è un progetto di
Fondazione Fontana Onlus prosegue la riflessione ispirata all’Agenda globale 2030, avendo come riferimento i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) definiti nel settembre del 2015 dalle Nazioni Unite quali passaggi indispensabili per raggiungere 3 traguardi fondamentali: ► sradicare la povertà estrema ► combattere diseguaglianze e ingiustizie ► affrontare il problema dei cambiamenti climatici La cornice a questa riflessione per il quinquennio 2017-2022 è quella delle “5P”, individuate dalle stesse Nazioni Unite per raggruppare tematicamente gli sforzi suggeriti dai 17 Obiettivi, e cioè: Partnership/Partecipazione Planet/Pianeta People/Persone Prosperity/Prosperità Peace/Pace Avviata la riflessione proprio da una discussione sui temi della Partnership e del Pianeta, le proposte per insegnanti e studenti degli Istituti di istruzione secondaria di secondo grado di Trento e provincia si sono concentrate nell’a.s. 2019/2020 sulle Persone, in particolare proponendo un ripensamento del nostro coinvolgimento nelle comunità trasversali a cui apparteniamo, seguendo il filo dell’inclusione e delle marginalità. Tra le tracce di approfondimento proposte, alcune classi, accompagnate dalle loro insegnanti, hanno scelto di intraprendere un percorso di confronto e di crescita sul tema della fragilità fisiche, cognitive, sociali, emotive. Durante questo cammino di riflessione hanno intervistato alcune persone che hanno accettato di condividere la loro esperienza e il loro punto di vista. Qui di seguito i loro contributi, per i quali ringraziamo non solo insegnanti, studenti e studentesse, ma anche chi ha partecipato concedendo le interviste. Grazie a voi tutte e tutti per l’impegno, la collaborazione, la volontà di indagare una realtà ancora impreparata a considerare la fragilità come risorsa, ma consapevole che la strada intrapresa sia quella giusta.
SOMMARIO
Il record non si improvvisa! .................................................................................................. 4 Non mi sono mai sentito diverso dagli altri”. Quando la società funziona!!! ......................... 6 “Le persone devono solo imparare ad ascoltare…” ............................................................. 8 “Una persona deve manifestarsi pienamente a se stessa, non come il gigante dei suoi sogni o il nano delle sue paure.” .......................................................................................... 9 “...per questo non ricordo nemmeno se qualcun altro mi abbia mai detto che non ce l’avrei fatta…” ............................................................................................................................... 11 Passione e ambizione ........................................................................................................ 13 Una vita piena di energie ................................................................................................... 15 Quello che posso fare da sola non fa niente contro la barriera che ho davanti .................. 17 “La delicatezza del poco e del niente “ .............................................................................. 19 Fragilità è incertezza, ma anche forza…............................................................................ 22 La nonna e la logopedia..................................................................................................... 24 Percezioni diverse ............................................................................................................. 26 Aspetto sociale di una persona con difficoltà ..................................................................... 28 La relazione come strumento di crescita............................................................................ 30 Di fronte al buio .................................................................................................................. 32 La pratica della musica in relazione alle disabilità. Accordi Armonici ................................. 33 Cosa è normale? ............................................................................................................... 35 Disabilità e famiglia ............................................................................................................ 37 Cercate perdono e amore incondizionato? Venite all’Arche Kenya! .................................. 39 “Disabilità”... Di una città .................................................................................................... 42 Imparare con la disabilità ................................................................................................... 44 La disabilità insegna .......................................................................................................... 46 Inclusione in classe: l’insegnante di sostegno ................................................................... 49 Gli occhi dell'anima ............................................................................................................ 51 Saltare ...oltre il limite......................................................................................................... 53 La disabilità dagli occhi di un professore ........................................................................... 55 Dall'Ex-Jugoslavia a Belgrado: ferite che non si cancellano .............................................. 57 Preferisco i bambini ........................................................................................................... 59 Il “disabile” è come noi: stop a pena e falsa pietà .............................................................. 61 I limiti più grandi stanno nella propria testa ........................................................................ 63 Non una semplice influenza ............................................................................................... 65
Intervista a ELENA VALLORTIGARA, Carabiniere scelto dell’Arma dei Carabinieri e campionessa italiana di salto in alto
Il record non si improvvisa! Molte persone, quando iniziano ad acquisire un po’ di fama, si ritrovano circondate da falsi amici, gente che apparentemente tiene a te, ma che in realtà lo fa solo per popolarità. Hai mai riscontrato questo problema? Sicuramente la popolarità implica anche più persone attorno a sé, ma sono sempre stata attenta alle persone che decido di far entrare nella mia vita e, soprattutto crescendo, ho imparato ancora meglio a distinguere chi mi cerca per interesse o perché mi vuole bene. Non mi ritengo una persona così popolare, anche perché tendo ad essere abbastanza riservata e sono poco presente anche sui social, che di questi tempi sono il principale veicolo della propria immagine. Quando mi è successo di avere a che fare con atteggiamenti superficiali, ho cercato di tenere queste persone, gentilmente, a distanza. Ti sei mai trovata ad affrontare i commenti degli hater, i quali non guardano nel complesso una persona ma si concentrano sui loro piccoli errori? Generalmente cerco di prendere qualsiasi commento nei miei confronti nel modo più neutro possibile, che sia positivo o negativo. Ascolto sempre e cerco di trarre sempre qualcosa di utile, ma odio i giudizi da parte di chi non sa, perciò per me è utile solo ciò che mi dicono il mio allenatore, la mia famiglia e le poche altre persone che mi conoscono davvero. Che cosa vuol dire per te la parola record? Il record per me è una delle motivazioni più forti. È indipendente dal contesto, che sia allenamento o gara (o tipo di gara), è sempre presente e quindi posso sfruttarla in qualsiasi momento. È un numero che rappresenta il mio massimo come atleta o il massimo a cui aspirare per essere migliore in assoluto. Pur essendo sempre stato un elemento motivante, negli anni in cui ho avuto tanti problemi, era diventato allo stesso tempo quasi un’etichetta, in senso negativo, perché mi chiedevo sempre se sarei mai riuscita a cambiarla e a raggiungere quello che sapevo essere il mio valore. Che cosa pensi dell’improvvisazione? Nel mio sport c’è poca improvvisazione: è tanto lavoro e tanta ripetizione per arrivare ad automatismi che permettano, soprattutto in gara, di non pensare nemmeno più perché il corpo sa già cosa fare. Interpreterei questo termine anche nel senso di modificare le nostre azioni a fronte di un imprevisto, che si sa, è sempre dietro l’angolo e non sai mai cosa aspettarti.
Mi viene in mente quando, andando ad un meeting in Olanda, ho perso la valigia e ho dovuto saltare con le scarpe – vecchissime – di un ragazzo dal cuore grande che me le aveva prestate. Saper “improvvisare” in questo caso è stato fondamentale, ma sono convinta ci debba essere un buon lavoro di base e tanta fiducia in se stessi perché ne esca qualcosa di buono. Hai raggiunto degli importanti e gratificanti obiettivi. Ma quando il sogno diventa realtà, che si fa? Ci si gode il momento, si alza ancora l’asticella e si continua a lavorare con ancora più consapevolezza delle proprie possibilità. Raggiungere i propri obiettivi significa raggiungere nuovi livelli di crescita, sportiva e personale.
Data Dell'intervista: 16/04/2020 Modalità di realizzazione: e-mail Intervistatori: Thomas Gozzi, Matthew Dosso, Marco Mazza Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a DAVIDE SCOTTINI, informativo bancario con paralisi ostetrica all’arto superiore destro
Non mi sono mai sentito diverso dagli altri”. Quando la società funziona!!! Qual è la causa che ti ha portato ad avere un braccio differente dall’altro? Io ho una paralisi ostetrica al braccio destro causata alla nascita perché pesavo 4 kg e mia mamma era piccola e piuttosto magra. La causa della mia paralisi è dovuta al fatto che durante il parto sono uscito con la testa e le spalle e quindi i medici sono stati costretti a tirarmi per il braccio, strappandomi i fasci nervosi del plesso brachiale. Inoltre, quando ero piccolino, avevo anche l’occhio destro più piccolo. Inizialmente i medici se ne sono accorti? Hanno provato a rimediare attraverso interventi o cure per quello che hanno fatto? Quello che mi è stato raccontato dai miei genitori è che i medici dicevano che si sarebbe sistemato tutto nel giro di poche settimane, ma poi si è purtroppo visto che il danno era più grave di quanto si aspettassero. Infatti, il braccio non si muoveva, a differenza del sinistro. L’unica cosa che i medici avevano detto di fare era la fisioterapia. All’età di 16 anni sono stato operato a Legnano in provincia di Milano affinché potessi avere maggiore destrezza. Per tutto questo devo ringraziare profondamente mia madre che non si è mai arresa benché i medici dicessero che non sarebbe servito a nulla. Invece devo dire che questo mi ha migliorato la vita perché prima la mano era messa come “dovessi chiedere la carità” e quindi non potevo usarla. Dopo l’intervento, con il quale mi hanno “girato” tutto l’avambraccio, riesco a fare tante cose che prima erano impossibili. Ti hanno mai preso in giro? Ti senti diverso dagli altri? Come hai trascorso la tua infanzia? Fino all’età di 16 o 17 anni andavo tre volte alla settimana in ospedale per la fisioterapia e i massaggi. Ma quando ero piccolino mi ricordo che verso le quattro del pomeriggio mia madre veniva a prendermi a scuola per portarmi a fare ginnastica, mentre tutti i miei compagni rimanevano a giocare al parco giochi ed io chiedevo sempre perché dovevo fare queste cose. Ma mia madre mi spiegava sempre che era per il mio bene, anche se non riuscivo a comprenderlo: piangevo a lasciare i miei compagni. Però a distanza di anni devo ringraziarla per la grande forza di volontà e gli sforzi fatti per riuscire a ottenere anche qualche piccolo risultato. Non mi sono mai sentito diverso dagli altri perché i miei parenti mi hanno sempre trattato e considerato come tutti gli altri: non ero il “poverino” della famiglia e non godevo di nessun privilegio. A me piaceva giocare a calcio e spesso facevo il portiere: i miei compagni non mi hanno
mai preso in giro per il mio braccio. Non mi sono mai vergognato e non ho mai nascosto la mia disabilità. Pensi che qualcuno ti abbia giudicato diversamente da come avrebbe dovuto a causa del braccio? Io penso che nessuno mi abbia mai trattato diversamente per la mia paralisi; spesso succede invece che le persone non si accorgono nemmeno della diversità. Penso che questo sia dovuto al fatto che per me non è un peso e non mi sento affatto differente dagli altri. Hai esigenze diverse in alcuni ambiti? Di sicuro avere una mobilità ridotta al braccio destro porta alcune difficoltà quando si devono fare lavori con entrambe le mani anche se non mi perdo d’animo, inventando dei modi e delle strategie per sopperire alle difficoltà che mi trovo di fronte. Ho preso la patente a vent’anni: l’unica prescrizione è che devo guidare automobili con il cambio automatico. Vado in bicicletta con un manubrio modificato e riesco a frenare entrambe le ruote con una sola leva; in inverno vado a sciare, nuoto, ho giocato a tennis e in questi ultimi anni ho l’hobby della falegnameria. Posso confermare che se hai qualcuno vicino che ti sprona a fare di tutto, anche se con molta più fatica degli altri, crescerai senza sentirti diverso da loro.
Data dell'intervista: 20/03/2020 Modalità di realizzazione: dal vivo Intervistatori: Tommaso Sannicolò, Lorenzo Scottini Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a ENZO DORIGHELLI, protocollista d’ufficio con ipoacusia
“Le persone devono solo imparare ad ascoltare…” Hai riscontrato problemi nel trovare lavoro? Per fortuna in Trentino tutti i disabili sono seguiti da assistenti dell'agenzia del lavoro. Loro ti aiutano inizialmente facendo tirocini o brevi periodi di lavoro. Sicuramente non siamo agevolati nel trovare il lavoro, ma la provincia ci aiuta con il sostegno di interpreti durante la fase iniziale di inserimento nel mondo del lavoro. Come hai vissuto l’esperienza scolastica? Alle elementari e medie è stato molto difficile perché la mia famiglia ha dovuto farmi assistere da un insegnante di sostegno, poi sono andato a fare le superiori in un istituto solo per sordi e lì le cose sono molto cambiate perché tutti parlavamo la stessa lingua e capivamo. I nostri insegnanti nonostante fossero udenti conoscevano bene il linguaggio dei segni e questo mi ha aiutato molto per poter continuare a studiare ed ottenere il diploma. Come ti trovi nel relazionarti con le persone? Sicuramente è molto difficile perché fino a quando non ti conoscono e ti ascoltano seriamente non riescono a capire i suoni della mia voce. Poi tutto viene molto più semplice. Ti sei mai sentito escluso? Vivendo in un mondo di udenti sicuramente non è facile e succede sempre di sentirsi messo da parte. Succede anche in un semplice ritrovo tra amici di sentirsi un po’ escluso, ma per fortuna ho un carattere forte e non ci faccio più caso. Cosa potrebbe migliorare la società secondo te? Le persone devono solo imparare ad ascoltare chi hanno di fronte, loro che possono. Fino ad allora non migliorerà niente. Data dell'intervista: 27.03.2020 Modalità di realizzazione: e-mail Intervistatori: Eleonora Benedetti, Greta Bolognani, Laura Caloi Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a MASSIMO GALIAZZO, educatore e vicepresidente dell’Associazione Equilibero Padova
“Una persona deve manifestarsi pienamente a se stessa, non come il gigante dei suoi sogni o il nano delle sue paure.” Che rapporto ha con le persone che fanno parte di questa associazione, o per meglio dire, comunità? Da quando ho fatto il servizio militare ho iniziato a lavorare nelle comunità di tossicodipendenti, poi nel 2008 ho fondato un’associazione per la montagna con progetti basati sul contatto della natura. Lavoro per una comunità minore, ma anche per altre due comunità maggiori il cui target è la dipendenza. Le comunità in genere fungono come una famiglia per queste persone, rispetto al mondo in cui erano abituati a vivere, in modo sregolato; esse impongono regole e le rendono molto contenitive. Talvolta quel contenitore lo odiano ma lo cercano, perché loro non sanno darsi le regole. Il percorso più lungo è quello madre-bambino, che può durare anche 6 anni. Quando si esce da queste comunità si diventa adulti e si cerca di ricostruirsi una vita. Le vite dopo queste comunità sono le stesse di una normale persona, ovvero cercare un lavoro, innamorarsi, cercarsi una casa e sopportare lo stress. La cosa curiosa è che si pensa sempre alle dipendenze da sostanze chimiche, ma esistono quelle che oggi prendono il nome di dipendenze patologiche: anche se togli le sostanze, rimane l’ossessione. Cosa rappresenta per lei la montagna e cosa rappresenta per i malati? La montagna è la mia passione e ho potuto trovare in essa dei modi di curare me stesso. Quando vedo la montagna mi sembra una cosa altissima. I tossicodipendenti pensano: non la raggiungerò mai, è troppo alta e io non posso farcela. Ma poi si scopre che bisogna entrarci in contatto e, quando lo si fa, ci si ricorda che siamo piccoli ma non siamo e non saremo mai insignificanti. Questo piccolo tentativo di toccarla, di iniziare a prenderci confidenza, ci fa capire che prima o poi ce la si può fare. È curioso il fatto che anche qua c’è il rapporto tra invincibilità e fallimento. Questa cosa la raccontano anche le leggende delle Dolomiti, in cui i proprietari delle montagne sono dei nani. Un altro problema è che a volte si pensa di essere i re del mondo. Bisogna invece pensare che le montagne non possono essere possedute, sono fatte per passarci una giornata o un pomeriggio, ma non ci si può abitare. Lei parla di invincibilità. Ma che rapporto hanno, in realtà, con la marginalità, con la fragilità? Quando a 26 anni sono entrato in contatto con loro, ho notato che l’invincibilità ed il fallimento vanno a braccetto. La fragilità non va vinta, ma va superata. Per questo molte persone entrano nell’uso di queste sostanze. Per esempio, se mi piace una ragazza anche
se ho paura vado là, la conosco e magari ci potremmo volere bene. Ma se non succedesse? Alcuni pensano: mi tiro una pasticca, bevo e mi ubriaco, ma alla ragazza magari piacevo così, e non le piaccio più ora; poi che cosa ho risolto. Inoltre le droghe creano vere e proprie illusioni: la cocaina genera ad esempio la sensazione di invincibilità sessuale, ma rende impotente. Una persona deve manifestarsi pienamente a se stessa, non come il gigante dei suoi sogni o il nano delle sue paure. Non perde mai la fiducia quando i malati non la ascoltano? Perdo tante volte la fiducia, e a volte mi chiedo mai se funzionerà. Quando ero più giovane avevo molta speranza. Oggi invece è come camminare; si vorrebbe arrivare in cima alla montagna subito, ma bisogna farlo passo per passo. Quando perdo le speranze, capita che i malati tirino fuori il meglio di loro. Alcuni ragazzi che ho incontrato erano diventati dei manipolatori, ed ora sono dei commercianti o delle guide turistiche. Una frase simbolica è: se zoppichi non è una cosa bella, ma se zoppichi con stile è un gran vantaggio. Oggi uno degli obiettivi dell’Agenda 2030 è riuscire a far sentire le persone con fragilità/disabilità sempre più incluse. Che cosa vuol dire per lei inclusività? Quando sono in montagna sento che essa include tutto, compresi noi, nonostante la inquiniamo e la sfruttiamo. Ci fa capire che le difficoltà possono essere sempre superate e che la casa non sono le quattro mura che ci circondano ma sono le cose che ci danno sicurezza. L’inclusività è riuscire a vedere i problemi non come una condanna ma come una montagna da superare.
