «È in grado di creare un ambiente di lavoro stimolante, sicuro e confortevole in cui gli attori si sentono liberi di esplorare le vette più autentiche dell’animo umano».

Quanto al cannibalismo, per lui è soltanto «una metafora utile a esplorare l’universo interiore di due ragazzi senza più punti di riferimento né comunità di appartenenza. Non hanno specchi entro cui guardarsi, sanno di essere una minaccia per gli altri, una minaccia mortale. Per questo vivono con la paura di essere se stessi e la condanna a una solitudine estrema». Una gioventù spaventata, solitaria, è così che vede oggi la sua generazione? «Inutile mentire, essere giovani oggi non è affatto semplice. Cresciamo perennemente esposti agli occhi e ai giudizi della gente attraverso i social media e viviamo in un momento complicatissimo, in cui ormai il crollo della società è nell’aria». Il cinema può salvare, per lo meno lui dice di essersi salvato recitando e si considera cannibale, artisticamente parlando, di attori come «Joaquin Phoenix, Heath Ledger e Daniel Day Lewis». Si guarda bene dall’imitarli, anzi si affretta a sottolineare: «Non mi sognerei mai di provare a fare come loro, ognuno ha le sue sfide e segue i suoi percorsi e a me piace uscire da quelli già noti e segnati». Per questo in “Bones and all” si è cimentato anche

nella produzione: «È un film speciale in cui credo moltissimo e spero vivamente di poter continuare su questa strada, facendo anche altre cose oltre alla recitazione e sostenendo progetti validi il più possibile, non per forza con me protagonista». Intanto nel 2023 lo aspettano tre sfide attoriali importanti, a partire dal sequel di “Dune” previsto al cinema a novembre del prossimo anno, in cui torna a vestire i panni di Paul Atreides. Prima, però, dovrà compiere due salti mortali. Il primo, interpretare Bob Dylan in “Going Electric” di James Mangold. Per prepararsi rivela di aver letto il libro di memorie “Chronicles: Volume One”, preso lezioni di chitarra, affittato un appartamento a Woodstock e girato per le case di New York dove ha vissuto Dylan, parlandone con l’esperto Joel Coen. Di tutt’altro tipo, ma non meno sfidante, l’impresa di dare corpo e voce al leggendario personaggio di Willy Wonka nel musical “Wonka” di Paul King. Dovrà confrontarsi con le performance dell’inarrivabile Gene Hackman e dell’istrionico Johnny Depp, ma sbaglia chi lo ritiene inesperto o troppo giovane: il film sarà un prequel e si svolgerà prima degli eventi di “La fabbrica di cioccolato”. Nel frattempo c’è qualcuno, a Hollywood, che è pronto a fargli da padrino: a indicarlo come suo erede è stato addirittura Al Pacino: «Chalamet è un attore incredibile con un aspetto grandioso, avrebbe potuto interpretare “Heat” al mio posto».

11 dicembre 2022 103 Idee
Foto: R. Spaziani –picture alliance –dpa –Ap / LaPresse

A CURA DI SABINA MINARDI

FIOCCHI DI NEVE CON CARBONE

Un racconto natalizio rievoca la vergogna delle

Magdalene Laundries in Irlanda. E conquista lettori

L’Irlanda anni Ottanta, la disoccupazione che avanza, gli inverni gelidi. E l’ombra inquietante di quelle Magdalene Laundries, dove oltre trentamila ragazze, considerate dalla chiesa peccatrici, furono rinchiuse in condizioni di schiavitù. In attività fino al 1996, romanzi, film, canzoni ne hanno denunciato la vergogna: dalla struggente chitarra di Joni Mitchell (“Stiamo cercando di sbiancare le cose come la neve, tutte noi sventurate figlie, tra le macchie delle lavanderie della Maddalena...”), all’indimenticabile “Magdalene” di Peter Mullan, Leone d’oro a Venezia nel 2002.

“Piccole cose da nulla” di Claire Keegan (Einaudi), nella preziosa traduzione di Monica Pareschi a esaltarne la prosa cristallina, è un racconto natalizio senza zucchero. Che scalda il cuore senza neppure tessere la consumata elegia delle piccole cose nel chiuso di un focolare, ma solo facendo assistere alla progressiva consapevolezza di un uomo qualunque che, mentre consegna legna, torba e carbone sotto una neve implacabile, nella settimana di Natale, schiude l’animo alla giustizia. Nel suo piccolo: Bill Furlong è uno deciso più che mai “ad andare avanti a testa bassa, a stare al suo posto, a non alzare la cresta, a non far mancare niente alle figlie”. Ma è proprio nell’onestà del suo lavoro,

Torna in libreria, a cura di Maura Gancitano e Jennifer Guerra, il testo che ha consacrato la scrittrice americana portavoce della terza ondata del movimento femminista. Uscito per la prima volta nel 1991, il saggio scandaglia il tema della bellezza e dell’uso politico dei corpi, gli imperativi sociali ed economici dietro l’universo femminile, la finanza, la repressione religiosa che guidano i diktat contro le donne. Una questione di potere, e di potere maschile.

“IL

MITO DELLA BELLEZZA”

Naomi Wolf (trad. Marisa Castino Bado) Tlon, pp. 448, € 21

nella solitudine della sua modesta routine, che spalanca improvvisamente gli occhi su ciò che è giusto fare: su quanto lasciamo scorrere senza prendere posizione per paura di andare controcorrente, talvolta per pigrizia soltanto. È l’incontro casuale con una ragazza della lavanderia dagli occhi atterriti a mettere in moto la domanda cruciale: che senso ha essere vivi se non ci si prende cura degli altri? A spianare la strada alla bellezza semplice della generosità. A pulire lo sguardo: che rende le connessioni chiare, le verità trasparenti, persino quelle più inseguite da sempre. Ora sì che le cose da nulla hanno un senso: i canti e gli addobbi, la cena e i dolcetti, gli agrifogli per casa, se tutti hanno in dono il potere di rendere migliore il mondo. O almeno è bello pensarlo.

Negozi tradizionali, librai indipendenti, catene moderne. La vendita dei libri nel nostro Paese ricostruita nelle sue dinamiche storiche, dall’Ottocento a oggi. Nella consapevolezza del valore simbolico, sociale e culturale di questi luoghi così speciali, intorno ai quali si addensano idee, emozioni, forme di resistenza. Un viaggio nello spazio e nel tempo da chi le librerie conosce bene, ricchissimo di curiosità, aneddoti. Ed espressioni di grande passione.

“STORIA

DELLE LIBRERIE D’ITALIA”

Vins Gallico

Newton Compton Editori, pp. 288, € 14,90

Un secolo di collane editoriali, tra marchi popolari e sigle di nicchia, in un minuzioso, affascinante excursus nell’industria del libro. Un viaggio, dal docente di Letteratura italiana contemporanea, che ripercorre le trasformazioni della società italiana, il nostro rapporto con i libri, gli schieramenti editoriali che si sono delineati nel corso del tempo, i trend e le innovazioni. Con una evidenza: l’uso delle collane come strumento di concorrenza tra editori.

