Il Giornale dei Biologi
Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132
Febbraio 2021 Anno IV - N. 2
POST-COVID QUEI SINTOMI CHE NON VANNO VIA L’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha studiato gli “strascichi” della patologia dopo la prima ondata
www.onb.it
In collaborazione con
DELEGAZIONE REGIONALE CAMPANIA E MOLISE
NELLE TERRE DEI FUOCHI APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE PER IL RISANAMENTO AMBIENTALE E LA PREVENZIONE DELLA SALUTE 10 aprile 2021
Dalle ore 9:00 alle 14:00
Sommario
Sommario EDITORIALE 3
Ordine, non Agenzia di Servizi di Vincenzo D’Anna
PRIMO PIANO 6 8
Covid, cresce l’indice Rt. Spinta ai vaccini di Emilia Monti Summer e winter school: biologi a lezione di qualità & sicurezza di Stefania Papa
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INTERVISTE
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Alzheimer e obesità di Domenico Esposito
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Neuroriabilitazione con l’effetto Michelangelo di Elisabetta Gramolini
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Sclerosi multipla e nuove cure di Domenico Esposito
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Dispositivi robotici nel corpo umano di Carmen Paradiso
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Maturazione dei neuroni e malattie del neurosviluppo di Pasquale Santilio
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L’associazione tra cuore e cervello di Sara Lorusso
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Il caffè non fa (sempre) male al cuore di Sara Lorusso
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La vista con i lampi di calcio di Chiara Di Martino
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Fumo: danni anche a muscoli e ossa di Marco Modugno
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Post-covid. Se i sintomi restano di Chiara Di Martino
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Alopecia areata autoimmune di Biancamaria Mancini
SALUTE
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Il calore contro il tumore alla tiroide di Elisabetta Gramolini
Bellezza a base d’uva di Gianpaolo Palazzo
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Anticorpi monoclonali per bloccare le metastasi di Domenico Esposito
Le erbe per la salute della pelle di Carla Cimmino
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Un nuovo trattamento per il tumore al polmone di Domenico Esposito
Legionella e Covid. Due facce della stessa medaglia? di Sonia Viggiano
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Biologi e nutrizione animale di Stefano Spagnulo
Sommario BENI CULTURALI 81
Gabriel Zuchtriegel è il nuovo direttore di Pompei di Pietro Sapia
SPORT 82
L’Italia sogna con Luna Rossa di Antonino Palumbo
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Più forti della bilancia. I “giganti” nello sport di Antonino Palumbo
AMBIENTE
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La valle dei dinosauri in Puglia di Rino Dazzo
Orgoglio Larissa con i geni di mamma Fiona di Antonino Palumbo
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“Buco” dell’ozono ed emissioni proibite di Felicia Frisi
Gli italiani “Parigini” che fanno piangere il Barça di Antonino Palumbo
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BREVI
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Legambiente: decarbonizzare caldaie e riscaldamenti di Felicia Frisi
LAVORO 90
Concorsi pubblici per Biologi
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Lo smog, grande killer invisibile di Giacomo Talignani
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L’Italia dello smog di Gianpaolo Palazzo
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Enea: metodo innovativo e low cost per controllare l’aria di Gianpaolo Palazzo
Il ruolo delle diete LCD nella remissione del diabete di Sara Lorusso
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Nuove speranze per la diagnosi precoce della PAH di Giada Fedri
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Soffochiamo i suoni dell’oceano di Giacomo Talignani
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I fragili ghiacciai del Pianeta di Giacomo Talignani
INNOVAZIONE 72
I biologi e il mercato del lavoro di Stefano Dumontet
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Biomarcatori? Nuovi nanosensori in fibra di Pasquale Santilio
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Radiofarmaci dalla fusione nucleare di Pasquale Santilio
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Macchine molecolari: il futuro della scienza di Pasquale Santilio
SCIENZE
Covid-19: inquinamento, impronta ecologica 100 e clima di Teresa Pandolfi, Giovanni Misasi e Matteo Olivieri
ECM 106 La Promozione della Salute e la Valutazione di Impatto Sanitario (VIS): nuovi orizzonti professionali per il biologo di Giorgio Liguori
