Rivista associazionistica - anno 2023 mese marzo. Edizione Speciale il cavallo nell’arte
Il Cavallo nell’Arte
COPERTURE ASSICURATIVE TOP CARD CLUB LIBERTY Polizza Responsabilità Civile Terzi e RCO Catastrofale RCT massimale Limite per Persona massimale Limite per Danni a Cose ed Animali massimale Dipendente RCO massimale Limite per persona massimale RC Cavalli
€ 5.000.000,00 € 5.000.000,00 € 5.000.000,00
€ 5.000.000,00 € 5.000.000,00 € 5.000.000,00 franchigia € 500,00
Tutela Legale massimale 15.000,00 a sinistro per anno.
Polizza Infortuni e Malattia Morte Invalidità permanente
Diaria Giornaliera da gesso Diaria Giornaliera di degenza per infortunio Diaria Giornaliera di degenza da malattia Diaria Giornaliera per Day Ospital Infortuni a mezzi di supporto tecnici e ortopedici di persone disabili Rimborso spese sanitarie a seguito di infortunio
€ 200.000,00 € 200.000,00 (franchigia 3%) € 75,00 € 50,00 € 50,00 € 25,00 € 2.500,00 € 10.000,00
IL CAVALLO LIBERO
Questo emozionante viaggio nell’arte è stato possibile percorrerlo grazie all’enorme competenza e cultura del maestro d’arte Giuseppe Frascaroli a cui va la mia stima e gratitudine. Ci troviamo presso la sede generale di ENGEA a Cornale e Bastida (PV) in una mattina primaverile del 2022, il Maestro con grande lungimiranza si mise a disposizione della nostra rivista per andare alla ricerca di una chiave di lettura che unisse la sua conoscenza dell’arte, sotto ogni forma e genere ed il mondo del cavallo, con l’obbiettivo di rendere onore e merito a questo nostro amico che ha accompagnato la storia dell’uomo nelle sue epoche. Mi documentai prima di proporgli un’impresa che nessuno fino ad allora si fosse mai cimentato ad intraprendere e cioè la creazione di uno speciale della rivista dedicato esclusivamente al cavallo e di come pittori e scultori si sono relazionati nei secoli nei confronti di questo splendido animale. Abbiamo assistito all’utilizzo del cavallo in agricoltura, nelle strategie di guerra, nelle attività sportive, nelle attività ricreative e di benessere psicofisico dell’uomo ma mai fino ad ora abbiamo raccontato la sua storia attraverso gli occhi storici dell’arte. Il maestro Giuseppe Frascaroli accolse la sfida e dopo diverse settimane si presentò in redazione con un “Compendio del Cavallo nell’arte” descrivendo le prime raffigurazioni risalenti al 10.000 a.c. sino ad arrivare ai tempi moderni. Nello stupore del lavoro svolto non si poteva non concretizzare in una edizione inedita e speciale della Rivista “ Il Cavallo Libero” che dirigo e di cui con orgoglio vi presento nella sua completezza. Quello che leggerete Vi stupirà, Vi incuriosirà, Vi emozionerà! Le stesse sensazioni che abbiamo provato nel redigerlo ed offrirlo al mondo con la stessa semplicità, generosità e genuinità che il cavallo ha reso e rende tutt’oggi al genere umano. Buona Lettura a tutti! Con la speranza e la certezza che coglierete la straordinarietà del lavoro svolto da tutta la redazione ed i professionisti coinvolti.
IL DIRETTORE TINO NICOLOSI
INDICE 06
INTRODUZIONE IL CAVALLO NELL’ARTE di GIUSEPPE FASCAROLI
LE OPERE testi ed immagini a cura di Giuseppe Frascaroli
22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52
IL DUCA DI LERMA A CAVALLO di Pieter Paul Rubens NAPOLEONE ATTRAVERSA LE ALPI AL GRAN SAN BERNARDO di Jacques-Louis David UFFICIALE DEI CAVALLEGGERI DELLA GUARDIA IMPERIALE di Thèodore Gèricault TESTA DI CAVALLO di Thèodore Gèricault RITRATTO DI CARLO V A CAVALLO di Tiziano Vecellio RITRATTO DI FILIPPO IV DI SPAGNA A CAVALLO di Diego Velàzquez CARLO I A CAVALLO CON M. de St. ANTONIE di Antoon Van Dyck RITRATTO DEL PRINCIPE TOMMASO FRANCESCO DI SAVOIA CARIGANO A CAVALLO di Antoon Dyck CAVALLI DA CORSA DAVANTI ALLE TRIBUNE di Edgar Degas CAVALLO TRATTENUTO DA SCHIAVI di Thèodore Gèricault CORAZZIERE FERITO CHE ABBANDONA IL CAMPO DI BATTAGLIA di Thèodore Gèricault IL CONTE-DUCA DI OLIVERAS di Diego Velàzquez RITRATTO DI CARLO I A CAVALLO di Antoon Van Dyck CAVALLO SPAGNOLO di Thèodore Gèricault CAVALLO POMELLATO SPAVENTATO DAL FULMINE di Thèodore Gèricault RITRATTO DEL CONTE STANISLAW POTOCKI di Jacques-Louis David
IN COPERTINA Opera del Pittore Giuseppe Frascaroli Olio su tela cm 85x60 donata ad ENGEA ed esposta presso gli uffici di presidenza.
RIVISTA ASSOCIAZIONISTICA DI CULTURA E SPORT EQUESTRE, CINOTECNICA E CINOFILIA, NATURA E AMBIENTE. EDIZIONE SPECIALE: IL CAVALLO NELL’ARTE. ANNO 2023 MESE MARZO
EDITORE E.N.G.E.A. EQUITAZIONE
54 56 58 60 62 64 66 68 70 72 74 76 78 80 82 86
SAN GIACOMO MAGGIORE CONCQUISTATORE DEI MORI di Giambattista Tiepolo WHISTLEJACKET di George Stubbs CAVALLE E PULEDRI IN UN PAESAGGIO FLUVIALE di George Stubbs STALLONEW ARABO DI LORD GRASVENOR CON UNO STALLIERE di George Stubbs LA CITTA’ CHE SALE di Umberto Boccioni CAVALLI IN RIVA AL MARE di Giorgio de Chirico
DIRETTORE RESPONSABILE Tino Nicolosi REDAZIONE Tino Nicolosi, Giuseppe Frascaroli. Foto credits: wikimedia commons per le figure da n. 1 a n. 17, n. 19 e n. 20; National Geographic per la figura n. 22; Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese per la figura n. 18 e www.tate.org per la figura n. 24 PROGETTO GRAFICO E DESIGN ORIGINALE Tino Nicolosi, Letizia Colbertaldo
I CAVALIERI DI FIDIA DELL’ANTICA GRECIA: decorazioni a bassorilievi del fregio occidentale el Partenone
GRAFICA E IMPAGINAZIONE Letizia Colbertaldo
FANTINO DI CAPO ARTEMISIO di autore anonimo
SEDE P.zza Vaccari 7 27056 Cornale e Bastida (PV )
STATUA EQUESTRE DI MARCO AURELIO di autore sconosciuto STATUA EQUESTRE DI BARTOLOMEO COLLEONI di Andrea del Verrocchio STATUA EQUESTRE DI GATTAMERATA di Donatello STATUA EQUESTRE DI AMANUELE FILIBERTO DI SAVOIA di Carlo Manochetti STATUA EQUESTRE DEL REGISOLE DI PAVIA MONUMENTO EQUESTRE A FILIPPO IV di Pietro Tacca L’INTERESSANTE STORIA DEL CAVALLO DI LEONARDO DA VINCI BIOGR AFIA DI GIUSEPPE FR ASCAROLI
CONTATTI Tel. 0383.378944 SITI WEB www.issuu.com/engea www.cavalloecavalli.it
IL CAVALLO LIBERO
IL CAVALLO NELL’ARTE Questo libro non ha la pretesa di essere una disamina esaustiva sulla rappresentazione del cavallo nell’arte, che meriterebbe uno scritto in diversi volumi corposi. L’intento è quello di costruire un excursus di carattere informativo sull’argomento a partire dagli albori dell’arte, con le popolazioni preistoriche e primitive, per arrivare alle avanguardie storiche, ovvero quei movimenti artistici di fino ottocento e inizio novecento che hanno posto al centro della propria attività artistica e letteraria la sperimentazione, la ricerca di nuove forme espressive con lo scopo di rinnovarsi staccandosi dalla tradizione. Quindi una descrizione del cavallo nell’arte di facile, e spero piacevole, lettura, attraverso i millenni: dall’arte arcaica, alla classica, quindi neoclassica, romantica, per riservare infine uno spazio, se pur piccolo, all’esposizione di come è stato rappresetato il cavallo nei movimenti artistici epressionisti, futuristi, nella metafisica, nel cubismo e nel surrealismo. Per tale scopo ho scelto 22 opere pittoriche e 9 opere scultoree, ad ognuna delle quali ho dedicato un commento.
presa approssimativamente tra il 40.000 e il 10.000 a.C. Attorno al 17.500 a.C., in pitture rupestri nelle grotte di Lascaux, nella Francia sud-occidentale, alcuni sconosciuti antenati dei popoli Cro-Magnon sulla loro rotta di caccia, hanno tratteggiato realisticamente e in modo convincente sagome di cavalli (figura n° 1), oltre che di altri animali, come tori e cervi, presenti nel loro territorio. Tra le statuette raccolte in Germania nella grotta di Vogelherd, sempre nel Paleolitico superiore c’è un manufatto raffigurante un cavallo selvaggio (“cavallo di Vogelherd”) datato a circa 32.000 anni (figura n° 2). Nelle piastre di pietra incise dagli Assiri-Babilonesi, nel III millennio A.C. i cavalli, che furono usati in battaglia per la prima volta da questa popolazione, sono incisi con ricchezza di dettagli: non solo l’animale con tutte le sue caratteristiche e particolarità, ma anche i suoi ornamenti, come redini, montanti, capezze e altre decorazioni, che fanno pensare più a manufatti di alta oreficeria che a quelli di operai che lavorano la pietra e il marmo con lo scalpello (figura n° 3). Anche in alcune tombe dell’antico Egitto vi sono pitture murali e oggetti funerari in cui sono presenti i cavalli: gli artisti egizi ci presentano il cavallo quasi sempre trainante carri leggerissimi, sopra i quali stavano un auriga con le redini avvolte attorno ai fianchi, armato di un frustino a volte impugnante uno scudo, e il combat-
Il cavallo è comparso in infinite opere, sia pittoriche che scultoree, lungo tutte le epoche storiche nel loro succedersi nel tempo, a partire dai suoi albori. È del tutto plausibile far risalire le prime raffigurazioni di cavalli al paleolitico superiore, un’ampia fascia di tempo com-
IL CAVALLO LIBERO
Dall’alto le figure 1, 2 e 3
IL CAVALLO LIBERO tente armato di arco e frecce. Figure più eleganti e perfezionate che rivelano una migliore padronanza dell’anatomia equina compaiono nella Grecia classica: basti pensare ai celeberrimi “Cavalieri” di Fidia, bassorilievi in marmo pentelico che decoravano la parte superiore del fregio occidentale del Partenone, oggi esposti al British Museum di Londra (figura n° 4). Presso gli Etruschi i cavalli, a figure rosse o nere, sono di ornamento del vasellame e dei sepolcri con raffigurazioni spesso policrome: un esempio significativo è il magnifico affresco che decora la Tomba dei Tori di Tarquinia, con, a sinistra, Achille che tende l’agguato a Troilo - a cavallo, sulla destra - risalente al 530 a.C. circa, (figura n° 5) oppure, sempre a Tarquinia, alla Tomba a camera ipogea del Barone della fine del VI secolo a.C., dove secondo alcune interpretazioni sono identificati nei due giovani cavalieri i Dioscuri, nell’ambito di un culto non meglio definibile di qualche divinità. Ricordo inol-
tre la splendida coppia di cavalli alati di laboriosa e magnifica manifattura realizzati in terracotta e in altorilievo rinvenuti anch’essi a Tarquinia e risalenti alla metà del IV secolo a.C. (figura n° 6): il gruppo scultoreo deriva dal frontone del tempio dell’Ara della Regina, situato sul colle di Civita, parte dell’antica acropoli etrusca della stessa Tarquinia. I Romani non furono di certo da meno dei Greci e degli Etruschi: il miglior esempio di statua equestre è quella di Marco Aurelio a Roma del II secolo d.C. (figura n° 7). Il gruppo scultoreo in lega bronzea con doratura dei Cavalli della Basilica di San Marco a Venezia poi, risalente all’epoca romana (secondo alcuni II secolo o III secolo d.C.), ma più probabilmente, a quella ellenistica (comunque non prima del II secolo a.C., in base alla datazione al radiocarbonio) costituisce un meraviglioso esempio dell’antichità classica di una monumentale statua di Quadriga in trionfo sistemata inizialmente all’ippodromo di Costantinopoli (figura n° 8).
Figura 4
IL CAVALLO LIBERO
Figura 5
Figura 6
IL CAVALLO LIBERO
Figura 7 Dopo una notevole riduzione della pro- la rappresentazione del cavallo nell’arte. duzione, sia in pittura che in scultura, del In questo importante periodo storico, cacavallo nell’arte paleocristiana e bizanti- ratterizzato da una fruizione consapevolna, per la supremazia dei temi religiosi, mente filologica dei classici greci e latini, nel Rinascimento, a partire dalla seconda dal rifiorire delle lettere e delle arti, della metà del XIV secolo, vi fu una ripresa del- scienza e in genere della cultura, vi furo-
IL CAVALLO LIBERO
Figura 8 no diversi artisti che effigiarono il cavallo, tra cui ricordo gli italiani Paolo Uccello, Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio, Andrea Mantegna e Tiziano Vecellio. Tra gli stranieri, uno per tutti, ricordo il tedesco Albrecht Dürer, la cui passione e competenza per le proporzioni dei cavalli lo portano a incidere molte tavole dedicate all’equino, tra cui, più simboliche e significative, sono le due incisioni raffiguranti “Il grande cavallo” (figura n° 9) di mm 167 x 119 e “Il piccolo cavallo” (figura n° 10) di mm 165 x 108, entrambi eseguite nel 1505. Nel 1482 il Duca di Milano Ludovico il Moro suggerì a Leonardo da Vinci di creare il più imponente monumento equestre del mondo: un’opera scultorea dedicata a suo padre Francesco, fondato-
re del casato degli Sforza. Tuttavia, il Cavallo di Leonardo non fu mai completato, fino a quando non fu realizzato alla fine del XX secolo dalla scultrice Nina Akamu, basandosi sui disegni di Leonardo (figura n° 11). Nell’epoca barocca, tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, fino alla metà del XVIII secolo, continuò la tradizione della ritrattistica equestre, con artisti come i fiamminghi Peter Paul Rubens, Anthony van Dyck e lo spagnolo Diego Velázquez che ritraevano personaggi regali, o comunque di alto rango, sui loro cavalli. Sempre in quest’epoca si affermò l’arte sportiva equestre, quando con il sostegno della casata reale inglese di origini gallesi dei Tudor, comparve la tradizione delle
IL CAVALLO LIBERO
Da sinistra figura 9 e 10
Figura 11
IL CAVALLO LIBERO corse dei cavalli. Tra il XVIII e il XIX secolo tra i principali artisti che hanno raffigurato il cavallo isolatamente o comunque lo hanno rappresentato nelle loro opere, ricordo George Stubbs, nato nel 1724, e che può essere considerato il più grande e competente pittore di cavalli nell’arte britannica e verosimilmente tra i migliori nella storia dell’arte, insieme a Leonardo da Vinci; era così affezionato ai suoi soggetti equestri da diventare noto come “il pittore dei cavalli”. Studiò talmente in modo approfondito l’anatomia del cavallo che i suoi disegni anatomici furono di aiuto a molti artisti del suo tempo e nelle epoche successive. Verso la fine del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo nasce e si sviluppa il Romanticismo; artisti francesi come Théodore Géricault ed Eugène Delacroix, che furono tra i propugnatori e i massimi interpreti di questo movimento, raffigurarono il cavallo in molte delle loro opere. Verso la fine del Settecento, Johann Heinrich Fussli, pittore romantico svizzero precursore in alcune opere dell’Espressionismo e del Surrealismo, presentò una visione inedita del cavallo nella sua opera “L’incubo” del 1781, collegata alle componenti oniriche della notte, nella pienezza del contesto culturale goticheggiante del Romanticismo tedesco. Circa vent’anni dopo sarà il pittore neoclassico Jacques Louis David a riconsegnare al cavallo la sua nobile funzione di potente alleato dell’uomo. Nel suo “Napoleone attraversa le Alpi al Gran San Bernardo” realizzato tra 1800 e il 1801 (figura n° 12), il condottiero è dipinto come un eroe, erto nella sua potente autorità, ragguardevole successore dei grandi comandanti trasfigurati dal mito che valicarono le alpi, Annibale e Carlo Magno.
