LA GRANDE GUERRA 1914-1918

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TRENTO

Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laure a in

LA GRANDE GUERRA 1914 – 1918

Un mondo nuovo forgiato con il sangue del vecchio

Relatore

Laureando

Prof. Gustavo Corni Iacopo Passerini

Anno Accademico 2017 – 2018

Sommario

CAPITOLO 1...............................................................................................................................4

IL CASUS BELLI 4

Antefatto 4 L’attentato.............................................................................................................................5

CRISI DI LUGLIO 9

L’inizio 9 5 - 6 Luglio L’assegno in bianco della Germania 10 9 - 23 Luglio Sfuma l’effetto sorpresa: l’ottimismo britannico........................................12

23 luglio L’ultimatum austriaco alla Serbia 13 23 - 27 luglio Le reazioni all’ultimatum austriaco 15

La risposta Serba 16

La proposta britannica di una conferenza...........................................................................17 30 - 31 luglio La mobilitazione generale austriaca 21

La Germania in guerra 21

3 agosto La Germania dichiara guerra alla Francia 23 La Gran Bretagna in Guerra...............................................................................................25

L’ITALIA NELLA CRISI 27

Il silenzio degli alleati. 27

La dichiarazione della neutralità 28

CAPITOLO 2.............................................................................................................................30

I FRONTI................................................................................................................................30

Fronte Occidentale 30

Fronte orientale 43

Fronte Italiano.....................................................................................................................61

Fronte Marittimo ................................................................................................................91

CAPITOLO 3...........................................................................................................................117

TRATTATI DI PACE E CONSEGUENZE DELLA GUERRA 117 Gli armistizi ......................................................................................................................117 La conferenza di Pace ........................................................................................................118

I danni di guerra ...............................................................................................................121

La spartizione delle colonie 122

La questione belga .............................................................................................................123

La questione italiana .........................................................................................................125

La posizione verso la Russia bolscevica.............................................................................127

La conclusione 128

Le condizione imposte dagli alleati....................................................................................129

Conseguenze......................................................................................................................131

Cambiamenti politici.........................................................................................................132

Effetti socio economici 136

L’influenza culturale.........................................................................................................139

L’influenza spagnola .........................................................................................................140

Le conferenze del disarmo .................................................................................................141

Repubblica di Weimar 143

La pace e la memoria - I cimiteri di guerra .......................................................................149 D’ANNUNZIO E UNGARETTI .......................................................................................153

Giuseppe Ungaretti...........................................................................................................153 Gabriele D’Annunzio 158

2

BIBLIOGRAFIA .....................................................................................................................167

FILMOGRAFIA .......................................................................................................................168

SITOGRAFIA: 169

ALTRO: 169

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APPENDICE FOTOGRAFICA............................................................................................163

IL CASUS BELLI

I fattori che hanno portato allo scoppio della grande guerra: dalle tensioni politiche, diplomatiche ed economiche all’eccidio di Sarajevo

Antefatto

A seguito della perdita di potere dell’impero Ottomano l’area dei Balcani attirò l’attenzione di due potenti imperi: quello Austro – Ungarico e quello Russo. Mentre per la casata degli Asburgo – Lorena era soprattutto una questione di sicurezza per l’impero degli zar l’area dei Balcani rappresentava la possibilità di ottenere uno sbocco sul Mediterraneo sognato da tempo dai Romanov1 . Questa grave tensione diplomatica pur trascinandosi dal 1878, non sfociò mai in una guerra e vide il prevalere dell’Impero Austro – Ungarico il quale nel 1913 dichiarò la Serbia un proprio protettorato. Questo fatto alimentò il nascente movimento indipendentista serbo, infatti, molti degli irredentisti volevano che le provincie dell’impero, a maggioranza serba, annesse con il trattato di Berlino del 1878 si staccassero dall’impero per unirsi al piccolo regno di Serbia in modo da poter formare la grande Serbia.

Il 28 giugno, anniversario della battaglia della Piana dei Merli2, il principe ereditario Francesco Ferdinando festeggiava il quattordicesimo anniversario del giuramento morganatico3 con cui Francesco Ferdinando ottenne dall’imperatore Francesco Giuseppe il permesso di sposare Sofia Chotek4, in cambio del giuramento che i figli nati da questa unione non sarebbero mai saliti

1 casata regnante in Russia dal 1613 al 1915

2 combattuta il 15 giugno 1389 dall’esercito dell’alleanza balcanica contro l’esercito ottomano nell’odierno Kosovo.

3 Con cui né la sposa né alcuno dei figli nati dal matrimonio può avere alcuna pretesa sui titoli del marito, sui suoi diritti o le sue proprietà.

4 Contessa Sofia Chotek di Chotkova und Wognin, rinominata nel 1909 Duchessa di Hohenberg, sposata il 1° luglio 1900

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Capitolo 1

al trono.

Sofia Chotek era lieta di accompagnare il marito in Bosnia e di celebrare l’anniversario lontano dalla corte di Vienna, dove veniva trattata con sufficienza, inoltre il giovane nipote del Kaiser von Osterreich pensava di sfruttare la visita per studiare una possibile annessione della Serbia ai territori imperiali5 Per questo i nazionalisti serbi della “Mano Nera”6 considerarono l’erede al trono come il maggior ostacolo ai loro piani. Quando fu annunciata la visita dell’erede, i membri della “Giovane Bosnia”7. Si posero l’obiettivo di assassinare l’arciduca.

L’attentato

Gli eventi qui trattati sono solo una possibile ricostruzione dei fatti visto che ancora oggi non è ben chiaro ciò che accade quel giorno a causa delle innumerevoli e discordanti testimonianze.

Il giorno della ricorrenza della battaglia della Piana dei Merli sette membri della “Giovane Bosnia”: Gavrilo Princip, Nedjeljko Čabrinović, Vasić Čubrilović, Trifko Grabeć, Danilo Ilić, Muhamed Mehmedbašić e Cvjetko Popović accettarono l’incarico di assassinare l’arciduca affidato loro dai capi della “Mano Nera. Tuttavia nessuno di loro era esperto di armi e fu solo grazie a una straordinaria combinazione di eventi che il gruppo ebbe successo. Alle 10:00 l’Arciduca, sua moglie e i loro accompagnatori, partirono dal campo militare di Filipovic, dove avevano effettuato una rapida rivista delle truppe che stranamente non seguirono il corteo. La colonna era composta da sette automobili Gräf & Stift Bois De Boulognedouble Phaeton cosi strutturata:

• nella prima si trovavano l’ispettore capo di Sarajevo e tre altri agenti di polizia;

• nella seconda: Il sindaco di Sarajevo, Fehim Efendi Curcic; il commissario

5 piano della triplice corona 6 in Serbo: Црна рука / Crna Ruka fu una società segreta fondata in Serbia nel maggio del 1911 come parte del più ampio movimento nazionalista pan slavo 7 in serbo Млада Босна Mlada Bosna fu l’organizzazione politico rivoluzionaria che, con l’aiuto della società segreta Crna Ruka (o Mano Nera), pianificò ed eseguì l’attentato di Sarajevo

5

di polizia di Sarajevo, dottor Edmund Gerde;

• nella terza: Francesco Ferdinando; sua moglie Sofia; il governatore generale di Bosnia Oskar Potiorek; la guardia del corpo di Francesco Ferdinando, il tenente colonnello conte Franz von Harrach;

• nella quarta: il capo della cancelleria militare di Francesco Ferdinando, barone Carl von Rumerskirch; la damigella di Sofia, contessa Wilma Lanyus von Wellenberg; l’aiutante capo di Potiorek, tenente colonnello Erich Edler von Merizzi; il tenente colonnello conte Alexander BoosWaldeck;

• nella quinta: Adolf Egger, direttore dello stabilimento Fiat di Vienna; il maggiore Paul Höger; il colonnello Karl Bardolff; e il dottor Ferdinand Fischer;

• nella sesta: il barone Andreas von Morsey; il capitano Pilz; altri membri dello staff di Francesco Ferdinando e ufficiali bosniaci;

• nella settima: il maggiore Erich Ritter von Hüttenbrenner; il conte Josef zu Erbach-Fürstenau; il tenente Robert Grein.

Alle 10:15 il corteo passò davanti al primo membro del gruppo, Muhamed Mehmedbašić .

Costui si era piazzato alla finestra di un piano alto con un fucile, ma in seguito sostenne che non riuscì ad avere il bersaglio libero e decise di non sparare per non mandare all’aria la missione allertando le autorità.

Il secondo membro, Nedjeljko Čabrinović, lanciò una bomba o, secondo alcuni resoconti, un candelotto di dinamite contro l’auto di Francesco Ferdinando, ma la mancò o, secondo altri, rimbalzò contro la macchina L’esplosivo, evidentemente difettoso, pur esplodendo si limitò a danneggiare la quarta vettura e a ferire i suoi occupanti, un poliziotto e diverse persone che stavano nella folla. Čabrinović inghiottì la sua pillola di cianuro e si gettò nelle basse acque del fiume Miljacka, ma la polizia lo trascinò fuori dal fiume e venne duramente picchiato dalla folla prima di venire preso in custodia. La sua pillola di cianuro era vecchia o con un dosaggio troppo debole e non funzionò inoltre il fiume era

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profondo solo dieci centimetri ed egli non riuscì ad affogarsi. Alcuni degli altri assassini, a causa di nervi poco saldi o perché pensavano che la missione fosse già stata compiuta, abbandonarono la scena. Arrivando al municipio per il ricevimento programmato, Francesco Ferdinando mostrò comprensibili segni di stress, interrompendo il discorso di benvenuto preparato dal sindaco Curcic per protestare: “A che servono i vostri discorsi, borgomastro? Noi veniamo qui in amicizia e la gente ci tira addosso delle bombe. È oltraggioso!”8

L’arciduca si calmò e il resto del ricevimento fu teso ma senza incidenti. Funzionari e membri del seguito dell’arciduca discussero su come guardarsi da un altro tentativo di uccisione senza giungere a una conclusione coerente. Il suggerimento che le truppe di stanza fuori dalla città venissero schierate lungo le strade, sembra venne respinto perché i soldati non si erano portati le loro uniformi da parata alle manovre9. La sicurezza venne quindi lasciata alla piccola forza di polizia di Sarajevo con all’attivo, in quel momento, meno di una ventina di agenti in servizio. L’unica ovvia misura presa fu che uno degli aiutanti militari di Francesco Ferdinando prendesse una posizione protettiva sulla predella sinistra della sua autovettura, tutto ciò è confermato dai documenti fotografici della scena descritta.

Mentre l’erede al trono pranzava con le autorità, i membri della Mano Nera rimasti si erano riuniti per cercare di capire cosa fosse successo, infatti le notizie si erano succedute in gran numero generando confusione sia negli attentatori sia nelle forze di sicurezza.

Una volta che la notizia del fallimento dell’attentato fu confermata gli attentatori decisero di abbandonare la città con l’idea di riprovarci in seguito.

Uscito dal municipio Francesco Ferdinando decise di recarsi all’ospedale per visitare i feriti dalla bomba di Čabrinović, nel contempo, Gavrilo Princip era andato in un vicino negozio di alimentari a comperare del pane e del prosciutto, fermandosi anche a scambiare due parole con un amico, non affiliato alla Gio-

8 Fromkin, p. 156 9 scusa che per molti storici è la prova che l’attentato era stato previsto ma le forze di sicurezza austriache non vollero intervenire

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vane Bosnia

Uscendo vide, nei pressi del “Ponte Latino”, l’auto aperta di Francesco Ferdinando che tornava indietro in quando aveva sbagliato a svoltare. L’autista Franz Urban non era stato avvisato del cambio di programma e aveva proseguito lungo il percorso che avrebbe portato l’arciduca e il suo seguito direttamente fuori dalla città. Avanzando verso il lato destro della vettura, Princip esplose due colpi della sua pistola semiautomatica. Il primo proiettile trapassò la fiancata del veicolo e colpì Sofia all’addome, mentre il secondo colpì Francesco Ferdinando al collo, dove non era protetto dal giubbetto antiproiettile che indossava. Princip sostenne in seguito che la sua intenzione era di uccidere il governatore generale Potiorek, e non Sofia. Entrambe le vittime rimasero sedute dritte sull’auto, ma morirono mentre venivano portate alla residenza del governatore per i primi soccorsi. Le ultime parole di Francesco Ferdinando dopo essere stato colpito vennero riportate da von Harrach come le seguenti

“Sofia cara, non morire! Resta in vita per i nostri figli!” (“Sopherl! Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unsere Kinder!”).10

Princip cercò di togliersi la vita, prima ingerendo cianuro, e quindi con la sua pistola, ma vomitò il veleno apparentemente inefficace, e la pistola gli venne strappata di mano dai passanti prima che avesse la possibilità di esplodere un altro colpo.

Delle rivolte anti-serbe scoppiarono a Sarajevo nelle ore successive all’assassinio, fino a quando non venne ristabilito militarmente l’ordine.

10

Fromkin, p. 157.

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CRISI DI LUGLIO

L’inizio

La notizia della morte dell’Arciduca fu accolta con molta freddezza in tutta Europa11. Il presidente francese Raymond Poincaré, raggiunto dalla notizia, non rinunciò alle corse di cavalli alle quali stava assistendo. In Austria, le idee antiungheresi dell’arciduca provocarono addirittura sollievo in alcuni ambienti tanto che a Vienna la folla scese in piazza a fare festa. A Londra, i mercati azionari aprirono al ribasso per poi recuperare alla constatazione che le altre borse europee tenevano bene. L’ambasciatore britannico a Roma riferì che la stampa italiana aveva ufficialmente condannato il crimine ma “la gente ha considerato quasi provvidenziale l’eliminazione del compianto arciduca

Ben diversa fu la reazione in Germania dell’Imperatore Guglielmo II, impegnato in quel momento in una regata velica, che sognava di creare un grande impero e di avere il destino dell’Europa nelle sue mani, quando, il 30 giugno, ricevette il telegramma con la notizia dell’attentato. Tuttavia l’indignazione per l’accaduto e i timori di una cospirazione serba ispirarono violente manifestazioni anti-serbe a Vienna e Berlino. Da Budapest il console generale britannico riferì:

“Un’ondata di odio cieco contro la Serbia e tutto ciò che è serbo si è abbattuta sul paese”13

Nei giorni successivi la tensione andò aumentando: il ministro degli esteri austriaco Leopold Berchtold e il capo di stato maggiore Conrad von Hotzendorf intravidero nell’attentato l’occasione per ridimensionare il potere della Serbia, anche se non avevano ancora ben chiaro se annetterla tutta o in parte, oppure 11 anche a causa dei numerosi assassini di monarchi e capi di stato avvenuti in quel periodo 12 D. Fromkin, pp. 160 163 13 M. Gilbert, p. 33

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12“ .

sconfiggerla con le armi ed esigere, anziché territori, un forte indennizzo. Francesco Giuseppe era invece titubante: temeva che l’attacco austriaco avrebbe coinvolto altre potenze, in particolare la Russia, la quale si sarebbe sentita costretta, in nome del panslavismo, ad accorrere in aiuto della Serbia. Altrettanto esitante era il Primo ministro ungherese Istvàn Tisza che vedeva nella guerra solo una pericolosa avventura dall’esito incerto. Dall’altra parte lo Zar Nicola II prometteva, tramite il fratello Alessandro, a Pietro I di Serbia non solo che la Russia avrebbe aiutato la Serbia stessa, ma anche che gli alleati della Russia sarebbero intervenuti in soccorso, sebbene Pietro I si mostrasse sempre contrario alla risoluzione armata.

5 - 6 Luglio L’assegno in bianco della Germania

Dopo la morte dell’arciduca la situazione diplomatica tra Vienna e Belgrado si fece sempre più tesa finché l’errata convinzione che Francia e Russia avrebbero esitato ad entrare in guerra in difesa la Serbia, condusse parte dei vertici di Germania e Austria-Ungheria a considerare seriamente, ai primi di luglio, la possibilità di punire e umiliare subito Belgrado.

Il 5 luglio Leopold Berchtold, incontrò a Berlino, il sottosegretario agli esteri tedesco. Durante l’incontro si parlò espressamente di guerra, di eliminare la Serbia dalla carta geografica e di dividerne le spoglie tra Austria – Ungheria, Impero Ottomano e Italia.

Nel frattempo a Potsdam, Ladislaus von Szögyény-Marich von MagyarSzögyén und Szolgaegyháza14, capo sezione presso il Ministero degli Esteri, consegnò a Guglielmo II una serie di documenti riservati.

Il primo era un cartiglio proveniente direttamente dalle segreteria del Primo Ministro Ungherese, István Tisza,15 scritto prima del 28 giugno, dal contenuto moderato ma a cui qualcuno aveva aggiunto una postilla in cui si esprimeva la necessità di annientare la Serbia. Il secondo era una lettera di Francesco Ferdinando in cui si esprimeva la speranza che l’eliminazione della Serbia avrebbe

14 Vienna, 12 novembre 1841 – Csòr 11 giugno 1916

15 Pest 22 aprile 1861 – Budapest 31 ottobre 1918

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dato il via a un lungo periodo di pace.

Durante la prima parte dell’incontro, Guglielmo II non si sbilanciò ma subito dopo, su pressione dell’ambasciatore austriaco, dichiarò che non si doveva rimandare un’azione militare contro la Serbia aggiungendo che anche se la Russia fosse ostile e che, se si fosse arrivati ad una guerra fra Austria e Russia, la Germania si sarebbe schierata al fianco dell’alleato e che, inoltre, la Russia non era pronta ad una guerra e avrebbe esitato molto prima di ricorrere alle armi ed era proprio questo il motivo per cui bisognava agire subito. Il giorno seguente, il 6 giugno 1914, la cancelleria tedesca spedì un telegramma al governo Austro – Ungarico, in cui si diceva che l’Austria doveva battere rapidamente la Serbia in modo da mettere l’Europa di fronte al fatto compiuto e che l’esercito tedesco sarebbe stato pronto ad aiutare l’alleato.

Questo fu il “cosiddetto assegno in bianco” del governo tedesco nei confronti di quello Austro - Ungarico. Ottenuto il consenso, anzi l’incitamento, della Germania ad attaccare la Serbia, il 7 luglio si riunirono gli otto membri del gabinetto di guerra austro-ungarico per esaminare la proposta di aiuto avanzata dal Kaiser Guglielmo II. Berchtold, che presiedeva la riunione, propose di attaccare immediatamente la Serbia, senza neppure dichiarare guerra, in modo da mettere l’Europa davanti al fatto compiuto.

Fra i componenti dell’esecutivo, l’orientamento prevalente era favorevole ad un intervento militare e a un ridimensionamento territoriale della Serbia, che sarebbe stata posta sotto controllo diretto dell’Austria. L’unico a protestare fu István Tisza che, il giorno successivo, inviò una lettera all’imperatore precisando che un intervento contro la Serbia avrebbe provocato una guerra mondiale e che avrebbe spinto non solo la Russia e i suoi alleati ma anche la Romania a schierarsi contro l’Austria. Secondo Tisza, Vienna avrebbe dovuto invece preparare un elenco di richieste accettabili che, se non fossero state soddisfatte dalla Serbia, avrebbero portato ad un ultimatum. Tisza aveva potere di veto e si mantenne sulla sua posizione per una settimana. Poi, nel timore che la Germania potesse abbandonare l’Austria, accettò l’idea intermedia di un ultimatum subito e si sarebbe passati alle armi solo in caso di rifiuto.

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Mentre le diplomazie di Germania e Austria – Ungheria lavoravano per preparare la guerra, a Londra il governo Liberale dubitava di un eventuale intervento austriaco; poiché alla Serbia non era stato consegnato ancora un ultimatum, la sensazione dell’imminenza di una crisi si stava infatti attenuandosi.

Invece, il desiderio dell’Austria di infliggere una punizione alla Serbia era ancora forte ed era sorretto dalla fiducia che la Germania avrebbe appoggiato un’azione di rappresaglia. L’Austria-Ungheria tuttavia, continuò a non poter agire, a causa di un congedo generale che era stato concesso per provvedere al raccolto agricolo con scadenza il 25 luglio e, secondo il capo di stato maggiore Austriaco Franz Conrad von Hötzendorf 16 , un annullamento del congedo risultava impossibile in quanto che avrebbe smascherato le intenzioni di Vienna. In suo aiuto giunse, il 19 luglio, il ministro degli esteri di Berlino, Gottlieb von Jagow, che fece pubblicare sul giornale Norddeutsche Allgemeine Zeitung una sua nota in cui diceva:

“ La composizione della disparità di vedute che potrebbero sorgere fra AustriaUngheria e Serbia deve restare una faccenda di carattere locale.”

Tre giorni dopo la Germania dichiarò che, in caso di un conflitto tra Austria e Serbia, si sarebbe astenuta dall’intervenire e chiese a tutte le potenze di fare altrettanto.

Quello stesso giorno, il 19 luglio, tutti i presenti alla seduta del Consiglio dei ministri austriaco, compreso il generale Conrad, erano consapevoli che la Serbia avrebbe respinto le condizioni e che il passo successivo sarebbe stato un attacco militare. Conrad era il più convinto assertore della guerra dalla quale si aspettava conquiste territoriali alla frontiera con la Bosnia. Nello stesso periodo il Presidente della Repubblica Francese, Poincaré, e il suo Presidente del Consiglio, René Viviani, erano partiti per un viaggio in Russia.

I capi delle due potenze alleate si sarebbero trovati quindi insieme il 21 luglio agevolati nel concertare una risposta alle eventuali mosse dell’Austria. Lo stes-

16 Penzing, 11 novembre 1852 – Bad Mergentheim, 25 agosto 1925

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Luglio Sfuma l’effetto sorpresa: l’ottimismo britannico

so giorno Francesco Giuseppe diede il proprio assenso alle condizioni dell’ultimatum e, il giorno seguente, il ministro degli esteri russo, Sergej Dmitrievic Sazonov, cominciò a mettere in guardia l’Austria dal prendere misure drastiche, anche se il monito non accennava a ritorsioni militari.

Per non fornire questo vantaggio, informato del ritorno a Parigi della delegazione francese, Berchtold programmò di presentare alla Serbia l’ultimatum il 23 luglio con scadenza il 25 luglio.

Il 23 luglio, il Cancelliere dello Scacchiere David Lloyd George annunciò alla Camera dei Comuni che non ci sarebbero stati problemi tra le nazioni a risolvere le difficoltà attraverso qualche sana e ben congegnata forma di arbitrato osservando inoltre che le relazioni tra Inghilterra e Germania erano le migliori degli ultimi anni.

23 luglio L’ultimatum austriaco alla Serbia

Ottenuto anche il consenso di Francesco Giuseppe, nel pomeriggio del 23 luglio 1914, l’ambasciatore austriaco a Belgrado, il barone Wladimir Giesl Freiherr von Gieslingen, consegnò al governo serbo l’ultimatum dell’Austria rimanendo in attesa della risposta che doveva arrivare non oltre le 18:00 del 25 luglio. Dopo una lunga premessa nella quale l’Austria accusava la Serbia di aver disatteso la dichiarazione d’intenti rivolta alle grandi potenze alla fine della crisi bosniaca, il governo di Vienna intimava a quello di Belgrado di far pubblicare sulla “Rivista ufficiale” serba del 26 luglio il testo completo dell’ultimatum. L’ultimatum impegnava la Serbia a condannare la propaganda anti-austriaca, a riconoscere la complicità di funzionari e ufficiali serbi nell’attentato di Sarajevo e impegnava Belgrado a perseguire, per il futuro, con il massimo rigore tali macchinazioni: Il governo serbo si doveva impegnare a rispettare dieci punti:

1. A Sopprimere qualsiasi pubblicazione che inciti all’odio e al disprezzo nei confronti della monarchia austro – ungarica.

13

2. A sciogliere la società Narodna Odbrana e a confiscarne tutti i mezzi di propaganda nonché a procedere in ugual modo contro altre società e loro branche in Serbia coinvolte in attività di propaganda contro la monarchia austro-ungarica.

3. A eliminare senza ulteriore indugio dalla pubblica istruzione del proprio paese qualunque cosa induca o potrebbe indurre a fomentare la propaganda contro l’Austria-Ungheria.

4. A espellere dall’apparato militare e dalla pubblica amministrazione tutti gli ufficiali e i funzionari colpevoli di propaganda contro la monarchia austroungarica i cui nomi e le cui azioni il governo austro-ungarico si riserva il diritto di comunicare al Regio governo serbo.

5. Ad accettare la collaborazione in Serbia di rappresentanti del governo austroungarico per la soppressione del movimento sovversivo diretto contro l’integrità territoriale della monarchia austro-ungarica.

6. Ad adottare misure giudiziarie contro i complici del complotto del 28 giugno che si trovano sul territorio serbo; delegati del governo austro-ungarico prenderanno parte all’indagine a ciò attinente.

7. A provvedere con la massima urgenza all’arresto del maggiore Voijslav Tankosic e di un funzionario serbo a nome Milan Ciganovic, che i risultati delle indagini dimostrano coinvolti nella cospirazione.

8. A prevenire con misure efficaci la cooperazione delle autorità serbe al traffico illecito di armi ed esplosivi oltre frontiera, a licenziare e punire severamente i funzionari dell’ufficio doganale di Schabatz e Loznica, rei di avere assistito i preparatori del crimine di Sarajevo agevolandone il passaggio oltre frontiera.

9. A fornire all’Imperial regio governo [austro-ungarico] spiegazioni in merito alle ingiustificate espressioni di alti ufficiali serbi i quali non hanno esitato sin dal crimine del 28 giugno a esprimersi pubblicamente in termini ostili nei confronti del governo austro-ungarico.

10. A notificare senza indugio all’Imperial regio governo austro-ungarico l’adozione delle misure previste nei precedenti punti” 17

17 copia del documento ufficiale da Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: “Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all’attentato di Sarajevo”, vol. II: “La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria Ungheria.”, vol. III: “L’epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità.”), Milano, Fratelli Bocca, 1942

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23 - 27 luglio Le reazioni all’ultimatum

austriaco

Quando il testo dell’ultimatum Austriaco venne reso noto ci furono varie reazioni tra i vari governi.

A Londra il primo ministro lo definì “il documento più duro che uno Stato abbia mai indirizzato ad un altro Stato” e ingenuamente chiese il sostegno tedesco per un rinvio dei termini proponendo che Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia facessero da mediatori della crisi.

Un’azione analoga fu intrapresa dal ministro degli esteri russo Sergej Dmitrievic Sazonov il cui ambasciatore a Vienna ricevette, il 24 luglio, l’assicurazione da Berchtold che l’Austria-Ungheria non si proponeva “alcuna acquisizione territoriale”.

Come i governi di Vienna e Berlino avevano calcolato, la Francia non poté reagire adeguatamente all’ultimatum. Il presidente Poincaré e il Primo ministro, nonché ministro degli esteri, René Viviani erano infatti ancora in navigazione nel viaggio di ritorno da San Pietroburgo. Nel frattempo Pietro I di Serbia aveva abbicato in favore di suo figlio Aleksandar Karađorđević il quale ricevuta la corona si recò all’ambasciata russa a Belgrado

ad esprimere la sua disperazione per l’ultimatum, al quale egli non vedi possibilità di aderire interamente per uno Stato che abbia un minimo di dignità In previsione del precipitare degli eventi, Berchtold fece comunicare, la sera del 24 luglio, al ministro degli esteri britannico Edward Grey che la nota austriaca non costituiva un ultimatum vero e proprio e che, in caso di insoddisfazione dell’Austria-Ungheria alla risposta serba, ci sarebbe stata la rottura delle relazioni diplomatiche e l’inizio dei preparativi militari.

Venuta a conoscenza delle intenzioni dilatorie di Berchtold, la Germania si mosse e richiamò l’ambasciatore austriaco Szogyeny - March a Berlino. Questi, tornato a Vienna il 25, riferì a Berchtold che, di fronte a un rifiuto dell’ultimatum della Serbia, la Germania si aspettava l’immediata dichiarazione

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1943

di guerra dell’Austria e l’inizio delle operazioni militari, poiché in ogni ritardo dell’ inizio delle ostilità si ravvisava il grave pericolo di ingerenza di altre potenze.

La risposta Serba

Il Primo ministro serbo Nikola Pašić e i suoi colleghi lavorarono giorno e notte, indecisi tra l’accettazione passiva dell’ultimatum e la tentazione di aggiungere condizioni o riserve che potessero consentire di sfuggire alle richieste di Vienna. Il documento finale, che a causa di un guasto alla macchina da scrivere fu ricopiato a mano, sembrò più simile ad una brutta copia che ad una risposta diplomatica ufficiale.

Nessuna riserva fu fatta dal governo di Belgrado ai punti 8) e 10); i punti 1), 2) e 3) vennero parzialmente accettati; ma le risposte date ai punti 4), 5) e 9) erano concepite di modo da eludere le domande dell’ultimatum. Quanto al punto 7) i serbi risposero che non era stato possibile procedere all’arresto di Milan Ciganović, ufficialmente scappato in una località sconosciuta mentre in realtà era stato fatto allontanare proprio dalle autorità serbe. Negativa, infine, la risposta al punto 6), la partecipazione cioè del governo austroungarico alle investigazioni sull’attentato del 28 giugno. Tale richiesta, oltre ad essere lesiva della sovranità della Serbia, presentava il pericolo che si facesse piena luce sull’attività della società “Mano Nera” e dei legami tra i suoi temuti dirigenti e il governo. Il governo Serbo temendo una minaccia alle ore 15 del 25 luglio mobilitò l’esercito e tre ore dopo alle 18 meno due minuti (a due minuti dalla scadenza dell’ultimatum), il Primo ministro Pašić consegnò la risposta serba all’ambasciatore austriaco, il generale von Gieslingen, dicendo: Abbiamo accettato parte delle domande … per il resto ci rimettiamo alla lealtà ed alla cavalleria del generale austriaco Egli lesse, da solo e in fretta, il documento e, constatato che non rispondeva alle esigenze fissate da Berchtold, firmò la nota già preparata per l’evenienza facendola recapitare a Pašić, in cui si diceva che, essendo spirato il termine delle richieste e non avendo ricevuto una risposta soddisfacente, egli abbandonava

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Belgrado quella sera stessa con tutto il personale della legazione18

La proposta britannica di una conferenza

Nonostante la crisi internazionale il governo londinese era convinto che questa situazione non fosse troppo grave.

Il 26 luglio 1914 il sottosegretario agli esteri Sir Arthur Nicolson telegrafò al ministro degli esteri Edward Grey, che stava trascorrendo il week-end in campagna, per suggerirgli di proporre alle potenze una conferenza durante la quale Austria, Serbia e Russia non avrebbero dovuto intraprendere operazioni militari.

Grey si affrettò a telegrafare la sua adesione all’idea di Nicolson e, alle 15 dello stesso 26 luglio, con un telegramma diretto agli ambasciatori inglesi presso le grandi potenze e la Serbia si proponeva una conferenza a Londra tra i rappresentanti di Parigi, Roma e Berlino.

Il giorno successivo, tuttavia, il Ministero della Guerra britannico diede istruzioni al generale Shmith – Dorrien di presidiare tutti i punti vulnerabili nel sud del paese con l’ordine di prepararsi sia a subire sia a lanciare un’offensiva.

Le risposte alla proposta alla proposta inglese furono piuttosto fredde: il Cancelliere tedesco, temendo una sconfitta diplomatica, non volle aderire in quanto sapeva bene che la Germania non sarebbe riuscita ad ottenere quello che desiderava, cioè l’assenso ad un attacco alla Serbia che riabilitasse il prestigio austriaco.

L’Italia aderì invece alla proposta, la Francia tentennò fra il compiacere l’ambasciatore tedesco e l’agire direttamente sulla Russia una volta stabilita l’intenzione dell’Austria-Ungheria a non effettuare annessioni, San Pietroburgo prese tempo.

In buona sostanza la proposta di Grey fallì ma allarmò la Germania per la piega moderata che poteva prendere la crisi e il governo tedesco iniziò le sue pressioni sul quello Austriaco. Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e Regno di

gesto che voleva dire guerra

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Serbia, il governo tedesco, coerentemente con quanto stabilito il giorno precedente, il 26 luglio reclamò d’urgenza all’Austria la dichiarazione di guerra e l’inizio delle operazioni militari.

Ciò allo scopo di scongiurare pressioni in senso contrario: bisognava cioè evitare che la crisi venisse risolta prima che le forze austriache fossero riuscite a occupare Belgrado.

Il timore del ministro degli esteri tedesco Jagow era che, con lusinghe o con minacce, le altre potenze sarebbero potute intervenire e imporre una soluzione pacifica a Vienna.

Ancora sollecitato, il ministro austriaco Berchtold fece pressione sul capo di stato maggiore Conrad che sostenne di non essere pronto. Alla domanda su quando avrebbe potuto dichiarare guerra alla Serbia, Conrad fece notare che l’esercito non era ancora pronto ad agire, Berchtold rispose che la situazione diplomatica non avrebbe retto tanto a lungo e Conrad replicò che sarebbe stato necessario aspettare almeno fino al 4 o al 5 agosto e Berchtold fece presente che ormai la miccia era stata innescata.

28 giugno 1914 L’Austria dichiara guerra alla Serbia

Nonostante il parere negativo del capo di stato maggiore Conrad, il governo austriaco il 28 luglio ordinò la mobilitazione parziale, esclusivamente diretta contro la Serbia. Risoluto ormai ad entrare in guerra al più presto, anche grazie alle promesse del governo tedesco che aveva assicurato il suo appoggio incondizionato, il governo austriaco si trovò nella necessità di chiedere l’autorizzazione a Francesco Giuseppe. In un’istanza di Leopold Berchtold all’imperatore del 27 luglio, si osservò che la risposta serba, per quanto inutile nella sostanza, era stata redatta in modo conciliante e poteva suggerire all’Europa tentativi di soluzione pacifica se non si creava subito una situazione netta. Nel documento si fingeva anche la circostanza che truppe serbe, da piroscafi sul Danubio, avessero sparato su truppe austro-ungariche, e occorreva dare all’esercito quella libertà d’azione che era possibile solo in stato di guerra.

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Francesco Giuseppe accolse l’istanza di Berchtold e ,alle ore 12 del 28 luglio, un telegramma con la dichiarazione di guerra partì per Belgrado. L’Austria dichiarò ufficialmente guerra alla Serbia, confidando nell’appoggio tedesco nel caso in cui il conflitto si fosse esteso.

Era iniziata la prima guerra mondiale, ma non molti se ne resero conto.

29 - 30 luglio Lo Zar mobilita le truppe

La sera del 28 luglio lo Zar Nicola II fu informato della mobilitazione austriaca e tramite il ministro degli esteri comunicò alla sua ambasciata che il giorno seguente avrebbe ordinato la mobilitazione generale nei distretti di Odessa, Kiev, Mosca e Kazan, tutti confinanti con l’Impero Austro – Ungarico.

Il 29 luglio, mentre l’artiglieria austriaca teneva sotto tiro le fortificazioni Serbe, l’Impero Russo chiamò alle armi quasi sei milioni di uomini, una minima parte delle sue enormi riserve di uomini.

Lo stesso giorno l’ambasciatore tedesco a San Pietroburgo fece notare che la continuazione delle misure di mobilitazione russa avrebbe obbligato la Germania alla mobilitazione e che in questo caso sarebbe stato quasi impossibile impedire una guerra europea. Contemporaneamente, a Potsdam, si teneva una riunione fra Guglielmo II e alcuni suoi alti ufficiali e funzionari, ancora ignari della mobilitazione parziale russa, si discusse sulla situazione e il Kaiser rifiutò una proposta del Cancelliere Bethmann di offrire forti limitazioni della flotta tedesca in cambio della promessa di neutralità della Gran Bretagna. Rientrato nel suo ufficio, piuttosto avvilito, Bethmann trovò anche la notizia della mobilitazione russa.

Ad aggravare la posizione del Cancelliere, la sera stessa del 29, giunse a Berlino un telegramma dell’ambasciatore tedesco a Londra che informava che il ministro Edward Grey aveva affermato che se la Francia fosse stata coinvolta nella guerra la Gran Bretagna non sarebbe rimasta neutrale.

A questo punto il Cancelliere si rese conto che il gioco stava diventando troppo pericoloso e, coerentemente con il volere di Guglielmo II, nella notte fra il 29 e il

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30, telegrafò al suo ambasciatore in Austria ordinandogli, praticamente, un dietro front:

Noi siamo pronti ad adempiere ai nostri obblighi di alleanza, ma dobbiamo rifiutare di lasciarci trascinare da Vienna, con leggerezza e senza che i nostri consigli siano ascoltati, in una conflagrazione generale 19 La mobilitazione generale russa, non era ancora operativa, ma si attivò non appena a San Pietroburgo si diffuse la notizia del bombardamento austriaco di Belgrado effettuato lo stesso giorno dalle chiatte sul Danubio. Nicola II, spaventato da un possibile conflitto con la Germania, si appellò direttamente al Kaiser tramite gli ambasciatori ottenendo la promessa, falsa, che la Germania avrebbe fatto di tutto per evitare la guerra. Nel tardo pomeriggio del 29 luglio, confortato dal telegramma del Kaiser, Nicola II inviò ai capi di stato maggiore l’ordine di evitare la mobilitazione generale e di dare corso soltanto a quella parziale. Successivamente lo Zar ricevette un altro telegramma di Guglielmo II che invitava la Russia a restare “spettatrice del conflitto austro-serbo” e offrendosi come mediatore fra Russia e Austria. La proposta di moderazione convinse lo Zar tanto che alle 21:30 diede ordine di sospendere la mobilitazione parziale ma il capo di stato maggiore Januškević lo avvertì che ormai era troppo tardi per fare marcia indietro: il meccanismo era già in moto in tutto l’impero, anche Guglielmo II si trovò nella stessa situazione. Il 30, allorché giunse a San Pietroburgo voce che la Germania era in premobilitazione, lo Zar ricevette pesanti pressioni dal ministro della Guerra e dal ministro Sazonov per la firma dell’ordine di mobilitazione generale; Nicola II esitò, fin quando, convintosi della minaccia di un imminente attacco tedesco, si decise e alle 16 del 30 luglio lo Zar firmò l’ordine di mobilitazione generale, da attivarsi per il giorno seguente, 31 luglio. L’opinione pubblica russa era favorevole alla totale solidarietà verso gli slavi della Serbia e le speranze russe di servirsi della mobilitazione non per muovere guerra ma bensì come deterrente si dimostrarono illusorie.

p.3

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L. Albertini, Vol. III,

- 31 luglio

La mobilitazione generale austriaca

L’atteggiamento bellicoso della Russia influì sul capo di stato maggiore tedesco Helmuth Johann Ludwig Moltke, il quale travalicò le intenzioni del Kaiser e quelle del Cancelliere. Moltke, infatti, in assoluto contrasto con il messaggio di Bethmann della notte tra il 29 e il 30, inviò, fra il pomeriggio e la notte del 30, al suo omologo austriaco Conrad due telegrammi nei quali invitava a non fermare la mobilitazione, promettendo che l’esercito tedesco si sarebbe mosso verso la Russia e la diplomazia tedesca avrebbe convinto il governo italiano ad agire.

Quando la mattina del 31 luglio Berchtold lesse i due telegrammi di Moltke, confrontandoli con quello del giorno prima di Bethmann, credete che in Germania il generale contasse più di chiunque altro.

Quindi riunitosi con i suoi collaboratori decise che si poteva sottoporre all’imperatore l’ordine di mobilitazione generale.

Francesco Giuseppe firmò l’atto che pervenne al ministero della Guerra alle 12:23 del 31 luglio 1914.

La Germania in guerra

La notizia della mobilitazione russa fece il gioco dello stato maggiore tedesco che poté vincere ogni reticenza alla guerra. Moltke dichiarò lo “stato di pericolo di guerra” e che la mobilitazione non sarebbe rientrata se la Russia avesse rifiutato l’ultimatum.

Bethmann comunicò il 31 luglio a Londra, San Pietroburgo, Parigi e Roma che in Germania era stato proclamato lo “stato di pericolo di guerra” e aggiunse che la mobilitazione tedesca sarebbe proseguita solo se la Russia non avesse revocato la sua.

A questo punto la situazione comportava per i tedeschi una guerra sia con la Russia sia con la Francia in quanto la Germania doveva, infatti, tenere conto dell’alleanza franco–russa stipulata nel 1894.

Se in virtù di questa alleanza la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale

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bellico e avesse dichiarato guerra alla Germania mentre le armate tedesche avanzavano in Russia, la Germania avrebbe corso il rischio di trovarsi in difficoltà, se non addirittura sconfitta ad ovest.

Per scongiurare questa eventualità nel 1904, l’allora capo di stato maggiore tedesco Alfred von Schlieffen20, aveva ideato l’omonimo piano atto a sconfiggere la Francia che prevedeva una rapida guerra attraverso il Belgio per poi rivolgere tutte le forze contro la Russia, nel frattempo impegnata nella lenta e macchinosa mobilitazione, la Germania avrebbe così evitato una logorante e pericolosa guerra su due fronti.

Per riuscire a ritardare le operazioni belliche nemiche il governo Tedesco mandò degli ultimatum al governo Russo, pregandolo di fermare la mobilitazione e di limitarsi a osservare lo scontro tra Serbia e Austria, e a quello Francese, in cui la Germania spiegava al governo francese che la situazione di tensione tra Russia, Austria, Serbia e Germania non avrebbe in nessun modo minacciato il governo di Parigi.

1° Agosto 1914 La Germania dichiara guerra alla Russia

Alle 15:52 del 1° agosto 1914, 52 minuti dopo la scadenza dell’ultimatum alla Russia, vedendo che questa non accennava al blocco della mobilitazione, da Berlino fu inviato all’ambasciatore a San Pietroburgo il testo della dichiarazione di guerra con l’incarico di consegnarlo al governo Russo, in caso di una risposta non soddisfacente, alle 17 dello stesso giorno.

Alle 16 il ministro della guerra, visto il silenzio del governo russo, sollecitò il cancelliere a portare all’imperatore l’ordine di mobilitazione generale per la firma ufficiale.

Alle 17:01 il Kaiser firmò la dichiarazione di guerra e alle 19 l’ambasciatore Pourtalès, dopo che la dichiarazione di guerra gli era pervenuta alle 17:45, si recò a consegnarla al ministro Sergej Dmitrievic Sazonov. Incontrato Sazonov, gli domandò se il governo russo fosse pronto a dare una risposta soddisfacente all’ultimatum. Alla risposta negativa dell ministro degli 20 Berlino, 28 febbraio 1833 – Berlino, 4 gennaio 1913

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esteri Pourtalès ripeté la domanda rilevando le gravi conseguenze che sarebbero derivate dal non tener conto dell’ingiunzione tedesca. Sazonov rispose come prima21. Allora, l’ambasciatore, traendo di tasca un foglio piegato, ripeté per la terza volta con voce tremante la domanda. Sazonov disse che non aveva nulla da aggiungere. Profondamente sconvolto Pourtalès disse con visibile sforzo: In questo caso sono incaricato dal mio governo di rimettervi la nota seguente22 e con mano esitante tese la dichiarazione di guerra al ministro russo. Dopo di che l’ambasciatore perse ogni dominio di sé e, avvicinandosi ad una finestra, scoppiò in lacrime, prima di abbandonare con passo mal fermo l’ufficio di Sazonov che lo salutò con il cuore in gola.

3 agosto La Germania dichiara guerra alla Francia

A Parigi, lo stesso 1º agosto, l’ambasciatore tedesco Schoen si recò da Viviani per conoscere la decisione riguardo all’ultimatum tedesco sull’eventuale neutralità francese, consegnato la sera prima. Disorientando il diplomatico tedesco, Viviani rispose che la Francia avrebbe salvaguardato i propri interessi e la stessa risposta fu data dal Presidente del Consiglio francese. Nel pomeriggio, su pressante richiesta del capo di stato maggiore francese e su disposizione del Consiglio dei ministri, alle 15:55, i telegrammi predisposti per l’occasione vennero consegnati e spediti in tutta la Francia, recanti l’ordine di prepararsi alla mobilitazione per il 2 agosto. A Berlino, ancora il 1º agosto, appena emanato l’ordine di mobilitazione generale tedesca, un messaggio da Londra (giunto poco più di un’ora prima) dell’ambasciatore tedesco illuse la Germania che, se non avesse attaccato la Francia, questa non si sarebbe mossa a difendere la Russia. Guglielmo e i suoi collaboratori erano euforici, la Germania avrebbe combattuto

21 cerimoniale diplomatico 22 L. Albertini, Vol. III, p.178

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solo contro la Russia. Moltke, invece, si trovò in difficoltà, perché i piani militari tedeschi prevedevano solo una guerra con entrambe le potenze; infatti il Piano Schlieffen, come abbiamo visto, prevedeva innanzi tutto un attacco condotto con forze terresti alla Francia.

