LETTER TO MILAN

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«Si muore un po’ per poter vivere» LORENZO VIGANÒ Giornalista, scrittore

Come si fa a scrivere una lettera a Milano? Come si fa a rivolgersi a te, a parlarti? E poi: parlarti come a chi? Come a una madre? a un’innamorata? a un’amante? a un’amica? A qualcuno che si frequenta da tanto tempo e forse non si conosce ancora? O non si riconosce più? Per farlo bisognerebbe sapere chi sei, Milano, e probabilmente io non lo so ancora. I primi ricordi che ho di te sono legati a Musocco. Non abitando qui, ma essendoci nato – come i miei genitori, che invece vi hanno passato l’infanzia, la guerra, la ricostruzione, prima di trasferirsi per lavoro in un’altra città –, venivo a trovarti con la mia famiglia un paio di volte all’anno. Una di queste – la più attesa – era a Natale, per incontrare i nostri parenti: quelli che c’erano ancora e qui avevano continuato ad abitare, e quelli che non c’erano più ed erano sepolti al Cimitero Maggiore. Ricordo il freddo, la nebbia, le foto dei nonni; ricordo le lapidi con i fiori secchi da buttare e quelli freschi da mettere nel vaso con l’acqua gelida che prendevo alla fontanella più vicina. Un segno di vita lasciato a chi non poteva più sentirne il profumo. Quei viali, quel silenzio, quelle scale altissime con sotto le ruote, sulle quali, bambino, mi arrampicavo, sono state per molto tempo una delle due personali immagini di te. L’altra era il quartiere di Quarto Oggiaro, la casa popolare abitata da mio zio – operaio alla Magneti Marelli – e dalla sua famiglia, dove pranzavamo il giorno di Santo Stefano, dopo la visita al cimitero. Mi piaceva quel quartiere, lo sentivo vivo, vero, abitato da persone che mi sembravano cariche di umanità (e cariche di umanità lo erano). Per molti anni, tu sei stata per me questi due luoghi e, di sfuggita, come una figura intravista nella nebbia nella quale ti piace(va) nasconderti, piazza del Duomo, dove più della «cattedrale che gocciola all’insù», come diceva Marcello Marchesi, mi colpivano le insegne luminose di Palazzo Carminati, simbolo della metropoli, della vita notturna, della frenesia. Del progresso e della modernità. Rimanevo incantato, con la bocca aperta, a guardare l’omino Brill e la signorina Kores. Ma c’è un terzo luogo, rimasto in sordina nella mia memoria, che si sarebbe rivelato quello legato a me dal nodo più stretto e profondo: Porta Romana. Lì aveva vissuto mia nonna, lì i miei genitori si erano conosciuti, guardandosi da ballatoio a ballatoio nella stessa casa di ringhiera, lì erano cresciuti, nella “piazzetta, con i ragazzi della piazzetta” quando c’era ancora il dormitorio pubblico, e i “barboni” (nel senso più poetico e jannacciano del termine) stazionavano al bar-mescita Lettini Filippo prima che De Sica e Zavattini li raccontassero nel loro miracolo milanese. A Porta Romana ho vissuto da bambino, con mia sorella, l’unica permanenza a Milano di quasi dieci giorni; a Porta Romana vivo ormai da un quarto di secolo con la mia compagna, in quella che posso considerare la mia casa da adulto. Non so, e forse solo tu potresti rispondermi, che cosa mi abbia riportato qui, se il caso o la forza inconscia delle radici familiari. Ma certo, quando passo di fianco alla Porta e vedo tra i nomi dei partigiani scritti sull’Arco quello di mio nonno ucciso da un soldato tedesco alla Pirelli occupata – la brusada, la «bruciata», dove lui lavorava – sento che qui c’è qualcosa di mio, anzi, qualcosa di me, che non mi fa sentire estraneo ma a mio agio – e orgoglioso – di muovermi tra le sue vie. 102 | Lettera a Milano

