LA CAMPANA DEI CADUTI DI ROVERETO UNA STORIA CRITICA

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea magistrale in Scienze Storiche

LA CAMPANA DEI CADUTI DI ROVERETO UNA STORIA CRITICA Tesi di laurea in Storia della storiograia

Relatore: prof. ssa Ilaria Porciani Correlatore: prof. Paolo Capuzzo

Presentata da Carlo Delaiti

Sessione III Anno Accademico 2016-2017

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Indice Introduzione Capitolo 1. Don Antonio Rossaro: dai miti della guerra ai miti della pace

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1.1. Un personaggio poliedrico 1.2. La formazione cattolica 1.3. Il collegio torinese 1.4. In seminario a Rovigo 1.5. Antonio Rossaro e “Alba Trentina” 1.6. Il Dopoguerra 1.7. Verso il fascismo 1.8. Direttore della biblioteca Civica di Rovereto e cultore delle memorie patrie 1.9. Verso la seconda guerra mondiale 1.10. La ine della guerra

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Capitolo 2. La Campana dei Caduti ino alla seconda guerra mondiale

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2.1. La nascita della Campana 2.2. Le iniziative parallele: Museo della Guerra e Campana dei Caduti 2.3. Universalismo cristiano e romano 2.4. La tensione tra localismo campanilista e universalismo

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2.5. Polo romantico e polo classico Iconograia intorno alla Campana dei Caduti 2.6. Il ciclo scultoreo della Campana 2.6.1. Una prima metamorfosi. Dall’astrazione al realismo

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2.7. Femminilità, infanzia, malattia, popolo Maria Dolens, anche, dalla parte dei deboli 2.7.1. Le donne di “Alba Trentina”

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2.7.2. L’iniziativa delle madrine della Campana Il inanziamento e la promozione 2.7.3. L’infanzia. L’iniziativa dei temi scolastici 2.7.4. Martirio e sofferenza. Un’esperienza generalizzata 2.7.5. Il popolo di don Rossaro nella rivista “El Campanom” 2.8. Esercito e militarismo. L’inquadramento della folla

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2.9. Tra il sacro e il profano. Tra reliquia e souvenirs, tra pellegrinaggio e turismo

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Capitolo 3. La Campana dei Caduti dopo la seconda guerra mondiale

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3.1. Il Museo della Guerra dopo la seconda guerra mondiale 3.2. La Campana dei Caduti sotto la Reggenza di Eusebio Jori

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3.3. Uno spaccato del combattentismo roveretano La critica alla “Redipuglia internazionale”

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3.4. Arriva il vento del cambiamento Il discorso dei giovani sul culto degli eroi e relative reazioni 3.5. La benedizione papale del 1965 Dalla Campana dei Caduti alla Campana della Pace 3.6. La banalizzazione della Pace 3.7. Conclusioni

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Appendice documentaria Ricostruzione cronologica dei rapporti tra la Campana dei Caduti e il Museo della Guerra

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L’Opera Campana dei Caduti

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Proposta per la dichiarazione di monumentalità di alcune zone del territorio di Rovereto

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Bibliograia

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Archivi consultati Archivio della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto Archivio del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto Biblioteca Comunale di Rovereto

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AFCCR AMSRG BCR


INTRODUZIONE. Questa tesi ha preso le mosse dall’esplorazione di alcuni fondi conservati presso l’Archivio del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, riguardanti una vicenda risalente a ormai più di cinquant’anni fa e che ha coinvolto in modo signiicativo la città di Rovereto e la classe dirigente locale. Questa riguardava la separazione delle due più importanti istituzioni della memoria patriottica roveretana: la Campana dei Caduti e il Museo della Guerra. Esse sono nate dopo la prima guerra mondiale e sono convissute nel medesimo luogo, il castello veneziano cittadino, ino al 1960. Il fondo archivistico personale di Livio Fiorio (nella parte dedicata alla vicenda Campana-Museo, dal 1950 al 1974)1 e quello del Comitato riconoscenza a Don Rossaro (1965-1973)2, mi hanno dato la possibilità di immergermi in un passato riportato caoticamente da corrispondenze, promemoria, fogli volanti, verbali, ritagli di giornale. I quotidiani, in particolare, hanno rappresentato un prezioso supporto, perché mi hanno offerto una visuale immediata sul contesto nel quale si sono collocate le vicende e sulle sensibilità presenti nel discorso pubblico cittadino. Di conseguenza è seguito un ulteriore approfondimento. Era necessario intatti inquadrare la igura di don Antonio Rossaro, il personaggio intorno a cui si sono condensati gran parte dei discorsi emersi nel lavoro d’archivio, uno degli arteici principali della costruzione delle istituzioni e del paesaggio della memoria che si erano venuti a creare nei quarant’anni precedenti la nostra vicenda, a partire dall’evento cardine della grande guerra, soprattutto per un territorio di conine come la Vallagarina. In questa ricognizione, sono stato supportato dalla mole di materiale critico già prodotto, soprattutto in ambito locale, dagli studiosi che hanno lavorato, in particolare dalla ine degli anni Ottanta, allo studio della storia e del paesaggio della memoria cui si è accennato. Ho inoltre cercato di addentrarmi in fonti documentarie primarie che probabilmente hanno ancora qualcosa da dire in riferimento alla giovinezza del nostro sacerdote, al mondo cattolico e ai suoi rapporti con la modernità, negli anni del primo Novecento. Da questo momento di studio è nato il capitolo iniziale, centrato su Rossaro. Successivamente ho compiuto una lunga “digestione” delle questioni in gioco, per cercare di capire come organizzare il materiale in un percorso coerente. Mi sono addentrato maggiormente nello studio di un’opera fondamentale, a cura di Mario Isneghi, come I luoghi della memoria, prendendo spunto da una scrittura che procede per nuclei tematici e momenti monograici. Per capire la parabola dei musei del Risorgimento, di cui il 1 2

http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/Inventario_Fiorio.pdf (pagina consultata il 5 febbraio 2017). http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/inventario_DonRossaro.pdf (pagina consultata il 5 febbraio 2017).

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Museo della Guerra di Rovereto è stato parente strettissimo, sono apparsi fondamentali i lavori di Massimo Baioni. Anche lo studio dell’opera di Patrizia Violi, con il suo approccio semiotico alla memoria, mi ha inluenzato, afiancandosi alle mie precedenti letture di Aleida e Jan Assman, nonché di Michel Foucault. L’inquadramento dell’azione di Rossaro nel più vasto panorama dei rituali nazionali e risorgimentali è stato possibile grazie ancora al lavoro di Ilaria Porciani, che mi ha spronato all’attenzione verso l’eventuale presenza, sempre dificile da inquadrare, delle componenti marginali della società. Ma l’autore che più mi ha inluenzato nella costruzione del discorso è stato George L. Mosse. I suoi ragionamenti si sono dimostrati preziosi per quanto riguarda l’analisi iconograica della Campana dei Caduti e del mondo simbolico a essa circostante. Inoltre, uno strumento concettuale lessibile e maneggevole come quello della banalizzazione, si è rivelato, per me, denso di valenza euristica. D’altronde, la prossimità di tale “strumento” con quelli nella cassetta degli attrezzi dei “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud), me l’ha reso da subito familiare. Per quanto riguarda i criteri della mia scrittura, il principale è stato quello di lasciar parlare il più possibile le fonti. Questo non per rivendicare totale oggettività o terzietà rispetto ai fatti o ai discorsi, pretesa che in ogni caso non è sostenibile dal momento che non esiste discorso che non sia orientato in un modo o nell’altro. Piuttosto, il senso è quello di far entrare anche il lettore nel testo perché possa farsene un’idea diretta e possa veriicare le ipotesi di lavoro. Al contempo tale modalità consente di lasciare aperte le possibili vie interpretative a chi voglia appropriarsi del testo, nella consapevolezza che qualunque modello che voglia dirsi scientiico è per suo stesso statuto provvisorio e superabile. Complessivamente, lo scopo della mia tesi è stato quello di rintracciare, isolare e problematizzare i segnali degli slittamenti del mito patriottico e nazionale, allora incarnato, almeno localmente, nelle due istituzioni roveretane nate dalle macerie della grande guerra, costruite da don Rossaro e dalle élite cittadine irredentiste. La singolarità del personaggio Rossaro e della sua più famosa creatura, la Campana dei Caduti, mi ha sin da subito incuriosito. Le ambiguità e le sfaccettature di quell’oggetto storico, in perenne bilico tra vocazione patriottica e universalistica, tra memoria degli eroi e delle vittime, tra celebrazione della vittoria e della pace, si sono rivelate essere, ad un esame più attento, dei punti di forza più che di debolezza, soprattutto sul lungo periodo e di fronte ai mutamenti delle contingenze storiche. Ma, al contempo, l’impressione inale è stata quella di un simbolo che si era trovato più a suo agio in un’epoca come quella tra le due guerre mondiali piuttosto che nel lungo secondo dopoguerra, improntato alla pace

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europea. E non solo a causa della desacralizzazione dell’istanza nazionale nel tempo repubblicano. Penso di aver dimostrato, attraverso le mie analisi, che la pace e la fratellanza tra i popoli promossa dal messaggio di Rossaro, erano coerentemente costruite come diretto prodotto della guerra e non in maniera alternativa e oppositiva ad essa. In questo senso, ho preferito parlare di una banalizzazione della pace, per quanto riguarda la nuova Campana allestita negli anni Sessanta del Novecento, e non per quanto concerne le prime nate tra le due guerre (scelta, quest’ultima, che non sarebbe stata, in ogni caso, particolarmente azzardata). Se si può parlare di una pace universale, sorta all’ombra del Concilio Vaticano II, che alla prova dei fatti risulta ancora una volta utopistica, è necessario, a mio avviso, smettere di attribuire una qualche responsabilità alla “natura umana”, egoistica o peccatrice. L’utopia consiste, piuttosto, nel voler conciliare la pace universale con le modalità capitalistiche della produzione e del consumo, ancora oggi dominanti. Devo un ringraziamento alla mia famiglia che mi ha sempre sopportato e supportato nel mio percorso di studio, a Nicola Fontana che mi ha accompagnato con disponibilità e simpatia nella mia esperienza in archivio, ai responsabili della Biblioteca civica di Rovereto, alla professoressa Ilaria Porciani, a Mauro Grazioli il cui aiuto è stato preziosissimo. Febbraio 2017

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Capitolo 1. Don Antonio Rossaro: dai miti della guerra ai miti della pace 1.1. Un personaggio poliedrico Valentino Chiocchetti, commemorando don Antonio Rossaro nel decennale della morte, riassumeva così la vita di un uomo importante per la storia di Rovereto e del Trentino. Don Antonio Rossaro nacque a Rovereto l’8 giugno 1883 da Giuseppe e Giovanna Marini. Qui frequentò le scuole elementari. Nel collegio di San Giuseppe a Volvera di Torino compì i suoi studi medi. Studiò poi teologia nel Seminario di Rovigo, dove l’1 aprile 1911 fu consacrato sacerdote dal Cardinale Pio Boggiani, Vescovo di Adria. Insegnò nel Collegio dell’Angelo Custode a Rovigo e fu contemporaneamente catechista nel Ginnasio Liceo di quella città. Fu anche l’ordinatore di quella Biblioteca Comunale e Direttore del giornale cattolico “Il Popolo”1. Nel 1920 da Rovigo Passò a Milano e insegnò nell’Istituto Bognetti. Nel 1921 il Comune di Rovereto gli afidò la Direzione di questa Biblioteca Civica, che diresse per 30 anni. Don Rossaro dopo due dolorose operazioni subite rispettivamente a Rovereto e a Padova, morì il 4 gennaio 1952. Per le sue benemerenze ebbe in vita nove commende da diverso Ordini e Nazioni. Fu patriota ed irredentista, cultore amoroso di memorie patrie, fu l’ideatore della Campana dei caduti, Bibliotecario. Fu con Chini e Malfer, uno dei tre fondatori del Museo storico della guerra e uomo di molte iniziative, vissute sempre con anima di poeta2. E più che poeta nelle poesie che scrisse, fu poeta nella sua vita, piena di vitalità e di fantasia, piena di impeti di generosità, non scevra da quell’ambizione ad emergere che è sempre sprone all’attività. Di questa sua entusiastica generosità di uomo ci sono notevoli esempi nella sua vita. A Rovereto c’è certamente ancora chi ricorda.3

Come vedremo in seguito, il bonario proilo del personaggio tracciato da Chiocchetti, che bene o male aveva condiviso l’impegno civico del sacerdote roveretano – e sarà chiamato

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Il riferimento è al giornale “Il Popolo” di Adria. Valentino Chiocchetti non menziona qui un quarto personaggio che può essere annoverato fra i fondatori del museo e che citeremo in seguito, il socialista interventista Antonio Piscel (1871-1947). V. ChioCChetti, Don Antonio Rossaro, in “Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati”, 209, s. VI, II, 4, 1960, 1962, p. 6. Il lavoro di Chiocchetti è stato ripreso e arricchito in un capitolo de La memoria della grande guerra in una città di conine: Rovereto 1918-1940, tesi di dottorato di Luca Baldo, relatore G. Corvi, Università degli Studi di Trento (s.a.).

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a ereditare parte dei suoi compiti4 – si arricchisce di altri particolari. Nel personale ricordo, che troverà spazio negli “Atti dell’Accademia degli Agiati”, più che cimentarsi in una biograia critica, egli tratteggia il cultore di memorie patrie, l’ideatore della Campana dei Caduti, il direttore della Biblioteca Civica, il personaggio pubblico; non dimenticando di riportare una bibliograia composta da 361 opere edite e da 14 inediti, da aggiungere a due opere postume e a tre periodici da lui diretti5. Ne esce il proilo di un uomo poliedrico, impegnato su molti fronti, fantasioso e poetico6, lavoratore indefesso, scrittore proliico, studioso e divulgatore delle «memorie patrie», collezionista di cimeli storici, ideatore di molte iniziative, patriota e cristiano, conservatore e rivoluzionario, irredentista e fascista, ambiguo sostenitore della guerra e dell’idea di pace. Un uomo che comunque ha amato Rovereto come nessuno, «escluso forse Rosmini», capace di dare alla sua città «tanto nome e tanta risonanza in Italia e nel mondo»7, scrive ancora Chiocchetti, ma anche contraddittorio nel pensiero e nelle azioni: ardente di amor patrio in relazione al conlitto, apparentemente meno focoso in seguito, ma ancora fermo sulle sue posizioni da protagonista nel ventennio littorio, quando concepirà e realizzerà la sua opera più nota e importante: la Campana dei Caduti. Dunque sicuramente un personaggio singolare, degno di essere studiato alla luce di nuove fonti e di una prospettiva più aperta rispetto ai condizionamenti del passato. «In biblioteca, nei mesi freddi, portava sulle spalle uno scialle garibaldino e teneva in testa un berrettino alla iorentina», riferisce il Chiocchetti attingendo alla diretta conoscenza. «Un giorno che lo trovai, così acconciato, con i dirigenti del Partito Monarchico locale, gli dissi scherzando: ‘Come fa Lei, Don Antonio, ad essere monarchico con quello scialle garibaldino e con quel berretto quasi frigio? Non è mica un manto reale quello! È proprio lo scialle di Garibaldi, di Cattaneo e di Mazzini? - Rispose: In teoria posso anche ammettere con Lei la maggiore modernità delle repubbliche, ma in pratica sarò sempre monarchico, perché troppo bene ho avuto dai Savoia per la Campana e le mie opere».8 4

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Dopo la morte di Antonio Rossaro, il Comune di Rovereto e il Curatorio afideranno a Valentino Chiocchetti la direzione della Biblioteca Civica e di quella dell’Accademia degli Agiati; questo in unione con Ferruccio Trentini e il preside Ravagni. Allo stesso Chiocchetti viene inoltre afidata la revisione del “Dizionario degli Uomini Illustri del Trentino”, un lavoro lasciato incompiuto dallo stesso Rossaro. Cfr. in ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 5. Per quanto riguarda i periodici sono citati “Alba Trentina”, rivista mensile 1917-1926; il “Bollettino de La Campana dei Caduti”, trimestrale 1930-1931; “El Campanom”, almanacco, 1926-1943. Tra le opere postume La campana dei caduti, ed Ciarrocca, Milano 1952 e Disposizioni testamentarie, s.e. Rovereto 1952. Una bibliograia parziale relativa ad Antonio Rossaro si trova anche in F. trentini. Don Antonio Rossaro. Con una Bibliograia essenziale di P. Pedrotti, in “Studi trentini di scienze storiche”, XXXI/1 (1952), p. 110-112. Valentino Chiocchetti sottolinea spesso la natura poetica di Rossaro. Questo per lo stile e il carattere, ma anche in riferimento alle numerose composizioni che distinguono la produzione del sacerdote roveretano. ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 9. Ivi, p. 15.

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Valentino Chiocchetti ha dunque cercato di esempliicare con una personale testimonianza alcuni aspetti di queste ambiguità, di queste dicotomie, che, in mancanza di una biograia aggiornata9, appare opportuno veriicare seguendo per quanto possibile il percorso della sua vita attraverso le testimonianze che provengono dalle molteplici pubblicazioni edite, nonché da alcuni inediti: i due volumi dell’Albo storico10, le oltre settecento pagine manoscritte del Canzoniere poetico11, gli appunti del Diario che vanno dal 1943 al 194512, nonché il copioso fondo composto da lettere, articoli, giornali e scritti vari conservati presso l’Archivio della Fondazione Opera della Campana13. Circa 1600 documenti in questo caso, perlopiù ancora da inventariare con sistematicità e rigore14. Con un signiicativo inserto cronologico, potre ’ mo intanto partire da una pagina dell’opera La Campana del Caduti, uscita dopo la morte dell’autore, alla stregua di un’elaborazione celebrativa dell’Albo storico sopraccitato e di altri appunti15. In queste duecentosettanta pagine dal taglio retorico e dannunziano16, il sacerdote racconta in terza persona di se stesso, mascherandosi con lo pseudonimo Timo del Leno, usato del resto in tante occasioni17. 9 10

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Al di là del citato lavoro di Valentino Chiocchetti, e di qualche interessante ma circoscritto approfondimento, non esiste una biograia esauriente del personaggio. A. rossaro “Albo storico della Campana dei Caduti”, ms. 25.10. (1-2) [ora anche Albo storico] conservato presso la Biblioteca civica di Rovereto (BCR). Si tratta di due volumi manoscritti, corredati da foto e stampati, che vanno dal 1924 al 1950, nei quali Rossaro ha annotato minuziosamente tutto quanto riguarda la storia della Campana. Non si tratta però di un diario, almeno per le note che vanno ino alla metà degli anni Trenta, ma di una probabile rielaborazione di appunti cronologici. Oltre a quanto si dirà in seguito, si veda ad esempio cio che viene riportato alla data del 1 ottobre 1924, allorché l’autore fa riferimento a una minuta indirizzata a Lunelli nel luglio 1932. Cfr. BCR, “Poesie di Antonio Rossaro. Il canzoniere del mio cuore”, ms. 76/14. pp. 392-395. [ora anche Canzoniere] A. rossaro, Diario 1943-1945. Il tempo delle bombe, a cura di M.B.Marzani e F. Rasera, “Museo Storico della Guerra” ed Osiride, Rovereto 1993. Il manoscritto originale è depositato presso la Biblioteca civica di Rovereto, ms. 25.10 (3). Presso l’Archivio della Fondazione Opera Campana dei Caduti di Rovereto (AFCCR) sono conservate sessantasei buste contenenti l’epistolario, i comunicati stampa, le minute di alcuni interventi e pubblicazioni, nonché altri documenti riferibili ad Antonio Rossaro. Assieme a questi una copiosa raccolta di articoli di giornale e fotograie che testimoniano la nascita e la storia della Campana ino al 1950. Oltre al materiale di Rossaro, l’Archivio conserva la documentazione relativa alla memoria della Campana dei Caduti, della città di Rovereto e del contesto nazionale e internazionale negli anni che dalla morte di Rossaro arrivano ino a oggi: ancora la rassegna stampa, fotograie, audiovisivi registri di contabilità e le serie relative alla corrispondenza, alle manifestazioni, alle relazioni con gli Stati aderenti europei ed extraeuropei, all’attività formativa, seminariale e pubblicistica dell’Università Internazionale delle Istituzioni dei Popoli per la Pace. Questo forse anche a causa dell’eredità politica di Rossaro, che nel secondo dopoguerra e negli anni successivi divenne motivo di un certo oblio. A tale proposito si deve ricordare che il sacerdote fu sottoposto a un processo di epurazione, dal quale ne uscì assolto vista la sua igura e il carattere non ideologico e antidemocratico delle iniziative da lui animate. A. rossaro, La Campana dei Caduti, ed. Ciarrocca, Milano 1952, 1953, pp. 38-39. Nell’Archivio della Campana si conservano anche alcuni abbozzi di quest’opera e le trattative con Ciarrocca per la relativa pubblicazione, che andrà in porto dopo la morte, Sono ancora ricordati gli aspetti relativi all’ideazione e alla realizzazione della Campana. Si veda comunque il giudizio espresso da Renato Lunelli, in “Studi Trentini di Scienze Storiche”, XXXII/1 (1953), pp. 79-80. Nella tradizione il timo rappresenta la diligenza, l’operosità, l’amore duraturo. Per gli antichi greci il timo era

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Timo del Leno nel primo dopoguerra giunge a Vienna per parlare con il Cancelliere della giovane Repubblica, Ignaz Seipel18, in merito al progetto della Campana che aveva intenzione di fondere. «Il dialogo non durò più di cinque minuti, e fu a battute nette e rapide. Idea, inalità della Campana, richiesta di cannoni per fonderli in essa, ecco tutto! L’ultima parola di Seipel, bene; l’ultima di Timo del Leno, Grazie», attesta l’autore. «Dopo questo colloquio si recò alle Tombe Imperiali, ai Cappuccini. Fin dal primo momento che aveva concepito l’idea della Campana si sentì in dovere di accedere a tale impresa con purezza di cuore e con francescana fratellanza, come ad un rito. C’era però una certa partita da chiudere. Egli era sempre stato cordialmente avverso all’Austria degli Asburgo. Occorreva levar di mezzo tale impedimento: s’imponeva quindi un atto di conciliazione. Come poteva accingersi a questa sublime impresa di fratellanza, egli che in dai banchi della scuola aveva un’implacabile avversione all’Austria; che durante la guerra col suo “Trentino nostro” e con “Alba Trentina” condusse, da buon irredentista, una lotta contro l’Austria di Francesco Giuseppe, e che alla morte di Cesare Battisti scrisse contro gli Asburgo un’epigrafe che fece il suo clamore19, tutte cose che procacciarono dall’Austria il mandato di cattura per “alto tradimento”? Eppure, l’ora e il luogo erano tanto propizi alla conciliazione! In in dei conti la Guerra Mondiale era inita. La vecchia Austria era crollata sotto le sue millenarie rovine ed era stata spazzata via del tutto, mentre il suo popolo aveva ritrovato se stesso sulla via del suo grande destino».

Timo del Leno dunque visita le «Tombe Imperiali», con sentimenti certamente diversi da quelli del grande scrittore austriaco Joseph Roth, che alla ine del conlitto compie lo stes-

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simbolo di vitalità (da Thymos, sofio vitale, forza, coraggio ): essi credevano che la pianta si fosse originata dalle lacrime di Arianna, emesse a causa dell’abbandono dell’amato Teseo. Il pianto ‘profumato’ attrasse però le attenzioni di Dioniso che la prese subito in sposa. Lo pseudonimo Timo del Leno, adottato da Rossaro, potrebbe forse voler indicare una persona operosa, vitale, innamorata della sua città “abbandonata” dall’Italia, ovvero Rovereto, rappresentata dal torrente Leno che l’attraversa. L’interpretazione sembra trovare qualche conferma nella poesia dal tono pascoliano: Al mio pseudonimo Timo del Leno, composta dallo stesso Rossaro nell’aprile 1909 nel Collegio dell’Angelo di Rovigo. Cfr. BCR, “Poesie di Antonio Rossaro” cit., pp. 392-395. Così il Rossaro nella strofa inale: «A voi pergiunga col soavissimo / Odor del timo dai tenui petali, / E il murmure lene voi tocchi, / Che sa l’onda del patrio mio Leno». Uomo politico austriaco (Vienna 1876 - Pernitz, Berndorf, 1932), sacerdote (1899) a Vienna, dove si laureò in teologia; dal 1908 professore di teologia morale nell’Università di Salisburgo. Chiamato (1917) nell’Università di Vienna, partecipò attivamente alle riunioni del partito cristiano-sociale. Fautore di una monarchia federale con larghe autonomie nazionali, entrò (1918) nel gabinetto Lammasch quale ministro della Previdenza sociale. Deputato all’Assemblea nazionale (1919), acquistò una posizione dominante nel partito cristiano-sociale, che lo elesse a suo presidente (1921). Cancelliere federale (1922-24 e 1926-29), è merito suo la ricostruzione inanziaria dell’Austria dopo la guerra; ma a lui si deve anche l’indirizzo autoritario impresso allo stato austriaco, in netta opposizione alle correnti socialdemocratiche. Fu poi (1930) ministro degli Esteri nel governo (ndr). Cfr. A. rossaro, Omaggio a Cesare Battisti. tip. Sociale, Rovigo 1917.

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so gesto rimpiangendo il suo mondo relegato nella Cripta dei Cappuccini. Rossaro guarda questo requiem mostrando una pietà relativa, ponendo a confronto il destino dei regnanti con quello dei popoli, dei vinti con quello dei vincitori, destinati a diventare protagonisti di un’epoca nuova, resa vittoriosa dal sacriico iscritto nella provvidenza che, come per Manzoni, a lungo andare regola gli eventi e i destini delle persone. Fra le tombe di Francesco Ferdinando e di Rodolfo, entrambi ricordati dal sacerdote anche nei “Notturni trentini”20, «dorme inalmente il più sventurato di tutti, Francesco Giuseppe I, sul cui capo si rovesciò tutta la tempesta che doveva abbattere la vecchia stirpe asburgica», glossa in effetti la pagina. «Qui Timo del Leno si fermò immobile e pensoso. Nulla aveva da chiedere, molto aveva da dare: pietà ed oblio! [...] Lì, al cospetto di quelle tombe Timo del Leno fu scosso da un senso di umana indulgenza e davanti alla storia che fece giustizia, chinò il capo e venerò in silenzio»21.

1.2. La formazione cattolica Da questa testimonianza la “conversione” di don Rossaro non appare connessa esplicitamente agli orrori della guerra appena conclusa. L’atto che dovrebbe issare la riappaciicazione si mostra appunto un gesto di «umana indulgenza», nella convinzione di una storia che «fece giustizia»: perlomeno per ciò che il sacerdote ritiene giustizia, come avremo occasione di veriicare. Il monumento dove giacciono gli Asburgo, anche simbolicamente, perpetua il loro oblio nella penombra sotterranea, dove anche la memoria si acquieta in un passato da chiudere, mentre la monumentalità nuova, quella trionfante della vittoria, doveva elevarsi fuori terra, per superare l’individualismo elegiaco e divenire celebrazione collettiva, emblematico messaggio apogeo, anche nella disposizione topograica22. Fabrizio Rasera, cui dobbiamo alcune interessanti osservazioni in merito23, ha cercato di esplicitare questa problematica posizione del sacerdote roveretano, ritenendola un prodotto del tempo e di una storia personale e familiare: quella degli zii garibaldini ad 20

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A. rossaro, Notturni trentini, in “Alba Trentina”, III /78 (1919). Gli undici Notturni, riportati anche nel Canzoniere, sono editi in occasione del terzo anniversario della morte di Cesare Battisti e raccontano in versi elegiaci il travaglio del Trentino sotto il giogo dell’Austria. Nelle composizioni V e VI Rossaro fa appunto riferimento alle tombe degli Asburgo nella cripta dei Cappuccini. Ivi, pp. 36-39. Cfr. I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, ed. Laterza, Bari 1997, pp. VIII-IX. Si veda anche in Baldo, La memoria della grande guerra cit., p. 7. F. rasera, Il prete della Campana. Per un proilo politico di don Rossaro. in Il treno della pace. Da don Rossaro a Padre Zanotelli. Un percorso storico, a cura del Comitato delle Associazioni per la Pace e i Diritti dell’Uomo, Publiprint, Mori, 1992.

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esempio24, di un ambiente culturalmente predisposto all’italianità. Ma non solo, anche di una particolare elaborazione religiosa, maturata nel ilone di «un cattolicesimo liberale assolutamente minoritario presso il clero trentino», particolarmente forte negli anni della sua vocazione e degli studi in preparazione del sacerdozio25, ma via via meno preponderante in riferimento ai movimenti del primo Novecento, al superamento del non expedit, all’irredentismo e soprattutto all’affermarsi del fascismo. «La ine del XIX secolo aveva in effetti visto il rilancio di un movimento cattolico trentino radicato in istituzioni economiche e sociali duramente polemico, sul piano ideale, tanto con il liberalismo che col nascente socialismo. I preti di questo movimento sono gli Endrici e i Gentili, formati alla cultura teologica di lingua tedesca oltre che a quella di lingua italiana, sensibili alla questione nazionale ma in un’ottica molto diversa da quella della cultura italiana di matrice risorgimentale», spiega Rasera, e sostanzialmente allo stesso modo argomenta Sergio Benvenuti26. Ma Rossaro fa eccezione. Rispetto a questo cattolicesimo sociale e politico «si colloca su un altro pianeta». Si muove ad una certa distanza dalla tradizione liberale (quella di Giovanni a Prato, per fare un nome), anche rispetto alla componente sociale vicina alle posizioni popolari e ilantropiche di don Lorenzo Guetti, il prete della solidarietà cooperativistica sorta sul modello austriaco di Federico Guglielmo Raiffeisen27. «Il suo Risorgimento è garibaldino e rivoluzionario»28. Nonostante alcuni ostacoli che vedremo, con il passare del tempo le posizioni anticonformiste del sacerdote diventano però meno “scapigliate” rispetto al pensiero cattolico in 24

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Il diciottenne Luigi Rossaro, zio di Antonio, nel 1859 era stato fra i primi ad accorrere all’appello di Garibaldi militando nelle ile del battaglione Vignola, nel quale poco dopo si era arruolato anche il fratello Giovanni, mentre il giovane Giuseppe, il padre di Antonio, era stato costretto dalla famiglia a desistere. I due fratelli nel 1866 avevano combattuto a Bezzecca, dove Luigi, «colpito da fuoco nemico», era rimasto ferito. Rimessosi, per il dispiacere dell’Obbedisco era emigrato in Francia, a Parigi, «per rivivere nella solitudine di un volontario esilio tutte le crude amarezze delle sue delusioni», le quali, con il riacutizzarsi delle ferite, nel 1868 lo portarono alla morte. V. Milani, Il garibaldino Luigi Rossaro, nel 50° anniversario della morte, in “Alba Trentina”, II/6 (maggio-giugno 1918), pp. 168-175. Anche A. rossaro, Memoria dei fratelli garibaldini Luigi e Giovanni Rossaro di Rovereto, ed Grigoletti, Rovereto [1937?]. rasera, Il prete della Campana cit., p. 14. Sergio Benvenuti, parlando in verità del clero di ine Ottocento, scrive che «Il nuovo indirizzo cattolico-nazionale, ben diverso da quello dei cattolici liberali (in quanto non recepiva l’ideologia liberale, che anzi apertamente contrastava), si dichiarava per bocca di uno dei suoi maggiori esponenti, don Emanuele Bazzanella, sinceramente cattolico col Papa in religione e cattolicamente nazionale con l’Imperatore in politica». Cfr. S. Benvenuti, Le istituzioni ecclesiastiche, in Storia del Trentino, L’età contemporanea 1803-1918, a cura di M. Garbari e A. Leonardi, ed. Il Mulino, Bologna 2000, pp. 275- 318, Per la citazione si veda in particolare il capitolo relativo a La chiesa trentina e la questione nazionale, p. 306. Sulla igura di don Guetti si veda E. agostini, Lorenzo Guetti: la vita e le opera nella realtà trentina del secondo Ottocento, Padova 1985; L. iMperadori, M. neri, Le stagioni della solidarietà. Don Lorenzo Guetti, un prete-giornalista nell’Ottocento trentino, ed. Il Quadrifoglio, Trento, 1987; S. varesChi, Il movimento cattolico trentino tra Ottocento e Novecento, a cura di M. Garbari, A Leonardi, Storia del Trentino, V, L’età contemporanea 1803-1918, ed. Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 817-838; S. visintainer, La dimensione pastorale nell’opera di don Lorenzo Guetti, in Lorenzo Guetti. Un uomo per il Trentino, a cura di A. Leonardi, ed. Temi, Trento 1998, pp. 45-51. rasera, Il prete della Campana cit., p. 14.

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evoluzione: in conseguenza del suffragio universale maschile (1912)29, dell’imporsi dei movimenti irredentisti e interventisti alla vigilia del conlitto, dell’abrogazione del non expedit (1919); poi soprattutto del fascismo, subito salutato dal roveretano a mano tesa30, nonché dei Patti lateranensi (1929), che riecheggiano fra l’altro nel Carme augurale, nel quale, secondo l’autore, il Risorgimento, grazie al «Duce nostro», cui «dalle piazze in festa sale l’osanna», trova il suo coronamento nella nuova Italia, «che ancor torna regina»31. Patria e fede, fede religiosa e politica, si incontrano dunque nel percorso provvidenziale della storia e nella sua giustiicazione, il concetto espresso da Rossaro nella Cripta dei Cappuccini: quello della guerra sostanzialmente, del conseguente legittimo riscatto dall’Austria, della Nazione creata dal fascismo; anche nella creazione di una memoria, che coinvolge la religione e la usa a sistema «di un processo culturale e simbolico, che determina le forme del ricordo», come scrive Patrizia Violi32. Fino a creare un presente cementato dalla retorica nazionale insomma, che recupera una particolare tradizione del passato per farla visione comune, nella quale la “chiesa romana” diventa componente essenziale. Ritornando al ragionamento di Rasera, si può dunque dire che Rossaro, nei limiti della sua azione, contribuisce alla rappresentazione dell’Italia nova, recuperando «un certo cattolicesimo sabaudo, vuoi patriottico vuoi più propriamente nazionalista, forte non solo nella realtà cattolica piemontese, ma presente anche in alcuni ordini religiosi […], vivo in un certo interventismo risorgimentale, largamente diffuso nei settori cattolici delle forze armate ed in certi ambienti giovanili di indirizzo monarchico che inivano [meglio in questo contesto dire iniranno] per identiicare naturalmente la causa fascista con quella monarchica»33. Sulla scorta del ragionamento di Thiesse34, si potrebbe aggiungere 29 30

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Questo allargamento della base elettorale, inaugurando l’entrata delle masse contadine e proletarie nel panorama politico, rendeva necessario, per le élite liberali, la collaborazione del cattolicesimo in chiave anti socialista. «Salute a te! Nella gagliarda fossa / Dei Cesari, precinto l’ampio fronte, / Grande, solenne, dittator, nel cielo / Di Roma spazi. / E a te Italia tutta, nel littorio / Fascio congiunta la millenne gente, / Plaude commossa e le protese destre / Fiera soleva». Si tratta delle prime due strofe della poesia A Mussolini, composta dal sacerdote roveretano nella prima ricorrenza della marcia su Roma e pubblicata nel numero unico “Eia, alalà”, ed. Tomasi, Rovereto 1923. Anche in Canzoniere cit., p. 162-163. Una nazione ormai capace di far risplendere il sangue latino «dal Vaticano al Campidoglio», grazie al «Ponteice Sovrano» e soprattutto al «Duce nostro», cui «dalle piazze in festa sale l’osanna e fausti a te le folle / Gridan gli auspici», recitano con enfasi i versi del sacerdote poeta, che così conclude: «Per te l’Italia ancor torna regina; / E per te Roma il serto le ringemma; / Per te, sul mondo rinnovato torna Cristo Romano!» [...] Ed “alalà” dal mondo tutto, dove / Roma impresse la lupa, si risponde. / Sul Campidoglio delle genti a vista / Brilla il Littorio». A. rossaro, Carme augurale per il Papa e il Re auspice S. E. Benito Mussolini, Roma XI febbraio MCMXXIX. In occasione del “Te Deum” nell’Arcipretale di Rovereto XVII febbraio MCMXXIX, ed. Manfrini, Rovereto 1929. P. violi, Paesaggi della memoria. Il trauma, lo spazio, la storia, ed. Bompiani, Milano, 2014, pp. 10-11. R. Moro, I cattolici italiani di fronte alla guerra fascista, in La cultura della pace dalla Resistenza al Patto atlantico, a cura di Massimo Pacetti, Massimo Papini, Marisa Saracinelli, ed. Il lavoro editoriale, Ancona-Bologna 1988, p. 87. Cfr. A.M. thiesse, La creazione delle identità nazionali in Europa, ed. Il Mulino, Bologna 2001, in particolare pp. 12 ss.

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che in questo modo non solo si assiste alla diffusa nazionalizzazione della monarchia, come istituzione capace di traghettare il passato nel presente, ma a una strategia politica e pedagogica che attraverso la igura di Mussolini rivaluta questo passato per rifondarlo in un’identità nazionale sorta dalla guerra di redenzione e consolidata dal fascismo quale arteice dei segnati destini d’Italia.

1.3. Il collegio torinese L’ambiente piemontese, dove Rossaro si reca per i primi studi, ha certamente inluito sulla formazione monarchica del giovane roveretano, afiancandosi all’educazione risorgimentale assorbita in famiglia e alla precoce fascinazione per gli eventi celebrativi che diventeranno fondamentali nella sua azione. È lo stesso sacerdote a metterci su questa strada, allorché nell’Albo storico ci parla della sua epifanica vocazione maturata fra la folla plaudente, i suoni della musica patriottica e le glorie della sua terra. «2/V/1937: oggi si compie il 40esimo anniversario della memoranda e indimenticabile festa del Centenario della nascita di Antonio Rosmini»35, egli scrive rammentando un episodio del 1897. «Segno qui questa data perché fu decisiva nella mia vita. Ero al termine delle scuole elementari, e quindi al bivio: o un mestiere o continuare la scuola. Per me l’unica via aperta era la prima, nonostante che il mio sogno fosse la carriera ecclesiastica. Quei giorni furono, per me, giorni di intenso entusiasmo. La sera della vigilia, nei giardinetti che esistevano ove ora sorge la Posta, tenni un discorso, agli amici, sul Rosmini (!...). Il 2 mi intrufolai in tutte le manifestazioni: persino alle conferenze di Lampertico e del prof. Lilla. Sotto la giubba mi cinsi d’una fascia tricolore e sul davanti della maglia mi dipinsi, ad olio, lo stemma di Rovereto (!!!). La sera della festa, mentre tutte le bande, schierate davanti al monumento di Rosmini, suonavano l’Inno a Trento, io, da buon monello, m’ero arrampicato sul cancello del palazzo Rosmini e me ne stavo cheto a contemplare, tra un velo di lacrime, quel memorando spettacolo. E fu là, in cima a quel cancello, sopra l’immensa folla plaudente, tra lo squillo delle varie musiche, in faccia al monumento del ilosofo, che decisi irrevocabilmente di studiare, e di farmi sacerdote. All’indomani ero un altro. La vita mi s’era aperta al mio destino: Deo Gratias!»36.

Antonio Rossaro, come si è detto, si reca quindi a Volvera, a poca distanza da Torino, per frequentare le scuole secondarie presso il collegio di San Giuseppe, retto dalla Congrega35 36

Antonio Rosmini nasce a Rovereto il 24 marzo 1797 e muore a Stresa il 1 luglio 1855. rossaro Albo storico cit., a data.

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zione giuseppina37: una frangia dei Salesiani fondata da Leonardo Murialdo, il «mio santo superiore», come scriverà il sacerdote in una pagina dell’Albo storico, nel quale fra l’altro inserisce un’immagine del servo di Dio che anni più tardi dichiara di aver trovato, in una sorta di apparizione miracolosa, ai piedi della Campana38. Non sappiamo però molto a proposito di questo periodo, se non raccogliendo qualche interessante briciola dei suoi ricordi. «Da poco il “Re buono” era caduto sotto il pugnale d’una mano anarchica e l’augusta Vedova, regina Margherita, s’era ritirata nel suo dolore, nello storico castello di Stupinigi», scrive infatti in anni più tardi. «Una fresca mattina d’aprile, resa più gioconda dalla giovinezza della vita, un gruppo di studenti liceali d’un collegio, si recò a Stupinigi, poco lontano, per rendere omaggio alla Sovrana. Tra quella gaia turba c’era anche Timo del Leno. Nel ritorno, attraverso i secolari boschi che circondano il Castello, s’incontrarono in una carovana di zingari. Non parve vera tanta fortuna! La circondarono festosamente, accompagnandosi con essa per tutto il tratto. Una donna, tutta movenze e colori di autentica zingara, dopo una rituale danza, tra le più curiose rivelazioni e certe pruriginose reticenze, volle leggere le loro mani. Giunta a quella di Timo del Leno, dopo averla guardata e scrutata, con strani gesti, uscì in queste più strane parole: Fiore da iore! Immenso come il mar sarà il tuo impero! Così nella tua man, legge il mio cuore. Parole cabalistiche, che fecero fantasticare sulle più astruse confetture, ino a far di Timo del Leno il futuro sposo d’una regina, con tanto d’impero»39.

L’episodio è singolarmente laico, ambiguo e oracolare. La nota eremitica in merito alla regina Margherita si mescola con l’apparizione profana della zingara, la quale profetizza al giovane studente, «iore da iore», un futuro importante: il matrimonio con una regina con «tanto d’impero». Ad anni di distanza dal presagio di Stupinigi, Rossaro trasigurerà questa igura regale, ritirata nell’esilio del suo dolore, nella madre matrice della sua campana, capace di estendere il suo suono per le contrade del mondo. Ma non c’è dubbio che la ricostruzione postuma, probabilmente adattata, lascia intendere uno stretto colle37 38

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Un orfanotroio e un oratorio festivo della Congregazione di San Giuseppe erano stati fondati a Rovereto nel 1894. Forse è proprio attraverso l’istituzione roveretana che Rossaro avrà modo di entrare nel collegio di Volvera. Così Rossaro scrive il 28 giugno 1932. «Cose strane! ai piedi della Campana ho trovato questa immaginetta che ricorda il mio Santo Superiore. Chi sa quale mano ve l’ha deposta: certo qualche pellegrino piemontese (Riguardo a Murialdo, vedi il mio articolo in “Optigerium”, Oderzo maggio 1933)», Cfr. in Albo storico cit., a data. Per quanto riguarda l’articolo si veda A. rossaro, Ricordando un santo (Don Leonardo Murialdo, in “Optigerium”, (marzo 1933 ). “Il Gazzettino” del 9 aprile 1934, tracciando un breve proilo del sacerdote, scrive che Antonio Rossaro «fu pure discepolo prediletto del noto teologo Don Leonardo Murialdo». rossaro, La Campana cit., p. 42.

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gamento con i Savoia, e in particolare con la regina vedova di Umberto, la mater dolens, potremo dire, anticipando un signiicato che troverà esempio in tanti eclatanti episodi relativi alla campana e che si manterrà costante ino alla caduta della monarchia.

1.4. In seminario a Rovigo Al di là di quanto sopra riferito, la biograia giovanile di Rossaro è comunque ancora piuttosto opaca. Non abbiamo informazioni dirette al riguardo. Chiocchetti tace e così lo stesso sacerdote. Ci dicono però qualcosa di importante le poesie e alcuni articoli giornalistici che entrano a far parte della sua bibliograia a partire dal 1907, dopo che Antonio Rossaro si è trasferito nel seminario di Rovigo per gli studi di teologia40, forse sulle orme di Luigi Fogolari, un altro «grande trentino» esule dalla sua terra41. Sono gli anni che vedono salire al soglio di San Pietro il trevigiano Giuseppe Melchiore Sarto con il nome di Pio X. Un papa apparentemente conservatore, vista la sua avversione al modernismo, ma che con l’enciclica Il Fermo Proposito, nel giugno del 1905 allentava le restrizioni del non expedit di papa Pio IX e contribuiva a dare forza a un movimento che favoriva l’ingresso dei cattolici nell’agone politico, movimento al quale Rossaro certamente non rimane estraneo, in considerazione che l’azione del papa Sarto trova larga adesione nel Veneto42, e che nello stesso seminario di Rovigo insegnava ilosoia e teologia don Giacomo Schirollo43. Potrebbe essere questa una svolta importante per le posizioni di Rossaro, 40 41

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In realtà le sue prime produzioni poetiche sono datate Torino (1900), dove compone fra l’altro Ora d’esame; poi Bassano ed episodicamente Modena (1901-1907), inine, dal 1908, soprattutto Rovigo. Cfr. Canzoniere cit. Parlando di Antonio Rossaro e della sua dinamica presenza a Rovigo negli anni della guerra, Adriano Mazzetti riporta che «nella città padana era ancor viva la memoria di un grande trentino, lui pure sacerdote, don Luigi Fogolari, insegnante nello stesso seminario vescovile di Rovigo, nominato nel 1869 direttore della Biblioteca dei Concordi, la maggiore istituzione culturale della città, dotata di una ricca biblioteca e di una preziosa quadreria. Presso questo istituto presterà la sua opera don Rossaro negli anni 1918-1920, alternando gli impegni pastorali alle cure dalla grande libreria. A. Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi di Rovigo. Una presenza dinamica nell’Istituto culturale e nel Polesine, in “Atti dell’Accademia degli Agiati di Rovereto”, a. 247 (1997) ser. VII, vol. VII. A., p. 116. Cfr. A. rondina, L’ultimo interdetto. Nel contesto religioso e civile del Polesine tra ‘800 e ‘900, ed Apogeo, Milano 2007, p. 19 ss. «Nell’aprile 1904 si tenne a Rovigo il primo Convegno regionale democratico cristiano del Veneto; vi parteciparono anche alcuni seguaci di don Murri, ma la presenza autorevole di Sichirollo poté impedire che si veriicassero disordini. Tuttavia all’interno dell’Opera dei Congressi i conlitti fra “intransigenti” e “democratici cristiani” giunsero al punto che in luglio Pio X decise di far cessare l’Opera e sostituirla con le Unioni che venivano sottoposte, nelle diocesi, al diretto controllo dei vescovi. L’azione equilibratrice di Sichirollo si manifestò ancora nell’ottobre 1905, quando a Rovigo si tenne il terzo Convegno delle associazioni giovanili della diocesi che si concluse con l’invio a Pio X di un ordine del giorno in cui si sottolineava l’errore di non accogliere le indicazioni che venivano dal papa; ordine del giorno a cui il ponteice rispose elogiando lo spirito delle associazioni giovanili della diocesi di Adria». http://www.acadriarovigo. it/sito/documenti/intervento_traniello.pdf. (gennaio 2016) Per la igura di don Giacomo Sichirollo (1839-1911), ammiratore di Rosmini, fondatore dell’azione cattolica di Adria e insegnante presso il seminario di Rovigo, si rimanda al volume Chiesa e società nel Polesine di ine Ottocento, a cura di G. Romanato, ed. Minelliana, Rovigo 1991.

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Il Collegio dell’Angelo Custode di Rovigo in due cartoline d’epoca.

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Collegio dell’Angelo Custode di Rovigo, monumento a Ernesto Vallini (AFCCR).

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anche se le tracce in realtà sono esigue. Una gita a Riese, titola un articolo del seminarista pubblicato sul giornale “Il Trentino” nel settembre 1908, a un anno di distanza dall’enciclica Pascendi Dominici gregis, che non mancherà di innescare un dibattito forte nella diocesi veneta, nella quale il futuro papa aveva operato con frutto e ricoperto la carica di patriarca di Venezia44. Si tratta del racconto di una giornata trascorsa da «quindici giovinotti» in visita appunto a Riese. Il paese del papa «che ci voleva dopo Pio IX e Leone XIII ed a cui la storia consacrerà un’importante pagina», scrive il seminarista Rossaro. Per il resto siamo davanti a una cronaca apparentemente comune, salvo l’incontro con la nipote del ponteice, la quale in una semplice veste e con i piedi scalzi serve loro il pranzo alla “Trattoria alle due spade”. Segue un breve colloquio con la madre della ragazza e una visita alla casa natale di papa Sarto. Una dimora umile, povera, osservando la quale Rossaro giunge a concludere «che la chiesa di Dio non bada alla grandezza dei natali, ma allo splendore della virtù»45. Una sorta di elogio della povertà quindi, ma forse ancora un signiicativo riferimento al papa «che ci voleva», per indicare un uomo fermo non solo nel difendere le posizioni di Rovigo nella diatriba con Adria46, ma anche perché disposto a superare le chiusure politiche di Pio IX e di Leone XIII, per riportare la chiesa al centro del dibattito politico in chiave antisocialista e antianarchica47. Chissà se in questa chiave si può leggere anche il polimero barbaro che Rossaro nel 1910 dedica a monsignor Ernesto Vallini per il venticinquesimo del Collegio “Angelo Custode” di Rovigo48. C’è infatti anche qui il richiamo a «un ordine nuovo», a «un’era novella, nella difesa della sua storia e della sua cultura», per uscire dall’esilio e trionfare sulle «vandale torme», sulle «barbare genti», per accogliere in «un amplesso ininito» il «fratello del Sole». C’è ancora il saluto a Roma e al papa, come l’attenzione verso la miseria e l’invito a guardare verso le «maremme», dove «un popolo affanna»49. 44

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Cfr. ad esempio G. roManato, Pio X La vita di papa Sarto, ed Rusconi, Milano 1992. Su Pio X e il movimento cattolico ancora Id, Giuseppe Sarto e il Movimento cattolico, in AA. VV., Le radici venete di San Pio X. Saggi e ricerche a cura di Silvio Tramontin, ed Morcelliana, Brescia 1987; id, Pio X. Alle origini del cattolicesimo contemporaneo, ed Lindau, Milano 2014. Cfr. A. rossaro, Una gita a Riese, in “Il Trentino”, 26 settembre 1908. Per questa diatriba e per il relativo contesto si veda ancora rondina, L’ultimo interdetto cit. Sarà in effetti anche attraverso queste aperture che Vincenzo Gentiloni, nominato dallo stesso Pio X presidente dell’Unione Elettorale cattolica Italiana (UECI), pochi anni dopo potrà distinguersi dalle tesi murriane e concludere con Giolitti il cosiddetto Patto Gentiloni, con il quale venivano a saldarsi il ilone risorgimentale più istituzionale e quello cattolico maggioritario, anche sulla base di un orientamento monarchico e tradizionalista che sappiamo vicino al pensiero dello stesso Rossaro. Il vescovo Antonio Polin fondò nel 1886 la “Piccola Casa Angelo Custode”, un collegio destinato ad accogliere giovani della Diocesi con la speranza di poterli avviare alla vita ecclesiastica. Già qualche anno prima (1880) il vicario generale, Ernesto Vallini, aveva organizzato assieme ad altri il “Ricreatorio Cittadino per i Giovani”, iniziativa che successivamente sarebbe conluita nel collegio vescovile stesso. Sui rapporti fra il papa Pio X e monsignor Vallini, soprattutto in merito alla rideinizione della diocesi di Rovigo, si veda A. rondina, L’ultimo interdetto cit., pp.47-49. Il Vaticano. Polimero barbaro del chierico Antonio Rossaro, ed. Malfatti, Mori 1910.

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La bibliograia pubblicata da Chiocchetti registra con un toponimo errato l’articolo relativo alla gita nel paese del papa50; la pagina è così passata sotto silenzio. C’è dunque la possibilità che uno spulcio più accurato possa offrire ulteriori contributi per comprendere le posizioni del cattolicesimo di Rossaro nel periodo che precede la guerra, anche in considerazione che gli studi teologici da lui compiuti nel seminario rodigino in questi mesi cruciali non possono averlo lasciato passivo in merito al dibattito del tempo, che immaginiamo particolarmente vivace ad Adria, la diocesi che ino al 1909 era stata legata a Venezia, la sede patriarcale dalla quale era uscito lo stesso nuovo papa. Potrebbero fra l’altro chiarirci meglio le sue eventuali posizioni in riferimento all’opera di Murri, sostenuta per un certo tempo dal giornale “L’Avvenire d’Italia”. Aiutarci a capire se l’enciclica Pascendi di Pio X, e la conseguente svolta conservatrice del giornale dopo il 191051, abbiano avuto un peso nella collaborazione di Rossaro al foglio bolognese fra la primavera del 1915 e l’estate del 191652, allorché l’Ora presente, «la rossa meteora capace di rompere il buio invernale», come sarà deinita in un articolo del 191853, verrà colta come l’ora storica per riportare il Trentino all’Italia. Ciò che per ora possiamo dire di Rossaro studente a Rovigo non è peraltro molto. Nel suo Canzoniere poetico accosta composizioni spensierate a ricordi nostalgici54, poesie goliardiche, come i sonetti «improvvisati, uno al giorno, a rime 50 51

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L’articolo viene infatti citato con il titolo Una gita a Riva. Il primo numero de “L’Avvenire” esce a Bologna il 1º novembre 1896 con la direzione di Acquaderni. Nel 1898 la direzione passò al marchese Filippo Crispolti. Nel 1902 venne promosso alla direzione Rocca d’Adria (pseudonimo di Cesare Algranati), che impresse una svolta al giornale. Nelle sue parole, “L’Avvenire” fu “sclericalizzato”, trasformandosi da giornale “uficiale” in giornale “di penetrazione” (o “di tendenza” come si direbbe oggi). Rocca d’Adria cambiò la testata in “L’Avvenire d’Italia” e assunse in redazione i principali giornalisti appartenenti al movimento murriano (i “democratici cristiani”). In risposta, tre colleghi della vecchia redazione intransigente si dimisero. Protetto dall’arcivescovo petroniano, cardinale Svampa, il quotidiano diede ampio spazio ai temi del rinnovamento organizzativo, sociale e culturale del mondo cattolico. Inoltre Rocca d’Adria intese promuovere l’ingresso dei cattolici nella politica attiva, sostenendo la formazione di un partito cattolico nazionale. L’azione di propaganda ilo-murriana del quotidiano bolognese ebbe un tale impatto presso la stampa nazionale che il termine “democratico cristiano” divenne familiare al grande pubblico. Esso connotava tutta l’area che si opponeva agli ambienti “clericali”. Esperto in materia teologica e dottrinale del quotidiano bolognese era il sacerdote biellese Alessandro Cantono. Nella polemica, pressoché quotidiana, con gli altri fogli cattolici, i giornali avversari furono la “Riscossa”, la “Unità Cattolica”, il CMomento” e talvolta anche “L’Osservatore Romano”. Altri lo segnalarono alla Segreteria di Stato della Santa Sede afinché prendesse provvedimenti. Nel 1905 si costituì nei locali de “L’Avvenire d’Italia” il partito di don Romolo Murri, la Lega Democratica Nazionale, il primo partito d’ispirazione cattolica in Italia. Proprio in quell’anno Papa Pio X iniziò a emanare direttive sempre più drastiche sui laici cattolici, tese a mantenere tutto il movimento cattolico sotto l’egida dell’Unione Popolare (una branca dell’Azione cattolica). Rocca d’Adria continuò la propria battaglia democratica ino al 1910. In quell’anno morì il cardinale Svampa, alto protettore del giornale. Nello stesso anno Rocca d’Adria perse la direzione. Finita la sua epoca, il quotidiano bolognese ebbe una decisa virata in senso anti-murriano. Nonostante la nuova linea moderata, rimase comunque il quotidiano cattolico più letto nella regione. Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/L%27Avvenire_ d%27Italia, consultato il 3 gennaio 2016. Per i quattordici articoli pubblicati da Rossaro sul giornale “L’Avvenire d’Italia”, nonostante alcuni errori nelle datazioni, cfr. ChioCChetti, Don Rossaro cit., pp. 28-29. A. rossaro, L’ora presente e Camillo Pasti, in “Alba Trentina”, II/1 (1918). «Ave ‘Casetta’ biancheggiante al sole, // Al puro sol che da di giovinezza, / In te germoglia il ior di gentilezza,

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e a tema, in una amena brigata collegiale, durante la cena, e precisamente, tra la minestra e la pietanza»55, a rime di più acceso impegno politico, come lo scherzo Benedetti i tedeschi, che nel 1910 per poco non gli costerà l’espulsione dal seminario56 L’irredentismo di Rossaro non è comunque frutto di un passaggio repentino, anche perché sappiamo che il suo cuore batte da sempre in favore dell’Italia. Le poesie che cogliamo a partire dal 1897 nel suo inedito «canzoniere del cuore», si instradano con accenti ancora pascoliani57, ma ben presto diventano più squillanti, pregne di accenti patriottici. Ai bozzetti giovanili, Lago di Cei, Casetta alpina, Il ponte di San Colombano, Al lago di Loppio, Alla mia mamma, presto fanno seguito Rose di sangue (1905), oppure Il Messaggero (1906), ovvero i versi dedicati al nuovo giornale, dove l’autore preigura esplicitamente la «libertà del Giovane Trentino» e annoda il binomio «Trento e Trieste»58. Su questo tono è anche la composizione patriottica indirizzata A Ottone Brentari, che l’autore dichiara di aver scritto nel 1907, «in occasione d’una conferenza irredentista... sul tema Trentino nostro»59, e così altre pagine del manoscritto che si arricchisce con l’avvicinarsi della guerra. Sono appena alcuni cenni. Il canzoniere poetico che Rossaro dedica in età matura a Renato [Cobelli?]60, meriterebbe ben di più, anche perché, come egli dichiara, si tratta di «un caro recesso» nel quale possiamo leggere «gran parte» del suo passato. «Ho voluto raccogliere i miei versi e le mie poesie, in questo volume, esclusivamente per me, o meglio per mio intimo compiacimento», scrive infatti nella bella dedica. «Molti di questi versi, avrei voluto, e dovuto, riiutarli in pieno; altri passarli al “labor limae” e modiicarli radicalmente, ma poi ho inito per adunarli tutti e intatti, in queste pagine, come uscirono dal mio cuore, in certe disposizioni e in certe circostanze del mio animo. Non sono tutte creature del mio cuore? e se al-

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/ Che il latin sangue infonde alla tua prole. / Come un fragor di piccolette viole / Io trovo in te. della mia fanciullezza / Tante memorie piene di dolcezza / Tanti innocenti palpiti del cuore / [...]. Cfr. Al Collegio dell’Angelo Custode. Rovigo, detto “la Casetta” (1910), in Canzoniere cit., p. 314 ss. Nello stesso Canzoniere si veda anche Inno al Collegio dell’Angelo Custode, «musicato dal Dr. Prof. D. Raffaello Malaspina. Pubblicato sul numero unico del XXV del Collegio, 1910». Si tratta di una decina di sonetti (Virginia, Desdemona, Fedra, Ermengarda, La Gioconda, Giulietta e Romeo, Francesca da Rimini, La Cairoli, La Tosca, Mimi de la Boeme, Esame ecc.) composti a Bassano fra il luglio e l’agosto 1903. Cfr. Canzoniere cit., Bassano luglio, agosto 1903, pp. 298 ss. Così annota l’autore «Per poco questo scherzo non mi costò l’espulsione dal Seminario, stabilita dal vescovo, Mons. Boggiani, già professore all’università di Graz e poi Cardinale, il quale però molto mi amava. Mi salvò il pio e santo prof. Sichinallo, celebre latinista». Cfr. Poesie di Antonio Rossaro cit., p. 365. Lo scherzo è datato Rovigo - Seminario vescovile, 18 aprile 1910. Fa eccezione in verità una composizione del 1898 (Addio mia scuola) dove Rossaro cita il «sacro tricolor». Canzoniere cit., p. 124. Cfr. Al Messaggero, nuovo giornale di Rovereto, in Canzoniere cit., pp. 92-94. Canzoniere cit., pp. 402-405. L’ultima poesia, Sulla tomba di Arsenio Lacorte, porta la data 1951, mentre Rossaro muore l’anno successivo.

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cuni sono usciti, per dirla, con fede mussoliniana, “gobbi”, che colpa hanno essi? Se feci qualche lieve modiicazione questa la riservai a certe poesie stampate, che nel ricopiarle migliorai in qualche parole e in qualche verso. Così essi formano per me un caro recesso, in cui è raccolta gran parte del mio passato, con tutti i suoi sogni e con tutte le sue tempeste, e in queste pagine mi rivedrò rilesso in tutte le fasi della mia vita multiforme, direi quasi multanime, perché godetti la natura e l’umanità, attraverso gioie e dolori, nelle loro varie espressioni»61.