Quando arrivò la smentita da re Giorgio V riguardante la neutralità inglese e quella francese, Moltke, sentito Guglielmo II, dette l’ordine di invadere il Lussemburgo.

Il 2 agosto l’intera marina militare britannica venne mobilitata e il governo inglese promise a quello francese che in caso di attacco navale tedesco la flotta inglese avrebbe fornito tutto l’appoggio possibile.

Ma i piani bellici tedeschi non puntavano ad una vittoria navale nel Mare del Nord o nella Manica, bensì ad una rapida marcia attraverso il Belgio. Per raggiungere questo obiettivo alle 19 del 2 agosto la Germania inviò un ultimatum al governo di Bruxelles, concedendogli dodici ore di tempo per acconsentire al transito alle truppe tedesche. I belgi rifiutarono in riferimento al trattato dei

XVIII23 articoli del 26 giugno 1831 che imponeva al Belgio la “perpetua neutralità” garantita dalle grandi potenze e che era ancora in vigore.

Nonostante gli Stati Maggiori di Germania e Francia non desiderassero sconfinamenti o incidenti alla frontiera comune, almeno finché non fosse stato dato inizio ufficialmente alle ostilità, è stato recentemente accertato24 che l’ordine di astenersi da ogni atto ostile sia stato rispettato, fra il 1º e il 3 agosto, più sulle linee francesi che su quelle opposte e che i tedeschi, desiderosi di considerarsi aggrediti dalla Francia, si spesero in proteste più esagerate e infondate di quelle francesi; tanto che per due anni il popolo tedesco credette che, in quei giorni, aerei francesi avevano tentato di lanciare bombe su Norimberga.

Il 4 agosto l’ambasciatore di Berlino a Parigi, Schoen, a cui era stato ordinato di consegnare la dichiarazione di guerra per le 18, si mosse in automobile verso le 18:15.

Prima l’uno poi l’altro esagitato si lanciarono sulla vettura apostrofando il diplomatico tedesco violentemente. Tre agenti francesi accorsero in aiuto di

23 era la denominazione convenzionale, non ufficiale, del piano strategico di operazioni adottato dallo stato maggiore francese nel 1913, da attuarsi in caso di una guerra tra Francia e Germania 24 grazie all’apertura pubblica degli archivi militari

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Schoen che, così, arrivò illeso al Quai d’Orsay, il palazzo del Ministero degli esteri francese. L’ambasciatore tedesco Schoen, tratta di tasca la dichiarazione preparata in forma di lettera, ne diede lettura al Presidente del consiglio e ministro degli esteri, René Viviani. Dopo la lettura del documento con cui la Germania accusava la Francia di sconfinamenti militari, Viviani protestò sostenendo che mentre la Francia aveva tenuto le sue truppe a dieci chilometri dal confine pattuglie tedesche erano entrate in Francia. Schoen rispose di non saperne nulla e non avendo i due uomini altro da dirsi, Viviani accompagnò fino all’automobile l’ambasciatore che, fatto un profondo saluto, partì.

La Gran Bretagna in Guerra

Il 1º agosto, a Londra, autorizzato dal suo governo, il ministro degli esteri Edward Grey ammonì l’ambasciatore tedesco Lichnowsky che una violazione della neutralità del Belgio avrebbe portato, molto probabilmente, la Gran Bretagna ad intervenire nel conflitto.

Ciononostante, il giorno dopo, il 2 agosto, il Belgio ricevette l’ultimatum da parte della Germania la quale, per l’attuazione del piano Schlieffen, necessitava di attraversare il territorio belga per attaccare la Francia. Appreso il rifiuto del Belgio a rimanere neutrale di fronte all’avanzata tedesca, Grey alle 14 del 4 agosto inviò al suo ambasciatore a Berlino Edward Goschen un ultimatum da inoltrare alla Germania in cui si minacciava un intervento armato se la Germania non avesse fatto pervenire entro la mezzanotte (ore 23 di Londra) l’assicurazione di rispettare la neutralità del Belgio. Il governo tedesco si accorse di non avere nessuna possibilità di scelta; il suo piano globale di guerra era già in atto, e il 3 agosto durante una seduta del gabinetto prussiano a Berlino, Bethmann-Hollweg anticipò ai colleghi che l’entrata in guerra della Gran Bretagna era inevitabile. Sfortunatamente la fiducia che l’alto comando tedesco riponeva nel proprio esercito era assoluta, tanto che il giorno precedente, prima ancora che la Germania invadesse il Belgio, le truppe

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tedesche superarono la frontiera e occuparono tre città della Polonia russa. Quando verso le 19 del 4 agosto, l’ambasciatore inglese Goschen si recò dal ministro degli esteri tedesco Jagow per presentargli l’ultimatum, questi gli disse di non poter rispondere se non con un no, ma che a prescindere dalla risposta, le truppe tedesche erano già in Belgio. L’ambasciatore chiese allora i passaporti e passò a prendere congedo dal Cancelliere Bethmann-Hollweg, certo che ormai la guerra fosse inevitabile.

Questi gli tenne un infervorato discorso e, riferito al trattato che assicurava la neutralità del Belgio dal 1839, gli disse che la Gran Bretagna aveva preso una decisione terribile solo per la parola “neutralità”, solo per un “pezzo di carta” per il quale si accingeva ad attaccare una nazione consanguinea che desiderava esserle amica. Bethmann disse a Goschen che era come colpire alle spalle chi lottava per la sua vita contro due aggressori e che rigettava sull’Inghilterra la responsabilità dei terribili eventi cui si poteva andare incontro.

Goschen difese la validità della scelta britannica ma poi ebbe un crollo psicologico e scoppiò in lacrime. Prima di congedarsi completamente da Bethmann, gli chiese il permesso di trattenersi qualche minuto nella sua anticamera per non farsi vedere in quello stato dal personale della Cancelleria.

Alle ore 23:05 dello stesso 4 agosto, trascorsi i termini dell’ultimatum, un giovane funzionario del ministero degli esteri consegnò all’ambasciatore tedesco a Londra, Lichnowsky, che era già andato a letto, la stesura definitiva della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania. Diffusasi la notizia, davanti all’ambasciata britannica a Berlino si radunò immediatamente una gran folla, che cominciò a tirare sassi contro i vetri dell’edificio e lanciare insulti, La mattina seguente un emissario del Kaiser, che era venuto a porgere le scuse per gli incidenti, non seppe resistere alla tentazione di far osservare all’ambasciatore inglese Goschen che le proteste erano la spia di quanto sia il risentimento che l’Inghilterra ha suscitato tra la popolazione schierandosi contro la Germania, dimenticando che noi abbiamo combattuto

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fianco a fianco a Waterlo.25

Goschen e i suoi collaboratori si prepararono a lasciare Berlino mentre Sir Edward Grey, che aveva tentato di evitare che l’Austria-Ungheria invadesse la Serbia ma, insieme al suo governo, si era rifiutato di dare garanzie formali alla Francia, si schierò ora a favore della guerra contro la Germania rifacendosi a considerazioni molto più ampie che non la semplice violazione della neutralità belga.

L’ITALIA NELLA CRISI

Il silenzio degli alleati. Dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all’oscuro delle loro decisioni l’Italia perché l’articolo 7 della Triplice alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco dell’Austria-Ungheria alla Serbia, compensi per l’Italia26 .

Il 3 luglio, Berchtold, infatti, stabilì che si dovesse tacere al marchese Antonio di San Giuliano, ministro degli esteri italiano, le bellicose intenzioni dell’AustriaUngheria. San Giuliano, infatti, avrebbe immediatamente sollevato la questione dei compensi per l’Italia.

Il ministro degli esteri tedesco Jagow, d’altronde, riconobbe in una lettera al suo ambasciatore a Vienna Tschirschky, del 15 luglio, che l’Italia aveva diritto sia a rimanere neutrale di fronte ad una guerra austro-serba, sia, qualora fosse intervenuta attivamente, ad essere ricompensata se l’Austria-Ungheria avesse acquisito, anche solo temporaneamente, territori nei Balcani.

Berchtold, invece, guardava con sufficienza all’Italia, che per lui era in una situazione militare e politica così precaria, a causa degli strascichi della guerra di Libia, da non essere pronta per un intervento attivo. Tuttavia, il ministro austriaco considerò eccessivo tenere completamente all’oscuro l’alleata e il 22 luglio, il giorno prima della consegna dell’ultimatum alla Serbia, Berchtold fece in modo che il suo ambasciatore a Roma, incontrasse San Giuliano. Quest’ultimo fu così informato che una guerra austro-serba era imminente, ma non gli furono 25 M. Gilbert, p. 51 26 Sia territoriali sia economici

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comunicate le pesanti condizioni poste a Belgrado. San Giuliano rispose che l’unica preoccupazione dell’Italia concerneva le questioni territoriali e che nel caso l’Austria-Ungheria avesse turbato l’equilibrio in Adriatico, avrebbe dovuto compensare l’Italia. Qualche giorno dopo il suo atteggiamento cambiò. Il 24 luglio, infatti, San Giuliano prese visione dei particolari dell’ultimatum e protestò violentemente con l’ambasciatore tedesco a Roma alla presenza del presidente del Consiglio Antonio Salandra, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna. L’Italia pertanto secondo il ministro non aveva l’obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l’Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia. Dopo la sfuriata di San Giuliano, però, Flotow fece capire che, qualora l’Italia avesse assunto un atteggiamento benevolo verso Vienna, dalla vicenda avrebbe potuto i ottenere compensi territoriali tanto attesi.

La dichiarazione della neutralità

Con la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia del 28 luglio 1914, per l’Italia si pose il problema di decidere o meno sulla neutralità contemplata dal trattato della Triplice, il quale all’articolo 4 prevedeva che in caso una delle potenze firmatarie avesse attaccato un paese terzo, le altre due alleate avevano il diritto di rimanere neutrali27 . Il 27 luglio, il ministro della Guerra fece sapere a Salandra che l’esercito Italiano era del tutto impreparato ad una guerra su vasta scala, mentre solo due giorni dopo San Giuliano dava già per scontato l’intervento della Gran Bretagna a fianco della Francia. Gli indizi che determinarono in lui questa convinzione, primo fra tutti i risultati del colloquio con l’ambasciatore britannico del 28 luglio, portarono il ministro degli esteri alla determinazione di non far entrare l’Italia in guerra a fianco dell’Austria e della Germania. Per San Giuliano, infatti, la potenza navale anglo-francese avrebbe posto le città costiere della penisola

1. 27 Articolo molto interpretativo

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in serio pericolo e tagliato le comunicazioni con le colonie, che così sarebbero state perdute. L’occasione per cominciare a diffondere all’estero la decisione della neutralità si presentò a San Giuliano il 31 luglio 1914, quando ne fece partecipe il Consiglio dei ministri. In questa occasione il ministro degli esteri spiegò che la Triplice alleanza non andava sconfessata, ma che bisognava rimanere neutrali in considerazione sia dell’avversione del popolo per una guerra a fianco dell’Austria, sia del quasi certo intervento della Gran Bretagna a favore dell’alleanza francorussa, sia delle precarie condizioni dell’esercito.

Solo a questo punto Berchtold, il 1º agosto, dichiarò di accettare l’interpretazione data dall’Italia e dalla Germania all’articolo 7 del trattato della Triplice, ma ancora senza parlare chiaramente di compensi. Sorpresi dalla decisione della neutralità, l’ambasciatore a Berlino Bollati, e quello a Vienna, Avarna, protestarono chiedendo di far entrare in guerra l’Italia al fianco degli alleati. San Giuliano rispose loro il 2 agosto non solo con le argomentazioni appena esposte, ma anche con la considerazione che l’Italia non avrebbe avuto alcun vero vantaggio in caso di vittoria, in quanto l’ambasciatore austriaco Mérey aveva sempre escluso che eventuali compensi avrebbero potuto comprendere “le province italiane dell’Austria”. La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3 mattina.

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Capitolo 2

I FRONTI

Le principali operazioni militari sullo scacchiere di guerra

La grande guerra, pur imperversando in tutto il mondo, vide gli esercite dei due schieramenti la Triple Intesa (Francia, Impero Britannico e Impero Russo fino al 1917 e dal 1915 anche il regno D’Italia e dal 1917 Stati Uniti D’America) da una parte e dall’altra gli imperi Centrali (Impero Tedesco, Impero Austroungarico e Impero Ottomano) scontrarsi su tre principali fronti: quello Occidentale che andava dal canale della Manica fino al confine della neutrale Svizzera, il lunghissimo Fronte Orientale che andava dal Mare del Nord fino al Mar Nero e il vasto Fronte Marittimo (a livello Militare il Fronte Italo-Austriaco era un fronte secondario), in ognuno dei quali i contendenti cercarono di prevalere con ogni mezzo.

Fronte Occidentale

Premesse

Il teatro più sanguinoso e violento di tutta la guerra fu senza dubbio il fronte Occidentale dove gli eserciti Prussiani e le truppe alleate si scontrarono senza esclusione di colpi e con una ferocia inaudita28 .

L’inizio delle operazioni

Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco, in conseguenza alla mobilitazione generale russa, il 31 luglio, dichiarò guerra alla Russia e alla Francia mobilitando le proprie truppe a oriente e occidente. Se la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale bellico e dichiarato guerra proprio mentre le armate tedesche avanzavano ad oriente, la Germania avrebbe corso il rischio di trovarsi in serie difficoltà. In ot-

proprio qui saranno sperimentate le nuove macchine e tecnologie belliche

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temperanza al piano Schlieffen, la strategia tedesca mirava a sconfiggere con una “guerra lampo” la Francia e, confidando nella lenta e pesante macchina bellica russa, rivolgere poi tutte le proprie forze ad oriente.

Il piano, ideato dal generale Alfred von Schlieffen e da cui prese il nome di “Piano Schlieffen”, e completato nel 1905, prevedeva che la Francia fosse attaccata da nord attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, così da evitare la lunga linea fortificata alla frontiera francese e consentire all’esercito tedesco di calare su Parigi con un’unica grande offensiva. Schlieffen anche dopo essersi ritirato dall’esercito continuò a lavorare al piano, che aveva sottoposto ad un’ultima revisione nel dicembre 1912, poco prima di morire. Il suo successore come capo di Stato maggiore dell’esercito, generale von Moltke, nipote del celebre von Moltke 29, poco prima dello scoppio del conflitto accorciò il tratto di fronte su cui effettuare l’offensiva. escludendone i Paesi Bassi. Secondo il nuovo piano, Parigi sarebbe stata occupata, e la Francia soggiogata, nel giro di sei settimane così la Germania avrebbe potuto allora rivolgere tutte le proprie forze contro la Russia.

La Gran Bretagna non era vincolata alla Francia da nessun trattato di alleanza ma solo dall’Entente cordiale30, e in virtù di questo, il 31 luglio 1914, il governo di Londra chiese a Francia e Germania di rispettare la neutralità del piccolo Stato. La Francia si impegnò a farlo e la Germania tacque. Il 2 agosto, per la prima volta dal 1871, alcune pattuglie tedesche attraversarono la frontiera francese dando luogo a sporadici scontri. A Joncherey, vicino al confine svizzero-tedesco, venne ucciso il caporale Andrè Peugeot: la prima vittima di una guerra che sarebbe costata alla Francia oltre un milione di morti. Seguendo i piani, alle 19 del 2 agosto, la Germania inviò un ultimatum al Belgio, concedendo dodici ore di tempo per acconsentire al passaggio delle truppe tedesche: i belgi rifiutarono. Il giorno seguente la Germania dichiarò guerra alla Francia e, in ottemperanza al piano Schlieffen, le truppe tedesche si apprestarono a varcare il confine belga.

29 Helmuth Karl Bernhard von Moltke, generale che condusse la federazione del Reno (In seguito Prussia) alla vittoria sulla Francia 30 l’accordo stipulato a Londra l’8 aprile 1904 tra Francia e Gran Bretagna per il reciproco riconoscimento di sfere d’influenza coloniale

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La Gran Bretagna, in base al trattato del 1839, inviò un ultimatum alla Germania, destinato a scadere alle 23 del 4 agosto. La Germania non aveva scelta: il piano globale di guerra su due fronti era già in atto e, sette ore prima della scadenza dell’ultimatum britannico, le truppe tedesche oltrepassarono la frontiera belga così, alle 23, la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania.

L’invasione del Belgio.

La mattina del 4 agosto alcuni milioni di soldati, che costituivano le avanguardie dei rispettivi eserciti, si radunarono nelle caserme oppure si misero in marcia. A est le truppe russe inviate al confine con la Prussia Orientale avanzarono in direzione di Berlino; alla frontiera con l’Alsazia-Lorena le truppe francesi, seguendo il piano XVII, sconfinarono in Germania convinte di riscattare le umiliazioni del passato. Il Lussemburgo fu occupato senza opposizione il 2 agosto, e più a nord, alla frontiera con il Belgio, i tedeschi avanzavano a gran velocità dando corpo all’invasione. La Gran Bretagna non aveva truppe sul continente europeo e il suo corpo di spedizione, al comando di Sir John French, doveva ancora essere radunato, armato e inviato al fronte al di là della Manica. Quel giorno le forze tedesche iniziarono la battaglia di Liegi andando all’assalto del primo vero ostacolo sul loro cammino: il campo fortificato di Liegi con la sua guarnigione di 35.000 soldati. L’attacco durò più del previsto e solo il 7 agosto la fortezza centrale capitolò, ma non così gli altri dodici forti, alcuni dei quali resistettero per molti giorni prima che i tedeschi potessero proseguire l’avanzata secondo i piani. Il 12 agosto l’Austria-Ungheria invase la Serbia, mentre sul fronte occidentale continuavano furiosi i combattimenti sul confine franco-tedesco e soprattutto in Belgio. Dopo la caduta di Liegi la maggioranza dell’esercito belga si mise in ritirata verso ovest, mentre il 25, i tedeschi, durante le fasi preliminari dell’assedio della città che durò fino al 28 settembre e comportò enormi devastazioni, bombardarono con uno Zeppelin31 la città di Anversa. L’esercito tedesco superò Anversa, ma la piazzaforte rimase una spina nel fian-

dirigibile rigido sviluppato in Germania ai primi del Novecento

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co fino alla fine di settembre. Più a sud intanto, dal 17 al 23 agosto, vi fu un altro assedio diretto alla fortezza di Namur, seconda in grandezza solo a Liegi, che cadde in mano tedesca il 24 agosto.

Il 12 agosto le avanguardie del corpo di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da 19 navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non avendo la Kaiserliche Marine, la marina imperiale tedesca, ostacolato le operazioni32 .

Il 20 agosto, mentre i forti di Namur subivano l’assedio, le truppe tedesche entrarono a Bruxelles. All’estremità meridionale del fronte i francesi, penetrati in Alsazia e vicini alla città di Mulhouse, giunsero a sedici chilometri dal Reno, ma non sarebbero mai andati oltre. Più a nord i francesi penetrati in Lorena furono sconfitti a Morhange e iniziarono a ritirarsi verso Nancy. La città, nonostante la pressione tedesca, resse l’urto grazie ai sacrifici della 2ª armata francese guidata da Édouard de Castelnau.

All’alba del 22 agosto su un’ampia fascia centrale del territorio belga, due armate tedesche, una al comando di Alexander von Kluck e l’altra al comando di Karl von Bülow, erano stabilmente schierate a metà del percorso che le divideva dai porti di Ostenda e Dunkerque. A questa avanzata si opponevano tre eserciti: i belgi attestati a Namur, i francesi a Charleroi e i britannici a Mons, questi ultimi arrivati nello stesso momento in cui la 1ª armata di von Kluck puntava a sud verso la frontiera francese.

Lo stesso giorno iniziò l’avanzata tedesca lungo tutto il fronte: la 5ª armata francese fu cacciata da Charleroi, e cominciò furiosa la battaglia di Mons, battesimo del fuoco per il corpo di spedizione britannico, che resistette con inaspettata tenacia.

I tedeschi riuscirono comunque a rompere la resistenza delle forze di French e il 23 iniziarono ad avanzare; quello stesso giorno sia i francesi, da Charleroi, sia i belgi, da Namur, cedettero alla pressione nemica e iniziarono a ripiegare. L’avanzata tedesca era irresistibile: il 30 agosto le forze anglo-francesi erano state respinte oltre l’Aisne e continuavano a ritirarsi verso la Marna. Il 2 settembre

32 probabilmente a causa di ordini poco chiari

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il governo francese si rifugiò a Bordeaux e le truppe anglo-francesi, avendo appreso che i tedeschi non avrebbero attaccato Parigi puntando verso sud ma si sarebbero diretti verso sud-ovest contro i britannici, si attestarono sulla Marna facendone saltare tutti i ponti.

Il “miracolo della Marna”

Il 3 settembre l’esercito tedesco giunse a 40 chilometri da Parigi ma, inseguendo gli anglo-francesi in ritirata, gli invasori persero l’occasione di espugnare la capitale e si lasciarono trascinare a est di Parigi e a sud della Marna dove gli Alleati si preparavano ad ingaggiare battaglia. La battaglia della Marna iniziò il 5 settembre e i tedeschi ormai esausti e indeboliti furono sopraffatti dai contrattacchi anglo-francesi e il 13 respinti oltre l’Aisne, ritirandosi di quasi 100 chilometri rispetto all’inizio della battaglia. Le ferrovie che servivano i territori conquistati non erano all’altezza del compito di trasportare le ingenti quantità di rifornimenti indispensabili all’avanzata delle armate tedesche né potevano sollevare il soldato dalla fatica di marciare 50 o 60 km al giorno. I rifornimenti che raggiungevano i posti di smistamento ferroviario tendevano a rimanervi bloccati, e nonostante l’apertura di nuove strade i veicoli a disposizione non riuscivano a soddisfare le esigenze di cinque armate. Dal punto di vista operativo, ogni giorno che passava portava il fronte sempre più vicino a Parigi: quest’area ospitava invece una fitta rete di ferrovie che dava ai francesi la possibilità di muovere le proprie truppe molto rapidamente. La comparsa, durante la battaglia, di truppe anglo-francesi in punti imprevisti costrinse lo stato maggiore tedesco ad autorizzare una ritirata generale. La battaglia della Marna, durata quattro giorni, decretò la fine del piano Schlieffen e cancellò per sempre la possibilità di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale. I contendenti cercarono allora di riprendere la guerra di manovra, ma uno spostamento del fronte verso sud era sconsigliato, la neutralità della Svizzera lo impediva, e quindi l’unico spazio disponibile era a nord.

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La “corsa al mare”

In seguito all’arretramento tedesco le forze contrapposte tentarono di aggirarsi reciprocamente sul fianco nella cosiddetta “corsa al mare” e in breve estesero il proprio sistema trincerato dal canale della Manica alla frontiera con la Svizzera. La corsa al mare costituì la seconda fase decisiva della guerra ad occidente in quanto, dopo la caduta definitiva di Anversa, i tedeschi puntarono decisi verso le coste e i relativi porti del Belgio e della Francia. I britannici mandarono rinforzi della Royal Naval Division a Ostenda mentre, il 3 ottobre, i tedeschi, proseguendo la loro avanzata verso il mare del Nord, occuparono Ypres e l’11 iniziarono l’assedio di Lilla.

Nella corsa al mare furono però gli anglo-francesi ad avvicinarsi per primi alla meta: il 14 i britannici occuparono Bailleul cacciando i tedeschi, il 15 questi occuparono il porto di Ostenda e il 18 i britannici riconquistarono Armentiéres e Ypres costringendo i tedeschi ad arretrare fino a Menin.

Da quel momento i due eserciti fecero continui tentativi di aggiramento che portarono il fronte fino a Nieuwpoort, sul mare del Nord. Dopo due cruente battaglie, a Ypres e a Nieuwpoort, con cui i tedeschi tentarono senza successo di aprirsi la strada verso il mare, la guerra di manovra finì definitivamente e iniziò quella guerra di trincea che avrebbe caratterizzato tutto il conflitto fino alla sua conclusione nel 1918.

Inizia la guerra di trincea

I due schieramenti iniziarono a rafforzare e fortificare le proprie posizioni scavando trincee, camminamenti, rifugi e casematte. Dal mare del Nord alle Alpi,

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fra uno schieramento e l’altro, si estendeva la terra di nessuno, martoriata dalle granate e continuamente contesa.

I soldati combattevano in trincee distanti tra loro dai 200 ai 1000 m. in un terreno martoriato dalle esplosioni, costellato di cadaveri insepolti e reso un pantano dalle piogge, dalla neve e dal continuo lavorio delle granate. I combattimenti continuarono anche dopo la conclusione della battaglia di Ypres senza che nessuno dei due contendenti ne traesse vantaggio e con l’arrivo dell’inverno la situazione peggiorò infatti le trincee si riempirono, a causa delle piogge torrenziali, di acqua gelida, e la vita dei combattenti divenne - se possibile - ancora più infernale con un continuo susseguirsi di incursioni e piccoli attacchi lungo tutto il fronte.

Solo in occasione del primo Natale di guerra sui campi di battaglia si intravide un ricordo della vita “normale” e, alla vigilia, dopo cinque mesi di aspri combattimenti le armi tacquero lungo tutto il fronte in quanto i combattenti dei due schieramenti concordarono, senza l’assenso degli alti comandi, una tregua di tre giorni per seppellire i propri morti e festeggiare insieme il Natale: fu la cosiddetta “tregua di Natale”, uno spiraglio di umanità che non si ripeté più durante tutta la guerra33 .

La situazione di stallo a occidente non impediva né le incursioni aeree britanniche nella terra di nessuno né i continui scambi di colpi delle artiglierie. Il 10 marzo, come parte di un’offensiva maggiore nella regione dell’Artois, l’esercito britannico attaccò a Neuve Chapelle nel tentativo di prendere il crinale di Aubers. L’assalto, preceduto da un bombardamento concentrato durato 35 minuti, fu condotto da quattro divisioni lungo un fronte di tre chilometri. Inizialmente i progressi furono rapidi, e il villaggio fu catturato in quattro ore, tuttavia l’attacco rallentò per problemi logistici e di comunicazione e i tedeschi riuscirono ad inviare delle riserve e contrattaccarono vanificando il tentativo. Poiché i britannici avevano utilizzato un terzo delle proprie scorte totali di proiettili d’artiglieria, sir John French attribuì il fallimento alla mancanza di munizioni34 .

33 Tutti i capi di stato condannarono questa tregua e fecero il possibile perché non si ripetesse più

34 Scusa usata da entrambe le parti durante il primo periodo di guerra

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Le nuove armi

Fu in questo teatro militare che furono portati significativi progressi tecnologici che si scontrarono però con l’utilizzo strategie di guerra antiquate. Accanto allo sviluppo dei gas, delle mitragliatrici, dei carri armati e dell’aviazione si assistette ancora all’uso massiccio dei vecchi assalti all’arma bianca.

Nella terza settimana dell’aprile 1915 cominciò una nuova fase, che, secondo i tedeschi, avrebbe dovuto, in breve tempo, farli uscire dallo stallo e condurli alla vittoria. Il 22 aprile, durante il secondo attacco al saliente35 di Ypres, per la prima volta dall’inizio della guerra furono impiegate, su vasta scala, le armi chimiche sperando in tal modo di riprendere quella guerra di manovra per la quale erano stati addestrati a combattere. I tedeschi aprirono dalle 4000 alle 5700 bombole, contenenti in tutto 168 tonnellate di cloro, contro le truppe coloniali francesi stanziate sulla cima Pilckem. La nube giallo-verde asfissiò i difensori della prima linea e causò il panico nelle retrovie provocando una breccia nella linea Alleata. Tuttavia i tedeschi non erano preparati ad un tale successo36 e non avevano approntato riserve sufficienti per approfittarne. Questo primo attacco fu di natura sperimentale, non tattica. Inizialmente i tedeschi non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres e così ebbero grosse difficoltà a coordinare l’avanzata delle truppe e il lancio dei gas in quanto, se il vento non fosse stato a favore, avanzare era rischioso per la possibilità che i soldati si trovassero nella stessa nube destinata al nemico.

Dopo che con lanci di gas avevano fatto arretrare i britannici fino alle porte di Ypres, il 1º maggio i tedeschi erano sicuri di poter vincere ad occidente. Nonostante i ripetuti bombardamenti e attacchi, i tedeschi non riuscirono però a superare lo stallo e il 25 le operazioni cessarono. Dopo questo attacco anche gli Alleati cominciarono a sviluppare la nuova arma

35 Parte del teatro di battaglia che si proietta in territorio nemico. Si trova quindi circondato dal nemico su due o tre lati, il che fa sì che le truppe che la occupano siano particolarmente vulnerabili

36 Gli ufficiali erano convinti che si trattasse di un attacco con copertura fumogena

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senza tuttavia riuscire ad eguagliare i nemici nello sviluppo degli aggressivi né nelle tecniche d’impiego, che, inizialmente piuttosto approssimative, vennero nel corso del tempo perfezionate con l’introduzione delle granate caricate a gas, che consentivano di colpire con maggiore precisione una determinata zona di fronte.

Per tutto il conflitto i tedeschi riuscirono comunque a mantenere una netta superiorità tattica nell’uso di tale arma. Lo schema di bombardamento chimico tedesco nel 1917 vedeva l’impiego iniziale di agenti starnutatori o irritanti, che rendevano difficile ai difensori indossare e mantenere la maschera antigas, seguita poi da una salva di granate al fosgene, con effetti asfissianti e inabilitatori, infine veniva sparato un terzo tipo di granate cariche di gas mostarda, raramente letale, ma che, grazie alla sua persistenza sul terreno, rendeva difficile ai difensori il contrattacco e anche la sola permanenza nelle proprie trincee. Oltre a ciò si alternavano proiettili convenzionali con proiettili a gas, per ingannare i difensori circa la natura dell’attacco, e si poteva scegliere il mix di gas in relazione all’impiego, difensivo od offensivo che fosse. Al termine del conflitto si stimò che il gas tossico avesse mietuto in totale 78.198 vittime fra gli Alleati mettendone fuori combattimento per un periodo più o meno lungo almeno 908.645, mentre gli Alleati, nonostante avessero impiegato nel corso della guerra la stessa quantità di gas dei tedeschi, inflissero ai tedeschi 12.000 perdite e 288.000 intossicati, a dimostrazione della maggiore efficacia nelle tattiche d’impiego tedesche.

Sempre i tedeschi, il 25 giugno 1915, contro i francesi usarono per la prima volta, in operazioni belliche, l’avevano già usato contro i russi ma solo per disboscare ampie zone in cui si sospettava la presenza di guerriglieri russi, il lancia fiamme che, il 30 luglio 1915, fu impiegato contro le trincee britanniche ad Hooge, in Belgio, ottenendo un successo parziale ma significativo. Si rivelò molto utile nella guerra di trincea, quando bisognava stanare dei nemici ben nascosti o portare alla resa un nemico notevolmente resistente; era però più adatto alle incursioni nelle trincee nemiche, già catturate, che per aiutare i soldati ad attraversare la terra di nessuno, visto che, a differenza del fucile, per essere usato si doveva stare in piedi esponendosi al fuoco nemico, inoltre il pe-

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so e la forma rendevano impossibili operazioni di sorpresa.

Un’altra arma nuova per l’epoca fu il carro armato o Tank (serbatoio in inglese) che fu progettato dagli alleati come mezzo di sfondamento e scardinamento delle trincee tedesche e fu usato per la prima volta il 15 settembre 1916, con gli equipaggi ancora non addestrati, quando ben 32 carri furono inviati contro le trincee tedesche durante la battaglia della Somme. Contrariamente al parere, non solo degli esperti ma anche degli alleati francesi, lo Stato Maggiore britannico non volle aspettare di avere un numero di carri sufficiente per utilizzarli in massa.

Ciò si rivelò un vero errore visto che dopo pochi metri dalle basi di partenza il 50% dei carri era stato distrutto o si era fermato per guasti tecnici, ed anche quelli che arrivarono sulle trincee nemiche, nonostante il terrore che indussero nelle fanterie tedesche, cosa che provocò un numero maggiore del normale di prigionieri, non riuscirono ad ottenere risultati decisivi.

La vera utilità e valore tattico del carro armato fu dimostrato sempre agli inglesi nella battaglia di Cambrai37 .

In questa battaglia, per la prima volta, i carri armati furono usati in massa con l’attacco, il 20 novembre, di 400 carri su un fronte di 8 km.

L’attacco non fu preceduto dal consueto bombardamento di artiglieria e prese quindi di sorpresa i comandi tedeschi che videro spuntare da una cortina fumogena le sagome sgraziate dei carri, che terrorizzarono le fanterie, seguite dai fanti inglesi che completarono l’opera.

Questa battaglia insegnò ai comandi militari europei due cose: che i carri dovevano essere impiegati in numero considerevole e che la fanteria doveva cooperare con i carri. Nel proseguimento della battaglia di Cambrai i difensori riuscirono a ripristinare la linea di difesa solo dopo aver isolato i carri dalla fanteria nemica; i carri dovettero fermarsi sugli obiettivi, aspettando la fanteria, che arrivò con ritardi di anche tre ore. I comandanti delle divisioni, arrivati dopo la fanteria, decisero che il fuoco nemico era eccessivo e diedero l’ordine ai carri di ripiegare. La battaglia si protrasse per altri sei giorni, ma ormai era diventata uno scontro di fanterie ed artiglierie: i carri avevano aperto la breccia, ma que-

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37 20 novembre – 3 dicembre 1917

sta non era stata sfruttata. Ormai era chiaro che i carri armati erano una componente fondamentale per lo sforzo bellico dell’Intesa, e fino alla fine della guerra furono sviluppate sul campo le nuove dottrine di impiego. Nel frattempo anche i tedeschi avevano mandato al fronte i loro carri, e il 24 aprile 1918 avvenne il primo scontro fra carri armati della storia, durante la seconda battaglia di Villers-Bretonneux38

Altra arma nuova e che divenne ben presto l’asso nella manica di entrambi gli eserciti fu l’aviazione. Dall’offensiva della Somme, dell’estate del 1916, a quella tedesca del 1918 la Germania si mantenne sulla difensiva lungo il fronte occidentale. Di pari passo con la strategia terrestre, l’aviazione tedesca (Luftstreitkräfte) pose in atto tattiche di combattimento aereo, anch’esse difensive, atte ad interdire al nemico lo spazio aereo dietro le proprie linee. Poiché nello spazio aereo del fronte occidentale le forze alleate vantavano una superiorità numerica nel rapporto di 2:1, l’aviazione tedesca ovviò all’inconveniente concentrando i propri mezzi in unità più numerose. Nel 1916 le formazioni aeree furono riorganizzate in squadriglie di 10-12 velivoli, lo scopo era quello di concentrare i mezzi in un particolare settore, in modo tale da conseguire una superiorità aerea locale. L’esperimento si rivelò un successo e nel giugno 1917 l’aviazione creò il Primo Gruppo Caccia (Jagdgeschwader 1), in seguito noto come circo volante, formato dalla 4ª, 6ª, 10ª e 11ª squadriglia sotto il comando del famosissimo e leggendario “Barone Rosso”39 Manfred von Richthofen. La mobilità dei gruppi caccia consentiva all’aviazione tedesca di dislocarsi e concentrarsi in corrispondenza di ogni nuova minaccia; nell’aprile 1917 fu quindi in grado di affrontare i piloti alleati in appoggio all’offensiva di Arras. In quel mese i tedeschi abbatterono 151 velivoli perdendone 66 e, nel marzo 1918, nell’azione di appoggio all’offensiva di Ludendorff40, l’aviazione tedesca riuscì 38 24 – 25 aprile 1918 39 Titolo onorifico datogli dagli inglesi poiché che tutti gli aerei da lui pilotati erano rossi 40 principale collaboratore del generale Paul von Hindenburg

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a conquistare la superiorità numerica nello spazio aereo sovrastante il fronte, concentrando in tutta segretezza 730 aeroplani da opporre ai 579 britannici. Nonostante le potenze Alleate avessero prodotto 138.685 aerei di fronte ai 53.222 degli Imperi centrali, la superiorità tattica d’impiego e le migliori tecnologie fecero sì che l’aviazione tedesca costituisse un avversario temibile fino alla conclusione del conflitto.

Sin dal 1917 i tedeschi progettarono aerei destinati ad attacchi a obiettivi terrestri, mentre gli Alleati non progettarono mai velivoli specifici per tali compiti, continuando invece a usare i caccia.

Nel 1918 l’aviazione imperiale tedesca aveva raggiunto forza ed efficienza tali da poter essere impiegata con successo in missioni di supporto tattico alle operazioni di terra, missioni che compì con notevole efficacia fino alla conclusione del conflitto; gli Alleati, con un’elevata capacità industriale, potevano però godere di una superiorità di mezzi che si traduceva in un più intenso impiego operativo.

Le offensive finali

Erich Ludendorff, che insieme a Paul von Hindenburg era il comandante supremo dell’esercito tedesco dopo la cacciata di Falkenhayn in seguito al fallimento di Verdun, concluse che la sola opportunità di vittoria per la Germania consistesse in un attacco decisivo sul fronte occidentale in primavera, ossia prima che il potenziale americano diventasse significativo. Il 3 marzo 1918 fu firmato il trattato di Brest-Litovsk e la Russia si ritirò dalla guerra. Questo rese disponibili 44 divisioni tedesche del fronte orientale per uno spostamento ad ovest, portando il vantaggio tedesco a 192 divisioni contro 173 alleate. Le forze tedesche erano poi addestrate alle nuove tattiche d’assalto già impiegate con successo sul fronte orientale. Ludendorff decise un attacco contro le forze britanniche, considerate tatticamente inferiori alle francesi e sfavorite nel rapporto di forze; anche la conformazione del territorio era favorevole ai tedeschi, che contavano di aggirarle ai fianchi e tagliarne la ritirata, trasformando una vitto-

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ria tattica, lo sfondamento e l’accerchiamento, in una vittoria strategica, la distruzione delle forze britanniche. L’idea di Ludendorff si basava su una massiccia offensiva finalizzata a separare i francesi dai britannici, per sospingere questi ultimi in direzione dei porti sulla Manica. L’attacco avrebbe combinato le nuove tattiche delle truppe d’assalto con l’uso di aerei da attacco al suolo e uno sbarramento d’artiglieria accuratamente pianificato che comprendeva anche l’uso di gas.

Dal gennaio 1918 truppe statunitensi sbarcavano settimanalmente in Francia; dopo quarantadue mesi e mezzo dall’inizio della guerra la presenza delle truppe del generale Pershing sul campo di battaglia era un dato di fatto. Il 23 febbraio, a Chevregny, le truppe statunitensi, con due ufficiali e 24 soldati, presero parte per la prima volta ad un’azione insieme ai francesi. Mentre le truppe tedesche dilagavano ad oriente il 21 marzo Ludendorff lanciò una grande offensiva che, in caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra. L’”operazione Michael” fu la prima delle offensive tedesche che riuscì quasi a separare i due eserciti alleati, con un’avanzata di circa 65 chilometri nei primi otto giorni, portando le linee del fronte verso ovest di più di 100 chilometri, con Parigi entro il raggio dell’artiglieria per la prima volta dal 1914. Le conquiste fatte dai tedeschi durante l’offensiva furono impressionanti per gli standard del fronte occidentale: 90.000 prigionieri catturati, 1.300 cannoni presi, 212.000 soldati nemici morti o feriti e un’intera armata britannica, la V, messa fuori combattimento. Le perdite tra i tedeschi furono comunque alte, 239.000 tra ufficiali e soldati, alcune divisioni furono ridotte alla metà dei loro effettivi, molte compagnie poterono contare solo 40 o 50 uomini. L’offensiva riuscì a sfondare il sistema difensivo inglese, ma furono necessari tre giorni invece che uno, e ciò permise ai britannici di far affluire le riserve e vanificare ogni significativo sfruttamento. La fiducia di Ludendorff non si spense e all’operazione Michael seguirono altri tre attacchi. Il 27 maggio, alle prime luci dell’alba, 4.000 pezzi d’artiglieria tedesca aprirono il fuoco sul fronte dell’Aisne, dando così il via alla terza battaglia dell’Aisne: il 29 i tedeschi entrarono a Soissons, il 30 maggio arrivarono sulla Marna, a 60 km da Parigi, e il 3 giugno la attraversarono pronti ad attaccare Chateau-Thierry difesa dalle truppe statunitensi.

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Il 7 giugno i tedeschi attaccarono, fra Montdidier e Compiègne, con un bombardamento di potenza inaudita: furono sparati 750.000 proiettili all’iprite, al fosgene e alla difenilcloroarsina, per un totale di 15.000 tonnellate di gas e, alle 4.30 del mattino, entrò in azione la fanteria che avanzò per più di 8 chilometri facendo 8.000 prigionieri. L’ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio ma, ad inizio agosto, lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò proprio mentre quasi un milione di soldati americani erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria ma, esauste e dissanguate dalle enormi perdite, smisero di avanzare e, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l’11 novembre 191841

Fronte orientale

Il fronte orientale, aperto nell’agosto 1914 con l’invasione russa della Prussia orientale, fu uno dei principali teatri di guerra della prima guerra mondiale. Su questo fronte si scontrarono da una parte Germania, Austria-Ungheria e truppe ottomane di supporto, a cui, nel 1915, si affiancò la Bulgaria, l’Impero russo e, per breve tempo, anche la Romania. Contrariamente a quanto accadde sul fronte occidentale, su quello orientale la guerra di manovra non finì mai completamente, la guerra di posizione si alternava alle manovre a livello operativo. Questo fu dovuto anche alla conformazione geografica del territorio di combattimento: le foreste della Lituania, le vaste pianure e acquitrini di Polonia, Ucraina e Russia, si rivelarono troppo ampie per poter essere colmate di uomini e armi. Nell’inverno 1916-17 le divisioni tedesche occupavano settori larghi 20-30 chilometri, nelle Fiandre la stessa porzione di territorio poteva essere riempita con ben otto divisioni. Ambedue i comandanti degli schieramenti si resero conto di non avere le risorse necessarie a difendere i loro settori come i loro omologhi ad occidente, per cui la tattica dell’ordine aperto e lo sfruttamento degli ampi territori permisero, ad entrambe le parti, operazioni manovrate molto distanti dalle limitate avanzate ad occidente.

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Giorno ufficiale della resa incondizionata

Nonostante la superiorità nelle tattiche e negli armamenti delle potenze centrali, la Russia, avvantaggiata dal suo enorme potenziale umano, non fu mai completamente sconfitta sul campo.

La sconfitta della Russia avvenne solamente a seguito delle rivolte interne scaturite dal malcontento generalizzato della popolazione, che sfociarono nella rivoluzione che destituì lo zar Nicola II e mise al potere un governo provvisorio, sostituito a seguito della rivoluzione d’ottobre42, da una repubblica socialista sovietica che, il 3 marzo 1918, firmò il trattato di Brest-Litovsk con le potenze centrali e che di fatto fece uscire la Russia dal conflitto.

Si aprono le ostilità

Il 14 agosto 1914 le forze tedesche erano già ad 80 chilometri da Varsavia all’inseguimento dei russi in ritirata, ma lo zar Nicola credeva ancora di poter vincere la guerra e di vincerla rapidamente tanto che le truppe zariste furono fatte avanzare a tutta velocità direttamente su Vienna e Berlino.

Il 17 due armate russe, una comandata dal generale Rennenkampf e l’altra dal generale Samsonov, cominciarono ad avanzare nella Prussia orientale. A contrastarle trovarono il 1º corpo d’armata tedesco comandato dal generale François, che si scontrò a Stallupönen con Samsonov, facendo 3000 prigionieri prima di ritirarsi su posizioni meglio difendibili.