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Editoriale
Ordine, non Agenzia di Servizi di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
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on sono abituato a spargere grani visione. d’incenso sull’ara votiva degli dei Ho voluto esplicitare questo stato di cose benevoli. Pertanto, non farò un per affrontare uno dei temi più spinosi che riepilogo delle cose che riteniamo riguardano la nostra categoria e in particoladi aver fatto, finora, nell’interes- re il rapporto intercorrente tra l’Ordine, cose della categoria: fatti concreti, che tutto il loro che lo dirigono, e gli iscritti. Da sempre, Consiglio dell’Ordine, nelle varie articola- infatti, l’opinione diffusa è quella che l’Orzioni di deleghe (specifiche) affidate ad ogni dine sia assente e lontano, che non voglia, singolo componente, ha contribuito a rea- oppure non possa, interloquire con assidulizzare per l’attuazione del ità ed efficacia con i propri programma presentato nella iscritti. Una sorta di idiosinfase elettorale. Di quel procrasia nella comunicazione, Abbiamo creato il gramma, il 16 luglio scorso, che alimenta una della più abbiamo verificato il grado frequenti lamentele esposte servizio My ONB, l’area di attuazione, se non anche dai colleghi. Una congettura riservata, il servizio l’aggiunta di ulteriori noviche abbiamo rilevato quantà introdotte nella gestione do, per ben tre volte, migliaNewsletter, l’App dell’Ente. ia di iscritti sono stati chiatelefonica di ONB e Con una apposita delibemati e contattati mediante razione abbiamo prodotto un apposito sondaggio di spazi dedicati in tutte le un elenco analitico di quanto opinione. realizzato nella prima metà A poco vale ricordare che Aree web e dei Social del mandato ricevuto. Ci all’insediamento del Consarebbe da chiedersi quansiglio abbiamo trovato solo ti, delle decine di migliaia di iscritti, hanno disordine organizzativo. Una stupefacente avuto modo di leggere quella deliberazione, condizione, secondo la quale per oltre ventiattraverso l’Area riservata, strumento attra- mila iscritti, erano sconosciuti finanche i più verso il quale ogni atto prodotto dall’ONB elementari parametri di contatto. Per questa può essere rilevato. Purtroppo nessuno!! massa enorme mancavano le coordinate esNon un iscritto, infatti, ha mai chiesto copia senziali per comunicare, ovvero l’utenza di di quel documento per poterne consultare telefonia mobile e l’indirizzo e-mail, mentre il contenuto. Parimenti, questo mese di feb- la PEC risultava assente (oppure non attivabraio, il Consiglio ha licenziato il program- ta) e molti recapiti postali addirittura erroma di fine mandato delle attività e dei pro- nei oppure anacronistici. Un reciproco stato getti ancora da realizzare. Ritengo che anche di incuria, una sciatteria accidiosa tra ammiin questo ultimo caso l’atto deliberativo re- nistratori ed amministrati, un “lassez faire” sterà intonso, per quanto riguarda la presa che ha portato confusione nei ruoli e nelle Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Editoriale
aspettative. Abbiamo ovviato a questa pro- dine professionale. Per capirci: diffusa ed blematica con la creazione del servizio My erronea è l’idea che l’ONB debba svolgere ONB sull’Area riservata, aggiornando, via il ruolo che è tipico di un’Agenzia di servizi via, tutti i dati degli iscritti, grazie anche alla in stile “pronto impiego”. Un mercatino ricreazione del servizio Sms, di Newsletter e onale vociante, per dirla tutta, nel quale ciacon l’App telefonica dedicata, incaricandoci scuno chiede, s’informa e prende quel di cui poi di copirire spazi in tutte le aree web e ha bisogno. Per altri, addirittura, l’Ordine social. Gli uffici ristrutturati stanno rispon- è una sorta di tutor personale, pagato con dendo, oggi, con solerzia agli interpelli e la la quota associativa, chiamato a preoccuparpresidenza stessa è spesso sollecita a dare si dei propri problemi e magari colmare le risposte scritte agli interroganti. Un ulterio- proprie lacune cognitive. La quota diventa re sforzo è stato fatto, in questa direzione, così il corrispettivo economico, una specie anche con la creazione di mirati webinar nei di elemento di scambio, a fronte dei servizi quali il presidente periodicamente si sot- resi. Così non è e non è mai stato. La quota, per quanti ancora non lo sapestopone al diretto confronto con gli iscritti. Uno sforzo che ha consentito di recupera- sero, serve per mantenere l’Ordine e per osre quasi completamente i dati mancanti e di servare la legge che prescrive al professioniintensificare il flusso delle informazioni di- sta di rispettare le regole deontologiche e di farsi rappresentare da un’enrette agli aventi diritto. In ditità pubblica e come tale colsparte le aperture delle sedi lettiva. Senza quota non ci delle Delegazioni regionaNei corsi di preparazione sarebbe l’Ordine e senza di