L’arte sportiva equestre era popolare nell’Ottocento: tra gli artisti molto famosi di quel periodo ricordo gli inglesi Benjamin Marshall, seguace di George Stubbs, James Ward, e Heywood Hardy. Le corse dei cavalli si affermarono progressivamente sempre di più in Francia e il pittore impressionista Edgar Degas dipinse molte scene delle prime corse. “Fantini davanti alle tribune” realizzato da Degas tra il 1866 e il 1868 (figura n° 13) è un classico quadro dedicato al mondo delle corse dei cavalli, il mondo frequentato a quei tempi dalla buona società, della quale anche Degas faceva parte: il tema è trattato da lui molte volte anche in seguito, non soltanto per la vivacità e vitalità dell’ambiente, ma, forse ancor di più, per la necessità di rendere il movimento dell’animale, sintetizzando in un’immagine sola le diverse fasi dell’articolazione delle quattro zampe. Degas è stato uno dei primi pittori di cavalli a utilizzare riferimenti fotografici. Gli studi del movimento nelle fotografie del britannico Eadweard Muybridge ebbero un’enorme influenza sull’arte della raffigurazione equestre perché consentirono agli artisti una migliore comprensione delle andature dei cavalli. Muybridge utilizzò la tecnica della cronofotografia per studiare il movimento degli animali, oltre che delle persone, e i suoi studi sono giustamente considerati anticipatori della biomeccanica e della meccanica degli atleti. Nel 1878 Muybridge fece un interessante esperimento sul movimento, talmente interessante che passò con successo negli annali della fotografia: usando questa nuova tecnica, rappresentò con precisione e con successo un cavallo in corsa, utilizzando 24 fotocamere collocate in modo parallelo lungo il percorso. Ogni singola macchina veniva azionata da un filo colpito dagli zoccoli del caval-
Da sinistra Figura 12 e 16
Figura 13
IL CAVALLO LIBERO
Figura 14
Figura 15
IL CAVALLO LIBERO
Figura 17 lo. La sequenza di fotografie che prese il nome di “The Horse in motion” evidenziò come gli zoccoli si sollevassero dal terreno contemporaneamente, ma non nella posizione di totale estensione, come era solitamente rappresentato. A quei tempi era infatti convinzione comune, ma erronea, che il cavallo, durante la corsa, si levasse completamente da terra nella posizione di massima estensione, e questo momento fu spesso raffigurato nei dipinti e disegni degli inizi del 1800, come nell’esempio di Théodore Géricault, nel suo dipinto “Le derby d’Epsom” del 1821 (figura n° 14). Gli esperimenti fotografici di Muybridge sconvolsero questa visione e influenzarono profondamente l’attività dei pittori, diventando così nell’arte una sorta di spartiacque tra “il prima” e “il dopo”; dopo gli studi di Muybridge i pittori si affidarono sempre più al mezzo fotografico per meglio riprodurre quello che l’occhio umano non riesce a percepi-
re. Molti pittori utilizzarono fotografie di figure umane per copiarle nei loro dipinti e si arrivò anche alla pittura diretta su lastra fotografica. L’analisi del movimento catturato da Muybridge venne apprezzata anche da Edgar Degas, che ne studiò le posizioni assunte dal cavallo, ricavando disegni dalle fotografie. Sempre nell’Ottocento la pittrice francese Rosa Bonheur divenne famosa per le sue raffigurazioni pittoriche di cavalli: famosa la sua opera “La fiera del cavallo” (in francese: Le marché aux chevaux), (figura n° 15) esposto al Salon (un’esposizione periodica di pittura e scultura, che si svolse al Louvre di Parigi, con cadenza biennale fino al 1863 ed annuale in seguito dal XVII al XIX secolo) e ora conservata al Metropolitan Museum of Art di New York. Isidore Bonheur, il fratello minore di Rosa Bonheur, si è affermato come uno dei più illustri scultori “animaliers” francesi del XIX secolo plasmando le sue scul-
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Figura 18
IL CAVALLO LIBERO
Da sinistra figura 19 e 20 ture in modo da catturare il movimento o la postura caratteristica della specie e i suoi particolari. Questo artista raggiunse il successo proprio con le sue sculture di cavalli, tra cui Il “Cavaliere arabo che rapisce due cuccioli di leone” un bronzo del 1875 circa e conservato al museo d’Orsay di Parigi (figura n° 16). Un altro artista tra Ottocento e Novecento famoso per le sue opere pittoriche rappresentanti soggetti equini, fu l’inglese Sir Alfred Munnings, un celebrato pittore nominato presidente della Royal Academy nel 1944. Un grande pittore italiano che ha raccontato i cavalli prevalentemente nella loro quotidianità e quale elemento di lavoro nelle campagne, è Giovanni Fattori, considerato tra i principali esponenti del movimento dei Macchiaioli. Fattori fa infatti del cavallo il soggetto di molte sue opere rappresentanti scene di vita agreste.
E con Fattori siamo arrivati agli inizi del Novecento, secolo che sovverte la maniera di esaminare i cavalli, in rapporto ai dettami dei diversi stili pittorici e delle avanguardie più innovative. In Italia nel primo ventennio del secolo, appare curioso e stimolante osservare l’indagine sul cavallo eseguita da due artisti aderenti a due correnti molto differenti tra loro: l’energico e dinamico Futurismo, nato in Italia e una delle prime Avanguardie europee e la nitida, statica e mitologica Metafisica. Umberto Boccioni nelle sue opere futuriste, nutrite da pennellate filamentose ed energiche che creano scie cromatiche il cui scopo è perseguire quella fusione caleidoscopica degli elementi ritratti. Boccioni raffigura il cavallo come entità veemente di dinamismo. Si veda una delle sue prime opere futuriste, “La città che sale” del 1910, (figura n° 17) tela dipinta durante la vista che si vedeva dal balco-
IL CAVALLO LIBERO
Figura 21 ne della casa dove abitava, dei lavori in un cantiere di Milano. Qui, il cavallo che domina nella parte centrale del dipinto è un preciso riferimento allegorico all’evoluzione accelerata, al dinamismo, alla produttività e all’esaltazione del progresso di cui si faceva portavoce il Manifesto del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Giorgio De Chirico, contrariamente a Boccioni, riprende la raffigurazione del cavallo inserendolo in spazi litoranei, nella tranquillità e pacatezza di un tempo indefinito e di uno spazio inesplorato che si perde all’alba delle civiltà classiche. Nell’opera “Cavalli in riva al mare” (figu-
ra n° 18), realizzato intorno al 1927-1928, tema che sarà ripreso più volte dal pittore metafisico, del quale vi sono più versioni, con alcune varianti, tutte per lo più eseguite nello stesso periodo parigino, i due destrieri sono raffigurati nella loro solennità mitologica. Negli stessi anni di Boccioni invece in Germania, sarà Franz Marc a prendere interesse per la figura del cavallo. Esattamente come Degas, anche Marc riprenderà il soggetto scomponendolo e ricomponendolo con sperimentazioni che attraversano le differenti correnti pittoriche che si esprimono in quel periodo in Europa. Esemplari perché uguali, ma allo stesso tempo molto diversi tra loro, sono le due tele de’ “Il cavallo blu” (figura n° 19) del 1911 e “La Torre di cavalli azzurri” (figura n° 20) del 1913: il primo è considerato una delle opere più rilevanti del movimento artistico espressionista Cavaliere Blu (Der Blaue Reiter) di cui oltre a Marc fecero parte Vasilij Kandinskij, August Macke e Paul Klee; nel secondo si rileva un approccio al Cubismo di Braque e Picasso nel delineare i cavalli, che formano quasi una torre di figure geometriche nel collimare uno sull’altro. E se Marc si avvicina al cubismo e lo sperimenta coi suoi cavalli, Picasso ne tiene il padronato. Dai molti bozzetti, disegni, sculture e dipinti lasciati in eredità dal genio di Malaga, si ricava un interesse particolare ed eterogeneo verso la figura del cavallo da parte dell’artista, che riprende il soggetto ancor prima di approdare al Cubismo, come si evince dal “Ragazzo con il cavallo” (figura n° 21) del 1906. In questa peculiare opera a olio su tela, Picasso mette in risalto la semplicità, optando di rappresentare un giovane con un animale, metafore di un legame ancestrale; l’ambiente circostante è privo di particolari e di animazione sullo sfondo,
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Figura 22 restituendo l’opportunità allo spettatore guerra civile, il cavallo diventa il simbolo di concentrarsi sui due protagonisti; per di un popolo intero. Infatti, nel tormento l’assenza infatti di qualsiasi ambiente di e nella disperazione generale che goverriconoscimento, si ha la percezione che nano la composizione, al centro di essa riquesto sia un luogo fantastico, irreale. Ma salta un cavallo imbizzarrito e impaurito, nell’opera di denuncia “Guernica” (figura inserito in quel dipinto pieno di simbon° 22), dipinta da Picasso nel 1937 a segui- lismi, a rappresentare il popolo spagnoto del bombardamento aereo della Legio- lo ormai sfinito, turbato e alienato dalla ne Condor sulla città spagnola durante la guerra civile.
Figura 23
IL CAVALLO LIBERO Ben più amabile e quieto invece, è l’esperimento del surrealista René Magritte con il soggetto equino, che, nella tela “La firma in bianco” (figura n° 23), tenta di raccontare con un’immagine l’idea dello sguardo furtivo sulle cose. Infatti nel dipinto è raffigurata una dama a cavallo nei boschi tra diversi tronchi d’albero: in un gioco di scomposizioni prospettiche e volumetriche, la donna e il cavallo scompaiono e ricompaiono tra i tronchi degli alberi, nel turbamento di chi osserva il dipinto. Lo stesso Magritte, nel descrivere l’opera così recita: “Le cose visibili possono essere invisibili. Se qualcuno va a cavallo in un bosco, prima lo si vede, poi no, ma si sa che c’è. Nella Firma in bianco, la cavallerizza nasconde gli alberi e gli alberi la nascondono a loro volta. Tuttavia il nostro pensiero comprende tutti e due, il visibile e l’invisibile. E io utilizzo la pittura per rendere visibile il pensiero”. Ne “La Firma in Bianco” dipinta nel 1965, l’artista fonde e separa realtà e rappresentazione. Mentre nell’opera “Ceci n’est pas une pipe” (la “Pipa che non è ciò che dice di essere”) del 1928-1929 la realtà si sottrae alla rappresentazione e viceversa, in questa tela la cavallerizza e il bosco sono compresenti e trasmettono con il loro esserci la necessità di Magritte di andare
oltre l’apparenza delle cose e allo stesso tempo di mostrare la realtà come un’astrazione. Magritte, con “La firma in bianco”, voleva insomma dimostrare come nella quotidianità ci sono cose che si possono percepire in alcuni momenti ed in altri no, ma ciò non significa che nel momento in cui non le vediamo, non ci sono. Una spiegazione agevole e comprensibile attraverso la percezione surreale di un cavallo che si destreggia con le sue zampe snelle tra i tronchi degli alberi di un bosco. Termino con un bronzo di Raymond Duchamp-Villon, scultore francese esponente della scultura cubista, fratello del più famoso Marcel Duchamp: mi riferisco alla sua opera dal titolo “Grande Cavallo” del 1914 (figura n° 24). In quest’opera l’inclinazione del corpo e le direzioni contrastanti delle sue diverse parti suggeriscono che la stasi della figura è soltanto apparente, o temporanea, come se l’animale fosse sul punto di compiere un passo. Raymond in questo bronzo elabora una sintesi dinamica tra cavallo e macchina, resa con superfici lisce e geometriche. Questa versione è fortemente astratta e parti della fisionomia del cavallo sono sostituite da elementi meccanici.
Figura 24
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“Il Duca di Lerma a Cavallo” di Pieter Paul Rubens Nessun altro pittore europeo del XVII secolo ha unito talento artistico, successo sociale ed economico e un alto livello culturale come Pieter Paul Rubens, il più grande pittore fiammingo del Seicento (Siegen, 1577 – Anversa, 1640). “Il Duca di Lerma a Cavallo” è un olio su tela dipinto da Rubens nel 1603, di cm 283x 200, conservato al Museo del Prado di Madrid. Dopo che il duca di Lerma cadde in disgrazia, questo dipinto entrò nella collezione reale, ma fu successivamente donato all’ammiraglio di Castiglia da Felipe IV. Passò quindi attraverso le collezioni di diversi nobili, prima di essere acquisito dal Museo del Prado nel 1969. Il dipinto è realizzato sulla memoria iconografica di un “San Martino” di El Greco. La soluzione è potentissima, e di fatto va a innovare radicalmente l’ambito della ritrattistica ufficiale, che in Spagna era ferma al “Carlo V” di Tiziano. L’autorevolissimo primo ministro di re Filippo III, don Francisco de Sandoval y Rojas, marchese di Denia e primo duca di Lerma, è indicato come capo degli eserciti spagnoli. Mirabili sono la raffinatezza e la ricchezza di dettagli dipinti con estrema perizia sia della mezza armatura e del pettine dei Cavalieri di San Giacomo al collo del Duca, che nella ricchezza di guarnizioni della bardatura del bianco destriero: il montante, la capezzina, il sovracapo sovrastato da un elemento decorativo, il pettorale e le staffe sono dipinti con tanta
bravura e dovizia di particolari negli ornamenti che meraviglia lo spettatore. Quest’opera mostra tutta la forza e il vigore dei ritratti del primo periodo di Rubens e la sua capacità di catturare la personalità del modello: qui riflette la superbia e l’orgoglio della potente situazione politica del Duca. Il pittore, in questa composizione, mostra di aver profondamente assorbito la “grande maniera” della pittura italiana: la ricerca di un forte impatto emozionale, la notevole sensibilità spaziale, l’uso drammatico della luce e del colore riportano in particolare all’influenza della pittura veneziana della seconda metà del Cinquecento. Il ritratto equestre di Rubens esprime potenza; è descritto in posizione frontale e sembra procedere verso lo spettatore raffigurando il duca rivolto in avanti con estremo realismo (addirittura ho notato negli occhi un lieve strabismo divergente di cui probabilmente era affetto lo stesso condottiero). La tela trasmette un incontenibile senso di vitalità e vigoria: il dinamismo della posa è accresciuto dall’uso della luce, guizzante e capace di raggiungere punti di altissima intensità, e dal colorito raggiante. Rubens dirigendo il movimento della figura equestre direttamente verso lo spettatore, conferisce al ritratto la sensazione di un movimento energico di un potente cavallo a petto largo con una criniera che vola nel vento.
