Il Giornale dei Biologi - N.7/8 - Luglio/Agosto 2023

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SICCITÀ E INONDAZIONI L’AGRICOLTURA SOFFRE

Carenza d’acqua e piogge torrenziali si alternano in un clima instabile che manda alle stelle i prezzi alimentari

Edizione mensile di Bio’s. Registrazione n. 113/2021 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna. Giornale dei Biologi Luglio/agosto 2023 Anno VI - N. 7/8 www.fnob.it

*Calabria

Campania-Molise

Emilia Romagna-Marche

Lazio-Abruzzo

Lombardia

Piemonte-Liguria-Valle

Veneto-Friuli Venezia

D’Aosta

Puglia-Basilicata

Sardegna

Sicilia

Toscana-Umbria

Giulia-Trentino

Alto Adige

ONB si è trasformato Sono stati costituiti la FNOB e gli Ordini Regionali dei Biologi* Tutte le informazioni su www.fnob.it
L’

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PRIMO PIANO

I cambiamenti climatici? Si avvertono a tavola e anche in cassa di Rino Dazzo

Sott’acqua la “fruit valley” d’Italia di Rino Dazzo

Dispersione idrica, la nuova piaga dei campi di Rino Dazzo

22 Trapianti di rene, tripla donazione internazionale da vivente salva tre pazienti di Barbara Laurenzi

La storia a lieto fine di Simone, affetto da deficit di Aadc di Barbara Laurenzi

Svelato l’enigma di come il virus dell’epatite C si nasconde nel fegato di Sara Bovio

La resilienza immunitaria: il segreto per una salute ottimale a lungo termine di Carmen Paradiso

Tumore alla mammella negli uomini, ancora dei tabù da infrangere di Elisabetta Gramolini

Completato il più grande atlante delle cellule della mammella di Carmen Paradiso

Cuore, la diagnosi precoce salva le vite così come per i tumori di Elisabetta Gramolini

INTERVISTE

Abilità cognitive, oltre ai geni c’è di più: il ruolo cruciale dell’ambiente di Ester Trevisan

Migliori ricercatori under 40, il talento di Domenico Mallardo di Chiara Di Martino

Cervello: il sonnellino pomeridiano aiuterebbe a invecchiare meglio di Domenico Esposito

Infezione batterica causa l’endometriosi? di Domenico Esposito

Diabete tipo 2, possibile rivoluzione alle porte di Domenico Esposito

Stili di vita e alimentazione nelle alterazioni strutturali dei capelli di Biancamaria Mancini

Microbiota cutaneo e probiotici proteggono la pelle dai raggi

di Carla

Sommario Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 C 16 18
Cimmino 24 26 28 30 SALUTE Sclerosi multipla: scoperta la
variante genetica che accelera la malattia di Domenico Esposito 80 32 34 36 38 10
Nessuna guerra civile Vincenzo D’Anna 3 14 39 40 42
UV
prima
EDITORIALE

AMBIENTE

Salvaguardia della natura: un obbligo normativo in Europa di Ester Trevisan

Illuminare le vette sfidando la crisi climatica di Gianpaolo Palazzo

Costruzioni 3D per ripristinare le barriere coralline nel mediterraneo di Gianpaolo Palazzo

Scarti di biscotti che diventano tesori di Sara Bovio

INNOVAZIONE

Scoperti oltre 12mila folding proteici sconosciuti in natura di Sara Bovio

Un videogioco d’azione per trattare la dislessia evolutiva in età scolare di Pasquale Santilio

Nanomateriali da fonti rinnovabili di Pasquale Santilio

Svelata composizione chimica dei campioni di Pasquale Santilio

Nuovi agenti infettivi con molecole di Rna di Pasquale Santilio

Fegato, benefici della melagrana di Michelangelo Ottaviano

BENI CULTURALI

I pellegrinaggi al santo sepolcro? Fiorentissimi già nel IV secolo di Rino Dazzo

Archeologia, ancora sorprese a Selinunte di Eleonora Caruso

Le sette meraviglie del Tour de France di Antonino Palumbo

Hediye e la mascotte oltre la medaglia di Antonino Palumbo

È stata un’Italia da sogno ai mondiali di atletica paralimpica di Antonino Palumbo

La “siccità” nello sport di Rudy Alexander Rossetto

SCIENZE

Biologia ed ecologia comportamentale. Il ruolo dei nonni di Jolanda Serena Pisano

Malattie sessualmente trasmissibili e le ragioni dell’aumento dei casi di Daniela Bencardino

Portatori di Staphylococcus Aureus e rischio di contaminazione alimentare di Daniela Bencardino

Sommario D Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
90 94 LAVORO Concorsi pubblici per Biologi 88 98 SPORT
Antonino Palumbo 72 75 76
Matteo Dell’Acqua. Sogni e “segreti” di una bandiera del rugby di
66 78 58 60
48 52 54 62 63 LIBRI Rubrica letteraria 86 56 64 65 71 84

Informazioni per gli iscritti

Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00

Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

UFFICIO CONTATTO

Centralino 06 57090 200

Ufficio protocollo protocollo@cert.fnob.it

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 3

Anno VI - N. 7/8 Luglio/agosto 2023

Edizione mensile di Bio’s Testata registrata al n. 113/2021 del Tribunale di Roma Diffusione: www.fnob.it

Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna

Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.fnob.it

Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione giovedì 27 luglio 2023.

Contatti: protocollo@cert.fnob.it

Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.

Immagine di copertina: © Oleksandrum/www.shutterstock.com

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Giornale dei Biologi
SICCITÀ E INONDAZIONI L’AGRICOLTURA SOFFRE
Carenza d’acqua e piogge torrenziali si alternano in un clima instabile che manda alle stelle prezzi alimentari

Nessuna guerra civile

“Si vada dove i prodigi degli dèi e l’iniquità dei nemici indicano. Il dado è tratto”.

Iniziò con questa memorabile espressione pronunciata da Caio Giulio Cesare nel gennaio del 49 a.C., secondo lo storico Svetonio, la guerra civile nell’antica Roma. Uno scontro ufficialmente aperto con l’attraversamento del Rubicone, un fiumiciattolo che nella Roma repubblicana segnava il limite estremo settentrionale del pomerium, vale a dire il confine che divideva l’Urbe dal resto del mondo, che non poteva essere attraversato dalle Legioni senza il permesso del Senato. Come noto le ostilità ebbero termine a Farsalo, allorquando le legioni di Cesare, capo dei “Popolares”,

l’ebbero vinta su quelle di Pompeo Massimo, leader degli “Ottimati”. Erano, poco più di duemila anni fa, quelle le fazioni che si contendevano il potere sulle sponde del Tevere.

In questi mesi siamo stati spesso sul punto di attraversare anche noi il Rubicone che separa i due blocchi venuti a crearsi al tavolo del Comitato Centrale

Ebbene, in questi mesi, da marzo a luglio per essere più precisi, siamo stati spesso sul punto di attraversare anche noi il Rubicone che separa i due blocchi venuti a crearsi al tavolo del Comitato Centrale, l’organo di governo della FNOB. Il paragone tra gli eventi è, ovviamente, solo di tipo storico e allegorico, tuttavia, ben chiarisce come una soluzione del genere sarebbe sfociata irrimediabilmente in un lungo, logorante conflitto tra schieramenti organizzati e contrapposti, con il grave rischio di ra-

Editoriale Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 5

dere al suolo la Federazione e con essa tutto il pregresso lavoro svolto, finora, per il rilancio della categoria dei Biologi italiani. Un lavoro duro, portato avanti nei cinque anni precedenti (2017-2022) e che risulta comprovato “per tabulas”, ossia documentato in un libro bianco che riepiloga i fatti salienti portati a risoluzione nell’ultimo quinquennio di vita del disciolto ONB. Un vero e proprio “dossier” spedito a tutti gli iscritti, consultabile anche online, affinché l’intera categoria prendesse coscienza che i Biologi potevano e dovevano progredire, non essere destinati all’oblio.

Il Libro bianco è un“dossier”, consultabile online e su carta, che spiega come i Biologi siano destinati al progresso scientifico e non all’oblio

riori opportunità lavorative. Dunque, quello che era stato egregiamente fatto lo si poteva rifare, riuscendo a integrare al meglio i neonati Ordini regionali e la Federazione Nazionale dei medesimi. Lo si sarebbe potuto fare tranquillamente alla luce del sole, in concordia solidale, guardando ben oltre l’angusto orizzonte delle contese territoriali e delle ambizioni di onnipotenza di taluni assurti alla presidenza degli Ordini territoriali.

Ci siamo battuti appunto perché convinti che la nostra professione meritasse di finire al centro dell’attenzione di una sempre più vasta platea sociale, soprattutto durante la pandemia del Covid-19, e che il futuro assegnasse alle Scienze Biologiche un più vasto orizzonte di nuove conoscenze ed ai Biologi ulte-

Non si ravvisava alcuna necessità di dare vita ad una rivalità senza senso e senza sbocchi, perché i contesti legislativi e normativi che disciplinano i rapporti tra FNOB ed Ordini Regionali, sono chiari ed intellegibili. Molta la presunzione e poca la conoscenza da parte di qualche “re travicello” che smaniava in periferia, per poterlo realizzare. Quindi non c’è alcuna necessità di tramare alle spalle della presidenza nazionale e di chi con

Editoriale 6 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023

essa aveva tutte le buone intenzioni di non dilapidare i frutti raccolti nel recente passato. Lo si sarebbe potuto fare in armonia attraverso il leale e franco confronto, senza pregiudizi e riserve mentali, consapevoli che il sincretismo tra i due meccanismi organizzativi e politici degli Ordini territoriali e della FNOB erano indispensabili.

Ahinoi, così purtroppo non è stato! Innanzi a tale stato di cose le strade da percorrere erano due: o varcare il Rubicone e dichiarare, in tal modo, guerra a chi la guerra l’aveva dichiarata, nei fatti, alla FNOB procedendo laddove la malvagità, la tracotanza e l’ignoranza ci chiamavano, oppure disarmare i due eserciti, azzerando il Comitato Centrale della FNOB e gli schieramenti in esso formatisi. Un Comitato, si badi bene, nato sotto una cattiva stella. Ho scelto quest’ultima opzione non per quieto vivere, ma perché non vi sono gli spazi economici e quelli

Nel Comitato Centrale della Fnob non ci sono gli spazi economici e quelli politici per proseguire in armonia nel duro lavoro che ci aspetta

politici per proseguire in armonia nel duro lavoro che ci aspetta. In disparte il fatto che uno degli schieramenti venuti a crearsi all’interno del Comitato si fosse formato surrettiziamente ed ambiguamente, nel cono d’ombra di un disegno occulto: un gruppo di trasformisti, vocato a ribaltare i rapporti di forza dell’organo decisionale della Federazione, incurante del chiaro responso elettorale ci voleva paralizzare e condizionare. Eppure, il responso elettorale aveva indicato nelle liste regionali dei “Biologi per il Rinnovamento” quelle vincitrici nella contesa! Tuttavia, se ciascuno fosse rimasto là dove gli elettori lo avevano posizionato, seguendo un comportamento etico e rispettoso del verdetto dell’urna, si sarebbe certamente aperto, in seguito, un dialogo con tutti nel superiore interesse dei Biologi. Un dialogo, però, è risaputo, presuppone chiarezza e coerenza, lealtà e solidarietà

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con i compagni di strada (leggi eletti nelle liste elettorali) salvo poi confrontarsi con le minoranze. Il trasformismo di taluni, invece, ha prevalso e i voltagabbana hanno addirittura pensato di potersi elevare al rango di “super partes” e di assumere un ruolo di verifica e controllo ispettivo. Insomma, dalla sera alla mattina ci siamo trovati innanzi a persone che seppur cooptate ed elette nella lista di chi vi scrive, si sono trasformate in sospettosi censori, in dominus del nulla e che di “nulla” avevano mai saputo cosa fosse e cosa avesse fatto l’Ordine dei Biologi nel recente passato. E tuttavia questi colleghi si sono fusi con la minoranza e per conto della stessa hanno inanellato intoppi e cavilli, ancorché non fosse mai emerso alcuna necessità di operare in tal senso.

La emanazione del Decreto Ministeriale sulla gestione degli Ordini e delle Federazioni conforta le posizioni assunte dalla FNOB

Insomma, si è proceduto, da parte loro, ad agire sulla scorta del formarsi un’idea (sbagliata) poggiata su pette-

golezzi, supposizioni malevoli e menzogne propalate in giro da chi avendo perso le elezioni avvelenava i pozzi con pettegolezzi da comari. Bugie diffuse con costante dedizione, guarda caso, proprio da taluni soggetti che erano stati compartecipi nell’ultima gestione del disciolto Ordine Nazionale, come componenti del Consiglio. Insomma: il paradosso assoluto di avere come controllori e censori, persone alla primissima esperienza in materia, ignari di cosa fosse diventato, nel frattempo, l’Ordine. Innanzi a tale vicenda, contorta ed opaca, ove è risultato invero scoraggiante e deludente l’agire di questi colleghi, non restava altro da fare che invitare il Ministero a porre termine ad uno stallo amministrativo e gestionale perpetuo, prima che ci si trasferisse, con grande disdoro per la categoria, nelle aule dei tribunali. La emanazione del Decreto Ministeriale

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sulla gestione degli Ordini e delle Federazioni conforta le posizioni assunte da FNOB e riduce le pretese dei censori ad inutili opinioni personali.

FNOB si è sempre mossa in linea con quelle disposizioni e con la legge sia oggi che in passato. Ciò nonostante, si sono determinate, per lo sprovveduto comportamento di taluni, manchevolezze ed inadempienze, reiterate violazioni della legge e dei regolamenti vigenti e di quelli nuovi che non hanno trovato approvazione, insieme alla mancata approvazione del Bilancio 2023 e della nomina del presidente del Collegio dei Revisori. Uno stato che indurrebbe il Ministero vigilante ad accogliere l’invito a porre fine allo stato di caotica inoperosità in cui siamo rovinosamente precipitati. Qualora tale invito venisse accolto in applicazione della legge e delle norme in materia, le legioni armate torneranno tutte a casa,

I commissari ministeriali dovrebbero indire nuove elezioni e toccherebbe di nuovo ai presidenti degli Ordini regionali scegliere tra le liste presentate

le ambiguità fugate, i trasformismi vanificati, le ipocrisie e la menzogna delegittimante, derubricate. Si cancellerebbe in tal modo questa pagina, non gloriosa, ma fortunatamente breve, della vita della Federazione. Un atto di estrema responsabilità per allontanare dalla dirigenza personaggi che non hanno mostrato né la statura, né l’esperienza e la buona fede per potersi trovare in quel posto. Un repulisti generale, insomma, che finirebbe con il passaggio della palla ai commissari ministeriali chiamati, entro tre mesi, a indire nuove elezioni per il Comitato Centrale della FNOB. In tal caso toccherebbe di nuovo ai presidenti degli Ordini regionali scegliere tra le liste presentate. Certamente, tra queste, ai blocchi di partenza, ci sarà quella dei Biologi per il Rinnovamento, purgata a dovere dagli elementi divisivi e inesperti. Che il nostro, quindi, sia un arrivederci!

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I CAMBIAMENTI CLIMATICI? SI AVVERTONO A TAVOLA E ANCHE IN CASSA

Piogge, siccità, caldo record: la produzione agricola fa i conti col clima instabile Prezzi alle stelle e prodotti introvabili: le proposte delle associazioni di categoria

di Rino Dazzo

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Primo piano

Lunghe fasi di siccità. Poi un periodo più o meno lungo di piogge, in alcuni casi torrenziali. E poi ancora siccità e caldo insopportabile: per gli esperti, il 2023 è il terzo anno più bollente di sempre in Italia ed è questo quadro climatico che sta provocando gravi danni all’agricoltura. I confini tra le stagioni sono sempre più sfumati e i fenomeni estremi, dalle piogge alluvionali alla desertificazione crescente di territori sempre più vasti, sono le due facce della stessa medaglia. Governare e gestire il cambiamento del clima sta diventando sempre più difficile e a rimetterci sono tutti: dagli agricoltori, che

con le calamità naturali vedono vanificare gran parte dei loro sforzi, ai consumatori, costretti a spendere sempre di più per portare a tavola i prodotti desiderati, per non parlare dell’ambiente, sempre più soggetto a eventi catastrofici come l’alluvione abbattutasi a maggio sull’Emilia-Romagna.

Il caldo record, in particolare, sta provocando tagli significativi nella raccolta agricola. Le associazioni di categoria, da Coldiretti a Confagricoltura, snocciolano dati e analisi preoccupanti. La produzione di grano è calata del 10%, il raccolto di miele è sceso del 70%, le ciliegie del 60% per effetto dell’alluvione nella

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 11 © Zigres/shutterstock.com
Primo piano

fruit valley italiana, la Romagna, ma anche per le piogge intense in Puglia e Campania. Le alte temperature che ustionano frutta e verdura hanno fatto diminuire del 10% la produzione di latte e uova, nonostante gli sforzi degli agricoltori che hanno munito gli allevamenti di ventilatori e doccette refrigeranti. Ma è nei campi e nei frutteti che si riscontrano le situazioni più critiche. Nella maggior parte dei casi si cerca di anticipare il raccolto quando possibile, diradando i frutti sugli alberi e puntando solo su quelli in grado di giungere a maturazione. I tagli, comunque, sono inevitabili. A rischio ortaggi, mais, soia, pomodoro, ma anche uva, meloni, angurie e melanzane: trovarli sulle tavole, in estate e in autunno, potrebbe essere difficile.

Il problema principale riguarda il frumento. Le piogge insistenti di maggio e inizio giugno hanno creato le condizioni ideali per la diffusione di patogeni di natura fungina, o anche per far marcire il raccolto in campo. E la diminuzione della produzione interna comporterà la necessità di ricorrere sempre di più alle importazioni dal Canada e dall’Ucraina, con due ordini di problemi. Anzitutto, il grano che arriva dall’America del Nord è trattato chimicamente per consentirne l’essiccazione e può contenere tracce di glifosato, molecola base di molti erbicidi che nel 2015 l’IARC (Agenzia interna-

Primo piano

La produzione di grano è calata del 10%, il raccolto di miele è sceso del 70%, le ciliegie del 60% per effetto dell’alluvione nella fruit valley italiana, la Romagna, ma anche per le piogge intense in Puglia e Campania.

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zionale per la ricerca sul cancro) ha classificato come potenzialmente cancerogena per l’uomo. Il grano ucraino, invece, arriverà con maggiore difficoltà e sarà molto più caro dopo lo stop al patto Onu tra Ucraina, Turchia e Russia al transito delle merci nei porti di Chornomorsk, Yuzhny e Odessa. In particolare, secondo i dati forniti dal Centro Studi Divulga, saranno a rischio 1,4 miliardi di chili di mais, 434 milioni di chili di grano, 100 milioni di chili di olio di girasole e altri cereali giunti in Italia nell’ultimo anno grazie all’attuazione dell’accordo. Insomma, le conseguenze più tangibili di questo stato di crisi saranno essenzialmente due: aumento dei prezzi di vendita (+11% a giugno) e meno prodotti di qualità a tavola, con massiccio ricorso a cibi low cost. Per la Coldiretti, a tale riguardo, è necessario aumentare i fondi destinati ai contratti di filiera nell’ambito del Pnrr per soddisfare gli investimenti proposti dalla pasta alla carne, dal latte all’olio, dalla frutta alla verdura, e per dare sostegno alle imprese agricole colpite dal maltempo e dal caldo che hanno decimato i raccolti. «Occorre lavorare nel Pnrr per accordi di filiera tra imprese agricole e industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali e alle speculazioni», l’auspicio del presidente Ettore Prandini.

Confagricoltura, che già nel 2019 aveva creato CoorDifesa, Consorzio Nazionale per la gestione dell’Agricultural Risk, ha presentato invece un Piano strategico per lo sviluppo della filiera agroindustriale italiana. «Le crisi che stiamo tuttora vivendo – si legge nella nota della confederazione che da alcune settimane è diretta per la prima volta da una donna, Annamaria Barrile – non devono essere sprecate. Il sistema delle imprese ha reagito, puntando sugli investimenti, sulle innovazioni per far salire la propria produttività, ma in questo esse devono essere costantemente accompagnate e orientate verso un obiettivo comune. Per fare questo è necessario individuare i nodi che a livello di filiera limitano lo sviluppo e il raggiungimento di nuovi obiettivi, dalle infrastrutture alla logistica, fino alla legislazione sull’innovazione, passando dagli accordi bilaterali alle tematiche di discussione europee, senza trascurare le oscillazioni economiche».

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© Leonid Sorokin/shutterstock.com sergey kolesnikov/shutterstock.com

Èun’eccellenza dell’agroalimentare italiano ed è stata messa in ginocchio dalla terribile alluvione che, dal 2 al 17 maggio scorso, ha flagellato il 42% della superficie agricola dell’Emilia-Romagna. La Fruit Valley italiana, una ricca porzione di territorio romagnolo, è stata letteralmente sommersa dall’acqua che ha danneggiato in modo significativo i suoi frutteti di kiwi, pere, mele, susine, pesche, albicocche e ciliegie. Ma non solo. Anche colture come ortaggi, mais e grano hanno visto perdere la quasi totalità del loro raccolto. Una vera sciagura per le oltre 21mila aziende del settore localizzate in zona, una mazzata per l’intero export italiano visto che i prodotti della «valle della frutta» sono inviati ovunque, dalla Cina all’Arabia Saudita, per un volume d’affari da un miliardo e duecento milioni di euro.

I danni stimati dell’alluvione, però, sfiorano i nove miliardi di euro e la metà circa riguarda fiumi, strade e infrastrutture. L’acqua ha fatto spaccare colline e montagne e ha allagato le pianure, sommergendo strade, abitazioni, campi, aziende. Quarantotto i comuni colpiti dalla calamità naturale, 23mila gli sfollati, mentre non si contano i dissesti provocati dallo straripamento di 23 tra fiumi e torrenti. Della ricostruzione si occuperà in prima persona il generale Francesco Paolo Figliuolo, già all’opera nella seconda fase della lotta all’emergenza Covid, che ha indicato le priorità nel corso di un intervento in commissione Ambiente: «Bisogna fare in maniera veloce, non affrettata, ma fare bene: essere sicuri di dare a chi effettivamente ha avuto il danno. Il primo focus va sul dissesto idrogeologico, sul quale stiamo già lavorando. La prima cosa che farò, non appena avrò le risorse e dopo aver fatto la ricognizione, sarà erogare i fondi partendo dai Comuni più piccoli e più esposti». Anche perché bisogna evitare che simili sciagure possano

SOTT’ACQUA LA “FRUIT VALLEY” D’ITALIA

I danni dell’alluvione in Romagna e le ripercussioni sul comparto agroalimentare: il piano per la ricostruzione

ripetersi in futuro: «Serve una messa insicurezza iniziale, per cui a ottobre con le nuove piogge ci sia un minimo di garanzia».

Ma perché si è verificata un’alluvione di tale portata? E perché sono sempre più frequenti, purtroppo, eventi del genere sul territorio italiano? Il ruolo del cambiamento climatico è fuori discussione. «Siamo ormai entrati in una fase di anormalità climatica permanente che ha già modificato il ciclo dell’acqua, aumentando frequenza e intensità di eventi meteo climatici estremi», ha spiegato Andrea Barbabella, responsabile

scientifico del network Italy for Climate, promotore della Conferenza Nazionale sul clima 2023, dal titolo: «Alluvioni e siccità. Quali strategie per affrontare la crisi climatica?». L’Italia, infatti, è al centro dell’hotspot climatico del Mediterraneo e, a fronte di una media mondiale di +1,1 gradi, ha fatto registrare un aumento di temperatura di quasi tre gradi rispetto al periodo preindustriale. In più, il 93,9% dei comuni italiani è a rischio frane, alluvioni ed erosione costiera, con dodici milioni di persone che vivono in aree potenzialmente soggette ad alluvioni. (R. D.)

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Primo piano Campo agricolo in Emilia-Romagna, maggio 2023.

DISPERSIONE IDRICA, LA NUOVA PIAGA DEI CAMPI

Di acqua ce ne sarebbe a sufficienza per tutti, in Italia

Eppure, interi territori rischiano di rimanere a secco

Ce ne sarebbe a sufficienza per tutti, eppure sembra che non basti mai. L’acqua, o meglio la corretta gestione delle risorse idriche, è un problema anche per l’Italia, che pure rispetto ad altri paesi europei è messa decisamente meglio. Con circa 130 miliardi di metri cubi disponibili ogni anno, infatti, il nostro paese è terzo per disponibilità di risorse idriche dopo Francia e Svezia ed è primo per il prelievo, con quasi 40 miliardi di metri cubi all’anno. Un record, visto le difficoltà in cui si barcamenano altri importanti paesi. Eppure, il pro -

blema principale in Italia è legato alla dispersione. La disponibilità effettiva d’acqua, infatti, è calata del 20% in pochi decenni e potrebbe ridursi ulteriormente, con punte record in alcune aree del Centro-Sud. Il motivo?

I buchi nella rete idrica provocati da scarsa o inefficace manutenzione, a cui va aggiunta una clamorosa propensione agli sprechi: un italiano, infatti, consuma mediamente 220 litri d’acqua al giorno, praticamente il doppio rispetto alla media di un qualsiasi cittadino dell’Unione Europea.

Si stima che il 40% della rete idrica nazionale abbia perdite e che que -

ste siano in continua crescita. Nessuno, inoltre, destina tanta acqua per usi slegati dall’agricoltura, dall’industria e dalla produzione energetica, come l’Italia. L’acqua prelevata nella Penisola, infatti, è destinata per il 41% all’agricoltura (la media mondiale è del 70%), per il 24% a usi civili (media mondiale del 10%), per il 20% all’industria e per il 15% alla produzione di energia elettrica. Nove miliardi di metri cubi l’anno, quelli contrassegnati dalla dicitura «usi civili», finiscono nel lavandino, nella vasca o nella doccia. Almeno in teoria, perché in realtà la metà letteralmente sparisce. Di sicuro non finisce dove sarebbe opportuno andasse: a irrigare i campi, a far respirare porzioni piuttosto vaste di territorio battute da un sole sempre più rovente e sempre meno interessate – di contro – da precipitazioni piovose.

L’acqua è l’unica vera arma a disposizione degli agricoltori per opporsi alla siccità e ai cambiamenti climatici e ce ne vorrebbe sempre di più, visto che l’Italia è tra i paesi che subiscono le peggiori conseguenze del progressivo innalzamento delle temperature. Su questo punto Coldiretti propone la realizzazione di un «piano invasi» per potenziare la raccolta di acqua piovana, illustrato dal presidente Ettore Prandini: «Con il caldo record che sta causando danni nelle campagne e disagi nelle città è necessario liberare fondi per la gestione delle risorse idriche e per l’adattamento climatico. Il piano dovrà contribuire ad aumentare la raccolta di acqua piovana oggi ferma all’11%, attraverso la realizzazione di invasi che garantiscano acqua per gli usi civili, per la produzione agricola e per generare energia pulita idroelettrica». La richiesta al governo è quella di «un primo stanziamento di almeno un miliardo di euro, anche attraverso risorse Repower EU e Fondo sviluppo e coesione in corso di programmazione con operazioni complementari al Pnrr». (R. D.)

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Primo piano © BorneoJC James/shutterstock.com

“ABILITÀ COGNITIVE, OLTRE AI GENI C’È DI PIÙ: IL RUOLO CRUCIALE DELL’AMBIENTE

Intervista con la dottoressa Giulia Montalbano, coautrice dello studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B: Biological Sciences

L’ambiente gioca un ruolo importante nello sviluppo delle abilità cognitive.

A plasmare le abilità cognitive dei vertebrati, oltre alle caratteristiche genetiche, concorre in larga misura anche l’ambiente. È la conclusione alla quale è giunto uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Ferrara.

Il team ha analizzato in laboratorio i processi di apprendimento in una colonia di Guppy, piccoli pesci d’acqua dolce cresciuti in due diversi ambienti, dimostrando il ruolo fondamentale dell’esperienza e della plasticità fenotipica, cioè la capacità di sviluppare caratteristiche differenti a partire dalla medesima componente genetica.

Dottoressa Montalbano, la vostra ricerca dimostra che a determinare le abilità cognitive non sono soltanto fattori endogeni come il bagaglio genetico, ma anche esogeni. Ci spiega in quale modo l’ambiente esercita la sua influenza?

L’ambiente e i fattori biotici e abiotici sono un motore per la plasticità fenotipica enorme. Ogni individuo per sopravvivere deve adattarsi alle condizioni che cambiano.

I fattori che compongono l’habitat di una specie sono molti, come ad esempio la disponibilità di cibo e presenza di predatori o conspecifici. Dalla letteratura è noto che questi

cambiamenti possano modificare tratti fenotipici, come tratti morfologici, ma non sono gli unici che possono essere plastici, è presente anche una parte ancora poco studiata nei pesci teleostei che è proprio la plasticità cognitiva e la variazione e adattamento dei tratti cognitivi dei soggetti in base alle esperienze di vita. Inoltre gli stimoli ambientali possono influenzare la neurogenesi, strettamente legata alle funzioni cognitive.

Come si è articolata la ricerca?

In questo studio abbiamo separato in due gruppi individui appena nati: il primo gruppo era sottoposto ad una condizione di cibo prevedibile, i soggetti venivano cibati in una specifica area della vasca sperimentale a un orario prestabilito; il secondo gruppo in una condizione di cibo non prevedibile nel quale venivano cibati in diverse aree della vasca e a orari ogni giorno diversi. Dopo il trattamento, sono stati saggiati in un test di discriminazione di colori dove i soggetti, per ottenere cibo, dovevano avvicinarsi a una card di un colore precedentemente prestabilito. In seguito, è stato eseguito un test per misurare la flessibilità cognitiva dove l’associazione colore-cibo veniva invertita.

Perché è stato scelto il pesce guppy? Presenta caratteristiche particolari?

Negli ultimi anni questa specie sta prendendo rilevanza nel campo della cognizio -

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Intervista
di Esater Trevisan

ne e del comportamento animale. I vantaggi dell’uso di questo piccolo pesce d’acqua dolce sono molteplici: è un pesce teleosteo, quindi un vertebrato, cosa che ci può aiutare molto per la ricerca traslazionale nell’uomo o su altri vertebrati. Inoltre, essendo ovoviviparo con fecondazione interna, la riproduzione è molto semplice in condizioni di stabulario e gli avannotti, dopo circa 20 giorni, nascono e sono già completamente formati e natanti, presentano un dimorfismo sessuale, utile per studiare differenze cognitive legate al sesso e sono una specie sociale.

Le evidenze emerse studiando questi animali potrebbero essere riscontrate anche nel genere umano?

Questo studio suggerisce che la predicibilità delle risorse possa influire su alcuni tratti cognitivi come l’apprendimento e la flessibilità cognitiva. Dato che sull’uomo è molto difficile modificare le condizioni ambientali e le esperienze di vita dei soggetti in termini di trattamento anche a livello temporale, queste evidenze potranno sicuramente aiutare a raf-

Giulia Montalbano è dottorata in Biologia evoluzionistica ed Ecologia e ha svolto la tesi “Cognitive plasticity in teleostfish” presso l’Università degli studi di Ferrara. Nel 2017 si è laureata in Scienze biologiche e in seguito nel 2019 in Scienze biomolecolari e dell’evoluzione presso Unife con tesi riguardanti il comportamento e la cognizione animale. Coautrice di otto articoli scientifici, due a primo nome.

forzare delle ipotesi suggerite dalla comunità scientifica, ovvero che l’ambiente può modificare tratti cognitivi, ulteriormente correlando il dato cognitivo a quello genetico.

La ricerca prevede ulteriori step?

Lo studio dell’ecologia cognitiva, connessa in particolare a vertebrati come i pesci teleostei, è ancora una scienza giovane, quindi, è necessario investigare quali altri fattori ambientali possano influenzare le capacità cognitive nei pesci teleostei, come ad esempio la presenza di predatori o di conspecifici.

Gli esiti di questo studio potranno rivelarsi utili nella cura dei disturbi cognitivi?

Questi risultati ci aiutano a capire un po’ meglio come funzionano i meccanismi cognitivi che stanno alla base della plasticità cognitiva. C’è ancora tanto lavoro da fare, siamo ancora agli inizi della ricerca ma sicuramente potranno essere utili un domani per capire appieno come curare, prevenire e diagnosticare in maniera celere malattie come ADHD, ovvero il disturbo da deficit di attenzione e iperattività, e l’Alzheimer.

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© Jorm Sangsorn/shutterstock.com

MIGLIORI RICERCATORI UNDER 40, IL TALENTO

DI DOMENICO MALLARDO

Il biologo napoletano nella lista di Fortune Italia: lavora all’Istituto Nazionale Tumori Pascale e sul riconoscimento precisa: “È un traguardo di gruppo”

Ènapoletano e si occupa da anni di melanoma uno dei quaranta under 40 “incoronati”, poche settimane fa, dalla rivista Fortune Italia che ogni anno, sulla scia dell’edizione Usa, riconosce i migliori talenti del Paese in vari settori. In quello della ricerca scientifica la scelta è caduta su Domenico Mallardo, 36 anni, in forze all’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Pascale di Napoli. Per lui, però, non si tratta di un traguardo personale ma di quello di un intero gruppo, la Struttura complessa Melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative dell’Istituto partenopeo dove lavora. Il nome in lista, però, è il suo, perciò, è a lui che chiediamo da dove arriva quella che lui stesso definisce “una sorpresa”.

Dott. Mallardo, quali sono stati i suoi primi passi nel mondo della ricerca?

La mia esperienza lavorativa è iniziata nel 2022 quando, per svolgere le attività di tesi per la laurea magistrale in Biotecnologie Mediche all’Università Federico II, scelsi di frequentare il laboratorio della Struttura Melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative del Pascale. Il capo del dipartimento, Paolo Ascierto (oncologo pluripremiato, massimo esperto di melanoma al mondo nel decennio 2013-2023 secondo la classifica Expertscape ideata dall’Università del North Carolina, ndr) ha favorito la

mia crescita professionale permettendomi di effettuare esperienze nel 2018 e 2019 a Seattle e all’Istituto Karolinska di Stoccolma. Intanto mi sono specializzato in patologia clinica e biochimica clinica alla Federico II. Attualmente sono editore associato della rivista Frontiers in Genetics e Editore ospite per la rivista International Journal of Molecular Sciences.

Tra i risultati conseguiti a livello professionale quali citerebbe?