Data dell'intervista: 28/03/2020 Modalità di realizzazione: videoconferenza in Skype Intervistatori: Lanaro Martino, Lorenzo Schmidt Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a ELENA VALLORTIGARA, Carabiniere scelto dell’Arma dei Carabinieri e campionessa italiana di salto in alto
“...per questo non ricordo nemmeno se qualcun altro mi abbia mai detto che non ce l’avrei fatta…” Come ti senti quando fai sport? Mi sento libera, soprattutto di testa. Da atleta passo la maggior parte del mio tempo a prendermi cura di me, che sia dal fisioterapista, con il cibo, il sonno ecc., qualsiasi azione si riflette sul mio benessere. Ma l’allenamento è proprio il mio momento, lascio tutto fuori, indipendentemente da quello che sta succedendo, a livello personale o generale. Muovermi per me è un’esigenza che penso non si spegnerà mai, perché è tra le cose che mi fa stare meglio in assoluto. Ti hanno mai detto che non ce l’avresti fatta? Mi è stato consigliato di prendere altre strade, nel momento in cui erano già tanti gli anni di problemi e pensare di tornare ad alto livello cominciava davvero ad essere un miraggio. Mi è stato detto comunque da persone che mi vogliono bene, ed è un’opzione che ho considerato, ma qualcosa dentro di me mi diceva di provare ancora. Sono felice di aver seguito i miei pensieri, ma ringrazio coloro che per il mio bene psicofisico mi ci hanno fatto riflettere ancora di più. Tendo ad ascoltare e a prendere in considerazione solo i commenti di chi mi conosce davvero e mi vuole bene, per questo non ricordo nemmeno se qualcun altro mi abbia mai detto che non ce l’avrei fatta. Chi è/sono la/le persona/persone che ti ha/hanno sostenuta in particolare? La mia famiglia, il mio Gruppo Sportivo, come dicevo prima, sia la Forestale che i Carabinieri, e i miei amici. È stato fondamentale avere uno stipendio in questi anni perché se anche i miei risultati si sono fermati, così non è stato per il mio impegno. Chi pratica sport sa quanto sia dispendioso, soprattutto quando ci sono infortuni di mezzo. Inoltre, mi sono trasferita varie volte, cercando il posto migliore per allenarmi, e senza il supporto economico non sarebbe stato possibile. Ricordo tante telefonate con la mia famiglia e i miei amici, soprattutto nei momenti più bui. Anche loro mi hanno aiutata molto a conoscermi meglio. Come concili la tecnica con la passione? Quale delle due predomina di più? Tendo ad essere molto precisa, ma alla fine prevale sempre la passione, l’istinto. Senza quello non sono io, non riesco a saltare quando devo pensare troppo alla tecnica. In allenamento sono molto concentrata sui miei movimenti ma in gara tutto deve venire
naturale, è appreso quindi fluido. Devo sempre lasciare spazio al mio desiderio, alle mie sensazioni A cosa pensi l’attimo esatto prima di saltare? A dire il vero non penso a niente. Sono totalmente concentrata sulla rincorsa quando mi preparo a saltare, ma appena prima di partire stacco la mente e parto. È un momento particolare, non saprei come descriverlo perché è come se tutte le mie percezioni si sospendessero, soprattutto in gara. È quasi magia per me, mi sento fortunata a vivere queste emozioni, che spesso do per scontate, essendoci così abituata, ma che conservo e conserverò per sempre perché davvero uniche
Data dell'intervista: 16/04/2020 Modalità di realizzazione: e-mail Intervistatori: Alion Aliraj, Andrea Consolati Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a AYOMIDE FOLORUNSO, ostacolista e velocista italiana
Passione e ambizione Essere donna ti ha creato delle difficoltà nell’ambiente sportivo? Quali e come le hai gestite? Ricordi un episodio particolare? In realtà non tantissimo. L’atletica è uno sport abbastanza democratico che dà pari opportunità a ragazzi e ragazze nell’esprimersi. Da piccola mi capitava spesso il confronto con i maschietti che mi stimolava molto di più rispetto a quello con le mie coetanee ma, crescendo, ho cominciato ad apprezzare la diversa fisiologia. Comunque il mio allenatore preferisce allenare le femmine rispetto ai maschietti, quindi, è un punto a mio favore. Quello che apprezzo sempre meno è la grande oggettificazione del corpo femminile, rispetto a quello maschile, ma questo è un discorso di più ampio respiro. Invece, il fatto di provenire da un altro Paese? Provenire da un altro paese in verità mi ha spalancato porte perché l’etnia africana è considerata apparentemente favorita dal punto di vista delle doti atletiche. Questo, in realtà, ho scoperto essere un piccolo mito perché quello che fa la differenza a lungo andare è l’impegno, la costanza e il lavorare bene; di talento ne è pieno il mondo. Che emozioni ti dà il fatto di essere campionessa europea? È un sogno che ho inseguito per due anni durante la mia carriera giovanile e al momento giusto, al di là delle mie aspettative e congetture, si è realizzato. È stato una gran bella soddisfazione chiudere così in bellezza la parte giovanile della mia carriera. Quando hai raggiunto il tuo obiettivo te ne sei imposta un altro? Se si quale? Oppure che cosa hai fatto? Quello che ho realizzato fino ad ora sono stati dei piccoli obiettivi lungo un ideale percorso di crescita lungi dall’essere al termine. Dopo una vittoria e la grandissima esaltazione che ne deriva cerco di ri-usarla come motivazione per caricarmi per il prossimo obiettivo. Sono nella categoria senior ormai da qualche anno e vincere non è così facile o scontato come prima; anzi si lavora il doppio per migliorare il proprio personale anche di pochi centesimi. Quanto quello che fai è ambizione e quanto invece, è passione? Che cosa pensi della parola improvvisazione? Credo siano molto intrecciate nel mio caso, anzi si alimentano a vicenda: l’ambizione alimenta la mia passione come la passione spinge continuamente la mia ambizione. Per me vuol dire lanciarsi di corsa verso un ostacolo senza avere chiara idea se lo scavalcherò con la gamba destra o sinistra o quanti passi farò in mezzo tra gli ostacoli. Può finire bene o non molto bene.
Data dell’intervista: 8/05/2020 Modalità di realizzazione: via mail Intervistatori: Alzif Yassire, Trainotti Roberto Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a GAIA MERCURIO, studentessa
Una vita piena di energie Sabato 22 febbraio, ore 12:45. Di fronte alla pizzeria Pedavena stiamo aspettando Gaia Mercurio, la ragazza che uno di noi ha conosciuto per caso due settimane fa. Lei ci spiegherà come si sente una persona nella sua condizione. Gaia, infatti, è una ragazza di 15 anni nata con una specie di deformazione ad entrambe le mani. Trascorre la sua vita indossando delle protesi, ma non sono certo queste a frenare i suoi desideri. Abbiamo scelto lei perché, data l’età simile alla nostra, ci avrebbe potuto aiutare a capire come, in realtà, persone che consideriamo semplicemente disabili, abbiano delle vite normalissime, come le nostre. Ciao Gaia, raccontaci un po’ di te e di ciò che ti piace fare nel tempo libero. Ho 15 anni, abito a Trento e frequento la seconda superiore al Liceo artistico. Mi piace molto nuotare e mi alleno ogni giorno dal lunedì al venerdì, mentre il sabato pomeriggio frequento l’associazione Scout. Inoltre, faccio parte di un bellissimo gruppo per ragazzi: Art4sport. Ne avete mai sentito parlare? No. Che tipo di gruppo è? È un’associazione di ragazzi portatori di protesi di arto, che si pone l’obiettivo di promuovere l’integrazione di questi ragazzi nella società, regalando loro protesi e aiutandoli nella pratica sportiva. Quest’ associazione è stata creata da Bebe Vio e organizza diverse attività in giro per l’Italia. Ad esempio, a gennaio siamo andati a sciare a Cortina d’Ampezzo, mentre ad aprile andremo a Fiumicino in qualità di ospiti Alitalia Training Academy per fare un addestramento relativo a prove di ammaraggio, regole di sicurezza, ecc. La cosa bella è che non si fa solo sport ma si gioca anche, e ci si diverte soprattutto. Grazie a questo gruppo ho anche conosciuto persone importanti come Simona Atzori, una ballerina che è riuscita a realizzare il suo sogno di diventare una danzatrice, nonostante sia nata senza braccia. Che bello! Ma invece per quanto riguarda il tuo problema, pensi che sia veramente una disabilità oppure no? Per me non è una disabilità. Posso fare tutto quello che voglio (pur avendo solo 2 dita): nuoto, vado a cavallo, faccio i compiti. Ho una vita assolutamente normale. Abbiamo notato che indossi una protesi nella mano sinistra. Ti possiamo chiedere se è utile e se ti trovi a tuo agio?
In realtà ho 2 protesi e mi trovo bene con entrambe. Questa che vedete nella mia mano sinistra è una protesi estetica ed è fissa, nel senso che non mi permette di muovere le dita. Quella che ho a casa invece, è una protesi mioelettrica che mi dà maggiore autonomia perché muove il pollice e l’indice. Per questo quando faccio sport indosso quella mioelettrica, mentre nella quotidianità preferisco tenere quella fissa. Comunque devo dire che sono fortunata perché la provincia di Trento, fino ai 18 anni, mi mette a disposizione le protesi di cui ho bisogno. E dopo i 18 me ne fornirà gratuitamente una all’anno. Hai già pensato cosa vorresti fare da grande? Diciamo che ho in mente 3 diversi percorsi di studio: scenografia, archeologia oppure studiare Belle Arti in Accademia. Ma sono ancora indecisa. Ah beh hai ancora tempo per pensarci. Intanto ti auguriamo di fare tante belle esperienze e di essere sempre felice come sei stata oggi con noi. Grazie mille per la tua disponibilità! È stato un piacere conoscervi e fare due chiacchiere con voi! Grazie a voi!
Data dell’intervista: Trento, 22/02/2020 Modalità di realizzazione: dal vivo. Intervistatori: Delia Anton, Damiano Chemotti, Matilde Mezzanzanica, Vera Violante Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MA
Intervista a AYOMIDE FOLORUNSO, ostacolista e velocista italiana
Quello che posso fare da sola non fa niente contro la barriera che ho davanti Quando sei arrivata qui in Italia ci sono stati problemi di razzismo o di esclusione nei tuoi confronti? Quando sono arrivata, ormai quasi 16 anni fa, l’Italia era un po’ diversa almeno economicamente: quando le persone stanno abbastanza bene di solito non cercano capri espiatori per il loro disagio. Ho conosciuto/vissuto indirettamente episodi di razzismo già allora, ma sono sempre stata fortunata di vivere in una realtà tutto sommato protetta: una piccola cittadina e la realtà sportiva abbastanza accogliente. Se fossi arrivata in Italia di questi tempi credo che la mia storia sarebbe stata un po’ diversa. Non mi ricordo episodi di esclusione o di razzismo particolari, ma sicuramente ci sono state situazioni spiacevoli dovute all’ignoranza rispetto alla mia cultura; l’ho presa abbastanza con filosofia, con il sorriso e molta autoironia. Ma non ti arrabbi quando non capiscono neppure come chiamarti? Come pronunciare il tuo nome? Qualche volta sì ma solo se sono già di malumore; spesso non ho proprio energie da sprecare in tal senso ed anzi ci rido su. Così va il mondo: come il mio nome può risultare difficile da pronunciare per qualcuno, così il nome di qualcun altro può risultare difficile anche per me. Cerco di usare questa sensibilità verso gli altri. Quello che mi dà molto fastidio è certamente quando si persiste volutamente, in cattiveria, a storpiare il mio nome, ma questo capita molto raramente per fortuna: ho un bel nome e spesso uso l’abbreviativo “Ayo” che va bene per tutti in qualsiasi salsa di accento. Che cosa significa per te marginalità? Quando ti senti fragile? Marginalità è quando si è esclusi da certe cose, a priori, perché qualcuno ha deciso di scegliere per te in base a dati non oggettivi, senza darti alcuna voce in capitolo o considerazione, soprattutto se, questa cosa da cui si viene esclusi, potrebbe dare un qualche beneficio. È un atto estremamente ingiusto. Mi sento fragile quando mi accorgo che il mio potere o le mie competenze, da soli, possono fare ben poco contro la barriera che mi trovo dinanzi. Allora cerco di appellarmi ad un potere superiore, può essere un’altra persona che ha maggiori capacità di me che può aiutare ma spesso e volentieri entra in gioco la mia fede e mi appello a Gesù Cristo. Di solito uso entrambe le strategie. L’unione fa la forza. Cosa vogliono dire per te le parole sacrificio; volontà; difficoltà? Sacrificio vuol dire farmi una lista di priorità e rinunciare a cose che mi distolgono o non mi aiutano a realizzare il mio obiettivo al di là della piacevolezza della cosa. Volontà è un muscolo che si allena ogni volta che si sceglie qualche cosa rispetto ad un’altra, va di pari passo con disciplina.
