Attorno alla Richard ROBERTO CARCANO Ceo Zero_starting ideas
Mi chiamo Roberto Carcano e sono un baby boomer. Per la precisione sono nato nel giorno più noioso del secolo scorso: 11 aprile 1954. Lo ha stabilito l’algoritmo True Knowledge messo a punto dall’Università di Cambrige dopo aver elaborato 300 milioni di fatti del xx secolo. Con questa premessa ed essendo un milanese “arioso” non sono sicuro che Maurizio Cucchi vorrà davvero pubblicare la mia testimonianza. Io ci provo. Nasco a Pinzano, una piccola frazione di Limbiate, una decina di chilometri a nord di Milano. Allora era un nucleo storico con le corti contadine, l’odore delle stalle e tutto intorno campi lambiti dallo scorrere del canale Villoresi. Dunque, sono il classico figlio del boom economico, coi miei genitori che si fanno “la villetta”, progettata – si fa per dire – dal geometra del paese. I primi timidi contatti con la città arrivano con le superiori all’Itis Galvani di Niguarda; ma facevo la spola casa-scuola col mio vespino giallo ocra e di Milano percepivo solo gli echi, con qualche comparsata alle manifestazioni del ’68, quando avevo 14 anni e tentavo inutilmente di capire il movimento studentesco. Ascoltavo affascinato i miei compagni che si accaloravano parlando di Indro Montanelli, Camilla Cederna, Mario Capanna e i “padroni sfruttatori”. Gli studi tecnici non facevano per me ma il diploma in Elettronica ha avuto il merito di farmi trovare subito un lavoro da redattore alla fima (Fabbrica Italiana Macchine Aziendali, prima della guerra era Fabbrica Italiana Macchine Adrema, marchio tedesco) in via Legnano, di fronte all’Arena. Era il 1973, e quello fu il mio vero battesimo metropolitano. Trovavo la città eccitante e la fortuna di quel lavoro fu che divenne il mio trampolino per il lavoro che amo. Il mio capo guidava la pubblicità, un ambito che da subito mi attirò molto più della redazione tecnica. Si era laureato alla Cattolica, che era lì a due passi e teneva un corso di laurea serale, in Economia e Commercio, che mi permetteva di staccarmi dal lavoro nel tardo pomeriggio e fiondarmi a seguire le lezioni. Una su tutte era la più ambita: Economia e Tecnica della Pubblicità del professor Edoardo Teodoro Brioschi, già allora una leggenda, diventato poi il mio relatore di tesi e oggi mio grande amico.
Nel 1985 vivo per qualche mese tra Washington e San Francisco e, al ritorno, Milano mi sembra improvvisamente provinciale (detto da me!). Ma dura poco e poi arriva il 1990, l’anno della svolta: in quel periodo avevo l’ufficio in via Boccaccio (altra tessera del patchwork) e sul fronte sentimentale interrompo una convivenza decennale. Cerco casa, non so bene dove, e con quali soldi. Mi capita un annuncio per 80 mq su tre piani. Troppo folle per essere vero. Era vero. Colpo di fulmine. In via Morimondo al 9 c’era – e c’è – una vecchia corte contadina con all’interno poche abitazioni con il fascino “vecchia Milano”, di quella che una volta era periferia. Il venditore è un milanesone doc, proprietario del ristorante all’inizio della via. Al momento della proposta d’acquisto mi chiede: «Ti, te se minga un terùn?». È il mio battesimo in zona 6. In corso c’è un cambio generazionale: i miei anziani dirimpettai non hanno il bagno in casa, hanno la “turca” con lavandino, in cortile. Oltre il civico 11 è il deserto. Una via abbandonata da quando Ligresti qualche hanno prima aveva acquistato la Richard Ginori per poi chiudere la fabbrica e puntare al business immobiliare. Fino al 2005 la situazione della via e della zona resta cristallizzata. In quell’anno finalmente la ex Richard viene venduta, interamente ristrutturata e frazionata in unità adatte al terziario: prendo ufficio lì. Abito al 9 e lavoro al 26 di via Morimondo: abituato a via Boccaccio e poi a via Lanzone, temo l’effetto ghetto. Ma non succederà. Prima, se prendevi un taxi e dicevi via Morimondo dovevi aggiungere: «Poco dopo la Chiesa di San Cristoforo, di fronte alla Canottieri Olona». In breve tempo diventa invece uno dei luoghi più cool di Milano, pieno di showroom di moda, studi di fotografia e architettura, agenzie di modelli e società di comunicazione. E poi dove trovi un altro posto dove puoi fare canottaggio sotto casa?
La Cattolica coi suoi chiostri era il bello circondato dal bello. Ci andavo tutte le sere fino a tardi e ogni sabato mattina: respiravo a pieni polmoni – austerity permettendo – la bellezza del luogo e dell’esperienza. Un’università alla quale sono rimasto legato anche dopo la laurea, con frequenti incursioni di studio e di insegnamento. Nel frattempo avevo iniziato a lavorare come giovane copywriter nella mitica cpv Kenyon&Eckhardt in corso Europa. Atmosfera eroica dell’allora dorato mondo dell’advertising: una Olivetti Lettera 32 arancione sul tavolo per i testi in brutta, da passare poi alla segretaria per la messa in bella copia con una ibm elettrica “a pallina”. Milano, più che prendere per me un senso d’insieme, si assemblava come un patchwork di zone che faticavo a mettere in connessione. Girando in auto mi perdevo regolarmente. 144 | Lettera a Milano
In molte case si parla il milanese. Per strada, l’inglese. Nasce in me e in alcune persone intorno la consapevolezza di trovarci in un ecosistema dove l’architettura è rimasta sostanzialmente quella di un secolo prima, ma sottopelle i contenuti e i ritmi sono quasi completamente cambiati. Siamo sostanzialmente circondati da sconosciuti evoluti e ci viene voglia di conoscerli, di farci conoscere e provare a “fare sistema”. Per non essere voci isolate nell’immaginare di contribuire positivamente alla crescita di quello che non ha ancora la personalità di un distretto ma ne ha le potenzialità. Facciamo circolare la voce su questa nostra intenzione e col passaparola cominciamo a ritrovarci a piccoli numeri, la sera, nel mio ufficio. Capiamo che questa voglia è condivisa, che c’è chi ha già avuto esperienze Lettera a Milano | 145