“LA COMPETIZIONE EDITORIALE”

Bruno Pischedda Carocci editore, pp. 541, € 44

105 Bookmarks/i libri
“PICCOLE COSE DA NULLA” Claire Keegan Einaudi, pp. 91, € 13

SUDAN

La tregua fragile di Khartoum Nel Paese fiaccato dalla crisi lo spettro di un’altra guerra civile

A un anno dal colpo di Stato la coabitazione tra civili e militari è messa a dura prova. Mentre due generali si contendono la leadership, rischiano di esplodere i conflitti nei fronti caldi. A cominciare dal Darfur di Irene Panozzo

106 Africa
I manifestanti usano i mattoni per bloccare una strada di Khartoum

Le vie deserte, poche persone e ancora meno macchine che camminano sotto il sole impietoso di un pomeriggio sudanese. Una stasi quasi irreale, rotta solo dal suono dei lacrimogeni e dei proiettili che vengono sparati in una zona non troppo distante. Da un anno, è questa la realtà di Khartoum, la capitale del Sudan, circa due volte alla settimana: i colpi secchi marcano lo scontro tra le forze di sicurezza e i manifestanti, per lo più giovani, che il colpo di Stato militare del 25 ottobre 2021 ha spinto a scendere di nuovo in piazza per salvare il processo democratico iniziato nel 2019. A segnare il primo

anniversario del golpe, il 25 ottobre scorso, decine di migliaia di persone sono scese per le strade di diciannove città sudanesi, a iniziare dalle tre città - Khartoum, Omdurman e Khartoum Nord - che formano l’estesa area metropolitana della capitale, nel suggestivo punto in cui il Nilo principale nasce dalla confluenza di Nilo Azzurro e Nilo Bianco. Anche quel giorno un manifestante è morto, il 119° dal colpo di Stato: il ventenne Abu al-Qasim Osama Abdel-Wahab, investito da un veicolo della polizia in un quartiere di Omdurman. In quest’anno l’economia sudanese è andata progressivamente peggiorando. L’inflazione è schizzata

allestelle.BastanopochigiorniaKhartoum per rendersi conto di quanto i prezzi siano saliti, anche solo rispetto all’inizio di quest’anno. «Non so come la gente normale riesca a vivere», dice Munzoul Assal, professore ordinario di Antropologia sociale all’università di Khartoum. «Il mio stipendio di professore ordinario, equivalente circa a 900 euro, mi basta appena per coprire le spese fisse. Per fortuna ho altre entrate. Ero a Parigi per lavoro recentemente, uova latte e pomodori costano meno lì che a Khartoum. Chi ha stipendi che non arrivano neanche a 100 euro al mese, e sono tanti in queste condizioni, come fa?». Forse anche per il deterioramento dell’economia, perché hanno poco da fare e ancora meno da perdere, i giovani hanno continuato a protestare. Una buona parte del resto della popolazione li sostiene, anche se il fermarsi della vita pubblica, delle attività commerciali e del traffico un paio di volte alla settimana pesa e affatica. Ma la sfiducia verso i militari ha la meglio. Non è sempre stato così. Partita quattro anni fa, la rivoluzione sudanese contro il regime militare di matrice islamista guidato dal presidente Omar al-Bashir è culminata ad aprile 2019 in un sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito per chiedere ai soldati di schierarsi con i manifestanti, com’era successo 34 anni prima quando un’altra rivoluzione aveva spazzato via il precedente regime militare. Di fronte alla pressione della gente radunata nel cuore di Khartoum, nonostante il caldo estremo e il digiuno del Ramadan, pochi giorni dopo i militari hanno deposto e arrestato Bashir. Avendo però imparato la lezione della Primavera araba del 2011, le proteste sono continuate: liberarsi di Bashir non bastava più, la gente chiedeva a gran voce sia l’allontanamento dell’ex partito dominante islamista, il Partito del congresso nazionale (Ncp nell’acronimo inglese), sia che i militari cedessero il potere a un governo guidato da civili. E al grido di «madaniyyah», «civile» appunto, e dello slogan della rivoluzione «libertà, pace e giustizia» il sit-in è rimasto, alternandosi a

107 Storie Foto: AFP via Getty Images

Un attivista durante gli scontri con le forze militari nella capitale del Sudan Khartoum

manifestazioni di massa e spingendo i militari ad accettare una coabitazione con i civili e la formazione di un governo di tecnici guidato dall’economista Abdallah Hamdok. «La fiducia nell’esercito ormai è finita», sottolinea Zeynab,nomedifantasiadiunagiovane attivista di uno dei comitati di resistenza di Khartoum. Ma gli attivisti in realtà fanno fatica anche a fidarsi dei partiti politici più vicini alla rivoluzione, quelli che riuniti nelle Forze per la libertà e il cambiamento (Ffc in inglese) avrebbero dovuto essere il motore politico del governo Hamdok. E che invece con le loro divisioni e battaglie internehannofavoritoilcolpodiStato che ha fermato la transizione.

Per uscire dall’impasse, da inizio 2022 si è tentata la via, tutta in salita, del dialogo, facilitato da un panel formato dalla missione Onu in Sudan, da rappresentanti dell’Unione Africa e dell’Igad, organizzazione regionale del Corno d’Africa, con il sostegno di tutta la comunità internazionale. Dietro le quinte, negli ultimi mesi, chi ha spinto di più per una soluzione politica sono stati però Stati Uniti e Arabia Saudita, affiancati da Gran Bretagna ed Emirati Arabi. Da un lato del tavolo le forze di sicurezza, con il comune interesse a mantenere almeno parte del potere ma divise dalle forti tensioni esistenti tra esercito regolare, guidato dal ge-

nerale Abdel Fattah al-Burhan, e dalla milizia para-militare e semi-privata del generale Mohamed Daglo, detto Hemedti, ex leader dei janjawid del Darfur e a capo di un impero economico miliardario. Capire come siano davvero i rapporti tra i due generali, rispettivamente presidente e vicepresidente del Consiglio sovrano, l’organo di presidenza collettiva creato in seguito all’accordo di coabitazione del 2019, non è facile. Secondo alcuni interlocutori Burhan e Hemedti rimangono in buoni rapporti. Secondo altri, incluse persone di alto rango legate al Consiglio sovrano e all’esercito, sarebberoinveceaiferricorti.Eunoscontro aperto tra le rispettive forze armate

108 Africa

non sarebbe da escludere. A sostenere il colpo di stato ci sono anche alcuni partiti e movimenti ex armati, mentre gli islamisti del Ncp, ufficialmente fuorilegge, in questo anno hanno riguadagnato terreno nell’amministrazione pubblica. L’impressione che il colpo di Stato non abbia solo fermato la transizione democratica ma abbia anche riaperto le porte ai protagonisti dell’ex regime non fa altro che rendere più difficile un compromesso per “le forze della rivoluzione”. Gruppi che seppur con posizioni diverse nei particolari, in generale chiedono un’inversione di rotta su alcuni punti principali: la loro partecipazione preponderante nel governo, lo smantellamento del vecchio

regime, la creazione di un unico esercito nazionale e giustizia per i crimini degli anni passati.

Un primo passo per sboccare finalmente la situazione è arrivato la settimana scorsa, quando militari e forze della rivoluzione hanno firmato un accordo-quadro che dovrebbe permettere di far ripartire la transizione. Il condizionale rimane d’obbligo, sia perché non tutti i partiti politici vicini ai militari hanno firmato, sia perché rimane da vedere se l’accordo sarà sostenibile e se i comitati di resistenza lo accetteranno. In questi mesi l’obiettivo delle Ffc è stato proprio quello di ottenere dai

militari delle concessioni che fossero accettabili per la piazza. «Un’intesa di massima su quali sono le questioni più importanti c’era già da qualche settimana», sottolinea Yasir Arman, uno dei leader delle Ffc. «Ma era importante che ci fosse un accordo sui dettagli tra tutte le forze che devono essere parte del dialogo affinché la soluzione sia sostenibile». In tutto ciò le dinamiche regionali e internazionali non hanno aiutato. L’instabilità politica al centro ha fatto ripartire i conflitti locali nelle periferie, incluso il Darfur occidentale, al confine con il Ciad a sua volta nel pieno di un’accidentata transizione politica, e nello stato del Nilo Azzurro, a ridosso dell’enorme diga che il governo etiope sta costruendo appena oltre confine, fonte di acute tensioni con il Sudan stesso e con l’Egitto. Il conflitto in Tigray, nel Nord dell’Etiopia, ha portato in Sudan decine di migliaia di profughi. A fine febbraio, inoltre, mentre Putin dava ordine di invadere l’Ucraina, Hemedti e alcuni ministri del governo post-golpe si trovavano a Mosca per accordi economici, inclusa la paventata possibilità che i russi aprissero una base militare sul Mar Rosso. Sebbene Khartoum abbia fatto marcia indietro ed escluso alcun ruolo russo in Sudan, i legami del generale darfuriano con la Wagner, la società russa di mercenari vicina a Putin, continuano a gettare un’ombra lunga. «Il rischio che questa volta la guerra civile non si limiti alle regioni periferiche rimane alto», sottolinea Malik Agar, leader di uno dei movimenti ex armati che hanno firmato la pace con Khartoum nel 2020 e da allora membro del Consiglio sovrano. «Ma il Sudan è un paese-cerniera per una regione molto vasta. E se cade, rischia di risucchiare anche i paesi vicini». Per fortuna, un’evoluzione così negativa sembrerebbe evitata, almeno per il momento. La speranza di molti, anche tra i manifestanti, è la via d’uscita politica tra militari e politici, società civile e attivisti sia percorribile. E che la transizione democratica sudanese possa quindi ripartire, prima che sia troppo tardi.