Difficoltà è un ostacolo davanti a me, posso ignorarlo e rimanere dove sono oppure affrontarlo e cercare modi di superarlo ed andare oltre... verso il prossimo ostacolo. Hai raggiunto degli importanti e gratificanti obiettivi. Ma quando il sogno diventa realtà, che si fa? Penso che in realtà sia un momento delicato perché dopo grandi alti si può avere anche un momento di piccola depressione. Bisogna scendere necessariamente dal picco euforico e ritrovare uno stato di calma e ri-motivarsi per il prossimo obiettivo. Data dell’intervista: 03/05/2020 Modalità di realizzazione: via mail Intervistatori: Alion Aliraj, Andrea Consolati Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a MICHELE ZAMBELLI, educatore professionale
“La delicatezza del poco e del niente “ Come è stata la prima esperienza e il primo impatto ad interagire con persone con disabilità? La prima esperienza con la disabilità è stata grazie al primo anno di università, (Educazione Professionale), attraverso un tirocinio svolto presso CDD, (Centro Diurno Disabili). Ricordo che mi presentai agli utenti, ero molto tranquillo, anche se in mente, di tanto in tanto quando incrociavo il loro sguardo, tra me e me mi veniva da pensare “poverini” con un velo di tristezza, ma nello stesso momento mi ponevo alcune domande, alle quali ai tempi non sapevo rispondere, per esempio: loro stessi si sentiranno davvero “Poverini”? Saranno consapevoli della propria disabilità? Molte volte li percepiamo come se vivessero limitati, ma può essere che loro stessi non si sentano tali o che comunque non percepiscano questi limiti in se stessi? Con il percorso svolto durante il tirocinio e molte altre esperienze di volontariato svolte in Italia, Croazia, all’estero ho notato però che bisogna andare oltre quel “poverini” che ci vien da pensare quando li guardiamo, perché non lo sono, perché loro stessi non si sentono tali, quindi perché noi dovremmo definirli tali? Piuttosto mi vien da pensare che forse siamo noi quelli che si stanno limitando, perché non ci concediamo di porgere la mano all’altro/a, di guardare negli occhi chi abbiamo di fronte, di conoscere che c’è altro da noi, di capire che è nella diversità che nasce e risiede la meraviglia. Vivendo e vedendo realtà diverse c’è mai stata un’esperienza che ti ha toccato nel profondo?
fatto riflettere e
L’esperienza che più mi ha fatto riflettere e toccato nel profondo è stato il periodo di volontariato in Africa, in Mozambico. Descriverei quel periodo con la parola “luce”, perché in tutto ciò che ho visto in Africa ho visto luce, e mi piace pensare che un po’ di questa luce possa essere stata donata anche a me nel tempo trascorso là. Aver avuto la possibilità di andare in Africa è stata come una vera e propria rinascita, ho visto e compreso come dal poco e dal nulla possa nascere ogni cosa, come nei piccoli gesti, sorrisi, sguardi si trovi tutto ciò di cui si ha davvero bisogno. La luce che quest’esperienza mi ha dato è una luce che riempie ogni momento che vivo giorno dopo giorno anche qui. Trovo difficile esprimere le emozioni provate, descrivere i momenti passati, posso semplicemente dire: grazie Africa! È difficile tenere lontane le proprie emozioni da ciò che ti succede sul lavoro, che in qualche modo possono influenzare anche la tua vita al di fuori del lavoro?
Qualsiasi cosa che accade può darci degli spunti, l’incontro con l’altro solleva sempre qualcosa, può toccare delle corde dentro di noi che richiamano determinate emozioni anche del nostro vissuto personale. Non credo quindi sia una questione di “facile” o “difficile” distanziarsi dalle emozioni che proviamo, credo invece che sia importante, soprattutto durante il lavoro, capire perché determinate emozioni e sensazioni, derivanti dalla relazione con coloro con cui entriamo in contatto, riaffiorino in modo più o meno forte, facendoci talvolta perdere l’intento del lavoro che stiamo facendo, e influenzino la nostra vita anche al di fuori dell’ambito lavorativo. Vi è la necessità di mettersi in una posizione di disponibilità, tramite cui poter tirare fuori quello che si ha dentro e riconoscere che oltre a noi stessi c’è anche l’altro. Se ci imponiamo di distanziarci e cerchiamo di nascondere le nostre emozioni, c’è il rischio che non riusciamo a capire quello che l’altro sta cercando di dirci, c’è il rischio che quelle stesse emozioni, che in un primo momento abbiamo cercato di sopprimere, sovrastino poi la relazione stessa. È fondamentale quindi accettare di provare delle emozioni come paura, rabbia, tristezza, gioia, felicità, incertezza senza però sentirci in difetto, bensì provando a “dare un nome alle cose”, a ciò che proviamo, ponendoci in una posizione di ascolto verso l’altro e verso sé stessi, così facendo riusciremo a capire perché quella determinata situazione ci ha portato a provare determinate emozioni, elaborarle e scorgere ciò che l’altro ci sta comunicando. Come è stato emotivamente affrontare persone con disabilità rispetto a persone che nel mondo sono “nascoste” come chi ha subito violenze oppure ha dipendenze? Personalmente non ritengo che chi ha subito violenza, così come coloro che vivono in situazione di dipendenze, siano persone “nascoste”, bensì, come nel caso della disabilità, sono aspetti che vanno affrontati in maniera differente. Ho avuto la possibilità di conoscere personalmente attraverso tirocini, lavoro o esperienze di volontariato ognuna di queste tematiche e ognuno di queste fa emergere dentro di me emozioni contrastanti. Il problema, la patologia o ciò che hanno subito è l’elemento che più si rende evidente, e che talvolta ci fa agire, produrre una risposta, dare un giudizio a priori, credendo anche di sapere cosa sia “giusto per lui/lei”, ci fa credere di sapere quale sia il suo bene, senza considerare però che ciò che per noi rappresenta il suo “bene”, può non coincidere con il bene stesso della persona. La persona è un bene troppo prezioso che non può essere messo da parte o vista solo per la sua sofferenza, malattia o disagio. Vi è la necessità di avere uno sguardo che sappia andare oltre ciò che appare, che sappia tirar fuori le potenzialità, piuttosto che sottolineare le eventuali mancanze. Per concludere, un elemento che può mettere in comune le tematiche riprese nella domanda, può essere la parola crisi, alla quale possiamo attribuire due accezioni: la prima, un momento negativo che indica il peggioramento di una situazione, la seconda un momento positivo, proprio perché è all’interno di una crisi sulla quale abbiamo la possibilità di riflettere, di discernere, abbiamo un’opportunità, quella di reagire.
Che atteggiamenti bisogna avere nei confronti delle persone che ti trovi di fronte, cambi il tuo atteggiamento o mantieni sempre lo stesso approccio? Credo che ognuno di noi, indipendentemente da chi abbia di fronte, adotti una tipologia di atteggiamento diverso da contesto a contesto. Detto questo se ci si riferisce ad un atteggiamento durante il proprio lavoro, credo che dipenda da tantissimi fattori, così come la relazione educativa che si instaura tra educatore ed educando sia diversa da persona a persona, da servizio a servizio e dal contesto e dalla situazione in cui ti stai trovando. È importante però che durante il proprio lavoro si abbia un atteggiamento che ti porti ad assumere la responsabilità del perché si è lì, di ciò che si sta facendo, proprio perché si deve avere ben chiaro quale sia il proprio intento e il mio ruolo all’interno di quel contesto, altrimenti si rischia di creare confusione sia a noi stessi che a coloro che abbiamo di fronte.
Data dell’intervista: 24.04.2020 Modalità di realizzazione: videoconferenza Intervistatori: Carlotta Zambelli, Elisa Cecchini Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a ELENA VALLORTIGARA, Carabiniere scelto dell’Arma dei Carabinieri e campionessa italiana di salto in alto
Fragilità è incertezza, ma anche forza… Com’è nata la tua passione per questo sport? I miei genitori mi hanno portato allo stadio di Schio, quando avevo 8 anni. Dopo aver fatto altri sport sempre in ambienti chiusi, hanno optato per uno all’aria aperta. Quello che mi è piaciuto da subito è l’estrema varietà dell’atletica leggera, con tutte le discipline che compongono questo sport: c’è davvero spazio per tutti; il fatto di essere protagonista, per l’individualità della propria attività e per il fatto che questa non sia subordinata alla decisione di altri; ne consegue (ed è una caratteristica che apprezzo) l’avere una pressoché totale assunzione di responsabilità, nel bene e nel male. Il salto in alto, in particolare, mi ha attratta fin dalle prime prove: nonostante l’elevato contenuto tecnico, saltare mi riusciva naturale e anche bene. Perciò l’ho sempre preferito alle altre specialità. Sono sempre stata un’agonista e vincere alle gare e riuscire a misurarsi spesso con i propri limiti mi dava grande soddisfazione. Hai mai pensato di mollare, per alcuni problemi? Assolutamente sì. La prima volta è stata circa a 15 anni, dopo aver stabilito il nuovo record italiano cadette. Il motivo era che in generale venivo riconosciuta più per “la Vallortigara quella che salta” che per “Elena - e basta”. È stato faticoso riuscire ad integrare questi due aspetti della mia vita, quello personale e quello (che poi è diventato) professionale. Ricordo di essere andata anche per la prima volta da una psicologa, per riuscire a gestire al meglio questa situazione che mi faceva soffrire. Altre motivazioni per smettere sono stati gli infortuni, o meglio il fatto di non vederci chiaro, di avere paura che la mia convinzione di riuscire a tornare a saltare alto fosse, in realtà, solo un’illusione. A questo proposito devo ringraziare chi mi è stato vicino e mi ha sostenuta, concretamente e moralmente, in particolare la mia famiglia e il Gruppo Sportivo Forestale, poi accorpato al Centro Sportivo Carabinieri. Da sola non ce l’avrei fatta. Essere donna ti ha creato delle difficoltà nell’ambiente sportivo? Quali e come le hai gestite? Ricordi un episodio in particolare? Non posso parlare di vera e propria difficoltà nella mia esperienza personale, ma c’è sicuramente una palese divergenza di atteggiamento nei confronti delle donne. Per quanto riguarda l’aspetto fisico, lo sguardo al mondo maschile è molto più incentrato sulla performance che sull’estetica, succede il contrario per il mondo femminile. Un grosso passo in avanti fatto recentemente è stato quello, grazie ad un’atleta americana, di differenziare i contratti di sponsorizzazione, considerando la possibilità di gravidanza per
una donna e, quindi, riconoscendo che uno stop dell’attività poteva avere anche gravi ripercussioni sui guadagni della stessa. Che cos'è per te la fragilità? Fragilità è incertezza, ma anche forza. Ognuno di noi ha dei punti deboli, delle aree fragili, ma la consapevolezza per me è tutto. Esserne a conoscenza mi rende più forte, perché so su cosa devo lavorare, e quindi migliorare, oppure sfruttare in senso positivo. Parlo di fragilità sia a livello caratteriale che a livello fisico: so di essere sensibile, quindi, so che certe situazioni possono mettermi in difficoltà più di quanto succeda ad altri, ma so anche che questa mia caratteristica mi fa vivere tutto con intensità; così come a livello fisico so di avere delle zone fragili, come le caviglie, ma saperlo mi fa stare più attenta e mi fa concentrare di più con il lavoro. Apprezzo le mie fragilità perché mi piace la persona che sono e so di avere sempre margine di miglioramento. Cosa vogliono dire per te le parole sacrificio; volontà; difficoltà? Sacrificio non mi piace molto, preferisco impegno. Sacrificio per me implica un dover fare qualcosa che non mi piace, il sacrificio appesantisce. Nella mia vita l’unico momento in cui ho sentito le mie scelte come sacrifici è stato quando non avevo risultati, eppure volevo continuare ad essere ligia al dovere. In qualsiasi altro momento, ogni mese lontana dalla mia famiglia, ogni uscita con gli amici persa, ogni estate passata ad allenarmi, è stato solo una parte del mio impegno per ciò in cui credo, per raggiungere un obiettivo. La volontà è la forza, il desiderio profondo necessario a raggiungere qualsiasi obiettivo ci si ponga. Deve essere intrinseco, nessuno ci può convincere se non noi stessi. È il motore che ci muove. La difficoltà dipende dalla percezione di noi stessi e della situazione. Quando ho saltato 2 metri per la prima volta, e poi 2.02, sentivo che ce l’avrei fatta, non era difficile. Poco più di un anno, in un momento particolarmente buio per me, pensare di farlo mi sembrava la cosa più difficile del mondo. Stare bene con se stessi già fa vedere tutto molto più semplice.
Data dell’intervista: 16/04/2020 Modalità di realizzazione: e-mail Intervistatori: Hajar Mounib Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a ALESSANDRA MARIA DAL SOGLIO, logopedista
La nonna e la logopedia Che sensazioni si provano a lavorare con persone disabili? Lavorando con persone disabili, si cerca, per prima cosa di essere curiosi, di capire il paziente e di creare un rapporto con lui, perché ogni paziente è una scoperta; ognuno è unico e irripetibile. Lavorando con queste persone disabili, ci si arricchisce facendo una ricerca personale, per la quale si cresce a livello soggettivo. La cosa più importante è trovare una sintonia, cioè un'unione tra paziente e educatore, ma bisogna crearla, anche se in certi casi è più difficile. Con quali tipi di persone con disabilità hai lavorato? Ho lavorato con persone autistiche, sorde, persone affette da problemi specifici del linguaggio, sindrome di Down, sindrome di Williams e infine con persone spastiche. In cosa consiste il tuo lavoro? Come aiuti le persone? Il mio lavoro consiste in una rieducazione logopedica, che riguarda lo sviluppo del linguaggio verbale, ma in certi casi più gravi, il compito della logopedista è quello di trovare altri tipi di linguaggio, come quello gestuale, dei segni o primario, ad esempio con persone autistiche si cerca, soprattutto, un rapporto corporeo. Com’è stata la prima esperienza lavorativa? La prima esperienza è stata con i bambini spastici gravi. La prima richiesta che mi è stata fatta è stata quella di spogliare e rivestire una bambina spastica, per entrare in contatto con lei. È stato traumatico, molto difficile, perché la bambina era molto grave e fu così che capii che, come logopedista, non dovevo solo occuparmi del linguaggio, ma creare innanzitutto un rapporto fisico. Perché hai scelto di fare la logopedista? Inizialmente lavoravo come educatrice in una scuola materna, dove venni a contatto con una logopedista che lavorava lì e così mi incuriosii nei confronti della logopedia, tanto che mi iscrissi poi all’università di logopedia.
Data dell’intervista: 09/03/2020 Modalità di realizzazione: dal vivo
Intervistatori: Mariantonia Dorigato e Martina Toniolli Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a FUSI ALESSANDRA, maestra in una scuola d’infanzia
Percezioni diverse Innanzitutto, perché hai deciso di lavorare con persone disabili? Io faccio la maestra, e quest’anno mancavano delle maestre nella scuola in cui lavoro, io avendo la specializzazione per bambini con disabilità, ho chiesto di poter prendere come incarico questo posto. Sapendo delle condizioni del bambino, sono stata invogliata a prendere questo lavoro come una sfida e devo dire che è stata una bella esperienza. Lavorare con le “difficoltà” in generale è una bella sfida. Pensi che la disabilità sia conosciuta abbastanza o pensi che alcune persone vogliano evitarla? Secondo me ci sono tante persone che hanno paura, hanno pregiudizi nei confronti di persone soggette a disabilità. Sarebbe davvero opportuno fare esperienze con queste persone, perché lasciano tanto, offrono tante riflessioni sia positive che negative, tanti interrogativi a cui rispondere. Lavorare con persone disabili ha cambiato un po’ la percezione della tua vita? In che modo? Sicuramente sì. Ci si fanno molte domande sul senso della vita, principalmente si riesce a dare importanza alle piccole cose, a dei piccoli miglioramenti a cui solitamente non si fa caso. Anche vedere e notare cose semplici, come piccoli progressi, fa gioire. Come per esempio vedere un bambino con queste difficoltà che riesce a fare una cosa che a noi sembrerà banale è in realtà un traguardo altissimo. Hai mai provato emozioni facendo questo lavoro? All’inizio l’emozione è stata fortissima, perché gestire un bambino disabile che non si muove e dipende al cento per cento da te risulta responsabilmente strano. Dopo primo giorno di lavoro con questo bambino, tornando a casa mi tremavano le mani. Quando passa un po’ di tempo si impara a conoscerli e ci si abitua. Diciamo che solitamente sono emozioni molto forti all’inizio, a primo impatto, soprattutto per qualcuno che non ha mai lavorato con le disabilità, dopo “ci si abitua”. Per fare questo lavoro sicuramente bisogna metterci tanta passione, tanta emotività e umanità, questi sono elementi importantissimi. Cosa pensi di chi giudica queste persone? Prima di giudicare bisognerebbe conoscere e fare esperienza, non solo con le persone disabili, ma con tutte. Quindi bisognerebbe provare a relazionarsi con persone con
disabilità e capire che lasciano tanto, molto più di altre persone. Devo anche dire che a volte non è facile. Se non si sente questa “vocazione” a volte può essere difficile soprattutto per l’impatto emotivo. É una esperienza bellissima anche per chi sta attorno. Peccato che ora siamo a casa e io non possa andare a scuola a lavorare con il bambino.