In uno studio su 121 pazienti, affetti da melanoma metastatico, condotto qui al Pascale, abbiamo osservato che i pazienti trattati con Cetirizina, (il più comune Zirtec) in concomitanza con l’immunoterapico anti-PD-1, hanno tassi di risposta migliori e sopravvivenza più lunga. Lo studio, pubblicato sulla rivista Journal of Translation Medicine, ha evidenziato che i pazienti che assumono l’antistaminico hanno avuto un aumento dei linfociti T-effettrici e un potenziamento del pathway dell’interferone che è in grado di promuove la polarizzazione dei macrofagi M1 con una forte attività anti-tumorale, rispetto ai macrofagi M2 con un’attività pro-tumorale. In un altro studio effettuato su 265 pazienti, abbiamo osservato come i livelli dell’Interleuchina-6 (IL-6), una citochina molto discussa durante la pandemia in quanto coinvolta nel “cytokine storm”

18 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
Intervista
di Chiara Di Martino

durante l’infezione da Covid-19 e target del farmaco tocilizumab, abbiano un ruolo chiave anche nel cancro, in particolare nel melanoma e carcinoma cutaneo a cellule squamose. Infine, menzionerei lo studio clinico di fase II SECOMBIT, ideato da Ascierto che ha come capofila il Pascale con l’obiettivo di individuare la giusta sequenza di terapie nei pazienti con melanoma metastatico, per cui sono state arruolate 209 persone di 30 centri in 10 Paesi europei.

C’è un progetto che sta nascendo e a cui tiene particolarmente?

Lo studio sul diabete e il cancro. Abbiamo già pubblicato sulla rivista Annals of Oncology una ricerca in cui abbiamo osservato che i pazienti diabetici con melanoma hanno una bassa espressione della molecola lag-3. Questa ipotesi, se confermata, potrebbe sconsigliare il trattamento con anti-lag3 in questa tipologia di pazienti, che potranno quindi beneficiare di altri farmaci immunoterapici. Inoltre, menzionerei gli studi clinici NEO-TIM e NEO-CESQ, in cui i pazienti affetti da melanoma e carcinoma cutaneo a cellule squamose vengono trattati con immunoterapia in regime neoadiuvante (prima dell’intervento chirurgico) ed in adiuvante (post operatorio). Questa modalità di trattamento innovativo possa ridurre l’incidenza di recidive e migliorare la sopravvivenza.

“In uno studio su 121 pazienti, affetti da melanoma metastatico, condotto qui al Pascale, abbiamo osservato che i pazienti trattati con Cetirizina, (il più comune Zirtec) in concomitanza con l’immunoterapico anti-PD-1, hanno tassi di risposta migliori e sopravvivenza più lunga”.

Oltre se stesso, deve ringraziare qualcuno?

Il raggiungimento di questi traguardi è dovuto anche al supporto del gruppo, perciò ci terrei a ringraziare i biologi Marilena Capone, Gabriele Madonna, Marilena Tuffanelli e Marilena Romanelli; gli oncologi Ester Simeone, Lucia Festino, Vito Vanella, Claudia Trojaniello, Maria Grazia Vitale, Margaret Ottaviano, Francesca Sparano e Arianna Facchini; i dermatologi Marco Palla, Luigi Scarpato, Rossella Di Trollio e Mirella D’Andrea; il primario di chirurgia Corrado Caracò e la caposala Patrizia Sabatelli; gli study coordinator e il supporto: Miriam, Susy, Gianni, Benedetta, Mario, Mariarosaria e Teresa. Non posso dimenticare il Direttore scientifico Alfredo Budillon e il Direttore Generale Attilio Bianchi. E il mio mentore, naturalmente, Ascierto.

Dove si vede tra 15 anni?

Amo il mio lavoro, mi ritengo fortunato a lavorare nella mia città e al contempo a stare in un gruppo di eccellenti competenze. È ancora – da 10 anni – un lavoro precario e non nego di aver rifiutato offerte migliori; ma sono ancora convinto di aver fatto la scelta giusta. Spero di arrivare a una stabilità, di continuare il mio lavoro qui e di riuscire ad accrescere i benefici dei nostri pazienti, che, in fondo, è l’unica cosa che conta.

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Domenico Mallardo.

Una progressione più rapida della sclerosi multipla, malattia neurodegenerativa che colpisce il sistema nervoso centrale, è associata alla presenza di una specifica variante genetica. A scoprirlo è stato uno studio internazionale a forte presenza (e impronta) italiana, frutto della collaborazione fra più di settanta istituzioni guidate dalle Università di San Francisco e Cambridge e condotto su oltre 22mila pazienti. Sergio Baranzini, professore di Neurologia all’Università della California di San Francisco (Ucsf), co-autore senior del lavoro pubblicato su Nature, ha spiegato come ereditare questa variante genetica da entrambi i genitori acceleri «di quasi quattro anni il tempo per avere bisogno di un ausilio per la deambulazione».

Nei pazienti affetti da sclerosi multipla, il sistema immunitario attacca erroneamente il cervello e il midollo spinale, determinando così riacutizzazioni dei sintomi, note come “ricadute”, e degenerazione a lungo termine, cui ci si riferisce con il termine “progressione”. Nonostante nel corso degli anni la ricerca abbia sviluppato alcuni trattamenti efficaci per la gestione delle ricadute, prevenire in maniera affidabile la progressione non è possibile in alcun modo: ciò porta ad un accumulo di disabilità. Ricerche svolte negli anni scorsi hanno individuato quali fattori di rischio alcune disfunzioni del sistema immunitario, le quali possono essere trattate rallentando la malattia. Ma, precisa il professor Baranzini, «questi fattori di rischio non spiegano perché, a dieci anni dalla diagnosi, alcune persone con sclerosi multipla siano sulla sedia a rotelle mentre altre continuino a correre maratone». Comprendere come la variante esercita i suoi effetti sulla gravità della malattia che in Italia si stima colpisca tra le 68mila e le 75mila persone, secondo Stephen Sawcer, professore presso l’Università di Cambridge ed a sua volta coautore senior dello studio, «aprirà auspicabilmente la strada a una nuova generazione di trattamenti in grado di prevenire la progressione della malattia».

Per arrivare alla scoperta della prima variante genetica associata a una progressione più rapida della sclerosi multipla si è fatto ricorso alla mole di informazioni custodite dall’International Multiple Sclerosis Genetics Consortium (Imsgc) e del MultipleMs Consortium, esaminando i dati di oltre 12mila pazienti. Dopo aver setacciato oltre sette milioni di varianti genetiche, gli esperti ne hanno scovato una associata a una progressione

Nei pazienti affetti da sclerosi multipla, il sistema immunitario attacca erroneamente il cervello e il midollo spinale, determinando così riacutizzazioni dei sintomi, note come “ricadute”, e degenerazione a lungo termine, cui ci si riferisce con il termine “progressione”. Nonostante nel corso degli anni la ricerca abbia sviluppato alcuni trattamenti efficaci per la gestione delle ricadute, prevenire in maniera affidabile la progressione non è possibile in alcun modo: ciò porta ad un accumulo di disabilità.

più rapida di malattia. Si trova tra due geni senza precedente associazione con la sclerosi multipla, denominati DYSF e ZNF638: il primo è coinvolto nella riparazione delle cellule danneggiate, il secondo aiuta a controllare le infezioni virali. La vicinanza della variante a questi geni ha suggerito agli scienziati che questi potrebbero essere coinvolti nella progressione della malattia. Per confermare le loro scoperte, gli scienziati hanno dunque studiato la genetica di quasi diecimila ulteriori pazienti.

Adil Harroud, primo autore dello studio, ha spiegato che questa ricerca offre «un’importante opportunità per sviluppare nuovi farmaci che possono aiutare a preservare la salute» dei pazienti. Ovviamente sarà necessario svolgere altro lavoro per determinare in maniera esatta come la variante genetica individuata riesca a influenzare i geni DYSF e ZNF638, e il sistema nervoso più in generale. Gli scienziati a tal proposito stanno anche raccogliendo una serie ancora più ampia di campioni di Dna da persone con sclerosi multipla: la loro aspettativa è di trovare altre varianti che contribuiscono alla disabilità a lungo termine nella malattia. Per quanto riguarda l’importante contributo fornito dall’Italia, la ricerca è stata coordinata da Sandra D’Alfonso, docente di Genetica medica presso il Dipartimento di Scienze della salute dell’Università del Piemonte Orientale a Novara, e da Filippo Martinelli Boneschi, docente di Neurologia presso il Dipartimento di Scienze della salute di UniMi e responsabile del Centro sclerosi multipla dell’Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, entrambi membri del gruppo strategico dell’Imsgc. Con loro anche Federica Esposito, responsabile del Laboratorio di Genetica umana delle malattie neurologiche dell’ospedale San Raffaele di Milano e membro dell’Imsgc, e Massimo Filippi, primario dell’Unità di Neurologia, Neuroriabilitazione e Neurofisiologia e del Centro Sclerosi multipla del San Raffaele di Milano. Gli scienziati italiani - rimarca l’Università Statale di Milano - hanno contribuito tra l’altro mettendo a disposizione un’ampia casistica nazionale, corrisponde al 20% circa del totale pazienti esaminati. «Questo lavoro - hanno dichiarato D’Alfonso, Martinelli Boneschi ed Esposito - rappresenta un’importante svolta nell’ambito della medicina di precisione, in quanto potrebbe per esempio portare all’uso di terapie più aggressive sin dall’inizio in quei soggetti portatori di varianti genetiche sfavorevoli per la progressione della sclerosi multipla».

20 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Salute
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SCLEROSI MULTIPLA: SCOPERTA LA PRIMA VARIANTE GENETICA

CHE ACCELERA LA MALATTIA

Il lavoro di un team internazionale a forte presenza italiana promette di aprire a una nuova generazione di trattamenti in grado di prevenire la progressione della malattia di Domenico Esposito

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 21 Salute © Marko Aliaksandr/shutterstock.com

TRAPIANTI DI RENE, TRIPLA DONAZIONE INTERNAZIONALE

DA VIVENTE SALVA TRE PAZIENTI

I Centri nazionali trapianti di Padova, Barcellona e Bilbao realizzano una catena lunga diciotto ore e 2.713 chilometri percorsi

L’unione fa la forza. Ma, soprattutto, può salvare delle vite. Lo dimostra la tripla donazione da vivente che si è concretizzata a fine giugno in Europa. Per la prima volta, infatti, è stata realizzata una catena internazionale di donazioni e trapianti di rene da vivente che ha coinvolto tre diverse città. Una vera e propria maratona lunga 18 ore e 2.713 chilometri.

Il 20 giugno scorso il Centro nazionale trapianti per l’Italia e l’Organizacion nacional de trasplantes per la Spagna hanno coordinato nell’arco di 18 ore l’esecuzione di tre prelievi e tre trapianti negli ospedali di Padova, Barcellona e Bilbao, incrociando tre coppie di donatori e riceventi tra di loro incompatibili dal punto di vista immunologico. Si tratta del quarto scambio “cross over” di reni tra Italia e Spagna. Il primo fu effettuato nell’agosto 2018, ma in tutti i casi precedenti erano state coinvolte solo due coppie alla volta, una per ciascun Paese.

La tripla donazione incrociata è stata realizzata grazie alla South alliance for transplant, un accordo internazionale che vede coinvolti Italia, Spagna, Francia e Portogallo per individuare programmi comuni di cooperazione con l’obiettivo di dare maggiori possibilità di ricevere un organo soprattutto ai pazienti di difficile trapiantabilità.

La notizia assume ancora più rilievo, se si considera il numero ancora troppo limitato di trapianti che vengono effettuati nel nostro Paese. In Italia, infatti, ne facciamo ancora troppo pochi. Basti considerare che nel 2022 sono stati 335, poco più del 16 per cento del totale dei trapianti renali. Una lungaggine che si riflette anche sulle tempistiche. Si contano in lista d’attesa ancora oltre 6mila persone.

Nel dettaglio, la catena di interventi è partita dall’Italia. Alle 8.30 del 20 giugno all’Azienda ospedaliero-universitaria di Padova la professoressa Lucrezia Furian ha iniziato il primo prelievo di rene su una donatrice volontaria di 56 anni, moglie di un paziente 61enne di difficilissima trapiantabilità, iperimmunizzato e bisognoso di un nuovo rene per la terza volta. Al termine dell’intervento l’organo è stato trasportato immediatamente all’aeroporto di Milano-Linate con il coordinamento del Centro regionale trapianti del Veneto diretto dal dottor Giuseppe Feltrin e grazie al supporto della Polizia Stradale e del servizio 118 dell’Azienda padovana. Il rene è decollato alle 13 con un volo sanitario dedicato ed è arrivato all’aeroporto di Barcellona alle 14.30.

Nello scalo catalano è stato effettuato il primo scambio: l’organo della donatrice italiana è stato preso in consegna dagli operatori

22 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Salute
di Barbara Laurenzi

sanitari dell’Hospital Clinic per realizzare il primo trapianto, mentre a bordo del velivolo è stato portato un secondo rene, prelevato intorno alle 12 da una donatrice spagnola. L’aereo è ripartito alla volta di Bilbao, dove alle 16.30 è avvenuto lo scambio successivo: il rene della donatrice di Barcellona è stato portato all’Hospital Universitario de Cruces per il secondo trapianto e un terzo rene, prelevato

nel nosocomio basco, è stato imbarcato con destinazione Milano. Il trasporto aereo è finito alle 18.30 a Linate, da dove l’ultimo organo è stato immediatamente trasportato a Padova dalla Polizia Stradale: alle 20.30 è iniziato sul paziente italiano il terzo trapianto, eseguito dal professor Paolo Rigotti, direttore del locale Centro trapianti di rene e pancreas. L’intervento si è concluso dopo le 2 di notte, al termine di una maratona lunga complessivamente 2.713 chilometri. A due settimane dagli interventi, i riceventi e i donatori sono in ottime condizioni e i trapianti possono considerarsi riusciti.

«Una catena internazionale di questo tipo richiede un enorme impegno di valutazione clinica prima e di pianificazione organizzativa poi, per sincronizzare perfettamente il lavoro di tutte le equipe e di centinaia di operatori e portare a termine con successo gli interventi nel più breve tempo possibile a vantaggio di un tipo di pazienti che altrimenti avrebbero pochissime chance di trovare un organo compatibile» spiega Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale trapianti.

«Si tratta quindi di un evento eccezionale, ma che si inserisce nello sforzo più ampio che stiamo mettendo in campo per la promozione della donazione di rene da vivente, che nella stragrande maggioranza dei casi può avvenire direttamente tra coppie correlate». Per Cardillo è fondamentale rassicurare pazienti e familiari: «La donazione da vivente è una procedura ampiamente sperimentata, comporta rischi bassissimi per il donatore mentre i trapianti di questo tipo raggiungono risultati mediamente molto positivi. Incentivare questo tipo di attività è uno dei modi migliori che abbiamo per poter dare un’opportunità a migliaia di persone costrette a una lunga attesa in dialisi».

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 23

LA STORIA A LIETO FINE DI SIMONE, AFFETTO DA DEFICIT DI AADC

Il bimbo, affetto da una malattia rarissima, ha ricevuto una terapia genica avanzata di ultima generazione, somministrata direttamente nel cervello

Una favola a lieto fine. È quella di Simone, un bimbo siciliano affetto da una malattia rarissima, il deficit di AADC, che è riuscito a ricevere un trattamento di ultima generazione, una terapia genica avanzata approvata da EMA e sviluppata da PTC Therapeutics. Il deficit di AADC è una malattia di cui si contano circa 200 casi in tutto il mondo ed è fortemente sottodiagnosticata.

«Si tratta di una rara patologia neurometabolica ereditaria, a trasmissione autosomica recessiva, causata da mutazioni bialleliche nel gene DDC – spiega la professoressa Roberta Battini, responsabile UOs dipartimentale clinica dei disturbi neurologici e delle malattie rare, IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (PI), la specialista che ha diagnosticato la malattia di Simone e che lo segue ormai da due anni –. Le manifestazioni cliniche sono generalmente evidenti nei primi mesi di vita e le più frequenti comprendono ipotonia, ossia diminuzione del tono muscolare; ipocinesia, cioè riduzione o lentezza dei movimenti volontari del corpo; crisi oculogire e disfunzioni del sistema nervoso autonomo. Nella maggior parte dei casi il deficit di AADC si presenta in forma grave, ma sono noti alcuni pazienti con decorso della malattia più lieve».

Le vicissitudini di Simone partono a sei mesi di vita, quando il bimbo, durante uno dei classici controlli pediatrici, non riusciva a reggere la testa, la sua muscolatura era debole, teneva le braccia spalancate e i pugni chiusi. Da qui due settimane di ricovero presso l’Ospedale San Marco di Catania fino ad arrivare, nel gennaio 2021, grazie al consiglio di una neuropsichiatra che lo seguiva in Sicilia, all’IRCCS Fondazione Stella Maris di Pisa dove il piccolo in poco tempo ha ricevuto diagnosi e presa in carico. Successivamente la presa in carico è stata estesa al Policlinico Umberto I di Roma, centro di eccellenza designato per la terapia genica di questa malattia ultra-rara.

La sua storia era balzata alle cronache dopo che i genitori, Sabrina e Sebastiano, avevano scritto una accorata lettera al governo chiedendo aiuto affinché il figlio potesse ricevere la terapia di cui aveva urgente bisogno e che già altri bimbi avevano ricevuto in Francia e Germania. La lettera aveva fatto scattare un lavoro di concerto tra governo, AIFA, Policlinico Umberto I e PTC Therapeutics che ha permesso di superare alcuni ostacoli burocratici.

Simone, infatti, era l’unico dei 16 pazienti italiani con AADCd elegibile a ricevere un’innovativa terapia genica in grado di cambiare il corso naturale della sua malattia, Eladocagene Exuparvovec, farmaco or-

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fano innovativo sviluppato da PTC Therapeutics. La terapia, pur essendo autorizzata a livello europeo, non aveva ancora finito il suo iter di accesso in Italia. Per questo l’attesa della famiglia si era già protratta per un anno, un tempo enorme di fronte a una malattia degenerativa.

Eladocagene Exuparvovec è la prima terapia avanzata al mondo a prevedere la somministrazione direttamente nel cervello ed è indicato per pazienti di età pari o superiore ai 18 mesi con fenotipo severo, come nel caso del piccolo Simone. Il bimbo, infatti, pur avendo tre anni non è ancora in grado di parlare o camminare. In assenza di terapia le sue condizioni sarebbero ulteriormente degenerate, come insegna la storia naturale di questa malattia genetica rarissima e progressiva, mentre oggi le aspettative sono radicalmente diverse: ci si aspetta infatti che possa recuperare diverse tappe di crescita perse.

Un intervento che è durato ben otto ore che ha visto l’utilizzo, anche questo per la prima volta in Italia e nel mondo, di una strumentazione all’avanguardia, capace di portare attraverso delle specifiche cannule la terapia nei punti target del cervello, con assoluta e necessaria precisione.

L’intera operazione è stata effettuata da una equipe di operatori e specialisti composta da Antonio Santoro, direttore della neurochirurgia, e da Luca D’Angelo, neurochirurgo, dipartimento neuroscienze e salute mentale, AOU Policlinico Umberto I di Roma, supportati alla presenza di Francesco Pisani, direttore responsabile, UOC di neuropsichiatria infantile, AOU Policlinico Umberto I di Roma.

«In Europa esistono già tre centri specializzati per questo tipo di procedura innovativa: Montpellier, Parigi e Heidelberg – spiega Riccardo Ena, executive director PTC Therapeutics –. Oggi, dunque, siamo felici di aver contribuito a cambiare in maniera determinante e sostanziale la vita di Simone e il nostro obiettivo come PTC Therapeutics è proprio quello di puntare al binomio ricerca e opportunità terapeutica per essere al servizio dei pazienti».

Quella di Simone, quindi, non è solo una storia a lieto fine. È il trionfo della ricerca scientifica, che ancora una volta è riuscita a mettere a disposizione anche delle persone con malattie rarissime una terapia in grado di cambiare la storia naturale della malattia. Del resto, i bambini hanno diritto a credere nelle favole. Simone, da oggi, un po’ di più. (B. L.)

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 25
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SVELATO L’ENIGMA DI COME IL VIRUS DELL’EPATITE C

SI NASCONDE NEL FEGATO

La strategia di mascheramento del virus è legata al “capping” con il FAD, metabolita già presente nelle nostre cellule, e potrebbe essere la stessa adottata anche da altri patogeni

Il virus dell’epatite C ha la capacità di nascondersi e diffondersi nelle cellule epatiche senza essere intercettato dal nostro sistema immunitario. Questa sua caratteristica rende l’infezione silente e molto pericolosa perché il virus può rimanere nascosto mentre crea copie di se stesso per contagiare nuove cellule. Se non individuata per tempo, la patologia rischia di essere diagnosticata solo alla comparsa dei primi sintomi di gravi malattie che può causare, come la cirrosi o il tumore al fegato.

L’epatite C è stata scoperta nel 1989 ed è uno dei virus più studiati del pianeta. Tuttavia, per decenni, il modo in cui riesce a eludere il sistema immunitario umano e a diffondersi nell’organismo è stato un enigma che gli scienziati non sono riusciti a svelare. Ora, i ricercatori dell’Università di Copenaghen e dell’Ospedale di Hvidovre hanno finalmente risolto il mistero grazie a un nuovo metodo di analisi dei campioni contenenti il virus. Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, il virus indossa una “maschera” che lo nasconde sotto forma di un metabolita già presente nelle nostre cellule. Camuffato da questa molecola, il patogeno non è riconosciuto dal nostro sistema immunitario come qualcosa di estraneo e per questo motivo non è scoperto né identificato come potenziale aggressore.

Si stima che circa 50 milioni di persone in tutto il mondo siano affette da epatite C croni-

ca. In Italia le persone colpite dalla patologia sono tra 600mila e 1,2 milioni, e molte di esse non si accorgono di essere state contagiate. Il virus dell’epatite C può causare infiammazioni e cicatrici del fegato e, nel peggiore dei casi, cancro al fegato.

Jeppe Vinther del Dipartimento di Biologia dell’Università di Copenaghen, che ha diretto la ricerca insieme a Troels Scheel e a Jens Bukh del Programma Epatite C dell’Ospedale di Hvidovre, afferma che i risultati dello studio potrebbero avere un impatto sul modo in cui identifichiamo e trattiamo le malattie virali in generale: «La nostra scoperta della strategia di mascheramento del virus potrebbe aprire la strada a nuovi modi di trattare le infezioni virali, poiché è verosimile che il virus dell’epatite C non sia l’unico a utilizzare questo espediente».

La maschera utilizzata dal virus dell’epatite per nascondersi nelle nostre cellule si chiama flavina adenina dinucleotide (FAD), una molecola composta dalla vitamina B2 e dalla molecola ATP che trasporta energia. Il FAD è fondamentale per la conversione energetica delle cellule. L’importanza e la familiarità della molecola FAD per il nostro organismo la rende un camuffamento ideale per un virus maligno.

Per diversi anni, il team di ricerca ha avuto il sospetto che il FAD aiutasse il virus a nascondersi nelle cellule infette, ma non è mai riuscito a dimostrarlo. Per risolvere la sfida,

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gli scienziati hanno pensato questa volta di utilizzare l’Arabidopsis, una pianta molto studiata poiché considerata dalla comunità scientifica un organismo modello. «Eravamo alla ricerca di un modo per dimostrare la nostra ipotesi, così abbiamo provato a purificare un enzima dalla pianta di Arabidopsis in grado di dividere la molecola FAD in due», spiega Anna Sherwood del Dipartimento di Biologia, primo autore dello studio. Utilizzando l’enzima, i ricercatori sono riusciti a scindere il FAD e a dimostrare che il virus dell’epatite C lo utilizza come maschera.

Gli autori hanno anche riflettuto sul fatto che come il coronavirus e il virus dell’influenza, l’epatite C è un virus a RNA. Il suo materiale genetico è costituito da RNA che deve essere copiato una volta che il virus è entrato nell’organismo ospite. Le nuove copie di RNA sono utilizzate per infettare nuove cellule e un’estremità del materiale genetico dell’RNA viene mascherata dal FAD. Nello studio i ricercatori hanno scoperto e dimostrato che il FAD è utilizzato come iniziatore dalla RNA polimerasi virale, dando luogo a un cappuccio

Si stima che circa 50 milioni di persone in tutto il mondo siano affette da epatite C cronica. In Italia le persone colpite dalla patologia sono tra 600mila e 1,2 milioni, e molte di esse non si accorgono di essere state contagiate.

5′-FAD sul virus dell’epatite C. Oltre a stabilire che il capping con metaboliti cellulari è una nuova strategia di rivestimento dell’RNA virale, i risultati dello studio suggeriscono che tale espediente potrebbe essere utilizzato anche da altri virus e influenzare il trattamento antivirale e la persistenza dell’infezione. In effetti, gli scienziati hanno già trovato un altro virus che utilizza la stessa strategia di mascheramento nei confronti dei sistemi di controllo cellulare e secondo Vinther, è molto probabile che ce ne siano altri poiché tutti i virus a RNA hanno la stessa necessità di nascondersi dal sistema immunitario. «Ora che conosciamo questo “trucco”, si apre la possibilità di sviluppare nuovi metodi, forse migliori, per individuare e trattare le infezioni virali in futuro», termina Vinther.

I risultati di questa ricerca, insieme ai progressi nella cura dell’epatite C e ai programmi di screening, contribuiranno al tentativo di raggiungere, entro il 2030, l’obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di eliminare l’infezione su scala globale. Un traguardo che può diventare possibile grazie alla ricerca. (S. B.)

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© Corona Borealis Studio/shutterstock.com 28 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Salute LA RESILIENZA IMMUNITARIA: IL SEGRETO PER UNA SALUTE OTTIMALE A LUNGO TERMINE Su Nature Communications lo studio evidenzia come la IR riduca il rischio di contrarre infezioni da HIV, influenza e mortalità associata a sepsi e COVID-19

Le ragioni per cui alcune persone sono meno sensibili a contrarre malattie infiammatorie o infezioni non sono ancora note. Tuttavia, una recente ricerca Pubblicata sulla rivista Nature Communications, coordinato da Sunil Ahuja, dell’Università del Texas a San Antonio, ha evidenziato che tale vantaggio potrebbe essere attribuibile, almeno in parte, a un’ottimale resilienza immunitaria (IR). La resilienza immunitaria si riferisce alla capacità di preservare e/o ripristinare rapidamente le funzioni immunitarie che promuovono la resistenza alle malattie e controllano l’infiammazione in caso di malattie infettive e altre forme di stress infiammatorio. La scoperta rappresenta il primo passo verso una prevenzione personalizzata. Questo obiettivo, sebbene ancora distante nel futuro, potrebbe aprire la strada a soluzioni che aiutino ogni individuo a fronteggiare specifiche condizioni patologiche in modo più mirato ed efficiente. Grazie a una migliore comprensione dei meccanismi immunologici e all’avanzamento delle tecnologie diagnostiche, sarà possibile sviluppare strategie preventive su misura che potenzino le difese naturali del corpo e riducano il rischio di malattie.

Nello studio condotto su circa 48.500 individui, sono stati utilizzati due indicatori nel sangue periferico per valutare i livelli di resilienza immunitaria. Questi indicatori misurano l’equilibrio tra le cellule T CD8+ e CD4+ e le firme di espressione genica associate all’immunocompetenza e all’infiammazione. I risultati hanno rivelato che alcune persone mantengono un alto livello di resilienza immunitaria durante l’invecchiamento e in presenza di fattori di stress infiammatorio. Questa resistenza offre diversi benefici per la salute, tra cui un minor rischio di contrarre malattie come l’HIV, l’AIDS, l’infezione influenzale sintomatica e recidiva del cancro della pelle (dopo il trapianto di rene), nonché una maggiore sopravvivenza durante COVID-19 e sepsi, e una maggiore longevità.

I risultati di questa ricerca dimostrano che una resilienza immunitaria ottimale è presente in tutte le fasce di età, risultando più comune nelle donne. Inoltre, è correlata a un preciso equilibrio tra immunocompetenza e infiammazione, il quale è associato a risultati positivi per la salute dipendenti dal sistema immunitario. Questa scoperta apre la strada a ulteriori indagini sui parametri e sui meccanismi dell’IR come biomarcatori per valutare la salute del sistema immunitario e migliorare gli esiti

Nello studio condotto su circa 48.500 individui, sono stati utilizzati due indicatori nel sangue periferico per valutare i livelli di resilienza immunitaria. Questi indicatori misurano l’equilibrio tra le cellule T CD8+ e CD4+ e le firme di espressione genica associate all’immunocompetenza e all’infiammazione. I risultati hanno rivelato che alcune persone mantengono un alto livello di resilienza immunitaria durante l’invecchiamento e in presenza di fattori di stress infiammatorio. Questa resistenza offre diversi benefici per la salute, tra cui un minor rischio di contrarre malattie come l’HIV, l’AIDS, l’infezione influenzale sintomatica e recidiva del cancro della pelle (dopo il trapianto di rene), nonché una maggiore sopravvivenza durante COVID-19 e sepsi, e una maggiore longevità.

sanitari. I ricercatori hanno valutato la resilienza immunitaria in pazienti sottoposti a trapianto di rene che erano a rischio più elevato di sviluppare nuovamente il tumore della pelle. Matthew J. Bottomley, co-autore dello studio proveniente dall’Università di Oxford, ha commentato: «Abbiamo esaminato il rischio di contrarre un secondo cancro, basandoci sui gradi di salute immunitaria nel momento in cui ogni partecipante presentava il cancro per la prima volta. Abbiamo scoperto che, se qualcuno aveva una resilienza immunitaria ottimale al momento del primo cancro, era anche più resistente a una recidiva».

L’Italia ha svolto un ruolo significativo nello studio della resilienza immunitaria grazie al progetto SardiNIa, che ha fornito un vasto patrimonio di dati genetici. I ricercatori Edoardo Fiorillo e Valeria Orrù dell’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche a Monserrato (Cagliari) e Francesco Cucca dell’Università di Sassari hanno contribuito in modo significativo all’analisi dei dati. L’Italia ha l’opportunità di guidare ulteriori ricerche in questo campo attraverso il progetto SardiNIa, che mira a raccogliere dati su 100mila persone. Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo, sono necessari finanziamenti significativi. Infatti, come ha dichiarato Fiorillo «Il prossimo passo della ricerca sarà individuare altri fattori dell’equilibrio: oltre alle cellule, potremo considerare le molecole che hanno la funzione di mediatori dell’immunità. In seguito, si dovranno studiare i fattori genetici che regolano cellule e molecole immunitarie: bisognerà scoprirli e l’Italia, con la Sardegna, potrebbe avere un ruolo di primo piano. L’obiettivo è raccogliere dati su 100mila persone, ma servono fondi: circa 20 milioni di euro solo per i reagenti. In altri Paesi i governi stanno già finanziando ricerche analoghe, ma in Italia questo non accade. Alcune idee le abbiamo solo noi, ma gli altri si stanno muovendo»

Lo studio della resilienza immunitaria potrebbe aprire nuove possibilità per la prevenzione personalizzata delle malattie. Identificare i fattori che determinano la resilienza del sistema immunitario, comprese le molecole che agiscono come mediatori dell’immunità, potrebbe consentire diagnosi più precise e previsione del decorso delle malattie. Inoltre, questa ricerca potrebbe fornire strumenti per aiutare le persone con un sistema immunitario meno resiliente a reagire in modo più efficiente alle malattie. (C. P.).

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TUMORE ALLA MAMMELLA NEGLI UOMINI, ANCORA DEI TABÙ DA INFRANGERE

Scarsi gli studi e la ricerca, ma la rarità della neoplasia non deve far sottovalutare i rischi delle diagnosi tardive e l’impatto che le terapie hanno sulla qualità della vita

Un gender gap al contrario. Sul tumore alla mammella negli uomini gli studi in letteratura sono ancora molto pochi. Complice è sicuramente la bassissima incidenza del tumore, pari a circa l’1% sulla totalità dei casi nel mondo, ma a giocare un ruolo è anche la scarsa sensibilità al tema nella popolazione e nella comunità scientifica. Negli ultimi anni, sono stati raccolti alcuni dati prospettici sulla neoplasia nei maschi, ma la maggior parte proviene da analisi retrospettive e, in nessun caso, da studi randomizzati.

Anche per questo, le strategie di trattamento sono state tratte finora dall’esperienza acquisita nella ricerca e nella clinica focalizzate sulle donne. In base ai dati a disposizione, oggi il tumore al seno nei maschi giunge nella terza età, nella fascia fra i 60-75 anni, e la diagnosi arriva nel 42% dei casi tardivamente, cioè quando il tumore è allo stadio terzo o quarto. Ciò comporta maggiori comorbidità e una minore aspettativa di vita. Ma non solo. È ancora molto limitata l’attenzione verso tutti gli aspetti della vita del paziente, che viene sconvolta dalla diagnosi oncologica. I lavori sulle conseguenze delle cure farmacologiche, che vanno ad impattare sulla qualità e sul benessere delle persone, come ad esempio gli effetti negativi della terapia endocrina sul funzionamento sessuale, sono poco frequenti nelle donne e per lo più rari nel caso degli uomini.

L’articolo più recente è del 2021, pubblicato sulla rivista Jama oncology. Si tratta di un lavoro importante, poiché è uno dei primissimi studi prospettici, randomizzati e multicentrici di fase 2 riguardo all’efficacia della terapia endocrina per il trattamento del tipo di tumore nella popolazione maschile. Condotto da un team tedesco, fra i quali i ricercatori dell’Università di Berlino, lo studio ha valutato 56 pazienti di sesso maschile con carcinoma mammario positivo al recettore ormonale. I pazienti hanno ricevuto il trattamento farmacologico a base di tamoxifene da solo oppure in aggiunta all’analogo dell’ormone per il rilascio delle gonadotropine (GnRHa) o infine l’inibitore dell’aromatasi insieme a GnRHa, per sei mesi.

I risultati hanno rilevato che il trattamento con il solo tamoxifene fosse quello con minore impatto sull’attività sessuale e qualità della vita dei pazienti. «Dallo studio, emerge che il tamoxifene somministrato in monoterapia, essendo un agonista/agonista del recettore degli estrogeni, non impatta sui livelli di testosterone ed estradiolo, ma non ha conseguenze sul benessere sessuale e sulla qualità di vita dei pazienti. L’associazione del GnRHa sia con tamoxifene e in maggior misura con inibitori dell’aromatasi, determina invece una significativa riduzione dell’estradiolo e testosterone, impattando tuttavia significativamente sull’attività sessuale e sulla qualità della vita dei pazienti», commenta il dottor Armando Orlandi, onco-

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di Elisabetta Gramolini

logo dell’unità di Oncologia Medica presso la Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” Irccs di Roma.