109 Storie Foto: Mahmoud Hjaj / Getty Images, AFP via Getty Images, Mohamed el-Shahed / AFP / Getty Images
Un manifestante sudanese fuori dal quartier generale dell'esercito. Sotto, un sit-in

La memoria rimossa del Maigret antimafia liquidato come suicida

Una perizia della famiglia punta a far riaprire il caso. Il carabiniere voleva riportare in Italia il boss Badalamenti. Il figlio: “Ucciso per questo”

Pioviggina ma il finestrino della Fiat Tipo di servizio è tirato giù. Un maglione verde, la mano destra sulle gambe stringe la Beretta calibro 9. Sul sedile accanto, un biglietto bianco graziato dal sangue. È scesa la sera su Palermo e sul parcheggio interno della “Bonsignore”, il comando regionale dei carabinieri. L’Italia è a tavola, mentre il primo processo per la morte di Paolo Borsellino è in corso, Totó Riina è in carcere, Giulio Andreotti sta per andare alla sbarra, Gaetano Badalamenti in Italia non verrà. 4 marzo 1995. Dietro ognuno di questi fatti c’è il lavorìo investigativo dell’uomo in quell’auto, a cui un proiettile ha appena trapassato il cranio. A Terrasini dal maresciallo Antonino Lombardo per avere notizie andavano magistrati, i servizi, il Ros dei carabinieri, nel quale poi entrò. Ma la fama l’ebbe solo per la sicumera di un attacco rivoltogli in diretta tv dieci giorni prima: colluso con la mafia, dissero. Invece era un investigatore che faceva la guerra a Cosa Nostra secondo la vecchia scuola, prima dell’epoca dei pentiti: basso profilo, sapere ogni piccolo affare di contrada, scegliere i contatti, ottenere rispetto sapendo che i boss sono prima uomini con argini, margini e velleità, non scordare mai di essere lo Stato. Non lo dice la famiglia, che ha presentato un esposto alla procura di Palermo per smontare la tesi

del suicidio e riaprire le indagini sulla sua morte, ma il giudice Paolo Borsellino: «Quando il maresciallo Lombardo parla di mafia, bisogna ascoltarlo in religioso silenzio». Il figlio Fabio lo ripete in tutte le interviste, non si è mai arreso. «Bisogna partire dallo sparo. Intanto dobbiamo parlare di omicidio, poi vedere come è avvenuto, perché e chi lo ha voluto. Se viene riscritta la storia dell’omicidio Lombardo dobbiamo riscrivere parte della storia di quegli anni». Per lui le prove del «depistaggio»

e di «27 anni di menzogne» ora ci sono, contenute in 400 pagine di relazione criminalistica e una nuova perizia grafologica e balistica che L’Espresso ha letto. È un «omicidio di Stato perché il mafioso non entra e non può portare il cadavere all’interno di una caserma. Quindi è o qualcuno che indossa la divisa o qualcuno aiutato da chi indossa la divisa».

Il proiettile sparato ha «una mera e semplice analogia di classe d’arma» con quella in mano al cadavere, l’ogiva

110 Misteri italiani IL
MARESCIALLO LOMBARDO

«è praticamente esente da deformazioniplastiche,(..)pocoonullacompatibile con un’ipotesi che prevede un impatto quasi ortogonale contro il tessuto osseo di un cranio umano», si legge nella perizia. E la traiettoria è «anomala»: per giustificarla, il suicida avrebbe dovuto premere il grilletto col pollice. La posizione di braccio e mano destra e alcune loro tracce di sangue non sono riconducibili alla dinamica del gesto suicidario, mentre la seduta lato passeggero pulita, fa ipotizzare

una «copertura da oggetto o corpo». Confermati i dubbi sulla lettera di addio: le piccole tracce rosse «non risultano compatibili con la scena del ritrovamento» per la forma e per la posizione in cui questa è stata fotografata. Infine, firma e calligrafia sono «un esempio di ipotesi di scrittura artificiale», tentativo che riesce male perché mancano «i segni indicativi della personalità» e dunque la lettera «non appartiene alla mano dello scrivente». La relazione cuce insieme le incongruen-

ze. Come l’orario di arrivo in caserma (il maresciallo arriva per vedere il colonnello Domenico Cagnazzo), i piantoni che non lo vedono entrare, una possibile uscita: mancano i filmati delle telecamere. I tabulati hanno le sole chiamate in entrata e ne mancano due. Il colpo «attutito» sentito alle 22.30 dal colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo, insieme ad un collega, è tale forse perché sparato fuori dalla caserma. Erano lì nel cortile, sono i primi a vedere il cadavere, lui non lo ricono-

111 Storie Foto: Ansa
Il boss Gaetano Badalamenti. A sinistra, il maresciallo Antonino Lombardo

sce e l’allarme è per «un uomo che sta male». Alle 22.45 entra ed esce un’ambulanza. Lombardo verrà adagiato col maglione sotto la testa in sala briefing, visto da un medico legale e ricomposto. Niente autopsia. La sua borsa scompare. È mistero su un faldone di appunti. Non risulta repertato il telefono e i cinque milioni che nella lettera scrive di avere in tasca. I familiari raccontano di una perquisizione a casa dai modi netti: si cercano documenti.

Il 26 febbraio Lombardo deve partire per la terza missione negli Usa, quella per riportare in Italia Gaetano Badalamenti, in carcere per “Pizza Connection”. «Non sarebbe venuto per diventare testimone di giustizia, ma per confrontarsi con Tommaso Buscetta, per smentirlo in diversi processi, tra cui quello ad Andreotti. Diciamo che il suo arrivo in Italia era pesante», spiega Fabio Lombardo. È lui a ritrovare a casa del nonno una copia

della relazione della seconda missione americana del padre (12 dicembre 1994): è più lunga rispetto alla versione consegnata e firmata solo dal collega Mario Obinu, contiene anche i dubbi di un membro della delegazione sull’opportunità di mettere a rischio impianti processuali consolidati. Le 4 audiocassette della conversazione col boss invece sarebbero state distrutte per «cattiva fonia». Il boss si fida di Lombardo, è «disponibile» se l’obiettivo è distruggere i Corleonesi. «Badalamenti disse: “Vengo in Italia solo se mi viene a prendere Lombardo”. Dice “solo” e quindi per fermare il viaggio in America bisogna fermare Lombardo», racconta Fabio. Il 25 è il giorno nero. Il maresciallo abbraccia suo figlio: «L’importante è che restiamo una famiglia unita perché mi sa che o ci fanno saltare in aria con l’aereo o appena arriviamo in Italia ci fanno fuori. Quando arriveremo qua, ci sarà un inferno giudiziario, dal presidente della Repubblica agli ufficiali

delle forze dell’ordine». Invece lo chiamano: non partirà più, per non «esporlo». A Partinico, in quello stesso momento, il suo confidente, Francesco Brugnaro, viene ucciso e “incaprettato”. Nel pomeriggio, Badalamenti fa sapere che in Italia non verrà più. È successo che il 23 nella puntata di “Tempo Reale”, Michele Santoro si era collegato in diretta con i sindaci di Palermo e Terrasini, Leoluca Orlando e Manlio Mele che accusano: «Pezzi dello Stato stanno dalla parte della mafia». Orlando:«Stoformalmentechiedendoall’autorità giudiziaria di indagare sul comportamento del precedente responsabile della stazione dei Carabinieri». «Chiacchiere» per cui non vennero mai condannati e di cui non seppero mai dare spiegazioni. «Mio padre era convinto che Mele e Orlando parlarono in tv perché seppero di un pentito che lo accusava. Pentito che poi è stato letteralmente disintegrato, una specie di Scarantino, e che le notizie uscivano