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IL CAVALLO LIBERO
“Napoleone attraversa le Alpi al Gran San Bernardo” di Jacques - Louis David
Questo ritratto ufficiale di Napoleone è un olio su tela di cm 271 x 232, realizzato tra 1800 e il 1801 da Jacques-Louis David (Parigi, 30 agosto 1748 – Bruxelles, 29 dicembre 1825), figura centrale dell’arte europea e protagonista assoluto del Neoclassicismo pittorico. L’opera, conservata al Museo Nazionale del Castello di Malmaison, è stata eseguita da David su commissione del re di Spagna Carlo IV, volendo quest’ultimo riavvicinarsi alla Francia, dopo che negli anni della Convenzione aveva dichiarato guerra al suo paese, per essere associato ai molti ritratti di generali illustri che aveva nella sua reggia madrilena. Il successo fu tale che David, con la cooperazione dei pittori del suo atelier, ne realizzò successivamente cinque riproduzioni. Napoleone non posò mai per questo ritratto: “Alessandro non posava per Apelle”, pare dicesse Bonaparte “e nessuno si è mai chiesto se i grandi uomini fossero somiglianti ai loro ritratti: bastava che in questi vivesse il loro genio”. A cavallo di un magnifico destriero impennato, Napoleone appare in questo dipinto come un eroe, ragguardevole successore dei grandi comandanti trasfigurati dal mito, Annibale e Carlo Magno, i cui nomi nel quadro figurano accanto al suo, incisi nelle rocce in basso a sinistra. Anche questi grandi condottieri avevano attraversato le Alpi con i loro eserciti e lui ora non faceva che ripeterne le grandiose
e straordinarie imprese. Eseguito dopo la vittoria di Marengo, da cui il cavallo ha preso il nome, il quadro presenta una scenografia del tutto inventata, ma le peculiarità della divisa e delle armi, le stesse che Napoleone portava in quel giorno indimenticabile, sono quelle reali. Egli le aveva infatti prestate a David, il quale dopo averle sistemate su un manichino nel proprio studio le riprodusse con cura nel dipinto. Nel mirabile ritratto prevale l’aspetto celebrativo. David inizialmente aveva pensato di mettere sulla mano destra del cavaliere una spada sguainata, ma Napoleone rifiutò, preferendo presentarsi come un eroe calmo e dignitoso, la cui mano tesa verso un punto lontano indica le nuove vittorie che lo attendono. Lo stallone arabo raffigurato, di nome “Marengo”, è stato il cavallo preferito da Napoleone tra i cinquantadue cavalli della sua scuderia personale. Allevato dalla scuderia El Naseri in Egitto, il cavallo fu portato in Francia quando aveva sei anni. Da subito si dimostrò un purosangue coraggioso, affidabile e di grande prestanza fisica; ferito otto volte nel corso della sua carriera, trasportò l’imperatore in diverse battaglie, tra cui quelle famose di Austerlitz e Waterloo. Fu anche utilizzato alcune volte nelle galoppate da 120 chilometri tra Valladolid e Burgos, spesso completate in cinque ore.
IL CAVALLO LIBERO
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“Ufficiale dei cavalleggeri della guardia imperiale” di Théodore Géricault
In soli venti giorni circa, con l’aiuto dell’amico barone d’Aubigy che si offerse a posare per gli studi e i bozzetti di movimento in groppa a un cavallo preso in affitto dal cocchiere di una carrozza pubblica e al luogotenente Dieudonné, che fu il suo primo modello, Théodore Géricault approntò la più vigorosa e vivace interpretazione mai raffigurata di un soldato all’attacco sul suo cavallo imbizzarrito a causa dei frastuoni dei cannoni in battaglia. Questo imponente dipinto, un olio su tela di cm 349 x 266 è stato realizzato da Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 – Parigi, 26 gennaio 1824) nel 1812 ed è conservato al museo del Louvre di Parigi. Il nostro artista, che dopo le sue prime esperienze pittoriche nell’ambiente neoclassico francese, diventò un importante esponente dell’arte romantica, espose questa sua opera per la prima volta al Salon di Parigi, la più importante esposizione d’arte della Francia in quel periodo, ad appena ventuno anni, e rappresenta il suo tentativo di unire sia il movimento che la perfezione strutturale nella sua arte. È un’opera di grande levatura, impetuosa, sia per l’impostazione caratterizzata dal cavallo impennato con gli occhi sbarrati esaltato dall’artista con l’uso di pennellate vibranti di luce e di energia, sia per la posa altera del cavaliere su una sella ornata da pelle di leopardo, sia per i fuochi della battaglia e per la carica emozionale del colore
che lo sostanzia. L’idea per questo dipinto sembra che gli fosse venuta da un banale incidente. Secondo l’intellettuale della sua epoca Charles Clément, un giorno, mentre l’artista andava alla festa di Saint-Claude, “vide sulla strada una carrozza alla quale era attaccato un cavallo grigio, per niente bello, ma focoso e di un colore magnifico” che, nel tentativo di ribellarsi al giogo della carrozza, si impennava scuotendo il muso con la bava alla bocca. Quel cavallo gli ispirò la composizione del quadro con il “destriero da guerra, inebriato, impazzito per l’odore della polvere, il bagliore delle armi, il tuonare del cannone” (Clément, 1863). Questo dipinto segnò la consacrazione del pittore nel 1812, quando ricevette la medaglia d’oro al Salon di Parigi. Il modello diretto di questa visione eroica, con il cavallo impennato, è il “Napoleone che valica il Gran San Bernardo” di David, dal quale tuttavia si differenzia nella posa, e per la stesura pittorica a forti macchie contrastate, unico aspetto dell’opera che suscitò delle perplessità nella critica. A mio avviso la stesura a macchia del bel cavallo pomellato, che riduce la definizione ai contorni e suggerisce la fugacità della visione, con le luci e le ombre usate per far risaltare qualche dettaglio o nascondere altre parti, suggeriscono un senso di mistero, inquietudine e trepidazione.
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“Testa di cavallo bianco” di Théodore Géricault La “Testa di cavallo bianco” è un olio su tela di cm 65 x 54 che Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 – Parigi, 26 gennaio 1824), importante pittore esponente del Romanticismo francese, realizzò nel 1815-1816 circa e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Più che un meticoloso progetto di studio dal vero, preparatorio a una tela più articolata e complessa, questa testa di cavallo appare come un completo e impeccabile ritratto dell’equino, in cui emerge tutta la sua intensità di espressione. In quest’opera Géricault, con grande perizia tecnica, dirige un fascio di luce chiara davanti alla testa del cavallo, attenuando in questo modo ogni singolo avvallamento della fisionomia della testa dell’animale. Le pennellate larghe e liquide incedono nel creare il profilo della testa del cavallo per accostamento di variazioni cromatiche chiaroscurali. La nitidezza del pelo della fronte e della parte centrale del destriero è in opposizione all’intensità dell’ombra nel lato sinistro del muso, il cui
profilo appare ben visibile grazie all’ulteriore stacco di luce rispetto al collo illuminato. La criniera poi, quasi completamente in ombra, affiora per contrasto con lo sfondo rossastro, appena rischiarato rispetto alla zona sinistra della tela, dove il colore si scurisce quasi completamente. I cavalli erano la grande passione di Géricault: “Se avesse voluto, avrebbe potuto redigere meglio di chiunque altro un trattato sui cavalli, ma si limitava a studiare il cavallo, da artista che amava dipingerlo in tutte le sue forme e varietà”: così scrisse lo storico e critico d’arte Antonio Del Guercio nel 1963. E probabilmente fu per questo che, anche da un’incisione del suo maestro Carle Vernet, che certo non aveva come soggetto la testa di un cavallo, Géricault ha trovato ispirazione per dipingere questo ritratto vero e proprio, simile nella ricerca psicologica a quello che ci si aspetterebbe dalla raffigurazione di un volto umano.
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“Ritratto di Carlo V a cavallo” di Tiziano Vecellio Il “Ritratto di Carlo V a cavallo” è un olio su tela di cm 322 x 279 che Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 1576), grande artista innovatore e poliedrico, genio e protagonista della pittura del Rinascimento nell’intero continente Europeo, realizzò nel 1548. L’opera è conservata al Museo del Prado di Madrid. Questo dipinto, che è il primo ritratto equestre a figura intera nella pittura italiana del Rinascimento, si può considerare uno dei più famosi “ritratti di Stato” della storia della pittura, e si pone all’origine stessa di questo genere di opere ufficiali, influenzando altresì la pittura barocca del secolo successivo. L’imperatore, vittorioso alla battaglia di Mühlberg, che lo opponeva ai protestanti comandati dal principe di Sassonia Giovanni Federico, si fa raffigurare a cavallo con la lancia in pugno, come san Giorgio che lotta contro il Drago, allusione alla difesa della fede dalle insidie rappresentate dal protestantesimo, ma allo stesso tempo attributo tradizionale degli imperatori romani quando si accingevano alla battaglia. Nell’antica Roma la lancia era infatti il simbolo del potere più alto: “hasta, summa Imperii”, ovvero: la lancia come incarnazione della sovranità dell’Impero Romano. Nonostante la celebrazione del più brillante successo militare di Carlo V, con lo sfondo di un paesaggio illuminato dai bagliori del tramonto, l’imperatore viene effigiato solo, mentre scruta l’orizzonte, ma la sua espressione
è quasi assente e per nulla trionfalistica, riflettendo l’indole solitaria del sovrano, che presto lascerà le occupazioni politiche per ritirarsi nel monastero di Yuste, dopo aver abdicato in favore del figlio Filippo II. In questa magnifica opera Carlo V, senza il bastone del comando, è armato, con pennacchio e fusciacca rossi, come rossi sono anche i finimenti e la gualdrappa del cavallo bardato a parata in procinto di impennarsi, trattenuto dal sovrano. Con grande perizia il Tiziano ha raffigurato, con dovizia di particolari, il frontalino e l’imboccatura del cavallo con un lucente metallo, simile a quello della corazza del cavaliere. Interessanti sono le somiglianze relative alla sella e alle redini del cavallo baio scuro raffigurato da Tiziano in questa tela, confrontandole con l’affresco, nel castello di Venafro, del cavallo donato nel 1526 all’imperatore dal conte Enrico Pandone, famoso allevatore di cavalli di razze pregiate del Regno di Napoli. La donazione avvenne esattamente un anno prima che il Pandone tradisse Carlo V per schierarsi a favore del comandante francese Odet de Foix, conte di Lautrec, che nel 1528 assediò Napoli: una decisione che lo avrebbe portato al patibolo e avrebbe definitivamente cancellato il nome della sua casata dai feudatari che si avvicendarono sulle terre venafrane. Il ritratto di Carlo V a cavallo di Tiziano
IL CAVALLO LIBERO Vecellio fu talmente apprezzato e acclamato dagli artisti a quei tempi, che una riproduzione dello schema compositivo e della tecnica pittorica del maestro veneto,
venne adottata nel 1635 da Diego Vélazquez, uno dei pittori più rappresentativi dell’epoca barocca, nella realizzazione del suo “Ritratto di Filippo IV di Spagna”.
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“Ritratto di Filippo IV di Spagna a cavallo” di Diego Velázquez
Uno degli artisti più rappresentativi dell’epoca barocca, considerato uno dei principali rappresentanti della pittura spagnola, oltre che uno dei maestri della pittura universale, fu lo spagnolo Diego Rodríguez de Silva y Velázquez, noto come Diego Velázquez (Siviglia, 1599 – Madrid, 1660). Il “Ritratto di Filippo IV a cavallo” fu dipinto intorno al 1635, con tecnica a olio su tela, di cm 301 × 314, e conservato nel Museo del Prado di Madrid. Velázquez era stato incaricato di dipingere una serie di cinque ritratti equestri della famiglia reale che sarebbero andati al Salón de Reinos nel palazzo del Buen Retiro a Madrid (ex Museo dell’Esercito). Tra questi dipinti le opere di maggior successo furono il ritratto del principe Baltasar Carlos a cavallo e il lavoro trattato in questa pagina. L’opera riproduce nello schema compositivo quella di Tiziano Vecellio del 1548, anch’essa conservata al Museo del Prado. Il monarca, rappresentato di profilo e con cappello piumato, indossa una mezza armatura di acciaio azzurrato (trattamento riservato all’acciaio per proteggerlo e abbellirlo), con fregi e punte in oro, gregüescos marroni, stivali di camoscio, fascia color carminio le cui estremità fluttuano nel vento; nella mano destra stringe con veemenza il bastone del comando e con la sinistra tiene le redini del destriero. L’atteggiamento del cavaliere è naturale, rappresentato con grande equilibrio, seduto
su una sella riccamente rifinita, nello stile della monta spagnola, in nobile postura. Il cavallo impennato, focoso e vivace, ha un manto baio, con criniera e coda lunghe e caratteristicamente nere. Anche qui, come nel cavallo di Tiziano, la gualdrappa è riccamente ornata con finiture dorate riprese anche nel montante, nella capezzina, nel sovracapo sovrastato da un elemento decorativo, nel pettorale e nelle staffe. La figura del re è posta in altezza, per poter meglio raffigurare il paesaggio di fondo con una prospettiva di ampio respiro, comune nelle opere di Velázquez. Sulla sinistra è visibile il tronco di una quercia, e in lontananza si apre un panorama che l’artista conosce bene: la foresta di El Pardo a Madrid e oltre, la Sierra de Guadarrama. Caratteristico è poi il cielo di Velázquez, che occupa quasi la metà della tela, con i suoi caratteristici toni blu, bianchi e grigi. Questo ritratto che l’artista fece del re Felipe IV fu usato come modello dallo scultore toscano Pietro Tacca quando realizzò la statua equestre del re a Firenze tra il 1634 e il 1640. Si presume che il dipinto ricevuto da Tacca per consultazione sia la versione ridotta dell’originale del Prado conservato a Palazzo Pitti a Firenze. La statua, inizialmente ubicata nel Palacio del Buen Retiro a Madrid, durante la configurazione della nuova Plaza de Oriente nel 1843, fu qui spostata per collocarla al centro della piazza, ad est dal Palazzo Reale.