Alcuni articoli sempre segnalati nella bibliograia del Chiocchetti fra il 1907 e la ine del 1913 sembrano meno incisivi, anche perché destinati a “Il Trentino”. I Pastelli Autunnali o le impressioni di Maggio, pubblicati dal giornale cattolico di Trento si conigurano perlopiù alla stregua di schizzi impressionistici, altri risultano contributi di taglio religioso, come la Resurrectio composta in occasione della Pasqua del 1908, il Natale nella letteratura, ancora del 1908, o La poesia della Bibbia dell’anno successivo. Anche qui qualche scritto è però politicamente più esposto: l’articolo del febbraio 1909 intitolato L’Avemmaria di Giosuè Carducci62, ad esempio, dove l’autore non nasconde l’ammirazione per il personaggio da poco scomparso, prevedendo che l’avvenire avrebbe proiettato «nuova luce sull’idea e sui sentimenti cristiani» del poeta toscano. Si sofferma in particolare sul signiicato della preghiera comparsa sul giornale “Italia” a vantaggio del restauro della storica chiesetta di Polenta, ma non è dificile notare l’intenzione di abilitare il poeta laico agli occhi della gerarchia cattolica. Sempre “Il Trentino”, nel novembre 1912, pubblica un altro contributo interessante, allorché da più di un anno Antonio Rossaro è stato consacrato sacerdote e inviato «in esilio» a Ceneselli come cappellano, «in seguito ad una serata irridentata e irredentista»63. (Lo troviamo poi in qualità di «addetto al Collegio dell’Angelo Custode di Rovigo», e più tardi insegnante presso il Liceo-ginnasio della stessa città)64. L’articolo del 1912 tocca questa volta temi di61 62 63

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Canzoniere cit., pp. 8-11. A. rossaro, L’Avemmaria di Giosuè Carducci, in “Il Trentino”, 27 febbraio 1909. Questo quanto scrive Rossaro in calce al Notturno XI: «composto nell’esilio, a Ceneselli, nella Pasqua del 1915». Un altra poesia A Ceneselli viene invece accompagnata da questa nota: «Il 24 aprile 1912, vigilia dell’inaugurazione del Campanile di Venezia, la banda di Ceneselli, ov’ero cappellano, tenne un applauditissimo concerto in Piazza San Marco, al quale ero pur presente io. Al suo trionfale ritorno, vi fu omaggiata questa ode. Il nome latino di Ceneselli è Cenesia». Cfr. Canzoniere cit., pp. 460-461 e 497. Adriano Mazzetti segnala don Rossaro presso la parrocchia di Ceneselli, nell’Alto Polesine, a circa 50 chilometri da Rovigo proprio nel 1915. Cfr. Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi di Rovigo cit., p. 116. Così in dettaglio la scheda conservata presso la Diocesi di Rovigo, bs. 24.«Rossaro Antonio di Giuseppe e di Marini Giovanna, nato a Rovereto il 8 giugno 1888 [la data esatta è invece 1883]. Ordinato a Rovigo, Seminario, il 1 aprile 1911. Morto a Rovereto il 4 aprile 1952. Ufici esercitati in Diocesi: Vicario Coop. Ceneselli, 26 aprile 1911; Addetto Collegio Vesc, “Angelo Custode”, ott. 1913; Insegnante Ginnasio-Liceo Rovigo, 1916; Direttore “Il Popolo”, Adria. Curò la “Concordiana”; Assistette i feriti negli ospedali militari di Rovigo, Cantonazzo e Buso; Passato a Milano, Istituto Bognetti, 1921; Passato a Rovereto, Diocesi di Trento, Biblioteca Civica, 1922; Fondatore “Opera Campana dei Caduti” (Vedi “La Settimana, 2. 27 1973)». Devo questa segnalazione alla cortesia di Gabriele Antonioli.

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dattici e critica le antologie “passatiste”, «dall’abito tutto tarmato», invitando a considerare i nuovi sussidi e ad apprezzare un certo giornalismo. Dopo aver citato i nomi dei più valenti esponenti del tempo, riserva parole di elogio a Luigi Barzini, deinito «il vero scrittore del nostro secolo, il secolo del vapore, del telegrafo, dell’automobile. Dalla sua parola tutta a scatti netti, rapidi, nervosi come tanti colpi di telefono balza l’urlo di guerra, l’angoscia della sventura, l’inno della grandezza, il peana di vittoria». Lo scritto si dilunga con altre note che risentono evidentemente del linguaggio futurista e sembrano marcare un cambiamento di rotta rispetto ai contenuti del citato articolo su San Pio X di quattro anni prima, tanto da portarci a ribadire necessaria una ricerca più approfondita in merito a questo poliedrico personaggio, capace di iutare i tempi e di dare lezioni anche attraverso la pedagogia. «L’Italia è ancora lontanissima dal punto in cui è l’Inghilterra, dove ogni editore ha un suo riporto “per il piccolo mondo dei fanciulli”; e il Cuore del De Amicis, che pur ha già tanto palpitato all’unisono con quello di varie generazioni infantili, oggi incomincia a rallentare le sue pulsazioni», egli scrive in maniera ancora ambigua a conclusione del suo articolo65. Come ha documentato Antonello Nave66, a Rovigo il giovane prete si cimenta in iniziative culturali e sociali, che con l’avvicinarsi della guerra non faranno che accentuare il taglio irredentista del suo operato. Compare nel suo diario poetico, con la data 1909, la composizione Ad Adria: una serie di quartine dedicata a un fatto sacrilego che vede vittima il vescovo Pio Boggiani, «barbaramente assalito a furor di popolo» a Rovigo per aver voluto «adempiere un certo atto commessogli da Pio X», ovvero quello di annunciare la parziale autonomia della diocesi di Rovigo67. Cogliamo ancora in queste pagine «il palpito divino e patriottico» di Pasqua trentina, così l’ode A Carducci ed altro68. Sono inoltre del 1910 i quattro sonetti e un inno per il Collegio dell’Angelo Custode; risale allo stesso anno l’ode in onore dei Martiri di Beliore, che per opportunità politica uscirà dieci anni più tardi su “Alba Trentina”69. Data 1914 un contributo di ricerca su Cristina Roccati70, la celebrata intellettuale rodigina del Settecento, membro dell’Accademia dei Concordi e terza fra le donne italiane a conseguire la laurea; una igura che non poteva che rispecchiare l’ambiente illuminista roveretano dello stesso secolo, che Rossaro non 65 66 67

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A. rossaro, Scuola, antologie e giornalismo, in “Il Trentino”, 2 novembre 1912. A. nave, Irredentisti in Polesine, Antonio Rossaro, Giorgio Wenter Marini e l’Alba Trentina, in Studi Trentini di Scienze Storiche”, LXXXIII/4 (2004). Cfr. Canzoniere cit., pp. 414-417. Il 7 luglio 1909 con il decreto Ea semper fuit della Sacra Congregazione Concistoriale, la curia vescovile fu traslata da Adria a Rovigo. A seguito di questo trasferimento il popolo di Adria aggredì il vescovo Tommaso Pio Boggiani e contro la città di Adria fu scagliato un interdetto di quindici giorni. Cfr. La città di Adria, colpita dall’Interdetto, è privata dei Sacramenti e del suono delle campane, in “La Stampa”, 3 ottobre 1909. Per una trattazione più approfondita cfr. rondina, L’ultimo interdetto cit., pp. 50 ss. Alcune di queste poesie saranno poi pubblicate in “Alba Trentina” o in altre riviste. Tra queste Pasqua trentina. A. rossaro, Rovereto e i martiri di Beliore, in “Alba Trentina”, V/1 (1921). A. rossaro, Cristina Roccati e il suo tempo, Rovigo 1914.

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dimenticherà di celebrare nell’Accademia roveretana degli Agiati71. Da registrare ancora il Parzival, un breve e libero adattamento del lavoro wagneriano presentato per il carnevale del 1914 nel teatro del collegio rodigino, il cui libretto, con la copertina del cugino artista Giorgio Wenter72, sarà messo in vendita a favore della Croce Rossa. Sempre di Wenter sono le scene del Tannhäuser , la seconda opera ispirata a Wagner, che Rossaro mette in scena nel 1915 con la musica di Raffaele Malaspina73. Proprio in merito al Tannhäuser abbiamo un’interessante testimonianza che ci permette di andare alla fonte della composizione e di ricostruire le chiare posizioni di Rossaro e il clima che aleggiava nel Collegio dell’Angelo Custode durante il carnevale del 1915, ovvero nei giorni in cui l’Italia si trovava ancora per poco a vagare fra Scilla e Cariddi, fra la scelta della neutralità o dell’intervento in guerra. «Erano quelli, giorni densi di opache incertezze, di segrete e fosche forze prorompenti, di rossi entusiasmi quarantotteschi: giorni che oggi ci sembrano lontani, perché affatto staccati da questi, mediante la livida lacuna di questi tre anni di guerra, vissuti troppo intensamente, troppo passionalmente», rammenta lo stesso Rossaro. «Ed ecco che mirando a quel familiare trattenimento accademico, oggi lo vediamo in altra luce, e ci appare un punto, un momento, un episodio che raccoglie in sintesi la fragorosa vita di quei giorni, in cui due forze titaniche, il neutralismo e l’interventismo, scesero a duello fra loro. Si disse che il collegio è un piccolo mondo, e difatti in seno all’anima collettiva di un collegio germinano tutte le passioni buone e cattive, spumeggiano tutti i vizi e tutte le virtù, turbinano tutte le diverse correnti, in piccolo sì, ma non meno impetuose, che s’agitano fuori nel grande mondo. E nel Collegio dell’Angelo Custode, molinavano le due forti correnti del giorno: il neutralismo e l’interventismo. La preponderante delle due era senza dubbio questa ultima, sia per quello spirito di novità che brulica nel cervello e nel cuore dei giovani, in generale cupidi rerum novarum, sia perché esso si imperniava su due trentini che erano allora in quel Collegio, e precisamente il direttore di questa rivista e l’ing. Giorgio Wenter, il primo dei quali coi suoi versi e articoli, il secondo con le 71

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A. rossaro, L’Accademia degli Agiati di Rovereto, in “Alba Trentina”, II/1 (1918); id, Inaugurazione della Accademia degli Agiati, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920); id, L’Accademia degli Agiati all’Alba Trentina, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920). Giorgio Wenter, cugino di don Rossaro, per confermare la sua italianità, dopo la guerra prenderà anche il cognome della madre, ovvero Marini. Da qui Giorgio Wenter Marini. Come riporta Nave, nel corso della serata «fu presentata per la prima volta e messa in vendita anche la serie di dodici cartoline patriottiche intitolate Il Trentino durante la guerra, ideate ed incise su matrice in legno dallo stesso Giorgio Wenter in uno stile stringato e cupamente espressionista, che traduceva in immagine altrettanti distici appositamente composti da don Antonio Rossaro. Stampata a Rovigo in duemila esemplari dalla Tipograia sociale Editrice, la serie fu posta in vendita anche in altre occasioni di propaganda irredentista a sostegno dei profughi trentini del Polesine e per speciiche iniziative di propaganda bellica». A. nave, Irredentisti in Polesine cit., p. 509.

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sue vignette, facevano una sorda ma non sterile propaganda irredentista. Ogni anno in quel Collegio si teneva una grandiosa “accademia letteraria” in cui i giovani sfoggiavano tutto il patrimonio del loro sapere, dandole una tinta di attualità. L’anno precedente, precisamente nel 1914, furoreggiava nei teatri d’Italia il Parsifal; ebbene nell’elegante teatro del Collegio, si rappresentò, con sfarzo senza risparmi, un bozzetto drammatico di Antonio Rossaro, tolto dalla tavolozza di Wagner, e intitolato Parzival. In questo carnevale del 1915 invece si pensava di dare all’accademia una impronta del momento storico che si viveva, così ardua e non senza pericolo. Un’accademia puramente letteraria in quei giorni sarebbe apparsa un iore esotico; viceversa, dificile era concepire un’accademia patriottica senza che uscisse dalla neutralità e battesse in qualche banco di sabbia. La questione quindi era basata sul dilemma o “accademia letteraria” o “accademia patriottica”. A unanimità si scelse la seconda. Rimaneva da decidere l’impronta da dare all’accademia: se una semplice affermazione di nazionalità, o se uno spirito di irredentismo, o se un voto all’interventismo. Uno degli studenti più animosi e più autorevoli - il povero Enio Erani che oggi piangiamo caduto sul campo - prorompe in uno scatto focoso col noto verso dell’opera verdiana e grida: non echeggi che un sol grido guerra e morte allo stranier! I versi corrono di bocca in bocca, per risollevarsi nel solenne coro di Verdi che, cantato con ardente foga da cento voci, elettrizza d’un tratto l’ambiente già caldo di discussioni. Invano la campanella del Collegio chiamava all’ordine quella clamorosa balda gioventù. Quella sera si andò a letto come a Dio piacque, ma sotto le agitate coltri era un continuo cantare il motivo di Verdi».

L’accademia quindi viene issata per il giorno 11 febbraio con un programma che fra l’altro prevede gli Inni delle nazioni belligeranti, cantati nella lingua originale come saluto d’apertura, La nube nera di Zovi, La battaglia di Legnano di Verdi (orchestra), dove trabocca il marziale ritmato di “Viva l’Italia”; poi Guerra nella guerra di Cessi, Pasqua trentina, con i versi di Mazzuccato, nonché, in conclusione, il «Tannhäuser, dell’abate A. Rossaro, bozzetto drammatico in due quadri, chiuso dal coro dei pellegrini, tratto dal III atto dell’opera omonima di Wagner», l’autore che il sacerdote probabilmente ammira non solo per la musica e la ilosoia, ma anche per lo spirito rivoluzionario manifestato dal tedesco negli anni di metà Ottocento. Nel coro dei pellegrini Rossaro vede forse la sua Heimat, «i suoi dolci canti», la speranza di poter tornare in patria, magari la metafora della redenzione, che Tannhäuser riesce ad ottenere attraverso il sacriicio di Elisabeth, nonché l’allegoria del pastorale del ponteice privo di foglie, che a fronte del sacriicio riiorisce.

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Le prove cominciarono, don Rossaro «ne era il direttore generale e curava in particolare la parte letteraria», al professor Malaspina era riservata la parte musicale e a Giorgio Wenter «lo spirito dell’arte alemanna» nelle scene e nei costumi del Tannhäuser. In ogni luogo iorivano i ritornelli patriottici, riferisce la pagina. «Dovunque era un albeggiar di rosee speranze, dovunque un odor di polvere bellica». Lo stesso Rossaro, aveva pubblicato, proprio in quei giorni, e girava su foglietti volanti, una iammante poesia in cui c’erano strofe come questa: Afilate coltelli, o giovani gagliardi, E voi tessete, o vergini, i serici stendardi, Suore sacrate al suolo, preparate le bende, Come l’elmo d’un dio, su Trento il sol risplende74.

Intanto dalle diverse legazioni straniere a Roma, alle quali erano stati chiesti i relativi inni nazionali, giungevano le risposte, «che rivelavano fra le righe il fremito del momento». Rossaro elenca gli inni e le lettere accompagnatorie del Belgio, della Serbia, della Germania, della Russia, della Turchia, della Bulgaria, dell’Inghilterra. Poi l’accademia va in scena, l’11 febbraio del 1915 appunto, a pochi giorni dalla lettera in cui Giolitti riferendosi all’Italia aveva affermato che «potrebbe essere e non apparirebbe improbabile che nelle attuali condizioni dell’Europa, parecchio possa ottenersi senza una guerra». Il racconto di Rossaro va però in tutt’altra direzione, come le decisioni del ministro Sonnino. «Ogni numero del programma letterario suona uno squillo di guerra, Il Saluto era un anticipato messaggio alle terre irredente e le parole con le quali iniva: “sulle balze del Trentino - pianteremo il Tricolore - o Trieste del mio core ti verremo a liberar...” vennero accolte a volo da un gruppo di studenti annidati nelle logge e cantate da tutti gli astanti. [...] Del programma musicale la parte che toccò il diapason dell’entusiasmo fu quella degli inni delle nazioni belligeranti che vennero cantati successivamente. Ad ogni inno cadevano dall’alto, in un gaio turbinio multicolore, a decine a centinaia a migliaia bandieruole delle nazioni relative all’inno che si stava eseguendo, mentre il numeroso coro dei cantori, disposti a ventaglio sull’ampio palcoscenico, veniva investito da robusti proiettori che gettavano fasci di luce, secondo i colori delle bandieruole che cadevano dall’alto...» È così con la 74

Sono i versi che troviamo con piccole discordanze nella poesia Vigilia di guerra, composta da Rossaro allo scoppio del conlitto. «Rovigo. Verso il tramonto giunse la notizia dell’eccidio di Sarajevo», scrive l’autore in una nota in calce alla composizione. «In piazza Vittorio Emanuele fu fatto segno di una dimostrazione irredentista. “Oggi o mai”, mi gridò un tale, alludendo all’ora di redenzione. Entrato in collegio fui accolto dal lugubre “inno di Oberdan” e tosto, nella mia cameretta, composi questi versi. La poesia fu stampata nella primavera del ‘15 dal “Corriere del Polesine”». Cfr. Canzoniere cit., pp. 410-413.

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Marsigliese, con «inno eroico del Belgio», con quello «solenne» dell’Inghilterra, con quello «triste» della Russia. «Ad un tratto i colori della bandiera russa, che investono il proscenio, si mutano nelle fosche tinte del giallo nero. Tutti ascoltano, come assopiti da un lento canto di sirene. È il melanconico, eppur solenne inno imperiale dell’Austria. Gott erhalte, Gott beschütze / Unsern Kaiser, unser Land! Mächtig durch des Glaubens Stü / Schirmen wider jeden Feind! Innig bleibt mit Habsburgs Throne / Österreichs Geschick vereint!75 L’eco degli applausi coi quali il pubblico salutò l’inno russo, si risveglia in fragore di ischi, d’urli, di proteste, tra le quali continua quasi più grave, maestoso, liturgico, come accompagnasse una lugubre processione di innocenti martiri moventi alla forca, uno silare di tragiche bare asburgiche, che scesero alla tomba dei Cappuccini a vendicare orrendi delitti. Nessuno però può sottrarsi a quella tragica carezza della crudele parca danubiana, che tutti inisce per ammaliare e conquidere».

Rossaro si avvia poi a concludere scrivendo che una simile accoglienza venne riservata anche all’inno tedesco, mentre l’ambiente si galvanizza ancora al suono di quello italiano, che tutti cantavano dalla platea, dal palco e dalle logge. «È il trionfo novo d’Italia: e da un ampio vessillo tricolore sboccia un fanciullo vestito di giallo e d’azzurro, gli augurali colori di Trento»76. Una pagina densa, che si è voluto riportare in maniera prolissa in ragione dei suoi signiicati. Quelli del sacerdote che trama con una «sorda ma non sterile propaganda»; quelli del microcosmo rappresentato dal Collegio in cui egli opera, il luogo dove si rispecchiano le posizioni del mondo esterno, soprattutto quelle degli studenti, probabilmente anche loro attratti da L’Ora presente, il giornale interventista nato per iniziativa di alcuni universitari del Politecnico di Torino, dove trovano fra l’altro spazio i contributi accesi del veronese Camillo Pasti, di Paolo Marconi, Toni Vanzo, di Renzo Gallo; dei trentini Italo Lunelli e Giuseppe Piffer, dei roveretani Giulio Angeli, Mario Ceola e dello stesso Damiano Chiesa77. Come si vede l’entusiasmo è sopra le righe: la guerra è invocata come un evento 75

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Questa la traduzione della prima strofa. «Serbi Dio l’Austriaco Regno, Guardi il nostro Imperator / Nella fede gli è sostegno, / Regga noi con saggio amor! / Difendiamo il serto avito, / Che Gli adorna il regio crin; / Sempre d’Austria il soglio unito, / Sia d’Asburgo col destin!». Cfr. tiMo del leno [A. Rossaro], Un episodio dell’ora prima di guerra, in “Alba Trentina”, II/2 (1918), pp. 54-62. A. rossaro, La redazione de L’Ora presente e Camillo Pasti, ed. Valbonesi, Forlì 1918. “L’Ora presente” nacque per iniziativa di un gruppo di studenti interventisti del Politecnico di Torino che, dopo la dichiarazione uficiale di neutralità dell’Italia, pubblicata il 3 agosto 1914, decise di realizzare un giornale contro la neutralità italiana. Il primo numero uscì il 16 ottobre. Ideatore del giornale era Camillo Pasti. Il comitato centrale racco-

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desiderato anche da parte dei seminaristi e dei loro maestri sacerdoti, in una sorta di coesa celebrazione popolare e spirituale. Antonio Rossaro riporta la vicenda dopo tre anni di una guerra che nell’estate del 1917 il papa Benedetto XV aveva deinito «un’inutile strage», ma non si mostra ravveduto nelle sue posizioni. C’è da pensare che accentui se mai la sua prosa, forse addirittura reinventando alcuni aspetti dell’accaduto. Lo scopo evidentemente è quello di giustiicare il conlitto, di far vedere come l’entrata in guerra dell’Italia fosse voluta, reclamata anzi, da uno spaccato sociale eterogeneo che vorrebbe mostrarci come maggioranza, sicuramente come elemento «novatore» della nazione». Egli si rivolge prima di tutto ai giovani, invitandoli retoricamente ad afilare i coltelli; non dimentica però le vergini e le religiose, in una comunione di classe e di intenti che cerca forse di contrapporre ai malcontenti che serpeggiano per il prolungarsi delle ostilità. Rossaro ampliica dunque la sua voce, irma articoli su articoli, con il suo nome e con vari pseudonimi: Timo de Leno, Robur, l’arcadico Acesimo Miceneo, Leno Cenesia, Lagarino, Parvus e probabilmente altre sigle note e sconosciute. Con il suo nome nel 1916 pubblica anche due importanti volumi Trentino nostro78, nonché Il Trentino ai fanciulli d’Italia79, entrambi concepiti per diffondere a diversi livelli

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glieva i redattori Mario Giorgini, Sergio Ancona, Andrea Marsini, Odoacre Massena, Fausto Del Re e Damiano Chiesa. Il giornale costituì anche una redazione a Roma e il 28 novembre a Roma uscì un’edizione speciale. “L’Ora presente” veniva distribuita gratuitamente dagli studenti. La pubblicazione proseguì ino al 9 maggio 1915. Su questo argomento cfr. anche S. B. galli, L’interventismo studentesco e l’Ora presente, in Volontari italiani nella grande guerra, a cura di F. Rasera e C. Zadra, ed. Osiride, Rovereto 2008, pp. 147-166. A. rossaro, Trentino nostro, ed. Buffetti, Parma-Firenze 1916. Il volume viene segnalato nel primo numero di “Alba Trentina” (1917) nella rubrica Ciò che si deve leggere. Nei numeri successivi igurerà nella réclame posta solitamente in terza di copertina. Trentino nostro parte dalla descrizione della regione che racchiude «nei suoi brevi conini» molteplici bellezze. Ma il tutto è infarcito di nazionalismo. Ogni contrada è bella non solo perché è bella, ma perché italiana, latina, perché palpitante della vita meridionale. Per le strade si vedono quindi «operai e studenti fregiati di spille della Lega Nazionale, o di Garibaldi, o di Dante», i quali «passano cantarellando inni patriottici», mentre «dalle inestre, riboccanti di gerani e garofani in iore, la fanciulla guarda il cielo d’Italia che le si apre innanzi, e segue un vasto luminoso sogno». È poi «l’anima italiana» a rammentare che «nel Trentino – purtroppo poco conosciuto – su 386.437 abitanti dati al censimento del 1910, appena 13.477 sono tedeschi», ribadendo quindi l’etnia latina della popolazione. L’esposizione di Rossaro continua dicendo poi che l’Austria vorrebbe sfruttare le risorse energetiche, che l’emigrazione dipende dalla politica «dell’impero del Danubio», che l’autonomia può considerarsi «la iaccola sotto il moggio» che non ha saputo risplendere. L’università italiana è stata negata, il pangermanismo è invadente, la censura ha colpito il giornalismo ecc. A rifulgere è però la concordia dei partiti: cattolici, liberali e socialisti si stringono la mano davanti all’interesse supremo: l’italianità. L’irredentismo diventa quindi un atto necessario, proclamato da tutti, nei teatri e nelle strade, nell’attesa de «l’ora grande». A. rossaro, Il Trentino ai fanciulli d’Italia, diviso in quattro parti e con appendice su Alto Adige, Tip. Sociale Editrice, Rovigo 1917. Il volume viene segnalato per la prima volta nel terzo numero della prima annata (1917) di “Alba Trentina”. Il Trentino ai fanciulli d’Italia riprende in maniera più semplice quanto sostanzialmente detto in Trentino nostro. L’impostazione è la stessa: il paesaggio, la storia e la cultura italiane, i ridenti paesi italiani, le feste italiane, i cuori italiani, i torti dell’Austria, anche per quanto riguarda la crisi dell’agricoltura alla base dell’emigrazione. Dunque la giustezza dell’irredentismo e di una guerra che trova radici nel Risorgimento, un risorgimento popolare ricostruito a partire dal 1848, dalla Legione trentina, ilo conduttore di una storia di uomini che porta alla «guerra santa», alla bandiera tricolore con la scritta «religione e giustizia». Per questo hanno com-

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le caratteristiche geograiche, storiche e culturali della sua regione, non trascurando di mettere in mostra il sacriicio dei trentini prima e dopo la guerra80. «È un nutrito volume nel quale le più importanti questioni che si riallacciano alla bella regione italica, ormai prossima come non mai alla redenzione, sono lucidamente spiegate e discusse», riporta a proposito di Trentino nostro la réclame pubblicata per alcuni mesi su “Alba Trentina”; mentre in merito all’opera indirizzata ai fanciulli dice trattarsi di un «elegante volumetto, con copertina dell’ingegner Giorgio Wenter, e con riuscitissime illustrazioni»81. Ma non è inita. Dopo aver declinato nel 1915 un primo invito, Antonio Rossaro negli anni 1918-1920 presterà la sua opera come direttore presso la biblioteca dell’Accademia dei Concordi82, subentrando a don Luigi Fogolari, che aveva fra l’altro insegnato presso il seminario vescovile di Rovigo, lo stesso dove qualche anno più tardi studierà lo stesso Rossaro83. E proprio grazie a questi studi, a questi meriti Rossaro nel 1920 viene nominato cavaliere, mentre, come egli scriverà diversi anni dopo, a causa del suo «aperto atteggiamento d’italiano» non riuscì a fare carriera nel mondo ecclesiastico84. Altro si potrebbe dire in merito alla produzione di Rossaro in relazione agli anni della guerra. Oltre quanto citato, e al materiale ancora da registrare, resterebbero da esaminare

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battuto i «moschettieri trentini», Ergisto Bezzi, Filippo Manci, e Filippo Tranquillini, con le rosse camicie dei Mille. Con loro tanti altri, ino ai martiri dei primi anni di guerra: Damiano Chiesa, Cesare Battisti, Fabio Filzi; hanno inoltre sofferto i soldati trentini costretti dall’Austria a combattere in Galizia e le popolazioni evacuate dai loro paesi nel triste esodo del 1915. Trova poi spazio la questione dell’Alto Adige, «che è terra italiana, e l’Italia non solo può, ma deve volerla». Quinto Antonelli parla di un racconto in cui la guerra dei trentini appare in termini di «sacriicio salviico», di «martirio» voluto e accettato, di «sangue fecondo», di un immaginario «in cui giganteggiano questi montanari buoni e gentili, che partecipano “con tutta l’anima” ai lutti e alle gioie d’Italia». Cfr. Q. antonelli, Piccoli eroi. Bambini, ragazzi e guerra nei libri per l’infanzia, in “Annali del Museo storico italiano della guerra”, 4 (1995), pp. 74-75. Si veda alle note precedenti. «Questo libro, denso di un’irruenta fede irredentistica, gli procurò da parte dell’Austria una condanna che i giornali svizzeri si affrettarono a pubblicare». Così scrive “Il Gazzettino”, 9 aprile 1934. «Nell’estate 1818 fu assunto dal Consiglio Direttivo come aiuto il bravo sacerdote e fervente patriota trentino Antonio Rossaro, che riprese il riordinamento lasciato a mezzo dal povero Bonain e dispose le pubblicazioni patriottiche di Rovigo e provincia...». Nel fornire le sue credenziali Rossaro cita alcune pubblicazioni e si dice fondatore di “Alba Trentina” e socio, in dal 1813, dell’Accademia roveretana degli Agiati, e dal 1914 di quella dell’Arcadia di Roma. In “Memorie” n. 88. 1818 (IIc), n. 89, 1919, (IIa) prot. 84. Cit. in Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi di Rovigo cit. pp. 123-126. Cfr. Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi di Rovigo cit. p. 116. Su Luigi Fogolari (18351871), fratello della madre di Cesare Battisti, si veda anche tiMo del leno, La famiglia di Teresa De Fogolari. Madre di Cesare Battisti, in “Alba Trentina”, II/7-8 (1918), pp. 218-225. Antonio Rossaro detterà la dedica per la lapide che il 18 dicembre 1918 sarà collocata nell’Istituto. Cfr. tiMo del leno, Una lapide a don Luigi Fogolari, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920), pp. 36-37. «[...] Quando nel 1920 fui creato cavaliere, un vecchio sacerdote, pio e buono quanto mai, parlando col Vescovo di Rovigo, avanzò il dubbio ch’io fossi massone. Me lo disse, ridendo, lo stesso Vescovo. Però, dato questo mio aperto atteggiamento d’italiano, non feci mai carriera nel mondo ecclesiastico. Ma io, pur amando e rispettando tutti, tirai dritto...». Albo storico cit., 28 dicembre 1939.

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gli articoli nei giornali polesani85, nonché più in dettaglio quelli pubblicati ne “L’Avvenire d’Italia”, con il quale inizia a collaborare quando l’intervento dell’Italia è praticamente deciso. L’italianità nel Trentino è il titolo di uno dei primi, ma la serie continua con altri contributi militanti: I fucilati di Trento, La censura austriaca in Trentino, Il pangermanesimo e il Trentino, Il militarismo nel Trentino, Irredentismo Trentino e così via, in una collaborazione che arriverà ino al 191786, allorché Antonio Rossaro dà vita a un proprio mensile: “Alba Trentina”. Si tratta nel complesso di articoli che seguono un ragionamento espresso in altri scritti e nei citati due libri pubblicati in questi anni87. Il Trentino non può dirsi che italiano, per territorio e paesaggio, per storia ed etnia, per lingua e tradizioni, proclama in sintesi l’autore. L’Austria non ha voluto comprendere queste caratteristiche, prima negando le richieste autonomistiche, poi operando per sostenere i movimenti pangermanisti, togliendo il diritto dei trentini e degli istriani di avere una propria università, fortiicando il territorio e introducendo una «disciplina militare e poliziesca accompagnate da una censura semplicemente stupida»88. L’irredentismo trovava quindi la sua giustiicazione storica e culturale, e come tale andava sostenuto, anche per cercare di riparare gli errori passati, dell’Austria e degli stessi governi italiani. «L’irredentismo trentino, nel senso stretto della parola, sboccia a guisa d’un solitario e insanguinato iore il giorno in cui si compì l’unità d’Italia.(…) Da allora cominciò disperatamente quella lotta, diremo così, interna, o meglio di conservazione individuale, contro l’azione assorbente che già incominciava a svilupparsi in seno al germanesimo, lotta del resto che non doveva esplicare troppo apertamente, per non aggrovigliare la matassa della politica estera dell’Italia, la quale aveva bisogno d’una grande pace»89.

Il riferimento è chiaramente al Congresso di Berlino e alla Triplice, un’alleanza innaturale per il sacerdote trentino, che accusa le nazioni coinvolte di opportunismo. Per questo si è alzata la «folata d’irredentismo» che sofiò da Ancona a Trieste, da Trento a Firenze; per questo è nata la Lega Nazionale, hanno preso vita il movimento degli Studenti trentini, i convegni ciclistici e sportivi in genere, «le feste degli alpini battezzanti nel nome d’Italia qualche vergine cima, o qualche nuovo rifugio»; così le innocenti feste degli alberi, «che 85

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Adriano Mazzetti cita ad esempio “La Settimana Cattolica”, organo della diocesi di Adria e “Il Corriere del Polesine”, quotidiano di riferimento della vita civile locale. Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi cit., p. 118. Per un elenco più dettagliato cfr. ChioCChetti, Don Rossaro cit. pp. 28-29. Cfr. G. sala, Don Rossaro e la sua attività giornalistica negli anni 1915-16, “Atti del Congresso Nazionale di Storia del Giornalismo”, Trieste 1972, pp. 295-303. A. rossaro, La censura austriaca nel Trentino, in “L’Avvenire d’Italia”, 14 ottobre 1915. A. rossaro, Irredentismo trentino, in “L’Avvenire d’Italia”, 14 giugno 1915.

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“Alba Trentina”, Anno III, n. 1, 1919.

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se non avevano la nota battagliera dell’irredentismo, avevano quella caratteristica del nuovo nazionalismo che di quella, senza averne l’apparenza, era l’anima che mai doveva morire»90.

1.5. Antonio Rossaro e “Alba Trentina” “Alba Trentina” inizia a diffondere la sua voce da Rovigo nel gennaio 191791, praticamente quando il Collegio dell’Angelo Custode viene chiuso e trasformato in ospedale della Croce Rossa92. La rivista seguirà poi gli spostamenti del suo ideatore e direttore, ovvero lo stesso Rossaro: nel 1920 uscirà dunque per un breve periodo a Milano e nel 1921 a Rovereto, dove troverà ospitalità nella «sala rossa» del castello, il quale si appresta a consacrare la redenzione in qualità di museo della guerra93. La pubblicazione mensile, che ancora tramite il lavoro di Giorgio Wenter94 assume una veste graica ispirata ai motivi delle municipalità medievali, ha un nome e un programma che rilettono chiaramente la linea del suo ideatore e già dal primo numero mette in evidenza i temi che serviranno a interpretare la guerra e a codiicarne la memoria in una precisa direzione». Nell’alba, titola l’editoriale composto da Rossaro con una prosa retorica e nazionalista che non lascia margini a interpretazioni. 90 91

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Ibidem. “Alba Trentina”, esce mensilmente dalla redazione di Rovigo dal 1917 all’ottobre 1920. Direttore è Antonio Rossaro, gerente responsabile Sante Tassoni; la stampa è della tipograia Valbonesi di Forlì. Dal novembre 1920 al settembre 1921 la redazione del giornale viene spostata a Milano. La stampa è ancora della tipograia Valbonesi e il direttore è sempre Rossaro. Dall’ottobre 1921 al 1926 “Alba Trentina” esce invece a Rovereto, interrompendo comunque le pubblicazioni nel 1925 e pubblicando solo tre numeri nel 1926. Direttore è ancora Antonio Rossaro e lo stampatore Guido Rossaro di Sacco. Nella prima redazione troviamo Livio Gasperetti, Luigi Munari, Gino Buffa, Maria Gasperini (Nigritella), Nazzareno Angeletti, Giannino Tessaro, ai quali di volta in volta si afiancano altri collaboratori. A. nave, Irredentisti in Polesine cit., pp. 497-515. Il 1 gennaio 1917 Antonio Rossaro fonderà anche la “Famiglia trentina”, un’associazione fra gli «irredenti trentini» residenti nella città veneta, la quale si proponeva di mettere in comune «l’impellente bisogno d’un fraterno scambio d’idee e di mutui conforti nella grigia ora che passa. [...] Lieta poi di rappresentare così Rovigo, gentilissima fra le cento città d’Italia, il popolo trentino, la cui immutata fede costa il martirio di quest’ora». Ne fanno parte «gli irredenti» Antonio Rossaro di Rovereto, Livio Gasperetti di Malé, Luigi Munari di Cogolo, Gino Erba di Pieve Tesino e Giannino Tessaro, oriundo di Pieve Tesino. Cfr. L. Monari, La “Famiglia trentina” in Rovigo, in “Alba Trentina”, II/1 (gennaio 1918), pp. 24-28. Rossaro, in un articolo del 1919 relativo all’inaugurazione della bandiera, riporta che nel maggio 1916, per l’inaugurazione del monumento a Battisti, “Alba Trentina” dovette chiedere in prestito la bandiera tricolore del Collegio dell’Angelo Custode, allora chiuso per essere ospedale della Croce Rossa. Cfr. a. rossaro, Inaugurazione della bandiera di “Alba Trentina”, in “Alba Trentina”, III/11-12 (1919), p., 282. Nel 1921, dopo un anno trascorso a Milano a insegnare all’Istituto Bognetti, Rossaro tornerà deinitivamente a Rovereto. Per i rapporti fra Rossaro e Giorgio Wenter cfr. ancora nave, Irredentisti in Polesine cit.

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«La notte che fosca opprimeva da secoli il Trentino sta per dileguare nel fresco sospiro dell’alba nuova. I tremuli laghi, azzurre pupille dell’Alpi, si schiudono in una pompa di colli esultanti, sotto le snelle guglie nevate che brillano in un cielo d’opale. L’ultimo gendarme austriaco discende torvo e pensoso dal Castello di Trento, e segue l’aquila d’Asburgo, che per lunga pezza ne fece un covo insanguinato; sulla Verruca, ove splendé la gloria di Roma, muove l’alata Vittoria per dare ai venti il tricolore. Tutti i popoli hanno un destino segnato dalla natura, e tutti devono ad esso pervenire per quanta possa di forze esteriori ne contrasterà. Il popolo trentino tenne sempre puro il germe di Roma in mezzo a tanti cimenti, sotto l’azione denaturante d’un autocrazia straniera, bisogna pure convenire che un propizio nume vegliasse alle divine fonti dell’Adige sui destini dell’eletta Nazione. Il rito grande, luminoso, ieraticamente solenne che sta per compiersi; non è solo festa del Trentino, ma di tutta l’Italia, che in quell’estremo lembo di terra, fece un’ara cruenta, su cui immolò al suo radioso sogno di maggiore grandezza, la freschissima ioritura di questa sua terza primavera95. Ogni zolla del Trentino è sacra, e domani ogni zolla avrà onore di pianto e bianca letizia di iori. Nel rosso di tanto sangue, nel biancore di tanta fede, nel verde di tante gioie primaverili, l’alba risorge dal mare nostro fusa all’iride tricolore che splende, nitido arco di pace, sul dolorante Trentino. Ed è appunto nell’auspicio di tanta luce che la nostra modesta rivista, la quale nel trentino raccoglie il martirio, la fede, le speranze, si chiama alba trentina»96.

Si condensano dunque qui le inalità del sacerdote roveretano, il quale nelle pagine iniammate della sua creatura rivela in fondo se stesso, il suo modo di pensare la guerra, di forgiare la memoria della sua terra da redimere e redenta, di una nuova nazione. Antonio 95 96

La terza primavera viene dopo le prime due, quella romana e quella veneziana. Così il resto dell’editoriale: «Nei tenui veli dell’alba tramano paure di tragiche insonnie, e sfumano nella sua bianca luce i fantasmi ardenti di sogni: nell’alba sussultano i primi brividi della faticosa vita umana, e le speranze battono con gioiose rame in iore dai nostri cuori. E nella nostra rivista turbineranno appunto, in un convulso abbracciamento, le tristi paure e le fosche tragedie del passato, tante nostalgiche rimembranze, e lunghe gioie ineffabili. La nostra rivista, che durerà quanto l’alba di questa nuova era, raccoglierà, con dolce senso di pietà, tutto ciò che di bello, di toccante, di forte, potrà dare questa grande ora, unica nella storia trentina. Saranno cose di ieri, cose di domani, ma che tutte porteranno le sanguinose stigmate di questa nuova settimana santa, sacri giorni di passione, in cui il Trentino ha il suo cuore tutto a brandelli sanguinanti nel mondo. Scopo della nostra modesta rivista è riunirci e confortarci nel supremo ideale della nostra vicina resurrezione. È far conoscere a tutti il nostro Trentino. È preparargli dai fratelli del regno di ieri, quell’accoglienza generosa, calda, soave di cui la sua intemerata e rigogliosa italianità lo fece degno. Quando l’Italia giunta a Trento redenta, in faccia al glorioso Castello, eco lontana di Roma, di fronte al vetusto duomo, gloria epica dei Comuni, ai piedi di padre Dante, anticipato messaggio della più grande Italia, chiuderà il volume dei suoi destini, sigillandolo con l’impronta sotto l’arco Druso alle porte del Brennero, l’Alba Trentina compiuta la sua breve missione, si fonderà alla luce del nuovo giorno, lieta di aver gettato il suo seme nei giorni dell’angoscia per giorni della gloria. Rovigo, gennaio 1917». Cfr. “Alba Trentina”, I/1 (1917) pp. 1-2.

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“Alba Trentina”, Anno 1917. L’editoriale del primo numero.

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Rossaro descrive dunque il Trentino come ara cruenta, zolla sacra da onorare con il pianto e i iori della primavera che dovrà sorgere. Il covo insanguinato degli Asburgo deve essere conquistato alla gloria di Roma; è necessario sconiggere l’azione denaturante dell’autocrazia straniera, per celebrare la vittoria alata, insita nei destini della Nazione. I colori della bandiera italiana si fondono con il martirio e le virtù teologali: il rosso del sangue, il bianco della fede, il verde della speranza97. Solo allora potrà sorgere l’alba nuova e la pace promessa dal destino. Lo scritto continua ribadendo le inalità della rivista che il suo direttore dichiara di volere viva ino a che il giorno non venga a nascondere l’alba. Paragona la guerra alla settimana santa, ai giorni sacri della passione, nei quali Cristo compie il sacriicio della croce per risorgere e redimere l’umanità. Un’umanità trentina, romana e italiana, capace di spingere la redenzione in sotto l’arco di Druso, con un anticipo di tempi e di modalità che troveranno il modo di affermarsi alla ine del conlitto, con le conseguenze che conosciamo. Solo allora l’alba trentina avrà compiuta la sua missione, «lieta di aver gettato il suo seme nei giorni dell’angoscia pei giorni della gloria», conclude la pagina. Si è preferito segnalare in corsivo alcuni termini del bagaglio semiotico che caratterizza la predicazione debordante di Rossaro: un bagaglio che rivela la sua personalità, l’intreccio fra la politica e la religione, il misticismo sacro e profano, in un costrutto retorico che sarà per certi versi anche il linguaggio del fascismo. “Alba Trentina” nei due primi anni ha il compito di tenere alto il valore della guerra, della redenzione. Per questo si impegna in un’opera divulgativa e didattica, da condurre con diverse modalità. Giustiicando il conlitto prima di tutto; rendendo sacro il sacriicio laico e religioso dei “credenti” in armi, dei “martiri” in armi: Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi, prima di tutto, poi i soldati italiani sacriicatisi - non sacriicati - «sui fronti benedetti e insanguinati»; enfatizzando le «pagine gloriose» della guerra; segnalando le personalità e le istituzioni trentine antesignane dell’idea nazionale, gli episodi eclatanti del Risorgimento. «Ora o mai», proclama Robor nel numero inaugurale, richiamando l’appassionato articolo di Cesare Battisti pubblicato sul “Secolo d’Italia”, che considerando il Trentino una questione nazionale affermava: «O saremo redenti ora; o saremo dannati a sparire dalla Storia d’Italia»98. E Rossaro rincara: «Ieri bastava vincere, e a ciò era suficiente il Trentino, ottima piazzaforte di difesa per noi contro l’Austria; oggi bisogna stravincere, e non basta il Trentino, occorre qualche cosa di più: l’Alto Adige, o meglio il possesso 97 98

L’iridescente bandiera italiana sembra richiamare quella arcobaleno della pace, di una pace promessa dalla storia, si può dire, come nella citata rilessione che Rossaro fa in occasione del viaggio a Vienna. C. Battisti, Scritti politici, a cura di R. Monteleone. Introduzione di A. Galante Garrone, ed. La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 477 ss. Anche in S. B. galli, L’interventismo studentesco e l’”Ora presente” cit., p. 154.

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del Brennero, per il quale 72 volte scesero i barbari nel bel giardino d’Italia... I triplicisti si preoccupano di ciò che dirà la storia della rottura della Triplice da parte dell’Italia, e inorridiscono davanti alla requisitoria che Francesco Giuseppe fa nel suo famigerato proclama alle sue truppe al principio della guerra». Poi via una serie di argomenti per giustiicare la scelta di campo, per dire che l’Italia era stata trattata come una Cenerentola, che i trattati non erano stati violati, che si doveva ritornare al conine tracciato dalla natura ecc99. Su queste basi Rossaro dà quindi corpo alla costruzione della nuova mitologia cittadina, alla giustiicazione storica dell’irredentismo e della liberazione dal giogo straniero. Procede alla deinizione della parabola risorgimentale a partire dal 1848, mettendo in luce l’apporto degli uomini illustri e cercando di mostrare la partecipazione delle classi subalterne all’epopea patriottica. La rivista non perde poi occasione per far risaltare l’italianità della regione; ne loda l’arte e l’architettura, pubblica poesie e novelle patriottiche, indica le corrette letture da farsi, disegna quadri di guerra e di prigionia, si occupa della donna, di istruzione e di cultura, degli Alpinisti tridentini e degli Agiati, di archivistica e di letteratura, di toponomastica e di economia; mette in evidenza l’importanza del carbone bianco per lo sviluppo della regione, si fa carico di raccogliere sottoscrizioni per erigere monumenti, per restaurare ediici o chiese; non perde occasione per celebrare onoranze e ricorrenze e così oltre. A tenere banco in maniera martellante è senz’altro il culto dei martiri, celebrato con ogni maniera. Non c’è praticamente numero che non tratti del loro ardimento, evocato in termini di nemesi positiva, consacrato in mille scritti e nelle pietre da tramandare indelebili, per una memoria imperitura, come le radici del culto cristiano. Come i martiri del cristianesimo appunto, capaci con il loro sangue di sconiggere i pagani e di generare la chiesa. È un culto che nasce rapido, che non ha bisogno di aspettare il 1919, anche se ovviamente non poteva manifestarsi uficialmente inché la guerra era in corso, soprattutto, per ovvi motivi, in Trentino. Lo stesso Rossaro nel gennaio del 1917 dà comunque il via a una raccolta di fondi per realizzare un monumento, «che non conoscerà tramonti», come egli scrive, ai «due grandi martiri roveretani» Damiano Chiesa e Fabio Filzi100; mentre già nel 1916 aveva promosso a Rovigo la costruzione del primo monumento italiano a Cesare Battisti, inaugurato nel maggio dell’anno successivo101. Ma nella costruzione memoriale la rivista non dimentica di toccare altre corde. Lo fa ad esempio con Quadri di guerra e di prigionia, dove viene messo in risalto il destino dei 99 roBor [A. Rossaro], Ora o mai, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), pp. 30-33. 100 Cfr. “Alba Trentina”, I/1 (1917), pp. 28-29; I/II, p. 87. 101 Il busto marmoreo, murato sulla facciata di casa Negri, verrà eseguito dallo scultore Virgilio Milani. Cfr. in nave, Irredentisti in Polesine cit., p. 507.

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soldati trentini, «costretti» a combattere, morire o patire la cattività per una causa non propria sul fronte orientale (e in particolare in Galizia); lo ribadisce trattando diffusamente le tristi condizioni dei civili deportati a Katzenau e la sorte delle popolazioni evacuate in Austria, Moravia e Boemia102; lo ripete dando enfasi alla rubrica Sacre zolle trentine, nella quale elenca i profughi sepolti nei cimiteri di Braunau e Mitterndorf103. Lo proclama poi esaltando l’italianità di Rovereto e descrivendo il «martirio terribile» della città «sentinella d’Italia alle frontiere atesine, unico baluardo dell’Austria a mezzogiorno», la quale «sentì passare sopra le sue aperte piaghe tutto lo strazio della guerra»104. Allo stesso tempo sollecita un pronto risveglio, senza trascurare i beneici, anche economici, che avrebbero potuto derivare da una sollecita ripresa dei luoghi toccati dal conlitto105. Ma non è solo attraverso “Alba Trentina” che don Rossaro persegue il suo obiettivo. Altri sono gli scritti, molti i contatti con importanti personaggi dell’epoca che egli cerca di coinvolgere. Porta la data 1918 l’atto unico della commedia patriottica L’esploratore trentino, che «tra l’allegorico e il patetico»106 mette a confronto la igura di un profugo, troppo acerbo per prendere parte alla guerra, con quella di due disertori nascosti da una pastora della campagna polesana, i quali feriscono il giovane allo scopo di rubargli la posta che intende recapitare ai soldati. Anche qui la religione e la patria si mescolano nell’esplicita allegoria del sacriicio e del tempio. Il ragazzo ferito sente il canto della preghiera che proviene da una chiesa. Dalle vetrate assiste alla messa e al Sanctus «raccomanda al Dio degli eserciti, con iniammata parola d’amor patrio, la bandiera del suo reggimento; al Pater Noster invoca l’unità e la grandezza d’Italia; alla comunione dedica il suo sangue unito a quello di tutti i martiri della patria; alla benedizione si alza con uno sforzo estremo, poi si segna per ricadere in agonia»107. Si tratta di un frammento ripreso dal testo, peraltro anche questo scomparso nella sua interezza, forse non a caso, dove il Rossaro riversa l’iperbole dei suoi sentimenti, fagocitando un Dio tifoso dell’Italia e sacrando ogni goccia di sangue immolato all’altare del patriottismo. 102 Interessanti a questo proposito le testimonianze riferite dagli stessi protagonisti, così i lunghi elenchi dei deportati a Katzenau, degli internati nelle cosiddette “città di legno”, nonché i nomi dei profughi deceduti nelle varie località. 103 “Alba Trentina”, V/1 (1921), pp. 27-32. 104 «L’Austria ha consumato il suo delitto gettando in un ultimo sfogo di vendetta il pugnale nel cuore dell’indomita città... Mai, io credo, dopo l’invasione dei barbari medioevali, le nostre vallate rintronarono di tanti urli angosciosi e di tanti rumori strazianti; né mai le nostre paciiche cime, videro attraverso i secoli scene d’un esodo tragico». A. rossaro, Il martirio di Rovereto, in “Alba Trentina”, A. III/1 (1919), pp. 5-6. 105 «Una delle gite più gradevoli e interessanti per i forestieri che si recavano a Rovereto prima della guerra era senza dubbio quella di Castel Dante, intorno al quale i secoli hanno intessuto un’aureola di episodi e di fatti per cui rimane venerando ad ogni generazione» [...] Oggi Castel Dante ha assunto un’importanza maggiore: la guerra odierna, che infuriò intorno ad esso nell’offensiva del 1916, ha inciso su quell’unico rudere che ancor resta una pagina memoranda».tiMo del leno [a. rossaro], Castel Dante di Lizzana, in “Alba Trentina”, A. III/1 (1919), pp. 17-19. 106 nave, Irredentisti in Polesine cit., p. 509. 107 iris, L’esploratore trentino, recensione dell’opera di Rossaro in “Alba Trentina”, II/10 (ottobre 1918), pp. 174-175.

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Sono immagini che ricorrono con enfasi anche alla ine della guerra, quando Rovigo viene «invaso da un’onda di patrioti e di amici», pronti fra l’altro ad ascoltare il saluto del sacerdote alla Madre Italia e a Rovereto redenta108. Quando nel «salotto verde» di “Alba Trentina” venne deciso di solennizzare l’agognato giorno con una composizione che Rossaro accetta di comporre e di mettere in scena. Anima trentina, titola il dramma storico rapidamente scodellato nel teatro di Rovigo la sera del 19 gennaio 1919, davanti a un pubblico affollatissimo e «ancora vibrante dell’entusiasmo della vittoria» Il lavoro, mediocre a giudizio del suo stesso autore, venne replicato a Ferrara, e poi di nuovo a Rovigo «per la grande serata di gala in onore degli studenti dalmati» giunti in città a scopo di propaganda. «Il perno è una famiglia storica del Trentino, nella quale il padre ed il iglio presentano due correnti opposte: il primo tutto l’Austria, il secondo tutto l’Italia», apprendiamo dalla recensione pubblicata da “Alba Trentina”. Lo sfondo storico è quello risorgimentale, che va dal 1848 al 1866; i fatti risentono dell’esperienza mazziniana e garibaldina degli zii; i personaggi richiamano i nomi noti della causa nazionale: Giovanni Prati, Ergisto Bezzi, poi Filippo Manci, Damiano Cis, Giuseppe Canella, Eugenio Panizza, Vincenzo Andreis. Il copione per il resto è prevedibile e stereotipato. I cospiratori giurano la loro fede sul tricolore. Ma quando la fortuna sembra arridere, e la conquista di Trento appare vicina, ecco la resa comandata da Garibaldi, che obbliga il Trentino a «bere il calice amarissimo ino alla feccia. Ma il sangue dei martiri non germina invano», proclama uno dei protagonisti fra i lamenti dei presenti, scorgendo «il fulgor d’una lontana ma non dubbia aurora italica»109; quella che di fatto sorgerà nel 1918, con la ine della guerra. Quella che appunto sulla scena si celebra fra il tripudio di bandiere tricolori. Il motivo dell’attesa, delle radici e della loro germinazione è un refrain che troviamo di frequente sia nelle pagine di “Alba Trentina” che in altri articoli. Una sorta di immanenza storica, verrebbe da dire, sulla scorta della stessa ilosoia scolastica di Pio X che potrebbe rappresentare anche la chiave per interpretare fra l’altro due articoli che compaiono su “La lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera”. Nel primo, pubblicato ancora nel 1915, il Vannetti viene deinito «il primo poeta irredentista» del Trentino, la cui azione culturale costituisce appunto il seme dal quale nel tempo non mancheranno di maturare i frutti; nel secondo, del 1921, dedicato alle trentine condannate dall’Austria, il seme è 108 «Sulla torre di Rovereto, veneranda per secoli e per veneziane tradizioni, splende il tricolore intorno a cui aleggiano le anime di Vannetti, di Rosmini, di Chiesa e di Filzi, questi ultimi purpurei iori che adornano la sua bendata fronte. Nessuna cerimonia più memoranda e solenne di quella di oggi poteva, per me, proclamare Rovereto redenta; nessun tempio a me più grato, all’infuori della vostra storica piazza, poteva consacrare la sua redenzione; né io, modesto rappresentante della sua cittadinanza tribolata e dispersa potevo desiderare battesimo d’italianità più solenne». Cfr. in nave, Irredentisti in Polesine cit., p. 510. La «sera della Vittoria, 4 IX 1918», Rossaro compone anche la poesia Patria redenta, subito musicata da Riccardo Zandonai. Cfr. Canzoniere cit., p. 588. 109 pio ventero, La strana fortuna di Anima trentina, Dramma di A.R. in “Alba Trentina”, V/2 (febbraio 1921), pp. 49-60.

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costituito dalle «forti donne della vallate pronte al fraterno appello», che non solo seppero tessere il tricolore inviato nel 1866 a Garibaldi, ma che con la loro «feconda opera» diedero un contributo grandissimo alla patria italiana e alla redenzione110.

1.6. Il Dopoguerra C’è poi l’immediato dopoguerra, gli anni dell’Italia liberale che precede il fascismo, quelli che vedono il Trentino redento e in buona parte ingombro dalle macerie delle distruzioni. Rossaro non smette di costruire il suo ediicio. La sua azione sostanzialmente non muta, ora si tratta di alzare la casa sopra le fondamenta, ancora attraverso la parola e altri segni più forti. «Oh, memorande giornate del nostro riscatto» riporta “Alba Trentina” nello scritto che segue il proclama della vittoria. Il verso è voluto per richiamare una memoria da tramandare «a chi un giorno dovrà dir sospirando: “io non c’era”» come leggiamo nella poesia del Manzoni111; quando «spezzate le poderose linee d’acciaio che serravano le nostre deserte contrade, l’austriaco fuggì in rotta rifacendo le vie del Brennero, che poco prima calcò ebbro d’odio e d’orgoglio», come scrive invece il sacerdote112. Con la sua prosa eccessiva Rossaro spande dunque ancora retorica. Inneggia all’epilogo glorioso e ricorda i protomartiri trentini, ai quali, come solito, accomuna alcuni altri nomi legati alla piccola terra redenta. Alessandro Sartori, il primo volontario caduto, Ergisto Bezzi, il garibaldino, Riccardo Zandonai, il celebre compositore che aveva musicato e musicherà alcuni suoi versi113; poi i vivi e i morti del momento, Gianni Caproni, decorato a Milano per i meriti aviatori, Livio Marchetti e Maria Gasperini, ovvero Nigritella, la fedele redattrice di “Alba Trentina”114. Dopo l’ubriacatura della vittoria il tono della rivista sembra un poco cambiare, come l’agenda del suo direttore del resto, impegnato a dar corpo a una memoria più di monumenti 110 A. rossaro, Il primo poeta irredentista. in “La lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera”, n. 7 (1915). Id, Le ultime donne trentine condannate a morte dall’Austria, in “La lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera” n. 1 (gennaio 1921). 111 A. Manzoni, Marzo 1821. 112 A. rossaro, Alba Trentina!, in “Alba Trentina”, II/11-12, (1918), p. 381. 113 Fra le composizioni di Rossaro musicate da riCCardo zandonai troviamo Patria redenta (1918), Esulta Trento (1919), Dicono i morti (1923). Altre composizioni relative a opere di Antonio Rossaro portano i nomi di: raffaello Malaspina, Inno al Collegio Angelo Custode, 1910; ero Mariani, Inno alla Campana dei Caduti, 1925?; elia Marini, Inno di Rovereto ad Antonio Rosmini; Venite o lassi!, 1935; Il trasporto della Campana da Verona a Rovereto, 1940; Per la S.M. la regina Margherita “Cerimonia del Calendimaggio a Rovereto”, 1941; Per l’inaugurazione della lapide a S.E. mons. Ross in San Marco, 3 agosto 1941; Sia gloria a Fabio Filzi, 1936; tullio perin, Con poche note: iorita di canti per piccini, 1943. 114 Cfr. A. rossaro, In morte di Nigritella, (M. Gasperini), in “Alba Trentina”, II/9 (1918). Per Livio Marchetti morto il 17 novembre del 1918 si vedano i ricordi in “Alba Trentina”, II/11-12, (1918), pp. 426-429.

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che di parole115. Certo i temi sperimentati non cadono: i morti, gli eroi, i decorati, i soldati che hanno combattuto con l’Italia, gli episodi patriottici, gli scritti a sfavore dell’Austria ricevono ancora grande luce. Si misurano però in un orizzonte che guarda avanti, perché, come aveva già scritto nel suo programma, l’alba del Trentino potesse tramutarsi in aurora, poi nel nuovo giorno116. La rivista, che va ampliando la sua redazione, presta quindi attenzione al territorio, all’agricoltura, alle forze idriche, al turismo, ai beni artistici e archivistici, all’architettura, alle cooperative, alla inanza e così via117. Importante risulta l’opera di inventariazione delle spogliazioni compiute durante il conlitto, delle distruzioni o delle cose trasferite dall’Austria nei musei o in altre strutture lontane. “Alba Trentina” si fa ad esempio carico di segnalare le ruberie delle campane, elencando i bronzi asportati in città e più in breve in altre località del Trentino, indicando le loro caratteristiche, le date e le eventuali iscrizioni118. Sempre nell’ambito religioso, nell’anno che segna l’annessione uficiale del Trentino all’Italia119, la rivista prende l’iniziativa di regalare una nuova Pala per l’altare della chiesa di San Marco, così da rimpiazzare quella distrutta dalle armi120. È dell’estate 1920 anche la promozione del comitato che farà nascere il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, un’istituzione che trova ancora in Antonio Rossaro uno dei primi ideatori e protagonisti121. «Non si può immaginare una veduta panoramica di Rovereto. se non è dominata dal suo vecchio castello, riporta in effetti la rivista. Questo ne forma la caratteristica principale, come per Trento la torre di Augusto, per Riva la torre Apponale, per 115 «Il suo programma resta immutato: solo le sue speranze respirano più ampiamente sotto questo cielo così largo e bello», leggiamo in una pagina della rivista che con il 1 novembre 1920 annuncia il passaggio della redazione da Rovigo a Milano. Cfr. La nostra redazione a Milano, a irma della Direzione, in “Alba Trentina”, IV/11 (1920), pp. 253-254. 116 Si veda anche O. Brentari, L’Alba e l’Albo, in “Alba Trentina”, I/1 (1920), pp. 1-4. 117 Interessanti a questo proposito gli articoli dell’ingegner Lanzerotti, che dal 1919 intensiica la sua collaborazione alla rivista. 118 Ruberie austriache a Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/2 (1920), pp. 59-68; IV/3, pp. 103-111. 119 Cfr. G. tessaro, Annessione!, in “Alba Trentina”, IV/6-7 (1920), pp. 209-210. 120 lagarino, Una nostra iniziativa. Per la Pala di S. Marco alla città di Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/4-5, (1920), pp. 139-140; A. rossaro, Il nostro voto compiuto, La Pala di San Marco a Rovereto, in “Alba Trentina”, VI/4-5 (1922), pp. 120-130. 121 Il 23 agosto 1920 nel salone del municipio di Rovereto si organizzò un’assemblea composta da Gino Gerola, Paolo Orsi, G.G. Cobelli, Augusto Piscel e da altri. «Fu data la presidenza all’insigne archeologo Paolo Orsi. Il nostro direttore, don Antonio Rossaro, prese per primo la parola ringraziando gli intervenuti e spiegando il signiicato dell’adunanza. Entrando poi in argomento, egli rilevò la necessità di fondare con la massima sollecitudine un Museo di guerra, prima che la requisizione militare porti via il poco materiale che ancora vi rimane. Il Museo di guerra poi dovrebbe sorgere a Rovereto, la città più avanzata sulla linea del fronte, e quella che più di tutte per quattro interi anni sentì l’urto della guerra. Ciò premesso, asserì che l’unico luogo degno di accogliere questo museo era il Castello della città...». paCiri [A. rossaro?], Il museo di guerra nel Trentino, in “Alba Trentina”, IV/10, (1920) p. 247. Per una trattazione più generale si veda F. rasera, Il Museo della guerra di Rovereto. Da quale storia ripartire?, in “Annali del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto”, n. 3. (1994), pp. 25-53.