«Nel setting adiuvante, dunque, lo studio conferma che la monoterapia ormonale con tamoxifene, già nota per essere la terapia d’elezione per efficacia, è anche la terapia con migliore profilo di tolleranza – continua Ordlandi –. Nel setting metastatico, ovvero quando la malattia è presente in altre sedi oltre alla ghiandola mammaria, in caso di malattia luminale (ormono-positiva/HER2 negativa) si può far riferimento, per impostare il trattamento sistemico di prima linea, principalmente ai dati prospettici nella popolazione femminile ed a piccole esperienze di real-word nell’uomo. La somministrazione di farmaci inibitori delle chinasi ciclino-dipendenti (CDK 4/6i) associati a terapia ormonale con inibitori dell’aromatasi associati a GnRHa rappresentano la scelta d’elezione».

Lo scorso anno, nelle linee guida europee oncologiche è emersa l’importanza di integrare la pratica clinica con i Patient-Reported Outcome (PRO), cioè questionari sulla qualità della vita del paziente. «In particolare – continua –

In base ai dati a disposizione, oggi il tumore al seno nei maschi giunge nella terza età, nella fascia fra i 60-75 anni, e la diagnosi arriva nel 42% dei casi tardivamente, cioè quando il tumore è allo stadio terzo o quarto. Ciò comporta maggiori comorbidità e una minore aspettativa di vita.

l’impatto delle terapie oncologiche sistemiche sulla sessualità dell’uomo non è mai stata adeguatamente valutata in modo prospettico. Molto andrebbe fatto, invece, nella nostra pratica clinica per questa classe di pazienti che vive lo stigma di un tumore generalmente femminile e riceve poca attenzione da parte della ricerca e della comunità scientifica. Oggi abbiamo strumenti agevoli, come i questionari sulla disfunzione erettile (International index of erectile function).

L’utilizzo di strumenti indiscutibilmente utili come i PROs è tuttavia spesso limitato dalla necessità di tempo per acquisirne l’esito che ne ostacola l’utilizzo capillare nei nostri ambulatori. Alla luce della necessità di prendersi cura della qualità di vita dei nostri pazienti andrebbero rivisti i percorsi terapeutici nei centri oncologici, integrandoli con l’innovazione e l’evoluzione informatica che consentirebbe di rendere più utilizzabili i PROs. Solo l’organizzazione informatica del nuovo flusso di informazioni consentirebbe di integrare ulteriori informazioni, senza ridurre il tempo da dedicare al supporto clinico».

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Lo studio ha consentito di definire in modo molto dettagliato i diversi tipi di cellule e stati cellulari presenti nelle diverse aree del seno grazie a varie tecnologie impiegate. Uno strumento che potrà essere estremamente utile per tutti coloro che studiano il cancro al seno e altre malattie, come la mastite, nonché per comprendere lo sviluppo del seno e l’incapacità di allattare.

Èstato completato il più grande atlante delle cellule della mammella. Un progetto durato sette anni. Lo studio si basa sull’analisi di oltre 700mila cellule provenienti da 126 donne e fornisce una panoramica dettagliata del tessuto mammario sano, mettendo in luce le differenze legate all’etnia, al peso corporeo, all’età, alla gravidanza e alla menopausa. La pubblicazione di questa ricerca, di fondamentale importanza nello studio delle malattie che colpiscono il seno, compresi i tumori, è stata pubblicata sulla rivista Nature e realizzata grazie alla collaborazione tra l’MD Anderson Cancer Center dell’Università del Texas, l’Università della California a Irvine e il Baylor College of Medicine di Houston.

Lo studio ha consentito di definire in modo molto dettagliato i diversi tipi di cellule e stati cellulari presenti nelle diverse aree del seno grazie a varie tecnologie impiegate. Uno strumento che potrà essere estremamente utile per tutti coloro che studiano il cancro al seno e altre malattie, come la mastite, nonché per comprendere lo sviluppo del seno e l’incapacità di allattare.

Sono state identificate 12 principali cluster di cellule, tra cui tre tipi di cellule epiteliali, cellule linfatiche e vascolari, linfociti B e T natural killer (NK), cellule mieloidi, adipociti e fibroblasti. Un risultato stupefacente emerso dalla ricerca è che il 17% delle cellule presenti nel tessuto mammario sano è di tipo immunitario. Inoltre, i ricercatori hanno notato una significativa presenza di cellule perivascolari (7,4%), comprese i periciti, che svolgono una funzione contrattile e regolano il flusso di sangue dai capillari ai tessuti, e le cellule muscolari lisce dei vasi, che regolano la contrazione delle arterie. L’anatomia e l’istopatologia del seno umano sono state oggetto di studio per molti decenni, fornendo approfondimenti sullo sviluppo, l’allattamento e le malattie associate. Più recentemente, i tessuti mammari normali sono stati analizzati utilizzando metodi molecolari e genomici, concentrandosi principalmente sulle cellule epiteliali. Tuttavia, fino ad oggi, è mancata un’analisi completa e imparziale di tutti i tipi di cellule e dei loro sottotipi biologici.

Nel contesto del progetto Human Breast Cell Atlas (HBCA), è stato condotto uno studio mirato a creare un riferimento completo dei tipi di cellule e degli stati cellulari presenti nei tessuti del seno umano adulto, utilizzando tecniche genomiche a singola cellula e spaziali, che ha permesso di

esaminare l’RNA e la composizione proteica dei campioni, permettendo di capire dove risiedono i diversi tipi di cellule. Sono state identificati oltre 60 stati cellulari biologici. Questi tipi e stati cellulari sono organizzati in quattro principali aree della mammella: duttale, lobulare, adiposa e connettivale.

L’analisi condotta ha rivelato la presenza di numerose popolazioni di periciti, cellule endoteliali e cellule immunitarie nel seno normale, nonché una notevole diversità di stati cellulari epiteliali luminali. È stato scoperto un ecosistema ricco di cellule immunitarie residenti nei dotti e nei lobuli, oltre a evidenziare differenze distinte negli stati cellulari epiteliali tra le regioni duttali che trasportano il latte e le lobulari, produttrici di latte. Un dato importante emerso è che le donne afroamericane vengono colpite da sottotipi aggressivi di carcinoma mammario, come il triplo negativo e il carcinoma mammario infiammatorio. Studio futuri potrebbero evidenziare potenziali marcatori utili per predire l’eventuale insorgenza di una neoplasia. L’insieme di questi dati fornisce un punto di riferimento senza precedenti per lo studio della biologia mammaria e delle condizioni patologiche. Tutti i dati a livello di singola cellula e spaziali, ottenuti da questo progetto, sono accessibili tramite i portali di dati appositamente creati in modalità open access. Inoltre, sono stati sviluppati protocolli ottimizzati per la dissociazione dei tessuti e codici di analisi dei dati che possono essere scaricati gratuitamente.

La ricerca HBCA (Human Breast Cell Atlas) fa parte di un progetto più ampio: Human Cell Atlas (HCA), finanziato da Chan-Zuckerberg, il National Cancer Institute. Oltre al progetto HBCA, sono in corso numerosi altri progetti che si concentrano sull’atlante del seno umano, ognuno dei quali si concentra su diverse aree di ricerca. I ricercatori coinvolti in questi progetti sono fieri di contribuire a questa iniziativa che mira a migliorare la comprensione delle cellule umane e delle loro interazioni in diversi contesti. L’obiettivo dell’HCA è quello di creare una mappa completa di tutte le cellule umane, consentendo una migliore comprensione della biologia cellulare, aprendo nuove opportunità per la diagnosi, la prevenzione e il trattamento di malattie.

Secondo gli autori, è necessario condurre ulteriori studi per ampliare le conoscenze e poter predire il rischio di sviluppare neoplasie mammarie.

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COMPLETATO IL PIÙ GRANDE

ATLANTE DELLE CELLULE DELLA MAMMELLA

Identificati 12 cluster di cellule e presenze immunitarie e perivascolari Una rivoluzione nella comprensione e trattamento delle malattie mammarie

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di Carmen Paradiso

CUORE, LA DIAGNOSI PRECOCE SALVA LE VITE COSÌ

COME PER I TUMORI

I risultati del primo screening cardiologico per le patologie valvolari mai realizzato nel Paese mostrano come la prevalenza sia tre volte più alta rispetto a quella stimata finora

Lo screening per le malattie cardiovascolari potrebbe salvare migliaia di vite se fosse maggiormente diffuso, proprio come avviene già per alcuni tipi di tumori. A dare il quadro della situazione in Italia, è il primo screening cardiologico per le patologie valvolari mai realizzato nel Paese, condotto dalla Società italiana di cardiologia geriatrica (Sicge), nell’ambito dello studio Prevasc, che stima la prevalenza e la gravità di cardiopatie nella popolazione anziana e l’identificazione precoce di problemi cardiaci. Ad oggi, in Italia le patologie del cuore rappresentano la prima causa di morte, con oltre 230mila casi l’anno, e sono responsabili del 35% di tutti i decessi. Senza dimenticare poi l’impatto economico significativo, con costi sanitari diretti tra gli 11 e i 16 miliardi di euro e costi indiretti che raggiungono i 5-8 miliardi di euro.

Avviato nel maggio del 2022, lo studio Prevasc ha coinvolto circa 1200 over 65, residenti in dieci “borghi del cuore”, piccoli comuni con meno di 3mila abitanti, che sono stati sottoposti a visite cardiologiche gratuite, elettrocardiogrammi ed ecocardiogrammi per valutare lo stato di salute cardiaca. «Dai dati raccolti nell’indagine conclusa a maggio, si osserva una prevalenza di circa il 30% di patologie valvolari nelle forme lieve e moderata, tre volte più alta rispetto a quella stimata fino ad oggi del 10-12%, con un’alta percentuale di ipertesi (83%), diabetici (19%) e dislipide-

mici (56%)», commenta Niccolò Marchionni, presidente della Sicge. «Tutte nuove diagnosi – prosegue - con sintomi silenti e fattori di rischio per cui gli anziani esaminati non erano in trattamento ma erano in grado di generare, negli anni successivi, patologie cardiache clinicamente rilevanti. In particolare le anomalie della valvola aortica sono risultate complessivamente presenti nel 27% e quelli della valvola mitralica nel 34% dei soggetti osservati».

Identificare precocemente le malattie cardiache vuol dire ridurre i rischi ma anche la mortalità e i notevoli costi economici e sociali correlati. Per questo, medici ed esperti richiamano l’attenzione delle istituzioni sull’importanza di garantire azioni efficaci di prevenzione nella popolazione anziana, attraverso screening cardiologici salvavita come per i tumori. L’adozione infatti di programmi strutturati di prevenzione consentirebbe, nel caso delle patologie valvolari, di evitare circa 300mila decessi, a cui va incontro chi soffre di stenosi aortica grave (130mila) o insufficienza mitralica (170mila), se trascurate o non identificate precocemente.

«La valenza davvero unica dello studio è quella di aver fatto emergere i vizi valvolari latenti che, se non diagnosticati precocemente e seguiti nel tempo, nel 10% dei casi rischiano di evolvere nell’arco di 45 anni in forme gravi che possono diventare fatale nella metà dei pazienti tutto questo a gravi conseguenze con una stima

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di 150mila decessi evitabili grazie all’adozione di programmi strutturati di screening salvavita come per i tumori mammario colon rettale e della cervice uterina», osserva Alessandro Boccanelli, vicepresidente della Società Italiana di Cardiologia Geriatrica (SICGe) e coordinatore dello studio Prevasc.

L’aumento delle diagnosi, dall’attuale 25% al 60%, consentirebbe di intervenire in maniera precoce e di aumentare la probabilità di sopravvivenza dei cittadini. L’invecchiamento progressivo della popolazione rende ancora più allarmante la situazione perché il rischio di sviluppare malattie cardiache cresce proporzionalmente con l’età. «L’allungamento dell’aspettativa di vita ha determinato un’evoluzione epidemiologica significativa delle cardiopatie, legata all’invecchiamento fisiologico del cuore, come la fibrillazione atriale, lo scompenso cardiaco e le malattie degenerative delle valvole», conclude il professor Furio Colivicchi, già presidente dell’Associazione nazionale medici cardiologi ospedalieri (Anmco) e vicepresidente della federazione delle Società medico scientifiche. (E. G.)

Avviato nel maggio del 2022, lo studio Prevasc ha coinvolto circa 1200 over 65, residenti in dieci “borghi del cuore”, piccoli comuni con meno di 3mila abitanti, che sono stati sottoposti a visite cardiologiche gratuite, elettrocardiogrammi ed ecocardiogrammi per valutare lo stato di salute cardiaca.

Queste patologie soffrono pertanto di una debolezza a livello diagnostico con un importante impatto anche dal punto di vista economico, se si considera che da un recente studio sui dati Inps del Centro studi internazionali di economia (Ceis) di Tor Vergata emerge una spesa previdenziale correlata di 29 milioni di euro l’anno. Eppure per una diagnosi tempestiva basterebbe auscultare il cuore con un fonendoscopio e, nel caso di un sospetto, con successivi esami (elettrocardiogramma o ecocardiogramma).

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Ese bastasse un breve sonnellino pomeridiano per aiutare il cervello a invecchiare meglio? Fosse vero, anzitutto avremmo una buona scusa per staccare il telefono e chiedere di non essere disturbati. Ma, soprattutto, ci troveremmo dinanzi a una notizia potenzialmente rivoluzionaria. E d’altronde non è meno che rivoluzionario lo studio realizzato dai ricercatori della University College di Londra e dell’Università della Repubblica in Uruguay, pubblicato sulla rivista Sleep Health. La tesi sostenuta dagli scienziati è infatti la seguente: il pisolino proteggerebbe il cervello dal restringimento che avviene in età avanzata, come fisiologica conseguenza del passare degli anni. La siesta avrebbe infatti l’effetto di contrastare la riduzione dell’organo compensando la scarsità del sonno notturno e proteggendo il cervello contro la neurodegenerazione.

Come sottolineato dai ricercatori in fase di presentazione dello studio, il cosiddetto sonnellino diurno rappresenta un comportamento universale e diffuso. La maggior parte dei bambini al di sotto dei tre anni non vi rinuncia, ma con il passare degli anni questa abitudine va scemando. Nei bambini in età scolare, ad esempio, si concede un pisolino dopo scuola soltanto il 12,7% dei piccoli di età compresa fra i sei e i 13 anni. La percentuale torna a salire leggermente negli adulti fra i 26 e i 64 anni (13,7%) e negli anziani di età superiore ai 65 anni (27%). Gli effetti benefici di un sonnellino risultano tangibili anche nel breve periodo. Una dormita tra i cinque e i 15 minuti, infatti, si ripercuote positivamente sulla salute e sulle capacità cognitive di chi se l’è concessa nell’arco di uno-tre ore.

Nel realizzare il proprio studio, gli esperti sono partiti da un presupposto, quello per cui il restringimento del cervello avviene più velocemente nelle persone con problemi cognitivi e malattie neurodegenerative. Secondo alcune ricerche svolte in passato, questo fenomeno sarebbe correlato proprio a problemi del sonno. Per andare a fondo della questione, i ricercatori hanno attinto ai dati dell’UK Biobank, database che raccoglie infor-

mazioni inerenti la genetica, lo stile di vita e la salute di 500mila perone di età compresa fra i 40 e i 69 anni. Mettendo sotto la lente di ingrandimento i dati di 35.080 soggetti, l’obiettivo degli scienziati è stato fin da subito comprendere se le varianti genetiche, associate in studi precedenti alla tendenza a fare il sonnellino diurno, fossero correlate anche al volume del cervello e ad ulteriori aspetti della salute dell’organo, cercando di ridurre l’impatto sui dati di fattori esterni come il fumo o l’attività fisica. Alla fine dello studio, i ricercatori hanno riscontrato un’associazione fra la predisposizione genetica al sonnellino diurno e un volume cerebrale maggiore, quantificabili in 2,5-6,5 anni in meno di invecchiamento. Un risultato clamoroso se si pensa che, dopotutto, ciò che viene richiesto al soggetto per preservare la salute di un organo fondamentale come il cervello non è altro che ritagliarsi un po’ di tempo per... dormire.

Victoria Garfield, professoressa dell’University College di Londra, in qualità di coautrice dello studio ha sottolineato come siano tanti i fattori di rischio che possono condurre una persona alla demenza e al declino delle facoltà mentali, lasciando

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così intendere che un breve riposo pomeridiano non dovrebbe essere interpretato alla stregua di una panacea. Ma una cosa si può dire senza timore di essere smentiti, alla luce dei risultati registrati dallo studio: «Fare abitualmente un breve pisolino diurno potrebbe aiutare a preservare il volume del cervello e questa è una cosa positiva, potenzialmente, per la prevenzione della demenza». Su quanto questa ricerca possa risultare fondamentale in futuro concorda anche la professoressa Tara Spires-Jones della British Neuroscience Association e del Dementia Research Institute: nonostante i dati riguardino solo i cittadini del Regno Unito e potrebbero non essere accurati perché si tratta di autodichiarazioni, «questo studio è importante perché si aggiunge a

Il pisolino proteggerebbe il cervello dal restringimento che avviene in età avanzata, come fisiologica conseguenza del passare degli anni. La siesta avrebbe infatti l’effetto di contrastare la riduzione dell’organo compensando la scarsità del sonno notturno e proteggendo il cervello contro la neurodegenerazione.

quelli che sostengono che il sonno è importante per la salute del cervello».

Già in passato uno studio pubblicato su General Psychiatry aveva esaminato la salute fisica e cognitiva mettendola in correlazione con i pisolini diurni. A 2.214 persone over 60 anni, residenti in grandi città della Cina, era stato chiesto di dividersi in due gruppi: 1.534 avrebbero dovuto fare regolari sonnellini pomeridiani, 680 no. Alla fine del periodo di osservazione, i ricercatori avevano potuto osservare come le persone che avevano riposato un po’ durante il pomeriggio avessero ottenuto punteggi più alti in uno specifico test cognitivo utilizzato per la valutazione della demenza senile, il Mini Mental State Exam, rispetto a coloro che non avevano fatto alcun pisolino. In particolare, lo screening di valutazione comprendeva esercizi che coinvolgevano abilità visuali e spaziali, capacità di attenzione, risoluzione dei problemi, memoria di lavoro, consapevolezza della posizione e fluidità verbale. (D. E.).

CERVELLO: IL SONNELLINO

POMERIDIANO AIUTEREBBE

A INVECCHIARE MEGLIO

Uno studio sottolinea l’importanza della siesta: contrasterebbe la riduzione dell’organo compensando la scarsità del sonno notturno e proteggendolo contro la neurodegenerazione

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INFEZIONE BATTERICA CAUSA L’ENDOMETRIOSI?

Uno studio cerca di far luce sulla condizione che colpisce dal 10 al 15% delle donne di età fra i 15 ed i 49 anni

Il gruppo di ricercatori del Sol Levante, coordinato dal professor Yutaka Kondo e dalla dottoressa Ayako Muraoka della Scuola di Medicina dell’Università di Nagoya, in collaborazione con il National Cancer Center, ha dapprima identificato l’associazione fra Fusobacterium e malattia. Ciò è stato possibile mettendo sotto la lente di ingrandimento due gruppi di 155 donne: in questo modo gli scienziati hanno scoperto che il 64% di quelle affette da endometriosi presentava un’infezione da Fusobacterium dell’endometrio, mentre questa era presente in meno del 10% delle donne sane. Il team ha anche individuato un potenziale specifico meccanismo in grado di portare dall’infezione all’endometriosi correlato ad un’alterata risposta immunitaria. Infine, il gruppo di ricerca ha testato un comune trattamento antibiotico, dimostrando di essere in grado di prevenire l’instaurarsi dell’endometriosi o di diminuire il numero e la gravità delle lesioni caratteristiche della malattia.

Un’infezione dovuta a batteri della famiglia

Fusobacterium potrebbe essere la causa dell’endometriosi o contribuire ad aggravarla, ma un trattamento antibiotico mirato potrebbe offrire una cura alternativa alla malattia. È quanto scoperto da un gruppo di ricercatori della Scuola di Medicina e del iGCORE presso l’Università di Nagoya, in Giappone.

L’endometriosi è una malattia che colpisce dal 10 al 15% delle donne di età compresa fra i 15 ed i 49 anni, contraddistinta dalla

presenza di tessuto endometriale, la mucosa che riveste la cavità uterina, al di fuori dell’utero. Per quanto riguarda l’Italia, le donne con diagnosi conclamata sono almeno tre milioni. La patologia può essere invalidante, in particolare per via del dolore ad essa associato; inoltre può diminuire o compromettere la fertilità. Nonostante possa essere trattata con terapia ormonale e interventi chirurgici, questi trattamenti possono avere dei significativi effetti collaterali, provocando recidive e impattando sulla gravidanza della paziente.

I risultati del team suggeriscono in maniera incontrovertibile che il targeting per Fusobacterium è un efficace trattamento non ormonale a base di antibiotici per l’endometriosi. Come ha affermato il professor Yutaka Kondo, «l’eradicazione di questo batterio con trattamento antibiotico potrebbe essere un approccio per trattare l’endometriosi nelle donne positive all’infezione da fusobatteri e queste donne potrebbero essere identificate con un tampone vaginale o dell’utero». Presso il Dipartimento di ostetricia e ginecologia dell’ospedale universitario di Nagoya stanno già avendo luogo studi clinici finalizzati a comprendere se il trattamento antibiotico presenti un profilo di sicurezza ed efficacia adeguato per essere somministrato regolaermente. (D. E.).

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Una possibile svolta, se non addirittura una rivoluzione, potrebbe essere alle porte per 500 milioni di pazienti diabetici in tutto il mondo (3,5 milioni soltanto in Italia) grazie agli ultimi risultati conseguiti dalla ricerca. Secondo due diversi studi pubblicati su Jama e sul New England Journal of Medicine, sarebbe infatti possibile passare da 365 iniezioni di insulina l’anno a sole 52. Merito di una nuova insulina basale a somministrazione settimanale in grado di offrire la stessa efficacia di quelle somministrate quotidianamente nei pazienti con diabete di tipo 2 che non abbiano adoperato in precedenza l’insulina. La molecola in questione è indiziata di mostrare il potenziale per rendere la vita più semplice ai pazienti, non solo eliminando il disagio dell’iniezione quotidiana, ma anche incrementando l’aderenza alla terapia insulinica, come precisato da Roberto Trevisan, professore di Endocrinologia all’Università di Milano-Bicocca e direttore della Diabetologia dell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo, nonché unico ricercatore italiano ad aver preso parte alla stesura finale dello studio sul New England Journal of Medicine.

Lo stesso Trevisan riferisce come ora si attenda l’approvazione della nuova molecola da parte degli Enti regolatori del farmaco, così da renderla disponibile. Un ulteriore vantaggio della formulazione della terapia su base settimanale è rappresentato dalla possibilità di diminuire l’impegno richiesto agli operatori sanitari che si occupano di diabetici che richiedono insulina, in particolare per quelli ricoverati nelle strutture sanitarie residenziali a lungo termine.

Nei due studi in esame, i ricercatori hanno messo a confronto, in quasi 600 persone che non erano mai state trattate con insulina, l’efficacia e la sicurezza di una nuova insulina a somministrazione settimanale

DIABETE TIPO 2, POSSIBILE RIVOLUZIONE ALLE PORTE

Una nuova insulina basale a somministrazione settimanale potrebbe ridurre il numero delle iniezioni da 365 l’anno a 52

(icodec) con quelle di due differenti insuline già in uso a somministrazione quotidiana. Dopo circa sei mesi dall’inizio del trattamento, il prodotto a somministrazione settimanale ha mostrato un leggero vantaggio in termini di efficacia misurata rispetto alla capacità di mantenere buoni livelli di emoglobina glicata. Nello studio pubblicato su Jama, però, si è osservato che la somministrazione settimanale presentava un leggero incremento del rischio di ipoglicemie, pur restando i casi di abbassamento eccessivo della glicemia molto rari (meno di un episodio all’anno per paziente). I ricer-

catori nel loro studio concludono che «l’insulina icodec è un’insulina basale da somministrare una volta alla settimana in grado, pertanto, di migliorare l’accettazione e l’aderenza al trattamento, poiché il numero di iniezioni di insulina basale si riduce da almeno 365 a 52 all’anno». Tuttavia, precisano gli esperti, «quando si considera il trattamento con l’insulina icodec nella pratica clinica, il piccolo beneficio glicemico aggiuntivo e la convenienza della somministrazione una volta alla settimana devono essere valutati rispetto al piccolo rischio assoluto di ipoglicemia». (D. E.).

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STILI DI VITA E ALIMENTAZIONE NELLE ALTERAZIONI

STRUTTURALI DEI CAPELLI

Nella degenerazione del follicolo pilifero sono coinvolti processi infiammatori, diete povere, deficit vitaminici, tutti aspetti ampiamente legati a ciò che mangiamo

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di Biancamaria Mancini

Diversi studi dimostrano come stili di vita alimentari sbilanciati possano portare ad alterazioni strutturali dei capelli, importanti effluvi o un aggravamento di un defluvio già in corso. Ma come mai la nostra alimentazione è così importante per la salute dei nostri capelli? Di cosa si nutrono i nostri follicoli piliferi? A queste domande risponde la dott.ssa Chiara Carrara, biologa nutrizionista ed esperta in tricologia, attraverso un webinar apposito. La sua risposta è netta: l’integrità e le normali funzioni di cuoio capelluto e capelli dipendono largamente dalla nostra dieta. Nella degenerazione del follicolo pilifero sono coinvolti infatti processi infiammatori, diete povere, deficit vitaminici, tutti aspetti ampiamente legati alla nostra alimentazione. Dobbiamo sapere che le unità follicolari sono costituite da un’alta quota di proteine (6595%), una buona parte da acqua, e infine da lipidi, pigmenti, minerali e vitamine. Un’importante proteina costituente del capello è sicuramente la cheratina, formata da catene di amminoacidi e in particolare da due amminoacidi essenziali, la cistina e la lisina. Per questo dobbiamo considerare sempre un apporto alimentare proteico completo anche da un punto di vista amminoacidico.

Una recente review ha raccolto 24 articoli scientifici in cui emerge con evidenza che la dieta è un’importante fattore da considerare nei diversi tipi di alopecia. I dati evidenziano che chi segue la dieta mediterranea e le linee guida di riferimento e assunzione dei nutrienti (LARN) abbia un minor rischio di sviluppare alopecia androgenetica (AGA). Questo perché la dieta mediterranea contiene un ottimo quantitativo di sostanze antiossidanti, estrogeniche e anti-infiammatorie. Un aspetto eziologico dell’AGA è proprio l’iperattività dell’enzima 5-alpha reduttasi di tipo II che converte il testosterone in DHT, aumentando l’attività androgena. L’aumento dell’attività di questo ormone comporta una maggiore produzione di radicali liberi (ROS) a livello della papilla dermica e, di conseguenza, un aumento della secrezione del TGF-beta1 (transforming growth factor beta 1), molecola che inibisce la proliferazione delle cellule epiteliali della matrice follicolare e quindi inibisce la crescita dei capelli. I polifenoli, ad esempio, che troviamo largamente in una dieta mediterranea ad alto contenuto di fibre e vegetali, sono in grado di inibire la 5alpha-reduttasi. Per la buona costituzione dell’assetto pilo sebaceo e della vitalità e spessore del capello, la

Come concausa della degenerazione follicolare e degli stati infiammatori del distretto pilosebaceo troviamo anche lo stress. Da questo punto di vista è importante fare delle considerazioni anche sull’impatto della nostra alimentazione sulla qualità della vita. Infatti, è già ben dimostrato che chi consuma una dieta ricca di fibre vegetali abbia una migliore qualità della vita e un miglior stato di salute, con una minor rischio di sviluppare le cosiddette malattie non trasmissibili (NCDs). Pertanto, i cambiamenti nei modelli alimentari possono influenzare positivamente e negativamente la qualità della vita degli individui.

dieta deve mantenere idonea la concentrazione di:

• Proteine: I LARN definiscono un corretto apporto proteico pari a 0,90 g/kg. Fondamentale non è solo la quantità bensì anche la qualità e quindi la completezza del quadro amminoacidico. Una dieta vegetariana può soddisfare assolutamente i fabbisogni proteici giornalieri di un individuo e anche completare il quadro amminoacidico. È sufficiente abbinare correttamente gli alimenti per trarne il maggior vantaggio. Un esempio è l’abbinamento tra cereali e legumi. Le proteine vegetali contengono tutti gli aminoacidi essenziali, ma possono presentare quantità non ottimali di uno o due aminoacidi essenziali, che differiscono in relazione al gruppo alimentare preso in considerazione. Per comprendere quali aminoacidi siano presenti in quantità non ottimali si fa riferimento al concetto di aminoacido limitante: si tratta dell’aminoacido essenziale contenuto in un cibo in quantità non ottimali rispetto al pattern di riferimento.

• Zinco: numerosi studi dimostrano che una carenza di zinco sia alla base di un telogen effluvium in quanto la sua funzione è importante nei processi antiossidanti. Ne troviamo in buone quantità nella frutta secca, nei legumi e nei cereali come miglio e quinoa.

• Rame, magnesio e selenio: coinvolti nei processi metabolici antiossidanti. Il magnesio è fondamentale nei processi di sintesi di nucleotidi. Presenti in asparagi, noci, albicocche secce, semi di chia, anacardi, noci di macadamia, cioccolato fondente, fichi d’india, carciofi e fagioli.

• Ferro: carenze di ferro portano ad un telogen effluvium cronico proprio per il suo ruolo di turnover cellulare. In particolare la ferritina (magazzino di ferro) andrebbe dosata. Lo possiamo trovare nella rucola, spinaci, carciofi, pistacchi, cacao amaro, cime di rapa e avena.

• Gli acidi grassi essenziali (EPA e DHA) sono molto importanti per il benessere dei nostri capelli e del follicolo pilifero.

Bibliografia

• Pham CT, Romero K, Almohanna HM, Griggs J, Ahmed A, Tosti A. The Role of Diet as an Adjuvant Treatment in Scarring and Nonscarring Alopecia. Skin Appendage Disord. 2020 Mar;6(2):88-96. doi: 10.1159/000504786.

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MICROBIOTA CUTANEO

E PROBIOTICI PROTEGGONO LA PELLE DAI RAGGI UV

L’esposizione a fattori ambientali stressanti, come temperature sfavorevoli, o inquinamento atmosferico, può causare disbiosi del microbiota con conseguenti disturbi della pelle

La pelle è un organo complesso e stratificato che presenta condizioni diverse, ospita tanti abitanti, tra cui batteri, funghi, lieviti, archei, virus e persino acari. Il microbiota cutaneo di un individuo si forma, alla nascita, variando da un individuo all’altro in base all’età, al sesso, a fattori genetici, a fattori fisico-chimici (es. umidità, pH, temperatura), alla composizione di peptidi e lipidi antimicrobici, all’ambiente, allo stile di vita (uso cosmetico) e stato immunitario.

Tratto da “Challenging

Cosmetic Innovation: The

Skin Microbiota and Probiotics Protect the Skin from UV-Induced Damage”, di Djouhar Souak, Magalle Barreau, Aurèlie Coutrois, Valèrie Andrè, Cècile Duclairoir Poc, Marc G.J. Feuilloley, Manon Gault.

È solitamente suddiviso in batteri: 1) commensali considerati utili, sebbene possano anche acquisire una virulenza significativa sotto l’effetto di fattori endogeni o esogeni; 2) transitori includono patogeni opportunisti. Il microbiota commensale della pelle ha diverse funzioni di difesa chiave contro i patogeni e funge da barriera per l’aggressione (bio)chimica e fisica e da modulatore del sistema immunitario innato della pelle (attraverso la sintesi di peptidi antimicrobici) e adattivo. Infatti, la sua composizione è cruciale per l’omeostasi immunitaria, una rottura di questo equilibrio può portare a malattie come dermatite atopica, psoriasi, rosacea o ipersensibilità immediata e ritardata. Infatti un aumento di Staphylococcus aureus è correlato con l’insorgenza di dermatite atopica, la quale è anche associata a una grande diminuzione della diversità microbica, evidenziando l’origine multifattoriale della maggior parte delle malattie cuta-

nee. Considerando i campioni raccolti in oltre 20 siti cutanei, i principali phyla batterici sembrano essere Actinobacteria (51,8%), Firmicutes (24,4%), Proteobacteria (16,5%) e Bacteroidetes (6,3%), mentre tutti gli altri phyla rappresentano meno dell’1%. I principali generi identificati sono Corynebacteria (22,8%, Actinobacteria), Cutibacteria (ex Propionibacteria)

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di Carla Cimmino
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(23,0%, Actinobacteria) e Staphylococci (16,8%, Firmicutes). Questo profilo di comunità batterica è un phyla batterico medio, ma possono essere identificati anche rari phyla batterici come i cianobatteri (2,5%) e derivano probabilmente dall’interazione con l’ambiente. La composizione del microbiota batterico è anche modulata dal microambiente cutaneo, inclusi fattori come ossigeno, pH, temperatura e topografia.

Per quanto riguarda lieviti e funghi, la Malassezia è il microrganismo predominante sul corpo e sulle braccia; Aspergillus, Cryptococcus, Rhodotorula ed Epicoccum, possono essere trovati sull’arco del piede. Circa 17 specie di Malassezia sono state identificate sulla pelle umana, le principali sono M. restritta, M. globosa e M. sympodialis sono le principali.

Anche il viroma cutaneo può essere separato in due gruppi: 1) è composto da batteriofagi, la cui distribuzione segue quella dei batteri del loro ospite; 2) è composto da virus eucarioti, tra cui Polyoma, Papilloma e Circovirus, che si possono tovare anche in assenza di segni clinici di infezione. È interessante notare che questo microbiota cutaneo è esposto ogni giorno a fattori

ambientali stressanti, come temperature sfavorevoli, umidità, sole, inquinamento atmosferico, sostanze rilasciabili dai tessuti, farmaci, disinfettanti e persino cosmetici, che possono tutti causare disbiosi (cambiamenti nell’equilibrio del microbiota) e di conseguenza disturbi della pelle.

