Il cuore sportivo di Milano EVARISTO BECCALOSSI - GIOVANNI LODETTI - FABRIZIO BERNINI
FABRIZIO BERNINI Poeta
GIOVANNI LODETTI Calciatore
Evaristo Beccalossi e Giovanni Lodetti sono tra i migliori calciatori che Milano ha espresso nel corso del tempo, sia dal punto di vista sportivo che umano. Sono il simbolo di una città che ha saputo fare della competizione tra due squadre di calcio una rivalità sana, capace di valorizzare le diversità per trarne tutto ciò che di buono da esse può venire. Questi atleti, spesso impegnati nel derby, sono proprio l’emblema di un gioco civile e vissuto nel rispetto del fair play, che dona ai tifosi una costruttiva distrazione dalle fatiche e dalle alienazioni. L’umanità che emerge da loro è l’umanità del calcio che, nella pratica sportiva o in una tifoseria, vive la relazione con l’altro all’insegna dell’incontro, riconoscendolo diverso e al contempo vicino, come avviene in una famiglia. Per questo, si sono accorti della potenzialità poetica del calcio autori come Umberto Saba, Alfonso Gatto, Vittorio Sereni, Giovanni Raboni, Milo De Angelis e Maurizio Cucchi, che hanno fatto di questo gioco la metafora di delicati passaggi esistenziali e sociali, descrivendo squadre come il Milan e l’Inter come piccoli mondi che da luoghi circoscritti si aprono su orizzonti più vasti, all’insegna di una rivalità costruttiva.
Ripensando alla mia carriera calcistica riconosco di aver avuto la fortuna di giocare nei vent’anni che forse sono stati per lo sport italiano il periodo più bello. Per me il calcio è stata una di quelle attività il cui scopo è il divertimento nel vero senso del termine. Ho vissuto tutti i momenti della mia carriera calcistica all’insegna della gioia e della passione, dagli inizi nel campo dell’oratorio all’impegno crescente nel mondo dello sport, fino alla soddisfazione di aver vinto la Coppa dei campioni cinquant’anni fa. In ciò sono stato molto fortunato, come lo è stato Evaristo Beccalossi dopo, nella sua carriera: abbiamo vissuto la gioia di giocare con compagni di squadra, diventandone amici e divertendoci. Allora non ci si stancava mai e tutto era più semplice: i genitori non erano ansiosi, ci seguivano da lontano e ci permettevano di sfogarci liberamente. Ricordo che da ragazzo partivo di domenica mattina alle sei e mezzo con la borsa sulle spalle, per giocare al centro sportivo Scarioni, e tornavo a casa alle 19; se avessi fatto tardi, i miei genitori mi avrebbero rimproverato perché ci si aspettava tutti per cena. I miei familiari non nutrivano ambizioni per la mia carriera di calciatore, né speravano che mi arricchissi. Ricordo ancora quando portai a casa il primo premio di 120.000 lire per un derby – per fare un confronto, allora mio padre guadagnava 40.000 lire al mese –; per l’eccitazione nel tragitto di ritorno a casa continuavo a contare in tasca i 12 bigliet-
246 | Lettera a Milano
toni del mio premio. Sedutomi a tavola per cena, tutto orgoglioso consegnai i soldi a mio padre e lui, dopo averli contati mi disse: «Bravo Giuanin, te si sta bravo!». E con perfetta noncuranza si mise in tasca tutto il denaro. E io che speravo che mi lasciasse qualcosa… Rammento che il primo contratto lo ottenni insieme a quattro altri ragazzi: il direttore tecnico Gipo Viani ci chiese che cosa volessimo e noi gli parlammo del contratto; e lui ci disse: «Dovreste essere voi a pagarci per farvi giocare». Poi ci propose una cifra – inferiore a quella che speravamo – ribadendo che se non fossimo soddisfatti della proposta, da Asiago, dove eravamo in ritiro, potevamo tranquillamente tornare a casa. Sono state lezioni di vita che ci hanno fatto capire che per diventare calciatori, si doveva essere disposti al sacrificio: l’intenso allenamento, la cura per la propria salute e il fisico, tutto ciò che si doveva fare per essere efficaci nel contrastare l’avversario. In ogni caso avevamo una grande gioia nel cuore. Al confronto, oggi il calcio mi pare molto diverso: c’è più seriosità. I più giovani subiscono maggiormente le pressioni e le attese ansiose dei genitori, sono meno ingenui e disposti a vivere l’esperienza calcistica come un divertimento, sono esigenti riguardo alle gratificazioni, la preparazione ha un taglio quasi scientifico. Mi è stato chiesto che cosa pensassi della proposta di sostituire San Siro con due stadi, uno per il Milan e l’altro per l’Inter. Penso che sia più opportuno conservare San Siro, magari con le necessarie modifiche. Bisogna rispettare le tradizioni e io sono affezionato allo stadio in cui ci si recava tutti insieme, giocatori e tifoserie mescolate. Ricordo che una sera, dopo una vittoria della mia squadra tre a zero con due miei gol, me ne andai da San Siro attraverso l’unica uscita e un gruppo di interisti, dopo avermi riconosciuto, mi disse: «Pensa ti che il pirletta qui ha fatto gol!», io mi girai e risposi: «Ciapa su e porta a ca’». Una vera soddisfazione! La costruzione di due stadi impedireb-
be questo genere di esperienze fraternizzanti perché conterrebbero meno spettatori e i posti sarebbero assegnati prevalentemente agli abbonati legati alla squadra che li gestisce. Tra i miei ricordi più vivi la vittoria del derby giocato domenica 15 novembre 1964. Rammento la formazione dell’Inter: Sarti, Guarneri, Facchetti, Tagnin, Burgnich, Picchi, Jair, Mazzola, Suarez, Corso e Milani. La nostra del Milan era composta da Mora, Benitez, Ferrario, Rivera, Noletti, Maldini, Barluzzi, Pelagalli, Fortunato, Trapattoni e da me, Lodetti, con il numero 11. Anche in quell’occasione l’uscita da San Siro fu una cosa molto semplice: ad attendermi c’era solo mio fratello, e io portavo con me la borsa preparata per il ritiro. Allora i ritiri erano molto rigorosi; non c’era alcuna comodità. L’ora del rientro serale nelle proprie camere era fissata severamente per le 22:30, ma insieme ad alcuni amici – ricordo Anguilletti, Sormani, Curtani e Malatrasi – spesso bevevamo una bottiglia di Champagne di nascosto. Una volta fummo beccati da Nereo Rocco che, invece di rimproverarci, ci chiese nel suo dialetto triestino perché non avessimo invitato anche lui. Questo per far capire il clima informale che si respirava in quegli anni nel mondo del calcio.
EVARISTO BECCALOSSI Calciatore Sebbene sia io più giovane, conosco Giovanni Lodetti da molti anni; per me è sempre un maestro e sono contento di essermi spesso ritrovato con lui a commentare il calcio in televisione. Condivido tutto quello che ha detto sulla nostra esperienza giovanile dello sport. Spesso ho a che fare con i giovani e ciò che mi sconcerta di più non è tanto la differenza nelle condizioni di vita, quanto la mancanza per loro di credibili punti di riferimento, di autentici valori. Noi che venivamo
Lettera a Milano | 247