LETTER TO MILAN

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La periferia al contrario... CARLO GALANTE Compositore

Sebbene molti lustri ormai mi vedano solidamente radicato nella città di Milano, luogo che da subito, appena arrivato in veste di giovane studente del Conservatorio, ho sentito come la mia vera casa, sono nato e cresciuto in una piccola città. Mi è sempre stata molto chiara, per esperienza diretta, la differenza marcata e profonda, tra l’essere cittadino di una grande città quale Milano e di una molto più piccola come Trento. Ho vissuto Milano (come molti) come il luogo privilegiato per incontrare nuove persone, conoscere interlocutori diversi, provare situazioni e circostanze inedite e spesso stimolanti. Un luogo che mi ha sempre messo alla prova col suo continuo e vorticoso movimento, sia quando questo era portatore d’intensità sia quando, al contrario, si dimostrava vacuo e superficiale. Questo ininterrotto movimento sociale che contraddistingue sia la vita lavorativa sia quella emotiva e privata dei milanesi è, credo, la principale ragion d’essere della città. Essere milanesi significa seguire un flusso costante che di volta in volta diventa incontro di lavoro, di divertimento, di cultura (perfino!). Nella recentissima sciagurata quarantena il flusso si è arrestato, il movimento si è interrotto e Milano mi è sembrata come cancellata. Il popoloso piazzale che vedo quotidianamente dalle finestre del mio studio si era trasformato in una piazza metafisica, quasi fosse stata immaginata e progettata da Giorgio de Chirico. Il tempo melanconicamente sospeso di quei giorni ha reso irriconoscibile la città, tanto da farmi (quasi) invidiare i molti amici e conoscenti che avevano abbandonato Milano per trovare rifugio in case di montagna, al mare o in campagna, con i loro giardini e le terrazze ariose, per immergersi in una solitudine forse più naturale di quella vagamente sinistra e intimidatoria che a tutti noi è capitato di vivere in questa grande città. Spente le luci dei teatri, interrotti gli studi scolastici, chiusi i ristoranti, sprangati i suoi innumerevoli esercizi commerciali, Milano si è rinchiusa, per rispettare le distanze di sicurezza, in una dimensione familiare forse più adatta alla piccola città (la mia natìa Trento, per esempio). Ora, con prudente determinazione, la città sta ritornando a interpretare nuovamente se stessa, ma la severa lezione ricevuta deve avere come prima conseguenza un’approfondita riflessione su come mantenere e sviluppare il suo tradizionale modello che, soprattutto per motivi economici, è quello dell’inclusione. Un’idea d’inclusione fondata sul lavoro, che diventa volano di una rete complessa e capillare di movimenti sociali. Attraverso il lavoro si diventa parte (accettata) della città, ma se il lavoro si sposta dalla città alla rete, perdendo la sua fisicità e diventando virtuale e incorporeo, tutta la fitta trama di rapporti sociali, che nascono economici e diventano via via ben altro, decadono, mettendo a serio rischio l’identità stessa della 140 | Lettera a Milano

città. È indubbio che, nel caso il lavoro da casa diventi obbligatorio, sia preferibile vivere in un luogo meno popoloso e molto più ameno, piuttosto che nella sterminata periferia milanese. Milano deve riguadagnare attrattiva; quel fascino che tradizionalmente era legato al mondo del lavoro, in futuro deve riuscire a coniugarsi con qualcosa di diverso, ma ancor più incentrato sull’intensità della relazione tra le persone. Immagino che le ricette siano molteplici: una città più verde, meno trafficata, più curata nell’arredo urbano, rapida e funzionale nei trasporti pubblici, efficace ed efficiente nel governo della città… Ma c’è una cosa che mi sembra fondamentale e rende possibile qualsiasi futura storia di cambiamento: un rinnovato rapporto tra centro e periferia. Milano ha un centro, non vastissimo, ma bello e variegato per stili architettonici, dove si incentrano la gran parte delle attività sociali (teatri, cinema, musei…). Questa zona della città è ormai quasi del tutto priva di abitanti, vi si trovano infiniti negozi di vestiti ma nemmeno uno di alimentari: se cerchi latte in polvere per neonati in una farmacia della zona è più che probabile non trovarlo… La periferia al contrario è vasta e popolatissima, ma troppo spesso priva di identità e di fascino: un luogo neutro dove le persone non “abitano” ma vivono solo per “riposare” dopo il duro lavoro fatto in luoghi diversi e lontani. Entrambi i luoghi, centro e periferia, hanno bisogno di ridiventare comunità di persone, che s’incontrano e interagiscono quotidianamente perché hanno qualcosa in comune. La cultura può (e deve) avere un ruolo importante in questo cambiamento; i teatri, ad esempio, sono luoghi privilegiati per compiere la trasformazione di un luogo anonimo in una comunità. La comunanza d’intenti (estetici) di un pubblico si rivela spesso un perfetto collante sociale. Nella periferia milanese ci sono alcuni coraggiosi esempi di questa politica che dovrebbe però avere ben altra capillarità, ad esempio il Teatro Spazio 89, sito nella remota via Fratelli Zoia. È un luogo che da molti anni produce una stagione concertistica di alto livello e un’altra teatrale, parimenti interessante, per adulti e bambini. Il teatro è diventato nel tempo, attraverso l’operosa determinazione dei suoi responsabili, un sicuro punto di riferimento per il quartiere. Certo, queste e altre realtà culturali che agiscono con originalità ed efficacia nella periferia milanese, certamente non possono bastare per una rigenerazione profonda di questo tessuto urbano; ci vorrebbero cospicue risorse, ma soprattutto un convinto atto di fede da parte di molti sul ruolo fondamentale che può giocare la cultura a tenere e a rinvigorire la comunità. Una fede che, al momento, mi sembra piuttosto fiacca.

Lettera a Milano | 141


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