112 Misteri italiani
I boss della Cupola mafiosa Pippo Calò e Totò Riina nell’aula bunker di Palermo

dalla procura di Palermo», dice Fabio Lombardo. È Salvatore Palazzolo: Lombardo, diceva, è «vicino» ai D’Anna. In realtà si trattava ancora di confidenti. «Poi spuntarono anche le accuse del pentito Angelo Siino, smontato anche lui durante il processo a mio zio, il tenente Carmelo Canale: lo accusava di avergli passato il famoso dossier Mafia-Appalti, che mio padre non avrebbe mai potuto avere. Infatti poi si seppe che Giovanni Brusca lo ebbe dall’eurodeputato dc Salvo Lima». L’archiviazione della procura del 22 aprile 1998 per istigazione al suicidio, definisce la morte del maresciallo «evento maturato autonomamente e imprevedibilmente» per la catena psicologicamente dura di quei fatti. Ma dell’ultimo colloquio di Lombardo in caserma, Cagnazzo racconta: «Egli ipotizzava uno scontro ad altissimo livello, ordito da menti raffinate e prevaricante la sua stessa azione investigativa, ancorché a questa legato». Le accuse in tv, per il

maresciallo erano state solo un «segnale»: lui, le sue fonti e la sua rete informativa erano già stati bruciati.

«Era uno che dava fastidio, nelle sue indagini si parlava sempre di persone di altissimo livello, non si parlava del mafiosettoodelkiller»,diceilfiglio.Tra i casi che seguiva Lombardo c’è anche la morte di Paolo Borsellino. Dopo il programma tv, «forse la chiamata che gli fece più piacere la fece il pentito che gestiva lui, Totó Cancemi», ricorda il figlio. Gli disse: «Marescià, il suo avvocato sarò io. Stia tranquillo. Era il principale pentito in Italia e il principale interlocutore di Cancemi era mio padre, uno che sapeva valutarne l’attendibilità. Un paio di giorni prima di morire, telefonò e promise alla vedova Borsellino che a breve gli avrebbe portato la verità sulla morte di suo marito. E Cancemi la verità la sapeva. Non si sarebbe arrivati a Borsellino uno, due, ter, quater e depistaggi. I miei dubbi che questa morte sia stata accelerata pure da que-

sta strada che stava percorrendo, ci sono». Se il primo enigma sulla lettera è «la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani» il secondo è quello che definisce il 15 gennaio 1993, la data dell’arresto di Totò Riina, «il giorno più importante della mia vita di carabiniere». È Lombardo a indicare la pista per la cattura, a dare targhe, numeri. Un suo appunto porta la data del 29 luglio 1992: «La latitanza è favorita dalla Noce Ganci-Spina». «La cattura partì davvero dal giorno dopo via D’Amelio, perché mio padre andò dalla vedova Borsellino e le promise l’arresto di Riina per vendicare la morte del giudice. Tutto parte da un comandante di stazione, non dal Ros o da Ultimo». Lombardo ricevette un encomio semplice che infilò in un cassetto. Dice il figlio: «L’ordine di parte dell’Arma e della procura di Palermo è di eliminare dalla memoria la figura del maresciallo Lombardo. Perché?».

113 Storie Foto: Agf, FotoA3
L’eurodeputato della Democrazia Cristiana Salvo Lima, ucciso a Palermo il 12 marzo 1992, primo delitto nell’anno delle stragi

Tecnologia

Un’immagine tratta dal lavoro di Francesco D’Abbraccio

114

INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Creatività e fake news Dall’arte ai media le immagini dal nulla

Programmi accessibili consentono di generare video rappresentando realtà inesistenti. Una frontiera non esente da rischi di manipolazione di Alessandro Longo

Si entra in una stanza ed è come entrare in un sogno. Un pavimento di specchi le dà i tratti di un limbo, un “non luogo” avvolgente. Si sente la voce di un bambino che parla con la madre e immagini si materializzano sulle pareti. Un’automobile, un lampo di luci, poi pezzi di lamiere che volano. Insieme a loro, una fanciulla. Tutto alla fine rimane immobile, fino a cancellarsi. Appare così un’installazione (Distrust Everything) esposta in molti musei nel mondo (tra cui la Biennale di Venezia, Ars Electronica di Linz e la Triennale di Milano). «Dialoghi, immagini e sceneggiatura sono state create con l’intelligenza artificiale», come spiega l’autore Francesco D’Abbraccio. Lui la chiama «arte generativa» e ne riconosce il valore di supporto al gesto artistico, creativo.

L’intelligenza artificiale che crea immagini, persino video in base alle indicazioni date dai suoi utilizzatori è un fenomeno esploso quest’anno. Perché questi strumenti solo ora sono usciti dai laboratori di ricerca per entrare nelle nostre case e uffici. Adesso chiunque può usarli, anche gratis, per creare immagini originali su piattaforme come Dall-E 2 di OpenAi (Microsoft il principale investitore), MidJourney, StableDiffusion.

Meta (l’azienda che possiede Facebook, Instagram, Whatsapp) da poco ha mostrato il primo sistema per creare anche video con intelligenza artificiale. La tecnologia è simile a quella che già da qualche anno è usata per il supporto alla creazione di testi o musica, con algoritmi; ma per le caratteristiche dei contenuti visivi generati può avere effetti ancora più dirompenti. Sul modo in cui si fa arte, certo; ma anche sul mercato del design, della pubblicità e sul sistema dell’informazione.

Con un impatto sul mercato del lavoro, per prima cosa, perché «sembra inevitabile che l’automazione, con strumenti sempre più semplici da usare, sostituirà il lavoro di basso livello, industriale e commerciale, di quelli che ora sono musicisti, artisti visivi e pubblicitari», dice Luciano Floridi, filosofo tra più autorevoli nel settore digitale (insegna all’università di Oxford e come ordinario a Bologna). Molti esperti evidenziano inoltre il rischio di una disinformazione di massa se chiunque può creare immagini realistiche con contenuti di fantasia, mostrando ad esempio attacchi terroristici mai avvenuti. Un problema trattato soprattutto dai ricercatori del Mit di Boston e, da noi, indagato da sociologi come Davide Bennato (università di Cata-

115 Storie Foto: Cortesia Francesco D’Abbraccio

Tecnologia

nia), Mario Morcellini (Sapienza di Roma, ex consigliere dell’Autorità garante delle comunicazioni dove ha affrontato il problema delle fake news) e Nicola Strizzolo (università di Teramo).

A rischio, notano, è la fiducia in una narrazione comune, base di qualunque progetto sociale, se diventa così facile creare immagini false, poi diffuse su media e da politici per affermare tesi e lanciare allarmi. Si arriva a smettere di credere a qualsiasi evidenza, insomma; come già adesso molti elettori americani credono che il voto presidenziale del 2020 sia stato rubato.

Ed è davvero facile creare immagini originali in questo modo, da quando – a settembre 2022 – OpenAi ha reso il sistema aperto a tutti, con 15 utilizzi gratuiti ogni mese (si paga per quantità maggiori e usi più sofisticati).

Basta scrivere in inglese una frase descrittiva a piacere e il sistema la “traduce” in alcune immagini generate in automatico (e, volendo, si può anche usare un altro sistema di intelligenza artificiale, come Deepl.com, per avere una traduzione automatica dall’italiano). Abbiamo provato con «un politico italiano che grida sulla minaccia di una invasione di immigrati dall’Africa tramite navi di Ong». Ci sono apparsi uomini e donne in giacca, con il megafono; visi a volte italiani a volte – curiosa coincidenza – con tratti nord-africani. Quasi sempre un mare sullo sfondo e abbozzi di navi.

Attenzione: si potrebbe pensare che sono immagini create mescolando foto trovate su Internet. No: il sistema genera davvero immagini inedite. I volti non appartengono a nessuna persona reale. Come ha fatto l’intelligenza artificiale a capire che aspetto avrebbero un politico italiano e una nave? I programmatori hanno addestrato il sistema con centinaia di milioni di foto dotate di didascalie scritte a mano da un eserci-

to di lavoratori (spesso in Paesi poveri, per meno di due dollari l’ora). L’intelligenza artificiale le decostruisce con un processo matematico e così poi aggrega un ammasso di pixel che, sulla base di quanto ha appreso, ha una probabilità abbastanza alta di assomigliare a ciò che l’utente le ha richiesto.