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“Carlo I a cavallo con M. de St. Antoine” di Antoon Van Dyck
I ritratti equestri sono solitamente riservati ai capi militari e politici, seguendo un’antica tradizione che risale almeno ad Alessandro Magno e all’imperatore romano Marco Aurelio. Con il cavallo i leaders possono elevarsi al di sopra della gente comune, ma il formato equestre sta anche metaforicamente a significare la potenzialità e la capacità del cavaliere di guidare la popolazione e sottomettere i nemici. Carlo I, re d’Inghilterra aveva particolarmente bisogno di questo tipo di associazioni simboliche in quanto non era fisicamente attraente (la sua altezza da adulto era di appena 163 cm e soffriva di un disturbo del linguaggio), né il suo governo era glorioso (fu infine decapitato dopo una lunga e costosa guerra civile). Il “Ritratto di Carlo I a cavallo, con il suo scudiero Sant’Antonio” è un’opera maestosa dipinta con tecnica a olio su tela di cm 370 x 265, realizzato nel 1633 e conservata nel Castello di Windsor. Fu il primo ritratto equestre mai dipinto di questo re e Antoon Van Dyck scelse di proposito questo grande formato per migliorare lo status di Carlo in un momento particolarmente instabile della storia britannica. Carlo I è raffigurato mentre sta cavalcando un grande e muscoloso cavallo bianco, armonico, ben strutturato e robusto, – forse un lipizzano – che sta avanzando verso di noi sotto un arco trionfale neoclassico, da cui cadono tendaggi di seta verde. L’immagine è di grande impatto: il richiamo ai grandi condottieri dell’anti-
chità è accentuato dalla presenza dell’arco e dalla simbologia connessa al suo attraversamento. È vestito con un’armatura da parata con la fascia blu dell’Ordine della Giarrettiera, il più prestigioso cavalierato d’Inghilterra, e porta un bastone per simboleggiare il suo comando nell’esercito. A destra del re sta il suo maestro di equitazione vestito in rosso, Pierre Antoine Bourdon, Seigneur de St Antoine (con un nastro al collo, verosimilmente dell’Ordine di San Lazzaro) che guarda il re mentre tiene l’elmo. Pierre Antoine è stato un esperto maestro di equitazione inviato a Carlo dal re di Francia come dono diplomatico, insieme a sei cavalli purosangue. Lo sguardo reverenziale e sottomesso di Pierre Antoine accresce ulteriormente la mistica del re ai nostri occhi, ma potrebbe simboleggiare anche la tanto agognata preminenza dell’Inghilterra sul suo vicino europeo. Un grande stemma reale si trova in basso a sinistra del dipinto: lo stemma contiene le insegne di Inghilterra (tre leoni), Scozia (leone rampante) e Irlanda (arpa), per mostrare l’unificazione delle nazioni del Regno Unito (Inghilterra, Irlanda del Nord, Scozia e Galles) sotto il governo del padre di Carlo, Giacomo I. Lo stemma, lo scudiero e il re a cavallo, insieme formano una elegante struttura piramidale, al cui apice si trova la testa del re, verosimile messaggio con il quale van Dyck vuole indicare la supremazia del re Carlo I come capo militare.
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di Antoon Van Dyck
Tra le diverse tipologie di ritratti indagate da Van Dyck figura anche il ritratto equestre, genere che risale alla statuaria classica e che ha per tradizione un carattere eroico e magniloquente. In particolare, il cavallo trasmette energia, e laddove l’effigiato monti un cavallo impennato, il ritratto diventa una celebrazione della sua forza di carattere, permette psicologicamente di essere sollevati dalle proprie paure, sentendosi grande e potente; si sottintende quindi che chi sia in grado di controllare un cavallo imbizzarrito può ugualmente condurre una nazione o un esercito. Van Dyck nel 1633 ha già ritratto “Carlo I a cavallo, con il suo scudiero Sant’Antonio” ma questo dipinto, che pure mostra il cavallo in movimento, ha l’enfasi e la grandiosità retorica del ritratto, che l’artista realizzò nel 1634 a Bruxelles per Tommaso Francesco di Savoia Carignano. Questo ritratto del principe a cavallo è un olio su tela di cm 315 x 236 ed è conservato nella Galleria Sabauda di Torino. Il dipinto fu eseguito insieme a un altro ritratto a mezzo busto e fu commissionato per celebrare l’insediamento “ad interim” del principe come reggente dei Paesi Bas-
si spagnoli. Tommaso Francesco, che era un comandante militare, era arrivato con quella nomina al culmine della sua carriera: la sua opzione di porsi al servizio di Filippo II di Spagna veniva premiata. In omaggio alla sua patria d’elezione il principe si fece ritrarre con un’armatura di fattura spagnola e scelse un cavallo di razza andalusa. La posa dell’elegante cavallo bianco che si sta impennando, la lunga criniera, le bardature dorate, i tendaggi di seta stupendamente modellati e il cielo cupo partecipano a commemorare la magnificenza e la fastosità del condottiero. Tommaso Francesco è raffigurato con il bastone del comando e con i segni e il nastro rosso dell’Ordine dell’Annunziata, assegnatagli dal padre, Carlo Emanuele I di Savoia nel 1616. Il principe era però più ambizioso che abile; la sua carriera militare sarebbe stata segnata da successi e fortune alternate ad insuccessi. Van Dyck era un ritrattista troppo attento e sensibile per non comprendere la vera natura dell’uomo: lo sguardo quasi disorientato e smarrito sta ad indicare la divergenza tra i suoi ideali, spesso utopistici e le sue reali capacità.
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“Cavalli da corsa davanti alle tribune” di Edgar Degas
“Cavalli da corsa davanti alle tribune” (Le défilé) è un olio su tela di cm 46 × 81 realizzato dal pittore impressionista Edgar Degas, (Parigi, 19 luglio 1834 – Parigi, 27 settembre 1917) nel 1866-68 e conservato al Musée d’Orsay di Parigi. L’ippodromo con i cavalli era uno degli argomenti prediletti dall’artista, perché lo considerava un luogo adatto per studiare le sagome, i profili e il movimento. Degas riesce a rendere in maniera magistrale l’atmosfera delle corse, anche se in quest’opera ha preferito rappresentarne i momenti più tranquilli e pacati. L’abitudine di recarsi alle corse di cavalli è, al pari dei bagni di mare o delle passeggiate nei giardini pubblici, una moda creata dal Secondo Impero. Il pittore raffigura cavalli e cavalieri in assetto appena prima della partenza per la corsa: la frenesia è palese, e termina nel brusco scatto nervoso del purosangue sullo sfondo, che produce pienamente l’effetto desiderato, ovvero l’eccitazione e il clima di tensione e attesa che anticipa la competizione. Gli altri cavalli, invece, vengono fatti sfilare davanti ai raffinati spettatori che affollano le tribune a sinistra e che, per ripararsi dalla luce splendente e accecante, si riparano con eleganti ombrellini. Sullo sfondo si profilano alcu-
ne ciminiere fumanti che evocano la nascente industrializzazione della capitale francese. Degas in quest’opera descrive egregiamente i cavalli al passo prima della partenza, mentre la prospettiva viene qui effettuata in modo centrale con la convergenza delle linee formate dalla balaustra che cinge la tribuna a sinistra, la fila dei cavalli a destra e il punto di fuga situato sullo sfondo dietro al cavaliere che riesce a controllare con difficoltà il suo cavallo eccitato. La luce, inoltre, serve a Degas per offrire all’osservatore una vasta e armoniosa gamma di sfumature vive e squillanti, dai caldi toni prevalentemente bruni, aranciati e giallastri, accostando i colori così da esaltarli reciprocamente: ecco allora che il mantello dei cavalli rimanda alle giubbe dei fantini, che cromaticamente ben si armonizzano con la copertura della tribuna, con gli alberi, con le vesti policrome della platea di spettatori. Da notare inoltre la parsimonia nei dettagli: Degas tralascia infatti quei particolari che faciliterebbero l’identificazione dei fantini, come ad esempio il colore delle casacche, che in alcuni casi si sovrappone.
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“Cavallo trattenuto da schiavi” di Théodore Géricault
Il quadro con il “Cavallo trattenuto da schiavi” è un olio su tela di cm 48 x 60 realizzato da Jean-Louis André Théodore Géricault (Rouen, 1791 – Parigi, 1824) nel 1817 circa e conservato al Museo delle Belle Arti di Rouen. Quest’opera resta a dimostrazione della riflessione operata inizialmente dall’artista, prima di accostarsi all’arte romantica, sui grandi classici della storia dell’arte. Il quadro appare ispirato alle composizioni classiche di Nicolas Poussin e di Jacques-Louis David, alla cui arte Géricault si era accostato fin da quando si recava al Louvre, ma che prende un nuovo spazio nella sua strenua e tenace ricerca artistica quando il pittore si recò a Roma nel 1816. La rievocazione del mondo antico idealizzato all’insegna dell’ordine e della chiarezza, messa a punto dai grandi pittori Poussin e David, costituisce la chiave di accesso per Géricault alle antichità di Roma, che ebbe l’opportunità di studiare fino al 1817, quando tornò a Parigi. Alla corsa dei cavalli Barberi, (i Barberi sono i cavalli da corsa il cui nome deriva da Barberia, il territorio dei Berberi, ovvero il Marocco, l’A lgeria, la Tunisia e la
Libia, terre da cui provenivano gli animali migliori) del carnevale romano, a cui l’artista presenziò nel 1817 appena prima del suo ritorno in Francia, seguirono molteplici studi che dovevano essere utilizzati per una nuova e grande composizione. Il dipinto ricava da queste ricerche l’idea di rappresentare la tensione tra la potenza del cavallo e la forza dei giovani schiavi che cercano di trattenerlo. La scena è ambientata all’aperto, con un cielo luminoso macchiato da bianche nuvole. L’atmosfera immobile e statica, la calma “olimpica” di questo scenario, come anche gli schiavi nudi a destra che trattengono il cavallo per la coda e le figure dei due uomini che cercano di contenerne l’impeto e il furore abbassandogli la testa, sono un esplicito omaggio all’arte classica. Le larghe pennellate stese con veloce esecuzione, che creano in modo velatamente compendiario le forme in piena luce e cadenzano in profondità il paesaggio collinare sullo sfondo, sono peculiari della tecnica pittorica di Géricault, che si discosta dalla chiarezza, dalla logica e dall’ordine degli autentici artisti classicisti, come Nicolas Poussin e Jacques-Louis David.
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“Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia” di Théodore Géricault
Il “Corazziere ferito che abbandona il campo di battaglia” è un dipinto a olio su tela di cm 358 × 294 realizzato da Jean-Louis-Théodore Géricault, conservato al Museo del Louvre di Parigi. L’opera illustra un militare dell’imperatore Napoleone che lascia il campo di battaglia perché ferito. Esposto al Salon del 1814, il dipinto è divenuto l’emblema della disfatta del periodo napoleonico; la situazione politica era ormai precipitata con la disfatta di Napoleone e la sua abdicazione. Tuttavia, la distanza dal campo di battaglia, la mancanza di ogni manifestazione di sofferenza nel volto del militare ferito e l’interesse tutto indirizzato alla impeccabilità formale mettono il dipinto in correlazione con il neoclassicismo. La scena raffigura un corazziere ferito che, smontato di sella e posto sotto un cielo di dense nuvole scure e tra i lampi della battaglia che ancora infuria in lontananza, mostra uno sguardo vigile e prudente; la testa è volta all’indietro con gli occhi sbarrati e uno sguardo impaurito, mentre sta scendendo per un declivio di terreno scuro appoggiandosi al fodero della spada. Il cavaliere trattiene con la mano destra il suo cavallo spaventato. Il corazziere, non raffigurato come vincente, ma come perdente, non come eroe, ma come semplice soldato che cerca di salvare la propria vita, rimanda alla sconfitta di Napoleone. La composizione, infatti,
raffigura la capitolazione delle certezze e delle grandi aspirazioni napoleoniche, l’anticipazione della fine di un’epoca. Va detto che quest’opera rammaricò profondamente il pittore, perché, se “L’Ufficiale dei cavalleggeri della guardia imperiale” presentato nel 1812 era stato accolto come il promettente saggio di un giovane dotato, questo quadro non suscitò grande interesse, piuttosto diverse critiche, per la condotta pittorica da abbozzo per i colpi di spatola eccessivamente corpose e l’inesattezza delle proporzioni del cavallo la cui groppa era ritenuta troppo addossata alla testa. Clément, nel 1879 avrebbe scritto: “Si direbbe che il pittore, avendo preso male le misure, abbia fatto entrare il cavallo a forza nella tela”. Personalmente sono in disaccordo con i critici dell’ottocento che hanno disapprovato questo quadro, con una considerazione personale che vuole “riabilitare” questo bel dipinto: proprio nella presa d’atto di una vita militare che si fonda sulla fatica e sulla sofferenza di animali e di uomini, nel definito infrangersi degli ideali illuministici che emerge dal cupo scenario della restaurazione politica si animano quelle contraddizioni a cui l’irrequietezza di Géricault ha saputo fornire sagaci, anche se provvisorie, sintesi formali che possono essere confuse con grossolani errori del pittore. Al pessimismo della ragione, al disinganno provoca-
IL CAVALLO LIBERO to dagli avvenimenti della storia, che hanno intaccato sicuramente la sensibilità del grande artista, si accompagna un impeto della passione di tipico sapore romantico
in cui Géricault unisce l’esaltazione della vita dell’uomo cui dà tragica grandezza, espressione appassionatamente patetica.
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“Il conte-duca di Oliveras” di Diego Velàzquez
Il “Ritratto del duca di Olivares a cavallo” è un dipinto a olio su tela che il grande pittore spagnolo Velàzquez (Siviglia, 1599 – Madrid, 1660), realizzò nel 1634 e conservato nel Museo del Prado di Madrid. Don Gaspar de Guzmàn di Olivares venne chiamato dal re Filippo IV di Spagna per assumere l’incarico di primo ministro che ottenne tra il 1621 ed il 1643, anni in cui gli fu concesso anche il titolo di Duca, oltre che quello di Conte di Olivares. Il conte-duca, protettore di Velàzquez, che aveva chiamato presso di sé a Madrid, cadde in disgrazia nel gennaio del 1643, non trascinando in rovina però il suo protetto, che aveva ottenuto la stima del re; Olivares, allontanato dalla corte dopo le rivolte in Catalogna e Portogallo, morì nel 1645. Il ritratto equestre fu eseguito al culmine della sua autorità e può essere considerato tra i più espressivi e significativi compiuti da Velàzquez, che non dipinge un componente di alto rango appartenente alla famiglia reale, ma la persona che spesso si dimostrò essere più autorevole e potente dello stesso re. Velázquez riconosce questo potere raffigurando il conte a cavallo, un privilegio solitamente concesso ai soli capi di stato. Olivares, famoso per la sua abilità di cavaliere, è ritratto con il cappello piumato a tesa larga, il bastone del
comando e la corazza abbellita con decorazioni in oro attraversata dalla fascia di stato, mentre si appresta a saltare diagonalmente da un’altura nella profondità della tela. La figura di spalle è disposta in posizione obliqua rispetto alla tela, di cui occupa l’intera estensione. Con la testa girata verso il lato sinistro, il conte duca volge uno sguardo allo spettatore dall’alto verso il basso, assicurandosi che sia il testimone delle sue imprese e della sua abilità di cavaliere. La testa del magnifico cavallo baio, ben eseguito nelle proporzioni, è invece rivolta verso un’estesa e profonda pianura, dalla quale in alcuni punti si alza il fumo della polvere da sparo e degli incendi e dove è rappresentato il tumulto in miniatura di un combattimento. L’artista non raffigura una battaglia in particolare, ma con quest’opera vuole esaltare le attitudini militari dell’uomo che aveva condotto in battaglia l’esercito del re con numerosi trionfi. Nell’angolo in basso a sinistra si intravede un foglio spiegato di carta bianca. Il pittore, che generalmente non data e non firma i suoi dipinti, inserisce spesso questi foglietti vuoti nei suoi quadri. Le sontuose tonalità cromatiche e l’elaborazione della luce trasmettono all’intera scena un’intensa energia e vitalità.