li dell’Ordine che fungono questo non esisterebbero l’egià da punto di riferimento all’esame di Stato sercizio professionale e la tuterritoriale con i loro servizi insisteremo molto sugli tela generale del medesimo. specifici. Non basta migliorare i Tuttavia, quello che resta aspetti di conoscenza servizi né decentrare l’Orcarente è l’interesse nel sendine Nazionale in una Fedeso contrario, vale a dire da della struttura dell’Onb razione di Ordini Regionali parte dell’iscritto verso tutti e sulla funzione Autonomi se mancano le questi canali di informazioelementari basi conoscitive ne dell’ONB, ivi compreso il di ente pubblico dello scopo istituzionale che sito che, pur avendo aumenl’ente persegue e che non tato di molto gli accessi giornalieri - siamo oltre quota dodicimila acces- può coincidere con la funzione di tutoraggio si - non viene ancora consultato dall’intera personale e di erogatore di servizi all’utenza. L’Ordine non è una tassa da pagare e servizi platea dei biologi italiani. Vero è che questa è l’epoca dei social, ma è da pretendere. È molto di più. E su questo anche vero che ogni mezzo di interlocuzione insisteremo molto nei corsi di preparazione va utilizzato per acquisire conoscenza e non all’esame di Stato affinché si faccia ulteriore vivere nell’ignoranza dei problemi ponendo luce su tali aspetti di conoscenza della strute ripetendo domande alle quali, magari, è tura dell’ONB, delle competenze esclusive già stata fornita più volte un’esauriente ri- giuridiche e legali, del ruolo e della funzione sposta; oppure, peggio ancora, affidando- di ente pubblico che gli sono propri. Senza si al parere del primo di turno! Abitudine, un Ordine, infatti, la professione verrebbe quest’ultima, ahinoi, che le nuove generazio- sminuita nelle sue prerogative, aggredita ni hanno, purtroppo, trasformato in pratica da abusivi e da altre categorie concorrenti costante, con la pretesa di poter chiedere e sul mercato del lavoro. Senza Ordine si non ottenere le più svariate risposte senza aver progredirebbe legislativamente ed operatimaturato un minimo di conoscenza di base, vamente. L’Ordine è un valore collettivo e comsull’argomento e sulle relative informazioni già fornite dall’ONB. Insomma, va configu- plessivo non il compagno di merenda di corandosi e diffondendosi un’idea distorta e loro che di nulla si informano e di niente si approssimativa di cosa sia realmente l’Or- interessano. 4
Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
DELEGAZIONE REGIONALE CAMPANIA E MOLISE
“Acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche per finalità diagnostiche” Corso di abilitazione al prelievo venoso e capillare ai sensi della direttiva del Ministero della Salute DIRP/III/BIQU/OU10014/2002 del 8/7/2002, e della D.G.R. della Regione Campania n.2125 del 20/06/2003
Parte teorica in modalità FAD dal 07/04/2021 al 14/04/2021 Tirocinio in presenza presso presidio ospedaliero “San Giuseppe Moscati”, ASL Caserta in Viale Antonio Gramsci Aversa (Caserta) Corso BLSD in presenza presso la Delegazione Campania-Molise ONB in Via Toledo 156 Napoli
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Primo piano
COVID, CRESCE L’INDICE RT SERVE SPINTA AI VACCINI Per il ministro della Salute, Roberto Speranza, bisogna accelerare il piano strategico vaccinale con il progressivo aumento della consegna delle dosi di Emilia Monti
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avanti alla nuova e preoccupante crescita dell’indice Rt è necessario accelerare la campagna vaccinale. Un risultato possibile per il ministro della Salute, Roberto Speranza, anche perché «con il progressivo aumento della consegna delle dosi potremo accelerare l’attuazione del piano strategico vaccinale portato qui in Parlamento il 2 dicembre e anche la sua successiva integrazione passata in Conferenza Stato-Regioni il 3 febbraio». Il ministro, nella sua informativa al Parlamento sulle nuove misure anti Covid, sottolinea che «fra gli obiettivi strategici ai quali lavoriamo, in un rapporto quotidiano molto stretto con tutte le realtà italiane e con la struttura del Commissario all’emergenza, c’è innanzitutto la necessità di ultimare il più rapidamente possibile la prima fase della nostra campagna vaccinale per mettere in
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Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
sicurezza tutto il nostro personale socio-sanitario, le rsa ed i cittadini italiani con più di ottant’anni. Sono le categorie più esposte, quelle che hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane, nella prima e nella seconda ondata della pandemia. I primi segnali di immunità in queste categorie sono finalmente ben visibili e rappresentano un incoraggiante segnale di speranza per tutti noi». A livello nazionale la stima di prevalenza della cosiddetta variante inglese del virus Sars-CoV-2 è pari a 17,8%. Secondo i risultati preliminari della flash survey condotta dall’Iss e dal ministero della Salute nel nostro Paese, così come nel resto d’Europa (in Francia la prevalenza è del 20-25%, in Germania sopra il 20%), c’è una circolazione sostenuta della variante, che probabilmente è destinata a diventare quella prevalente nei prossimi mesi. La necessità di monitorarne attentamente la prevalenza deriva dalla sua