Gli artisti, com’è capitato spesso nella storia, si sono seduti in prima fila a sperimentare le potenzialità dei nuovi sistemi, «un po’ com’è capitato con l’arrivo della pittura a

olio. Una trasformazione tecnologica che ha impattato su stili e gusto artistico», dice Floridi. Per fare Distrust Everything, l’intelligenza artificiale è stata addestrata dagli autori con vent’anni di descrizioni testuali dei sogni di Jack Hardiker, collaboratore di D’Abbraccio. Ha perso la madre da bambino, in un incidente d’auto. Altri sistemi artificiali sono serviti per realizzare le sceneggiature e i dialoghi, in base alle indicazioni dell’artista, che comunque ha compiuto selezioni di

116
Il progetto transmediale dell’artista visivo e musicista Francesco D’Abbraccio

Longo

quanto prodotto e scelte di regia.

«I sistemi generativi fanno emergere elementi inaspettati e causano meraviglia nello stesso artista, costringendolo a un cambiamento del proprio punto di vista», dice D’Abbraccio. «Qualunque tecnologia si inserisce in modo forte nella costruzione di ogni opera; il medium entra nel messaggio», aggiunge.

D’Abbraccio è uno dei maggiori esponenti di questa nuova tendenza artistica, secondo Giulio Lughi, professore di Teorie e tecniche dei nuovi

media all’università di Torino, il quale cita anche “Emissaries”, di Ian Cheng, esposto tra l’altro al MoMa di New York. «Un video dove elementi di flora e fauna generati graficamente al computer interagiscono tra loro, si modificano e ricombinano in un flusso narrativo senza fine, guidati da sistemi logici complessi e modelli multipli interconnessi di intelligenza artificiale». Oppure «il progetto Kórsafn della cantante Björk, in collaborazione con Microsoft: un algoritmo registra tutte le

variazioni nel cielo di New York associando in tempo reale alle variazioni atmosferiche il mix degli arrangiamenti corali di Björk. Genera così una ininterrotta e sempre diversa colonna sonora del panorama atmosferico newyorkese».

Ma, a un livello più commerciale, l’intelligenza artificiale è sempre più usata anche da designer e da agenzie pubblicitarie, adesso perlopiù per avere idee e spunti creativi; ma, per lavori di più basso livello, c’è già qualche imprenditore che preferisce risparmiare rivolgendosi a Dall-E 2 invece di assumere un grafico, come nota un’indagine recente del New York Times. Qualche settimana fa ha espresso preoccupazione anche un noto illustratore fantasy come Rj Palmer, quando ha visto le immagini generate, in questo modo, proprio per riprodurre il suo stile.

Sì, i risultati sono ancora piuttosto imprecisi, soprattutto con questi sistemi pre-addestrati e pronti all’uso, disponibili a tutti. I volti e le mani hanno spesso deformazioni che ne denunciano la falsità. Allo stesso modo, anche a occhio nudo risultava falso il video con Zelensky che chiedeva di deporre le armi. Generato probabilmente dai russi, con intelligenza artificiale, qualche mese fa e circolato sui social a scopo di disinformazione. Sembra inevitabile però che «la tecnologia continuerà a migliorare, ponendo sfide importanti alla società contemporanea», dice Bennato. OpenAi ora ha filtri contro la possibilità di creare immagini dannose, ma altri sistemi (come StableDiffusion) sono configurabili senza limiti. Tra l’altro, dovrà riposizionarsi il mestiere del creativo (visivo, musicale, testuale, qui compresi i giornalisti). «Le conseguenze vanno da un’esplosione creativa collettiva, favorita da questi strumenti, al rischio di un certo appiattimento culturale. Ma al momento ancora troppo presto per dirlo».

117 Storie Foto: Cortesia
Francesco D’Abbraccio, Alessandro
La nostra simulazione per la protesta di un fantomatico sbarco di migranti

BEATRICE DONDI

CI MANCAVA SOLO LA BOBO TV

Su Rai Uno lo speciale Qatar: ben sei autori per quattro minuti di pura inutilità

C’è un rigore assoluto, da cui non si deroga per nessuno dei lunghi quattro minuti della somministrazione quotidiana della BoboTV - Speciale Qatar: ovvero l’ordine alternato con cui si succedono le risate. Se il primo a scoppiare in uno scomposto verso gutturale è

Vieri, al giro successivo sarà Adani, poi Ventola e infine Cassano. Poi si ricomincia, a tempo, tipo i quattro per quattro di Nora Orlandi, anche se meno intonati. A dire il vero per tutti i 260 estenuanti secondi la rotazione ciclica diventa una caratteristica pressante, tipo una meridiana. E il fatto che da qualche secolo questo tipo di misurazione temporale sia passata di moda e all’ombra proiettata dal chiodo sul muro si siano scelti gli avveniristici orologi non è un esempio casuale. Perché la carica di inutilità che porta sulle spalle questa breve parentesi in onda su Rai Uno per i Mondiali, ha quel non so che di impolverato, come il rosolio della domenica che i parenti buttavano giù tutto d’un fiato per stemperare l’imbarazzo del nipote che raccon-

tava barzellette sporcaccione. E non è certo per la confusione, perché basta guardare un minuto di “Viva Rai Due” per capire che se c’è un pensiero il rumore si trasforma in musica, come per magia. Nel caso di Vieri e compagni invece si tratta proprio di accanimento nei confronti dell’appassionato di calcio, perché qualcuno deve essersi detto che non bastava l’esclusione dell’Italia, i diritti umani calpestati, i lavoratori sfruttati e il discorso di Infantino. Bisognava che lo spettatore espiasse sino in fondo. Così, senza nessun’altra ragione apparente, lo speciale Bobo Tv si è appollaiato sulla prima rete improvvisamente trasformata in una mensola nel tinello su cui appoggiare qualunque oggetto pur di riempire lo spazio. E ha reso subito chiaro che il punto di riferimento sarebbe stato il trenino di Capodanno. «La squadra che ha deluso di più? Il Qatar!» E prima si ride su queste battute irresistibili, poi si applaude con vigore per sottolineare l’acutezza, a volte si alzano i pollici, e nel mentre vi è l’incoraggiamento reciproco. «Grande Nicola, bravissimo Antonio, super Bobo, incredibile Lele». Fino alla prossima ovvietà che però va in onda il giorno successivo visto che se Dio vuole il tempo è tiranno. Resta lo spazio per il colpo di scena sul gran finale: dai titoli di coda si evince che gli autori sono sei, praticamente ognuno di loro lavora a ben 40 secondi di programma. Ma senza pause.

Biglietti due anni prima, lo show è un terno al lotto

Cosa avete da fare il 23 luglio del 2023? Non lo sapete? Male, dovreste saperlo perché ormai se volete vedere un concerto dovete deciderlo svariati mesi prima, a volte anche un anno prima, non importa se tra un anno in quei giorni vorreste poter decidere di fare altro, una vacanza, un imprevisto, oppure quel gruppo non vi piace più così tanto, o magari avrete voglia di andare a fare un weekend romantico, perché oggi siete single e tra tre mesi invece felicemente innamorati, e quindi il 23 luglio invece di andare a vedere il concerto che avete dovuto prenotare con tanto anticipo, vi andrebbe di fare qualcos’altro. Questa delle vendite in anticipo sta diventando una specie di barzelletta o, se preferite, di follia, nel senso che se prima capitava in casi del tutto eccezionali, eventi imperdibili, unici, ora sta diventando una norma, come se fosse normale decidere oggi il concerto che vorrò vedere tra un anno. E non è un’esagerazione. Se volete assistere al concerto di Tananai al Forum di Assago l’8 maggio del 2023, praticamente domani, potete già comprare il biglietto. Volete festeggiare, ammesso che ci sia da festeggiare, il ritorno dei Kiss il 29 giugno al Lucca Summer festival? I biglietti sono già in vendita. Poi però non inventatevi che all’ultimo momento cambiate idea, che si rompe la caldaia, che c’è un’invasione di cavallette, che nella vita com’è normale a distanza di mesi, succedono cose. I concerti di Springsteen di maggio e luglio 2023 sono andati a ruba, non ci sono più, ma in vendita troviamo anche quelli di Lazza, Diodato, Tiziano ferro (giugno) Black keys (luglio), Red Hot Chili Pepper (luglio), Marco Mengoni (giugnoluglio), Arctic Monkeys (luglio),