Impatto dei raggi UV sulla pelle e sul suo microbiota

L’esposizione al sole può interessare una percentuale variabile della superficie cutanea a seconda delle stagioni, ma rimane una delle più potenti e costanti fonti di stress ambientale per la pelle. Lo spettro UV solare è suddiviso in tre segmenti in base alla lunghezza d’onda e all’energia trasmessa dalla radiazione: UVC (200–290 nm); UVB (280–315 nm) e UVA (315–400 nm), quest’ultimo suddiviso in UVA1 (315–340 nm) e UVA2 (340–400 nm).

Gli effetti delle radiazioni UV sulla pelle differiscono a seconda della loro energia e del potenziale di penetrazione, più lunga è la lunghezza d’onda della radiazione, più profonda penetrerà nella pelle. A livello del mare, gli esseri umani sono esposti principalmente ai raggi UVB e UVA, i raggi UV che penetrano nella pelle rappresentano dal 5 all’8% della radiazione solare corrispondente a circa il 5-10% di UVB e il 90-95% di UVA. Questi valori variano con l’elevazione del sole, l’altitudine, l’ozono, la copertura nuvolosa e la riflessione del suolo, infatti l’inquinamento e la riduzione dello strato di ozono stratosferico possono, tuttavia, amplificare i valori di esposizione alle radiazioni ultraviolette.

Sei fototipi cutanei sono stati descritti da Fitzpatrick in base al loro livello di pigmentazione cutanea e alla sensibilità ai raggi UV. Nella pelle, la radiazione UV viene assorbita dai cromofori cutanei e da diverse molecole, tra cui DNA, lipidi di membrana e acido trans-urocanico. Oltre agli effetti psicologici, la luce solare e i raggi UV promuovono vantaggiosamente la sintesi della vitamina D e la loro benefica influenza sul benessere è stata all’origine della pratica della fototerapia. La fototerapia è prescritta nelle patologie cutanee, come la psoriasi, la dermatite atopica, il linfoma cutaneo a cellule T e altre dermatosi fotosensibile.

L’esposizione solare genera una risposta cutanea complessa, compresi i cambiamenti istologici che portano all’invecchiamento precoce della pelle e persino alla carcinogenesi. Gli UVA pren-

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© Kallayanee Naloka/shutterstock.com Actinobacteria.

dono di mira il DNA e producono radicali liberi, che promuovono l’ossidazione dei lipidi e portano a infiammazione, espressione genica a lungo termine e cambiamenti nella risposta immunitaria. Al contrario, l’UVB è essenzialmente assorbito dal DNA nucleare e provoca danni immediati.

Effetto degli UV sul microbiota cutaneo

Gli effetti dei raggi UV sulla pelle possono influenzare indirettamente il microbiota cutaneo e i batteri stessi hanno sviluppato una resistenza alle radiazioni UV.

È stato dimostrato che la radiazione UV influenza la composizione e l’attività del microbiota cutaneo, ma le sue conseguenze sono ambigue, che vanno: da positive (diminuzione dei patogeni opportunisti come Staphylococcus aureus); a negative, (comparsa di infiammazione cronica).

Le radiazioni UV possono sovraregolare i meccanismi immunitari innati protettivi della pelle stimolando la produzione di peptidi antimicrobici, come hbD2, hbD3, RNasi7, psoriasina o S100A12, da parte dei cheratinociti.

L’impatto dei raggi UVA e UVB sul microbiota cutaneo è stato studiato in un panel di sei volontari, è stata osservata un’alterazione nella composizione del loro microbiota cutaneo dopo l’esposizione ai raggi UVA e UVB. Sebbene i cambiamenti fossero molto variabili, il phylum Cyanobacteria tendeva ad aumentare mentre le Lactobacillaceae e le Pseudomonadaceae diminuivano. L’aumento dei cianobatteri è stato attribuito alla loro elevata resistenza intrinseca alle radiazioni UV, infatti, i cianobatteri sviluppano una varietà di meccanismi di difesa, tra cui la biosintesi di composti che assorbono/schermano i raggi UV, come gli aminoacidi simili alle micosporine (MAA) e gli enzimi, tra cui la superossido dismutasi (SOD), che contrastano lo stress ossidativo. I raggi UV influenzano direttamente i batteri cutanei come il Cutibacterium acnes riducendo la loro produzione di porfirina, il Micrococcus luteus, che ha la notevole proprietà di essere in grado di antagonizzare l’effetto deleterio dei raggi UV sul sistema immunitario attraverso l’inversione dell’acido cis-urocanico formato dai raggi UV durante l’esposizione cutanea.

Ciò ha portato l’industria cosmetica a prendere in considerazione il microbiota cutaneo nello sviluppo di prodotti utilizzati per la fotoprotezione.

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Fotoprotezione

La pelle ha una fotoprotezione naturale contro i raggi UV grazie alla sua pigmentazione, agli enzimi antiossidanti e al sistema di riparazione del DNA con riparazione per escissione di basi e nucleotidi (BER, NER) e persino all’apoptosi. Tuttavia, la fotoprotezione è necessaria per proteggere dagli effetti deleteri delle radiazioni UV sulla pelle. La fotoprotezione moderna include due fattori come mezzo di protezione primaria (filtri solari regolamentati a livello FDA, che assorbono o riflettono le radiazioni UV); e secondaria (antiossidanti, osmoliti ed enzimi di riparazione del DNA, che aiutano a limitare i danni alla pelle).

I filtri solari sono il mezzo di protezione cutanea contro i raggi UV nei paesi occidentali, quelli chimici compensano la debolezza della fotoprotezione naturale, in particolare per la pelle caucasica (fototipi da I a IV); alcuni limitano fisicamente la penetrazione della radiazione UV nel bersaglio cellulare bloccando la radiazione (prodotti solari classici, filtri UV), altri mirano inoltre agli effetti dei raggi UV inibendo le specie che reagiscono all’ossigeno indotte dai raggi UV o hanno azioni più complesse, come la promozione di sistemi endogeni di fotoprotezione e riparazione.

I filtri solari possono essere suddivisi in base al loro meccanismo di azione in bloccanti UV fisici (inorganici), assorbitori UV chimici e filtri UV ibridi

I filtri UV inorganici (fisici) riflettono e diffondono la luce e in particolare i raggi UVA e UVB, includono composti colorati e pigmenti micronizzati, tra questi ultimi troviamo l’ossido di titanio (TiO2) e l’ossido di zinco (ZnO ex Z-Cote®-BASF Care Creations). I filtri UV organici (chimici) (come Tinosorb® M-BASF Care Creations, MexorylTM XL-L’Oréal, Triasorb™-Pierre Fabre) assorbono i raggi UV ad alta energia e rilasciano radiazioni a bassa energia. Recenti studi hanno dimostrato che possono esistere effetti sinergici tra UV e inquinanti atmosferici come il fumo di sigaretta e gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA). Questi inquinanti hanno proprietà ossidative intrinseche della pelle i cui effetti possono potenziare quelli dei raggi UV. Ciò è stato particolarmente dimostrato per UVA e B[a]P (Benzo[a]pirene), uno degli IPA fotoreattivi più dannosi, che porta a una diminuzione della vitalità cellulare attraverso un aumen-

L’impatto dei raggi UVA e UVB sul microbiota cutaneo è stato studiato in un panel di sei volontari, è stata osservata un’alterazione nella composizione del loro microbiota cutaneo dopo l’esposizione. Sebbene i cambiamenti fossero molto variabili, il phylum Cyanobacteria tendeva ad aumentare mentre le Lactobacillaceae e le Pseudomonadaceae diminuivano. L’aumento dei cianobatteri è stato attribuito alla loro elevata resistenza intrinseca alle radiazioni UV, infatti, i cianobatteri sviluppano una varietà di meccanismi di difesa, tra cui la biosintesi di composti che assorbono/schermano i raggi UV, come gli aminoacidi simili alle micosporine (MAA) e gli enzimi, tra cui la superossido dismutasi (SOD), che contrastano lo stress ossidativo.

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Complementari ai filtri UV, sono state implementate strategie basate sulla protezione endogena, stimolando le vie antiossidanti naturali o aggiungendo, ad esempio, enzimi riparatori, antiossidanti, peptidi, o estratti naturali o biotecnologici. Gli antiossidanti, come la vitamina C, la vitamina E, i carotenoidi, i polifenoli e i flavonoidi consentono una riduzione delle specie reattive dell’ossigeno generate dai raggi UV.

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to della perossidazione lipidica e delle rotture del DNA. Pertanto, è stato dimostrato che la combinazione di luce solare e inquinanti atmosferici aggrava sinergicamente il danno cutaneo e accelera l’invecchiamento cutaneo.

Complementari ai filtri UV, sono state implementate strategie basate sulla protezione endogena, stimolando le vie antiossidanti naturali o aggiungendo, ad esempio, enzimi riparatori, antiossidanti, peptidi, o estratti naturali o biotecnologici. Gli antiossidanti, come la vitamina C, la vitamina E, i carotenoidi, i polifenoli e i flavonoidi consentono una riduzione delle specie reattive dell’ossigeno generate dai raggi UV. Studi in vitro hanno dimostrato l’ampia attività protettiva biologica di: 1) Ciste’M® estratto naturale delle parti aeree di Cistus monspeliensis, titolato in flavonoidi miricetina glicosidi contro gli effetti deleteri delle radiazioni UVB, delle radiazioni UVA e del benzo[a]pirene attraverso le proprietà antinfiammatorie, antiossidanti e protettive del DNA associate; 2) Arganyl® (BASF Beauty Solutions Care France), il cui principio attivo deriva dalle foglie di argan, note per le loro alte concentrazioni di polifenoli, presenta un effetto antiossidante inibendo la produzione di specie reattive dell’ossigeno e la perossidazione lipidica indotta da benzo[a]pirene e UVA.

Approcci cosmetici basati su batteri per prevenire i danni indotti dai raggi UV Amminoacidi simili alle micosporine (MAA) sono metaboliti di classe secondaria fotostabili naturali, possono dissipare l’energia UV sotto forma di calore senza generare radicali liberi dell’ossigeno e possono anche bloccare la formazione indotta dai raggi UV sia di (6-4) fotoprodotti pirimidina-pirimidone (6-4 fotoprodotti) sia di dimeri di pirimidina. Sono considerati composti multifunzionali che offrono protezione dai danni indotti dalle radiazioni UV e dallo stress ossidativo, osmotico e termico, assorbono la luce su un’ampia larghezza di banda con un’assorbanza massima compresa tra 310 e 362 nm (intervallo UVA e UVB) e hanno un coefficiente di estinzione molare elevato (e = 28.100–50.000 M−1 cm−1), pertanto, possono essere utilizzati come ingredienti attivi nei prodotti cosmetici per contrastare gli effetti negativi della radiazione UV solare.

I MAA sono composti tipicamente piccoli (<400 Da), incolori e solubili in acqua, ne sono

state identificate venti forme e le più studiate sono la porfira-334, la shinorina e la micosporina glicina, hanno una struttura simile, composta da un 4-deossigadusolo contenente anelli cicloesanone o cicloesenimina coniugati al sostituente azotato di un amminoacido o imminoalcol. Molti studi hanno dimostrato che contrastano specificamente i danni ossidativi prevenendo la perossidazione lipidica e l’attività dei radicali superossido. Ad esempio, l’estratto di alga rossa Porphyra umbilicalis, commercializzato come Helioguard 365a (Mibelle AG Biochemistry, Svizzera), è considerato una protezione solare naturale e contiene una miscela di MAA liposomiali, shinorine e porphyra-334, l’azione phoprotective di questo composto contro i danni al DNA causati dai raggi UVA è stata dimostrata in vitro nelle cellule HaCaT.

Lo Staphylococcus epidermidis produce un composto, il 6-HAP (idrossiaminopurina 6-N), che ha un’attività protettiva nei confronti delle neoplasie, questa molecola è in grado di inibire la sintesi del DNA e di prevenire selettivamente la proliferazione delle cellule tumorali, nonché di sopprimere la crescita cellulare de novo indotta dai raggi UV.

Le radiazioni UVB deprimono l’immunità cellulo-mediata attraverso la fotoisomerizzazione dell’acido trans-urocanico (trans-UCA) in acido cis-urocanico (cis-UCA), è stato inoltre dimostrato che il commensale cutaneo Micrococcus luteus è in grado di degradare la cis-UCA nella sua isoforma trans e quindi ridurre potenzialmente l’azione immunosoppressiva degli UVB, quindi, gli effetti deleteri delle radiazioni UV possono essere mitigati da questa specie batterica. Inoltre, Micrococcus luteus produce in particolare un enzima interessante, un’endonucleasi, che ha la capacità di migliorare l’efficienza dei complessi enzimatici di riparazione del DNA, e che può essere incapsulata in un involucro rivestito di fosfolipidi per facilitarne la penetrazione nelle cellule.

Si è dimostrato che un trattamento topico della pelle umana con liposomi contenenti una fotoliasi isolata da un cianobatterio, Anacystis nidulans, è in grado di degradare il 40% dei CDP generati dall’esposizione ai raggi UVB, oltre a ridurre l’eritema. Parallelamente, nell’epidermide è stata osservata una riduzione della molecola di adesione intercellulare-1 (ICAM-1), che agisce sull’immunità e sull’infiammazione.

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Inoltre, le fotoliasi sembrano efficaci nel ridurre gli effetti deleteri degli UVB e nel generare immunoprotezione.

Una recente scoperta ha mostrato che il batterio commensale della pelle, Cutibacterium acnes, è in grado di secernere un enzima antiossidante, questa proteina denominata RoxP per l’ossigenasi radicale di Propionibacterium acnes facilita la crescita batterica aerobica in vitro ed ex vivo. Un altro studio ha dimostrato che RoxP influenza positivamente la vitalità di monociti e cheratinociti esposti a stress ossidativo. Questo enzima risulta avere proprietà interessanti e potrebbe essere utile per ridurre lo stress ossidativo legato all’esposizione ai raggi UV.

Gli actinobatteri e, più in particolare, gli Streptomyces sono fonti di metaboliti con attività molto interessanti nella fotoprotezione, come composti antiossidanti e antinfiammatori e molecole che assorbono i raggi UV, includono composti ammidici, generalmente associati ad attività antinfiammatorie e alcaloidi che mostrano attività più specificamente antiossidanti, sono ora impiegati come ingredienti chimici per sviluppare prodotti protettivi.

Approcci nutrizionali basati sui batteri per prevenire i danni indotti dai raggi UV

L’integrazione orale con antiossidanti (ad es. acido ascorbico, carotenoidi o polifenoli) e probiotici è stata recentemente proposta per proteggere la pelle dai danni indotti dalle radiazioni UV.

Ceppi specifici di batteri dell’acido lattico possono avere un’influenza benefica sulla composizione e sul metabolismo del microbiota intestinale e in alcuni casi è stato riportato che inibiscono la crescita di batteri enteropatogeni. Molti studi hanno dimostrato una connessione tra l’asse immunitario intestinale e la pelle e il consumo di alimenti contenenti probiotici ha dimostrato di migliorare la salute della pelle, mantenendo l’omeostasi della pelle e regolando il sistema immunitario cutaneo.

Per quanto riguarda i danni cutanei indotti dalle radiazioni UV, è stata dimostrata l’efficacia di probiotici come il Lactobacillus johnsonii NCC 533 (La1), l’assorbimento di L. johnsonii rafforza l’omeostasi del sistema immunitario cutaneo prevenendo l’aumento dell’interleurkin-10 generato dai raggi UV e riducendo il reclutamento di cellule di Langerhans epidermiche. Allo stesso modo, è stato dimostrato che

È stato dimostrato che la radiazione UV influenza la composizione e l’attività del microbiota cutaneo, ma le sue conseguenze sono ambigue, che vanno: da positive (diminuzione dei patogeni opportunisti come Staphylococcus aureus); a negative, (comparsa di infiammazione cronica).

la somministrazione di un ceppo probiotico di Lactobacillus rhamnosus GG (LGG) previene lo sviluppo di tumori cutanei grazie all’attività del suo acido lipoteicoico (LTA), un componente della parete cellulare dei batteri Gram-positivi. In un modello murino, l’LTA ha ridotto l’immunosoppressione cutanea indotta dai raggi UV e quindi ha ridotto significativamente la crescita del tumore cutaneo indotto dai raggi UV.

Conclusioni

Le migliori strategie di fotoprotezione attualmente conosciute sono indumenti e creme solari. Tuttavia, le strategie ottimizzate potrebbero utilizzare ingredienti che migliorano la risposta protettiva endogena ai raggi UV e/o enzimi riparatori o antiossidanti con un effetto positivo sul recupero della pelle dopo l’esposizione ai raggi UV. Il microbiota cutaneo è considerato una fonte di composti con proprietà fotoprotettive indirette, alcuni tra i batteri del microbiota cutaneo hanno effetti diretti di blocco o assorbimento delle radiazioni UV, nonché attività antinfiammatorie e antiossidanti. Inoltre, alcuni studi clinici hanno rafforzato l’idea che alcuni probiotici abbiano attività benefiche in grado di prevenire o invertire gli effetti nocivi delle radiazioni UV. I batteri endogeni ed esogeni non sono solo una fonte di molecole ma anche una fonte di ispirazione per lo sviluppo di nuove strategie di fotoprotezione naturale.

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SALVAGUARDIA DELLA NATURA UN OBBLIGO NORMATIVO IN EUROPA

Il 12 luglio l’assemblea di Strasburgo ha approvato la Nature Restoration Law. Il regolamento, cuore del “Pacchetto Natura”, è uno degli assi portanti del Green Deal europeo

48 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Ambiente

Tutelare la natura diventa un obbligo di legge in Europa. Il 12 luglio scorso gli europarlamentari hanno dato via libera alla Nature Restoration Law, la prima legge sulla natura proposta e approvata nel Vecchio Continente. Il provvedimento, che ha vissuto un iter costellato da numerose contestazioni sia fuori sia dentro l’aula di Strasburgo, ha incassato 336 voti favorevoli, 300 contrari e registrato 13 astensioni.

L’approvazione della proposta di regolamento sul ripristino della natura, sostenuta dalle associazioni ambientaliste e osteggiata dal mondo degli agricoltori, è stata preceduta dall’orientamento generale adottato il 20 giugno dal Consiglio dell’Unione europea composto, per l’occasione, dai ministri dell’Ambiente degli stati membri.

Lo step successivo sarà l’avvio da parte del Parlamento dei negoziati con Commissione Europea e Consiglio Ue per l’approvazione del regolamento. Durante questa fase, potranno essere apportate modifiche al testo.

La Nature Restoration Law rappresenta il cuore del cosiddetto “Pacchetto Natura”, già approvato dalla Commissione europea nel giugno 2022 per contrastare il cambiamento climatico, ed è uno degli assi portanti del Green Deal europeo.

La Commissione stessa ha definito l’iniziativa “pionieristica” e per molti analisti si tratterebbe davvero, se approvata in via de-

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 49 © RaffMaster/shutterstock.com Ambiente

finitiva, di una pietra miliare nella storia della legislazione europea su ecosistemi e biodiversità, arrivata dopo 30 anni dalla direttiva Habitat del 1992.

La deadline per il raggiungimento dei risultati è stata fissata per il 2030, come sancito dagli impegni internazionali del programma delle Nazioni Unite “Kunming-Montreal Global Biodiversity”.

Gli obiettivi della legge, che sono vincolanti per gli stati membri, prevedono di realizzare misure di ripristino che investano almeno il 20 per cento del territorio terrestre e marino dell’Unione, in modo da arrestare la perdita di biodiversità. Nel dettaglio, la legge si prefigge di: ridurre i pesticidi chimici del 50 per cento e vietare tutti i tipi di pesticidi nelle aree sensibili; non perdere aree verdi urbane entro il 2030 e incrementarle del 5 per cento entro il 2050, prevedendo un minimo del 10 per cento di copertura arborea in ogni città; recuperare le popolazioni di impollinatori; ripristinare gli habitat nei fondali marini; restituire allo scorrimento libero 25mila chilometri di fiumi rimuovendo le barriere fluviali, così da scongiurare disastri durante le alluvioni; riumidificare le torbiere prosciugate, preziose alleare nell’assorbire il carbonio.

In una seconda fase, si prevede di applicare entro il 2050 lo stesso concetto a tutti gli ecosistemi che richiedono ripristino, così da garantire sicurezza alimentare, resilienza climatica e

Si stima che gli investimenti per il recupero dell’ambiente, per ogni euro speso, porteranno fra gli 8 e i 38 euro in termini di benefici. Per rendere operativo il pacchetto di misure previste, la Commissione stanzierà finanziamenti pari a 100 miliardi di euro.

salute e benessere per popolazione, fauna e flora. Entro due anni dal completamento dell’iter legislativo, gli stati membri avranno l’obbligo di adottare piani nazionali, da sottoporre al controllo della Commissione, inviando rapporti annuali sui progressi e l’attuazione delle misure previste.

Si stima che gli investimenti per il recupero dell’ambiente, per ogni euro speso, porteranno fra gli 8 e i 38 euro in termini di benefici. Per rendere operativo il pacchetto di misure previste, la Commissione stanzierà finanziamenti pari a 100 miliardi di euro.

Secondo un recente report dell’Agenzia europea per l’ambiente, oggi l’81 per cento degli habitat naturali in Europa versa in cattive condizioni e fino al 70 per cento dei suoli è contaminato, con una perdita per la produzione agricola di 50 miliardi di euro annui. Le zone umide, le torbiere, i pascoli e le dune sono gli habitat più colpiti. Dal 1970 a oggi nell’Europa occidentale, centrale e orientale le zone umide si sono ridotte del 50 per cento. Il 71 per cento dei pesci e il 60 per cento delle popolazioni di anfibi sono diminuiti nell’ultimo decennio. Sul fronte della fauna terrestre, 1677 specie animali, tra cui volpe artica, orso polare, e una su dieci tra api e farfalle, rischiano l’estinzione. Tra il 1997 e il 2011, il drammatico calo di biodiversità ha comportato una perdita annua stimata tra 3.500 e 18.500 miliardi di euro. (E. T.)

50 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
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ILLUMINARE LE VETTE SFIDANDO LA CRISI CLIMATICA

19 le bandiere verdi 2023 destinate da Legambiente all’arco alpino, che hanno premiato i campioni in buone e inedite soluzioni. Il Piemonte re dei vessilli

L’arco alpino risplende alla luce di realtà che risuonano come un richiamo per prepararci a un’alternativa efficiente. Associazioni, operatori locali, piccoli comuni ed enti culturali si ergono come protagonisti di una rivoluzione in atto nei territori montani, affrontando la crisi cli-

matica e lo spopolamento con iniziative concrete e al passo con la Natura. Legambiente ha scelto di premiare con diciannove bandiere verdi, le testimonianze di coraggio e impegno delle comunità di montagna nel ripensare l’azione territoriale e creare un mondo più resiliente e adattabile. Le Alpi italiane si tingono, quindi, di verde con il Piemonte che si conferma re delle proposte sostenibili, grazie ai cinque vessilli verdi, seguito da Friuli Venezia Giulia (4), Veneto (3), Lombardia e Valle d’Aosta (2),

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Alto Adige, Liguria e Trentino con una. Si va dal bioparco “Acqua Viva”, voluto dal Comune di Caraglio (CN) e sorto dopo la rivalorizzazione di un’ex polveriera militare, all’amministrazione comunale di Enego (VI) per essersi attivata nella reintegrazione forestale dopo la tempesta “Vaia” (2018); dalle associazioni e gli enti promotori di “Baumgart” per il risanamento dei frutteti tradizionali nelle aree cittadine di Bolzano al lavoro e al ricordo dello storico Remo Cacitti, deceduto il tre marzo scorso, che ha dato un contributo determinante per ricostruire il centro storico di Venzone (UD) con il suo Duomo trecentesco. Altri riconoscimenti sono stati riconosciuti all’ampliamento del Parco del Mont Avic, Fénis (AO), al recupero di saperi e capacità costruttive a cura dell’associazione per l’Ecomuseo Valle Elvo e Serra Sordevolo (BI), alla manifestazione “Giocaosta” promossa da “Aosta Iacta Est”, alla tutela delle selve castanili da parte dei “Castanicoltori Lario Orientale”, Sala al Barro (LC). Non è stato neppure dimenticato l’impegno per la rete di sentieri del “Gruppo Sentieri Amici della Storia di Val Brembilla” (BG), la riapertura della biblioteca in un piccolo paese voluta dagli associati di “Podén” a Forni di Sotto (UD), un progetto per il turismo lento della Pro Loco di Preone (UD) e “Alpstream - Centro internazionale per lo studio dei fiumi alpini”, Ostana (CN) ricompensato per le ricerche svolte sui fiumi alpigiani.

«La montagna - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - sta dimostrando di essere un territorio resiliente e di offrire nuove opportunità rispondendo così a crisi climatica e spopolamento. Il mondo delle bandiere verdi è, infatti, la prova evidente di questa resilienza e forza delle comunità locali che puntano sempre di più su innovazione, sostenibilità ambientale, valorizzazione del territorio e adattamento innovativo. Ma la monta-

L’associazione ambientalista sottolinea l’importanza di replicare le storie virtuose in tutto il territorio italiano e chiede la piena applicazione della Carta di Budoia, un documento presentato nel 2017 alla Conferenza internazionale di Alleanza nelle Alpi in Friuli-Venezia Giulia, che mette al centro l’azione dei comuni alpini nell’affrontare e gestire gli impatti futuri legati al meteo.

gna non deve essere lasciata sola, oltre al grande lavoro che stanno facendo i territori, è importante mettere a sistema anche interventi nazionali e risorse, a partire da quelle del Pnrr, che vadano a sostegno e supporto delle realtà montane».

Vanda Bonardo, responsabile nazionale Legambiente Alpi spiega come «la crisi climatica esaspera la convivenza uomo-natura, con conflitti che rischiano di diventare insostenibili per la nostra specie. È nelle pratiche di adattamento creativo e innovativo che la gente di montagna potrà e dovrà cimentarsi dando il meglio di sé per salvaguardare se stessa, ma anche i territori che stanno a valle, tenendo fede anche agli impegni della carta di Budoia».

Delle undici bandiere nere, che, com’è facile immaginare, criticano pratiche svantaggiose, ne sono state attribuite dieci a istituzioni pubbliche dell’arco alpino, ad eccezione del Piemonte, e una ad un privato. È un monito che ci ricorda l’urgenza di agire in modo saggio per invertire la tendenza negativa e proteggere le meraviglie del paesaggio. Le nostre cime alpestri, nonostante tutto, stanno diventando testimoni di una rivoluzione in corso e le storie di successo sono un faro di speranza, poiché offrono un modello per preservare l’Ambiente e costruire comunità più forti e radicate. La montagna dimostra, ancora una volta, la propria resilienza e la capacità di fornire singolari possibilità, un segnale incoraggiante che sprona a continuare su questa strada capace di trasformare le sfide in opportunità di rinascita e prosperità. (G. P.).

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COSTRUZIONI 3D PER RIPRISTINARE LE BARRIERE CORALLINE NEL MEDITERRANEO

Il progetto “Life Dream”, finanziato dall’Unione Europea, si concentra sulla protezione e il ripristino delle biocostruzioni profonde, connettendo tecnologia e ambiente

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di Gianpaolo Palazzo

Nel cuore del Mar Mediterraneo, un’idea ambiziosa ha inaugurato una nuova era nella conservazione delle profondità marine. Il progetto internazionale “Life Dream”, guidato dall’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche e finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma “Life 2021-2027”, si sta rivelando un’iniziativa carica di molte aspettative interessanti, sin dal suo lancio nel settembre del 2022. Meno di un anno dopo, sono stati raggiunti importanti traguardi, tra cui il lancio del geoportale on-line e la realizzazione delle prime ARS (Artificial Reefs Structures), strutture artificiali stampate in 3D, destinate a facilitare l’attecchimento e la crescita dei coralli profondi. “Life Dream” vuole supportare l’Unione Europea nel perseguimento degli obiettivi legati al cosiddetto Green Deal (Patto verde). Il programma mira a creare una società con un’economia all’avanguardia, dinamica sotto il profilo delle risorse, e concorrenziale, nella quale le emissioni nette di CO2 dovrebbero raggiungere lo zero entro il 2050 e la crescita finanziaria sarà disaccoppiata dal depauperamento senza sorveglianza delle ricchezze offerte dalla Terra.

Sono coinvolti tre Stati: Italia, Spagna e Grecia unitisi per proteggere e ripristinare le biocostruzioni “abissali” o Deep Reef secondo la Direttiva 92/43/CEE “Habitat”. Attraverso metodi e sistemi innovativi si stanno raccogliendo informazioni utili per estendere i siti protetti dalla Rete europea Natura 2000, che ne comprende alcuni d’interesse comunitario (Sic) segnalati come zone speciali di conservazione (Zsc). Un’altra grossa mano dovrà arrivare dall’opinione pubblica, la quale correttamente informata, non potrà più ignorare il ruolo cruciale svolto dai coralli nel funzionamento degli ecosistemi marini se avrà intenzione d’invertire la tendenza verso il declino. Inoltre, si vuole contribuire agli obiettivi stabiliti dalla “Biodiversity Strategy 2030”, promuovendo l’attuazione completa della legislazione comunitaria sulla protezione e il ripristino di quello che nel Mare nostrum viene calpestato dall’uomo.

Il consorzio dei partner vede, oltre al già citato Cnr-Ismar nel ruolo di coordinatore, diversi compagni di viaggio italiani (Università degli Studi di Bari, Università Politecnica delle Marche, Università degli Studi di Napoli Federico II, Stazione Zoologica Anton Dohrn, Federpesca - Federazione Nazionale delle imprese di Pesca, Regione

“Life Dream” vuole supportare l’Unione Europea nel perseguimento degli obiettivi legati al cosiddetto Green Deal (Patto verde). Il programma mira a creare una società con un’economia all’avanguardia, dinamica sotto il profilo delle risorse, e concorrenziale, nella quale le emissioni nette di CO2 dovrebbero raggiungere lo zero entro il 2050 e la crescita finanziaria sarà disaccoppiata dal depauperamento senza sorveglianza delle ricchezze offerte dalla Terra.

Puglia, l’azienda Net European Consulting srls) ed internazionali (il centro di ricerca Hellenic Centre for Marine Research, l’associazione dei pescatori Enaleia Astiki Mi Kerdoskopiki Etaireia, e le autorità della Regione di Tessaglia per la Grecia; l’istituto di ricerca Agencia Estatal Consejo Superior De Investigaciones Cientificas per la Spagna). Gli associati al progetto sono: l’organizzazione spagnola Organizacion de Productores Pesqueros de Almeria e l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Tutti metteranno nero su bianco insieme un protocollo per la rimozione dei rifiuti marini, con l’intento di riutilizzarli attraverso un prototipo in grado di convertire la plastica in carburante per uso marittimo. Quest’azione aspira a migliorare le interazioni con il settore della pesca, che parteciperà attivamente alla ripulitura, soprattutto della plastica, promuovendo in tal modo un’economia sempre più circolare.

Tra i traguardi da raggiungere vi è anche quello di migliorare la conoscenza di habitat prestigiosi e vulnerabili, ricavando dati scientifici, utili per una gestione più efficace delle risorse naturali. Quelle cifre sono organizzate in un’infrastruttura di dati spaziali e rese disponibili a tutti gli stakeholder, portatori d’interesse, tra cui il mondo scientifico, gli amministratori locali e i cittadini, attraverso il geoportale accessibile dal sito Web. Le aree d’intervento comprendono quattro zone del Mar Mediterraneo: la piattaforma di Monopoli e il Canyon di Bari in Puglia, il Canyon Dohrn nel Golfo di Napoli in Campania, il Seco de los Olivos Seamount nel Mare di Alboran in Spagna e il Parco nazionale Marino di Alonissos nelle Sporadi Settentrionali in Grecia. A maggio “D-Shape” ha realizzato le prime Artificial Reefs Structures. Esse saranno utilizzate nelle Aree di Progetto 1 e 2, rispettivamente il Canyon di Bari e quello capano, mentre le altre verranno installate nel 2024. L’azienda è specializzata nella costruzione digitale utilizzando una stampante 3D per l’architettura. In questo caso la sabbia, derivata da rocce sedimentarie di origine vulcanica, è stata unita chimicamente con un legante ecologico brevettato e, una volta in mare, dovrà facilitare il lavoro silenzioso, ma pregiato della Natura.

Attraverso la sua eredità di ricerca, “Life Dream” continuerà ad ispirare le generazioni future a prendersi cura dei tesori nascosti che il pelago ci offre, realizzando il sogno di un Mediterraneo rigoglioso e prospero, in cui la vita fiorisce e l’equilibrio tra uomo e universo viene ricostituito.

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C’è sempre qualcosa di prezioso anche negli avanzi. Gli esperimenti e la letteratura scientifica degli ultimi anni ci stanno insegnando e confermando che i biscotti non commercializzabili possono nascondere una ricchezza. Grazie al metodo sviluppato da un gruppo di ricercatori dell’Enea, possiamo estrarre l’olio alto oleico da quelle deliziose prelibatezze destinate ad altro fino a poco tempo fa. È un ricordo “gustoso” dell’arte di trasformare lo sciupio in opportunità, dove ogni separazione rappresenta un passo verso la sostenibilità alimentare. Questa soluzione pionieristica offre numerosi vantaggi, consentendo il recupero di un prodotto qualitativamente valido. Il grosso del lavoro è stato affidato alle larve del dittero Hermetia illucens Linneus, 1758, (Diptera, Stratiomyidae: Hermetiinae).

Uti -

© Plateresca/shutterstock.com 56 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023

lizzando un dispositivo chiamato “splitter”, che è un contenitore con una griglia forata e un condotto per la raccolta, le “lavoratrici” vengono collocate insieme al cibo in proporzioni che sono state definite sperimentalmente. Il processo, poi, deve esser portato avanti in condizioni ambientali controllate. Durante le prime 72 ore, le larve separano e consentono il recupero del 50-80% dell’olio. Nei biscotti di produzione industriale è quasi sempre presente olio di semi di girasole alto oleico, contraddistinto da un contenuto in acido oleico (il monoinsaturo C18:1, l’acido grasso tipico dell’olio di oliva) pari al 78-88% degli acidi grassi totali. La quantità di olio è, di solito, maggiore rispetto alle necessità nutritive delle piccole lavoranti. Scendendo nel campo della pratica, da 500 gr di frollini (poco cotti o bruciati, spezzati o mal confezionati, invenduti o in scadenza), contenenti, a seconda delle ricette, dai 45 ai 90 gr di olio, se ne recuperano dai 33 ai 60 gr i quali, non essendo stati metabolizzati, mantengono le caratteristiche di alto oleico. A che cosa rimanda questo nome risonante? Si tratta di una sostanza liquida che frequentemente viene scelta da molti cuochi e professionisti della ristorazione collettiva per le proprie peculiarità. Rispetto a quello di girasole “comune”, si dimostra estremamente stabile durante la cottura, per la sua particolare composizione chimica. La resistenza alle alte temperature è rilevante, tanto da raggiungere un punto di fumo di 225°C, superiore ai 210°C dell’olio di girasole comune. Questo significa che mantiene la propria qualità e stabilità anche a temperature più elevate, evitando la degradazione e la formazione di sostanze nocive.