Primo piano
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maggiore trasmissibilità rispetto al virus originale. Dallo studio emerge anche che un attento monitoraggio consentirebbe, assieme al rafforzamento delle misure di mitigazione, di contenere e arginare gli effetti della nuova variante mentre si prosegue con le vaccinazioni, che restano comunque efficaci anche contro il virus mutato. Nei prossimi giorni l’indagine sarà ripetuta, per verificare la velocità di diffusione della nuova variante. Il virus muta continuamente e sono già state isolate centinaia di varianti, anche se la maggior parte di queste non cambia le caratteristiche del virus. La vigilanza deve restare alta però per individuare, come viene già fatto, quelle che potrebbero peggiorare la situazione in termini di trasmissibilità, sintomatologia o sensibilità nei confronti di vaccini e anticorpi, tenendo presente che questi ultimi possono essere comunque modificati per adeguarli alle versioni più pericolose.
Roberto Speranza. “I primi segnali di immunità nelle categorie vaccinate sono finalmente ben visibili e rappresentano un incoraggiante segnale di speranza per tutti noi”.
«Diversi studi internazionali sembrano mostrare che soggetti che hanno avuto il covid da meno di sei mesi con una sola dose di vaccino ottengono gli stessi livelli anticorpali, se non maggiori, di chi riceve due dosi di vaccino. Quindi in questi soggetti potrebbe bastare una sola dose» spiega Fortunato D’Ancona dell’Istituto superiore di Sanità. «È chiaramente qualcosa su cui a livello scientifico si sta focalizzando l’attenzione per, sempre in sicurezza, ottimizzare l’uso delle dosi». Il monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe rileva nella settimana 17-23 febbraio, un incremento (rispetto ai sette giorni precedenti) dei nuovi casi (92.571 contro 84.272) a fronte di un numero stabile di decessi (2.177). In lieve riduzione i casi attualmente positivi, le persone in isolamento domiciliare e i ricoveri con sintomi, mentre risalgono le terapie intensive. «Dopo quattro settimane di stabilità nel numero dei nuovi casi - afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe - si rileva un’inversione di tendenza con un incremento che sfiora il 10 per cento, segno della rapida diffusione di varianti più contagiose». Rispetto alla settimana precedente, infatti, in 11 Regioni aumentano i casi attualmente positivi per 100mila abitanti, e in 10 Regioni sale l’incremento percentuale dei casi totali. Sul fronte ospedaliero, l’occupazione da parte di pazienti Covid supera in 4 Regioni la soglia del 40 per cento in area medica e in 8 Regioni quella del 30 per cento delle terapie intensive, che, a livello nazionale, dopo 5 settimane di calo fanno registrare un’inversione di tendenza. La progressiva diffusione della variante inglese sta determinando impennate di casi che richiedono un attento monitoraggio per identificare tempestivamente Comuni o Province dove attuare le zone rosse. «Secondo le nostre analisi - spiega - l’incremento percentuale dei nuovi casi rispetto alla settimana precedente è l’indicatore più sensibile per identificare le numerose spie rosse che si accendono nelle diverse Regioni». In particolare, nella settimana 17-23 febbraio in ben 74/107 Province (68,5%) si registra un incremento percentuale dei nuovi casi rispetto alla settimana precedente, con valori che superano il 20% in 41 Province. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Primo piano
SUMMER E WINTER SCHOOL: BIOLOGI A LEZIONE DI QUALITÀ & SICUREZZA A fine marzo il webinar organizzato dalle delegazioni ONB di Toscana-Umbria ed Emilia Romagna Marche, poi subito al lavoro per un nuovo progetto di Stefania Papa*
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a qualità prima di tutto, motore neanche tanto “immobile” della ricerca scientifica. Definire questo termine non è così semplice come pure potrebbe apparire in un primo momento. Di certo non basta sfogliare un dizionario per capirne a fondo le mille sfaccettature. Per capirci: a voler dar retta all’ingegnere aerospaziale Peater Senge, la qualità è una: “vera e propria trasformazione del modo in cui facciamo le cose, del modo in cui pensiamo, del modo in cui lavoriamo insieme e dei nostri valori”. Fuor di metafora: se l’uomo non avesse improntato il proprio agire al rispetto di tale fondamentale requisito (che è anche mora-
* Consigliere Ordine Nazionale dei Biologi, Delegata Sicurezza Alimentare, Delegata ONB Regioni Toscana e Umbria, Delegata Accredia.