Ho visto cose/tv
118 11 dicembre 2022 #musica GINO CASTALDO

Imagine Dragons (agosto). Ce n’è per tutti i gusti: Vasco, Pet Shop Boys, Marracash, perfino Al Bano, tutto quello che volete, a patto di ipotecare la vostra agenda con mesi di anticipo. A stupire è la normalità, Volete essere certi di andare all’Arena di Verona per i Music Awards di settembre anche se non c’è ancora il cast? Ovviamente potete già acquistare il vostro posto, e perfino un pacchetto speciale a 299 euro che ti assicura alcuni privilegi, che possono essere anche molto divertenti, ma senza conoscere i nomi degli artisti in cartellone il piacere diventa una questione di suspense. Pensate che bello, il biglietto lo compriamo subito, e per scoprire chi andremo a vedere c’è tutto il tempo. Bisogna anche saper rischiare nella vita, e allora osiamo, mettiamo in vendita un concerto del 2024, senza neanche specificare il nome dell’artista, come un “blind date”, col brivido della sorpresa. Il nome dell’artista è un puro dettaglio, quello che conta è che io oggi ho assolutamente bisogno di sapere con certezza cosà farò, il 6 giugno del 2024 e per questo sono disposto a tutto, anche a comprare un biglietto.

MEDEA BLACK IN TRIBUNALE

Una madre uccide la figlia abbandonandola su una spiaggia. Il film di Diop, bellissimo e sconcertante gio colto quanto affilato, ottimi studi alle spalle, una tesi su Wittgenstein in corso (ma forse è una montatura), un amante-tutore-protettore bianco e benestante, molto più vecchio di lei, che in aula sembra ora una vittima, ora un ingenuo, ora un ipocrita, e forse è tutto questo insieme.

Gran parte di “Saint-Omer” si svolge in un tribunale. Eppure il bellissimo film di Alice Diop - bellissimo e sconcertante - non ha nulla del cinema processuale che conosciamo. Ogni parola pronunciata in quel tribunale viene dai verbali di un processo che la Francia seguì col cuore in gola, quello di Fabienne Kabou, 36enne di origine senegalese che il 25 novembre 2013 uccise la figlia di 15 mesi abbandonandola su una spiaggia di Bercksur-Mer, vicino Calais, in una sera di marea montante. Eppure mai la scansione di gesti e parole, rivelazioni e menzogne (o deliri, come diranno gli psichiatri), di cui è costellato il processo, echeggia la grammatica logora dei film nati “da una storia vera”. La regista, classe 1979, due premi all'ultima Mostra di Venezia (Leone d’argento e Leone del Futuro), ha alle spalle vent’anni di documentari. Ma nulla avvicina questo film denso e pittorico all'estetica “rubata” dei docu volgarmente intesi. Che cos'è dunque “Saint Omer”? Un gioco vertiginoso di specchi tra l’accusata, che si vuole vittima di stregoneria, e la giovane scrittrice, anche lei di origine senegalese, che parte da Parigi per seguire quel processo che la scuote in profondità (le attrici sono le inedite e stupefacenti Guslagie Malanda e Kayije Kagame). Un controcampo non meno disturbante sui nostri pregiudizi di bianchi progressisti ma in difficoltà davanti a una moderna Medea rea confessa, presenza elegante e magnetica, linguag-

Infine il cantiere - già molto avanzato - di un cinema a venire. Un cinema capace di accogliere nel suo farsi la complessità di un dramma finora invisibile ma sotto gli occhi di tutti, ogni giorno, quello dello sradicamento di milioni di migranti (e della sua eredità: il cuore del film è il rapporto madre-figlia), che di generazione in generazione potrebbe costringerci a riconsiderare tutto ciò che credevamo di sapere. Altro che certezze giudiziarie, geografiche o morali. Se credete che tutto sia stato già raccontato date un’occhiata a “Saint Omer”. Ma tenetevi saldi.

“SAINT OMER” di Alice Diop Francia, 122’

Scritti
buio/cinema FABIO
11 dicembre 2022 119
M.L. AntonelliAgf
al
FERZETTI
Foto:
aaaab
Tananai

UFFICIO CENTRALE: Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice), Anna Dichiarante

REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Angiola Codacci-Pisanelli (caposervizio), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Gloria Riva, Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco

ART DIRECTOR: Stefano Cipolla (caporedattore)

UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore)

PHOTOEDITOR: Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice)

RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini

SEGRETERIA DI REDAZIONE: Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio

CONTROLLO DI QUALITÀ: Fausto Raso

OPINIONI: Barbara Alberti, Altan, Mauro Biani, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Bernard Guetta, Sandro Magister, Marco Dambrosio Makkox, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Michela Murgia, Denise Pardo, Massimo Riva, Pier Aldo Rovatti, Giorgio Ruffolo, Michele Serra, Raffaele Simone, Bernardo Valli, Gianni Vattimo, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza, Luigi Zoja

COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Silvia Barbagallo, Giuliano Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Ivan Canu, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Rita Cirio, Stefano Del Re, Alberto Dentice, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Antonio Funiciello, Giuseppe Genna, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Stefano Liberti, Claudio Lindner, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Piero Melati, Luca Molinari, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Gianni Perrelli, Simone Pieranni, Paola Pilati, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Caterina Serra, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valentini, Chiara Valerio, Stefano Vastano

PROGETTO GRAFICO: Stefano Cipolla e Daniele Zendroni

L’ESPRESSO MEDIA SRL

Via Melchiorre Gioia, 55 - 20124 Milano P. IVA 12262740967 - Iscr. Reg. Imprese n. 12546800017 - N. REA MI - 2649954

CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE

PRESIDENTE: Denis Masetti

AMMINISTRATORE DELEGATO: Marco Forlani

DIRETTORE GENERALE: Mirko Bertucci

CONSIGLIERI: Maurizio Milan, Massimiliano Muneghina, Margherita Revelli Caracciolo, Alessandro Mauro Rossi

DIREZIONE E REDAZIONE ROMA: Via in Lucina, 17 - 00186 Roma - Tel. 06 86774111

E-mail: espresso@espressoedit.it

REDAZIONE DI MILANO: Via Luigi Galvani, 24 – 20124 Milano

Registrazione Tribunale di Roma n. 4822 / 55 Un numero: € 4,00; copie arretrate il doppio PUBBLICITÀ: BFC MEDIA SPA info@bfcmedia.com - Via Melchiorre Gioia, 55 - 20124 Milano ABBONAMENTI: Tel. 0864 256266 - Fax 02 26681991

E-mail:abbonamenti@gedidistribuzione.it Per sottoscrizioni www.ilmioabbonamento.it Servizio grandi clienti: Tel. 0864 256266

DISTRIBUZIONE: GEDI Distribuzione S.p.A. - Via Nervesa, 21 - 20139 Milano Arretrati e prodotti multimediali: Tel. 0864 256266 - Fax 02 26688669 - arretrati@gedidistribuzione.it

STAMPA E ALLESTIMENTO: Stabilimento Effe Printing S.r.l. - località Miole Le Campore-Oricola (L’Aquila); Puntoweb (copertina) - via Variante di Cancelliera snc Ariccia (Rm).