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Brescia il colle Cidneo [...] Il castello potrebbe accogliere un Museo patriottico, raccogliendo a quello scopo l’abbondante materiale ora custodito nelle famiglie... Chi può dire quali sorprese, quali pagine di storia patria stanno celate su quelle pareti imbiancate barbaramente di calce e rese fetenti dal tanfo delle pipe tedesche?»122

La rivista segue la questione, consapevole che il Museo avrebbe dovuto testimoniare l’unione della storia passata con quella della redenzione, rendendo monumentale il ricordo della guerra e della sua narrazione, come doveva esserlo il monumento di Trento a Dante Alighieri, al quale, nella ricorrenza anniversaria, Rossaro dedicava una sua monograia123. Timo del Leno detta i passaggi importanti di questa narrazione, con il consueto entusiasmo, con inventiva, con le solite pagine della rivista che dal novembre 1921 trova sede nella stanza rossa dello stesso castello roveretano124, peraltro simbolicamente riprodotto dal solito Wenter Marini nelle copertine che caratterizzano la quinta annata. Un capitolo importante a questo proposito è dato dalla visita dei reali nella Venezia Tridentina: «il suggello, si può dire l’epopea del risorgimento Trentino», secondo le parole del sacerdote, il quale riassume il percorso di questo risorgimento trentino «in tre grandi parti»: l’epoca della paziente e fedele preparazione, dal 1821 al 1848; il periodo dell’entusiasmo e delle delusioni, dal 1848 al 1896; poi, con l’inaugurazione del monumento a Dante, «il meraviglioso ciclo della guerra contro il pangermanesimo, dell’orribile martirio della nostra gente e della gloriosa redenzione che coronò secoli di sospiri e di attese. Tre fasi queste vive di passioni e di episodi, attraverso le quali la coscienza del nostro popolo si formò una e salda, e che saranno lo studio d’onde i nostri nipoti trarranno avvenimenti e vigore per l’avvenire. Quando nel tristo autunno del 1896, tutto il popolo trentino era ai piedi del suo Dante, eretto nella diluviale tempesta di quel giorno che tanto d’appresso riletteva quella morale che gravava la nostra terra, nessuno avrebbe potuto pensare che alle nozze d’argento di quel solenne rito quasi religioso, tutti sarebbero convenuti, sotto l’ampio bacio della vittoria, intorno ai Reali d’Italia consacranti la nostra redenzione»125. Non ci sono titubanze nelle parole del sacerdote: la presenza dei reali a Rovereto rappresenta il punto d’arrivo di una storia che parte un secolo prima, che attraversa l’Ottocento senza differenze di classe e di vedute, per giungere, con il sacriicio dei martiri, alla redenzione. In questo assioma il cammino del popolo verso la nazione in ieri appare dunque governato dall’evento escatologico, da un’etica provvisoria, come quella cristiana, che non pensa a organizzare ragionevolmente la vita sopra questa terra, ma vive nell’attesa della redenzione. Il tempo che intercorre tra la vittoria è il tempo dell’attesa, 122 123 124 125

A. Chini, Il castello di Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/12, (1920), p. 293. a. rossaro, Il monumento a Dante in Trento nel suo 25° anniversario, ed. Scotoni, Trento 1921. [A. rossaro], I Reali, l’Alba Trentina e la sua nuova sede, in “Alba Trentina”, V/11 (1921), pp. 251-253. tiMo del leno [A. Rossaro], La visita dei Reali nella Venezia tridentina, in “Alba Trentina”, V/11 (1921), pp. 260-265.

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della pazienza divina, di lotta, ma anche di grazia, inalmente celebrata - è ancora Rossaro a parlare - «in un’apoteosi di iori e di canti»126. Se volessimo seguire questo suggestivo percorso, si potrebbe metaforicamente dire che per mantenere e soprattutto per trasmettere imperituro lo stato di grazia, serviva anche qui una pentecoste; serviva rafforzare nella chiesa civile il credo della patria risorta, renderlo forte, capace di «nuove conquiste e nuove glorie», come direbbe Manzoni. Servivano i templi dove onorare la nuova religione. E uno di questi, il primo per importanza storica e grandezza, sarà benedetto proprio dal re e dalla regina, che dopo l’accoglienza in municipio «si recarono a inaugurare con la loro presenza il Museo storico della guerra»127. Se il fulcro dell’azione è Rovereto, Antonio Rossaro guarda però anche oltre, cercando di allargare il campo della sua azione al Trentino nel suo complesso. Alla Venezia Tridentina si dovrebbe dire per cogliere i termini della neonata provincia che aveva portato i suoi conini al Brennero. All’Alto Adige, nella fattispecie, «oggi oggetto di vivo interesse per la nazione», come leggiamo nella pagina che nel 1921 inaugura il quinto anno di Alba Trentina128. Si tratta in primo luogo di cancellare le tracce dell’Austria, per proporre l’intero territorio nella sua storicità latina. Per questo, recuperando alcune poesie pubblicate ancora nel corso del conlitto, il sacerdote cerca di ribadire la romanità di alcuni luoghi signiicativi del capoluogo regionale: gli ediici profani del Castello del Buonconsiglio e della Torre Verde, nonché quelli religiosi del Duomo e della chiesa di Sant’Apollinare; come a ripetere che le istituzioni civili e quelle religiose provenivano da una comune matrice culturale e civile, da tradizioni e da sensibilità artistiche non certo rapportabili al mondo tedesco. Per questo insiste nel ricordare le presenze di Dante in Trentino, non solo a proposito del monumento al poeta inaugurato nel 1896, ma promuovendo l’iscrizione alla «Ruina dantesca» nei pressi di Marco129 e con una serie di iniziative che “Alba Trentina” è pronta a cogliere e a divulgare130. Nella ricostruzione della nuova Rovereto, della 126 Ibidem. 127 Ibidem. 128 [a. rossaro], Alle soglie del V anno, in “Alba Trentina”, V/1 (1921), pp. 1-2. 129 Il monumento alla Ruina dantesca presso Marco, s.a., in “Alba Trentina”, V/12 (1921), pp. 291-298. 130 Più dificile risulta applicare questi criteri di italianità all’Alto Adige per giustiicare i nuovi conini e per rendere coerenti le argomentazioni messe da tempo in campo a sostegno di una guerra di redenzione. La scottante questione è affrontata dal sacerdote roveretano già prima della ine della guerra in un’ottica forzata, degno preludio alla italianizzazione opera del regime fascista. «La lingua, e con la lingua gli usi, i costumi, le leggende, le tradizioni italiane si perdono in una dolce sfumatura nella vita dell’Alto Adige gran parte italianissimo, poi in quella ladina, estrema reliquia della romanità ivi imperante, per morire poi languidante in un lembo di vita tedesca, non iore sbocciato al nostro sole latino, ma tisico iore esotico ivi portato dalla invadente furia nordica», aveva allora scritto Rossaro, portando a suffragio le asserzioni di Ettore Tolomei. «Ettore Tolomei, magniico assertore d’italianità a cui l’Alto Adige deve la rivendicazione di questo suo nome, dice: “Insieme coi 180.000 tedeschi vivono nell’Alto Adige 40.000 italiani, un quinto. Ma se consideriamo l’Alto Adige in unione al Trentino italianissimo, coi suoi 380.000 italiani compatti, allora l’intera nazione montuosa dell’Alto Adige, che conta 600.000 abitanti,

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sua nuova storia, dei suoi monumenti, Rossaro interagisce infatti costantemente con il passato e la loro migrazione simbolica, con le politiche e le sensibilità in atto; a volte le condiziona, in un sistema che non ha come movente soltanto la riduzione in positivo del trauma della guerra, ma tiene conto di un vissuto più largo, della rimodulazione di un trascorso da tramandare al futuro, in chiave diversa, per certi versi impossibile da controllare ino in fondo nella manipolazione attuata nel tempo. Il sacerdote roveretano può in ogni caso ritenersi il maggiore arteice di quella ricostruzione monumentale e simbolica che portò i territori della zona nera trentina, quella più toccata dagli eventi bellici, a una semantizzazione del paesaggio e della sovrastruttura culturale131, un’opera insuperata per dimensioni e simboli, forse in qualche modo paragonabile solo al patrimonio monumentale della chiesa cattolica132. La linea del fronte si presenta del resto come un immenso campo di cimeli e di reliquie da raccogliere per celebrare la redenzione e per onorare quanti avevano offerto il loro sacriicio alla Patria133. La ricostruzione della città distrutta dai bombardamenti doveva quindi procedere al passo con la ricostruzione della sua memoria, della sacralità di questa memoria e dei suoi luoghi di culto. Rossaro, uomo dalla veste sacra e profana, è senza dubbio al centro di questo processo, con le idee, gli scritti, le parole e l’azione diretta. Attorno alla sua persona si raccordano le nuove parabole culturali e le iniziative che rendono visibile la città all’interno e all’esterno. Quella che, per i trascorsi illuministici, veniva considerata l’Atene del Trentino assume in pochi anni la veste di città reliquiario, attraverso una trasformazione semiotica capace di proporsi in una veste sacrale alla nazione e per certi versi all’Europa. Il cambio è rapido e le iniziative messe in atto appaiono relativamente audei quali 420.000 italiani, risulta italiana quasi per tre quarti, quindi anche nazionalmente è nostro». roBor [A. rossaro], Ora o mai, in “Alba Trentina”, I/1, (1917), pp. 30-33. La rivista ritorna ancora su questo argomento con Giovanni Oberziner nel 1921, il quale confutando le tesi a favore di «una regione indivisibile», il Sudtirolo, dal Brennero alla Chiusa di Verona, esprimeva la sua ammirazione nei confronti di «uomini di alto ingegno», quali Ettore Tolomei, anche lui roveretano, nonché Antonio Renato Toniolo e Giuseppe Antonio Borghese i quali avevano fatto conoscere agli italiani «tutte le complesse ragioni etnograiche, geograiche, storiche e politiche, che conferiscono all’Italia il diritto, anzi costituiscono la imprescindibile necessità di issare saldamente il conine settentrionale alle Alpi Tridentine, al Brennero». Panzane «travolte dal rombo del cannone, che doveva proferire la giusta sentenza». G. oBerziner, L’Alto Adige e la Passione del Tirolo, in “Alba Trentina”, V/2 (1921), pp. 41-48. 131 Oltre al citato giudizio di Valentino Chiocchetti, si veda anche F. rasera, Don Rossaro e la memoria della sua città, in “ Annali del Museo storico italiano della guerra”, 1-2 (1993), pp. 264-265. 132 Uso questa terminologia consapevole della precarietà dei termini, i quali avrebbero bisogno di approfondimenti che non rientrano nelle mie inalità e competenze. Intendo dire che i segni che caratterizzano il territorio roveretano, come sicuramente altri luoghi, non possono essere disgiunti dal sistema culturale che li supporta e che al tempo stesso contribuiscono ad alimentare; un sistema che quando si codiica rischia di proporsi come dottrinale, così come i segni del sacro tendono alla loro dottrina, nel senso di una codiicazione non tanto scientiica ma catechistica. 133 «Al nostro ritorno in patria trovammo che tutto questo suolo della Val Lagarina, al piano ed al monte, nei nuclei di più intenso addensamento umano e nelle balze più deserte, era stato trasformato, perino in molti siti nella struttura del terreno, in un colossale Museo della guerra». a. pisCel, Il Museo della guerra nel Castello di Rovereto: come e perché è sorto, “Museo Storico Italiano della Guerra”, Rovereto 1926, pp.18-19.

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tonome dai poteri statali. Il Museo della Guerra, come abbiamo visto, viene inaugurato nel 1921, il cimitero di guerra di Castel Dante, che vedrà ancora promotore Rossaro, sarà consacrato nel primo dopoguerra134. È ancora di questi anni l’idea della Campana dei Caduti, l’opera alla quale Rossaro dedicherà buona parte delle sue energie, praticamente ino alla morte.

134 Per vedere realizzato l’Ossario monumentale che oggi svetta sulla Vallagarina ci sarà comunque bisogno di attendere l’intervento inanziario dello stato fascista, ovvero la metà degli anni Trenta.

Il Castello di Rovereto. Sul Torrione Malipiero si nota la Campana dei Caduti, 1926 (AFCCR).

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1.7. Verso il fascismo “Alba Trentina” intanto continua le sue pubblicazioni, anche se non mancano i chiari di luna. Eja eja alalà, proclama l’editoriale che apre il settimo anno. «Ci sia lecito salutare l’aurora del nuovo anno con questo augurale grido, col quale, non senza lieto auspicio, l’anno scorso abbiamo salutata un’era nuova. E l’era nuova è spuntata, all’ombra del fatidico fascio littorio, che Roma rediviva solleva, sopra le piccole e dilaniatrici lotte di parte, nel lume della vittoria, L’Alba Trentina, adunque, che fu sempre sopra e fuori d’ogni partito, esulta nella trionfale marcia del fascismo, perché in esso vede l’Italia nuova che sorge alla conquista del suo legittimo posto fra le grandi nazioni sorelle. È questa la via segnata dalla Provvidenza a questa nostra benedetta e diletta Italia, che unica depositaria della grande anima romana, fatta di equità e di magnanimità, è la più degna di amore e di rispetto tra le dominatrici del mondo. All’ombra adunque del fascio littorio, l’Alba Trentina saluta festosamente il suo settimo anno di vita. Essa è conscia dell’alta sua missione che è base al suo programma, come delle gravi dificoltà che troverà sul suo cammino. Ma tutto vince l’amore, e quel sacro amore alla nostra Patria, che nella sua onorata povertà, fu sempre l’unica sua ricchezza, l’animerà a tutti i cimenti, che specie quest’anno non mancheranno»135.

Dopo i giorni della guerra e della redenzione il percorso del sacerdote e dei suoi accoliti trova dunque esplicita convergenza in quello del fascismo, nel «fatidico fascio littorio» che riecheggia «i fatidici vati» verdiani, a conferma della saldatura che Rossaro ha da tempo teorizzato fra risorgimento e redenzione, una redenzione insita nella storia segnata dalla provvidenza, che si manifesta nella romanità rediviva, nell’Italia nuova, nel sacro amore per la Patria, nella trionfale marcia del fascismo, per riprendere alcuni tasselli verbali già sperimentati e ora più chiari. Abbiamo infatti più volte evidenziato i prodromi di questo percorso, sottolineando l’affabulazione sacra e profana, le parole d’ordine del patriottismo interventista, le posizioni radicali in riferimento all’Alto Adige, l’idea di preparare «un’Italia nuova per l’esercito che tornerà vittorioso» riecheggiata dal “Popolo d’Italia”, e dall’uomo che la provvidenza chiamerà a guidare i destini della nazione. La tematica della valorizzazione della guerra contro i sovversivi, gli ex neutralisti, i tiepidi, i disposti a rinunce sul piano della politica estera doveva coinvolgerlo, per così dire, «naturalmente», scrive lo stesso Rasera. «Il suo non fu un fascismo di comodo, un aggancio opportunista al carro del vincitore. Fu l’adesione motivata di un nazionalista “di conine”, che vedeva nel 135 [a. rossaro], “Alba Trentina”, VII/1-2 (1923), pp. 1-2.

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fascismo una continuità con i suoi ideali risorgimentali ed irredentisti, che vedeva in esso riconciliate fede e patria con i Patti Lateranensi, che si nutriva delle prospettive di una rinnovata universalità romana»136.

Se diamo credito allo stesso Mussolini, Rossaro ha del resto conosciuto il direttore del “Popolo d’Italia” nel periodo del suo soggiorno milanese137, forse ne ha seguito anche la parabola negli anni del primo dopoguerra, condividendo se non i passi più arditi almeno le idee che collimavano con le sue. Se è così, non si può certo pensare a una folgorazione, quanto piuttosto a una sintonia che in Rossaro trova appunto radici in una concezione della patria e della sua redenzione (non solo in riferimento al Trentino) maturata già prima della guerra e messa all’incasso allorché crede che con Mussolini e la monarchia l’Italia possa uscire dalle «torbide latebre», per erompere splendida «nel fulgor del sole», come egli scrive nell’ode augurale dedicata al futuro Duce138. Il 28 ottobre del 1922, data della marcia su Roma, è dunque visto come l’evento che segna il farsi dell’Era nuova, l’affermazione della vittoria «sopra le piccole e dilaniatrici lotte di parte», come appunto leggiamo nel manifesto del settimo numero della sua rivista. Si tratta dunque di costruire questa nuova era, di rendere sempre più solido il mito postumo della guerra, più volte evocato in queste pagine; si tratta di affermarlo nella sua visione monumentale, ormai benedetta dallo stesso fascismo. Il nuovo fronte è dunque aperto. Antonio Rossaro è pronto a impugnare le armi della cultura e della retorica, ridondante negli stilemi linguistici, ma sicuramente sottile nell’intrecciare simboli e signiicati. Già le copertine di questo settimo anno, sempre disegnate da Giorgio Wenter Marini, che ora si proclama «cittadino di Marco», mostrano quale sia l’impresa più onerosa alla quale da un paio d’anni sta lavorando il sacerdote: la Campana dei Caduti, che come vedremo nel capitolo successivo occuperà buona parte della sua esistenza. La rivista, che inizia a uscire ogni due mesi, ma che spesso interrompe le sue edizioni, dedica non poco spazio alla «sacra iniziativa» che «crescit eundo», come le onde che si «propagano per il mare nel moto e nel suono», leggiamo in una pagina dove si dà notizia delle offerte raccolte per realizzare «il sacro bronzo»139. Si tratta di un elenco davvero consistente ed eterogeneo, che di numero in numero diventa sempre più ricco, a signiicare che l’azione di Rossaro era debordata oltre i conini della sua terra, che il concetto di 136 rasera, Il prete dalla campana cit., pp. 21-22. 137 «Una persona molto familiare a Mussolini (il Dr. V.) parlando con me, mi disse, che, conversando un giorno con Mussolini, condusse il discorso sulla Campana dei Caduti, e appena fece il mio nome disse: “lo conosco - e conosco la sua italianità da quando dirigeva l’Alba Trentina a Milano (1920-21)”». In Albo storico cit., 22 novembre 1935. 138 A Mussolini, in Canzoniere cit. 139 “Alba Trentina”, VII/1-2 (1923), p. 24.

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morte redentrice era stato pressoché acquisito da buona parte della popolazione che aveva vissuto la guerra. Intanto “Alba Trentina” appunto balbetta, per gli impegni del suo direttore e perché in fondo aveva esaurito il suo scopo. Nel 1923 esce in soli tre numeri bimensili, poi sospende le pubblicazioni. Riprende nel febbraio dell’anno successivo, trattando ancora della Campana dei Caduti, il monumento «da lei sognato con ansiosa trepidazione nel suo vagabondaggio; da lei con lirico entusiasmo e profonda religiosità, pensato ed elaborato in ogni suo particolare, imprimendo in ogni goccia del suo mistico bronzo la propria anima»140. Ma l’ennesima affermazione retorica rimarrà soltanto numero dell’ottava annata, uno degli ultimi del resto. “Alba Trentina” infatti nel 1925 tace. Concluderà poi le sue edizioni con i primi tre numeri del 1926, quando da un anno la Campana ha iniziato a far sentire i suoi rintocchi di pace in Europa e in altre regioni del mondo141. Dopo dieci anni, la rivista ritiene evidentemente di aver concluso la sua missione e di lasciare il posto a un semplice almanacco annuale: “El Campanom”142.

1.8. Direttore della biblioteca Civica di Rovereto e cultore delle memorie patrie Nel novembre 1921 Antonio Rossaro viene nominato direttore della locale biblioteca. Un compito gravoso vista la situazione del dopoguerra, ma il sacerdote lo affronta con grande energia. Valentino Chiocchetti ha dedicato un capitolo al sacerdote direttore della Biblioteca Civica di Rovereto, elencandone le benemerenze in dai dificili esordi, allorché Rovereto non era risorta dalle sue rovine143. Rossaro si impegna prima di tutto a sorvegliare il trasporto e a ricollocare quasi 100.000 tra volumi, opuscoli e manoscritti rimossi durante la guerra, poi, come aveva fatto per la biblioteca dei Concordi, si industria a predisporne le schede in vista dell’apertura che avverrà alla ine di marzo del 1923, dopo 17 mesi di fatica. Nel frattempo si preoccupa di arricchire il patrimonio dell’istituzione, riuscendo 140 Ivi, VII/ 1-2, p. 1. “Alba Trentina” «entra nell’ottavo anno col presente numero, che mentre completa l’annata precedente, apre quella nuova, lusingandosi che i gentili e fedeli abbonati vorranno indulgere a tante sue manchevolezze, causate non da propria mala volontà, ma da un complesso di circostanze affatto esteriori», scrive Rossaro nell’editoriale che apre il 1924. 141 Si vedano a questo proposito la nutrita corrispondenza e la cospicua raccolta degli articoli di giornale, che vanno dall’Europa all’America, conservati in AFCCR. 142 “El Campanom” esce per la prima volta nel 1925. Così leggiamo in una réclame giornalistica. «È il piccolo almanacco popolare lanciato da “Alba Trentina”, di cui direttore è il comm. Don Antonio Rossaro. Il nuovo almanacco è di un grande interesse locale, per graziosi appunti storici; per belle illustrazioni; per opportune note scientiiche. Oltre il calendario, porta l’elenco delle iere e mercati del Trentino; le notizie dell’anno solare e civile; i numeri delle automobili. Interessante è l’elenco dei celebri paesaggi attraverso la Vallagarina. Il nuovo almanacco, che continuerà anche negli anni successivi, porta il nome “El Campanom”, simpatico e signiicativo titolo della Campana dei Caduti. Graziosissima è la copertina disegnata dal sig. arch. G. Tiella. Essa rappresenta la campana in una notte serena, coronata di stelle e di costellazione». “La libertà”, 24 dicembre 1925. 143 ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., pp. 23-25.

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ad acquisire importanti archivi privati: quello della Giurisdizione dei conti Lodron in un primo momento; in seguito i 10.000 volumi dei baroni Salvotti di Mori, l’archivio della Congregazione di Carità, la biblioteca dell’archeologo ed epigraista Federico Halbherr, l’archivio del barone Moll, quello del senatore Paolo Orsi, del dottor Alberto Tacchi e di altre importanti famiglie e personalità di Rovereto e dei dintorni144. Perino il re Vittorio Emanuele, in occasione di una sua visita alla Campana, donerà alla biblioteca il suo prezioso Corpus Nummorum Italicorum. E questo sicuramente ancora grazie al suo direttore145. Con il tempo il patrimonio dunque cresce. Rossaro continua nella sua incessante opera di recupero di libri e altri cimeli ino alla morte, facendosi collezionista, conservatore e divulgatore. Prosegue poi con le iniziative in merito alla ricostruzione monumentale di Rovereto, alle quali si è già fatto cenno: il Museo della Guerra, la Campana dei Caduti, l’Ossario di Castel Dante. Sappiamo inoltre che a lui si deve la raccolta di fondi per l’erezione del busto a Damiano Chiesa e Fabio Filzi, nonché l’iniziativa per fornire la Pala d’altare alla chiesa di San Marco. Chiocchetti cita anche l’impegno profuso per l’erezione del monumento a Damiano Chiesa nell’atrio del Liceo Ginnasio e per collocare sugli ediici storici della città le targhe in ricordo di alcuni cittadini o di celebri ospiti di passaggio a Rovereto: Giovanna Maria della Croce, Antonio Rosmini, Giorgio Rossi, Goethe, Mozart, Pio IV. Sono ancora frutto delle sue proposte la lapide con l’epigrafe per celebrare i roveretani caduti in guerra, la collocazione del busto di Eugenio di Savoia sulla facciata del Municipio, il monumento All’Alpino, il tabernacolo in onore di San Giorgio, a ricordo della guerra, collocato ai piedi della collina omonima. Pregna di signiicati appare la realizzazione del monumento alla regina Margherita146, la sovrana alla quale rimane fedele in un lungo percorso di ammirazione e rispetto. Già lo sappiamo dal racconto che fa a proposito della visita alla reggia di Stupinigi147; ne troviamo poi più volte conferma ne144 «È un po’ una tradizione di Rovereto che molti uomini di cultura lascino morendo le loro biblioteche, piccole e grandi, alla città, ma osservando attentamente i Registri degli Ingressi della Biblioteca, negli anni della direzione di don Rossaro, ci accorgiamo che le donazioni più consistenti vengono fatte dagli amici di don Rossaro stesso o da persone da lui appositamente e ripetutamente avvicinate allo scopo. [...] Si può affermare che nel periodo in cui fu Direttore, tra compere e donazioni, il patrimonio fu aumentato di circa 50.000 tra volumi e opuscoli. [...] Ma la sua passione di collezionista andava anche più in là. C’è nell’Archivio della Biblioteca una raccolta di testi e di quaderni scolastici dei secoli passati; ci sono migliaia di ricordi da morto; ci sono i timbri di varie epoche di quasi tutti i comuni e le parrocchie del Trentino; ci sono raccolti e disegnati da lui gli stemmi di quasi tutte le famiglie nobili trentine; ci sono centinaia e centinaia di fotograie di Rovereto e delle sue principali cerimonie; ci sono migliaia di carte d’identità di cittadini roveretani; ci sono cimeli rosminiani in genere...». ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 25. 145 Si veda anche A. rossaro. Il primo decennio di vita della Civica Biblioteca di Rovereto dopo la guerra: (19211931), in “Studi trentini di scienze storiche”. Trento. - A. 13, fasc. 4 (1932), pp. 281-290 146 Il busto alla Regina Madre venne inaugurato il 19 ottobre 1935. È dapprima collocato in un giardinetto in piazza Rosmini, poi nel piazzale delle Genti, sul bastione del Castello. Per notizie più approfondite cfr. AFCCR, bs. 22, “Busto Regina Margherita”. 147 Si veda quanto riportato nelle precedenti pagine dedicate al collegio torinese.

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gli appunti inediti, nei discorsi ufficiali148, nel suo libro postumo149, ma soprattutto allorché la Regina Madre è scelta come madrina per il battesimo della Campana dei Caduti, il 24 maggio 1925150. È in questa occasione che Rossaro innalza il suo più alto peana alla sovrana «mite e bella», giunta «dai romantici castelli sabaudi» per salire i bastioni del castello «propugnacolo della Serenissima, onde accedere più solennemente al rito del battesimo della Campana dei Caduti». Il «miracolo d’amore» fiorito «dal cuore dell’Umanità» e fuso nella «magna Campana», che sulla traccia di Artemisia151, «con l’oro delle Madri orbate, accolse nel fervescente bronzo il multiforme sacrificio della Guerra e fece del suo palpitante cuore il più degno monumento agli Eroi della nostra Epopea». C’è ancora molto, in questo discorso declamato con esperta oratoria davanti «all’Augusta Sovrana, a cui il cuore trapassò la fredda lama di una tragica vedovanza»152. C’è soprattutto da osservare la saldatura che egli compie fra la guerra e il sacrificio assunto come dono, la strategia di affermare la sacralità della morte eroica, umanamente consolata dalla figura femminile: un topos che per Rossaro diventerà fondamentale nel collegamento fra madre e figlio, fra la Campana e l’oro donato dalle madri «orbate»: private dei loro figli generosi, ma senza l’idea luttuosa della vuota fatalità, della perdita definitiva, del sacrificio vano. Quei figli avevano infatti dato vita a una nuova nazione, vivevano nei simboli della Campana stessa, nell’oro fuso nel bronzo e donato dalle madri, dalle spose, dalle sorelle, dalle figlie, consapevoli del sacrificio dei caduti per il bene comune. Anche la regina Margherita era stata privata del suo sposo, di Umberto, trafitto al cuore da fredda lama, e poteva dunque annoverarsi fra le prime donne ferite ed eroiche. Ma ancora più ardito appare il collegamento fra il Cristo e la Madonna, la Maria Dolens, il cui figlio, anche lui trafitto al cuore, era stato accolto nella pietà della madre dolente per essere pronto a risorgere, per rendere eterno il suo messaggio. Il messaggio della Campana forgiata dalla creta di Vittorio Veneto, dipinta come una «dolcissima donna che protende le braccia alle folle dell’avvenire» e dalle cui «piaghe disbocciano rose»153. 148 Cfr. A. rossaro, Nel decennio dalla morte della regina madre Margherita di Savoia madrina della campana dei caduti, ed. Grigoletti, Rovereto 1935. 149 rossaro La campana cit. 150 Cfr. rossaro, La Campana cit., p. 113. A questo proposito si veda anche il discorso pronunciato da Rossaro davanti alla regina in visita al castello. Ivi, pp. 114-116. 151 Così spiega Rossaro nel suo discorso: «Artemisia, volendo onorare gloriosamente il suo Eroe, lo fece cremare, e ne bevve dall’aureo nappo le ceneri, erigendoli nel proprio cuore un degno mausoleo». rossaro, La Campana cit., p.114. 152 Il riferimento è ovviamente al re Umberto I, assassinato il 29 luglio 1900 a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. L’episodio è ricordato da Rossaro anche in occasione della visita che nei primi anni del Novecento compie alla reggia di Stupinigi con i compagni di collegio. Si rimanda ancora alle pagine dedicate al collegio torinese. 153 Rossaro, La Campana cit., p. 114-115.

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La Regina Margherita, a ianco di Carlo Delcroix e di altre autorità, presenzia alle celebrazioni per il battesimo della Campana dei Caduti, 24 maggio 1925 (AFCCR).

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Don Rossaro con i funzionari della televisione e altri personaggi davanti alla Campana dei Caduti. In occasione della prima messa in onda del suono serale della Campana effettuata dall’EIAR nel 1930 (AFCCR).

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Dieci anni dopo, la cronaca dell’inaugurazione del monumento è sicuramente meno eficace di quanto appena citato, quasi a segnalare l’usura della Campana che nel 1937 dovrà in effetti essere rimossa e rifusa154. Rossaro racconta l’andamento della giornata del 19 ottobre 1935 nelle pagine de “El Campanom” del 1936. Riferisce delle tante adesioni, dell’opera gratuita dello scultore Giovanni Prini, della dedica a «Margherita di Savoia Regina d’Italia, idolo del suo popolo e Madrina della Campana dei Caduti», nonché dell’inaugurazione del monumento al suono della Marcia Reale di Giovinezza. A pronunciare il breve discorso è lo stesso Rossaro, davanti alle autorità e alla Dama di Palazzo di S.M. la Regina, Maria Miari, che a sbirciare fra le carte inedite del sacerdote viene ritenuta poco rappresentativa per una simile occasione155. La igura della regina ricorrerà comunque in altri scritti più tardi di Antonio Rossaro, come ad esempio in un dattiloscritto del 1947 approntato per la stampa, dove leggiamo che «l’augusta signora aleggia sempre sul cielo di Rovereto, intorno alla Campana, e Rovereto la rammenta quale fausta stella, nelle ore del suo servaggio, quando era “crimine” sventolare il tricolore e cantare l’Inno di Garibaldi, o gridare “Viva l’Italia” e il popolo roveretano si vendicava sfoggiando il ior campestre, la margherita, caro simbolo di Margherita di Savoia, e quindi della sospirata Italia!»156. È soprattutto dagli inediti di Rossaro che possiamo provare ad aggiungere ancora qualche tassello in merito alla igura del sacerdote roveretano. Dall’archivio personale, conservato presso la Fondazione Campana dei Caduti, emerge la sua opera soprattutto in favore del «sacro bronzo», che lo tiene praticamente impegnato ino alla morte. Le buste conservano infatti la vasta corrispondenza con molte personalità del suo tempo: semplici cittadini, autorità civili, religiose, militari e politiche, non solo italiane, ma internazionali. Abbiamo già accennato ai rapporti con la Casa Reale, ma molto resterebbe ancora da dire a questo proposito. Molteplici appaiono i contatti con ministri e sottosegretari del governo, con i politici della provincia e del comune di Rovereto. Altrettanto con le cancellerie europee, allo scopo di chiedere i cannoni per fondere la campana, per avere le dediche da incidere nel bronzo o le acque dei iumi per benedirla. Molti i contatti con gli artisti, le imprese, le fonderie, i carpentieri e i muratori. Interessanti i documenti che rivelano la modernità di Rossaro nel rapporto con i giornali, la radio, il cinema, il teatro, la fotograia: tutti mezzi utilizzati con intelligenza al suo scopo. Ormai cavaliere, commendatore, cappellano della Milizia, bibliotecario, poeta, giornalista e così via, il prete continua nella sua incessante opera di costruttore e divulgatore di memorie. Lo fa con fantasia, con una forza sorpren154 Per una storia generale della campana cfr. R. trinCo, M. sCudiero, La campana dei caduti: Maria Dolens, cento rintocchi per la pace, ed. La graica, Mori (Tn) 2000. 155 Cfr. A. rossaro, Il monumento alla regina Margherita Madrina della Campana dei Caduti, in “El Campanom”, IX (1936). Per le carte inedite si veda ancora AFCCR, bs. 22, “Busto Regina Margherita”. 156 Cfr. AFCCR, documenti 156-172. Il dattiloscritto di Antonio Rossaro non porta data ma è da riferirsi al 1947 e doveva probabilmente costituire la bozza inalizzata alla stampa del libro La campana cit.

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dente, utilizzando ogni risorsa, tessendo una grande rete di rapporti, mescolando storia e leggenda. Organizza pellegrinaggi; per diffondere in Italia e nel mondo la Campana scrive copioni per il cinema e la televisione; indice un concorso per musicarne l’Inno; raccoglie e compone poesie in italiano e nei vari dialetti; pronuncia discorsi e mette in piedi manifestazioni; organizza alcuni concorsi per le scuole157; inventa la fortunata igura delle madrine della Campana incaricate di rappresentare le diverse regioni e di raccogliere fondi e adesioni; costruisce il mito della madriCarla Dellabeffa, la madrina della campana (AFCCR). na per eccellenza scegliendo l’immagine di Carla Dellabeffa, una giovane ragazza morta prematuramente, alla quale consacra sembianze angeliche e scritti poetici, come si converrebbe ad una santa. È poi la volta delle cerimonie religiose e profane: del battesimo del bronzo con l’acqua dei iumi sacri alla patria e all’Europa, della benedizione dei vessilli sociali, delle campanelle marinare, delle gesta eclatanti, come quella di Umberto Nobile, che nella sua tragica impresa avrebbe dovuto far cadere sul Polo la bandiera d’Italia, la croce di Cristo e un conio della Campana. Un’attenzione particolare viene dedicata ai gruppi, alle famiglie, ai combattenti, alle donne, ma soprattutto alle madri e ai bambini, anche perché, come il sacerdote scrive, «le gloriose cerimonie, gli spettacolari rituali sono materia viva per le giovani generazioni e devono rimanere, il più possibile, impresse»158. È poi pronto a scrivere articoli per i giornali o a sollecitarne contributi autonomi, che crescono e si diffondono in un’area sempre più vasta. La Campana e il suo mito dilagano quindi nelle diverse regioni d’Italia e del mondo, ed è impressionante vedere come le parole mistiche della guerra e della pace, del sacriicio e degli eroi, delle sacre zolle e del sacro suono trovino ampia eco nella stampa delle grandi città e dei più piccoli centri159. 157 Fra questi i concorsi per il miglior Tema sulla campana dei caduti di Rovereto, per una novella e per una iaba. 158 «I fanciulli hanno diritto alle grandi emozioni della vita, anche perché essi sono i puri e autentici testimoni dell’avvenire. [...]. La storia, la verità, la realtà? … Oibò! Son ferri vecchi: il bambino non le curerà punto: egli plasmerà la materia prima a suo piacimento». rossaro, La campana cit., pp. 165-166. 159 Nei giornali raccolti da don Rossaro igurano decine e decine di testate: “Il Popolo d’Italia”, “La Tribuna” di Roma, “Il Giorno” di Napoli, “Il Corriere della Sera”, “Il Corriere di Sicilia”, il “Neusten Nachricten” di Monaco, “l’Idea” di San Paolo del Brasile, “l’Italien de France” di Parigi, il “Weltbild” di Vienna, il “New York Times”, tanto per fare alcune citazioni. Poi “l’Ossola”, “l’Italianità” di Vigevano, “Il Corriere dell’Irpinia”, il “Don Basilio” di Avellino o “l’Unione” di Caserta.

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Prelevamento dell’acqua del Danubbio per il battesimo della campana, 8 agosto 1928 (AFCCR).

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Fonderia Gavardini. Cerimonia di premiazione del “Concorso del tema tra le ‘quinte’ [classi] delle scuole di Verona, sopra la Campana dei Caduti”, 9 novembre 1939 (AFCCR).

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1.9. Verso la seconda guerra mondiale Per una storia più personale di Antonio Rossaro dopo il 1924 può essere ancora d’aiuto il citato “Albo storico della Campana dei Caduti”. Si tratta di pagine meno uficiali rispetto ai discorsi e agli scritti pubblici del sacerdote, capaci quindi di proporci il personaggio negli entusiasmi e nelle dificoltà, di fronte alle quali comunque non si arrende. Come ancora riporta Fabrizio Rasera, nelle annotazioni quotidiane si palesano i contrasti, le incertezze, le pene che si accompagnano a un attivismo che non si lascia mai scoraggiare. Per quanto riguarda i rapporti con le autorità cittadine e con l’opinione pubblica, si mostra spesso insofferente nei confronti della fauna di gerarchetti locali e in particolare degli uomini messi a capo del municipio e di un’opinione pubblica cittadina rappresentata come criticona e supericiale, incapace di essere all’altezza delle idee di grande respiro e le cui critiche gli «appaiono come le fatue e improduttive chiacchiere di quelli che chiama i “menarrosti” da caffè»160. L’immagine dell’autore che i due volumi manoscritti ci trasmettono è piuttosto quella di un cavaliere solitario che procede per la sua via a dispetto delle ostilità e delle insidie, come il Parzifal messo in scena a Rovigo161. Questo anche in relazione al clero tradizionale, anche se via via sostanzialmente orientato o quantomeno assai più tiepido verso il fascismo. Se come egli attesta la sua carriera ecclesiastica fu sbarrata a causa dell’eccessiva laicità delle idee, appare evidente che il rapporto con molte personalità della Chiesa non poteva essere stato idilliaco162. «Forse non era uno di quei sacerdoti che stanno eternamente inginocchiati davanti all’altare, ma partecipava sempre con grande amore alle solennità religiose della città e ricordo di averlo trovato molte volte in Biblioteca con il Rosario in mano e l’ho sentito parlare agli ammalati col cuore ed esortarli a fare della loro sofferenza un atto di offerta a Dio», riporta comunque Chiocchetti163. D’altro verso la sua igura di prete non sembra però ininluente, in quanto gli permette di essere un punto di riferimento, un elemento di mediazione all’interno di una comunità asimmetrica e ricca di tensioni. Il prete roveretano diventa infatti carismatico interlocutore di uomini, donne, bambini, umili e potenti. Non sappiamo in verità molto a questo proposito, ma è lecito pensare che il suo cristianesimo e l’insegnamento del suo maestro Murialdo possa aver fatto da paravento all’espressione di una cultura più alta, anche a proposito di un irredentismo che sappiamo soprattutto patrimonio degli studenti e delle classi sociali borghesi. 160 rasera, Il prete della campana cit., p. 25. 161 Cfr. Ibidem. 162 Si veda la pagina riportata nell’Albo storico del 28 dicembre 1939, nella quale Rossaro riferisce di essere stato considerato sempre «una pecorella nera, e dato il suo aperto atteggiamento d’italiano, non fece mai carriera nel mondo ecclesiastico». 163 ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 8.

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Per dire di più e meglio servirebbe sicuramente uno studio accurato di questi scritti personali. Già da una prima lettura se ne ricava comunque un quadro abbastanza deinito, dove l’uomo politico e il sacerdote si amalgamano con fare determinato, nelle piccole e grandi cose. Lo avvertiamo ad esempio anche nella tenacia con la quale porta avanti la sua azione anche dopo gli anni caldi dell’irredentismo, adattando le sue convinzioni al nuovo corso della politica del paese, rimodulando, senza tradimenti col passato, la costruzione di un nuovo corso della memoria attraverso una serie di iniziative collegate, fra le quali spicca la Campana dei Caduti. Dopo gli squilli delle diane armate, della guerra redentrice, della religione militante, la Campana diventa infatti lo strumento per rendere meno ruvida questa memoria, per riappaciicarla in un certo senso, pur nello spirito del fascismo e del suo Duce. Se formalmente Antonio Rossaro si impegna a non mescolare la Campana con le manifestazioni del regime, se in diverse occasioni denuncia l’invadenza delle istituzioni fasciste, è innegabile che buona parte della liturgia che accompagna ed esalta questa impresa sia profondamente impregnata dell’idea fascista, poiché queste in fondo sono le radici del sacerdote, perché questi sono in fondo i suoi sentimenti, anche se cercherà poi di attenuarli. A questo proposito si legge nell’Albo storico: «Cerimonia fascista, Anniversario della Milizia. Banchetto della Milizia all’Hotel Rovereto. Durante il banchetto mi viene consegnata la Medaglia del Decennio. Con me vengono decorati altri militi. Io dico alcune parole in questa falsariga. “Ringrazio a nome dei miei colleghi il signor Comandante (e altri) per aver voluto inventare la consegna della medaglia decennale nel rito dell’odierna celebrazione... La medaglia che ci fu consegnata ricorda che un decennio della nostra vita è piombato nel vuoto del tempo, ma noi siamo lieti ed orgogliosi che questo decennio sia vissuto sotto gli auspici del fascismo... Se questa medaglia è piccola di dimensioni, è però tanto vasta da comprendere nella sua limitata circonferenza la grande epopea che l’Italia maturò in questo decennio; il patto del Laterano, l’alba d’un impero, stupore e invidia del mondo, la guerra in corso, che aprirà nuovi orizzonti di gloria alla Patria nostra... Comandanti, a nome dei miei colleghi prometto solennemente che porteremo questa medaglia non solo con decoro, ma con quell’alta comprensione del dovere che ci porterà dove vuole il duce, dove vuole il re!»164.

Si tratta indubbiamente di un pronunciamento ancora stridente, quantomeno in rapporto all’idea di pace che doveva scaturire dalla campana, tanto da far dire a Rasera che «l’impresa coloniale fece perdere a Rossaro misura e senso delle distinzioni più che altra circostanza storica»165. 164 Albo storico cit., 1 febbraio 1938. 165 rasera, Il prete della campana cit., p. 26.

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D’altra parte in qui l’appoggio alla politica di Mussolini è chiaro, privo di incertezze, conclamato in occasione della proclamazione dell’Impero, che coincide con il 25° anniversario della sua consacrazione sacerdotale166, e perino alla vigilia della seconda guerra. Se Rossaro era stato estremamente fermo a non permettere di suonare la Campana al di fuori di quanto stabilito dallo Statuto, tanto da provocare nel 1928 il gustoso incidente con D’Annunzio e il suo manipolo di seguaci167, altrettanto non avviene il 10 maggio del 1936, quando sempre nell’Albo leggiamo che la Campana si era unita ai festeggiamenti dei cannoni con il suo centunesimo rintocco, simbolicamente più roboante di ogni sparo a salve. «La Campana dei Caduti celebra la fondazione dell’Impero d’Etiopia: è giusto che prenda parte a questo evento eccezionalissimo della Terra, che eresse e che ospita la sacra Campana. Le grandi città lo celebrano con 101 colpi di cannone. La Campana dei caduti ai 100 rituali rintocchi ne aggiunge uno, e così i 101 rintocchi li suona con un intervallo di 15-20 secondi ad ognuno, estendendone il suono per mezz’ora»168.

È una posizione che trova vigore nelle pagine più intime, quelle poetiche del suo Canzoniere, dove alle sanzioni delle nazioni europee, nel dicembre del 1935, risponde con le parole del Duce: con la poesia Perida Albione nella fattispecie169, che nella prosa grafiante mostra la dificoltà di far convivere l’idea di una pace universale con l’apologia del fascismo, il messaggio della Campana con il rancore nazionalista e l’avventura coloniale, verso la quale, forte del suo Duce, «l’Italia move». 166 Si veda a questo proposito la dedica al Duce formulata in una pagina a stampa contenuta nell’Albo storico cit. «Duce, oggi celebrazione del mio Primo Giubileo Sacerdotale, elevata la mente alla maestà di Dio, reso il mio omaggio di devozione al Romano Ponteice, innalzo a Voi, o Duce d’Italia, il mio pensiero. Cinque lustri or sono, portavo all’altare il calice ricolmo di sospiri e di preghiere per i destini della Patria nostra; oggi, colmati i voti, lo sollevo traboccante di riconoscente esultanza a Dio Ottimo Massimo, in faccia all’Italia imperiale, quale Voi l’avete voluta...». 167 In una visita alla Campana, D’Annunzio aveva preteso che questa suonasse fuori dalle modalità stabilite dallo Statuto. Rossaro si era opposto con fermezza, provocando le ire del Comandante e un incidente che lo stesso Rossaro comunicherà con indignazione alla stampa e perino al Duce. Albo storico cit.18 e 20 marzo 1928. Anche rossaro, La campana cit., pp.138-142. 168 Albo storico cit., 10 maggio 1936. L’episodio è tatticamente taciuto da Rossaro nel libro edito nel 1952 da Ciarrocca. 169 Perida Albione in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., 14 dicembre 1935. «Perida Albione!... Sotto ciel sinistro / Privo di Voli e povero di stelle, / Guati, ghignando, tra le sacca d’oro / Grondanti sangue. / Freddo il tuo bieco sguardo onde non vedi, / spento il tuo duro cuore onde non senti, / Parca spettrale vastamente estendi / L’ingorda mano. / Non te l’Italia invidia, che da Roma / Prima ti diè solenni leggi ed are / E innovator di nuovi tempi in Cristo, / Sant’Agostino; [...] Perida Albione, vedi or tu l’Italia? / lieta di sole, tra le sue bandiere, / All’ombra delle spade e tra i suoi canti, /È tutta in piedi! / Romban, ovunque, ignivomi cannoni; / solcan l’azzurro liberi biplani; / dall’ardue torri cantan per galloria / Trombe e campane. / Se tu hai l’oro, noi abbiamo un cuore / spumeggiante di sangue e di canzoni. / Se tu hai ciminiere, noi abbiamo / Potente, un Duce. / Il Duce, che balzato dalle stirpi / Sotto gli archi dei Cesari iorite, / Del... ha in sé la linfa e la vitale / Creta di Roma; / Il Duce, che solenne giganteggia / Fra le legioni dei suoi idi prodi, / E dei Caduti, che con sacro appello / Volle tra i vivi; [...] Plaudon le genti. I secoli futuri / Levan le spade; curvan le bandiere. /Perida Albione, inchinati: al trionfo / l’Italia move».

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Impregnato del suo irredentismo, e storicamente vicino alle posizioni della Francia, Rossaro non approva comunque il nuovo quadro di alleanze e non lo apprezzerà mai nemmeno in seguito170, tanto che 3 maggio 1938, al passaggio di Hitler da Rovereto, in viaggio per Roma, pur se invitato, deciderà di non recarsi alla stazione a salutarlo con le autorità e tante persone171. «Non ci vado, né come italiano, né come sacerdote: è una calata di barbari, in stile di lusso; è una presa di possesso, morale, dell’Italia», scrive nel suo Albo storico. «Credo che l’Asse Berlino-Roma sarà fonte di pentimenti e di dolori: omnia mala ab aquilone!»172 Antonio Rossaro vede infatti in questa nuova alleanza il tradimento della sua storia e di quella della Campana. Teme che questo possa preludere a un nuovo conlitto, come scrive alla ine di settembre del 1938, allorché, sulla scorta di quanto sta avvenendo in Germania, lamenta «l’ora fosca, lo spettro della guerra che rattrista tutti»173. Sembra dunque che qualcosa si incrini, che il compromesso che si trova costretto ad accettare sia troppo pesante. E lo dimostra, seppur subdolamente, allorché “dimentica” di fondere nella nuova Campana il cannone della Germania assieme a quello delle altre nazioni, facendo scoppiare un incidente diplomatico che andrà a infastidire non poco le autorità. Lo apprendiamo dalle lettere uficiali che intercorrono fra i protagonisti, in particolare da quelle con il prefetto di Verona, il quale cerca di smorzare le tensioni facendosi da tramite fra il governo italiano e l’ambasciata tedesca. Per questo Antonio Rossaro viene chiamato a rapporto, redarguito aspramente e invitato a giustiicarsi. «Il prefetto balzò su tutte le furie», leggiamo in una pagina dell’Albo storico. «Non si farà nessuna festa [di inaugurazione]... nessuna... e se si continuerà la manderò al conine. [...] Nella campana non si volle gettare il cannone germanico. Oggi siamo legati alla Germania. Bisogna star con la Germania. Occorre stringersi alla Germania. Questa è la via e non si parli della Campana dei Caduti. Basta! Basta!”. Tutti rimasero stupefatti - commenta Rossaro - tanto più che erano tutti i gloriosi veterani della guerra contro la Germania! Le loro ferite e le loro medaglie gridavano ancora contro il “nemico”!»174. 170 «Visita all’Ambasciata Francese. Ottima accoglienza», scrive infatti Rossaro nell’agosto 1939. «Richiamandosi ai sinistri tempi che corrono e alle tese relazioni della Francia con l’Italia, elogia il contegno nobile e superiore della Campana dei caduti. Deplora l’alleanza con la Germania, l’eterna nemica dell’Italia: “Mussolini ha fatto un rapido voltafaccia con la Francia; se avesse trattato direttamente con l’Ambasciatore, le questioni di Gibuti e di Tunisi sarebbero pienamente risolte». Albo storico cit., 14 agosto 1939. 171 Non così aveva fatto in occasione del passaggio del Duce, che aveva invece salutato con un «Evviva... che Dio lo conservi a lungo nell’amore del suo popolo - Ave Caesar...!» 172 «Mentre scrivo, si sprigiona per l’aria un lungo squillo di sirene: passa Hitler! Ci sono già delle barzellette satiriche. P.e. Hitler assiste alla grande rivista militare di Roma (ed è appena a Rovereto!); al momento del tanto atteso passo di parata (la prima volta che appare in pubblico), Mussolini chiede a Hitler: “Vi piace?” – “Veramente”, egli risponde, “non è questo il passo che desidero: è il Passo del Brennero!”». Albo storico cit., 3 maggio 1938. 173 «Trepidazione; rilassamento d’ogni iniziativa; regna in tutti un fatale scetticismo misto a un senso di terrore. In quest’ora grigia, fremente d’armi e di odi nel mondo, in queste condizioni d’un umanità tormentata ed esasperata, nel cuore della buona terra, madre di tutte le genti, sta formandosi, per nascere fra giorni, la buona, pia, la materna Campana dei Caduti». Albo storico cit., 28 settembre 1938. 174 Cfr. Albo storico cit., 26 ottobre 1938.

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In merito all’Italia comunque per ora non abbandona le sue idee, approva l’interevento di Mussolini al Convegno di Monaco175 e gioisce per l’incontro al Quirinale fra il papa e il re che si svolge il 28 dicembre 1939. «Con ciò dopo 10 anni di felice esperienza il Patto del Laterano viene felicemente suggellato. Io esulto nel Signore, perché vedo colmati i miei voti»176, scrive il sacerdote davanti a un traguardo sognato in dagli anni del collegio, ovvero la convergenza fra patria e religione, fra la monarchia e il papato. «Quanta strada si è fatta su questo campo dalla mia giovinezza, quando il nome d’Italia, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele, tanto sul mio collegio di Volvera di Torino, quanto sul mio seminario, a Rovigo, era sinonimo di “massoni”, di anticlericalismo, di eresia! A onor del vero, tanto nei superiori, quanto nei condiscepoli trovai sempre cuori buoni ed aperti; non ebbi mai un nemico; ebbi tutti cari e fui caro a tutti, ma nel campo del patriottismo eravamo sempre agli estremi, ed io ero segnato come un “prete nero”, come un ribelle, perché amavo apertamente, entusiasticamente l’Italia; ammiravo i grandi del Risorgimento; mi gloriavo di aver avuto zii garibaldini; odiavo l’Austria e il suo imperatore. Non sapevano concepire come io potevo essere uno zelante chierico, e poi sacerdote, e nello stesso tempo un ardente italiano... Oggi è la mia grande giornata: Dio sia benedetto!!!»177.

Il cordone ombelicale dunque resiste, in un’altalenare di posizioni per ora irrisolte. Rossaro ha sicuramente a cuore la sua Campana, che dopo gli anni ardenti delle celebrazioni patriottiche avrebbe dovuto portare un nuovo segno nella ricostruzione memoriale. Superati gli ardori del dopoguerra, avrebbe dovuto onorare non solo il sacriicio dell’Italia, ma di tutta l’Europa; del mondo intero, dei caduti di ogni nazione, senza distinzione di vinti e vincitori. Suonare dunque nel segno della pace: questo era il nuovo obiettivo del sacerdote, anche se con le non poche ombre che abbiamo intravisto. Rossaro si rende però conto che quanto stava accadendo andava contro questi propositi. Tenta per quanto possibile di mantenere la Campana separata dalla politica contingente; almeno lo afferma, ma forse non ne è capace ino in fondo, oppure non riesce ancora a sciogliere quell’ambiguità sottolineata dall’inizio di questo capitolo. Anche di fronte alla guerra che incalza non riesce a togliere di mezzo l’idea della «grande Era fascista».

175 «Oggi alle ore 9.30 è passato il Duce, reduce da Monaco. Vado alla stazione. Lo vedo, lo applaudo. Di ritorno rileggo il mio pensiero latino; lo trovo buono e conciso, e lo isso senz’altro per l’incisione della Campana dei Caduti. “Ave, cordis mei inclyta ilia! Gentes venturas saluta; hortare ut in Christo mitescant; saecula feliciora tuere”». Albo storico cit., 30 settembre 1938. 176 Cfr. Albo storico cit., 28 dicembre 1939. 177 Ibidem.

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«11.3.39. Per me è stato sempre un preoccupante assillo, l’assenza assoluta dalla Campana, di un segno fascista. È vero: la Campana dei Caduti è sopra e fuori di ogni contingenza politica, ma non si può, in un’Italia fascista, ignorare la grande «Era fascista”. In in dai conti la Campana dei Caduti fu ideata, e l’idea crebbe, si maturò, venne realizzata in pieno ambiente fascista; dal Governo fascista ebbe larghi favori: cannoni, metallo, protezione; dal Partito fascista ebbe il più grande dono: “nessuna noia, piena libertà d’azione”, mentre ogni, anche piccola iniziativa è soggetta a limitazioni, controlli, imposizioni. Tutto questo non devo ignorarlo; anzi devo ricordarlo a me e a tutti. Più volte venni amichevolmente consigliato, da intimi, di collocare in qualche onorevole posto della Campana dei Caduti “il fascio”; e ci fu chi consigliò un gruppo di fasci littori al posto delle aquile; altri un motivo di “fasci littori” sulla fascia inferiore della Campana; altri ancora il “Cristo” e la “Madonna” entro un elegante motivo fra due fasci. No. - La Campana dei Caduti, pur perennemente grata al Fascismo, non può, ne deve, né vuol essere fascista. Fu sempre, e sempre sarà sopra e fuori di ogni contingenza politica! Eppure questa storica epoca, creata e dominata dal Fascismo, non può essere ignorata, anzi la ricorderò nella Campana dei Caduti. L’epoca della rifusione, ottobre 1938-aprile 1939 sarà ricordata da tre medaglie che ricorderanno le tre grandi epoche che furono toccate da questo spazio di tempo: il pontiicato di Pio XI (...), l’altra del presente Pio XII. Così la data della fusione della Campana dei Caduti: 10 ottobre 1924, sarà ricordata da una medaglia fascista di quell’anno: piccolo segno d’un immensa epoca. Quella medaglia, pur ricordando una data (1924, l’anno della fusione della Campana dei Caduti), pure essendo di modesta dimensione, per l’altissimo suo signiicato vale più che un abituale motivo di “fasci”; più di una occasionale dicitura. In tal modo la “medaglia fascista” si risolve in un doveroso omaggio al Fascismo, con la nobile funzione d’un documento storico; non in un’antipatica etichetta di monopolio fascista, come potrebbero osservare e deplorare gli stranieri. [...] Con quella medaglia ricorderò come la Campana dei caduti venne fusa nella gloriosa alba del Fascismo, che, auspice il Duce, valorizzò il culto dei Caduti, elevandolo nella mistica luce della Fede»178.

Rossaro intanto si preoccupa per la sua creatura che ha bisogno di essere rifatta. Gira le stanze delle ambasciate per raccogliere adesioni e offerte. Riempie le pagine di appunti, incontra politici e religiosi, perino il papa, che lo riceve in udienza. Così, nel 1938, la nuova Maria Dolens viene rifusa con una cerimonia che sa d’inferno e d’altare; incensata dalle parole del «Cappellano fascista» fra gli evviva all’Italia179. Nemmeno di fronte al 178 Albo storico cit., 22 marzo 1939. 179 «Con cuore di sacerdote e con sensi di Cappellano fascista, saluto questo rito. Il luogo e l’ora del tempo e la dolce stagione non potevano essere più propizi a questa celebrazione. La terra che calpestiamo reca infatti le stigmate di Roma, e di sotto il piccone di questi validi maestri del bronzo, dal buio di venti secoli, balzarono, in questi giorni,

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fallimento della prova che spacca la creta dell’oficina veronese l’oficiante si arrende. La fusione si deve rifare, come il Perseo del Cellini180. E così si farà, tra altri discorsi. Ma non è questa sagra della retorica che mi interessa, quanto l’atteggiamento di Timo del Leno nei confronti del secondo conlitto che avvampa. Antonio Rossaro a questo proposito avverte l’incongruenza fra la sua missione e la brutalità del conlitto. «Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra», porta inciso il nuovo bronzo che attende di essere benedetto e ricollocato sul torrione del castello. Ma il monito di Pio XII suona nel deserto e al di là della scritta non riusciamo ancora a trovare nel sacerdote una presa di posizione netta, se non qualche parola di biasimo, anche ferma se guardiamo alle note del suo Albo storico, ma mai espressa pubblicamente. Intanto nell’aprile del 1939 l’Italia occupa l’Albania e quattro mesi dopo la Germania invade la Polonia. E mentre la Francia sta per cadere Rossaro è intento a rimuovere gli ostacoli e a organizzare minuziosamente l’arrivo della Campana a Rovereto181. «La Guerra continua a menar strage, nei paesi colpiti da tale lagello. Ho un senso di ripugnanza a pensare ad una celebrazione per la Campana dei Caduti; ma il Ministero la desidera, e per questo l’appoggio in pieno», egli scrive, ma poi giustiica. «Del resto il ritmo della vita, in Italia, continua indisturbato; basta leggere le cronache cinematograiche e sportive. Un austero e solenne richiamo ai sacriici degli Eroi non è inopportuno; anzi provvidenziale»182.

Don Rossaro china dunque la testa, anche se a conoscenza dell’imminente entrata in guerra dell’Italia. Ancora con ambiguità rispetto al suo abito talare, si mostra anzi convinto che il richiamo agli eroi possa servire a preparare il terreno «all’ora segnata dal destino» che batte nel cielo della patria, per dirla con il Duce. Alla ine di maggio del 1940 quella delle reliquie romane quasi a testimoniare la nobiltà del luogo di questo rude tempio. Mentre parlo, in questo capace forno ribolle il bronzo di 114 nazioni, e a guisa d’un’epica diana annunzia la grande epopea che canterà nei secoli; e come in questi giorni, nei rustici tini si fondono, nella gloria del vendemmiale, i rubicondi ai biondi grappoli delle vostre opime colline, così in un’unica iamma, cannoni di tutte le nazioni, ieri mostri di morte, oggi, auspice la nostra vittoria, araldi di giusta pace, si fondono in un sol canto per la gloria degli Eroi...». Così apre il suo discorso Antonio Rossaro per celebrare la fusione della campana. Cfr. dattiloscritto in Albo storico,12 ottobre 1938. 180 rossaro, La campana cit., pp. 217-223. 181 «Grande crisi nella preparazione: è improvvisamente chiamato sotto le armi il maestro dei Cori, prof. Grotta: con grande fatica riesco a sostituirlo col maestro Delorian; il Segretario Politico riiuta il suo ordine ai giovani componenti il Coro di frequentar le prove e di non mancare all’esecuzione; è richiamato sotto le armi il signor Patelli che ha la direzione degli “araldi d’asta”; la banda cittadina è sciolta, chi detiene gli istrumenti non vuol “mollarli” in che non è sciolta una certa vertenza; la prefettura non si decide a “issare” il programma, che muta ogni momento; non si può pubblicarlo, né si possono diramare gli inviti; l’oratore uficiale, Amilcare Rossi, non vuol mandare in iscritto la sua adesione deinitiva - pur avendola data più volte inequivocabilmente, a voce - per cui non oso lanciare il suo nome; è chiamato sotto le armi Lasta, che era a capo del “reparto lancio colombi”; è chiamato sotto le armi il cav. De Oliva, che aveva la direzione dei “cortei e delle cerimonie”; il Film luce ritira la sua adesione, così l’Eiar, così il Foto Metvan di Genova. È il caso di dire “Avanti Savoia!». Albo storico cit., 23 maggio 1940. 182 Albo storico cit., 16 maggio 1940.

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che doveva essere la Campana della pace compie così il suo cammino trionfante dalla fonderia Cavadini di Verona a Rovereto, mentre l’Europa «vive la grande tragedia»183. «Era presente tutta la Nazione nella più bella ed alta espressione: l’Esercito», scriverà convinto una decina di anni più tardi nelle sue pagine postume184. Poi, come sempre, la prosa trasuda ridondanze e rimandi guerrieri, «tra baci e benedizioni», nel solito intruglio di sacro e profano. Una sorta di «tragicommedia degli equivoci», scrive Rasera, «che varrebbe la pena di analizzare in uno studio a parte, come exemplum straordinario di tutta la vicenda della Campana e di tutte le sue contraddizioni»185. Anche del suo arteice a questo punto, visto quanto egli aggiunge a proposito di questa «tragicommedia». Rossaro racconta infatti prolisso e ridondante la festa allestita per l’arrivo in città. Cita l’Ordine di Malta, i mutilati, il gruppo delle medaglie d’oro, gli eroici protagonisti «di epiche gesta, gesta di terra, di cielo e di mare»; nomina le numerose personalità, gli addetti militari e delle ambasciate. E ancora l’esercito, in rappresentanza degli altri eserciti di tutti gli stati che presero parte alla guerra mondiale. Poi descrive la folla inneggiante, prodromo di quella di Piazza Venezia, pronta a gridare al Duce e alla corsa alle armi, due settimane più tardi. Intanto la Campana entra trionfale «da una selva di lucide baionette». Le scolaresche cittadine cantano gli inni predisposti dallo stesso sacerdote. Monsignor Rauzi, vescovo ausiliare di Trento inizia la messa, fra il salmodiare dei fraticelli di San Rocco e il rombo del cannone di Castel Dante. La prolusione è afidata «alla parola appassionata di Amilcare Rossi», combattente decorato della prima guerra, deputato fascista e presidente dell’Associazione Nazionale Combattenti, nella degna continuazione del discorso tenuto dal grande mutilato Delacroix alla inaugurazione della prima Campana, nel 1925: se un giorno la Campana «chiamerà a raccolta il popolo... non inviterà più alla preghiera, ma chiamerà alla guerra», e poi Rossi: «è l’ora di tutti gli italiani fervidamente invocata, l’ora nella quale la voce divina di Maria Dolens chiamerà tutto il popolo in armi attorno al suo condottiero»186. «Segni del tempo», riporta Rossaro a distanza di due lustri, «voci dell’ora che passa! Gli oratori vorrebbero tirare nell’intricata rete della politica del giorno “Maria Dolens”, ma la Campana tace, essa celebrerà gli eroi di ieri, di oggi, di domani, senza distinzione di campo, di luogo, di fede, e questo è degno di Roma e, avventuratamente per noi, solo di Roma! La Campana non li chiamerà mai alla guerra, ma alla pace! Sì, nell’aria c’è odor 183 Così scrive lo stesso Rossaro introducendo la giornata celebrativa del 26 maggio 1940. «La Campana del dolore e della gloria, delle lagrime e del sangue, della pace e della guerra, sembra che voglia vivere nelle sue epiche fasi i destini dell’umanità. Oggi, giorno di gloria per lei, vive la grande tragedia dell’ora: la tormenta bellica continua furiosa e cruenta. Calais è caduta dopo aspra lotta; l’armi nemiche premono su Dunkerque; i francesi hanno perduto 73 apparecchi. L’ecatombe di ambe le parti continua». Albo storico cit., 26 maggio 1940. 184 Il riferimento è naturalmente ancora a rossaro, La campana cit., p. 234. 185 rasera, Il prete della campana cit., p. 28. 186 rossaro, La campana cit., p. 239.