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“Ritratto di Carlo I a cavallo” di Antoon van Dyck Il Ritratto di Carlo I a cavallo è un dipinto a olio su tela di cm 367 x 292 che il pittore fiammingo Antoon van Dyck, (Anversa, 1599 – Londra, 1641) ha realizzato nel 1636, e che si trova conservato nella National Gallery di Londra. Dal 1632 Van Dyck è stato pittore di corte per il re Carlo I d’Inghilterra, occupandosi del suo ruolo pubblico con molteplici ritratti riflettenti il pensiero del monarca che si sentiva imperatore massimo, legittimato da Dio. Questo ritratto, del quale esiste anche un’altra versione, il “Ritratto di Carlo I con M. de Saint-Antonie suo maestro di equitazione”, fu realizzato probabilmente a conclusione del periodo inglese dell’artista, prima della guerra civile che trascinò il re all’esecuzione capitale nel 1649. Van Dyck in quest’opera si confronta con la tradizione rinascimentale del ritratto equestre ispirandosi al Ritratto di Carlo V a cavallo di Tiziano del 1548 conservato al Museo del Prado di Madrid; la composizione è infatti del tutto simile al modello tizianesco, che però è speculare. Van Dyck ritrae il re in un’immagine di grande impatto, nella sua armatura da parata, con il bastone del comando e con al collo il medaglione del più antico ed elevato ordine cavalleresco del Regno Unito, il Nobilissimo Ordine della Giarrettiera, come se si stesse mettendo a capo dei suoi cavalieri. Sul tronco dell’albero, alle spalle dello scudiero, una targa ricorda il nome di Carlo, re della Gran Bretagna: CAROLVS REX MAGNÆ BRITANIÆ.
Lo splendido cavallo, dalla muscolatura e possenza palesemente accentuate ed evidenziate, è fermo con la zampa sinistra alzata in uno spazio aperto, rischiarato da una luce gialla e mutevole; tra le fronde degli alberi e sul terreno si addensano ombre fitte, dalle quali il manto fulvo del cavallo emerge come un bagliore improvviso. Il cavallo fa da degno mezzo del re, glorificato con lo sguardo fermamente indirizzato nello stesso verso di quello del cavaliere. La sellatura è sontuosa ma non appariscente e, al seguito, in ombra, è visibile un giovane valletto che con fierezza porta l’elmo. La composizione nel suo insieme, con gli alberi alle spalle e sullo sfondo, riesce a mettere in evidenza, proprio al centro della scena, lo sguardo del sovrano, che si proietta verso l’ampio paesaggio, simboleggiando in questo modo la sua saggezza lungimirante, come chi sa prevedere con saggezza gli sviluppi degli avvenimenti futuri e provvedervi in tempo; il piede che tende la staffa inoltre, suscita, insieme allo sguardo rivolto lontano un’idea di potenza e di energia trattenuta. Van Dyck riesce così a costruire attorno al suo re, che certo non era un guerriero, un’aura degna di un comandante militare investito di autorità imperiale. Nel complesso la raffigurazione pittorica è molto equilibrata e la cromia, leggermente spenta e tendente alle ombre, raggiunge il suo culmine nel cielo blu solcato da nubi chiare: il tipico cielo inglese.
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“CAVALLO SPAGNOLO” di Théodore Géricault
Il “Cavallo spagnolo” è un dipinto a olio su tela di cm 61 x 50, realizzato da Théodore Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 – Parigi, 26 gennaio 1824) nel 1813 e conservato nel Museo del Louvre di Parigi. Géricault dopo le sue prime esperienze pittoriche nell’ambiente neoclassico francese, diventò un importante esponente dell’arte romantica. L’opera, di piccola misura, ritrae uno dei meravigliosi cavalli di razza appartenenti alle scuderie della reggia di Versailles. Lo stallone dal manto baio è raffigurato in primo piano, e copre la quasi totalità della tela; affiora imponente risaltando dallo sfondo che presenta lo stesso cromatismo, in tutta la sua austerità e fierezza. La bella e lunga coda nera gli scorre tra le zampe posteriori scivolando dal suo manto vellutato. Il corpo è cosparso da chiari e delicati tocchi cromatici conferendo lucentezza
al manto stesso, il cui pelo pare appena tirato a lucido. Superbo nella sua fierezza, il destriero sembra essere cosciente della sua bellezza esibita con una nobiltà pari a quella dei suoi padroni. Nulla può paragonarsi con la sua bellezza, e l’altro cavallo visibile in secondo piano, diventa quasi anonimo, presente nelle scuderie quasi per caso. È risaputo che Géricault nel corso della sua carriera artistica ritrasse numerosi cavalli, ma questo del Louvre può essere considerato tra i più suggestivi. Con quest’opera pittorica ancora una volta Théodore Géricault esprime una straordinaria capacità di comprendere e interpretare la natura: in questo caso la semplice raffigurazione di un cavallo diventa un’opportunità per illustrare un romantico romanzo, ricco di palpitanti e vibranti emozioni.
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“Cavallo pomellato spaventato dal fulmine” di Théodore Géricault
Il “Cavallo pomellato spaventato da un fulmine” è un dipinto a olio su tela di cm 49 x 60, che Théodore Géricault (Rouen, 26 settembre 1791 – Parigi, 26 gennaio 1824), ha realizzato nel 1813 circa ed è conservato alla National Gallery di Londra. Parecchie sono le variazioni sul tema della raffigurazione dei cavalli trattate da questo artista, principalmente nel periodo giovanile, ma quest’opera pittorica si differenzia dalle altre per l’intensità quasi psicologica con cui sono tradotti l’inquietudine e il turbamento dell’animale al fragore del fulmine. La raggiante figura del cavallo, la sua potenza muscolare, emerge al più alto grado grazie alla focalizzazione sull’animale, che occupa la quasi totalità dello spazio della composizione, allo stesso modo del “Cavallo spagnolo” del 1813. Géricault definisce nei minimi particolari ogni avvallamento e protuberanza raffigurando con precisione la muscolatura delle zampe, del quarto posteriore e della spalla, della groppa perfettamente rotonda e del muso, arrivando a restituire la setosità del mantello color miele del cavallo, con le zampe, la criniera e la coda nere. Ma ciò
che differenzia il dipinto da una semplice rappresentazione algida e analitica dell’animale è l’estrinsecazione espressiva tesa e inquieta. I suoi occhi spaventati volgono in avanti lo sguardo irrequieto, evidenziato dal muscolo teso del sopracciglio. La bocca chiusa perde la bava trasparente, resa con una rapida pennellata bianca. Le orecchie dell’animale sono dritte in avanti, rigide e tese a percepire ogni rumore anomalo e insolito. Il cavallo è raffigurato davanti a uno sfondo non facilmente definibile, costruito con lunghe pennellate grasse più chiare, contro un cromatismo scuro verdognolo, dove è impossibile decidere dove termina il terreno, dove inizia il mare e dove il cielo. Si ha l’impressione che per l’artista sia importante rivelare la forza del temporale punteggiato da fulmini che stravolge la natura. Nell’angolo destro in alto, appena sopra il muso dell’animale, si vede infatti in lontananza una schiarita adatta a rivelare il serpeggiare del lampo bianco, verosimilmente quello che ha spaventato lo splendido cavallo pomellato.
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“Ritratto del conte Stanislaw Potocki”
di Jacques-Louis David Il “Ritratto del conte Stanislaw Potocki” è un’opera a olio su tela di cm 304 x 218 che Jacques-Louis David, figura centrale dell’arte europea e protagonista assoluto del Neoclassicismo pittorico, realizzò nel 1781 e conservata nel Museo Nazionale di Varsavia. Questo meraviglioso dipinto, che conserva il ricordo di precedenti famosi esempi di Rubens e Van Dick del XVII secolo, dai quali sicuramente deriva, ritrae un aristocratico polacco diventato molto ricco dopo la sua unione matrimoniale con Aleksandra, figlia della principessa Julia Lubomirska, cugina del re di Polonia Stanislao II Augusto Poniatowski. Il conte Potocki, che all’epoca del ritratto aveva venticinque anni, era un giovane istruito dai molti interessi: architetto, storico dell’arte e collezionista, egli raccoglierà nella sua residenza di Wilanov una considerevole collezione di quadri e oggetti antichi acquistati durante i suoi molti viaggi attraverso l’Europa. Promotore nella su patria dei principi classicisti winckelmanniani, scriverà in francese “Sur l’art chez les Anciens, on le Winckelmann Polonais” tradotto in polacco nel 1815. Potocki aveva conosciuto David a Roma verosimilmente nel marzo del 1780, proprio nel periodo che gli fu commissionato il dipinto. Iniziato nella città italiana nell’autunno di quell’anno, il quadro ven-
ne terminato a Parigi nel 1781 ed esposto al prestigioso Salon di quell’anno insieme a due altri importanti dipinti dell’artista: il “San Rocco” per il Lazzaretto di Marsiglia e il “Belisario che chiede l’elemosina”. Ma mentre questi ultimi senza alcuna opposizione appartenevano al campo della pittura storica e quindi al genere più elevato, il ritratto era generalmente considerato inferiore nella gerarchia dei generi. David sfidò la tradizione presentandosi al Salon per la prima volta, e come pittore di temi storici, con il ritratto del conte Potocki, fu molto apprezzato. È importante ricordare che il Salon fu la più importante esposizione periodica francese di pittura e scultura, che si svolse al Louvre di Parigi, con cadenza biennale fino al 1863 ed annuale in seguito, dal XVII al XIX secolo. Fu ammirata la grande maestria pittorica di David, l’eleganza e la raffinatezza della composizione oltre che la straordinaria sintonia dei colori chiari con il severo sfondo scuro del muro con colonne. La nobiltà con cui l’artista sviluppò il soggetto del giovane signore in groppa all’elegante cavallo di razza, dalle forme armoniche ed eleganti descritte con perfezione anatomica, valse al giovane quasi sconosciuto David molte commissioni da parte dell’aristocrazia parigina.
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“San Giacomo Maggiore conquistatore dei mori” di Giambattista Tiepolo
L’ambasciatore spagnolo a Londra Ricardo Wall commissionò a Giambattista Tiepolo o Giovanni Battista (Venezia, 1696 – Madrid, 1770), questa pala olio su tela di cm 317x163, dipinta nel 1750 circa e conservata al Szépm vészeti Múzeum di Budapest. Tiepolo, considerato il maggior pittore del Settecento veneziano, realizzò il dipinto rapidamente, tanto che, dopo essere stato esposto in San Marco, dove fu ammirato ed elogiato dallo stesso doge Pietro Grimani, fu spedito a Londra nel settembre dell’anno successivo. Le misure fornite da Wall a Tiepolo risultarono però errate e la pala troppo grande per l’altare; e in ogni caso l’interpretazione data da Giambattista del soggetto del dipinto, che celebra la miracolosa apparizione del Santo apostolo protettore della Spagna durante la battaglia di Clavijo nell’844, causa della vittoria delle truppe spagnole su quelle dei mori, non era piaciuto ai consiglieri dell’ambasciatore. Questi, infatti, gli fecero notare come la figura del Santo fosse raffigurato “troppo guerriero” e con troppa fierezza; oltretutto la presenza così enfatizzata di un cavallo in una pala d’altare, pur raffigurato magnificamente con
eleganza e perfette proporzioni, avrebbe sicuramente fatto scandalizzare i protestanti inglesi e provocato critiche indesiderate nei confronti del culto dei cattolici spagnoli per le immagini religiose. Fondate o meno le ipotesi dei consiglieri, Wall, che pure in una sua lettera mostra di aver apprezzato la qualità dell’opera, decise di inviare la pala a Madrid, dove venne successivamente acquistata dal conte Edmund Burke, ambasciatore danese presso la corte spagnola. Questa intricata vicenda ha evidentemente fatto perdere di vista all’ambasciatore Wall l’altissima qualità del dipinto. Giocato sul contrasto cromatico tra il gruppo costituito dall’imponente stallone bianco e dal santo vestito color crema chiaro e l’azzurro intensissimo del cielo. Le figure dei cavalieri mori e spagnoli impegnati nel cruento scontro sullo sfondo sono in antitesi con la pacata fermezza della figura principale del santo che con la spada sguainata sottomette un moro, mentre il volto rivolto al cielo e splendente di luce è enfatizzato dalla presenza dello stendardo che lo sovrasta.
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Whistlejacket
di George Stubbs George Stubbs (Liverpool, 1724 – Londra, 1806) è stato un pittore inglese celebrato soprattutto per i suoi dipinti di cavalli, di cui catturò le forme e la natura con notevole comprensione e sensibilità. Autodidatta, Stubbs apprese le sue abilità indipendentemente da altri grandi artisti del XVIII secolo come Reynolds o Gainsborough. Dopo un inizio come ritrattista, nel 1754 si recò a Roma, dove il suo studio dell’antichità probabilmente informò il disegno classico di molte delle sue composizioni, con le loro curve eleganti, i profili piacevoli e le allusioni alla scultura in rilievo. Al suo ritorno in patria da questo breve soggiorno, per quasi due anni Stubbs fece studi anatomici in una fattoria isolata del Lincolnshire, e scrisse un libro che divenne uno studio modello di anatomia animale: “The Anatomy of the Horse”, pubblicato nel 1766: un’opera dove l’anatomia equina era indagata con grande lucidità e notevole afflato artistico e creativo e che fu molto apprezzata. La sua opera più famosa è “Whistlejacket”, il dipinto di un cavallo rampante, commissionato dal secondo Marchese di Rockingham. Whistlejacket; un’opera olio su tela di cm 292×246,4 realizzata nel 1762 circa e conservato nella National Gallery di Londra. Whistlejacket era uno stallone castano,
con criniera e coda color lino, ritenuto essere la colorazione originale della razza araba selvatica. Era un cavallo da corsa purosangue partorito nel 1749 presso lo stallone di Sir William Middleton, 3° Baronetto al castello di Belsay nel Northumberland, e prende il nome da un rimedio per il raffreddore contemporaneo contenente gin e melassa. Il cavallo di razza è raffigurato a grandezza naturale nel momento in cui sta per impennarsi, su uno sfondo verde con aggiunta di marrone chiaro monocromatico che ne potenzia il rilievo plastico, ne accentua la magnificenza e gli attribuisce una sensazione di eccellente monumentalità. L’anatomia è resa con straordinaria accuratezza, mediante uno studio esatto del corpo equino, la cui padronanza George Stubbs acquisì dopo anni di pratica. Whistlejacket, in particolare, mostra un capo affusolato e moderatamente piccolo, orecchie piuttosto piccole e curve, una corporatura robusta e una buona struttura del collo, che appare minimamente arcuato, anche perché la testa e lo sguardo sono rivolti verso lo spettatore: il mantello è sauro e lucente, e le narici sono grandi e vibranti, al punto che il cavallo sembra iniziare un nitrito. Stubbs, insomma, descrive il cavallo con accuratezza anatomica, pre-
IL CAVALLO LIBERO cisandone accuratamente la muscolatura e alcune vene che emergono dalla parte epiteliale e superficiale della pelle. L’occhio lucido e inquieto, e l’appena visibile ferratura degli zoccoli, delineati con sottile pennellata, rammentano la condi-
zione di un cavallo appena addomesticato. Una specie di impeto e veemenza invade l’animale, che esprime il “sublime dinamico” in natura, controllabile dall’uomo in maniera solamente effimera.