Titolare trattamento dati (Reg. UE 2016/679): L’Espresso Media Srl - info@lespresso.it - Soggetto autorizzato al trattamento dati (Reg. UE 2016/679): Lirio Abbate

RISPONDE STEFANIA ROSSINI Noi e Voi

MATRIMONI GAY PATRIMONIO DELLA SINISTRA

Cara Rossini, leggo con interesse la sua rubrica e ho voluto condividere queste mie riflessioni pensando che, seppur modeste, magari possono servire a fare chiarezza sullo stato del Partito democratico. Ho sempre votato Pd, ultimamente no. Non sono andata a votare perché non sono d'accordo sui continui proclami del Pd a favore dei matrimoni gay e soprattutto sono contraria alle adozioni gay. Non mi rispecchio più in un partito che rappresenta per lo più ricchi sfaccendati e capricciosi che hanno unico pensiero la loro sessualità. La preoccupazione principale di quelli che vogliono rappresentare è chiedersi se sono veramente maschi o femmine, alcuni addirittura cercano di provare ad essere diversi e arrivano a costosi interventi chirurgici e a cambiarsi anche il nome datogli dai genitori alla nascita. È logico e indiscutibile che si deve rispettare e trattar bene ogni persona, sia gay sia immigrato o carcerato o zingaro ma un conto è rispettarli e trattarli bene altro è assecondare i loro capricci. Sono sacrosanti i diritti all’uguaglianza sociale dei figli degli immigrati formatisi culturalmente nelle scuole italiane ed anche il diritto all'accoglienza dei nuovi immigrati ed ancora prima la loro protezione dai trafficanti di esseri umani che lucrano sulle loro sofferenze. Giustissimi anche i diritti dei carcerati ad un trattamento umano per cui possano redimersi, ma il matrimonio gay e l’adozione sono due grossi errori. In questo caso i veri diritti dei più deboli da rispettare sono quelli dei bambini che hanno il diritto di poter crescere con la loro mamma naturale e il loro papà. Occorre aiutare i genitori naturali a crescere i loro figli e non obbligare i bimbi a stare con due papà senza la loro mamma o con due mamme senza il papà. Peccato che le idee sbagliate sbandierate da alcuni dirigenti del Pd abbiano influito molto sul raggiungimento dell’ultimo risultato elettorale. Enrica Barbiroglio

Ormai il Pd è il ricettacolo dei malumori di ogni tipo. Quello della signora Barbiroglio è poi particolare perché lo accusa di aver dato spazio a battaglie civili che in tutto il mondo sono patrimonio della sinistra. Discutibile potrebbe essere semmai l’egemonia che il partito ha dato a questi temi, lasciando più oscurate, quasi fossero ormai garantite, le grandi questioni sociali, dal diritto a un lavoro alla lotta alla povertà. Parte dell’ex popolo di sinistra ha così guardato altrove o ha deciso di non votare. Forse è possibile che qualche elettore si sia indispettito anche per l'attenzione del Pd alle questioni di orientamento sessuale. Ma va anche detto alla nostra lettrice che il suo sdegno nei confronti delle famiglie non tradizionali arriva con un paio di decenni di ritardo, visto che le coppie omosessuali hanno conquistato da tempo il diritto ad unirsi civilmente. Non così per l'adozione che, con la destra al governo, dovrà aspettare tempi migliori.

stefania.rossini@espressoedit.it
L’ESPRESSO - VIA IN LUCINA, 17 - 00186 ROMA letterealdirettore@espressoedit.it - precisoche@espressoedit.it ALTRE LETTERE E COMMENTI SU LESPRESSO.IT 120 N. 49 - ANNO LXVIITIRATURA COPIE 179.700 Certificato ADS n. 8855 del 05/05/2021 Codice ISSN online 2499-0833 L’ESPRESSO MEDIA SRL è una società del gruppo BFC MEDIA Questo giornale è stampato su carta con cellulose, senza cloro gas, provenienti da foreste controllate e certificate nel rispetto delle normative ecologiche vigenti.
DIRETTORE RESPONSABILE: LIRIO ABBATE CAPOREDATTORI CENTRALI: Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario)

Mandare armi a Kiev senza sapere perché

Continuiamo a vivere un salto d’epoca con logiche e provvedimenti puramente emergenziali. Tra questi anche il fornire armi all’Ucraina. Se ne discute da una parte e dall’altra come fosse qualcosa valutabile di per sé, un fine e non un mezzo. Servono a che? Per vincere sul campo la Russia? Per costringerla alla resa? Per “riconquistare” la Crimea? Per disfare la Federazione russa (più di 80 soggetti federali, tra cui 22 Repubbliche autonome, in gran parte costituite da minoranze etniche - vi è perfino una piccolissima Repubblica ebraica all’estremo oriente dell’immensa Federazione, la quale confina, non si dimentichi, con gli stessi Stati Uniti)? Quale strategia si persegue? Assieme all’invio di armi quale iniziativa politico-diplomatica sta svolgendo l’Unione Europea? Che cosa si risponde alla Merkel, che ha detto apertis verbis di non essere stata ascoltata da anima viva? Forse con le battute propagandistiche della Presidente della Commissione, che chiede di istituire un tribunale speciale a senso unico per i crimini di guerra russi? Qualche giurista - o Kissinger - non potrebbe spiegare alla van der Leyden che cose simili si possono combinare solo a conflitti finiti e con il nemico schiacciato, e che parlarne ora con una guerra in atto, e di portata globale, può significare soltanto impedire o ostacolare qualsiasi percorso di pace?

Se l’Europa non assumerà rapidamente la missione che la storia le ha affidato nel confronto tra i grandi spazi imperiali, ruolo di intesa, di mediazione, agente e promotore di tutte le riforme necessarie degli organismi internazionali, meta-statuali, al fine di farli finalmente funzionare (a partire dalla riforma della stessa Unione), i conflitti in atto sono destinati a continuare fino a un inevitabile punto di rottura. Potenti interessi economici tengono ancora insieme i pezzi del nostro globo, ma è pura illusione pensare che essi bastino a mantenere sine die l’attuale, fragilissimo equilibrio geo-politico. Piaccia o no ad arcaico-liberisti, è proprio la Politica ad aver ripreso il sopravvento,

ad essersi rimessa tragicamente in marcia. E il solo soggetto in grado di fare oggi davvero una politica di pace sarebbe l’Europa. L’Europa che non c’è. Perdente o perduta?

Come sembrano aver smarrito il significato storico della propria posizione geo-politica, così i Paesi europei sembrano aver dimenticato l’originalità, l’autonomia delle politiche sociali che li hanno caratterizzati per tutto il secondo dopoguerra almeno fino al nuovo Millennio. Erano politiche ridistributive, anche audaci, fondate sulla coscienza che democrazia e benessere, Stato di diritto e uguaglianza di opportunità formano un tutt’uno. Oggi i vincoli di un tempo sono divenuti obiettivi da perseguire. Il mantra ovunque ripetuto dei necessari “sacrifici”, come se l’imposizione di un’economia di quasi-guerra fosse l’effetto di un cataclisma naturale, imprevedibile e irrimediabile, copre l’assenza di politiche fiscali davvero progressive e lo sgretolamento dell’edificio, frutto di tante lotte, dello Stato sociale. I processi in atto tendono per loro natura a moltiplicare nell’Occidente disuguaglianze di ogni genere, alterano i rapporti di potenza economici e politici. Nulla di neutrale. E se ad essi si risponde con l’idea che politiche di “austerità” cadano equamente su tutti come la pioggia che ci manda il buon Dio, non sarà soltanto il nostro Welfare ad andare a pezzi, ma la credibilità stessa dell’ordine democratico. Più si indebolisce lo status economico e sociale del lavoro salariato e dipendente, più drammatica si fa la spaccatura tra precarizzazione delle masse dei giovani, dei pensionati e dei ceti medi e concentrazione della ricchezza in ristrette élite di potere, più la democrazia per sopravvivere dovrà ricorrere a meccanismi di controllo sociale, concentrare i processi decisionali, ridurre ruolo e peso della partecipazione alla vita politica, “demonizzare” i conflitti che di questa sono l’anima stessa. Meno la democrazia somiglierà alla democrazia - fino a non restarne che la memoria.

sostegno

122 11 dicembre 2022 Massimo Cacciari Parole nel vuoto Illustrazione: Ivan Canu
Il
militare all’Ucraina è un mezzo, non un fine. Ma qual è l’obiettivo, la strategia? Nessuno lo dice. E l’Europa smarrisce la propria missione storica di mediazione tra gli imperi in conflitto

LOW BARRIER CASH COLLECT SU PANIERI DI AZIONI

Barriere Premio e a Scadenza pari al 40%

Premi mensili potenziali con effetto memoria tra lo 0,75%1 (9,00% p.a.) e il 2,05% (24,60% p.a.)