Oltre al riguadagno, il sistema proposto offre ulteriori vantaggi. Con l’andare avanti della bioconversione, la larva proseguirà, come hanno raccontato i ricercatori, la propria crescita

del Laboratorio di Tecnologie e processi per le bioraffinerie e la chimica verdeconvertono biomasse organiche accumulando nel proprio corpo proteine e lipidi, ottimi ingredienti per mangimi. Contemporaneamente restituiscono un residuo digerito, utile per la produzione di compost e fertilizzanti per la crescita delle piante». La Arnone è autrice del brevetto insieme ai colleghi Francesco Petrazzuolo, Isabella De Bari, Massimiliano De Mei, Vito Valerio e Alessio Ubertini.

immagazzinando, ininterrottamente fino a diventare matura, proteine e lipidi, tipici della specie. Tuttavia, a differenza del processo convenzionale, restituirà un residuo parzialmente digerito ancora ricco in proteine, olio alto oleico e zuccheri, che può essere utilizzato nel cibo per bestiame, nei concimi, completando, così, il ciclo di ottimizzazione dell’avanzo iniziale.

La tecnologia sviluppata dall’Enea contribuisce alla sostenibilità ambientale, promuovendo un approccio circolare alla produzione alimentare. Inoltre, ciò che siamo riusciti ad ottenere tramite questo processo presenta diverse applicazioni nell’industria degli alimenti e nella cosiddetta chimica verde. «L’olio alto oleico - conclude la Arnone - può essere utilizzato per la produzione di biolubrificanti per uso agricolo, di monomeri per le bioplastiche e di bioerbicidi e può essere trasformato in polioli per la produzione di poliuretani. Tutti questi prodotti a base biologica hanno un’impronta di carbonio più favorevole rispetto ai prodotti di origine fossile».

Le moderne bioraffinerie stanno dimostrando un notevole impegno nel ricercare fonti di materia prima che derivino anche dal recupero di scarti e sottoprodotti. In questo contesto, l’olio di girasole alto oleico sta emergendo come un prodotto di grande rilevanza. La sua popolarità è legata non solo al desiderio di rispondere alle esigenze del mercato, ma anche di soddisfare i consumatori che si dimostrano attenti al benessere umano e al futuro del nostro Pianeta. La consapevolezza che la nostra salute sia strettamente legata a quella della Terra sta spingendo sempre più persone ad optare per prodotti che rappresentino un passo avanti verso un domani più rispettoso e in armonia con l’Ambiente. (G. P.).

SCARTI DI BISCOTTI

CHE DIVENTANO TESORI

L’Enea ha brevettato un metodo per estrarre olio alto oleico dai frollini non commercializzabili. Una soluzione promettente per ridurre gli sprechi

«Le larve della cosiddetta mosca soldatospiega Silvia Arnone, ricercatrice Enea
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SCOPERTI OLTRE 12MILA FOLDING PROTEICI SCONOSCIUTI IN NATURA

Le nuove strutture proteiche sono state progettate computazionalmente da scienziati giapponesi e aprono la strada a possibili applicazioni nello sviluppo di farmaci ed enzimi

La natura non finisce mai di sorprendere gli scienziati: un innovativo studio giapponese ha svelato una serie di circa 12.000 ripiegamenti proteici finora sconosciuti gettando nuova luce sulla straordinaria diversità che possono assumere le strutture proteiche e sulla profonda vastità dell’universo proteico.

La ricerca, guidata dagli scienziati che studiano il design delle proteine presso l’Exploratory Research Center on Life and Living Systems (ExCELLS) di Okazaki, in Giappone, è stata pubblicata sulla rivista Nature Structural and Molecular Biology.

Come noto, le proteine, i mattoni della vita, si ripiegano spontaneamente in specifiche strutture tridimensionali che consentono loro di svolgere le proprie funzioni biologiche. Le strutture tridimensionali delle proteine dipendono dalle loro sequenze di amminoacidi. Molti studi sono stati condotti analizzando le proteine presenti in natura mentre la scoperta di nuovi ripiegamenti proteici, definiti dalla disposizione e dal legame di α-eliche e β-strands, è diventata sempre più rara.

Gli autori hanno iniziato la loro ricerca partendo dalla considerazione sulla difficoltà di comprendere i principi fondamentali di funzionamento delle molecole proteiche solo analizzando le proteine presenti in natura: esse si sono evolute nei diversi ambienti nel corso di miliardi di anni ma potrebbero esistere altre

strutture che non sono state premiate dal punto di vista evolutivo e che quindi non si ritrovano in natura. Per questo motivo il team ha deciso di intraprendere uno studio che combina la previsione teorica di nuovi ripiegamenti proteici con la convalida sperimentale dei progetti de novo. Nel laboratorio del Protein Design Group dell’ExCELLS i ricercatori progettano computazionalmente molecole proteiche da zero e valutano sperimentalmente il loro comportamento. I principi recentemente sviluppati per la progettazione di strutture proteiche hanno reso possibile il progetto di un’ampia gamma di nuove proteine da zero consentendo l’esplorazione dell’enorme numero di sequenze oltre a quelle selezionate dall’evoluzione. Il team giapponese ha ideato regole basate sulla chimica fisica e sui dati della struttura delle proteine per prevedere teoricamente i possibili ripiegamenti αβ non ancora presenti nell’attuale Protein Data Bank (PDB) contenente centinaia di migliaia di strutture proteiche naturali. Ciò ha portato all’identificazione di un totale di 12.356 nuovi ripiegamenti. L’équipe ha quindi cercato di progettare computazionalmente da zero le proteine sulla base dei dati sui nuovi ripiegamenti scoperti, per valutare la facilità con cui la singola proteina assume la sua struttura finale e la fedeltà delle nuove strutture.

«Abbiamo cercato di progettare computazionalmente proteine con tutti i tipi possibili di ripiegamenti che hanno un foglio β a quattro fi-

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di Sara Bovio

lamenti, compreso uno che forma una struttura simile a un nodo», ha detto Shintaro Minami, ricercatore ExCELLS. «Quando abbiamo progettato le proteine – ha spiegato Minami - non ci aspettavamo che tutte, soprattutto quelle che formano nodi, si ripiegassero assumendo le loro strutture come avevamo previsto».

I risultati dei test sperimentali sono stati sorprendenti. «Per tutti i possibili ripiegamenti, le strutture proteiche progettate al computer corrispondevano esattamente alle strutture sperimentali», ha dichiarato Naohiro Kobayashi, tra gli autori dello studio e ricercatore presso il RIKEN Center for Biosystems Dynamics Research. Dallo studio è emersa l’esistenza di almeno 10.000 αβ-fold inesplorati, una rivelazione significativa se si considera che in natura sono stati osservati solo 400 αβ-fold. Ciò suggerisce, secondo gli autori, che molti potenziali ripiegamenti rimangono sconosciuti.

Partendo dai risultati dello studio sono state elaborate diverse ipotesi sulla struttura e sull’evoluzione delle proteine. Un’ipotesi è che

le proteine, i mattoni della vita, si ripiegano spontaneamente in specifiche strutture tridimensionali che consentono loro di svolgere le proprie funzioni biologiche. © Christoph

le proteine non siano state presenti abbastanza a lungo in natura da poter aver sperimentato tutti i possibili ripiegamenti. Un’altra ipotesi è che i ripiegamenti delle proteine in natura siano intrinsecamente parziali, poiché tutta la vita sulla Terra discende da un antenato comune. Pur esprimendo funzioni diverse, le proteine potrebbero essersi evolute riutilizzando ripetutamente determinati ripiegamenti. George Chikenji, professore assistente presso l’Università di Nagoya ha aggiunto: «Se la vita extraterrestre esiste, potrebbe utilizzare una serie diversa di ripiegamenti proteici».

Gli autori inoltre pensano che la progettazione di proteine con i nuovi ripiegamenti porterà alla nascita di una diversità di strutture ancora maggiore. «Questo aprirebbe la strada alla progettazione de novo di molecole proteiche funzionali e porterebbe a scoperte nello sviluppo di farmaci, nella progettazione di enzimi e in altri settori», ha concluso Nobuyasu Koga, professore presso ExCELLS e il National Institutes of Natural Sciences (NINS).

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Calnexina.

UN VIDEOGIOCO D’AZIONE PER TRATTARE LA DISLESSIA EVOLUTIVA IN ETÀ SCOLARE

Il progetto, nato dalla partnership fra l’Università di Bergamo e gli Irccs Fondazione Santa Lucia ed Eugenio Medea, propone di contrastare il disturbo e nuove soluzioni terapeutiche

Un nuovo progetto per studiare le basi neurobiologiche della dislessia evolutiva e l’efficacia di nuove terapie avanzate basate sui videogiochi d’azione. L’Irccs Eugenio Medea di Bosisio Parini, in provincia di Lecco, l’Irccs Fondazione Santa Lucia di Roma e l’Università degli Studi di Bergamo hanno collaborato alla ricerca traslazionale che ha un duplice scopo: comprendere le cause genetiche e ambientali della dislessia evolutiva, in modo da poter mettere in campo strategie di prevenzione e di diagnosi precoce del disturbo, e strutturare percorsi terapeutici efficaci per i pazienti già diagnosticati.

La prima parte dello studio si pone l’obiettivo di testare gli effetti di una stimolazione ambientale con i videogiochi in base al background genetico dei bambini. Tra i fattori di rischio del disturbo già noti c’è, infatti, una forte ereditarietà. In particolare, è stato studiato il ruolo del gene DCDC2, regolatore dell’attività dei neuroni della via magnocellulare dorsale. Questa via nervosa parte dalla retina e si ramifica verso le aree del cervello coinvolte nell’orientamento spazio-temporale dell’attenzione, una funzione fondamentale nel riconoscimento e nella conversione tra grafema e fonema. Recenti studi hanno dimostrato che i videogiochi di azione, grazie alle loro caratteristiche, ovvero gli stimoli multipli, sono in grado di migliorare le capacità

di lettura in quanto “allenano” le funzioni di attenzione e orientamento spazio-temporale. Lo studio dell’utilizzo dei videogiochi d’azione per la riabilitazione della dislessia evolutiva va avanti da alcuni anni e ha dato risultati positivi sia in termini di adesione alla cura da parte del bambino sia in termini di risultati ottenuti. La collaborazione tra i gruppi dell’Istituto Medea e dell’Università di Bergamo permetterà di sviluppare uno studio multi-dominio in grado di indagare gli effetti dei videogiochi d’azione in bambini di età prescolare, al fine di comprendere il ruolo di questa intrigante stimolazione ambientale nel potenziare i prerequisiti delle abilità di lettura, nonché le conseguenze sulle vie nervose ad essa associati. In questo progetto, il gruppo di ricerca della Fondazione Santa Lucia, avvalendosi delle potenzialità derivanti dal modello preclinico, si occuperà di approfondire gli effetti che l’alterazione del gene DCDC2 può avere sulla morfologia e sulla funzionalità del sistema nervoso, studiando inoltre le conseguenze neurobiologiche derivanti dall’interazione tra vulnerabilità genetica e specifici stimoli ambientali.

La seconda parte dello studio è volta a comprendere, in un modello preclinico, i meccanismi neurobiologici alla base del disturbo e la funzione di specifiche mutazioni genetiche che potrebbero incrementare la vulnerabilità del paziente. «In modelli preclinici sarà pos-

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sibile approfondire gli effetti che l’alterazione di questo gene può avere sulla morfologia o la funzionalità del sistema nervoso e come la sua interazione con specifici stimoli ambientali possa incrementare la vulnerabilità all’insorgenza delle difficoltà di lettura, agendo su funzioni cognitive quali attenzione e memoria», spiega Lucy Babicola, neuroscienziata della Fondazione Santa Lucia Irccs di Roma.

«Approfondire questa relazione – continua la specialista - permetterebbe di indentificare nuovi marcatori biologici, utili alla diagnosi di dislessia evolutiva nonché all’identificazione della vulnerabilità a questo disordine prima dell’insorgenza delle difficoltà di lettura. Comprendere il ruolo che l’ambiente ha nella modulazione dell’attività di questi geni potrebbe inoltre essere utile anche per implementare trattamenti personalizzati. Lo studio dell’interazione tra geni e ambiente –evidenzia - ha moltissime potenzialità. Nel nostro caso, obiettivo principe è la prevenzione. Grazie ai risultati che otterremmo sarà possibile comprendere quali interventi di potenziamento siano più utili in bambini con fattori di rischio genetici per il successivo sviluppo di un disturbo specifico dell’apprendimento. Comprendere i meccanismi neubiologici che sottendono questa relazione, permetterà inoltre di agire creando trattamenti preventivi sempre più specifici, disegnati intorno alla risposta individuale dei bambini». (E. G.)

Lo studio dell’utilizzo dei videogiochi d’azione per la riabilitazione della dislessia evolutiva va avanti da alcuni anni e ha dato risultati positivi sia in termini di adesione alla cura da parte del bambino sia in termini di risultati ottenuti.

DISTURBO DA IDENTIFICARE

La dislessia evolutiva è un disturbo del neurosviluppo che colpisce circa il 7% dei bambini in età scolare. È caratterizzato da una difficoltà nell’automatizzazione della lettura che incide profondamente sulla resa scolastica, sul benessere psicosociale del bambino e, in prospettiva, sul suo futuro inserimento nel mondo del lavoro.

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NANOMATERIALI DA FONTI RINNOVABILI

Pubblicata su Nanoscale Horizons una ricerca che apre una prospettiva di utilizzo di nanomateriali in ambito biomedico

Un gruppo di ricercatori composto da italiani ed europei guidati da Barbara Richichi del Dipartimento di Chimica “Ugo Schiff” dell’Università di Firenze e da Fabrizio Chiodo, ricercatore presso l’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pozzuoli (Napoli), ha utilizzato fonti rinnovabili e di scarto per preparare un nanomateriale innovativo, il cui componente principale è la cellulosa nanocristallina, particolarmente idoneo nel ruolo di vettore capace di trasportare molecole bioattive in grado di attivare il

sistema immunitario. La ricerca, che apre un’ulteriore prospettiva sull’utilizzo di nanomateriali in ambito biomedico, è stata pubblicata su Nanoscale Horizons.

Il materiale, che ha rappresentato l’oggetto dello studio, è stato ottenuto sulla base di un innovativo processo che ha reso possibile la combinazione della cellulosa nanocristallina con piccole nanoparticelle di oro. Il risultato è un nanomateriale ibrido, che può essere modificato in modo puntuale con molecole bioattive di diversa struttura e composizione. I ricercatori hanno osservato l’interazio -

ne tra le molecole bioattive caricate sul nanomateriale e alcuni recettori denominati lectine, che rivestono un ruolo chiave nell’attivazione delle cellule sentinella del sistema immunitario. Ricordiamo, che le lectine sono una famiglia di proteine altamente specifiche per determinati zuccheri. Esse svolgono un importante ruolo biologico nel processo di riconoscimento dei polisaccaridi presenti sulle membrane cellulari. Per esempio, alcuni virus utilizzano le lectine per riconoscere e legarsi alle strutture di carboidrati delle memebrane cellulari dell’organismo ospite nel processo infettivo. Sebbene siano state scoperte solo alla fine dell’Ottocentonelle piante, in seguito è stato osservato che le lectine sono strutture ubiquitarie e presenti in molti organismi. Negli animali le lectine sembrano ricoprire diversi ruoli, dalla regolazione delle cellule adesive alla sintesi delle glicoproteine. La funzione nel mondo vegetale è ancora incerta e non ben definita; si sa che svolgono una parte importante nell’attivazione del sistema di complemento. A questo scopo è stata utilizzata, per la prima volta per lo studio di queste specifiche lectine, la microspia crioelettronica, un tipo di microspia elettronica a trasmissione in cui il campione viene studiato a temperature estremamente basse. Il lavoro è stato realizzato grazie all’accesso alla strumentazione TransmissionElectron cryo-Microscope del Florence Center for Electron Nanoscopy del Dipartimento fiorentino di Chimica. La strumentazione è stata acquisita grazie al finanziamento del Ministero dell’Università e della Ricerca per i Dipartimenti eccellenti 2018-2022.

Barbara Richichi dell’Università di Firenze ha dichiarato: «I dati ottenuti sono molto promettenti: questo nanomateriale, infatti, si propone come piattaforma nanostrutturata innovativa per lo sviluppo di una nuova generazione di candidati vaccinali».

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Innovazione

Un team di ricerca e di spessore internazionale coordinato dall’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano (Cnr-Ifn), al quale hanno partecipato ricercatori del Dipartimento di fisica del Politecnico di Milano, della Columbia University di New York e della californiana Stanford University, ha sviluppato un innovativo microscopio ottico in grado di produrre, in modo più efficace rispetto ai sistemi attualmente in uso, immagini dettagliate della composizione chimica di un campione.

Il coordinatore della ricerca, Cristian Manzoni del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ha affermato: «Lo strumento realizzato rappresenta davvero un importante passo in avanti nel campo della microscopia e della spettroscopia, aprendo di fatto nuove prospettive per la ricerca nelle scienze dei materiali e nelle scienze della vita; sarà in grado, infatti, di contribuire allo studio di materiali bidimensionali innovativi e alla rivelazione e caratterizzazione di microplastiche rinvenute nell’ambiente e all’interno di tessuti animali».

I benefici offerti dal microscopio derivano dall’inedita combinazione di due tecniche: la spettroscopia Raman e la spettroscopia a trasformata di Fourier.

L’effetto Raman è un fenomeno fisico sfruttato da decenni per ottenere informazioni sulla composizione di un campione senza perturbarlo: permette, infatti, di ottenere mappe bidimensionali delle proprietà di un materiale o di un tessuto biologico.

Nel lavoro, che è stato pubblicato sulla rivista Optica, i ricercatori dimostrano, attraverso la spettroscopia a trasformata di Fourier, di aver ridotto il tempo necessario per acquisire un’immagine dettagliata del campione rispetto a quello più lungo impiegato con i microscopi Raman, dovuto al fatto che essi misurano uno spettro per ogni punto mediante una scansione

SVELATA COMPOSIZIONE CHIMICA DEI CAMPIONI

Un nuovo microscopio produce immagini dettagliate aprendo nuove prospettive nel settore della scienza dei materiali

della sua superficie: un processo lento che richiede circa 1 secondo per ogni punto (pixel).

La spettroscopia a trasformata di Fourier, infatti, offre la possibilità di misurare in parallelo tutti i punti del campione, rimuovendo i filtri spaziali o spettrali impiegati nelle tecniche tradizionali: questo metodo, basato su una tecnica detta “interferometria”, combina un’elevata efficienza alla possibilità di acquisire contemporaneamente più dati sullo stesso campione. Nel loro studio, i ricercatori hanno impiegato un interferometro birifrangente di eccezionale stabilità e ripetibilità; il

sistema acquisisce mappe Raman e di fluorescenza con elevata risoluzione spaziale (inferiore a 1 micrometro) in un tempo fino a 100 volte inferiore rispetto a quello impiegato normalmente dagli strumenti tradizionali.

Cristian Manzoni ha così concluso le dichiarazioni sull’argomento: «Questo metodo permette anche di misurare separatamente i segnali Raman e quelli di fluorescenza, consentendo in maniera inedita di studiare entrambi i fenomeni sulla stessa area del campione, e di ottenere molte più informazioni spettrali rispetto alle tecniche tradizionali». (P. S.).

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Innovazione

NUOVI AGENTI INFETTIVI CON MOLECOLE DI RNA

La scoperta, che potrebbe trovare applicazione in ambito biotecnologico, è stata pubblicata su Nature Communications

L’Istituto per la protezione sostenibile delle piante, in collaborazione con l’Istituto di tecnologie biomediche di Bari del Consiglio nazionale delle ricerche, ha condotto uno studio in cui sono stati descritti oltre 20mila nuove potenziali specie di agenti infettivi, costituiti da molecole di RNA con particolari proprietà, in grado cioè di catalizzare reazioni chimiche. La ricerca, svolta in collaborazione con l’Università degli studi di Brescia, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas (Spagna) e University of Toronto (Canada), è

stata pubblicata sulla rivista Nature Communications.

Francesco Di Serio, ricercatore del Cnr-Ipsp e autore della ricerca, ha spiegato: «Fino a poche settimane fa si conoscevano solo poche decine di viroidi, che infettano le piante, e pochissimi RNA di tipo viroidale, gli agenti infettivi più piccoli che si conoscano: numeri che facevano apparire queste entità subvirali come una stranezza biologica. Questa ricerca ci ha dato l’opportunità di identificare migliaia di agenti infettivi con caratteristiche simili, che potrebbero rappresentare potenziali nuove specie, un punto di

svolta nell’ambito delle conoscenze sulla biodiversità microbica».

Lo studio si è basato sull’analisi di dati pubblicamente accessibili e ha messo insieme le risultanze di varie ricerche, prevedendo anche verifiche sperimentali in laboratorio. Il ricercatore ha proseguito: «Le proprietà catalitiche degli RNA sono alla base della teoria secondo cui la vita sulla Terra si sia sviluppata partendo da una fase pre-cellulare, nella quale gli RNA si sono replicati ed evoluti prima del DNA e delle proteine. Abbiamo dimostrato sperimentalmente come gli RNA circolari svolgano un ruolo fondamentale nel processo replicativo di questi nuovi agenti infettivi; inoltre, il fatto di aver identificato gli RNA in campioni provenienti da diverse aree geografiche e nicchie ecologiche, suggerisce che il numero e il tipo di organismi ospitanti possa essere molto più ampio di quanto non si sapesse finora».

Oltre a segnare un punto di svolta nell’ambito delle conoscenze della biodiversità microbica e nello studio dell’origine e dell’evoluzione della vita, questi risultati offrono numerose prospettive di applicazione.

Francesco Di Serio ha così concluso: «Questa metodologia potrà essere utilizzata per cercare nuovi agenti infettivi in qualsiasi organismo ed eventualmente per associarli a malattie le cui cause sono ancora sconosciute. Il fatto che un RNA di tipo viroidale sia in grado di ridurre la virulenza di un fungo patogeno del castagno ci fa pensare che queste entità infettive potrebbero consentire il controllo biologico di malattie fungine di altre piante e magari, in futuro, anche di patologie degli animali e dell’uomo. Infine, considerato il crescente interesse per gli RNA circolari da utilizzare come nuova generazione di molecole terapeutiche, inclusi i vaccini virali, questi agenti infettivi potrebbero costituire la base per lo sviluppo di nuovi vettori virali». (P. S.).

64 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
Innovazione
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Lo studio ha indagato gli effetti benefici di alcune particolari sostanze presenti in grandi quantità nei chicchi rossi (arilli), ma anche nella buccia e nelle membrane interne della melagrana sul fegato. La ricerca, condotta da Enea, è stata finanziata dall’azienda italiana di nutraceutica Esserre Pharma.

Barbara Benassi, responsabile del Laboratorio Enea Salute e Ambiente e coautrice dello studio sperimentale insieme alle colleghe di laboratorio Maria Pierdomenico e Costanza Riccioni di Esserre Pharma, ha spiegato: «Dalle prime analisi in vitro è emerso che il trattamento a base di estratto di melagrana è in grado di ridurre in modo significativo la risposta infiammatoria in cellule epatiche umane; le sostanze attive contenute nel frutto intero sono in grado di inibire la produzione e il rilascio di specifiche molecole coinvolte nella risposta infiammatoria e responsabili del danno al fegato».

Il melograno è un albero da frutto adattabile a una vasta gamma di condizioni agro-climatiche; è originario dell’Iran, ma attualmente è coltivato in molte regioni del mondo, tra cui l’Italia. La produzione e il consumo del suo frutto sono aumentati nel tempo per via delle sue proprietà benefiche, tanto da essere considerato un nuovo superfood. I frutti del melograno sono una grande fonte di molecole bioattive, come i polifenoli e gli acidi grassi polinsaturi, che svolgono un’azione antinfiammatoria, antidiabetica, antiossidante, antimicrobica e antitumorale per alcune forme di cancro.

Benassi ha sottolineato: «Se la maggior parte di questi effetti sono dimostrati e comprovati da sperimentazioni a base di semi e di succhi di frutta fresca, con il nostro studio, invece, puntiamo a valorizzare le molecole presenti anche nella buccia e nelle membrane interne della melagrana e i loro effetti benefici in un ambito ancora poco esplorato quale l’infiam-

FEGATO, BENEFICI DELLA MELAGRANA

Alcune molecole della melagrana hanno un effetto antinfiammatorio. La ricerca su Natural Product Research

mazione epatica».

Il fegato è uno dei bersagli di microrganismi patogeni e sottoprodotti batterici provenienti dall’intestino attraverso la vena porta, il vaso sanguigno che convoglia il sangue dall’intestino all’organo epatico. Un tipico esempio è l’endotossina LPS, una sostanza tossica che è legata alle strutture cellulari di alcuni batteri.

«Nei nostri esperimenti in vitro abbiamo prima indotto una risposta infiammatoria nelle cellule di fegato, utilizzando la stimolazione con l’endotossina LPS; quindi, abbiamo somministrato l’estratto di melagrana alla

concentrazione di 1 microgrammo per millilitro. Il risultato è stato molto incoraggiante: l’estratto ha ridotto il rischio di infiammazione e, di conseguenza, di danno al fegato. Da questi primi risultati ipotizziamo che la biomolecola attiva nell’azione antinfiammatoria dimostrata in laboratorio sia la punicalagina, il polifenolo più abbondante presente nel nostro estratto di frutta e scarti».

Costanza Riccioni ha concluso: «Stiamo svolgendo un ottimo lavoro di ricerca per valutare e dimostrare l’attività biologica degli estratti di alcuni frutti mediterranei». (P. S.).

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 65
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I PELLEGRINAGGI AL SANTO SEPOLCRO?

FIORENTISSIMI GIÀ

NEL IV SECOLO

Il restauro del complesso di Gerusalemme ha fatto luce sul periodo paleocristiano Tracce di frequentazione intensa del sito a partire sin dai primi anni di libero culto

66 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Beni culturali
di Rino Dazzo

Ipellegrinaggi e i viaggi di culto a Gerusalemme, nei luoghi in cui era stato sepolto Gesù, erano fiorenti già nelle primissime fasi del periodo cristiano, quanto meno nei primi anni in cui il culto di Cristo era stato finalmente liberalizzato all’interno dei territori dell’Impero. Tanto che gli spazi del Santo Sepolcro erano regolamentati e organizzati proprio in ragione della frequentazione intensa da parte dei fedeli. Lo confermano le ultime scoperte, avvenute nel corso di una missione italiana. Dal sottosuolo del complesso del Santo Sepolcro a Gerusalemme, infatti, sono emerse nuove tracce e testimonianze del periodo paleocristiano, grazie al lavoro della missione archeologica guidata dalla professoressa Francesca Romana Stasolla, del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università La Sapienza di Roma. In particolare, i lavori di scavo eseguiti nell’area immediatamente antistante l’Edicola, dove si ritiene sia stato sepolto Gesù, hanno consentito di portare alla luce manufatti, tratti di muratura e tracciati risalenti al III e al IV secolo.

Come illustra un comunicato della Custodia di Terra Santa, nel corso dello scavo, eseguito nell’ambito del programma di restauro del pavimento della basilica, è stata rinvenuta una delle prime articolazioni della sistemazione dell’attuale Edicola. Due gradini in marmo bianco consentivano di accedere nello spazio interno, contraddistinto da una pavimentazione in lastre litiche ben impresse nella malta di preparazione, di cui è stato possibile ricostruire misure e andamento. La pavimentazione, in particolare, proseguiva per circa sei metri in direzione est, fino a congiungersi con un piano di grandi blocchi di pietra bianchi, ben lisciati, disposti con andamento nordsud. Doveva essere questo, insomma, l’aspetto della Rotonda come si presentava alla fine del IV secolo, da-

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 67
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Beni culturali

tazione resa possibile dal rinvenimento di un ripostiglio monetale al di sotto del pavimento e che doveva contenere le offerte dei pellegrini. Le monetine di ultima emissione raffiguravano il volto dell’imperatore Flavio Giulio Valente, attivo tra il 364 e il 378 quando fu ucciso dai Goti nel corso della battaglia di Adrianopoli.

Il fatto che i blocchi litici del pavimento fossero ben lisciati dimostra come, sin dalle prime fasi del periodo cristiano, la frequentazione dei luoghi sacri fosse particolarmente intensa. E anche gli imponenti tratti di muratura venuti alla luce, alcuni dei quali ancora da ricostruire nella loro interezza, confermano una significativa forma di organizzazione della Rotonda presente già nel corso del IV secolo. In seguito allo scavo, inoltre, sono emersi i resti della

Il fatto che i blocchi litici del pavimento fossero ben lisciati dimostra come, sin dalle prime fasi del periodo cristiano, la frequentazione dei luoghi sacri fosse particolarmente intensa.

base della balaustra della recinzione liturgica cinquecentesca, rimasta in uso fino ai successivi rifacimenti eseguiti nel corso dell’Ottocento, oltre a frammenti di rivestimento parietale con graffiti databili al XVIII secolo in varie lingue, tra cui greco, latino e armeno: un dettaglio che consente di mappare i luoghi d’origine della maggioranza dei pellegrini in quella particolare fase storica, quando Gerusalemme e tutta la Terra Santa erano sotto il dominio dei Turchi. Insieme ai lavori di scavo, le operazioni di restauro del pavimento all’interno dell’Edicola hanno consentito la messa in pratica di una vera e propria pulizia archeologica al di sotto delle lastre, che ha permesso di effettuare altre scoperte. Sul banco di roccia presente nella Cappella dell’Angelo, infatti, poggiava direttamente un pavimento costituito da lastre in marmo grigio, di cui rimangono tracce molto scarne. Rinvenuti pure i lacerti di muretti con andamento nord-sud che con tutta probabilità costituivano le basi delle recinzioni liturgiche di cui fa menzione la pellegrina Egeria, nobildonna galiziana autrice della Peregrinatio Aetheriae, una lettera in cui illustrava i suoi viaggi di culto in Terra Santa e nel Sinai effettuati proprio alla fine del IV secolo, mentre alcuni piccoli tagli nella roccia indicano la posizione dell’altarino che sosteneva parte della pietra di chiusura del sepolcro. L’apertura del vano, leggermente absidato verso la Cappella dell’Angelo, era posta invece tra la stessa cappella e la tomba, come suggeriscono la lavorazione della roccia e i minimi resti di rivestimenti in marmo ritrovati.

Infine, l’interno della tomba. Sormontata da una pavimentazione marmorea posta in età medievale, nel corso dello scavo – curiosità: il team di ricerca della Sapienza ha lavorato ininterrottamente per sette giorni e sette notti allo scopo di ridurre al minimo il disagio per il pubblico, dal momento che l’attività richiedeva la chiusura temporanea alle visite – è venuta alla luce una porzione più antica di roccia lavorata, profondamente lisciata dall’intensa frequentazione da parte dei fedeli. Rinvenuta inoltre parte del fondo di una camera funeraria in tutto e per tutto simile ad altre emerse nella parte nord della Rotonda, funzionale ad accogliere all’interno i pellegrini venuti a omaggiare il luogo di sepoltura di Gesù fin dal periodo paleocristiano.

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© Belikova Oksana/shutterstock.com Edicola del Santo Sepolcro, Gerusalemme.
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70 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
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La Sicilia continua ad arricchire il suo patrimonio culturale regalandoci numerose sorprese: una tra queste è la recente scoperta archeologica a Selinunte, città che vanta il parco archeologico più esteso d’Europa. Questa era un’antica città siceliota fondata nel 650 a.C. ed era la colonia greca più occidentale della Sicilia. Durante dei lavori di disboscamento e ripristino del Vallone del Gorgo Cottone, sotto la sabbia e la vegetazione, è stata rinvenuta una struttura lunga 15 metri e quattro filari di blocchi di circa 1,80 metri. Il ritrovamento è avvenuto a pochissima distanza da quella che era la darsena collegata al mare.

Linda Adorno, responsabile della sorveglianza dei lavori, vedendo l’angolo di un blocco che era emerso inizialmente, ha percepito sin da subito il valore del reperto e ha garantito che fosse portato alla luce il resto della struttura anche grazie al contributo di studenti dell’Università di Palermo e di collaboratori scientifici.

Il presidente della regione siciliana Renato Schifani ha annunciato la notizia e ha commentato con entusiasmo che «appena pochi giorni dopo il ritrovamento a Segesta, arriva un’altra scoperta che conferma la Sicilia un inesauribile giacimento di reperti che contribuiscono a ricostruire una storia millenaria gloriosa e figlia di scambi culturali e economici incessanti. È il patrimonio di cui siamo eredi e orgogliosi portatori, ma anche custodi. Per questo abbiamo la responsabilità di riscoprirlo, di studiarlo e di proporlo alle nuove generazioni.»

Probabilmente l’imponente architettura costituiva una parte di uno dei due porti della ex colonia di Megara iblea, punto strategico per il commercio del Mediterraneo. Tuttavia, non si hanno ancora abbastanza fonti per parlare con chiarezza. La costruzione non viene mai nominata nelle descrizioni dei viaggiatori dell’XVIII

ARCHEOLOGIA, ANCORA SORPRESE A SELINUNTE

Un nuovo ritrovamento nel sito della provincia di Trapani conferma l’immensa storia e cultura della Sicilia

e del XIX secolo, ragione per la quale si presuppone sia stata distrutta o coperta in un tempo remoto. È per questo che l’assessore regionale ai Beni culturali e all’Identità siciliana, Francesco Paolo Scarpinato, ha annunciato che «siamo sempre più certi che bisogna sostenere nuove missioni di scavo, e Selinunte sarà tra le priorità: il nostro impegno è quello di riportarla alla luce nella sua complessità e interezza»

La posizione della struttura sulla sponda occidentale del Gorgo Cottone indicherebbe un collegamento con il traffico navale del porto orientale:

potrebbe essere una struttura di contenimento sul fiume, le pareti di una darsena per le barche o addirittura la base di un ponte sul fiume, tutte ipotesi avanzate dagli archeologi in attesa di studi più approfonditi. Inoltre, Dieter Mertens, direttore dell’Istituto Archeologico Germanico di Roma, ha confermato che si tratta di una parte integrante dell’impianto urbano della città greca. Dunque, il ritrovamento di questa maestosa costruzione ha suscitato un grandissimo interesse e potrebbe rivoluzionare la conoscenza della topografia della città di Selinunte.