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Cavalle e puledri in un paesaggio fluviale di George Stubbs
“Cavalle e puledri in un paesaggio fluviale” è una magnifica opera olio su tela di cm 101 x 161 realizzata da George Stubbs nel 1768. George Stubbs (Liverpool, 1724 – Londra, 1806) nato nel 1724, può essere considerato il più grande e competente pittore di cavalli nell’arte britannica e verosimilmente tra i migliori nella storia dell’arte, insieme a Leonardo da Vinci; era così affezionato ai suoi soggetti equestri da diventare noto come “il pittore dei cavalli”. Studiò talmente in modo approfondito l’anatomia del cavallo che i suoi disegni anatomici furono di aiuto a molti artisti del suo tempo e nelle epoche successive. In questo dipinto le cavalle si salutano in un silenzio dignitoso mentre i puledri si nutrono dalle madri. Queste nobili creature sono completamente a loro agio nel loro pacifico paesaggio. Stubbs inserisce abilmente i cavalli nel paesaggio, utilizzando un sottile contro-cambiamento di
tono per integrarli con lo sfondo: contrappone il profilo chiaro del cavallo bianco a una nuvola scura per controbilanciare i profili scuri delle cavalle castane contro la luce cielo. Questo scambio tonale si rispecchia nella disposizione del paesaggio in cui le luminose nuvole fluttuanti fanno eco alle forme scure dell’albero. Anche i puledri sembrano trarre il latte dalle loro madri più o meno allo stesso modo in cui la terra trae sostentamento dal fiume. Questa è una visione idilliaca e ricca di pathos, di un mondo utopico non corrotto dalla presenza dell’uomo; Stubbs attraverso questo “ritratto” di cavalli e puledri indubbiamente è riuscito a infondere un gusto romantico fortemente legato alla natura, offrendo delle emozioni e delle personalità ai suoi cavalli, come solo pochissimi ingegnosi pittori hanno saputo fare prima di lui.
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Stallone arabo di Lord Grosvenor con uno stalliere di George Stubbs
“Stallone arabo di Lord Grosvenor con uno stalliere” è un dipinto olio su tela realizzato da George Stubbs nel 1765 circa e conservato al Kimbell Art Museum di Fort Worth nell’area metropolitana di Dallas (Texas, Stati Uniti d’America). Lo spirito tipicamente intransigente di Stubbs e la sua ricerca per una composizione calibrata e toni equilibrati sono chiaramente evidenti in questo ritratto del giovane stallone arabo di Lord Grosvenor. Impiega un orizzonte basso, con dolci colline e fogliame morbido, per mostrare efficacemente i toni caldi del castagno arabo. (Una prima stampa riproduttiva del dipinto mostra che il paesaggio era originariamente molto più esteso a sinistra; la tela sembra essere stata tagliata su quel lato alla fine del XVIII o all’inizio del XIX secolo.) L’aspetto vivace del puledro, orecchie dritte e narici larghe, è in contrasto con il comportamento rassicurante dello stalliere. L’artista ritrae meticolosamente quello che può essere simile al corredo genetico fenotipicamente sabino: l’ampia fiammata, le calze bianche e le macchie bianche sul ventre e sui lati.
Poiché George Stubbs conosceva le due passioni di Lord Grosvenor, dipinse il giovane stallone come al centro dell’attenzione, mentre lo stalliere sembrava essere un’immagine secondaria. Il famoso pittore inglese, che era un maestro quando si trattava di catturare l’anatomia umana ed equina, ha assicurato che il ritratto del cavallo ne ritraesse la forma e il movimento naturali. Riuscì a realizzare la bella incisione della forma scheletrica e muscolare del cavallo. George Stubbs usava olio su tela; l’uso dell’olio e delle continue velature che stendeva sulla su tela hanno restituito alla maggior parte dei suoi ritratti buone condizioni fino ad oggi. Verosimilmente ha dipinto inizialmente lo stallone con una tonalità più chiara da un olio essiccante estratto dalla resina di pino che ha trattato come fosse un acquarello traslucido. Con i contrasti cromatici chiaroscurali ha aggiunto quindi ulteriori dettagli sulla tonalità del manto riuscendo magistralmente a conferirgli i toni caldi del castagno arabo.
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La città che sale
di Umberto Boccioni “La città che sale” è un dipinto a olio su tela di cm 199,3 × 301 realizzato dal pittore italiano futurista Umberto Boccioni (Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916) tra il 1910 ed il 1911 durante la contemplazione dei lavori in un cantiere di Milano, e oggi conservato al Museum of Modern Art di New York. Il bozzetto preparatorio è esposto nella Pinacoteca di Brera a Milano. Questo dipinto è il primo e grandioso capolavoro con cui “l’anima avventurosa e inquieta” di Umberto Boccioni, come lo definiva Marinetti, presentò al mondo la pittura futurista. In quest’opera viene in parte trascurata la visione naturalistica dei pregressi dipinti, per lasciare spazio ad una visione più movimentata e dinamica. Per l’artista “la città che sale” doveva essere un simbolo “un nuovo altare vibrante di dinamica” innalzato alla vita moderna, di cui la città con il brulicare di persone, carrozze con cavalli, macchine industriali, edifici, era uno dei maggiori emblemi. Nell’opera si vedono palazzi che stanno per essere edificati in una periferia di città, mentre spuntano ciminiere e impalcature solo nella parte superiore destra. La maggior parte della tela è invece occupata da uomini e cavalli, insieme amalgamati in uno sforzo dinamico. In questa maniera Boccioni enfatizza alcuni tra gli principi più caratteristici del futurismo, come ad esempio la celebrazione del lavoro dell’essere umano e la rilevanza della città
moderna conformata sui bisogni dell’innovativa idea di uomo del futuro. Quello che allinea e adegua perfettamente il dipinto con il pensiero futurista è proprio la celebrazione visiva dell’energia, della velocità e del movimento, di cui sono figure di spicco uomini e cavalli. Questo è considerato un concetto peculiare che testimonia come Boccioni si muova ancora nel simbolismo, inteso come elemento misterioso e profondo che è sotto la realtà apparente, quella percepibile con i sensi, a cui si può giungere solo per mezzo dell’intuizione poetica e rendendo riconoscibile il mito attraverso l’immagine. Ed è proprio il “mito” ciò che l’artista modifica, dunque non più arcaico collegato all’esplorazione del mondo psicologico dell’uomo, ma mito dell’uomo moderno, creatore di un nuovo mondo. In pratica il proponimento dell’artista è quello di raffigurare il risultato del nostro tempo industriale. L’individuo, pertanto, da rappresentazione di un ordinario momento di lavoro in una qualsivoglia fabbrica o cantiere in genere, si modifica nella glorificazione dell’idea del progresso industriale con la sua continua e travolgente avanzata. Sintesi di ciò ne è il cavallo trattenuto invano dagli uomini attaccati alle sue briglie: qui, il cavallo che domina nella parte centrale del dipinto è un preciso riferimento allegorico all’evoluzione accelerata, al dinamismo, alla produttività e all’esaltazio-
IL CAVALLO LIBERO ne del progresso di cui si faceva portavoce il Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti: nel suo furore ribelle, indomito e ormai a briglie sciolte, il cavallo si scuote e si dimena furente e nulla possono gli uomini nel tenerlo a bada;
ormai il tessuto sociale si sta evolvendo, sta progredendo inesorabile e implacabile verso il futuro ed è l’uomo che deve adattarsi a quanto gli accade sotto agli occhi e non il contrario.
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Cavalli in riva al mare di Giorgio De Chirico “Giorgio De Chirico (Volo, Grecia, 1888 – Roma, 1978), pittore, scultore e scrittore, principale esponente della corrente artistica della pittura metafisica, contrariamente a Boccioni, raffigura il cavallo collocandolo in distese litoranee, nella pacatezza di un tempo impreciso e indefinito e in un ambiente ignoto che si perde all’alba delle civiltà classiche. I cavalli divennero spesso protagonisti dell’opere di De Chirico, che li riteneva gli animali maggiormente pittorici. Uno dei suoi “Cavalli in riva al mare”, è un olio su tela di cm 129,5 x 96,5 realizzato tra il 1927 e il 1928, conservato nel Museo Carlo Bilotti Aranciera di Villa Borghese, Roma. In quest’opera sono raffigurati due cavalli, soggetto che sarà ripreso più volte dal pittore metafisico, tra ruderi antichi. I destrieri avanzano con grazia nella loro maestà mitologica, eleganti nei loro fisici resi ancor più longilinei dalle pennellate vigorose chiare e scure atte a creare ombre e luci; procedono con le criniere e le ampie code ondulate al vento su di una spiaggia carezzata dalla luce dell’alba o forse, al contrario, di un violaceo tramonto. I cavalli in riva al mare danno l’impressione di essere una coppia capace di provare
i sentimenti e le emozioni dell’essere umano, abbandonata nel ricordo dei tempi che furono e bramosa di godere gioendo del delizioso momento ricreato nella tela. La peculiare atmosfera visionaria di quest’opera è data da due componenti: le rovine di un tempio sullo sfondo, più un’apparizione spettrale che effettiva architettura, dipinto con pennellate acquose con le stesse tonalità coloristiche delle nuvole del cielo, e il frontone di un tempio che galleggia leggero sulle acque calme, come un ricordo che emerge dal mare della memoria. La pittura è quasi ridotta a due sole tonalità intrise di luce, grazie al sapiente e ponderato uso dell’olio. Oltre la bellezza, questi cavalli manifestano la vitalità della natura: libertà e potenza, un vigore che viene addolcito da un’espressione mite e indifesa, perché, come lo stesso artista afferma: “Voglio bene agli animali perché li considero esseri indifesi, non protetti. Per questo li amo. Ogni vittima, ogni essere sopraffatto dalla prepotenza altrui gode di tutto il mio amore”. Mossa dalla materia pittorica e dalla fantasia onirica, questa coppia di cavalli sembra animata da una vita inesauribile.
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Fidia (Atene, 490 a.C. circa - Atene, 430 a.C. circa) è stato l’artista ateniese che meglio riuscì ad interpretare gli ideali dell’Atene periclea: il cantiere del Partenone, per il quale Fidia lavorò come sovrintendente, fu un grande laboratorio nel quale si formò la scuola degli scultori ateniesi attivi nella seconda metà del V secolo a.C. e tra i quali occorre almeno ricordare Agoracrito, Alcamene e Kolotes. I “Cavalieri” realizzati da questo grande scultore, sono meravigliosi bassorilievi, in quel tempo colorati da tinte accese, che decoravano la parte superiore del fregio occidentale del Partenone, il celeberrimo tempio greco di ordine dorico che sorge sull’acropoli di Atene. L’opera di Fidia è uno straordinario bassorilievo di marmo pentelico, alta circa 1 m, realizzata tra il 438 e il 432 a.C. oggi conservata al British Museum di Londra. È stata indicata dalla maggior parte degli studiosi come l’origine dell’arte Occidentale, l’incredibile mutamento da configurazioni statiche tipiche dell’arte egizia a figure dinamiche sembrano “vivere di vita propria”. Ciò che accomuna cavalli e cavalieri di questa scultura è proprio la dinamicità e l’energia che restituisce con grande precisione l’impeto e l’entusiasmo di quegli uomini nel partecipare alle Panatenee, le feste religiose che si tenevano ogni quattro anni in onore della dea Athena. Fidia, in questo bassorilievo, è riuscito
a restituire con grande rispondenza al vero la struttura anatomica dei destrieri in corsa e, benché ciò che è rimasto ai nostri tempi non sia altro che una parte dell’insieme scultoreo, l’efficacia viene comunque mantenuta, a dimostrazione della grande perizia dello scultore nell’esprimere con il marmo ciò che probabilmente aveva avuto modo di osservare precedentemente con i suoi stessi occhi. La bravura dei cavalieri di tenere una postura sciolta e al contempo sicura è rappresentata con grande maestria nell’opera dell’artista ateniese. Essi, infatti, senza redini e privi di staffe, peraltro, quest’ultime non ancora presenti ai tempi di Fidia, non si tengono stretti al corpo del cavallo, ma con grande abilità variano le proprie movenze cercando di agevolare quelli dell’animale, al punto che il primo dei cavalieri è addirittura girato verso il concorrente che lo insegue. Va precisato che, anche a quell’epoca, i cavalieri facevano uso di testiere, imboccature e redini per guidare più agevolmente l’animale, ma questi sono dettagli che l’artista ha evitato di inserire del bassorilievo mostrarono così un’immagine più immediata e dinamica dei cavalli e dei cavalieri. Fidia, con questa scultura, mostra una monta leggera e disinvolta riprendendo probabilmente lo storico e filosofo ateniese Senofonte, dal cui trattati affiora un marcato disdegno verso l’uso della forza, della frusta e delle punizioni nei confronti
IL CAVALLO LIBERO dei cavalli e in cui caldeggia invece movenze garbate e pazienti, proprio come quelle dei due uomini rappresentati nei
“Cavalieri” nel fregio dorico della trabeazione del Partenone.
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“Fantino di Capo Artemisio” di autore anonimo
L’entusiasmante “Fantino di Capo Artemisio”, è una statua greco-ellenistica in bronzo del II secolo a. C. rinvenuto a pezzi, in momenti diversi, nel mare al largo di Capo Artemisio nel nord dell’Eubea, tra il 1926 e il 1937 e in seguito ricomposto e integrato. La statua equestre è approssimativamente a grandezza naturale, con una lunghezza di 2,9 metri e 2,1 metri di altezza ed è conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Atene. È opera di uno scultore rimasto anonimo ed è databile intorno al 140 avanti Cristo. È molto differente dai cavalieri eseguiti sul fregio del Partenone e rappresenta in modo esemplare la libertà espressiva dell’ultima grande stagione dell’arte greca, chiamata Ellenismo, un’arte che segue le imprese di Alessandro III di Macedonia, universalmente conosciuto come Alessandro Magno. Il cavallo ricorda, nella resa della testa lunga e stretta e nella rigidità del collo, modelli di periodo classico: le proporzioni del corpo del fanciullo rimandano invece allo stile di Lisippo e il volto, per l’accuratezza dei dettagli fisionomici, può essere considerato un ritratto vero e proprio. Il cavallo e il fanciullo sono rappresentati nello slancio finale verso il traguardo. L’animale, con le zampe proiettate in avanti e all’indietro secondo una convenzione iconografica, è cavalcato a pelo. Tutte le membra sembrano partecipare alla tensione che pervade muscoli, tendini e vene
che affiorano sotto la pelle tesa; il muso è proteso in avanti a fendere l’aria e le orecchie sono stese all’indietro a suggerire la velocità del galoppo. Le gambe del fantino, un ragazzino sui 12 anni che cavalca senza sella, sono contratte nell’atto di colpire i fianchi del cavallo con lo sperone, indossato sul piede nudo e fermato mediante un sistema di strisce di cuoio. Il braccio sinistro è alzato nell’atto di allentare le redini, mentre il destro è abbassato e portato indietro per colpire con il frustino l’animale, mentre si volge con il capo per controllare l’avversario nell’agitazione dell’ultimo tratto della volata finale. Forse il senso di questo capolavoro è da individuare nel rapporto tra l’uomo, qui espresso dal ragazzino, e l’enorme forza della natura. Emoziona ed entusiasma guardare questo piccolo essere umano, che cerca di dominare il folle volo del destriero. Durante lo straordinario sviluppo del periodo classico della Grecia, tra il V e il IV secolo epoca in cui veniva costruito e decorato il Partenone, il più famoso tempio periptero di ordine dorico dell’antica Grecia, si pensava che l’uomo dominasse la natura. Ai tempi in cui è stata costruita la statua del Fantino, circa tre secoli dopo l’edificazione del Partenone, la Grecia era già passata sotto il dominio dei Romani, che la conquistarono nel 146 a.C. con la presa di Corinto. Il fantino, la cui statua cade quindi nel cosiddetto periodo del-
IL CAVALLO LIBERO la Grecia romana, più che controllare e dominare la natura con la sua sicurezza, è come se fosse trascinato in corsa verso un destino ignoto, trascinato da forze più
grandi di lui e impegnato con tutte le sue forze a tentare di indirizzarne e regolarne il corso.