In ossequio ai piani e alle richieste degli Alleati, le armate zariste attaccarono improvvisamente sia nella Prussia orientale sia in direzione Vienna, cercando di sorprendere gli imperi nemici conseguendo una rapida vittoria.

L’invasione della Prussia

Il 19 agosto Rennenkampf si scontrò a Gumbinnen col grosso dell’8° armata di Prittwitz. Due giorni dopo lo stesso comandante tedesco fu informato che la 2ª armata russa, agli ordini di Samsonov ,aveva attraversato la frontiera meridio-

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Novembre per in calendario Giuliano seguito in Russia fino al 1918

nale della Prussia orientale ed era fronteggiata da sole tre divisioni. Il comandante in capo delle forze tedesche in Prussia orientale, generale Maximilian von Prittwitz, preso dal panico, comunicò a François della necessità di ritirarsi fino alla Vistola, lasciando così sguarnita l’intera Prussia orientale, dubitando anche di poter resistere sulla linea della Vistola. Per scongiurare la possibilità di essere incalzati durante la ritirata, il colonnello Max Hoffmann sottolineò che era necessario sferrare un’offensiva vittoriosa prima di poter ripiegare senza essere continuamente minacciati dalle preponderanti forze russe.

Hoffmann voleva che Prittwitz impiegasse le sue truppe contro una delle due armate russe, ma al comandante tedesco era ormai venuta meno la volontà di combattere e il 22 agosto fu destituito, e fu allora che von Moltke richiamò il sessantasettenne generale Paul von Hindenburg, ormai in pensione, e gli affidò le armate orientali, assegnandogli come stato maggiore il vincitore di Liegi, generale Erich Ludendorff.

Questa fu la prova che i tedeschi avevano sbagliato i loro calcoli: la macchina bellica russa era tutt’altro che lenta e bisognava combattere con la massima intensità anche a oriente prima di poter riportare una decisiva vittoria tattica ad occidente. Giunto ad oriente Ludendorff capì che Hoffmann aveva già impostato le basi per una vittoria, ma le due armate russe erano ormai penetrate in profondità nella provincia e minacciavano la capitale Königsberg.

Il contrattacco tedesco

Il 26 agosto le truppe zariste entrarono a Rastenburg e il giorno seguente iniziarono i combattimenti intorno ai laghi Masuri, nei pressi dei villaggi di Frögenau e di Tannenberg. Ludendorff ebbe un cedimento, tanto che propose di far ritirare François e di sospendere i piani di accerchiamento delle truppe di Samsonov ideati da Hoffmann.

Hindenburg decise comunque di continuare il piano avviato dal colonnello Hoffmann e i combattimenti continuarono. La mattina del 28 agosto Ludendorff ordinò a François di arrestare l’avanzata e

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inviare le sue truppe a rinforzo in un settore indebolito del fronte, ma questi disobbedì agli ordini continuando ad incalzare i russi. Fu proprio per questa disobbedienza che consentì a Ludendorff di ottenere, nei giorni seguenti, una schiacciante vittoria. Il 30 l’armata di Samsonov era ormai sconfitta, decine di migliaia di soldati russi erano in rotta, dopo 28 giorni di grandi sconvolgimenti la Prussia orientale tornava interamente nelle mani della Germania. I russi lasciarono oltre 30.000 morti sul campo, tra di loro lo stesso generale Samsonov. Dopo aver lasciato Neidenburg a seguire da vicino le operazioni, Samsonov finì per essere travolto dal caos della ritirata: incapace di fare qualsiasi cosa, il 28, si diresse a cavallo verso sud smarrendosi nelle foreste; scesa l’oscurità si ritirò in disparte e senza che nessuno degli uomini si accorse della sua mancanza e, piuttosto che sopravvivere al disastro, si uccise con un colpo alla testa. Nel frattempo i tedeschi catturarono circa 125.000 prigionieri, 500 cannoni e diverse migliaia di cavalli. Ludendorff, su suggerimento di Hoffmann, vergò il dispaccio al Kaiser datandolo invece che da Frögenau, da Tannenberg, il luogo dove cinque secoli prima i cavalieri teutonici erano stati massacrati da soverchianti forze slave e lituane. Ma l’effetto Tannenberg fu sminuito dal fatto che sul fronte meridionale, in Galizia, la bilancia cominciava a pendere a sfavore delle potenze centrali. La battaglia, che passò alla storia con il nome di battaglia di Tannenberg, fu definita dal generale e storico Edmund Ironside come:

” La più grave delle sconfitte subite da tutti i contendenti durante la guerra. “43

La battaglia di Tannenberg non fu, come molti hanno sostenuto, una seconda Canne44ben pianificata. L’obiettivo iniziale della battaglia era quello di arrestare l’invasione, non quella di circondare l’esercito russo. L’idea di un duplice accerchiamento fu concepita solo in un secondo tempo e realizzabile per la persistente passività di Rennenkampf.

43 Gilbert, p. 70

44 Vittoria del generale cartaginese Annibale che accerchiò, il 2 agosto 216 a.C., con una manovra ben studiata i Romani

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L’attacco alla Galizia

Nei settori a sud-est del fronte, gli austriaci non ebbero altrettanto successo, anche perché furono costretti ad affrontare forze preponderanti. L’offensiva della 1° e della 4° armate austriache in Polonia aveva in un primo tempo realizzato qualche progresso, ma questo esiguo vantaggio fu ben presto completamente annullato dalla 3ª e dall’8ª armata russe che attaccarono il fianco destro austriaco coperto dalle deboli 2ª e 3ª armata.

Il 18 agosto, quando penetrò nella Galizia austriaca, il generale russo Aleksej Brusilov aveva al comando trentacinque divisioni di fanteria che da subito impegnarono, molto duramente, le truppe di Francesco Giuseppe peraltro già duramente impegnate in Serbia.

Mentre i tedeschi venivano fermati dai francesi sulla Marna abbandonando così ogni velleità di una rapida vittoria, gli austriaci si battevano per non essere ricacciati dai russi oltre la frontiera della Galizia.

Il 10, mentre i francesi iniziarono ad inseguire i tedeschi che ripiegavano dalla Marna verso Krasnik, nella Polonia russa a un passo dal confine, i russi sconfissero gli austriaci penetrati in forze nel loro territorio.

Più a sud, in un’altra offensiva russa nella Galizia austriaca, Conrad fu costretto a far ritirare le proprie truppe quasi fino alle porte di Cracovia, allora in territorio austro-ungarico. Così scrisse il 13 settembre il filosofo Ludwig Wittgenstein, volontario inquadrato nelle file austro-ungariche spedite sul fronte orientale:

“ Oggi, alle prime ore del mattino, abbiamo abbandonato la nave con tutto il carico [...] i russi ci stanno alle calcagna. Ho assistito a scene atroci. Non chiudo occhio da trenta ore, sono debolissimo e non c’è da sperare in nessun aiuto esterno “45

Mentre gli austriaci erano in grosse difficoltà, i tedeschi dopo Tannenberg continuarono lentamente ad avanzare nelle provincie polacche annesse alla Russia dal 1700, grazie al contributo strategico di Hoffmann e dall’azione coordinata di 45 dal diario di Ludwig Wittgenstein - Gilbert, p. 104

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Hindenburg e Ludendorff: mano a mano che i tedeschi penetravano in Polonia i russi schiacciavano gli austriaci in Galizia.

In Polonia la popolazione locale iniziò a perseguitare e infierire contro i residenti ebrei che pure vivevano in quelle zone da secoli: botteghe, case, sinagoghe vennero saccheggiate, e quasi ogni giorno venivano impiccati o linciati ebrei accusati di parteggiare per i tedeschi, il fatto che 250.000 ebrei prestassero servizio per l’esercito russo non bastava a vincere i pregiudizi. Migliaia di ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case e rifugiarsi all’interno del territorio russo, lontani dal fanatismo che imperversava nelle zone di guerra. Quanto stava accadendo costrinse i tedeschi ad accorrere in aiuto dell’alleato; il grosso delle forze dislocate in Prussia orientale fu raggruppato in una nuova 9ª armata e spedito nell’angolo sud-occidentale della Polonia, da dove, in collegamento con una nuova offensiva austriaca, cominciò ad avanzare verso Varsavia.

Ma i russi, dopo aver mobilitato il loro enorme potenziale umano e raggruppato le loro forze, sferrarono un violento contrattacco che respinse il tentativo austro-tedesco di invadere la Slesia in forze.

Rapidi capovolgimenti di fronte

Il granduca Nicola costituì un’enorme falange di sette armate - tre schierate centralmente e due per parte a proteggere i fianchi.

Un’altra armata, la 10°, aveva invaso l’estremità più a est della Prussia orientale e stava impegnando le deboli forze tedesche schierate in quel settore.

Gli Alleati speravano che il “rullo compressore” russo iniziasse la sua poderosa avanzata. In Prussia Hindenburg, Ludendorff e Hoffmann misero a punto un piano basato su un sistema di linee ferroviarie che avrebbero consentito alle forze tedesche di spostarsi rapidamente lungo il fronte.

Ritirandosi davanti ai russi, la 9° armata riuscì a rallentare l’avanzata nemica distruggendo sistematicamente le già scarse linee di comunicazione esistenti in Polonia.

Raggiunta la propria frontiera con largo anticipo sui russi, l’11 novembre, con il fianco sinistro protetto dalla Vistola, la 9° armata sferrò un poderoso attacco

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verso sud-est contro il punto di congiunzione tra la 1° e la 2° armata russa che proteggevano il fianco destro delle forze. Dopo aver separato le due armate, Ludendorff spinse il cuneo a fondo costringendo la prima armata a ripiegare su Varsavia e riuscendo quasi ad infliggere una seconda Tannenberg alla 2ª armata. Essa venne praticamente circondata nei pressi di Łódź prima che la 5ª armata giungesse in loro soccorso. I tedeschi rischiarono di subire la stessa sorte che avrebbero dovuto infliggere ai russi ma riuscirono ad aprirsi un varco e a ricongiungersi col grosso delle forze. Nel giro di una settimana altri quattro corpi d’armata tedeschi arrivarono da occidente dopo che l’attacco di Ypres si era concluso con un fallimento; anche se aveva ormai perso l’occasione per sfruttare il successo, Ludendorff riuscì ad utilizzare le nuove forze per ricacciare ancora più indietro i russi che furono costretti a ripiegare sulla linea dei fiumi Bzura e Ravka, davanti a Varsavia. Gli insuccessi subiti, la mancanza di rifornimenti e scorte indussero lo zar Nicola a sospendere i combattimenti ancora in corso nei pressi di Cracovia e a ripiegare su linee trincerate invernali, predisposte lungo i fiumi Nida e Dunajec, lasciando in mano nemica la “striscia” polacca. Entrambi gli schieramenti, ad est, giunsero ad un punto morto con le forze attestate in solide linee trincerate. Sul fronte meridionale i russi penetrarono in breve tempo nella Slesia austriaca e, per la seconda volta, in Ungheria.

Il 26 novembre Conrad propose di istituire, per le minoranze etniche dell’impero, la legge marziale in Boemia, Moravia e Slesia per prevenire insurrezioni in seguito all’apparente debolezza dell’impero austriaco, ma la proposta fu respinta da Francesco Giuseppe. Con un contrattacco a Limanowa gli austriaci ricacciarono i russi dai Carpazi e dalla città di Bartfeld, in Ungheria, allontanando le minacce che volevano la Polonia austriaca sull’orlo di cedere.

Con l’inverno alle porte e le temperatura in rapida discesa il fronte si immobilizzò sulle queste posizioni. Il 1º dicembre in Russia vennero mobilitati gli studenti che, se da una parte, andavano ad ingrossare le file dell’esercito, dall’altra, spalancava le porte dell’esercito agli agitatori bolscevichi che si annidavano tra gli stessi studenti.

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Il secondo anno di guerra

A oriente ,come ad occidente il problema principale fu quello di trovare una soluzione allo stallo del fronte e i tedeschi furono i primi a cercare di escogitare una soluzione. Il 31 gennaio i tedeschi sperimentarono a Bolimów i gas lacrimogeni ma il loro effetto andò a vuoto in conseguenza del freddo. Sul fronte orientale i combattimenti continuavano con dimensioni gigantesche.

Il 22 febbraio quando i tedeschi espugnarono Przasnysz fecero prigionieri 10.000 russi, per poi lasciarne oltre 5.000 appena tre giorni dopo quando la città fu riconquistata dai russi.

Il 22 aprile, ad occidente, sferrarono ad Ypres una nuova offensiva con l’impiego della nuova arma chimica. Questo primo attacco fu di natura sperimentale, non tattica, infatti, inizialmente, i tedeschi non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres così le riserve di granate a gas erano troppo limitate per sfruttarne il successo.

Gli Alleati, di tutta risposta contrattaccarono frettolosamente: i francesi tra Lens e Arras e i britannici sul crinale di Aubers. Le controffensive alleate si infransero penosamente contro le difese tedesche e ciò convinse Falkenhayn46 che il fronte avrebbe potuto tranquillamente reggere. Ad est venivano invece messi in opera i piani di attacco contro la Polonia russa.

Le offensive tedesche

Lo scopo di Falkenhayn era quello di alleggerire la pressione sul fronte austriaco e allo stesso tempo ridurre le capacità offensive della Russia.

Per fare questo Conrad propose, e Falkenhayn accettò, un piano per sfondare al centro dello schieramento russo nel settore del fiume Dunajec, tra l’alto corso della Vistola e i Carpazi, punto in cui erano presenti pochi ostacoli naturali. L’operazione fu affidata ad August von Mackensen, il cui capo di stato maggiore e “cervello guida” era Hans von Seeckt, l’uomo che, dopo la guerra, avrebbe ricostruito l’esercito tedesco.

46 Generale e capo dello stato maggiore tedesco (Graudenz, 1861 – Potsdam, 1922)

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Al comando dell’11ª armata tedesca e alla 4ª armata austro-ungarica, il duo Mackensen-Seeckt preparò il piano di sfondamento contro i russi a Gorlice, in Galizia, che si risolse nella più grande vittoria tedesca della guerra. Lungo un fronte di 40 chilometri, presidiato da sei divisioni russe, i tedeschi concentrarono in gran segreto quattordici divisioni e 1.500 pezzi d’artiglieria; dopo un breve ma intenso cannoneggiamento, il 2 maggio 1915 l’11ª armata aprì una breccia nella linea russa ma, anziché piegare di lato e avvolgere sui fianchi i russi, l’armata continuò ad avanzare in profondità nelle retrovie nemiche.

In dodici giorni le truppe attaccanti si spinsero avanti di quasi 130 chilometri, sfondando la nuova linea difensiva sul fiume San. Non più tardi del 22 giugno, mentre i tedeschi avanzarono fino a Przemysl e Lemberg riuscendo a spezzare il fronte russo in due tronconi, la Russia aveva perduto l’intera Galizia e 400.000 uomini erano stati fatti prigionieri. Ma le enormi risorse umane disponibili in Russia permisero in breve tempo di rimpiazzare le 400.000 perdite, per cui Falkenhayn cedette alle richieste di von Seeckt di continuare l’offensiva, seppur con obiettivi limitati, ma impose un cambiamento di rotta.

Invece di continuare verso est, von Mackensen dovette dirigere le sue truppe verso nord risalendo l’ampio territorio tra il Bug e la Vistola ove era schierato il grosso delle truppe russe.

Congiuntamente a questa manovra, Hindenburg ricevette l’ordine di attaccare dalla Prussia orientale verso sud-est, oltre il Narew, in direzione del Bug circondando Varsavia. Ludendorff respinse il piano perché temeva che la manovra avrebbe sì schiacciato le ali dell’esercito russo, ma non avrebbe chiuso la direttrice di ritirata delle forze russe; propose quindi una manovra a tenaglia di più ampio raggio, in direzione Vilna e Minsk per intrappolare, aggirandolo, l’esercito russo.

Falkenhayn la respinse temendo che richiedesse una maggior quantità di truppe e un maggior impegno. I risultati dettero ragione a Ludendorff; il granduca riuscì a districare le sue truppe dal saliente di Varsavia prima che la tenaglia tedesca potesse chiudersi.

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La Bulgaria in guerra

Il 5 agosto i germanici erano entrati a Varsavia, sottratta per la prima volta alla Russia dal 1815.

Fu un grande successo per gli Imperi centrali che ora puntavano alla Finlandia. Cominciò quindi, in modo clandestino, il reclutamento di circa 2000 finnici da schierare contro le truppe russe e, nonostante il pressante controllo delle forze di polizia russe, nove mesi dopo i finlandesi entrarono in azione sul fronte orientale.

Il 17 agosto cadde Kovno; in quel momento i prigionieri di guerra russi nei campi tedeschi erano 726.694: altri 699.254 erano in mano austriaca, per un totale di 1 milione, 425 mila e 848 prigionieri.

Le condizioni all’interno dei campi erano spesso estremamente penose, nella primavera e nell’estate 1915 il tifo flagellava i campi di Gardelegen e di Wittenberg. Ma i disagi si moltiplicavano anche nella popolazione che iniziò un lento esodo mettendo in difficoltà i mezzi diretti al fronte, costretti a fermarsi e compiere azioni di retroguardia solo per frapporre un po’ di spazio tra loro e quella massa di uomini.

A metà agosto i tedeschi avevano fatto 750.000 prigionieri e occupato l’intera Polonia, così Falkenhayn decise di sospendere le operazioni su vasta scala sul fronte orientale.

Concordata l’entrata in guerra della Bulgaria, il comandante supremo dell’esercito tedesco decise che era ora di appoggiare l’attacco congiunto austrobulgaro contro la Serbia e allo stesso tempo trasferire nuove truppe ad occidente per contenere la prevista offensiva francese di settembre nello Champagne, giustificata anche dalle continue disfatte dei russi, cui si aggiunse il 20 agosto la resa di 90.000 uomini della fortezza di Novogeorgievsk.

Mackensen fu inviato in Serbia e Ludendorff ebbe il consenso ad attuare l’operazione verso Vilna, ma senza ulteriori oltre alle truppe già a sua disposizione.

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La grande ritirata dell’esercito russo

Ludendorff iniziò la sua offensiva il 9 settembre, quando i due grandi cunei, formati dall’armata dall’8ª armata di Otto von Below, subentrato a François e della 10ª armata di Hermann von Eichhorn, si aprirono un varco nelle linee russe l’una a est verso Dvinsk e l’altra a sud-est verso Vilna.

I russi furono ricacciati indietro fino ai pressi di Minsk, ma l’esiguità delle forze tedesche contrapposta al sempre maggiore concentramento russo, imposero a Ludendorff di sospendere l’offensiva.

Il successo dell’operazione dimostrò la grossa possibilità di vittoria di un attacco sferrato in forze alla Russia, annientandone la potenza militare con un minore impiego di truppe.

Ma la cauta strategia di Falkenhayn si sarebbe dimostrata azzardata, ritardando di due anni l’uscita di scena della Russia, mentre si sarebbe potuta liquidare con un maggior impegno consentendo quindi di concentrare le truppe ad occidente ben prima di quando effettivamente avvenne.

Alla fine di settembre, dopo una lunga serie di attacchi tedeschi atti ad accerchiare ed isolare i russi in ritirata, l’arretramento si arrestò definitivamente lungo una linea dritta che correva da Riga sul Baltico, a Czernowitz sulla frontiera con la Romania. Le forze russe aveva pagato un prezzo rovinoso e gli Alleati fecero ben poco per ripagare il sacrificio che la Russia fece nel 1914 durante le prime fasi della guerra.

Parallelamente alla ritirata dei soldati, anche la popolazione civile scappava dalle zone di guerra fatto che moltiplicava il caos e le difficoltà nelle retrovie. Migliaia e migliaia di rifugiati si dirigevano, per necessità e paura, ad est visto che la tattica della terra bruciata47 messa in atto dalle truppe russe in ritirata, oltre che danneggiare i tedeschi, colpiva anche la popolazione russa e polacca.

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47 Classica tattica russa usata con successo in occasione di tutte le invasioni da occidente

Il terzo anno di guerra

“ La distruzione della macchina bellica russa è fuori questione “48 (Conrad von Hötzendorf)49

Come nell’anno precedente l’inverno bloccò le operazione sul fronte orientale, limitandole a piccole azioni di pattugliamento e a scontri occasionali. Gli Imperi centrali controllavano il territorio conquistavano ma i problemi nacquero, più che al fronte, all’interno degli stessi paesi occupanti. L’Austria-Ungheria assunse nei confronti delle minoranze, presenti al suo interno, un atteggiamento autoritario, ad esempio, a gennaio, il tedesco fu proclamato lingua ufficiale della Boemia e nelle strade di Praga la polizia metteva mano al manganello ogni qual volta sentiva parlare ceco.

A Vienna i militari erano ben consapevoli dei grossi problemi che la guerra creava soprattutto perché l’esercito russo, nonostante i rovesci subiti, continuava a battersi con tenacia nei Carpazi.

Sollevati dalla conclusione delle operazioni degli Alleati a Gallipoli, i turchi trasferirono contro i britannici in Mesopotamia 36.000 soldati. Ma sul fronte del Caucaso il comandante russo Nikolaj Nikolaevič, nonostante il freddo intenso che provocò sintomi di assideramento a circa 2000 uomini, costrinse i turchi ad arretrare fino a Erzurum. Le truppe zariste fecero 5000 prigionieri, continuando ad incalzare i turchi verso ovest, sicuramente erano vittorie in terre remote, ma servirono a risollevare il morale ai russi. Alla fine di febbraio del 1916 Falkenhayn, sul fronte occidentale, iniziò la sua offensiva a Verdun con l’intenzione di dissanguare l’esercito francese. Intendeva usare l’artiglieria per uccidere quanti più soldati francesi possibile, spingendo così la Francia a rinunciare all’alleanza con la Gran Bretagna e a cercare una pace separata.

Subito i comandi francesi fecero pressioni alla Russia affinché sferrasse un attacco di alleggerimento in modo da dirottare le forze tedesche verso est. I russi

48 Gilbert, p. 277

49 capo di Stato Maggiore dell'esercito austroungarico, acceso sostenitore della guerra contro la Serbia e dell'alleanza con la Germania, nel 1916 fu lo stratega della fallimentare Strafexpedition

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quindi attaccarono presso il lago Naroch ma dovettero ritirarsi perdendo, per congelamento, all’incirca 12.000 uomini.

Il 14 aprile terminò la battaglia e il generale Brusilov50 presentò il piano di una grande offensiva da sferrare in maggio: aveva cominciato a studiare i dettagli del piano mentre i britannici si preparavano per la campagna di luglio sulla Somme.

Se le truppe fossero davvero in grado di lanciare una nuova grande offensiva è una questione ancora aperta51, il 10 aprile, giorno della Pasqua ortodossa, sul fronte austriaco si erano verificati episodi di tregua spontanea e, in quel giorno di solenni celebrazioni, i soldati di quattro reggimenti russi avevano attraversato le linee austriache per fraternizzare con il nemico. Gli austriaci ne fecero prigionieri oltre un centinaio e così, il 18 aprile, Brusilov si vide costretto a emettere ordini durissimi contro le fraternizzazioni.

L’offensiva di Brusilov

A maggio gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva contro le posizioni italiane in Trentino, e anche l’Italia si appellò allo zar per diminuire la pressione sul proprio settore52 . I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi attacchi per assistere gli italiani, vista la situazione di truppe e materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva.

Solamente il generale Brusilov reagì positivamente alla richiesta, Brusilov stava organizzando di attaccare in luglio ma, poiché sul fronte italiano si combatteva aspramente, anticipò l’azione a giugno per cercare di allentare la pressione sull’Italia costringendo agli austriaci di trasferire truppe da ovest ad est.

Il generale Aleksej Evert, comandante del gruppo d’armate ovest, era invece favorevole ad una strategia difensiva, in opposizione alla strategia di Brusilov,

50 Generale russo (Tbilisi 1853 – Mosca 1926)

51 Numerosi storici russi dicono di sì, altri sono propensi a credere che le truppe non fossero capaci di muoversi

52 Situazione verificatasi di continuo durante la guerra che in effetti per molti storici si può riassumere in un assedio delle potenze centrali

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ma lo zar appoggiò i piani del nuovo arrivato, e vennero delineati gli obbiettivi dell’offensiva, le città di Leopoli e Kovel’ perse l’anno precedente. L’offensiva iniziò con un potente tiro d’artiglieria, condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di Pripjat’ fino alla Bucovina; poche ore di bombardamento bastarono per mandare in nel caos le difese austriache. Il 12 giugno Brusilov annunciò che in otto giorni aveva catturato 2992 ufficiali austriaci e 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645 mitragliatrici e 196 obici. Un terzo delle truppe austriache che avevano contrastato l’avanzata erano state fatte prigioniere. Cinque giorni dopo i russi erano a Czernowitz, la città più orientale dell’Austria-Ungheria.

La veloce avanzata russa però allungò le linee di rifornimento, costringendo il rallentamento delle truppe in avanzata, e solo l’intervento dello zar, comandante supremo dell’esercito e la cui parola era legge, costrinse gli altri generali ad inviare rinforzi a Brusilov.

Ma le pessime condizioni del sistema ferroviario russo rallentarono l’arrivo dei rinforzi e la possibilità di impiegare notevoli forze d’artiglieria e nuove truppe. Alla fine di luglio la città di Brody, alla frontiera della Galizia, cadde in mano dei russi che, nelle due settimane precedenti, avevano catturato altri 40.000 austriaci. Ma anche le perdite russe non erano lievi e, Hindenburg e Ludendorff assunsero, nell’ultima settimana di luglio la difesa dell’ampio settore austriaco. Vennero formati battaglioni misti austro-tedeschi e furono richiesti aiuti perfino ai turchi.

Ai primi di settembre Brusilov raggiunse le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le evidenti difficoltà geografiche e, soprattutto, per l’arrivo di nuove truppe tedesche da Verdun che arrestarono la ritirata austriaca e inflissero gravi perdite ai russi. L’offensiva volgeva al termine, questa raggiunse comunque l’obiettivo principale di distogliere importanti forze tedesche dal settore di Verdun e, soprattutto, di costringere gli austro-ungarici a levare truppe dal settore italiano.

Problemi interni, sia tra le truppe sia tra gli ufficiali, e carenze di materiali stavano falcidiando le forze russe che, dalla fine dell’offensiva di Brusilov, non furono più capaci di sferrare offensive contro gli Imperi centrali.

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Stravolgimenti a oriente

A partire dal 1º febbraio 1917, il Kaiser Guglielmo II ordinò la guerra sottomarina indiscriminata per convincere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo delle trattative e cercare una pace. Intanto i rapporti diplomatici tra Germania e Stati Uniti d’America andavano deteriorandosi velocemente a causa dell’affondamento di navi statunitensi e dei Paesi neutrali da parte degli UBoot, così, il 6 aprile, il presidente Woodrow Wilson dichiarò guerra alla Germania.

L’esercito francese era in subbuglio, diserzioni di massa, ammutinamenti e frequenti proteste contro i comandi, rei di una strategia che non teneva conto delle enormi perdite, fecero vacillare l’assetto dell’esercito al fronte.

Il generale francese, Joseph Joffre, dichiarò che l’esercito francese era ancora in grado di sopportare ancora una grande battaglia ma ,che in seguito, il suo sforzo sarebbe diminuito progressivamente a causa della mancanza di uomini.

Il peso della guerra cadde quindi sulle spalle dei britannici, i quali avrebbero dovuto aspettare almeno un anno per usufruire concretamente dell’appoggio statunitense. I problemi per l’Intesa non finirono qui: la temporanea panne della macchina bellica francese fu accompagnata anche dal crollo, prima parziale e poi totale, della Russia, che neppure l’entrata in guerra degli Stati Uniti poté compensare per molti mesi, e dallo sfondamento austro-tedesco in Italia che quasi fece uscire di scena l’esercito di Luigi Cadorna.

Rivoluzione in Russia

Le enormi perdite della Russia, dovute ai difetti del suo apparato bellico ma che comunque avevano evitato molti sacrifici agli Alleati, aveva minato alle fondamenta la resistenza morale e fisica del suo esercito. Al fronte molti ufficiali russi non riuscivano più a mantenere la disciplina. Il 17 febbraio diversi squadroni di cavalleria di prima linea ricevettero munizioni e l’ordine di portarsi nelle retrovie senza ricevere ragguagli sull’obiettivo. Uno dei cavalleggeri, Georgij Žukov, ricordò:

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“ Ben presto tutto fu chiaro. Da dietro l’angolo di una via sbucarono i manifestanti con le bandiere rosse. [...] Un “cavalleggero alto” tenne un discorso agli uomini in cui affermò che il popolo russo vuole farla finita con la carneficina di questa guerra imperialista; vuole la pace, la terra e la libertà. [...] Non ci fu bisogno di ordini, i soldati gridarono e applaudirono mischiandosi ai dimostranti “ (Georgij Žukov)53

Su tutto il fronte i bolscevichi incitavano gli uomini a rifiutarsi di combattere e a partecipare ai comitati dei soldati per sostenere e diffondere le idee rivoluzionarie. Dal fronte le agitazioni si trasmisero alle città e alla capitale. A Pietrogrado54 il 3 marzo scoppiò un violento sciopero negli stabilimenti Putilov, la principale fabbrica di armamenti e munizioni per l’esercito. L’8 marzo gli operai in sciopero erano circa 90.000, il 10 marzo a Pietrogrado fu proclamata la legge marziale e, lo stesso giorno, il potere della Duma fu messo in discussione dal Soviet cittadino del principe menscevico Cereteli. Il 12, a Pietrogrado, 17.000 soldati si unirono alla folla che protestava contro lo zar e, alle 11 del mattino, fu dato alle fiamme il tribunale sulla prospettiva Litejnyj e le stazioni di polizia: era cominciata la prima rivoluzione russa. Lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo 1917 e un governo provvisorio di tendenze moderate si mise alla guida del paese, ma senza successo. A maggio gli succedette un altro governo, di tendenze più socialiste capeggiato da Kerensky che nonostante le sempre maggiori richieste di pace non ritirò le truppe dal fronte, anzi, con Brusilov succeduto a Alexeiev in qualità di comandante supremo, le forze russe conseguirono successi iniziali contro gli austriaci a Stanislau ma dovettero arrestarsi e, non appena la resistenza nemica si irrigidì, crollarono subito sotto i successivi contrattacchi nemici. All’inizio di agosto i russi furono cacciati dalla Galizia e dalla Bucovina, e soltanto considerazioni politiche impedirono agli austro-tedeschi di penetrare in Russia. Dopo la partenza di Hindenburg e Ludendorff, il comando del fronte orientale passò a Hoffmann, che, contemperando strategia militare e politica, paralizzò le forze russe rendendo disponibili truppe tedesche sul fronte occidentale e in minima parte sul fronte italiano. In settembre i tedeschi colsero 53 Gilbert, p. 381 54 Oggi San Pietroburgo

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un’occasione propizia per sperimentare nuovi metodi di bombardamento d’artiglieria e, con un attacco a sorpresa guidato da Oskar von Hutier, i tedeschi conquistarono Riga senza quasi incontrare resistenza.

Il 3 novembre arrivò a Pietrogrado la notizia che le truppe russe sul Baltico avevano gettato le armi e fraternizzato con i tedeschi: i soldati non obbedivano più al governo di Kerensky. La scintilla scoppiò il 7 novembre del calendario gregoriano corrispondente al 25 ottobre del calendario giuliano in uso al tempo nell'impero russo, quando, poco dopo le 22, l’incrociatore Aurora alla fonda nella Neva annunciò che avrebbe fatto fuoco sul palazzo d’Inverno e sparò alcuni colpi a salve per dimostrare che non scherzava.

All’una di notte il palazzo era occupato dai bolscevichi, Lenin fu eletto presidente del consiglio dei commissari del popolo e governava la capitale russa. Il loquace governo di Kerensky fu spazzato via, i bolscevichi imposero al popolo russo un regime comunista e in dicembre conclusero un armistizio con la Germania.

La pace di Brest-Litovsk

Gli Imperi centrali erano euforici. In Italia gli austriaci si trovavano nelle vicinanze di Venezia e i tedeschi si apprestavano a trasferire 42 divisioni, più di mezzo milione di uomini, dal fronte orientale a quello occidentale. I russi avevano deposto le armi e il 1º dicembre una commissione bolscevica lasciò Pietrogrado per attraversare le linee tedesche a Dvinsk diretta verso la fortezza di Brest-Litovsk dove una delegazione di tedeschi, austriaci, bulgari e turchi li attendeva per intavolare le trattative di pace.

Il 15 dicembre i negoziatori di Brest-Litovsk annunciarono la fine dei combattimenti su tutto il fronte orientale: la Russia non era più una potenza belligerante. Il 22 iniziarono quindi i negoziati per un trattato di pace, le truppe russe non avevano però finito di combattere, ora si dovevano scontrare con le forze indipendentiste dei vari paesi sotto il dominio russo e contro le forze lealiste, i cosiddetti “Bianchi”, era iniziata la guerra civile.

Le trattative di pace furono complicate, a Lenin serviva tranquillità lungo il

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fronte per fronteggiare le minacce interne e, allo stesso tempo, gli Imperi centrali reclamavano condizioni di resa durissime. I tedeschi si rendevano conto che l’integrità territoriale della Russia si stava velocemente disgregando, così si permisero di richiedere condizioni ancor più dure dopo che il 21 febbraio i bolscevichi accettarono le prime richieste. Il 24 febbraio dopo una tempestosa discussione il comitato centrale accettò senza condizioni le richieste dei tedeschi.

La Russia esce dal conflitto

Mentre il trattato si delineava, le truppe tedesche iniziarono ad avanzare ad est occupando Borisov, Dorpat e Narva sul Baltico, il 2 marzo l’esercito tedesco entrò a Kiev, mentre più a nord parevano decisi ad entrare a Pietrogrado. In due settimane, senza quasi incontrare resistenza, i tedeschi catturarono 63.000 soldati russi, 2600 pezzi d’artiglieria e 5000 mitragliatrici, armi molto utili per la campagna ad occidente.

Alle 17 del 3 marzo il trattato di pace venne firmato, i russi rinunciavano a tutte le pretese sulle provincie baltiche, sulla Polonia, la Russia Bianca, la Finlandia, la Bessarabia, l’Ucraina e il Caucaso perdendo così un terzo della popolazione dell’anteguerra, un terzo delle terre arabili e nove decimi delle miniere di carbone. Dovettero inoltre cedere tutte le basi del Baltico, eccetto Kronštadt, le navi da guerra del Mar Nero di stanza a Odessa e a Nikolajev dovettero essere disarmate e 630.000 prigionieri austriaci furono liberati. La guerra ad oriente era finita, la Russia non era più in guerra: il conflitto su due fronti, fin dal 1914 incubo per la Germania e l’Austria-Ungheria, non esisteva più. La Germania trasferì così tutto il potenziale a occidente, compreso tutto l’armamentario conquistato durante l’avanzata in Russia precedente la firma del trattato, avanzata che aveva lo scopo di mettere pressione al governo bolscevico e indurlo a firmare.

Il 21 marzo Ludendorff sferrò una grande offensiva ad occidente che, in caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra. Ludendorff sferrò una serie di tre offensive per cercare di spezzare la resistenza Alleata.

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L’ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio, ma ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati statunitensi erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l’11 novembre 1918.55

Fronte Italiano

Il fronte italiano, in tedesco Italienfront o Gebirgskrieg, “guerra di montagna”, comprende l’insieme delle operazioni belliche combattute tra il Regno d’Italia e i suoi Alleati56 contro le armate di Austria-Ungheria e Germania nel settore compreso tra il confine con la Svizzera e le rive settentrionali del Golfo di Venezia, come parte dei più ampi eventi della prima guerra mondiale. Il conflitto è conosciuto in Italia anche con il nome di “guerra italo-austriaca”, o “quarta guerra di indipendenza”

Dopo aver stipulato un patto di alleanza con le potenze della Triplice Intesa e aver abbandonato lo schieramento della Triplice alleanza, l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 iniziando le operazioni belliche il giorno successivo. Il fronte di contatto tra i due eserciti andò snodandosi nell’Italia nord-orientale, lungo le frontiere alpine e la regione del Carso. Nella prima fase del confronto le forze italiane, guidate dal capo di stato maggiore dell’esercito, generale Luigi Cadorna, lanciarono una serie di massicce offensive frontali contro le difese austro-ungariche nella regione del fiume Isonzo, tenute dall’armata del generale Svetozar Borojević von Bojna, mentre operazioni di minor portata prendevano vita sui rilievi alpini e in particolare nella zona delle Dolomiti. Il conflitto si trasformò ben presto in una sanguinosa guerra di trincea, simile a quella che si stava combattendo sul fronte occidentale. La lunga se-

55 Fonti per il paragrafo: Corni Gustavo Dizionario Illustrato della grande guerra; “Apocalypse – la prima guerra mondiale” ( DVD 2 – 5); “Nelle trincee della grande guerra” DVD “la grande guerra 1918 - 1914”

56 pochi lo sanno ma piccole unità francesi, inglesi e americane furono impegnate sul fronte italiano, più per salvare la faccia che per aiutare veramente l’esercito italiano

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rie di battaglie lungo il corso dell’Isonzo non portò per gli italiani che a miseri guadagni territoriali al prezzo di forti perdite tra le truppe, ben presto spossate e demoralizzate dall’andamento delle operazioni.

Le forze austro-ungariche si limitarono a difendersi lanciando contrattacchi limitati, fatta eccezione per la massiccia offensiva sull’Altopiano di Asiago nel maggio-giugno 1916, bloccata dagli italiani.

In alcuni settori del Trentino si assistette invece solo a duelli d’artiglieria a distanza, con pochi morti mentre in altri ci fu una vera e propria guerra di mine in cui i due schieramenti, per stanare le truppe nemiche dalle cime delle montagne, arrivarono a creare vere e proprie camere di scoppio facendo implodere la montagna57 . Ma a pagare maggiormente lo scotto della guerra in Trentino fu la popolazione civile che ,oltre alla chiamata alle armi degli uomini validi, si vide aggiungere il carico di requisizioni e arresti indiscriminati.

Infine con la stabilizzazione del fronte le varie comunità furono evacuate e costretta ad abbandonare i loro luoghi venendo spesso accolti male e cadendo nella Damnatio Memoriae58 .

La situazione subì un brusco cambiamento nell’ottobre 1917 quando un’improvvisa offensiva degli austro-tedeschi nella zona di Caporetto portò a uno sfondamento delle difese italiane e a un repentino crollo di tutto il fronte: le forze italiane dovettero dare vita a una lunga ritirata fino alle rive del fiume Piave, lasciando in mano al nemico il Friuli e il Veneto settentrionale oltre a centinaia di migliaia di prigionieri; ora, alla guida del generale Armando Diaz e rinforzate da truppe francesi e britanniche, le forze italiane riuscirono a consolidare un nuovo fronte lungo il Piave, bloccando l’offensiva degli Imperi centrali. Dopo aver respinto un nuovo tentativo degli austro-ungarici di forzare la linea del Piave, nel giugno 1918, le forze degli Alleati passarono alla controffensiva alla fine dell’ottobre seguente: nel corso della cosiddetta battaglia di Vitto-

57 Numerose cime furono abbassate da tale procedimento anche di parecchi metri.

58 Ancora oggi è ignoto il destino di numerosi profughi trentini

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rio Veneto le forze austro-ungariche furono messe in rotta, sfaldandosi nel corso della ritirata.

Il 3 novembre 1918 l’Impero austro-ungarico chiese e siglò l’armistizio di Villa Giusti, che entrò in vigore il 4 novembre segnando la conclusione delle ostilità.

Premessa

Benché legati all’Italia fin dal 1882 nell’ambito della cosiddetta Triplice alleanza, dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all’oscuro delle loro decisioni l’alleato, in considerazione del fatto che l’articolo 7 del trattato di alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco austro-ungarico alla Serbia, l’obbligo di prevedere compensi territoriali per l’Italia. Il 24 luglio 1914 Antonino di San Giuliano, ministro degli Esteri italiano, prese visione dei particolari dell’ultimatum alla Serbia: il ministro protestò violentemente con l’ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna, e pertanto l’Italia non avrebbe avuto l’obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l’Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia.

La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa dal governo del Presidente Consiglio dei ministri Antonio Salandra il 2 agosto 1914, cinque giorni dopo la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, e fu diramata il 3 mattina.

La neutralità ottenne inizialmente consenso quasi unanime negli ambienti politici e nell’opinione pubblica italiana, tuttavia il brusco arresto dell’offensiva tedesca sulla Marna suscitò i primi dubbi sulla invincibilità tedesca. Movimenti interventisti iniziarono a formarsi nell’autunno 1914 per raggiungere, appena pochi mesi dopo, una consistenza non trascurabile. Gli interventisti, in particolare, additavano la diminuzione della statura politica dell’Italia se fosse rimasta spettatrice passiva: se i vincitori fossero stati gli Imperi centrali questi non avrebbero dimenticato né perdonato, e si sarebbero anche vendicati della nazione che additavano come traditrice di un’alleanza trentennale.

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Gli interventisti vedevano nella guerra una vendetta per tutte le sconfitte e le umiliazioni del passato, e avrebbe permesso di completare l’unità d’Italia con l’annessione delle “terre irredente”, le zone dell’Impero austro-ungarico abitate da italiani, terre che tra l’altro la Triplice Intesa avrebbe assicurato all’Italia se si fosse schierata al suo fianco. Alla fine del 1914 il nuovo ministro degli Esteri Sidney Sonnino, per ottenere i maggiori compensi possibili, iniziò trattative con entrambe le parti59: le richieste territoriali avanzate dagli italiani agli austro-ungarici, riguardavano la cessione del Trentino e del Friuli, fino al fiume Isonzo e l’autonomia per la città di Trieste, ma furono interamente rigettate dal governo di Vienna, disposto solo a miseri aggiustamenti della frontiera. Mentre il paese era scosso da manifestazioni degli interventisti e dei neutralisti, i delegati italiani negoziarono segretamente con la Triplice Intesa, ottenendo promesse circa la cessione di ampi territori comprendenti l’intero Trentino-Alto Adige fino al Passo del Brennero, Trieste, l’Istria e parte della Dalmazia.

Il 26 aprile 1915, il re e una delegazione di pochi elementi conclusero le trattative segrete con l’Intesa mediante la firma del patto di Londra, con il quale l’Italia si impegnava a entrare in guerra entro un mese.

Il 3 maggio successivo la Triplice Alleanza fu denunciata e fu avviata la mobilitazione: il 23 maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria-Ungheria, ma non alla Germania con cui il governo Salandra sperava di non rompere del tutto.

Il piano

Italiano:

l’utopia del generale Cadorna

Il piano strategico dell’esercito italiano, sotto il comando del Capo di Stato Maggiore generale Luigi Cadorna, prevedeva di intraprendere un’azione offensiva/difensiva per contenere gli austro-ungarici nel loro saliente, incentrato sulla città di Trento e sul fiume Adige, che si incuneava nell’Italia settentrionale, lungo il lago di Garda nella zona di Brescia e Verona.

Lo scopo era concentrare lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso l’Austria-Ungheria, 59 Tipico sistema del governo italiano del tempo

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poco a ovest del fiume Isonzo. L’obiettivo a breve termine dell’Alto Comando italiano era costituito dalla conquista della città di Gorizia, situata poco più a nord di Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso e di difficile attuazione, prevedeva di avanzare verso Vienna passando per Trieste.

Nei disegni del generale Cadorna, la guerra contro un nemico già indebolito dalle carneficine del fronte orientale si sarebbe dovuta concludere in breve, con l’esercito italiano vittorioso in marcia su Vienna.

Sul fronte italiano furono ammassati circa mezzo milione di uomini, a cui in un primo tempo gli austro-ungarici seppero contrapporre soltanto 80.000 soldati, in parte inquadrati in milizie territoriali, male armate e poco addestrate. Il fiume Isonzo avrebbe costituito quindi il fronte principale quello che, una volta sfondato, avrebbe dovuto condurre prima a Trieste poi a Vienna. Cadorna sognava manovre colossali, di tipo napoleonico, con enormi attacchi lungo tutta la linea per dare letteralmente delle “spallate”60 al sistema nemico e farlo arretrare portandolo al crollo.