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di polvere..., e questo Maria Dolens lo sa e guarda teneramente a quell’immensa distesa di soldati che le fanno corona, ignari del loro destino ad essa ben noto»187. La nota, che trova ulteriore sviluppo nell’Albo storico188, viene probabilmente quasi due lustri dopo, ed è dificile stabilire quanto il tempo e la storia possano avere indotto Rossaro ad aggiustare il suo scritto189. Di fatto questi segni del tempo sembrano ancora rilettere il pensiero del sacerdote, schiacciato fra la fede nel fascismo e il simbolo di fratellanza della Campana, fra le sue idee vicine al regime e la “neutralità” afidata al bronzo rifuso. Fatto è che nel complesso la cronaca è una cronaca militare, che invano tenta di mascherare la guerra con la bimba madrina, con i «gli austeri sai dei monaci», con l’acqua sacra dei iumi delle nazioni insanguinate dal primo conlitto. Mentre i bagliori del secondo dramma bruciano il mondo, il sacerdote non riesce ancora ad allontanarsi dalle pagine retoriche. Parla del Danubio, della Marna, della Sava e della Drina, dei Laghi Masuri e del Baltico, della Vistola e dell’Yser, della Vojnsa e del Giordano, del Tigri e dell’Eufrate, del Tagliamento e del Leno. Del Piave, soprattutto, più sacro di tutti, perché sacro all’Italia190. La piazza peraltro è semivuota, ma per colpa della polizia troppo sospettosa. Ma nonostante la «ripugnanza» tardiva, il rito arriva soprattutto alla ine fra cori festanti delle scolaresche e delle milizie. «Dall’angolo della Piazza, mille colombi viaggiatori vengono lanciati nel cielo e l’arteice della Campana saluta le autorità «col saluto romano», leggiamo nella pagina trionfale dello stesso Rossaro191. Si potrebbe essere accusati di troppa severità con queste considerazioni. Le rilessioni del sacerdote in effetti possono lasciare margine a osservazioni di altro tipo, portarci a sottolineare lo scontento di Rossaro per la piega presa da eventi che in parte gli sfuggono. E forse 187 Ibidem. 188 Così la cronaca dell’Albo: «La sua orazione è più intonata al momento politico che si passa, che allo spirito della Campana dei Caduti», commenta Rossaro. «Anzi in certe frasi è discorde con questo. Anche il discorso di Delcroix, tenuto 15 anni prima, in simile occasione, cioè al primo inauguro ella Campana dei Caduti ebbe qualche frase discordante. Fortuna che il tempo è un immenso iume che passa, travolgendo nell’ampio mare dell’oblio ante inanità. Una sola cosa resta, e passa superba nel tempo: l’idea! – Lo squillo della Diana chiude la celebrazione dell’Impero della Campana dei Caduti. La celebrazione fu veramente solenne e pittoresca. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio, e anche questa celebrazione ebbe la sua parte negativa: l’assenza di pubblico! Per le vie, durante il Corteo, vuoto!... vuoto all’ingresso in Piazza Rosmini. Vuoto durante la celebrazione. Se non “vuoto” il vero senso della parola, certo non c’era il pubblico che si attendeva». La colpa viene data al segretario politico, che all’ultimo momento non invitò le organizzazioni perché non riteneva la cerimonia «una festa fascista», alla Pubblica Sicurezza che «per una settimana fece prendere rilievi e informazioni». Rossaro salva invece il Governo, il quale «inviò la rappresentanza di tutte le Armi». Albo storico cit., 26 maggio 1940. 189 Cfr. a questo proposito quanto scrivono i curatori del volume A. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 9. 190 rossaro, La campana cit., pp. 193-206. Per il battesimo della campana con le «acque storiche» dei iumi, il relativo discorso di Rossaro, e la minuziosa cronaca della cerimonia che termina con il volo dei colombi e il suono della «Diana» si veda Albo storico cit., 26 maggio 1940. 191 Albo storico cit., 26 maggio 1940.

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è anche così. In effetti non è facile inquadrare la sua igura, soprattutto in questi stridenti frangenti di vita. Bisogna però dire che nei fatti narrati non è soltanto la parola di Amilcare Rossi a chiamare alle armi, lasciando il prete al suo problematico pensare. La stessa pagina dell’Albo storico ci rivela che, non appena conclusa la prima parte della manifestazione in onore della Campana, il sacerdote si fa protagonista dell’inaugurazione del monumento all’Alpino, allineandosi chiaramente al clima di mobilitazione. Queste le sue parole: «L’Alpino ha una consegna: “sempre ascendere!” E la consegna nostra: “ascendere per le vie aspre e indiscutibili segnate in questa ora suprema dal Duce: “ascendere” all’ombra delle spade al comando del Re: ascendere alla conquista di nuove glorie, verso nuove civiltà»192.

La stessa decisione di non citare il messaggio del papa è una prova di questo atteggiamento da Giano bifronte, più attento a considerare la convenienza politica che la sostanza religiosa. Di fronte alla categorica proibizione del prefetto di non diffondere pubblicamente le «nobilissime» parole di Pio XII, afinché «quelli che già caddero preghino anch’essi, perché altre tombe non si schiudano ed altri ossari non si erigano, e né lagrime, né sangue bagnino ancora la terra d’Italia», il cappellano della Milizia tace. Tace «perché tra le due autorità: la civile rappresentata dal prefetto, anima squadrista e deciso a tutto, e l’ecclesiastica, rappresentata da S.A. il Principe Arcivescovo», tramite del messaggio papale, la scelta cade sulla prima. Don Rossaro si veste da don Abbondio, accampa una serie di giustiicazioni e tace, «lasciando la soluzione agli eventi»193. 192 Ibidem. «Ore 14. Inaugurazione del monumento all’Alpino. Presenti i Prefetti e le massime autorità della Provincia... Lo scrivente consegna il Monumento con queste brevi e quasi precise parole “Sono altamente onorato di consegnare a Voi, Signor Podestà, e per Voi alla Città di Rovereto, questo monumento all’Alpino, opera egregia del concittadino Carlo Fait, dono muniico del Cav. di Gran Croce Angelo Pelloni, qui presenti. Rovereto, città garibaldina, irredentista, fascista e città eminentemente alpina: e qui, tra l’Ossario di Castel Dante, luminosa tappa di luminose imprese e l’avito Castello sacrario di tante memorie, con a ianco il tormentato Zugna, in faccia al glorioso Pasubio, con ai piedi il verde Leno, che canta l’epiche gesta di grandi e di oscuri Eroi, l’Alpino si trova, in pieno a casa sua. Questo monumento però, non è uno aggiunto coreograico a questo splendido teatro di monti: l’Alpino ha una consegna: sempre ascendere! E la consegna nostra: ascendere per le vie aspre e indiscutibili segnate in questa ora suprema dal Duce: ascendere all’ombra delle spade al comando del Re: ascendere alla conquista di nuove glorie, verso nuove civiltà. Con questi propositi, Signor Podestà, consegno a Voi questo monumento. Voi consegnatelo ai igli di oggi per i igli di domani». Albo storico cit., 26 maggio 1940. Anche in rasera, Il prete della campana cit., p. 29. 193 Ibidem. «Mi trovai veramente tra Scilla e Cariddi. Decisi di tacere, e realmente tacqui - lasciando la soluzione agli eventi». Eppure prosegue Rossaro, erano «Parole nobilissime, degne del Santo Padre e intonatissime allo spirito della Campana dei Caduti, ma non intonatissime al momento politico in cui giunsero. Esse furono scritte in un clima politico affatto diverso, il 3 maggio: i cuori allora erano aperti alla speranza del “non intervento”; si poteva ancora discutere sull’atteggiamento dell’Italia, tra “l’asse e gli alleati”; era ancor consentito invocare la pace. Il messaggio pontiicio giunse invece alla Reggenza il 22 maggio, quando la Germania spingeva la sua cruenta marcia: quando l’Italia aveva ormai deciso la sua entrata in guerra, quando si doveva sostenere l’idea della “guerra”, in un popolo affatto contrario e sul quale la parola “pace” era un criminoso disfattismo. [...] Erano i giorni in cui veniva diffuso il discorso del Duce ai Gerarchi trentini (14.5.1940), in cui bolla quelli che preferiscono non battersi, quelli che pregano e fanno pregare per la pace e dichiara inevitabile che l’Italia intervenga. Questo era il clima del 22 maggio in

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Ma come si è detto il tono non è sempre questo. Bastano pochi giorni per una pagina che suona in contrasto alla guerra, anche se ancora non sappiamo se sia stata scritta in presa diretta. C’è poi l’accenno di una civiltà che sembra ancora manifestare il timore del sacerdote di dover assistere al tramonto di un’epoca per la quale aveva lavorato e creduto, nel segno di una rinascita appunto, da lui preparata e più volte benedetta. Siamo alla sera del 10 giugno 1940, e la popolazione di Rovereto si riversa in piazza per ascoltare alla radio il discorso del Duce194. «L’apparecchio era collocato in un poggiolo della Cassa di Risparmio. Nella piazza campeggiava solenne la Campana, monumento di guerra e di pace, iancheggiata dalla truppa. Il cielo minaccioso di rossi bagliori e di tuoni. Un triste presagio incombeva sulla folla tacita e pensosa. Sembrava che la Campana palpitasse del palpito della folla e che con essa vivesse la grande ora d’ansia e di tristezza, che in quel momento viveva il mondo. Ad un tratto gli squilli annunciarono la parola del Duce, e la proclamazione della guerra passa attraverso la folla come un gelido fremito di morte. Quanti giovani soldati mormorarono “forse suonerà per me!”. Tutte le campane, per disposizione superiore, salutarono la parola del Duce, ma il loro, più che un suono di festa, era il suono di una triste agonia. Forse sentivano il tramonto di una vecchia civiltà? Quale sarà quella che balzerà dal sangue di questa nuova, immane, orribile guerra»195.

Sembra che non sia però ancora il tempo di rinnegare il fascismo, e con esso la civiltà latina, se davvero a un anno dall’inizio della guerra lo vediamo marciare da centurione della Milizia per la ricorrenza del 28 ottobre196. Ed altrettanto possiamo dire a proposito della scadente composizione dedicata a Pio XII nel Natale 1941197, dove i trioni della chiesa papale non sono ancora del tutto separati da quelli di Roma. Di fronte agli «ignivomi cannoni» che «romban dovunque», se mai li surrogano in un trionfo della romanità della chiesa e di Pietro, «con risultati atrocemente stridenti»198. Altrettanto si può dire in merito ai versi, ancora nostalgici del tricolore, che Rossaro compone per l’ingresso episcopale di Carlo Ferrari a Trento. Se fuori «la tempesta mugghia», le bianche colombe dei martiri d’Anaunia volano sul Campidoglio per cantare «libero il peana» dell’Italia «eletta fra le genti»199.

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cui giunse il “messaggio pontiicio” scritto il 3 maggio. Ora le parole sottolineate dell’augusto messaggio, se fossero state pubblicate in quei giorni, in cui se non si voleva parlare di guerra e non si poteva parlar di pace, avrebbero suscitato certo una polemica, e Farinacci ne avrebbe certo fatto oggetto di articoli sul suo Regime Fascista contro il Papa, travolgendo nella polemica la Campana dei Caduti». «10 giugno. Lunedì, ore 18. Dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra. La Campana sale al suo glorioso trono attraverso il calvario dell’umanità! Ogni sua tappa coincide con un grande avvenimento storico». Albo storico cit., 10 giugno 1940. Ibidem. Cfr. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 11. A Pio XII. Nel Natale 1941, in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., pp. 676-679. Cfr. in rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 12. S. A. Rev.ma Mons. Carlo Ferrari, Princ. Arciv. di Trento, in “Poesie di Antonio Rossaro” cit., pp. 680-683.

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Una pagina dell’Albo storico di Antonio Rossaro. Annotazioni del 4, 15 e 24 febbraio 1943 (BCR).

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Antonio Rossaro avvicenda intanto le preoccupazioni per la Campana con quelle della guerra, che sembra ora acuire la sua delusione di un’epoca caratterizzata dalla barbarie. Annota rapidamente la capitolazione della Francia, i primi tracolli della campagna di Russia, la guerra che infuria senza tregua, la precaria situazione di Rovereto. Poi lo sbarco degli alleati in Sicilia e il bombardamento del quartiere di San Lorenzo a Roma. Riafferma con parole forti il topos dello sfregio alla Patria, alla sua superiorità storica, alla sua cultura civile e religiosa, tradita dall’indifferenza di tanti. «10.VII.1943! Sbarco in Sicilia! Il sacro suolo della Patria è calpestato dallo

straniero d’oltre oceano, nonché dallo straniero d’oltralpe. Fortuna che i Mille di Marsala son morti! Gran Dio degli Avi nostri, proteggi la nostra, la tua Italia!», si legge nel solito Albo. «19.VII.1943. Ore 12.30. La radio annuzia la prima incursione aerea sul cielo di Roma. Mi fa spavento la grande indifferenza di tutti, operai, impiegati, industriali. Terribile sintomo!»200. Il giorno dopo annota i morti e i feriti, l’idea di inserire negli annali della Campana il 2 novembre in ricordo di tutti i civili periti nel turbinio della guerra. «Oggi, non è più la cavalleresca battaglia tra eroi» egli aggiunge con una prosa un po’ stentata; «è l’insidiosa e vile barbarie delle belve umane sopra l’innocuo e mite gregge d’una gente inerme e impotente. Vittime d’un suo tradimento, assurte a eroi da loschi criminali, i caduti civili entrano nell’immensa legione dei Caduti di guerra, e quindi è doveroso che entrino nella cerchia della campana sacra, per essere ricordati e celebrati nei secoli»201. La sua cultura risorgimentale riemerge dunque anche in questi ultimi eventi in cui afferma di vedere «buio pesto» e, sorprendentemente, lo stesso discorso del Duce gli sembra «quello di un incosciente» che «lascia andare disperatamente l’Italia alla deriva»; quello di un «ubriaco di gloria, che non vede nulla, o peggio, vede altro che se stesso. Un gerarca, ai miei dubbi, mi dissi che il fascismo non è mai stato così forte e “imbattibile” e che “stravinceremo”...!»202. Ma intanto le bombe martellano Torino, Genova, Milano. «La barbarie continua il suo compito lugubre e funesto»203. 200 201 202 203

Cfr. Albo storico, 10 e 19 luglio 1943. Cfr. Albo storico, 20 luglio 1943. Albo storico, 26 luglio 1943. Albo storico, 27 luglio 1943.

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Poi ecco notizia della caduta del fascismo. «Dies irae!. Ore 23.15. Sono nella mia oficina intento al mio “Dizionario biograico”. Intorno tenebre e profondo silenzio. Ad un tratto sento le ultime parole di una vicina radio. “Mussolini ha dato le dimissioni, il Re ha consegnato il governo d’Italia a Badoglio”. Ecco crollata un’epopea! epopea di gloria e d’infamie. Ai posteri l’ardua sentenza! Nel silenzio della notte riecheggia qualche grido: “Mussolini è caduto! È morto il fascismo...! Viva l’Italia libera! - No so se è sogno o realtà! Questa notte non dormii. La mattina esco alle ore 8. In tutti c’è un immenso e visibile respiro di gioia, contenuta ancora del timore di sognare... Solo un’ora dopo, verso le 9, il sogno è realtà. Tutti sorridono. Commentano. Si scusano, altri negano d’esser stati fascisti. Tutti si sono levati il distintivo... e distintivi si calpestano per la strada ad ogni piè sospinto. Non si trova, nemmeno cercandoli col lanternino, nessuno dei gerarchi o dei troni fascisti di ieri. Come per incanto scompaiono gli emblemi fascisti agli ingressi degli ufici. Scompaiono gli ininiti ritratti del Duce. Dalle vetrine dei negozi si squagliano libri, giornali, cartoline fasciste. Nella fontana di Piazza Rosmini galleggiano molti libri fascisti e ritratti del Duce. È crollata un’epoca! è chiusa una storia: Sic transit gloria mundi! In questo solenne momento della storia ho deciso di chiudermi in riverente silenzio. La Nemesi compirà essa la sua inesorabile missione»204.

Arriva poi la notazione a chiusura: ancora una giustiicazione non richiesta, come altre dal sapore posticcio. Rossaro scrive che la Campana «pure essendo nata e cresciuta in pieno clima fascista, non solo non ebbe noie o imposizioni da parte del partito, ma godette della più assoluta indulgenza e libertà». Lo stesso Duce «personalmente, diede tangibili segni della sua considerazione e benevolenza». Ribadisce inoltre di avere preservato l’autonomia della Campana, mantenendola «sopra e fuori delle contingenze politiche»205. Le ultime citazioni meriterebbero uno studio particolare, sia per quanto concerne i fatti che la loro eventuale ricostruzione postuma. Hanno provato a farlo quanti hanno lavorato alla pubblicazione del Diario, ovvero su alcune pagine manoscritte di Rossaro che vanno dal 1943 al 1945206, cercando fra l’altro di confrontarle con l’Albo storico. Ciò che emerge da queste «scritture parallele», è in primo luogo una divaricazione del secondo testo rispetto al primo, in quanto probabilmente l’Albo è destinato a diventare memoria pubblica, una sorta di apologia dell’autore e delle sua Campana207. Ogni volta che l’autore tratta questioni che 204 205 206 207

Ibidem. Ibidem. rossaro, Diario 1943-1945 cit. Il Diario potrebbe dunque conigurarsi come il segmento di un archetipo più vasto che purtroppo non ci è pervenuto per intero. È infatti possibile ipotizzare che Rossaro, anche per quanto riguarda gli anni precedenti, avesse l’abitudine di appuntare rapidamente gli eventi per trasferirli poi in un testo più articolato.

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potrebbero comprometterlo, l’Albo mostra dunque reticenze e giustiicazioni, come nel caso dell’inaugurazione della Campana o nelle pagine che riguardano la guerra e la caduta di Mussolini. Bisognerebbe però considerare anche la diversa natura delle due scritture: strettamente marcato da brevi appunti il Diario; più prolisso e diplomatico l’Albo, dove al di là della cronaca emergono rilessioni e giudizi. In questo caso a fare da ilo conduttore è infatti la storia della Campana, come del resto precisa il sottotitolo, mentre il resto serve praticamente da contesto, talvolta da contorno. In questo esercizio apologetico, oltre a spiegare il suo operato in ragione degli eventi, l’autore si propone in effetti di mantenere formalmente neutra la Campana rispetto al regime e alle sue stesse idee, ma è altrettanto vero che questo equilibrismo richiede sicuramente «silenzi e reticenze», soprattutto nel momento in cui la sua stella politica smette di brillare, o quantomeno appare meno luminosa. Silenzi, reticenze e imbarazzi, già emersi del resto in seguito all’alleanza con la Germania, che signiicava anche con l’Austria, le nazioni che Rossaro aveva combattuto prima, durante e dopo la guerra. Contro le quali aveva cercato di ricostruire la memoria del Trentino redento e latino, dell’Italia che affondava le radici nel Risorgimento e aveva sacriicato i suoi igli per diventare grande e unita. A un certo momento in sacerdote si trova così fuori dal suo tempo, da quella storia, da quella costruzione ideale che egli aveva contribuito a ediicare e che aveva poi condiviso con il fascismo. L’Italia, resa forte dal Duce e dal Re, avrebbe dovuto essere il modello di una nuova era, garante della pace che la Campana aveva iniziato a propagare nel mondo, grazie al lavoro indefesso del suo arteice, ma che ora rimaneva sulla piazza di Rovereto, senza voce, testimone di un’epoca al tramonto, «di un’epopea di gloria e d’infamie» per dirla con le parole dell’autore. Nonostante questo il sacerdote non smette comunque di lottare e di credere. Lo fa anche quando avverte che parlare di pace mentre sta scoppiando la guerra è dificile e soprattutto contraddittorio; potremo forse dire che lo fa trovandosi a disagio anche con il credo politico e religioso che aveva cercato di fondere assieme, magari con altri compromessi, con una retorica forzata che si avverte a-cristiana e fuori luogo, non solo a causa di un’eventuale lettura di parte, ma per la stessa chiesa di oggi. Ad un certo momento, il contenuto dell’Albo storico rivela però la delusione di don Rossaro per ciò che sta avvenendo, il fastidio per i venti mesi in cui Rovereto e il Trentino entrano a far parte dell’Alpenvorland, sottolineando il fare prepotente dei tedeschi, la presa delle caserme, le ruberie, la prigionia inlitta ai soldati e ai civili208, lo stato di sudditanza nel quale si trova la popolazione, le azioni poco cavalleresche, anche nei confronti della Campana, alla quale riserva sempre la parte consistente delle sue annotazioni. Insomma, in queste pagine iltra208 Tutto è crollato: anche l’onore! Il tedesco ha preso il sopravvento e tiene già il comando della città. I miei alpini e i miei bersaglieri sono prigionieri al campo sportivo: mi reco subito con pane frutta e riesco a confortarli. Ad alcuni procuro dei vestiti ed riescono a scappare. Ad uno di loro do il mio cappello e il mio soprabito, e vestito da sacerdote si mette in salvo». Albo storico, 9 settembre 1943.

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te, Rossaro sente forse vacillare la ricostruzione storica da lui effettuata; è provato dai nuovi eventi che non gli tornano e si lega sempre più alla sua creatura, che cerca di ricollocare quanto prima sul bastione del Castello, quasi a voler trattenere la pace che sfuma, ricorrendo a tutti i santi, perino al Duce, che nel 1944 gli fa inviare da Gargnano 50.000 lire per il sacro bronzo209. Allo stesso tempo, guardando in particolare alla sua terra e alla sua patria, si mostra pietoso: piange i bombardamenti di Trento e di Rovereto210, depreca la «tormenta bellica» sul fronte russo, la battaglia di Nettuno, «il volo dei barbari su Verona»211, la rovina di Montecassino212, le città distrutte, la fame, le requisizioni, i continui allarmi, la precarietà della vita e così via. D’altra parte è poco loquace in merito al movimento della Resistenza, anche quando si tratta di episodi eclatanti, che riguardano Rovereto o i centri trentini. L’esecuzione di Angelo Bettini e dei partigiani del Basso Sarca è annotata con le consuete poche parole solo nei fogli più ristretti e personali del Diario213, e altrettanto avviene per l’eccidio di Lizzana214. Avrebbe potuto farlo con accenti anche meno frettolosi nelle pagine dell’Albo storico, ma non è così: tace piuttosto. Non pensa di aggiungere nulla nemmeno alla ine della guerra, quando potrebbe allargare senza timori gli appunti lasciati sui «foglietti volanti» del periodo che va dal 7 dicembre 1944 al 12 ottobre 1945, ovvero nei mesi in cui aveva provveduto a nascondere l’Albo in un locale segreto del Castello con il materiale relativo alla Campana e alla Biblioteca215. Ma nonostante questa relativa libertà le note in proposito risultano pressoché assenti, come se tali fatti fossero ancora lontani dall’autore216, oppure avessero poca attinenza con il suo scopo217. 209 «Data la dificoltà dei tempi sono consigliato a non parlarne». Albo storico, 3 maggio 1944. 210 Oltre all’Albo storco si vedano anche Pio XII sulle macerie di San Lorenzo, Roma 19 luglio 1943 e Nel trigesimo del bombardamento di Trento, 2 settembre 1943, in Canzoniere cit., pp. 694-698. 211 Albo storico, 20 dicembre 1943, 23 gennaio 1944 e 28 gennaio 1944. 212 «Arde Montecassino! È il caso di dire: quel che non fecero i Barberini fecero i barbari. I barbari di ieri erano meno barbari di quelli di oggi». Albo storico, 15 febbraio 1944. 213 Così nel Diario: «Bettini (eccidio Arco-Riva) - Cattura Palmieri Schettini Santini avv. Ferrandi». rossaro, Diario 1943-1945 cit., 28 giugno 1944, p. 68. 214 «Nella notte sul sei grande rumoreggiante passaggio d’aeroplani - mattina cattura Zanini, Angeli, Bini, Vram, Pellizzari. Allarmi 10.45 - cessato 12 meno 5 minuti. Rombi spaventosi: Lavis Gardolo ecc. Eccidio Lizzana - 4 feriti all’ospedale: donna e tre ragazzi di Marco feriti - Manci». rossaro, Diario 1943-1945 cit., 6 luglio 1944, pp. 69-70. 215 Così scrive Rossaro il 7 dicembre 1944. «Il presente diario, con tutto l’archivio della Campana fu nascosto col materiale della Biblioteca in un locale segreto del Castello, la cui portina venne murata». Il 12 ottobre del 1945 riprende la scrittura con queste parole: «Cessata già da vario tempo la guerra, venne riaperto nel Castello il locale dove furono collocati i libri della Biblioteca, e quindi anche il presente volume, che dopo tante tragiche vicende, e la maturazione d’una storia, che ci fece vivere la storia di un interminabile secolo, venne estratto, per ricevere la continuazione del diario, scritto in appunti a cenni precisi ed esaurienti, su foglietti volanti». Albo storico, pp. 218(?)-219. La nota di Rossaro potrebbe far pensare che questi appunti dovessero servire per essere poi trascritti nell’Albo storico. Se fosse così ci sarebbe una sfasatura di date in quanto il Diario inizia con il 25 luglio 1943. 216 «Silenzi e autocensure non hanno, ci pare, solo una spiegazione tecnica, né possono derivare solo dall’asciuttezza di riferimenti pubblici tipica di queste agende-diario, ma sembrano rimandare ad un disagio più profondo. L’eloquentissimo don Rossaro, nei confronti delle testimonianze di un’opposizione minoritaria ma possibile, non sa trovare nessuna parola». rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 15. 217 Come leggiamo nell’introduzione al Diario si tratta di un nodo dificile da sciogliere, ma che ancora appare opportuno segnalare. Cfr. rossaro, Diario 1943-1945 cit., p. 15.

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1.10. La ine della guerra Le pagine dell’Albo arrivano rapidamente all’epilogo. «C’è nell’aria come un rantolo d’agonia! Tutto precipita, oppure siamo inconsci della gravità dell’ora» leggiamo il 22 aprile 1945. «Voci discordi parlano di armistizio. Tutto fa pensare che il crollo è vicino. Questione di ore. Penso di far suonare la Campana al momento del crollo», riporta Rossaro il primo maggio. Ma poi subentrano «dificoltà tecniche»: ci sono in giro ancora tedeschi, una sera viene ordinato il coprifuoco, si vorrebbe che la Campana suonasse escludendo i caduti fascisti. «No» afferma perentorio il sacerdote, dovrebbe suonare per tutti. E intanto passano i giorni e il suono della pace ritarda. Arrivano gli americani. Rossaro corre al bastione del castello per appendere il tricolore, ma quando al mattino del 4 maggio gli viene chiesto di salutare l’evento con il suono della Campana risponde ancora in modo negativo218. In breve suona soltanto il giorno 20 maggio, a forza di braccia volonterose, per ricordare tutti i caduti, precisa Rossaro. Poi è l’ora della ricostruzione, anche gattopardesca secondo quanto scrive Rossaro, il quale denuncia i trasformismi e le viltà, mentre per lui si apre un capitolo amaro. Con l’autunno del 1945 il padre della campana viene accusato di aver collaborato con il fascismo e quindi la Commissione d’epurazione istruisce il processo che si concluderà comunque con l’assoluzione. È ancora l’Albo storico a riassumere la vicenda, permettendoci di conoscere altri aspetti della biograia del sacerdote. «Ho assunto la carica di cappellano della Milizia volontaria di sicurezza nazionale per la Legione Cesare Battisti nel 1927 su invito del console Larcher, del centurione Scanagatta e dello stesso vescovo Endricci», egli scrive in una memoria difensiva. Ed accettai «solo in vista della Campana dei Caduti che tanto mi stava a cuore, sia per le sue alte inalità, sia per mantenere le sue relazioni internazionali, e che, altrimenti, sarebbe stata probabilmente osteggiata, o peggio, assorbita dalle istituzioni fasciste. La mia attività però di Cappellano di Legione fu limitata esclusivamente agli ordini che per volta mi giungevano dal Comando, e solo nell’ambito spirituale, come la celebrazione della Messa da campo o la preparazione dei militi alla Pasqua, mentre nei fervorini che tenevo in tali circostanze, mi attenevo esclusivamente al Vangelo o a qualche passo scritturale, coronandoli sempre col voto d’una “Italia una, grande, indipendente”, e ciò fu sempre in cima alle mie aspirazioni». La rimozione dal suo incarico, nel 1940, era poi avvenuta non per reali necessità organizzative, ma per «scarso rendimento». La stessa Campana «casualmente nacque e si sviluppò in epoca fascista», dichiara ancora il sacerdote, ribadendo che aveva accettato 218 «In bella maniera, con ragioni plausibili, rispondo negativamente. Difatti era una cosa troppo precipitata e forse sarebbe stata compromessa la serietà della Campana dei Caduti». Albo storico, 4 aprile 1945.

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di essere Cappellano di Legione «solo per salvaguardare la sua indipendenza e l’integrità del suo statuto, né mai sfruttai il fascismo in suo favore, anzi la volli tenere sempre fuori dal fascismo, e non senza dificoltà e pericolo personale, vi riusciì» [...] Ciò premesso, egli conclude dopo altre argomentazioni, «la Sciarpa Littoria non mi fu conferita per meriti fascisti, ma per l’automatica maturazione del decennio, quale Cappellano di Legione. [...] Con ciò io non nego il mio passato. Io ho seguito il Duce, perché con lui c’era il Re, e dove c’era il Re, per me allora c’era la Patria; fui attratto soprattutto dallo splendore d’una nuova Italia, “una, grande, indipendente” quale sempre auspicai, ma tengo a dichiarare fermamente e inequivocabilmente, che sopra il Duce e sopra lo stesso re, io ho sempre inteso servire la mia cara adorata Italia. Se ho errato, ho terribilmente espiato il mio errore, compiuto in buona fede, con l’amarissima delusione, che con me ha colpito tanti schietti idealisti patrioti! Rovereto, lì 11 ottobre 1945»219. Le annotazioni continuano senza particolari sussulti. Si arriva così al 2 giugno del 1946. Rossaro, fedele al suo credo sabaudo, spiega: «Giornata campale, elezioni politiche e referendum pro monarchia o repubblica. La repubblica è il miglior modo di governo; ma - almeno per ora - non lo ritengo adatto all’Italia, per varie ragioni. Quindi voto per la monarchia, convinto di fare un buon servizio alla mia cara Patria. Non faccio questioni di sentimentalismi storici, né di personalismi, ma di sistema di governo, perché sopra e fuori di personalità e casati, v’è la maestà della Patria!»220

Antonio Rossaro comunque continua a lavorare, praticamente ino alla vigilia della sua scomparsa, il 4 gennaio 1952. Le pagine dell’Albo, che chiudono con una nota del 14

219 Cfr. in Albo storico cit., dattiloscritto allegato a pp. 235-237. Valentino Chiocchetti, riferendosi all’episodio citato, così riporta il commento di don Rossaro: «Taccia, taccia, sono proprio avvilito. Quello Straffellini mi ha preso in giro: mi ha perino domandato se mi piacevano le “lasagne”, alludendo ai miei gradi di Cappellano della Milizia. Ma se egli, che dice di amare gli operai, sapesse a quanti operai ho potuto essere di aiuto per via di quelle “lasagne”, non mi avrebbe trattato così!». ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p.7. 220 Albo storico, 2 giugno 1945. «Tramonto della Monarchia, con voti 10.709.423, contro 12.718.019!», scrive due giorni più tardi. La Campana dei Caduti non poteva rimanere insensibile avanti a questo avvenimento storico. Ieri si poteva discutere; oggi occorre obbedire! Maria Dolens si avvolse silenziosamente nel suo mesto velo, abbandonandosi ai dolci ricordi di ieri e silano davanti ad essa: la Dolce Regina Margherita, che fu tra le prime ad appoggiare l’idea della Campana dei Caduti e che ne volle essere la madrina, e che il 24 maggio 1925 la tenne a battesimo; il principe Umberto, che il 27 aprile 1924, pose la prima pietra sul bastione Malipiero, per il supporto della Campana dei Caduti; il Re, che il 4 ottobre 1925 la inaugurò, mentre la Regina Elena la accolse sotto il suo alto patronato; e la piccola principessa Maria Pia, che funse da madrina nella riconsacrazione della Campana dei Caduti. Quattro generazioni di Casa Savoia! E davanti ad essa, altri soavi ricordi: l’inaugurazione del busto della Regina Margherita, il primo monumento erettole in Italia (19.X.11935), e i gentili riti del Calendimaggio, che si svolsero del 1936 ino al 1943 compreso. Rovereto fu città eminentemente sabauda... e non può disconoscere il suo passato.

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novembre 1951 e altri documenti221, testimoniano ancora il suo grande impegno per la Campana. Valentino Chiocchetti ribadisce inoltre la sua opera attiva come direttore della Biblioteca nonché come motore di altre iniziative. Sappiamo che in dal 1925 aveva assunto la direzione dell’almanacco “Il Campanom”, di cui abbiamo parlato, e nel quale Rossaro annualmente scrive quantomeno un articolo legato alla storia della città; è inoltre noto che interviene con altri scritti sul Bollettino parrocchiale o sui giornali; che ogni tanto manda alle stampe qualche pubblicazione d’occasione222. Dedica poi buona parte dei suoi ultimi anni di vita alla compilazione del Dizionario degli uomini illustri del trentino223, un grosso lavoro che rimane ancora incompleto e inedito fra i documenti della Biblioteca civica di Rovereto224.

221 L’ultima poesia del suo Canzoniere porta la data 22 febbraio 1951. 222 Per gli articoli de “Il Campanom” e per gli altri lavori si veda la bibliograia riportata in ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit. 223 Così Chiocchetti. «Il Dizionario non è inito. Gli mancano gli ultimi ritocchi bibliograici e critici. Don Antonio stava dandogli l’ultima mano quando morì. Contiene perciò ancora imperfezioni e inesattezze. Sono 12 teche di complessivi cinquemila fogli dattiloscritti, di formato 26x18, e contengono le notizie fondamentali di tutti gli uomini illustri (e qualche volta anche di quelli appena noti) della storia trentina. Sono seguite da altre teche, la XIII e la XIV, che contengono: la prima Dantisti e dantoili trentini, e cioè la fortuna di Dante nel Trentino, e la seconda Il giornalismo nel Trentino». ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., pp. 10-11. 224 «Non molto prima che morisse si parlava con lui dell’importanza della vita, e gli dicevo che poteva essere contento, perché nella sua esistenza aveva realizzato qualcosa di serio. Mi rispose: «Si, talvolta sono ambizioso della Campana e del Dizionario, ma contento sono contento di quel poco di bene che ho potuto fare alla povera gente di Rovereto. Sento che la mia vita fu distratta dalle troppe attività e ho negato alla mia anima quel contatto col mondo degli umili, che poi è il mondo dei buoni, che arricchisce la vita più del falso mondo dei grandi, in mezzo al quale per lungo tempo sarei stato ambizioso di vivere». ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 8.

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Antonio Rossaro davanti alla Campana dei Caduti in una foto autografata degli anni Venti (AFCCR).

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Capitolo 2. La Campana dei Caduti ino alla seconda guerra mondiale

2.1. La nascita della Campana Milano, 5 maggio 1921. Questa la data cui risale l’idea della Campana dei Caduti. A ispirare don Antonio Rossaro è l’Arco della Pace in via Sempione, il monumento neoclassico, chiaramente legato agli archi trionfali romani e originariamente pensato per celebrare la vittoria napoleonica di Jena. Francesco I d’Austria, ritornato in possesso della Lombardia, dopo la Restaurazione, lo ridedicò però alla pace tra le nazioni europee. Per ironia della sorte, la Campana dei Caduti subirà, come vedremo, un destino simile. Oggetto di discussioni ininite, fusa e rifusa più volte, la scopriamo semioforo lessibile, capace di migrazione, sia simbolica che isica. Sono i tempi storici a maturare con lei in quella che si potrebbe considerare una delle battaglie della rimembranza più importanti per l’Europa del XX secolo e i cui riverberi giungono ino a oggi. Ciò che è in gioco, nella costruzione di questa memoria, prima di tutto politica (anche e soprattutto quando si proclama “sopra gli schieramenti”), è la legittimità stessa della Nazione, dell’organizzazione sociale ad essa sottesa con le sue gerarchie e stratiicazioni, del suo monopolio della forza. Dopo il disastroso “terremoto” rappresentato dalla Grande Guerra, la memoria che si andava costruendo a opera delle élite nazionali interventiste, al contempo fatta propria da quei settori del combattentismo e delle forze armate alla disperata ricerca di senso di fronte alle distruzioni e ai dolori, appare come una beneica scossa di assestamento utile al ritorno della quiete sociale, come presupposto di un preciso tipo di pace dopo la guerra vittoriosa e legittima. Pace e Guerra potevano così apparire come igure speculari, complementari, necessitanti l’una dell’altra. Era necessario che la vittoria fosse considerata da tutti come tale, e la pace come suo necessario e positivo prodotto. Il gusto dell’ossimoro, del contrasto, non era certo estraneo al pubblicista don Rossaro che commentava, nel libro celebrativo del 1952, l’episodio della “intuizione”. Il sacerdote stava leggendo, su un giornale, delle celebrazioni francesi per i cento anni dalla morte di Napoleone tramite migliaia di cannoni: «Sotto la volta dello storico arco stavo assorto col pensiero nel folgorio di quell’epoca, quando d’un tratto, alzando lo sguardo ad un tramonto di iamma, così bello verso il Resegone, fui sorpreso dal suono dell’Ave Maria di un vicino Convento. Il mio cuore si trovò subito travolto da un tumulto di armi e di canti claustrali, fra due mondi cozzanti fra loro, quello della Guerra e quello della Pace. Lontano, i

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rombi del cannone si dileguavano nell’immensità dell’orizzonte; vicino, lo squillo di una campanella si sperdeva nelle misteriose ragioni del cuore»1.

Molto più asciutte le righe riferite a quella giornata nell’Albo. «5 maggio 1921: Splendido tramonto presso l’Arco della Pace a Milano. Nell’aria tiepida e luminosa c’è l’oscillio d’una lontana campanella. Non si potrebbe pensare ad una campanella della pace sul castello di Rovereto? Ritornato a casa ripenso. O una campanella d’argento per la pace, o una grande campana pei caduti. La Campana dei Caduti sarà la più grande del Trentino»2.

Probabilmente più signiicativo di quanto non sembri, il discrimine tra la campanellina per la pace e la grande campana ai caduti. Piuttosto prevedibilmente la scelta cadde sul grande monumento, in una tensione magniloquente verso la celebrazione degli eroi caduti3.

2.2. Le iniziative parallele: Museo della Guerra e Campana dei Caduti Fanno da sfondo a quel momento le vicende del neonato Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, che trovò sede nel castello veneziano della città. L’iniziativa era stata lanciata inizialmente dal collezionista d’armi Giovanni Malfer e dall’impiegato comunale Giuseppe Chini4 che spedirono una lettera a oltre 300 personalità ed enti culturali tra il maggio e il luglio 1920. «Per cura di alcuni volontari cittadini e per ricordare degnamente l’immane guerra che segnò per noi l’alba della tanto auspicata redenzione si vorrebbe creare un Museo locale di guerra nel quale venissero raccolti e disposti in bell’ordine tutti gli svariati oggetti bellici usati da ambo le parti combattenti, come armi, ed ogni altra suppellettile dell’arredamento militare»5. 1 2 3

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5

rossaro, La Campana cit., p. 3. rossaro Albo storico, 5 maggio 1921. «Non morti, e tanto meno uccisi o ammazzati, ma un più incorporeo “Caduti”; esclusione di tratti raccapriccianti, cioè della isica veridicità della morte violenta, spesso in realtà orrida e sigurante» M. isneghi, La Grande Guerra, in I luoghi della memoria cit., p. 303. Chini aveva già lanciato nel 1906, dalle pagine del quotidiano liberale roveretano “il Messagero”(21-22-23 agosto), l’idea di un museo civico patrio che raccogliesse materiali, cimeli, armi e documenti allo scopo di illustrare la storia della gente di Rovereto. Circolare inviata a 300 personalità ed Enti culturali del luglio 1920, in Archivio Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto (AMSGR), Busta n.2, Statuti (dall’anno 1920 all’anno 1959).

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Malfer coinvolse poi l’avvocato Antonio Piscel (volontario trentino, compagno di Cesare Battisti e socialista) che sarebbe stato il primo presidente del Museo. Anche don Antonio Rossaro si unì immediatamente (il 16 luglio) all’iniziativa il cui primo comunicato richiamava esplicitamente la “sua” alba e nel successivo appello del 20 agosto il sacerdote faceva già sentire la sua mano prospettando «un nuovo Istituto che sarà uno dei più ammirati e sacri monumenti quando da tutta Italia muoverà nella nostra vallata il pio pellegrinaggio dei parenti dei caduti, e da tutto il mondo afluiranno gli studiosi di questa cruenta zona della più storica guerra»6. Ma i termini si palesano ancor più precisamente nel discorso tenuto alla riunione del 23 agosto, presso il comune di Rovereto, alla presenza di importanti personalità cittadine. «Saluto con grande compiacimento quanti intervennero a questa adunanza, che ha per scopo di dare alla nostra Rovereto un monumento, che tramandi ai più lontani nepoti un tangibile documento del suo iero amor di patria e di quell’atroce martirio, onde uscì coronata dalla guerra mondiale». E ancora «sorga un Museo di Guerra che raccolga le reliquie della grande tragedia, di cui noi fummo spettatori e attori ad un tempo.[…]Questo Museo di Guerra che dovrebbe essere riconosciuto dallo Stato. E dallo Stato sovvenzionato»7.

A parte la richiesta esplicita del riconoscimento e dell’appoggio dello Stato (che peraltro non fu mai, inanziariamente, signiicativo), si delineò così un Museo/Reliquiario la cui visita potesse risolversi in un pellegrinaggio. L’attribuzione di sacralità alla nuova istituzione scongiurava il rischio di una eccessiva accezione tecnica e positivistica che avrebbe potuto essere d’impaccio nella costruzione del messaggio nazionale e patriottico. I visitatori avrebbero dovuto essere i parenti delle vittime/eroi e le generazioni del futuro. Ad alternarsi dunque valore consolatorio e valore educativo. La componente che la fece da padrone nella visita del Museo, successivamente fattosi binomio con la Campana, installata su uno dei torrioni, fu quella degli ex combattenti, almeno ino agli anni ’70, con il lento estinguersi di quella generazione che era stata testimone e protagonista diretta degli avvenimenti bellici. Il terreno di coltura in cui si sviluppano le due istituzioni è dunque lo stesso e, a proposito della “universalità” del messaggio della Campana, non troviamo inizialmente traccia. I “caduti” di cui si parla sono i “nostri” (da intendersi, credibilmente, come i caduti dell’esercito italiano e in particolare i volontari trentini), come si può leggere in questo verbale dell’assemblea del Museo risalente al 20 maggio 1921. 6 7

Circolare inviata dai fondatori nell’agosto 1920, nella quale si chiedeva a certe persone illustri di far parte del Comitato Esecutivo, in AFCCR, Busta n.2, Statuti (dall’anno 1920 al 1959). g. Chini, Il Castello di Rovereto (ristampa anastatica dell’edizione del 1928), Longo Editore, Rovereto 1999, pp.76-77.

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«Il Presidente espone l’iniziativa di don Rossaro di ottenere dalle madri e vedove dei Caduti una grande campana, da collocarsi in Castello perché tutte le sere suoni l’Avemaria per i nostri Caduti. All’uopo, data l’insuficiente resistenza dell’attuale torre, se ne dovrebbe costruire un’altra, nello stile del Castello, e capace di sostenere la pesante Campana»8.

Il primo riferimento alla Campana in “Alba Trentina”, risalente al numero dell’aprile-maggio 1922, consiste in un appello nazionale per la raccolta dei fondi necessari ed evoca già un riferimento a un’umanità che sembra trascendere i conini nazionali nonostante il riferimento alla “nostra terra”. Inoltre troviamo un’importante considerazione riguardo alla necessità di un monumento “vivo”, un monumento capace di coinvolgere menti e cuori con la sua “parola”. «Troppo presto ci dimenticammo dei profondi sacriici sofferti dall’umanità durante la guerra; troppo presto scordammo tante vittime e tanti eroi fatalmente caduti sotto la rafica di solfo e di piombo che imperversò per quattro anni; troppo presto dimenticammo di quanti tormentosi strazi, di quante orride agonie, di quante tragiche morti furono teatro le montagne che coronano la nostra terra. E appunto per questo pensammo a un monumento che non fosse la solita fredda allegoria in bronzo o in marmo, di cui oggi c’è soverchio abuso, ma un monumento che, voce viva, risuonasse e scuotesse i cuori nella solenne rievocazione di tanti eroi scomparsi e di tante vittime trapassate senza conforto di baci e di pianto, ed ecco la Campana dei Caduti, che tutte le sere, dopo il suono dell’ultima avemmaria della valle, mandi loro il mesto saluto»9.

Le esplicite avvisaglie di “internazionalità” e di “concordia tra i popoli” arrivano invece su “Alba Trentina” dell’agosto-ottobre 1922. «L’iniziativa è varata sotto ottimi auspici. Il Ministero della Guerra diede larga copia di bronzo. Altro bronzo daranno la Francia e la Ceco-Slovacchia, che sulle nostre montagne lasciarono tante gloriose vite». La Campana dei Caduti «sarà eco di pace al rombo di guerra, e che nella salutazione dei Caduti, canterà attraverso i secoli, sulla loro gloriosa ecatombe, l’inno della concordia dei popoli»10.

Lo stesso Museo della Guerra aveva allestito una sala dedicata ai volontari cecoslovacchi che avevano combattuto con l’Intesa in Trentino, con i cimeli inviati da quel paese, già 8 9 10

AMSGR, Verbali delle sedute del Consiglio di Direzione, seduta del 20 maggio 1921. A. rossaro, Una nuova iniziativa, La Campana dei Caduti,, in “Alba Trentina”, VI/4-5 (1922), pp. 149-150. rossaro, La nostra iniziativa cit., pp. 202-203.

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nel settembre 192111. La comune sottomissione all’invasore austriaco doveva condurre a un forte motivo di solidarietà tra le varie componenti “nazionali” dell’Impero appena dissolto. Con la riconduzione dei popoli sotto le proprie “naturali” insegne patriottiche si sarebbero dovuti aprire scenari di pace e di concordia. La capacità della Campana di suonare “oltre i conini” fu legata non solo alla comune esperienza sui campi di battaglia italiani con soldati di diverse nazionalità o alle alleanze militari ma anche alla necessità di ricordare i trentini morti lontano da casa, ad esempio sul fronte russo. I trentini che avevano combattuto per l’Austria furono, in molti casi, vittime di ostracismo della memoria da parte italiana. Nonostante ciò, le parole che don Rossaro riservò a quei soldati in molti articoli di “Alba Trentina”, dimostrano, se non ferma volontà di celebrazione, perlomeno una forte vicinanza e pietà per la loro sorte. Signiicativa fu poi l’adesione, di cui si è già parlato, della nuova Austria all’iniziativa con l’invio di un cannoncino che insieme a quelli di Cecoslovacchia e Francia (nonché quelli donati dallo Stato italiano), andranno a costituire parte del materiale della prima Campana, in una celebre e riuscitissima inversione simbolica: il mezzo di morte che si fa simbolo di pace. La pronta adesione delle nazioni sconitte (anche la Germania aderirà successivamente) testimonia il clima di collaborazione reciproca che venne a crearsi tra le varie rappresentanze europee sul tema della memoria. Da tempo sono ormai dimostrate le forti analogie nelle varie strategia del ricordo delle varie nazioni europee dopo la Grande Guerra: il lavoro di George Lachmann Mosse, Le Guerre Mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, ormai divenuto un classico, mette in luce proprio queste analogie (insieme ovviamente alle differenze) mentre ci racconta quello che chiama “il Mito della Esperienza della Guerra”. Questa strategia dunque, nonostante le dovute differenze, era assolutamente transnazionale. Il culto degli eroi e dei martiri per la Patria, opportunamente “democratizzato“ nella igura del Milite Ignoto, rispondeva alle esigenze di tutti i paesi europei coinvolti nella guerra. Stabilizzazione e paciicazione sociale erano prerequisiti fondamentali per il ritorno a una normalità sentita come necessaria dalle élite tramortite non tanto dalla guerra quanto dall’incertezza del primo dopoguerra, dalle tensioni sociali del biennio rosso, dalla minaccia bolscevica e socialista. Quella che nelle intenzioni delle classi dirigenti avrebbe dovuto essere una guerra fulminea si era rivelata un’interminabile e sanguinosa lotta di posizione che portò al limite le capacità di sopportazione delle popolazioni mobilitate.

11

Cfr. Lettera dell’addetto militare Vittorio Miller al Direttore Girolamo Cappello del 2 settembre 1921, in AMSGR, Busta n.19, Sale internazionali (Sala Cecoslovacca 1921).

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2.3. Universalismo cristiano e romano L’accezione più importante di questa internazionalità è certamente rappresentata dall’universalismo cattolico che impregna il simbolo Campana dei Caduti. Don Rossaro narra, nelle pagine del 1952, la genesi della prima Magna Charta, il primo12 statuto della Campana, facendola risalire all’11 aprile 1925, allorquando si trovava a Roma in uno dei minuscoli alberghetti situati nella “Spina di Borgo”, poi demolita per far posto a Via della Conciliazione. «Da una di quelle inestrelle contemplava l’oceanica folla che gli stava sotto: igli di tutte le terre, fogge di vestiti e di acconciature d’ogni costume, parlate di ogni nazione, facce di tutte le razze. Tutto il mondo era lì con i suoi rappresentanti. (…) Al cospetto di quella massa cosmopolita in cui palpitava il cuore di tutto il mondo, Timo del Leno, pur piccino, avvertì nel suo cuore un nuovo senso di fratellanza; e fu proprio lì, in faccia al massimo tempio della cristianità, davanti a quella folla convenuta da tutto l’orbe, che consacrò con la Magna Charta la “universalità” della Campana dei Caduti»13.

Lo Statuto del 1925 in effetti precisa: «Il pensiero che ha eretto questo simbolo di sublime fratellanza, deriva dalle tradizioni romane della nostra Terra e dall’universalità della Chiesa Cattolica Romana, ambedue gloria e vanto della Nazione italica: tale monumento quindi non poteva essere eretto che dall’Italia nostra»14. La densa prefazione allo statuto del 1929 è sorprendentemente chiariicatrice. «L’idea della Campana dei Caduti, sbocciata al suono d’una lontana avemaria oscillante in un limpidissimo tramonto lombardo, si tramuta sotto il trionfale arcobaleno del Fascismo, prendendo da esso quel rilesso di autentica romanità, che esclude affatto ogni falsa interpretazione del suo spirito di universalità che ha la sua fonte principe nel cristianesimo “di quella Roma, onde Cristo è romano»15.

Don Rossaro in questa prefazione sembra preoccuparsi particolarmente di eventuali “false interpretazioni” e mi sembra di poter dedurre un gioco degli internazionalismi concorrenti. Infatti Rossaro prende le distanze, se mai ce ne fosse stato bisogno, da quello che sembra essere l’internazionalismo comunista. 12 13 14 15

L’evoluzione degli Statuti (o Magnae Chartae) dal primo del 1925 ino all’ultimo del 1948 potrebbe occupare uno studio a parte viste le continue modiiche, gli aggiustamenti, le riscritture. rossaro, La Campana cit., p. 95. Statuto della Campana dei Caduti in Rovereto, ed Mercurio, Rovereto 1925. Statuto della Campana dei Caduti in Rovereto. Prefazione di A. Rossaro, ed. Manfrini, Rovereto 1929, p. 7. In questo documento, Roma è presentata come «madre di tutte le genti» e «diretta erede della sapienza legislativa di Roma che dominò per lunghi secoli i destini dei popoli».

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La Campana «pur essendo fusa con i cannoni offerti d’altri popoli; pur commemorando di tutte le Nazioni i gloriosi Caduti; pur avendo con le varie Ambasciate estere continui e buoni rapporti, non è, né mai sarà l’istrumento dell’internazionalismo e cosmopolitismo senza patria, ma resterà sempre memore e ammonitrice voce dell’Italia cristiana e romana, che tutte le sere, riabbracciando, sia pure per un momento, ai piedi della pia Campana, sotto lo stesso cielo, sotto le stesse stelle, tutte le Nazioni, canta nella rievocazione di tutti i Caduti, l’inno della più sacra fratellanza, riiorita su comuni campi di battaglia e di gloria»16.

L’internazionale cristiana è così una “internazionale” di Stati-Nazione e la paradossale fratellanza tra i popoli invocata da Rossaro funziona dividendo l’umanità in blocchi etnico-culturali separati e indipendenti. Tutti hanno la propria Patria. «Così tutte le genti della terra, di tutte le lingue e razze e religioni, si ritrovarono, per un momento, spiritualmente riunite intorno a questo bronzo, simbolo di umanità, che vuole ricordare in ogni tempo e in ogni luogo i fratelli caduti in nome del più sublime e indistruttibile ideale: la patria, col suo focolare, colla sua lingua, colle sue leggi, colla sua storia, colle sue genti»17.

Nella visione di don Rossaro la Chiesa cattolica sembra diventare l’autorità garante di questa “internazionale”, il pilastro legittimante dell’ordine sociale e politico così strutturato. Eppure nei decenni precedenti larghe parti della Chiesa cattolica erano state esplicitamente e ferocemente nemiche dello sviluppo della nazione moderna, in particolare nella sua declinazione italiana, portatrice dell’estinzione del potere temporale del papato. A livello di libero richiamo e chiariicazione trovo opportuno citare lo scritto di Carl Schmitt del 1923, Cattolicesimo romano e forma politica, che mette insieme molte delle questioni che entrano in gioco in questo discorso e aiuta a comprendere la vocazione alla trasversalità, alla ambiguità e alla lessibilità del semioforo Campana dei Caduti. «Che la Chiesa cattolica romana come sistema storico e come apparato amministrativo continui l’universalismo dell’impero romano, le è riconosciuto con sorprendente consenso da ogni parte. (…) Ora è tipico di ogni impero mondiale manifestare un certo relativismo verso la variegata moltitudine dei possibili punti di vista (…). Ogni imperialismo che sia più di un semplice schiamazzo, porta in sé degli opposti: conservatorismo e liberalismo, tradizione e progresso, perino militarismo e paciismo»18. 16 17 18

Statuto della Campana 1929 cit, p. 5. rossaro, La Campana cit., p. 133. C. sChMitt, Cattolicesimo romano e forma politica, il Mulino, Bologna, ried. 2010, p. 12.

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La Chiesa cattolica raccontata da Schmitt è una complexio oppositorum, un ente capace di abbracciare le più diverse opposizioni. Capace di mediare la complessità del reale e ridurlo a unità. Questo tipo di chiave di lettura, nonostante la distanza abissale19 tra due cattolici come Rossaro e Schmitt, diventa illuminante nell’analisi simbolo Campana, costruito su una serie continua di dualismi20. Da questo punto di vista la Campana e il suo universo simbolico rappresentano un microcosmo completo, una rappresentazione ideale del mondo immaginato da don Rossaro e dalle élite borghesi che costruirono il nostro panorama della memoria. Per Schmitt la principale prestazione concreta della chiesa cattolica consiste, appunto, nella sua capacità rappresentativa, nella capacità politica di creare forma a partire dal disordine del mondo. Ebbene per lui questa capacità è essenzialmente giuridica, ma declinandola diversamente, non mi sembra sconveniente attribuirla alla dimensione rituale, monumentale e simbolica. Se, sulla falsa riga di Schmitt, attribuiamo al razionalismo moderno una deicienza di capacità politica originaria, dal momento che la modernità borghese pretende di costruire il pubblico a partire dall’individuo (fatto inaccettabile per Schmitt), allora possiamo considerare il riavvicinamento progressivo dello Stato e della Chiesa come una necessità sentita come ineludibile dalle classi dirigenti italiane verso il ine dell’ordine sociale e della stabilità, Gli strumenti afinati nei secoli dalla Chiesa sembrano farsi, sempre più, strumento di questo ordine. Se ciò non rappresenta certo una novità nell’Europa dell’Ottocento, basti come esempio l’analogia tra le pratiche simboliche giacobine e quelle di antico regime nella Francia rivoluzionaria, fu con la Grande Guerra che la prossimità fra le pratiche civili e le pratiche religiose si fece più stretta. Tappa fondamentale di questo processo, per l’Italia, va considerata la guerra di Libia del 1911. Si accavallano in quell’anno (in contemporanea alla consacrazione a sacerdote del nostro don Rossaro), il cinquantenario dell’unità d’Italia e l’inaugurazione del monumento nazionale a Vittorio Emanuele a Roma (che dieci anni più tardi avrebbe ospitato le spoglie del Milite Ignoto). A proposito di questo ultimo avvenimento, Ilaria Porciani scrive: «Tornava, con accenti antichi e al tempo stesso nuovi, l’idea della sacralità della patria e della crociata, del nesso non più tra trono e altare ma tra religione e nazione. Il corpo mistico della chiesa sembrava proiettare la propria forza sul legame che doveva tenere insieme il corpo sacro della nazione»21. 19 20

21

Fra le molte cose, basti pensare al disgusto di Schmitt per il cattolicesimo romantico e mistico che invece ben si addice a Rossaro. I dualismi che ho rintracciato sono: pace e guerra, il cristo redentore e la madonna addolorata, l’eroe delle battaglie e l’eroina del focolare, la partenza e il ritorno, la luce e l’oscurità, il sole e la luna, la dimensione visiva e la dimensione uditiva, la ragione e il sentimento. i. porCiani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia unita, ed. il Mulino, Bologna 1997, p. 192.

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La parabola dei cappellani militari22 italiani, dalla progressiva uscita dall’esercito tra il 1865 e il 1878, al loro massiccio rientro per volere di Cadorna nel 1915 (ma abbiamo anche qui un’anticipazione con la guerra di Libia e il reclutamento di alcuni di loro limitatamente alle unità sanitarie) è rappresentativa di questo percorso. Lo scenario pubblico a suo tempo egemonizzato dall’istanza statale e borghese nonché interdetto a una chiesa cattolica restia ad accettare il tramonto della società classista premoderna, si apriva nuovamente ai sacerdoti, intesi come igure capaci di assecondare ed imporre le nuove relazioni di potere. Non è di secondaria importanza il fatto che sia don Rossaro che il suo successore (dal 1953 al 1973) alla guida della istituzione che gestiva la Campana dei Caduti, padre Eusebio Iori, furono cappellani militari. Cercando di far parlare il più possibile le fonti, citiamo ancora il Rossaro del 1952. «[La campana] renderà il suo omaggio a Cristo Redentore, il Principe della pace e il Re degli eserciti, avvolgendosi nell’augusto silenzio della liturgia cristiana»23.

Insomma, si potrebbe affermare, metaforicamente, che siamo in presenza di un Cristo che si riconcilia con il soldato, preferibilmente graduato (e quindi, implicitamente, con il pater familias borghese, vertice gerarchico della famiglia, famiglia che era la cellula fondamentale della nazione in tanti discorsi ottocenteschi). In effetti sembrerebbe dimostrata, con le ricerche di Roberto Morozzo della Rocca, l’attitudine dei cappellani militari, durante la Grande Guerra, a sentirsi parte, manifestare attenzione ed empatia per il corpo degli uficiali dell’esercito più che per la semplice truppa24, la cui prossimità era relativa, più che altro, ai cosìddetti preti-soldato, i religiosi inquadrati come semplici soldati, che condividevano, spalla a spalla, le loro sorti. Ebbene, il discorso sviluppatosi intorno alla Campana risente certamente del clima italiano, dove, accanto alla celebrazione del Milite Ignoto, vero e proprio fulcro dell’interclassismo nazionale, troviamo una decisa cele-

brazione dei capi in battaglia. È suficiente ricordare la centralità delle tombe del duca d’Aosta e dei suoi generali al sacrario di Redipuglia. L’attenzione per la parte gerarchicamente alta degli eserciti (e di rilesso delle società) è in effetti caratteristica del semioforo Campana. Anche per questo don Rossaro intrecciò dunque rapporti epistolari con le ambasciate e le più alte cariche militari europee. Una delle iniziatie mirava a raccogliere e incidere, sulla parte interna del bronzo, pensieri 22 23 24

r. Morozzo della roCCa, La fede e la guerra.Cappellani militari e preti-soldato (1915-1918), ed. Studium, Roma 1980. rossaro, La Campana cit., p.167. Cfr. g. l. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, ed. Laterza, Bari 1990, p. 84.