Data dell’intervista: 27/04/2020 Modalità di realizzazione: videochiamata Intervistatori: Mjlla Franetovich e Massimo Bertini Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a STEFANIA CATAVELLO, insegnante di sostegno scuola professionale
Aspetto sociale di una persona con difficoltà Come interagisci con delle persone affette da difficoltà? Interagisco con normalità guardando le abilità e le qualità di una persona, tralasciando la disabilità. Con il tempo e l‘esperienza ho imparato a vedere oltre all’apparenza e ho capito che dalle persone soggette da difficoltà si può imparare molto. Tutti i ragazzi con difficoltà vengono inclusi allo stesso modo? La risposta dovrebbe essere sì, ma nella realtà che quotidianamente vivo non sempre è possibile; quella che può essere l’inclusione in una scuola superiore è molto differente rispetto all’inclusione che possiamo offrire in una scuola primaria, perché i bisogni e gli interessi possono diventare un ostacolo oggettivo. Il momento di maggiore inclusione è la mattina prima dell'inizio delle lezioni e durante le pause. La vera inclusione si trova in queste situazioni, in cui l'alunno può interagire con i compagni ed esprimere le proprie idee. La differenza tra un ragazzo con delle difficoltà e i suoi compagni di classe, è il bisogno di avere una persona adulta al suo fianco per ogni suo tipo di esigenza e difficoltà. Si può dire che l'inclusione dipende molto dal livello di disabilità di una persona. I ragazzi affetti da difficoltà più gravi rispetto ad altre, talvolta partecipano solo ad una parte di lezione per il bisogno di uscire, per avere più tranquillità. Bisogna trovare delle metodologie che possano funzionare per alcuni casi particolari, ad esempio trovando un oggetto di distrazione come una semplice corsa all’aperto. Nonostante segua un programma diverso, al ragazzo viene data comunque l’opportunità di partecipare alle lezioni assieme ai suoi compagni di classe. Il passaggio da medie a superiori è difficile dal punto di vista dell’integrazione, ma nonostante ciò i compagni riescono a comprendere immediatamente le sue difficoltà, e il metodo che può essere utilizzato per aiutarlo e interagire con lui. I genitori come vivono questa situazione? I genitori spesso hanno bisogno di essere ascoltati, di avere un appoggio e di non sentirsi soli. L’obiettivo comune è la felicità del proprio figlio. I genitori sono stanchi, perché a causa di questa situazione difficile sono messi alla prova ogni giorno. Per vivere situazioni di questo tipo bisogna essere forti e avere la capacità di mettersi sempre in discussione e in alcuni momenti risulta un vero e proprio lavoro. Tutto ciò richiede tempo e stimoli continui. Perché hai scelto di fare questo lavoro?
Ho scelto di fare questo lavoro perché da sempre il mio desiderio è stato quello di lavorare con persone diversamente abili. È possibile ricevere molte più soddisfazioni rispetto a qualsiasi altro lavoro, perché si vede la vita in maniera diversa, arrivando a cambiare le nostre priorità. Ho iniziato lavorando in una casa di malati di AIDS. Vedevo il mondo in maniera diversa e pensavo di poter fare qualcosa di più per le persone ma a causa di esigenze personali e non potendo più fare turni di notte, ho dovuto lasciare questo lavoro definitivamente. Con il tempo i bisogni cambiano e con loro anche le volontà e le priorità della vita. Il lavoro che può essere in una scuola è diverso da quello delle case famiglia o enti di questo tipo. Con che tipo di disabilità lavori o hai lavorato? Negli ultimi anni ho lavorato principalmente con ragazzini affetti da autismo. Questa perdita del contatto con la realtà diventa una sfida continua con loro ma anche con noi stessi; è un continuo provare ad entrare in relazione con loro. Non esiste certezza che ciò che oggi funziona domani potrà funzionare ancora. Quando però riesci a raggiungere anche il più piccolo obiettivo, tutta la fatica viene ripagata.
Data dell’intervista: 25.04.2020 Modalità di realizzazione: videoconferenza Intervistatori: Zoe Costi, Michelle Nardelli Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a PIERGIORGIO Cooperativa La Rete, Trento
SILVESTRI,
educatore
professionale
presso
la
La relazione come strumento di crescita Come si sente quando aiuta qualcuno in difficoltà? Sono convinto che la relazione sia reciprocità, quindi, ognuno contribuisce secondo le proprie possibilità. Non posso dire che sia solo io o i volontari ad aiutare le persone con disabilità; anche loro contribuiscono alla crescita agli obiettivi comuni e, di conseguenza, alla relazione Parlo di relazioni personali ma anche di relazioni con il contesto. Ci sono inoltre delle relazioni che ho con persone con disabilità in cui la persona con disabilità fornisce idee e contributi alla società in misura maggiore di quanto possa fare io. Vi faccio qualche nome: Piergiorgio Cattani, Clara Lunardelli, Graziella Anesi, Claudio Imprudente, Gianluigi Rosa, etc… Non vi nascondo inoltre che una buona relazione richiede anche capacità e competenze personali che si sviluppano e si allenano e che, per quel che mi riguarda, curo quotidianamente (aggiornamenti e formazione continua).» Secondo lei la società fa abbastanza per le persone disabili, se no cosa possiamo fare? La comunità è il luogo dove ognuno di noi vive, interagisce ed ha un ruolo. È opportuno che ognuno di noi si spenda per migliorare le condizioni di vita dei suoi componenti. Vi sono buone prassi che possiamo mettere in pratica così da essere inclusivi.» Cosa significa per lei marginalità e cosa possiamo fare per depistarla? Ognuno di noi ha occasione per incontrare persone diverse nei vari contesti di vita. La relazione come già detto è occasione di crescita reciproca e, in quest’ottica, superare la paura ed il pregiudizio sono azioni fondamentali. Stare vicino alle persone con disabilità, fare attività sul territorio, e con il territorio, sono un ottimo punto di partenza. Alcuni elementi chiave dei nostri interventi sono: curare il coinvolgimento, fare rete e supportare le persone (volontari, persone con disabilità e famiglie). Quando ha iniziato a fare parte dell’associazione ha avuto difficoltà a comunicare con le persone con queste difficoltà? Le difficoltà ci sono state e ci sono ancora oggi, ma non sono mai state un problema sostanziale per il centro della relazione con l’altro. Ognuno di noi ha dei limiti e delle potenzialità; è necessario darsi del tempo e accettare che possiamo sbagliare e imparare dai nostri errori. Ci sono anche molte persone da cui prendere esempio e imparare da loro, è necessario mettersi in gioco. Che cos'è per lei la fragilità? Lei è d'accordo quando si dice che le fragilità interiori a volte sono più sofferenti di quelle visibili? Ritengo che ognuno di noi abbia delle fragilità e che sia necessario attivare le risorse
personali e sociali. Spesso nel lavoro con le persone con disabilità è necessario chiedere collaborazione ed aiuto a più attori. La sofferenza è strettamente legata alle percezioni personali. Non farei una scala di valori rispetto ad essa mantenendo il rispetto verso l’alto.
Data dell'intervista: 4/05/2020 Modalità di realizzazione: via mail Intervistatori: Anzelini Alessandro, Bydi Ahmed, Marsilli Federico Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 1 Sezione: EM Scienze applicate
Intervista a PERSONA CHE PREFERISCE RIMANERE ANONIMA, impiegato
Di fronte al buio Lei all’età di 20 anni si è trovat* di fronte alla diagnosi di retinopatia. Qual è stato l’impatto che ha avuto e come ha gestito la malattia? Immediatamente dopo la diagnosi la sensazione che ho provato è stata di totale smarrimento e confusione. I primi tempi sono stati davvero difficili… ho attraversato un periodo nel quale ho dovuto prendere in esame la mia vita, e ci ho messo un po’ ad accettare la situazione. È stato impegnativo, e in determinati momenti lo è tuttora. Mi capita qualche volta di abbandonarmi allo sconforto o di avere una crisi, ma poi cerco sempre di riprendermi. Come si è evoluta la sua vita da quel momento in poi? Ho dovuto abbandonare le mie passioni e le mie aspirazioni. Per me l’arte significava davvero molto, e ovviamente non ho potuto continuare per quel percorso. Lavoro come impiegat* per la Provincia ora, con l’aiuto della sintesi vocale utilizzo i diversi dispositivi elettronici. Non mi soddisfa, ma mi sono dovut* accontentare. Oggi comunque ogni tanto provo a dipingere, ma non ha più lo stesso significato che aveva allora. Ho dovuto anche avviare un processo di accettazione delle difficoltà e constatare che non potevo più essere totalmente autonom* e indipendente. In che maniera sono cambiati i suoi rapporti con le persone nel tempo? I miei rapporti sociali sono stati molto influenzati dalla mia malattia. Inizialmente, al momento della diagnosi, per un periodo ho provato totale repulsione nei confronti delle persone… Ponevo un muro tra me e chiunque altro. Non sopportavo l’idea di avere bisogno di aiuto inizialmente. Poi invece le relazioni non hanno fatto altro che migliorare, anzi, ad esempio non ho più avuto a che fare con il pregiudizio causato dall’aspetto fisico, e con il prossimo instauro un rapporto più profondo.
Data dell’intervista: 27/04/2020 Modalità dell’intervista: chiamata telefonica Intervista realizzata da Michela Gadotti Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a LUCILLA CENSI, referente del progetto “Accordi”
La pratica della musica in relazione alle disabilità. Accordi Armonici Com’è nato il progetto “Accordi”? Il progetto Accordi fa riferimento alla metodologia ESAGRAMMA di Milano e successivamente al Progetto orchestra di AllegroModerato sempre di Milano. Fa inoltre parte de “il Sistema” di Claudio Abbado. Il progetto è nato con l’idea di utilizzare la musica per il recupero di qualsiasi tipo di disabilità, ma anche come modalità di sviluppo per la relazione tra le persone, perché la musica è un veicolo importantissimo, infatti suonando con gli altri ci si capisce senza dover nemmeno parlare e spiegare. Attraverso le emozioni e le sue modalità di trasmissione la musica permette questo tipo di attività immediata ed è questo il segreto del nostro progetto. Il progetto muove dall’idea di Abreu, un direttore d'orchestra Venezuelano, ulteriormente rivista da Sequeri di Esagramma, che anni fa si è interessato alle favelas e ai bambini della strada, iniziando quindi a raccogliere i bambini e a farli suonare. In questo modo i bambini hanno incominciato a stare insieme in un altro modo, che non era più quello della strada ma di stare insieme per fare qualcosa di gratificante ed importante. Esistono altri progetti simili in Italia? Così no. Esistono però progetti di musicoterapia di tantissimi tipi, alcuni più validi e altri meno, e anche noi ci siamo posti il problema della denominazione “musicoterapia”. Abbiamo un’inflazione delle parole e delle terminologie e purtroppo in questo campo si rischia di cadere nel pressappochismo, per esempio parlando di musicoterapia qualcuno potrebbe pensare che basti insegnare ad un bambino o ad un ragazzo con difficoltà a batter le mani a tempo oppure a cantare una canzone o altre cose del genere, ma non dovrebbe essere così. Alla fine abbiamo deciso di chiamarci Progetto di “Educazione Musicale Integrata” rivolto alla disabilità ma fruibile a tutti i livelli di età e di realtà sociale. Come avviene l’apprendimento della musica? Più che di apprendimento in senso stretto, si può parlare di vera educazione alla musica con la musica che deve essere accessibile a tutti. Come avviene? Per prima cosa viene utilizzata solo musica colta, complessa ma proprio per questo molto ricca sia dal punto di vista espressivo sia semantico. Il percorso individuale si svolge in un triennio, l’accesso è per ogni tipo di disabilità. L’organizzazione del lavoro prevede una sala prove con gli strumenti dell’orchestra come archi, arpe (eventualmente) e percussioni (timpani, maracas, marimba…). Le figure dei musicisti sono: il conduttore al pianoforte/tastiera, gli affiancatori che operano all’interno dei gruppi. Questo spiega il motivo per cui, per esempio l’arpa, non potrebbe
essere unica in quanto deve essere sempre previsto un affiancatore/educatore. (a seconda della gravità della disabilità, ovviamente). Le musiche, come dicevamo sopra, sono scelte dal repertorio classico preferibilmente musiche descrittive come “Quadri di un’esposizione” di Mussorgsky, ad esempio oppure che rispondano a criteri di gradualità di difficoltà tipo dalle ninne nanne, marce, corali, al “Peer Gynt” di Grieg a Beethoven. A questo punto la lezione si organizza in base al conduttore, agli affiancatori ed ai ragazzi che ruotano ai vari strumenti per poter esprimere tutto il potenziale possibile. L’unico apprendimento sul quale insistere è l’utilizzo dei gesti consoni ai vari strumenti proprio perché sarà attraverso questi e l’abilità acquisita che ciascuno potrà curarsi del suono, del suo potenziale espressivo e della coerenza di questo con il brano proposto nel suo complesso. Lo sbocco del triennio sarà poi la costruzione dell’orchestra grande e non più solo del gruppo di musica da camera. Il confronto e lo sviluppo della relazione sarà quindi l’altro obiettivo del lavoro. In che modo la musica influenza la vita di queste persone? Questa esperienza cambia completamente il loro modo di vivere: vivono tutta la settimana in funzione dell’appuntamento con la musica. Una bellissima caratteristica del progetto è che questo non è uno spazio gioco; le persone con disabilità non vengono viste come persone da intrattenere e far divertire o per occupare il loro tempo. Qui sanno infatti di essere indispensabili, ognuno ha una sua originalità di intervento e ognuno di loro sa che senza quell' intervento cambia tutto, sanno quindi di avere una grossa responsabilità, diventando quindi soggetti e non oggetti, risorse per il futuro. La maggior parte delle persone pensa che dobbiamo facilitare le cose per questi ragazzi, ma non è vero perché così facendo si sentirebbero stupidi, ma nessuno è stupido. Per cui più alzi il tiro più loro ti seguono perché si sentono gratificati, importanti e valorizzati, e questo è fondamentale, ma purtroppo non succede spesso con la disabilità.