Sul fronte delle Dolomiti gli italiani, fortemente carenti di artiglierie e mitragliatrici destinate al fronte est, avrebbero dovuto attaccare lungo due principali direttrici strategiche: fra le Dolomiti di Sesto e attraverso il col di Lana. Queste azioni avrebbero dovuto portare a uno sfondamento in profondità sufficiente per raggiungere la val Pusteria, con la sua importante ferrovia, e il fondovalle che portava da un lato verso il Brennero e dall’altro nel cuore dell’Austria. Nella parte meridionale del fronte dolomitico la priorità era l’occupazione della val di Fassa, da dove si sarebbero potute raggiungere Bolzano, attraverso il passo Costalunga, oppure Trento, seguendo la valle dell’Avisio. Oltre a questi settori, dove si puntava a penetrazioni strategiche, gli italiani attaccarono anche nel cuore del massiccio dolomitico, su creste, lungo canaloni e persino sulle cime, spesso in condizioni svantaggiose dato che gli austro-ungarici occupavano quasi sempre postazioni più elevate, in azioni che ebbero notevoli effetti sul morale delle truppe ma che non mutarono in alcun modo l’andamento bellico del conflitto.

60 Termine coniato e usato da Cadorna. Thompson, p. 77

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Si aprono le ostilità

All’alba del 24 maggio 1915 le prime avanguardie del Regio Esercito avanzarono verso la frontiera, varcando quasi ovunque il confine con l’ex alleato e occupando le prime postazioni al fronte. All’inizio, la mobilitazione italiana avvenne con lentezza a causa della difficoltà di muovere contemporaneamente più di mezzo milione di uomini con armi e servizi.

Vennero sparate le prime salve di cannone contro le postazioni austroungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo di Giusto. All’alba dello stesso giorno la flotta austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia, le città di Ancona, Senigallia, Potenza, Picenza e Rimini senza causare gravi danni, eccetto che nel bombardamento di Ancona; la flotta italiana si oppose efficacemente solo a largo di Porto Bruno, costringendo la forza nemica a ritirarsi anzitempo. Nei primi giorni di guerra Cadorna progettò un attacco su tutta la linea del fronte, ma, con solo due dei diciassette corpi d’armata che componevano le sue forze a pieno organico e pronti a muovere, l’azione si sviluppò con estrema lentezza dando modo agli austro-ungarici di correre ai ripari. La situazione per gli italiani era inoltre aggravata dall’inesperienza dei reparti e da un insufficiente servizio di spionaggio che portò in certe zone a sovrastimare e in altre a sottovalutare notevolmente le forze nemiche che avevano davanti: in entrambi i casi i soldati furono mandati allo sbaraglio con conseguenze spaventose.

Sul fronte delle Dolomiti la 4ª Armata italiana occupò Cortina il 29 maggio, cinque giorni dopo che gli austro-ungarici l’avevano abbandonata, e poi rimase sulle sue posizioni fino al 3 giugno seguente: l’armata disponeva di una sola batteria di artiglieria pesante e mancava di ogni altro mezzo per poter forzare i reticolati di filo spinato disposti dai difensori. Più a ovest, la 1ª Armata occupò alcune posizioni nel Trentino meridionale prima di essere bloccata dalle forti difese austro-ungariche.

Sul fronte del basso Isonzo le avanguardie italiane si mossero a rilento, consen-

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tendo agli austro-ungarici di far saltare i ponti principali. Monfalcone fu occupata dalla 3ª Armata il 9 giugno, ma i difensori si attestarono sul vicino monte Cosich che, benché alto solo 112 metri, consentiva di dominare la pianura sottostante. La 2ª Armata avanzò con facilità nell’alta valle dell’Isonzo prendendo, il 25 maggio, Caporetto e stabilendo una testa di ponte sulla sponda orientale. A causa di incomprensioni tra i comandi e ritardi nello spiegamento delle truppe, gli italiani fallirono nella corsa per occupare prima degli austro-ungarici le strategiche posizioni del monte Mrzli e del Monte Nero che difendevano l’accesso a Tolmino: una serie di attacchi contro il Mrzli tra il 1º e il 4 giugno non portarono a niente, ma il 16 giugno un contingente di alpini riuscì a scalare di notte il Monte Nero conquistandone la vetta con un attacco all’alba. Più a sud gli italiani presero Plava, a metà strada tra Tolmino e Gorizia, ma gli austro-ungarici si attestarono in una testa di ponte a ovest dell’Isonzo ancorata sulle due vette del monte Sabotino a nord e del Podgora a sud, bloccando l’accesso alla stessa Gorizia; durante la seconda settimana di giugno gli scontri andarono diradandosi.

Le prime “Spallate” di Cadorna sull’Isonzo:

Solo alla fine di giugno la mobilitazione italiana poté dirsi completata e l’esercito pronto a muoversi, con circa un milione di uomini ammassati tra Friuli e Veneto.

Il 23 giugno Cadorna scatenò la prima delle sue “spallate” contro il fronte nemico lungo l’Isonzo, proseguita poi fino al 7 luglio: davanti Plava gli italiani attaccarono per otto volte il picco dominante di Quota 383 senza ottenere praticamente alcun risultato, mentre un assalto il 1º luglio contro il Mrzli naufragò lungo i declivi con pendenza del 40% resi fangosi da improvvisi temporali estivi. Sul Carso, dopo violenti combattimenti, la prima linea austro-ungarica cedette sotto i colpi dell’artiglieria italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia e sopra Sagrado, consentendo agli attaccanti di portarsi sotto i picchi del monte San Michele e del monte Sei Busi che finirono con il rappresentare un saliente saldamente tenuto dagli austro-ungarici.

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In generale l’attacco italiano non approdò a niente: benché le difese austroungariche fossero ancora relativamente improvvisate a causa della difficoltà di scavare trincee sul terreno del Carso, gli italiani dimostrarono notevoli difficoltà a superare gli sbarramenti di filo spinato protetti dalle mitragliatrici. Dopo aver ammassato un maggior quantitativo di artiglieria, Cadorna tentò una nuova offensiva il 18 luglio: l’azione si concentrò sul San Michele e gli attacchi italiani costrinsero gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia di metri sull’altipiano di Doberdò e davanti al villaggio di San Martino del Carso. Sui due lati del saliente, invece, gli attacchi italiani contro il monte Cosich, a sud, e contro il Podgora e il Sabotino, a nord davanti Gorizia, non portarono che a forti perdite e guadagni territoriali insignificanti. Sull’alto Isonzo la 2ª Armata iniziò una serie di assalti nel settore Monte NeroMrzli nel tentativo di distrarre gli austro-ungarici dal San Michele, ma il poco terreno guadagnato fu in gran parte perduto nei contrattacchi dei difensori. Alle batterie italiane iniziarono presto a scarseggiare le munizioni e questo indusse Cadorna a sospendere gli attacchi per il 3 agosto, facendo della seconda battaglia dell’Isonzo il primo bagno di sangue su larga scala del fronte: gli italiani riportarono 42.000 tra morti e feriti, perdite causate da tattiche errate che puntavano ancora su attacchi frontali con le truppe ammassate in dense formazioni (numerose furono in particolare le vittime tra gli ufficiali inferiori, che si ostinavano a guidare le truppe in prima linea spada alla mano) e dallo scarso coordinamento tra artiglieria e fanteria. Per l’unica volta nella guerra le perdite austro-ungariche superarono in numero quelle degli italiani, con 47.000 tra morti e feriti, a causa delle difese ancora incomplete (le prime linee erano ben fortificate ma le retrovie erano carenti di rifugi protetti, risultando molto vulnerabili al fuoco dell’artiglieria italiana) e dell’ostinazione di Borojević a mantenere il possesso di qualunque lembo di terreno. Cadorna passò due mesi ad ammassare altra artiglieria e a ricostruire le sue riserve di munizioni in vista di un nuovo assalto. Gli Alleati facevano pressioni perché l’offensiva fosse lanciata al più presto onde alleggerire la pressione sulla Serbiache era sotto attacco, degli austro-tedeschi da nord e dei bulgari da est, e ormai prossima al crollo. Cadorna diede il via alle operazioni il 18 ottobre: no-

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nostante il pesante fuoco d’appoggio di 1.300 cannoni protratto per tre interi giorni, gli assalti della fanteria sferrati a partire dal 21 ottobre dal Mrzli al San Michele, passando per il Sabotino e il Podgora, non portarono che a pochi guadagni, in gran parte persi nei contrattacchi degli austro-ungarici che avevano ben sfruttato il periodo di tregua allestendo una linea difensiva basata su tre ordini di trincee. Il maltempo imperversò per tutta la durata della battaglia, spingendo il comando italiano a terminare l’azione il 4 novembre dopo nuovi e infruttuosi assalti al San Michele. Nonostante le 67.000 perdite riportate dagli italiani, tra morti e feriti, Cadorna si convinse che i reparti di Borojević fossero sul punto di crollare e dopo appena una settimana di pausa il 10 novembre scatenò la quarta battaglia dell’Isonzo. Sotto una pioggia battente che dal 16 novembre si trasformò in neve, gli italiani assalirono le stesse posizioni che avevano attaccato nella precedente battaglia, ottenendo solo miseri guadagni di terreno e cessando infine l’azione per il 5 dicembre.

Alla fine del 1915 lungo l’Isonzo l’esercito italiano registrò circa 235.000 perdite tra morti, feriti e ammalati, prigionieri e dispersi, mentre gli austro-ungarici, pur difendendosi quasi esclusivamente, subirono oltre 150.000 perdite. Gli austro-ungarici iniziarono a preoccuparsi dell’assottigliamento degli effettivi, ma il sistema difensivo resse bene l’urto dei fanti italiani, che ancora una volta vedevano vanificati i loro sforzi. Nessuno degli obiettivi del comando supremo era stato raggiunto e ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle operazioni in grande stile, anche perché, considerate le perdite, entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di continuare una lotta all’ultimo uomo.

La Guerra Bianca

Parallelamente alle offensive portate nei primi mesi di guerra dalla 2ª e 3ª Armata sul fronte dell’Isonzo, il tenente generale Luigi Nava, al comando della 4ª Armata italiana, il 3 giugno diede l’ordine di avanzata generale lungo tutto il settore dolomitico: quest’ordine diede il via, tra fine maggio ed inizio giugno, a

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una serie di piccole offensive in vari punti del fronte.

L’8 giugno gli italiani attaccarono nell’alto Cadore, sul Col di Lana, nel tentativo di tagliare una delle principali vie di rifornimento austro-ungarica, attraverso la Val Pusteria, al settore Trentino. Questo teatro di operazioni fu secondario rispetto alla spinta a est, ebbe tuttavia il merito di bloccare vari contingenti austro-ungarici, infatti la zona di operazioni si avvicinava, più di ogni altro settore, a vie di comunicazione strategiche per l’approvvigionamento del fronte tirolese e trentino.

Tra il 15 e il 16 giugno partì la prima offensiva verso i Lagazuoi e le zone limitrofe, un attacco teso a catturare il Sasso di Stria sulla cui cima era stato installato un osservatorio di artiglieria austriaco. Poco più a nord, tra giugno e luglio, gli italiani lanciarono i primi attacchi sulle Tofane e verso la val Travenanzes dove, dopo un’iniziale avanzata, il 22 luglio furono ricacciati su posizioni sfavorevoli da un contrattacco austro-ungarico. Dopo aver occupato Cortina e passo Tre Croci il 28 maggio, gli italiani si trovarono dinnanzi a tre ostacoli che gli impedivano di entrare a Dobbiaco: il Son Pauses, il Monte Cristallo e il Monte Piana. Gli italiani in giugno attaccarono tutti e tre i capisaldi senza ottenere in alcun caso risultati di rilievo. Entrambi gli schieramenti furono invece costretti a trincerarsi su posizioni che, in pratica, non sarebbero più cambiate fino al 1917. Più a est, altri settori furono testimoni dei primi scontri tra italiani e austroungarici: il 25 maggio viene bombardato dagli italiani il rifugio Tre Cime alla base delle Tre Cime di Lavaredo, anche se il primo vero attacco italiano si avrà solo in agosto.

L’8 giugno la 96ª Compagnia del Battaglione alpino “Pieve di Cadore” e la 268ª Compagnia del “Val Piave” occupano il Passo Fiscalino, mentre tra luglio e agosto gli italiani occupano la cima di monte Poper, la cresta Zsigmondy, e Cima Undici che non erano presidiate dagli austro-ungarici, invece più a est per tutta l’estate si susseguirono i tentativi italiani di sfondamento del passo Monte Croce di Comelico e che ben presto però si trasformarono in una guerra di posizione durata fino al 1917.

Ad ovest del settore alpino, dalla fine di maggio del 1915 all’inizio di novembre

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del 1917, il possesso del massiccio della Marmolada costituì un elemento strategico particolarmente importante in quanto controllava l‘accesso alla val di Fassa e alla val Badia, e quindi al Tirolo, divenendo subito uno dei punti più caldi del fronte alpino occidentale.

Altro settore considerato molto importante dagli italiani era il passo del Tonale, su cui già prima della guerra, in previsione di una guerra tipicamente difensiva, erano stati costruiti alcuni settori fortificati. Le disposizioni del Comando Supremo stabilivano infatti che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove necessario, solo piccole azioni offensive al fine di occupare posizioni più facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di attestarsi in luoghi più facilmente accessibili e rifornibili.

Allo scoppio delle ostilità, i comandi militari italiani si resero conto che la presenza degli austro-ungarici sulle creste dei Monticelli e del CastellaccioLagoscuro rappresentava una seria minaccia per la prima linea sul Tonale e fu così decisa un’azione per scacciarli.

La prima operazione di guerra sui ghiacciai fu affidata al Battaglione alpini “Morbegno” ed ebbe luogo il 9 giugno 1915 per concludersi con una tremenda sconfitta. Gli alpini, nel tentativo di occupare la Conca Presena e cogliere gli austro-ungarici di sorpresa, effettuarono una vera e propria impresa alpinistica risalendo la Val Narcanello, il ghiacciaio del Pisgana e attraversando la parte alta di Conca Mandrone. Giunti al Passo Maroccaro e iniziata la discesa in Conca Presena, furono avvistati dagli osservatori austriaci e sottoposti, sul candore del ghiacciaio, al preciso tiro della fanteria imperiale che, pur essendo in numero assai inferiore, seppe contrastare l’attacco in modo assai abile costringendoli alla ritirata con la perdita di 52 uomini. Un mese dopo, il 5 luglio, gli austro-ungarici attaccarono a loro volta il presidio italiano sulle rive del Lago di Campo in alta Val Daone. L’agguato, perfettamente riuscito, evidenziò l’impreparazione tattica italiana. Stimolati dal successo ottenuto, il 15 luglio gli austro-ungarici tentarono un improvviso attacco al Rifugio Garibaldi attraverso la Vedretta del Mandrone. Il piano fallì per l’abilità dei difensori, ma mise nuovamente in risalto la vulnerabilità del sistema difensivo italiano che, proprio per questo motivo, venne rafforzato. Per quanto ri-

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guarda l’ala destra del fronte del Tonale, le azioni italiane più significative del 1915 si svolsero in agosto con diverse direttrici, ma portarono solo alla conquista del Torrione d’Albiolo.

Tutte queste offensive non portarono a nessuno sfondamento tanto che, come sull’Isonzo, anche la guerra di montagna divenne una guerra di trincea simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale. L’unica differenza consisteva nel fatto che, mentre sul fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul fronte italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai dagli Alpini italiani e dai loro omologhi austriaci, i Kaiserjager, fino e oltre i 3.000 metri di altitudine.

II anno di guerra

La durata della guerra sembrava ormai allungarsi oltre ogni previsione, e all’inizio del 1916 l’esercito italiano iniziò un’opera di riordinamento e potenziamento sulla base di un programma concordato tra il Governo e il capo di stato maggiore, presentato in maggio da Cadorna.

In novembre vennero approntate 12 nuove brigate di fanteria e la formazione di una nuova quarta compagnia per i battaglioni che ne avevano soltanto tre, e in ogni battaglione venne inquadrato un reparto zappatori di 88 uomini tratti dalle compagnie. Le stesse misure vennero adottate per i bersaglieri, mentre per quanto riguarda gli alpini fu completato il processo di formazione dei 26 battaglioni di Milizia Mobile portando il totale del corpo a 78 battaglioni con 213 compagnie; altre 4 brigate di fanteria vennero formate tra aprile e maggio attingendo da quanto rimaneva della classe 1896 e gli esonerati sottoposti a nuova visita dal 1892 al 1894, e ancora tra marzo e giugno riunendo alcuni battaglioni provenienti dalla Libia.

Entro la fine dell’anno le divisioni sarebbero salite dalle 35 iniziali a 48 con una forza complessiva di circa un milione e mezzo di uomini in armi.

Il 21 febbraio 1916 i tedeschi attaccarono in massa la piazzaforte di Verdun in Francia, dando il via alla battaglia più sanguinosa dell’intero conflitto che finì per catalizzare le attenzioni dei due contendenti.

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Sotto pressione, gli Alleati occidentali chiesero a Russia e Italia di condurre al più presto offensive sui loro fronti onde alleggerire la stretta su Verdun; i russi risposero lanciando il 18 marzo l’offensiva del lago Naroch, mentre Cadorna scatenò l’11 marzo la quinta battaglia dell’Isonzo: gli italiani conquistarono qualche posizione sul Sabotino, ma il poco terreno ottenuto davanti al San Michele andò perduto davanti ai contrattacchi austro-ungarici mentre gli attacchi verso Tolmino e il Mrzli non ottennero risultato. Ostacolata dalla neve e dalla nebbia, l’offensiva fu poi interrotta il 15 marzo seguente.

La Strafexpedition e la presa di Gorizia

Dopo la resa della Serbia, nel novembre 1915, il capo di stato maggiore austroungarico Conrad von Hötzendorf iniziò a fare progetti per una offensiva risolutiva sul fronte italiano. Il piano prevedeva un attacco a partire dal saliente del Trentino in direzione est, verso lo sbocco delle montagne sulla pianura vicentina. L’enorme difficoltà di accumulare e manovrare mezzi adeguati in una regione tanto aspra e montuosa era controbilanciata dalla posta in gioco: lo sbocco delle divisioni austroungariche nella pianura veneta e l’accerchiamento dell’esercito italiano schierato nel Friuli, preso praticamente alle spalle.

Per la realizzazione di un simile piano von Hötzendorf stimò di dover mettere in campo almeno 160.000 uomini (16 divisioni a pieni ranghi), quando la consistenza delle forze lungo l’Isonzo non ammontava a più di 147.000 uomini. Il feldmaresciallo si rivolse al suo omologo tedesco, Erich von Falkenhayn, chiedendo truppe per il fronte orientale onde sbloccare divisioni austro-ungariche da trasferire in Trentino ma Falkenhayn, totalmente assorbito dai preparativi per l’attacco su Verdun, respinse la richiesta arrivando a sconsigliare apertamente di attuare un piano così ambizioso, per la cui realizzazione le forze austro-ungariche apparivano insufficienti.

Il piano austro-ungarico prevedeva l’inizio dell’offensiva per il 10 aprile, ma le abbondanti nevicate di marzo obbligarono von Hötzendorf a posticipare la data dell’attacco.

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I preparativi austro-ungarici non sfuggirono all’attenzione degli italiani, grazie anche alle informazioni ottenute in seguito alle endemiche diserzioni di soldati e ufficiali che affliggevano i multietnici reparti imperiali. L’area interessata dall’imminente battaglia era sotto la responsabilità della 1ª Armata del generale

Roberto Brusati, una formazione debole e sparpagliata lungo tutto il saliente del Trentino, dal confine con la Svizzera alle Dolomiti. Brusati richiese insistentemente rinforzi, ma ricevette dall’alto comando appena cinque divisioni supplementari che finirono con l’essere schierate in prima linea e in posizioni troppo avanzate.

Cadorna era scettico circa le notizie che arrivavano sui preparativi nemici in Trentino e rassicurato dal fatto che la Russia stesse preparando per aprile una nuova massiccia offensiva contro il fronte degli Imperi centrali a est. A causa delle cattive comunicazioni tra gli Alleati, però, il comando italiano fu informato solo il giorno prima dell’attacco di von Hötzendorf che l’offensiva russa era stata rimandata a metà giugno.

Il 15 maggio, appena il tempo lo permise, scattò la cosiddetta Strafexpedition, la “spedizione punitiva”: l’11ª Armata austro-ungarica passò all’attacco fra la val d’Adige e la Valsugana in Trentino, spalleggiata dalla 3ª Armata destinata allo sfruttamento del successo. Se l’offensiva non fu una sorpresa per Cadorna, lo fu per l’opinione pubblica: improvvisamente l’Italia scoprì, dopo un anno di sole offensive e senza che nessuno l’avesse messa in guardia, di trovarsi in grave pericolo.

L’avanzata austro-ungarica travolse il fronte italiano per una lunghezza di 20 chilometri, avanzando a fondo nella zona dell’Altopiano dei Sette Comuni. Il 27 maggio gli austro-ungarici presero Arsiero seguita, il giorno successivo, da Asiago.

Cadorna arrivò a ventilare al governo Salandra la possibilità per l’esercito dell’Isonzo di ripiegare di tutta fretta abbandonando il Veneto per non cadere nella completa distruzione. Ma l’offensiva austro-ungarica andò progressivamente rallentando: gli uomini erano esausti e i rifornimenti carenti, ma soprattutto Conrad si ostinò con la tattica tradizionale di avanzare parallelamente tanto nei fondovalle quanto sulle

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cime in quota, una manovra che in definitiva non faceva che rallentare lo sviluppo dell’attacco.

Cadorna reagì con rapidità all’attacco austro-ungarico, richiamando divisioni di riserva dal fronte dell’Isonzo e costituendo una 5ª Armata che riuscì a frenare e, in seguito, arrestare concretamente l’offensiva sugli Altopiani.

Dopo un appello personale del re Vittorio Emanuele allo Zar, i russi anticiparono la loro offensiva al 4 di giugno: l’offensiva Brusilov ottenne un successo di vaste proporzioni contro il debole fronte austro-ungarico a est, facendolo arretrare di 75 chilometri e portando alla cattura di circa 200.000 prigionieri e 700 cannoni nel giro di una settimana.

Dopo un ultimo tentativo di offesa ai danni delle difese del Lemerle e del Magnaboschi, il 16 giugno, von Hötzendorf sospese l’offensiva. A partire dal 25 giugno le forze imperiali iniziarono una ordinata ritirata verso nuove posizioni difensive, abbandonando le semidistrutte Arsiero e Asiago, attestandosi saldamente nella porzione settentrionale dell’Altopiano, da dove respinsero una serie di frettolosi contrattacchi degli italiani; azione che andò poi spegnendosi entro il 27 giugno.

Si concluse così la prima grande battaglia difensiva dell’Italia, definitivamente “maturata” per la “guerra di materiali” che l’avrebbe vista impegnare ingenti quantitativi di uomini, mezzi e risorse fino al termine del conflitto. Il fatto di aver perduto terreno, la massima penetrazione austro-ungarica si misurò su più di 20 chilometri in profondità verso la pianura vicentina, fece apprezzare scarsamente la reale vittoria difensiva italiana.

Parata la mossa di von Hötzendorf e con gli austro-ungarici impegnati a fondo sul fronte orientale, Cadorna riprese i suoi piani per un’offensiva estiva sul settore dell’Isonzo. Frustrato dalle precedenti esperienze, il comandante in capo progettò un’azione più limitata volta a ottenere posizioni più favorevoli da cui poi minacciare il San Michele e Gorizia. Per la prima volta, avrebbe cercato di contenere l’ampiezza del fronte da attaccare e poter così concentrare meglio la sua superiorità in fatto di artiglieria.

Le forze italiane avevano trascorso i mesi seguenti la Strafexpedition a migliorare le loro posizioni, scavando un intricato sistema di gallerie e trincee di avvici-

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namento, per portarsi il più possibile a ridosso delle linee nemiche e ammassando artiglieria e munizioni nelle retrovie. Anche senza azioni di massa il logoramento lungo il fronte era stato continuo e il 29 giugno gli austro-ungarici avevano tentato una piccola offensiva sul San Michele impiegando per la prima volta le armi chimiche: una miscela di gas tossici fu liberata sulle linee italiane provocando 2.000 morti e 5.000 intossicati, ma gli attaccanti impiegarono poche truppe per sfruttare il successo e, già entro sera, gran parte del territorio conquistato era stato ripreso dai contrattacchi italiani. Il 6 agosto Cadorna si sentì pronto a scatenare la sua sesta battaglia sull’Isonzo, e per una volta i risultati superarono le sue aspettative: con una superiorità schiacciante in fatto di bocche da fuoco, all’alba l’artiglieria italiana scaricò un breve ma violento bombardamento preparatorio poi, quello stesso pomeriggio, i fanti scattarono dalle loro trincee di avvicinamento, a 50 o anche solo 10 metri dalle linee nemiche, portando sulla schiena grossi dischi bianchi per consentire alla loro artiglieria di coordinare il tiro con i loro spostamenti; le truppe del generale Luigi Capello conquistarono la vetta del Sabotino in appena 38 minuti, il primo chiaro successo italiano dalla conquista del Monte Nero nel giugno 1915. Sul massiccio del San Michele gli italiani presero entro sera la vetta e il villaggio di San Martino del Carso, respingendo un contrattacco notturno delle riserve di Borojević. Perduto il Sabotino, la linea austro-ungarica si sgretolò: il secondo giorno della battaglia il Podgora cadde in mano italiana e, falliti una serie di contrattacchi, gli austro-ungarici sgombrarono la riva destra dell’Isonzo così, l’8 agosto, i primi italiani entrarono a Gorizia, semidistrutta dai bombardamenti e abitata ormai da non più di 1.500 civili. Senza più il controllo del San Michele, le forze austro-ungariche abbandonarono l’intero Carso occidentale spostandosi su una nuova linea difensiva che andava dal Monte Santo di Gorizia, a nord, al Monte Ermada, a sud, passando per le vette del San Gabriele e del Dosso Faiti. Cadorna fu lento a sfruttare il successo ottenuto e, con l’artiglieria pesante rimasta indietro, le truppe italiane non riuscirono a scalfire la nuova linea difensiva. Il 12 agosto gli italiani ottennero un ultimo successo catturando il villaggio di Opacchiasella ma il 17 agosto l’offensiva si era ormai arenata.

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Per gli standard del fronte dell’Isonzo la sesta battaglia fu un notevole successo, consentendo agli italiani di avanzare lungo un fronte di 24 chilometri per una profondità dai quattro ai sei chilometri, anche se non venne ottenuto alcuno sfondamento definitivo. Dopo aver passato più di un anno ad assediare le postazioni austro-ungariche, gli italiani non avevano fatto altro che spostare il campo di battaglia di qualche chilometro più a est.

Altre battaglie sull’Isonzo e sul Carso

Dopo aver riorganizzato i reparti e riportato in linea la sua artiglieria, Cadorna progettò una nuova offensiva per i primi di settembre onde sfruttare l’apertura di un nuovo fronte per l’Austria-Ungheria dato dall’entrata in guerra della Romania a fianco degli Alleati. Pioggia e nebbia ostacolarono per diversi giorni il bombardamento preliminare, e solo il pomeriggio del 14 settembre la fanteria poté partire all’attacco. La 3ª Armata italiana aveva ottenuto un concentramento di truppe senza precedenti con 100.000 uomini ammassati su un fronte di otto chilometri, ma le forze austro-ungariche avevano adottato una nuova tattica che si rivelò efficace. Durante il bombardamento italiano le trincee di prima linea erano presidiate solo da poche vedette, con il grosso dei soldati al sicuro dentro rifugi sotterranei nelle retrovie; una volta che gli italiani cessavano il tiro per permettere alla propria fanteria di partire all’attacco, gli austro-ungarici tornavano rapidamente alle loro posizioni per affrontare il nemico. Le masse compatte dei fanti italiani divennero un obiettivo facile per le mitragliatrici e per l’artiglieria austro-ungarica, che aveva trattenuto il fuoco fino all’ultimo minuto per non rivelare la sua posizione; un ufficiale austro-ungarico descrisse l’attacco italiano come

“un tentativo di suicidio di massa”61 Prima che le forti piogge mettessero fine all’azione il 18 settembre, gli italiani non conquistarono che pochi lembi di terreno al prezzo di pesanti perdite.

61 Thompson, pp. 234 235. Parole testuali di un anonimo ufficiale di lingua italiana ma condivise dallo stato maggiore

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Benché vittoriose nelle azioni difensive, le forze di Borojević erano allo stremo: l’incremento della produzione italiana di bocche da fuoco non fece che aumentare l’inferiorità numerica dell’artiglieria austro-ungarica, la qualità dei viveri peggiorava continuamente e le forti perdite erano ripianate solo con l’immissione in linea di soldati di mezza età dotati di scarso addestramento, con i reparti sempre più vulnerabili alle istanze nazionaliste delle varie etnie dell’Impero. Con una superiorità numerica di tre a uno sul nemico, Cadorna iniziò l’ottava battaglia dell’Isonzo il 10 ottobre dopo una settimana di bombardamenti preliminari: gli italiani conquistarono un po’ di terreno nella valle del fiume Vipacco, ma l’azione si esaurì entro il 12 ottobre con nulla di più che forti perdite da entrambe le parti. Dopo solo una breve pausa, il 31 ottobre, Cadorna riprese i suoi attacchi lungo la linea Colle Grande-Pecinca-Bosco Malo con obiettivo il Dosso Faiti e la Sella delle Trincee: il fuoco di 1.350 cannoni demolì le prime linee austro-ungariche e gli italiani riuscirono a stabilire un saliente ampio cinque chilometri e profondo tre arrivando a conquistare la vetta del Dosso Faiti, ma a sud gli attacchi al monte Ermada non portarono a niente. Un contrattacco disperato delle ultime riserve di Borojević indusse Cadorna a sospendere l’azione il 4 novembre, proprio quando lo sfondamento appariva imminente.

Le perdite sofferte ammontarono a 39.000 soldati tra morti, feriti e dispersi per gli italiani e 33.000 per gli imperiali.

Intanto, mentre sul fronte si contavano le perdite di uomini e materiali e ci si preparava ad affrontare l’inverno, a Vienna il 21 novembre morì il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe a cui successe il nipote Carlo I, che oltre a un impero in disfacimento ereditò una guerra che non aveva voluto. Il nuovo imperatore avanzò proposte di pace a Francia e Regno Unito che caddero nel vuoto, fornendo però il pretesto per declinare a queste ultime le responsabilità sul protrarsi della guerra. Per tutto l’inverno 1916-1917, sul fronte dell’Isonzo tra il Carso e Monfalcone la situazione rimase stazionaria, mentre sulle Alpi, il settore del III Corpo d’armata comprendente la zona tra lo Stelvio e il lago di Garda, fu caratterizzato da piccole offensive atte a conquistare alcune vette strategicamente importanti, tra cui quella di monte Cavento che fu at-

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taccato ad inizio inverno.

La Strefexpedition causò la stasi nelle operazioni per la conquista del monte, che ripresero a maggio 1917 con la “battaglia dei Ghiacci” che consentì alla 242ª Compagnia del battaglione alpino “Val Baltea” la conquista della vetta.

Il terzo anno di guerra e le ultime battaglie dell’Isonzo

Per l’aprile-maggio del 1917 gli Alleati occidentali avevano in programma una serie di offensive per mettere alle strette gli Imperi centrali: gli anglo-francesi stavano per lanciare una serie di assalti simultanei al fronte occidentale, la cosiddetta “offensiva Nivelle”62, mentre Cadorna preparava una nuova spallata sull’Isonzo.

Nonostante la perdita, nel corso del 1916, di quasi 400.000 effettivi l’esercito italiano andava sempre più rafforzandosi e nella primavera del 1917 poteva mettere in campo 59 divisioni con una forza di quasi due milioni di uomini in armi grazie al richiamo dei diciannovenni della classe 1898, mentre il numero di cannoni di medio e grosso calibro era raddoppiato rispetto a un anno prima.

La lungamente pianificata offensiva italiana del 1917 iniziò il 12 maggio con un devastante bombardamento preliminare di circa 3.000 bocche da fuoco. Nel pomeriggio del 14 maggio la 2ª Armata italiana, ora agli ordini del generale Luigi Capello, iniziò l’azione sul medio corso dell’Isonzo assalendo a partire dalla testa di ponte di Plava il rilievo di Quota 383: in condizioni di inferiorità di quindici a uno, il solitario battaglione austriaco che difendeva la vetta dovette cedere sotto gli attacchi di cinque reggimenti italiani, non prima però di aver inflitto agli attaccanti perdite pari al 50% degli effettivi. Il piano prevedeva di fermare poi le forze della 2ª Armata per spostare l’artiglieria in appoggio della 3ª Armata sul basso Isonzo, ma visti i progressi Capello chiese e ottenne di continuare con la sua azione. Gli italiani estesero i loro assalti al monte Kuk, conquistato definitivamente il 17 maggio dopo vari attacchi e contrattacchi delle due parti, e al monte Vodice, preso due giorni più tardi. Il 20 maggio Capello lanciò dieci ondate di fanteria contro il Monte Santo, 62 Silvestri 2006, p. 23

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ma i reparti italiani, arrivati in vetta, furono ricacciati indietro da un contrattacco austro-ungarico e il generale decise di sospendere la sua offensiva. L’azione si spostò a sud, dove il 24 maggio la 3ª Armata del Duca di Aosta iniziò i suoi attacchi a partire dal saliente creato nella precedente battaglia: sulla sinistra gli italiani furono bloccati, ma sulla destra ottennero uno sfondamento avanzando lungo una fascia larga due chilometri nella zona pianeggiante tra l’altopiano del Carso e il mare. Gli italiani conquistarono il villaggio di Jamiano e arrivarono alle prime pendici dell’Ermada prima che, il 26 maggio, i rinforzi austro-ungarici li bloccassero. Richiamati alcuni reggimenti freschi dal Trentino e arrivate due divisioni distaccate dal fronte orientale, Borojević tentò un contrattacco in grande stile il 4 giugno dando vita alla battaglia di Flondar: dopo una finta davanti al Dosso Faiti gli austro-ungarici attaccarono le posizioni della 3ª Armata, a ovest dell’Ermada, ricacciando indietro gli indeboliti reparti italiani per alcuni chilometri e prendendo più di 10.000 prigionieri. Allontanata la minaccia italiana dall’Ermada gli austro-ungarici si attestarono nuovamente sulla difensiva e gli scontri su vasta scala terminarono in tutto il settore del Carso entro il 6 giugno. Cadorna aveva iniziato a pianificare la sua prossima mossa mentre la decima battaglia, o “spallata” era ancora in svolgimento, spostando dodici divisioni fresche dal fronte alpino all’Isonzo. Il nuovo obiettivo sarebbe stata la Bainsizza, un altopiano semi desertico all’altezza del medio corso dell’Isonzo, che appariva poco presidiato dagli austro-ungarici: da qui Cadorna riteneva di poter piegare verso sud, tagliare fuori il Monte Santo e il San Gabriele e prendere alle spalle le difese nemiche sul basso Isonzo. Dopo quattro giorni di bombardamenti l’undicesima battaglia dell’Isonzo iniziò il 19 agosto con un attacco lungo tutto il fronte: la 3ª Armata fece breccia in tre punti, ma fu infine bloccata dalle forti difese dell’Ermada e della valle del Vipacco, mentre a nord la 2ª Armata di Capello sfondò, a partire dal 22 agosto, le difese austro-ungariche avanzando con facilità sull’altopiano della Bainsizza. Borojević optò per una difesa in profondità, ritirando le sue scarne truppe sul bordo orientale dell’altopiano contando sul terreno difficile per rallentare le forze di Capello: le truppe italiane si ritrovarono così in una zona priva di stra-

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de e inospitale, per la mancanza di acqua, dove rimasero bloccate. La 2ª Armata sferrò anche una serie di puntate verso Tolmino, facilmente respinte dai difensori, e un attacco contro il Monte Santo, conquistato il 22 agosto dopo il ripiegamento delle forze austro-ungariche dalla Bainsizza. Il cordone difensivo allestito da Borojević intorno all’altopiano bloccò, comunque, il tentativo di aggiramento che la 2ª Armata doveva realizzare. Il 4 settembre un massiccio contrattacco austro-ungarico fece indietreggiare alcuni reparti della 3ª Armata nella valle del Vipacco, mentre contemporaneamente Capello dava il via agli attacchi contro il San Gabriele: in una riedizione dei precedenti assalti alle vette del Carso, 700 pezzi di artiglieria italiana martellarono la cima del monte che, a causa del continuo bombardamento, perse circa dieci metri di altezza durante la battaglia (tomba di granito per i soldati che non riuscirono ad abbandonare la postazione e i cui resti non sono ancora stati recuperati) prima che masse compatte di fanti tentassero di espugnarla con assalti frontali; i reparti austro-ungarici arrivarono a un passo dal cedere, ma gli italiani non erano meno spossati e il 19 settembre Cadorna dovette fermare le operazioni63 . L’undicesima battaglia dell’Isonzo si risolse in un nuovo bagno di sangue, con gli italiani che riportarono 166.000 tra morti e feriti, più di metà dei caduti fu registrata sul solo San Gabriele, mentre gli austro-ungarici ne lamentarono 140.000. L’armata di Borojević era ormai prossima al cedimento e questo spinse la Germania a intervenire con urgenza per sostenere il suo vacillante alleato in quella che fu la battaglia di Caporetto.

La disfatta di Caporetto

Con la linea austro-ungarica intorno a Gorizia a rischio di collasso a seguito dell’undicesima battaglia dell’Isonzo, l’alto comando di Vienna si appellò ai tedeschi perché contribuissero a una controffensiva sul fronte italiano. Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, comandanti supremi dell’esercito tedesco, si

63 Thompson, pp. 296 299

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accordarono quindi con il nuovo capo di stato maggiore austro-ungarico Arthur Arz von Straussenburg per l’organizzazione di una offensiva combinata. Il generale tedesco Konrad Krafft von Dellmensingen fu inviato al fronte per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6 settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria, Dellmensingen tornò in Germania per approvare l’invio degli aiuti, sicuro anche del fatto che la Francia, dopo il fallimento della seconda battaglia dell’Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato. Sette divisioni tedesche di eccellente livello furono unite ad altre cinque divisioni austro-ungariche nella nuova 14ª Armata sotto il generale Otto von Below, sostenuta da più di 1.000 pezzi di artiglieri. L’ammassamento delle forze degli Imperi centrali sull’alto corso dell’Isonzo, tra Plezzo e Tolmino, iniziò ai primi di settembre. Rapporti dalla ricognizione aerea e resoconti dei disertori riferirono agli italiani del movimento di truppe tedesche dirette nella zona dell’alto Isonzo e, il 18 settembre, Cadorna decise di passare a una linea difensiva nell’attesa degli eventi. L’alto comando dimostrò tuttavia notevole scetticismo circa le notizie di un imminente attacco in forze e, ancora il 23 ottobre, Cadorna formulò la previsione che non vi sarebbe stata alcuna operazione di rilievo almeno fino alla primavera del 1918.

Alle 2 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-tedesche iniziarono a colpire le posizioni italiane, dal monte Rombon all’alta Bainsizza, alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l’Isonzo. Il fuoco preparatorio fu molto preciso, troncando ben presto le comunicazioni tra i comandi e le unità di prima linea, l’artiglieria italiana del XXVII Corpo d’armata, comandato dal generale Pietro Badoglio, rimase isolata e non aprì alcun fuoco di risposta.

Quello stesso giorno gli austro-ungarici e i tedeschi del generale von Below attaccarono il fronte dell’Isonzo, a nord, convergendo su Caporetto, un settore rimasto tranquillo dalla fine del 1916 e difeso solo da dieci delle trenta divisioni della 2ª Armata italiana del generale Capello. mettendo in pratica le nuove tattiche di infiltrazione già sperimentate con successo sul fronte orientale, le truppe tedesche forzarono i punti deboli dello schieramento italiano, muovendo nei fondovalle per aggirare e prendere alle spalle le postazioni poste sulle cime del-

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le montagne. Il fronte della 2ª Armata si sgretolò rapidamente e, alle 17, i primi reparti tedeschi fecero il loro ingresso nella stessa città di Caporetto64 . Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero all’incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si ritrovarono intrappolati sul Monte Nero, mentre i loro avversari ebbero circa 6/7.000 vittime. La notizia dello sfondamento filtrò con estrema lentezza fino al comando di Udine, e solo la mattina del 25 ottobre la portata del disastro cominciò a profilarsi: il fronte era stato spezzato in più punti, il morale di diversi reparti era collassato e masse di uomini stavano defluendo con disordine verso le retrovie. Cadorna continuò a temporeggiare e, solo alle 2:50 del 27 ottobre, ordinò alla 2ª e alla 3ª Armata di ripiegare sulla linea del fiume Tagliamento. Il ripiegamento delle forze del Duca d’Aosta, già preparato dal suo comandante, si svolse con un certo ordine mentre i reparti di Capello furono praticamente abbandonati al loro destino in una ritirata caotica caratterizzata da diserzioni e fughe. L’ampiezza del successo stupì gli stessi comandi austro-ungarici: Ludendorff, alle prese sul fronte occidentale con la fase più critica della battaglia di Passchendaele, aveva fretta di ritirare le divisioni tedesche lasciando l’inseguimento alle armate di Borojević, dal Carso, e di Conrad, dal Trentino, ma, le cattive comunicazioni e la spossatezza dei reparti, ritardarono la progressione dei austro-ungarici. La sera del 28 ottobre gli austro-germanici attraversarono il confine prebellico, annullando in cinque giorni quello che gli italiani avevano impiegato due anni e mezzo a conquistare. Cadorna sperava di poter trattenere il nemico sul Tagliamento ma, il 2 novembre, una divisione austroungarica riuscì ad attraversare il fiume stabilendo a monte una testa di ponte sulla sponda occidentale e così, il mattino del 4 novembre, l’alto comando italiano ordinò la ritirata generale dell’intero esercito fino al fiume Piave. Gli Imperi centrali mantennero la loro pressione sui reparti in ripiegamento: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant e, in un’altra occasione. la 33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall’accerchiamento, 20.000 uomini. In pianura però gli austro-tedeschi non eb-

oggi Kobarid in Slovenia

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bero analogo successo e molte unità italiane si riorganizzarono una volta raggiunta la linea del Piave. Alle 12 del 9 novembre il ripiegamento dietro il fiume fu completato e tutti i ponti presenti sul fiume furono fatti saltare. La battaglia di Caporetto si tradusse in un disastro per gli italiani: le perdite ammontarono a 12.000 morti, 30.000 feriti e 294.000 prigionieri, con altri 400.000 soldati sbandati all’interno del paese mentre le perdite materiali comprendevano più di 3.000 cannoni e 1.600 veicoli a motore e l’area ceduta aveva un’ampiezza di 14.000 km² . 65

Destituzione di Cadorna e inizio della difesa

La disfatta di Caporetto provocò vari rivolgimenti in seno agli alti comandi italiani. Il governo Boselli andò incontro a un voto di sfiducia e il 30 ottobre 1917 fu rimpiazzato da un esecutivo guidato da Vittorio Emanuele Orlando; il 9 novembre, dopo molte insistenze da parte del nuovo presidente del consiglio, Cadorna lasciò il comando dell’esercito nelle mani del generale Armando Diaz per assumere la carica di rappresentante italiano presso il neocostituito Consiglio militare interalleato a Versailles66

La nuova linea difensiva italiana si attestò lungo la sponda meridionale del Piave, dalla foce sul mare Adriatico fino al massiccio del monte Grappa a ovest, da dove si ricollegava poi al vecchio fronte sull’altopiano di Asiago e nel Trentino meridionale. Il nuovo fronte era più corto di circa 170 km, un fatto che aiutava gli italiani, Diaz si ritrovò con solo 33 divisioni intatte e pronte al combattimento, circa metà della forza precedente alla disfatta di Caporetto. Per rimpinguare i ranghi si ricorse alla mobilitazione dei diciottenni della classe 1899, i cosiddetti “Ragazzi del ‘99” e nel febbraio 1918 erano state ricostituite altre 25 divisioni. Entro l’8 dicembre 1917 sei divisioni francesi e cinque britanniche con artiglieria e unità di supporto (in tutto circa 130.000 francesi e 110.000 britannici) erano affluite in Italia e, sebbene non entrassero subito in azione, funsero da riserva

65 Fonti: Thompson, p. 313 - 342

66 In realtà furono gli alleati a spingere per la destituzione di Cadorna. Silvestri 2007, p. 476

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strategica permettendo al Regio Esercito di concentrare le proprie truppe in prima linea. I tedeschi, al contrario, trasferirono, già a novembre, metà dei propri cannoni ad occidente e poi il grosso delle proprie truppe ai primi di dicembre, lasciando la responsabilità del fronte ai soli austro-ungarici.