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e motti (nelle lingue e graie originali), ispirati allo spirito della Campana, dei più noti “condottieri” europei. Il margine tematico era ampio e includeva: «ricordo, rimpianto, riconoscenza, pace e gloriicazione»25. Questa iniziativa misurò l’equilibrismo di Rossaro alle prese con l’insidiosa convivenza simbolica tra vincitori e vinti. Alle lamentele dell’ambasciatore tedesco Von Neurath riguardo i motti francese e italiano26, che avrebbero teso più alla umiliazione dei vinti che alla paciicazione, Rossaro seppe replicare elogiando il contributo di Hindenburg27 e promettendo rigore verso i generali che avevano dimostrato di «non aver capito nulla»28 dell’iniziativa. Ma anche i motti più “universali” e “condivisibili” sono segnati da un elogio dell’onore guerriero, del dovere della difesa delle rispettive patrie, del sacriicio eroico. Così, ad esempio, il motto inglese29, improntato alla sicurezza e alla pace, oppure quello portoghese30. Signiicativo poi quello americano31, contrassegnato, come era lecito aspettarsi, nel senso di una libertà e di una giustizia di cui Rossaro ci fornisce una buona chiave di lettura, per un momento materialistica ed economica. «Non già che essi (i condottieri, ndr) aspirassero alla pace come ine della guerra, ma frutto dei loro sacriici e come bene supremo pei loro popoli. E infatti è nella pace che trionfa la libertà, che ioriscono le industrie e i commerci, e che le scienze, le arti e le lettere profondono nel mondo splendori di verità e incanti di bellezze»32.

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31 32

«Così i lontani nipoti, pellegrini alla sacra Campana, leggendo nella propria lingua le parole dei Condottieri, sentiranno, in terra non più asservita, l’eco toccante della patria lontana, e ai piedi della Campana, in quella piccola zolla, patria di tutte le patrie, si sentiranno cittadini di tutto il mondo». rossaro, La Campana cit., pp.97-98. Questi rispettivamente i motti dettati dagli alti rappresentanti delle due nazioni: «La Campana di Rovereto ricorda che i soldati di Francia e d’Italia hanno versato ancora una volta fraternamente il loro sangue per l’incolumità della nuova Patria Maresciallo J. Joffre per la Francia». «Il solenne rintocco della Campana sacra ai sublimi olocausti dica e ricordi che l’Italia ha vinto e cammina sicura verso i suoi più alti destini» Armando Diaz per l’Italia». Cfr. La Campana dei Caduti di Rovereto. Guida alla visita, Edito dalla Reggenza Opera Campana dei Caduti, Rovereto-Bolzano 1955, pp. 41-42. «Gli squilli della Campana riecheggino tra i monti e lontano per l’etere, portino sull’ali del suono la gloria e il ricordo pure degli eroi tedeschi. Hindenburg per la Germania». Ivi, p. 58. Lettera di Rossaro all’ambasciatore tedesco del 15 giugno 1928. ChioCChetti, Don Antonio Rossaro cit., p. 6. «Suona per i Caduti inglesi. Nell’aspirazione alla sicurezza ed alla pace, essi condivisero l’onore coi vostri G. Cavan». Ivi, p. 43. «Ricordare, gloriicandoli, quelli che, dando un alto esempio dell’adempimento del dovere per la Patria, caddero in guerra, sarà un insegnamento di pace per quelli che governeranno in futuro. Generale Th. A. Garcia Rosado», Ivi, p. 45. «Oh, suona tu in eterno il nostro messaggio di affetto e di gratitudine per i compagni che diedero tutto ciò che avevano afinché non periscano gli ideali della libertà e della giustizia. Generale John Pershing». Ivi, p. 46. rossaro, La Campana cit., p. 101.

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2.4. La tensione tra localismo campanilista e universalismo Su un altro versante, Rossaro si adoperò nell’iniziativa delle pergamene artistiche. La circolare che venne diretta agli “artisti di buona volontà” suonava così: «Il tema da svolgersi sarà la monumentale Campana dei Caduti, festeggiata dalle sorelle d’Italia. In ogni pergamena dovrebbe quindi campeggiare un motivo analogo: qualche campanile storico, qualche antica torre, qualche artistica cupola con campane che squillino festosamente, accordando la loro voce vespertina della Sorella maggiore… Tutte le province hanno qualche torre o campana celebre nell’arte o nella storia; ebbene diano esse il loro omaggio, e questo rifulga nelle pergamene»33.

L’iniziativa fu complementare alla attività dei comitati che nacquero un po’ ovunque in Italia, per inanziare la fusione del bronzo. Rossaro dà conto della situazione in “Alba Trentina” del novembre-dicembre 1922. «La stampa nazionale ha accolto, con largo consenso, la nostra idea, e in parecchie province si sono istituiti volenterosi Comitati, facenti capo a una Madrina della Campana, quasi sempre Madre o Vedova di guerra o per lo meno una Signora nota nel campo del patriottismo e della beneicenza»34.

Il successo e la diffusione di questi comitati sancìrono anche il deinitivo lancio dell’impresa, permettendo di raccogliere il denaro necessario. Ma, accanto a queste necessità pratiche, occorre sottolineare la valenza simbolica della diffusione dei comitati nelle città d’Italia, con il tentativo di coagulare l’opinione pubblica sul tema della memoria della guerra redentrice. Se, come rilevava il colonnello Pagani a proposito dell’indottrinamento militare al primo congresso per la storia del Risorgimento del 1906, il livello culturale delle reclute era generalmente desolante, con un evanescente concetto di Patria, ristretto «al campanile del villaggio o alle mura della città»35, non deve meravigliare il tentativo di legittimare la grande patria a partire dalla piccola. Ancora una volta la Chiesa e i suoi rappresentanti erano le soggettività più adatte per agire questa ridislocazione di signiicato essendo i custodi delle tradizioni di antico regime. D’altronde, laddove non ci sono campane e campanili, non c’è nemmeno civiltà. «Dal momento che Saladino il 7 ottobre 1187 entrò in Gerusalemme e mise al bando le Campane, abbattendole dai campanili; dal momento che Maometto en33 34 35

rossaro, La Campana cit., p. 83. la direzione, La nostra iniziativa. La Campana dei Caduti, in “Alba Trentina”, VI/11-12 (1922), p. 254. M. Baioni, La religione della patria: musei e istituti del culto risorgimentale: (1884-1918), ed. Pagus, Quinto di Treviso 1994, p. 107.

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trò, nel 1453, a Costantinopoli, e soppresse le campane, sostituendo ai campanili i minareti, la civiltà abbandonò quelle contrade e la barbarie seminò tenebre e squallore»36.

Nel ristretto universo dell’Italia di inizio Novecento, a fronte di una popolazione contadina il cui orizzonte si esauriva, salvo pochissime eccezioni nel corso della vita, al proprio paese o alla propria città, con un tempo scandito dai ritmi dei campi e dai rintocchi giornalieri delle campane dei paesi, la Grande Guerra rappresentò per molti un tuffo fragoroso in un nuovo mondo. La Campana di don Rossaro appare dunque come un ponte tra le due epoche. Un manufatto che sembra voler esorcizzare lo sradicamento delle folle contadine italiane durante la guerra, richiamando il rassicurante contesto della piccola patria. In ciò, il nostro “caso” sembra confermare e assecondare una tendenza tipicamente italiana dall’unità in poi: la costruzione e il rafforzamento dell’identità nazionale a partire da quella locale. Dalla piccola alla grande patria. L’Italia è tradizionalmente intesa come la terra delle cento città e dei particolarismi. Nei discorsi della classe intellettuale post unitaria, questi elementi rappresentano dei topoi rafforzati, nelle motivazioni storiche, da una uniicazione nazionale relativamente tarda e dall’assenza di una capitale accentratrice e indiscussa quale avrebbe potuto essere Parigi per la Francia o Londra per la Gran Bretagna. Ma c’è di più: nel seguente discorso del ministro della Pubblica Istruzione italiano, pronunciato nel 1899 per l’inaugurazione della III Esposizione Internazionale di Belle Arti a Venezia, è palpabile questa dinamica che non solo certiica la particolarità del contesto italiano ma nutre una immagine universalistica di Roma e del suo ruolo. «Oggi che per la virtù redentrice della stirpe sabauda e d’un prodigioso eroe popolare, la gente italica trasformò le civili discordie in una gara fraternamente amorosa, le singole vite tornano a fondersi in una vita comune; l’Italia nuova serenamente si piace di tutte le sue memorie, rese ancor più pure dal lavoro del tempo, e di tutte è superba, come di un suo patrimonio ricco e glorioso. Ma oggi essa sente la forza di difenderlo con la sua rivendicata unità da ogni oltraggio straniero, e sul clipeo di Roma fra le più nobili insegne troneggia il leone di San Marco. Tutto ciò fa dell’Italia una nazione che non può avere l’uguale; perché mentre potrebbe, ad esempio, dirsi che Parigi è la Francia. Londra l’Inghilterra, non può dirsi che Roma è l’Italia: Roma è la capitale storica del mondo, ma le cento città, ognuna con i suoi tesori e con la sua storia, fanno corona alla città eterna, ed i fasci luminosi che scaturiscono da ciascuna di esse si concentrano su di essa per nutrire la viva fonte di luce che è per tutto il mondo l’Italia»37. 36 37

rossaro, La Campana cit., p. 12. i. porCiani, Identità locale- identità nazionale: la costruzione di una doppia appartenenza, in Centralismo e federalismo tra Otto e Novecento. Italia e Germania a confronto, a cura di O. Janz, P. Schiera, H. Siegrist, “Annali

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Ben lungi dall’essere tre elementi conliggenti, le cento città, la nazione e l’universalismo romano si sorreggono reciprocamente. Le tracce di questi orientamenti sono diffuse lungo tutta la produzione propagandistica di Timo da Leno. Fin dal primo numero di “Alba Trentina” don Rossaro nutrì la sua redenzione anche con richiami al municipalismo medievale e ai suoi manufatti architettonici. Troviamo quattro poesie, riunite sotto il titolo di “Trento latina”, intitolate ai quattro principali monumenti cittadini: il castello, la torre verde, il duomo, la chiesa di Sant’Apollinare. Due ediici militari e due religiosi. Ma vale la pena leggere la poesia, dal sapore carducciano, riferita al castello di Trento. Bench’io sia pien d’aquile doppie e nere E dello spron teutonico risuoni, Bench’io dispieghi al vento dai bastioni Dei due color le lugubri bandiere, Sono italian! E un dì per le severe Mie sale udii l’italiche legioni, E degli alati veneti leoni Vidi l’insegne sulle mie frontiere E del concilio vidi i cardinali In una pompa d’ostri, e sui latini Scudi tra spade scorsi i pastorali, Ma sempre puro tenni sui palvesi, Il motto vostro, o giovani trentini, Italiani noi siam, non tirolesi.38

Il castello stesso prende magicamente la parola e si fa testimone della memoria italiana del Trentino. Accanto al richiamo ai cardinali del Concilio e alle legioni romane non manca quello a Venezia e ai suoi leoni alati. Rovereto, a differenza di Trento, era stata direttamente sotto il controllo veneziano tra XV e XVI secolo e si prestava, ancor meglio di Trento, alla conferma degli assiomi dell’italianità e della redenzione dallo straniero. Rossaro fece riferimento al dominio della Serenissima per spiegare lo sviluppo e la ioritura, economica e culturale, della città.

38

dell’istituto italo-germanico”, Quaderno 46, ed. il Mulino, Bologna 1997, p. 164. A. rossaro, Trento Latina, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 21.

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«I suoi opiici, le numerose scuole, i suoi istituti culturali e le provvide associazioni che rispondono a tutte le esigenze, danno a Rovereto l’impronta di una cittadina operosa e colta, che può degnamente igurare fra le cento consorelle d’Italia»39.

Risultano così evidenti le motivazioni simboliche che portarono alla scelta del castello di Rovereto, la cui veste attuale risale proprio al periodo veneto, come sede del Museo della Guerra e della Campana dei Caduti. All’interno del Museo della Guerra è osservabile ancor oggi quella che fu la sala appositamente dedicata alla Campana, affrescata, su tre dei quattro lati, con gli stemmi delle province italiane. Inoltre fu dedicata da subito una sala ai castelli trentini, icone reali e visibili di una storia locale fondamentale per il racconto irredentista di Rossaro. «Poeticamente accoccolati nei loro manti di antica edera sopra giulivi colli, o annidati dentro il verde di folti boschi, o ridenti in un gioire di merli e di torri su erbosi altipiani o incastonati entro precipiti rupi, i castelli trentini, ora quasi tutti ridotti in un romantico scheletro di ruderi, narrano al passeggero la loro storia che talvolta è un inno di gloria, altra un dramma di sangue»40.

Una storia locale, rappresentata dai simboli delle sue città e delle sue più antiche e potenti casate, che andava a intrecciarsi inesorabilmente a quella italiana. Rossaro scrisse, in riferimento alla cerimonia di consacrazione41 del bastione Malpiero che avrebbe ospitato la Campana di lì a poco. «La “quercia di Rovereto” si intrecciava al “leone” di Venezia e la “croce sabauda” al leone dei Castelbarco»42.

Tra le tante iniziative letterarie intorno alla Campana promosse da Rossaro negli anni, spicca inoltre il concorso per la miglior poesia dialettale, risalente al 1930. Ciò a confermare un radicamento e una propensione alla valorizzazione della piccola patria (che in parte potrebbe confondersi con un’autonomia locale particolarmente sentita in ambito trentino), in apparente contrasto con la politica linguistica omologatrice del regime fascista. Anche immagini, di copertina e non, e caratteri graici43 di “Alba Trentina”, realizzati dall’architetto, pittore, illustratore e cugino di Rossaro, Giorgio Wenter Marini (189039 40 41 42 43

rossaro, La Campana cit., p. 28. a. rossaro, Il Trentino ai fanciulli d’Italia cit. p. 12. La cerimonia si svolse il 27 aprile 1924 alla presenza del Re d’Italia. rossaro, La Campana cit., p. 51. Ad esempio con l’uso dei caratteri gotici, in particolare nella prima lettera dei titoli degli articoli.

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1973), rimandano a un immaginario medievaleggiante. Il particolare stile di Wenter nelle xilograie della rivista nel periodo della guerra è un espressionismo bidimensionale e bicromo, carico di contrasti chiaro scuri e molto icastico, ricco di inluenze secessioniste ma ormai lontano dall’arte liberty. La mancanza di linee in favore di un tratto spesso e di stesure a plat, risulta utile tanto a manifestare le inquietudini legate alla guerra quanto a rappresentare iconicamente i simboli delle radici identitarie collocate in un passato mitico e sacro. I soggetti di Wenter sono soprattutto castelli e cattedrali, torri, torri con orologi, vessilli, bandiere e campane. Le igure umane non mancano: i corpi, anch’essi stilizzati ed essenziali, delineano sacerdoti e cavalieri, le igure rappresentative per eccellenza del medioevo cristiano44. I temi dell’età cavalleresca sono particolarmente in voga durante l’immediato primo dopoguerra, specialmente tramite l’inluenza tedesca45, e di ciò vediamo traccia anche nell’opera di Stefano Zuech (1877-1968), lo scultore del bassorilievo della Campana dei Caduti, altrimenti fortemente legato, per 44

G. Wenter Marini, copertine di “Alba Trentina”, 1920, 1922.

45

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Le considerazioni di Schmitt in Cattolicesimo romano e forma politica sono ancora calzanti: «Della capacità medievale di formare igure rappresentative –il papa, l’imperatore, il cavaliere, il mercante- oggi la Chiesa è l’ultimo solitario esempio» E poi ancora: «il sacerdote appartiene alla stessa specie del soldato e dello statista. Il sacerdote può stare al ianco di questi, come igura rappresentativa, poiché anche essi sono siffatte igure, ma non può stare accanto al commerciante e al tecnico che ragionano economicamente, che gli danno solo elemosine e scambiano la sua rappresentazione per mera decorazione». C. sChMitt, Cattolicesimo romano e forma politica cit., p.39-48. Cfr. C. BeltraMi, Stefano Zuech (1877-1968), edito a spese del comune di Brez, Lavis 2007, p. 55.


G. Wenter Marini, Xilograie per “Alba Trentina”, VI/8 (1918); II1/3 (1917).

G. Wenter Marini, La città sacra, olio su cartone, 1923. (Collezione Cassa Rurale di Rovereto)

formazione e propensione, al classicismo della scultura ellenistica e romana. In particolare il monumento del 1922 a Silvio Vois, volontario trentino caduto sul Carso, oppure i bassorilievi delle quattro campane di Brez, in Val di Non, le prime che tornarono a suonare nella valle già nel 1922 dopo che erano state fuse dagli austriaci per fabbricare cannoni. Il busto dedicato al Vois, scolpito in posa ieratica e priva di pathos, porta armatura e spada medievale mentre le campane sono percorse da bassorilievi a tema religioso: spicca un santo-guerriero e San Vigilio, «grande apostolo e martire romano»46 cui, tra l’altro, Rossaro, in “Alba Trentina”, fa risalire la fondazione e deinizione politica dei conini della diocesi trentina nel V secolo d.C. (fermo restando che il Trentino fosse, primariamente, di «indiscutibile origine etrusco-romana»47).

46

S. Zuech, Monumento a Silvio Vois, Taio.

47

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A. rossaro, Intorno ai nomi Tirolo e Trentino, in “Alba Trentina”, I/5 (1917), p. 166.

Ibidem.


2.5. Polo romantico e polo classico. Iconograia intorno alla Campana dei Caduti Accanto ai riferimenti iconograici in qui descritti, riconducibili a una sfera che potremmo, come ipotesi di lavoro, deinire “romantica”, si può delineare una sfera “classica”, di cui fa compiutamente parte il bassorilievo della Campana dei Caduti. I due interpreti principali dei miti della guerra e della nazione rossariano, in ambito igurativo, furono, per l’appunto, Wenter e Zuech. Nonostante si possano considerare, schematicamente, come i rappresentanti dei due poli sovra citati, non si può non notare come entrambi nutrissero il loro lavoro di entrambi i riferimenti culturali, quello classico e quello romantico. La loro formazione scolastica si era giocata nel contesto viennese e mitteleuropeo di inizio novecento e, al pari della coeva borghesia, si era basata su questo tipo di tradizioni culturali. Anche gli studi di George L. Mosse certiicano, per l’ambito tedesco, la convivenza di classico e romantico nella architettura nazionalista, spesso a detrimento di tendenze più innovatrice. «Il classicismo sopravviveva a tutti i suoi nemici: non solo si riappaciicò con il romanticismo, con il quale in realtà dette vita più a una coesistenza che a una fusione, ma ricevette anche rinnovato impulso allorché poté presentarsi come reazione all’art noveau (jugenstil)»48.

Una xilograia di Wenter Marini del 1915, I centauri ai lavini di Marco, (igura a lato), realizzata a corredo dei versi del poeta iorentino in previsione del VI centenario dantesco, è rappresentativa di questo eclettismo culturale49. La questione “Dante” rappresenta un esempio emblematico dei meccanismi di inveramento della tradizione nazionale. Il dibattito riguardante la realtà del passaggio di Dante dal Trentino e la corrispondenza o meno della frana dantesca nel XII canto dell’Inferno con quella che sovrasta il piccolo abitato di Marco, vicino a Rove48 49

G. l. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (18151933), ed. il Mulino, Bologna 1975, p. 60 (anche p. 65-67). Cfr. M. sCudiero, Giorgio Wenter Marini. Pittura, Architettura, Graica, ed. L’Editore, Calliano (Tn)1991, p. 170.

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reto, nel pieno della zona nera durante la guerra mondiale, poteva diventare cruciale, tanto da far scrivere a Rossaro: «Attendiamo che una fortunata scoperta ci mostri, su qualche antica carta, l’Alighieri al ianco di Guglielmo di Castelbarco»50. Si sarebbe così aperta la possibilità della monumentalizzazione della zona in virtù di una doppia sacralizzazione. «E sul luogo dove dimorò il peregrin fuggiasco, che probabilmente risulterà la rovina di Marco oggi risacrata dall’immane tragedia della guerra, rifulga un segno che risuoni ai posteri l’immortali terzine dantesche che rispecchiano quel luogo»51.

Non stupisce dunque per nulla che, per la copertina del libro di Rossaro del 1914, “Trentino nostro”, Wenter pensasse a un possente centauro sovrastato dalla bandiera italiana. Anche laddove Wenter si confronta con il nudo (tema eminentemente classico), durante il periodo della guerra, i corpi rigorosamente maschili appaiono vigorosi anche se incatenati o addirittura mutilati. Si può qui ravvisare sia la tendenza a mascherare e banalizzare la realtà della guerra tramite una rappresentazione sempliicata e astratta degli orrori, sia le tracce di quello stereotipo borghese della virilità e del eroismo descritto da Mosse per l’ambito tedesco. «Il concetto di mascolinità, compresi i modelli di bellezza maschile mutuati dalla Grecia antica, fu assunto dai nazionalismi europei quale simbolo nazionale e stereoG. Wenter Marini, progetto per la copertina di “Trentino Nostro”, china e aquerello su carta (sopra); Xilograie per una serie di cartoline sul tema degli orrori della guerra, 1916 (sotto).

50 51

A. rossaro, Pubblicazioni dantesche di trentini, in “Alba Trentina”, V/3 (1921), p. 113. A. rossaro, Il Trentino per il VI centenario dantesco, in “Alba Trentina”, III/3 (1919), p. 127.

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tipo. L’ideale greco fu spogliato di ogni erotismo superstite, mentre ne furono accentuate l’armonia, la proporzione e la bellezza trascendente»52.

Mosse poi continua spiegando la sete di tradizione delle élite nazionaliste. «Il nazionalismo cercava ispirazione nei valori pre-industriali del passato, ancorando i propri ideali alle forze immutabili della storia, della natura e della bellezza eterna. La modernità, che la borghesia aveva contribuito a creare, appariva ora una minaccia alla stabilità»53.

L’ideale della bellezza e della misura winckelmanniano, che nutrì questo stereotipo borghese, è ritrovabile ancor più chiaramente nei nudi dei soldati nel bassorilievo della Campana dei Caduti.

2.6. Il ciclo scultoreo della Campana Il ciclo scultoreo della Campana dei Caduti può essere considerato, come già anticipato, un microcosmo ideale borghese, un panorama omnicomprensivo e universale della nazione uscita vittoriosa dalla grande guerra. È una silata, un lungo corteo, una processione che si snoda sul bronzo. Nella prima Campana i personaggi sono trentadue, di cui diciassette soldati, tre religiosi, un bambino, undici donne. L’intero corteo da l’idea di una comunità che marcia, compatta e all’unisono, nella stessa direzione. Questo racconto per immagini può essere diviso in quattro scene successive, svolte da destra verso sinistra. La Partenza, la Lotta, la Morte, la Vittoria. La prima scena rappresenta un abbraccio tra il soldato in partenza per la guerra, suo iglio e la sua sposa seguiti da otto soldati in marcia coperti solo da elmetti, scudi e mantelli corti. La seconda scena, la Lotta, che come è stato notato54, è radicalmente differente dalle altre, rappresenta gli strumenti della guerra per mare, su terra e in aria: la prua di una nave, un cannone e un biplano. La terza parte mette in scena il funerale del milite ignoto, la cui bara viene sorretta da sei igure femminili coperte da veli, precedute da altre tre igure femminili che sorreggono delle torce, questa volta a capo scoperto. Ad aprire il corteo funebre, inine, un monaco e 52 53 54

g. l. Mosse, Sessualità e nazionalismo, Mentalità borghese e rispettabilità, ed. Laterza, Bari 1984, p. 34. Ivi, p. 35. BeltraMi, Stefano Zuech cit., p.101.

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un frate preceduti dal vescovo55 con la sua tiara a coprire il capo e il pastorale nella mano. L’ultima scena vede di nuovo protagonisti 8 soldati. I primi quattro, a piedi, suonano trombe egizie e impugnano gli allori della Vittoria, preceduti da quattro soldati a cavallo, anch’essi muniti di alloro. Chiude la sequenza una donna, che Renato Trinco ipotizza rappresentare l’Italia, che sorregge una piccola statua alata, la «Vittoria alata, la Pace»56 che, a sua volta, impugna un alloro. Dal momento che il fregio si snoda su una supericie circolare, inizio e ine vanno a coincidere proprio sotto a un Ecce Homo (il volto di Cristo incorniciato in una corona di spine e un proilo solare), che sovrasta la scena. Signiicativamente, questo punto, in cui la piccola Vittoria alata fa da cerniera separando l’anno di inizio e di ine della guerra, mette di fronte il triangolo edipico famigliare in via di separazione e la Nazione, quasi a dare conto dei pilastri dell’ordine sociale: famiglia (intesa tradizionalmente), patria, Cristo. La principale preoccupazione di Zuech e Rossaro nella progettazione del monumento riguardava la necessità di rappresentare l’universalismo del messaggio di fratellanza, di costruire la capacità di stare sopra le parti, garantendo al contempo una normatività buona per ogni società nazionale. La nudità dei soldati, l’assenza di stemmi sugli scudi o sulla bandiera che sventola sono emblematici in questo senso. Sempre a proposito di ciò, in un’interessante intervista del 1963, Zuech ricordava: «Dapprincipio don Rossaro pensava di incidere sulla Campana il proilo dei monti su cui avvennero le più grandi battaglie della prima guerra mondiale. Poi, non rispondendo questa idea all’aspirazione di universalità che si doveva dare alla Campana, ci orientammo su di un simbolismo storico che doveva ritrarre gli aspetti più dolorosi della guerra. Ne uscì il ben noto corteo delle immagini che sintetizzano il valore e il sacriicio dei combattenti chiamati ad assolvere il loro dovere verso la Patria»57.

Gli “aspetti più dolorosi della guerra” di cui parla Zuech, iniscono per apparire, più che altro, espulsi dalla rappresentazione. Sempliicazione e astrazione sembrano quindi funzionare più come meccanismi di banalizzazione dell’esperienza bellica, meccanismi di velamento degli aspetti più realistici della guerra: la rappresentazione della Lotta è priva di igure umane, unica del ciclo, e il signiicato viene veicolato dalla rappresentazione 55 56 57

Se per Renato Trinco e Maurizio Scudiero siamo di fronte a un monaco,un frate e un vesovo, per Rossaro si tratta invece di cappellani militari e vescovo castrense. r.trinCo, M. sCudiero, La Campana dei Caduti, Maria Dolens. Cento rintocchi per la pace, La Graica, Mori (Tn) 2000, p.15. Quest’estate la rifusione della campana dei caduti, 24 febbraio 1963, p.4. in BeltraMi, Stefano Zuech cit., p. 100.

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S. Zuech, Bassorilevi per la prima Campana dei Caduti, 1923-24.

delle armi. Il cannone, la prua della nave e l’aereo, benché uniche concessioni a una rappresentazione della tecnica moderna, appaiono manufatti architettonici immobili, oggetti iconici che sembrano provenire da un altro tempo, lontano e sacro. Le analisi di Mosse si adattano bene a questo contesto. «Ma perpetuare l’immagine preindustriale della nazione non signiicava riiutare la tecnologia moderna. Il nazionalismo, che si annetteva la natura, dominava altresì la macchina, subordinandola ai suoi ini. La tecnologia moderna e la sua potenza vennero poste al servizio della nazione, e con ciò stesso spiritualizzate; furono descritte in immagini medievali, come i cavalieri del cielo; le si circondò con la natura o con i simboli nazionali»58. 58

g.l. Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 112.

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Questa astrazione della battaglia sembra insomma essere un addomesticamento di quella realtà della grande guerra, così lontana dagli stereotipi eroici e cavallereschi di cui era intrisa la borghesia interventista con la sua cultura scolastica. Lo scultore Zuech, ben lontano dall’evitare «ogni possibile contestualizzazione storica» e dal modellare «un corteo slegato da riferimenti temporali»59, rimanda a un immaginario arcaicizzante, intriso di classicità romana e suggestioni medievali, anche quando tratteggia elementi eminentemente contemporanei. A ben guardare i dolori della guerra non ci sono nemmeno laddove l’umano è rappresentato. Nella Campana i volti non tradiscono alcuna emozione, sono neutri e ripetitivi. Le uniche pose che manifestano una certa mestizia sono quelle delle partecipanti al corteo funebre, con i volti parimenti inespressivi ma rivolti verso il basso. Ad essere enfatizzato è invece il pathos del trionfo della nazione in armi, degna conclusione della guerra e precondizione della pace. A confermare questo quadro non si può evitare la citazione di un episodio60 della genesi del fregio: Zuech inizialmente aveva pensato a una rappresentazione della Pace da far seguire al corteo funebre: si trattava di un gruppo di buoi che trascinano un aratro, a simboleggiare un rassicurante ritorno alle tradizionali occupazioni contadine. Ebbene, Rossaro si oppose a questa soluzione suggerendo il trionfo di cavalli e trombe poi effettivamente realizzato. L’esercito vittorioso venne preferito alla rappresentazione di una quotidianità arcaica e contadina.

2.6.1. Una prima metamorfosi. Dall’astrazione al realismo La Campana venne fusa tre volte nel corso degli anni, nel 1924, nel 1939 e nel 1964. Furono momenti di possibile ricollocazione simbolica, momenti di discussione, momenti di messa in scena dei rituali. Alcune delle modiiche apportate per far fronte agli ingrandimenti del bronzo, con relativa estensione delle superici, sono particolarmente interessanti. Per la seconda Campana, Zuech realizzò nuove scene da inserire nel fregio. Delle quattordici igure aggiuntive, dieci furono poste in coda al corteo funebre, dopo il cannone. Ad aprire il corteo aggiuntivo si trovano tre invalidi di guerra, poi tre soldati prigionieri e inine il gruppo degli esuli civili: due anziani piangenti con le mani a coprirsi i volti, la madre e il iglioletto accompagnati da un asinello. Sullo sfondo il proilo di un borgo in iamme a rappresentare le distruzioni belliche. 59 60

BeltraMi, Stefano Zuech cit., p. 100. Stefano Zuech (1877-1968). Il volto il mito il sacro, (catalogo mostra), a cura di E. Mich, C. Moser, R. Pancheri, Rovereto. Palazzo Alberti Poja. 2 luglio-18 settembre 2016, ed. Wasabi, Crocetta del Montello (Tv) 2016, p. 82.

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S. Zuech, Bassorilievi per la seconda Campana dei Caduti. Gruppo dei profughi, mutilati e prigionieri, 1939.

La natura di queste aggiunte sembra rispecchiare le tendenze generali in ambito tedesco con il sopraggiungere della seconda guerra mondiale. Mosse ci riferisce della tendenza al disoccultamento della realtà della guerra nella Germania di Hitler. «Dapprincipio, Joseph Goebbels tentò di trovare un compromesso tra gli orrori della guerra che potevano essere mostrati e quelli che erano troppo terribili perché fosse possibile farne partecipe il pubblico. Nel 1940 emanò direttive affermanti che la durezza, le grandi dimensioni e i sacriici della guerra dovevano essere mostrati, ma che occorreva evitare ogni descrizione esagerata, tale da ottenere il solo risultato di accrescere l’orrore della guerra. Ma Goebbels sosteneva anche che era stato un errore, durante la prima guerra mondiale, occultare alla gente le notizie sgradevoli, e che il fronte interno doveva essere trattato come se facesse parte della prima linea. Il compromesso tentato da Goebbels era piuttosto sbilanciato verso il realismo, che non verso il mascheramento della guerra»61.

Nel caso della macchina propagandistica tedesca pesavano le condizioni oggettive del nuovo sforzo bellico, con un accentuato coinvolgimento delle popolazioni civili europee dovuto al venir meno della distinzione tra trincea e seconda linea e le conseguenti dificoltà di occultamento di una realtà della guerra che, per di più, non rappresentava una novità assoluta come venticinque anni prima. Anche la distanza temporale nel frattempo intervenuta con i fatti della prima guerra aveva probabilmente concorso alla possibilità di svelare, di rendere manifesti particolari realistici che la narrazione nazionalista aveva nel frattempo reso più “digeribili”.

61

Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 224.

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Ma, per il simbolo cristiano Campana, sicuramente giocò la predisposizione cristiana all’uso del dispositivo “martirio”, all’uso della sofferenza e del dolore quali elementi fondanti del racconto cristiano del mondo. Se la redenzione dell’umanità passava attraverso il martirio di Cristo, la redenzione nazionale sarebbe dovuta passare attraverso il sacriicio del suo popolo. In questa prospettiva, non solo si poteva rappresentare la sofferenza, ma occorreva rappresentarla, e con un certo pathos. Se Zuech si mantenne sempre fedele «a una ricostruzione garbata della sofferenza, a un pathos calibrato»62, invece la scrittura rossariana fa sfoggio, a tratti, di un pathos della carne e del sangue, di una certa corporeità, “pulp” e macabra. Si tratta di una modalità espressiva che dice per nascondere, che enuncia l’orrore per esorcizzarlo. Perchè occultamento e banalizzazione non sono esclusivamente questione di omissione ma anche di trasigurazione della realtà. L’orrore e la sofferenza possono così diventare accettabili nella parabola della pasqua cristiana. Ecco un estratto dalla introduzione del primo numero di Alba Trentina nel 1917. «La nostra rivista che durerà quanto l’alba di questa nuova era, raccoglierà con un dolce senso di pietà, tutto ciò che di bello, di toccante, di forte, potrà dare questa grande ora, unica nella storia trentina. Saranno cose di ieri, cose di domani, ma che tutte porteranno le sanguinose stigmate di questa nuova settimana santa, sacri giorni di passione, in cui il Trentino ha il suo cuore tutto a brandelli sanguinolenti dispersi pel mondo»63.

A distanza di 35 anni Rossaro è ancor più esplicito e prolisso. Ecco una lunga descrizione barocca del libro-testamento del 1952. «Sogno tremendo quello di “Maria Dolens”…! Una sterminata pianura seminata di tibie, di femori, di costole, di teschi, di scheletri, quando una voce animatrice passa, con un sofio divino, su quell’ecatombe a ravvivare quelle ossa gelide e spolpate. Fu allora che tibie, femori, costole, teschi e scheletri si animarono, si alzarono, si rincorsero, si accoppiarono in strani accostamenti, in mostruosi abbracciamenti, formando pareti, archi, guglie, e terminando in una Cattedrale, formata di tibie, di femori, di costole, di teschi e di scheletri. La Cattedrale si eleva alta, macabra, spettrale, recando in fronte il motto: “Ignoto Militi”. Essa è il tempio eretto al soldato iglio di tutte le madri, iglio di tutte le stirpi, iglio di tutta la terra e risuona di rantoli angosciosi. I teschi guatano dalle occhiaie vuote con sguardi biechi, colle mandibole squarciate, con strani sogghigni e grondano di sangue, e il sangue scivola giù per le pareti, ino in fondo, inondando il sagrato e coprendolo come di un tappeto rosso»64. 62 63 64

BeltraMi, Stefano Zuech cit., p. 63. A. rossaro, Nell’alba, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 2. rossaro, La Campana cit., p. 250.

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2.7. Femminilità, infanzia, malattia, popolo. Maria Dolens, anche, dalla parte dei deboli Il microcosmo della Campana fu pensato come ambiente inclusivo, come ambiente capace di abbracciare uomini, donne e bambini di ogni classe sociale. La rappresentazione della Nazione doveva essere socialmente trasversale, in grado di coinvolgere la cittadinanza maschile adulta di ogni ceto, ma anche quelle parti della società normalmente escluse e marginalizzate dal discorso pubblico borghese ottocentesco. La conservazione del dominio di classe e dell’ordine nazionale doveva passare per l’inclusione di quelle marginalità con il ine di dominarle. Se l’inclusione di tali marginalità sociali, ad esempio con la concessione del diritto di voto, poteva apparire come una minaccia agli equilibri consolidati dall’unità nazionale in poi, le élite nazionali non potevano nemmeno permettersi di ignorare le sempre più inquiete forze sociali scatenate dalle dinamiche modernizzanti del modo di produzione capitalistico. Si trattava quindi di pilotare l’inclusione nella sfera pubblica per disinnescare il portato potenzialmente eversivo. La Grande Guerra aveva rappresentato un’accelerazione di quelle dinamiche economiche e sociali che tendevano a trasformare le tradizionali modalità lavorative, i ruoli e la divisione del lavoro. Sulle spalle delle donne erano ricaduti gli oneri lavorativi dei milioni di soldati al fronte, oneri che si erano sommati a quelli domestici, tradizionalmente femminili. La trasformazione aveva coinvolto, in modo differente, tutti i settori dell’economia, dall’agricoltura, all’industria e ai servizi. La guerra portò una crescente centralizzazione dell’organizzazione produttiva, sempre più interconnessa e socializzata a discapito delle vecchie economie agricole, legate a contesti ristretti e maggiormente votate all’autoconsumo. La crescente libertà di circolazione e di utilizzo della forza lavoro, compresa quella femminile, consentiva di ottimizzare lo sforzo produttivo legato alla sempre più impressionante massa di armi e vettovagliamenti necessari sui fronti della guerra. Questi processi non ebbero conseguenze lineari o univoche. Il contesto sociale di origine di ciascun individuo rimaneva determinante nella deinizione della sua situazione. Solo per fare qualche esempio, le iglie della borghesia cittadina poterono usufruire in misura maggiore delle tendenze emancipatrici rispetto alle contadine, oberate di lavoro e spesso sottoposte al controllo di anziane e giovani fratelli, rimasti sul territorio a differenza dei mariti-soldato. Oppure, ad esempio, ai relativamente alti salari delle operaie iper-sfruttate dell’industria degli armamenti continuavano a corrispondere i bassi salari degli impieghi tradizionalmente femminili.

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E anche nel contesto della fabbrica si imponevano differenziazioni e gerarchie che mettevano le donne in posizione di subalternità salariale e sociale. Parti delle aristocrazie operaie e del proletariato politicizzato guardavano con difidenza l’ingresso delle donne viste come concorrenti sul posto di lavoro o esseri inferiori. In generale, con tutta l’approssimazione che ne consegue, a fronte di una dinamica economica che tendeva a creare una popolazione salariata omogenea, fatta di individui sradicati dalle classiche collettività familiari e comunitarie per essere inseriti nelle nuove collettività della produzione dove il lavoro femminile equivaleva65 a quello maschile, le differenze di genere (come parallelamente succede con quelle di “razza” ed “etnia”) potevano funzionare da dispositivi gerarchici di stabilizzazione poichè frammentavano la possibile unità d’azione delle classi oppresse. In effetti la ine della guerra e il ritorno dei soldati alle case fu segnato da un forte processo di rilusso66, da una smobilitazione femminile ovunque rapida e brutale e un ritorno alla precedente divisione del lavoro sessualmente differenziato. Si doveva realizzare una rapida reintegrazione degli ex combattenti, traumatizzati dalla lunga e anonima guerra di trincea e spesso desiderosi di ripristinare il vecchio ordine delle cose, garanzia di un pur limitato e microscopico dominio paternalistico familiare.

2.7.1. Le donne di Alba Trentina “Alba Trentina”, sin dagli anni della guerra, racconta una donna chiusa nel suo ruolo familiare, di corredo all’universo maschile di mariti, igli e fratelli, custode del focolare domestico. Lo strazio, l’infelicità e il martirio delle donne trentine, durante la guerra, sta tutto nel loro essere «madri senza igli, senza patria, senza casa»67. Sono donne eroiche a modo loro, degne delle ave/patriote del 1859, ricamatrici di bandiere per Garibaldi, «sempre ugualmente grandi, sempre forti, sempre italiane, senza esaltazioni inutili, senza fremiti ingiustiicati, ma vigili, energiche, intrepide, eroine sempre»68. Oppure queste donne sono “volontarie trentine69” che «con squisito senso di gentile 65

66 67 68 69

Equivaleva o addirittura superava quello maschile se un ispettore di fabbrica francese ha potuto scrivere in un rapporto del dopoguerra che, pur di uscire dalle miserie del lavoro domestico, le donne si dimostravano più celeri e capaci dei maschi nei lavori ripetitivi e non qualiicati, cosi fondamentali per l’industria fordista. Cfr. F. theBaud, La Grande Guerra: età della donna o trionfo della differenza sessuale? in g. duBy e M. perrot, Storia delle donne. Il Novecento, a cura di F. Thebaud, ed. Laterza, Bari 1992, p. 78. Ivi, p. 75. nigritella, Palpiti italiani di donne trentine, in “Alba Trentina”, I/4 (1917), p. 153. Ibidem. Sarebbe interessante scoprire quante possano essere state le volontarie trentine considerando che nei tre anni e mezzo di guerra i volontari trentini nell’esercito italiano, cittadini dell’impero, furono più di 800.

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modestia, rinunziando al proprio nome, sacriicando la propria individualità, si riunirono in una soave intimità domestica, sotto il collettivo nome di “Famiglia del Volontario Trentino” (…) Sono affettuose fanciulle, colte e pietose signore, distinte dame aristocratiche, che ancora prima della nostra guerra, abbandonarono il loro diletto Trentino, e condividendo la sorte dei fratelli, degli sposi, degli amici che disertarono la bandiera austriaca, scesero nella penisola decise di non tornare nella loro terra che all’ombra del tricolore»70. L’attivismo di queste donne benestanti consiste nel raccogliere fondi e spedire ai volontari trentini pacchi-regalo per natale: cioccolata, sigarette, biscotti, maglie e guanti di lana, il tutto accompagnato da piccole bandiere tricolori di seta. Desideri e bisogni degli eroi al fronte sono al centro delle preoccupazioni delle volontarie, pronte, in caso di ferimento e ricovero in qualche ospedale centrale delle retrovie, a recarsi in visita. Si propongono per intrattenere corrispondenze e consolare i soldati. Le metafore femminili si sprecano: donna è l’Italia, la grande madre; donna è la montagna che educa i igli trentini alla bontà, alla disciplina e alla forza virile; donna è questa natura che, lontana dalla civiltà, ha il fascino del mistero, dell’immaginazione, della fede71. Sulle pagine della rivista appare, nel 1920, la crocerossina trentina, patriota e martire, Bianca Saibanti72, rappresentante di quella categoria di donne addette alla cura e al conforto dei soldati, che troverà posto, nella persona di Margherita Kaiser Parodi, nel sacrario di Redipuglia, unica eccezione nell’universo completamente maschile del più importante monumento italiano ai caduti. Sempre nel 1920, trovano posto le cronache riguardanti il presunto amore platonico tra la giovane Margherita Giuseppina Rosmini, morta prematuramente, direttrice dell’orfanotroio roveretano nella prima metà dell’ottocento, e lo scrittore del romanzo “Fede e bellezza”, Niccolò Tommaseo. La falsariga è quella dell’elogio di una virtù fatta di verginità, purezza, fede e sacriicio. L’autrice del pezzo, Carla Cadorna, iglia del famoso capo dell’esercito italiano, poteva chiosare in questo modo riguardo l’amore mai concretizzato. «Contraddizioni del destino? forza malvagia che continuamente spezza, divide, distrugge? Volontà spietata che bruscamente arresta le anime sul cammino tanto fecondo della gioia? Risponda in coscienza chi ha provato, a me basta la fede che illumina tutte le contraddizioni e che risolve le questioni nel mondo invisibile, ma reale, degli spiriti più che in quello visibile ma apparente dei corpi. Se la “cappa della santità” come in casa Rosmini si intendeva, era davvero un po’ pesante per una ragazza di ventiquattro anni, Margherita Rosmini la seppe valorosamente 70 71 72

La “Famiglia del Volontario Trentino”, in “Alba Trentina”, I/9-10-11-12 (1917), p. 297. Cfr. zinetta, La donna trentina, in “Alba Trentina”, I/3 (1917), p. 96. In memoria della crocerossina Bianca Saibanti di Bolognano, in “Alba Trentina”, IV/2 (1920), p. 68.

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sostenere. La iamma interiore che tutto riscalda e illumina, la carità che tutto solleva le facevan parer soave il peso e leggiero il giogo, e l’anima sollevata non sente neppur più i lacci che per un momento avrebbero voluto legarla alla terra»73.

Mi sembra che la principale prestazione concreta di un tale pensiero cristiano sia quella di comporre i contrasti e legittimare il visibile tramite l’invisibile. I corpi delle persone diventano apparenti, e apparente diventa anche la realtà sociale e quotidiana in cui sono immersi. Il Rossaro-educatore, in un altro articolo del 1919, scrive intorno al primo liceo femminile di Rovereto, fondato nel 1904 per istruire «le signorine, che pur rimanendo in famiglia, avessero potuto conseguire una cultura, che reintegrando l’esperienza della famiglia, formasse quel patrimonio che è la dote precipua della donna di casa»74. Il programma scolastico, modellato sull’esempio germanico e asburgico, comprendeva tutte le materie canoniche dei licei maschili, comprese materie scientiiche quali la matematica e le scienze naturali e dava possibilità di accesso all’università e di conseguenza all’insegnamento, almeno ino alle scuole medie. Inoltre i lavori femminili, come il cucito e il ricamo, non erano compresi tra le materie obbligatorie, ma solo tra quelle facoltative. In modo signiicativo, spia forse di un certo rilusso, nel 1914 il programma era stato reso più pratico con l’aggiunta di un «Corso pratico di cultura femminile superiore» che comprendeva corsi di conversazione sulle opere letterarie più in voga e sui «problemi inerenti alla vita e ai diritti della donna», storia dell’arte per educare il senso estetico delle alunne, «norme di diritto civile relative al matrimonio, al testamento, alla dote, eredità, tutela, interdizione ecc.», «pedagogia dell’infanzia diretta a illuminare la mente delle future mamme ed educatrici», «regole d’igiene nelle malattie infettive, del sistema nervoso, della nutrizione del bambino-infermeria di casa, pronti rimedi, ecc» ed inine «Economia domestica: ad essa è assegnato il numero maggiore di lezioni e di insegnanti. Rappresenta la parte più sostanziale del Corso pratico, occupa il posto di regina, e intorno ad essa le altre materie dovrebbero muoversi con rispetto di ancelle.»75 Il liceo femminile, per di più, venne chiuso negli anni venti, all’interno della generale opera di “sfollamento76” della scuola italiana superiore voluta da Giovanni Gentile attraverso la riforma scolastica del 1923 che ebbe tra le sue conseguenze la polarizzazione dell’educazione: da una parte la classe dirigente, dall’altra la gente comune. La presenza femminile nell’universo simbolico di Rossaro, con la ine della guerra diventa sempre più consistente. I monumenti promossi durante il conlitto furono a pre73 74 75 76

C. Cadorna, L’ispiratrice del Tommaseo, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920), p. 11. a. rossaro, Il liceo femminile “Laura Saibanti” in Rovereto, in “Alba Trentina”, III/2 (1919), p. 42. Ivi, p. 44. Q. antonelli, Storia della scuola trentina. Dall’umanesimo al fascismo, ed. Il Margine, Trento 2013, p. 390.

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senza esclusivamente maschile, come quello dedicato a Cesare Battisti a Rovigo o quelli dedicati Filzi e Chiesa a Rovereto. I martiri-eroi stavano in primo piano, mentre con la ine della guerra e in particolare con l’iniziativa della Campana dei Caduti, fecero il loro deciso ingresso le rappresentazioni femminili. Tra i monumenti promossi da don Rossaro occorre ribadire l’esempio del busto in onore della regina Margherita di Savoia, in piazza Rosmini a Rovereto. È una presenza femminile condizionata, legata al ruolo di madre e moglie, evidente nella prima scena del fregio della Campana, quella del triangolo edipico. Anche le aggiunte del 1939 che ritraggono madre e bambino intenti alla fuga dalle case in iamme sono coerenti in questo senso. Le considerazioni di Françoise Thébaud a proposito del rilusso del dopoguerra, sono assai pertinenti. «La ine del conlitto – mai si sono formate tante coppie come in quel momento – sembra segnata da un ‘rigoglio della privatizzazione’ centrato sulla famiglia e il bambino, visto dalla francese Marcelle Capy, un tempo accesa contestatrice, come il Messia, la grande speranza»77.

2.7.2. L’iniziativa delle madrine della Campana. Il inanziamento e la promozione L’importanza della componente femminile nel simbolo Campana non si riduce al solo ordine simbolico: il successo dell’iniziativa dal punto di vista economico e di diffusione sul terreno nazionale fu assicurato dall’attivismo delle madrine della Campana. Fu un successo in qualche misura inaspettato che permise di realizzare una campana più grande di ciò che si era programmato. La relativa facilità nella raccolta dei fondi necessari per la fusione e la posa dell’opera è particolarmente signiicativa se confrontata con le dificoltà riscontrate con l’ultima fusione del bronzo, quella del 1964, resa possibile grazie al inanziamento di un’associazione umanitaria come il Lions club International. Nei primi anni venti, invece, l’incombenza della raccolta ricadde sui comitati locali sparsi in tutta Italia, le cui generalmente altolocate organizzatrici facevano parte di una tradizione caritativa e cristiana radicata nelle classi sociali benestanti.

77

theBaud, La Grande Guerra cit., p. 74.

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Nelle seguenti considerazioni, Rossaro espone precise caratterizzazioni di genere. «Tutte le opere grandi, sia nel campo della beneicenza che in quello dell’arte, portano l’impronta, se non del genio, certo del cuore della donna, perché la sua cooperazione intessuta di luce e di amore, di sacriicio e di fede, di entusiasmi e di sogni, fa spesso compiere miracoli di bellezza e di bontà.[…] La Legione delle Madrine, oggi si può dire rappresenti tutta la Nazione perché, ad eccezione di pochissime, tutte le province d’Italia sono rappresentate dalla loro Madrina della Campana dei Caduti»78.

Ricorrono i classici topoi femminili della beneicenza e dell’arte, di una donna caratterizzata dall’amore, dalla fede, dal sacriicio, dal cuore più che dal genio. Madri, vedove di guerra e le donne della legione delle madrine sono degne di rappresentare la Nazione e nonostante non pronuncino discorsi in occasione dei rituali e delle ricorrenze che segnano la vita della Campana, sono presenti in numerose di queste pubbliche occasioni. Anzi, ne sono un elemento rappresentativo centrale. Ruoli importanti nel cerimoniale pubblico della Campana furono assunti prima dalla regina Margherita di Savoia e poi, con la seconda Campana, da una bambina roveretana di umili origini, Maria Pia Marangoni, che prese il posto della “prima madrina” uficiale, Maria Pia di Savoia, primogenita di Umberto II, impossibilitata ad intervenire per la sua giovane età, nel 1940. Nonostante queste presenze uficiali, le foto d’epoca79 della folla sembrano testimoniare una netta prevalenza maschile, in particolare di militari, anche se non è facile conoscere la cifra della partecipazione popolare, femminile in particolare, durante queste occasioni. In ogni caso, come rileva Ilaria Porciani80, la donna, che non solo ricama bandiere, ma sacriica il proprio iglio alla patria, in qualche modo esce sempre più dalla sfera privata. La tendenza verso una maggiore presenza femminile nelle piazze e nelle strade dei riti nazionali, inaugurata, ancora una volta, con la guerra di Libia e le celebrazioni del cinquantenario dell’unità d’Italia, prosegue dopo la Grande Guerra. Questo accesso alla sfera pubblica è però subordinato a un dualismo maschile-femminile che innerva i discorsi. Si tratta di un dualismo asimmetrico e gerarchico dove la donna è capace di vivere il suo martirio e il suo dolore quotidianamente e continuativamente. Queste donne sono martiri viventi, contrapposte a martiri-soldato che hanno consumato il loro atto eroico in modo impetuoso ed istantaneo. «Dove arde la iamma dell’amore, ivi appare sempre, eterna vestale del fuoco inconsumabile, la donna, perché la donna è amore, e amore di sacriicio. Chi infatti, 78 79 80

a. rossaro, Le Madrine della Campana dei Caduti, in “Alba Trentina”, VIII/3-4-5-6-7 (1924), p. 56. trinCo, sCudiero, La Campana dei Caduti cit., pp. 44-45. Cfr. i.porCiani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia unita cit., p. 93.

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come la donna conosce l’amore e il sacriicio? L’eroe spesso consuma il suo sacriicio in un supremo impeto di forza e di bellezza, che, talvolta, diventa sprazzo di un’epopea; la donna invece lo rivive con vereconda dedizione, in una continua incarnazione del dolore, ino a gridare con la grande Estatica, se il sacriicio lo richiede, «pati non mori», «patire ma non morire» per cui la donna è forte ino alla morte, anzi oltre la morte. La vergine, simbolo di tutte le madri, rimase ferma ai piedi della croce per tutta l’agonia del suo divin Figlio, bevendo con lui goccia a goccia, tutto l’amarissimo calice, e spirato Gesù, se lo fece calare nel suo grembo, per scaldare di baci e di carezze l’esanime salma»81.

Come in una moneta a due facce, il genere femminile è complementare a quello maschile. La donna può così diventare il custode quotidiano e vivente dell’epopea nazionale e della struttura sociale del mondo in tempo di pace. La compresenza dei due estremi del binarismo di genere li legittima reciprocamente. Pace e guerra possono così convivere nel medesimo schema di intelligibilità. D’altronde tutto ciò è compatibile con una fede cristiana che promette tanta più beatitudine celeste quanta più miseria e sofferenza si è vissuta in terra, invitando alla accettazione della propria condizione di vita, in nome e in attesa del mondo invisibile ma vero che ci attenderebbe dopo la morte. Il fregio della Campana rappresenta eficacemente questo dualismo: l’Ecce homo sospeso sopra il corteo aveva, come corrispondente, sul versante opposto della Campana, un motivo circolare di palme intrecciate, simbolo di gloria e pace. La rifusione del 1939 portò alla sostituzione delle palme con una Maria addolorata incorniciata da una corona di spine e da un disco solare analoghi a quelli dell’Ecce Homo. Anche un rapido raffronto tra le due immagini suggerisce un Cristo sereno e beato contrapposto a una Madonna più seria e austera, per l’appunto addolorata. Il quadro delineato a partire dagli scritti rossariani e dall’analisi del fregio della Campana con le sue trasformazioni, sembra suggerire una crescente attenzione verso un certo modo di intendere la femminilità e verso le componenti viventi della società sofferente uscita dalla guerra, negli anni venti e trenta. Forse questi elementi possono essere considerati spie di un percorso parallelo alla politica statale di massa tentata dal fascismo italiano e mirante al compattamento del fronte nazionale, a una politica inclusiva e capace di governare e occuparsi dell’intera società, o comunque più di quanto non avessero fatto i governi liberali precedenti la Grande Guerra.

81

rossaro, La Campana cit., p. 45.

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«Le élite liberali persero l’occasione non solo di riconoscere la validità dell’opera volontaria prestata dalle donne, ma anche di assoggettare il mutualismo operaio e la beneicenza cattolica all’autorità del governo centrale. Era un’occasione che i fascisti non mancarono invece di cogliere. In nome della “ricostruzione nazionale” essi criticarono aspramente il “disinteresse” liberale, imposero la “disciplina” alle associazioni locali, e mobilitarono come volontarie nelle associazioni fasciste decine di migliaia di donne del ceto medio»82.

S. Zuech, Ecce Homo.

S. Zuech, Maria Dolens.

2.7.3. L’infanzia. L’iniziativa dei temi scolastici «La storia, la verità, la realtà?... Oibò! Son ferri vecchi: il bambino non le curerà punto: plasmerà la materia prima a suo piacimento»83.

Rossaro ebbe sempre una particolare attenzione per il mondo dell’infanzia e dell’educazione. Sopravvivono in lui le vecchie considerazioni riguardo una certa minorità, una certa irrazionalità congenita a donne, bambini e popolino in generale. Una politica e un messaggio che potesse investire eficacemente queste marginalità sociali doveva parlare più una lingua dell’immaginazione, della mistica e della fede che una lingua altolocata e razionale. 82 83

v. de grazia, Il patriarcato fascista, p. 149. In duBy-perrot, Storia delle donne cit. p. 149. rossaro, La Campana cit., p. 177.

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Negli anni Venti, tra le diverse iniziative promosse, come la gara per l’inno della Campana del 1924 o quella per una novella nel 1928, venne indetto un concorso per premiare il miglior tema scolastico, nel 1926. La riforma della scuola di Giovanni Gentile del 1923 aveva introdotto innovazioni che non erano passate inosservate agli occhi di don Rossaro, con l’introduzione di un modello di insegnamento che sembra meno austero di quello precedente: «La riforma scolastica ha introdotto nella scuola un nuovo elemento che produrrà a suo tempo notevoli effetti: il disegno. Anche i bambini delle scuole elementare sono chiamati a questa gioiosa festa di linee, e si lasciò loro massima libertà. Una volta pupazzettare i quaderni di scuola, erano guai!... oggi, si va a rischio di pigliare il premio… Segno evidente dei tempi!»84

I temi che arrivarono a Rovereto erano infatti corredati da fantasiosi disegni e il loro contenuto, nonostante seguisse pedissequamente i topoi del discorso nazionalista, era caratterizzato da una certa libertà nella interpretazione dei fatti intorno al bronzo. Sono tracce delle sperimentazioni della “scuola attiva”, testimoniate dai rapporti degli ispettori scolastici, nella seconda metà degli anni Venti, studiati da Quinto Antonelli85. Una scuola fatta di esperienze, di studio diretto dell’ambiente, di lezioni all’aperto, di escursioni e allevamenti, di musei “vivi” fatti di oggetti portati dagli alunni, di disegno come linguaggio individuale e spontaneo, di scrittura autobiograica nei diari personali. Ma queste innovazioni andavano di pari passo con la diffusione, ad opera del corpo insegnante, delle condotte, delle parole d’ordine, dei simboli del fascismo e del nazionalismo. Gli insegnanti vennero deiniti “sacerdoti del duce”, sempre più impegnati nella formazione ideologica dei novelli balilla. Alla luce di queste pratiche e di queste sensibilità è dunque più facile comprendere un ilo rosso che attraversa la vita del bronzo, almeno ino agli anni sessanta del Novecento: la Campana appare spesso come essere vivo, magico e sacro. Le sue peripezie, gli spostamenti, le rotture o le fusioni, vennero interpretate come segni di una volontà immanente, in un senso o nell’altro. Rossaro incoraggiò ed assecondò questi discorsi anche perché, probabilmente, si rendeva conto che poteva essere uno tra i modi di dare vita alla sua creatura, diffondendone la “voce” tra la gente più umile.

84 85

rossaro, La Campana cit., p. 180. antonelli, Storia della scuola trentina cit., pp. 420-429.

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2.7.4. Martirio e sofferenza. Un’esperienza generalizzata Ma l’infanzia venne coinvolta nel percorso simbolico della Campana anche in un altro modo. Uno dei perni del discorso nazionale e religioso, cioè l’idea di martirio, venne opportunamente estesa ad altre categorie che non fossero quelle dei combattenti o delle loro madri e mogli. Quando giunse notizia della morte prematura di una bambina di Milano che aveva contribuito alla raccolta di fondi per la fusione della Campana, Rossaro non perse l’occasione di coinvolgere quella igura nell’olimpo degli eroi della Campana, nominando Carla della Beffa, “angelo tutelare della Campana”. Simbolo di bontà e sentimento, di bellezza e mitezza, questa bambina, che adorava i genitori, il fratello e in generale tutto il genere umano con particolare attenzione ai poveri e agli infelici, venne considerata un modello da seguire per ogni piccola donna. Anche la vicenda del poeta italo-brasiliano Arsenio Lacorte è esempliicativo di questa volontà di sacralizzare una sofferenza che coinvolge trasversalmente la società: quello che venne deinito il “trovatore della Campana”, devoto al bronzo e al suo messaggio, era malato di tisi e decise di passare il suo ultimo periodo di vita a Rovereto, prima di morire e venire successivamente gloriicato e sepolto nei pressi del castello veneto. Questa volontà di inclusione è testimoniata anche da alcuni particolari riguardanti l’aggiunta dei tre invalidi di guerra nel fregio del 1939. In un primo momento, Zuech aveva scolpito un gruppo composto da un cieco e da due mutilati, ma, rispondendo a una richiesta86 di Rossaro, nell’ultima versione aveva sostituito una delle igure con il “pazzo di guerra”. Questa igura si staglia inusuale e dissonante nel nostro fregio, sia per la posa del viso, rivolta in una direzione diversa da quella delle altre igure del corteo, sia per lo strano e stereotipato cappello piumato da alpino. La malattia mentale era un aspetto della vita sociale, particolarmente ampliicato nel contesto della trincea, passato sotto la competenza dell’istanza medica, “laica” e statale, ancora nel corso del Settecento. Vederla comparire, seppur solo a livello di rappresentazione, in un monumento cristiano come la Campana dei Caduti, potrebbe perciò sembrare un fatto singolare. Oppure potrebbe essere un’ulteriore spia di un discorso fattosi sempre più universale ed inclusivo, un discorso che coniuga istanza religiosa ed istanza nazionale.

86

Stefano Zuech (1877-1968). Il volto il mito il sacro cit., p. 86.

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S. Zuech, Bassorilievo per la seconda Campana, particolare in gesso non realizzato.

S. Zuech, Bassorilievo per la seconda Campana, lo stesso particolare realizzato.

2.7.5. Il popolo di don Rossaro nella rivista “El Campanom” La ine della ormai stanca esperienza editoriale di “Alba Trentina”, prolungatasi oltre misura ino al 1926, aprì un vuoto immediatamente riempito dalla nuova pubblicazione annuale di don Rossaro, “El Campanom”. Per sancire il passaggio deinitivo a un tempo di pace ormai stabile e consolidato, deinito nei suoi capisaldi simbolici, nelle sue ricorrenze e anniversari, Rossaro inaugurò un progetto completamente diverso da quello della vecchia rivista. “Alba Trentina”, se si considerano alcuni parametri, come la lunghezza degli articoli, il lessico utilizzato o i riferimenti culturali cui bisognava aver avuto accesso per comprendere ino in fondo i contenuti, era stata accessibile a un pubblico piuttosto ristretto, istruito ed elitario. “El Campanom”, almeno al momento della sua inaugurazione, si presentava immediatamente in modo diverso: «È il calendario del popolo, che entra ultimo nella grande famiglia di almanacchi, di astrologhi e di stregoni, tra i quali furoreggiarono i vecchi Barbapedana, Indovino inglese, Barbabianca, Abate Valpurga, e cento altri capiscarichi, delizia del sano e buon popolo italiano. El Campanom non avrà la fresca giovialità di questi venerandi nomi dell’almanacco popolare italiano; non glielo permette la sua natura, essendo esso iorito ai piedi della sacra Campana dei Caduti, ma non mancherà tuttavia di allietare i lettori interessandoli con pagine piacevoli, istruttive e pratiche»87.