IL CAVALLO LIBERO
Statua equestre di Marco Aurelio di autore sconosciuto
Il monumento equestre dedicato all’imperatore Marco Aurelio è un’antica scultura romana in bronzo dorato di autore sconosciuto, risalente al II secolo d.C. e raffigurante l’imperatore a cavallo che avanza alzando la zampa anteriore destra. Lo stesso Marco Aurelio alza la mano destra, a indicare la pace raggiunta nei territori conquistati. La mano sinistra, che reggeva le redini perdute da tempo, indossa l’anello d’oro utilizzato per imprimere il sigillo imperiale. La statua risale al II secolo d.C.: è verosimile che sia stata innalzata nel 176 d.C. o nel 180 d.C., subito dopo la morte dell’imperatore. La statua è alta 4,24 metri e lunga 3,87 metri dalla coda al muso. L’altezza fino alla testa del cavallo inclusa è di 3,52 metri; l’altezza sino alla testa di Marco Aurelio è di 5,85 metri. Il luogo originario della collocazione è sconosciuto, ma verosimilmente, come riferiscono diverse fonti, tra cui il famoso archeologo e collezionista d’arte del Settecento Carlo Fea, si trovava davanti al Palazzo Laterano e nel 1538 fu trasferita in piazza del Campidoglio; qui rimase fino al 1990, quando fu spostata nell’antistante Palazzo dei Conservatori, dove si trova tutt’ora, per proteggerla dal deterioramento dovuto agli agenti atmosferici. Il 19 aprile del 1997, sul piedistallo di piazza del Campidoglio è stata collocata una copia identica della statua, senza però il rivestimento con il sottilissimo strato d’oro dell’originale.
Marco Aurelio siede sul suo cavallo a capo scoperto e con il volto incorniciato da una folta barba. Non indossa l’armatura e le gambe sono scoperte: non portando con sé armi, la statua non rammenta un’azione di guerra. È vestito con una tunica e un pesante mantello appartenente alla divisa solenne dei generali romani, detto paludamentum, che, fermato sulla spalla destra con una spilla a disco, ricade in avanti e ampiamente dietro la schiena. Ai piedi non porta scarpe patrizie, ma calzari militari leggeri fissati con nastri annodati. Le staffe non sono originarie: all’epoca romana non erano in uso in Occidente. Le staffe, infatti, inventate in India nel II secolo d.C. (forse anche prima) furono introdotte in Europa nell’A lto medioevo ad opera degli Avari, popolo della steppa che occupò l’attuale Ungheria al tempo in cui essa fu abbandonata dai Longobardi. il cavaliere siede su un sottosella decorato di stoffa o feltro. La straordinaria rilevanza storica e artistica di questo monumento è dovuta al fatto che quasi tutte le statue bronzee dell’Età Antica sono state distrutte, a partire dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, per ottenere metallo da impiegare per altri scopi, tra cui pezzi di artiglieria. Sono quindi giunte sino a noi solamente una ventina circa di statue bronzee dell’antichità. Di queste, solo quattro sono in bronzo dorato e la statua di Marco Aurelio fa parte di questo limitato gruppo; le
IL CAVALLO LIBERO altre sono l’Ercole del Foro Boario, noto come Ercole capitolino, i Bronzi dorati
da Cartoceto di Pergola e i Cavalli di San Marco.
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Statua equestre di Bartolomeo Colleoni
di Andrea del Verrocchio Il Monumento equestre a Bartolomeo Colleoni è una statua bronzea di altezza 3,95 metri senza la base di Andrea del Verrocchio, realizzata tra il 1480 e il 1488 e collocata a Venezia in Campo San Zanipolo. Si tratta della seconda statua equestre del Rinascimento, dopo il monumento al condottiero e capitano di ventura Gattamelata di Padova, eseguita da Donatello tra il 1446 e il 1453. Per la realizzazione del gruppo l’artista si ispirò alla statua equestre del Gattamelata, oltre che alle statue antiche di Marco Aurelio, dei cavalli di San Marco e del Regisole di Pavia, opera quest’ultima del periodo tardoantico, che va all’incirca dal Terzo fin verso il Settimo-Ottavo secolo d. C., perduta nel Diciottesimo secolo, ma di cui lo scultore Francesco Messina negli anni trenta del secolo scorso, eseguì una copia basata sulle riproduzioni antiche; la statua fu collocata davanti al Duomo e solennemente inaugurata l’8 dicembre 1937. Il più grande problema di questo tipo di rappresentazioni scultoree era la stabilità: effettivamente, volendo riprodurre il cavallo al passo, con una zampa sollevata per rendere la sensazione di solenne andatura, ciò implicava rilevanti preoccupazioni per le opere statuarie, poiché la pesante lega metallica di bronzo veniva a essere congiunta a tre appoggi abbastanza snelli e delicati costituiti dalle zampe del cavallo. Verrocchio, dopo l’autore
anonimo costruttore della statua di Marco Aurelio, fu tra i primi a riuscire ad appoggiare la statua su tre zampe in epoca rinascimentale. In tempi successivi riuscì a fare di meglio solo il fiorentino Pietro Tacca nel 1636-1640, con il Monumento equestre a Filippo IV, situato in Plaza de Oriente a Madrid, poggiata su due sole zampe. Lo scultore realizzò il monumento rifacendosi al “Ritratto di Filippo IV di Spagna a cavallo” di Diego Velázquez, eseguito all’incirca nel 1635 e ricorrendo alla consulenza scientifica di Galileo Galilei per essere certo della sua stabilità. Virtuosisticamente il Tacca riuscì a risolvere il complicato problema e, per la prima volta al mondo, la pesante statua si venne sorretta solo sulle due zampe posteriori del cavallo e, in maniera mascherata, sulla coda. La statua equestre di Bartolomeo Colleoni del Verrocchio differisce dal celebre precedente di Donatello altresì per i valori stilistici dell’opera. Al passo solenne e maestoso del cavallo del Gattamelata e al raccolto e pacato incedere del cavaliere, Verrocchio ha contrapposto un comandante dall’armatura completa con l’elmo, impostato secondo una nuova severità dinamica, con una doppia rotazione: il tronco diritto e vigorosamente ruotato verso destra, il volto saldamente ruotato verso sinistra come la testa del caval-
IL CAVALLO LIBERO lo come se entrambi guardassero verso il nemico; l’elmo del Colleoni produce poi delle zone d’ombra sul volto che lo incorniciano restituendo una mimica facciale più espressiva e accigliata. Le gambe sono rigidamente divaricate a compasso, la mi-
mica risoluta e decisa. Il bordo superiore del dorso del cavallo orizzontale e la verticalità della corporatura del Colleoni producono linee di forza perpendicolari che ampliano l’effetto dinamico.
Statua equestre di Gattamelata di Donatello
La “Statua equestre di Gattamelata” è un monumento bronzeo realizzata da Donatello, uno dei tre padri del Rinascimento fiorentino, assieme a Filippo Brunelleschi e Masaccio. La statua è collocata in piazza Sant’Antonio a Padova. Costruita tra il 1446 e il 1453 per onorare il condottiero e capitano di ventura Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, al servizio prima della Repubblica di Firenze, poi dello Stato Pontificio ed infine della Repubblica di Venezia, a cui rimase sempre fedele e da cui ottenne la carica di Capitano Generale fino alla sua morte avvenuta a Padova nel 1443. La statua misura cm 340x390, con lo zoccolo di base di cm 780x410. Si tratta della prima grande statua equestre fusa in bronzo dai tempi antichi ed una delle prime sculture dell’epoca moderna non integrato ad altre strutture architettoniche: l’opera si presenta infatti come forma indipendente, che si rapporta nello spazio solamente con il suo volume, senza altri limiti e può essere ritenuta la prima scultura commemorativa equestre su modello classico dopo gli esemplari romani. A questa statua si ispirò Andrea del Verrocchio per la realizzazione, tra il 1480 e il 1488, del monumento equestre di Bartolomeo Colleoni, ubicato a Venezia in Campo San Zanipolo. Con questa statua Donatello con molta perizia riesce ad ottenere un’unione tra una solenne idealizzazione, e un meraviglioso realismo, che trasmettono all’insie-
me la particolare intensità espressiva. Sia il cavallo che il condottiero sono infatti rappresentati con caratteristiche psicologiche che conferiscono contenuti semantici alla statua. Il Gattamelata monta in sella al suo cavallo in modo austero fiero, deciso e in nobile postura coperto da una raffinata armatura di rappresentanza, efficacemente decorata e rifinita. L’aspetto è quello di un uomo in età matura che nella mano destra stringe con veemenza il bastone del comando attribuitagli dalla Repubblica di Venezia, e con la sinistra tiene le redini del destriero. Una lunga spada con ampia impugnatura pende poi dal fianco sinistro. La raffinata armatura è dotata di corazza per il busto, ginocchielli e lunghi speroni. Il cavallo è robusto e vigoroso con le zampe aperte al passo. L’arto anteriore sinistro è sollevato e lo zoccolo appoggia su di una sfera. A questo proposito bisogna ricordare che all’interno della statua bronzea si usava introdurre un’armatura in ferro che veniva stabilmente fissata alla base. Ma una zampa sollevata avrebbe messo a rischio l’equilibrio del gruppo scultoreo: per questo Donatello scelse la soluzione della sfera, in questo caso rappresentante una palla di cannone. La sfera, inoltre, si adegua correttamente con le linee curve del cavallo. La figura del cavaliere è decisamente frontale mentre il cavallo volge leggermente il muso a sinistra. Anche l’espres-
IL CAVALLO LIBERO sione dell’animale infonde il suo carattere esuberante, controllato con mano leggera ma ferma dal condottiero. Il Gattamelata è senza elmo e la sua immagine comunica in questo modo l’ingegno del comandante e non la violenza devastatrice di un militare spronato da una forza superiore: lo scultore preferì rappresentare in questo modo il vigore e la fermezza tramite l’espressione del viso e il portamento del corpo. La struttura dell’intera statua è soppesa-
ta su esatti rapporti geometrici. Il gruppo scultoreo, nel suo insieme, può essere inserito in un quadrato e la linea costituita dal bastone del comando e dalla spada tracciano una diagonale perfetta, mentre la massa corporea del cavallo forma un triangolo rettangolo. La strategia dell’uso di forme così ordinate e regolamentate conferisce al monumento equestre chiarezza, precisione compositiva e razionalità.
Statua equestre di Emanuele Filiberto di Savoia di Carlo Marochetti
La “Statua equestre di Emanuele Filiberto di Savoia”, il personaggio più rappresentativo della storia sabauda, è un’opera scultorea bronzea del principe sabaudo, opera di Carlo Marochetti, (Torino, 1805 – Passy, Francia, 1867), uno dei maggiori scultori italiani dell’Ottocento dallo stile neoclassico romantico, che lavorò principalmente per l’aristocrazia italiana ed europea. Il monumento equestre, realizzato a Parigi ed esposto nel 1838 nel cortile del Louvre, fu poi trasportato a Torino e collocato in piazza San Carlo a Torino il 4 novembre dello stesso anno. Questa statua può essere considerata uno dei simboli della stessa città sabauda. Fu molto apprezzata dai contemporanei che, per la grandiosità e la maestosità, la stimarono degna di competere con i più celebri monumenti equestri di Bartolomeo Colleoni eseguito da Andrea del Verrocchio, o del capitano di ventura Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, eseguito da Donatello La statua equestre del Duca di Savoia, principe di Piemonte, poggia su un piedistallo in granito rosso di Baveno, con intagli di bronzo che ornano la base e la cimasa; su ogni lato è presente lo stemma sabaudo con la corona ducale; svetta nella piazza con particolare solennità. Riproduce Emanuele Filiberto mentre rinfodera la spada dopo l’eroica vincita nella Battaglia di San Quintino, alla quale rimanda il bassorilievo posto ad ovest
del basamento, curato dal Bonsignore. Il bassorilievo ad est rappresenta invece il trattato di pace di Cateau-Cambrésis, che definì gli accordi che posero fine alle guerre d’Italia tra la Francia e gli Asburgo di Spagna e Austria. Fu lo stesso monarca a commissionare a Carlo Marochetti la realizzazione del suo progetto: esso rappresentava il primo esempio di monumento pubblico a Torino, sui modelli delle grandi places royales francesi; dopo la collocazione del monumento equestre di Marochetti, compariranno numerosi altre statue ad ornare le piazze cittadine, a cominciare da Piazza Palazzo di Città, con il monumento al Conte Verde che lo raffigura durante la vittoriosa battaglia contro i Turchi, solennemente inaugurato nel 1853 in piazza Palazzo di Città, o Il monumento equestre di re Carlo Alberto di Savoia eseguito tra il 1856 e il 1860 dallo stesso Marochetti e posto nel 1861 sull’omonima piazza. Durante la Seconda guerra mondiale la statua equestre di Emanuele Filiberto di Savoia fu smontata e portato a Santena, nel parco del castello di Camillo Benso conte di Cavour. Nel novembre del 1979 il monumento fu tolto e traslocato nell’officina di un marmista in lungo Dora per una completa pulitura mediante sabbiatura. Cavallo e cavaliere ritornarono sul basamento in piazza San Carlo nel giugno del 1980. Con un sostegno economico tra pubblico
IL CAVALLO LIBERO e privato è stato poi eseguito un nuovo restauro del monumento, che si è protratto per circa undici mesi e finalmente terminato il 30 settembre 2007. La statua equestre è stata quindi riconse-
gnata alla città il 13 ottobre 2007 con una solenne cerimonia sulle note dell’aria: “Va, pensiero” dal Nabucco di Giuseppe Verdi.