Perché, cara Milano, è facile sentirsi estranei a Milano. Sarà strano sentirsi innamorati, ma sentirsi estranei no, non è strano: è facile. E oggi è più facile di quanto non lo fosse quando sono venuto a viverci, negli anni Settanta. E ancora di più rispetto al passato remoto delle foto in bianco e nero. Dimmi tu se è vero o no; dimmi tu se ti senti cambiata, se hai voluto cambiare, se hai dovuto farlo. O se invece sono stati il tempo e le persone con cui hai avuto a che fare, a cui ti sei affidata, a trasformarti. La Milano del cuore in mano, della mano tesa verso gli altri (come cantava D’Anzi nell’inno cittadino dedicato alla Madonnina); la Milano della solidarietà e dell’accoglienza. Nelle tue vene ancora scorre quel sangue, ancora soffia in te quello spirito tutto meneghino. Però. L’individualismo, la corsa più allo sviluppo che al progresso, secondo la distinzione pasoliniana, ha aumentato la distanza tra le persone, ha accentuato la reciproca diffidenza e, di conseguenza, ha diminuito l’empatia, l’immedesimazione nell’altro, il senso di comunità. Di fraternità. Un esempio? Dopo essere rimasta vedova, mia nonna continuò a lavorare alla Pirelli, con turni in fabbrica che la facevano alzare anche alle quattro del mattino. È sempre stata sovrappeso, mia nonna. E a volte capitava che fosse in ritardo sull’orario del tram che la portava alla Bicocca e lo intravedesse già arrivato alla fermata di Medaglie d’Oro. Così correva per prenderlo. Correva per non perderlo. Il tramviere, che la conosceva, e sapeva essere una dei “suoi” passeggeri abituali, la vedeva dallo specchietto affannarsi, correndo più veloce che potesse. E la aspettava. Questione di una manciata di secondi, ma la aspettava. «Forza, sciura Viganò! Forza!», le diceva. E ripartiva solo quando lei era su. Forse sono le persone che fanno la città, o forse è la città che fa le persone. Non so. Ma so quante volte i tram mi hanno chiuso le porte in faccia e non certo perché volevano giocare al film Sliding Doors. Perché vedi, cara Milano, per me ci sono (almeno) due Milano: una interiore e una esteriore. Quella del “tramviere e la nonna” è la Milano interiore, così come quella del club Capolinea, il tempio cittadino del jazz, che non c’è più: demolito; come quella delle insegne luminose in piazza Duomo, che non ci sono più: smontate e buttate; come quella del Luna Park Varesine, che non c’è più: sradicato per fare posto ai grattacieli; come quella “Bosco di Gioia” di via Melchiorre Gioia: raso al suolo in nome del nuovo Palazzo Lombardia; come quella delle costruzioni Liberty del primo Expo, nel 1906: tutte demolite (unica sopravvissuta: l’Acquario civico). Per non parlare della Piccola Scala, intitolata a Toscanini, il cui progetto portava anche la firma di Piero Portaluppi: spazzata via dall’ultima ristrutturazione del teatro. Ti basta o devo continuare? Quella esteriore è quella che vivo ora, in diretta, che vedo crescere intorno a me, giorno dopo giorno, cambiare, perseguire obiettivi che sempre più spesso vanno a discapito proprio di quella interiore. Che la cancellano, un pezzetto alla volta. Mi spiego. Il tuo maggior difetto, Milano, è non volerti bene. È non proteggerti. È non conservarti, custodirti. Tu non valorizzi il tuo passato, perché altrimenti non lo cancelleresti con tanta superficialità e leggerezza; tu non tieni alla tua storia – che è fatta anche di piccole grandi cose: angoli, caffè, alberi, locali, librerie, strade, pavé, case, vecchi tram… –, altrimenti non la considereresti meno importante del nuovo, del futuribile; non venderesti frammenti della tua anima al migliore offerente per qualcosa che non ti assomiglia nemmeno. Dici Lettera a Milano | 103


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