CARATTERISTICHE PRINCIPALI:

Premi mensili potenziali tra lo 0,75% (9,00% p.a.) e il 2,05% (24,60% p.a.) del valore nominale con Effetto Memoria

Barriera Premio e a Scadenza pari al 40% del valore iniziale dei sottostanti Scadenza a tre anni (14 Novembre 2025)

Rimborso condizionato del capitale a scadenza

Sede di negoziazione: SeDeX (MTF), mercato gestito da Borsa Italiana

I Certificate Low Barrier Cash Collect su panieri di Azioni consentono di ottenere potenziali premi con effetto memoria nelle date di valutazione mensili anche nel caso di andamento negativo delle azioni sottostanti purché la quotazione di tutte le azioni che compongono il paniere sia pari o superiore al livello Barriera Premio (che è pari al 40% del valore iniziale delle azioni sottostanti). Inoltre, a partire dal sesto mese di vita, i Certificate possono scadere anticipatamente qualora nelle date di valutazione mensili tutte le azioni che compongono il paniere quotino a un valore pari o superiore al rispettivo valore iniziale. In questo caso l’investitore riceve, oltre al premio mensile, il Valore Nominale oltre gli eventuali premi non pagati precedentemente (c.d. Effetto Memoria).

Ascadenza,seil Certificatenonèscaduto anticipatamente,sono duegliscenaripossibili:

se la quotazione di tutte le azioni che compongono il paniere è pari o superiore al livello Barriera a Scadenza, il Certificate rimborsa il Valore Nominale più il premio con Effetto Memoria;

se la quotazione di almeno una delle azioni che compongono il paniere è inferiore al livello Barriera a Scadenza, il Certificate paga un importo commisurato alla performance della peggiore tra le azioni che compongono il paniere (con conseguente perdita, parziale o totale, del capitale investito).

dovrebbe essere intesa come approvazione dei Certificate L’investimento nei Certificate comporta il rischio di perdita totale o parziale del capitale inizialmente investito, fermo restando il rischio Emittente e il rischio di assoggettamento del Garante allo strumento del bail-in Ove Certificate siano venduti prima della scadenza, l’Investitore potrà incorrere anche in perdite in conto capitale. Nel caso in cui i Certificate siano acquistati o venduti nel corso della sua durata, il rendimento potrà variare. Il presente documento costituisce materiale pubblicitario e le informazioni in esso contenute hanno natura generica e scopo meramente promozionale e non sono da intendersi in alcun modo come ricerca, sollecitazione, raccomandazione, offerta al pubblico o consulenza in materia di investimenti. Inoltre, il presente documento non fa parte della documentazione di offerta, né può sostituire la stessa ai fini di una corretta decisione di investimento. Le informazioni e i grafici a contenuto finanziario quivi riportati sono meramente indicativi e hanno scopo esclusivamente esemplificativo e non esaustivo. Informazioni aggiornate sulla quotazione dei Certificate sono disponibili sul sito web investimenti.bnpparibas.it.

MESSAGGIO PUBBLICITARIO
SCOPRILI TUTTI SU investimenti.bnpparibas.it Il Certificate è uno strumento finanziario complesso Gli importi espressi in percentuale (esempio 0,75%) ovvero espressi in euro (esempio 0,75 €) devono intendersi al lordo delle ritenute fiscali previste per legge * Il Certificate è dotato di opzione Quanto che lo rende immune dall’oscillazione del cambio tra euro e la valuta del sottostante ISINAZIONISOTTOSTANTIBARRIERAPREMIOMENSILE NLBNPIT1JU31Intesa SanPaolo, Unicredit40%0,80% (9,60% p.a.) NLBNPIT1JU49Unicredit, Nexi, Leonardo40%1,15% (13,80% p.a.) NLBNPIT1JU56Eni, Enel, Pirelli40%0,75% (9,00% p.a.) NLBNPIT1JU98*Ferrari, Porsche, Tesla40%1,20% (14,40% p.a.) NLBNPIT1JUB8*Netflix, Meta, Uber40%1,20% (14,40% p.a.) NLBNPIT1JUF9*Plug Power, Sunrun, Veolia40%2,05%
p.a.) NLBNPIT1JUH5*Amazon, Delivery Hero, Uber40%1,85% (22,20% p.a.) Messaggio pubblicitario con finalità promozionali. Prima di adottare una decisione di investimento, al fine di comprenderne appieno potenziali rischi e benefici connessi alla decisione di investire nei Certificate leggere attentamente il BaseProspectusfortheissuanceofCertificates approvato dall’AutoritédesMarchés Financiers (AMF) in data 01/06/2022, come aggiornato da successivi supplementi, la Nota di Sintesi e le Condizioni Definitive (FinalTerms) relative ai Certificate e, in particolare, le sezioni dedicate ai fattori di rischio connessi all’Emittente e al Garante, all’investimento, ai relativi costi e al trattamento fiscale, nonché il relativo documento contenente le informazioni chiave (KID) ove disponibile. Tale documentazione è disponibile sul sito web investimenti.bnpparibas.it. L’approvazione del BaseProspectus non
SCOPRILI TUTTI SU investimenti.bnpparibas.it Il Certificate è uno strumento finanziario complesso
(24,60%

Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook

Articles inside

Noi e voi

5min
pages 120-121

Dall’arte ai media le immagini dal nulla Alessandro Longo

7min
pages 114-117

La memoria rimossa del Maigret antimafia Sara Lucaroni

8min
pages 110-113

La tregua fragile di Khartoum, lo spettro di un’altra guerra civile Irene Panozzo

7min
pages 106-109

La prevalenza del Fattore K Giuseppe Catozzella

8min
pages 94-97

Fenomeno Chalamet Claudia Catalli

4min
pages 102-104

Al servizio degli altri Tommaso Giagni

8min
pages 78-83

L’armata del silenzio Donatella Di Cesare

2min
pages 84-89

Marxista, gay e snob, tutti in posa per Procktor

3min
pages 100-101

Lucian Freud, la regina è nuda Giuseppe Fantasia

5min
pages 98-99

Suprematisti di casa nostra Simone Alliva

7min
pages 74-77

Piazza Fontana, dove nasce la strategia della tensione Pierangelo Lombardi

2min
page 73

Israele, destra pigliatutto Alberto Stabile

5min
pages 64-65

Rapiti in Mali e dimenticati Chiara Sgreccia

5min
pages 70-72

Artiglio turco sul Kurdistan Marta Bellingreri

6min
pages 66-69

Le telecamere cinesi in Italia Gabriele Cruciata

5min
pages 56-59

Taci, l’Europa ti ascolta Luciana Grosso

6min
pages 60-63

Russia, il grande errore tedesco Angelo Bolaffi

5min
pages 54-55

La nuova frattura occidentale Federica Bianchi

6min
pages 50-53

Il conte Mascetti alla Juventus Gianfrancesco Turano

6min
pages 48-49

Vent’anni di battaglie per la scienza e la libertà Filomena Gallo

3min
pages 46-47

“Noi non paghiamo” contro il caro energia Diletta Bellotti

3min
page 45

Vicinanza

3min
page 41

Philip Morris ringrazia Vittorio Malagutti e Carlo Tecce

9min
pages 30-35

I Dem vanno in frantumi colloquio con Luigi Zanda di Susanna Turco

6min
pages 38-40

Serra

3min
pages 36-37

Sedotti e bastonati Gloria Riva

6min
pages 42-44

Contro la corruzione le leggi non bastano Lirio Abbate

3min
page 11

Taglio alto

2min
page 19

Il popolo delle merci si autodivora Angelo Ferracuti

3min
page 18

La parola

1min
page 7

Curiamo noi stessi ma non il pianeta Giuliano Battiston

6min
pages 26-29

Io in lotta con il virus e Trump colloquio con A. Fauci di M. Cavalieri e D. Mulvoni

5min
pages 22-25

L’Amazzonia brucia anche per noi Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi

8min
pages 12-17

Colonialismo ambientale Georg Diez

6min
pages 20-21
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.