Il primo segno di riscossa dei reparti italiani avvenne per merito della 4ª Armata del generale di Robilant che, stanziata sul Cadore, si era ritirata il 31 ottobre con l’ordine di organizzare la difesa del monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell’Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il Piave. La nuova posizione, da difendere a tutti i costi, era di vitale importanza per l’intero esercito dato che una sua caduta avrebbe trascinato con sé l’intero fronte. Gli uomini di Robilant riuscirono a mantenerla contro vari assalti degli austroungarici avvenuti a metà novembre. Gli austro-ungarici fermarono poi gli attacchi in attesa della primavera successiva, anche se piccole schermaglie si protrassero fino al 23 dicembre. La fine della guerra contro la Russia consentì poi alla maggior parte delle truppe impiegate sul fronte orientale di spostarsi su quello italiano, in vista di un’offensiva risolutiva.

Diaz dedicò molta cura a migliorare il trattamento dei soldati per guarire i guasti del morale dei reparti, la giustizia militare rimase severa ma furono abbandonate le pratiche più rigide, prima tra tutte la decimazione inoltre vi furono miglioramenti nel vitto e nell’allestimento delle postazioni, fu aumentata la paga e la frequenza e durata delle licenze.

L’ultimo anno di guerra

All’inizio del 1918 la situazione era critica per l’Austria-Ungheria, infatti, dopo che, nel marzo 1917, i francesi ebbero reso pubblico il tentativo di una pace separata intrapreso dall’imperatore Carlo i tedeschi imposero all’alleato una quasi totale sottomissione economica e politica e, in vista delle loro offensive di primavera sul fronte occidentale, li obbligarono a progettare un nuovo attacco sul fronte italiano.

I margini di manovra per gli austro-tedeschi andavano però progressivamente riducendosi: la situazione degli Imperi Centrali sul piano dei rifornimenti, sia

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alimentari sia di materie prime, si faceva sempre più complicata, mentre al contrario i rifornimenti statunitensi, almeno sul fronte occidentale, iniziavano ad avere un notevole peso sul bilancio della guerra.

Le forze imperiali erano allo stremo: le 53 divisioni ammassate sul fronte italiano avevano un numero di effettivi pari alla metà, se non meno, dell’organico previsto, i ranghi erano pieni di reclute diciassettenni e di anziani e il tracollo della produzione industriale iniziò a riflettersi negativamente sulle dotazioni di armi ed equipaggiamenti. La propaganda degli Alleati, ora molto più insistente e organizzata, iniziò a fare sempre più breccia tra le truppe, rendendo sempre più auspicabile ai soldati una rapida conclusione delle ostilità.

La carenza di cibo nell’Impero si era fatta catastrofica e ai tumulti organizzati dai gruppi nazionalisti o dai movimenti socialisti ispirati dalla rivoluzione russa si aggiunsero vere e proprie sommosse per il pane: ad aprile 1918 almeno sette divisioni erano state richiamate in patria per il mantenimento dell’ordine interno67. Il generale Borojević stesso chiedeva di evitare di sacrificare ciò che rimaneva dell’esercito in ormai inutili offensive e di conservarlo invece per far fronte ai tumulti interni all’impero, ma l’alto comando fu irremovibile sui suoi piani per un attacco risolutivo sul fronte italiano.

L’ultimo attacco Austriaco

Il 15 giugno la progettata offensiva austro-ungarica ebbe inizio con l’impiego di circa 678 battaglioni e 6.800 pezzi d’artiglieria a cui gli italiani si opposero con 725 battaglioni e 7500 pezzi d’artiglieria.

Il generale Conrad, comandante del settore del Trentino, voleva che l’attacco principale si sviluppasse sul Grappa mentre Borojević, comandante delle armate sul Piave, riteneva che l’attacco principale doveva avere come direttrice principale l’isoletta della foce del Piave, Grave di Papadopoli68 . L’arciduca Giuseppe Augusto d’Asburgo-Lorena decise di accontentare entrambi conducendo un attacco su due direttive e quindi diluendo le forze lungo tutto il fronte.

67 Thompson, pp. 361 364

68 Pieropan, p. 637

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L’offensiva iniziò con un attacco diversivo presso il passo del Tonale, che fu facilmente respinto dagli italiani. Gli obiettivi dell’offensiva erano stati rivelati agli italiani da alcuni disertori, permettendo ai difensori di spostare due armate direttamente nelle zone prestabilite dal nemico. L’offensiva di Conrad sul monte Grappa si risolse quasi subito in un grave insuccesso, con miseri guadagni territoriali in poco tempo annullati dai contrattacchi degli italiani. Sul Piave la situazione sembrò andare meglio: la massa degli uomini di Borojević riuscì a fare breccia e a stabilire una serie di teste di ponte in particolare nella zona del monte Montello, già il primo giorno 100.000 soldati austro-ungarici furono traghettati sulla sponda meridionale del Piave ma il corso ingrossato dalle piogge e il fuoco dell’artiglieria italiana impedirono di stabilire un sicuro passaggio sul fiume.

Il secondo giorno divenne chiaro che l’offensiva era fallita: gli austro-ungarici rimasero bloccati, all’interno delle loro teste di ponte, dalla dura resistenza degli italiani che, il 19 giugno, passarono al contrattacco. Senza più riserve con cui alimentare l’offensiva il mantenimento delle teste di ponte diveniva inutile e la sera del 20 giugno l’alto comando austro-ungarico ordinò la ritirata: gli ultimi reparti di Borojević lasciarono la sponda meridionale il 23 giugno concludendo così la battaglia.

Dopo sei mesi di rinforzo e riorganizzazione l’esercito italiano fu capace di resistere all’attacco, ma Diaz non sfruttò l’occasione per contrattaccare: il generale, temendo che la controffensiva non avrebbe avuto l’effetto sperato volle aspettare i rinforzi statunitensi e che però gli furono negati, solo un reggimento di fanteria dello United States Army e pochi reparti di supporto furono inviati in Italia. L’esercito italiano rimase quindi sulla difensiva, anche perché le perdite dell’Italia erano state elevatissime: 87.000 uomini, di cui 43.000 prigionieri. Determinante per le forze italiane fu l’apporto dell’aviazione, soprattutto nelle azioni d’appoggio tattico, di bombardamento e d’interdizione. Nel corso delle operazioni, il 19 giugno fu abbattuto sul Montello l’asso della caccia italiana Francesco Baracca che aveva ottenuto ben 34 vittorie. La conquista della supremazia aerea da parte italiana venne confermata dalla pacifica incursione di sette biplani monomotori SVA sulla capitale austriaca il 9 agosto 1918 dove la forma-

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zione italiana, guidata da Gabriele D’Annunzio, lanciò migliaia di manifesti tricolori.

La battaglia del Piave e la fine della guerra.

Tra luglio e ottobre 1918 la consistenza delle forze austro-ungariche sul fronte italiano scese da 650.000 a 400.000 effettivi; agli uomini messi fuori combattimento dalle malattie (l’influenza spagnola fece la sua comparsa attorno a Padova in luglio e da qui si spostò verso est) e dalla carenza di viveri si sommarono le sempre più estese diserzioni, favorite da una costante erosione del morale causata dalla sempre più insistente propaganda nemica e dalla diffusione ormai incontrollata delle istanze nazionaliste nell’Impero. Anche così, tuttavia, le forze di Borojević mantennero una certa coesione: non vi furono ammutinamenti tra i soldati almeno fino alla fine di ottobre, e anche allora furono limitati a pochi reparti.

Sull’altro lato del fronte, le forze di Diaz continuavano invece a crescere: per ottobre erano disponibili 57 divisioni di fanteria e quattro di cavalleria, tra cui tre divisioni britanniche, due francesi e una cecoslovacca, distribuite in una serie di armate più piccole e maneggevoli di quelle dei tempi delle battaglie dell’Isonzo; la superiorità degli Alleati in fatto di artiglieria e aerei era schiacciante, ma Diaz continuava a rimandare il lancio di un’offensiva risolutiva finché gli eventi non divennero più incalzanti.

Ai primi di agosto 1918, ormai esaurito l’impeto dell’offensiva tedesca, gli Alleati passarono al contrattacco lungo l’intero fronte occidentale e, a settembre, avevano ormai messo in rotta il nemico. Orlando e Sonnino, oltre ai comandi alleati, iniziarono a fare pressioni perché anche Diaz desse inizio all’attacco risolutivo, il generale dovette piegarsi agli ordini. Il piano italiano fu pronto per il 9 ottobre e i primi ordini operativi raggiunsero i comandi il 12 ottobre. Alla 4ª Armata del generale Gaetano Giardino fu affidato l’importante compito di dividere la massa austro-ungarica del Trentino da quella del Piave attaccando sul fronte del monte Grappa, mentre l’8ª, la 10ª e la 12ª Armata avrebbero attaccato lungo il fiume.

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Diaz elaborò un piano di attacco massiccio su un unico punto invece che su tutta la linea, nel tentativo di sfondare le difese e tagliare le vie di collegamento con le retrovie. La scelta ricadde sulla cittadina di Vittorio Veneto, considerata un probabile punto di rottura, infatti in questa città si trovava la congiunzione tra la 5ª e la 6ª Armata austro-ungarica. L’attacco del generale Giardino sul Grappa iniziò in perfetto orario il 24 ottobre, anche se le piogge e l’ingrossarsi delle acque del Piave avevano obbligato a posticipare l’inizio dell’offensiva lungo il corso del fiume. Durante il primo giorno e nei i tre giorni successivi l’offensiva della 4ª Armata non ebbe successo e in alcuni punti le minime avanzate italiane subirono il contrattacco nemico che riuscì a riconquistare le posizioni perse. Le condizioni meteorologiche ritardarono l’inizio dell’offensiva sul Piave fino alla sera del 26 ottobre: le truppe italiane, britanniche e francesi riuscirono a stabilire delle teste di ponte sulla riva settentrionale nonostante la dura resistenza degli austro-ungarici e la difficoltà di gettare delle passerelle sul corso in piena del fiume; il 28 ottobre il comando supremo italiano dispose la prosecuzione dell’offensiva a tempo indeterminato affinché l’attacco sul Piave non fosse uscito dalla fase di stallo.

L’Austria-Ungheria era ormai in preda a forti disordini interni, e la crisi interna dell’Impero si ripercosse sul fronte: i reparti imperiali iniziarono a dividersi su base etnica e nazionale, rifiutandosi di eseguire gli ordini degli alti comandi. Dopo aver ordinato ,già il 28 ottobre, un primo arretramento sul corso del fiume Monticano, la sera del 29 ottobre il generale Borojević ottenne infine dall’alto comando l’autorizzazione ad avviare una ritirata generale lungo tutto il fronte.

Il 30 ottobre le forze italiane dilagarono in massa oltre il Piave lanciandosi all’inseguimento dei reparti austro-ungarici: la resistenza delle retroguardie nemiche si rivelò debole, e quella stessa mattina i primi contingenti italiani entrarono a Vittorio Veneto, circa 16 chilometri oltre il Piave, raggiungendo poi il corso della Livenza.

Il 28 ottobre l’Austria-Ungheria chiese agli Alleati l’armistizio: l’impero che aveva aperto le ostilità attaccando la Serbia nel 1914 era ormai giunto alla fine del suo percorso politico, culturale, sociale e militare, la nazione era al collasso, e i diversi movimenti indipendentisti stavano facendo di tutto per sfruttare la

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situazione. A Praga la richiesta di armistizio provocò una decisa reazione dei cechi: il Consiglio nazionale cecoslovacco si riunì a palazzo Gregor, dove si era costituito tre mesi prima, e assunse le funzioni di un vero e proprio governo, impartendo agli ufficiali austriaci nel castello di Hrad any l’ordine di trasferire i poteri, assumendo il controllo della città e proclamando l’indipendenza dello Stato ceco. Quella sera le truppe austriache nel castello deposero le armi. Sempre quello stesso giorno, il Parlamento croato dichiarò che, da quel momento, Croazia e Dalmazia avrebbero fatto parte di uno “Stato nazionale sovrano di sloveni, croati e serbi”; analoghe dichiarazioni pronunciate a Laibach e Sarajevo legavano queste regioni all’emergente Stato slavo meridionale della Jugoslavia. Il 29 ottobre il Consiglio nazionale slovacco si associò in una nuova entità, insistendo sul diritto della regione slovacca alla “libera autodeterminazione”. Il 30 ottobre vennero fatti prigionieri più di 33.000 soldati austro-ungarici, mentre a Vienna il governo imperiale continuava ad adoperarsi per giungere all’armistizio con gli Alleati. Anche il porto austriaco di Fiume, che due giorni prima era stato dichiarato parte dello Stato slavo meridionale, proclamò la propria indipendenza chiedendo di unirsi all’Italia.

A Budapest il conte Károlyi formò un governo ungherese e, col consenso di Carlo I, rescisse i legami che fin dal 1867 avevano tenuto insieme l’Austria e l’Ungheria intavolando trattative con le forze francesi in Serbia. Quello stesso 30 ottobre Carlo consegnò la flotta austro-ungarica agli slavi meridionali e la flottiglia del Danubio all’Ungheria, mentre una delegazione austriaca per l’armistizio arrivò in Italia, a Villa Giusti nei pressi di Padova. Il 1º novembre Sarajevo si dichiarò parte dello “Stato sovrano degli slavi meridionali”, mentre Vienna e a Budapest era ormai scoppiata la rivoluzione Il 3 novembre l’Austria firmò l’armistizio che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, mentre a Vienna continuava la rivoluzione. Lo stesso giorno, mentre sul fronte occidentale gli Alleati accolsero la richiesta formale di armistizio avanzata dal governo tedesco, gli italiani entrarono a Trento e la Regia Marina sbarcò a Trieste.

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Alle ore 15:00 del 4 novembre sul fronte italiano le armi cessarono di sparare. Quella notte, ricordò l’ufficiale d’artiglieria britannico Hugh Dalton presente sul fronte italiano:

“[...] il cielo era illuminato dalla luce dei falò e dagli spari di razzi colorati. [..] Dietro di noi, in direzione di Treviso, si sentiva un lontano ritocco di campane, e canti ed esplosioni di gioia ovunque. Era un momento di perfezione e compimento”69

Era il 4 novembre 1918 e il comandante in capo dell’esercito italiano, maresciallo Armando Diaz, diede notizia all’intero paese della conclusione del conflitto firmando l’ultimo bollettino di guerra passato poi alla storia come il “bollettino della Vittoria”, che si concludeva con queste parole:

“[...] i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”

Il giorno seguente furono occupate Rovigno, Parenzo, Zara, Lissa. La città di Fiume, pur non prevista tra i territori nei quali sarebbero state inviate forze italiane come previsto da alcune clausole dell’armistizio, fu occupata in seguito agli eventi del 30 ottobre quando il Consiglio nazionale, insediatosi nel municipio dopo la fuga degli ungheresi, aveva proclamato l’unione della città all’Italia.

L’esercito italiano forzò la linea del patto di Londra dirigendosi verso Lubiana, ma fu fermato poco oltre Postumia dalle truppe serbe.

Fronte Marittimo

Le operazioni navali nella prima guerra mondiale si svilupparono principalmente per l’esigenza di garantire sicurezza delle proprie vie di comunicazione marittima e di bloccare, o insidiare, quelle del nemico.

In particolare le marine militari delle potenze alleate adottarono una strategia che puntava a controllare le aree utilizzate dai propri traffici marittimi e a imporre il blocco di quelli avversari.

Le operazioni navali delle marine degli “Imperi centrali” furono invece caratte-

69 Gilbert, p. 595

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rizzate dalla strategia della “flotta di potenza”: numericamente superate, le flotte di superficie degli Imperi Centrali non si impegnarono in scontri frontali con il grosso del nemico ma mantennero una minaccia “potenziale” cercando di usurare le forze avversarie, di forzarne il blocco e di insidiarne le rotte commerciali attraverso l’utilizzo di unità leggere, navi corsare e, soprattutto da parte tedesca, sottomarini. Le operazioni belliche coinvolsero, in maniera più o meno diretta e intensa, tutti gli oceani e gli specchi d’acqua principali del globo. Se il Mare del Nord fu teatro degli scontri a distanza tra la Hochseeflotte tedesca e la Grand Fleet britannica, nel Mar Mediterraneo le flotte combinate di Italia, Francia e Regno Unito si confrontarono con la marina austro-ungarica, praticamente asserragliata all’interno dei suoi porti sul Mar Adriatico, oltre ad impegnarsi contro le difese ottomane dello stretto dei Dardanelli. L’immenso Impero russo si trovò ad affrontare la Germania nel Mar Baltico e l’Impero ottomano nel Mar Nero mentre le poche navi tedesche a guardia delle colonie dell’Oceano Pacifico furono surclassate dalle più numerose flotte di Giappone e Australia. Anche l’Oceano Indiano e le acque del Sud America furono teatro di scontri tra le navi corsare tedesche e le squadre di incrociatori Alleati inviate alla loro caccia. Infine l’Oceano Atlantico fu teatro della prima grande campagna sommergibilistica della storia, con gli U-Boot tedeschi impegnati contro il traffico commerciale diretto verso i loro avversari e intenti a confrontarsi con le forze congiunte di Regno Unito, Francia e, dopo il 1917, Stati Uniti.

Si aprono le ostilità

Con lo scoppio del conflitto avvenuto con la dichiarazione di guerra dell’Austria-Ungheria alla Serbia, le marine militari dei paesi belligeranti si trovarono a dover fronteggiare le prime operazioni navali e, mentre Francia, Gran Bretagna, Russia, Germania e Austria-Ungheria mobilitavano le loro navi, altri paesi come Italia, Impero ottomano, Bulgaria, Grecia e Romania rimasero in un primo tempo neutrali, influenzando così le strategie dei belligeranti. Allo scop-

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pio del conflitto Il contrammiraglio Whilhelm Soucho, comandante della Mittelmeerdivision tedesca, composta dall’incrociatore da battaglia Goeben e dall’incrociatore leggero Breslau, si trovava nel Mediterraneo.

Il 3 agosto Souchon ricevette ordini per dirigere verso gli stretti e raggiungere la Turchia, per l’interesse della Germania di garantirsi l’amicizia dei turchi ancora neutrali, isolando, al tempo stesso, la Russia nel Mar Nero. L’ammiraglio austriaco Anton Haus, allo scoppio delle ostilità si preoccupò principalmente di difendere la sua flotta e assicurare la difesa delle coste austriache, soprattutto quelle più meridionali confinanti con il regno del Montenegro, alleato della Serbia, le cui artiglierie dominavano la base navale di Cattaro. Motivo di preoccupazione per Haus fu anche la neutralità italiana. Nel caso di un intervento militare italiano a fianco dell’Intesa, la Regia Marina sarebbe diventata il nemico principale per la Kriegsmarine e, in quest’ottica, era necessario conservare il più possibile la flotta per tenerla pronta a contrastare un nemico più pericoloso. Il 6 agosto il primo Lord del mare, ossia il comandante della Royal Navy e dell'intero servizio navale, e il sottocapo di stato maggiore della flotta francese Schwerer, firmarono a Londra una convenzione navale che assegnava alla Francia la direzioni delle operazioni navali nel Mediterraneo. Le forze britanniche nel Mediterraneo sarebbero state sotto il comando dell’ammiraglio francese e sia Gibilterra sia Malta sarebbero state a disposizione dei francesi. Inoltre la flotta britannica nel Mediterraneo, sotto il comando di sir Archibald Milne, doveva fornire assistenza al rimpatrio delle truppe francesi dall’Africa. Così facendo i britannici lasciarono ai francesi la responsabilità nel Mediterraneo per concentrarsi invece a contrastare i tedeschi nel Mare del Nord, anche se la Mediterranean Fleet, formata da tre moderni incrociatori da battaglia, l’Invincible, l’Inflexible e l’Indomitable, oltre a quattro incrociatori corazzati, quattro incrociatori leggeri e quattordici cacciatorpediniere rese la zona di Malta e dell’Egeo orientale, seppur sotto comando francese, una zona di operazioni britannica.

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Mare del Nord

Il Mare del Nord fu il teatro principale della guerra navale nel primo conflitto mondiale: qui infatti si fronteggiavano le più potenti forze navali dei due schieramenti, la Grand Fleet britannica e la Hochseeflotte tedesca; sebbene fosse opinione comune che le due flotte dovessero prima o poi affrontarsi in un grande scontro frontale, entrambi i comandi decisero invece di adottare una strategia attendista, sfidandosi in modo indiretto senza rischiare in maniera avventata il nucleo centrale delle rispettive forze.

La Royal Navy impose subito uno stretto blocco a danno dei porti tedeschi: nell’arco di sei mesi 383 piroscafi furono catturati o affondati dai britannici mentre altri 788 furono obbligati a rifugiarsi in porti neutrali, privando gli Imperi Centrali di circa il 61% della propria flotta mercantile.

I primi mesi di guerra furono dedicati da entrambe le parti a stendere vasti campi minati a difesa delle proprie basi ed a ostacolare il traffico mercantile nemico nel bacino. Le prime perdite navali furono causate in massima parte da mine: il 6 agosto 1914 l’incrociatore leggero britannico HMS Amphion urtò una mina tedesca e affondò portandosi dietro oltre all’equipaggio anche i prigionieri tedeschi del posamine che aveva deposto l’ordigno, 160 uomini in tutto, mentre il 27 ottobre seguente fu la dreadnought70 HMS Audacious ad affondare dopo aver urtato un ordigno al largo delle coste dell’Irlanda.

Le operazioni di minamento e di ricognizione nel bacino fornirono subito l’occasione per scontri tra gruppi di unità leggere dei due contendenti: il 28 agosto 1914 una squadra di incrociatori britannici attaccò un gruppo di navi tedesche nella baia di Helgoland, affondando tre incrociatori leggeri nemici senza subire perdite. Il 22 settembre nel corso di un unica azione il sommergibile tedesco U-9 affondò, in rapida successione, al largo delle coste olandesi tre vecchi incrociatori corazzati britannici.

La squadra di incrociatori da battaglia tedeschi dell’ammiraglio Franz von Hipper, composta dalle navi più moderne e veloci a disposizione della Hochseeflotte,

70 Grande corazzata di origine inglese, assai veloce, con artiglierie monocalibro

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fu ben presto impegnata in missioni di bombardamento della costa orientale dell’Inghilterra, più come forma di pressione psicologica che per infliggere danni materiali: il 3 novembre 1914 i tedeschi bombardarono la città di Yarmouth, perdendo sulla via del ritorno l’incrociatore corazzato SMS Yorc a causa dell’urto con una mina; il 16 dicembre gli incrociatori di Hipper bombardarono le tre cittadine di Scarborough, Hartlepool e Whitby, sfuggendo di poco alla reazione delle navi britanniche.

Il 24 gennaio 1915, invece, grazie all’intercettazione di un messaggio radio tedesco, gli incrociatori da battaglia britannici dell’ammiraglio David Beatty furono in grado di agganciare la squadra di Hipper prima che arrivasse in vista delle coste inglesi. Dopo uno scontro, Hipper fu in grado di ritirarsi e rientrare alla base, perdendo però il vecchio incrociatore SMS Blücher; dopo questa azione il Kaiser vietò ogni ulteriore uscita in mare delle unità pesanti della Hochseeflotte senza un suo specifico ordine.

Per circa un anno e mezzo la situazione nel bacino rimase invariata, con solo sporadici scontri tra unità leggere delle due parti. Le cose iniziarono a cambiare all’inizio del 1916, quando l’ammiraglio Reinhard Scheer fu messo al comando della Hochseeflotte. Fautore di una strategia più aggressiva, Scheer progettò di logorare la Gran Fleet attirando, poco per volta, gruppi isolati di unità britanniche davanti alla sua intera forza di corazzate e promosse un ruolo più aggressivo per la flotta di sommergibili tedeschi.

Il 24 aprile 1916 gli incrociatori di Hipper bombardarono le città di Yarmouth e Lowestof mentre le corazzate di Scheer appoggiavano l’azione, nell’attesa di affrontate eventuali distaccamenti britannici che si lanciassero alla caccia delle navi tedesche impegnate nel raid; i due gruppi avversari passarono a meno di ottanta chilometri l’uno dall’altro, ma non entrarono in contatto. Nelle prime ore del 31 maggio 1916 l’intera Hochseeflotte tedesca prese il mare, nel tentativo di intercettare unità isolate britanniche in navigazione al largo delle coste danesi. L’intercettazione dei messaggi radio permise ai britannici di venire a conoscenza della sortita tedesca e l’intera Grand Fleet prese il mare sotto la guida dell’ammiraglio John Jellicoe. Nel pomeriggio del 31 maggio le due flotte si affrontarono nella battaglia dello Jutland: dopo un primo combattimento tra

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gli incrociatori da battaglia di Hipper e Beatty, i corpi centrali delle rispettive flotte vennero a contatto. Con i tedeschi, in netta inferiorità numerica, che cercavano di rientrare alla base tallonati dai britannici, dopo una serie di complesse manovre e grazie all’approssimarsi della notte, Scheer riuscì a rompere il contatto ed a riportare la sua flotta alla base.

La battaglia dello Jutland, il maggior se non per dire unico scontro navale della guerra, ebbe un esito contestato: anche se i tedeschi inflissero al nemico più perdite di quante ne subirono, la Grand Fleet perse 3 incrociatori da battaglia, 3 incrociatori corazzati, 8 cacciatorpediniere e 6.945 uomini, contro un incrociatore da battaglia, una corazzata pre-dreadnought, 4 incrociatori leggeri, 5 cacciatorpediniere e 3.058 uomini da parte tedesca, l’azione non pregiudicò l’operatività della flotta britannica, ancora considerevolmente più forte dell’avversario e pienamente in grado di mantenere il blocco delle coste della Germania.

Il mancato pericolo scampato allo Jutland convinse Scheer a non rischiare più l’intera Hochseeflotte in una singola azione e, il 18 agosto, l’ammiraglio prese il mare con la flotta quasi al completo per una nuova incursione contro le coste inglesi, ma l’avvistamento da parte dei dirigibili tedeschi di una vasta formazione britannica, convinse Scheer a riportare le sue navi alla base senza entrare in contatto con il nemico. Da allora, fino alla fine del conflitto, nel Mare del Nord si svolsero solo azioni su piccola scala. L’ultimo combattimento che vide impegnate navi principali si ebbe il 17 novembre 1917, quando una formazione britannica attaccò una piccola squadra tedesca nei pressi di Helgoland, ma lo scontro si rivelò non decisivo ed entrambe le parti riportarono solo danni leggeri.

La situazione rimase invariata fin verso gli ultimi giorni di guerra, quando ormai apparve chiaro che la sconfitta della Germania fosse solo questione di tempo. Il 29 ottobre 1918 fu dato ordine alla Hochseeflotte di prepararsi per un’uscita in mare al completo per cercare un’ultima decisiva battaglia, ma, per tutta risposta, gli equipaggi delle navi, il cui morale e disciplina erano a terra dopo due anni di inattività, si ammutinarono e presero possesso della flotta, estendendo la rivolta anche alle basi navali di Kiel e Wilhelmshave.

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L’armistizio dell’11 novembre 1918 pose formalmente fine alle ostilità nel Mare del Nord.

Canale della Manica

Allo scoppio delle ostilità la Gran Bretagna non aveva truppe sul continente europeo, e il suo corpo di spedizione (BEF), al comando di Sir John French, doveva ancora essere radunato, armato e inviato al fronte al di là della Manica.

Il 12 agosto le avanguardie del corpo di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da 19 navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non avendo la Kaiserliche Marine mai ostacolato le operazioni. Il ministero della marina tedesco era sicuro di riuscire ad impedire ai britannici di raggiungere i porti francesi e belgi, ma quando gli ammiragli comunicarono al capo di stato maggiore Moltke che avrebbero potuto fermare le truppe britanniche durante la traversata, questi si oppose osservando:

“Non è necessario, anzi sarà tanto di guadagnato per noi se le armate occidentali riusciranno a sistemare in un sol colpo anche gli inglesi insieme ai francesi e ai belgi “71

Nonostante il canale della Manica fosse di importanza vitale per la BEF che combatteva in Francia, la Royal Navy non vi teneva navi da guerra di grandi dimensioni.

Lo stesso ammiragliato britannico non aveva basi da guerra navali nelle vicinanze del canale. La minaccia principale per i britannici era costituita dalla possibilità di un’azione in forze della Hochseeflotte tedesca, che, salpando dal porto di Helgoland con le sue 13 navi da battaglia, oltre a numerosi incrociatori da battaglia e centinaia di navi più piccole, avrebbe in pratica potuto distruggere ogni nave Alleata che si fosse avventurata nella Manica.

La Hochseeflotte, infatti, sarebbe stata contrastata solo da sei incrociatori leggeri, costruiti nel 1898-1899, troppo antiquati per operare insieme alle nuove potenti unità della Grand Fleet

La minaccia rappresentata dagli U-Boot non era tenuta in grande considerazio-

71 Gilbert, p. 53

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ne dall’ammiragliato, visto che li considerava un tipo di arma inefficace, cosa pertanto condivisa dall’alto comando tedesco che vedeva nei sottomarini solo: “armi sperimentali le cui capacità di fuoco sarà influente”72

Tuttavia vista la capacità dei sottomarini ad attaccare i convogli e le navi, verso la fine della guerra la Royal Navy si pose il problema di interdire le azioni delle unità leggere e degli U-Boot che partivano dai porti del Belgio occupato. Benché i successi contro gli U-Boot della marina britannica si moltiplicassero, questi venivano prodotti ad una velocità pari a quella con cui venivano distrutti e colpivano le rotte di rifornimento britanniche attraverso la Manica rappresentando una continua minaccia alle vie di rifornimento della BEF impegnata sul continente. Per l’estate era poi previsto l’arrivo di numerose truppe americane con i relativi rifornimenti per cui occorreva chiudere, come dissero gli alti comandi: “uno dei covi da cui i sommergibili nemici minacciano le comunicazioni e i rifornimenti”73 Gli attacchi vennero sferrati nella tarda primavera del 1918.

Il primo raid venne compiuto dalla Royal Navy con l’obiettivo di bloccare l’accesso al porto della città di Ostenda, che veniva largamente utilizzato come base per gli U-Boot e per il naviglio di supporto leggero.

Il vicino porto di Bruges fu oggetto di un doppio e contemporaneo attacco.

Il 23 aprile 1918 tre vecchi incrociatori britannici furono affondati nel braccio di mare antistante la base dei sottomarini, ma il blocco durò solo pochi giorni in quanto i tedeschi rimossero due moletti collocati su un lato del canale, liberando così un varco per gli U-Boot con l’alta marea; in tre settimane i tedeschi riuscirono ad approntare una deviazione e i sottomarini ripresero indisturbati a pattugliare il mare del Nord e dintorni.

L’incursione fu un fallimento ma l’opinione pubblica britannica si entusiasmò per il raid a Zeebrugge, mentre si interessò meno all’attacco al canale di Ostenda, che pure conduceva alla base dei sottomarini di Bruges.

Tre settimane dopo il fallimento venne lanciato un nuovo attacco che ebbe maggior successo, con l’affondamento di una nave all’imbocco del canale, senza

72 Massie, p. 122

73 Gilbert, p. 506

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riuscire però a chiudere completamente il passaggio.

Le navi corsare e l’inizio delle operazioni sottomarine

Fin dal 1914 la Gran Bretagna, forte della propria supremazia navale, tentò di colpire l’avversario, oltre sul fronte militare anche sul quello economico, imponendo un totale e completo blocco ai rifornimenti degli imperi centrali.

Nel Mare del Nord, nel canale della Manica e nel Mediterraneo tutte le navi che portavano merci in Germania, anche se battenti bandiera neutrale, furono fermate e confiscate.

Da parte sua la Germania rispose, con un discreto successo, alla minaccia di una sortita in massa della flotta da battaglia nel Mare del Nord sia con la guerra sottomarina sia con nell’antica pratica della “guerra di corsa”74 .

Il compito di disturbare il traffico mercantile fu affidato a navi piccole e veloci come l’Emden, il Karlsruhe, il Dresden e il Konigsberg.

La posta in gioco non era tanto l’affondamento delle navi avversarie, quanto piuttosto il rendere poco sicure alcune importanti rotte mercantali, distogliendo, al tempo stesso, il maggior numero possibile di navi nemiche.

Le navi che più di tutte resero onore alla guerra corsara, diventando per molto tempo furono l’incubo di tutti i mercantili, furono i due incrociatori leggeri Konigsberg e Emden.

Il primo allo scoppio della guerra si trovava nel porto di Dar es Salaam, in Tanzania all’epoca possedimento tedesco. Sfuggito ad una grossa squadra inglese si rifugiò nel grande delta del fiume Rufiji da cui iniziò a minacciare il Madagascar e i possedimenti francesi oltre che a compiere operazioni di pirateria75 Per avere ragione di questa nave le navi alleate spesero ben 6 mesi di blocco prima di riuscire ad affondarla, l’11 luglio 1915, nel suo covo dopo una dura battaglia di alcune ore. I marinai riuscirono però a smontare i pezzi principali per unirsi alle truppe tedesche presenti in Africa e continuare a combattere con coraggio e valore, tanto che solo 15 dei 350 marinai sopravvissero alla guerra. Più lunga e fortunata fu la carriera dell’Emden, del comandante Karl von Mul74 Dal termine “Patente di Corsa”, che definiva il ruolo del corsaro 75 Attaccando navi battenti ogni bandiera

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ler, che faceva parte della squadra navale del Pacifico agli ordini dell’Amiraglio Maximilian Johannes Maria Hubert Graf von Spee ed era distaccato nel porto cinese, ma appartenente alla Germania, di Tsing - Tao. Allo scoppio della guerra Von Spee ricevette l’ordine di rientrare in patria e così fece, conscio tuttavia dell’importanza dei traffici mercantili della zona distaccò l’incrociatore nell’Oceano Indiano con l’ordine di caccia libera76

In 12 settimane l’Emden riuscì, da solo, ad affondare ben 71.000 tonnellate di naviglio mercantile oltre a creare danni a tutti i porti, grandi o piccoli, degli alleati.

La sua fine giunse solo il 9 novembre 1915 quando una flotta di navi inglesi guidate dall’incrociatore Sidney riuscì a far arenare, anche se molti storici propendono per un auto arenamento per salvare l’onore delle armi, sulla barriera corallina delle isole Cocos dove l’equipaggio resistette fino alla fine dei viveri prima di essere catturato. Dopo queste esperienze la flotta tedesca decise di continuare comunque la lotta corsara conscia anche dell’impossibilità di schierare potenti flotte. Gli ammiragli tedeschi cercarono di trovare un nuovo tipo di nave che potesse sopportare lunghe crociere e che non avesse bisogno di grandi quantità di rifornimenti: la soluzione furono gli U-Boot.

Sebbene alcuni rudimentali esemplari fossero stati usati durante la guerra civile americana77, la Grande Guerra fu la prima occasione in cui i sommergibili furono usati in massa contro le unità navali di superficie e, in particolare, la prima occasione in cui l’arma sottomarina fu rivolta contro il traffico navale mercantile.

Allo scoppio della guerra la Germania disponeva, come del resto tutte le principali marine militari contemporanee, di una piccola flotta di sommergibili composta da 28 unità, inizialmente destinate alla posa di campi minati nelle acqua territoriali britanniche ed all’attacco di navi da guerra avversarie. Il 4 set76 da Emden History, su german navy.de 77 http://www.nationalregister.sc.gov/charleston/S10817710107/S10817710107.pdf

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tembre 1914 l’U-21 fu il primo sommergibile del conflitto a colpire ed affondare una nave da guerra, l’incrociatore leggero britannico HMS Indesiderata, mentre il 1º gennaio 1915 lo U-24 fu il primo ad affondare una corazzata, la HMS Formidable. Sebbene nei primi mesi di guerra fosserostate nove le navi affondate, di fronte alla perdita di cinque U-Boot, gli attacchi contro le unità da guerra nemiche si rivelarono in generale poco proficui, vista la maggiore velocità delle unità di superficie rispetto a quella di un sommergibile in immersione.

Il 20 ottobre 1914, al largo della costa norvegese, il sommergibile tedesco U17 fermò, perquisì ed affondò il piroscafo britannico Glitra, primo mercantile colato a picco da un U-Boot nel corso del conflitto. L’impiego dei sommergibili contro il traffico mercantile era valutato in maniera negativa da parte del governo tedesco, in quanto le convenzioni internazionali in materia di guerra navale prevedevano l’affondamento delle unità civili solo dopo averle fermate, ispezionate per accertare la natura del carico ed aver concesso all’equipaggio il tempo di mettersi in salvo, tutte operazioni pericolose per un sommergibile, lento, poco armato e per nulla corazzato e quindi vulnerabile sia ad eventuali pezzi d’artiglieria installati sullo stesso mercantile attaccato, sia alla reazione di altre unità nemiche richiamate in zona tramite segnali radio. In aggiunta, le autorità tedesche erano riluttanti ad intraprendere una estesa campagna sommergibilistica indiscriminata contro il traffico navale per paura di alienarsi le simpatie delle nazioni neutrali, ed in particolare degli Stati Uniti

Fu solo nei primi mesi del 1915, davanti alla prospettiva di un conflitto lungo, che il governo tedesco abbandonò molte delle restrizioni sull’uso dell’arma subacquea tanto che, il 4 febbraio 1915, le acque intorno alle isole britanniche furono dichiarate zona di guerra sottomarina indiscriminata, dove tutti i mercantili diretti verso porti nemici potevano essere affondati dai sommergibili senza alcun preavviso. Se nei primi sei mesi di guerra gli U-Boot avevano colato a picco mercantili per un totale di 43.550 tonnellate di stazza lorda, tra il 18 febbraio ed il 30 aprile la cifra fu di 105.000 tonnellate, per poi arrivare ad un totale di 748.000 t nel corso di tutto il 1915. Il 7 maggio 1915 al largo delle coste meridionali dell’Irlanda il sommergibile U-

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20 silurò ed affondò senza preavviso il transatlantico RMS Lusitania: morirono 1.201 passeggeri tra cui anche 128 cittadini americani. Questo ed altri episodi simili che costarono la vita a cittadini americani spinsero il governo di Washington ad inviare forti proteste a Berlino, minacciando l’interruzione dei contatti diplomatici. Il 24 marzo 1916, dopo che altri cittadini americani avevano rischiato di morire nell’affondamento del traghetto Sussex in servizio nella Manica, il cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg, in accordo con il Kaiser, ordinò alla marina di abbandonare la campagna di attacchi indiscriminati e di attenersi scrupolosamente alle regole delle convenzioni internazionali. Il 25 aprile Scheer richiamò il grosso dei sommergibili dall’Atlantico per tornare ad impiegarli contro le navi da guerra nel Mare del Nord. Tra l’agosto del 1914 ed il maggio del 1916 34 U-Boot erano stati affondati in combattimento, cifra però ampiamente compensata dalle 100 nuove unità entrate in servizio nello stesso periodo.

L’insuccesso patito nella battaglia dello Jutland ed i gravi effetti provocati dal blocco navale degli Alleati convinsero il governo tedesco a riconsiderare la sua posizione sull’uso dell’arma subacquea. Il 6 ottobre 1916 fu autorizzata una nuova campagna su vasta scala ma attenendosi ancora alle regole internazionali: in quattro mesi gli U-Boot colarono a picco 516 mercantili per complessive 1.388.000 t al prezzo di sole 8 perdite, mettendo in seria difficoltà i traffici commerciali degli Alleati.

Abbandonando ogni ulteriore remora, il 1º febbraio 1917, fu annunciata una nuova campagna senza restrizioni nelle acque britanniche: tra febbraio e giugno del 1917 gli U-Boot raggiunsero le 3.844.000 tonnellate di naviglio affondato e questa nuova campagna fu il pretesto definitivo per l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco dell’Intesa, fatto che avvenne il 6 aprile 1917. La campagna sommergibilistica tedesca fu così efficace sia per via dell’alto numero di battelli impiegati (nel febbraio 1917 erano disponibili 152 U-Boot), sia per la nuova rotta adottata per arrivare nelle acque atlantiche: invece di passare a nord della Scozia, come nei primi tempi, i sommergibili tedeschi abbreviarono il percorso passando attraverso lo stretto di Dover, dove i campi minati e gli sbarramenti approntati dai britannici si erano dimostrati inefficaci. Questa tatti-

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ca fecero crollare le importazioni britanniche, portando il paese sull’orlo del collasso.

Gli Alleati reagirono in vari modi agli attacchi degli U-Boot: furono adottate in via generalizzata le bombe di profondità ,approntate all’inizio della guerra, e furono introdotti apparecchi per la rilevazione dei sommergibili in immersione come l’idrofono ed i primi rudimentali esemplari di sonar. Alcuni mercantili furono trasformati in Q-ship, all’apparenza dei normali cargo ma dotati di pezzi d’artiglieria nascosti, per indurre il sommergibile ad emergere ed ingaggiare uno scontro di superficie nella speranza di tenerlo impegnato abbastanza da resistere fino all’arrivo di rinforzi sempre presenti nell’area.

La misura che più di tutte permise agli Alleati di superare la minaccia subacquea fu tuttavia l’adozione della tattica dei convogli navali: i mercantili non erano più fatti navigare isolatamente, ma riuniti in formazioni fortemente scortate da unità da guerra e, verso la fine del conflitto, anche da unità aeree e di dirigibili. Sebbene l’idea fosse stata già proposta fin dall’inizio della guerra il comando della Royal Navy vi si era sempre opposto, non volendo disperdere un gran numero di unità di scorta per difendere i mercantili invece di impiegarle per dare direttamente la caccia agli U-Boot. Solo davanti alle alte perdite di mercantili ed alle pressioni del governo degli Stati Uniti l’Ammiragliato britannico si convinse ad adottare questa nuova tattica. L’approntamento di convogli navali così strutturati diminuì drasticamente i successi degli U-Boot, mentre il potenziamento dei mezzi offensivi delle navi scorta incrementò il numero delle perdite: tra l’agosto del 1917 ed il gennaio del 1918 il numero degli U-Boot affondati superò per la prima volta quello delle nuove costruzioni, 46 a 42.