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le), molto difficilmente sarebbe arrivato su Marte, spalancando, così, le porte alle innumerevoli applicazioni offerte dalla moderna Esobiologia, branca emergente delle Scienze Biologiche che considera l’esistenza di forme di vita extraterrestre. Insomma: da cosa nasce cosa. Ne consegue che la qualità può essere intesa anche come una sorta di spinta “propulsiva” del bravo scienziato. O, se preferite, una specie di “pane quotidiano” del ricercatore provetto. Di sicuro è parte vitale del lavoro di quanti, tra Biologi e Biotecnologi, operano, quotidianamente, nella filiera dell’agroalimentare ed in quella della farmaceutica, lì dove, più di tutto, emerge forte il bisogno che le cose siano “fatte a regola d’arte” ad esclusiva tutela non solo dell’utente finale, ma anche dell’ambiente che ci circonda, così da metterlo al riparo da cicli produttivi troppo aggressivi ed inquinanti. Proprio da questo assunto, dalla necessità, dunque, di farsi garanti della qualità e dunque anche della so-
Primo piano
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stenibilità di alimenti e medicinali, le Delegazioni Toscana Umbria ed Emilia Romagna Marche dell’Ordine nazionale dei Biologi hanno organizzato un webinar dal titolo “La qualità in ambito biologico e biotecnologico, un valore aggiunto per il settore agroalimentare, farmaceutico & binomio vincente per l’Ambiente” che si terrà il prossimo 31 marzo (a breve sarà pubblicato il programma completo dell’evento e saranno aperte le procedure per potervi partecipare). La proposta formativa è rivolta a Biologi e Biotecnologi, con lo scopo di fornire loro quell’insieme di conoscenze teoriche e pratiche finalizzate non solo alla salvaguardia della salute, ma anche alla produzione, all’utilizzazione ed alla riutilizzazione stessa dei prodotti destinati al consumo umano. Intendiamoci. Si tratta “solo” del primo passo nell’ambito di un più vasto progetto già messo in cantiere dall’Ordine Nazionale dei Biologi che ha avuto inizio grazie agli accordi quadro stipulati con primari istituti di
Il webinar è rivolto a Biologi e Biotecnologi, con lo scopo di fornire loro quell’insieme di conoscenze teoriche e pratiche finalizzate non solo alla salvaguardia della salute, ma anche alla produzione, all’utilizzazione ed alla riutilizzazione stessa dei prodotti destinati al consumo umano. © one photo/shutterstock.com
ricerca, Università, Istituti Zooprofilattici, CNR, ACCREDIA, come da Atti Deliberativi, che mira a coinvolgere il mondo degli Atenei per l’allestimento, nei prossimi mesi, di una vera e propria “Summer e Winter School” incentrata sull’approfondimento e lo sviluppo di quelle stesse tematiche che saranno, poi, oggetto del webinar. E’ soprattutto in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, d’altronde, con la pandemia di Covid ancora in atto, che argomenti come la qualità in ambito biologico e biotecnologico, la sicurezza per il settore agroalimentare e farmaceutico, diventano di forte e sempre più stringente attualità. La gente è più attenta a quello che acquista. Si informa sull’effetto del farmaco, legge i “bugiardini”, sceglie con cura i propri alimenti, preferendo magari cibi con profili nutrizionali più equilibrati. Ebbene, ho più volte detto e sostenuto - nelle vesti di delegata ONB alla Sicurezza Alimentare - che è anche e soprattutto in questa fase così delicata per le sorti del mondo, che il “sistema” è chiamato a darsi una mossa, dotandosi di figure professionali dotate di comprovata e “speciale competenza” non solo in campo tecnico produttivo ma anche (ed in particolare) in ambito regolatorio costituendo gruppi di lavoro multidisciplinari in cui, insieme con i Biologi della Qualità e della Sicurezza alimentare (oltre che della Sicurezza Ambientale), Avvocati, Tecnici ed altri esponenti del mondo delle professioni intellettuali, possano operare come parte integrante di una vera “task force aziendale”. Progettare responsabilmente un alimento, un farmaco oltre al packaging che lo contiene, non può, infatti, non passare attraverso l’impegno di queste professionalità unicamente vocate a garantire la realizzazione e la distribuzione del prodotto finale - dopo averlo seguito lungo tutto l’arco della filiera - con la consapevolezza e la convinzione che le “nuove frontiere” della biologia applicata possano rivelarsi funzionali alla crescita sostenibile dei relativi comparti agroalimentare e farmaceutico. Il tutto, occorre sempre ribadirlo, anche a costo di ripeterci, ad esclusivo vantaggio del produttore, del consumatore e dell’ambiente. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Intervista
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LA VISTA CON I LAMPI DI CALCIO