87

“El Campanom”, 1926, p. 1.

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Inoltre una pagina pubblicitaria su Alba Trentina presentava così la nuova rivista: «È un opuscoletto di 46 pagine, ricco di illustrazioni, col suo bravo calendario, con le sue brave nozioni storico-locali, con le sue brevissime nozioni pratiche, tutto insomma quel che può giovare, istruire, dilettare il popolo delle nostre valli»88.

Le intenzioni erano confermate nella misura in cui, nella nuova pubblicazione, si trovavano il calendario, completo di fasi lunari, eclissi previste, solstizi ed equinozi, indizi riguardo le previsioni del tempo atmosferico, nozioni sintetiche riguardo i lavori nei campi mese per mese, il calendario delle iere commerciali itineranti del Trentino, i numeri rossi delle automobili corrispondenti ai capoluoghi di provincia, le tariffe postali. Le pagine “pratiche” si alternano poi a quelle dedicate alla Campana dei Caduti e a quelle più “politiche” che tendono a tratteggiare, in modo asciutto e conciso, il nazionalismo “religioso” di don Rossaro, come in questo testo intitolato Il Governo nazionale e la religione. «Primo pensiero di Napoleone, giunto all’impero, fu quello di restaurare la Religione in Francia, e Pio VII gliene fu sempre grato. Come Napoleone, anche Mussolini, iniziò il suo governo favorendo la Religione e chiudendo così la nefasta epoca della politica anticlericale e laicizzatrice. Migliorò le condizioni tra clero e autorità; aumentò la congrua ai Parroci; sotto il suo governo, diminuirono il turpiloquio, la bestemmia, le dimostrazioni anticlericali, e rese libero l’esercizio del culto, come delle processioni e delle solennità pubbliche; ripristinò conventi soppressi da passate leggi. Caldeggiò le funzioni religiose uficiali; impose l’insegnamento religioso e il Croceisso nelle scuole e favorì con grande successo le Missioni religiose nelle Colonie e all’Estero. Sciolse le società segrete e diede un colpo mortale alla Massoneria, implacabile nemica della Chiesa. Solo sotto di lui, entrò invocato ed onorato il nome di Dio in Parlamento, da cui fu sempre e sistematicamente escluso. Dio benedirà il suo governo e darà tempi felici all’Italia nostra»89.

Il riferimento a una dimensione imperiale e civilizzatrice della nazione con le sue colonie, è già presente qui, 10 anni prima della proclamazione dell’Impero mussoliniano del 1936. Una pagina della rivista è infatti dedicata a un’elencazione dei possedimenti coloniali italiani con poche informazioni demograiche e geograiche. L’Italia poteva vantare il possesso di Libia, Eritrea, Somalia, Tien–Tsin, Rodi e Dodecanneso. 88 89

“Alba Trentina”, X/1-2 (1926), p. 36. “El Campanom”, 1926, p. 24.

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«Per i nostri padri che dal piccolo Piemonte, come dal inestrino d’una casetta, abbracciavano, si può dire, con un’occhiata tutta l’Italia da redimere, pensare ad un’Italia Coloniale quale oggi vantiamo, sarebbe stata una pazzia. Oggi, grazie a Dio, il tricolore sventola dovunque. – Dio benedica e protegga l’Italia!»90

Un’altra interessante pagina di “El Campanom”, intitolata la Nuova Italia, è un condensato dei più importanti luoghi comuni del tempo fascista. «Mai l’Italia fu così grande, come ora, sotto il forte e sapiente governo di Mussolini. L’Esercito, magniico presidio d’Italia, è rispettato nell’Interno ed all’Estero: i suoi Caduti, i suoi Eroi, i suoi Mutilati, i suoi Combattenti sono degnamente valorizzati. La Scuola va meravigliosamente migliorandosi; non ci sono più né abusi, né scioperi tra gli studenti; sospinti da un programma arduo e complesso, sono obbligati a studiare e lavorare. Il Commercio, l’Industria e l’Agricoltura sono piene di splendide promesse: le fabbriche lavorano alacremente, né ci sono più ribellioni e scioperi, vergogna e miseria del passato. Anche nel mondo ferroviario regna il massimo ordine: gli orari sono osservati con precisione e i viaggiatori godono sicurezza e rispetto. La Religione gode maggior libertà. La battaglia al turpiloquio e alla bestemmia trovarono un aperto alleato nel Governo nazionale»91.

Il riferimento a scioperi e ribellioni, interpretati come “vergogna e miseria del passato”, è importante per deinire la natura del messaggio rossariano, tutto sbilanciato in senso padronale e anti operaio, ed ancor più signiicativo dal momento che viene inserito in questo tipo di pubblicazione, programmaticamente indirizzata a un pubblico “popolare”. Questo tipo di tracce testimoniano, indirettamente, la preoccupazione diffusa nei governi e nelle élite europee, in particolare nel periodo in questione: il timore della folla, la paura di un’azione popolare potenzialmente destabilizzante. Gli echi e le inluenze delle opere di personaggi come Gustave Le Bon e il suo Psicologia delle folle (1895) oppure, più pertinentemente, di uno lombrosiano come Scipio Sighele (1868-1913) con il suo La folla delinquente (1891) sono spesso leggibili in controluce. Sighele, scienziato di origini trentine, morto poco prima dell’inizio della prima guerra, era infatti un irredentista di lunga data e, non casualmente, entrò in un articolo di “Alba Trentina” nella veste di profeta della redenzione92.

90 91 92

“El Campanom”, 1926, p. 10. “El Campanom”, 1926, p. 28. i roveri di rovereto, I roveri tridentini, in “Alba Trentina”, I/2 (1917), p. 67.

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La costruzione di dispositivi simbolici inclusivi, di dispositivi che avessero la possibilità di costituire un orizzonte comune alle masse nazionali, traumatizzate dall’esperienza della guerra e segnate da profonde disuguaglianze sociali, pare essere un ilo rosso costante seppur sotterraneo nel discorso della memoria qui analizzato. Già nel primo numero di “Alba Trentina”, nel 1917, Rossaro, impegnato nel tratteggiare la primavera della tradizione irredentista e la nascita della legione trentina nel 1848, affrontava un argomento che doveva essere di estrema attualità nonché terreno di scontro politico: la composizione sociale di questi gruppi di patrioti volontari. «Non deve arrecare meraviglia se la Legione trentina che al 7 maggio era composta da soli 43 volontari, in pochi giorni salì a 220, e raggiunse poi i 250, cifra confortante se badiamo al militarismo del ’48, e tanto più se osserviamo che i nostri legionari, come narra Livio Marchetti, lo scrittore classico del risorgimento trentino, appartenevano in gran parte alle umili classi rurali. Dei 220 legionari, 108 erano contadini, e 36 erano operai. Ciò sta contro quelli che si ostinano a ritenere che l’irredentismo trentino, era ed è relegato nelle sole classi privilegiate»93.

Al di là di quella che potrebbe essere la veriica delle cifre esposte, è importante sottolineare quale sia la posta in gioco incorporata nella questione, attualissima nel 1917: la necessità di dimostrare il radicamento del sentimento nazionale nei ceti popolari. Un’interessante rappresentazione del “popolo” è riscontrabile ne “El Campanom” del 1934. Rossaro scrisse un articolo intitolato “Macchiette roveretane”. «La generazione di chi scrive ha visto silare sul palcoscenico della vita roveretana le ultime, caratteristiche macchiette, di cui il passato, più pittoresco e arguto del presente, era largamente fornito… La vita stentata, affaticata, chiusa entro i vecchi ilatoi dei nostri bisnonni, dove il povero popolo si logorava, lavorando “dalle stelle alle stelle”, aveva gettato sul lastrico della strada una miserabile e fetente turba di poveri cristi, rachitici, deicienti, abulici, che per certe bizzarie ed eccentricità, o per certe strane abitudini divennero le macchiette della città»94.

93

94

a. rossaro, La legione trentina nel 1848, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 6. La questione interessa nella misura in cui segnala un importante centro tematico della discussione pubblica nel tempo di guerra. Nonostante ciò può essere magari utile fare due conti, dando per reali le cifre fornite da Rossaro. Se la somma di operai e contadini equivale a 144, sul totale di 220 si può parlare di 76 volontari non appartenenti alle classi popolari, cioè circa il 30% del totale. Ne risulta, in ogni caso, una forte preponderanza elitaria dentro la legione trentina dal momento che le classi abbienti rappresentavano certamente una percentuale molto inferiore, considerando la popolazione in generale. “El Campanom”, 1934, s.n.p.

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Rossaro racconta queste igure con un atteggiamento che mescola paternalismo pietoso e velato disprezzo, curiosità e ironia. Questa umanità vagabonda e marginale, che egli lascia intendere come coninata al passato perché ormai soccorsa dalle «previdenze civili» o perché spazzata via dalla guerra, viene caratterizzata in modo vario ma stereotipato. Un’umanità piuttosto innocua e indolente, melanconica e solitaria, spesso ubriaca anche se talvolta perino dignitosa. Un’umanità che pretende un’elemosina sempre accordata, che inisce per essere salvata dalle istituzioni caritatevoli roveretane o che scappa dalla città per procurarsi il necessario alla sopravvivenza nel contesto agricolo e montano. Rossaro non manca poi di subire, inine, una certa fascinazione nei riguardi di questo sottoproletariato. A conclusione del suo articolo, parlando di un certo Polidoro, raro esempio vivente di quella specie estinta, Rossaro scrive: «In fondo ha un cuore anche lui, e chi sa che in fondo ad esso non germini qualche delicato sentimento, che ignorano certi cuori di laureati e di blasonati? Il cuor umano è pieno di misteri»95.

In un certo punto però, la narrazione di Rossaro soffre un’inconsapevole incongruenza. Il proilo di un certo Filippo Pignolon, descritto come sporco, inerte, taciturno ed ebete, vittima di insulti e lazzi, si scontra, in parte, con una sua rappresentazione fotograica dove appare con un cartello in mano che recita: “abbasso il lavoro a cottimo”. Non proprio una rappresentazione coerente di indolenza e rassegnazione. La deinizione dei topoi intorno al “popolo” di marca rossariana è contenuto anche in un altro articolo: Rovereto nelle sue antiche e popolari ilastrocche. Questo articolo nasce come rassegna di proverbi e motti popolari e dialettali trentini e nelle intenzioni di don Rossaro diventa anche occasione di raccolta e trascrizione di un sapere orale (che sembra fare riferimento soprattutto all’infanzia dello stesso don Rossaro: si parla degli anni ottanta e novanta dell’ottocento) da afidare a futuri studiosi. Il luogo per eccellenza delle ilastrocche è l’asilo, a confermare quanto già detto riguardo la parentela fra popolo e infanzia, i cui linguaggi vengono assimilati nel medesimo spazio semiotico. Uno spazio semiotico che appare prezioso terreno di conquista per l’istanza nazionale che poteva così veicolare i propri messaggi, coperti da una patina rassicurante di innocenza e arcaismo, oltre che mescolati a contenuti più frivoli e meno impegnativi. In questo frammento il campo tematico è quello militare e cavalleresco. «La simpatia dei bambini, come è dovunque, è il soldato, che nella loro fantasia 95

“El Campanom”, 1934, s.n.p.

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suscita visioni di battaglie e di cavalleria. Quattro per quattro, con le manine intrecciate tra loro, con piede sicuro ed aria marziale (ricordiamo tutti i nostri entusiasmi di allora!...) marciano alla guerra, cantando questa terribile canzone: Ai soldai che va a la guera, I mete ‘l sciop en tera; I sbara ‘l canom: Pim e pom»96.

Militarismo declinato in senso monarchico e ilofrancese. «Nel fermento delle loro piccole gesta militaresche, si perdono, coi loro canti, nell’epica dei Reali di Francia, e cantano questa quartina: Carlo Magno, re di Francia Con tre pulzi su la panza, l’un che tira, l’un che mola, l’altro sbara la pistola. La Francia aveva un fascino speciale sul nostro popolo: forse, oltre la lettera dei Reali di Francia che da noi era in voga, rivivevano anche i ricordi napoleonici. E i nostri bambini dovevano andare proprio in Francia a compiere una loro cavalleresca impresa. Eccone i versi: Mama, mama granda Compreme ‘na ghirlanda, compreme ‘en sciopetin, Che voio andar in Francia A copar quell’uselin, che tute le not ‘l canta e nol me lassa mai dormir»97.

Mentre qui è il campo dello splendore, della gloria e dell’autorità religiosa. «Santo Vigilio protetor de Trento da le campane d’or e ‘l batocolo d’argento!» 96 97

“El Campanom”, 1932, p. 17. “El Campanom”, 1932, p. 18.

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«E il Santo Vescovo, che da lunghi secoli è l’Eroe delle nostre belle tradizioni, passa davanti alla fantasia del bambino col suo magniico manto rosso, col suo grande ‘cappello d’argento’ col suo bravo ‘baston d’oro’ al suon ‘dele campane d’oro e ‘l batocolo d’argento’»98.

Altrove, poi, Rossaro richiama il valore consolatorio delle ilastrocche nella miseria della quotidianità popolare. «‘Canta che ti passa!’… e chi sa quante volte i bambini dei ilatorieri, avran trovato il desco vuoto, e la mamma avrà intonato qualche ilastrocca per far dimenticare un istante la fame!»99

La tradizione popolare è inine elevata a feticcio consolatorio per un lettore bisognoso di rifugio in un passato arcadico e mitizzato «perché una scorsa al passato non fa male, tanto più quando questo è un nido di serena bontà, dove è bello rifugiarsi»100.

Il racconto complessivo che emerge ne El Campanom parla di una società ormai paciicata, liscia e senza conlitti, operosa, ordinata e ricca. Si trattò di un progetto editoriale che, nonostante le intenzioni e gli espedienti di cui si è detto, rimase comunque rivolto a un pubblico piuttosto istruito e piccolo-borghese. Con la ine dell’alba, del processo fondativo ed emancipativo risorgimentale della nazione, era giunta l’ora di una quotidianità rassicurante, scandita dalle ricorrenze della memoria nazionale, vecchie e appena inventate, e da pillole di sapere antiquario e “popolare”, dalla meteorologia e dalle pagine dedicate alla pubblicità delle attività commerciali roveretane. Le rappresentazioni del “popolo” entrano in questo contesto con diverse funzioni sovrapposte: consolazione, curiosità ludica, costruzione della tradizione. Tutto ciò funzionava, probabilmente, in una prospettiva di depotenziamento degli aspetti più critici della realtà sociale ed economica trentina negli anni tra le due guerre. In questo senso si potrebbe dire di essere in presenza di una banalizzazione della tradizione popolare, ridotta a curiosità ma anche a fondamento di una identità razziale, etnica e storica. La funzione di questo tipo di sapere, era consapevolmente evocata dallo stesso Rossaro: «Una delle benemerenze del fascismo è quella di richiamare in vita, o almeno alla memoria, tutte quelle belle manifestazioni folkloristiche che sono spesso un 98 “El Campanom”, 1932, p. 19. 99 “El Campanom”, 1932, p. 20. 100 “El Campanom”, 1932, p. 30.

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dovizioso patrimonio di tradizioni, di costumanze, di storia, che sovente rivelano l’indole e lo spirito d’una razza»101.

Inoltre Rossaro agì nel solco di una tendenza viva a livello nazionale in quegli anni affermando che «L’amore che il fascismo ha suscitato intorno al folklore, ha fatto germinare una larga ioritura di Almanacchi popolari»102. E che questo progetto culturale fosse comune a tutta l’Italia fascista, è del resto confermato da studi recenti. «La valorizzazione delle culture municipali diventa in qualche modo un passaggio obbligato del progetto fascista di nazionalizzazione degli Italiani. Lo stesso affermarsi del folklorismo è da intendersi come una conseguenza dei processi di modernizzazione e di urbanizzazione in atto. Questi processi, infatti, forse per la prima volta, inducono i ceti medi a idealizzare la tradizione e l’universo contadino, facendone un momento ludico, dotato di funzioni compensative nei confronti dei dinamismi e delle trasformazioni della realtà presente»103.

Le trasformazioni e i dinamismi modernizzanti erano, in effetti, forti e particolarmente pregni di conseguenze nelle terre trentine appena redente, dopo la grande guerra. Le distruzioni belliche, la svalutazione monetaria, le crisi internazionali dei mercati, le politiche delazionistiche governative, il venir meno delle rimesse dei migranti trentini, il collasso del reddito agricolo e montano con conseguente migrazione verso le città del fondovalle, la disoccupazione galoppante, furono tutti elementi di un panorama economico e sociale problematico, a cavallo tra le due guerre in Vallagarina. In questo contesto, la caratterizzazione stereotipata del popolo trentino, contraddistinto da bontà, mitezza, laboriosità, capacità di sacriicio, di collaborazione e di cooperazione, poteva fare da puntello ideologico ai discorsi di una classe dirigente, tanto politica quanto industriale, occupata a gestire uno sviluppo produttivo moderno che necessitava, per funzionare, di uno sfruttamento intensivo delle risorse umane e naturali. Il caso della Montecatini di Mori, una grande fabbrica dell’alluminio che funzionò tra il 1928 e il 1983 in Vallagarina, è particolarmente rappresentativo dell’importanza che stereotipi come quelli analizzati potevano assumere nei discorsi e nei ragionamenti della classe dirigente. «Fu la prima grande fabbrica della Val Lagarina a manodopera esclusivamente maschile e contadina, che operava nel settore chimico-metallurgico, e collocata 101 “El Campanom”, 1932, p.10. 102 “El Campanom”, 1932, p. 3. 103 v. Cappelli, Identità locali e Stato nazionale durante il fascismo. «Meridiana», n. 32, 1998, p.55. http://www. rivistameridiana.it/iles/Cappelli,-Identita-locali-e-Stato-nazionale-durante-il-fascismo.pdf, (sito consultato il 10 novembre 2016).

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fuori dal tessuto urbano; le altre unità produttive roveretane, la Pirelli e la Manifattura tabacchi, che l’avevano preceduta nel tempo dell’insediamento, erano aziende che utilizzavano quasi esclusivamente manodopera femminile, in settori di collaudata tradizione e specializzazione (tessile e tabacco), e da forti legami con la produzione agricola, entrambe inserite nella città, con la quale era giocoforza colloquiare. La dirigenza della Montecatini scelse invece Mori, rompendo in tal modo quel progetto urbano (quasi un patto originario fra la città di Rovereto e l’industria), e preferendo avere come partner quel mondo rurale che le si apriva a sud. Lì avrebbe attinto energia a basso costo e reclutato la manovalanza generica e luttuante che il modo e i ritmi di produzione dell’alluminio richiedevano; lì avrebbe trovato un terreno più favorevole per dare forma alla igura dell’operaio-contadino, più adattabilità ad un modello di organizzazione paternalistica, più abitudine e attitudine alla fatica e al rischio, e anche, forse, più acquiescenza; così, inine, avrebbe evitato pericolosi e costosi fenomeni di inurbamento o la necessità di intervenire sul problema delle abitazioni operaie. L’insediamento dell’azienda avvenne in uno spazio agricolo che era caratterizzato, salva qualche eccezione di latifondo o mezzadria, dalla piccola e piccolissima proprietà basata sulle colture tradizionali della vite, del tabacco, del gelso e del mais, sull’allevamento di qualche capo di bestiame, e, nei paesi di montagna, sui prodotti del bosco. L’offerta di un salario di fabbrica, rivolta ai membri maschili e giovani di quelle famiglie contadine estese che stentatamente vivevano su quelle proprietà, giungeva come un toccasana, al quale era impossibile sottrarsi, anche a costo di enormi sacriici. E giungeva in una contingenza economica delle più disperate, dato che la popolazione dei paesi e delle valli, già fortemente impoverita dalla “grande guerra”, si trovava gravata dalla disoccupazione, essendo i lavori di ricostruzione ormai chiusi da tempo e l’emigrazione, tradizionale valvola di sfogo per la manodopera maschile, bloccata dalla crisi mondiale al suo primo insorgere. Quegli iniziali 400 posti di lavoro offerti dalla Montecatini, che sarebbero saliti progressivamente ino a 1100 nel secondo dopoguerra, rappresentarono per altrettante famiglie contadine la fonte di reddito integrativo che faceva la differenza fra il vivere e il morire, il restare e il partire; l’argine alle ricorrenti crisi economiche»104.

Al centro del nuovo progetto industriale stava la igura dell’operaio-contadino: lavoratore instancabile, stoico, virile e disciplinato nonché portatore di una morale contadina e patriarcale. Dispositivi culturali molto simili dovevano funzionare tanto a livello di nazione che a livello di fabbrica. L’idea di un interesse comune che travalica le asimmetrie e le gerarchie, tanto nella famiglia quanto nella nazione e nella fabbrica, poteva fare da minimo comune denominatore dell’organizzazione sociale. 104 d. leoni, Acqua, aria, energia elettrica. Cenni di storia dello stabilimento, in Acqua, aria, energia elettrica. La Montecatini di Mori. 1925-1983, a cura di D. Leoni, ed. Nicolodi, Rovereto 2000, p. 55.

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«L’azienda giocò tutto il suo prestigio e la sua capacità di crearsi consenso grazie ad una politica accorta, improntata alla inzione della “grande famiglia” raccolta intorno a Donegani (Il direttore dello stabilimento, ndr), “padre severo, sommo e buono”. Quel modello di paternalismo solidaristico-autoritario, che permeava la società contadina, sembrava poter fungere da tratto d’unione fra il dentro e il fuori: così, in dall’inizio, all’estrema gerarchizzazione dei rapporti di lavoro si accompagnò l’opera di organizzazione del tempo libero e di assistenza ai dipendenti: nel 1929 si costituì il Gruppo combattenti Sida e la compagnia ilodrammatica aziendale; l’anno successivo fu la volta del Dopolavoro e della banda; nel ’31 delle squadre sportive (ciclismo, “balonzina”, marcia, ginnastica, tiro alla fune); nel ’32 della Biblioteca del Dopolavoro; e poi un succedersi continuo di iniziative ricreative e sociali come il coro, le gite aziendali, la colonia per i igli degli operai più bisognosi, la distribuzione di denaro e buoni viveri, pacchi vestiario e indumenti, olio di fegato di merluzzo ai bambini e agli operai segnalati dal sanitario perché bisognosi di cure»105.

La funzione compensativa di questo “stato sociale di fabbrica” non riusciva però a bilanciare il disagio derivante dalle pessime condizioni sanitarie e lavorative cui erano sottoposti questi operai e la popolazione che gravitava intorno alla Montecatini di Mori. Le fratture, i giochi di forza, gli scontri e i ricatti che attraversavano la fabbrica e il suo intorno sono rintracciabili e molteplici, a dimostrazione della supericialità, della velleità ma anche della strumentalità delle rappresentazioni del mondo contadino che si sono analizzate. Nei ragionamenti intorno alla costruzione della fabbrica, nelle considerazioni della dirigenza nei momenti di crisi, legati ai problemi ambientali o alla gestione del personale, gli stereotipi di cui si è detto potevano entrare in funzione nei discorsi per legittimare, ad esempio, l’idea della collaborazione tra direzione e lavoro nell’ottica di emarginare le componenti operaie più agguerrite e combattive che pure erano presenti.

2.8. Esercito e militarismo. L’inquadramento della folla «La Campana dei Caduti racchiude quanto sa di epopea; e il tumulto della pugna, e il grido dell’espiazione, e il peana della vittoria per ricantarli, attraverso i secoli, all’umanità, l’eterna fanciulla, che dolcemente sotto la carezza di “Maria Dolens” s’addormenta e sogna! La guerra non scomparirà mai dal mondo, in che questo ospiterà l’umanità, perché l’amore e l’odio saranno in eterno conlitto tra loro, e sangue fraterno abbevererà sempre i solchi del comune conine, e piantata nella madre terra sempre 105 Ivi, p. 62.

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emergerà minacciosa la lama fratricida presso il paciico ulivo, ‘in che il sole risplenderà sulle sciagure umane’»106.

Questo passo rossariano rende esplicitamente l’idea dell’ineluttabilità della guerra fra gli uomini ed esprime bene la centralità della dimensione guerriera nella memoria e nel messaggio nazionale. Il riferimento alla lotta fratricida che segnò la mitica fondazione di Roma ci parla di un conlitto umano orizzontale e non gerarchico, di una naturalissima separazione tra i popoli e di sacri conini da rispettare. In effetti, come si è già potuto desumere, la centralità della dimensione guerresca nel simbolo Campana è assoluta. Tale operazione simbolica si situava d’altronde nel solco della tradizione risorgimentale. A livello rituale, le pratiche militari, come quella della rivista delle truppe, avevano avuto una certa importanza sin dall’unità d’Italia, venendo ad avere una funzione di supplenza e di alternatività rispetto ai cerimoniali più prettamente religiosi. La festa dello Statuto, una delle più importanti dell’Italia unita, era introdotta in dal 1861 dal suono delle artiglierie «che creavano immediatamente una contrapposizione netta con le campane che chiamavano a raccolta i fedeli per la festa religiosa»107. Con i cerimoniali della Campana dei Caduti queste due tradizioni si reincontrarono: nel progetto rossariano per i riti uficiali, ai cento rintocchi della Campana andava aggiunta la Diana, un motivo di squilli di tromba eseguito dagli Araldi, in apertura, in chiusura ma anche durante, a segnalare una divisione del rito in tre parti, riferite alla celebrazione degli eroi della trincea, del mare e dell’aria: la cosìddetta trilogia della Campana. Lo splendore e la gloria evocati da Rossaro a proposito dei cerimoniali della Campana, nel seguente caso mentre racconta la cerimonia per l’arrivo della seconda Campana a Rovereto nel 1940, volevano alimentare il mito di un giovane popolo in armi, sempre pronto alla battaglia. La visibilità e la dimensione pubblica di questo popolo in armi erano fondamentali. «E silano i valorosi fanti, i massicci alpini dalle lunghe penne, gli agili bersaglieri dalle svolazzanti piume, i gagliardi artiglieri, e poi la inanza dal passo misurato, e poi ancora gli eleganti marinai con gli snelli avieri, tutta iorente gioventù, letizia e orgoglio della Nazione nostra»108.

Nel già citato articolo sulla Legione trentina quarantottina del primo numero di “Alba Trentina” del 1917, emergeva un’idea precisa di truppa disciplinata, ordinata e visibile. 106 rossaro, La Campana cit., p. 149. 107 porCiani, La festa della nazione cit., p. 68. 108 rossaro, La Campana cit., p. 238.

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«Prospero Marchetti si preoccupava di una cosa sola: che la Legione trentina si imponesse non per numero, ma per serietà e per un’organizzazione veramente soldatesca. Era troppo recente nelle valli trentine il deplorevole ricordo dei corpi franchi, senza uniforme, senza armi, senza munizioni, avidi in parte di avventure e di bottino. La Legione trentina doveva essere un modello di truppa. Ogni legionario aveva la sua divisa: pantaloni grigio-verde con bande rosse, la giacca di panno azzurro con iletti rossi, il cappello alla bersagliera con pennacchi di cappone: bottoni inargentati, scarpe da montagna con ghette, borsa di tela incerata a tracolla, e una giberna. Gli uficiali erano armati di squadrone e di pistola. La legione era ancora provvista di cannoncino. Oltre ciò i trentini vollero ancora la loro bandiera, e fu un tricolore su cui era scritto a lettere d’oro: religione e giustizia, da una parte, e Legione tridentina, dall’altra. Né vollero partire senza un inno proprio»109.

L’importanza di uniformi colorate, vistose ed iconiche era stata motivata, per gli eserciti ottocenteschi, in diversi modi. Le necessità concrete sfumavano in quelle più simboliche: agevolare l’identiicazione delle truppe da parte dei comandi, impressionare i nemici, ridurre la possibilità di diserzione, attrarre reclute mediante il conferimento di status sociale, soddisfare le esigenze cerimoniali. L’evoluzione delle modalità della guerra nel lungo ottocento ino alla grande guerra industriale di trincea aveva sconvolto lo scenario su cui si erano basate molte di queste considerazioni. I fanti della grande guerra venivano lanciati in offensive tanto sanguinose quanto inutili per cercare di conquistare pochi metri di terreno, esposti alla potenza di fuoco dei nuovi e sempre più perfezionati armamenti, il cui valore strategico ed economico superava di gran lunga, nella considerazione degli alti comandi, quello dei soldati, considerati alla stregua di carne da macello. Le nuove tecniche di maquillage, di mascheramento, vennero da subito usate per proteggere armamenti e opere ingegneristiche mentre vennero trascurate, da parte degli alti comandi, le possibilità d’uso sugli uomini che non fossero addetti al funzionamento di quelle macchine. L’insistenza dei comandi italiani, ad esempio, nell’uso della tattica di assalto frontale o del principio della conquista delle cime montuose occupate dal nemico (piuttosto che del loro accerchiamento), nonostante le evidenze di ineficacia e irrazionalità, è rappresentativo di una permanenza dei vecchi schemi che portavano con sé i principi della cavalleria e dell’onore, del sacriicio e della visibilità eroica. Anche l’estrema gerarchizzazione e il dirigismo centralistico dell’esercito italiano, i cui alti comandi avevano l’ultima parola su qualunque decisione, risultavano inadeguati ad affrontare una guerra che avrebbe potuto essere affrontata meglio con una divisione dei compiti più capillare e processi decisionali sul campo e più rapidi. 109

a. rossaro, La legione trentina nel 1848, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 7.

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Probabilmente principi come quello del cameratismo gerarchico, quello disciplinare oppure quello rappresentativo e simbolico, erano considerati una posta in palio piuttosto preziosa dalle classi dirigenti. Una posta da poter giocare non solo in tempo di guerra ma anche in tempo di pace. Sia dal punto di vista della loro legittimazione che dal punto di vista disciplinare. L’esperienza della popolazione maschile nell’esercito era stata uno dei fulcri del tentativo di nazionalizzare le masse italiane. Un interessante articolo di Gianni Oliva, riguardante la naja, cioè il servizio militare di leva, ne parla come di un’esperienza, cui furono sottoposti i giovani neoitaliani dall’unità in poi, situata al conine tra riiuto e sanzione positiva di status sociale. Una esperienza possibilmente da evitare, perché portava con se il rischio dell’incolumità personale e la sottrazione di un tempo di vita, ma che una volta completata conferiva uno status sociale da esibire. Una sorta di passaggio all’età adulta scandito da una visita medica di leva che avrebbe determinato la conformità o meno al servizio militare e di rilesso la conformità al proprio ruolo di uomo e padre di famiglia. Un’esperienza, inoltre, che dava la possibilità di conoscere luoghi, persone e situazioni eccedenti il proprio ambito locale. Oliva parla di questa naja come di un’esperienza primariamente individuale, almeno ino alla prima guerra mondiale. «La mobilitazione generale del 1915-1918 e l’esigenza di nuove forme di aggregazione che ne scaturiva erano tuttavia destinate a incidere anche sulla rappresentazione della naja, arricchendola di contenuti e sollecitando lo sviluppo di elementi già presenti nella cultura dell’Italia liberale, ma che ancora mancavano di organizzazione. A partire dagli anni Venti, con la nascita dell’associazionismo d’arma, poi patrocinato e sostenuto dal regime, la naja si allargava da esperienza individuale a esperienza di ‘corpo’: aver fatto il soldato continuava a essere àmbito di identiicazione personale, ma si speciicava di ‘aver fatto l’alpino, il fante, il bersagliere’»110.

L’esperienza traumatizzante della guerra era potuta diventare il trait d’union a partire dal quale si poteva fondare organizzazione e solidarietà collettiva. Le associazioni dei reduci, dei mutilati e invalidi, dei “corpi” sovra citati furono tra i maggiori usufruitori e diffusori dei miti nazionalistici e non a caso rappresentarono il nucleo del nascente partito fascista. Ai piedi della Campana dei Caduti, durante i rituali e le cerimonie, a farla da padrone furono questo e altri tipi di associazionismo, questo tipo di masse più che un’indistinta 110 g. oliva, La Naja, in I luoghi della memoria cit., p. 103.

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folla popolare di cui le immagini d’epoca sembrano non dare conto. Nelle cronache111 si incontrano, tra le altre cose, i duemila mutilati presenti, nel 1925, all’arrivo della prima Campana a Rovereto, oppure, nel 1929, le seicento camicie nere del quarantunesimo battaglione di Verona in pellegrinaggio, ma anche i cinquecento insegnanti delle scuole di Roma, i centocinquanta dopolavoristi e i duecento combattenti di Vicenza (tra cui era E.A.Mario, il creatore della canzone patriottica “La leggenda del Piave” che per l’occasione venne suonata sotto la Campana). Le forme di aggregazione collettiva di cui si sta parlando poterono diventare il modello del tentativo di inquadramento della massa nazionale tra gli anni venti e trenta e il fatto che tra le prime forme di aggregazione collettiva che furono create dentro una fabbrica moderna come la Montecatini, di cui si è già parlato, ci fosse proprio l’associazione combattenti dello stabilimento, è emblematico della pregnanza di questi processi sulla vita in tempo di pace. Le cerimonie della Campana, oltre ad avere la funzione di esorcizzare la realtà poco eroica della guerra e di evocare uno splendore legittimante dal sapore antico, religioso e sacro, avevano dato anche un’occasione concreta per la presenza dell’associazionismo d’arma, quello degli invalidi e mutilati, ma anche, una volta portata a termine la cosìddetta “fascistizzazione della società”, i circoli del dopolavoro, i gruppi di coristi o le associazioni degli insegnanti e le scuole. L’inquadramento della popolazione dentro la rete dell’associazionismo, militare ma non solo, fu probabilmente la più tangibile delle pratiche del tempo fascista che potesse essere deinita una politica di massa perché mirava al coinvolgimento e alla partecipazione attiva della popolazione. La discussione, in sede storiograica, circa la reale pervasività ed eficacia di queste pratiche collettive, in ambito italiano, è spesso giunta alla conclusione che il coinvolgimento delle masse fu più una questione formale e supericiale piuttosto che sostanziale e profonda. Ad esempio, le considerazioni112 di Pierpaolo Pasolini in Scritti corsari circa la velleità degli effetti dell’indottrinamento fascista se paragonati con la profonda svolta rappresentata dall’edonismo consumistico degli anni del boom economico nel secondo dopoguerra, andavano in questa direzione. Forte è la tentazione di affermare che, più dell’uso dei modelli usciti dal conlitto per inquadrare la popolazione, era stata la concreta esperienza della guerra a segnare le vite degli uomini e delle comunità. Lo scenario della coscrizione obbligatoria, con milioni di uomini chiamati alle armi e sottoposti a una rigida disciplina (materiale, ideologica e psicologica), del lavoro femminile extradomestico, della produzione coordinata e centralizzata di una quantità crescente di merci belliche e non, rappresenta un salto moderniz111 “El Campanom”, 1930, p. 14. 112 p.p. pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, Milano 2002, p. 22.

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zante e può essere considerato un preludio della estinzione deinitiva delle forme di vita contadine tendenti più alla autoproduzione che alla produzione capitalistica altamente socializzata. Questa estinzione maturò, almeno in Italia, nei successivi 50 anni e si basò sul processo di sradicamento che può essere considerato uno tra i fattori più importanti della trasformazione della folla in massa.

2.9. Tra il sacro e il profano. Tra reliquia e souvenirs, tra pellegrinaggio e turismo La caratteristica forse più peculiare del semioforo Campana dei Caduti, almeno nella lettura che ne ho tentato di dare, è rappresentata dalla sua capacità di essere un formidabile catalizzatore simbolico e tematico. Da diversi punti di vista, la Campana e il suo universo appaiono in grado di accogliere, sul medesimo piano, una molteplicità di elementi diversi e apparentemente conliggenti ed eccentrici. Come ho già cercato di mettere in luce, ciò avviene su un piano, per così dire, spaziale (locale-nazionale-universale), su un piano storico e temporale (antichità-medioevo-modernità) e su un piano sociale (trasversalità delle categorie sociali coinvolte). Anche la serie di dualismi su cui è costruito il messaggio della Campana (tra cui il più importante è il binomio guerra-pace) rimandano alla volontà di dare corpo a un discorso generale e onnicomprensivo. Ma la Campana funse da catalizzatore anche in un altro senso. Georg Lachmann Mosse, nel suo studio intorno al mito dell’esperienza della guerra, ha individuato una doppia e caratteristica modalità di trascendere la realtà della grande guerra: da una parte attraverso la religione civica e dall’altra attraverso la sua mondanizzazione e riduzione ad oggetti usati o ammirati nella vita quotidiana. Da una parte il culto dei soldati caduti con i monumenti e i luoghi ad esso dedicati, dall’altra tutta una serie di oggetti di uso quotidiano come i giocattoli per bambini, le cartoline illustrate oppure oggetti provenienti dai campi di battaglia che trovavano un nuovo uso, ad esempio come soprammobili. Due modalità che, prese in sé, erano il contrario l’una dell’altra, ma che potevano funzionare insieme nel rendere accettabile la guerra e la sua promozione nel segno dell’interesse nazionale. Se negli studi di Mosse queste considerazioni si basano sullo spoglio e lo studio di un gran numero di fonti, oggetti e prove documentarie, la Campana dei Caduti, come oggetto di studio, è in grado di restituire, contemporaneamente, questi aspetti. La Campana si trovò ad essere sia una reliquia carica di una sapienza simbolica e sacra che un manufatto bisognoso di cura, lavoro, manutenzione, organizzazione e denaro. In questo senso, piuttosto banalmente, si può dire che non esista mai, nelle vicende degli uomini, una dimensione esclusivamente e indipendentemente simbolica e dottrinaria.

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Ma non è suficiente. La questione deve essere vista anche attraverso un’altra angolazione. Le questioni simboliche, in in dei conti, sono legate a doppio ilo con la realtà sociale all’interno della quale vengono create e affermate perché, in caso contrario, sarebbe forte il rischio di una loro riduzione a sterile sapienza antiquaria. In questo senso, l’ideologia veicolata dalla Campana è da considerarsi, come in parte si è già sottolineato, il puntello fondante di una rispettabilità, soprattutto piccolo borghese, che innervava la vita quotidiana e le relazioni sociali che attraversavano le città italiane tra le due guerre mondiali. Detto ciò, però, la distinzione tra sacro e profano è alquanto utile per cogliere, attraverso le nostre fonti, la presenza di una sensibilità, se così la si può chiamare, dispiegata a livello di pubblicistica e quindi a livello pubblico, che sembra aver a che fare più con le emergenti dinamiche della produzione e del consumo capitalistico che con la razionalità rappresentativa e simbolica d’antico regime. Ma forse sarebbe più corretto parlare di un reciproco appoggio, se non di una contaminazione fra queste due componenti. La caratteristica commistione di sacro e profano, ma con una preminenza del secondo, emerge chiaramente in una pubblicità su “El Campanom” del 1941. A essere sponsorizzata era una campana-ricordo e la didascalia di corredo si presentava così: «Sotto gli auspici dell’Opera della Campana dei Caduti, a parziale beneicio dell’Associazione Madri e Vedove di Guerra. Sezione di Rovereto. La Campanella-ricordo fusa in tre tipi diversi è la precisa riproduzione in miniatura dell’augusta Campana dei Caduti di Rovereto. È di valore veramente intrinseco in bronzo artistico, inemente cesellata, sonora, squillante, bellissimo ed utile soprammobile per la casa o l’uficio»113.

In questo esempio la reliquia-Campana, normalmente caratterizzata da sacralità e unicità, poteva tranquillamente diventare una merce riproducibile in serie, un oggetto dal valore intrinseco, a cavallo tra l’utile e l’artistico. Una sensibilità utilitaristica poteva funzionare insieme a una sensibilità estetica la cui ragione stava nella prossimità, spesso evidente nel pensiero di don Rossaro, tra l’arte e il sacro. Trovo utile accostare quest’ultima pubblicità a un’altra, situata a breve distanza sulla stessa rivista, riferita a un prodotto d’uso comune come una bicicletta. Quando l’ho notata sono stato incuriosito dalla scrittura esplicita e dall’incedere, per noi forse un poco desueto, del ragionamento. La sensibilità utilitaristica di cui si è detto è qui manifesta e univoca e probabilmente testimonia di una sensibilità diffusa nelle classi sociali cui era destinata la pubblicazione.

113 “El Campanom”, 1941, s.n.

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«L’acquisto di una bicicletta BIANCHI è più un investimento di capitale che un semplice acquisto di un articolo di utilità. Investimento vantaggioso inoltre, perché una BIANCHI garantisce un servizio soddisfacente per oltre vent’anni. Fa risparmiare più di quanto costa e anche usata è valutata più di un’altra macchina nuova delle tante in commercio».

Le réclame delle attività commerciali roveretane non erano mancate in dai tempi di “Alba Trentina” ma ne “El Campanom”, una volta che la Campana aveva cominciato a funzionare in pianta stabile sul castello di Rovereto, al ianco del Museo della Guerra (anch’esso con una isionomia ormai deinita), si cominciarono a trovare anche le pubblicità riferite ai nuovi monumenti roveretani alla memoria nazionale. Le modalità espressive di questo tipo di comunicazione sembrano appiattire le nuove vestigia sacre sul piano del prodotto da consumare. Una pagina del 1926 invita a visitare «in devoto pellegrinaggio il Cimitero Militare di Castel Dante, il Redipuglia trentino». Le righe seguenti presentavano, in forma di elenco, le attrazioni che la visita offriva: «Ossario-Trincee di guerra- Sala della Riconoscenza-Visione del Sacro Colle dei più terribili campi di battaglia» A seguire poi le indicazioni stradali per recarsi sul luogo dove una decina di anni più tardi sarebbe sorto l’Ossario monumentale, distante qualche chilometro dalla città, nei boschi che dominano la Vallagarina. La grande guerra aveva rappresentato una brusca interruzione dello sviluppo del turismo nella regione. Il primo decennio del secolo aveva visto affermarsi le prime imprese in questo campo, orientate al soddisfacimento di una domanda elitaria, incarnata soprattutto dalla borghesia asburgica. Gli anni dell’immediato dopoguerra avevano visto una presenza rarefatta della precedente clientela nordica e al contempo una certa freddezza da parte di una possibile clientela italiana. Non era mancato perciò chi aveva ritenuto necessario mettere in atto opportuni provvedimento per rilanciare il settore. «Fu ben presto sotto gli occhi di tutti che il rilancio del turismo della regione non avrebbe semplicemente potuto passare attraverso una sorta di empirica sostituzione degli ospiti, ma avrebbe dovuto percorrere strade nuove, volte contemporaneamente al graduale recupero della clientela tradizionale, così come ad attrarre, in termini sempre più convinti, la domanda italiana, approittando anche dell’onda emotiva suscitata nelle vecchie province dalla guerra e dal desiderio insito nell’opinione pubblica italiana di visitare i luoghi dove essa era stata combattuta»114. 114 a. leonardi, Dal turismo d’élite al turismo di massa, in La regione Trentino Alto Adige/Südtirol nel XX secolo, in Economia. Le traiettorie dello sviluppo, a cura di Andrea Leonardi, Fondazione Museo Storico del Trentino, 4/2 Grenzen Conini, Trento 2009, p. 315.

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Le iniziative di carattere promozionale non mancarono. «Esse erano indirizzate ai potenziali ospiti italiani e facevano leva soprattutto sui sentimenti patriottici. Tra l’altro lo slogan: “Italiani visitate il Trentino”, che nella fase prebellica le associazioni irredentistiche avevano coniato in contrapposizione alle iniziative di propaganda pangermanista, venne trasformato in ‘ Italiani visitate la Venezia Tridentina’»115.

Il paesaggio della memoria che si veniva delineando in Vallagarina sembrava prestarsi particolarmente bene a fornire varie alternative di visita. Da una parte Rovereto, la città storica con il suo castello, il suo Museo della Guerra e la sua Campana dei Caduti, dall’altra la natura di montagna con i suoi campi di battaglia e i suoi cimiteri militari. L’appropriazione, l’antropizzazione e la modernizzazione di un territorio storicamente poco accessibile come quello montano, erano potute passare, in un primo momento, attraverso il nascente turismo estivo d’élite durante la belle époque, successivamente attraverso la guerra d’alta quota, tecnologica e di massa, per poi continuare su binari analoghi a quelli dell’anteguerra, con alcune signiicative novità che si esplicitarono negli anni trenta, con il ritorno e il superamento dei livelli di turismo precedenti la guerra. «La pratica sportiva che era stata all’origine della valorizzazione turistica della montagna, attraverso l’alpinismo e la “conquista dell’inutile”, determinò l’avvio, ancora per altro timido, della stagione del turismo alpino invernale con gli sport della neve»116.

Ma la novità più interessante non fu l’introduzione degli sport invernali (nonostante il nesso tra miti nazionalistici, sport, virilità, salute dei corpi e della razza, sia sicuramente inerente al mio discorso), bensì l’emergere dei primi segni di un turismo di massa. Il ciclo turistico maturato tra il 1934 e il 1938 fu particolarmente prospero. «A ridare slancio alla domanda turistica, oltre al migliorato clima economico, contribuì anche il nuovo impianto legislativo, che in diversi paesi europei ridusse l’orario lavorativo e applicò la disciplina delle ferie pagate. Nello stesso tempo si vennero organizzando degli organismi inalizzati alla valorizzazione di queste novità, come l’organizzazione denominata Krafth durch Freude nella Germania nazionalsocialista, o l’Opera nazionale del dopolavoro nell’Italia fascista. Concomitantemente con tali iniziative assunse un ruolo primario la capacità messa in 115 Ivi, p. 317. 116 Ivi, p. 319.

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atto di adeguare l’offerta turistica al nuovo tipo di domanda. Di fondamentale rilevanza fu dunque, accanto all’avvio degli sport invernali, la messa a disposizione di una clientela assai variegata di una serie di nuove infrastrutture turistiche e tra di esse le “colonie” alpine destinate a organizzazioni dopolavoristiche e a diversi tipi di associazioni di tutela dei minori»117.

Appare evidente come le politiche portate avanti dallo stato nel tentativo di inquadrare le masse nazionali, politiche legate a doppio ilo, come si è già mostrato, con i miti e gli apparati ideologici nazionalistici, fossero a loro volta fortemente legate con la dimensione economica e produttiva in un groviglio di rimandi reciproci che è dificile misurare, una complessità in cui non è agevole stabilire la preminenza di un elemento sull’altro.

117 Ivi, p. 321.

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G. Wenter Marini, La fusione, litograia, 1925.

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Capitolo 3. La Campana dei Caduti dopo la seconda guerra mondiale La mia ricerca intorno alla Campana dei Caduti nella seconda metà del Novecento, ha preso le mosse da una serie di fondi conservati presso l’archivio del Museo della Guerra di Rovereto. Questi fondi riguardano la vicenda dello spostamento della Campana, dalla sua sede originaria, sul torrione Malipiero nel castello di Rovereto, alla sua sede attuale, immersa nei boschi del colle di Miravalle, a poca distanza dall’Ossario monumentale di Castel Dante che sovrasta l’abitato di Lizzanella, una frazione di Rovereto. Questa vicenda vide la contrapposizione di due “partiti” che, sinteticamente, possono essere identiicati con la dirigenza del Museo della Guerra, il cui personaggio più rappresentativo fu Livio Fiorio1, e con quella dell’ente che gestiva la Campana, detto Opera della Campana dei Caduti, guidato in dal 1953 dal padre cappuccino e cappellano della guardia di inanza di Trento, Eusebio Jori2. Il contenzioso fu al centro del dibattito pubblico locale, come testimonia una grande mole di articoli di giornale, per tutti gli anni sessanta (e oltre) del Novecento. Attraverso questi, oltre che attraverso le corrispondenze, i promemoria vari, i resoconti e gli ordini del giorno di incontri e riunioni, è possibile ricostruire, in maniera piuttosto minuziosa, la precisa successione e concatenazione degli eventi, oltre che la dialettica instauratasi tra le parti in causa. Ma l’obiettivo di questo capitolo conclusivo non mira a questa ricostruzione, il cui interesse mi sembrerebbe del resto abbastanza limitato. Molto più interessante mi è parso cercare di cogliere le tracce frammentarie e la consistenza di quello che potrebbe essere deinito lo slittamento delle coordinate simboliche del “paesaggio della memoria” che si è cercato di delineare nel capitolo precedente. I grandi fatti che fanno da sfondo e da premessa a questo slittamento sono costituiti, inizialmente, dalla seconda guerra mondiale, dalla sconitta e dal crollo del fascismo e dalla rideinizione degli equilibri imperialistici e geopolitici mondiali. Per quanto riguarda l’Italia, l’atto di fondazione costituzionale e la nascita della Prima Repubblica furono senz’altro dei passaggi traumatici per l’apparato ideologico disegnato da Rossaro, le cui ascendenze risorgimentali, monarchiche, ma anche fasciste e militariste sono piuttosto chiare e conclamate. Nonostante ciò, quello che mi ha colpito nell’approccio alle fonti, è comunque l’indubbia continuità e la permanenza dei pilastri fondamentali del discorso nazionale e patriottico racchiuso nell’orizzonte delle fonti prodotte dalla classe dirigente locale nel secondo dopoguerra. 1

2

Per una panoramica generale sul personaggio cfr Livio Fiorio. “Inventario dell’archivio (1910 - 1974)” a cura di M. Saltori, p.6-7-8 http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/Inventario_Fiorio.pdf (sito consultato il 5 febbraio 2017). http://www.fondazioneoperacampana.it/la-campana/protagonisti/padre-eusebio-jori.html (sito consultato il 5 febbraio 2017).

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Gli anni Cinquanta possono essere considerati al contempo apogeo e canto del cigno delle due istituzioni protagoniste del mio studio, almeno per come si erano venute a costituire con Rossaro vivente. Il binomio Campana-Museo, all’interno del vecchio castello di Rovereto, attirò in questo decennio d’oro una media di 70.000 e più visitatori annui, cifra che non venne più raggiunta nei decenni successivi, per quanto riguarda il Museo della Guerra. Una prima rottura della Campana nel 1955 (provvisoriamente riparata) e una seconda nonché deinitiva nel 1960, resero necessaria la rifusione che scorporò il binomio e diede occasione per la futura separazione deinitiva, voluta da Jori e avversata da Fiorio. La convivenza delle due istituzioni in quegli anni non fu facile. I patti precari che la regolavano accentravano le competenze e le responsabilità sul Museo che era dotato di una veste legale riconosciuta a livello nazionale, a differenza dell’Opera che era patrocinata in modo legalmente informale3 dal Sovrano militare ordine di Malta (SMOM) sin dal 1940. Il Museo, nel concreto, si trovava a gestire le entrate derivanti dai biglietti d’ingresso. L’operoso Jori mal sopportava, probabilmente, questa situazione di dipendenza che limitava i suoi margini d’azione. Le schermaglie non mancarono e le crescenti pretese inanziarie di Jori per il mantenimento della Campana si concretizzarono in accordi provvisori da rinnovare di anno in anno, almeno ino al 1960. La rottura deinitiva della Campana diede il via a un complesso iter per la rifusione e il successivo collocamento del bronzo. La classe dirigente cittadina fu chiamata a discutere la questione ma i tentativi di mediazione non riuscirono a comporre i dissidi. Il partito della Democrazia Cristiana, egemone a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale, si schierò, più o meno decisamente, con Jori e accompagnò la sua azione di rinnovo del monumento e di inquadramento dell’Opera nel quadro normativo statale, con l’elevazione a fondazione riconosciuta. Vorrei cominciare la rassegna dei testi scelti, col citare un punto di vista apparentemente esogeno rispetto alle mie fonti principali, che si riferiscono più che altro all’ambiente combattentistico e istituzionale. Un articolo presente su l’Unità veneta del 8 marzo 1951, riportava un punto di vista polemico riguardo i tre monumenti di Rovereto (Campana dei Caduti, Museo della Guerra e Ossario Monumentale), indicandoli come collettori di manifestazioni e sentimenti fascisti, nazionalistici e militaristi. Il giornalista, però, intravedeva la possibilità di una trasformazione che cambiasse di segno al messaggio, mantenendo al contempo le caratteristiche del pellegrinaggio e dell’evento popolare, in quella che, a posteriori, può essere considerata un’anticipazione del destino della Campana. 3

«Tale ambito patronato che tutto si compendia in un onoriico e simbolico incarico» Cfr. AMSGR, “Atto notarile per la concessione del patronato”, in Fondo Comitato Don Rossaro, Atti vari, 1.14.b1.

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«Rovereto ha questi tre monumenti che possono servire egregiamente alla causa della pace, ricordando ai vivi la realtà della guerra. Bisogna soltanto trasformare quelle manifestazioni annuali di bassa lega, alle quali abbiamo accennato or ora, in manifestazioni di popolo, in ‘pellegrinaggi di pace’»4.

3.1. Il Museo della Guerra dopo la seconda guerra mondiale Per quanto riguarda il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, il percorso espositivo non subì modiiche sostanziali rispetto alla ine degli anni Trenta, quando era cominciato il periodo di inattività forzata dovuto alla guerra. L’orientamento celebrativo e patriottico continuava a permeare, più o meno esplicitamente, la ilosoia museale. A dimostrazione di ciò si può citare la presenza di sale come quelle delle colonie italiane, costituite sin dal 1929 per raccontare le imprese coloniali italiane e la loro dimensione civilizzatrice, oppure quelle dedicate alla memoria dei martiri trentini e alla “passione di Fiume”, oltre che la presenza, nella vecchia cappella del castello, di un sacrario contenente le memorie dei caduti come i teschi-reliquia traitti da baionette. Anche la seconda guerra mondiale venne inclusa nel racconto museograico con l’aggiunta, nella sala del Fante, di una vetrina dedicata al ricordo della Medaglia d’oro tenente Seraino Gnutti, caduto sul fronte albanese durante il conlitto. Quindi, si potrebbe dire, la presenza dell’implicito riconoscimento, se non delle ragioni dell’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana, almeno della legittimità dell’esercito nazionale e delle sue possibilità d’azione offensiva. Così, la soppressione della sala dedicata alla Russia poteva forse adattarsi al nuovo scenario internazionale e alla marcata polarizzazione tra i blocchi americano e sovietico. In questa prospettiva, gli ambiziosi progetti per il futuro sviluppo del Museo presentati nella relazione di Livio Fiorio alla riunione del comitato di afiancamento alla presidenza del Museo della Guerra per i restauri del castello di Rovereto, riunione svoltasi il 23 novembre 1959 alla presenza delle personalità più in vista del panorama pubblico roveretano, manifestano quindi una forte volontà di conferma degli assiomi che avevano caratterizzato la nascita delle istituzioni della memoria roveretane e al contempo una volontà di non fermarsi a compiti di conservazione e di stabilizzazione delle raccolte, mirando piuttosto a una loro rivalutazione ed espansione. «Sarebbe… se non un suicidio, un assurdo tecnico e soprattutto un tradimento delle ragioni ideali del nostro Museo! Si pensi – ad esempio – quale maggior 4

I tre monumenti di Rovereto, in “l’Unità”, edizione veneta del 8 marzo 1951. Anche in AMSGR, Fondo Fiorio, Memoriali e questionari, busta 5.1.6.

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prestigio sarà per avere il materiale delle sale del Fante e Marchetti-Cavalleria, se – come speriamo- riusciremo a farne una vera e organica “Sala d’Italia” con una più razionale disposizione degli attuali cimeli e una rievocazione più viva – con il ricco materiale fotograico reperibile – delle fasi salienti della guerra 1915/18. Si pensi come sarebbe per risultare – a diretto contatto con la suggestiva cappella del Castello – una unica grande sala riassumente l’epopea dei volontari trentini e l’estremo sacriicio dei nostri martiri, ricavando e riordinando il materiale dei locali ora dedicati a questi nostri Eroi. – E potrei continuare…5.

Ma vale la pena analizzare dall’inizio la relazione di Fiorio che era introdotta, dopo la necessaria riverenza verso l’ospite più illustre e inluente del consesso, il senatore della DC Giovanni Spagnolli, da queste parole che esaltavano il binomio Museo-Campana e miravano al suo mantenimento. «Sembrerebbe ovvio, cioè paciico, che il Museo della Guerra e la mistica “Maria Dolens”, spiritualmente afiancati nel veneto Castello di Rovereto, sono tra le realtà più vive e più care alla nostra popolazione e, da tanti e tanti anni essendo meta di falangi imponenti di visitatori (oscillano da tempo fra i 75 e gli 85.000) sono pure noti e familiari a ben più vasto e multiforme ambiente…»6.

Il presidente del Museo della Guerra passava poi a sottolineare le dificoltà e gli sforzi necessari per il gestione del museo, le condizioni precarie dello storico castello, la necessità di aggiornarsi in un’ottica di competizione rispetto ai musei della guerra e alle campane che stavano nascendo in giro per l’Italia7. Afidandosi a un breve resoconto della situazione inanziaria dell’ente sottolineava l’evidenza di un bilancio precario e di un fabbisogno di trenta milioni di lire per il restauro del castello, nonostante i circa cinque milioni di lire di entrate annue dai biglietti Le richieste di aiuto inanziario venivano poi giustiicate dalla necessità di essere degni delle imminenti ricorrenze per il centenario dell’unità d’Italia. La conclusione dell’intervento era particolarmente rappresentativa perché richiamava la partecipazione emotiva dei visitatori come elemento fondante del percorso museale. «Nel Castello di Rovereto si accentra e sintetizza in certo modo, il valore e signiicato storico e patriottico di questa nostra zona di guerra, di questi elementi intramontabili dell’anima collettiva della nostra Patria e delle nazioni civili, oggi orientate ad ancora più alte concezioni di comune solidarietà. Possiamo ben af5 6 7

AMSGR, “Relazione del presidente al convegno del 23 novembre 1959”, Fondo Livio Fiorio, busta 5.1.6. Ibidem. Fiorio accenna esempi a Sirmione, Malcesine, Roma oltre che iniziative analoghe in zona veneta.

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fermare (perché è facilmente documentabile in ogni momento) che i visitatori del nostro Museo e della Campana dei Caduti, anche se entrano con supericiale senso di distacco, escono dal castello con l’anima profondamente toccata da quanto hanno veduto e dovuto – in certo modo- proporre alla loro coscienza di uomini e cittadini. Questo, il valore essenziale di ciò che Rovereto conserva e offre al visitatore – nel veneto Castello- dominante la industriosa città»8.

Anche nell’ambito del Governo nazionale non mancarono, negli anni Cinquanta, le iniziative volte al riconoscimento e alla celebrazione dei caduti dell’esercito italiano nella seconda guerra mondiale accompagnate, generalmente, dal riversamento integrale delle responsabilità della sconitta e di qualunque altra eventuale colpa storica sulle ristrette alte gerarchie fasciste. La promozione e la costruzione, tra il 1954 e il 1958, del Sacrario militare italiano di El Alamein che celebrava (e celebra) l’eroismo dei soldati italiani durante le battaglie del 1942 in Egitto è rappresentativa in questo senso, tanto più se consideriamo che il sacrario risultava meta di pellegrinaggio di roveretani, che recarono in dono una riproduzione della Campana dei Caduti, offerta dalla presidenza del Museo della Guerra9. Per di più, El Alamein andava a collocarsi nella tradizione delle “sconitte gloriose” dell’esercito italiano, di cui risultava principe l’esempio di Caporetto, che aveva tratto la sua forza ideale anche dalla successiva “riscossa” di Vittorio Veneto, nella rappresentazione della gloria che segue al martirio, concetto che richiama fra l’altro in maniera evidente la lezione di Rossaro, di cui si è parlato nel capitolo introduttivo. Nonostante queste evidenze, una certa discontinuità, un certo segno dei tempi, possono forse essere rintracciati in una tendenza alla genericità e alla omissione di particolari e speciicazioni riscontrabili in alcuni documenti uficiali prodotti dalla dirigenza del Museo, soprattutto se confrontati con le produzioni precedenti. Lo statuto del 1950 (che costituì la base di quello che sarà uficialmente riconosciuto dal presidente della Repubblica italiana nel 1956 – al posto di quello del 1924 – e che venne sostituito formalmente solo nel 1995) era in effetti caratterizzato da una stesura stringata ed aperta all’interpretazione degli scopi e delle caratteristiche dell’ente. Anche la guida del museo del 1951, la prima del dopoguerra, era segnata da una forte sinteticità rispetto alle corpose edizioni degli anni Trenta. Senza voler sovra determinare eccessivamente queste tracce, sembra comunque plausibile supporre, accanto alla volontà di mantenere sui vecchi binari il discorso complessivo, un’esigenza di mitigazione (ma forse è meglio 8 9

Ibidem. AMSGR, “Ricordo di El Alamein”, Fondo Livio Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.

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parlare di omissione) dei toni più espliciti e retorici che avevano contraddistinto il primo dopoguerra e il periodo fascista. Il tema della ”antiretorica”, declinato in modo opportuno, era del resto destinato a grandi fortune nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, perché consentiva di sancire una discontinuità rispetto al periodo fascista che aveva portato alla disfatta bellica, mantenendo in piedi, al contempo, il pilastro fondante dell’identità e della comunità d’interesse nazionale. Questo punto focale ritorna spesso nelle fonti, anche in quelle che rappresentavano, come si vedrà, punti di vista più “progressisti”. La necessità di una revisione dell’approccio alle collezioni del museo, nonostante la sostanziale e consapevolmente voluta continuità delle esposizioni, fu palese nella guida scritta da Giovanni Barozzi, nel 1967. La volontà di transizione verso un museo tecnico delle armi, ormai spogliato della Campana, la sua reliquia più rappresentativa, è testimoniata dalla premessa della guida. Nonostante ciò, la funzione educativa manteneva la propria importanza. Le armi «possono esser considerate con indifferenza o repulsione, ma sono anch’esse espressione della genialità e del lavoro dell’uomo e come tali hanno una loro bellezza e rappresentano una documentazione insostituibile di cui spesso non si tiene il debito conto. (…) La Presidenza non intende esaltare con queste esposizioni la guerra o polemizzare con questo o quel Paese, ma documentare questo tragico perenne aspetto della storia umana, perché da essa i visitatori conoscano il tormento di quanti combatterono, morirono o sopravvissero, e ne traggano sprone per una migliore educazione civica che li porti a creare una società migliore»10.