Data dell’intervista: 25/04/2020 Modalità di realizzazione: videoconferenza Intervistatori: Jacopo Bertoldini, Miriam Iuliano Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a CHIARA BONVICINI, insegnante
Cosa è normale? A quanti anni ha perso la vista suo padre Ernesto? Come è successo? A 14 anni perse la vista di un occhio e a 20 anni anche del secondo occhio. Questi eventi furono causati da dei traumi nella sua vita. Questi, insieme alla forte miopia congenita e alla rosolia che sua mamma aveva avuto durante la gravidanza, gli provocano la perdita permanente della vista. Lui si fece operare e rimase per sei mesi in ospedale ma non riuscì a recuperare la vista. Chi e in che modo lo ha sostenuto maggiormente? I suoi amici, che gli facevano le registrazioni per aiutarlo a studiare più facilmente, ed i suoi fratelli e familiari sono stati coloro maggiormente presenti nella sua vita e coloro che lo aiutarono maggiormente. Tuttavia, Ernesto Bonvicini fu un uomo autonomo e preferiva andare da solo dove poteva e anche oltre. Non accettava i comportamenti compassionevoli delle persone. Si rifiutava di essere accompagnato dove non serviva. Nella sua vita fu molto attivo ed anche se fu cieco, scrisse tante leggi per i ciechi, gli ipovedenti e altri minorati dagli anni ’50 agli anni ‘’90. La perdita della vista gli ha causato difficoltà nella vita quotidiana? Lui e la sua famiglia non hanno mai visto questa condizione come un limite. Sono riusciti a vivere ogni esperienza a cui erano interessati. Egli fu anche un appassionato di montagna. La sua condizione ha cambiato il suo modo di interagire col mondo ed anche, di conseguenza, con la sua famiglia. Fra lui e la sua famiglia, c’era una relazione di vicinanza fisica maggiore rispetto al solito. Egli aveva inoltre un udito straordinario. Quando, dove e in che cosa sembrano emergere pregiudizi su questa disabilità? Spesso, al ristorante, capitava che il cameriere chiedesse a sua moglie cosa volesse ordinare lui oppure spesso le persone gli chiedevano se voleva attraversare la strada anche se lui non ne aveva intenzione. Questo è dovuto al fatto che le persone tendono a trattare tutte le disabilità nello stesso modo. Ernesto Bonvicini si batté per permettere ai bambini disabili di essere inclusi nelle scuole pubbliche. Dagli anni Settanta i bambini disabili cominciano ad andare a scuola affiancati da un maestro detto “d’appoggio”. Negli anni c’è stato un cambiamento o miglioramento su come viene trattata questa disabilità e su come vengono vissute le disabilità in generale?
C’è stato un enorme miglioramento dal punto di vista tecnologico, politico e pratico per aiutare i disabili a vivere con le loro disabilità. Nonostante il progresso in campo scientifico e tecnologico sia stato eccezionale, dal punto di vista sociale ancora oggi la nostra società non è ben preparata per aiutare le persone con disabilità ad avere un’esperienza di vita migliore. Molti sono timorosi e pur cercando di non offendere una persona con disabilità tendono a stare troppo attenti e involontariamente la trattano in modo diverso. Un modo per farle stare meglio potrebbe essere stare accanto alle persone con disabilità in modo più naturale, perché possano esprimersi con le potenzialità che hanno.
Data dell’intervista: 27/04/2020 Modalità di realizzazione: videoconferenza Intervistatori: Alice Zanatta e Stefan Chavkosk Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
Intervista a FATIMA ASRI, casalinga con due figli, uno di loro è autistico
Disabilità e famiglia È la prima volta che viene intervistata su questo tema? Ritiene che il Progetto WSA People, nell’ambito del quale è stata proposta questa attività, sia il contesto giusto per parlare di questi temi? Si, questa è la prima volta. Sì, trovo che questo sia il giusto contenuto per parlare di questi temi e apprezzo molto gli sforzi di organizzazioni come questa. Come madre di un ragazzo autistico secondo lei che effetto ha la famiglia per lo sviluppo dell’individuo disabile? Fratelli e sorelle possono aiutarlo? Come madre credo che la famiglia che collabora insieme - padre, madre, e figli, se ci sono - forma un gran supporto per l'individuo disabile. Per esempio, se la madre di un ragazzo disabile è malata o stanca, allora c'è sempre il padre per prendersi cura del ragazzo. I fratelli possono essere d’aiuto, ma a due condizioni: la prima è che devono essere adulti e responsabili. La seconda è che devono essere consapevoli della condizione e dello stato d'animo di chi dovrebbe essere aiutato. In questo modo possono capire le sue azioni e possono aiutarlo a seguire le regole. Per esempio, gli fanno capire che deve sedersi quando è tempo di cenare o che quando finisce cena deve andare in bagno a lavarsi le mani e i denti o che deve andare in camera sua quando è tempo di dormire. O magari gli fanno fare attività nel campo della comunicazione aumentativa, cioè atta a semplificare e aumentare la capacità comunicativa. In realtà il loro ruolo comincia anche da bambini quando giocano e scambiano giochi con l'individuo con disabilità, o anche quando ridono e mangiano insieme. Questo comporta aumento progressivo della comunicazione dell'individuo disabile. A sua volta, che effetto ha l'individuo disabile sulla vita della sua famiglia in generale? Fa diventare la famiglia più unita e collaborativa. E quando c'è una certa sofferenza, i vari membri della famiglia possono collaborare per sopportare il peso di quella sofferenza insieme. Come una barca, se tutti remano e collaborano insieme, la barca raggiunge la riva. Quanto diventa grande la responsabilità per i genitori se c'è un individuo disabile con figli normali? In questi casi l’impostazione della famiglia è dare priorità all'individuo disabile. Perciò la responsabilità cresce molto per i genitori.
Quali persone, al di fuori della famiglia, hanno aiutato lei e i suoi familiari ad affrontare i problemi connessi alla disabilitĂ ? In particolare la scuola e i suoi docenti, in collaborazione con la neuropsichiatra infantile e gli assistenti sociali.
Data dell'intervista: 28/04/2020 ModalitĂ dell'intervista: dal vivo Intervistatore: Ben Hassen Ibrahim Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a MAURICE MUTHIGA, direttore de L’Arche Kenya
Cercate perdono e amore incondizionato? Venite all’Arche Kenya! Qual è la situazione in Kenya per le persone con disabilità? Pensi che ci siano molte differenze con i paesi più sviluppati? Ci sono molte differenze: per esempio, solo recentemente il governo keniano ha previsto di dare una piccola indennità (circa 20€ al mese) a queste persone. In generale, non ci sono programmi e strutture con lo scopo di sostenere ed aiutare le persone con disabilità, specialmente intellettive. Le somme stanziate per le persone con disabilità vengono date direttamente alle famiglie di cui fanno parte e quindi non ci sono fondi a sostenere organizzazioni come L'Arche. In Kenya le persone con disabilità sono accettate dalla società? In molte comunità ci sono ancora molti pregiudizi nei confronti loro e delle loro famiglie, che a volte si sentono colpevoli di aver dei figli con disabilità perché non capiscono le loro difficoltà. Un’altra situazione problematica in Kenya è quella dei mezzi di trasporto pubblici, visto che non ci sono addetti o macchine per poter aiutare una persona con carrozzina a salire sull’autobus. Infatti se una famiglia si deve muovere con i mezzi pubblici non potrà portare con sé la persona con disabilità anche perché molte volte l’autobus potrebbe non fermarsi in quanto perderebbe troppo tempo nella corsa. Ciò nonostante negli ultimi anni la situazione sta via via migliorando anche grazie ad associazioni come L’Arche. Cos’è L’Arche Kenya, qual è il suo ruolo e quali sono le attività principali? L’Arche Kenya riceve aiuto dall’estero con donazioni o volontariato? L’Arche Kenya è un’organizzazione di beneficenza che è stata fondata nel 2008 per fornire strutture dove accogliere adulti con disabilità intellettive per farli vivere in una grande famiglia e far capire loro come gestire la loro vita. Ad oggi ci sono 12 adulti che vivono nelle case e altri 13 che abitano invece nei paesi circostanti e frequentano solo i laboratori, dove vengono proposte molte attività: creazione di candele, panificazione, artigianato, allevamento, falegnameria e altri workshops a scelta. C’è anche una pensione dove l’accoglienza degli ospiti è curata da persone con disabilità. Nel programma Outreach le persone della comunità vanno ad assistere le persone con disabilità fisiche nel caso, ad esempio, debbano fare fisioterapia in una clinica. Inoltre tutti i pomeriggi sono lasciati per le attività più creative e piacevoli come parlare di se stessi con gli altri, mentre in altri pomeriggi si leggono dei passaggi della Bibbia con relative foto e rappresentazioni teatrali.
Con una paghetta che viene data loro per i lavori che fanno durante la settimana, i nostri assistiti possono essere formati su come gestire i loro soldi e risparmi. L’attività che a loro piace di più è proprio questa perché solitamente non sono coinvolti nel prendere decisioni. Infatti i vestiti sono comprati solitamente dai loro genitori senza la loro approvazione e molte famiglie non possono permettersi i beni più costosi come ad esempio un profumo, un paio di occhiali da sole, un orologio o un vestito particolare. Di conseguenza, quando vengono retribuiti si sentono maggiormente apprezzati per ciò che fanno e in questo modo la loro autostima cresce. Riceviamo supporto economico da molte parti del mondo: in particolare abbiamo molti amici italiani che sostengono la nostra struttura. Ogni tanto ci sono anche alcuni volontari, per brevi o lunghi periodi, che vengono qui a darci una mano nelle nostre attività quotidiane e anche per imparare qualcosa di nuovo. Dove erano queste persone prima di frequentare L’Arche? Come sono cambiate? La maggior parte di loro era sempre a casa ed è stato anche per questo che L'Arché è stata fondata. In Kenya ci sono delle cosiddette “scuole speciali” per i bambini con disabilità intellettive e al compimento dei 18 anni d’età non ci sono ulteriori strutture per accoglierli. Se prima non facevano quasi nulla a casa, ora sono molto contenti di contribuire in qualcosa in tutti i workshops che vengono organizzati. Inoltre, generalmente, in Kenya le persone con disabilità faticano a trovare lavoro e vengono a malapena pagati. Infatti, parte del nostro operato si basa anche sul far capire loro il valore dei soldi e di chiederli quando svolgono un lavoro per gli altri. Da quanto tempo fai questo lavoro? Sei soddisfatto? Cosa vorresti migliorare? Pensi che le persone con disabilità possano dare qualcosa in più delle altre? Sono qui fin dalla fondazione dell’associazione e il mio ruolo, oltre a quello di direttore, è quello di insegnare economia. Sì, sono felice e soddisfatto di quello che faccio ma non per essere il direttore ma perché penso che il mio coinvolgimento ne L’Arche possa aiutare le vite di queste persone. Comincio a vedere i risultati: c’è qualcuno che inizia anche a parlare di voler una famiglia e una casa. Se potessi migliorare qualcosa vorrei trovare più opportunità di lavoro per loro, tramite laboratori professionali, ed espandere i luoghi dove accoglierli, non solo per viverci ma per imparare e passare più tempo insieme. A proposito di loro: non mi piace comparare. Infatti penso che le persone senza disabilità possano dare emozioni in modo uguale alle “altre” e che ognuno abbia qualcosa di speciale che può dare, esprimendo al meglio se stesso. Se ci sono le condizioni adeguate una persona con disabilità può lavorare molto bene. Ad esempio, nei nostri laboratori loro non sono distratti dallo smartphone, da altri dispositivi elettronici o da Facebook, a differenza di come potremmo esserlo noi, ma lavorano duramente e si concentrano su quello che devono portare a termine. Per quanto riguarda la personalità loro sono molto più empatici ed emotivi, perdonano e chiedono perdono più velocemente e amano incondizionatamente. Ad esempio, se una persona con disabilità ti vuole bene o ti stima non è correlato alla tua posizione e al tuo
ruolo. Loro trattano e amano tutti allo stesso modo: il direttore, gli operatori, i volontari, gli assistenti sociali e anche il vescovo!
Data dell’intervista: 27/03/2020 Modalità di realizzazione: in videoconferenza (via Skype), in lingua inglese, con traduzione in italiano a cura del redattore Intervistatore: Davide Finetto Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a ALESSANDRA, amica di famiglia con disabilità
“Disabilità”... Di una città Alessandra, tu abiti a Terragnolo; vai spesso a Rovereto? C’è qualcuno che ti aiuta negli spostamenti? Nel tempo libero mi piace molto andare in giro e di solito vado proprio in centro a Rovereto. Purtroppo sono affetta da una malattia progressiva, che mi ha tolto l’uso delle gambe e così da qualche anno mi trovo costretta su una sedia a rotelle. Vivo in un paese di montagna, che non offre molto e quindi mi devo spesso spostare, anche per necessità. Purtroppo mi accorgo che Rovereto non è una città molto agevole e comoda per una persona come me, perché ci sono parecchie barriere architettoniche, quindi deve sempre esserci qualcuno che mi possa aiutare a salire in carrozzina. I posti per invalidi però sono pochi, capita quindi che a volte non trovo il posto idoneo per poter mettere la carrozzina vicina alla macchina e salirci. Questo non succede solo quando mi muovo da sola, ma anche quando mi portano. Perciò la mia indipendenza sta nell’arrivare fino al parcheggio, però poi ho bisogno di aiuto perché altrimenti farei molta fatica a raggiungere la maggior parte delle strutture. Di solito chi mi aiuta è mio marito, a volte i miei figli, anche se devo ammettere che non mi piace pesare su di loro. Quando vado a trovare mia mamma che abita in un paese non molto distante dal mio, ho bisogno dell’aiuto di mio papà per fare le scale che portano all’appartamento. Quali cose vorresti cambiare del tuo paese o della tua casa per poterti muovere con più libertà? Devo dire che la mia casa ora è abbastanza comoda, perché è stata costruita tutta su un piano e perciò non ho da fare scale. Inizialmente non era così, abbiamo dovuto intervenire con delle modifiche per renderla adatta alle mie necessità e soprattutto alla mia disabilità. Mio marito ha anche costruito una passerella, che mi permette di arrivare comodamente alla macchina ogni volta che mi devo spostare. L’unica cosa che rappresenta un ostacolo per me è la posizione del paese in cui vivo, un paese in montagna, naturalmente però non posso farci niente per cambiare questo. Nonostante ciò sono contenta di vivere qui, credo che ci sia più solidarietà in un paese piuttosto che nelle città, perché nei borghi piccoli, come quello in cui vivo, tutti si conoscono e diventa molto più facile dare e chiedere aiuto. È anche più facile chiacchierare con i vicini e instaurare buoni rapporti d’amicizia. Prova a pensare alla parola comunità: qual è la prima cosa che ti viene in mente? Comunità è davvero una bella parola, mi fa pensare alla solidarietà, all’aiuto che ho ricevuto dalla comunità in cui vivo e da molte altre persone. Con la mia malattia ho
scoperto che la gente in generale è disponibile a dare una mano, quando vede una persona in difficoltà. Di solito non ho paura a spostarmi da sola, perché so che trovo sempre qualcuno che al bisogno mi dà una mano. Inizialmente mi facevo problemi a chiedere, tendevo ad arrangiarmi, oppure a chiedere aiuto solo alla mia famiglia, ma ora non mi faccio nessun problema e mi rivolgo anche a sconosciuti nel momento del bisogno. Quali sono le cose che fai che ti fanno sentire più indipendente? Purtroppo mi rendo conto che sono sempre meno indipendente: la mia malattia può con il tempo ridurre sempre di più la mia autonomia. Proprio per questo, riuscire ancora a muovermi in macchina senza dover aspettare corriere, tram o altri mezzi mi fa sentire sicuramente un po’ meno handicappata. Forse è per questo che, finché sono in grado, la cosa che preferisco fare nel mio tempo libero è proprio spostarmi autonomamente con la mia macchina che è stata adattata alle mie necessità. Un’altra cosa che ancora mi fa sentire indipendente e utile alla mia famiglia è che riesco, nonostante tutto, a cucinare. La cucina è sempre stata la mia passione, infatti prima della malattia ho lavorato per diversi anni come cuoca presso la casa di riposo di Rovereto. Ora non posso cucinare tutti i giorni, ma quando lo faccio mi dà sempre molta soddisfazione e mi fa sentire meglio. Quali altre persone ti sono state vicino, oltre alla tua famiglia? Sicuramente non potrei stare senza il centro Associazione Sclerosi Multipla che frequento. Si trova a Rovereto, quindi non è per niente lontano e posso andarci da sola ogni volta che ho del tempo libero. Qui ho fatto molte amicizie, ci sono persone con i miei stessi problemi e volontari che aiutano. Ci vado quasi sempre, perché è un modo per praticare attività fisica, socializzare e far passare il tempo. Ho proprio bisogno del mio centro, perché mi sento a mio agio e inoltre organizziamo attività come yoga e ginnastica di gruppo che mi aiutano a stare meglio. In breve realizzeremo un coro e credo che anche questa attività mi sarà utile per divertirmi e riempire le giornate. Tutte queste attività fanno bene sia al corpo che allo spirito.