Dan Cojoc parla dell’innovativa ricerca che porta la firma della Sissa e dell’Istituto officina dei materiali del Cnr
di Chiara Di Martino
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osa guida i nostri movimenti nella penombra, quando gli oggetti e l’ambiente circostante non sono abbastanza visibili da darci indicazioni precise? È noto da tempo che questa capacità è garantita dai bastoncelli, un tipo di cellule sensibili alla luce presenti nella retina dei vertebrati, capaci di rivelare luci bassissime. Meraviglie biologiche in grado di rivelare anche un singolo quanto di luce, dei quali, però, non si conosce ancora una descrizione completa in merito a proprietà strutturali e funzionali. Una risposta arriva da uno studio pubblicato su PNAS da ricercatori della SISSA - Scuola internazionale superiore di studi avanzati, sotto la direzione del professor Vincent Torre, neuroscienziato del Dipartimento di Neurobiologia, e dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Iom), che ha fornito il supporto tecnologico necessario sotto la guida del dottor Dan Cojoc. Il team ha unito le relative competenze per dimostrare una distribuzione non-uniforme del calcio nei bastoncelli e individuare lampi di calcio che nessuno aveva ancora ipotizzato. Dan Cojoc ci racconta di più. Dottore, ci riassume i primi passi? «L’obiettivo era scoprire come fosse distri-
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buito il calcio nei bastoncelli e quale fosse la dinamica. I bastoncelli, come sappiamo, sono costituiti da due segmenti: il segmento esterno e il segmento interno. Il segmento esterno dei bastoncelli è quello dove ha sede la macchina biologica in grado di captare la luce, mentre il segmento interno è responsabile dell’informazione da trasferire al cervello. Il primo è il responsabile dunque della fototrasduzione, il processo che converte la luce in segnale elettrico da trasmettere al cervello. Gli ioni di calcio, la cui concentrazione nel segmento esterno è un ottimo indicatore della funzionalità ed integrità della fototrasduzione, hanno mostrato una importanza determinante anche per comprenderne la distribuzione. L’apporto innovativo di questo studio è stato quello di usare una tecnica di microscopia a fluorescenza utilizzando un fluoroforo nuovo, una sostanza già esistente dal punto di vista commerciale ma mai impiegata in uno studio di questo tipo. Questa sostanza ha il vantaggio di essere meno tossica e più efficiente». Cosa è emerso? «Che invece di avere una distribuzione uniforme, esistono gradienti di calcio, quindi una distribuzione non omogenea: c’è una maggiore concentrazione di calcio alla punta del segmen-
Intervista
Chi è
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an Cojoc è nato in Romania, dove si è laureato e ha dato il via alla sua carriera. Oggi, però, ci tiene a dire che è “anche italiano”, dal momento che dal 2004 è Primo ricercatore al Cnr-Iom con sede a Trieste, città di cui è innamorato. Con un background in ingegneria ottica e fisica tecnica, ha lavorato nei campi dell’ottica, delle nanoscienze e della biofotonica fin dal 1990. Durante la sua carriera ha sviluppato numerose strumentazioni e tecniche avanzate di microscopia e spettroscopia per applicazioni in microscopia, nanotecnologia, biofisica, cellule tumorali e neurobiologia. Ha progettato e implementato più di 20 microscopi a pinzette ottiche e li ha integrati con microfluidica, diffrazione di raggi X, misurazione della forza, spettroscopia Raman, microscopia olografica, chirurgia laser per lo studio di campioni biologici come cellule viventi in condizioni fisiologiche. Al suo attivo, 137 pubblicazioni internazionali. © Aleksandar Mijatovic/shutterstock.com
to esterno rispetto alla base, cosa che aiuta a capire la struttura del bastoncello dimostrando la sua non omogeneità: non ce lo aspettavamo. Ci siamo arrivati misurando con nuove sonde ottiche la concentrazione e la distribuzione del calcio nel segmento esterno. Un secondo risultato non meno importante è la scoperta di lampi spontanei del calcio ovvero di rapidi aumenti del calcio. Questi lampi non sono distribuiti in modo uniforme ma localizzati e più forti nelle punte dei segmenti esterni, che dimostra l’esistenza di un gradiente funzionale, una proprietà fondamentale per la transduzione in fotorecettori di tutti i vertebrati». Lo studio continuerà? «È difficile dirlo, ci sono molte variabili da definire ancora. Va anche detto che alcuni degli eccellenti studiosi - tutti dottorandi durante lo svolgimento del progetto - che hanno lavorato al progetto e ai quali va dato il giusto merito – Yunzhen Li, Fabio Falleroni, Simone Mortal e Ulisse Bocchero – hanno nel frattempo ottenuto nuovi prestigiosi incarichi. C’è l’ipotesi di ristabilire il seguito del progetto, fondi permettendo». E le implicazioni concrete? «Anche questa è una domanda interessante e le assicuro che ci abbiamo pensato. Ma sareb-
