LETTER TO MILAN

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la Tate Modern. L’ambizione è quella di fornire un servizio alla città, di aiutare i milanesi a interloquire culturalmente con il resto del mondo. Le esposizioni internazionali vertono su due elementi principali, come accade per esempio per la Biennale di Venezia: una mostra tematica, scelta dal curatore nominato, e le partecipazioni internazionali. Nel 2019 l’esposizione è stata curata da Paola Antonelli, senior curator del moma, la quale ha scelto come titolo Broken Nature, riflettendo su come il design possa contribuire a risanare il rapporto fra uomo e natura. Nella situazione di sofferenza che sta vivendo la Terra a causa dei cambiamenti climatici ci siamo chiesti, con formule un po’ provocatorie ma sicuramente stimolanti, come ognuno di noi possa contribuire, attraverso l’impegno personale, alla cura del nostro pianeta. Accanto alla mostra, come presenze internazionali, hanno partecipato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, e Marco Balich. Il concetto centrale delle riflessioni di Mancuso è la Plant Blindness, cioè come l’essere umano abbia perso la capacità di comprendere l’importanza del mondo vegetale nel bioma sulla terra, non percependo perciò lo stato di pericolo in cui versano molte specie vegetali. La cecità umana nei confronti delle piante dipende dal fatto che esse hanno seguito un’evoluzione diversa rispetto alla nostra. Esse ci appaiono incomprensibili, pur avendo in realtà sviluppato una serie di capacità molto interessanti anche per noi, in termini di adattamento rispetto alle altre forme di vita vegetale e alle altre specie viventi; in tal modo sembra che abbiano sviluppato una propria e originale socialità. Tra i Paesi europei partecipanti c’è l’Austria presente con un progetto di depurazione delle acque reflue per un loro riutilizzo pubblico.

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L’Olanda ha contribuito con un’installazione molto divertente; si tratta di una performance in cui un corpo viene messo sottovuoto modificandone curiosamente le forme; questa esperienza stimolerebbe la produzione di ormoni che creano empatia. Nel padiglione Australia, un gruppo di ricerca collettivo ha scoperto che l’agenzia incaricata della tutela di una barriera corallina è legata ad una serie di multinazionali checontribuiscono alla sua stessa distruzione. Per le partecipazioni internazionali è il ministro degli Esteri italiano che invita i suoi colleghi ministri degli altri Paesi europei. La nostra collezione del Museo del Design non è sicuramente completa, perché fino a poco tempo fa in Triennale non era mai stata avviata una riflessione su cosa sia e come si componga una collezione. Quando si è insediato il nuovo staff i suoi componenti hanno sentito il bisogno di completare il Museo del Design italiano e di renderlo permanente, in modo da assicurare il potenziamento di una nuova collezione. La raccolta è stata realizzata nel corso delle occasioni storiche che la Triennale ha avuto. Tra i suoi successi ricordiamo la x Triennale del ’54 con le opere dei fratelli Castiglioni, la mostra del ’95 sul disegno industriale e quella del ’96 sul design italiano dagli anni 1964 al 1990. Quando si è insediato il nuovo staff è stato avviato un lavoro di selezione del materiale, non potendo esporre tutti i 1600 pezzi della collezione. Si è deciso innanzitutto di restringere il criterio di esposizione degli oggetti in mostra, limitandolo al periodo di produzione tra il 1946 e il 1981. È il tempo del

boom economico, quando l’Italia si affermava come Paese all’avanguardia nel campo del design. Abbiamo particolarmente valorizzato il 1981, anno dell’inaugurazione di Memphis, una mostra che raccoglieva un collettivo di designer tra cui spiccava Ettore Sottsass. È il periodo in cui gli stili si rinnovano, e la produzione globale registra il successo del design italiano, realizzato da aziende italiane con designer italiani. Pensando al futuro della collezione della Triennale, la sfida più grande oggi è capire che cosa sia il design italiano. Grazie anche al contributo del ministro della Cultura abbiamo deciso di avviare un concorso per l’ampliamento dell’edificio, perché lo spazio a disposizione non è più sufficiente. Verrà fatto un allargamento ipogeo che si estenderà sotto il giardino della Triennale con cui si dovrebbero recuperare 6000 mq di superficie. Il moma dedica solo il 20% dei suoi spazi all’esposizione, la Triennale invece, destina a questo scopo il 70% della sua estensione, e solo il 30% a usi istituzionali. Nel progetto di espansione vorremmo superare la divisione tradizionale fra spazio di esposizione e spazio di deposito, facendo in modo che anche quest’ultimo possa essere fruibile dal pubblico. Un altro frutto della collaborazione tra la Triennale e la città di Milano è la decisione presa con il sindaco Giuseppe Sala e con l’assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran di spostare l’Urban Center dalla Galleria Vittorio Emanuele alla Triennale. La collocazione dell’Urban Center nella Galleria Vittorio Emanuele conferiva a quello spazio una rilevanza prevalentemente turistica. Dopo una seria riflessione, la Triennale ha riletto la storia dei proprio con-

tributo ai cambiamenti che hanno coinvolto la città di Milano. Così nel ’33 essa si interrogava su come aprire lo stile architettonico locale alle influenze internazionali, un esempio è stato Piero Portaluppi con la “Casa per il sabato degli sposi” o la “Casa di vacanze per un artista” di Giuseppe Terragni (padiglioni costruiti nel Parco Sempione). Così è successo anche nel ’47, subito dopo la guerra, con l’viii Triennale, quando fu costruito il QT8 dopo un lungo dibattito su come il calcestruzzo armato potesse favorire un maggior benessere abitativo della gente, garantendo democraticamente a tutti una casa e una buona qualità di vita. Siamo all’inizio del boom economico. A questo punto, assieme al sindaco ci siamo domandati come l’Urban Center potesse trasformarsi in un vero e proprio spazio di dibattito pubblico su Milano. Abbiamo promosso un concorso di progettazione che è stato vinto da Matteo Ghidoni. La domanda da cui siamo partiti e che cosa sia un Urban Center. Una prima suggestione è arrivata dal plastico di Shanghai che racconta la città – spesso la grande difficoltà di chi governa una città è far vedere cosa succede fra le sue mura, e l’immagine classica più utilizzata è quella del grande plastico –. Studiando poi ci siamo accorti che l’Urban Center di Londra è un vero centro di ricerca, in cui studiosi e ricercatori universitari si riuniscono per riflettere su quello che deve essere il futuro della città. Un altro esempio molto interessante che abbiamo studiato è quello di Città del Messico: si tratta di un luogo di partecipazione, di condivisione, di cittadinanza. I suoi spazi non sono visitabili in sé, ma il suo staff si muove per la città, organizzando workshop spontanei che hanno l’obiettivo di trasformare le sollecitazioni del territorio in progetti indirizzati agli amministratori,

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