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 71
Selinunte.
Beni culturali
©
di Eleonora Caruso
pixelshop/shutterstock.com

LE SETTE MERAVIGLIE DEL TOUR DE FRANCE

Il duello fra Vingegaard e Pogacar verrà ricordato da tutti gli appassionati di ciclismo, come la maglia a pois di Ciccone, le imprese dei gemelli Yates e l’empatia di Mohoric

72 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Sport
di Antonino Palumbo

Luglio, per gli sportivi, vuol dire Tour de France. Almeno quando l’Italia del calcio non arriva alle fasi finali di Europei o Mondiali. E malgrado non ci siano, oggi, italiani in grado di puntare al successo finale, chi ama il ciclismo può sempre entusiasmarsi di fronte a questo evento affascinante, meta dei nomi più importanti della disciplina. Lo spettacolo maggiore, anche quest’anno, lo hanno regalato il danese Jonas Vingegaard e lo sloveno Tadej Pogacar, nuovamente primo e secondo. Ma non solo. Ecco sette cartoline indimenticabili da un’edizione del Tour de France, quella del 2023, che sarà difficile da dimenticare.

Sport

LA SFIDA TRA FENOMENI

In bilico per due settimane, la sfida fra i due attesi fenomeni Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar si è decisa solo fra la sedicesima e la diciassettesima di 21 tappe. Vingegaard la maglia gialla l’ha presa dopo la sesta, vinta da Pogacar a Cauterets-Cambasque. Ma il giorno prima aveva inflitto un minuto e 4 secondi al rivale sloveno, che poi ha provato a colmare a poco a poco il Gap (8” sul Puy de Dome, altrettanti sul Grand Colombier), arrivando alla cronometro da Passy a Combloux con 10 soli secondi di distacco. In quei 22,4 chilometri, però, Jonas ha inflitto a Matej un minuto e 48 secondi di distacco, volando in salita (meglio

© Lecker Studio/shutterstock.com Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 73

solo Giulio Ciccone: ne parliamo fra poco). Il sigillo sul Tour è arrivato il giorno dopo, quando Pogacar è andato in crisi sul Col de la Loze, scivolando a 7’35” in classifica generale. A Le Markstein, nel penultimo giorno di gara, il canto del cigno di Pogacar.

I GEMELLI YATES

Hanno iniziato il Tour con una doppietta e lo hanno concluso al terzo e al quarto posto della generale. È stata Grande Boucle da protagonisti per i gemelli britannici Adam e Simon Yates, 31 anni il 7 agosto, l’uno compagno di squadra di Pogacar alla Uae Emirates e l’altro portacolori del Team Jayco AlUla. Vincitore della prima tappa a Bilbao, Adam ha migliorato il suo miglior piazzamento finale di sempre nei Grandi Giri (era stato quarto al Tour e alla Vuelta). Già terzo al Giro e vincitore di un’edizione della Vuelta, Simon ha concluso alle sue spalle ottenendo due secondi posti di tappa e indossando la maglia verde della classifica a punti nella seconda tappa.

UN ITALIANO “ROI” DELLA MONTAGNA

Un italiano in maglia a pois, 31 anni dopo Claudio Chiappucci. È stato l’abruzzese Giulio Ciccone a firmare l’impresa, completata transitando davanti a tutti nei primi 4 Gran premi della montagna della penultima tappa. Secondo nella quinta frazione a Laruns, dietro Jay Hindley, Ciccone è stato per 24 ore anche sul podio della classifica generale. Nella 15esima tappa ha sfilato la maglia di miglior scalatore al leader della classifica generale, Jonas Vingegaard, riuscendola a conservare fino a Parigi. Chapeau.

MOHORIC, MAGLIA GIALLA DI EMPATIA

Altro che frasi di circostanza. Quelle regalate da Matej Mohoric, sloveno, dopo il successo nella tappa numero 19, sono state un trattato di umiltà, empatia, sensibilità. «Soffri molto quando prepari un evento. Sacrifichi la tua vita, la tua famiglia e fai tutto il possibile per arrivare qui pronto. E poi dopo un paio di giorni ti rendi conto che tutti sono così incredibilmente forti, che a volte è difficile anche

Hanno iniziato il Tour con una doppietta e lo hanno concluso al terzo e al quarto posto della generale. È stata Grande Boucle da protagonisti per i gemelli britannici Adam e Simon Yates, 31 anni il 7 agosto, l’uno compagno di squadra di Pogacar alla Uae Emirates e l’altro portacolori del Team Jayco AlUla.

solo stare a ruota», l’incipit della risposta. Due frasi per sintetizzare la sua empatia: «E poi c’è il personale che si sveglia alle 6 del mattino e finisce di lavorare alle 11 di sera o a mezzanotte»; «Alla fine pensi quasi di aver tradito i tuoi compagni di fuga perché li hai battuti».

FELIX GALL, SEGNATEVI IL NOME

Dopo il terzo posto a Laruns, il 25enne austriaco della AG2R Citroën Team si è preso il tappone alpino con partenza da Saint-Gervais Mont-Blanc a Courchevel, mettendo i brividi a Giulio Ciccone, nella corsa alla maglia a pois, fino alla penultima tappa. Poi con la squadra ha scelto di concentrarsi sulla ricerca del bis sul traguardo di Le Markstein e sulla classifica generale, che lo ha visto chiudere ottavo. Non è riuscito però a ripetersi, perché ha trovato sulla sua strada un Pogacar più determinato che mai a chiudere in bellezza.

THIBAUT PINOT E L’ADDIO IN BELLEZZA (MA SENZA GIOIA)

Premiato come combattivo di giornata nella ventesima tappa, nella quale ha provato a lasciare il segno nell’ultimo Tour de France della carriera, rimanendo fra gli “attaccanti” per oltre 65 km, parte dei quali in solitaria. Troppo forti, però, alle sue spalle i big della classifica generale che sono andati a riprenderlo contribuendo ad acuire quel velo nostalgico sul suo sguardo guascone. Merci Thibaut, lo stesso.

L’EROICO FINALE DEI FUGGITIVI A BOURG EN BRESSE

L’aggettivo eroico è abitualmente appaiato al ciclismo d’altri tempo. Ma c’è comunque qualcosa di eroico in un pugno di fuggitivi che taglia il traguardo poco prima di essere “fagocitati” dalla volata del gruppo. È successo nella 18esima tappa, da Moutiers a Bourg en Bresse, quando a vincere è stato Kasper Asgreen, già re del Giro delle Fiandre, ma parte dei meriti per la resistenza della fuga è stato di Victor Campenaerts, ex primatista dell’Ora, commovente nel sacrificarsi per il compagno Pascal Eenkhoorn, secondo alla fine.

74 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023
Sport
Simon Yates.

Una medaglia storica per il suo Paese, l’Iran. La gioia per il prestigioso traguardo adombrata dalla notizia che la mascotte spetta solo ai vincitori delle gare. Il sorriso che torna, grazie alla sensibilità e all’attenzione di uno storico uomo di sport. Quando un pupazzo vale quanto una medaglia: una storia che arriva direttamente dal Mondiale Junior e U23 di canoa kayak sprint, disputato dal 4 al 9 luglio ad Auronzo di Cadore. Protagonisti Hediye Kheirabadi, terza classificata nei 5.000 metri di canoa C1 Under 23, e Pino Scarpellino, dirigente del cerimoniale nonché Stella d’oro al merito sportivo del Coni. Coprotagonista la segretaria del comitato organizzatore, Maria Banalos. A raccontare la storia è stato proprio Scarpellino, barese, classe 1954, su Facebook, dopo la premiazione di Hediye sul podio, assieme alla kazaka Rufina Iskakova e della moldava Elena Glizan.

«La guardi e pensi che potrebbe essere una qualsiasi ragazza spensierata e felice in un paese occidentale, meno oppressore della sua Repubblica islamica. Infatti, accompagnata da un’arcigna dirigente tutta coperta, nonostante il caldo, chiede che non la si tocchi al momento della consegna della medaglia, neppure con una stretta di mano» scrive Scarpellino. Immediata la riflessione sulla ribellione e la repressione di qualche mese fa, in Iran. Intanto, Hediye ha ricevuto la medaglia e un mazzo di fiori, ma non la mascotte. «Dopo la premiazione ritorna – racconta il responsabile del cerimoniale - e chiede se può avere anche il piccolo peluche, ma la risposta è negativa, perché per tutti gli altri sono in vendita al merchandising. Noti la delusione nei suoi occhi e il bellissimo sorriso spegnersi, mentre si allontana».

Dalla gioia alla tristezza, in un attimo. Per sua fortuna, Hediye aveva di fronte persone sensibili che hanno

HEDIYE E LA MASCOTTE OLTRE LA MEDAGLIA

L’iraniana Kheirabadi ha vinto un bronzo storico, ma ha ritrovato il sorriso solo dopo il regalo del pugliese Scarpellino

risolto la situazione, anche stavolta in un attimo. «Pensi che in fondo è solo poco più di una bambina che desiderava un peluche, come quelli che hai regalato alle tue figlie da piccole» il racconto di Scarpellino. Un’occhiata d’intesa con Maria, la segretaria dell’organizzazione, e poi, recuperata una mascotte, il dirigente pugliese l’ha portata all’atleta iraniana presentandola come «un regalo, un omaggio al coraggio di tutte le donne iraniane».

Hediye si è commossa e ha sorriso felice, ringraziando a mani giunte. Il suo coach ha chiesto una foto-ricordo. Qualche giorno dopo l’ha invia -

ta a Pino, esprimendogli ancora una volta tutta la sua gratitudine. «Grazie mille per la bellissima mascotte: per me è importante quanto la mia medaglia. Questo dono è molto prezioso per noi e non dimenticheremo mai il vostro gesto d’amore» ha scritto l’atleta iraniana.

Una storia che rimarrà scolpita nel suo cuore, ma anche nella memoria dello storico dirigente italiano: «Un Mondiale è fatto anche di piccole storie come questa – ha concluso Scarpellino - e così non ti resta che augurarti che il mondo possa cambiare, un giorno. Inshallah». (A. P.)

Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 75
Sport

È STATA UN’ITALIA DA SOGNO AI MONDIALI

DI ATLETICA PARALIMPICA

Trascinata dalla capitana Assunta Legnante (un oro e un argento), la nazionale azzurra si è esaltata con le imprese dei suoi velocisti: tripletta femminile nei 100 metri, due ori per Amo Manu

La mascherina di Diabolik ha lasciato ormai da tempo il testimone a quella dell’Uomo Tigre. Un animale forte, energico, determinato che rappresenta al meglio Assunta Legnante, 45 anni, capitana azzurra e grande protagonista - ancora una volta - ai Campionati del mondo di atletica leggera paralimpica, disputati a luglio a Parigi. Argento nel disco, oro nel peso, l’atleta non vedente napoletana ha conquistato due delle 12 medaglie della nostra nazionale, un bilancio record che ha portato l’Italia all’undicesimo posto nel medeagliere, oltre a fruttare 10 pass per i Giochi paralimpici del prossimo anno.

La pluricampionessa paralimpica ha debuttato ai Mondiali nel lancio del disco categoria

F11, concludendo terza con la misura di 36,52 metri, alle spalle di due atlete cinesi: la primatista mondiale e oro a Tokyo 2020, Zhang Liangmin, con un lancio da 38,57 metri, e la connazionale Xue Enhui, argento con 37,74.

E’ nel getto del peso, però, che Legnante ha dispensato l’ennesimo capolavoro, trionfando per la quinta volta consecutiva nella sua gara dopo i successi centrati nel 2013, 2015, 2017 e 2019 e 2023. Decisivo il lancio a 15,55 metri, al quinto tentativo: «Il peso è la mia gara, ci tengo più del disco. Doveva andare così. Sono cinque ori e diventano sei, se contiamo la vittoria nel disco di Dubai. Io non mi considero un idolo, forse dire un punto di riferimento è meglio, ma voglio essere solo uno stimolo per quelle gio-

vani o per quelle che ci sono già», l’esultanza di Assunta.

Da Assunta Legnante a Martina Caironi, altra icona dell’atletica azzurra, argento nella tripletta azzurra sui 100 metri e oro per la terza volta di fila nel salto in lungo. La finale dei 100 metri femminili T63 ha regalato il bis dei Giochi di Tokyo: una strepitosa Ambra Sabatini prima in 13”98, record del mondo; Martina Caironi seconda in 14”35; Monica Contrafatto bronzo in 14”67. «Non ce lo aspettavamo, siamo tutte felicissime. Io stessa non volevo crederci» le parole di Sabatini. «Siamo le tre meraviglie dell’atletica paralimpica italiana» l’eco di Contrafatto. E Caironi? Aveva ancora una missione da compiere, la medaglia - tutta d’oro - numero 26 della sua carriera. E’ arrivata nel salto in lungo, specialità che l’aveva vista trionfare già a Lione 2013 e Londra 2017: 5,18 metri la sua misura vincente, record dei campionati. «È stata una competizione difficile, cambiava il vento. Per la gara dei 100 metri e il ritorno a un Mondiale che mi mancava da sei anni, ho sentito qualcosa di potente» il suo commento. Sulla stessa pedana, l’atleta delle Fiamme Gialle l’anno scorso aveva il record del mondo (5,46). Doppia medaglia di bronzo per Valentina Petrillo, 50enne velocista ipovedente napoletana, prima transgender paralimpica al mondo a competere in una rassegna iridata nell’atletica leggera. Nella sua prima finale mondiale, quella dei 400 metri T12, si è piazzata terza dietro

76 Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 Sport

alla cubana Omara Durand e alla venezuelana Alejandra Paola Perez Lopez. Stesso podio nei 200 metri T12, con l’azzurra beneficiata della squalifica della tedesca Katrin Mueller-Rottgardt, per aver perso il cordino con la sua guida.

In campo maschile, la rivelazione assoluta è stato Maxcel Amo Manu, 30enne italiano d’origine ghanese, gamba amputata dopo un incidente in motorino mentre andava al lavoro nel 2017. Due anni dopo aver indossato la sua prima protesi da corsa, Amo Manu ha vinto la gara dei 100 metri T64 con il tempo di 10”71, regalando all’Italia il primo oro dei Campionati del mondo di Parigi. Battuto di 8 centesimi il costaricano Sherman Guity e di 14 tedesco Felix Streng (10.85). «Provo un misto di emozioni, sono felicissimo, mi viene da piangere ma non posso» le prime parole di Maxcell, il cui idolo è il quasi omonimo Marcell Jacobs. «Ho fatto proprio una brutta partenza - ha proseguito - ma volevo proprio vincere. Adesso vogliamo prenderci tutto».

Detto, fatto: nell’ultima giornata della rassegna iridata, Amo Manu, ha esaltato nuova-

In campo maschile, la rivelazione assoluta è stato Maxcel Amo Manu, 30enne italiano d’origine ghanese. Due anni dopo aver indossato la sua prima protesi da corsa, Amo Manu ha vinto la gara dei 100 metri T64 con il tempo di 10”71, regalando all’Italia il primo oro dei Campionati del mondo di Parigi.

mente lo Stadio Charlety, in una clamorosa doppietta nei 200 T64 con il 19enne compagno di nazionale Fabio Bottazzini. Il secondo posto sembrava destinato a Guity, olimpionico in carica, protagonista di un testa a testa con Amo Manu. Ma il costaricano è caduto prima del traguardo, “premiando” così la tenacia di Bottazzini. Per Maxcel nuovo record europeo in 21”36, a soli 9 centesimi dal primato mondiale.

Ultimo podio azzurro in ordine di tempo, ai Mondiali di parigi, è stato quello di Giuseppe Campoccio tornato a ruggire nel peso F33. A coronamento di una stagione brillante, l’atleta del Paralimpico Difesa è tornato sul podio iridato a distanza di sei anni, centrando l’argento con la misura di 11,42 metri, alle spalle del marocchino Zakariae Derhem, campione paralimpico di Tokyo, che ha lanciato a 11,91. Per il tenente colonnello dell’Esercito Italiano, anche il pass per Parigi 2024: «A questa età essere performante e tra i primi al mondo è qualcosa di spettacolare, è un’emozione grandissima», la sua felicità. (A. P.)

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Assunta Legnante. Maxcel Amo Manu.

LA “SICCITÀ” NELLO SPORT L’ACQUA È L’ELEMENTO CHE NON DEVE MANCARE

Falsi miti e ruolo del biologo nella nutrizione sportiva raccontati da Rudy Alexander Rossetto, presidente dell’Ordine dei Biologi della Lombardia

Negli ultimi trent’anni il mondo dello sport è cambiato profondamente. Nel bene e nel male direi. E’ mutato radicalmente perché molte volte dimentichiamo le basi della scienza preferendo spostare l’attenzione sulle crescenti pseudo novità del momento. Situazioni che pongono l’accento sull’interpretazione, su mode che creano sempre più falsi miti e confusione, soprattutto tra sportivi e atleti. Grazie alla tecnologia e all’innovazione nel campo della nutrizione si è arrivati a ottimizzare l’allenamento e il talento, in base al metabolismo di ciascun praticante. All’inizio degli anni Novanta prima della gara l’alimentazione era quella che tanti appassionati conoscono ancora oggi: si passava dal classico piatto di pasta, al cioccolato, dal miele alle marmellate. E se alimentarsi e idratarsi bene prima delle prestazioni era importante, fondamentale era farlo durante i match e gli incontri. Anche oggi le richieste sarebbero più o meno le stesse. Tuttavia ad essere cambiate sono state le metodologie di allenamento. Il resto lo hanno fatto le stagioni via via diventate sempre più “calde”. Un fatto che, durante gli anni, ha stravolto anche l’attenzione stessa verso l’idratazione degli atleti.

Parliamoci chiaro: piove sempre di meno; le temperature, in compenso, aumentano (pensate: gia nel mese di marzo si sono toccati i 29° e a metà luglio anche i 45°!!): due dati che non possono certo passare inosservati agli atleti e soprattutto ai Biologi che si occupano della loro nutrizione. Non dimentichiamo, infatti, che il corpo è in stret-

ta correlazione con la salute ambientale.

Se è vero che una delle conseguenze degli effetti principali della siccità sui fiumi è il degrado dell’acqua, con il correlato peggioramento della qualità dell’aria perché mai non dovrebbe esserci ripercussione sull’organismo umano e sulle performance degli sportivi? E perché non dovrebbe esservi una similitudine con la poca acqua che “percorre” la macchina umana? I nostri muscoli e gli organi interni, in fondo, contengono sino al 75% di acqua corporea; il tessuto adiposo ne contiene il 10% e lo scheletro il 3%.

Ma torniamo all’esempio dei fiumi. Le ridotte quantità idriche portano ad una minore diluizione delle acque il che, soprattutto nei ruscelli e nei torrenti, può provocare un aumento della concentrazione di batteri e di sostanze nocive e nutritive residue. Tale esempio calza a pennello con quanto può accadere all’organismo umano se questi non viene adeguatamente ed efficientemente idratato: il bilancio idrico, infatti, ne risente e con esso il ricambio idrico cellulare ed il non riuscire ad espellere sostanze nocive quali le tossine. Tutto questo potrebbero portare ad un peggioramento del sistema linfatico dal momento che la circolazione sanguigna è strettamente connessa ad esso.

Come noto, l’apparato circolatorio provvede a che in tutti gli organi del corpo umano scorra, di continuo, una corrente di liquidi di perfusione (sangue e linfa). Esso comprende un sistema di vasi collegato a un potente motore, il cuore, il quale pompa ogni giorno sei-settemila litri di sangue.

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di Rudy Alexander Rossetto

Nel nostro corpo esiste un sistema tubolare (i vasi linfatici) che permette una fuoriuscita relativamente facile del liquido interstiziale e della linfa che, per una serie di motivi patologici, possono accumularsi in diverse parti del corpo e, in particolare, nella pelle e subito sotto di essa (fra questa e la fascia muscolare).

Ma c’è di più. Il sistema linfatico, infatti, non agisce solo come depuratore attraverso il drenaggio, ma anche come apparato di difesa potendo, inoltre, svolgere preziosi e vitali compiti di nutrizione. Da qui, dunque, l’importanza di una perfetta regolazione del bilancio idrico. Regolazione essenziale per la sopravvivenza stessa dell’uomo. Anche una sola piccola alterazione del bilancio idrico infatti può determinare la differenza tra l’osmolarità dei liquidi intracellulari e dell’ECF e del volume del sangue, con gravi conseguenze rispettivamente per la vitalità della cellula e per la pressione sanguigna, con ricadute sul cuore.

LA FORZA “DELL’ACQUA”? MA L’ACQUA È TUTTA UGUALE?

Se facessimo un sondaggio all’uscita di un qualsiasi supermercato e chiedessimo ai clienti il criterio di scelta del tipo di acqua e se ne conoscono le proprietà, ci accorgeremmo subito di quanto poco si sappia circa il nostro primo alimento, che sovente si tramuta anche nel nostro “integratore” più importante per livello di quantità. Ebbene sì, le bottiglie che finiscono nei nostri carrelli spesso vengono comprate con fin troppa leggerezza,

Se facessimo un sondaggio all’uscita di un qualsiasi supermercato e chiedessimo ai clienti il criterio di scelta del tipo di acqua e se ne conoscono le proprietà, ci accorgeremmo subito di quanto poco si sappia circa il nostro primo alimento, che sovente si tramuta anche nel nostro “integratore” più importante per livello di quantità.

senza controllarne le proprietà, senza leggerne la tabella organolettica. A volte le si sceglie semplicemente per il...gusto, il prezzo o perché attratti da claim pubblicitari ecc.

Apro e chiudo una piccola parentesi sui refrain più in voga del momento che sono sostanzialmente due, come potrete facilmente accorgervi facendo la spesa:

le parole “zero” ed “alto valore proteico-iperproteico”. Bene! vi invito, la prossima volta che andrete al supermercato, a prendere dallo scaffale cinque yogurt a caso sulle cui etichette sia riportato il claim pubblicitario “zero% di grassi”. Girate la confezione, leggete sul retro, nella tabella organolettica, quanti zuccheri hanno e poi scrivetemi quanti di questi hanno meno di 4 grammi di zucchero per 100 grammi!! certo, magari contengono 0% di grassi però poi presentano 15-25 grammi di zucchero vale a dire l’equivalente di 3/5 bustine per 100 grammi (un vasetto solitamente è 125g).

Niente male, non è vero? Ricordate che il grasso “fa bene” è l’obesità che fa male!

C’è poi l’aspetto legato alle proteine: ebbene, queste sono indiscutibilmente utili. Come però non badare ai rapporti tra i macronutrienti? Già sapete quali rischi può dare una dieta iperproteica. Di questo, tuttavia, parlerò in un prossimo articolo dedicato proprio all’argomento. Meglio tornare alle acque ricordando ai nostri atleti che: l’acqua viene definita potabile quando è inodore, insapore, incolore, limpida, a temperatura costante (9-12°), priva di sostanze chimiche di ori-

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© Dirima/shutterstock.com

gine organica e batteriologicamente pura.

1) l’acqua contiene moltissimi minerali;

2) l’acqua non contiene vitamine;

3) l’acqua non produce calorie;

4) l’acqua non contiene carboidrati, proteine e grassi ma è essenziale per il sistema energetico;

5) la durezza dell’acqua è determinata dal contenuto più o meno elevato di sali di calcio e magnesio.

6) una durezza elevata può essere un aspetto positivo per chi necessita di un buon apporto di tali minerali (bambini, donne in stato di gravidanza o in presenza di osteoporosi, sportivi);

7) il residuo fisso può variare nelle acque più comuni da 14 a 400 in mg/l: da questo dato già si può capire quanto possa essere importante scegliere l’acqua giusta nel momento giusto;

8) il residuo fisso è la quantità in peso del “residuo salino” che rimane dopo aver fatto evaporare 1 litro di acqua in una capsula di platino posta a 180°C; Ancora, è bene sapere che in base all’entità del residuo fisso, l’acqua può essere: calcica, solfata, magnesica, ferruginosa, acidula, sodica, clorurata, ecc.

In base alle caratteristiche chimiche esistono proprietà salutistiche dichiarate: diuretica, digestiva. L’acqua può inoltre favorire l’eliminazione dell’acido urico, le funzioni epatobiliari, può rivelarsi antidispepsica, povera in sodio; può contenere bicarbonato, essere lassativa, indicata per i lattanti, per il trattamento della calcolosi urinaria ecc.

Altro importante valore è il pH. Acidità e alcalinità: in natura il pH dell’acqua è solitamente compreso tra i valori 6,5-8,5 se neutra; acida o basica viene stabilita in relazione al pH, l’indice di neutralità corrisponde a pH7.0 Superiore a 7 indica alcalinità e inferiore a 7 acidità (il sangue normalmente presenta un pH = 7,35-7,40, quindi alcalinità).

Questa distinzione è importante specialmente nel recupero dopo lo sforzo fisico in quanto l’attività fisica stressante tende a far virare il pH del sangue verso la acidità. Pertanto l’apporto di alimenti e acqua alcalini favorisce il ripristino delle condizioni ottimali di efficienza fisica. Inoltre è indicata per contrastare l’acidità di stomaco. Un’acqua leggermente acida, invece, potrebbe favorire la digestione.

Spesso in situazioni di stress, infiammazioni ecc. per abbassare la tendenza acida dell’organismo, oltre al consumo di alimenti quali frutta e

Spesso in situazioni di stress, infiammazioni ecc. per abbassare la tendenza acida dell’organismo, oltre al consumo di alimenti quali frutta e verdure, per una salute ottimale è consigliato bere acqua alcalina, con un pH alcalino ovvero basico, carica di elettroni e con una struttura molecolare ideale.

verdure, per una salute ottimale è consigliato bere acqua alcalina, con un pH alcalino ovvero basico, carica di elettroni e con una struttura molecolare ideale. Tra le acque minerali alcaline presenti in commercio troviamo le acque oligominerale naturale con pH pari a 8, caratterizzata da un equilibrato contenuto di sali minerali e da un basso contenuto di sodio.

Altre analisi interessanti da valutare sono nel controllo delle acque destinate al consumo umano possono essere:

Ammonia: indicatore di possibile inquinamento batterico da reflui animali e da scarichi urbani;

Anioni: quali cloruri, solfati nitrati e nitriti;

Conducibilità: indicatore del contenuto di Sali disciolti nell’acqua;

Ossidabilità: indicatore di contaminazione da sostanze inorganiche ossidabili e materiale organico presente nel campione dell’acqua che si stà controllando;

Tutto quanto sopra descritto permette di “identificare” le acque secondo le loro caratteristiche e catalogarle come altamente mineralizzata, medio mineralizzata, oligominerale, minimamente mineralizzata.

QUINDI UN’ACQUA VALE L’ALTRA?

Non esiste un’acqua migliore dell’altra, ma dobbiamo conoscere le esigenze specifiche dell’atleta che seguiamo nel singolo periodo di preparazione, recupero e gare. Quindi se vi aspettate da me in questo articolo un “protocollo” unico non lo troverete. Armatevi di passione, degli strumenti idonei e valutate costantemente, in alcuni periodi settimanalmente il vostro sportivo seppur in categorie elitè ed in sport di endurance mi capita di farlo anche quotidianamente, ed avrete le risposte che cercate per il suo miglioramento.

COME BERE

Per lo sportivo soprattutto durante l’attività è buona norma bere acqua a temperatura ambiente. Se troppo fredda potrebbe arrestare momentaneamente l’afflusso sanguigno alle mucose del cavo orale e faringeo ed il sangue stesso, per reazione, potrebbe affluire in maniera maggiore sui tessuti dando nuovamente sensazione di sete; questo potrebbe spiegare perché nelle civiltà orientali durante lo sforzo fisico si prediliga acqua “calda” anche nei mesi caldi. L’acqua troppo fredda, tra l’altro, può causare pure pericolose congestioni sanguigne all’apparato digestivo.

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Inoltre, bere acqua in quantità eccessiva durante i pasti può provocare un aumento della pressione nello stomaco, con il liquido che si addiziona al cibo ingerito, con conseguente affaticamento respiratorio e cardiaco. Ricordate che per digerire si verifica un’affluenza maggiore di sangue allo stomaco che viene sottratto da organi centrali come il cuore.

Il bere in eccesso può dunque comportare disturbi fisiologici in quanto determina una diluizione dei sali plasmatici e del liquido extracellulare.

ACQUA NATURALE O “FRIZZANTE/GASSATA”?

La presenza di anidride carbonica disciolta aumenta la sensazione del potere dissetante in quanto “addormenta” momentaneamente le papille gustative della lingua.

Nelle vie infinite dei falsi miti, dal rivestirsi di fogli di alluminio fino all’indossare a 45 gradi celsius la giacca antivento per sudare di più, circola anche la voce che bere acqua frizzante aiuta a non far venire sete così da eliminare “acqua in eccesso”! Cari colleghi non fermiamoci con la divulgazione delle buone regole di comportamento al corretto stile di vita: la prevenzione è nel DNA del biologo!

Non usiamo troppi “trucchi” con il nostro corpo: l’acqua dovrebbe essere bevuta a temperatura ambiente e la sete viene realmente eliminata se ciò che beviamo contiene una buona concentrazione di sali minerali (dei quali necessitiamo in quel periodo). Per quanto riguarda i pasti non bisogna eccedere nella quantità che a mio parere non deve superare i 400 ml/ pasto.

E LE BEVANDE ELETTROLITICHE SONO UTILI?

Innanzitutto ricordate che non devono mai mancare bevande energetiche durante l’attività fisica: la prevenzione della disidratazione e degli squilibri elettrolitici è importante. Durante l’attività la bevanda deve essere poco concentrata.

Tantissime volte ho sentito dire che basta bere acqua che già contiene elettroliti. Sì, certo. Anche l’acqua del rubinetto ne contiene, però circa il 2-3% di RDI per calcio, magnesio e sodio, ma comunque con poco o zero potassio. Al contrario la maggior parte delle bevande elettrolitiche in commercio pubblicizzate per gli sportivi è potenziata di sodio sino anche al 15-20% di RDI e potassio da 3-5%. Pochissime contengono magnesio e/o calcio.

L’acqua dovrebbe essere bevuta a temperatura ambiente e la sete viene realmente eliminata se ciò che beviamo contiene una buona concentrazione di sali minerali (dei quali necessitiamo in quel periodo). Per quanto riguarda i pasti non bisogna eccedere nella quantità che a mio parere non deve superare i 400 ml/ pasto.

In ogni caso, da quanto sopra, si evince che, soprattutto nello sport, l’acqua elettrolitica non è la soluzione unica, cosi come molte volte non lo è anche la sola acqua.

Durante lo sforzo fisico, la perdita del solo 2% del peso corporeo di liquidi determina un minor rendimento pari al 20% e la perdita di elettroliti è correlata con la comparsa di crampi.

QUINDI QUAL’È LA BEVANDA IDEALE?

La bevanda ideale è quella che attraversa rapidamente lo stomaco. Questo accade se contiene massimo il 5% di carboidrati ad esempio le maltodestrine. È bene che la bevanda contenga potassio e magnesio, meglio se sotto forma di aspartati: sali in grado di ridurre la fatica e ritardare la comparsa di crampi. La bevanda dovrebbe avere una concentrazione uguale (isotonica) o meglio inferiore (ipotonica) a quella del plasma in modo da passare velocemente dall’intestino al sangue.

I prodotti a base di carboidrati (in polvere, solidi, liquidi, gel) hanno lo scopo di fornire energia per prolungare l’autonomia:

• Prima dello sforzo: aumento del glicogeno muscolare epatico;

• Durante lo sforzo: prevenzione dell’esaurimento del glicogeno muscolare;

• Dopo lo sforzo: ripristino del glicogeno muscolare.

Le maltodestrine sono un efficace apporto energetico, danno minor osmolarità a parità di apporto calorico ed hanno un ottimo assorbimento intestinale.

CONSIDERAZIONI TRA COLLEGHI

Se si attuassero le precedenti e le attività qui di seguito, il tutto si tradurrebbe in un minor rischio di infortuni per i nostri atleti, vi sarebbe un allungamento dei tempi di esercizio, soprattutto negli sport di endurance, in un più rapido recupero muscolare, in una riduzione della sensazione di fatica e di conseguenza in un miglioramento generalizzato della performance.

I piani nutrizionali e d’integrazione evono essere redatti per rispecchiare picchi di allenamento, zone, metabolismo energetico (lipidico o glucidico) in gioco, recupero e ripristino del glicogeno e dei protidi e in generale per favorire il recupero, evitare lo stress ossidativo e il catabolismo muscolare. In una parola l’overtraining.

Il piano alimentare deve tenere in considerazione tutte le variabili dell’atleta professionista, in

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questo caso, ma si tratta di una regola generale:

• namnesi alimentare;

• screening psicometrici;

• Plico/Antropometria;

• impedenzometria.

Ci distingue per completezza dei referti e comprensibilità. Il biologo nutrizionista inoltre deve mettere al centro l’atleta, nella globalità dei suoi disturbi e dei malesseri o peculiarità di allenamento, ne rispetta le abitudini e pratiche alimentari, intolleranze, patologie eventuali, situazione farmacologica, nutrizioni alternative sia per motivi medici che di costume.

ALCUNE NOTE DI MERITO

È essenziale scegliere di apportare non soltanto il giusto fabbisogno calorico, ma focalizzarsi sulla qualità degli alimenti:

• Scegliere fonti poco dense di carboidrati (tranne che post-attività fisica), Basso IG –Alto contenuto di fibre;

• Fonti proteiche poco grasse (anche Vegetali) – Non esagerare con i grassi saturi (qualità della

• carne) – Alto valore biologico (saper utilizzare le proteine vegetali, uova e lectina);

• Scegliere grassi polinsaturi e monoinsaturi (frutta secca, olio a crudo, cocco, fondente ecc.).