L’articolo è stato inoltre raccomandato a Faculty Opinions dall’editore di PNAS, con le seguenti motivazioni: «Utilizza un nuovo metodo di misurazione del calcio per mostrare che i cambiamenti di calcio dipendenti dalla luce nel segmento esterno dei bastoncelli sono maggiori alla base rispetto alla punta»
be azzardato fare una previsione: azzardato e scorretto dal punto di vista scientifico e medico. Ricadute cliniche potrebbero essercene, ma è difficile ipotizzarle a questo stadio del lavoro: diciamo che al momento più che un dato certo, è un desiderio». L’articolo è stato inoltre raccomandato a Faculty Opinions dall’editore di PNAS, con le seguenti motivazioni: «Utilizza un nuovo metodo di misurazione del calcio per mostrare che i cambiamenti di calcio dipendenti dalla luce nel segmento esterno dei bastoncelli sono maggiori alla base rispetto alla punta», afferma il neuroscienziato Gordon Fain della University of California, che continua: «Queste differenze possono riflettere un gradiente di energia che ha origine dai mitocondri del segmento interno. Gli autori dello studio fanno anche la sorprendente osservazione che il calcio aumenta spontaneamente sia in punta che alla base (ma più spesso in punta), così come più raramente nel segmento interno. Questi aumenti producono improvvisi lampi, ovvero picchi di concentrazione di calcio, che diminuiscono lentamente per diversi secondi e che restano locali senza propagarsi all’interno del segmento esterno o tra il segmento interno ed esterno». Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Intervista
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POST-COVID SE I SINTOMI RESTANO
Uno studio clinico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha analizzato quei pazienti della prima ondata che a distanza di mesi presentavano ancora strascichi della malattia. Intervista a Serena Venturelli
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stenia, dispnea da sforzo e palpitazioni: a distanza di mesi, molti pazienti ammalatisi di Covid-19 nella prima ondata della pandemia lamentano ancora questi sintomi, in alcuni casi anche disgeusia e anosmia, la perdita dell’olfatto e del gusto, per non parlare degli strascichi psicologici. A indagare sulle conseguenze a lungo termine del virus che da ormai un anno flagella il pianeta è uno studio clinico dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Per ora, sulla rivista Epidemiology & Infection sono stati pubblicati i dati preliminari relativi a una prima metà del campione preso in esame (767 su 1562 pazienti ammalatisi tra febbraio e agosto 2020), ma il risultato è già significativo: 1 su 2 ha ancora sintomi come affaticamento, dispnea da sforzo e palpitazioni; una minima parte è ancora incapace di svolgere le normali attività e ha perso l’indipendenza o addirittura, in pochi casi, non è più autosufficiente. A raccontare più nel dettaglio come è stato strutturato lo studio è il primo autore, l’infettivologa Serena Venturelli. È stata subito chiara la necessità di “monitorare” i pazienti Covid anche dopo la guarigione? «Siamo partiti da un’osservazione ex post, perché nei primi mesi di questa malattia non si sapeva quasi nulla. La necessità era duplice: ri-
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spondere a una domanda scientifica e offrire un doveroso follow up per tutti quei pazienti che lamentavano sintomi a distanza di tempo dalla negativizzazione del tampone. Abbiamo così ricontattato pazienti che erano transitati dall’Ospedale di Bergamo, da quello di San Giovanni Bianco e dal Presidio Medico Avanzato alla Fiera di Bergamo e che in una gran parte dei casi non eravamo riusciti a seguire fino a percorso concluso, poiché trasferiti presso altre strutture». Quali le prime evidenze? «Il 51,4% lamenta ancora sintomi a una mediana di 105 giorni dall’episodio acuto; il 33% a distanza di 3-4 mesi non si definisce “guarito”. Le donne sono più sintomatiche e sofferenti degli uomini e riferiscono stanchezza con una frequenza doppia rispetto agli uomini. La dispnea auto-segnalata è presente in 228 pazienti (29,8%), di cui 52 con dispnea moderata o grave. Le prove di funzionalità respiratoria sono risultate patologiche nel 19% dei casi. 121 pazienti (16%) hanno perso indipendenza, 186 pazienti (24,2%) prendono ancora i farmaci introdotti durante il ricovero, con gli anticoagulanti tra i farmaci più frequenti». Come vi siete regolati di fronte alla persistenza dei sintomi? C’è un protocollo di cura per questi pazienti?