Mar Mediterraneo

Il Mar Mediterraneo durante la prima guerra mondiale fu il teatro di un lungo scontro che coinvolse le marine Alleate di Francia, Gran Bretagna Italia e più avanti mezzi navali Giapponesi e Americani (questi ultimi però si limitarono a fare la scorta ai propri mercantili) contro la k.u.k. Kriegsmarine austro-ungarica, la Kaiserliche Marine tedesca e la Osmanlı Donanması ottomana. Il vantaggio delle

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marine dell’Intesa fu subito evidente, in quanto con il blocco del canale d’Otranto e il blocco delle basi tedesche e turche nel Mar Egeo, consentirono di imbottigliare rispettivamente le flotte austriache e tedesche nel Mar Adriatico e nell’Egeo, consentendo ai convogli Alleati di navigare più o meno liberamente nel Mediterraneo collegando l’Europa alle colonie in Africa, possibilità invece quasi preclusa alla Germania. Le azioni principali degli Imperi centrali quindi si concentrarono soprattutto nel Mar Nero contro la flotta russa; in questa direzione è il tentativo degli Alleati di forzare, nel 1915, lo stretto dei Dardanelli, durante l’omonima campagna, in modo tale di aprirsi l’unico varco nel Mar Nero e aiutare l’alleato russo, in quel momento in grossa difficoltà. Successivamente la guerra nel Mediterraneo fu quasi interamente attuata da azioni di sommergibili austro-tedeschi nel tentativo di forzare i blocchi. In base alla convenzione navale tra le nazioni della Triplice Alleanza del 1913, la flotta tedesca doveva impedire il rimpatrio delle truppe francesi dai possedimenti africani. Coerentemente ai piani originali, il comandante Souchon, già in rotta verso le coste africane, applicò l’azione pianificata e, il 4 agosto, aprì il fuoco con il Goeben e il Breslau rispettivamente contro i porti di Philippeville e Bona. Le unità furono però intercettate da unità britanniche che iniziarono un inseguimento delle unità tedesche dirette verso lo stretto dei Dardanelli. Arrivate all’imbocco dello stretto, le due navi tedesche chiesero permesso di entrare in acque turche. Enver Pasha, il ministro della guerra turco, consapevole che acconsentire il passaggio nei Dardanelli alle navi tedesche avrebbe rappresentato un atto ostile nei confronti della Gran Bretagna che avrebbe sospinto la Turchia nell’orbita della Germania, diede il suo assenso all’entrata nello stretto alle due navi tedesche. Per non pregiudicare la neutralità della Turchia, le due navi vennero cedute, con un finto atto di vendita alla Turchia, ma a ciò non seguirono atti ostili e le due navi furono ancorate al porto di Istanbul. Nello stesso tempo l’Italia si mantenne neutrale, mettendo in questo modo in crisi le strategie nel Mediterraneo di Austria-Ungheria e Germania. Sul campo la Germania non avrebbe potuto contare sulle truppe italiane e sul mare gli austriaci non avrebbero potuto fronteggiare la flotta francese da soli, infatti nei loro piani li stati maggiori prevedevano di sfruttare le basi italiane come punto

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d’appoggio per assaltare le coste francesi.

Con la marina tedesca impegnata a nord, all’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, la flotta austro-ungarica si trovò improvvisamente sola contro le forze navali Alleate e decise quindi di chiudersi all’interno dei suoi porti riducendo il fronte marittimo alla sola fascia costiera orientale dell’Adriatico e al suo sbocco nel canale d’Otranto.

La flotta austriaca allo scoppio delle ostilità era quantitativamente inferiore rispetto alla Regia Marina, ma poteva avvalersi di un notevole vantaggio strategico derivante dalla diversa conformazione delle coste adriatiche nei due versanti. Le scelte strategiche del comandante della flotta austro-ungarica si basarono interamente su questo fattore di potenza, che per l’Italia costituiva viceversa una grave condizione di vulnerabilità anche per l’inadeguatezza delle difese costiere.

La prima operazione importante che la Regia Marina Italiana dovette affrontare fu il salvataggio di ciò che restava dell’esercito serbo dopo la sua rotta in seguito all’invasione della Serbia da parte delle truppe austro-ungariche. Durante le operazioni vennero trasportati circa 155.000 uomini dalla costa albanese e greca a quella italiana, in massima parte soldati, con una buona quantità di armi che furono poi impiegate sul fronte di Salonicco. Nessuna interferenza, vista la netta inferiorità di forze, venne portata dalla flotta austro-ungarica all’operazione,.

Le operazioni nell’Adriatico ebbero gli episodi salienti nei tentativi da parte austro-ungarica di forzare il blocco del Canale d’Otranto creato dagli Alleati dopo l’entrata in guerra dell’Italia. Nel marzo 1915 i tedeschi decisero di inviare agli austriaci un certo numero di sommergibili che, in cambio, offrivano le basi navali di Pola e Cattaro. Uno di questi sommergibili, l’U26, l’U14 tedesco battente bandiera austriaca, affondò l’incrociatore italiano Amalfi poco dopo lo scoppio delle ostilità tra Italia ed Austria-Ungheria ma prima della dichiarazione di guerra tra Italia e Germania.

La marina imperiale era più debole quanto a navi da battaglia, ma poteva contare sulle quattro moderne navi della classe Tegetthoff che si sarebbero contrapposte alle due italiane della classe Caio Duilio e alle tre della classe Conte di

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Cavour. La flotta austriaca non aveva speranza di vincere in un confronto diretto, vista anche la sproporzione negli incrociatori e nelle unità di scorta, ma effettuò comunque varie azioni di interdizione contro la costa italiana, come il bombardamento di Ancona, e due tentativi di forzamento dello sbarramento di Otranto.

Ai tentativi di forzamento del Canale gli Alleati risposero con la pronta reazione delle forze navali dislocate a Brindisi e Valona. L’Italia aveva stabilito una base navale sull’isola di Saseno e una forza navale, composta da incrociatori britannici e cacciatorpediniere francesi, era di base a Brindisi. Inizialmente la Regia Marina mantenne nell’alto Adriatico una presenza di unità pesanti, come l’incrociatore corazzato Amalfi e varie siluranti, ma dopo l’affondamento dello stesso Amalfi nelle fasi iniziali della guerra la presenza venne ridotta a MAS78 e sommergibili, concentrando tutte le unità di squadra tra Brindisi e Taranto. La guerra fu condotta anche attraverso sabotaggi, e come tale vennero classificate l’esplosione, il 27 settembre 1915 nel porto di Brindisi, della Benedetto Brin e l’affondamento della Leonardo da Vinci avvenuto nel porto di Taranto il 2 agosto 1916; sono stati però avanzati dubbi su queste ipotesi, mai provate.

Gli italiani ricorsero a mezzi d’assalto speciali per tentare di forzare i porti avversari e i primi tentativi avvennero contro la base di Pola. Nel 1917 venne presentato un progetto di motoscafo atto a superare ostruzioni simili a quelle del canale di Fasana realizzate tramite due catene Galles a cui erano applicati ganci, che aggrappandosi alle ostruzioni, lo spingevano in avanti consentendone il superamento. I mezzi furono soprannominati “barchino saltatore”, ne furono costruiti quattro dall’Arsenale di Venezia, chiamati Cavalletta, Pulce, Grillo e Locusta, ma le diverse azioni, tra aprile e maggio 1918, non ebbero successo. Altre importanti azioni vennero messe a segno dai MAS che affondarono le due navi da battaglia la Wien, il 9 dicembre 1917, e la Szent István in quella che è nota come impresa di Premuda.

78 Il motoscafo armato silurante o motoscafo anti sommergibile, più conosciuto con la sigla MAS, era una piccola imbarcazione militare usata come mezzo d'assalto veloce dalla Regia Marina

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Nel primo episodio il MAS 9, pilotato da Luigi Rizzo, penetrò nel vallone di Muggia lanciando una salva di siluri che affondarono la Wien e mancarono di poco la gemella Budapest colpendo invece la banchina.

Nel secondo durante una missione di perlustrazione e dragaggio in alto Adriatico, i MAS 15 e 21, comandati dal capitano di corvetta Luigi Rizzo e dal guardiamarina Giuseppe Aonzo, si imbatterono in una forza navale austriaca costituita dalle corazzate Szent István e Tegetthoff, scortate da alcune cacciatorpediniere.

I due MAS si lanciarono al centro della formazione austro-ungarica puntando le due corazzate e lanciando le due coppie di siluri a loro disposizione. I due siluri del MAS 21 colpirono la Tegetthoff ma non esplosero, mentre i siluri del comandante Rizzo colpirono la Szent István che si capovolse per poi affondare.

I Dardanelli

Sul fronte orientale, nel 1915 le armate russe, sospinte dalle forze ottomane al di là dei confini che la Russia aveva tracciato a spese dei turchi nel 1878, erano in grossa difficoltà.

Il granduca Nicola si appellò allora alla Gran Bretagna perché compisse un’azione di disturbo contro la Turchia, costringendola a richiamare a est parte delle sue truppe. I britannici su suggerimento di lord Kitchener e con l’appoggio del Primo Lord dell’Ammiragliato Churchill, propose di attaccare dal mare i forti turchi nei Dardanelli.

Gli argomenti a favore di un’azione nei Dardanelli furono peraltro molto convincenti: le navi da guerra britanniche e francesi potevano raggrupparsi nell’Egeo senza il rischio di essere attaccate, in caso di necessità sarebbero poi state a disposizione le truppe australiane destinate al fronte occidentale già in viaggio verso l’Egitto senza dover quindi richiamare truppe da occidente. Dato che il consiglio di guerra britannico pensava di poter riportare una veloce vittoria, il 19 febbraio 1915, le prime navi da guerra britanniche iniziarono a bombardare i forti turchi come parte preliminare delle azioni di sbarco.

La campagna navale dei Dardanelli ebbe inizio il 18 marzo con la partecipazione di sei corazzate britanniche e quattro francesi.

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I forti all’imbocco dello stretto erano per lo più stati messi fuori combattimento dai bombardamenti precedenti, quelli posti a controllo dei campi minati furono neutralizzati in meno di tre ore e le lunghe file di mine, poste all’ingresso dei Dardanelli, vennero dragate dalle corazzate via via che avanzavano. Ma a complicare i piani furono una ventina di ordigni posti parallelamente alla riva destra da un vaporetto turco appena dieci giorni prima: tre delle dieci corazzate calarono a picco e una quarta subì grossi danni. Nel primo giorno dell’attacco navale, le mine turche affondarono la francese Bouvet e le britanniche Irresistible ed Ocean, danneggiando gravemente l’incrociatore da battaglia Inflexible e le navi da battaglia francesi Suffren e Gaulois

Nonostante queste perdite l’azione fu ad un soffio dal diventare successo, per questo il consiglio di guerra britannico, invece di tentare un nuovo attacco navale, decise di anticipare gli sbarchi terrestri per attaccare i forti rimasti in piedi. Kitchener, molto fiducioso, decise nello sbarco in forze, che però non portò ai risultati sperati, rendendo la spedizione un vero disastro per la Gran Bretagna. Il corpo di spedizione britannico ed australiano-neozelandese (ANZAC), subì gravissime perdite, tanto che le cinque divisioni impegnate inizialmente divennero sedici fino al forzato reimbarco.

Lo sforzo della Turchia fu grande e venne supportato dalla Germania attraverso la massiccia presenza di propri consiglieri militari, ma la vittoria fece emergere i militari come spina dorsale di quella che sarebbe diventata la Turchia laica del dopo Impero ottomano, con alla guida il generale Mustafa Kemal, che si distinse nei combattimenti di terra guidando anche personalmente alcune operazioni sul campo ed imponendosi all’attenzione sia dei suoi connazionali sia degli alleati tedeschi.

Da entrambe le parti venne fatto uso dei sommergibili, che da parte Alleata riuscirono nel bloccare il Mar di Marmara (nonostante la perdita di otto battelli) affondando tra l’aprile 1915 e il gennaio 1916 due navi da battaglia obsolete, un cacciatorpediniere, cinque cannoniere, nove navi da trasporto, sette navi da rifornimento e quasi 200 piccole imbarcazioni.

La flotta turca, aveva il proprio punto di forza nelle navi, una volta tedesche

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Yavuz, ex-Goeben e Midilli, ex-Breslau, che avevano fortunosamente raggiunto, inseguite da incrociatori britannici ,Istanbul ed erano passate, pur mantenendo equipaggio tedesco, nominalmente sotto bandiera turca.

Il 25 aprile 1915, lo stesso giorno dello sbarco a Gallipoli, navi russe si portarono a largo del Bosforo e bombardarono i forti all’ingresso dello stretto. Due giorni dopo la Yavuz, scortata dalla corazzata pre-dreadnought Turgut Reis (ex SMS Weissenburg) della classe Brandenburg, s diresse verso sud per bombardare le truppe dell’Intesa a Gallipoli. Al tramonto furono avvistate, da un pallone frenato, mentre si schieravano. Quando la prima salva da 380 mm della Queen Elizabeth colpì le acque vicino alla loro posizione, la Yavuz si spostò vicino alle scogliere, dove non poteva essere raggiunta dai colpi nemici.

Il 30 aprile, la Yavuz tentò ancora la missione di bombardamento, ma fu individuata dalla corazzata pre-dreadnought Lord Nelson che si era portata all’interno dei Dardanelli per bombardare il comando turco presso Canakkale. La nave britannica riuscì soltanto a lanciare cinque proiettili prima che la Yavuz si portasse fuori tiro. Dal punto di vista navale, non vi furono altri scontri diretti tra le forze di superficie dei due schieramenti prima del ritiro delle forze da sbarco Alleate.

Il 20 gennaio 1918, la Yavuz e la Midilli, sempre con equipaggio tedesco, lasciarono i Dardanelli sotto il nuovo comando del vice-ammiraglio RebeurPaschwitz. L’intenzione dell’ammiraglio tedesco era di attirare le forze navali dell’Intesa lontano dalla Palestina perché non potessero contrastare le forze turche nell’area.

Uscita fuori dagli stretti, nella sortita nota come la battaglia di Imbros, dal nome della baia nella quale si svolse, la Yavuz sorprese ed attaccò una piccola squadra britannica, priva della protezione di unità pesanti, affondando i monitori79 HMS Raglan e HMS M28 che si erano rifugiati nella baia non potendo sfuggire a causa della loro scarsa velocità. Rebeur-Paschwitz decise poi di avanzare verso il porto di Mudros, nell’isola di Lemno, dove la corazzata britannica predreadnought Agamemnon stava mettendo in pressione le caldaie per ingaggiare

79 speciale nave corazzata, adatta ad azioni nei fiumi o contro costa, ma assolutamente inadatta per velocità e qualità nautiche come unità di squadra

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le navi turche.

Mentre procedeva la Midilli urtò alcune mine ed affondò, anche la Yavuz urtò tre mine e dovette essere arenata nei pressi dello stretto per evitare l’affondamento. La nave arenata venne poi attaccata sia dal Royal Naval Air Service, l’aviazione navale britannica, che da un monitore, la HMS M17 senza esito reale.

Il sommergibile HMS E14 fu inviato per distruggere la nave danneggiata, ma giunse troppo tardi, la vecchia corazzata Turgut Reis aveva già trainato la Yavuz a Costantinopoli, la Yavuz era inabilitata dagli estesi danni e le riparazioni andarono avanti dal 7 agosto al 19 ottobre.

Da qui in poi non vi fu nessuna operazione di rilievo nell’area fino al termine delle ostilità.

Mar Baltico

Nel Mar Baltico sia l’Impero Russo sia la Germania adottarono una strategia prevalentemente difensiva. La flotta russa del Baltico era surclassata sia numericamente che qualitativamente dalla quella tedesca, che, tuttavia, aveva come compito primario il confronto con la Royal Navy nel Mare del Nord, potendo quindi destinare solo poche unità nelle acque baltiche. Entrambi i contendenti si dedicarono prevalentemente alla posa di ampi sbarramenti di mine navali ed a rapidi attacchi, con forze leggere, contro le coste nemiche per bombardare le basi navali e appoggiare le operazioni delle truppe di terra.

Il Regno Unito fornì supporto al suo alleato inviando una piccola flottiglia di sommergibili nelle acque del Baltico. Di base a Tallinn e poi ad Helsinki, i battelli britannici furono molto attivi nel disturbare i traffici commerciali tedeschi nel bacino mentre, al contrario, i pochi sommergibili russi operarono sotto forti restrizioni per evitare attriti con la neutrale, ma filo-tedesca, Svezia obiettivo di tutti i traffici commerciali della zona.

Le ostilità iniziarono subito dopo la dichiarazione di guerra, con incursioni di squadre di incrociatori leggeri contro i rispettivi porti principali; durante una di queste operazioni, il 26 agosto 1914 l’incrociatore tedesco SMS Magdeburg finì incagliato nei pressi dell’isola di Osmussaar, all’imboccatura del Golfo di Fin-

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landia, e dovette essere auto affondato dall’equipaggio. Questo evento, apparentemente minore, si dimostrò un importante successo per le forze alleate: ispezionando il relitto, infatti, i russi rinvennero tre copie del libro codice, che i tedeschi erano convinti di aver distrutto, della marina tedesca. Una di queste fu subito inviata agli uffici di codifica dell’Ammiragliato britannico mentre un secondo a quello Francese, che da allora in poi furono quasi sempre in grado di decriptare le comunicazioni radio della Kaiserliche Marine. L’alto comando russo si dimostrò sempre molto prudente nell’impiegare le sue unità maggiori, destinandole prevalentemente alla difesa dei golfi di Riga e di Finlandia, per proteggere la capitale zarista San Pietroburgo. Squadre di corazzate ed incrociatori da battaglia tedeschi furono occasionalmente impiegate nelle acque baltiche, in particolare per appoggiare i tentativi di forzare le difese russe davanti Riga. Tra l’8 ed il 19 agosto 1915, una grossa squadra tedesca composta da otto corazzate e dall’incrociatore da battaglia SMS Moltke tentò di forzare lo stretto di Irbe, tra la Curlandia e l’isola di Saaremaa, dando luogo alla battaglia del golfo di Riga. Ben due distinti tentativi di dragare il canale dalle mine furono respinti dal fuoco delle batterie costiere russe e della corazzata Slava e la squadra tedesca si dovette ritirarsi dopo aver subito leggeri danni. La rivoluzione di febbraio del 1917 portò gravi danni al morale ed alla coesione degli equipaggi della flotta russa che perse progressivamente gran parte del suo potenziale bellico. Approfittando della situazione, la marina tedesca decise di compiere un nuovo tentativo di forzare il golfo di Riga e l’11 ottobre 1917 fu lanciata l’operazione Albion quando un contingente dell’esercito tedesco, massicciamente supportato dalle corazzate della Hochseeflotte, sbarcò nelle isole di Saaremaa, Hiiumaa e Muhu per neutralizzare le batterie costiere russe e permettere il dragaggio dei campi minati. L’operazione fu un successo, le corazzate tedesche poterono così penetrare nel golfo per affrontare le navi russe: il 17 ottobre le due squadre si affrontarono nella battaglia dello stretto di Muhu, conclusasi con la ritirata delle forze russe che persero nello scontro la corazzata Slava. Con la ritirata russa dal Golfo di Riga cessarono le principali operazioni belliche nel bacino: il 3 marzo 1918 il trattato di Brest-Litovsk ,tra gli Imperi centrali ed il nuovo governo bolscevico, pose fine alle ostilità sul fronte orientale. Una

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delle ultime operazioni belliche nel Baltico, nell’aprile del 1918 permise ad un contingente tedesco (Ostsee-Division) di sbarcare ad Helsinki in appoggio alle guardie bianche finlandesi, impegnate in nella guerra civile contro i bolscevichi locali.

Mar Nero

L’arrivo della Goeben e della Breslau ad Istanbul fu molto importante nella decisione ottomana di entrare in guerra a fianco della Germania. Le ostilità nel Mar Nero si aprirono all’alba del 29 ottobre 1914 quando, senza dichiarazione di guerra, la flotta ottomana attaccò le principali basi russe nel bacino: due cacciatorpedinieri bombardarono Odessa, dove affondarono una cannoniera. La Breslau e l’incrociatore Hamidiye cannoneggiarono Feodosia e Novorossisk, mentre la Goeben aprì il fuoco su Sebastopoli, affondando un posamine ma venendo lievemente danneggiata dalle batterie costiere. Gli attacchi comunque provocarono pochi danni ai russi e la Flotta del Mar Nero compì, già nel pomeriggio del 29 ottobre, una crociera dimostrativa davanti al Bosforo. I rapporti di forza tra i due contendenti erano particolari: se la Goeben era singolarmente più forte e più veloce di qualsiasi vecchia nave russa, la Flotta del Mar Nero manteneva una notevole superiorità numerica e qualitativa rispetto alla flotta ottomana, dotata di poche unità veramente efficienti. Probabilmente proprio per questo, la condotta russa nel Mar Nero fu molto più aggressiva rispetto a quella tenuta nel Baltico. Già ai primi di novembre del 1914 la flotta russa si mosse al completo verso le coste turche per stendere, davanti al Bosforo, campi minati e di attaccare il traffico mercantile tra i porti di Trebisonda e Zonguldak, principale linea di rifornimento delle armate ottomane impegnate sul fronte del Caucaso. Il 18 novembre, al rientro da una missione di bombardamento costiero, la squadra di corazzate russe incappò nella Goeben e nella Breslau al largo di Capo Saryc, la punta meridionale della Crimea: nel corso di un confuso scontro tra la nebbia, la Goeben mise a segno quattro colpi sull’ammiraglia russa, la corazzata Evstafi, ma anche l’incrociatore fu danneggiato da un proiettile di grosso calibro sparato dalla nave nemica e preferì rompere il contatto e ritirarsi.

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Lo scontro convinse tedeschi e ottomani ad impegnare con cautela la Goeben per non esporla a rischi non calcolati e nel timore di perdere l’unico vantaggio che avevano sui russi. Il 26 dicembre l’incrociatore urtò due mine davanti Istanbul riportando notevoli danni, aggravati anche dalla mancanza di moderni cantieri navali dove eseguire le necessarie riparazioni. Sfruttando l’inattività della Goeben, a partire dai primi mesi del 1915, la flotta russa intraprese diversi attacchi lungo la costa settentrionale dell’Anatolia, distaccando anche la corazzata Rostislav a Batumi per appoggiare le operazioni dell’esercito sul fronte del Caucaso. La Flotta del Mar Nero fu anche attiva nell’appoggiare la campagna franco-britannica nei Dardanelli, cannoneggiando più volte le posizioni ottomane nel Bosforo. Il 3 aprile 1915 la marina ottomana subì un duro colpo perdendo una delle sue poche unità principali efficienti, l’incrociatore protetto Mecidiye, a causa dell’urto con una mina davanti ad Odessa. La situazione per gli Imperi centrali peggiorò poi alla fine dell’anno, quando entrarono in servizio due nuove corazzate russe, tipo dreadnought, la Imperatritsa Mariya e la Imperatritsa Ekaterina Velikaya, garantendo alla Flotta del Mar Nero una netta superiorità sull’avversario.

Nei primi mesi del 1916 la Flotta del Mar Nero intervenne massicciamente in appoggio all’esercito russo sul fronte del Caucaso, bombardando ripetutamente le posizioni ottomane senza incontrare quasi opposizione dalle unità nemiche e flotta condusse anche una serie di vittoriose operazioni di sbarco lungo la costa anatolica, collaborando, tra febbraio ed aprile, agli importanti successi russi ottenuti nell’offensiva di Erzurum e nella battaglia di Trebisonda.

Alla fine del 1916 la marina russa aveva ormai ottenuto il controllo del Mar Nero, contrastata solo da un pugno di sommergibili tedeschi di base a Varna e da occasionali uscite in mare della Goeben ma, il 20 ottobre, la Flotta del Mar Nero subì un duro colpo quando la corazzata Imperatritsa Mariya esplose, probabilmente a causa di un incidente, mentre si trovava all’ancora a Sebastopoli. La rivoluzione di febbraio del 1917 non pregiudicò il controllo russo sul bacino sebbene anche la Flotta del Mar Nero iniziasse a subire i primi cedimenti del morale degli equipaggi. Il 23 giugno 1917 vi fu un ultimo scontro in mare quando, davanti l’isola dei Serpenti, la corazzata Imperatritsa Ekaterina Velikaya mise in

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fuga la Breslau prima che, nell’ottobre seguente, una tacita tregua mettesse fine alle operazioni. Con il trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918 le ostilità ebbero termine e i tedeschi procedettero all’occupazione della Crimea. La Imperatritsa Ekaterina Velikaya e la nuova dreadnought Imperator Aleksandr III, ribattezzate rispettivamente Svobodnaya Rossiya e Volia, lasciarono la base abbandonando il resto della flotta ai tedeschi ma, durante il viaggio, l’equipaggio ucraino della seconda si ammutinò e riportò la nave in porto.

Le vicende delle unità superstiti della Flotta del Mar Nero si fusero poi con quelle più ampie della guerra civile russa.

La resa e il destino finale delle flotte

Durante l’ottobre 1918, le truppe Alleate sul fronte occidentale stavano ormai avanzando inesorabilmente verso il confine belga sfruttando il caos interno della Germania e grazie alla netta superiorità di uomini e mezzi al fronte. Il 25 ottobre in Germania i giornali pubblicarono il telegramma, poi annullato, in cui si ordinava di “combattere fino alla fine”80. Indignato, il principe Max von Baden si recò dal Kaiser per chiedere le dimissioni di Ludendorff o, in caso contrario, offrire quelle del governo. Ludendorff andò a sua volta da Guglielmo II per domandargli di respingere ancora una volta l’offerta le condizioni dell’armistizio del presidente degli Stati Uniti Wilson e continuare a combattere. Ludendorff ebbe l’appoggio di Hindenburg e, cosa ancor più importante, del ministro della guerra Scheüch, ma, resosi conto dell’impossibilità di tale richiesta da parte dell’imperatore, Ludendorff diede le dimissioni. Il 26, mentre la Turchia negoziava la resa e l’Austria-Ungheria avviava i contatti con l’Italia, la flotta tedesca d’alto mare non fu più disposta a continuare la guerra. L’ordine di salpare che le era stato impartito per sferrare un ultimo attacco fece sobbalzare l’ammiragliato britannico che decodificò il messaggio, ma i marinai tedeschi si rifiutarono di ubbidire. L’ammiraglio Scheer tentò in ogni modo di convincere gli uomini a combattere ma i marinai non si lasciarono persuadere: per cinque volte fu dato l’ordine di salpare e per cinque volte l’ordine venne disatteso. Un migliaio di ammutinati vennero arrestati e in tal modo la

Gilbert, p. 586

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flotta venne immobilizzata.

Il 28 ottobre, sulla corazzata Agamemnon al largo dell’isola di Lemno, i negoziatori turchi e britannici misero a punto gli ultimi particolari dell’armistizio che sarebbe entrato in vigore alla mezzanotte del giorno seguente. Le clausole imponevano alla Turchia di aprire i Dardanelli e il Bosforo alle navi da guerra Alleate e di accettare l’occupazione militare dei forti sugli stretti.

Il 31 ottobre, nel porto di Pola, gli slavi meridionali presero in consegna le navi da guerra austro-ungariche che l’imperatore, Carlo I d’Austria, aveva ceduto loro credendo in questo modo di sottrarle alla cessione in vista dell’imminente armistizio. Un gruppo di incursori italiani, non informato del fatto, attaccò la corazzata Viribus Unitis affondandola e provocando, in quella nota come “impresa di Pola”, la morte di centinaia di marinai. La flottiglia del Danubio fu ceduta all’Ungheria e, infine, il 4 novembre entrò in vigore l’armistizio con l’Austria-Ungheria.

Solo la Germania continuava a combattere anche se nella marina tedesca gli ammutinamenti si estendevano a macchia d’olio. A Kiel migliaia di marinai, molti operai e 20.000 soldati andarono, quello stesso giorno, a ingrossare le file dei 3.000 marinai ammutinatisi il giorno precedente. Molte migliaia dei marinai di Kiel si recarono a Berlino per innalzarvi la bandiera della sedizione, il 5 i marinai di Lubecca e di Travemünde dichiararono la loro adesione alla rivoluzione e altrettanto fecero, il giorno seguente, i marinai di Amburgo, Brema, Cuxhaven e Wilhelmshaven.

Nella serata dell’8 novembre l’ammiraglio von Hintze raggiunse Spa, dove il governo tedesco e il Kaiser erano riuniti per discutere la resa, per comunicare all’imperatore che la marina non avrebbe più obbedito ai suoi ordini.

Il giorno seguente la Germania firmò l’armistizio di Compiègne: le truppe Alleate occuparono il paese e la Hochseeflotte venne internata nella base britannica di Scapa Flow. Il 18 gennaio 1919 iniziò la conferenza di pace di Parigi, che avrebbe deciso le sorti della Germania, essendo evidente fin dall’inizio che la resa prevedeva la cessione delle navi ai vincitori, il 21 giugno, la flotta tedesca si autoaffondò a Scapa Flow. Il 22 giugno 1919 a Versailles i delegati acconsentirono alla firma del trattato tra i paesi vincitori e la Germania, che rifiutò solo la

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clausola della dichiarazione di “colpevolezza”. Mentre i rappresentanti Alleati si stavano preparando a discutere questo nuovo gesto di sfida, arrivò la notizia dell’autoaffondamento della flotta e gli Alleati decisero immediatamente non solo di rifiutare qualsiasi modifica al trattato ma di concedere ai tedeschi solo ventiquattr’ore di tempo per sottoscriverlo. I tedeschi furono quindi obbligati a firmare il trattato con le umilianti condizioni di pace che fu ratificato da 44 Stati il 28 giugno.

Le navi austro-ungariche erano cedute, già prima dell’armistizio, alle marine dei costituendi stati, che poi confluiranno nella Jugoslavia, ma dagli Alleati non venne riconosciuto un valore legale a questa cessione, tanto che quasi l’intera classe Tatra di cacciatorpediniere, tranne una unità, e la corazzata SMS Tegetthoff vennero assegnate all’Italia, alla Francia toccarono un cacciatorpediniere ed una nave da battaglia, la SMS Prinz Eugen, che verrà in seguito affondata come bersaglio, mentre al Regno Unito toccarono altre unità che vennero in seguito smantellate.

Anche alla marina ottomana fu intimato, sulla base del trattato di Sèvres, di consegnare agli Alleati la sua flotta da battaglia, ormai ridotta alla Yavuz ed a poche altre unità efficienti. I successivi sviluppi della guerra d’indipendenza turca e la sottoscrizione del nuovo trattato di Losanna del 1923 fecero tuttavia sì che tale cessione non avesse luogo e le superstiti unità ottomane passassero quindi per intero al servizio della nuova marina militare turca.

• La storia – Le grandi Battaglie 26: pagine da 611 a 637

• Militaria Gallipoli

• Storia illustrata della Prima guerra Mondiale da pagina 74 a pagina 77.

• Collana “La biblioteca della Grande Guerra” di David Stevenson

La Storia d’Italia - Volume 19: la crisi di fine secolo, l’età giolittiana e la prima guerra mondiale” la biblioteca della repubblica pagine 586 – 789

“La Storia – Volume 12: l’età dell’imperialismo e la prima guerra mondiale” la biblioteca della repubblica pagine 672 – 831

• Diario illustrato della grande guerra” Corni Gustavo, 2015

“Storia Illustrata della Prima guerra mondiale, Giunti, ,1999

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TRATTATI DI PACE E CONSEGUENZE DELLA GUERRA

Fine dell’Europa imperiale e inizio del potere americano

Gli armistizi

La grande guerra fini con la firma di numerosi armistizi tra le potenze dell’intessa e gli imperi centrali, la maggior parte degli quali sarà riconosciuta e applicata dopo la conferenza di Versailles che, di fatto, porrà fine alla guerra.

• L’armistizio di Salonicco, fra il regno di Bulgaria e le forze alleate, fu siglato il 29 settembre 1918 alla Convention per l’armistizio della Bulgaria a Salonicco, in Grecia. L’incontro avvenne a seguito della richiesta, da parte del governo bulgaro, di un accordo per il cessate il fuoco. L’armistizio pose materialmente fine alla partecipazione della Bulgaria al primo conflitto mondiale e stabilì i termini della smobilitazione e del disarmo delle forze armate per quel Paese. I firmatari che parteciparono alla stesura dell’armistizio furono il generale francese Louis Franchet d’Espérey per l’Intesa e una commissione nominata dal governo bulgaro, composta dal generale Ivan Lukov, membro dello stato maggiore dell’esercito bulgaro, Andrej Ljapčev, membro del consiglio dei ministri, e il diplomatico S. Radev.

• L’armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918 pose fine alle ostilità nel Vicino Oriente tra l’Impero ottomano e gli Alleati della prima guerra mondiale. Fu firmato dal ministro della Marina militare turco-ottomana Rauf Bey e dall’ammiraglio britannico Arthur Somerset Gough-Calthorpe, a bordo della corazzata britannica HMS Agamemnon nel porto di Moudros, nell’isola greca di Lemnos. Alla resa ottomana, le loro guarnigioni, al di fuori dell’Anatolia, furono richiamate, agli alleati fu concesso il diritto di occupare i forti sullo stretto dei Dardanelli e del Bosforo e il diritto di occupare ,“in caso di evenienza”, ogni territorio turco. L’esercito ottomano fu smobilitato e porti, ferrovie, e altri punti strategici furono resi disponibili per l’uso da parte degli Alleati. Nel Caucaso, la

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Capitolo 3

Turchia dovette ritirarsi sulle frontiere pre-belliche. All’armistizio seguì l’occupazione di Costantinopoli e la successiva spartizione dell’Impero ottomano. Il 10 agosto 1920, a definire ulteriormente l’armistizio, seguì il trattato di Sèvres che però non fu mai applicato a causa dello scoppio della guerra d’indipendenza turca.

• L’armistizio di Villa Giusti venne siglato il 3 novembre 1918, nella villa del conte Vettor Giusti del Giardino a Padova, fra l’Impero austro-ungarico e Italia - Intesa. Tale armistizio stabiliva solo la cessazione delle ostilità e la smobilitazione delle truppe e non prevedeva né la riconsegna dei prigionieri di entrambe le parti né eventuali indennizzi. Il governo italiano infatti contava, a guerra finita, di portare alla conferenza di pace “il patto di Londra”

• L’armistizio di Compiègne, in francese Armistice de Rethondes, fu sottoscritto, in un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne in Piccardia, alle ore 11:00 dell’11 novembre 1918 tra l’Impero tedesco e le potenze Alleate. Poichè è stato l’ultimo ad essere firmato e applicato è considerato e riconosciuto come l’atto che segna ufficialmente la fine dei combattimenti della prima guerra mondiale.

La conferenza di Pace

La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una riunione internazionale, che vide i paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale81, impegnati nel delineare una nuova situazione geopolitica in Europa e stilare i trattati di pace con le Potenze Centrali uscite sconfitte dalla guerra, sperando di evitare ulteriori conflitti.

La conferenza si aprì il 18 gennaio 1919 e durò, con alcuni intervalli, fino al 21 gennaio 1920. Da questi trattati la cartina d’Europa uscì completamente ridefinita in base al principio della autodeterminazione dei popoli, concepito dal presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson, nel tentativo, in seguito rivelatosi fallace, di riorganizzare su base etnica gli equilibri del continente europeo.

81 Gli stati sconfitti non furono invitati a discutere

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Infatti, nel tentativo di creare, sulle ceneri degli imperi multietnici di AustriaUngheria e Turchia, stati “etnicamente omogenei”, vennero creati ex novo stati quali la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, destinati ad alimentare nuove tensioni ed instabilità, oltre ad esodi e conflitti di popoli e nazioni.

Il contesto storico in cui si svolsero le trattative era però funestato dalle molte ombre del passato, dagli irrisolti problemi delle frontiere, dalla sicurezza internazionale e dai frementi nazionalismi non contenibili in un contesto che avrebbe dovuto salvaguardare le e identità nazionali e minoranze. Le rivendicazioni rimaste in sospeso dopo la Guerra franco prussiana del 1870, la carica punitiva contro la Germania e la sempre più pressante paura di una “rivoluzione bolscevica” irrigidirono tutte le delegazioni, soprattutto quella francese, desiderosa di relegare la Germania in una posizione di non poterle più nuocere.

La reazione della delegazione tedesca

Dopo la fine della guerra la maggioranza della popolazione tedesca dava per scontato che si sarebbe arrivati ad una pace, basata sui quattordici punti di Wilson, già prima della fine del 1919, i tedeschi si aspettavano quindi un certo riguardo, nonostante poco tempo prima avessero imposto durissime condizioni alla Russia. Già nel novembre 1918 i tedeschi avevano scoperto, attraverso informatori, che gli alleati avrebbero fatto in modo che il peso e la colpa del conflitto fossero attribuiti in alla Germania e così intensificarono gli sforzi per negare o attenuare la responsabilità e quindi recuperare prestigio internazionale. Nonostante i dissidi fra gli alleati, l’appoggio statunitense alla Germania e il pericolo bolscevico, il capo delegazione Brockdorff-Rantzau non riuscì, nonostante diverse proteste, a scongiurare che alla Germania fosse data l’intera responsabilità della guerra e la condanna al pagamento degli indennizzi. Con la tagliola del blocco navale britannico e l’autoaffondamento della flotta tedesca a Scapa Flow, la Germania fu quindi “costretta” alla firma del trattato nonostante di aver anche valutato l’ipotesi di una ripresa dei combattimenti. Protagonista, con poca fortuna, delle discussioni di Versailles fu il presidente

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statunitense Woodrow Wilson, che con i suoi Quattordici punti avrebbe dovuto ispirare i negoziatori dei trattati a dare all’Occidente una proposta per contrastare sia l’assolutismo e il militarismo degli Imperi Centrali sia l’internazionalismo leninista.

Ma questi quattordici punti, in cui si rivendicava l’importanza della nazionalità e dell’autodeterminazione dei popoli nello stabilire le nuove frontiere, si trovarono a dover competere con le diverse componenti nazionalistiche nei Balcani e con la necessità di creare stati “cuscinetto” contro la Russia bolscevica, con le rivendicazioni italiane sugli slavi e con le rivendicazioni e i risentimenti che i francesi, fin dall’epoca napoleonica, covavano nei confronti dei tedeschi. Lo stesso Wilson ben presto capì che il suo programma non sarebbe stati seguito dagli altri vincitori. In un incontro a Parigi con Raymond Poincaré, il 14 dicembre 1918, il presidente francese espose a Wilson, quasi con ultimativa chiarezza, l’idea centrale della presenza e dell’azione della delegazione francese alla Conferenza:

“la Germania doveva essere punita per tutto quanto aveva fatto con e durante la guerra ”82

Wilson fino ad allora non aveva mai parlato di “punizione” ma solo di preparare una situazione in cui la classe dirigente tedesca, aristocratica, autocratica e militarista non avrebbe potuto più nuocere a favore di una democratizzazione della nazione.

Una dura “punizione” avrebbe colpito - secondo Wilson - non l’autocrazia, bensì proprio gli sviluppi democratici che in quel momento il popolo tedesco stava faticosamente cercando. Nonostante ciò Wilson conosceva la storia “giacobina” della democrazia francese e nella sua risposta a Poincaré appoggiò la necessità di condannare e rendere “giusto castigo” alla Germania.

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82
Scottà, p. 53

L’inizio

La conferenza di pace si aprì a Parigi, il 18 gennaio 1919 nella sala dell’orologio del Quai d’Orsay, sede del ministero degli esteri francese, con un discorso del presidente francese Raymond Poincaré. I dieci delegati presenti, i cinque capi di governo e i cinque ministri degli esteri delle maggiori potenze vincitrici, Stati Uniti, Italia, Francia, Gran Bretagna e Giappone trattarono le questioni più importanti e le risoluzioni pratiche. Il nuovo assetto politico e geografico dell’Europa fu discusso e definito dai quattro “grandi”: Thomas Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti, Georges Clemenceau, primo ministro francese, David Lloyd George, primo ministro britannico e Vittorio Emanuele Orlando, presidente del consiglio italiano, coadiuvati dai rispettivi ministri degli esteri, Robert Lansing, Stephen Pichon, Arthur James Balfour e Sidney Sonnino. La Russia, che per tre anni aveva combattuto a fianco delle potenze Alleate impegnando duramente la Germania era stata costretta, il 15 dicembre 1917, all’armistizio di Brest-Litovsk seguito dalla pace il 3 marzo 1918. Un comunicato ufficiale della Conferenza dichiarava che la sua rappresentanza non era esclusa, ma che “le modalità saranno fissate dalla Conferenza nel momento in cui esaminerà gli affari russi”. I paesi vinti, esclusi dai negoziati, furono ammessi solo nella fase conclusiva, per la consegna e firma dei protocolli.83 La conferenza, apertasi il 18 gennaio, fu un vero e proprio terreno di scontro tra gli alleati e, al tempo stesso, un modo per imporre alla Germania le peggiori condizioni di resa e per rendere gli sconfitti più “malleabili”. La Francia insistette per mantenere il blocco navale contro la Germania fino al momento in cui non fosse stato firmato il trattato.

I danni di guerra

Il 25 gennaio la Conferenza di pace nominò una commissione per la riparazione dei danni di guerra con il compito di esaminare l’ammontare della somma che ciascuno degli stati sconfitti avrebbe dovuto pagare per riparare i danni arrecati 83 Scottà, p. 25

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durante il conflitto. I rappresentanti di Gran Bretagna, Francia e Italia pensavano di poter ottenere un risarcimento pari all’intero costo della guerra; da ciò nacque la preoccupazione del delegato belga, secondo cui, adottando questo sistema, il suo paese sarebbe stato sfavorito nonostante fosse stato sconvolto per oltre quattro anni da una guerra sulla quasi totalità del proprio territorio. Il Belgio aveva infatti speso relativamente poco per combattere, mentre le sue città e le sue campagne avevano sofferto i rigori e le distruzioni di quattro anni di occupazione. La Gran Bretagna d’altro canto rivendicava i costi e le perdite della guerra sottomarina contro le sue flotte, e le incursioni aeree contro le sue città. Mentre era in corso il dibattito, Lloyd George si levò dalla discussione chiedendo, con tono moderato, di aspettare due anni prima di procedere, in modo da far decantare le passioni e aspettare che i prezzi, inflazionati dai costi della guerra, fossero tornati quasi alla normalità84 In ogni modo, né l’atteggiamento più morbido nei confronti della somma da versare, né la decisione di rateizzare il pagamento fino al 1º maggio 1961 - anche se un miliardo di sterline dovevano essere versate già entro il 1º maggio 1921 - servirono a “consolare” i tedeschi. Era il concetto stesso di “riparazione” a bruciare, perché imponeva alla Germania di pagare, non solo per la sconfitta sul campo, ma anche perché ritenuta responsabile di aver provocato la guerra. E proprio per obbligare la Germania a firmare il trattato, gli alleati si rifiutarono di togliere il blocco navale fin quando la Germania non avesse firmato il trattato, assumendosi, di fatto, tutta la responsabilità e la colpa della guerra.

La spartizione delle colonie

Un primo terreno di scontro tra gli alleati fu costituito dalle ex colonie tedesche appena conquistate, che non sarebbero state più restituite alla Germania. La soluzione adottata fu quella di istituire un sistema di mandati che la Società delle Nazioni avrebbe affidato alle potenze vincitrici. Tali mandati erano soggetti a condizioni. Quelli di Africa e Pacifico, per esempio, imponevano di non impegnarsi nel commercio degli schiavi.

Gilbert, p. 616

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84

I territori turchi furono distribuiti con diversi mandati: la Francia ottenne la Siria e il Libano, la Gran Bretagna la Mesopotamia (l’attuale Iraq) e la Palestina, nella cui parte occidentale si impegnò a creare un “focolare” per gli ebrei, il Sudafrica, per il suo sforzo bellico, fu ricompensato con un mandato sull’Africa sudoccidentale tedesca mentre Camerun e Togo furono spartiti tra Gran Bretagna e Francia.

Nel Pacifico, dove le colonie tedesche erano passate già in altre mani nel 1914, il Giappone ottenne un mandato sulle isole Marianne, Caroline e Marshall, la Nuova Zelanda su Samoa e l’Australia sulla Nuova Guinea Tedesca. Mentre Nauru, ricca di fosfati e ambita da Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna, fu affidata, com’era prevedibile, all’Impero britannico. Non pochi dei paesi vincitori rimasero scontenti di questa spartizione.