Questi anni furono segnati da una forte lessione negativa dei visitatori. Nel 1961, l’ultimo anno della Campana al castello, i visitatori furono circa 90.000. Tra il 1962 e il 1965 calarono e si mantennero tra i 50 e i 60.000. Nel 1966, l’anno del ritorno del bronzo a Rovereto sul colle di Miravalle, si scese sotto i 40.000, mentre nel primo semestre dell’anno successivo i visitatori furono solo 13.262.11 Ma per arrivare a una reale revisione delle collezioni e dell’approccio espositivo del museo bisognerà attendere, come minimo, la metà degli anni Ottanta.

10

11

Cfr. in M. Gober, Museo Storico Italiano della Guerra. Cenni storici,evoluzioni e progetti per il futuro. Concorso biennale storico-letterario “La storia di Rovereto e della Vallagarina”. I edizione-ANNO 2005/2007, Club 41 Rovereto, p. 128. Dovrà presto soccombere il Museo della guerra? in “Alto Adige”, 2 agosto 1967. Gli articoli provenienti da giornali e riviste citati in questo capitolo si trovano anche in AMSGR, Fondo Fiorio cit.

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3.2. La Campana dei Caduti sotto la Reggenza di Eusebio Jori Per quanto riguarda la Campana dei Caduti, padre Eusebio Jori, subentrato nel 1953 come nuovo reggente dell’Opera al posto di Rossaro, non si discostò sostanzialmente dall’apparato ideologico costruito dal sacerdote defunto intorno al grande bronzo monumentale, ma al contempo cercò di stilare un ambizioso progetto di sviluppo per l’istituzione. Nella guida per i visitatori stampata nel 1955, la presentazione del libello ricordava e celebrava l’ideatore della Campana e formulava questo augurio: «‘MARIA DOLENS’, contemplata nella luce del suo alto valore spirituale e morale, possa spingerci ad onorare sempre di più i nostri valorosi Caduti e a sentirci maggiormente fratelli»12.

La guida esponeva la storia della Campana, confermava le vecchie coordinate simboliche e rafigurava, attraverso un ampio apparato visivo, tutta l’iconograia del bronzo, dalle incisioni interne: le frasi dei condottieri, riportate in modo preciso ed esteso, ad esempio, le decorazioni esterne, le rafigurazioni delle costellazioni che dominavano il cielo nei giorni di inizio e ine della grande guerra, oppure il bassorilievo, spiegato dettagliatamente. La parte inale del corteo bronzeo, come è già stato sottolineato, era certamente la più problematica dal punto di vista di un messaggio che volesse essere di pace e fratellanza tra i popoli. La donna rappresentata alla ine della silata trionfale veniva, in questa guida, identiicata con la Vittoria (e non con l’Italia, come supposto da Renato Trinco), mentre la piccola statua alata veniva interpretata come la Pace alata, offerta in dono alle genti proprio dalla Vittoria. In ogni caso, il nesso tra una gloria militare che si confondeva con la gloria di Cristo, la vittoria della guerra e la conseguente pace tra le nazioni veniva riconfermato, anche perché impresso indelebilmente sul metallo. Anche la terza ed ultima rifusione del bronzo, avvenuta nel 1964, confermava la continuità iconograica del bassorilievo sull’esterno della Campana (se si escludono i cambiamenti di scala dovuti alle dimensioni maggiorate o la presenza del simbolo di un’associazione umanitaria, i Lions Club International, che inanziò la fusione) mentre le incisioni interne non furono riprodotte. Come accennato, oltre alla ratiica dell’essenza della Campana come era stata voluta da Rossaro, in questa guida era però già chiaramente espresso il programma di lavoro del nuovo reggente. «È allo studio un nuovo Statuto dell’Opera che sarà presentato al comitato dell’O.N.U. per il suo riconoscimento e la sua approvazione. Le Nazioni partecipanti attualmente alla nostra Istituzione sono diciannove, ma saranno invitate tutte 12

La Campana dei Caduti di Rovereto. Guida alla visita cit., p. 9.

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le Nazioni del mondo. Nel giorno issato da ciascuna Nazione alla commemorazione dei propri Caduti, verrà trasmesso il suono del sacro e monumentale bronzo. Perché “Maria Dolens” suoni veramente sopra i Caduti di tutte le Nazioni del mondo, è in progetto la costruzione, in Rovereto, di un grande Ossario internazionale che raduni le spoglie di un Caduto per ogni Nazione del mondo. Ossario che sarà sormontato da una torre campanaria detta ‘Torre delle Genti’»13.

Il giovane e dinamico frate considerava necessario, in modo tanto evidente quanto sottointeso nella sua produzione scritta in generale, un aggiornamento del messaggio di Maria Dolens. La Campana doveva uscire, parzialmente, dallo spazio simbolico in cui era nata, legato fortemente al racconto della prima guerra mondiale, per risultare coerentemente inserita nel nuovo scenario storico. In ciò il simbolo Campana, per come era stato costruito, facilitava grandemente questa opera di ridislocazione, che invece per il Museo della Guerra sarebbe risultata assai più complicata. In primo luogo perché Rossaro, quantomeno a livello formale, aveva affermato di voler rendere indipendente la Campana da partiti o dalle contingenze politiche, in linea con un’istanza interclassista nazionale che si doveva deinire “sopra le parti”. In secondo luogo perché, già dagli anni Venti, la celebrazione dei caduti, per quanto riguarda la Campana, era avvenuta sul doppio binario dell’eroe e della vittima14, a differenza del contesto tedesco, dove la situazione era diversa: «Nella più ampia rassegna dei monumenti eretti dopo la seconda guerra mondiale si legge che il concetto dei caduti 13 14

Ivi, p.19. «E appunto per questo pensammo a un monumento che non fosse la solita fredda allegoria in bronzo o in marmo, di cui oggi c’è soverchio abuso, ma un monumento che, voce viva, risuonasse e scuotesse i cuori nella solenne rievocazione di tanti eroi scomparsi e di tante vittime trapassate senza conforto di baci e di pianto, ed ecco la Campana dei Caduti, che tutte le sere, dopo il suono dell’ultima avemmaria della valle, mandi loro il mesto saluto». rossaro, Una nuova iniziativa cit., pp. 149-150.

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come vittime aveva sostituito l’antico ideale eroico»15. Memoria delle vittime e memoria degli eroi non erano, nel nostro contesto, in contrasto tra loro ma, anzi, risultavano complementari, come erano complementari il genere femminile e quello maschile all’interno della rappresentazione della famiglia. La passività che connota il concetto di vittima si conciliava bene non solo con una certa concezione del genere femminile, ma anche con la concezione del “popolo” che si è precedentemente analizzata nella pubblicistica rossariana. I meccanismi simbolico-inclusivi di cui ho parlato nel terzo capitolo trovavano un loro naturale sviluppo nel contesto italiano del secondo dopoguerra. Se la componente eroica, militare e “retorica” del mito dei caduti poteva essere parzialmente e gradualmente accantonata, era anche perché il mito dei caduti, e di rilesso l’istanza nazionale, aveva altre “gambe” su cui reggersi. Le componenti marginali della società che erano state incluse nel messaggio della Campana, in primo luogo quella femminile, erano simbolicamente portatrici di una istanza umanitaria, caritativa, assistenziale e paternalistica che poteva prescindere dall’istanza militare e guerresca e poteva fungere da sostegno legittimante della rifondazione della nazione italiana uscita sconitta dalla seconda guerra mondiale. La nazione si accingeva ad essere governata per diversi decenni da un partito come la Democrazia Cristiana, all’interno di una congiuntura economica espansiva che avrebbe permesso il dispiegamento di un forte stato sociale. Non è un caso che uno dei principali argomenti usati contro il progetto della grande “Redipuglia internazionale” di Jori, fosse quello polemico contro lo spreco di denaro pubblico per un monumento celebrativo piuttosto che per opere ad uso sociale16. Questo tipo di argomentazione fu predominante anche nel dibattito che si venne a creare in merito all’uso dei fondi che lo stato italiano aveva stanziato, in occasione delle celebrazioni dei cinquant’anni della redenzione, per Trento e Trieste. Se l’iniziativa principale, a proposito di Trento, riguardava la costruzione di un’unica opera, un grande auditorium, non mancarono proposte per villaggi popolari “della Vittoria” o complessi sportivi, mentre le proposte, inine disattese, delle componenti combattentistiche tendevano a chiedere un uso dei fondi più parcellizzato e attinente al tema della celebrazione17. Il contesto roveretano, negli anni Sessanta, fu caratterizzato da una espansione economica esuberante seppur ritardata rispetto al resto d’Italia. Venne iniziata la rapida costruzione della zona industriale e la cementiicazione del fondovalle fu prorompente. Una vasta opera di edilizia pubblica popolare si accompagnò alla costruzione di strade e infrastrutture, del nuovo ospedale, della cassa malati cittadina e del nuovo stadio sportivo. La vocazione turistica della città passò in secondo piano mentre iniziò un’accentuata an15 16 17

Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 236. Cfr. Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 244. I combattenti propongono un’opera in ogni città, in “l’Adige”, 5 gennaio1968.

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tropizzazione del territorio montano circostante con la costruzione di impianti sciistici e seconde case per le vacanze. Cominciò il decentramento di molte funzioni del centro città grazie alla diffusione dell’automobile che rendeva più semplice l’accesso ai luoghi periferici, come era anche il nuovo sito prescelto per la Campana, poco distante dall’Ossario monumentale di Castel Dante. Un sito che dava la possibilità di avere ampi spazi per bagni di folla e momenti collettivi di una certa entità che ino a quel momento non erano stati possibili, essendo il castello piuttosto angusto, sopprattuto durante i rituali e le peregrinazioni della Campana in giro per le strade e le piazze italiane, in occasione delle fusioni. Inoltre, nella visione di Jori, il sito rendeva possibile un’esperienza spirituale lontana dal caos cittadino, in un’appropriazione della natura18 che non era nuova nel mondo della memoria europea della guerra mentre i progetti mai realizzati per il monumento alla Campana rappresentavano ottimamente il ventaglio delle opzioni architettoniche che erano state usate nei decenni precedenti per il culto dei caduti. Nonostante tutti questi progetti e anche a causa del prolungarsi della controversia tra l’Opera e il Museo, che si esaurì deinitivamente, nella sua propaggine legale, negli anni Ottanta, la Campana rimase sul suo supporto “provvisorio”, nell’ampia spianata che si affacciava sulla Vallagarina, mentre la costruzione del relativo complesso edilizio venne a lungo rimandata.

3.3. Uno spaccato del combattentismo roveretano. La critica alla “Redipuglia internazionale” Tra gli argomenti19 portati da Livio Fiorio e da coloro i quali erano contrari al trasferimento della Campana in un nuovo monumento, è particolarmente interessante quello che prende in considerazione un progetto analogo, per molti aspetti, alla “Redipuglia internazionale” pensata da Jori. La lettera che segue era stata inviata a Fiorio dalla compagnia dei volontari giuliani e dalmati di Trieste con cui la legione trentina era in ottimi rapporti. «Quando nei primi anni del dopoguerra, a Roma, sorse l’idea dell’erezione di un’”Ara Pacis” sul Carso – che, raccogliendo campioni di terra in tutti i cimiteri italiani dove riposano caduti di ogni nazione che partecipò all’ultima guerra sul fronte italiano, si trasformasse in altare di riconoscenza e fraternità fra i popoli – nell’ambiente combattentistico giuliano non si manifestò alcuna contrarietà». 18 19

Cfr. g. Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 119. Gli argomenti a favore del mantenimento di Maria Dolens sul torrione Malipiero sono: la volontà di don Rossaro, l’importanza spirituale del binomio con il Museo della Guerra, l’indotto turistico del centro di Rovereto, la volontà del popolo (in riferimento a una raccolta di quasi 5000 irme a favore della Campana al castello), il diritto, la mondanizzazione della Campana nella nuova sede.

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Progetti presentati per il complesso della Campana dei Caduti da realizzare sul Colle di Miravalle (AFCCR). Dall’alto a sinistra, bozzetti di: Antonio Macconi, Giulio Martini, Luciano Patetta, Tommaso Valle, Luciano Baldessari, Marco Tiella.

Una vivissima contrarietà, invece, sorse quando si stabilì il collocamento dell’”Ara Pacis”, sul Colle di Sant’Elia, di fronte a Redipuglia, sul posto dove sorgeva il primo cimitero di guerra, poi trasferito e trasformato nell’attuale Ossario, forse il più monumentale Cimitero di guerra d’Europa. Si osservò subito che l’opera, direttamente o indirettamente, poteva assumere un carattere polemico, togliendo a Redipuglia il suo valore storico e documentario. Assieme, e fors’anche con maggiore impegno, all’opposizione dei volontari giuliani e dei combattenti in genere si associò il prof. Mirabella Roberto, Sopraintendente ai Monumenti e alle belle

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arti, che sostenne come la zona di Redipuglia non dovesse assolutamente venire disturbata o deturpata da nessun altro monumento sia pur di valore storico, morale o artistico. Avvertita tale recisa opposizione, da Roma venne inviato a Trieste il col. Zaniboni, presidente dell’U.N.U.C.I. e rappresentante del Comitato per l’Ara Pacis, il quale tentò di persuadere – in una riunione all’albergo Savoia- il prof. Mirabella e i rappresentanti dei Combattenti e Volontari a recedere dalla loro opposizione, ma più che persuadere gli altri, il col. Zaniboni inì col persuadersi egli stesso delle ragioni che sconsigliavano la erezione di altri monumenti a Redipuglia. In quell’occasione vennero suggerite altre località, dove avrebbe potuto erigersi l’Ara Pacis, e da alcuni venne indicato il colle di Medea, dove infatti l’Ara Pacis venne eretta. L’esperienza provò poi come, per i combattenti di tutte le classi e per tutto il popolo italiano, Redipuglia soltanto rappresentasse la vera passione e la fede degli Italiani20.

A prescindere dal successo dell’iniziativa dell’Ara Pacis, che, secondo questa testimonianza rimase piuttosto in ombra rispetto al celebre sacrario degli anni Trenta, queste tracce testimoniano il forte settarismo di questi ambienti combattentistici triestini, sfociato in una crisi di rigetto delle nuove modalità della memoria. Ma i legionari trentini, di cui Fiorio fu presidente, non erano da meno. La loro attività sociale-organizzativa, nel 1960, poteva consistere in questo tipo di azioni. – L’intervento della Legione Trentina presso le autorità locali e romane contro l’idea che fosse collocata nell’interno dell’Ossario di Castel Dante una lapide che avrebbe dovuto ricordare tutti i combattenti della guerra 1915-18… morti a Rovereto dopo il conlitto e ino al 1959! – L’intervento della Legione Trentina perché non venisse accolta la richiesta degli ex prigionieri della Russia della I guerra mondiale – non appartenenti ai Battaglioni Neri, che fanno parte della nostra Associazione- di essere riconosciuti uficialmente ed equiparati ai combattenti dell’esercito italiano: e ciò del resto in armonia alle disposizioni uficiali del Ministero della Difesa21.

A misure spiccatamente identitarie e di circoscrizione del ricordo dei caduti, che si conciliavano in modo quantomeno problematico con l’universalismo del messaggio di fratellanza della Campana, si alternavano poi misure “sociali” per i membri bisognosi.

20 21

“Ara Pacis e Redipuglia”, foglio su carta intestata della Compagnia volontari giuliani e dalmati, Fondo Livio Fiorio, Rapporti Wenter Rocca, busta 5.1.4. “L’assemblea della Legione Trentina a Rovereto, 10 luglio 1960. Foglio d’informazioni ai soci”, Fondo Livio Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.

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«Continua l’aggiornamento degli indirizzi che oltrepassano ora i 350; continua il tesseramento, che a dire il vero, potrebbe trovare maggiore rispondenza; continua la nostra opera di assistenza ai soci bisognosi, opera che potrà in avvenire essere ampliicata grazie alla soddisfacente afluenza di offerte e contributi sia da parte di soci e simpatizzanti che di Istituti»22.

Il fronte combattentistico si compattò in maniera particolarmente decisa intorno alla causa del ritorno della Campana al castello solo a partire dal 1966. In quell’anno questa tornò a Rovereto, sul colle di Miravalle, e il Museo della Guerra venne riconquistato da una classe dirigente decisa a far valere le ragioni del vecchio binomio dopo che, per circa tre anni, a partire dalla sconfessione di Fiorio da parte del suo stesso consiglio, il museo era stato guidato da una dirigenza collaborativa nei confronti di Jori. Gli argomenti usati in questa “battaglia” si polarizzarono allora, in modo particolare, intorno al tema della mondanizzazione della nuova Campana. G. Mario Tribus, presidente dell’A.N.C.R. di Rovereto (associazione nazionale combattenti e reduci), in quel periodo, politicamente legato al M.S.I. locale e personaggio particolarmente attivo nella nostra vicenda a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, poteva esprimere le seguenti argomentazioni per cercare di portare dalla propria parte un’importante autorità religiosa trentina. E a lei più che ad altri, dovrebbe parer caro che la sacertà di una Campana venisse raccolta nella più seria e sobria sede come voluta dal Fondatore, piuttosto che vederla paganamente mondanizzata sulle alture amene della Valscodella artatamente battezzata Miravalle, ove alla sua ombra, e proprio a causa della sua presenza, più numerosi saranno i giovani peccatori, le coppie. Col concetto espresso dal Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha disaddobbato gli altari di ornamenti giudicati superlui, è certo più in armonia il nostro vedere che non quello di coloro che vogliono spendere forse centinaia di milioni in banali sontuosità quando in India, e non solo lì, si muore di fame (…)23.

In questo tipo di discorsi, la sacralità della tradizione, incarnata nella serietà, nella sobrietà e nella carità, si contrapponevano a un modernità ancora una volta demonizzata, contraddistinta da un mix di costumi sessuali peccaminosi e consumismo. Eppure, vale la pena evidenziare una certa varietà delle posizioni in campo. Accanto agli atteggiamenti già descritti si potevano trovare testimonianze di altri settori del combattentismo trentino, meno settari e disposti ad accettare cambiamenti di qualche tipo. 22 23

Ibidem. “Lettera di G.M. Tribus all’Arciprete Decano di San Marco, don Scalvini”, 29 marzo 1966, Fondo Livio Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.

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Era il caso del presidente dell’A.N.C.R. di Rovereto prima di Tribus, Nunzio D’Amico, che programmò la cerimonia del maggio 1961, in realtà mai avvenuta, per la partenza della Campana rotta da Rovereto verso la fonderia Capanni di Reggio Emilia. D’Amico si era schierato dalla parte di Jori e aveva scritto, per l’occasione, un discorso di cui presento un frammento. I milioni di morti della grande guerra, le madri orbate dai igli, dagli orfani, le vedove, gli invalidi, i reduci, tutto concorse, è vero, a creare il clima ove doveva espandersi l’idea di don Rossaro; e l’altra, la seconda grande guerra poi, l’alimentò e la dilatò; nuovo sangue, nuovi sacriici, nuovo dolore; e nuova umanità da confortare. Ma pur se tutto ciò dovesse svanire nei secoli (e quanto ce lo auguriamo!), ebbene, pure allora il signiicato della Campana rimarrebbe in tutta la sua grandezza; l’insieme dei Caduti di tutte le guerre, di tutte le stirpi forma pur sempre un mosaico attraverso il quale l’umanità passò per raggiungere le sue mete di civiltà; e guai se il progresso economico, se l’aumento del reddito, se il maggior benessere cui dobbiamo pur tendere, dovessero far dimenticare chi tanto sacriicò per la Patria, gettando le basi per ampliare veramente i conini al di là di ogni mare, in una concezione universale e cristiana dell’umanità24.

Personaggi come D’Amico potevano inserirsi nel dibattito in corso rivendicando, inoltre, un patriottismo originario (risalente ai tempi dell’oppressione austrungarica) interiore, privato, semplice e antiretorico che si poteva ben adattare al mutato contesto. Ho trovato una piccola testimonianza della capacità di permanenza di questo tipo di discorsi in una guida ai sacrari della grande guerra del 2010, in un capitoletto intitolato ”La sacralità civile e la necessità di un nuovo linguaggio per la trasmissione della memoria”. Certo, un linguaggio attuale, sobrio ma più profondo, faciliterebbe l’identiicazione, il “riconoscersi”, il passaggio a una memoria culturale. (…) Se il fascismo ci ha in qualche modo “rubato” le parole Patria o Sacriicio (…) non signiica che noi, cittadini maturi e coscienti di una nuova Europa, non dobbiamo portare rispetto a chi è morto per quella che, in quel momento, era la difesa della nostra terra25.

24

25

“Saluto alla Campana dei Caduti in occasione del suo ritorno in fonderia per la rifusione (17 maggio 1961)”, allegato a lettera del presidente del ANCR di Rovereto al sindaco Maurizio Monti, AFCCR, Corrispondenza varia anni 1960-1965. e. Bologna, e. pederzolli, Guida ai Sacrari della Grande Guerra da Redipuglia a Bligny. 19 itinerari lungo il fronte italiano, ed. Gaspari, Udine, 2010, p. 25.

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3.4. Arriva il vento del cambiamento. Il discorso dei giovani sul culto degli eroi e relative reazioni Nel monotono dibattito circa la collocazione della Campana sulle pagine dei quotidiani locali, l’intervento delle giovani generazioni, continuamente chiamate in causa da un discorso patriottico da sempre legato alla dimensione educativa, testimoniava, insieme alle risposte da quello provocate, il graduale cambiamento di segno del discorso pubblico generale. La serie di interventi prodotti in risposta alla lettera “dei giovani” mi pare importante anche perché mostra come ad essere messa in discussione non fu mai l’idea di interesse nazionale, ma solo la forma o le modalità nella quale quest’istanza veniva espressa. Se si prendono sul serio, per un momento, i timori di molti combattenti degli anni Sessanta, si potrebbe dire che il mito della patria si sciolse lentamente in una forma ormai mondanizzata e disincantata dell’istanza nazionale. La lettera che scatenò il dibattito pubblico venne pubblicata sul quotidiano Alto Adige il 26 agosto 1965 ed entrò in modo, per così dire, laterale rispetto alla vicenda narrata nelle mie fonti. La lettera voleva rispondere alla proposta della giunta comunale di Rovereto per la delimitazione della nuova zona monumentale che avrebbe dovuto accogliere il nuovo “trinomio sacro” che Jori e alleati volevano costituire nei pressi di Rovereto. Il trinomio, che escludeva il Museo della Guerra, sarebbe stato formato dal nuovo complesso della Campana, dall’ossario monumentale di Castel Dante e dalla strada degli artiglieri, disseminata di lapidi dedicate e che portava nei pressi della grotta dove era stato catturato il martire Damiano Chiesa. La lettera apparve sotto questo titolo: Il parere dei giovani sul “culto degli eroi”. «Spettabile redazione. Abbiamo letto sull’”Alto Adige”, venerdì 20 agosto, in cronaca di Rovereto, una proposta della Giunta comunale che ci ha lasciato alquanto stupiti. Si tratta della proposta di “delimitare una nuova superba zona monumentale”. Confessiamo che lo sbracciamento retorico della proposta ci aveva fatto pensare ad uno scherzo, ma dato che sappiamo che le Giunte in genere i loro scherzi non li fanno pubblicare e dato che “ le giovani generazioni” (da sensibilizzare) sono chiamate in causa ben due, tre volte, e dato inine il gentile invito del giornale ad esprimere l’opinione in merito, pensiamo di dover indicare cosa pensiamo di questo tipo di “sensibilizzazione”. Si tratta inine di creare materiale d’imbonimento retorico (del tipo a cui purtroppo siamo abituati in dalle elementari: i nostri grandi progenitori romani civilizzarono… ma è dolce morire per la patria… e giù di lì). Data la delimitazione geograica della nostra bella Italia, infatti, i vicentini hanno i monumenti a quattro passi, mentre i roveretani restano privi così di “sensibilizzazione al

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culto degli eroi”, non possono “ravvivare il culto degli eroi… la visione genuina della guerra… le fattezze eroiche… tormento sacriicio apoteosi” a Rovereto c’è infatti soltanto “il sacro monumentale bronzo… una delle istituzioni più nobili” (avvertiamo che stiamo spulciando a caso qua e là il testo della proposta). Così si sente la necessità di allestire una zona sacra per l’educazione delle giovani generazioni. Che sarebbe ora magari che alle giovani generazioni dicessero delle cose serie invece di smerciare loro dell’eroismo coi punti qualità, come qualsiasi prodotto commestibile. Sarebbe ora si piantasse la storia del culto della guerra, della violenza sacra o giù di lì, che si tentasse, in una città come Rovereto, culturalmente sottosviluppata, di sensibilizzare i giovani comprando libri per le biblioteche scolastiche, allestendo magari qualche spettacolo, qualche ilm per studenti (non soltanto il Walt Disney, ogni quinquennio e Cesco Baseggio ogni due anni). Sia chiaro, noi abbiamo tutto il rispetto per la gente che è morta in guerra, ma proprio per questo rispetto ci riiutiamo di farne una religione, gli occhi al passato (e più distante è, meglio è) e la schiena all’avvenire. È stato vietato un monumento in una provincia d’Italia perché portava scritta la frase di Brecht “Beate le nazioni che non hanno bisogno di eroi”. Il ministro degli interni ha cincischiato che la frase, bellissima nel contesto dell’opera, non andava presa in sé. Invece in questo caso a noi non interessa niente del contesto dell’opera, ma proprio la frase in sé, per quel che vuol dire, perché, lo aggiungiamo noi, l’eroismo è una malattia, la nevrosi di una nazione. E non ci si richiami la resistenza, perché nella resistenza si è combattuta una lotta antieroica (e non vorremmo che qualche furbissimo ci fraintendesse) una lotta umana proprio anche contro il culto della morte, contro il linguaggio che abbiamo sentito e che continuiamo a sentire. Abbiamo casualmente assistito all’inaugurazione di un monumento ai Caduti a Folgaria qualche settimana fa, e abbiamo sentito un ministro che dopo aver nominato mamme, idanzate, sorelle, parlava di quanto siano meravigliosi i giovani di vent’anni morti col nome di patria sulle labbra. Bene, la morte è orrenda anche col nome della patria come titolo. Quindi come giovani ci riiutiamo a questo tipo di sensibilizzazione. Se la creazione della zona ha invece un signiicato squisitamente turistico (come immaginiamo) per le gite domenicali delle associazioni ex combattentistiche, allora la cosa cambia aspetto. Il turismo è attività, non contemplazione»26.

L’elogio inale dell’attivismo economico e turistico, contrapposto a una dimensione contemplativa e simbolica propria del culto della nazione, sembra esprimere bene la parabola di un discorso pubblico che si avvia a spogliarsi del suo abito idealizzato e sacralizzante. 26

“Il parere dei giovani sul culto degli eroi”, in “Alto Adige”, 26 agosto 1965, lettera irmata da P. Trotto, E. Dorigotti, B. Toldo, G. Vigo, C. Rella, P. De Bastiani, M.G. Trotto, F. Rella.

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Le risposte alla lettera dei giovani non si fecero attendere e ci danno uno spaccato interessante dei punti di vista che potevano circolare a quei tempi. Ubaldo Flaminio ad esempio rivendicava la funzione paciicatrice ed emancipatrice della lotta per la nazione: «preferendo sorvolare sulla constatazione (forse non imparata sui banchi delle elementari, né più in su) che la pace è privilegio dei paesi che hanno il culto della Patria e la religione degli eroi, aggiungendo con il loro giudizio un altro episodio ai tanti altri che purtroppo oggi si veriicano in Italia, non meno meschini e degni di compassione, atti solo alla liquidazione dei valori morali (…)»27.

Oppure si può trovare l’intervento di Luciano Carestia, probabilmente compiacente verso i giovani perché la loro critica della nuova zona monumentale poteva essere funzionale al ritorno della Campana al castello. Qui è possibile rintracciare il richiamo patriottico alla rispettabilità borghese della famiglia e del dovere, nonché a un’accurata gestione dei corpi dei cittadini da parte dello stato. «Gentile redattore, mi consenta una parola a difesa dei giovani irmatari della lettera pubblicata giovedi scorso, anche se la loro causa in un ambiente così patriottico come quello roveretano sembra piuttosto impopolare. Probabilmente essi hanno voluto solamente reagire alla retorica del patriottismo, ma nulla autorizza a pensare che essi siano nei fatti meno “patrioti” dei loro padri e dei loro nonni. Per “patriota” intendo chi fa il proprio dovere in famiglia, nel lavoro e nelle libere competizioni civiche, senza trucchi e senza sopraffazioni. Certo i giovani sono oggi disincantati, e sarebbe strano – e non opportuno – il contrario, con le esperienze che si sono fatte e con lo spirito del produttivismo e del proitto che logicamente ci pervade. Ciò premesso, il mio sommesso, ma forse ingenuo parere, è che il Consiglio comunale meglio potrebbe sensibilizzare i giovani, non già profondendo milioni, o comunque incoraggiando opere di superlua decorazione, ma, ad esempio, costruendo a Rovereto una piscina coperta, s’intende da dedicare ad uno o più eroi. Gli stessi patrioti più accesi si rassicurerebbero al pensiero che così la Patria potrà disporre di giovani più vigorosi da immolare a sua difesa»28.

L’intervento dell’avvocato Sandro Canestrini era particolarmente interessante perché, appoggiando i giovani, chiamava in causa tutta una serie di considerazioni storiche e politiche sul rapporto di continuità di quel presente storico con il vecchio regime fascista, con una decisa attribuzione di responsabilità alla parte più conservatrice della classe dirigente italiana, ma anche, in parte, dei partiti operai. 27 28

“Monumentalizzazioni e culto degli eroi”, in “Alto Adige“, 29 agosto 1965. Ibidem.

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«Vivaddio, l’imbonimento dei crani, la propaganda patriottarda, il bombardamento dei luoghi comuni non riescono a togliere ai nostri ragazzi il piacere di ragionare e il diritto di dissentire. Ovviamente il discorso sarebbe molto lungo, e molto amaro. Perché all’origine di tutto ciò che il nostro Paese è oggi vi è la responsabilità delle classi conservatrici e del partito che le ha sempre autorevolmente rappresentate. Vi è, (chiarissima anche ai ciechi), la rivincita delle forze e degli interessi che il vento d’aprile non era riuscito a spazzar via. Vi è anche però l’eccesso di buona fede dei movimenti laici ed operai che hanno dato credito a tutta una serie di baggianate, nel desiderio di non rompere, o di non contribuire a rompere, la cosìddetta unità nazionale dei primi governi del dopoguerra. La mancata abolizione del codice penale fascista è un esempio evidente di tale volontà di collaborazione, nonostante tutto; il mantenimento in carica di tante colonne dell’antico regime (ad esempio, dai generali agli ambasciatori) è un esempio di spirito di sacriicio spinto ino al martirio… Così, nel ciarpame che è rimasto in piedi, siamo stati destinati a leggere le lapidi sui “gloriosi Caduti per la Patria” in Abissinia, in Spagna, in Albania, in Russia e in Francia. Dicono bene i nostri ragazzi: pietà per i morti. Un iore su ogni tomba di Caduto in guerra, ma un iore di umano compianto nel giuramento che mai più si ripeteranno inutili stragi. Invece le cose stanno ben diversamente! Due o tre volte all’anno, in modo grandioso, in tutti i grandi e piccoli borghi d’Italia, si dà iato alle trombe, si inaugurano monumenti, si vergano epigrai, si pronunciano discorsi. Hanno ragione i nostri ragazzi: troppi ministri e troppi deputati prostituiscono la loro intelligenza e la loro sensibilità (per ricevere il voto dell’orfano o della vedova) e dipingono il contadino di Castellano e l’operaio di Ala, morti imprecando alla guerra, come esempio al purissimo e volontario sacriicio per le migliori sorti d’Italia»29.

Il dibattito sul quotidiano proseguì a lungo e, a detta dei cronisti, le lettere furono moltissime. Il prolisso punto di vista di Livia Battisti, iglia del martire Cesare e di Ernesta Bittanti, è denso di problematicità ed evidenzia il dificile tentativo, che fu sempre proprio anche della madre (a differenza delle vedove Chiesa e Filzi) di mantenere indipendente dal fascismo la igura del padre. «Più d’uno spunto della vostra lettera, giovani, mostra che non siete dei qualunquisti, e credo quindi potrete accogliere la mia parola e, forse anche “pensarci su”. È sacrosanta la vostra protesta contro tutto ciò che è retorica ( e, purtroppo, se ne è fatta e se ne fa tanta), ma nel vostro sdegno voi fate giustizia sommaria, in un fascio, del falso e del buono. Perché tanto disprezzo per l’eroismo? L’eroismo è l’espressione massima del coraggio, della capacità di sacriicio: e queste manifestazioni dell’animo umano non 29

Ibidem.

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si estrinsecano soltanto in eventi bellici, in eventi cruenti. Coraggio, sacriicio, eroismo ci vogliono anche per fatiche (anche umili, quotidiane fatiche) per quotidiane rinunzie, per perdite pecuniarie che si affrontino per il raggiungimento di un ideale, o anche, semplicemente per l’assolvimento di un compito, di un dovere, o per non lasciarsi corrompere, o per arricchire la propria mente… (gli esempi potrebbero essere innumeri, dall’esilio dantesco… al dover andare a scuola quando avreste voglia di andare invece a spasso!). Coraggio, sacriicio (ed anche eroismo, a volte) sono l’alimento che gli ideali richiedono per affermarsi; e sono alta espressione di umanità, non “la nevrosi di una nazione” come voi dite. Non conosco il testo di Brecht in cui ricorre la frase “beate le nazioni che non hanno bisogno di eroi”. Non vorrei che la traduzione italiana portasse al più largo signiicato della parola “eroi” il termine di eroe in un fatto bellico…Non mi sento di ammirarla. In una “nazione” in cui fosse raggiunta la giustizia per tutti, la felicità per tutti, si potrebbe, si dovrebbe forse, rinunciare ad ideali travagli, comportanti sacriicio, coraggio? Non si dovrebbe, ad esempio far nulla, perché anche ogni altro paese, anche ogni altra “nazione” (ma questo termine in Brecht, non mi piace) raggiungesse il “nostro” (per ora molto ipotetico) stato di giustizia e di felicità? E quando tutto il mondo lo avesse raggiunto, le passioni dell’animo, la fragilità isica dell’animale uomo, le catastroi naturali… non richiederanno ancora coraggio, abnegazione, eroismo? (Pensate alla assistenza ai malati di mente, all’istruzione di ogni sorta di minorati ecc ecc.). A meno che si voglia arrivare alla “civiltà” di chi mette nelle camere a gas gli “individui” scomodi. “Circola, o iamma del sacriicio”, si trova scritto in un appunto di Cesare Battisti. Di Battisti che, diciottenne (nel 1895), aveva affermato, in un congresso di studenti, esser necessario non trascurare alcun mezzo, non darsi pace, in che non si fossero sollevati tutti i propri fratelli ad una vita superiore. Per arrivarci, la strada è ancora lunga. Ed abbisogna proprio di coraggio e sacriicio: il sacriicio di rinunziare ad un divertimento per presenziare ad una riunione di lavoro, di studio, di partito; il sacriicio di star inchiodati ad una sedia per apprendere quel che poi potremo dare; il sacriicio di tralasciare uno studio che avvince per insegnare, per divulgare quegli ideali progressisti che certo vi animano, se avete scritto come avete scritto. Abnegazione, coraggio, eroismo: tre tappe della stessa strada. (…) Quanto alle celebrazioni di questo cinquantenario… Ecco, anche qui -forse- la giusta ira anti-retorica vi ha preso la mano. E forse, anche, non vi hanno insegnato, non sapete a suficienza, di quegli eventi. Non si deve ignorare, negare l’aflato ideale tra le “componenti” della prima guerra mondiale: era guerra agli imperi centrali, militaristi, feudali, prepotenti. Vi cito ancora le parole di Battisti (scritte sul monte Corno, nell’estate del 1916): ”Spero che quel che noi soffriamo quassù varrà a impe-

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dire che il turbine della guerra rattristi un giorno i nostri iglioli”. Era questa la meta, a cui tendevano molti di quelli che, come lui, erano partiti volontari affrontando sacriici, eroismi, per un ideale: la guerra alle guerre; affrontando anche l’intimo dissidio spirituale di socialisti, di paciisti, quali erano. È deplorevole che un retorico nazionalismo sfrutti e la loro memoria e quella degli – assai più numerosi – non eroi, ma vittime, che caddero con loro. Ma voi, giovani intelligenti, non dovete coinvolgere nel vostro disprezzo per la retorica anche i loro ideali! Cinquanta anni fa partivano dal Trentino, allora Austria, e anche, quindi, dalla vostra Rovereto, i giovani che divennero i “volontari trentini”. Molti erano seguaci del socialista Battisti; erano comunque tutti dei democratici, dei giovani che oggi diremmo “socialmente impegnati”. Indubbiamente il loro slancio era anche uno slancio risorgimentale: quello slancio risorgimentale che, con l’Obbedisco di Garibaldi, era – per le popolazioni italiane del Trentino – rimasto insoddisfatto. Anelavano anche ad essere membri del paese di Beccaria, di Cattaneo, di Garibaldi, piuttosto che dell’impero austro-ungarico, dalla burocrazia inta democrazia. Un esempio: voi non sapete, probabilmente, che in quell’impero il voto alle donne era già stato concesso nel secolo scorso, ma…con un piccolo ma: era “per censo”cioè riservato alle ricche- e doveva essere esercitato tramite il confessore. Forse per voi, oggi, è del tutto indifferente l’essere cittadini italiani o cittadini austriaci. Mi piace anzi pensare – compiacendomene – che vi sentiate cittadini del Mondo, che aspiriate a divenirlo istituzionalmente. Ma, convenitene, anche differenti ideali, specialmente se legati a differenti condizioni storiche, specialmente se affermati con sacriici, vanno non solo rispettati ma onorati (l’ideale della morte, il “culto della morte” è un’iperbole in cui siete incorsi e non è il caso di parlarne. Altro ci sarebbe da dire ma il discorso sta diventando proprio troppo lungo»30.

3.5. La benedizione papale del 1965. Dalla Campana dei Caduti alla Campana della Pace Sul Gazzettino di Trento del primo novembre 1965 erano comparsi i resoconti di due distinti discorsi del papa Paolo VI, in occasione della benedizione pontiicia della nuova Campana dei Caduti dopo la sua fusione. Uno era rivolto alla folla di piazza San Pietro e l’altro era stato precedentemente rivolto ai delegati31 trentini in viaggio a Roma. Il discorso ai delegati trentini era più articolato e complesso. In esso Paolo VI non mancava di dare soddisfazione alle componenti combattentistiche che rappresentavano i referenti 30 31

“Ancora sul culto degli eroi”, in “Alto Adige”, 31 agosto 1965. “Il discorso del Papa ai delegati trentini”, in “Gazzettino di Trento”, 1 novembre 1965. «Sono intervenuti il ministro Spagnolli, il reggente dell’Opera, padre Eusebio Jori. Il commissario del Governo per la Regione Trentino –Alto Adige Bianchi di Lavagna, il sindaco di Rovereto Benedetti, i governatori di cinque distretti del Lyons d’Italia. Il gruppo era guidato dall’Arcivescovo metropolita mons. Gottardi».

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storici della Campana dei Caduti, sottolineando i meriti di chi si era eroicamente sacriicato in un’ottica patriottica “per la libertà, per il dovere, per la concordia”. «Segno di pace per la voce grave e ammonitrice che la Campana con i suoi quotidiani rintocchi diffonde nella valle e fra le montagne, che ne accolgono l’austera sua sede e che quasi facendo propria l’eco mestissima dell’addio dei Caduti ammonisce i vivi a non dimenticare chi per la libertà, per il dovere, per la concordia fra gli uomini ha sacriicato la vita»32.

Il Papa inoltre riprendeva il doppio valore da attribuire alle sofferenze generate dalla guerra e incarnate dal dolore materno: deprecazione ma anche virtù espiatrice. «Segno di pace inine per il titolo purissimo che alla Campana è stato dato di “Maria Dolens”, quasi a riunire nel più puro e nel più alto, nel più santo dolore materno, quello della Madonna addolorata, il dolore immenso e umanissimo che inondò la terra inondata di sangue. Il pianto umano nella Campana si fa perenne quasi a perpetuare la deprecazione e insieme la virtù espiatrice delle sofferenze generate dalle guerre; il pianto umano si fa sacro per il senso religioso che gli si attribuisce (…)»33.

In questo stesso discorso il Papa non mancava di rimarcare la simbolicità delle varie rifusioni e del rinnovo del signiicato della Campana. Egli sottolineava l’importanza di un atto di fondazione che sanciva uno slittamento semantico e un adattamento ai tempi. «E poiché la vostra Campana simbolica tre volte ha dovuto essere rifusa e rigenerata, sapremo trarne lezione sapiente anche a questo riguardo, dal momento ch’essa ci vuol essere maestra di pace. Sì, la pace fra gli uomini è sovente fragile e precaria; non basta fare la pace una volta, bisogna rifarla e due e tre volte, se occorre; cioè dobbiamo generare la pace come virtù, che si afferma e si rinnova con volontaria coscienza, piuttosto che pensare di goderla come bene permanente che da sé si conserva. E dal momento che voi avete voluto dare alla fatidica Campana un senso universale, onorando in essa non solo i Caduti della vostra terra e quelli della guerra ch’ebbe nelle vostre valli e sulle vostre montagne il suo tragico teatro, ma i Caduti di tutte le guerre e di tutti i paesi, vada l’augurio di pace anche al di là d’ogni conine e rechi, sulle ali dei venti, vogliamo dire dello spirito, l’invito alla fratellanza a tutti gli uomini di buona volontà»34. 32 33 34

Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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Il discorso alla folla di pellegrini in piazza San Pietro, diecimila e di varie nazioni secondo il cronista, fu più breve e conciso e si svolse attraverso coordinate leggermente diverse. I dispositivi del martirio e della virtù eroica, passavano qui in secondo piano, quasi omessi, per deinire un messaggio più universale che, questa è la mia tesi, rappresenta il primo tassello del passaggio dalla Campana dei Caduti alla Campana della Pace: «La campana dei morti – ha aggiunto Paolo VI – è la campana per i vivi. Essa, infatti, ci invita a non dimenticare chi è morto a causa della guerra, e a pregare afinché la guerra abbia a cessare nel mondo, e la pace possa regnare fra tutti i popoli. La campana è dedicata alla Madonna addolorata: Maria Dolens. Noi, ora, la invocheremo afinché sia dato riposo eterno alle anime dei caduti e a quelle dei nostri defunti, e afinché siano santiicati i nostri dolori dal suo, ed ella ci ottenga da Cristo la vittoria della sua regalità: quella del perdono reciproco, della fraterna concordia, della vera pace, nell’amore e nella giustizia»35.

I temi della vittoria e della gloria, tanto centrali nelle prime Campane, sembrano qui ritornare nell’alveo del discorso strettamente religioso, in una specie di contro movimento rispetto alla tarda parabola risorgimentale, a cavallo della guerra di Libia e la grande guerra. Si potrebbe dire che, dopo una sorta di secolarizzazione di concetti religiosi, assistiamo qui a una riteologizzazione dei concetti secolari della vittoria e della gloria e alla decadenza del Cristo Re degli eserciti.

3.6. La banalizzazione della Pace In pace hominum ordinata concordia et tranquilla libertas (Giovanni XXIII)

Queste cerimonie e questi discorsi si svolsero in un momento particolare del secondo dopoguerra. All’inizio degli anni sessanta, le tensioni tra U.S.A. e U.R.S.S., le due super potenze uscite vincitrici ed egemoni dalla seconda guerra mondiale, avevano fatto temere lo scoppio di ostilità belliche che, a causa dello sviluppo tecnologico dei nuovi armamenti nucleari, avrebbero rischiato di essere talmente distruttive da non permettere né la ricostruzione dei territori, né la ripresa della vita delle popolazioni coinvolte. Le stesse possibilità di rilancio economico sarebbero state frustrate. Il 6 aprile 1964 la Santa Sede era entrata con lo status di osservatore permanente come Stato non membro nella Organizzazione delle Nazioni Unite, l’associazione intergover35

“Paolo VI benedice la campana di Rovereto”, in “Gazzettino di Trento”, 1 novembre 1965.

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nativa e internazionale che era succeduta nel 1945 alla vecchia e fallimentare esperienza della Società delle Nazioni. Il 4 ottobre del 1965, meno di un mese prima della benedizione di Maria Dolens, il Papa aveva pronunciato un importante discorso all’ONU. Questo discorso mi sembra estremamente importante per precisare l’idea di pace che nasce in questo contesto che è anche quello del Concilio Vaticano II e che, quasi per osmosi, andò a permeare il simbolo Campana dei Caduti. Vorrei sottolineare due questioni in particolare. In primo luogo, in questo testo si trova un riconoscimento e una conferma del sistema degli stati-nazione come unica garanzia di una ordinata concordia tra gli esseri umani. I “Popoli” riconosciuti sono quelli che possono fregiarsi di appartenere a comunità nazionali sovrane, omogenee al loro interno e articolate secondo il principio della divisione in blocchi etnici, culturali e linguistici. Questo principio, per quanto artiiciale e approssimativo nella sua consistenza reale, aveva permeato i discorsi e l’azione delle classi dirigenti europee, quanto meno sin dal XIX secolo, e continuava a far sentire la propria inluenza. «Al pluralismo degli Stati, che non possono più ignorarsi, voi offrite una formula di convivenza, estremamente semplice e feconda. Ecco: voi dapprima vi riconoscete e distinguete gli uni dagli altri. Voi non conferite certamente l’esistenza agli Stati; ma qualiicate come idonea a sedere nel consesso ordinato dei Popoli ogni singola Nazione; date cioè un riconoscimento di altissimo valore etico e giuridico ad ogni singola comunità nazionale sovrana, e le garantite onorata cittadinanza internazionale. È già un grande servizio alla causa dell’umanità quello di ben deinire e di onorare i soggetti nazionali della comunità mondiale, e di classiicarli in una condizione di diritto, meritevole d’essere da tutti riconosciuta e rispettata, dalla quale può derivare un sistema ordinato e stabile di vita internazionale. Voi sancite il grande principio che i rapporti fra i popoli devono essere regolati dalla ragione, dalla giustizia, dal diritto, dalla trattativa, non dalla forza, non dalla violenza, non dalla guerra, e nemmeno dalla paura, né dall’inganno»36.

Il secondo aspetto riguarda le considerazioni intorno alle cause della guerra. Nel discorso di Paolo VI, la radice dei conlitti è una questione di mentalità. «È l’orgoglio, per inevitabile che possa sembrare, che provoca le tensioni e le lotte del prestigio, del predominio, del colonialismo, dell’egoismo; rompe cioè la fratellanza».

36

“Discorso del Santo Padre alle Nazioni Unite”, in “L’Osservatore Romano”, 6 ottobre 1965, p. 4. http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/speeches/1965/documents/hf_p-vi_spe_19651004_united-nations.html, (sito consultato il 5 febbraio 2017).

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Viene chiamata in causa la dottrina dell’equilibrio europeo37, come la chiamava Chabod, ma per il resto, la pace diventa il risultato di un’opera di educazione dello spirito e delle idee mentre l’opera concreta indicata come via maestra è quella del disarmo delle nazioni. «E voi sapete che la pace non si costruisce soltanto con la politica e con l’equilibrio delle forze e degli interessi, ma con lo spirito, con le idee, con le opere della pace. Voi già lavorate in questo senso. Ma voi siete ancora in principio: arriverà mai il mondo a cambiare la mentalità particolaristica e bellicosa, che inora ha tessuto tanta parte della sua storia? È dificile prevedere; ma è facile affermare che alla nuova storia, quella paciica, quella veramente e pienamente umana, quella che Dio ha promesso agli uomini di buona volontà, bisogna risolutamente incamminarsi; e le vie sono già segnate davanti a voi; e la prima è quella del disarmo».

A mio avviso, si può parlare, parafrasando Mosse, di una banalizzazione della pace, nel senso che siamo in presenza di un ridimensionamento, di un occultamento dei nessi sociali ed economici, che regolano, in grandissima parte, la vita umana contemporanea. Una pace ridotta a semplice mancanza di conflitto armato rischia di condurre a un discorso che ignora non solo la reale dinamica dei rapporti tra le nazioni, sempre pronti a evolversi sulla base delle congiunture economiche e politiche, ma anche le micro dinamiche del potere, le disuguaglianze che innervano i rapporti sociali diffusi e quotidiani, rapporti che normalmente vengono ad essere garantiti e perpetuati proprio nel contesto di una pace stabile e ordinata. Analogamente alle concezioni che considerano le guerre contemporanee alla stregua di un evento naturale imprevedibile, di stragi senza senso, del capriccio o della incapacità delle classi dirigenti, del risultato dell’azione di singoli uomini o eventi, si rischia di perdere di vista il fatto che, in guerra come in pace, è la razionalità della valorizzazione del capitale che svolge un ruolo primario. I cicli economici capitalistici, con l’alternarsi di fasi espansive e fasi di crisi, non possono essere interpretati a compartimenti stagni ma devono essere compresi nel medesimo modello, per quanto impreciso e potenzialmente provvisorio, pena la condanna alla completa mancanza di senso. Le guerre mondiali rappresentarono degli enormi balzi in avanti dal punto di vista economico, dal punto di vista della produttività e della massa delle merci prodotte, con la sempre più sviluppata socializzazione38 del lavoro, sempre più sradicato dalla dimensione premoderna e contadina dell’autoconsumo, nonché con l’incremento della ricchezza socialmente pro37 38

f. ChaBod, Storia dell’idea di Europa, a cura di Ernesto Sestan e Armando Saitta, ed. Economica Laterza, Bari 1995, p. 53. Per socializzazione del lavoro si intende qui la coordinazione delle forze individuali all’interno del processo produttivo.

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dotta ma sistematicamente alienata, appropriata e reinvestita su scale maggiorate. La guerra contemporanea può essere considerata una delle modalità della rottura dei limiti nei quali incorre la dinamica capitalistica nella propria tendenza e necessità costante all’espansione, nonché una delle modalità della rideinizione e del rinnovo di quelle asimmetrie tra nazioni sviluppate e meno sviluppate che è necessaria precondizione per quella stessa espansione, anche e soprattutto in tempo di assenza di conlitti armati su grande scala. 3.7. Conclusioni Accanto a valutazioni di questo genere, abbozzate e generali, è necessario raggiungere qualche conclusione in merito ai “ili rossi” che si è tentato di dipanare in questa tesi. Prendo spunto dalle conclusioni del lavoro di George Mosse che ha maggiormente guidato il mio approccio al tema del mito dei caduti nel caso circostanziato della Campana dei Caduti. «In ultima analisi, il Mito dell’Esperienza della guerra è infatti legato al culto della nazione: se questo riluisce, com’è accaduto dopo la seconda guerra mondiale, il mito ne viene fatalmente indebolito; ma se il nazionalismo come religione civica tornerà ancora una volta sulla cresta dell’onda, ancora una volta il mito gli si accompagnerà. E tuttavia (malgrado il futuro rimanga aperto), gli elementi che testimoniano la trasformazione seguita alla seconda guerra mondiale sono convincenti: il mito sembra consegnato al passato storico dell’Europa. Non v’è miglior illustrazione del risultato inale di questa trasformazione del monumento ai caduti del Vietnam a Washington, l’unico monumento ai caduti realmente vivo in qualsiasi paese occidentale. Qui non v’è nessuna iscrizione patriottica, ma soltanto la chilometrica lista dei nomi dei morti incisi sulla bassa parete nera: nomi da toccare e onorare in un cordoglio non pubblico, ma privato. (…) Possiamo guardare al monumento ai caduti del Vietnam come a qualcosa che, oltre a commemorare i morti di quella guerra, rappresenta altresì una vittoria strappata alla sconitta; ossia come ad un monumento alla morte, per quanto provvisoria, del Mito dell’Esperienza della Guerra»39.

Vorrei cercare di relativizzare l’ottimismo e il senso di vittoria espressi da Mosse. Se, come da me ipotizzato, si può parlare di una mondanizzazione del culto della nazione, ciò signiica solo che quest’ultimo perde la sua forma ma non la sua sostanza. Con ciò intendo dire che l’istanza nazionale, sopravvissuta ai mutamenti della sua forma, continuava a rappresentare, in tempo di pace, la garanzia di uno sviluppo dell’ordine sociale ed economico in senso capitalistico e modernizzante che era stato proprio, complessivamente, anche dei cosìddetti regimi totalitari. Le considerazioni di Mosse circa la subalternità 39

Mosse, Le guerre mondiali cit., pp. 248-249.

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dell’elemento economico nell’ambito dei totalitarismi risultano piuttosto criticabili: «la supremazia della politica fascista sull’aspetto economico rimane un fatto: il mito spinse gli interessi economici in una posizione servile»40. Le possibilità di successo di un’azione di governo, per quanto unilaterale, arbitraria e sostenuta da un adeguato monopolio della forza, sia ideologica che concreta, si scontrano sempre con l’effettiva capacità di quell’azione di essere quanto più allineata con le dinamiche immanenti ai contesti storici. L’enorme spesa pubblica (soprattutto militare) che cominciò ad essere sostenuta dallo stato tedesco dopo l’avvento di Hitler, assecondò la possibilità di uno sviluppo economico impetuoso, che si contrapponeva in modo palese alle precedenti fasi di crisi e stagnazione, e che era evidentemente favorevole al grande capitale tedesco e di rilesso, seppur in maniera quantomeno parziale e relativa, alle masse tedesche. La conquista dell’Europa da parte della Germania diventava, in quel contesto, una necessità prima di tutto economica, cui il mito nazionale forniva un adeguato sostegno, ma non ne era la causa profonda. Quanto al contesto italiano, l’esempio di una delle più grandi e rappresentative industrie nazionali del XX secolo, la FIAT, è piuttosto emblematico. Questa impresa attraversò con grande successo tutte le fasi politiche della storia novecentesca: la fase liberale, quella fascista e quella repubblicana e le attraversò con il sostegno di tutte quelle classi dirigenti, sopravvivendo, al contempo, alla loro decadenza. Il potere non sta, o comunque non sta soltanto laddove è il comando. Gli elementi che mi pare di aver raccolto nella mia peregrinazione tra le fonti mi hanno lasciato l’impressione che si possa parlare, per il lungo secondo dopoguerra, di un nazionalismo a bassa intensità capace di lavorare come fattore ideologico e identitario ma altresì come fattore concreto e concretato nell’organizzazione statale e nelle relazioni mediate da regole e inluenze dell’ambiente in cui ciascuno si trova a vivere. I caratteri rintracciabili più evidenti di questo nazionalismo a bassa intensità sono quelli della antiretorica, della chiusura nella privatezza, ma soprattutto dell’inclusività interclassista e nazionale di cui si sono trovate tante tracce. Tutto ciò a fronte di una dimensione internazionale asimmetrica e postcoloniale che potrebbe essere deinita, in parallelo ai precedenti ragionamenti, di imperialismo a bassa intensità. Venuto progressivamente meno il dominio europeo diretto sulle colonie, vi si sostituiva un’inluenza e un dominio economico più indiretto ma non meno pregnante.

40

g.L. Mosse, L’uomo e le masse nelle ideologie nazionaliste, ed. Laterza, Bari 1982, p. 172.

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Appendice documentaria

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La forma in creta della Campana dei Caduti predisposta per la fusione, 1925 ((AFCCR).

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Ricostruzione cronologica dei rapporti tra la Campana dei Caduti e il Museo della Guerra1 Negli anni 1924-25 si svolgono le pratiche, fra Comitato della Campana e Museo Storico della Guerra per accogliere, sul torrione Malipiero il progettato sacro Bronzo. Il Museo Storico della Guerra – già insediato in Castello dal 1922 è stato lieto di secondare il desiderio del fondatore della Campana - Comm. Don A. Rossaro - ed ha sostenuto la maggior parte delle spese resesi necessarie per rinforzare le strutture del Torrione Malipiero ecc. e, in genere, il collocamento della Campana. 2) Con atto 6 novembre 1928 (allegato n.1) i due Consigli, della Campana e del Museo, deiniscono i loro rapporti anche per la realizzazione della ”Sala della Campana” che “dovrà rimanere sempre destinata esclusivamente a sala della Campana”. Il vincolo fra le due Istituzioni – l’una complementare dell’altra – si fa così anche più saldo. 3) Con atto consimile, di data 23.9.1933 viene riconfermato l’atto 6 nov. 1928 e sono aggiunte alcune precisazioni nei reciproci rapporti. Si ricorda in particolare il punto 3, che recita “… i signori membri del Consiglio Dirett. dell’Ente Campana avranno libero ingresso al Castello quando l’Ente Campana abbia ottenuto il riconoscimento giuridico. Allora, ciascun Ente delegherà un proprio rappresentante quale membro di diritto del Cons. Dir. dell’altro Ente”. 4) L’esperienza della convivenza negli anni successivi e l’iniziativa per la ulteriore valorizzazione delle adiacenze al Torrione Malipiero (scala di accesso e “platea delle Genti”) porta alla stipulazione dell’Atto notarile fra l’ECA e Reggenza, che porta la data 31 luglio 1939. 5) Dal 1940 al 1952 non vi sono situazioni di particolare rilievo: la convivenza Campana – Museo della Guerra diventa sempre più proicua e popolare per il costante, crescente richiamo che esercitano le 2 Istituzioni, così felicemente abbinate ad affermare e documentare i supremi valori della comprensione fra le genti, delle aspirazioni alla fraternità e alla pace, nel ricordo e documentazione delle tragiche, sanguinose vicende delle guerre superate. Nel 1950 il Museo d. Guerra delibera (assemblea generale 17 nov.) alcune modiicazioni allo Statuto precedente (del 1932), includendo fra i membri di diritto del Consiglio anche il rappresentante dell’Opera Campana dei Caduti. Solo nel gennaio 1956 le pratiche di approvazione (con la irma del Capo dello Stato) concluderanno il laborioso cammino di tale Statuto: la clausola di cui trattasi appare al Titolo IV, art.9. 6) Il 2 gennaio 1952 muore quasi improvvisamente l’Ideatore e fondatore dell’Opera Campana dei Caduti. La Reggenza affronta il grave periodo di interregno, avendo la fraterna collaborazione della Direzione del Museo d. Guerra, oltre che del Comune e di altri Enti. In data 7.3.1952, in seduta del Consiglio del Museo, il Presid. L. Fiorio si augura sia prossima la nomina del nuovo Reggente e fa esplicito richiamo al disposto dell’atto 23.9.33, che stabilisce sia presente nei due Consigli il rispettivo rappresentante. Il Consigliere Nino Ferrari – che fa parte della Reggenza – assicura di aver portato in Reggenza il problema, ed in genere il tema dei rapporti fra Campana e Museo. 7) Nel verbale della seduta di Consiglio del Museo Stor. D. Guerra del 9.7.1953 il Presid. Fiorio riferisce su un primo contatto avuto col nuovo Reggente dell’O.C.C. da poco nominato. Il Reggente gli ha chiesto 7-8000 Lire mensili di contributo; Fiorio, dopo richiamati i patti esistenti con don Rossaro promette di trattare amichevolmente la cosa e concreta – nel Consiglio – la proposta che tale trattativa sia condotta dai Consiglieri Gen. Zaniboni, Nino Ferrari e cav. Malfer. Così è convenuto. 1

AMSGR, Fondo Livio Fiorio, Memoriali e questionari, busta 5.1.6.