La prima resistenza da vincere è stato il collegamento tra “leggerezza e risultato”, falsi miti dello sport (vedi ginnastica o molti altri sport). Eseguire test approfonditi la valutazione della massa muscolare, dello stato nutrizionale e idrico attraverso la Bioimpedenziometria o superiori in equipe con lo staff medico.

Monitorate il vostro atleta, non è da sottovalutare il fatto che un disturbo del comportamento legato al perseguimento del risultato non sia solo “alimentare”, non parliamo solo di grasso (che poi l’obesità fa male non il grasso, che è una fonte di energia importante per l’atleta) a preoccupare, ma anche qualunque chilogrammo corporeo, giudicato appesantimento non necessario.

È fondamentale il lavoro di preparazione per sviluppare una massa muscolare finalizzata alla potenza, alla prevenzione dagli infortuni e al risultato, non al caricare di zavorra l’atleta. Però non possiamo sottovalutare così facilmente eventuali disturbi del comportamento alimentare, perché nel caso di alcuni atleti che praticano sport di categorie di peso, molte volte il problema non è

Affrontare gare a digiuno è un falso mito. Di solito è fatto per perdere peso, ma l’effetto non solo non è funzionale all’obbiettivo, ma affatica l’organismo inutilmente. Allenarsi o gareggiare a digiuno costringe a penalizzare gli allenamenti e affaticare il proprio fisico, con rischio di overtraining.

legato al fatto di alimentarsi. Non si deve sottovalutare la parte psicologicamente affine al concetto “zavorra” che sempre più atleti citano.

Non è da dimenticare che, soprattutto i giovani atleti che “devono” avere nei confronti del proprio corpo un tal preciso e chirurgico controllo del proprio corpo, questa attitudine al perfezionismo può favorire l’insorgenza di una qualsivoglia forma di disturbo. In determinati sport viene richiesto, esplicitamente o implicitamente, di mantenere il peso a un livello inferiore al valore normale rispetto all’età, il che, talvolta unitamente alle forti pressioni degli allenatori, dei genitori e alle esigenze della competizione stessa, può condurre i soggetti più vulnerabili direttamente all’anoressia, alla bulimia, bigoressia ecc. Molti sono gli atleti che si sottopongono a diete incongrue, non adatte allo sport praticato e che spesso si ritrovano in una condizione di iponutrizione. Tali situazioni, benché diffuse in tutti gli sport, si riscontrano soprattutto proprio negli Sport di Endurance (es. maratona, triathlon, calcio, sci di fondo), senza dimenticare quegli sport dove imperversano canoni estetici restrittivi (danza, pattinaggio, ginnastica artistica).

I 5 FALSI MITI DA SFATARE PER LO SPORTIVO

Affrontare gare a digiuno

Grande falso mito. Di solito è fatto per perdere peso, ma l’effetto non solo non è funzionale all’obbiettivo, ma affatica l’organismo inutilmente. Allenarsi o gareggiare a digiuno costringe a penalizzare gli allenamenti e affaticare il proprio fisico, con rischio di overtraining. Alimentarsi è il modo migliore per dare carburante al nostro corpo, vale la pena invece di lavorare sulla qualità degli alimenti che introduciamo nel nostro corpo, sulle strategie nutrizionali, da combinarsi in modo armonioso con le tipologie di allenamento. Se soprattutto se si è amatori, è bene assicurarsi una scorta al mattino di almeno 300 kcal, da assumersi principalmente da carboidrati e poi, in proporzioni piccole, da proteine e grassi.

Non assumere abbastanza proteine

Chi pratica calcio non ha bisogno solo di carboidrati. Onde evitare di andare in catabolismo, il calciatore ha necessità di proteine, fondamentali non solo per l’ipertrofia, ma per la loro funzione plastica. Sono macronutrienti importanti quanto

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l’assunzione di carboidrati. Quasi tutti i calciatori a tutti i livelli, di tutte le specialità utilizzano e reintegrano le proteine con quelle in polvere. Sono da evitate però gli eccessi. L’utilizzo sconsiderato di fonti addizionali proteiche, rispetto a quanto assunto grazie agli alimenti, rischierebbe di sovraccaricare il fegato senza che sia provato un reale miglioramento delle prestazioni.

Non idratarsi a sufficienza

Altro falso mito da sfatare: “bevi che ti fa bene” quante volte lo abbiamo sentito dire? “Non bevi abbastanza”. Quanto è abbastanza? Non certo senza limiti, onde evitare di diluire eccessivamente i minerali e provocare il rischio di squilibrio elettrolitico. Bere e idratarsi è fondamentale sempre, ancora di più per chi fa attività sportiva. È utile anche bere moderatamente prima di fare attività sportiva. In particolare per gli sport di endurance, come il ciclismo, il nuoto, lo sci di fondo, la corsa, triathlon, trial running, Iron-man ecc. Durante lo sforzo se prolungato è bene avere con sé la borraccia per integrare Sali minerali e Carboidrati a lento rilascio, DE19, ottimo anche per quegli atleti che soffrono di dissenteria da disidratazione qualora si

Se state per affrontare una gara o un allenamento, organizzatevi per mangiare almeno 2-2,5 ore circa prima della gara/allenamento, orario molto indicativo perché dipende sempre dai tempi di digestione degli alimenti che assumete prima della gara.

tratti di allenamenti lunghi in periodi caldi (vedi anche le preparazioni estive) per esempio.

Mangiare appena prima dell’attività

Se state per affrontare una gara o un allenamento, organizzatevi per mangiare almeno 2-2,5 ore circa prima della gara/allenamento, orario molto indicativo perché dipende sempre dai tempi di digestione degli alimenti che assumete prima della gara. Mangiare troppo tardi potrebbe darvi qualche problema. Il sangue, infatti, sarebbe impegnato nella digestione e non a disposizione per lo sforzo che vi aspetta. Nel prossimo articolo vi parlerò dei vari tempi di digestione degli alimenti.

Non integrare a sufficienza dopo l’attività

Dopo una gara o un allenamento “mangiare” non significa alimentarsi soltanto, ma anche “integrare” attraverso gli alimenti, per ripristinare le scorte di glicogeno (attraverso i carboidrati, subito a fine attività) consumate e i liquidi persi. Inoltre, soprattutto per chi si sottopone a allenamenti intensivi, gare o attività ad altro impatto, è importante assumere proteine entro 20/25 minuti dopo l’attività fisica.

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MATTEO DELL’ACQUA SOGNI E “SEGRETI” DI UNA

BANDIERA DEL RUGBY

Il giocatore italo-brasiliano racconta le sue ambizioni con Reggio Emilia, il sogno di giocare (anche) con la nazionale verdeoro e l’importanza della nutrizione per il recupero fisico

Non ci sono più le bandiere di una volta. Una frase che si sente ripetere spesso nello sport, soprattutto nel calcio, sempre più condizionato sia dalle offerte “monstre” del calcio arabo, sia dalle esigenze di club che non guardano in faccia a nessuno, neppure a giocatori arrivati a essere un tutt’uno con la loro storica squadra. Curiosando un po’ nel panorama sportivo italiano, però, ci si accorge che qualche bandiera c’è ancora. Fra queste c’è un ragazzone italo-brasiliano di 32 anni, rugbista di ruolo seconda linea, che da dieci anni veste i colori di Reggio Emilia, oggi Valorugby. Si chiama Matteo Dell’Acqua, 198 centimetri d’altezza per 108 chili di peso, qualche sogno già realizzato e uno tricolore ancora irrisolto.

«Sono nato in provincia di Milano – racconta Matteo – dove mia madre si era trasferita da San Paolo del Brasile, assieme a mia nonna e mia zia. Ho iniziato a giocare a rugby a dodici anni e ho fatto tutta la trafila delle nazionali giovanili italiane, compresa l’accademia di Tirrenia. Ho completato la maturità mentre giocavo con Grande Milano in A1 e intanto mi sono goduto le esperienze in azzurro sia con l’under 19 sia con l’under 20 fra cui due tournée in Sudafrica e il Sei Nazioni di categoria».

Iscritto al corso di laurea in Scienze Motorie, Dell’Acqua ha giocato un anno a Parma prima di arrivare a Reggio Emilia nel 2013. Assieme a Davide Rimpelli e Davide Farolini,

è il veterano della squadra. «Come si diventa una bandiera? Semplicemente mi sono trovato bene sia in città, sia con la società. Poi abbiamo vissuto momenti davvero belli, come la promozione dalla Serie A alla Top 12 sette anni fa e la vittoria della Coppa Italia nel 2019», ricorda Dell’Acqua.

Negli ultimi anni, con l’arrivo di Enrico Grassi, leader mondiale della meccatronica molto legato al territorio, è salito il livello della rosa e delle ambizioni di Reggio Emilia. Sinora, però, i sogni-scudetto si sono fermati quasi sempre in semifinale. «Nell’ultima stagione ci sono stati diversi cambiamenti che hanno un po’ scombussolato la squadra – prosegue Matteo – ma siamo arrivati in finale di Coppa Italia e siamo usciti contro Padova in campionato. Cosa ci è mancato? Gli altri sono stati più pronti di noi. Abbiamo commesso troppi errori durante l’anno, portandoci a una posizione di classifica scomoda rispetto a Rovigo e Padova. E poi abbiamo pagato caro qualche infortunio».

Infortuni pesanti, Matteo, non ne ha mai sofferti. Ma per anni ha dovuto convivere con un fastidio al piede, per risolvere il quale ha affrontato sia un percorso di stabilizzazione posturale, sia un piano nutrizionale ad hoc. «Dopo il trattamento ortopedico – spiega Rudy Alexander Rossetto, biologo nutrizionista che segue da vicino Dell’Acqua – c’era bisogno di un ulteriore passaggio per il miglioramento generale, non solo sulla postura ma anche sulla

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nutrizione. In questo caso, ci si è concentrati su alimenti nutraceutici antinfiammatori ed escludendo invece quelli pro-infiammatori». Nella dieta di Matteo vengono dunque prediletti tonno e salmone, verdure crocifere, zenzero, curcuma, mandorle, noci, frutti di color rosso e viola scuro, tisana in foglie di betulla ed estratto di boswennia, mentre sono stati esclusi pomodori crudi, insaccati, patate, peperoni, melanzane, bevande zuccherate e derivati del latte ad alto contenuto di grassi. Anche la tipologia di idratazione ha avuto un peso specifico importante: «Avendo tendenza acida dell’organismo – aggiunge Rossetto - ho consigliato a Matteo un’acqua oligominerale alcalina con Ph 8.0, carica di elettroni e con una struttura molecolare ideale, caratterizzata da un equilibrato contenuto di sali minerali e un basso contenuto di sodio: questo per abbassare la tendenza acida dell’organismo, legata sia all’ infiammazione già presente, sia allo stress ossidativo generato dall’inizio della preparazione atletica». Questo percorso di recupero ha esaltato la qualità del recupero ma anche l’essere

Avendo tendenza acida dell’organismo – aggiunge Rossetto - ho consigliato a Matteo un’acqua oligominerale alcalina con Ph 8.0, carica di elettroni e con una struttura molecolare ideale, caratterizzata da un equilibrato contenuto di sali minerali e un basso contenuto di sodio.

campione fuori dal campo, grazie all’attenzione alla nutrizione e alla chinesiologia.

Un campione che, attualmente, può godersi la nazionale verdeoro. «Nel 2018 l’allenatore italo-argentino Rodolfo Ambrosio mi ha chiamato a giocare per il Brasile. Io sono sempre stato molto fiero delle origini – racconta Dell’Acqua - e legato a quei colori, come tutti in famiglia. Così ho detto di sì. Ho esordito al Morumbi, lo stadio del San Paolo di calcio, contro i Maori All Blacks. Poi ho giocato anche con i Barbarians, selezione di giocatori più forti al mondo, e l’America Six Nations».

Il futuro immediato di Matteo (che intanto è arrivato, parallelamente, alla cintura viola di brazilian ju-jitsu e insegue la nera) è un’altra stagione con Reggio Emilia: «Sono arrivati giocatori molto interessanti, la rosa è folta e di valore. Questo può fare la differenza, per non arrivare stanchi ai playoff”. E una volta appesi gli scarpini al chiodo? “Sono laureato in scienze motorie, ma ho intenzione di approfondire anche altri settori. E, perché no, occuparmi in futuro anche di chinesiologia, nutrizione o fisioterapia». (A. P.)

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Matteo Dell’Acqua (a destra). Rudy Alexander Rossetto con Matteo Dell’Acqua.

SIAMO FATTI DI CELLULE CHE SUONANO IN ARMONIA CON L’UNIVERSO

“In armonia”

Mondadori, 2023 – 18,50 euro

La musica emoziona e illumina la biologia di Emiliano Toso, biologo cellulare, compositore e ideatore del progetto “Translational Music”. Come lui sostiene, il viaggio della musica non inizia dalle note ma comincia dall’anima, attraversa il corpo e corre verso il mondo fuori e prima di arrivare al cervello passa tra le nostre cellule. Tutti pensiamo di sentirla con le orecchie e poi con la mente, quelli del mestiere direbbero a “livello biochimico” ma non è solo così. Possiamo ascoltarla in una modalità differente, a livello biofisico. Anche se non si vedono, le onde sonore passano letteralmente attraverso la pelle mandando con le loro vibrazioni segnali inequivocabili alle cellule.

Il nostro patrimonio genetico è uno spartito che interpretiamo in modi diversi: anche le cellule compongono melodie e quando sono insieme vibrano per dare origine a tessuti, organi e tutto ciò che compone il nostro corpo.

Non vediamo note, melodie, suoni o parole che si sprigionano dalla musica ma quest’arte dà origine ad effetti e sensazioni che ci influenzano e cambiano lo stato della nostra salute fi-

sica e psichica. Quando Emiliano Toso scopre che la musica è benefica decide di condividerla e donarla a tutti. Come lui racconta, la vera illuminazione arriva quando capisce che nei corridoi degli ospedali la musica diventa cura. Nello specifico quando una sua collega di dermatologia si accorge che i suoni melodici possono nettamente migliorare la situazione di un paziente affetto da un’ulcera. E proprio in un ospedale, il Salesi di Ancona, va in scena una storia che ha dell’incredibile. Per la prima volta al mondo, un esperimento mai provato prima: la sua musica suonata dal vivo accompagna un intervento chirurgico di cinque ore su un bambino operato al midollo spinale. Ad un metro dal lettino, con il piccolo paziente sotto anestesia totale, Toso suona le corde del suo pianoforte accordato a 432 Hz. Molti la definiscono la “frequenza della felicità” perché genera frequenze molto simili a quelle della natura ed attiva meccanismi dal punto di vista biofisico molto importanti. In quella sala operatoria, in effetti la musica viene resa viva e dallo spartito passa direttamente alla persona. La risposta del bambino è sorprendente: le sue cellule ascol-

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Emiliano Toso
Libri
Emiliano Toso spiega scientificamente come la musica influenza mente e benessere La scienza chiama sonocitologia quel legame tra le cellule degli esseri viventi e la musica di Anna Lavinia

tano i suoni, infatti anche non essendo vigile riesce a riconoscere quando la musica suona e quando invece si ferma.

La scienza chiama sonocitologia quel legame tra le cellule degli esseri viventi e la musica. L’uomo aveva già intuito tempo fa il suo potere curativo ma solo ora, con la tecnologia, si può spiegare in laboratorio.

Non la vediamo ma sentiamo i suoi effetti. Alcuni di questi, l’autore li racchiude in un intero capitolo attraverso le parole di chi li ha provati su di sé e sugli altri. Il valore terapeutico della musica si fa cura in asili, scuole, ospedali, case e palestre. La musica comunica attraverso il nostro inconscio, entra nelle vene, nella pelle e nel cuore.

Se da una parte c’è la biologia tangibile, silenziosa e pragmatica; dall’altra, c’è la musica, libera, leggera e invisibile. Nelle pagine del suo ultimo libro, Emiliano Toso inaspettatamente apre una danza tra queste due discipline che s’incontrano per dar luce ad un nuovo modo di concepire il mondo. Il suo continuo desiderio di integrare arte e scienza, anima ed esperimenti, spirito e medicina diventa realtà.

Peter Pringle

“Il genio dei semi”

Donzelli Editore, 2023 – 28 euro

L’uomo che sognava di sfamare il pianeta fu, per ironia della sorte, vittima della fame nelle prigioni sovietiche. Il veterano del giornalismo inglese ricostruisce, attraverso documenti inediti degli archivi dell’Urss, la storia dello studioso visionario che già nei primi del Novecento aveva intuito la chiave alimentare nella biodiversità. (A. L.)

Ersilia Vaudo

“Mirabilis”

Einaudi, 2023 – 15 euro

Mirabilis è un biglietto per un viaggio nelle intuizioni dell’universo. Quelle che hanno rivoluzionato la realtà che vediamo. Per l’astrofisica italiana che lavora all’Agenzia Spaziale Europea, la materia oscura diventa chiara e limpida. Tra Newton, Hubble ed Einstein i segreti sulla scienza non finiscono mai. (A. L.)

Serenella Iovino

“Gli animali di Calvino”

Treccani, 2023 – 18 euro

Formiche, gatti, conigli, galline e dinosauri, sono tantissimi gli animali raccontati da Calvino, compreso l’animale uomo. Da un nuovo punto di vista, sulle tracce dello scrittore, l’autrice mette in luce la crisi ambientale che lui aveva già supposto. L’anno del centenario della sua nascita è un buon momento per ripensare questo tema. (A. L.)

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Libri

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI

FONDAZIONE IRCCS SAN GERARDO DEI TINTORI DI MONZA

Scadenza, 3 agosto 2023

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di ricercatore sanitario, categoria D, a tempo pieno e determinato di durata quinquennale, per la struttura complessa epidemiologia clinica e biostatistica della direzione scientifica. Gazzetta Ufficiale n. 50 del 04-07-2023.

UNIVERSITÀ DI TORINO

Scadenza, 3 agosto 2023

Ammissione al corso di dottorato di interesse nazionale in Food Science, Technology and Biotechnology - XXXIX ciclo, anno accademico 2023/2024. Gazzetta Ufficiale n. 52 del 11-07-2023.

UNIVERSITÀ DI CATANZARO

“MAGNA GRÆCIA”

Scadenza, 6 agosto 2023

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 51 del 07-07-2023.

UNIVERSITÀ

DI MILANO

Scadenza, 7 agosto 2023

Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 06/A1 - Genetica medica, per il Dipartimento di scienze biomediche e cliniche. Gazzetta Ufficiale n. 51 del 0707-2023.

tore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 54 del 1807-2023.

AZIENDA SOCIO SANITARIA TERRITORIALE DI MANTOVA

Scadenza, 24 agosto 2023

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica, a tempo indeterminato e pieno, per la SSD Ostetricia e ginecologia - procreazione medicalmente assistita di III livello. Gazzetta Ufficiale n. 56 del 25-07-2023.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER I SISTEMI AGRICOLI E FORESTALI DEL MEDITERRANEO DI PERUGIA

Scadenza, 7 agosto 2023

ni di coordinamento di gruppi di lavoro nell’ambito del progetto denominato HORIZON OptFor-EU “OPTimizing FORest management decisions for a low-carbon, climate resilient future in EUrope” citato nelle premesse. Per informazioni, www. cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER I SISTEMI AGRICOLI E FORESTALI DEL MEDITERRANEO DI PERUGIA

Scadenza, 21 agosto 2023

UNIVERSITÀ

DI ROMA “TOR VERGATA”

Scadenza, 17 agosto 2023

Valutazione comparativa per la chiamata di un professore di prima fascia, set-

È indetta una selezione pubblica per titoli e colloquio ai sensi dell’art. 8 del “Disciplinare concernente le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato” per l’assunzione, con contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi dell’art. 83 del CCNL del Comparto “Istruzione e Ricerca” 2016-2018, sottoscritto in data 19 aprile 2018, di una unità di personale con profilo professionale di T e c n o l o g o - III livello, fascia stipendiale iniziale, presso l’Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo sede di Perugia per lo svolgimento della seguente attività di ricerca scientifica e tecnologica: gestione amministrativa e scientifica di progetti europei e supporto alla ricerca, gestione della comunicazione e disseminazione dei risultati di progetto inclusa la gestione di siti web, pianificazione di attività progettuali mediante azio-

È indetta una selezione pubblica per titoli e colloquio ai sensi dell’art. 8 del “Disciplinare concernente le assunzioni di personale con contratto di lavoro a tempo determinato” per l’assunzione, con contratto di lavoro a tempo determinato ai sensi dell’art. 83 del CCNL del Comparto “Istruzione e Ricerca” 2016-2018, sottoscritto in data 19 aprile 2018, di una unità di personale con profilo professionale di Ricercatore - III livello, fascia stipendiale iniziale, presso l’Istituto per i Sistemi Agricoli e Forestali del Mediterraneo sede di Perugia per lo svolgimento della seguente attività di ricerca scientifica: analisi e quantificazione geospaziale delle relazioni biofisiche, biogeochimiche tra clima e foreste a mediante modelli di clima, modelli terrestri e modelli forestali a scala Europea, implementazione di scenari di gestione forestale futura, armonizzazione di dati tra diverse scale spaziali, simulazioni di dinamica e gestione forestale nelle Case Study Areas all’interno delle attività previste nel WP2 e WP3 nell’ambito del progetto denominato HORIZON OptFor-EU “OPTimizing FORest management decisions for a low-carbon, climate resilient future in EUrope” citato nelle premesse “. Per informazioni, www.cnr.it, sezione “concorsi”.

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Concorsi
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BIOLOGIA ED ECOLOGIA

COMPORTAMENTALE IL RUOLO DEI NONNI

Evidenze dell’importanza di nonni e nonne nell’evoluzione delle specie sociali e nella sopravvivenza di Homo sapiens

Nonni e nonne: la chiave del successo evolutivo di Homo sapiens?

Secondo il portale dei servizi professionali ProntoPro, nonni e nonne italiani meriterebbero uno stipendio mensile medio pari a 2.250 euro. Infatti cucinano, accompagnano i nipoti, si occupano di loro il pomeriggio, li aiutano a fare i compiti, danno loro consigli e consulenze psicologiche. Spesso, si occupano anche di piante e animali domestici, di commissioni e piccole riparazioni. Per questi lavori, secondo le paghe orarie ufficiali di chi li svolge per professione, spetterebbero loro tra i 15 e i 55 euro l’ora. Per questo, nel nostro Paese nonni e nonne rappresentano un valido aiuto per i genitori, che non sono costretti a scegliere tra stare a casa, rinunciando al lavoro, e spendere per la cura dei figli. Anche nel resto del mondo, in genere, hanno un ruolo molto importante all’interno della famiglia, soprattutto in momenti di crisi, talvolta sostituendo le figure genitoriali, ma sembra che nel passato della nostra specie siano stati ancor più fondamentali, favorendo il nostro sviluppo e portandoci a prevalere sui Neandertal. In effetti, la loro presenza migliora la sopravvivenza dei nipoti nella nostra e in altre specie. Indagare il ruolo degli avi è interessante, anche perché è un ambito poco studiato ma, soprattutto, è fondamentale per la comprensione dell’ecologia delle specie e del ruolo della trasmissione culturale nella sopravvivenza e nell’evoluzione. Questo ha risvolti sulla conservazione delle specie animali e, negli esseri umani, sulla promozione della salute e del progresso.

* Comunicatrice della scienza, copywriter scientifica e medical writer. Collaboratrice di BioPills - il vostro portale scientifico

Tracciare la presenza dei nonni nella storia non è semplice, perché tra i fossili non si ritrovano mai popolazioni intere e, date le differenze biologiche tra le popolazioni odierne e quelle del passato, è difficile individuare un’età precisa a cui avviene questo passaggio generazionale. Tuttavia, in alcuni siti sono emersi numerosi fossili umani dei quali è stato possibile stabilire l’età, principalmente sulla base della struttura e dell’usura dei denti. Ad esempio, un terzo molare (dente che si stima spuntasse a quindici anni) con un’usura di circa quindici anni apparterrebbe a un trentenne. I ricercatori hanno stimato che gli esseri umani dei millenni passati divenissero nonni proprio a quest’età. In generale, sia i Neandertal sia gli Homo sapiens di cui sono stati ritrovati resti ossei risultavano morire precocemente, con un lento incremento nella longevità. La presenza dei membri anziani era simile a quella tra gli australopitechi; poi, nel Paleolitico superiore (circa 30mila anni fa), in Europa il rapporto tra esseri umani anziani e giovani sarebbe quintuplicato. Infatti, in questo periodo tra gli Homo sapiens europei c’erano circa venti anziani ogni dieci giovani adulti, contro i quattro anziani per dieci adulti tra i Neandertal. Le ragioni di questo aumento non sono ancora note, ma probabilmente si trattò di aspetti culturali, dal momento che gli Homo sapiens asiatici nello stesso periodo non videro un aumento di popolazione anziana, mentre i Neandertal sì, grazie alle temperature miti.

Proprio l’aumento degli anziani sarebbe responsabile dell’esplosione dell’uso di nuovi strumenti e forme artistiche in Europa. Infatti, fino ad allora c’erano stati progressi su entrambi i fronti, ma risultavano effimere e localizzate. Per di più, alcuni

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Scienze
A mia nonna. di Jolanda Serena Pisano *

autori suggeriscono che gli anziani avrebbero contribuito maggiormente alla sopravvivenza di Homo sapiens rispetto a quella di Neandertal, nonostante avessero la stessa complessità culturale.

La presenza di generazioni precedenti significava una maggiore complessità della rete sociale e legami sociali più forti, che potrebbero aver favorito gli scambi commerciali e la cooperazione. Secondo le ricerche di Rachel Caspari e colleghi, l’aumento di individui in età “da nonni” era associato all’emergere di tratti moderni come una comunicazione basata sui simboli, alla base dell’arte e del linguaggio e una maggiore cooperazione. Nelle popolazioni di cacciatori e raccoglitori odierne, i nonni si associano a un maggior numero e a una migliore sopravvivenza dei nipoti, perché gli anziani tramandano conoscenze fondamentali per la vita, ad esempio indicando le piante velenose o insegnando come si realizza un coltello. Quindi, anche nelle popolazioni umane europee del passato i nonni potrebbero aver avuto questi ruoli, favorendo il successo evolutivo di Homo sapiens. Inoltre, la presenza dei nonni, che all’epoca erano adulti fertili, significava una maggiore complessità genetica, perché favoriva l’emergere di mutazioni, incluse quelle più vantaggiose e promosse dalla selezione naturale.

Nonni e nonne oggi: un caposaldo della famiglia

Nonostante sia globalmente riconosciuto che i nonni sono risorse fondamentali per la crescita dei bambini, gli studi sullo sviluppo infantile si concentrano soprattutto sul rapporto con i genitori, presupponendo una trasmissione intergenerazionale lineare, verticale, con un ruolo indiretto da parte delle generazioni precedenti. Tuttavia, un numero crescente di ricerche mostra che esiste un contributo diretto da parte di altri parenti, come fratelli, zii e nonni. In particolare, le nonne risultano essere un supporto significativo nella crescita dei bambini in

tutto il mondo, anche se con declinazioni diverse sulla base di fattori geografici, storici, economici e sociali. Probabilmente, questo è dovuto almeno in parte alle aspettative sociali: molte culture per le donne prevedono un ruolo di cura dei familiari. In ogni caso, anche i nonni migliorano il benessere psicofisico e sociale dei nipoti.

Nei diversi paesi, i nonni sono coinvolti nella vita dei discendenti in maniera diversa. Alcuni convivono con i nipoti, in case multigenerazionali oppure sostituendo la figura genitoriale in caso di lavori o altre attività che portano i genitori lontani da casa per diverse ore al giorno. Si stima che, nel mondo, i nonni e altri parenti che fungono da tutor nella pratica, ma non sulla carta, stiano crescendo circa 163 milioni di bambini. Laddove i nonni sono distanti dai nipoti, possono comunque fornire supporto finanziario o sociale, aiuto pratico, consigli e insegnamenti.

Sia nei paesi più sviluppati che in quelli in fase di sviluppo, spesso i nonni supportano la gravidanza, il parto e la crescita dei neonati sia in modo diretto, sia in modo indiretto, contribuendo economicamente. Infatti, possono fornire denaro ai propri figli, ma hanno anche un ruolo di appoggio: i figli, sapendo di poter contare sul loro supporto, possono investire maggiormente e affidarsi a loro in periodi di crisi come in caso di disoccupazione o malattia. Questo aspetto è meno importante per le famiglie più agiate, che possono usufruire di previdenza sociale e di un’educazione gratuita, ma è fondamentale per le famiglie più povere e nei paesi a rischio di crisi, come disastri naturali o migrazioni. Inoltre, soprattutto nei paesi in fase di sviluppo, in caso di abbandono, divorzi o malattie in famiglia, i nonni possono sostituire per periodi più o meno lunghi le figure genitoriali. Ad esempio, in Sudafrica l’epidemia di HIV (Human Immunodeficiency Virus) rende orfani quasi sette bambini su dieci. Spesso, le nonne prendono in carico i nipoti dopo aver curato i propri figli terminali.

Sia nei paesi più sviluppati che in quelli in fase di sviluppo, i nonni hanno un ruolo importantissimo anche nella trasmissione culturale ai nipoti che passano del tempo con loro. Ad esempio, sono risorse importanti per la trasmissione della conoscenza storica, che migliora il benessere e le capacità sociali e pratiche dei futuri adulti. Ma possono anche coinvolgerli in giochi e altre attività in cui imparano, sia in casa sia fuori casa: da loro e con loro, i nipoti possono apprendere conoscenze pratiche e sviluppare abilità, dal controllo motorio (sviluppato, ad esempio, cucinando o facendo giardinaggio) alla memoria (con l’apprendimento di poesie o preghiere). I racconti delle storie di famiglia e le visite a vicini o parenti sviluppano anche il senso di appartenenza e la capacità di relazionarsi con gli altri, che aiutano nella vita adulta e rendono il bambino più socialmente responsabile. Tutte conoscenze e abilità utili per vivere in società e nel mon-

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do del lavoro. Ma con i nonni i bambini svolgono anche più attività fisiche e all’aperto, come giochi, passeggiate e sport, che favoriscono la salute.

Nonne e nonni possono anche essere dei modelli di riferimento. Ad esempio, nello studio di Møllegaard e Jæger pubblicato nel 2015, focalizzato su tre generazioni di famiglie scandinave, è emerso che i giovani intraprendono più spesso un percorso accademico se i loro nonni possiedono una cultura che valorizza la formazione universitaria. Uno scambio reciproco

Grazie ai nonni, i bambini risultano raggiungere risultati che non sarebbero stati in grado di ottenere senza supporto. Tuttavia, l’apprendimento e la cura sono reciproci. Alcuni ricercatori parlano di un rapporto mutualistico, da cui entrambe le parti ricavano benefici psicologici e sociali (3B, 8H). Ad esempio, i nipoti possono mostrare ai propri nonni come utilizzare i computer o altri strumenti elettronici e nelle famiglie emigrate all’estero possono insegnare loro la lingua. In questi scambi culturali, vecchia e nuova generazione creano un rapporto spesso forte che può tradursi in nuovi linguaggi che tengono conto delle necessità di entrambe le parti.

La riproduzione cooperativa e i nonni nel mondo animale

In alcune specie, le cure parentali possono provenire da individui diversi dai genitori biologici, in un comportamento noto come riproduzione cooperativa. In genere, ad attuarlo sono altri figli della coppia, che, anziché allontanarsi dal gruppo familiare per crearne uno proprio, aiutano a crescere i propri fratelli. Ma anche l’aiuto da parte dei nonni può rientrare in questa categoria.

Le femmine anziane risultano favorire la sopravvivenza dei membri più giovani tra alcuni primati, uccelli, cetacei o invertebrati. Infatti, le nonne risultano supportare la crescita dei nipoti nelle orche (Orcinus orca), nel globicefalo di Gray (Globicephala macrorhynchus), negli elefanti africani (Loxodonta africana) e asiatici (Elephas maximus), nella giraffa sudafricana (Giraffa camelopardalis), nell’usignolo delle Seychelles (Acrocephalus sechellensis), nel babbuino verde (Papio Anubis), nel macaco giapponese (Macaca fuscata) e nei leoni (Panthera leo).

In questo elenco, alcuni autori annoverano anche gli afidi della specie Quadrartus yoshinomiyai. Gli afidi si riproducono per partenogenesi, per cui le generazioni successive sono geneticamente identiche a quelle delle madri. Uno studio del 2010 ha rivelato che, quando si aprono le galle delle piante su cui gli afidi di Q. yoshinomiyai vivono, alcuni individui smetto-

no di essere fertili e difendono il resto della colonia ponendosi all’apertura delle galle. Un comportamento che probabilmente migliora la loro fitness indiretta perché salvaguarda la vita delle parenti.

Ma il caso più interessante è costituito dagli animali che presentano la menopausa. Infatti, in teoria, la menopausa non è evolutivamente vantaggiosa, perché impedisce di aumentare la propria fitness in modo diretto, producendo prole propria. In effetti, solo in alcune specie gli individui, e in particolare le femmine, vivono un periodo in cui non si possono riprodurre. Tra queste, le donne umane, che vivono almeno trent’anni dopo il termine della loro età riproduttiva, l’orca e il globicefalo di Gray. Gli elefanti non hanno una vera e propria menopausa, ma possono trascorrere gli ultimi dieci-sedici anni della propria vita senza riprodursi. Anche le “nonne” della giraffa sudafricana (Giraffa camelopardalis) possono supportare la crescita dei nipoti oltre l’età riproduttiva anche se non hanno una vera menopausa. Infatti, in genere figliano fino ai vent’anni, ma possono sopravvivere fino a ventotto e oltre.

A spiegare l’origine della menopausa sarebbe l’ipotesi della nonna. Secondo questa ipotesi, la fase post-riproduttiva della vita si sarebbe evoluta perché fornisce benefici indiretti di fitness, cioè la possibilità di riprodursi con successo, grazie all’aiuto fornito a figli e nipoti. Nella specie umana, le ricerche dimostrano che le nonne migliorano la fitness dei discendenti: consentono di aumentare le nascite e la sopravvivenza dei nipoti, soprattutto nella prima infanzia. Secondo uno studio del 2019, che ha analizzato un censimento demografico canadese tra il 1608 e il 1799, questi benefici sono tanto più grandi quanto più la nonna vive in prossimità dei nipoti. Lo stesso è stato riscontrato in altre specie.