Data dell’intervista: 28/03/2020 Modalità di realizzazione: in chiamata Intervistatore: Elena Tasin Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a PAOLA BARATTER, Dirigente scolastico
Imparare con la disabilità Che lavoro fa e che rapporto ha il suo lavoro con il tema della disabilità? Io dirigo un Istituto Comprensivo e il tema della disabilità è sempre presente nell’ambito scolastico. Non dobbiamo mai dimenticare che la scuola è di tutti ed è per tutti. Quindi la scuola deve garantire a tutti la possibilità di apprendere. Quanto spesso le capita di interagire con studenti con bisogni educativi speciali e quali sono le forme di disabilità più frequenti? Io interagisco quotidianamente con i ragazzini con bisogni educativi speciali, come con tutti gli studenti. Spesso si ha una visione distorta del ragazzino disabile, incentrata sulla sua disabilità invece che sul suo essere prima di tutto una persona. Esistono bisogni educativi speciali di tipo molto diverso: c'è chi ha una menomazione fisica, chi ha un ritardo cognitivo ma anche chi proviene da una famiglia povera culturalmente, che non ha gli strumenti culturali per accompagnare il proprio figlio in un percorso di crescita. Ecco, io vedo la scuola come lo strumento attraverso il quale è possibile garantire a tutti pari opportunità. In che modo una disabilità può compromettere la possibilità per lo studente di proseguire i suoi studi e come e con quali mezzi si può dare loro la possibilità di imparare? Una disabilità potrebbe costituire un ostacolo per lo studente, ma negli ultimi anni la società ha lavorato molto in questa direzione, tanto che quasi tutti gli studenti possono oggi seguire un corso di studi regolare. Ci sono però alcune disabilità che non permettono a un ragazzino di partecipare fisicamente alle lezioni e in tal caso è necessario trovare delle modalità che permettano anche a questi alunni di accedere a un contesto educativo, per imparare e per interagire con i coetanei. In questo contesto le tecnologie costituiscono un aiuto importante, ma il solo strumento non è sufficiente per garantire l’inclusione: servono volontà e consapevolezza. L'inclusione dovrebbe essere un obiettivo fondamentale per tutte le società. È possibile in generale far integrare lo studente con BES con i suoi coetanei? Non solo l’integrazione è possibile ma è doverosa: tutti i bambini di tutte le età hanno il diritto di interagire con i propri coetanei. L'integrazione o, meglio, l’inclusione, di tutti, dovrebbe essere uno degli obiettivi primari della scuola. Non dobbiamo mai dimenticare che i bisogni educativi speciali non riguardano sempre necessariamente gli altri. Tutti gli studenti hanno dei bisogni educativi speciali, alcuni sono più invalidanti, altri meno; ma quando pensiamo agli studenti nel loro percorso di crescita individuale non possiamo
ignorare i bisogni personali, le necessità speciali di ognuno. Io vedo la scuola come una microsocietà in cui sperimentare con successo i valori che stanno alla base della convivenza civile, a partire dal rispetto degli altri e della diversità di ogni tipo. Lei pensa che avere uno studente affetto da una certa disabilità in una classe comprometta l'apprendimento per gli altri studenti o che debba invece essere visto come un’opportunità? Davvero c’è ancora qualcuno in grado di pensare che avere in classe uno studente affetto da disabilità possa compromettere l'apprendimento degli altri studenti? Davvero c’è ancora chi è così miope e pensa di poter arrivare primo da solo? Lo studente disabile è una risorsa per tutta la classe, innanzitutto perché la presenza di un alunno disabile in classe relativizza i bisogni di tutti e poi perché quando si pensa allo studente disabile ci si ferma spesso a un’immagine stereotipata, non pensando che un disabile è prima di tutto una persona, una persona che ha una disabilità in un certo ambito, ma che, come ogni altro, ha abilità in altri: l’inclusione dovrebbe appunto puntare a valorizzare le diverse abilità di ciascuno.
Data dell’intervista: 28/04/2020 Modalità di realizzazione: Dal vivo Intervistatori: Luca Panizza Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a FABRIZIO TAGLIAFERRI, Maresciallo capo della guardia di Finanza, volontario per attività sportive con persone con disabilità
La disabilità insegna Cosa ti ha spinto a collaborare con le persone disabili? E in cosa consiste il tuo aiuto? Sapevo che c’era una associazione a Predazzo che faceva fare sport ai disabili e ho voluto provare anch’io. Mi sembrava una bella cosa in cui impegnarmi, quindi ho fatto un corso di tre giorni sulla disabilità; mi hanno insegnato come avrei dovuto comportarmi e cosa avrei dovuto sapere sulle varie disabilità ad esempio con un paralitico, un tetraplegico, un non vedente o un down. In base alle patologie avrei dovuto attuare strategie diverse. Dopo un paio di anni mi hanno chiamato perché gli serviva qualcuno che si occupasse di una persona autistica; da allora ho iniziato ad andare sempre. Lo scopo della nostra attività è permettere di fare sport ai disabili. Le attività sportive che insegno sono tante: corsa, sci, rafting, tiro con l’arco, tandem, escursioni in montagna ecc. Bisogna creare un rapporto di piena fiducia con i ragazzi, i quali hanno bisogno di te per poter praticare le varie attività. Pensate, ad esempio, come si fa a far sciare i non vedenti: loro scendono dalla pista solo ascoltando i comandi vocali che gli fornisci costantemente, ma grazie a questo riescono a sciare al pari di qualsiasi persona. È un impegno serio fare il volontario, devi organizzare la tua vita pensando anche a queste persone che hanno bisogno di te rispetto al tuo modo di vivere. Io per esempio su 4 settimane di ferie all’anno ne dedico 2 a loro, di conseguenza mi organizzo come se facessero parte della mia famiglia. Che cosa hai provato le prime volte che ti incontravi con loro? Sicuramente all’inizio ero molto agitato, avevo una preparazione data dal corso e quindi sapevo che tipo d’approccio avrei dovuto attuare. Al corso mi era stato insegnato che dovevo comportarmi con loro come fossero persone normali. Ad esempio ad un non vedente, quando lo devo salutare, gli dico tranquillamente: “ci vediamo domani”. Non si deve trattare un disabile come se non fosse capace di fare niente, sono persone che hanno delle disabilità ma anche grandi risorse e su quelle noi dobbiamo lavorare. Che rapporto sei riuscito ad instaurare con loro? E quali sono le ricchezze che ti trasmettono? Ho instaurato un rapporto di amicizia con tutti. Mi sento telefonicamente o tramite facebook anche con disabili con cui ho lavorato 20 anni fa. Ad esempio un giorno avevo portato dei ragazzi fino a un lago alpino, facendo una strada accessibile con le carrozzine; poi dalla baita fino alla riva del lago li ho portati uno alla volta sulla schiena. Arrivati in cima, abbiamo scattato tantissime foto e uno di loro mi
disse: “tu non hai idea di cosa sia per noi avere una foto in riva al lago alpino, è una cosa che fino a qualche anno fa era impensabile”. E questo non fa che renderti gioioso, per aver collaborato a qualcosa che senza il tuo aiuto non sarebbe stata per loro possibile da realizzare. La ricchezza più grande è che ti porta ad affrontare la vita più tranquillamente. Qualunque problema tu possa avere, di fronte ai grandi problemi che hanno loro, viene ridimensionato. Impari ad affrontare la vita con più semplicità, perché di fatto noi non abbiamo grandi problemi che non si possano risolvere. Ho imparato che loro, anche se sono disabili, sorridono e si impegnano per superare i loro ostacoli e raggiungere degli obiettivi. Hai avuto relazioni con i loro familiari? La loro opinione sulla persona corrispondeva con l’idea che ti sei fatto tu? Sicuramente è importante il confronto continuo con i genitori, i quali ti informano su alcuni aspetti particolari; per esempio, se qualcuno ha comportamenti anomali chiedo se quei gesti intendono dire qualcosa o se è autistico quali sono le sue paure. Spesso sono i genitori che ti impediscono di far fare delle attività al ragazzo. Se sono da solo con un ragazzo autistico piano piano riesco a insegnargli a sciare, mentre se è presente un genitore è più difficile. Ad esempio mi chiedono: “Perché non usa i bastoncini che usano tutti gli sciatori?’”, non sapendo che non è per discriminazione, ma perché all’inizio per imparare a sciare, (è così anche per i bambini), loro non usano i bastoncini perché non solo non servono a niente ma fanno più confusione”. Spesso i genitori sono iperprotettivi e ti impediscono di lavorare bene, è più difficile relazionarsi con i genitori che con i disabili, ma è utile averli presenti come punti di riferimento. Secondo te cosa pensano i ragazzi che segui e come vivono queste loro disabilità nella nostra società? I disabili che vengono a fare l’attività sportiva si sentono normalissimi, anzi alcuni non vedenti si rendono conto che fanno più cose di un normodotato. Esistono delle realtà in alcuni paesi, soprattutto nel sud, nelle quali un disabile viene tenuto a casa, perché la famiglia per vergogna non vuole farlo vedere alle altre persone; per fortuna le cose stanno cambiando... Non siamo più nel medioevo! I disabili che seguo non si sentono inferiori a me, anzi: quando io utilizzo un monosci faccio una fatica mostruosa e mi tirano anche i muscoli dei piedi, mentre i paraplegici, essendo paralizzati agli arti inferiori, non sentono niente dal pettorale in giù, ed una volta che hanno imparato riescono a sciare con facilità. Ancor oggi mi stupisco di come riescano a farlo, ti assicuro che è difficilissimo anche per noi.
Data dell’intervista: 17/04/2020 Modalità di realizzazione: videochiamata Intervistatori: Marika Zomer Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto
Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a KATIA ARMANI, docente di sostegno dell’istituto comprensivo Dante Alighieri Sant'Ambrogio di Valpolicella
Inclusione in classe: l’insegnante di sostegno Ci può dare qualche informazione su di lei? Ero un’insegnante di educazione fisica, quando mi è arrivata la proposta di seguire alunni affetti da disabilità e disturbi della personalità. Fin dal primo alunno seguito questa mia ‘prova’ è diventata una passione in quanto mi sono molto affezionata a quel ragazzo. E infatti è proprio questo che rende speciale questo ruolo, la relazione con gli alunni, che è tanto speciale quanto fondamentale. Dunque, come si applica l'istituzione ‘Scuola’ per sostenere la didattica per una persona con disabilità? La scuola può aiutare questi alunni in vari modi. Uno dei più importanti è sicuramente l’ambiente classe. Facilmente gli alunni disabili sono timidi e insicuri con le persone intorno a loro, cosa che si trasmette nella resa scolastica, mentre farli sentire parte del gruppo, protetti e capiti li stimola ad impegnarsi di più e ad avere meno dubbi sul tema che stanno scrivendo come sull’equazione che stanno risolvendo. Inoltre è molto importante che l'insegnante non sia autoritario, bensì autorevole sempre per evitare che l’alunno sviluppi insicurezze. Come viene seguito uno studente con disabilità? Ad affiancare la scuola ci sono anche altre istituzioni come gli psicologi. Negli anni la scuola è stata oggetto di molte riforme e in particolare l’approccio con studenti di disabili è stato positivamente stravolto. All’inizio l’insegnante di sostegno serviva per portare fuori dalla classe lo studente che dava fastidio, mentre al giorno d’oggi l’insegnante è visto come un vero e proprio docente, allo stesso livello dei colleghi e l’alunno non viene più mandato in giro, bensì viene tenuto il più possibile in classe. Gli insegnanti di sostegno sono circondati da pregiudizi, lei cosa ne pensa? Sicuramente ci sono insegnanti non adeguatamente preparati per il ruolo e che l’hanno scelto come ripiego, ma un’insegnante che si impegna nel suo lavoro è sempre adeguatamente gratificata dai colleghi e soprattutto dalle famiglie. Inoltre un’insegnante di sostegno può cogliere certi aspetti all’interno di una classe che sfuggono agli altri colleghi, per il semplice motivo che, mentre un insegnante di italiano passa sei ore nella classe, il docente di sostegno ne passa ben diciotto.
Parlando di attualità, come è stata adattata la didattica a distanza agli alunni con disabilità? Beh, se la didattica per un alunno disabile era complicata in precedenza, ora è sicuramente molto più difficile. Come tutti, anche noi insegnanti di sostegno abbiamo iniziato a fare videolezioni, talvolta pure con dei compagni di classe, ma per poter far acquisire l’apprendimento è diventata essenziale, nei casi di disabilità maggiore, la presenza di un genitore a cui bisogna spiegare man mano cosa fare, il che rende le cose molto più scomode soprattutto per l’alunno.
Data intervista: 23/04/2020 Modalità: Videochiamata Intervistatore: Mascanzoni Federico Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a FABRIZIO VIVALDI, non vedente disoccupato
Gli occhi dell'anima Tu abiti a Milano. Quali sono le difficoltà di una persona non vedente in una grande città? Indubbiamente la grande città offre tante opportunità in termini di servizi e attività culturali; quello che mi manca molto, quando mi trovo a Milano, è il rapporto umano tipico dei piccoli centri. Le grandi città di oggi, affollate, caotiche e rumorose, non permettono al non vedente di muoversi con facilità. Le distanze, la difficile fruizione dei mezzi pubblici, l’affollamento sono delle difficoltà che complicano la vita di chiunque, figuriamoci di una persona non vedente. Negli anni ’70 ho frequentato l’Università di Bologna, dove riuscivo a muovermi da solo grazie al mio senso di orientamento e all’udito che mi permetteva di percepire gli ostacoli, raggiungendo i posti che frequentavo abitualmente (aule universitarie, pensionato, biblioteca, stazione etc). Questo non credo che adesso potrei rifarlo, oggi a volte le persone mi urtano per la strada e nemmeno chiedono scusa. Che cosa ti dicevano i tuoi genitori quando era piccolino sul fatto che non potevi vedere come gli altri bambini? Beh, per esempio mi dicevano “non ti riesce bene colorare con i pennarelli, usa i colori a dita”. Poi cercavano di farmi capire nel modo più carino possibile che al mondo esistono persone più fortunate e altre meno. Comunque mi hanno sempre dato tutto l’amore possibile e di questo sono molto grato a loro. Rispetto ad altri bambini come ti sentivi? Ti è capitato di sentirti, in qualche circostanza, non compreso? Escluso? Sì, è capitato sicuramente, non è pensabile che non capiti. Dobbiamo soltanto decidere da che parte guardare, se sarà piangere per quello che non abbiamo o se comunque lavorare. La vita è una, non ce ne danno un’altra di riserva dopo… sprecarla a rimpiangere non ha tantissimo senso secondo me. Ti hanno mai detto “questo non lo puoi fare perché non ci vedi”? Sì... purtroppo su questo argomento c’è ancora tanta ignoranza! Io so quello che posso fare e quello che non posso fare. Molti si pongono dei freni e già quando sanno che io non vedo si tirano indietro. Sei iscritto a facebook? Se sì, come lo utilizzi? Sì, certo. La tecnologia per noi è importantissima! Abbiamo fatto dei grossissimi passi avanti. L’iphone ha una funzione, che si chiama Voice Over, ovvero una sintesi vocale
grazie al quale riusciamo a fare di tutto. Non è la solita tecnologia che i ragazzi di oggi usano per fare sciocchezze.
