LETTER TO MILAN

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Senza troppo rumore MANUELA BERTOLI Musicista

In La città sale, appare la folla, che è serbatoio di elettricità. Viene qui scomposta in una gamma di gradazioni cromatiche infuocate. Si celebra il trionfo della gassosità. Si disintegra ogni unità. Individui e ambiente si confondono, tra vapori, evanescenze, illuminazioni artificiali, sostanze volatili, costanti modificazioni. Nel ritmo urbano, infatti, il permanente e il mutevole si sovrappongono. Si compie il tripudio dell’ondeggiante, del fuggitivo, dell’infinito. Sullo sfondo, Milano. Che dà senso della vertigine, trasmettendo emozioni, enfasi. Irradiata da baluginii elettrici, da abiti vistosi, da risse improvvise, da insegne enfatiche, offre allo sguardo un ininterrotto gioco di corrispondenze. Vengono evocati i luoghi del rinnovamento. Dinanzi a noi – simultaneamente – tante figure. La piazza, il moto dei tram, la stazione con il conforto sbuffante dei treni, i caffè, i locali notturni. E, poi: la danza di chi va e viene, di chi si ritrova e si smarrisce. E ancora: i nottambuli, gli ubriachi e le prostitute, tra specchi, abiti. Sfioramenti e scontri, risse e incontri. Ardore, agitazione: un’“esagerazione vitalistica” di psicologie e di comportamenti. È il trionfo di un realismo “perfino urtante” (come ha sottolineato Paolo Fossati). Impegnato a innalzare un altare alla vibrante vita moderna, Boccioni coglie la molteplicità dei movimenti, tra continuità e reiterazioni. Non si limita a tradurre liricamente l’emozione: ne è preso, assorbito, fino a precipitare in un abisso. Sembra guardare verso tutte le direzioni, contemporaneamente: mai di faccia, sempre di profilo, secondo infiniti scorci, che si rincorrono e si elidono a vicenda. Non ha nessun bisogno di esaltare il suo desiderio di fuga – ne è prigioniero e vittima. Sembra quasi di sentire i palpiti della metropoli. Quei sussulti che Russolo studierà e assemblerà in una partitura intitolata Risveglio di una città (1913), sorretto dal desiderio di recuperare eterogenei flussi sonori, per mimare i ritmi della quotidianità: rombi, tonfi, boati, fischi, brusii, stridori, scricchiolii, fruscii, crepitii, grida, strilli, gemiti, urla, risate, rantoli, singhiozzi. Influenzato dal rumorismo onomatopeico marinettiano, Russolo scriverà: «Noi vogliamo intonare e regolare armonicamente e ritmicamente questi svariatissimi rumori. Intonare i rumori non vuol dire togliere ad essi tutti i movimenti di vibrazioni irregolari di tempo e d’intensità, ma bensì dare un grado o un tono alla più forte e predominante di queste vibrazioni, il rumore infatti si differenzia dal suono solo in quanto le vibrazioni che lo producono sono confuse ed irregolari […]: Ogni rumore ha un tono, talora anche un accordo che predomina nell’insieme delle sue vibrazioni irregolari».

Ero diretta ieri verso via Conservatorio. Attraversato corso di Porta Vittoria, su un tavolino, disposto a ridosso della facciata della chiesa di S. Pietro in Gessate, vedo due uomini di mezza età che giocano a carte. Cupi, concentratissimi, attendono qualche segnale dalla Dea fortuna sul portone di casa di un Santo assente, o forse troppo indaffarato a portare conforto ai milanesi, spaventati davanti a una inimmaginata pandemia. Ecco la città della Moda e del Terziario, dei Commerci e delle Startup, della magniloquenza verticale e globale, che ridiscende a un più modesto piano terreno. I grattacieli si sono momentaneamente messi a sedere, azzardano un futuro prossimo in cui sarà il caso a governare, o, in momenti più visionari, si ripensano provando a guardarsi con altri occhi. Oltrepassato il liceo Leonardo da Vinci in via Ottorino Respighi, arrivo in via Conservatorio. Sono giorni silenziosi questi, ma dalle finestre delle aule, scendono ancora giù, nel giardino alle spalle di Palazzo Archinto, e nella piazza di Santa Maria della Passione, musiche di ottavini, flauti, violini e percussioni. Sono studenti, impegnati in esecuzioni ancora incerte, nella quotidiana lotta contro passaggi complessi, alla conquista della precisione, purezza e bellezza del suono. Qui studiavo la musica e il violino negli anni intorno al Sessantotto. Negli anni delle bombe, di piazza Fontana, delle manifestazioni, degli attentati incendiari, dei licei e degli atenei in rivolta, varcare la soglia del Conservatorio, voleva dire entrare in un luogo metafisico, austero, iconoclasta. Completamente estraneo all’aria di un tempo, che qui, poteva prendere significato solo se trascritto su pentagramma. A pochi metri di distanza, fra queste strade, c’erano occupazioni, cariche di polizia, fughe di studenti. In Conservatorio, le fughe erano solo quelle di Bach. Le prime occupazioni e i primi manifesti politici si vedranno, in questo cortile, solo a partire dal 1971. Figuriamoci la sorpresa, quando nel 1976 circa, in una sezione del Pci di piazza Aquileia, una fra le tante che avevano subito attentati incendiari, incontrai il compositore Davide Anzaghi. Era il mio maestro di Teoria Musicale. Aristocratico, sensibile, un meraviglioso insegnante. Mai avrei potuto immaginarlo militante fra comunisti. Non estremisti, certo, ma pur sempre comunisti. Ero una ragazzina, andavo in Conservatorio con il mio violino tutti i giorni. Abitavo vicino a piazza Michelangelo Buonarroti, nel mio paesaggio quotidiano c’era il monumento a Verdi,

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