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8) La Presidenza del Museo, con lettera N. 249/4 del 24 nov. 1953 partecipa al Reggente dellO.C.C. la sua qualità di membro di Diritto del Consiglio Dir. del Museo e lo invita alla seduta indetta per il 27 nov. 1953 (Allegato N. 2). 9) Il verbale 27 nov. 1953 del Consiglio del Museo dà presente il Reggente P. Jori come Consigliere di diritto. Si conviene che la deinizione del contributo alla Campana venga rimandata a dopo eletto il nuovo Consiglio, essendo già prossima l’assemblea generale. P.Jori acconsente e ringrazia. 10) All’assemblea Gen. Ord. del Museo tenutasi il 15.1.1954 viene esplicitamente ricordato che - conforme il testo del nuovo statuto, in corso di ratiica ministeriale - fra i membri di diritto c’è pure il rappresentante dell’Opera Campana dei Caduti. 11) Il 30 gennaio 1954 si ha la I° seduta di Consiglio del Museo dopo l’assemblea. È presente anche il membro di diritto Padre E. Jori. Si parla del problema inanziario Museo –Campana. Al riguardo il verbale così si esprime: ”tutti i presenti sono d’accordo che prima di tutto avvengano contatti preliminari fra i dirigenti delle due Istituzioni, per preparare le basi di uno speciico accordo sul quale darà poi il suo parere il Consiglio in una prossima seduta”. 12) In data 13.3.1954 il Presid. del Museo risulta chiamato a partecipare per la prima volta all’attività della Reggenza in quella che è la II° convocazione promossa dal nuovo reggente P. Jori dell’organo direttivo dell’O.C.C.. Dal relativo verbale appare presente per la prima volta il dottor dott. A. Bertolini. Successivamente il Presid. del Museo è chiamato alle ulteriori sedute per quasi tre anni e mezzo cioè ino alla seduta del 23 luglio 1956, con la quale si è chiuso praticamente il primo ciclo di attività del consesso, ripresosi solo con la recentissima seduta del 3 febbraio 1961. Nella seduta di Reggenza 13.3.1954 il Pres. del Museo dopo aver rivolto un saluto di circostanza e aver chiesto conferma della sua qualità di membro a parità di veste con gli altri componenti, ebbe a discutere anche sul tema inanziario Museo-Campana, di cui è documentazione nel punto che segue. 13) Il verbale 17 aprile 1954 del Museo della Guerra – presente il rag. Menotti per la Reggenza - dice testualmente: …”il Presid. riferisce sullo sviluppo delle trattative con la Reggenza C.C.; da queste si era giunti a una nostra offerta sulle 15-16000 lire al mese, contro una richiesta di lire 20.000. -, sempre restando valide le precedenti clausole. Ora, il sig. Menotti che è qui presente per la C. d. C., chiede a nome del Reggente l’importo mensile di £. 25.000. ○Si apre una ampia discussione, a conclusione della quale il Consiglio vota un contributo di £. 20.000. al mese a datare dal I° maggio, e ciò a titolo di esperimento ino a tutto dicembre 1954 e sulla base di 70.000 visitatori”. In questa stessa seduta è stata pure approvata la proposta di concretare un piano per l’integrale restauro del Complesso del Castello da condurre con l’appoggio e consenso del Comune, dell’ECA, della Reggenza, dell’Azienda del Turismo, e l’appoggio del Sen. Spagnolli. Tale iniziativa viene approvata e afidata al Consigliere arch. Kiniger, che accetta. - Ne verrà quel “progetto Kiniger” su circa 30 milioni di spesa, che è tuttora alla base del piano d’azione del Museo. 14) Il rappresentante della Reggenza (Ing. Grillo) è presente ad una successiva seduta del Consiglio del Museo del 10 gennaio 1955 all’ordine del giorno della quale non è alcun problema che riguardi i rapporti Museo - Campana. 15) In data 25 febbraio 1955 risulta concretato e accettato dalle parti (Museo e Campana) l’Atto privato di tale data, col quale si precisano le rispettive competenze e utenze sul Castello, con riferimento ai patti del 1928 e del 1933 - 1939, tenuto conto delle variazioni topograiche intervenute, rispetto al 1939, sulle strutture del Castello.

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16) All’Assemblea Generale dei soci del Museo del 25.3.1955 il Presidente ricorda gli intervenuti accordi (inanziari e di convivenza) con l’O.C.C. e l’adesione della stessa al progetto Kiniger, per i restauri e ulteriore valorizzazione del Castello. 17) Nell’assemblea Gen. Ord. dei soci del Museo del 27.5.1956, il Presid. comunica che il Regg. P. Jori ha chiesto e il Museo accetterebbe - che il Museo assuma il suo impiegato per il servizio di Segreteria, con l’impegno di lasciare allo stesso mezza giornata per il servizio dell’O.C.C. Tale proposta avrà decorrenza solo dal settembre 1956 e resterà operante ino al dicembre 1960 (alla quale data P. Jori richiede per sé il detto impiegato) Con ciò l’O.C.Cè del tutto sollevata da qualsiasi onere inanziario per l’impiegato il quale - per la larga comprensione della Direzione del Museo - si è occupato delle cose della Campana anche nei giorni di servizio al Museo. 18) Nella seduta 23 luglio 1956 della Reggenza O.C.C., presente (come già nelle prec. sedute) il Presid. del Museo d. Guerra, il Reggente P. Jori pone d’improvviso e decisamente il tema della netta separazione inanziaria e perciò degli accessi al Museo e alla Campana, il tutto da attuarsi per il 15 Agosto. Malgrado la opposizione e le riserve del Presid. del Museo d. Guerra, che rileva il contrasto con l’accordo del 27.4.1954, protrattosi nel 1955 -56, la maggioranza del Consiglio di Reggenza accetta la tesi di P. Jori, che ne dà comunicazione scritta (lettera 27.7.1956) alla Presidenza del Museo. 19) Il Consiglio del Museo della Guerra, convocato d’urgenza il 27 luglio 1956 (nessuno della Reggenza interviene), tratta il grave argomento, di cui al punto precedente. Nella discussione, il Preside Trentini (rappresentante del Comune)..... “ a titolo personale depreca la situazione creatasi e dichiara che si deve fare di tutto a che la scissione non avvenga “. La discussione si conclude votando una delibera, che dice testualmente: “ Il Cons. del Museo d. Guerra apprende con rammarico che il Regg. della C. C. intende separare le 2 istituzioni, istituendo contro i precedenti accordi del 1928 - 1933, la vendita di biglietti di ingresso propri. Deplora tale soluzione e invita l’autorità comunale ad interporre la propria mediazione perché sia scongiurata questa soluzione che tornerebbe di danno morale e materiale ad ambedue le istituzioni. Il Consiglio riconferma il proprio spirito di fraterna collaborazione ed aiuto alle necessità dell’O.C.C., già espresse dal Presidente nella seduta della Reggenza del lunedì 23 luglio e conida si possa giungere ad un accordo di piena soddisfazione per ambo le parti.” Pertanto, il Consiglio delega il Presidente, il dott. R. Gasperi, e il prof. Barozzi Giovanni come iduciari per i necessari contatti con l’autorità comunale, onde mettere il Consiglio nelle condizioni di poter deliberare e se possibile di far opera a che i lavori già iniziati dalla Reggenza O.C.C. (delimitazione con cancellata in ferro e lamiera) possano per lo meno essere sospesi, in modo che le trattative abbiano per lo meno una base di discussione”.Di quanto sta succedendo, il Pres. del Museo da notizia al Sindaco, On. Veronesi, con lettera 28/7- 1956, pregandolo di intervenire in via conciliativa. 20) Purtroppo l’azione di mediazione del dott. Gasperi (e degli altri) è sempre in alto mare ancora a pochi giorni dalla scadenza 15 agosto. Da ciò una seconda lettera dal Museo al Sindaco, in data 11.8.1956 a mezzo assessore Trentini. Solo in data 5 settembre, convocato d’urgenza il Consiglio del Museo d. Guerra, assente il rappr. dell’O.C.C., il delegato dott. Gasperi riesce a portare le proposte concretate con P. Jori; proposta che - salvo minimi dettagli - vengono accettate, e si basano su un contributo annuo all’ O.C.C. di £. 800.000. - e di una quota straordinaria di £. 250.000 per il restauro della “Sala Campana”. Questo accordo è stato poi d’anno in anno rinnovato, ino al presente esercizio 1960. 21) Poiché l’attuazione del piano Kiniger trova gravi dificoltà burocratiche, il Museo St. d. Guerra indice un convegno straord. in Comune, il 23 nov. 1959. Sono presenti il sen. Spagnolli (che assume la Presidenza), l’On. Veronesi, il sindaco Trentini, il Reggente P. Jori e le maggiori altre autorità e rappresentanze di Enti Scuole ecc. di Rovereto. Il Presid. del Museo fa ampia relazione sulle necessità che si prospettano, sia per il Museo che per la Campana e trovano la loro soluzione nella attuazione del piano Kiniger. Dopo ampia discussione e numerosi interventi, fra cui quelli del Sen. Spagnolli, On. Veronesi e del Sindaco, i

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presenti approvano la proposta di costituirsi in “Comitato di afiancamento” al Museo. Si vota un “ordine del giorno” di pieno consenso alle proposte del Museo; in particolare l’o.d.g. dice: …”decidono di costituirsi in comitato cittadino di afiancamento, allo scopo di affrontare la attuazione di quei provvedimenti che daranno al Museo e alla Campana - nel restaurato monumento castrobarcense- la possibilità di continuare a sviluppare il loro compito.” 22) Il 2 ottobre 1960 senza alcun preliminare contatto con la Presidenza del Museo d. Guerra, il Reggente O.C.C. convoca a sua volta - in Comune - un analogo “Comitato” per esporre un suo piano di azione per la Campana. Tale piano risulta imperniato su due punti: rifusione della Campana e traslazione della stessa in altre sede,non ancora però precisabile. Il Museo della Guerra è rappresentato dal prof. Barozzi, il quale legge una dichiarazione del Consiglio del Museo calorosamente consenziente per la rifusione, ma avanzante serie riserve al riguardo del trasferimento, che sarebbe, - fra l’altro - in contrasto con le disposizioni statutarie dell’ O.C.C. Nella discussione svoltasi in questa seduta, sono apparsi contrari al trasferimento diversi altri presenti, tra i quali l’Ing. Candelpergher, l’arch. Kiniger, il prof. Barozzi; altri sono rimasti incerti o si dissero favorevoli con varie riserve. Alla ine viene stabilito che il “Comitato” riprenda l’argomento in altra prossima seduta. 23) In data 26 nov. 1960, il Reggente convoca il “Comitato esecutivo” al M. Bondone, spedendo gli inviti nominalmente a ciascun componente. Sono escluse dalla convocazione talune persone della prima seduta fra cui il Presid. del Museo d. Guerra, il prof. G. Barozzi, l’arch. Kiniger e l’ing. Candelpergher. Prima i dar corso alla seduta, il Reggente - con qualche esponente più in vista - si era recato a fare omaggio al Commissario del Governo (in città a Trento) e gli ha partecipato come già accolta la decisione di portare la campana (rifusa) su un nuovo monumentale mausoleo. Alla seduta che tosto segue il Reggente fa una relazione esaltante il suo piano e fa intendere di non avere preoccupazioni per il inanziamento che prospetta in 2-300 milioni. Si discute pure vivacemente sul mancato invito al Presid. del Museo d. Guerra. La seduta conclude - sia pure con riserve e qualche astenuto - accettando il piano di azione del Reggente. Viene, inine, convenuto che al Comitato il quale ha così deliberato, si aggiunga anche il Presid. del Museo della Guerra. 24) Il comunicato uficiale della seduta 26.XI. al Bondone compare sui giornali in forma secca e perentoria al riguardo della “deliberazione” di trasferire la Campana in nuova sede. Di conseguenza il Presid. del Museo d. Guerra risponde al reggente di non poter accettare di far parte di un Comitato che non solo non poteva decidere, ma si propone di agire in contrasto a quello che risultano le norme costitutive statutarie ed il pensiero del fondatore. Tale comunicazione viene pure data alla stampa. Va rilevato che il presidente del Museo della Guerra, sapendosi escluso dalla seduta 26.XI., aveva tempestivamente precisato il pensiero del Museo e proprio in una lettera 25.XI. consegnata al Sen. Spagnolli (e in copia al dott. Gasperi), che chiudeva con queste parole: omissis e) vorrei auspicare la riunione del Comitato di Reggenza della Campana al più presto possibile, proprio per chiarire e porre su un terreno di logica convergenza e fraternità delle due Istituzioni, quei problemi che – ricomparsi ora nelle relazioni di stampa in conseguenza del progettato spostamento del sacro bronzo dalla sua sede attuale – non devono assolutamente portare né a contrasti né a inammissibili reciproche rivalità: trattiamo di valori troppo alti e comunque superiori alle nostre modeste persone, per prenderci il lusso di farne oggetto di polemica o consentire che tale essa diventi. Questo non è certo nel pensiero del Museo; ritengo pure esuli completamente da quello dell’Istituzione sorella. 25) Si sorvola, qui, sulla campagna di stampa; il Museo non ha dato –successivamente - ai giornali se non la relazione uficiale della propria seduta 3 dicembre 1960; si deve tuttavia rilevare che – nella spesso intemperante polemica - domina il tema del rispetto alla volontà del fondatore, don A. Rossaro, per la conservazione della Campana nel Castello.

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26) Gli insistenti, ripetuti inviti a che la Reggenza fosse convocata, determinano la seduta di reggenza del 3 febbraio 1961. Contrariamente a quanto oggettivamente risulta da queste note documentarie il reggente ha escluso dall’invito il Presid. del Museo della Guerra. Accertatosi della cosa, lo stesso ha pregato il dott. Nino Ferrari di portare a far leggere, nella riunione una sua lettera (allegato N. 3). Il comunicato uficiale con cui si conclude tale riunione è generico e dilatorio. In quanto annuncia che ulteriori precisazioni si faranno dopo la prossima convocazione del “Comitato Esecutivo”. Al Presidente del Museo della Guerra, invece, il Reggente ha fatto pervenire – a irma del suo impiegato, una lettera che è bene ciascuno giudichi direttamente (Allegato N. 4). 27) Nel corso del 1960, la Presidenza del Museo della Guerra ha intensamente lavorato per rimettere in moto il piano Kiniger anche indipendentemente dal tema Campana integrando con la proposta della radicale riforma della via delle Fosse e adiacenze. È in questo piano – a nostro avviso – la base più ragionevole per quella ulteriore evoluzione della situazione che, purtroppo, si è ora arenata nell’irrigidimento del Reggente dell’O.C.C., rivolto a rendere deinitivo il suo proposito di togliere la Campana dal Castello e collocarla altrove, in evidente contrasto con la volontà testamentaria del Fondatore, oltre che – a parere almeno degli ambienti commerciali ed economici in genere – contro lo stesso interesse economico – turistico della città. 25 febbraio 1961 Il presidente del Museo Storico di Guerra L. Fiorio

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L’Opera Campana dei Caduti1 Attività della Reggenza In ordine alla rottura della Campana dei Caduti avvenuta il 30.8.1960, al collocamento della nuova Campana sul Colle di Miravalle avvenuto il 6.11.1965 e successiva inaugurazione del 28.5.1966. 30 agosto 1960 - La Reggenza dell’Opera dirama il comunicato stampa annunciante l’irreparabile incrinatura che ha reso muta “Maria Dolens”e la decisione di provvedere alla sua rifusione 16 settembre 1960 - Riunione della Reggenza dell’Opera. Viene attentamente esaminata la situazione venutasi a creare dopo la rottura del Sacro monumentale bronzo e, riprendendo quello che fu il desiderio del suo fondatore, don Antonio Rossaro, si accenna anche alla sua deinitiva nuova sede. 2 ottobre 1960 – Promossa dalla Reggenza, presso la sede del Comune, ha luogo la riunione di autorità ed esponenti della città. Il Reggente dà lettura di una dettagliata relazione concernente le prime iniziative intraprese onde risolvere al più presto il grave problema. I presenti affrontano sia il problema della rifusione della Campana e quello conseguente della nuova sede. La riunione ha termine dopo che i convenuti hanno dato incarico alla Reggenza di costituire un Comitato Esecutivo di afiancamento, altamente rappresentativo. 5.10.1960 - Riunione della Reggenza che provvede alla costituzione del Comitato Esecutivo che risulta così composto: - Padre Eusebio Iori Reggente dell’Opera e Presidente del Comitato Esecutivo - Avv. Dott. Alberto Pinalli Vice Reggente dell’Oprera – libero professionista - Cav. Uff. Rag. Enrico Menotti Tesoriere dell’Opera –Impiegato. - dott. ing. Gino Martini Consigliere dell’Opera-ex Vice Sindaco di Rovereto - Presidente Museo civico di Rovereto - Dott. arch. Virginio Grillo Consigliere dell’Opera- Ispettore Onorario della Soprintendenza delle Belle artilibero professionista - sign. Francesco Colombo consigliere dell’Opera-artigiano - comm. Cesare Tomasini Consigliere dell’Opera- commerciante - Dott. avv. Nino Ferrari Consigliere dell’Opera-Legionario Trentino-Libero professionista. - Dott. prof. Alberto Bertolini Consigliere dell’Opera – Direttore Didattico. - Comm. Prof.Remo Albertini Presidente del Consiglio Regionale Trentino Alto Adige. - Dott. arch. Luciano Baldessari libero professionista. - Comm. Rag. Francesco Barozzi Presidente Ass. Naz. del Fante, sezione di Rovereto - Sig. Guido Benedetti 1

AFCCR., Corrispondenza con il comune di Rovereto dall’anno 1960 all’anno 1972.

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Assessore Provinciale alla P.I. - Dott. Riccardo Bini Industriale - Dott. avv. Sandro Canestrini Consigliere Regionale Trentino Alto Adige - Comm.rag. Amedeo Costa Vice Presidente sez. C.A.I. Industriale - Cav. Uff. dott. Renzo Gasperi Assessore comunale di Rovereto -libero professionista - Dott. Cesare Ghedina Consigliere Comunale di Rovereto - Dott. Luciano Girardi Segretario Ente Comunale di Assistenza di Rovereto - Cav. Uff. Angelo Lazzeri Presidente Artigiani Trentini – artigiano - Dott. Ruggero de Probizer Assessore Comunale di Rovereto. - Mons. Giuseppe Quaresima Arciprete Decano di Rovereto - Dott. prof. Valerio Ravagni professore - Sig.a Amalia Ravagni Presidente Ass.Naz.Famiglie Caduti e Dispersi in guerra-sez. di Rovereto - Gr. Uff. Vittorio Rocchetti membro della Giunta della Conindustria italiana per la Regione Trentino Alto Adige-industriale. - Sig. Giuseppe Ruele industriale - Cav. rag. Dario Secchi Direttore della Cassa di Risparmio di Rovereto - Sen. Dott. Giovanni Spagnolli Senatore della Repubblica - Dott. Maurizio Monti Sindaco di Rovereto - Dott. arch. Marco Tiella consigliere comunale di Rovereto-libero professionista - Dott. prof. Ferruccio Trentini Assessore Comunale di Rovereto- presidente delll’Istituto Tecnico”Fontana” di Rovereto - On. Dott. Giuseppe Veronesi deputato al Parlamento - Dott. Gino Zanini libero professionista 8 ottobre 1960 - La Reggenza delibera di informare della avvenuta rottura della Campana, della sua necessaria e sollecita rifusione e conseguente realizzazione della nuova sede, le maggiori autorità nazionali, regionali, provinciali e comunali, nonché tutte le direzioni centrali delle associazioni nazionali combattentistiche e di arma. 11 ottobre 1960 - Il Reggente dell’Opera ha un incontro con il Ministro per il Turismo, on. Alberto Folchi, e lo intrattiene sui gravi problemi dell’Opera.

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25 ottobre 1960 – Il Reggente dell’Opera è ricevuto in udienza privata da Sua Santità Giovanni XXIII. In tale solenne circostanza presenta al Santo Padre un’artistica riproduzione della monumentale Campana dei Caduti, con la preghiera di poter avere un augusto autografo da incidere sulla rinnovata “Maria Dolens” e l’augusto morale appoggio di Sua Santità per le iniziative della Opera. 27 ottobre 1960 – La Segreteria di Stato Vaticano invia alla Reggenza dell’opera l’augusto autografo del Santo Padre perché venga riprodotto sul manto della nuova “Maria Dolens”. Esso dice: “In pace hominum ordinata concordia et tranquilla libertas 26 novembre 1960 – Si riunisce il Comitato Esecutivo.Dopo ampia e approfondita discussione delibera: a) tutti i presenti si dichiarano d’accordo sulla necessità di una sollecita rifusione del Sacro bronzo b) circa il problema del trasferimento della Campana dal bastione di Malipiero del Castello di Rovereto ad altra sede idonea, pur nell’ambito del Comune di Rovereto, la maggioranza dei convenuti si esprime favorevolmente; c) il Presidente del Museo della Guerra ed il presidente dell’Azienda Autonoma per il Turismo sono chiamati a far parte del Comitato Esecutivo. - Riunione della Reggenza che prende atto, con vivo rammarico, della polemica campagna di stampa intrapresa dalla Presidenza del Museo della Guerra, dopo la deliberazione adottata dal Comitato Esecutivo dell’Opera circa il trasferimento della Campana dal Castello. La Reggenza decidere di non scendere sul terreno della polemica e di non rispondere a nessun articolo apparso sulla stampa locale. Tutte le illazioni e interrogazioni sorte sulla stampa, avranno esauriente risposta nella prossima seduta del Comitato Esecutivo. 9 marzo 1961 – Riunione della Reggenza. Il Reggente dà lettura della relazione che ha predisposto per la prossima riunione del Comitato Esecutivo. La relazione è approvata ad unanimità dalla Reggenza. 20 marzo 1961 – Si riunisce, presso il Comune, il Comitato Esecutivo. Il Reggente dà lettura della sua relazione, in precedenza distribuita a tutti i membri del Comitato. Dopo ampia discussione alla quale hanno preso parte tutti i convenuti, il Comitato Esecutivo, ad unanimità di voti, delibera: a) la stipulazione del contratto con la fonderia Capanni di Castelnuovo Nei Monti, per la rifusione della Campana dei Caduti alle condizioni esposte nella relazione del Reggente b) la nomina di una Commissione tecnica afinché studi in tutti i suoi aspetti, la sede che dovrà essere scelta per la nuova Campana dei Caduti 21 aprile 1961 – Hanno inizio i laboriosi e dificili preparativi, a cura del 1° Reggimento Genio di stanza a Trento, per la rimozione – dal bastione Malipiero – della monumentale Campana dei Caduti. 8 maggio 1961 – Il Congresso nazionale dei Lions Club d’Italia, riunito ad Alghero, delibera che la ricostruzione della gloriosa Campana dei Caduti di Rovereto avvenga a cura di tutti i lions italiani. 20 maggio 1961 – Ha inizio il pellegrinaggio organizzato per il trasferimento di “Maria Dolens” alla fonderia Capanni di Castelnuovo Ne’ Monti (R.E.), attraverso le città di: Bolzano-Trento-Bassano-Vicenza-Verona-Brescia-Bergamo-Milano-Torino- Piacenza-Modena-Bologna-Parma e Reggio Emilia dove si giunge il 31 maggio. In tutte le suddette città la Campana dei Caduti ha avuto calorose manifestazionu di affetto da parte di autorità e popolo. 21 giugno 1961 – Si Riunisce il Comitato tecnico per l’esame e la scelta della zona idonea, dove dovrà essere eretto il nuovo monumento per il Sacro bronzo. 29 giugno1961 – Seconda riunione del Comitato Tecnico nominato per la scelta della zona per la nuova sede di “Maria Dolens”. 16 settembre 1961 – Riunione congiunta della Reggenza e del Comitato tecnico. 17 novembre 1961 – Riunione della Reggenza che ascolta ed approva, ad unanimità, la relazione che il Reggente ha approntato per la riunione del Comitato Esecutivo.

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20 novembre 1961 – Convocazione del Comitato Esecutivo. Alla riunione è anche presente il Soprintendente ai Monumenti, prof. Nicolò Rasmo. Il Reggente legge la sua relazione, al termine della quale si apre una lunga Discussione nella quale interloquiscono, in modo particolare, il Sindaco, l’arch. Luciano Baldessari, che presenta la relazione sui lavori del Comitato tecnico, il presidente del Museo della Guerra ed, inine, il Soprintendente alle belle arti che ha, tra l’altro, dichiarato: “Qualora le Reggenza decide di portare altrove la Campana, la Sovrintendenza prende atto della decisione e non ha altro da dire”. Al termine della discussione il Sindaco pone ai voti un suo ordine de giorno che dice: “Udita la relazione del Reggente dell’Opera; -ascoltata la relazione del Signor Sindaco; -sentito il parere della Commissione tecnica; -preso atto delle opinioni manifestate da quasi tutti gli intervenuti e delle perplessità sorte in città e portate in assemblea,circa la sede da dare al nuovo sacro bronzo; -considerato che l’unico organo competente e responsabile dell’Opera Campana dei Caduti è la Reggenza; -mentre ringrazia vivamente Padre Eusebio Jori per l’opera disinteressata e preziosa ino ad ora concessa; -auspica che lo stesso receda dal suo atteggiamento di disinteressarsi circa il problema della soluzione riguardante la nuova sede da dare al Sacro bronzo, approva l’operato del Reggente e del Consiglio di Reggenza e ne riconferma appieno la incondizionata iducia D e l i b e r a: di dare incarico ai signori architetti Luciano Baldessari, Marco Tiella e Carlo Keller, con l’assistenza dell’ing. Gino Martini di predisporre un abbozzo di progetto per raccogliere degnamente la nuova “Maria Dolens” e, escluso il bastione di Malipiero ed il Castello, ne indica la posizione con preferenza nelle vicinanze del Castello stesso o nella zona dell’Ossario di Castel Dante”. L’ordine del giorno ha raccolto 17 voti favorevoli e 3 astensioni. 24 novembre 1961 – Si riunisce nuovamente il Comitato Esecutivo che ratiica l’ordine del giorno posto in votazione nella precedente seduta. A predisporre l’abbozzo di progetto per la nuova sede sono chiamati anche gli architetti Mario Kiniger e Renzo Aste. 27 novembre 1961 – Con lettera-raccomandata datata 23.11.1961, la Soprintendenza ai Monumenti di Trento comunica che: “Qualora si intenda rimuovere la Campana dalla sua attuale sede per collocarla in altra sede, questo Uficio non potrà che prenderne atto, pur rappresentando in’ora che è contrario alla erezione di un nuovo monumento nell’ambito del complesso monumentale del Castello”. 2 febbraio 1962 – Il Consiglio Comunale di Rovereto – al quale si era rivolta la Presidenza del Museo della Guerra con un nuovo pressante invito afinchè accogliesse il suo punto di vista, vota il seguente ordine del giorno: “Ordine del giorno votato dal Consiglio Comunale di Rovereto nella riunione del 2 febbraio 1962, ad unanimità dei consiglieri presenti e votanti. Il Consiglio Comunale, esaminata la situazione creatasi per la sistemazione della monumentale Campana del Caduti; considerato che la sua quasi quarantennale permanenza sul Castello di Rovereto ha creato e potenziato, con il Museo della Guerra un complesso rappresentativo di grande suggestione ed attrazione; fa voti che la Reggenza dell’Opera studi la possibilità di una sistemazione della Campana nella zona del Castello; prenda atto dell’encomiabile opera ino ad ora svolta dal Reggente per la rifusione del Sacro bronzo e gli esprime il proprio vivo ringraziamento”. 29 marzo 1962 – Riunione del Consiglio di Reggenza che procede alla nomina dei componenti la Giuria che dovrà esaminare gli elaborati per la nuova sede della Campana dei Caduti. 28 aprile 1962 – Prima riunione della Giuria nominata per l’esame dei progetti di massima presentati per la nuova sede della Campana dei Caduti. Data l’assenza di un componente la Giuria, la riunione è rinviata al 5 maggio p.v. 5 maggio 1962 – Seconda riunione della Giuria che, dopo attento esame, dichiare vincitore del concorso per la nuova sede di “Maria Dolens”, il progetto dell’arch. Mario Kiniger.

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5 maggio 1962 – Riunione della Reggenza (subito dopo la seduta della Giuria) che adotta la seguente delibera: “La Reggenza preso atto del verdetto della Giuria sui due progetti presentati al concorso, delibera ad unanimità di voti, - di approvare il progetto “M.D.67” soluzione A dell’arch. Mario Kiniger, mentre si riserva di scegliere l’ubicazione nella zona Madonna del Monte-Miravalle”. Decide di rendere edotto di quanto sopra il Comitato Esecutivo nella sua ultima riunione issata per il 7 maggio p.v. 7 maggio 1962 – Riunione del Comitato Esecutivo. Il Reggente dà lettura della sua relazione dopo la quale la seduta è tolta. 7 giugno 1962 – Riunione della Reggenza che delibera, ad unanimità di voti, l’acquisto del terreno, nella zona di Miravalle, dove sorgerà la nuova sede della Campana dei Caduti. 7 giugno 1962 – La Reggenza trasmette al Comune regolare richiesta per l’approvazione di una strada panoramica di accesso alla zona dove verrà ubicata la sede della Campana dei Caduti. 23 ottobre 1962 – Il Consiglio Comunale, con voti favorevoli 14, 2 contrari e 3 astensioni, approva la costruzione della strada di accesso alla zona dove verrà ubicata la sede della Campana. 15 marzo 1963 – Riunione del Consiglio Comunale nel corso del quale è discusso l’ordine del giorno presentato dallo assessore dott. Valeriano Rovereto. Il Consiglio Comunale sentite le dichiarazioni di voto fatte dai consiglieri capigruppo: con voti favorevoli 7 – con voti contrari 15 – astenuti 6, delibera di respingere la proposta di ordine del giorno 22. febbraio 1963 dell’assessore Malossini. 4 maggio 1963 – La commissione Comunale per l’elaborazione del nuovo piano regolatore generale della città di Rovereto ha approvato la zona dove sorgerà la nuova sede della Campana dei Caduti. 13 maggio 1963 – Si riunisce la Reggenza che delibera, tra l’altro, di iniziare le pratiche per l’allacciamento stradale alla zona di Miravalle, la cui spesa dovrebbe essere inanziata dalla Provincia Autonoma di Trento. 17 gennaio 1964 – La stampa locale pubblica la relazione del Sindaco al bilancio di previsione per il 1964. Nei riguardi delle vicende della Campana, il Sindaco così si esprime: “la soluzione da dare al problema è ormai chiaramente delineata e la Reggenza dell’Opera sta adoperandosi in proposito”. 27 gennaio 1964 – Riunione della Reggenza dell’Opera che, in relazione al bando di concorso nazionale per la nuova sede della monumentale Campana dei Caduti, procede alla composizione della giuria che sarà presieduta dal Sindaco di Rovereto. 9 marzo 1964 – Si riunisce la Reggenza dell’Opera che ascolta una relazione del Presidente della Commissione giudicatrice del bando di concorso nazionale per la progettazione di un monumento per la Campana dei Caduti. 19 marzo 1964 – La stampa locale informa che il comitato tecnico provinciale nella sua ultima seduta, ha approvato una serie di progetti di lavori fra i quali “… il primo lotto della variante della strada sinistra Leno a monte dell’abitato delle Porte ino alla località Miravalle. 3 aprile 1964 – Si riunisce il Consiglio Comunale per l’inizio della discussione sul nuovo piano regolatore generale della città. E’ intervenuto nella discussione l’assessore dott. Malossini il quale ha chiesto che venisse votata una sua proposta tendente a far togliere dal piano la zona (Castel Dante-Miravalle) nella quale è prevista la futura sede della monumentale Campana dei Caduti. La proposta è stata respinta. 13 aprile 1964 – Viene approvato dal Consiglio Comunale il nuovo piano regolatore della città, con la zona dove è prevista la realizzazione della futura sede della Campana dei Caduti (Castel Dante-Miravalle). 15 maggio 1964 – Si riunisce la Reggenza dell’Opera, presenti il Sindaco, l’Assessore Provinciale alla Pubblica Istruzione, Guido Benedetti, e il presidente del museo della Guerra, dott. Renzo Gasperi. Sono affrontati i

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problemi di maggior attualità: il concorso di II grado per un monumento alla Campana dei Caduti che ha visto vincitore il progetto dello arch. Luciano Baldessari; la prossima realizzazione del tronco stradale per collegare la zona di Miravalle ed inine i lavori, ormai bene avviati, per la rifusione della Campana dei Caduti. 18 maggio 1964 - Il Comune restituisce, muniti di visto di approvazione, i disegni relativi al progetto di massima per la costruzione del monumento alla Campana dei Caduti e rilascia la licenza di fabbricazione. 30 luglio 1964 – Muore l’avv. Alberto Pinalli per molti anni benemerito vice Reggente dell’Opera. 1 ottobre 1964 – A Castelnuovo de’ Monti, presso la fonderia Capanni, presenti la Reggenza dell’Opera, il Sindaco di Rovereto, ed altre autorità viene rifusa la monumentale Campana dei Caduti: sarà la più grande campana del mondo che suoni a distesa! 29 novembre 1964 – Si riunisce a Bologna il Consiglio dei Governatori dei cinque distretti italiani del Lyons Club, il quale ribadisce, fra le altre iniziative, il totale inanziamento della spesa per la nuova Campana de Caduti. 15 gennaio 1965 – Nella relazione che accompagna il bilancio preventivo straordinario per il 1965 è detto che “il Comune contribuirà, con la somma di lire quindici milioni alla costruzione del monumento per la Campana dei Caduti. Il Sindaco e quindi la Giunta si augurano infatti che entro il corrente anno la polemica sul “sacro bronzo” venga deinitivamente a cadere e che essendo avvenuta ormai la rifusione, la monumentale Campana possa inalmente venire installata nel luogo prescelto dalla Reggenza”. 23 gennaio 1965 - Il Consiglio Comunale approva il bilancio straordinario per il 1965 ed il programma di lavoro quadriennale. Il consigliere Chocchetti aveva chiesto, in un suo intervento – iume, che il Consiglio Comunale votasse una mozione con la quale decideva la costituzione di una commissione d’inchiesta che avrebbe dovuto deinire le competenze della Reggenza e pertanto la liceità delle sue decisioni in ordine al trasferimento del Sacro Bronzo. La mozione presentata dal prof. Chiocchetti è stata respinta con 17 voti contrari, 8 favorevoli e 3 astenuti. 9 febbraio 1965 – Si riunisce la Reggenza che prende atto della felice riuscita della nuova “Maria Dolens”; del contributo di 15 milioni stanziato dal Comune nel programma straordinario per il corrente anno in favore dell’Opera; dell’imminente inizio dei lavori per allacciamento stradale alla zona Miravalle, lavori che saranno inanziati dalla Provincia Autonoma di Trento. 25 febbraio 1965 – La Reggenza dell’Opera, il Sindaco con la Giunta Comunale, autorità provinciali e molte altre personalità, visitano la rinnovata Campana dei Caduti presso la fonderia dell’ing. Capanni. E’ la più grande campana del mondo che suoni a distesa: pesa quintali 226; è alta metri 3,40; ha un diametro di metri 3,20. Il ceppo avrà un peso di circa 100 quintali. 25 febbraio 1965 – Il Sindaco ha fatto pubblicare un manifesto annunciante la felice riuscita del nuovo sacro bronzo. 27 marzo 1965 – A cura del prof. Valentino Chiocchetti - che ne diverrà il presidente – del dott. Livio Fiorio, del dott. Valeriano Malossini ed altre persone, viene costituito il“Comitato di riconoscenza a don Rossaro” con inalità che logicamente non possono essere che di ostacolo alla legittima azione della Reggenza, in qui svolta in pieno accordo con le autorità. 1 giugno 1965 – Riunione della Reggenza dell’Opera la quale dirama alla stampa il seguente comunicato: “La Reggenza dell’Opera della Campana dei Caduti in Rovereto riunita in seduta ordinaria il 1 giugno c.a. ad ore 17, presenti i componenti la Reggenza, il Signor Sindaco di Rovereto ed il presidente del Museo Storico della Guerra, precisa: - che l’attuale Reggenza è stata nominata dall’ideatore del sacro bronzo, don Antonio Rossaro e per sua espressa volontà i Consiglieri da lui così incaricati, rimangono tali “vita natural durante”;

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- che l’ideatore di “Maria Dolens” ha quindi afidato a detta Reggenza, nelle persone isiche da lui investite, il compito di tutelare gli interessi e gli sviluppi dell’Opera stessa; - che la Magna Charta del 1948 è l’unico documento attendibile, ideale e di valore affettivo ed espressione concreta del fondatore e non esprime nessuna particolare preferenza per la sede della Campana; - che il Sovrano Militare Ordine di Malta ha concesso all’Opera il suo “ambito patronato che tutto si compendia in un onoriico e simbolico incarico perfettamente conforme agli statuti e alle tradizioni dell’Ordine”; - che la Reggenza – pur sovrana in ogni sua decisione – non appena si è presentato il problema della rifusione si è voluto afiancare da un comitato cittadino, altamente qualiicato e rappresentativo, le cui deliberazioni – democraticamente adottate – hanno ampiamente convalidato ed indirizzato l’opera della Reggenza, sia per quanto riguarda la rifusione del sacro monumentale bronzo, sia per quanto riguarda la scelta della nuova sede; - che i valori di carattere spirituale e ideale (Ossario di Castel Dante e Zona Sacra) e motivi tecnici escludono una ricollocazione del monumentale bronzo sul bastione di Malipiero, tenuto anche presente che il fondatore della nuova “Maria Dolens” non concederebbe le richieste garanzie di durata; nonostante eventuali, ipotetiche ed impossibili manomissioni ed alterazioni delle strutture del Castello; - che il Consiglio Comunale ed altri consessi cittadini minori – compresi i parenti del compianto fondatore – dibattendo nei vari tempi i temi della rifusione e della ricollocazione, hanno apertamente approvato l’operato della Reggenza, peraltro ica erede degli ideali di don Rossaro. Tutto ciò premesso: La Reggenza, il Signor Sindaco, a nome della Giunta e suo personale ed il presidente del Museo della Guerra, consapevoli del lavoro in qui svolto dal Reggente, gli esprimono il plauso incondizionato e l’appoggio più sincero per la sua instancabile, proicua e generosa attività. La Reggenza, constatato che nonostante dificoltà e remore, nonché indebite ed ingrate interferenze, grazie all’appoggio dei Lyons Club d’Italia e degli altri enti pubblici si è giunti alla felicissima rifusione della Campana (la più grande del mondo che suoni a distesa), all’acquisto del terreno su cui sorgerà il monumento, alla approvazione da parte delle autorità competenti sia della zona che del monumento che in essa verrà eretto, all’apertura della strada di accesso al colle di Miravalle; considerato che è in corso il riconoscimento della zona sacra e che con l’acquisizione dei beni patrimoniali, l’Opera della Campana dei Caduti sarà riconosciuta in Ente Morale. Invita i roveretani che hanno a cuore il buon nome della loro città e sono sinceramente preoccupati a realizzare il grande sogno di don Antonio Rossaro ad unirsi agli sforzi che sta compiendo la Reggenza, insieme con gli organi più qualiicati espressi dalla cittadinanza per far riudire, nel più breve tempo possibile, i rintocchi di “Maria Dolens”.” 8 agosto 1965 – I giornali locali pubblicano un comunicato della Giunta Comunale di Rovereto con la proposta di creare la zona sacra, comprendente l’Ossario di Castel Dante, la Campana dei Caduti e la strada degli artiglieri. 31 agosto 1965 – Il giornale “Alto Adige” nella tribuna aperta sull’argomento del giorno (istituzione zona sacra proposta dalla Giunta Comunale) riporta una lettera del Colonnello Mario Ceola, ex direttore del Museo Storico della Guerra di Rovereto, che, in risposta ad una lettera non irmata, pubblicata nello stesso giornale in merito al problema della zona sacra, così conclude: “Non mi degno di rispondere all’anonimo che coglie l’occasione della vostra frase per sputare veleno sull’ubicazione della Campana. Solo gli domando: cosa e quanto hai dato a tutte le nostre istituzioni cittadine? Conosci bene la storia della Campana? Sai che io, proprio io, in pieno accordo con don Rossaro si voleva metterla a Castel Dante, quale sede naturale e che solo ragioni inanziarie ce lo impedirono? 14 settembre 1965 – Riunione della Reggenza che prende atto, con vivo compiacimento, dell’avvio della pratica con la richiesta della benedizione, in piazza S. Pietro, a Roma, della nuova “Maria Dolens” da parte di Sua Santità Paolo VI. Lo storico avvenimento dovrebbe aver luogo verso la ine di ottobre e così la Campana dei Caduti sarà a Rovereto nei primi giorni di novembre. La Reggenza quindi provvede alla nomina dell’ing. Gino Martini a Vice Reggente, in sostituzione del defunto avv. Alberto Pinalli. Quindi decide di portare da 9 a 12 i componenti la stessa e sono chiamati a farne parte i signori: dott. Ruggero de Probizer

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dott. Maurizio Monti, dott. Renzo Gasperi,c av. Bruno Bini. Inine viene data lettura dello schema di statuto per la erezione della“Fondazione Opera Campana dei Caduti”. 7 ottobre 1965 – I giornali locali pubblicano un messaggio pastorale di S.E. Mons. Alessandro Maria Gottardi, Arcivescovo Metropolita di Trento, in cui comunica alla Diocesi la notizia che Sua Santità Papa Paolo VI benedirà la monumentale Campana dei Caduti il 31 ottobre 1965 in Piazza S. Pietro. 5 ottobre 1965 – Si riunisce, al completo, la Reggenza dell’Opera. Portando a felice compimento quello che fu uno dei desideri dell’ideatore della Campana, don Antonio Rossaro, che nella riunione della Reggenza del 20 maggio 1934 (libro dei verbali pag.6) “prospettava un duplice piano su cui dovrebbe convergere il lavoro del Consiglio e precisamente: 1. L’erezione dell’Opera in Ente morale, la Reggenza - presente il notaio dott. Rolando Munari – provvede alla irma dell’atto costitutivo della“Fondazione Opera Campana de Caduti” e del relativo Statuto. Ciò per poter chiedere alle superiori autorità il riconoscimento giuridico della stessa. 24 ottobre 1965 – A Castelnuovo ne’ Monti, presenti autorità religiose, civili e militari, i rappresentanti del Comune di Rovereto e la Reggenza dell’Opera, ha luogo la solenne cerimonia della partenza del sacro bronzo per Roma. 28 ottobre 1965 – Si riunisce il Consiglio Comunale. In apertura della seduta il Sindaco dà comunicazione uficiale del ritorno di“Maria Dolens” a Rovereto per la sera del 3 novembre ad ore 20,30. 30 ottobre 1965 – Arrivo in piazza S. Pietro della monumentale Campana dei Caduti. 30 ottobre 1965 – Alle ore 20 Sua Santità Papa Paolo VI riceve in udienza privata la Reggenza dell’Opera e le autorità convenute a Roma per lo storico avvenimento della Benedizione del Sacro bronzo. Presenti S.E. l’Arcivescovo Metropolito di Trento, Mons. Alessandro Maria Gottardi, il Ministro di Stato per la Marina Mercantile sen. Dott. Giovanni Spagnolli; S.E. il Commissario del Governo nella Regione Trentino-Alto Adige, dott.Giulio Bianchi di Lavagna, il sindaco di Rovereto con la Giunta Comunale ed altre personalità. 31 ottobre 1965 – Alle ore 12 in piazza S. Pietro, gremita di folla, tra la quale un migliaio di cittadini di Rovereto, il Santo Padre dal balcone del Suo studio privato, dopo brevi e commosse parole illustranti l’alto signiicato spirituale di “Maria Dolens”, benedice la nuova Campana dei Caduti. La Rai-Tv e la stampa nazionale dedicano ampi servizi allo storico avvenimento. 2 novembre 1965 – “L’Osservatore Romano” pubblica in prima pagina, con la cronaca e la fotograia della cerimonia della benedizione papale di “Maria Dolens”, il testo integrale del discorso che il Santo Padre ha rivolto ai componenti la missione speciale che ha accompagnato a Roma il Sacro Bronzo. 3. 11. 1965 – Presenti oltre ventimila persone, in una serata indimenticabile, la monumentale Campana dei Caduti è trionfalmente accolta a Rovereto. 4 novembre 1965 – “Maria Dolens” è esposta in piazza Rosmini all’ammirazione di migliaia di persone che le 5 novembre 1965 - Alle ore 9 il traino che trasporta la Campana dei Caduti muove da piazza Rosmini al Colle di Miravalle. Causa la rottura del traino, la Campana dei Caduti rimane bloccata al bivio per Castel Dante –Miravalle. 6 novembre 1965 – “Maria Dolens”, salutata dall’applauso della folla, riprende il suo viaggio verso il Colle di Miravalle dove giunge verso il tramonto. 7 novembre 1965 – Oltre 10 mila persone visitano la Campana dei Caduti sul Colle di Miravalle. 3 dicembre 1965 – I giornali locali riportano il testo integrale della risposta del Presidente della Giunta Provinciale, avv. Bruno Kessler, all’interrogazione presentata dal consigliere prof. Corsini sulle vicende della Campana dei Caduti. Il Presidente della Giunta ha “auspicato che a Rovereto cessi al più presto quella

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diatriba indecorosa e fonte di disdoro che non fa bene a nessuno e che, anzi, rischia di distruggere i valori morali della iniziativa”. 28 maggio 1966 – Inaugurazione solenne della monumentale Campana dei Caduti. Presente il rappresentante uficiale del Governo Italiano, on. Santoro – sottosegretario alla difesa – il Ministro delle Poste e Telecomunicazioni, sen. Giovanni Spagnolli, i rappresentanti diplomatici di: Cuba-Polonia-Romania-Ruanda-Ungheria- Uruguay-Cecoslovacchia-Francia-Germania-Israele-Messico-Pakistan-Stati Uniti di America-autorità civili, militari e religiose ed oltre cinquemila persone, rappresentanti di quattro riti celebrano funzioni religose. Il sottosegretario on. Santero tiene il discorso uficiale. 29 maggio 1966 – Oltre 6 mila ex combattenti, provenienti da tutte le province dell’Italia settentrionale, visitano il Sacro monumentale bronzo. La Rai-Tv e la stampa nazionale riportano con ampi servizi la cerimonia dell’inaugurazione solenne della Campana dei Caduti nella sua nuova sede di Miravalle. 31 dicembre 1966 -– Oltre 100.000.= persone hanno reso dovuto omaggio nel coso del 1966 a “Maria Dolens”, a Miravalle, esprimendo vivo compiacimento per la nuova sede alla quale si può facilmente e comodamente accedere.

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Proposta per la dichiarazione di monumentalità di alcune zone del territorio di Rovereto1. COMUNE DI ROVERETO Rovereto, il 25 giugno 1965 Oggetto: RELAZIONE DELLA GIUNTA MUNICIPALE. In data 3 novembre 1922, N.258, la Gazz. Uff. pubblicava il Decreto 29.X.1922 N.1386, che dichiarava monumentali alcune zone fra le più cospique per fasti di gloria del teatro di guerra 1915-1918. Doveva trattarsi, invero, dell’ultimo provvedimento posto in essere dal Governo democratico, presieduto dall’On. Facta, provvedimento pubblicato subito dopo l’afidamento dal patrio Governo al Sig. Mussolini. L’art. 1 del decreto de quo, annuncia solennemente che la dichiarazione di monumentalità veniva disposta “a consacrazione nei secoli della gratitudine della Patria verso i Figli che per la sua grandezza vi combatterono epiche lotte nella Guerra di Redenzione”. Anche la relazione al disegno di Legge, presentata il 20 ottobre 1922 dal presidente del Consiglio dei Ministri, enuncia in qual modo il Governo Nazionale intendesse perseguire i ini di consacrazione. Dice infatti la relazione: “la pratica di tale assunto richiese alcuni temperamenti. La grande distesa della nostra fronte, ugualmente prodiga ovunque di patriottici sacriici, rendeva naturalmente perplessi nella scelta. Nel contempo, un savio criterio di pubblica economia prescriveva di ridurre le aree da destinarsi al culto per estendere la cerchia delle terre venete liberamente utili al fruttuoso lavoro dei campi ed all’opera feconda delle ricostruzioni. Si designarono così alcuni capisaldi sacri all’epica lotta – o zone monumentali – capaci di riassumere o di simboleggiare in sé la visione genuina della guerra, di compendiarne le fattezze eroiche, di incarnarne il tormento, il sacriicio, l’apoteosi. Poi si provvide a collegare quei capisaldi – della dignità di templi – con altri che ad essi si ricollegano nella rappresentazione unitaria della lotta e di onorarli con tangibili segni, in guisa da comporne un quadro dai lineamenti epici palpitanti di suggestione patriottica ed eroica. Con tali concetti si prescelsero e designarono le quattro zone monumentali, nell’intento di riassumere in esse – quasi in simbolo – l’intera epopea della guerra. E sono: il PASUBIO, il GRAPPE, il SABOTINO, il S.MICHELE. Impersona, infatti, il PASUBIO la strenua difesa della fronte tridentina, il GRAPPA l’incrollabile resistenza della fronte italica tra monti e mare, il SABOTINO e il S.Michele, il calvario dei primi anni che temprò sull’arida còte del Carso, da Tolmino a Monfalcone, la spada del Piave e di Vittorio Veneto. Appare chiaro che la designazione dei “capisaldi” si rifà, in sostanza, a due concetti: a) alla situazione geograica della Nazione nella pienezza dei suoi conini naturali (per quanto attiene alla scelta delle quattro zone); b) alla volontà del legislatore di riassumere, per simboli, l’epopea della guerra: in siffatto contesto, il PASUBIO doveva rappresentare “la strenua difesa della fronte tridentina”. A poco più di qarant’anni di distanza la valutazione critica di quel decreto porta a considerare: ad a) che i conini della Nazione Italiana hanno subito, in effetti, una modiicazione territoriale, in virtù della quale sono praticamente sottratti alla sovranità nazionale, all’esercizio del culto ed alla sorveglianza della nostra autorità militare, gran parte delle “zone sacre ”sul Sabotino e sul Monte S.Michele; ad b) che l’aver considerato il Monte Pasubio a simbolo della “fronte Trentina”, non ha signiicato, e non signiica aver sensibilizzato al culto degli eroi le popolazioni della Provincia di Trento. E’ da osservare, a questo riguardo, che la conformazione isica del territorio e lo sviluppo dell’economia, avvenuto per poli, ha completamente estraniato la popolazione trentina all’intero versante del Pasubio: di quest’ultimo è da sottolineare l’ubicazione quanto mai eccentrica rispetto a tutto il territorio provinciale, nonché la rimarchevole dificoltà di accesso per carenza di idonei collegamenti stradali. 1

AMSGR, Fondo Livio Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.

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Il risultato è che, mentre la Provincia di Vicenza può assai agevolmente accedere sul Pasubio e ravvivare così il culto degli eroi, tramandandolo alle giovani generazioni, altrettanto non avviene per la Provincia di Trento. E trattandosi di una Provincia facente parte di una regione ad ordinamento autonomo, la carenza è particolarmente grave; i rilessi negativi sono sensibili, specialmente rispetto alle giovani generazioni. Agli inconvenienti sovraesposti può ovviarsi, peraltro, con facilità, delimitando una nuova, superba “zona monumentale”; esiste infatti nel territorio comunale di Rovereto una serie di monumenti e di campi di battaglia, i quali sono capaci di riassumere e simboleggiare in se non soltanto la “visione genuina” della guerra ma anche di compendiarne le “fattezze eroiche” e di incarnarne il “tormento, il sacriicio, l’apoteosi”. Tali opere sono: Il sacrario di Castel Dante che, posto a cavaliere della Vallata dell’Adige, in situazione amena, raccoglie i resti mortali di ben 13000 Caduti. Costruito, restaurato e custodito dal Commissario per le onoranze ai Caduti in Guerra, il Sacrario è collocato a Rovereto da una strada di circa tre chilometri mantenuta dal Comune. La Campana “Maria Dolens” che, fusa col bronzo dei cannoni di ogni Nazione del Mondo, e custodita da apposita “Opera Internazionale”, ricorda con i suoi rintocchi il sacriicio dei soldati morti in guerra; l’Opera Internazionale che ne presiede le sorti, rappresenta indubbiamente una delle istituzioni più nobili, sotto il proilo spirituale, esistenti nella Nazione; inoltre è da ricordare che “Maria Dolens” sta per essere collocata fuori del Castello Di Rovereto, essendo stato provato che le vibrazioni dei rintocchi, nell’attuale ubicazione, causano continuamente la rottura del “Sacro Monumentale Bronzo”. La nuova sistemazione è prevista a breve distanza dal monumento “Ossario di Castel Dante”. La strada degli Artiglieri costruita dagli Artiglieri e ad essi dedicata, si snoda lungo la zona del Sacrario, verso sud, attraversando campi di battaglia, e ino alla postazione in cui fu catturato il Martire Damiano Chiesa, artigliere e roveretano. La Presidenza Nazionale dell’Assoc. Artiglieri d’Italia ha più volte prospettato la necessità di ottenere il riconoscimento uficiale della “zona sacra di Rovereto”, limitatamente al territorio su cui si trovano le tre opere suddette; a tale riguardo la suddetta Presidenza opera da tempo nell’intento di collegare tra loro gli accessi relativi alla zona e per assicurare i mezzi necessari alla manutenzione delle opere stesse. Non v’è dubbio che la creazione della “zona sacra” di Rovereto accrescerebbe la spiritualità dei luoghi e delle istituzioni sopra indicate, e renderebbe più facili, più interessanti e più signiicativi i pellegrinaggi delle Associazioni combattentistiche e d’Arma e della gioventù scolastica; al riguardo non si deve dimenticare che a Rovereto esiste un importantissimo “Museo Storico della Guerra”, ricco di originali cimeli e di autentici documenti relativi alla prima guerra mondiale. Non v’è dubbio che una volta creata questa nuova “zona sacra”, anche il Pasubio riceverebbe lustro e vantaggio. Insomma, la Città, la Regione Autonoma e la Patria si arricchirebbero di nuovo, rimarchevole, patrimonio spirituale.

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Saggi e articoli da riviste (in ordine di edizione) a. rossaro, Il primo poeta irredentista. in “La lettura. Rivista mensile del Corriere della Sera”, n. 7 (1915). a. rossaro, La legione trentina nel 1848, in “Alba Trentina”, I/1 (1917). roBor [A. Rossaro], Ora o mai, in “Alba Trentina”, I/1 (1917). a. rossaro, Trento Latina, in “Alba Trentina”, I/1 (1917). i roveri di rovereto [A. Rossaro?], I roveri tridentini, in “Alba Trentina”, I/2 (1917). nigritella [M. Gasperini], Palpiti italiani di donne trentine, in “Alba Trentina”, I/4 (1917). a. rossaro, Intorno ai nomi Tirolo e Trentino, in “Alba Trentina”, I/5 (1917). a. rossaro, L’ora presente e Camillo Pasti, in “Alba Trentina”, II/1 (1918). A. Rossaro, L’Accademia degli Agiati di Rovereto, in “Alba Trentina”, II/1 (1918).

l. Monari, La “Famiglia trentina” in Rovigo, in “Alba Trentina”, II/1 (1918).

tiMo del leno [A. Rossaro], Un episodio dell’ora prima di guerra, in “Alba Trentina”, II/2 (1918). v. Milani, Il garibaldino Luigi Rossaro, nel 50° anniversario della morte, in “Alba Trentina”, II/5-6 (1918). a. rossaro, In morte di Nigritella, (M. Gasperini), in “Alba Trentina”, II/9 (1918). iris, L’esploratore trentino, recensione dell’opera di Rossaro, in “Alba Trentina”, II/10 (1918). a. rossaro, Alba Trentina!, in “Alba Trentina”, II/11-12, (1918). tiMo del leno [A. Rossaro], Castel Dante di Lizzana, in “Alba Trentina”, A. III/1 (1919). a. rossaro, Il martirio di Rovereto, in “Alba Trentina”, III/1 (1919). a. rossaro, Il liceo femminile “Laura Saibanti” in Rovereto, in “Alba Trentina”, III/2 (1919). a. rossaro, Il Trentino per il VI centenario dantesco, in “Alba Trentina”, III/3 (1919). a. rossaro, Notturni trentini, in “Alba Trentina”, III/7-8 (1919).

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[a. rossaro], Inaugurazione della bandiera di “Alba Trentina”, in “Alba Trentina”, III/11-12 (1919). a. rossaro, Inaugurazione della Accademia degli Agiati, in “Alba Trentina, IV/1 (1920). o. Brentari, L’Alba e l’Albo, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920). C. Cadorna, L’ispiratrice del Tommaseo, in “Alba Trentina”, IV/1 (1920). g. Chini, Ruberie austriache a Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/2 (1920). lagarino [a. rossaro], Una nostra iniziativa. Per la Pala di s. Marco alla città di Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/4-5, (1920). g. tessaro, Annessione!, in “Alba Trentina”, IV/6-7 (1920). paCiri [A. Rossaro?], Il museo di guerra nel Trentino, in “Alba Trentina”, IV/10, (1920). [a. rossaro], La nostra redazione a Milano, in “Alba Trentina”, IV/11 (1920). a. Chini, Il castello di Rovereto, in “Alba Trentina”, IV/12, (1920). [a. rossaro], Alle soglie del V anno, in “Alba Trentina”, V/1 (1921). a. rossaro, Rovereto e i martiri di Beliore, in “Alba Trentina”, V/1 (1921). pio ventero [a. rossaro], La strana fortuna di Anima trentina, Dramma di A.R. in “Alba Trentina”, V/2 (1921). g. oBerziner, L’Alto Adige e la Passione del Tirolo, in “Alba Trentina”, V/2 (1921). a. rossaro, Pubblicazioni dantesche di trentini, in “Alba Trentina”, V/3 (1921). [a. rossaro], I Reali, l’Alba Trentina e la sua nuova sede, in “Alba Trentina”, V/11 (1921). tiMo del leno [A. Rossaro], La visita dei Reali nella Venezia tridentina, in “Alba Trentina”, V/11 (1921). [a. rossaro], Il monumento alla Ruina dantesca presso Marco, s.a., in “Alba Trentina”, V/12 (1921). a. rossaro, Il nostro voto compiuto, La Pala di San Marco a Rovereto, in “Alba Trentina”, VI/4-5 (1922). a. rossaro, Una nuova iniziativa, La Campana dei Caduti,, in “Alba Trentina”, VI/4-5 (1922).

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[a. rossaro], La nostra iniziativa. La Campana dei Caduti, in “Alba Trentina”, VI/11-12 (1922). a. rossaro, Le Madrine della Campana dei Caduti, in “Alba Trentina”, VIII/3-4-5-6-7 (1924). a. rossaro. Il primo decennio di vita della Civica Biblioteca di Rovereto dopo la guerra: (1921- 1931), in “Studi trentini di scienze storiche”. Trento. - A. 13, fasc. 4 (1932). A. Rossaro, Ricordando un santo (Don Leonardo Murialdo, in “Optigerium”, (marzo 1933). a. rossaro, Il monumento alla regina Margherita Madrina della Campana dei Caduti, in “El Campanom” (1936). F. trentini. Don Antonio Rossaro. Con una Bibliograia essenziale di P. Pedrotti, in “Studi trentini di scienze storiche”, XXXI/1 (1952). V. ChioCChetti, Don Antonio Rossaro, in “Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati”, 209, s. VI, II, 4, (1960 1962). G. sala, Don Rossaro e la sua attività giornalistica negli anni 1915-16, “Atti del Congresso Nazionale di Storia del Giornalismo”, Trieste 1972. F. rasera, Don Rossaro e la memoria della sua città, in “ Annali del Museo storico italiano della guerra”, 1-2 (1993) f. rasera, Il Museo della guerra di Rovereto. Da quale storia ripartire?, in “Annali del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto”, 3 (1994). Q. antonelli, Piccoli eroi. Bambini, ragazzi e guerra nei libri per l’infanzia, in “Annali del Museo storico italiano della guerra”, 4 (1995). A. Mazzetti, Don Antonio Rossaro e l’Accademia dei Concordi di Rovigo. Una presenza dinamica nell’Istituto culturale e nel Polesine, in “Atti dell’Accademia degli Agiati di Rovereto, a. 247 (1997) ser. VII, vol. VII. A. v. Cappelli, Identità locali e Stato nazionale durante il fascismo. «Meridiana», n. 32, 1998. http://www.rivistameridiana.it/iles/Cappelli,-Identita-locali-e-Stato-nazionale-durante-il-fascismo.pdf, (sito consultato il 10 novembre 2016). A. nave, Irredentisti in Polesine, Antonio Rossaro, Giorgio Wenter Marini e l’”Alba trentina”, in Studi Trentini di Scienze Storiche”, LXXXIII/4 (2004). La memoria della grande guerra in una città di conine: Rovereto 1918-1940, tesi di dottorato di Luca Baldo, relatore G. Corvi, Università degli Studi di Trento (senza anno).

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Articles inside

Bibliograia

10min
pages 177-184

Proposta per la dichiarazione di monumentalità di alcune zone del territorio di Rovereto

5min
pages 175-176

L’Opera Campana dei Caduti

23min
pages 166-174

Ricostruzione cronologica dei rapporti tra la Campana dei Caduti e il Museo della Guerra

14min
pages 161-165

3.7. Conclusioni

4min
pages 157-160

3.6. La banalizzazione della Pace

6min
pages 154-156

Dalla Campana dei Caduti alla Campana della Pace

4min
pages 152-153

Il discorso dei giovani sul culto degli eroi e relative reazioni

11min
pages 147-151

La critica alla “Redipuglia internazionale”

9min
pages 142-146

3.1. Il Museo della Guerra dopo la seconda guerra mondiale

8min
pages 135-138

3.2. La Campana dei Caduti sotto la Reggenza di Eusebio Jori

6min
pages 139-141

tra pellegrinaggio e turismo

13min
pages 127-134

2.8. Esercito e militarismo. L’inquadramento della folla

10min
pages 122-126

2.7.5. Il popolo di don Rossaro nella rivista “El Campanom”

16min
pages 113-121

2.7.4. Martirio e sofferenza. Un’esperienza generalizzata

1min
page 112

2.7.3. L’infanzia. L’iniziativa dei temi scolastici

3min
pages 110-111

Il inanziamento e la promozione

6min
pages 107-109

2.6.1. Una prima metamorfosi. Dall’astrazione al realismo

5min
pages 100-102

2.7.1. Le donne di “Alba Trentina”

6min
pages 104-106

Maria Dolens, anche, dalla parte dei deboli

1min
page 103

2.6. Il ciclo scultoreo della Campana

4min
pages 97-99

Iconograia intorno alla Campana dei Caduti

3min
pages 95-96

2.4. La tensione tra localismo campanilista e universalismo

10min
pages 89-94

2.3. Universalismo cristiano e romano

11min
pages 84-88

2.2. Le iniziative parallele: Museo della Guerra e Campana dei Caduti

8min
pages 80-83

2.1. La nascita della Campana

2min
page 79

1.10. La ine della guerra

7min
pages 75-78

1.9. Verso la seconda guerra mondiale

41min
pages 59-74

1.8. Direttore della biblioteca Civica di Rovereto e cultore delle memorie patrie

14min
pages 50-58

1.5. Antonio Rossaro e “Alba Trentina”

16min
pages 34-40

1.4. In seminario a Rovigo

36min
pages 18-33

1.3. Il collegio torinese

4min
pages 16-17

1.1. Un personaggio poliedrico

10min
pages 9-12

1.7. Verso il fascismo

4min
pages 47-49

1.2. La formazione cattolica

8min
pages 13-15

1.6. Il Dopoguerra

14min
pages 41-46
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