Data dell’intervista: 24/04/2020 Modalità di realizzazione: Videochiamata whatsapp Intervistatore: Diego Menegotti Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a ELENA VALLORTIGARA, Carabiniere scelto dell’Arma dei Carabinieri e campionessa italiana di salto in alto
Saltare ...oltre il limite Tu sei una delle saltatrici azzurre che hanno superato i due metri nel salto in alto, nel 2018 a Londra. Prima però, ho letto nella tua biografia che hai avuto diversi problemi fisici, quali operazione a una caviglia, degenerazione dei dischi lombari, infiammazione al tallone del piede di stacco. Che significato ha avuto raggiungere questo traguardo per te che ti sei portata dietro tutte queste difficoltà? Dopo aver superato i due metri, tra le altre cose, mi sono detta: “avevi ragione, hai fatto bene a continuare a crederci”. Ho messo in pratica ciò che avevo sempre pensato di poter fare, ma che spesso avevo anche messo in dubbio. Vivo di sogni, non di illusioni, e pensare di essermi “presa in giro” mi metteva parecchio in difficoltà. È stato uno dei momenti in cui mi sono sentita più orgogliosa di me stessa. È stato fondamentale avere il supporto e il sostegno del mio Gruppo Sportivo, la Forestale prima e i Carabinieri dal 2017, che mi hanno permesso di continuare a provarci e hanno sempre creduto in me. Hai mai temuto che in seguito a degli infortuni, non avresti più avuto la possibilità di allenarti o di partecipare a gare? Assolutamente sì, per anni ho passato più tempo infortunata e gareggiando una/due volte all’anno, che in condizioni normali. Ad un certo punto non mi ricordavo più nemmeno cosa provassi saltando bene e gareggiando. Ma la nostra mente è potentissima e al momento giusto tutti quei dubbi sono diventati invece sicurezze. Ho letto che sei seguita dal tecnico Stefano Giardi. Com'è lavorare con lui? Come ha contribuito la vostra collaborazione al tuo percorso? È con lui che ho raggiunto misure importanti e che ho ritrovato sicurezza in me stessa e continuità nei miei risultati. È la persona più limpida, sincera e di cuore che conosca, oltre che appassionata e dedita al suo lavoro. Per me è fondamentale circondarmi di belle persone, ho bisogno di sentirmi al sicuro nei rapporti più stretti e quello tra allenatore e atleta è sicuramente uno di questi. Pensi che lo sport abbia agito, nel tuo caso, come terapia per una ricostruzione atletica e per una ricostruzione psicologica? Assolutamente sì. Lo sport, soprattutto se vissuto intensamente, è un concentrato di vita, sia per le esperienze che permette di vivere, sia per il costante confronto con se stessi. L’atletica è stata parte importante nella costruzione del mio carattere e continua ad esserlo in modo sempre diverso.
Cosa ti piace fare nel tempo libero, quando non ti alleni? Hai dei "sogni nel cassetto" o degli obiettivi che vorresti realizzare, in questo momento? Quando non mi alleno (e non sono a fare fisioterapia/agopuntura…) mi piace cucinare, prendermi cura della casa, leggere, guardare qualche serie tv, studiare (sono iscritta alla Magistrale di Psicologia) e stare all’aria aperta. Sono abbastanza “casalinga”! Per quanto riguarda il mio sport, l’Olimpiade è uno dei miei obbiettivi, così come stabilire un nuovo record italiano, vincere delle medaglie internazionali e meeting rinomati, essere costante su misure alte… ho molti obiettivi su vari livelli. Nella mia vita “extra-sport” vorrei riuscire a realizzare un progetto per vivere in montagna nella maggiore autosufficienza possibile. C'è una frase/motto/citazione che ti "ispira", ti incoraggia o che ti piace particolarmente? Colgo l’occasione per ricordare un grande scrittore che purtroppo ci ha lasciato oggi, Luis Sepúlveda, con una frase bellissima: “Vola solo chi osa farlo”. Penso che per crescere sia necessario andare oltre le proprie sicurezze, utilizzarle per accogliere ciò che non si conosce e crearne di nuove. Quando ci si sente deboli è difficile non farsi sopraffare dalle sensazioni, ma quello che mi ripeto spesso è che io sono ciò che penso, e io posso controllare i miei pensieri. Cerco di vedere le cose da più prospettive, di trovare sempre gli elementi positivi e concentrarmi su questi per gestire al meglio le situazioni di difficoltà.
Data dell'intervista: 16/04/2020 Modalità di realizzazione: via mail Intervistatrice: Marua Nouri Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a DANIELE SELVA, professore di religione con disabilità
La disabilità dagli occhi di un professore Parlaci un po’ di te... Sono Daniele Selva, insegnante di Religione dell’ITT Marconi di Rovereto e vivo a Vicenza. Sono sposato, ho due figlie grandi e collaboro con varie associazioni e varie realtà. Sono portatore di una disabilità dovuta ad una malattia muscolare. Cosa ti piace fare nel tempo libero? Tempo libero a dire il vero non ne ho molto, sono infatti molto impegnato con la scuola nelle videoconferenze e nelle attività didattiche. In famiglia poi, svolgo varie mansioni. Nel tempo libero mi piace comunque leggere, suonare la chitarra e comporre delle canzoni. In questo periodo di quarantena amo trascorrere del tempo con i miei familiari, parlando del più e del meno o facendo giochi di società. Mi piace anche guardare la televisione. Mi interessano soprattutto le trasmissioni culturali come ad esempio i programmi della RAI di Alberto Angela. Ti reputi abbastanza indipendente e autonomo? Si, grazie a Dio non ho una disabilità troppo grave. Questo mi permette di avere una vita autonoma, anche se, avendo delle difficoltà motorie, devo camminare con l’ausilio di un bastone. A volte ho problemi di equilibrio ma questo non mi impedisce di avere una vita autonoma. Per fare le cose di tutti i giorni come ad esempio vestirmi, impiego un po’ più tempo delle altre persone, ma riesco comunque a gestire la quotidianità. Riesco a svolgere bene anche il mio lavoro. Come ti sembra stia affrontando la politica italiana il tema disabilità? Secondo me, ma su questo concordano i membri di varie associazioni, il problema della disabilità non è stato affrontato dalla classe politica con serietà. Le spese sanitarie sono state infatti drasticamente ridotte ed anche i fondi destinati alle varie associazioni sono stati dimezzati. Quindi c’è ancora molta strada da fare, soprattutto riguardo all’integrazione dei disabili nelle attività lavorative. Fatti, non parole. Ci sono per fortuna molte associazioni di volontari che colmano parzialmente le mancanze della politica. Le mie difficoltà comunque restano, ad esempio, per spostarmi molte volte utilizzo il treno. Non tutti i treni sono però livellati al piano terra e presentano scalini insormontabili. Ci vorrebbero maggiori investimenti per eliminare le barriere architettoniche. Appunto, le barriere architettoniche: ti capita spesso di incontrarne nella tua quotidianità?
Le barriere ci sono, basta vedere certe strade o certi scalini. Molte volte però i problemi vengono creati dalle persone. Ti cito un esempio: un giorno stavo andando all’ospedale per fare le analisi del sangue e un’automobile aveva occupato il posto dei disabili, tra l’altro invadendo anche la rampa per le carrozzine. Io sono per fortuna riuscito ad aggirare l’ostacolo ma un disabile in carrozzina non ci sarebbe sicuramente riuscito. Ci vogliono quindi sia la responsabilità di chi fa le strutture ma anche il rispetto dei cittadini. Hai ancora qualche sogno che ti piacerebbe realizzare? Beh, sogni nella vita ce ne sono sempre, la vita ne è sempre piena e non si finisce mai di sognare e di desiderare. Ad esempio sarebbe un mio desiderio fare un viaggio con la mia famiglia nelle zone del Nord Europa magari anche raggiungendo capo Nord. Il sogno più bello che ho nel cassetto è però il seguente: che nonostante tutte le difficoltà che il mondo sta attraversando in questo periodo storico, l’umanità si volgesse verso un atteggiamento di solidarietà e fraternità, ricercando il bene comune. A tal riguardo vorrei citarti una riflessione di Luis Sepúlveda, morto qualche giorno fa, autore del famoso film d’animazione “La gabbianella e il gatto”. Questa frase sembra proprio corrispondere al desiderio che ho nel cuore: “Mi considero un sognatore, ho pagato un prezzo abbastanza alto per i miei sogni ma sono così belli, pieni, intensi che ogni volta tornerei a pagarli. Credo che non ci sia sogno più bello di un mondo dove il pilastro fondamentale dell’esistenza è la fratellanza, dove i rapporti umani sono basati sulla solidarietà, un mondo dove siamo tutti d’accordo sulla necessità della giustizia sociale e ci comportiamo di conseguenza. I miei sogni sono irrinunciabili, testardi e resistenti”. Vorrei proprio che questi sogni diventassero realtà anche con l’aiuto di ciascuno di noi.
Data dell’intervista: 24/04/2020 Intervista realizzata mediante videochiamata Intervistatore: Vettorazzo Nicola Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a TODOR PANJKOVIC, pensionato, sopravvissuto in guerra
Dall'Ex-Jugoslavia a Belgrado: ferite che non si cancellano Dove vivevi prima che scoppiasse la guerra? Prima della guerra ho vissuto per anni con i miei figli e mia moglie in una piccola città dell’attuale Bosnia. Poi per un periodo molto breve abbiamo vissuto a Sarajevo e dopo ci siamo trasferiti a Belgrado, dove abito ora tuttora. Da quel momento in poi siamo rimasti qui. È stato appena prima dell’inizio della guerra. Io, mia moglie e mio figlio eravamo riusciti ad ottenere la cittadinanza serba prima che essa scoppiasse, mentre mia nuora e mia figlia no. Loro avevano la cittadinanza bosniaca e quindi anche lo status di rifugiate. Com'era la situazione in Jugoslavia appena prima della guerra? Come sempre, quando c’è una situazione di crisi. I problemi dal punto di vista economico erano molti. Nei giornali e in televisione c’erano costantemente brutte notizie, le tensioni crescevano, iniziavano a rafforzarsi gruppi molto nazionalisti che prima non avevano nessuna importanza. Le persone sbagliate cominciavano ad avere sempre più influenza sulle decisioni. In questo tipo di situazione tu non vuoi credere che una cosa del genere stia accadendo proprio a te. Un esempio di questo è anche la pandemia del Coronavirus. Le persone non vogliono che la loro vita, le loro abitudini, la loro libertà vengano limitate. E quindi laddove ci sono i segni tu non vuoi vederli fino a che non scoppia tutto. Ma se non si è previdenti ci si ritrova in una situazione che poi è peggiore. È per questo che ho portato la mia famiglia a Belgrado, dove per quanto brutta, la vita era molto meno pericolosa che a Sarajevo. Quali sono state le maggiori difficoltà? È difficile parlare di maggiori difficoltà. I soldi erano pochi, si cercava di tenere unita la famiglia. Mia nuora era venuta a stare a Belgrado. I suoi genitori vivevano a Sarajevo, dove la situazione era addirittura peggiore. Lei è riuscita a prendere l’ultimo aereo, dopodiché hanno blindato la città, a impedire entrate e uscite c’erano cecchini. Io posso dire di aver avuto vicina tutta la famiglia, ma per lei è stato molto più difficile. Stava spesso con noi, quando non studiava o lavorava, ma la preoccupazione era grande per chi aveva lontano. E queste cose durano tanto, tanti anni, durante i quali sei costantemente in ansia per cosa succederà il giorno dopo. Non riesci a goderti i momenti più ordinari, che capisci essere i più belli, perché vivi in una perenne agitazione. Durante questi anni è nato mio nipote, e non siamo riusciti ad apprezzare il momento come sarebbe stato giusto, perché invece di avere comuni preoccupazioni, la nostra era di scappare nei rifugi quando Belgrado è stata bombardata. La cosa più brutta è che il tempo passa e si vive alla giornata cercando di ricavarne il meno peggio possibile. Ma passano gli anni e quei momenti non tornano più. Questo per me ha avuto un’importanza relativa, ma ha bruciato
la gioventù dei miei figli e di mia nuora, che ha dovuto lavorare e studiare, senza poter avere nessun sostegno finanziario da parte dei suoi genitori, dato che Sarajevo era blindata. Come si viveva a Belgrado? I soldi erano pochi e tutto costava molto. Oltre a quello il clima era molto brutto. Ognuno guardava alla sua sopravvivenza e a quella dei propri cari. Dare la colpa a chiunque diventava facile. A mia nuora, quando la sentivano parlare con un accento diverso, dicevano che era venuta a rubare loro cibo e soldi, come se lei non fosse in difficoltà come chiunque altro. In una guerra le persone diventano egoiste. Esce il peggio. In quanto rifugiata, lei, come anche mia figlia, aveva diritto a dei “pacchetti” di beni primari, quindi, una volta ogni paio di settimane doveva andare la mattina molto presto, tra le 4 e le 5, a mettersi in fila, perché il raduno di persone era enorme e si correva il rischio di restare senza. Passavano ore al gelo e una volta è tornata senza niente. Quando le ho chiesto perché, ha detto che era lì, tra i primi in fila, quando l’uomo che doveva distribuire i pacchetti ha iniziato a indietreggiare con la calca di gente che si ammassava ancora di più per avvicinarsi, dicendo a un suo amico: "Guarda come mi vogliono bene." Mia nuora ha detto che non ce l’ha fatta più a restare, dopo averlo sentito. Si è solo spostata ed è tornata a casa. A parte questi episodi, la vita continuava con normali attività. Non si poteva fare altro. C’era la guerra ma si doveva vivere, tutto si doveva muovere. Non era la libertà di andare in giro che ci era stata tolta, ma la serenità di vivere in sicurezza. Ci sono stati episodi particolarmente significativi? Sicuramente il più significativo è stato il periodo di bombardamenti nel 1999, una volta placatosi un po’ il caos in Jugoslavia, durante il conflitto con il Kosovo. Mio nipote aveva un anno, e quando suonava l’allarme dovevamo tutti andare a nasconderci nei rifugi. I bombardieri miravano a dei punti strategici, come antenne e ponti per esempio. E su quest’ultimi c’erano persone che per impedire di farli distruggere si appiccicavano dei bersagli sul corpo e si radunavano sui ponti, restando li fermi. In questo modo non li potevano buttare giù: il tutto era filmato, bombardare un ponte colmo di gente non sarebbe risultato gradito agli occhi di nessuno.
