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Natale, veniva messa tra i piatti fondo e li§io del papà. Solo dopo avere mangiato la minestra lui la “vedeva”, la leggeva, ci faceva i complimenti, ci baciava ed eravamo tutti felici e contenti che fosse Natale. Quando non ero più bambino, la cosa forse è continuata per un po’ con i miei fratelli minori, 7 e 9 anni più giovani di me. Per molti anni Natale per noi significava alzarsi presto al mattino, andare alla stazione delle ferrovie locali (a me pare esserci sempre andato a piedi, ma forse non è vero), prendere la littorina per il paese natale dei miei genitori, arrivare col buio, “andare dalla nonna Angela” (c’era anche il nonno Piero e la zia Wally, ma si diceva così), entrare in una stanza ben riscaldata, scambiarci baci e abbracci, augurarci vicendevolmente “Buon Natale”, sederci attorno ad un grande tavolo e bere cioccolata calda con biscotti (ma forse questo avveniva dopo che eravamo stati a messa e fatta la comunione). C’era anche il panettone, ma non ricordo da quando. Poi si andava dai paterni “nonni Stivani” e scambiavamo anche con loro gli auguri. E arrivavano dai nonni comuni anche i cugini castellani (abitanti a Castelfranco Veneto), figli del fratello di mia madre e della sorella di mio padre. A mezzogiorno si mangiava tutti assieme: da Nonna Angela c’era minestra in brodo (spesso di gallina, che a me non piaceva molto) con tortellini o tagliatelle fatte a mano (lei era bravissima a stendere la sfoglia e mia madre velocissima a tagliarle) , bollito misto con molti contorni e cren, arrosto o carne in umido con polenta (competenza del nonno), frutta (arance, mandarini e sicuramente noci per lo zio, suo figlio). Si passava il pomeriggio chiacchierando e giocando, alla sera