Il Belgio si vide negare l’assegnazione dell’Africa Orientale Tedesca, che aveva occupato e che avrebbe voluto conservare, ricevendo in cambio il RuandaUrundi, un territorio senza sbocchi sul mare. Sugli stessi territori mise gli occhi anche il Portogallo, ma essendo ambiti anche dalla Gran Bretagna, dovette accontentarsi del “triangolo di Kionga”, nel Mozambico settentrionale. L’Italia chiese mano libera per i commerci con l’Abissinia, ma tale richiesta fu respinta, così come per l’Africa settentrionale e orientale, dato che sarebbero potute esser soddisfatte solo a spese di Francia e Gran Bretagna, la quale fece la parte del leone nella distribuzione delle colonie.85

La questione belga

L’invasione tedesca del Belgio del 1914, catapultò il piccolo Stato, industrializzato e ricco, al centro dell’opinione pubblica mondiale. Era stata violata la sua neutralità, un tempo garantita dalla stessa Prussia , e la sua resistenza di fronte ad un nemico decisamente più forte e preparato risultò molto più grande di quanto ci si potesse aspettare. Grazie alla tenace resistenza durante l’assedio di

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85 Gilbert pp.613 - 614

Liegi, che riuscì ad ostacolare significativamente l’avanzata tedesca verso Parigi, il mondo intero si schierò a favore del Belgio e del suo re, al cui fianco si unì subito la Gran Bretagna. Anche in un secondo momento, quando le speranze di una guerra rapida si infransero nelle trincee del fronte occidentale, gli alleati continuavano ad avere bisogno di una “causa superiore” per compattare l’opinione pubblica nello sforzo bellico. Le promesse che per quattro anni gli anglo-francesi avevano fatto al governo belga in esilio convinsero i governanti e il re Alberto I che alla conclusione del conflitto il Belgio avrebbe avuto quanto gli spettasse. La classe politica belga si presentò quindi a Parigi con aspettative gonfiate ed esagerate, ma non avevano capito che quattro anni di stragi, distruzioni, esaurimento economico e debiti inimmaginabili a livello mondiale, avevano cambiato le priorità economiche e geopolitiche delle potenze alleate

Fin dai primi giorni la delegazione belga capì che le promesse non avrebbero garantito una garanzia, il capo delegazione protestò veemente contro il metodo di lavoro poco democratico che si stava consumando durante la conferenza, dove i grandi cinque precludevano ogni intervento di altre nazioni. Il 12 febbraio Hymans ottenne la creazione di una commissione speciale per esaminare le frontiere del Belgio e, pur non ottenendo nulla riguardo alle frontiere con i Paesi Bassi dove le grandi potenze non ritennero il caso di fare trasferimenti territoriali in uno Stato che era rimasto neutrale per tutta la guerra, ricevette alcune concessioni al confine con la Germania.

Diversa fu la situazione per l’Africa, dove le rivendicazioni belghe dei territori tedeschi dell’Africa orientale non furono accolte dagli alleati, in quanto la Gran Bretagna ambiva al sogno di un’Africa orientale tutta britannica, con una ferrovia che collegasse Il Cairo con Città del Capo. Il Belgio così ottenne solo il Ruanda–Urundi, un territorio senza sbocco sul mare. Una discussione ancor più animata avvenne per le riparazioni di guerra. Anche in questo caso il Belgio era convinto di poter avere un trattamento privilegiato, tenuto conto del modo in cui fu sconvolto dalle devastazioni della guerra e dall’occupazione tedesca che lasciò il paese con le infrastrutture distrutte, una disoccupazione che toccava il milione di persone, e l’inflazione più alta

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d’Europa che, nel 1920, portò un costo della vita superiore del 470% rispetto a quello del 1914. Anche in questo caso gli alleati non mantennero le solenni promesse in quanto il pagamento degli indennizzi si scontrava con le ambizioni anglo-francesi che capivano come le risorse tedesche non fossero infinite. Ma per il Belgio gli indennizzi tedeschi erano fondamentali per la sua ripresa economica.

Lloyd George, che vedeva con antipatia Hymans, non fu disposto a fare nessuna concessione. Ad aprile il re Alberto I e il primo ministro si recarono di persona a Parigi per difendere di persona il punto di vista belga. Queste visite, assieme all’atteggiamento benevolo degli Stati Uniti, contribuirono a vincere le resistenze britanniche e francesi e il Belgio, grazie alla minaccia di Hymans di abbandonare la conferenza e non firmare il trattato come, peraltro, aveva già fatto l’Italia e minacciava di fare il Giappone, ottenne gran parte delle riparazioni che chiedeva. Gli alleati non potevano permettersi anche il ritiro di un paese simbolo come il Belgio86 .

La questione italiana

Con la fine della prima guerra mondiale l’Italia, risultata anch’essa vittoriosa nel conflitto, alla Conferenza di pace richiese che venisse applicato alla lettera il patto di Londra, la cui applicazione integrale le avrebbe consentito di ottenere buona parte della Dalmazia con le isole adiacenti, ampliando le richieste con la concessione anche della città di Fiume vista la prevalenza dell’etnia italiana nel capoluogo del Quarnaro. I contrasti con Wilson furono netti, il presidente statunitense non era disponibile né ad applicare alla lettera il patto di Londra nè ad accettare le richieste di Roma a spese degli slavi, perché “si spianerebbe la strada all’influenza russa e allo sviluppo di un blocco navale dell’Europa occidentale.”87 La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché

86 Scottà pp. 80- 82 87 Scottà p. 41

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avrebbe consentito all’Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio.

Il risultato fu che le potenze dell’Intesa, alleate dell’Italia, opposero un rifiuto e ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915.

Il neonato Regno di Serbi, Croati e Sloveni (SHS, più tardi Jugoslavia) entrò in fortissimo contrasto con l’Italia, reclamando non solo i territori assegnati con il patto all’Italia cioè Trieste, Gorizia, Istria e Dalmazia settentrionale, ma anche un territorio appartenente al Regno d’Italia fin dal 1866, la Slavia Veneta88 .

Secondo la delegazione jugoslava, tutte queste terre andavano assegnate, per motivi etnici e politici, al Regno SHS.

La città di Trieste, pur riconosciuta di maggioranza italiana, doveva diventare jugoslava secondo il principio per cui le città dovevano seguire le sorti dell’entroterra circostante che era a maggioranza slava.

Lo stesso criterio doveva essere seguito per la città di Fiume, la cui maggioranza relativa di popolazione italiana era considerata in realtà costituita in massima parte di slavi italianizzati. L’irredentismo nazionalista italiano, rafforzatosi nel corso della guerra, si spostò su posizioni di aperta e radicale contestazione dell’ordine costituito. Dopo l’abbandono della conferenza da parte dei delegati italiani, il mito della cosiddetta “vittoria mutilata” e le mire espansionistiche nell’Adriatico divennero i punti di forza del movimento che raccolse le tensioni di una fascia sociale eterogenea, della quale fecero parte gli Arditi, gli unici capaci di dare una svolta coraggiosa all’atteggiamento del governo.

In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata dai giornalisti, come Mussolini direttore dell’Avanti, e da alcuni intellettuali, come D’annunzio, che gli oltre seicentomila morti della guerra erano stati “traditi”, mandati inutilmente al macello, e tre anni di sofferenze erano servite solo a distruggere l’Impero asburgico ai confini d’Italia per costruirne uno nuovo e ancora più ostile ad essa.

Il governo italiano dal canto suo fu diviso sul da farsi infatti Vittorio Emanuele Orlando era un sostenitore del riconoscimento delle nazionalità in opposizione

88 è la regione collinare e montuosa del Friuli orientale che si estende tra Cividale del Friuli e i monti che sovrastano Caporetto, in Slovenia

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alla politica imperialistica di Sonnino. Il contrasto fra i due politici italiani fu fatale; se Orlando, disposto a rinunciare alla Dalmazia, richiedeva l’annessione di Fiume, Sonnino non intendeva cedere sulla Dalmazia, così l’Italia richiese entrambi i territori senza ottenerne nessuno dei due.

A seguito di un appello diretto di Wilson al popolo italiano, che scavalcò il governo del paese, Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di Parigi. Anche in mancanza del presidente del consiglio italiano, le trattative continuarono lo stesso, tanto che la delegazione italiana finì per tornare sui suoi passi. Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del consiglio Nitti sottoscrisse il trattato di Saint – Germain, che definiva i confini italo-austriaci ma non quelli orientali.

Due giorni dopo, il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta D’Annunzio, occupò Fiume chiedendone l’annessione all’Italia.

Solo dopo la caduta del governo Nitti, il quinto e ultimo governo Giolitti riuscì a sbloccare la situazione. Con la firma del Trattato di Rapallo, del 12 novembre 1920, Giolitti riuscì a raggiungere un accordo con gli jugoslavi.

L’Italia acquisiva quasi per intero il litorale austriaco comprendente le città di Gorizia e Trieste col loro circondario, nonché la quasi totalità dell’Istria e le isole del Quarnaro.

Della Dalmazia, promessa col patto di Londra, all’Italia andarono solo la città di Zara, le isole di Lagosta e Cazza e l’arcipelago di Pelagosa mentre il resto della regione fu assegnato al regno Serbo. Fiume veniva riconosciuta città indipendente, ma D’Annunzio, non riconoscendo la validità del Trattato di Rapallo, giunse a dichiarare guerra all’Italia. Il poeta e le formazioni irregolari vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze armate italiane.

La posizione verso la Russia bolscevica

Tra le nazioni riunite alla Conferenza non era presente, com’è noto, la Russia

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bolscevica.

Le nazioni vincitrici ritenevano l’influenza bolscevica un “pericolo sociale e politico ”89 da isolare e che non che non si poteva stroncare con un intervento militare. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti non avevano forze sufficienti per un attacco atto a sostenere l’Armata Bianca che si opponeva all’Armata Rossa bolscevica nella guerra civile che insanguinava il vasto territorio russo.

Il governo bolscevico dal proprio canto era disponibile a far fronte ai debiti zaristi, a pagarne gli interessi in materie prime e a fare concessioni territoriali e minerarie, per garantire la sopravvivenza del neonato governo impegnato nella sanguinosa guerra civile.

Tutto ciò venne però recepito da Wilson e Lloyd George come un insulto, come tentativo di comprare la benevolenza dei grandi stati capitalisti. Ma né i fautori della crociata antibolscevica, né i governi occidentali volevano far digerire all’opinione pubblica dei negoziati con la Russia dei soviet, così le proposte e le concessioni bolsceviche caddero nel vuoto.

Nessuno era disposto a mandare truppe in Russia, nessuno era disposto ad accettare trattative con il governo di Lenin. Solo gli Stati Uniti colsero l’occasione di guadagnare qualcosa dalla situazione in Russia, così fu approvato il progetto di Herbert Hoover di estendere alla Russia l’opera di assistenza alimentare già sperimentata in Belgio.

La conclusione

Entro la fine del 1919 Germania, Austria e Bulgaria firmarono i rispettivi trattati di pace ma il 19 novembre il governo statunitense respinse il trattato di Versailles. Fu un duro colpo per coloro che avevano sperato nell’alleato d’oltremare per far rispettare il trattato e fornire un aiuto economico all’Europa. L’intero trattato era stato concepito partendo dall’assunto che gli Stati Uniti avrebbero svolto un ruolo attivo, la Francia fu dissuasa dal creare uno Stato cuscinetto fra sé e la Germania in cambio del sostegno armato degli Stati Uniti. L’intero trattato era stato

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89 Scottà p. 115

“deliberatamente e ingegnosamente costruito da Wilson in persona, in modo tale che la collaborazione statunitense risultasse essenziale”90 .

Il trattato di Versailles entrò in vigore il 10 gennaio 1920, lasciando l’Europa abbandonata a sé stessa. All’entrata in vigore del trattato corrispose l’istituzione della Società delle Nazioni che, però, nasceva già incrinata in quanto né la Russia né la Germania ne facevano parte mentre la Cina si sentiva offesa perché i giapponesi, nonostante le proteste alleate, si erano annessi la provincia dello Shantung in precedenza in mano tedesca.

La Società delle Nazioni racchiudeva tuttavia in sé le speranze di milioni di persone che vedevano in questa la possibilità di dirimere le dispute internazionali senza far ricorso alla forza. Speranze contenute nei suoi 26 articoli, che prevedevano la consultazione, e quindi l’azione collettiva, nel caso di aggressione senza provocazione. Ma perfino nei nuovi stati nati, dalla volontà delle minoranze, nascevano le aspirazioni delle nuove minoranze, i cui diritti venivano continuamente calpestati, e alle quali la Società offriva più una speranza che un vero e proprio appoggio. Le minoranze tedesche in Polonia e Cecoslovacchia, le minoranze ungheresi in Romania e Cecoslovacchia, la minoranza ucraina in Polonia, covavano risentimenti simili a quelli che prima del 1914 avevano innescato la spirale della guerra.

Le condizione imposte dagli alleati

Quando il trattato di Versailles venne concluso, la Germania fu costretta a pagare agli alleati 6.600.000.000 di sterline (132 miliardi di marchi oro), cedere tutte le colonie, accettare la colpa per la guerra, ridurre le dimensioni delle sue forze armate (sei navi da guerra, 100.000 soldati e nessuna aviazione) e cedere territorio a favore di altri Stati, tra cui Belgio, Francia, Danimarca e Polonia. Per la Germania particolarmente pesante,soprattutto sul piano morale, risultò l’articolo 227, nel quale l’ex imperatore Guglielmo II veniva messo in stato d’accusa di fronte a un futuro Tribunale Internazionale.

90 Gilbert, pp. 628, 629

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Quest’ultima clausola, la Germania come unica responsabile del conflitto, viene ancor oggi dibattuta dagli studiosi che si dividono in due gruppi:

• coloro che accettarono tale interpretazione,

• coloro che non vedono una colpa individuale ma collettiva, cioè secondo loro non fu colpa di una sola nazione, ma tutti, vincitori e vinti, ebbero la loro parte di responsabilità.

I cosiddetti “quattro grandi” sapevano ancor prima di incontrarsi di voler punire la Germania: la Francia voleva vendetta, il Regno Unito voleva una Germania relativamente forte economicamente per controbilanciare il predominio continentale della Francia, gli Stati Uniti,volevano la creazione di una pace permanente il più in fretta possibile, così come la distruzione dei vecchi imperi, mentre l’Italia era desiderosa di poter ampliare i propri possedimenti coloniali e completare, finalmente, l’opera risorgimentale con l’annessione delle terre italiane sotto il dominio Austroungarico. Il risultato fu un compromesso che non lasciò nessuno soddisfatto.

Gli osservatori più acuti, come l’economista britannico John Maynard Keynes, criticarono duramente il trattato che stando alle sue parole: “non prevedeva alcun piano di ripresa economica e l’atteggiamento punitivo e le sanzioni contro la Germania avrebbero provocato nuovi conflitti e instabilità, invece di garantire una pace duratura”91 .

Il saldo del debito tedesco

In data 3 ottobre 2010, in occasione del ventesimo anniversario della riunificazione tedesca, la Germania ha annunciato di aver estinto, tramite il versamento di un’ultima rata da settanta milioni di euro, i debiti di guerra imposti dal trattato.

91 Keynes espresse questa visione nel suo saggio The Economic Consequences of the Peace (Le conseguenze economiche della pace).

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Conseguenze

Con la cessazione dei combattimenti e l’entrata in vigore dell’armistizio di Compiègne alle ore 11:00 del’11 novembre 1918, l’Austria-Ungheria era ormai disgregata in due entità differenti, sia Austria che Germania erano senza imperatore, ma i problemi che le nazioni sconfitte avrebbero dovuto affrontare erano enormi: combattere le forze rivoluzionarie di sinistra e il militarismo di estrema destra e rivitalizzare l’economia distrutta. Anche per le nazioni vincitrici gli impegni della pace rappresentavano un peso gravoso in quanto mantenere la promessa, fatta ai soldati che tornavano dai campi di battaglia, di una vita migliore e di gestire le controversie territoriali dei nuovi stati sorti dalla caduta degli Imperi centrali non fu impresa affatto semplice, considerando anche le conseguenze che ogni decisione implicava.

Perdite umane, traumi psicologici e difficile ritorno alla normalità

La prima guerra mondiale è stato uno dei conflitti più sanguinosi dell’umanità. In quattro anni e tre mesi di ostilità persero la vita circa 2 milioni di soldati tedeschi insieme a 1.110.000 austro-ungarici, 770.000 turchi e 87.500 bulgari; gli Alleati ebbero all’incirca 2 milioni di morti tra i soldati russi, 1.400.000 francesi, 1.115.000 dell’Impero britannico, 650.000 italiani, 370.000 serbi, 250.000 rumeni e 116.000 statunitensi. Considerando tutte le nazioni del mondo, si stima che durante il conflitto persero la vita poco meno di 9.722.000 soldati con oltre 21 milioni di feriti, molti dei quali rimasero più o meno gravemente segnati o menomati a vita.

Migliaia di soldati soffrirono di una inedita tipologia di lesioni, studiata per la prima volta proprio nel primo dopoguerra, consistente in una serie di traumatizzazioni psicologiche che potevano portare a un completo collasso nervoso o mentale: designata come “trauma da bombardamento” o “nevrosi di guerra”, costituì la prima teorizzazione del “disturbo post traumatico da stress”, malattia non riconosciuta prima d’allora né dai medici né dagli psicologi. L’enorme perdita di vite umane provocò un grave contraccolpo sociale,

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l’ottimismo della Belle Époque fu spazzato via e i traumatizzati superstiti del conflitto andarono a formare la cosiddetta “generazione perduta”92 . I civili non furono risparmiati: circa 950.000 morirono a causa delle operazioni militari, bombardamenti e uso di manodopera civile nelle zone del fronte, circa 5.893.000 persone perirono per cause collaterali, in particolare carestie e carenze di generi alimentari, condizioni sofferte in particolare dagli Imperi centrali sottoposti al blocco navale alleato, malattie ed epidemie, particolarmente grave fu l’“influenza spagnola” che mieté milioni di vittime in tutto il mondo. Non vanno poi dimenticate le persecuzioni razziali scatenatesi durante il conflitto la maggiore delle quali fu sicuramente il genocidio degli Armeni.

Cambiamenti politici

La Grande Guerra distrusse gli equilibri politici consolidati da anni e ridisegnò i confini nazionali di Europa e Medio Oriente: quattro grandi imperi multi etnici (tedesco, austro-ungarico, russo e ottomano) erano scomparsi lasciando al loro posto piccole nazioni prostrate dalla guerra. Anche i vincitori erano gravati dalle perdite, dalle distruzioni, dalla spesso illusoria promessa di una vita migliore fatta ai soldati che tornavano dai campi di battaglia, dalla complessa gestione 92 Willmott, p. 306

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L’Europa prima della Grande Guerra L’Europa dopo la Grande Guerra

delle controversie territoriali tra i nuovi stati sorti in Europa centro-orientale.

L’Austria-Ungheria, ceduti territori a Italia, Polonia e Romania, si frazionò in una serie di nuovi Stati nazionali: la piccola repubblica austriaca era etnicamente coesa ma economicamente indebolita e lacerata dai dissidi sociali, come lo era il nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni ,che più avanti diventerà Jugoslavia, che dovette affrontare i contrasti tra i vari gruppi etnici presenti sul territorio; più stabile, soprattutto sotto il punto di vista economico, si rivelò la Cecoslovacchia gravata però dalla presenza di una forte minoranza tedesca nella regione di confine dei Sudeti che accusarono sempre il governo centrale di non rispettare la loro lingua e cultura.

L’Ungheria fu decisamente ridimensionata e perse un gran numero di abitanti, fatti che generarono il risentimento dei magiari e una serie di piccole guerre di confine con cechi e romeni oltre a un tentativo di instaurare un governo bolscevico a Budapest soffocato poi nel sangue.

La Germania cedette l’Alsazia-Lorena alla Francia, porzioni di territorio alla Polonia, ricostruita, tra le quali il cosiddetto “corridoio di Danzica” e qualche altra zona di confine.

La monarchia imperiale era crollata ed era stata rimpiazzata dalla debole e instabile “repubblica di Weimar” alle prese non solo con una situazione economica disastrosa ma anche con fortissimi conflitti interni e sociali, i quali sfociarono in ribellioni ispirate alla rivoluzione bolscevica, rabbiose repressioni e tentativi di colpo di Stato condotti dai cosiddetti “Freikorps” formazioni organizzate dai movimenti reazionari e conservatori con i soldati smobilitati dal fronte e incapaci di adattarsi alla vita civile.

Anche per via dell’intransigenza dei francesi, il trattato di Versailles impose dure condizioni alla Germania, costretta a dover pagare un ingentissimo risarcimento per i danni di guerra e ad accettare una “Clausola di colpevolezza per la guerra” che la riconosceva come unica responsabile. Inevitabilmente queste misure finirono per alimentare il risentimento dei tedeschi e fornire argomenti di propaganda ai partiti nazionalisti ed estremisti.

Solo nel 1924, con il governo di coalizione del cancelliere Gustav Stresemann e la firma di un piano di aiuti economici e riorganizzazione del risarcimento do-

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vuto, la Germania poté ritrovare una certa stabilità. La dissoluzione dell’Impero russo e della monarchia degli zar lasciò il posto a una serie di guerre in cui i bolscevichi della neo proclamata Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, che più avanti diventerà URSS, affrontavano in una feroce e disumana guerra civile le forze controrivoluzionarie dell’armata bianca sostenute da truppe inviate dagli Alleati occidentali. Le varie comunità del multietnico impero insorsero in armi nel tentativo di costituire proprie patrie nazionali, scontrandosi anche le une con le altre per definire i nuovi confini; in particolare fu la nuova repubblica di Polonia, tornata indipendente dopo oltre un secolo di occupazione straniera, ad affrontare i bolscevichi in una sanguinosa guerra per definire i propri confini orientali, conclusasi poi nel 1921. La sconfitta dei “bianchi”, abbandonati al loro destino, e la proclamazione dell’Unione Sovietica il 30 dicembre 1922 diedero stabilità alla caotica situazione orientale: i russi ristabilirono il loro dominio su Ucraina, Bielorussia e regioni caucasiche, ma dovettero accettare l’indipendenza di Finlandia, Polonia e stati baltici. Anche l’Impero ottomano fu spartito tra gli Alleati vittoriosi: Siria e Libano andarono alla Francia mentre il Regno Unito acquisì la Palestina, la Transgiordana e la Mesopotamia, dove fu costituito il nuovo Stato dell’Iraq, mossa che scontentò i nazionalisti arabi, insorti contro i turchi dopo le promesse d’indipendenza fatte dagli Alleati durante la guerra, gettando i germi di nuove rivolte.

Ridottasi alla sola Anatolia, la Turchia visse un periodo di tumulti e conflitti: sotto la guida del generale Mustafa Kemal le forze turche intrapresero una serie di guerre contro greci e armeni, riuscendo a dare al paese i confini odierni; nell’ottobre 1923 il sultanato fu abolito e la Turchia divenne una repubblica guidata dallo stesso Kemal che le diede una costituzione aprendo il suo paese all’occidente, divenendo così il “Padre della patria”

La spartizione dell’impero coloniale tedesco, diviso tra Francia, Regno Unito e Giappone, generò lo scontento dell’Italia, aggravato dalla negazione di molte delle promesse fattele nel patto di Londra del 1915 e dando un potente strumento ai nazionalisti italiani che poterono parlare di una “vittoria mutilata”.

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Infatti i territori dell’ormai ex impero coloniale tedesco finirono sostanzialmente spartiti tra Francia e Inghilterra, pur con la veste formale di “mandato della Società delle Nazioni”.

L’Africa Orientale Tedesca divenne il Territorio del Tanganika dato in affidamento al Regno Unito, tranne che per la porzione nord-occidentale (Ruanda–Urundi) passata invece all’amministrazione del Belgio. La colonia del Togoland e quella del Camerun Tedesco furono divise in due mandati distinti, rispettivamente Togoland Britannico e Togoland Francese, e Camerun Britannico e Camerun Francese, e affidati al Regno Unito e alla Francia, mentre, sempre ai britannici ma con amministrazione di fatto delegata all’Unione Sudafricana, andò il mandato sull’Africa Tedesca del Sud – Ovest.

La Nuova Guinea Tedesca divenne il mandato britannico del Territorio della Nuova Guinea, tranne l’isola di Nauru che fu affidata a un’amministrazione trilaterale tra Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda. Le ex Samoa tedesche divennero il mandato delle Samoa Occidentali sotto amministrazione congiunta britannica e neozelandese, mentre i restanti possedimenti tedeschi nell’area dell’Oceano Pacifico furono riunti in un Mandato del Pacifico Meridionale dato in affidamento al Giappone.

La concessione di Kiao–Ciao, sulla costa settentrionale della Cina, fu sottoposta a occupazione giapponese finché, il 10 dicembre 1922, il governo di Tokyo, in seguito alle forti pressioni statunitensi, non la restituì all’amministrazione cinese. Le concessioni territoriali di cui Germania e Austria-Ungheria godevano nella città di Tientsin furono riassorbite nella Repubblica di Cina. Negli anni del dopoguerra si presentò anche la prima crisi del colonialismo europeo infatti alcuni Stati, da lungo tempo sotto il giogo delle grandi potenze, cominciarono a rivendicare la propria indipendenza e causarono non pochi problemi all’Europa, specialmente in relazione al commercio delle materie prime.

Il presidente statunitense Wilson assunse il ruolo di mediatore e inaugurò una missione di civilizzazione volta a migliorare le nazioni più arretrate in modo da concedere loro l’indipendenza, non prima di averle affidate alla guida di potenze quali la Francia o il Regno Unito. Questi movimenti nazionalistici riguarda-

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rono in particolar modo paesi dell’Oriente, del Medio Oriente e dell’Asia (come la Cina, l’India, l’Iraq e il Libano) e anche africani (quali l’Egitto o la Cirenaica). Gli Alleati, soprattutto il presidente Wilson, si proposero di organizzare un nuovo sistema globale fondato sulla risoluzione delle controversie per vie pacifiche e sull’autodeterminazione dei popoli. In un discorso che tenne davanti al Senato degli Stati Uniti l’8 gennaio 1919, Wilson riassunse i suoi propositi in quattordici punti nei quali esprimeva il pensiero che dovesse esserci una “pace senza vincitori” poiché, a suo parere, una pace imposta avrebbe contenuto il germe di una nuova guerra93 . Wilson fu tra gli strenui sostenitori della formazione di una “Società delle Nazioni”, un organismo internazionale che scongiurasse altri conflitti. La Società fu formalmente istituita il 28 giugno 1919 ma il Senato statunitense votò contro l’ingresso degli Stati Uniti nell’organismo sostenendo invece una forte politica isolazionista del paese.

Effetti socio-economici

La prima guerra mondiale fu condotta in modo totalmente diverso rispetto ai conflitti precedenti e produsse cambiamenti socio-economici di lunga durata. Si calcola che complessivamente furono 66 milioni gli uomini arruolati e spediti al fronte, che lasciarono a casa famiglie e imprese con ripercussioni sulla vita della società. La “guerra di massa” stravolse e accelerò lo sviluppo delle comunicazioni e l’industria, introdusse l’uso del mezzo aereo sia come macchina da guerra che come mezzo di trasporto per persone e merci. L’ingente uso di manodopera nelle catene di montaggio avvicinò i lavoratori alle ideologie più estremizzate che favorirono sia il clima rivoluzionario sia il timore delle classi più abbienti di veder intaccati i propri guadagni, che li spinsero verso scelte conservatrici o autoritarie. La guerra foraggiava sia il “socialismo rivoluzionario”, visto come speranza di rinnovamento sociale, sia il “nazionalismo estremistico”, sinonimo di avanzamento nazionale.

La guerra ebbe importanti effetti anche sul piano socio-economico di tutti i pae-

Nolfo, p. 7

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93
Di

si.

Gli assetti economici mondiali subirono un cambio radicale, con l’Europa che iniziò a cedere molte posizioni ai paesi extraeuropei, una tendenza iniziata però ben prima del 1914, ma che fu enfatizzata e accelerata dalla guerra e dai trattati di pace che seguirono.

Gli enormi costi economici del conflitto obbligarono le nazioni europee a liquidare i propri investimenti all’estero e a chiedere prestiti ad altre nazioni, circostanza dalla quale gli Stati Uniti trassero enormi vantaggi. Nel 1917 Washington fornì prestiti al Regno Unito per un totale di 4 miliardi di dollari e nel complesso gli investimenti all’estero degli Stati Uniti passarono dai 3,5 miliardi di dollari nel 1914 a 7 miliardi nel 1919. Alla fine della guerra il centro finanziario mondiale si era spostato da Londra a New York. Il Giappone, che godette di analoghi benefici, assunse il controllo di diverse rotte commerciali nella zona del Pacifico e vide una espansione e diversificazione della propria base industriale, condizioni che gli permisero di diventare, per la prima volta nella sua storia, un paese creditore invece che debitore. Stati del Sud America, come Brasile e Argentina, sfruttarono il periodo bellico per rompere il vecchio schema che li vedeva esportatori di materie prime e importatori di prodotti finiti europei iniziando a sviluppare proprie basi industriali andando così a soppiantare parte dello spazio occupato dalle esportazioni delle nazioni europee.

La ripresa economica degli Stati europei fu lenta, a causa di vari fattori nazionali, la Germania fu ostacolata dall’alto debito di guerra da pagare e dall’inflazione galoppante, la Francia dalla perdita dei capitali investiti nella Russia zarista, e internazionali, legati alle restrizioni al libero commercio e all’imposizione di alte barriere doganali negli Stati Uniti e altrove. Una vera ripresa economica si ebbe a partire dal 1924 ma le nazioni europee mancarono di spirito collaborativo e preferirono reggersi unicamente sulle proprie forze e possibilità, scelta individualista che facilitò l’esplosione della crisi economica conseguente al crollo della borsa del 1929. Poiché il centro di gravità dell’economia mondiale si era stabilmente spostato negli Stati Uniti, quando questi andarono in crisi trascinarono con sé il resto del mondo.

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Anche la vita sociale aveva subito enormi strappi94 infatti ben 66 milioni di uomini erano stati inviati al fronte e i superstiti, al ritorno, trovarono condizioni disastrose:

• crisi economiche

• penuria di viveri

• forti conflitti sociali, soprattutto nelle nazioni sconfitte, sfocianti spesso in scontri sanguinosi.

Il cameratismo nato tra i soldati al fronte fu spesso piegato a fini politici interni:

• I Freikorps tedeschi, usati dal nazismo.

• Black and Tans britannici, un corpo armato costituito con i reduci smobilitati alla fine del conflitto e impiegato per le azioni più crudeli e brutali durante la guerra d’indipendenza irlandese.

• Arditi italiani, in parte volontari e in parte scelti tra i condannati a morte o a lunghe pene detentive, addestrati per le azioni più rischiose, moltissimi dei quali, a guerra finita, confluirono nelle formazioni dello squadrismo fascista.

Da un punto di vista sociale, tuttavia, la guerra non produsse solo effetti negativi in quanto trasformazioni già iniziate, ma che tardavano ad affermarsi, subirono un’improvvisa accelerazione, allentando la stretta del sistema di classe. Importanti furono gli sviluppi in materia di emancipazione femminile e in molti dei paesi belligeranti le donne videro il proprio ruolo sociale ampliarsi rispetto a quello tradizionale di “madri di famiglia”. Il richiamo al fronte di milioni di uomini rese indispensabile l’apporto della manodopera femminile in agricoltura ma anche, e soprattutto, nell’industria: in Austria-Ungheria, se nel 1913 solo il 17,5% degli operai dell’industria era donna, nel 1916 questa percentuale era salita al 42,5%, mentre nella Germania del 1918 la quota della manodopera femminile nelle industrie di tutti i tipi raggiunse il 55%, con orari e condizioni di lavoro pari a quelli degli uomini sebbene con un salario inferiore. La creazione di un gran numero di enti e uffici per gestire le nuove funzioni bu-

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94 Di
Nolfo, p. 46

rocratiche ed economiche affidate allo Stato in tempo di guerra, solo in Francia la burocrazia statale crebbe del 25%, ebbe come conseguenza un elevato afflusso di manodopera femminile nella pubblica amministrazione e nei servizi statali.

Donne furono impiegate anche più direttamente nel conflitto: oltre che per i tradizionali ruoli di infermiere e assistenti sanitarie (e spie: celebre il caso di Matha Hari, anche se studi recenti hanno dimostrato che in realtà probabilmente non lo fosse), furono reclutate in vari corpi incaricati di svolgere servizi logistici nelle retrovie del fronte.

A parte altri casi isolati la Russia reclutò, nell’ultima fase del conflitto, unità da combattimento femminili, che tuttavia ebbero un ridotto impiego al fronte.

L’influenza culturale

La Grande Guerra ebbe una profonda influenza sul mondo della letteratura e delle arti figurative. Il conflitto ispirò una copiosa produzione letteraria sia di poesia sia di narrativa. Un gran numero di poesie e raccolte di poesie composte dagli stessi militari al fronte, spesso critiche nei confronti della propaganda e concentrate sulle sofferenze dei soldati in trincea, furono pubblicate già durante la guerra.

Le esigenze della propaganda stimolarono la produzione artistica: tutti i principali eserciti belligeranti non solo inviarono al fronte fotografi ufficiali e unità cinematografiche militari per riprendere, pur sotto i rigidi vincoli della censura, i combattimenti, ma patrocinarono anche le opere di “pittori di guerra” inviati a documentare le attività belliche e disegnatori impegnati nella realizzazione di manifesti e illustrazioni propagandistiche.

La guerra ispirò opere convenzionali ma anche forti sperimentazioni e movimenti d’avanguardia contrari alla tradizione; sebbene non mancassero artisti e movimenti artistici favorevoli alla guerra, celebre il caso del futurismo italiano, molti degli artisti più noti maturano, dopo le loro esperienze dirette al fronte, atteggiamenti di forte opposizione mettendo in mostra tutta la barbarie e l’assurdità del conflitto.

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La guerra ispirò una notevole produzione cinematografica, che proprio quando scoppiò il conflitto stava affermandosi come principale divertimento di massa. I film realizzati durante il periodo avevano intenti propagandistici, trasmettendo l’idea di una guerra come confronto tra “Bene” e “Male” e veicolando messaggi patriottici anche nel caso di opere di evasione, come nelle pellicole mute di Maciste Alpino e Charlot soldato. Molte delle pellicole realizzate nel primo dopoguerra tesero a mitizzare il conflitto e a smorzarne l’orrore, calandolo nel contesto di storie romantiche, avventurose o focalizzate sul tema del cameratismo tra i soldati al fronte. Con poche eccezioni, come ad esempio All’ovest niente di nuovo, trasposizione del romanzo di Remarque, uscito nel 1930, o La grande Illusione di Jean Renoir del 1937, i film di denuncia della guerra e della sua insensatezza comparvero solo nel secondo dopoguerra e tra questi possiamo ricordare Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick del 1957 e Uomini contro di Francesco Rosi del 1970.

L’influenza spagnola

La prima guerra mondiale aveva ucciso dieci milioni di persone, quasi esclusivamente militari, ma in sei mesi, tra la fine dell’ottobre 1918 e l’aprile 1919, l’influenza spagnola colpì un miliardo di persone uccidendone circa 50 milioni di cui circa 375.000 (ma alcuni sostengono 650.000) soltanto in Italia. Non è mai stato tuttavia possibile quantificare con esattezza né il numero delle vittime né quello dei contagiati ma comunque la spagnola mise in ginocchio l’intera Europa con un altissimo tasso di mortalità, che raggiunse in alcune comunità anche il 70%. Va tenuto presente che a quel tempo gli antibiotici non erano stati ancora scoperti, la penicillina verrà scoperta da Alexander Fleming solo nel 1928, e che inizialmente non venne capita la gravità e l’origine della malattia. Sebbene l’influenza fosse causata da virus, e quindi gli antibiotici non sarebbero comunque stati efficaci per contrastarla, la maggior parte dei morti si ebbero in realtà per complicanze batteriche, ovvero infezioni opportunistiche che si sovrapposero all’influenza nell’organismo indebolito. Per queste infezioni, gli at-

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tuali antibiotici avrebbero potuto rappresentare una cura efficace riducendo drasticamente la mortalità.

In Italia, il primo allarme venne lanciato a Sossano (Vicenza) nel settembre del 1918, quando il capitano medico dirigente del Servizio sanitario del secondo gruppo reparti d’assalto invitò il sindaco a chiudere le scuole per una sospetta epidemia di tifo: di lì a poco scattò l’emergenza. Ma la spagnola, pur uccidendo moltissimi soldati italiani, colpì maggiormente l’Austria Ungheria, con circa due milioni di morti. Tra i soldati austriaci l’incidenza della mortalità fu quasi tripla rispetto a quella fra i soldati italiani e questo fu dovuto principalmente al fatto che i soldati dell’Impero austro-ungarico erano sottoalimentati, per cui debilitati, in conseguenza del blocco navale che rendeva impossibile agli imperi centrali le importazioni. È interessante notare come la storiografia tedesca attribuisca a questa diversa incidenza della spagnola la causa della sconfitta finale mentre in Italia, al contrario, questo aspetto non è mai stato molto approfondito. Terminata la guerra, però, la spagnola si diffuse ulteriormente, in quanto i reduci, tornando a casa, trasmisero il virus ai civili.95

Le conferenze del disarmo

Tra gli articoli inseriti nello statuto della Società delle Nazioni ve ne era anche uno, l’articolo 8, che affermava che tutte le nazioni avrebbero dovuto ridurre i loro armamenti, compatibilmente con la sicurezza nazionale, al livello più basso possibile, di fatto, il disarmo imposto alla Germania veniva generalizzato. Il trattato navale tra USA, Gran Bretagna, Giappone, Italia e Francia scaturito dalla conferenza di Washington si preoccupò di regolare gli armamenti in campo navale. Gran Bretagna e USA acconsentirono ad avere delle flotte di uguali proporzioni così come stabilirono Francia e Italia, solo il Giappone riuscì ad ottenere un tonnellaggio navale maggiore. Nel 1927 il presidente statunitense Calvin Coolidge riunì le parti per discutere della riduzione del naviglio militare di stazza intermedia. Su questo punto si 95 Fonte Donato Maraffino, Quel terribile autunno del 1918

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scontrarono gli interessi italiani e francesi, con il nuovo governo di Mussolini che non volle accettare una parità di armamenti con la Francia che, a sua volta, non era disposta a disarmare ulteriormente la flotta, adducendo come motivazioni la nuova politica balcanica del Duce e la necessità di mantenere operative due flotte, una per l’Atlantico e una per il Mediterraneo. Queste posizioni esclusero i due paesi dall’accordo raggiunto a Londra nel 1930 tra USA, Gran Bretagna e Giappone che aveva stabilito un aumento della flotta giapponese e la parità angloamericana in materia di incrociatori, cacciatorpediniere e sommergibili. La situazione italo-francese si sbloccò nel 1931 con il raggiungimento di un complicato compromesso.96

Quanto al disarmo generale, venne istituita un’apposita commissione che, dopo un lavoro durato dal 1926 al 1930, convocò una conferenza a Ginevra da tenersi il 2 febbraio 1932. Il governo francese di Pierre Laval propose la subordinazione degli armamenti alla nascita di un sistema di garanzie collettive facenti capo alla Società delle Nazioni, ma il progetto si infranse contro l’opposizione del ministro degli esteri italiano, Dino Grandi, che avrebbe accettato una riduzione degli armamenti a livelli identici per tutte le nazioni solamente se fosse stata ristabilita la “cooperazione e la giustizia internazionale”, con riferimento al revisionismo balcanico che, tuttavia, la Francia non era disposta ad appoggiare. Alla conferenza prese parola anche il cancelliere tedesco Heinrich Brüning. Dal momento che nessuno Stato aveva tenuto fede al disarmo dichiarato nella Carta della Società delle Nazioni, egli chiese la fine dei vincoli di Versailles sugli armamenti tedeschi, fornendo in cambio garanzie unilaterali quali la rinuncia ad avanzare, per un certo numero d’anni, rivendicazioni territoriali. La conferenza tergiversò a lungo, con le potenze occidentali divise, e diede una risposta affermativa quando Hitler era già diventato cancelliere. Il Führer non ritirò subito la delegazione tedesca, chiedendo invece, a maggio, una messa in pratica immediata del principio di parità dei diritti tedeschi in materia di armamenti (Gleichberechtigung)97. Era una mossa puramente provocatoria, impossibile da accogliere, e Hitler la sfruttò, il 14 ottobre, per legittimare il ritiro della delega-

96 Di Nolfo, pp. 71 72 97 Di Nolfo, pp. 73 74

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zione e l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni.

Repubblica di Weimar

Dal 1916 in poi l’Impero tedesco era stato, all’atto pratico, governato dai militari, guidati dall’Oberste Heeresleitung (OHL, Comando Supremo dell’Esercito) tramite il Capo di Stato Maggiore Paul von Hindenburg. Quando divenne evidente che la prima guerra mondiale era persa, l’OHL richiese che venisse instaurato un governo civile. Ogni tentativo di continuare la guerra, dopo che la Bulgaria aveva abbandonato gli Imperi centrali, avrebbe provocato l’occupazione del territorio nazionale. Il nuovo cancelliere del Reich, principe Maximilian von Baden, offrì quindi , il 3 ottobre 1918, un cessate il fuoco al Presidente statunitense Woodrow Wilson. Il 28 ottobre 1918 la costituzione del 1848 venne emendata per rendere il Reich una democrazia parlamentare secondo la quale, diversamente da quanto previsto dalla costituzione del 1871, il Cancelliere avrebbe risposto al Parlamento, il Reichstag, e non più all’Imperatore.

Il piano allora in corso per trasformare la Germania in una monarchia parlamentare, anche de iure, divenne ben presto obsoleto e la nazione scivolava in uno stato di caos quasi completo. La Germania era inondata da soldati di ritorno dal fronte, molti dei quali erano feriti sia fisicamente che psicologicamente, la violenza comune era dilagante, con risse che scoppiavano anche tra gruppi rivali di sinistra ai funerali dei loro capi assassinati dagli avversari di destra e viceversa.

La ribellione esplose il 29 ottobre quando il comando militare, senza essersi consultato con il governo, ordinò alla Flotta d’alto mare, la Hochseeflotte, una sortita che non solo era senza speranza da un punto di vista militare, ma che avrebbe anche portato a un arresto dei negoziati di pace. Gli equipaggi di due navi ormeggiate a Wilhelmshaven si ammutinarono. Quando i militari arrestarono circa mille marinai e li fecero trasportare a Kiel, la rivolta locale si trasformò in una ribellione generale che dilagò rapidamente in gran parte della Germania. Altri marinai, soldati e persino operai solidarizzarono con gli arrestati iniziando a eleggere consigli di lavoratori e soldati, modellati sui soviet della

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Rivoluzione Russa del 1917, riuscendo a prendere il potere, civile e militare, in molte città. Il 7 novembre la rivoluzione aveva raggiunto Monaco di Baviera, provocando la fuga di Ludwig III di Baviera. Inizialmente le richieste dei consigli erano modeste e si limitarono alla liberazione dei marinai arrestati. Contrariamente alla Russia dell’anno precedente, i consigli non erano controllati da un partito comunista. Nonostante ciò, con il vicino sorgere della Russia bolscevica, la ribellione causò grande tensione dalle classi medie in su che temevano una prossima trasformazione della nazione in una Repubblica Socialista. Sempre il 9 novembre, con un atto discutibile dal punto di vista legale, il Reichskanzler, principe Maximilian von Baden, trasferì i propri poteri a Friedrich Ebert, il capo della MSPD. Fu evidente che questo atto non sarebbe stato sufficiente a soddisfare le masse, così il giorno dopo, venne eletto un governo rivoluzionario chiamato “Consiglio dei Commissari del Popolo” (Rat der Volksbeauftragten), composto da membri della MSPD e della USPD, guidato da Ebert per la MSPD e da Hugo Haase per la USPD. Anche se il nuovo governo venne confermato dal consiglio dei lavoratori e dei soldati di Berlino, fu avversato dagli spartachisti, l’ala sinistra della USPD guidati da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Ebert chiese la convocazione di un Congresso Nazionale dei Consigli, che ebbe luogo dal 16 al 20 dicembre 1918, e nel quale la MSPD aveva la maggioranza. Ebert riuscì a imporre rapide elezioni per un’Assemblea Nazionale che doveva dar vita a una costituzione per un sistema parlamentare, marginalizzando così il movimento che richiedeva una Repubblica Socialista. Per assicurarsi che il suo governo fosse in grado di mantenere il controllo sulla nazione, Ebert fece un patto con l’OHL, ora guidato dal successore di Ludendorff, il generale Wilhelm Groener. Il Patto Ebert-Groener essenzialmente stabiliva che il governo non avrebbe cercato di riformare l’esercito fino a quando l’esercito giurava di difendere il governo. Da una parte, questo accordo simboleggiava l’accettazione di un nuovo governo da parte dei militari, calmando le preoccupazioni della classe media ma dall’altra parte, venne considerato un tradimento degli interessi dei lavoratori da parte della sinistra in quanto stabili-

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va l’Esercito come un gruppo indipendente e conservatore all’interno dello stato, in grado di influenzare il destino della neonata Repubblica. Questo fu uno dei tanti passi che determinò la permanente suddivisione della rappresentanza politica della classe operaia in SPD e comunisti. La divisione divenne definitiva dopo che Ebert , il 23 novembre 1918, fece richiesta all’OHL di truppe per sedare un altro ammutinamento di soldati a Berlino durante il quale i soldati in rivolta avevano catturato il comandante della città e chiuso la Reichskanzlei, sede del Consiglio dei Deputati del Popolo. L’intervento fu brutale, con parecchi morti e feriti e ciò indusse l’estrema sinistra a invocare la scissione dalla MSPD che, secondo loro, era sceso a patti con i militari controrivoluzionari per sopprimere la rivoluzione. Dopo solo sette settimane la USPD lasciò il Consiglio dei Deputati del Popolo e la spaccatura si approfondì quando, in dicembre, la Kommunistische Partei Deutschlands (KPD) venne formata da un certo numero di gruppi di sinistra, inclusa l’ala sinistra della USPD e i gruppi Spartachisti.