In generale, la presenza dei nonni sembra migliorare la sopravvivenza dei nipoti soprattutto per supporto pratico o per trasferimento di conoscenze. Infatti, i membri più anziani del gruppo (e in particolare le nonne) sono depositari di informazioni sulla localizzazione e stagionalità delle risorse e su come crescere i piccoli. È dimostrato, inoltre, che migliorano la capacità di orientarsi, risolvere problemi e rispondere a potenziali pericoli in diverse specie.

Nelle orche del Nord Pacifico, similmente alla specie umana, le femmine si accoppiano tra i dodici e i quarant’anni, ma possono sopravvivere oltre i novanta, per cui la loro menopausa può durare decenni; invece, i maschi sopravvivono raramente oltre i cinquant’anni. Sia i maschi sia le femmine tendono a restare nel gruppo a cui appartiene la propria madre, che ne è spesso la guida. Questi animali si nutrono in gruppo e il salmone reale, Oncorhynchus tshawytscha, costituisce il 90% della loro dieta. Tuttavia, le popolazioni di salmone reale sono in declino, ragione per cui anche questo ecotipo di orca sta diminuendo (altre popolazioni, invece, prediligono nutrirsi di altri mammiferi). Uno studio del 2015 di Brent e colleghi mostra che sono soprattutto le femmine in menopausa a guidare

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i gruppi, tanto più spesso quanto minore è la disponibilità di salmone reale. La conoscenza di questi membri anziani potrebbe quindi guidare la selezione migliorando la sopravvivenza. Qualcosa di analogo si riscontra tra gli elefanti. Le femmine più anziane degli elefanti africani risultano trasmettere conoscenze vitali per i membri più giovani del gruppo e mostrano comportamenti di allolattazione, come nel caso dei leoni. Negli elefanti asiatici, secondo uno studio demografico del 2016 su una popolazione birmana, i nipoti delle elefantesse giovani (sotto i vent’anni) sopravvivevano fino a otto volte di più quando le nonne erano presenti rispetto a quando le nonne erano lontane. Quindi, è possibile che le nonne abbiano un ruolo nell’insegnare abilità parentali alle figlie; in effetti, la mortalità dei nipoti è tanto più bassa quanti più cuccioli aveva cresciuto la nonna. Inoltre, le femmine risultano partorire a distanze di tempo più brevi quando hanno le madri a supportarle, forse perché queste alleggeriscono il carico di lavoro delle proprie figlie. Anche in altri taxa è stato individuato un effetto positivo sulle popolazioni quando sono presenti le nonne, anche se ancora capaci di riprodursi. In effetti, in alcune specie lo stato riproduttivo delle nonne non altera i benefici che ottengono quando forniscono supporto alloparentale, in contrasto con l’ipotesi che spiega l’esistenza della menopausa con il vantaggio indiretto ricavato dal prendersi cura dei nipoti piuttosto che dei propri cuccioli. Nonne e nonni: risorse da tutelare

Studiare il contributo evolutivo che i nonni danno nelle diverse specie può essere di grande aiuto. Innanzitutto, per la nostra conoscenza: può consentirci di comprendere meglio le società complesse, l’origine della menopausa, la cultura umana, l’ecologia comportamentale. Nella nostra specie, comprendere il contributo dei nonni nell’apprendimento di nozioni e soft skill potrebbe anche essere riconosciuto e sfruttato dalle scuole. Inoltre, potrebbe aiutare a capire dove allocare le risorse per supportare i nonni che necessitano di supporto psicologico ed economico, soprattutto in contesti critici. In Cina, Nuova Zelanda, Romania e Sudafrica molti nonni risultano provare livelli di stress che possono compromettere la loro salute fisica e mentale. La povertà è un fattore comune, ma occorre considerare anche fattori sociali e dipendenti dai singoli contesti. Ad esempio, in alcuni paesi come Romania e Cina, predomina la politica intergenerazionale del familismo di default: il supporto alle famiglie è raro o virtualmente assente perché tutto è delegato ai familiari. In altri paesi come Nuova Zelanda e Sudafrica, gli aiuti sono più disponibili, ma di difficile accessibilità per coloro che vivono in aree rurali o hanno problemi di salute. Studiare l’apporto dei nonni nelle altre specie animali può anche facilitare gli sforzi di conservazione, con importanti implicazioni sulla sopravvivenza di alcuni animali. Ad esempio, tra gli elefanti asiatici la mortalità dei cuccioli sotto i 5 anni può arrivare anche al 50%. Gli studi suggeriscono che mantenere i piccoli elefanti vicini alle loro nonne può migliorarne significativamente la sopravvivenza sia in ambiente naturale sia negli zoo.

Bibliografia

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- Kenner C., Ruby M., Jessel J., Gregory E., & Arju T., 2007. Intergenerational learning between children and grandparents in east London. Journal of Early Childhood Research, 5(3), 219–243. https://doi.org/10.1177/1476718X07080471

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Scienze

MALATTIE SESSUALMENTE TRASMISSIBILI E LE RAGIONI

DELL’AUMENTO DEI CASI

Programmi educativi e diagnosi precoci sono fattori chiave per frenarne la diffusione e ridurre quelle complicanze che possono manifestarsi anche a distanza di anni

Le infezioni sessualmente trasmesse (IST) costituiscono un ampio gruppo di malattie che si sviluppano a partire da un patogeno trasmesso tramite sangue, sperma, liquidi vaginali o corporei durante il sesso orale, anale o genitale con un partner infetto. Ogni giorno in tutto il mondo si verificano più di 1 milione di casi in uomini e donne di età compresa tra 15 e 49 anni e la maggior parte si manifesta in maniera asintomatica. Questo è il dato più aggiornato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che, nel 2019, tra le IST più comuni ha stimato un aumento annuale di: tricomoniasi (156 milioni), clamidia (129 milioni), gonorrea (82 milioni) e sifilide (7.1 milioni). A preoccupare sono i 500 milioni di persone che convivono con un’infezione genitale da virus Herpes simplex e le 300 milioni di donne infettate dal papillomavirus umano (HPV). I giovani e gli uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini sono colpiti in modo sproporzionato dalle infezioni batteriche e le donne incinta appartenenti a gruppi vulnerabili perché assumono comportamenti ad alto rischio (uso di droghe, rapporti sessuali con partner diversi, ecc.), possono andare incontro a gravidanze con esiti anche fatali per il nascituro a causa dello scarso accesso alle cure prenatali [1].

Le malattie sessualmente trasmissibili hanno un impatto immediato sulla salute che si traduce in disturbi neurologici e cardiovascolari, infertilità, cancro, gravidanze extrauterine, morti neonatali e aumentato rischio di contrarre il virus dell’immunodeficienza umana (HIV). A livello sociale

esitano in stigmatizzazione, violenza domestica e drastica riduzione della qualità di vita [2]. Rappresentano dunque una grave minaccia per la salute soprattutto dei più giovani e non solo nei paesi in via di sviluppo. Eppure, il peso di questa emergenza sanitaria sembra rimanere silente a livello mondiale per diverse ragioni. Prime tra tutte: la maggior parte delle malattie sessualmente trasmissibili si presenta in maniera asintomatica, in diversi Paesi non sono disponibili metodi diagnostici e i sistemi di sorveglianza sono carenti o del tutto inesistenti [3]. Anche nell’ambito della ricerca biomedica la risposta al problema sembra essere insoddisfacente e non commisurata all’impatto che queste malattie esercitano sulla salute pubblica. Pertanto, è necessario incentivare lo sviluppo di strategie innovative di prevenzione, diagnosi e trattamento per porre fine alle epidemie causate da queste malattie, obiettivo che l’OMS auspica di raggiungere entro il 2030 [4].

La gestione delle malattie sessualmente trasmissibili è, inoltre, complicata dall’evoluzione che i comportamenti sessuali della popolazione mondiale hanno subìto nel corso del tempo. Di conseguenza anche i patogeni si sono adattati sviluppando meccanismi di resistenza verso gli antibiotici impiegati compromettendo l’efficacia del trattamento [5]. La globalizzazione e i viaggi internazionali contribuiscono alla diffusione di queste malattie, in particolare il turismo sessuale con un terzo dei viaggiatori che riferisce di avere rapporti occasionali all’estero di cui la metà senza l’uso del preservativo. Il ruolo dei “Centri di Medicina dei Viaggi e Profilassi Internazionale” è fondamentale perché attraverso una consulenza personalizzata prima del viaggio e la gestione delle persone infette al loro ritorno è possi-

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di Daniela Bencardino
* * Comunicatrice scientifica e Medical writer

bile controllare la diffusione di microrganismi resistenti agli antibiotici responsabili di infezioni sessuali [6]. Questo articolo offre una panoramica delle quattro malattie sessualmente trasmissibili più comuni e curabili nella pratica clinica.

Tricomoniasi

Attualmente la malattia sessualmente trasmessa più diffusa è la tricomoniasi, causata dall’agente infettivo Trichomonas vaginalis (protozoo flagellato). La trasmissione avviene principalmente attraverso rapporti sessuali (anali, vaginali e orali), ma non è esclusa la possibilità di contrarre l’infezione anche attraverso l’uso promiscuo di fomiti (biancheria, asciugamani e stimolatori sessuali). In una percentuale di casi che va dal 10 al 50% decorre in maniera asintomatica altrimenti i sintomi possono comparire dopo 4-28 giorni dall’infezione sotto forma di prurito o bruciore nella zona esterna dei genitali e perdite vaginali nelle donne. Negli uomini, invece, si riscontra una modesta secrezione uretrale e bruciori urinari. In assenza di trattamento, la sintomatologia può evolvere in complicanze come disturbi all’utero nelle donne, irritazioni al pene e infiammazione della prostata negli uomini, rischiando la sterilità in entrambi i sessi. La diagnosi è complicata dal frequente decorso asintomatico della malattia o dai sintomi piuttosto lievi che chi contrae l’infezione tende a trascurare. Attualmente i test più sensibili e specifici per la diagnosi sono quelli di amplificazione degli acidi nucleici eseguiti su campioni vaginali, endocervicali o di urina nelle donne e su campioni uretrali o di urina negli uomini. Tuttavia, questi test hanno costi elevati rispetto ai metodi tradizionali, con tempi e procedure di esecuzione più complessi. Il gold standard rimane la coltura a partire da campione di secrezione vaginale o uretrale per gli uomini, con una sensibilità del 90-96% anche a minime concentrazioni di microrganismi. Il trattamento antibiotico prevede la somministrazione di metronidazolo o tinidazolo sia nella persona infetta che nel partner evitando casi di reinfezione. Non esistono controindicazioni in gravidanza ma è raccomandato sospendere l’allattamento nelle 24 ore successive all’assunzione del farmaco. Il rischio di trasmissione può essere ridotto utilizzando il preservativo che però non copre tutte le aree interessate dall’infezione [7].

Clamidia

La clamidia è un’infezione causata dal batterio intracellulare obbligato Chlamydia trachomatis che ha un potenziale infettivo specifico per le cellule epiteliali dei tratti riproduttivi maschili e femminili. La trasmissione avviene attraverso qualsiasi tipo di rapporto sessuale e durante il parto la donna può trasmettere il batterio al neonato causando congiuntivite oppure polmonite. Anche la clamidia si presenta in maniera asintomatica nella maggior parte dei casi con percentuali che vanno dal 70-80% nelle donne e 50% negli uomini. Nei casi sintomatici, che compaiono dopo 1-3 settimane dall’infezione, gli uomini possono manifestare uretrite con secrezioni, irritazione, prurito e occasionalmente epididimite, uno stato di infiammazione, ingrossamento e dolore ai testicoli. Nelle donne, invece, la manifestazione clinica più ricorrente è la cervicite con secrezione, sanguinamento e irritazione. La ritardata diagnosi per mancanza di sintomi è particolarmente preoccupante per le donne perché la persistente presenza del patogeno evoca una risposta immunitaria cronica che porta alla distruzione delle cellule epiteliali dell’apparato riproduttivo con esiti negativi della gravidanza. Anche l’infezione da clamidia viene diagnosticata attraverso test molecolari basati sull’amplificazione degli acidi nucleici che consentono di ricercare il batterio in tamponi endocervicali e/o uretrali, vaginali, rettali, orali oppure nelle urine. Il trattamento antibiotico, disponibile anche per i partner sessuali avuti nei tre mesi precedenti l’infezione, prevede la somministrazione orale di azitromicina, doxiciclina, eritromicina, levofloxacina oppure ofloxacina [8].

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© Kateryna Kon/shutterstock.com Chlamydia trachomatis

Gonorrea

La gonorrea è un’infezione causata dal batterio Neisseria gonorrhoeae e si trasmette attraverso ogni tipo di rapporto sessuale, con il 50% di casi asintomatici nelle donne e il 20% negli uomini. I sintomi possono comparire dopo 1-7 giorni dall’infezione e sia negli uomini che nelle donne si presentano con bruciori, prurito e difficoltà a urinare, secrezioni maleodoranti e dolore durante o dopo i rapporti sessuali. Se non trattata, la gonorrea può diffondersi dalla cervice, raggiungere utero e tube di Falloppio causando la malattia infiammatoria pelvica che si manifesta sotto forma di endometrite, febbre, dolore pelvico cronico, ascessi interni e sterilità. In gravidanza può causare rottura prematura delle membrane, ritardo di crescita intrauterina e parto prematuro. Nell’uomo, invece, può causare epididimite con infiammazione dei testicoli e sterilità. Inoltre, le persone affette da gonorrea hanno una probabilità maggiore di trasmettere e/o acquisire l’HIV. A seguito dell’identificazione dell’agente patogeno con test molecolari oppure microbiologici, si procede con il trattamento antibiotico di ceftriaxone o cefixima combinato all’azitromicina [9,10].

Sifilide

La sifilide è un’infezione causata dalla spirochete Treponema pallidum, un agente patogeno noto per la sua invasività e capacità di evadere il sistema immunitario umano. Generalmente il decorso di malattia segue quattro stadi: primario, secondario, latente e terziario, per un periodo complessivo di 10 anni.

Lo stadio primario intercorre tra il contagio e l’insorgenza dei primi sintomi (da 10 a 90 giorni). In questo periodo, un’ulcera (sifiloma) di colore rosso scuro può comparire sui genitali, sull’ano, nella bocca o nella gola. Nonostante que-

sta possa guarire spontaneamente nel giro di qualche settimana, la malattia non arresta la sua corsa entrando nello stadio secondario.

Questa fase è caratterizzata dalla comparsa di macchie cutanee rosa sulla parte superiore del corpo. Possono accompagnarsi a episodi febbrili, mal di gola, dolori diffusi e disturbi gastrointestinali. Tutti sintomi che possono scomparire senza trattamento, ma l’infezione progredirà comunque verso lo stadio latente.

Durante questo stadio, che può durare fino a due anni, la persona infettata non manifesta sintomi ma, in assenza di trattamento, la malattia raggiunge lo stadio terziario dopo 10-30 anni dal contagio. A questo punto la sifilide invade diversi organi con manifestazioni cliniche gravi che possono portare alla morte. La diagnosi è di tipo sierologica con l’individuazione degli anticorpi IgM dalla seconda settimana dopo il contagio e degli IgG a partire dalla quarta settimana. Nel momento in cui compaiono i sintomi la maggior parte dei pazienti è positiva sia alle IgM che alle IgG. La penicillina per via parenterale si dimostra efficace anche nel prevenire la trasmissione al feto. Il dosaggio e la durata dipendono dallo stadio della malattia e dalla gravità dei sintomi [11]. Prevenzione

Nel 2021 il CDC (Center for Diseases Control and Prevention) ha emanato delle linee guida per cinque strategie di prevenzione e controllo:

1. accurata valutazione del rischio, formazione e consulenza su come evitare le infezioni assumendo comportamenti sessuali corretti e l’uso di dispositivi medici raccomandati per prevenire il contagio;

2. vaccinazione pre-esposizione per infezioni prevenibili

3. identificazione rapida degli asintomatici così come di soggetti che presentano i primi sintomi associati a un’infezione sessualmente trasmissibile;

4. diagnosi, trattamento, consulenza e follow-up efficaci di persone infette;

5. valutazione, trattamento e consulenza dei partner sessuali delle persone infette.

Valutare i comportamenti sessuali che possono esporre le persone al rischio di contrarre infezione è il punto di partenza della prevenzione primaria. Gli operatori sanitari dovrebbero ottenere regolarmente informazioni riguardanti le abitudini sessuali dei pazienti in modo da affrontare consapevolmente ogni rischio. L’approccio descritto dal CDC è quello delle “5 P” che consiste nel tracciare l’anamnesi sessuale del paziente ponendogli domande inerenti: i partner, le pratiche, la protezione, il passato clinico inerente eventuali infezioni sessuali e la volontà di concepimento futuro (pregnancy). Oltre al rischio comportamentale è necessario raccogliere informazioni riguardanti il rischio di contrarre l’HIV perché le malattie sessualmente trasmissibili sono ottimi marcatori per l’acquisizione e trasmissione del virus

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© Peddalanka Ramesh Babu/shutterstock.com Treponema pallidum Syphilis

[10]. Le informazioni raccolte sono il punto di partenza per una consulenza preventiva dal carattere empatico, non giudicante e basata sulla cultura, sulla lingua, sull’orientamento sessuale e sull’età del paziente. L’educazione sessuale, incentrata sull’uso corretto del profilattico e la riduzione del numero di partner sessuali, dovrebbe essere quindi integrata nella pratica clinica e offerta in particolar modo alle categorie maggiormente a rischio come gli adolescenti sessualmente attivi e gli adulti che hanno ricevuto una diagnosi, che hanno contratto un’infezione nell’anno precedente o che hanno avuto più partner sessuali. Gli approcci di consulenza interattiva, la distribuzione di materiale informativo e lo screening si sono dimostrati efficaci nel ridurre l’incidenza delle infezioni sessualmente trasmesse tra le persone affette da HIV [12].

Anche la corretta informazione sull’uso del profilattico si conferma una misura efficace nel prevenirne la trasmissione. Se usato correttamente, il profilattico riduce dell’80% il rischio di contrarre il virus durante i rapporti sessuali con un partner infetto. Un’efficacia analoga si registra anche per la riduzione della trasmissione di clamidia, gonorrea e tricomoniasi [10].

La vaccinazione prima dell’esposizione al patogeno è uno dei metodi più efficaci per prevenire molte delle infezioni associate come quella da papillomavirus. In Italia la vaccinazione anti-HPV è raccomandata a ragazze e ragazzi dagli 11 anni di età, viene somministrata gratuitamente in due dosi a distanza di 6 mesi. Le dosi diventano tre se si inizia il ciclo vaccinale dopo i 15 anni. I vaccini attualmente disponibili proteggono contro i 9 sierotipi di HPV più pericolosi e prevengono oltre il 90% delle forme tumorali associate al virus [13]. Lo screening dei soggetti infetti, inclusi quelli asintomatici, può migliorare la prevenzione e il controllo delle malattie sessualmente trasmissibili nelle popolazioni a rischio. I test rapidi point-of-care (POC), cioè quei test svolti nel modo più semplice e immediato per il paziente, possono aprire la strada ai test da fare in farmacia, negli ambulatori e anche a casa (in completa autonomia) velocizzando, quindi, i tempi di diagnosi e di intervento. A questi devono essere abbinati degli approcci innovativi per raggiungere maggiormente le categorie a rischio, come l’inserimento di “test rapidi” nel triage, l’invio al laboratorio di campioni prelevati al proprio domicilio e l’utilizzo dei servizi di sanità digitale (eHealth) per migliorare la conoscenza del problema e fornire assistenza al paziente e al partner, anche a distanza, durante il trattamento.

Conclusione

La complessa gestione sanitaria e sociale delle malattie sessualmente trasmissibili necessita della messa in campo di strategie innovative per la prevenzione, la diagnosi, lo screening e il trattamento. Strategie che devono essere supportate da campagne di comunicazione per informare la popolazio-

ne a rischio e arginare la diffusione delle infezioni, soprattutto in relazione all’insorgenza di patogeni sempre più capaci di resistere agli antibiotici attualmente disponibili.

Bibliografia

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PORTATORI DI STAPHYLOCOCCUS AUREUS E RISCHIO DI CONTAMINAZIONE ALIMENTARE

Eseguire dei test di screening tra gli operatori alimentari aiuterebbe a individuare i portatori sani del patogeno e a ridurre il rischio di contaminazione del prodotto

Lo Staphylococcus aureus (S. aureus) è un batterio Gram-positivo riconosciuto come il patogeno umano in grado di colonizzare la cute e le mucose causando una pletora di infezioni opportunistiche, da lievi (come impetigine e cellulite) a più gravi (come endocarditi e batteriemie). Oltre alla cute, la colonizzazione di questo commensale può interessare diversi siti corporei come l’intestino retto, il tratto digerente e l’area inguinale ma sono le narici anteriori il suo “serbatoio” principale. I portatori sani di S. aureus, cioè quei soggetti colonizzati dal batterio che non manifestano alcun sintomo, possono essere classificati in:

• portatori persistenti quando la colonizzazione non scompare (quindi il rischio di infezione è molto alto) e corrispondono al 10-20% della popolazione generale;

• portatori intermittenti quando, invece, i periodi di colonizzazione si alternano alla scomparsa del commensale dalla cute e corrispondono al 30-50% della popolazione.

La colonizzazione può favorire l’insorgenza di infezioni da S. aureus e questa relazione è stata confermata dall’identificazione di genotipi condivisi tra i ceppi isolati nelle narici e quelli riscontrati nei siti di infezione. Inoltre, la colonizzazione sembra essere influenzata dalla competizione intra-specie tra ceppi MSSA (meticillino-sensibili) e ceppi MRSA (meticillino-resistenti). I primi, infatti, giocano un ruolo protettivo ostacolando l’inserimento di molto più aggressivi e virulenti [1].

S. aureus colonizza sia l’epitelio delle narici anteriori attraverso l’azione di molecole adesive come il fattore di aggregazione B (ClfB) e il determinante di superficie A (isda). Questi fattori interagiscono con la loricrina e le

citocheratine che sono tra le principali proteine espresse dai cheratinociti dello strato corneificato dell’epitelio. Al contrario, la colonizzazione della cavità nasale interna sembra essere guidata dall’acido teicoico presente sulla parete cellulare dello stafilococco che interagendo con il recettore dello scavenger di tipo F (SREC-1) delle cellule epiteliali determina la persistenza del patogeno nel sito colonizzato. Conoscere la localizzazione dello S. aureus all’interno della cavità nasale è estremamente importante per eseguire correttamente il tampone e quindi ottenere la massima sensibilità del test.

La colonizzazione è influenzata anche dalla composizione della comunità microbica all’interno della cavità nasale. Ad esempio, in vitro è stato osservato che Corynebacterium accolens sembra promuovere la crescita di S. aureus (come conseguenza di un adattamento reciproco), al contrario Corynebacterium pseudodiphteriticum ne inibisce la crescita. infatti, alcune specie batteriche sono in grado di produrre delle molecole con azione battericida contro lo stafilococco, come nel caso dello Streptococcus pneumoniae e dello Staphylococcus lugdunensis che producono, rispettivamente, H2O2 e lugdunina [2].

I portatori non corrono solo il rischio di acquisire ceppi endogeni o esogeni ma possono anche rappresentare essi stessi un rischio che è quello di diffondere nell’ambiente circostante i ceppi da cui risultano colonizzati. Ecco perché durante la manipolazione degli alimenti, i portatori possono essere vettori di diffusione del patogeno e la scarsa igiene delle loro mani è ritenuta la principale causa di contaminazione. L’intossicazione e la tossinfezione alimentare causata da S. aureus avviene dopo aver ingerito

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l’alimento contaminato. In particolare, l’intossicazione si verifica quando l’alimento è contaminato dal patogeno attivo mentre la tossinfezione coinvolge gli alimenti dove la presenza del patogeno raggiunge livelli elevati tanto da produrre l’enterotossine. Queste, sfuggendo all’attività degli enzimi proteolitici, riescono ad attraversare indisturbate il tratto gastrointestinale. Qui vengono riassorbite innescando nausea e/o vomito a cui si accompagnano crampi addominali e diarrea, che solitamente compaiono entro 2-8 ore dal consumo del cibo contaminato con un decorso benigno dopo 12-48 ore. La gravità della tossinfezione dipende dalla suscettibilità del soggetto e dalla quantità di enterotossine ingerite (approssimativamente sono sufficienti 20-100 ng). I casi in cui è richiesto il ricovero in ospedale sono rari e riguardano i neonati, gli anziani o i pazienti debilitati [3].

Dall’ultimo rapporto annuale sulle zoonosi “One Health” dell’Unione Europea pubblicato dall’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) e dall’ECDC (Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie), nel 2021 si sono verificati 64 focolai causati dalle tossine dello S. aureus. I casi di tossinfezione umana sono stati 640 ma solo per l’8% di questi è stato necessario il ricovero in ospedale. È importante sottolineare che la maggior parte delle persone guarisce spontaneamente senza avere la necessità di ricorrere all’assistenza medica; pertanto, l’incidenza reale dei casi sarà inevitabilmente sottostimata [4].

Gli alimenti più comunemente associati a casi di intossicazione alimentare da S. aureus sono: carne e derivati, pollame e prodotti a base di uova, latte non pastorizzato e prodotti lattiero-caseari. A questi seguono le insalate, i prodotti da forno con farciture di creme, torte e sandwich. Una volta avvenuta la contaminazione dell’alimento sono le condizioni di conservazione inadeguate che consentono allo S. aureus di crescere e raggiungere la densità cellulare necessaria per produrre enterotossine. La temperatura, il pH, l’attività dell’acqua libera, l’ossigeno, il potenziale redox e la concentrazione di sale influenzano la crescita del batterio e la conseguente produzione di enterotossine. Ma tra tutti questi, il fattore più critico è la temperatura perché le enterotossine resistono al trattamento termico della cottura che quindi risulta inutile. Alla luce di questo, il rispetto delle norme igieniche durante la lavorazione diventa fondamentale perché consente di ridurre la presenza del patogeno e delle enterotossine fin dalle prime fasi del processo [3].

Gli operatori alimentari e la contaminazione crociata

La contaminazione crociata, cioè il trasferimento di patogeni da fonti contaminate che possono comprendere alimenti, superfici e operatori, è stata identificata come una delle cause dei focolai di tossinfezioni alimentari causate da S. aureus. Gli operatori alimentari che sono portatori del patogeno possono contaminare le loro mani e altre parti del corpo e agire come responsabili di contaminazione crociata in qualsiasi fase della catena di produzione. Per prevenire la diffusione di S. aureus (lo stesso discorso è valido anche per altri patogeni) lavare le mani con acqua calda e sapone risulta sempre la pratica più facile e importante da attuare. Qualora non sia possibile accedere a lavaggio, magari durante le ore di lavoro può capitare di non avere la possibilità di effettuare un lavaggio frequente, è fortemente raccomandato l’utilizzo di un disinfettante a base alcolica, preferibilmente sotto forma di gel. Anche l’uso di guanti è considerato un efficace metodo di riduzione del trasferimento di contaminanti dalle

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© Ebrahim Lotfi/shutterstock.com Staphylococcus aureus

mani all’alimento purché si faccia attenzione a ricambiarli frequentemente per evitare l’accumulo di contaminanti sulla loro superficie [5].

Gli addetti alla manipolazione degli alimenti che lavorano nella stessa area di un impianto industriale possono entrare in contatto fisico tra di loro oppure con oggetti condivisi e aumentare il rischio di contaminazione sia tra loro stessi che tra loro e l’alimento in lavorazione. Una volta infettati questi operatori possono trasmettere il ceppo alle persone con cui vivono o comunque entrano in contatto al di fuori della vita lavorativa e quindi contribuire alla diffusione di quelle infezioni note per essere causate da ceppi acquisiti in comunità (CA-MRSA, Community-acquired methicillin-resistant S. aureus).

Inoltre, lo S. aureus ha la capacità di aderire alle superfici che prendono contatto con gli alimenti e produrre biofilm. Dopo l’adesione, le cellule batteriche iniziano a moltiplicarsi producendo una matrice extracellulare di sostanze polimeriche che consente al batterio di assorbire nutrienti dall’ambiente e resistere ai disinfettanti. Per questo motivo l’adesione e la formazione di biofilm rappresentano due importanti fattori di virulenza che permettono allo S. aureus di sopravvivere su diverse superfici, promuovendo la colonizzazione di ambienti ostili e aumentando il rischio di contaminazione crociata. Le temperature e l’impiego di nutrienti durante la trasformazione industriale degli alimenti sono condizioni ottimali per la sopravvivenza di diverse comunità microbiche e i biofilm formati da specie batteriche diverse rafforzano la colonizzazione e aumentano la persistenza dello S. aureus all’interno dell’alimento [6]. Nel corso degli ultimi anni la letteratura ha documentato numerosi casi di contaminazione crociata originata da un operatore portatore sano. Per esempio, nel 2015 in Umbria si verificò un focolaio di tossinfezione alimentare

che coinvolse 24 persone che iniziarono a manifestare i sintomi tipici dopo aver consumato il loro pasto al ristorante. Dall’analisi del cibo consumato emerse che una contaminazione da S. aureus nella crema Chantilly del dolce. Non solo, all’interno dell’alimento furono rintracciati elevati livelli dell’enterotossina SEA e ben 5 dipendenti del ristorante risultarono colonizzati dallo S. aureus. In particolare, i tre ceppi produttori dell’enterotossina SEA che erano stati isolati dal dolce, dalle superfici e dalla cute del cuoco avevano lo stesso profilo clonale (individuato tramite la tecnica PFGE, pulsed-field gel electrophoresis) e appartenevano a un biotipo umano. Questi dati suggerirono che a causare il focolaio fosse stato quindi un dipendente del ristorante che aveva preso contatto con l’alimento, contaminandolo [7]. Studi come quello appena descritto confermano la necessità di eseguire programmi di monitoraggio degli operatori alimentari per ridurre al minimo il rischio di contaminazione crociata. Questi programmi potrebbero essere molto utili non solo per aumentare la sicurezza alimentare ma anche per ridurre la diffusione di ceppi responsabili di infezioni comunitarie.

Decolonizzazione nasale e

prevenzione

La decolonizzazione nasale è la strategia più importante per prevenire la trasmissione di S. aureus, e tra i tanti agenti antibiotici disponibili la mupirocina è quello attualmente considerato più efficace. Questo antibiotico è naturalmente prodotto dal batterio Pseudomonas fluorescens e ha una buona attività anche contro alcuni streptococchi. La mupirocina ha un’efficacia clinica del 90-94% dopo due applicazioni al giorno per 7 giorni direttamente nelle narici anteriori. Tuttavia, un’applicazione prolungata può causare lo sviluppo di meccanismi di resistenza che compromettono la decolonizzazione nasale. Alla luce di ciò, la ricerca scientifica si sta concentrando su trattamenti alternativi come, ad esempio, l’impiego di antibiotici per via orale che sono utilizzati anche quando la colonizzazione interessa altri siti corporei e non solo le narici. Un’altra possibilità è quella di combinare antibiotici e farmaci antisettici che finora hanno sempre mostrato un buon livello di efficacia [8].

Gli studi in corso sulle nuove molecole hanno portato alla luce risultati promettenti negli esperimenti di laboratorio, ma non ci sono ancora studi clinici che possano confermarne l’efficacia anche nell’uomo. Tra queste, la lisostafina (un enzima batterico in grado di agire sulla parete cellulare dello stafilococco), e l’epidermicina (una batteriocina con attività sui Gram-positivi) sembrano essere molecole più efficaci della mupirocina [9].

Ma la ricerca di opzioni di trattamento alternative si fa strada anche tra le molecole di origine vegetale e nello specifico tra i terpenoidi, i flavonoidi e i composti organosolfuri. Ne sono un esempio il terpinen-4-olo che è un

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olio essenziale estratto dalle foglie dell’albero del tè la cui efficacia contro lo S. aureus sembra essere dovuta alla sua capacità di interferire con la sintesi della parete cellulare [10]. Tra i flavonoidi, il licocalcone A, che viene estratto dalla radice della liquirizia, ha mostrato un’elevata efficacia contro i ceppi MRSA mentre il citrox, un bioflavonoide naturalmente estratto dalle arance amare, sembra essere efficace nel trattamento di quei ceppi in grado di produrre biofilm [11]. Tuttavia, nell’ampio pannello di molecole naturali in corso di valutazione è l’allicina quella che riceve maggiore interesse perché oltre ad avere attività antibatterica mostra anche proprietà antivirulenti e questo potrebbe essere un valido aiuto nel trattamento delle infezioni causate da ceppi di S. aureus che producono tossine [12].

La possibilità di disporre di altri trattamenti di pari o superiore efficacia rispetto alla mupirocina è ancora ben lontana, pertanto, è ancora più fondamentale attuare strategie di prevenzione. Le prime misure da rispettare per prevenire la contaminazione alimentare da S. aureus sono il mantenimento della catena del freddo e soprattutto il monitoraggio degli operatori addetti alla manipolazione degli alimenti. L’applicazione di programmi di screening all’interno degli stabilimenti industriali rappresenta uno strumento molto utile per individuare tempestivamente eventuali portatori sani evitando, quindi, casi di contaminazione crociata da operatore ad alimento e da operatore a operatore. Quest’ultimo punto aiuterebbe a ridurre l’impiego di antibiotici per la decolonizzazione frenando lo sviluppo di meccanismi di resistenza. Da non sottovalutare poi l’importanza della prevenzione indossando guanti, mascherine e cuffie per capelli durante la manipolazione degli alimenti e a seguire corrette procedure di disinfezione e sterilizzazione degli ambienti e delle attrezzature.

Conclusioni

La manipolazione degli alimenti da parte di operatori portatori sani di S. aureus si conferma la principale causa di focolai di tossinfezione. La mancanza di programmi di screening all’interno delle varie fasi della catena alimentare, la rottura della catena del freddo e le scarse misure igieniche rappresentano dei punti critici nella gestione di un problema che con il passare degli anni assume sempre più interesse in termini di salute pubblica. Attualmente il trattamento antibiotico a base di mupirocina applicata direttamente nelle narici anteriori è quello più efficace per la decolonizzazione dei portatori sani. Ma l’uso prolungato può promuovere lo sviluppo di meccanismi di resistenza e al momento non sono disponibili dati clinici sull’efficacia delle molecole alternative in studio. Pertanto, le misure preventive rappresentano l’unica strategia da mettere in pratica per evitare casi di contaminazione crociata e ridurre la diffusione dei ceppi tra gli operatori e all’interno della comunità. (D. B.).

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Giornale dei Biologi | Lug/ago 2023 101
Scienze

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