Data dell’intervista: 19/04/2020 Modalità di realizzazione: Chiamata via telefono (traduzione dal serbo a cura dell’intervistatrice) Intervistatrice: Teodora Panjkovic Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a MARTINO ALUNNI, ex – segretario in una fabbrica con disabilità motoria
Preferisco i bambini Se volessi descrivere la disabilità con una sola parola, quale sarebbe? Credo che la parola sarebbe impotenza, mi spiego meglio: noi disabili nell’arco della nostra vita ci siamo sentiti per almeno una volta un peso per qualcuno vicino a noi e un peso per noi stessi, l’impotenza è quella cosa che ci fa capire quante cose oggettivamente saremo in grado di fare. Ci manca la libertà di voler fare quello che immaginiamo, ci manca la forza di poter fare quello che vorremmo. Senza l’aiuto dell’assistenza adeguata quante cose non riuscirebbe a compiere nella sua vita quotidiana? Il mio problema più grande sono gli spostamenti o i movimenti in generale: per esempio non sarei in grado di andare al lavoro, le barriere architettoniche non me lo permetterebbero. Se tutte le strutture fossero adeguatamente attrezzate mi permetterei di dire che sarei una persona normale e riuscirei a condurre una vita molto simile rispetto agli altri. A che età si è reso effettivamente conto di avere una disabilità motoria? Fin da bambino ho sempre saputo di essere diverso: ma da piccoli si ha sempre l’aspetto fantasioso che influenza molto la realtà. Mi ricordo di un preciso giorno, era un giorno di dicembre ed avevo 14 anni, quando mia sorella maggiore mi disse che avrei avuto una vita diversa da tutti gli altri e che mi sarei dovuto accettare com’ero, mi sarei dovuto imporre degli obiettivi raggiungibili e inseguirli. Da quel giorno mi sono reso conto di quanto fossi diverso dai miei compagni e delle opportunità in meno che avrei avuto rispetto a loro. Le mie capacità fisiche hanno influito molto sulla mia vita ma senza di loro non sarei diventato la persona che sono adesso, quindi dopo averle accettate si riesce benissimo a conviverci. Hai mai percepito imbarazzo altrui sulla tua condizione? Le domande che più frequentemente mi porgono ovviamente sono sempre le stesse e non sono nemmeno difficili da immaginare, l’imbarazzo è presente in molte occasioni ma non me ne sorprendo. I bambini sono i miei preferiti perché più sinceri e diretti: se hanno una domanda da porti non si fanno scrupoli. Come stai vivendo la quarantena? Cos’è cambiato o migliorato?
La quarantena la sto passando deliziosamente con la mia famiglia, per una volta sono facilitato a stare a casa data la mia condizione, per me non è facile uscire, se poi mi si pone davanti un decreto che mi obbliga a stare a casa io aderisco senza domandare.
Data dell’intervista: 28/04/2020 Modalità di realizzazione: videochiamata Intervistatrice: Pietro Menin Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a LORENZO TONOLLI, operatore in una cooperativa sociale di Rovereto
Il “disabile” è come noi: stop a pena e falsa pietà Puoi darci qualche dettaglio sul tuo percorso di studi e spiegarci come mai hai deciso di intraprendere proprio questo? Adesso tu lavori a Rovereto, in quale realtà? Diciamo che mi sono ritrovato dentro un po’ per caso. Tutto è partito dalle medie quando mi consigliarono di fare il “Liceo delle scienze sociali” che all’epoca si chiamava così. Successivamente ho proseguito e mi sono trovato benissimo. Già alle superiori ero molto interessato a temi sociali quali la disuguaglianza e altri temi di questo genere. Sono laureato in educazione sociale e culturale e più precisamente mi occupo dell’aspetto della riabilitazione sociale e dell’inserimento. Lavoro per una cooperativa sociale che si chiama “Villa Maria” e nello specifico in un progetto intitolato “Vivere a colori”, destinato a persone che hanno una disabilità lieve, sia motoria che cognitiva; ci occupiamo di far aumentare l’autonomia, in casa e fuori, dei ragazzi che seguiamo. L’obiettivo è quello, in un futuro più o meno vicino, prossimo, di permettere loro di vivere autonomamente insieme ad altri ragazzi disabili. L’aspetto chiave non è tanto insegnar loro come pulire o utilizzare il gas, ma far capire loro che vivere insieme comporta delle regole ben precise e non si devono fare torti dettati dall’egoismo. So che sei un ragazzo molto altruista e generoso sia sul campo da tennis ma anche fuori. Credi che in qualche modo questo ti abbia aiutato nei tuoi percorsi di studio e di lavoro o è stato semplicemente un altro caso? Sicuramente questo mi ha aiutato ma non è una prerogativa necessaria, anche se essere espansivi e altruisti aiuta. Serve sia in un primo momento, sia quando bisogna improvvisare, perché alla fine è un lavoro di improvvisazione. Sì, direi che in sostanza mi aiutato. Con la mia classe ho aderito ad un progetto di Fondazione Fontana Onlus intitolato “WSAPeople”; in particolare ci siamo occupati del tema della disabilità. Potresti spiegarci come lo intendi tu e che cosa hai imparato nei tuoi percorsi di studio e di lavoro? Sicuramente è un concetto ambiguo per la maggior parte delle persone. Dal punto di vista tecnico si suddivide su tre livelli: menomazione, disabilità e handicap. Tutto parte da una menomazione che può essere cognitiva e fisica. Ad esempio chi non ha un piede ha una menomazione fisica. La disabilità è lo svantaggio che chi porta la menomazione ne trae. L’handicap invece è lo svantaggio sociale che la persona subisce a causa di questa menomazione o disabilità. Molti non sanno che la disabilità in soldoni è questo. Nel mio caso il fatto di aver potuto fare molti tirocini ed essere entrato a contatto con realtà differenti mi ha aiutato nella comprensione della disabilità, anche se secondo me è un brutto termine. Ho capito che tutta la sorta di pantomima sulla pena verso il disabile deve
essere cancellata e questa è una delle battaglie più difficili da combattere perché tutti provano tenerezza e pena per il disabile. E invece non deve essere così! Deve essere trattato come una persona “normodotata” con caratteristiche differenti. A questo proposito, hai avuto modo di creare dei rapporti belli con i ragazzi con cui lavori? Certo, assolutamente. È sempre difficile perché la disabilità comporta una sensibilità maggiore. Nella disabilità tutto è elevato all’ennesima potenza, dal senso di colpa all’orgoglio. Dunque è molto difficile porsi, perché quando ti poni devi essere sempre una persona di riferimento e in base alla disabilità puoi essere anche visto come un amico. Spesso si instaurano bei rapporti ma sempre con la consapevolezza che tu, educatore o insegnante, sei la figura che coordina. Al di fuori della struttura li vedo però pochissimo, quindi all’interno della cooperativa ho instaurato dei bei rapporti che però purtroppo finiscono lì. Recentemente ho letto sulla testata giornalistica online “Unimondo.org” che ci sono voluti decenni per riconoscere i diritti dei disabili. Secondo te sul nostro territorio sono riconosciuti e rispettati? Mi sento di dire che sono abbastanza riconosciuti, però è stato un lavoraccio. Dico abbastanza perché purtroppo perché non si ha ancora accesso ad un mondo completamente inclusivo, perché c’è ancora questa sorta di tenerezza e pena che fa sì che il disabile sia sempre preso da parte e fatto un mondo per lui. Invece nel mondo di tutti il disabile deve essere inglobato. C’è quindi ancora molta strada da fare! Manca quella che chiamerei una sorta di inclusività totale.
Data dell’intervista: 26/03/2020 Modalità dell’intervista: chiamata telefonica Intervistatore: Pietro Tranquillini Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a AYOMIDE FOLORUNSO, ostacolista e velocista italiana
I limiti più grandi stanno nella propria testa Ho visto un tuo post su Instagram dove parlavi del fatto che siano stati i 400 metri ad ostacoli a “cercarti” e non viceversa. Cosa pensi che avresti fatto se non avessi incontrato l’atletica leggera? Cosa sognavi da piccola di fare una volta cresciuta? Prima di incontrare l’atletica leggera ero ben lanciata verso una carriera puramente accademica e per un breve periodo ho sognato pure di fare musica. Idealmente alle superiori avrei continuato a prendere lezioni di violino perché mi piaceva (non prevedevo di fare carriera lì perché obiettivamente non pensavo di avere chissà che talento oltre al puro impegno nell’imparare). Senza atletica avrei fatto del mio meglio per vincere una borsa di studio per andare a studiare medicina all’estero, o in America o nel Regno Unito. Sognavo (e il sogno rimane tutt’ora) di fare la pediatra o la chirurga pediatrica. Mi tengo la facoltà di cambiare idea eventualmente lungo il percorso, considerando l’ampio campo della Medicina e i suoi percorsi; ma rimane una certa preferenza verso l’età pediatrica. Nonostante la tua giovane età ti capita mai di pensare a come continuerà la tua vita dopo la carriera da atleta? Rispetto alla maggior parte degli atleti ho cominciato la mia carriera atletica con la nozione ben stampata nella mia testa che questa sarebbe stata solo una parentesi della mia vita. Ora mi ricredo un po’ sulla durata relativamente breve di questa parentesi in quanto al momento sono proiettata avanti verso obiettivi davvero importanti. Non ho certo l’illusione che continuerà per sempre quindi rimango motivata a conseguire la mia laurea magistrale in Medicina e Chirurgia anche se, rispetto a prima, l’arco temporale nel quale raggiungere questo obiettivo si è abbastanza dilatato. Quanto credi che conti per una persona con difficoltà motorie lo sport nella vita di tutti giorni? Credo sia importante che una persona con difficoltà motorie possa godere degli stessi benefici che ha una persona senza difficoltà motorie evidenti. Sono indiscutibili i benefici innanzitutto sulla salute che ha la pratica moderata dello sport nella vita di tutti i giorni. Lo sport inoltre aiuta a far crescere l’autostima, a scoprire se stessi ed interagire con l’ambiente intorno in un modo speciale. Poi lo sport a livello professionistico è un po’ diverso ed è una esasperazione che forse non fa per tutti. Ma sono convinta che sia davvero importante che tutti abbiano pari opportunità di accesso a questa sorta di medicina rigenerativa (permettimi il temine) che è la pratica moderata dello sport di qualsiasi disciplina; è un tassello molto utile nella ricerca della propria dimensione.
Conoscendoti, come credi che avresti reagito se avessi avuto una disabilità fisica? La tua forza di volontà ed il tuo carattere ti avrebbero aiutato a continuare con lo sport? Se fossi nata con una disabilità fisica vorrei pensare che lo sport mi avrebbe aiutato nella ricerca della mia dimensione e di come andare oltre la mia disabilità. Se la disabilità fisica si fosse manifestata lungo il percorso, la mia fede innanzitutto e poi la mia voglia di continuare a giocare, vincere e ri-testare i miei limiti mi avrebbe riportato allo sport molto probabilmente. Infine, supponiamo che io stia praticando atletica leggera da quando sono piccolo e che io abbia avuto un incidente all’età di 16 anni perdendo una gamba. Quali sono le prime raccomandazioni che un’atleta del tuo spessore farebbe ad un adolescente che rischia di subire un crollo psicologico dovuto alla sua disabilità? Ti incoraggerei innanzitutto a non abbatterti, accettare questa nuova realtà ma guardando avanti con senso propositivo. Ti direi che la vita è un dono preziosissimo e finché c’è quello, c’è speranza e si può continuare a sognare e lavorare per realizzarli. Lo sport paralimpico è una realtà da esplorare e si può aspirare ai massimi vertici anche lì, se vedi olimpiadi paralimpiche. Una gamba in meno è solo un limite fisico; se ci si rimette in gioco (e non solo nello sport) si scopre che spesso i limiti più grandi stanno solo nella propria testa. Come prima saranno indispensabili costanza e disciplina per raggiungere i risultati in quanto su questa terra nessun bel risultato viene regalato a nessuno, né ai normo-dotati né ai paralimpici. “Devi essere tu, caro il mio ragazzo, il primo a dover scegliere: se subire passivamente gli eventi oppure cercare di esplorare questa nuova realtà davanti a te. Ti incoraggerei a scegliere la seconda alternativa perché potresti rimanere stupito di te stesso e di quante belle cose rimangono ancora all’orizzonte”. Inoltre ti incoraggerei a conoscere le storie di atleti paralimpici, soprattutto quelli dell’atletica leggera italiana, ma non solo, per cominciare a farti un’idea delle altre possibilità di cui ti parlavo appunto. Tutto questo te lo direi con il sorriso.
Data dell’intervista: 03/05/2020 Modalità di realizzazione: via mail Intervistatore: Trif Eduardo Istituto: Liceo Antonio Rosmini Rovereto Classe: 4 Sezione: DM Scienze applicate
Intervista a FEDERICO FEDELE, Presidente di Disability Freedom
Non una semplice influenza Da qualche tempo ormai si è ritrovato a vivere con una disabilità. Mi racconterebbe quando e come è successo? Sì, quando è successo avevo 32 anni. La mia disabilità è stata causata da una malattia virale che si chiama mielite trasversa. È successo tutto improvvisamente. Avevo febbre alta e i sintomi dell’influenza intestinale, insomma, sembrava una comune malattia virale. Dopo tre giorni però ho cominciato a non sentire più le gambe. La malattia da lì in poi ha continuato a progredire e mi sono ritrovato paralizzato dal collo in giù, compresi i polmoni, allora sono entrato in coma. Stavo per morire, ma grazie alla plasmaferesi e a lunghi percorsi di riabilitazioni adesso riesco a camminare con le stampelle, quindi attualmente sono semiparalizzato. Ritiene che i suoi miglioramenti siano anche dovuti alla determinazione? Sinceramente… non proprio. Io dico sempre che in questi casi si ha solo bisogno di tanta fortuna. Certo, la fisioterapia e la forza di volontà aiutano, ma se non si ha fortuna si può fare ben poco. Molte volte dipende dalla lesione che si ha. Come ha reagito quando i medici le hanno detto che aveva perso l’uso delle gambe? Per la verità non mi hanno semplicemente detto che non avrei più camminato. Appena mi sono svegliato dal coma, i medici mi hanno comunicato che avrei vissuto il resto della mia vita dentro un ospedale. E là è stata davvero dura. Subito non l’ho presa bene e ho provato un immenso sconforto, non riesco a spiegarlo a parole. C’è da dire però che poi mi è venuta una voglia di vivere incredibile, certo, dipende dal carattere, c’è anche chi cade in depressione, ma per me è stato così, non ho voluto mollare. Come si sono comportati i suoi amici in seguito alla malattia? Conosce qualcuno che non l’ha più trattata nello stesso modo dopo di allora? Sì, devo dire che dopo la mia malattia ho perso l’amicizia di molte persone, ma non di tutte. Io credo che dipenda molto da come ti poni: se fai pesare la tua malattia sugli altri allora questi vedranno la tua malattia e la vivranno come un problema. Inoltre, per quanto mi riguarda, posso dire di avere la fortuna di trasmettere molta positività: la prima cosa che si nota di me infatti è la persona che sono, il mio carattere, non il fatto che sia semiparalizzato. È capitato addirittura che qualche mio amico si dimenticasse della mia disabilità!
Fra le città in cui è stato, qual è quella in cui più di tutte ha potuto muoversi liberamente, senza barriere, e quella invece che lei descriverebbe come la città “peggiore” sotto questo punto di vista? Non facile questa domanda… non saprei dirti una città in particolare, ma penso che un po’ tutte le città storiche presentino questa problematica, perché all’epoca non esisteva ancora il concetto di “barriere architettoniche”. Al contrario, le città più moderne sono più adatte alle persone con disabilità, perché sono state costruite seguendo dei progetti concepiti pensando anche a questa parte della popolazione. Le città nuove solitamente presentano un’architettura più accessibile.
Data dell’intervista: 16/02/2020 Modalità di realizzazione: telefono Intervistatori: Vidale Marianna Istituto: Liceo musicale e coreutico F. A. Bonporti Classe: 3 MB
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