In gennaio ci furono ulteriori tentativi di stabilire uno stato socialista da parte dei lavoratori, ma questi tentativi vennero soffocati nel sangue dalle unità paramilitari dei Freikorps, truppe composte da ex-soldati e volontari solitamente di estrema destra. Gli scontri culminarono il 15 gennaio con la morte di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht.

Con l’affermazione di Ebert, gli assassini non vennero processati davanti a una corte civile, ma davanti a una militare con la comminazione di pene molto lievi, che non portarono decisamente a una maggiore accettazione di Ebert da parte della sinistra.

Le elezioni dell’Assemblea Nazionale avvennero il 19 gennaio 1919, in questa occasione i nuovi partiti della sinistra, inclusi la USPD e la KPD, furono a malapena in grado di organizzarsi, permettendo la costituzione di una solida maggioranza delle forze moderate. Per evitare le continue lotte a Berlino, l’Assemblea Nazionale si riunì nella città di Weimar, motivo per cui il nascente stato veniva in seguito soprannominato Repubblica di Weimar (in tedesco: Weimarer Republik).

La Costituzione di Weimar creò una repubblica con un sistema semi-

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presidenziale, nel quale il Reichstag era eletto da una rappresentanza proporzionale. Durante i dibattiti di Weimar, le lotte continuarono tanto che a Monaco di Baviera venne dichiarata una Repubblica Sovietica, subito abbattuta dai Freikorps e da unità dell’esercito regolare ma combattimenti sporadici continuarono a scoppiare in giro per il paese. Ci furono scontri anche nelle province orientali della Germania, che erano fedeli all’Imperatore e non volevano far parte della Repubblica. Nel frattempo, la delegazione di pace tedesca in Francia firmava il Trattato di Versailles, accettando pesanti riduzioni dell’esercito tedesco, pesanti pagamenti per le riparazioni, e la cosiddetta clausola della “Germania come unica responsabile dello scoppio della guerra”, che venne inserita su insistenza francese nonostante la contrarietà del presidente statunitense Wilson. Particolarmente pesanti sul piano morale risultavano l’articolo 227, in forza del quale l’ex imperatore Guglielmo II veniva messo in stato d’accusa di fronte a un futuro Tribunale Internazionale “per offesa suprema alla morale internazionale” e l’art. 231, in cui appunto “la Germania riconosce che essa e i suoi alleati sono responsabili per aver causato tutti i danni subiti dai Governi Alleati e associati e dai loro cittadini a seguito della guerra, che a loro è stata imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati”. L’accettazione del Trattato rappresenta una sorta di “peccato originale” della Repubblica di Weimar, che le alienò subito il favore di gran parte della popolazione tedesca, e che infine favorì l’impetuosa ascesa elettorale dei nazisti. A testimonianza dell’odio che il Trattato suscitò in terra tedesca si può ricordare che nel 1921 venne assassinato Matthias Erzberger, il politico cattolico che materialmente lo aveva firmato, mentre nel 1922 analoga sorte spettò a Walther Rathenau, il ministro degli esteri di Weimar impegnatosi a pagare regolarmente le riparazioni di guerra alla Francia. Adolf Hitler avrebbe più tardi dato alla Repubblica e alla sua democrazia la colpa per questo trattato. Il Primo Presidente della Germania, Friedrich Ebert della MSPD, firmò la nuova costituzione tedesca l’11 agosto 1919.

Fin dall’inizio, la Repubblica fu posta sotto grande pressione tanto dagli estremisti di destra quanto da quelli di sinistra. La sinistra accusava i Socialdemocra-

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tici al potere di aver tradito gli ideali del movimento operaio, patteggiando con i poteri del vecchio stato invece di mettere in atto una rivoluzione comunista. La destra si opponeva a un sistema democratico, perché avrebbe preferito mantenere uno stato autoritario come l’Impero del 1871. Per minare la credibilità della Repubblica, la destra, specialmente i militari, la accusavano di essere responsabile della sconfitta della prima guerra mondiale propagandando il mito sociale della Dolchstoßlegende.

Il 13 marzo 1920 ebbe luogo il “Putsch di Kapp”, che coinvolse la presa di Berlino da parte di un gruppo di truppe dei Freikorps e l’insediamento di Wolfgang Kapp, un giornalista di destra, come Cancelliere del nuovo governo. I Freikorps, che avevano propri progetti per il potere, gli si rivoltarono contro ed Ebert poté solo ritirare il suo parlamento da Berlino e riunirlo a Dresda, da dove indisse uno sciopero generale che fermò completamente l’economia e portò al collasso il governo Kapp.

Il 6 giugno 1920 si tenne la seconda tornata di elezioni della Repubblica, la prima dall’emanazione della Costituzione che confermarono Ebert alla guida del governo e, nonostante un calo di consensi, la supremazia dei socialdemocratici. Ispirate dal successo dello sciopero generale, nel 1920 si ebbero alcune sollevazioni comuniste nella Ruhr, quando 50 000 persone formarono un’Armata Rossa e presero il controllo della regione. L’esercito regolare e i Freikorps misero fine alla sollevazione senza aver ricevuto ordini dal governo. Altre ribellioni comuniste vennero inscenate nel marzo 1921 in Sassonia e nella città di Amburgo.

Per il 1923 la Repubblica non poteva più permettersi di tener fede ai pagamenti delle riparazioni di guerra stabilite a Versailles e il nuovo governo divenne insolvente.

In risposta, nel gennaio del 1923, le truppe francesi e belghe occuparono la Ruhr, la regione a quell’epoca più importante dal punto di vista industriale, prendendo il controllo delle industrie minerarie e manifatturiere. Nel gennaio del 1923 vennero di nuovo indetti alcuni scioperi e venne incoraggiata la resistenza passiva, gli scioperi durarono per otto mesi, causando grave sofferenza all’economia e determinando la necessità di importazioni.

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Poiché anche gli operai in sciopero venivano pagati dallo stato, venne stampata valuta aggiuntiva che innescò un processo di iperinflazione, Il valore del Papiermark, la moneta della repubblica, crollò da 4,2 per ogni dollaro statunitense a 1 000 000 di marchi per dollaro nell’agosto 1923 e a 4 200 000 000 per dollaro il 20 novembre. Il 1º dicembre venne introdotta una nuova valuta con il tasso di cambio di 1 000 000 000 di vecchi marchi per 1 nuovo marco, il Rentenmark. I pagamenti delle riparazioni vennero ripresi e la Ruhr restituita alla Germania.

Il 1923 vide anche un attacco della destra che prese forma nel Putsch della Birreria, messo in piedi da Adolf Hitler a Monaco di Baviera.

Nel 1920 il Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP) si trasformò nel Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) — il partito nazista — che sarebbe divenuto la forza motrice del collasso della Repubblica di Weimar, Hitler divenne Segretario del partito nel luglio 1921, nel novembre di quell’anno vennero fondate le SA (Sturmabteilung), che avrebbero agito come esercito personale di Hitler nella sua lotta per il potere.

Quindi, l’8 novembre 1923, il Kampfbund in combutta con Erich Ludendorff assunse la direzione di un incontro del Primo Ministro bavarese, Gustav von Kahr, in una birreria di Monaco. Ludendorff e Hitler dichiararono un nuovo governo e pianificarono di prendere, il giorno seguente, il controllo di Monaco. Tuttavia le forze dell’ordine intervennero e i 3000 rivoltosi vennero fermati da cento poliziotti, con morti e feriti da entrambe le parti. Hitler venne arrestato e condannato a cinque anni di prigione, ma ne scontò solo uno, una sentenza molto lieve. Dopo il fallimento del Putsch della Birreria di Monaco, la sua prigionia e il successivo rilascio, Hitler si concentrò su metodi legali per ottenere il potere e iniziò la sua lenta ma inarrestabile marcia verso il potere supremo, conscio che solo in questo modo sarebbe stato capace di raggiungere e mantenere il potere98

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La pace e la memoria - I cimiteri di guerra

Al termine del conflitto in tutta Europa, su ogni campo di battaglia e in ogni città e paese sorsero monumenti commemorativi come a Vimy, a Thiepval, a Douaumont oppure a Redipuglia e, parallelamente, si alternarono in tutti i campi di battaglia cerimonie e commemorazioni. Nell’autunno 1920 il capo della Commissione imperiale per le tombe di guerra britanniche scelse cinque spoglie tra i caduti senza nome sul fronte occidentale, uno solo dei quali venne selezionato dal tenente colonnello Henry Williams per essere inumato a Londra e dare a centinaia di migliaia di persone un luogo dove ricordare e pregare i propri cari dispersi in battaglia. La salma fu scortata per tutto il nord della Francia, poi il feretro salpò per la Gran Bretagna a bordo del cacciatorpediniere Verdun e l’11 novembre 1920 ebbe luogo a Londra la solenne cerimonia funebre del “Milite Ignoto”. Una dopo l’altra le tombe del Milite Ignoto vennero inaugurate in tutti i paesi partecipanti al conflitto appena concluso. I tedeschi ne eressero una a Tannenberg nel 1927 e una al Neue Wache di Berlino nel 1931, a Parigi venne posizionata la tomba del Milite Ignoto alla base dell’Arco di Trionfo, in Italia vene creata una commissione apposita che affidò a Maria Bergamas, madre di unl volontario irredento disperso in combattimento, la scelta di una salma tra undici bare, tante quante le battaglie dell’Isonzo, di soldati non identificati caduti sui vari fronti di battaglia. La bara prescelta fu deposta in un carro ferroviario che sfilò in tutta Italia, a velocità ridotta e nelle stazioni a passo d’uomo, fino a Roma, dove il 4 novembre 1921 fu accolta da una grande folla che , in questo modo, rese omaggio a tutti i caduti rappresentati da questa salma ignota. La bara del Milite Ignoto fu prima deposta nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri e poi, negli anni trenta, traslata al Vittoriano facendolo così diventare l’altare della patria. Su tutti i campi di battaglia nacquero cimiteri di guerra gestiti dalle commissioni di guerra dei diversi paesi, che diventarono meta di pellegrinaggio per chi era alla ricerca di un proprio caro o per commemorare un commilitone. Non passò anno senza che si celebrasse qualche cerimonia o si inaugurasse un

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monumento. Le cerimonie conobbero una stasi solo durante il secondo conflitto mondiale ma poi ripresero regolarmente. La leva di massa spostò una significativa percentuale di popolazione in varie zone europee e non solo; l’evoluzione tecnologica determinata dalla meccanizzazione e dall’industria introdusse elementi innovativi o comunque rinnovati come mitragliatrici, pezzi d’artiglieria, aeroplani, sommergibili e gas mortali, che comunque non evitarono alla guerra di diventare una distruttiva guerra di trincea e di logoramento. Come risultato le perdite umane furono più alte che in qualsiasi altro conflitto combattuto fino ad allora: solo per fornire qualche esempio, non tornarono alle proprie case circa 2 milioni di tedeschi e 1.300.000 francesi, 720.000 britannici, 61.000 canadesi, 60.000 australiani, 18.000 neozelandesi, 300.000 romeni e, limitandosi al teatro europeo, 2.000 cinesi, a dimostrazione della portata globale della guerra, molte di queste morti si registrarono in un ristretto arco temporale e alterarono l’immagine della società: è il caso della Francia, che ebbe la metà dei morti nei primi diciassette mesi di guerra. Diventò normale vedere orfani e vedove e i feriti che, quando non afflitti da stress, ansia o dolore fisico, dovevano fare i conti con una società non del tutto accogliente, specialmente nel caso dei feriti al volto.

Sia le potenze sconfitte che quelle vincitrici andarono incontro a rivoluzioni o forti tensioni sociali.

La morte diventò un problema troppo grande per non essere preso in considerazione. La risposta fu la costruzione dei memoriali per celebrare gloria, eroismo e, appunto, i caduti.

Il trattato di Versailles affidò la custodia e la manutenzione dei cimiteri di guerra ai paesi dove questi avevano sede, ma in generale venne lasciata libertà ai paesi di provenienza dei caduti di progettare e costruire i cimiteri a loro piacimento. A volte i morti venivano radunati da varie parti del fronte per fare dei grandi cimiteri, mentre in altre occasioni sorsero costruzioni più piccole e sobrie.

I problemi vennero alla luce non tanto per le nazioni dell’Europa continentale, quanto piuttosto per l’Impero britannico e gli USA. I primi tentarono, senza successo, di riportare in Patria i caduti, mentre i secondi riuscirono a rimpatriare il 70% dei soldati caduti al fronte.

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Con i dominion che reclamavano monumenti separati da quelli del Regno Unito, la necessità sempre più forte di onorare il grande numero di soldati caduti al fronte occidentale, e l’urgenza politica di costruire memoriali nei luoghi del teatro del Medio Oriente per rinforzare le pretese britanniche su quei territori, l’Imperial War Graves Commission (IWGC) pianificò dodici memoriali con annesso un cimitero e un monumento, ognuno dedicato a uno specifico dominion. Tuttavia, quando il governo francese espresse dei dubbi sulla fattibilità del progetto, considerato troppo ambizioso, i numeri vennero dimezzati. I cimiteri dell’IWGC sono caratterizzati da un muro perimetrale costruito solitamente attorno un monumento centrale o una croce del sacrificio, attorniata da erba e fiori a simulare un giardino all’inglese. Sebbene vi siano differenze dovute all’architetto costruttore, il tipico cimitero britannico segue uno stile classico, con piccole modifiche variabili da dominion a dominion, e con costruzioni dall’elevato contenuto simbolico. Inizialmente le tombe erano contrassegnate da una croce in legno, ma dopo alcune critiche vennero rimpiazzate da semplici pietre di Portland, tutte identiche salvo per un simbolo religioso, un breve epitaffio, il nome, il reggimento e la data di morte del soldato. Per tutti gli anni venti l’opinione pubblica parlò molto dei cimiteri di guerra. Vi furono preoccupazioni riguardo agli oggetti lasciati dai parenti vicino alle tombe, che rompevano l’uniformità del complesso cimiteriale, mentre altri non gradirono l’eccessiva ingerenza dell’IWGC e criticarono la poca libertà che si dava ai familiari di personalizzare le tombe. Nel 1919 in Francia il governo decise di riunire e seppellire i caduti in speciali cimiteri creati ad hoc, vietando altresì il rimpatrio delle salme, i tradizionalisti cattolici esultarono, ma già nel 1920 il governo cambiò idea e vennero trasferiti nei luoghi di nascita o di residenza circa 300.000 corpi. I cimiteri francesi usano croci cattoliche per tutte le tombe tranne che per quelle dei caduti cinesi o islamici, e in genere sono più grandi di quelli britannici. Più austeri e semplici sono i cimiteri tedeschi, costruiti attorno a prati privi di fiori o altre decorazioni. Spesso le tombe in ardesia si sviluppano negli heldenhaine, i “boschi degli eroi” con querce e dolmen. L’ultima ondata di cimiteri venne completata dopo l’avvento del nazismo, che

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ordinò la costruzione delle Totenburgen, le “fortezze dei morti” che servivano sia da cimitero che da memoriale, in alcuni casi ampliando i cimiteri già esistenti, il cui tema ricorrente era il paesaggio naturalistico tedesco, abbellito da elementi modernisti a sottolineare le capacità degli artisti tedeschi.

In Italia il governo fascista di Benito Mussolini volle posizionare i cimiteri nei luoghi chiave della guerra e nelle zone di confine dei territori rivendicati. Secondo il codice dell’ordinamento militare italiano cimiteri, ossari e sacrari di guerra costituiscono insieme i “sepolcreti”, e sono, normalmente, patrimonio dello Stato. Ad essi sono equiparati il sacrario di Monte Zurrone di Roccaraso, il monumento sacrario dei Cinquantuno martiri di Leonessa, l’Ara pacis mundi di Medea, il sacrario nazionale “Mater Captivorum” di Melle e il tempio sacrario di Terranegra con il tempio nazionale dell’Internato ignoto.

Di tutte queste opere si occupa il Commissario generale per le onoranze ai Caduti in guerra, istituito nel 1951 e alle dirette dipendenze del ministro della difesa.

Nell’Europa orientale, la Romania adibì a “cimiteri di guerra degli eroi” cimiteri già esistenti o ne costruì di nuovi nelle parti alte delle città o, ancora, nei campi di battaglia della guerra.

In Russia invece il cimitero della fratellanza cittadina di Mosca venne riempito, oltre che con i morti della prima guerra mondiale, con quelli della guerra civile e con gli assassinati dalla polizia segreta; venne infine chiuso nel 1925 e trasformato in un parco per ordine dei bolscevichi. In seguito Stalin ordinò la distruzione delle chiese ortodosse e con esse scomparvero tutti i cimiteri di guerra rimasti.99

99 Fonti Documentario: “Il milite ignoto” e “L'architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città.”

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D’ANNUNZIO E UNGARETTI

Due letterati segnati differentemente dall’esperienza della guerra

Introduzione

Tra i poeti italiani del primo novecento due personaggi affrontarono la Grande Guerra e riuscirono a tornare a casa vivi e vegeti senza impazzire, riuscendo a sopravvivere anche psicologicamente e mantenendo un certo equilibrio rispetto all’esperienza così forte e devastante come era stata quella della Grande Guerra: Giuseppe Ungaretti e Gabriele D’Annunzio. Alla stessa grave esperienza quale fu la Grande Guerra a causa delle loro diverse personalità, reagirono in maniera totalmente difforme, la guerra influenzò la loro poetica restituendone due quadri completamente diversi e questo per le loro sensibilità e personalità agli antipodi.

Giuseppe Ungaretti nacque ad Alessandria d’Egitto nel quartiere periferico di Moharrem Bey, l’8 febbraio del 1888, da immigrati lucchesi.

Il padre, operaio allo scavo del canale di Suez, morì due anni dopo la nascita del poeta in un incidente sul lavoro.

La madre, Maria Lunardini, mandò avanti la gestione di un forno di proprietà, con il quale garantì gli studi al figlio, che si poté iscrivere in una delle più prestigiose scuole di Alessandria.

Alla figura materna dedicherà la poesia

La madre, scritta nel 1930, a breve distanza dalla morte della donna.

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Giuseppe Ungaretti

L’amore per la poesia nacque durante questo periodo scolastico e si intensificò grazie alle amicizie che strinse nella città egiziana, così ricca di antiche tradizioni come di nuovi stimoli, derivanti dalla presenza di persone provenienti da tanti paesi del mondo, Ungaretti stesso ebbe una balia originaria del Sudan, una domestica croata e una badante argentina.

In questi anni, attraverso la rivista “Mercure de France,” il giovane si avvicinò alla letteratura francese e grazie all’abbonamento a “La Voce” , alla letteratura italiana: inizia così a leggere le opere, tra gli altri, di Rimbaud, Mallarmé, Leopardi, Nietzsche e Baudelaire.

Quando nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale, Ungaretti partecipò alla campagna interventista, per poi”, quando il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra, arruolarsi volontario nel 19° Reggimento di fanteria della Brigata “Brescia.

Durante le battaglie sul Carso scrisse un taccuino di poesie che furono raccolte dal un giovane ufficiale suo amico e stampate in 80 copie presso una tipografia di Udine nel 1916, con il titolo “Il porto sepolto”. A quel tempo collaborava anche al giornale da trincea “Sempre Avanti”. Nel 1916 trascorse un breve periodo a Napoli testimoniato da alcune poesie, per esempio Natale: “Non ho voglia / di tuffarmi / in un gomitolo di strade...”

Il 26 gennaio 1917 a Santa Maria la Longa (UD) scrisse la nota poesia “Mattina”. Nella primavera del 1918 il reggimento al quale apparteneva Ungaretti andò a combattere in Francia nella zona di Champagne, con il II Corpo d’armata italiano del generale Albricci. Al suo rientro a Parigi il 9 novembre 1918, nel suo attico parigino, trovò il suo amico Apollinare stroncato dalla spagnola. Al termine della guerra il poeta rimase a Parigi, dapprima come corrispondente del giornale “Il Popolo d’Italia” e, in seguito, come impiegato all’ufficio stampa dell’ambasciata italiana.

Nel 1919 venne stampata a Parigi la raccolta di poesie francesi “La guerra,” che sarà poi inserita nella seconda raccolta di poesie “Allegria di naufragi” pubblicata a Firenze nello stesso anno.

Nel 1920 il poeta sposò Jeanne Dupoix, dalla quale ebbe due figli, Anna Maria,

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o Anna-Maria, come solleva firmare, con trattino alla francese, detta Ninon100 e Antonietto101 .

Nel 1921 si trasferì a Marino (Roma) e collaborò all’Ufficio stampa del Ministero degli Esteri.

Gli anni venti segnarono un cambiamento nella vita privata e culturale del poeta.

Aderì al fascismo firmando il “Manifesto degli intellettuali fascisti” nel 1925. In questi anni egli svolse una intensa attività su quotidiani e riviste francesi (“Commerce” e “Mesures”) e italiane (sulla “La Gazzetta del popolo”) e realizzò diversi viaggi in Italia e all’estero per varie conferenze, ottenendo nel frattempo vari riconoscimenti di carattere ufficiale, come il Premio del Gondoliere. Furono questi anche gli anni della maturazione dell’opera “Sentimento del Tempo”, le prime pubblicazioni di alcune sue liriche avvennero su “L’Italia letteraria” e “Commerce”

Nel 1923 venne ristampato “Il porto sepolto” presso La Spezia, con una prefazione di Benito Mussolini, conosciuto nel 1915 durante la campagna dei socialisti interventisti.

L’8 agosto 1926, nella villa di Pirandello, nei pressi di Sant’Agnese, sfidò a duello Massimo Bontempelli a causa di una polemica nata sul quotidiano romano “Il Tevere”. Ungaretti fu leggermente ferito al braccio destro e il duello finì con una riconciliazione.

Nel 1928 maturò invece la sua conversione religiosa al cattolicesimo, evidente nell’opera “Sentimento del Tempo” A partire dal 1931 ebbe l’incarico di inviato speciale per “La Gazzetta del Popolo” e si recò in Egitto, in Corsica, nei Paesi Bassi e in Italia meridionale, raccogliendo il frutto delle esperienze vissute in “Il povero nella città” (che sarà pubblicato nel 1949), e nella sua rielaborazione “Il deserto e dopo”, che vedrà la luce solamente nel 1961. Nel 1933 il poeta aveva raggiunto il massimo della sua fama. Nel 1936, durante un viaggio in Argentina su invito del Pen Club, gli venne offerta la cattedra di letteratura italiana presso l’Università di San Paolo del Brasi-

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febbraio 1925
febbraio 1930

le, che Ungaretti accettò; trasferitosi con tutta la famiglia, vi rimarrà fino al 1942 per sfuggire al fascismo, di cui intanto era divenuto oppositore.

A San Paolo nel 1939 morirà il figlio Antonietto, all’età di nove anni, per un’appendicite mal curata, lasciando il poeta in uno stato di acuto dolore, evidente in molte delle poesie raccolte ne “Il Dolore” del 1947 in “Un Grido e Paesaggi” del 1952. Nel 1924 Ungaretti ritornò in Italia e venne nominato Accademico d’Italia e “per chiara fama” professore di letteratura moderna e contemporanea presso l’Università di Roma, ruolo che mantenne fino al 1958 e poi, come “fuori ruolo”, fino al 1965.

Intorno alla sua cattedra si formarono alcuni intellettuali che in seguito si sarebbero distinti per importanti attività culturali e notevoli carriere accademiche. A partire dal 1942 la casa editrice Mondadori iniziò la pubblicazione dell’opera omnia di Ungaretti, intitolata “Vita di un uomo”. Nel secondo dopoguerra Ungaretti pubblicò nuove raccolte poetiche, dedicandosi con entusiasmo a quei viaggi che gli davano modo di diffondere il suo messaggio, e ottenendo significativi premi.

In Italia raggiunse una certa notorietà presso il grande pubblico nel 1968, grazie alle sue intense letture televisive di versi dell’Odissea, che precedevano la versione italiana del poema omerico per il piccolo schermo, a cura del regista Franco Rosi, riprese da Alighiero Noschese con bonarie imitazioni caricaturali.

Nel 1958 ricevette la cittadinanza onoraria di Cervia. Nel 1969 fondò l’associazione Rome et son histoire. Nella notte tra il 31 dicembre 1969 e il 1º gennaio 1970 scrisse l’ultima poesia, “L’Impietrito e il Velluto”, pubblicata in una cartella litografica il giorno dell’ottantaduesimo compleanno del poeta. Nel 1970 conseguì un prestigioso premio internazionale dell’Università dell’Oklahoma, negli Stati Uniti, dove si recò per il suo ultimo viaggio che debilitò definitivamente la sua pur solida fibra.

Morì a Milano nella notte tra l’1 e il 2 giugno 1970 per una broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo. Attualmente è sepolto nel Cimitero del Verano accanto alla moglie Jeanne.

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Ungaretti e la guerra, un’anima mite e riflessiva trascinata nel barato Giuseppe Ungaretti rappresenta l’artista che, partito volontario e favorevole alla guerra, ne scopre tutti gli orrori e vede le proprie certezze andare in frantumi capendo che tutto ciò in cui credeva non era vero.

Ciò si rifletterà anche nel suo rapporto con il fascismo che, quando si toglierà la maschera rivelando la sua vera essenza, verrà combattuto duramente fino alla fine anche a colpi di penna.

Il periodo della guerra segna la fine dell’ideale del poeta della guerra cavalleresca e nobile e lo sbatte davanti alla sua crudeltà e insensatezza in cui tutti i valori umani smettono d’esistere.

L’Allegria segna un momento chiave della storia della letteratura italiana: Ungaretti rielabora in modo molto originale il messaggio formale dei simbolisti coniugandolo con l’esperienza atroce del male e della morte presenti nella guerra.

Al desiderio di fraternità nel dolore si associa la volontà di ricercare una nuova “armonia” con il cosmo che culmina nella citata poesia Mattino (del 1917). Questo spirito mistico-religioso si evolverà nella conversione in Sentimento del Tempo (1933) e nelle opere successive, dove l’attenzione stilistica al valore della parola (e al recupero delle radici della nostra tradizione letteraria), indica nei versi poetici l’unica possibilità dell’uomo, o una delle poche possibili, per salvarsi dall’“universale naufragio” .

Il momento più drammatico del cammino di questa vita d’un uomo (così, come un “diario”, definisce l’autore la sua opera complessiva) è sicuramente raccontato ne il “Dolore” e coincide con la morte in Brasile del figlioletto Antonio, che segna definitivamente il pianto dentro del poeta anche nelle raccolte successive, pianto che non cesserà più d’accompagnarlo.

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Gabriele D’Annunzio

Gabriele D’Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da una famiglia borghese benestante. Terzo di cinque figli, visse un’infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Dalla madre, Luisa de Benedictis erediterà la fine sensibilità edal padre, Francesco Paolo Rapagnetta , acquisì anche il cognome D’Annunzio da un ricco parente che lo adottò, il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la disinvoltura nel contrarre debiti, che portarono la famiglia da una condizione agiata a una difficile situazione economica.

Reminiscenze della condotta paterna, la cui figura è ricordata nelle Faville del maglio e accennata nel Poema paradisiaco sono presenti nel romanzo Trionfo della morte.

Il giovane D’Annunzio non tardò a manifestare un carattere ambizioso, privo di complessi e inibizioni spesso senza confine e coerenza portato al confronto competitivo con la realtà.

Ne è testimonianza la lettera che, ancora sedicenne nel 1897, scrive a Giosuè Carducci, il poeta più stimato nell’Italia monarchica, mentre frequenta il liceo. Nel 1897 il padre finanziò la pubblicazione della prima opera del giovane studente, una raccolta di poesie che ebbe presto successo.

Accompagnato da un’entusiastica recensione critica sul una rivista romana il libro venne pubblicizzato dallo stesso D’Annunzio con un espediente: fece dif-

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fondere la falsa notizia della propria morte per una caduta da cavallo.

La notizia ebbe l’effetto di richiamare l’attenzione del pubblico romano sul romantico studente abruzzese, facendone un personaggio molto discusso.

Lo stesso D’Annunzio poi smentì la falsa notizia, senza però assumersi le responsabilità dell’annuncio.

Dopo aver concluso gli studi liceali, accompagnato da una notorietà in continua ascesa, giunse a Roma dove si iscrisse alla Facoltà di Lettere anche se non avrebbe mai condotto a termine gli studi.

Gli anni 1881 – 1891 furono decisivi per la formazione di D’Annunzio e, nel rapporto con il particolare ambiente culturale e mondano di Roma, diventata capitale del Regno dal 1870, cominciò a forgiarsi il suo stile raffinato e comunicativo, la sua visione del mondo e il nucleo centrale della sua poetica.

La buona accoglienza che trovò in città fu favorita dalla presenza in essa di un folto gruppo di scrittori, artisti, musicisti, giornalisti di origine abruzzese, parte dei quali conosciuti dal poeta che fece parlare in seguito di una “Roma bizantina”.

La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al pubblico romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante — ancora molto lontano dall’effervescenza intellettuale che animava le altre capitali europee — una novità “barbarica”, eccitante e trasgressiva. D’Annunzio seppe condensare perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante, raffinato e virtuosistico, gli stimoli che questa opposizione “centro-periferia”, “natura-cultura” offriva alle attese di lettori desiderosi di novità.

D’Annunzio si era dovuto adattare al lavoro giornalistico soprattutto per esigenze economiche, ma attratto alla frequentazione della Roma “bene” dal suo gusto per l’esibizione della bellezza e del lusso, nel 1883 sposò, con un matrimonio “di riparazione”, lei era già incinta del figlio Mario, Maria Hardouin duchessa di Gallese, da cui ebbe tre figli. Il matrimonio finì in una separazione legale dopo pochi anni (anche se il poeta e la moglie rimasero in buoni rapporti), per le numerose relazioni extraconiugali di D’Annunzio, tra cui quella con Maria Gravina, da cui ebbe la figlia Renata. Tuttavia, le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti

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e ricercati resoconti giornalistici. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente a fuoco i propri riferimenti culturali, nei quali si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie creative ed emotive. Ma la donna viene presto messa in disparte dallo scrittore, che dall’aprile del 1887 guarda con grande passione alla nuova amante Barbara Leoni, destinata a restare il più grande amore anche al di là della loro storia durata cinque anni. Il grande successo letterario arrivò con la pubblicazione a Milano nel 1889 del suo primo romanzo, Il piacere. Tra il 1891 e il 1893 D’Annunzio visse a Napoli , dove compose Giovanni Episcopo e L’innocente, seguiti da Il trionfo della morte e dalle liriche del Poema paradisiaco.

Frequentò anche il Chianti dove conobbe una nobildonna e passò un breve periodo presso il Fedino una nota villa del luogo. Sono in questi anni che si situa gran parte della drammaturgia dannunziana che è piuttosto innovativa rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro dominanti in Italia e che non di rado ha come punto di riferimento la figura attoriale di Eleonora Duse. Dello stesso periodo sono anche le sue migliori opere poetiche, la gran parte delle Laudi, e, tra queste, il vertice e il capolavoro della poesia dannunziana, l’Alcyone.

La relazione dell’artista con Eleonora Duse è stata celebrata a Firenze in un modo molto originale. Alla nascita del quartiere fiorentino di Coverciano (sorto proprio ai piedi della villa dannunziana di Settignano), due importanti arterie stradali della zona vennero inaugurate in memoria dei famosi amanti, prevedendo inoltre un incrocio tra queste vie.

Tra il 1893 e il 1897 D’Annunzio condusse un’esistenza movimentata che lo portò dapprima nella sua terra d’origine e poi in Grecia.

Nel 1897 volle provare l’esperienza politica, vivendo anch’essa, come tutto il resto, in un modo bizzarro e clamoroso. Eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle file della sinistra, giustificandosi con la celebre affermazione “vado verso la vita”, per protesta contro Luighi Pelloux e le “leggi liberticide” ed espresse anche vivaci proteste per la sanguinosa repressione dei moti di Milano da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris.

Dal 1910 al 1915 è in Francia dove si rifugia per sfuggire ai creditori, anche se

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lui dirà di essere in “esilio volontario”, ritornerà in Italia per le “radiose giornate del maggio 1915”.

Da questo momento si tuffa nell’attività politica e sta sempre su posizioni interventiste partecipando successivamente alla guerra.

Questo è un altro periodo esemplare per descrivere la personalità di questo autore, l’azione politica e militare sono aspetti che D’Annunzio vive per trasformarli in letteratura.

Il discorso pronunciato a Quarto, solenne occasione per la propaganda interventista; oltre ad ignorare totalmente i termini del problema dal quale l’opinione pubblica italiana era lacerata non ha nemmeno una strutta argomentativa forte e si risolve nel fluire di rievocazione letterarie di un passato e di artifici letterari.

Le azioni militari, al di là del coraggio e delle capacità fisiche dimostrate lo gratificano come realizzazione di un bel gesto per i riferimenti mitologici e per i moti rituali con i quali li adorna, il fascismo beneficerà del suo ruolo di matrice letteraria di legislatore e signore rinascimentale, che a Fiume ha l’opportunità di esercitare.

In questa dimensione d’inalterabile estetismo Gabriele d’Annunzio condusse anche l’ultima parte della sua esistenza in quel “Vittoriale degli Italiani” che per lui fu esilio e regno, dorato carcere, museo privato eretto a propria auto celebrazione in cui Mussolini lo rinchiuse.

Qui egli visse bel 17 anni, di quotidianità sempre collocata nella dimensione della Bellezza con rituali, decorazioni, lapidi e altri oggetti e ricordi in un atto di maniacale collezionismo. Tutto questo insinua parecchi dubbi sul suo buon gusto al di fuori dell’ambito squisitamente letterario.

Il poeta mori il 1º marzo 1938, alle ore 20:05, mentre era al suo tavolo da lavoro. Ai funerali di stato, voluti in suo onore dal fascismo, la partecipazione popolare fu imponente. Il feretro era seguito da “...la folla innumerevole degli ex legionari, degli ammiratori, dei devoti alla sua gloria e alla sua fama...”

È sepolto nel mausoleo del Vittoriale.

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Gabriele d’Annunzio, la guerra e il suo narcisismo

D’annunzio rappresenta l’uomo di cultura che, pieno di sé, rimane attaccato al proprio credo cercando sempre e a qualunque costo la luce dei riflettori, riducendo al minimo i rischi per la propria persona.

Anche la partecipazione del poeta alla guerra si può inserire in questo ambito, visto che pur avendo passato l’età della leva egli si arruolò ed, essendo un personaggio pubblico, fu sempre e solo usato per i discorsi d’incoraggiamento, spesso pomposi e incomprensibili dal suo pubblico, ai soldati mandati al massacro subito dopo il suo arrivo.

Anche i suoi bollettini furono sempre altisonanti e privi di qualsiasi contatto con la realtà.

Egli di fatto non prese parte a nessuna azione militare e anche il “Volo su Vienna” fu organizzato ed eseguito praticamente a fine guerra quando le truppe austroungariche, in piena ritirata, erano incapaci di opporre una qualsiasi resistenza organizzata e, pur facendolo salire agli onori della cronaca, non fu di nessuna utilità pratica.

Anche il suo rapporto con il fascismo s’inserisce in questo ambito: inizia come uomo d’azione, l’impresa di Fiume, ma vedendo i rischi che comportava essere uomo d’azione del fascismo si accontenta di diventare un letterato.

Fonti: wikipedia

Documentari sul fascismo della “Grande storia”

Salvatore Guglielmino, Herman Grosser, “Il sistema letterario, guida alla storia letteraria e all’analisi testuale!” Quinto Volume il Novecento, Editrice Principato I° Edizione dicembre 1989, II° Edizione maggio 1994, Edizione rossa

162

Appendice fotografica

2) a sinistra un Cannone tedesco su rotaie, spesso confuso con la grande Berta, mostrata a destra.

163
1) Soldati Francesi durante un assalto sul fronte Occidentale

4) una trincea

5) l’immagine simbolo della grande guerra; soldato morente durante un assalto mentre i suoi commilitoni proseguono indifferenti alla sua sorte

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3) forti Austroungarici sul fronte Trentino

6) Truppe inglesi preparano un assalto

7) due mitragliatrici; a sinistra una italiana e a destra una mitragliatrice austriaca

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8) un Mark One; il primo carro armata inglese della grande guerra

9) Arresto di Gravilo Princip

166
Visite guidate “Prima guerra mondiale”, Giunti
Fonti:

BIBLIOGRAFIA

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“L’epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità.”), Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943

Banti Alberto Mario, “L’età Contemporanea Dalla grande Guerra a oggi” Canali Quinto, Diari dei Trentini, scritti durante la guerra “Storia Illustrata della Prima guerra mondiale, Giunti, ,1999

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Cossi Paolo, “1914 Io mi Rifiuto!”; agosto 2014

Dauli Gian “L'Italia nella Grande Guerra”, Milano, Aurora, 1935

Di Nolfo Ennio, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici – La politica internazionale dal XX secolo ad oggi, 5ª edizione, Roma-Bari, Laterza, 2011

Fromkin David, L’ultima estate dell’Europa, Milano, Garzanti, 2005

Gilbert Martin, La grande storia della prima guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2009

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Insenghi Mario, Rochat Giorgio “La grande guerra 1914 – 1918”

Langes Gunther, La guerra fra rocce e ghiacci 1915-1918, Bolzano, Athesia, 2015

Maraffino Donato, Quel terribile autunno del 1918, Latina, 2003

Massie Robert K., Castles of Steel: Britain, Germany, and the winning of the Great War Pieropan Gianni, Storia della grande guerra sul fronte italiano, Milano, Mursia, 2009

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Silvestri Mario, Isonzo 1917, Bergamo, Bur, 2007

Stevenson David, “La biblioteca della Grande Guerra” (21 volumi).

“La storia - Le grandi battaglie” la biblioteca della repubblica pagine 610 – 660

“La Storia d’Italia - Volume 19: la crisi di fine secolo, l’età giolittiana e la prima guerra mondiale” la biblioteca della repubblica pagine 586 – 789

“La Storia – Volume 12: l’età dell’imperialismo e la prima guerra mondiale” la biblioteca della repubblica pagine 672 – 831

Thompson Mark, La guerra bianca, il Saggiatore, 2012,

La storia del mondo a Fumetti, la biblioteca della repubblica

La storia d’Italia a Fumetti, la biblioteca della repubblica

Weir Peter ,“Gli anni spezzati” (Gallipoli), ,1981

Willmott H. P., La prima guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2006

FILMOGRAFIA

La grande guerra”, Mario Monicelli, produzione Dino De Laurentis,1959,

“Niente di nuovo sul fronte occidentale” ( All Quiet on the Western Front), Delbert Man, tratto dal romanzo”Westen nichts Neues” del 1929 di Erich Maria Remaqrque,1979

“Lawrence d’Arabia”, David Lean,1962

Uomini contro”, Francesco Rosi,1970, tratto dal romanzo “Un anno sull’Altopiano”, Emilio Lussu,1936/1937 e pubblicato nel 1938

Piccolo Alpino”, Oreste Biancolini, 1940,tratto dall’omonimo romanzo del 1929 di Salvator Gotta.

Orizzonti di gloria” (Paths of Glory), Stanley Kubrick,1957

“Gli anni spezzati” (Gallipoli), Peter Weir,1981

“La grande illusione” (La Grande Illusion), Jean Renoir, 1937

168

SITOGRAFIA:

http://www.nationalregister.sc.gov/charleston/S10817710107/S10817710107.pdf http://www.german-navy.de http://it.wikipedia.org/wiki/Prima_guerra_mondiale http://www.bibliolab.it/I%20guerra%20mondiale/prima%20guerra%20mondi ale.html http://www.trentinocultura.net/index.asp http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-f177e507-cab14b48-874b-937afecc8d58.html#p=0 http://www.trentinograndeguerra.it http://www.anadomodossola.it/musica/testi%20canzoni/Testi%20Canzoni% 20Alpini.htm https://www.youtube.com/playlist?list=PLD2EA16843B6A501B

http://www.lagrandestoria.rai.it/dl/portali/site/page/Page-7f9d45d4-8c78461e-9787-601bf8c90a52.html

ALTRO:

“La grande guerra 1914 – 1918” digital adventure DVD Serie completa di 5 DVD “Apocalypse – La prima guerra mondiale” Documentaria cinehollywood

Ciclo di conferenze “LA GRANDE GUERRA STORIA E STORIE” con Oliver Janz (Freie Universitàt, Berlino), Diego Leoni (Laboratorio di Storia, Rovereto) , Camillo Zadra (Museo Storico Italiano della Grande Guerra, Rovereto), Angelo Ventrone (università di Macerata), Antonio Gibelli (Università di Genova, Quinto Antonelli (Fondazione Museo Storico), Luighi Tomassini (Università di Bolonga), Andrea Cortelessa (Università di Roma), Luciano Segreto (Università di Firenze), Alan Kramer (Trinity, College Dublin), 2015 Visita guidata con figurante al “Forte tre sassi” Visita delle trincee sul Monte Altissimo.

169

Wars, Soldati e battaglie, Aprile 2015, numero 16 pagine 32 - 37

Archivio puntate Ulisse “Nelle trincee della grande guerra”

Rai Storia “Hilter e Mussolini”

Rai Storia “Hilter ascesa e caduta”

Serie Documentari “I grandi gerarchi del nazismo la vita, l’ascesa e la caduta” Speciale Super quark di Piero e Alberto Angela “La vera storia di Matha Hari”

Archivio Online del “Corriere TV”.

Litografia “LA GRANDE GUERRA - I° luglio 1916: il primo giorno della battaglia della Somme, un opera panoramica”, Joe Sacco

Il Fucile di Latta” Storie e sguardi di ragazzi sulle guerre di eri e di oggi. Quaderni di didattica della storia; Pina Pedron, Nicoletta Pontalti, Gianfranco Torri

170

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Gabriele D’Annunzio

7min
pages 158-162

La pace e la memoria - I cimiteri di guerra

6min
pages 149-152

BIBLIOGRAFIA

1min
page 167

FILMOGRAFIA

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page 168

Repubblica di Weimar

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pages 143-148

L’influenza spagnola

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page 140

Le conferenze del disarmo

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pages 141-142

L’influenza culturale

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page 139

Effetti socio-economici

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pages 136-138

Cambiamenti politici

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pages 132-135

Conseguenze

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La posizione verso la Russia bolscevica

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Le condizione imposte dagli alleati

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La questione italiana

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La questione belga

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Fronte Marittimo

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La spartizione delle colonie

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La conferenza di Pace

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pages 118-120

I danni di guerra

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page 121

Fronte Italiano

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pages 61-90

Fronte orientale

28min
pages 43-60

La dichiarazione della neutralità

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pages 28-29

La Gran Bretagna in Guerra

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pages 25-26

3 agosto La Germania dichiara guerra alla Francia

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pages 23-24

23 - 27 luglio Le reazioni all’ultimatum austriaco

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page 15

L’attentato

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pages 5-8

23 luglio L’ultimatum austriaco alla Serbia

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pages 13-14

9 - 23 Luglio Sfuma l’effetto sorpresa: l’ottimismo britannico

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5 - 6 Luglio L’assegno in bianco della Germania

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pages 10-11

La risposta Serba

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La proposta britannica di una conferenza

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pages 17-20
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