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Statua equestre del Regisole di Pavia Il “Regisole” era una statua equestre bronzea tardoantica, già conservata a Pavia, uno dei pochi esempi, se non l’unico, di bronzistica monumentale del medioevo italiano, fuso con la tecnica della cera persa prima che andasse dimenticata, almeno in Europa occidentale. Il nome derivò forse da “Rege[m] Solis”, poiché la statua era anticamente ricoperta di dorature che riflettevano i raggi solari, oppure per via del braccio alzato che sembrava “reggere” il sole, o ancora dalla parola “regisolio”, cioè trono regale. Al Regisole si ispirarono gli scultori del Rinascimento per un grande ritorno dell’arte del monumento equestre. L’identità del condottiero è ancora oggi sconosciuta. Potrebbe essere un imperatore romano, come sta a dimostrare la mano alzata che saluta. Qualcuno afferma che l’immagine potrebbe essere di Marco Aurelio altri di Aureliano, che nel 251 sconfisse alle porte di Pavia gli Alemanni. Altri ancora affermano che potrebbe trattarsi del sovrano ostrogoto Teodorico il Grande, ma non si è sicuri. Sistemata di fronte al Duomo dopo il 1024, il monumento da allora fu uno dei simboli della città, raffigurato anche sul sigillo d’argento del Comune. Nel 1315, dopo presa di Pavia, i Visconti trasferirono la statua a Milano, ma venne restituita ai pavesi nel 1335. Dopo che
Galeazzo II trasferì la sua residenza da Milano a Pavia, molti ospiti illustri della corte dei Visconti ne rimasero colpiti: Francesco Petrarca ne parlò in una lettera al Boccaccio, e, più tardi, Leonardo da Vinci la ammirò nel 1490. La statua venne demolita nel 1796 dai giacobini pavesi, contro la volontà degli occupanti francesi, che volevano portare in Francia il monumento, per eliminare ogni simbolo della monarchia presente in città. Purtroppo i pezzi rimasti della statua, custoditi in un magazzino, furono venduti nel 1908 dagli amministratori della città per finanziare opere pubbliche. Finalmente negli anni Trenta del Novecento si decise di assegnare allo scultore Francesco Messina il compito di eseguire una copia del Regisole basata sulle riproduzioni antiche. Il nuovo Regisole, una statua bronzea alta 6 metri posta su una base di travertino, fu così ricollocato davanti al Duomo e solennemente inaugurato l’8 dicembre 1937. Il monumento introduce alcuni cambiamenti rispetto alla figura a noi trasmessa dagli storici pavesi: il cavaliere non ha la barba, la movenza del cavallo è resa in modo certamente più vivace e dinamica rispetto alla più statica antico opera scultorea, ed è privo di quel cagnolino che inizialmente sosteneva la zampa anterio-
IL CAVALLO LIBERO re sinistra del cavallo. Nel complesso, il Regisole, come lo si può osservare oggi, è opera di insigne scultura: l’effetto dei muscoli del cavallo, tra il trotto ed il galop-
po, la perfetta resa anatomica di cavallo e cavaliere, le pieghe del mantello esprimono l’eccellente plasticità e la maestria della fusione.
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Monumento equestre a Filippo IV di Pietro Tacca
Il gruppo scultoreo dedicato a Filippo IV si trova al centro dei giardini di Plaza de Oriente di Madrid. La statua bronzea equestre di re Filippo IV è iniziata nel secolo XVII, mentre il monumento nel suo complesso, che comprende come supporto alla statua un alto piedistallo in granito e una base sulla quale sono disposti diversi gruppi scultorei realizzati da Francisco Elías Vallejo e José Tomás, oltre che due fontane, venne terminato nella prima metà dell’Ottocento, inaugurato ufficialmente il 17 novembre del 1843. Il “Monumento equestre a Filippo IV” è stato realizzato dall’italiano Pietro Tacca, uno degli scultori più affascinanti e spettacolari del barocco, che lo costruì in Italia servendosi di un disegno di Diego Velázquez e con la consulenza fisico-matematica di Galileo Galilei che, per garantire la stabilità del cavallo che si doveva reggere solo su due zampe, suggerì di rendere completamente solida la parte posteriore della scultura mentre il frontale doveva essere cavo. Questo espediente, il primo al mondo dell’arte statuaria, istituì un nuovo modello che rimase in vigore per tutto il XVII e XVIII secolo, contri-
buendo a rendere il monumento equestre a Filippo IV un magnifico capolavoro di scultura. Filippo IV con questo monumento creato per sé, ha superato in spettacolarità la statua in bronzo del padre Filippo III collocata in Plaza Mayor di Madrid, quest’ultima una statua che, iniziata dal Giambologna è stata terminata dallo stesso Tacca nel 1613. Un altro degli artisti che operò al monumento equestre fu lo scultore spagnolo Juan Martínez Montañés, che accolse il compito da parte di Diego Velázquez (il pittore più importante tra quelli presenti alla corte di Re Filippo IV ), di configurare in creta una testa del re, per offrire a Tacca un’indicazione tridimensionale dei lineamenti del volto di Filippo IV. Quando però Tacca inviò in Spagna il modello in creta della testa del monarca di Martínez Montañés, il re non diede la sua approvazione alla testa, in quanto non riusciva a trovare alcuna somiglianza con il suo viso. La testa che fu approvata fu quella realizzata in un secondo tempo da Ferdinando Tacca, figlio dello scultore italiano.
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L’interessante storia del Cavallo di Leonardo da Vinci Il cosiddetto “Cavallo di Leonardo” è un solo elemento di una più complessa statua equestre priva del suo cavaliere e prevista fusa in bronzo, progettata da Leonardo da Vinci tra il 1482 e il 1493 in onore a Francesco Sforza, primo duca di Milano. Di questo progetto il sommo artista effettuò soltanto un esemplare in creta, purtroppo andato distrutto. I disegni dei cavalli di Leonardo sono attualmente conservati nelle collezioni reali del Castello di Windsor, nel Regno Unito. Correva l’anno 1482 quando il Duca di Milano Ludovico Maria Sforza detto Ludovico il Moro, suggerì a Leonardo di creare il più imponente monumento equestre del mondo: un’opera scultorea dedicata a suo padre Francesco, fondatore del casato degli Sforza. L’ordinazione è confermata da una caparra per i costi della costruzione di un prototipo, pagata per incarico del Duca dal segretario e responsabile del patrimonio finanziario di corte, Marchesino Stanga. Il laboratorio di Leonardo, in Corte Vecchia, dove sorge attualmente Palazzo Reale, è stato dotato degli attrezzi e del materiale occorrente per la fusione dei modelli. L’opera era imponente e difficoltosa, non unicamente per le grandi misure programmate della statua, ma altresì per l’intenzione di scolpire un cavallo in posizione rampante, nell’atto di abbattersi sul nemico. Col tempo però, dopo studi approfondi-
ti che dimostravano gli eccessivi problemi di equilibratura e stabilità del monumento, il progetto venne scartato. L’opera scultorea venne comunque riesaminata e riconsiderata in forme gigantesche, fino a quattro volte più grande del normale. Per questo ambizioso progetto, però, si dovette ridisegnare un cavallo al passo, con il destriero che avrebbe dovuto poggiare su tre zampe: entro il maggio 1491 Leonardo aveva preparato un secondo prototipo in argilla, in concomitanza con il matrimonio della nipote del duca con l’imperatore d’Austria. Leonardo, con l’esecuzione di quest’opera scultorea, voleva superare, offuscandole, tutte le antecedenti statue equestri, soprattutto quelle del suo maestro Andrea del Verrocchio e di Donatello, dedicate rispettivamente a Bartolomeo Colleoni e al condottiero e capitano di ventura italiano Erasmo Stefano da Narni, detto il Gattamelata. A dire il vero a Leonardo attirava più il cavallo che il cavaliere; il suo cavallo doveva essere più maestoso rispetto agli altri, doveva superare i 7 metri di altezza, un’ardua competizione mai sperimentata prima di allora. Proprio per questo il genio vinciano studiò dettagliatamente l’anatomia e le proporzioni del cavallo, facendo tantissimi disegni a matita e dedicando molto tempo sul progetto di quest’opera immensa che, per la sua fusione, avrebbe richiesto ben cento quintali di bronzo. L’enorme modello in creta, alto sette me-
IL CAVALLO LIBERO tri, venne presentato al pubblico nel 1493, provocando lo stupore unanime. A quel punto il modello doveva solo essere ricoperto da uno spesso strato di cera protettiva e dall’involucro in terracotta necessario per la fusione. Tutto quanto era ormai predisposto per la realizzazione dell’opera, ma non erano più a disposizione le 10 tonnellate di bronzo occorrenti per la fusione, perché impiegate per la costruzione dei cannoni adibiti alla difesa del ducato di Milano dall’invasione dei francesi di Luigi XII. All’arrivo dell’esercito francese nel capoluogo lombardo nel 1499, al comando di Gian Giacomo Trivulzio, implacabile nemico degli Sforza, l’artista dovette rifugiarsi a Mantova. Secondo la tradizione il modello, abbandonato a sé stesso nel Castello Sforzesco, venne utilizzato quale bersaglio dai balestrieri francesi, che lo ridussero in frantumi distruggendolo completamente. In tempi successivi Leonardo si dedicò solo saltuariamente al progetto della statua, ma non la portò mai a termine. Dovettero trascorrere cinque secoli prima che nel 1977 Charles Dent, un pilota statunitense, artista dilettante e collezionista d’arte, si entusiasmò all’idea di realizzare il sogno di Leonardo; ha quindi incontrato i migliori studiosi del Rinascimento, tra cui Sir John Pope-Hennessey, il prof. Frederick Hartt e l’italiano prof. Carlo Pedretti, uno dei massimi esperti mondiali della vita e delle opere di Leonardo da Vinci, per determinare se il progetto fosse fattibile. Quando ogni esperto ha confermato la fattibilità del progetto, Dent ha raccolto dati e foto e ha ufficialmente avviato la sua missione. Dopo aver creato la “Leonardo da Vinci’s Horse Foundation (Ldvhf)” e dopo più di quindici anni di dedizione, riuscì ad otte-
nere la somma di denaro necessaria, pari a circa 2,5 milioni di dollari, per compiere l’imponente statua. Purtroppo Charles Dent non riuscì a vedere realizzato il proprio sogno, dal momento che morì nel 1994, prima che l’impresa fosse terminata, e ancora una volta il piano di studio progettuale era sul punto di essere abbandonato. Fortunatamente Frederik Meijer, proprietario di una catena di supermercati nel Michigan, finanziò il progetto, con la clausola però che si costruissero due cavalli: uno per Milano e uno per i Meijer Gardens, un parco naturale e artistico a Grand Rapids (Michigan), proprietà di Meijer, dove sono esposte copie delle statue moderne più famose. Il piano di lavoro è proseguito fra molte problematiche e infine si è deciso di aggiudicare la direzione delle operazioni alla scultrice giapponese-americana Nina Akamu, nata nel 1955 a Midwest City, Oklahoma, che ha portato a termine l’opera. Innanzitutto, come primo modello, è stato realizzato un cavallo di dimensioni ridotte di circa 3 metri di altezza prima di giungere all’enorme scultura in creta di quasi 8 metri. È dal cavallo di argilla che sono stati ottenuti gli stampi dove è stato colato il bronzo fuso. Le sette parti in cui il cavallo era stato fuso giunsero il mese di luglio 1999 a Milano dove vennero assemblate. Dopo diversi dibattiti e discussioni, tra i vari siti proposti, la Fondazione Vinci’s Horse Foundation (Ldvhf), ha scelto l’Ippodromo Snai San Siro. Il cavallo, tra le statue equestri più grande al mondo e di dimensioni colossali (7,3 metri di altezza, posto su un basamento di 2 metri circa e 10 tonnellate di peso) è stato collocato nel settembre 1999 all’ingresso della tribuna secondaria dell’ippodromo. L’esemplare americano del Cavallo di Leonardo è stato posizionato nei Meijer Gardens il mese di ottobre 1999, ed è attualmente l’esem-
IL CAVALLO LIBERO plare più rilevante della rassegna espositiva. Una copia di dimensioni ridotte, alta 2,5 metri, è stata poi devoluta nel 2001 alla città di Vinci e sistemata nella centrale piazza della Libertà. Dal 2001 il Cavallo di Leonardo è altresì l’immagine ufficiale del MIFF Awards, il Film festival internazionale di Milano, una mostra
cinematografica che si svolge ogni anno nel capoluogo lombardo. Un’altra copia dell’opera scultorea di dimensioni ridotte è situata presso la falegnameria di “Opera Laboratori Fiorentini” a San Donnino, una frazione del comune di Campi Bisenzio, nella città metropolitana di Firenze.
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BIOGRAFIA DI GIUSEPPE FRASCAROLI Laureato in medicina con specializzazione in neurologia, il maestro Giuseppe Frascaroli si inserisce a pieno titolo fra i più importanti pittori figurativi classici che l’Italia possa ad oggi vantare, ed è considerato il pittore neoclassicista di maggior rilievo a livello istituzionale, oltre che valente studioso e scrittore d’Arte. Insignito della Medaglia d’Oro Nazionale per il Neoclassicismo, è stato nominato dal Capo dello Stato Sergio Mattarella Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, successivamente promosso al grado di Ufficiale. Tra i molti altri riconoscimenti, la nomina a Socio Onorario del Circolo Artistico di Venezia e quella di “Pittore di Marina Benemerito”. Frascaroli ricopre altresì l’incarico di Segretario dell’Associazione Nazionale Carabinieri Sez. Casteggio (Pavia). Il nostro artista ha avuto il grande onore di consegnare sue opere pittoriche ai massimi vertici delle Istituzioni Civili e Religiose, tra cui Papa Giovanni Paolo II, Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Alla Biennale di Venezia del 2013, le sue opere sono state presentate al governo di Taiwan. Gli innumerevoli Musei e Collezioni che racchiudono sue opere includono i Musei e il Palazzo Apostolico del Vaticano, l’Arsenale di Venezia, il Museo Storico Nazionale della Fanteria a Roma, la Chiesa cristiana maronita di “San Giorgio” a Beirut in Libano, il complesso monumentale dell’Eremo di Sant’Alberto di Butrio – Pavia (XI secolo), il Museo Storico Navale di Venezia, il Palazzo del Governo della Repubblica di Cina a Taipei, lo Stupa di Boudhanath, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, a Kathmandu in Nepal, la Sede dell’orchestra filarmonica del Teatro alla Scala di Milano, la Cattedrale di San Josè ad Antigua Guatemala, il San Cristóbal de las Casas in Messico, la “Saint Peter and Paul Church” di San Francisco, California (U.S.A.), i Palazzi Arcivescovili di Cracovia (Polonia), Genova e Principato di Monaco, lo Stato Maggiore della Marina Militare Italiana, la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, l’Ambasciata di Francia in Italia a Palazzo Farnese, Roma, il Museo Tecnico Navale di La Spezia, il complesso monumentale della Chiesa-Santuario di Santa Maria delle Grazie di Milano, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Di Frascaroli si sono occupati numerosi importanti critici d’arte e personaggi della cultura, tra cui Philippe Daverio, Giosuè Allegrini, Alberto Moioli, Lamberto Pignotti, Giacomo Maria Prati, Antonino De Bono, Mino Milani, Luigi Accattoli e Lung Ying-tai, Ministro della cultura della Repubblica di Cina dal 2012 al 2014. I Portali di Giuseppe Frascaroli: • Sito Web: www.giuseppefrascaroli.it • Giuseppe Frascaroli: en. Wikipedia • Giuseppe Frascaroli: Enciclopedia d’Arte Italiana • Giuseppe Frascaroli: Annuario Comed - Guida delle Belle Arti • Collaboratore artistico in “Note sull’Arte” sul link: http://soloarte.atelierdesarts.com • Collaboratore artistico con ENGEA: Ente Nazionale Guide Equestri Ambientali, nella rivista “Il Cavallo Libero” • “Giuseppe Frascaroli, Pittore”: pagina Facebook
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