LETTER TO MILAN

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losi, insicurezza di certe periferie. Onnipresente, soprattutto di questi tempi, il tema salute: liste d’attesa interminabili per accedere a delle analisi, medici umanissimi e medici troppo spicci, infermiere pazienti e infermiere nervose. Il lato migliore che si coglie dalle lettere dei lettori è quella loro sana indignazione, quella voglia di giustizia, quel non rassegnarsi al degrado, quello scandalizzarsi per le pecche della città e dei suoi abitanti. Sono minoranza questi milanesi fustigatori via posta? Sono

“voce” che grida nel deserto questi cittadini che vorrebbero una Milano più pulita, più curata, più rispettata? Chissà. Suggestivo e non del tutto improbabile è immaginare che dietro a ciascuno di questi lettori scribacchini ci siano una famiglia, dei parenti, un gruppo di amici e conoscenti che la pensano come lui, non più, dunque, voce solitaria nel deserto.

Milano tra arte e architettura ELENA PONTIGGIA - NICOLETTA COLOMBO

ELENA PONTIGGIA Storica dell’arte Nel marzo 1920, poco più di un secolo fa, Sironi espone per la prima volta, in una galleria di fortuna (uno scantinato in via Dante, a Milano, a cui si accedeva entrando in un negozio di apparecchiature elettriche), i Paesaggi urbani, che sono uno dei vertici della sua arte. Ne presenta tre, che chiama semplicemente Paesaggi. Non sono luoghi ridenti: non hanno aiuole, vene d’acqua, viali alberati, luci, vetrine e sono immersi in un colore che è quello della terra e della pietra. La loro durezza è una metafora dell’esistenza, perché non è la periferia a essere dura, ma la vita. Il loro significato ultimo è però propositivo: case e fabbriche sembrano cattedrali laiche e danno un’idea di imponenza, di solidità, di durata. La loro solidità ha qualcosa di eterno che fa da contrappunto alla drammaticità dell’immagine. Chi, quel marzo 1920, fosse entrato nella galleria Arte e, abituato alle città sfarfalleggianti degli Impressionisti (se non a quelle frenetiche dei Futuristi e a quelle enigmatiche ma luminose della Metafisica), avesse visto i Paesaggi di Sironi, li avrebbe sicuramente trovati tristi. Capita anche adesso. Occorre invece non equivocare sulla loro asprezza. Può aiutarci, allora, analizzare come li descriveva Margherita Sarfatti in quegli stessi giorni, perché la sua lettura non nasceva solo dal suo intuito critico, ma anche dalla conoscenza dell’artista e dalle discussioni che si accendevano nel suo salotto. Ed è una lettura in cui il pittore si riconosceva, vista la continuità

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e l’intensità del loro sodalizio intellettuale. Sironi, scrive dunque Margherita nel cataloghino della collettiva, riporta «gli aspetti tumultuari e confusi della vita moderna […] verso l’ordine e l’armonia»1. «Sironi – osserva ancora –, da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre […] gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta «luxe, ordre et beautè. Le ha glorificate […] con una comprensione contenuta e semplice […] dei loro elementi tragici»2. La scrittrice individua dunque nei Paesaggi urbani, oltre agli elementi tragici che notano tutti, qualcosa di più difficile da notare: quella che chiama, con espressione nietzscheana e dannunziana, la glorificazione. Sironi, intende dire, infonde nelle sue dolorose periferie un senso di forza e di armonia. La città sironiana, del resto, è anche la metafora della volontà di costruire, intesa come un imperativo categorico e un compito etico, costi quello che costi. Il vero soggetto dei Paesaggi urbani è l’architettura stessa, non perché rappresentano degli edifici ma perché edificano delle forme. Tutta l’Europa avverte in questi anni un desiderio di costruzione e di ricostruzione, in senso ideale non meno che concreto. E anche Sironi, come tutti gli artisti dell’epoca, vuole “costruire”. Non per niente Bontempelli, in un racconto pubblicato su Le Industrie Italiane Illustrate nello stesso 1920, scrive: «Ogni tanto bisogna rifornirsi di sostantivi e di

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