Intervista
La firma degli specialisti
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l lavoro porta la firma degli infettivologi del Papa Giovanni XXIII Serena Venturelli, primo autore, Marco Rizzi - direttore del reparto di Malattie infettive dell’Ospedale di Bergamo e chiamato dall’OMS al tavolo di lavoro internazionale sul tema -, Simone Benatti, Francesca Binda, Gianluca Zuglian, i pneumologi Gianluca Imeri e Caterina Conti, gli psicologi Ave Maria Biffi e Simonetta Spada, il direttore del Dipartimento di salute mentale Emi Bondi, la neurologa Giorgia Camera, la fisioterapista Roberta Severgnini, il cardiologo Andrea Giammarresi, il medico di Pronto soccorso Claudia Marinaro, l’endocrinologo Alessandro Rossini, il radiologo Pietro Bonaffini, il Direttore del Laboratorio di analisi chimico-cliniche Giovanni Guerra, il direttore del Clinical trial center Antonio Bellasi, Monica Casati e Simonetta Cesa, Direttore Direzione professioni sanitarie e sociali.
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«Nel seguirli, abbiamo praticato un’ampia serie di esami strumentali, dai classici prelievi fino a prove spirometriche, Rx torace e laddove indicato Tac ed elettrocardiogramma inclusa una valutazione psicologica; in base ai loro esiti, il 49% è stato indirizzato verso specialisti di II livello. In particolare, medicina respiratoria (281 pazienti; 36,6%), cardiologia (63; 8,2%), medicina fisica e riabilitazione (62; 8%) e neurologia (52; 6,8%). Il 30,5% dei pazienti convive ancora con sentimenti traumatici correlati a COVID-19 ma la quasi totalità si mostra resiliente di fronte alle difficoltà psicologiche, trovando il modo di reagire in modo adeguato all’accaduto. Un’offerta plurispecialistica e multiprofessionale che si è avvalsa della componente medica, infermieristica, tecnica, fisioterapica e psicologica, ricorrendo, quando necessario, anche ad altri professionisti come ostetriche, dietisti e assistenti sociali coordinati dalla Direzione professioni sanitarie e sociali dell’ASST Papa Giovanni XXIII». C’è una correlazione tra la gravità della malattia in fase acuta e la persistenza dei sintomi? «Non siamo riusciti a trovare una relazione diretta tra la serietà delle condizioni durante la condizione di positività e queste conseguenze a lungo termine. Nel senso che anche alcuni paucisintomatici (presenti nello studio perché, all’e-
Serena Venturelli, primo autore dello studio. Un ex ammalato su due ha ancora sintomi come affaticamento, dispnea da sforzo e palpitazioni; una minima parte è ancora incapace di svolgere le normali attività e ha perso l’indipendenza o addirittura, in pochi casi, non è più autosufficiente.
sordio della malattia, hanno fatto almeno un accesso in Pronto soccorso) possono mostrare lunga persistenza di sintomi. Insomma, da questo punto di vista le correlazioni sono ancora al vaglio. Quello che sappiamo è che, nel nostro campione, dall’età media di 63 anni, 668 persone sono state ricoverate e 66 di loro (8,6%) hanno anche avuto bisogno di cure ad alta intensità in Terapia intensiva. Solo 159 non hanno mai avuto bisogno di supporto di ossigeno (21%). Per tutti gli altri si è dovuto invece ricorrere all’ossigeno: in particolare 133 persone (17,8%) hanno avuto bisogno del casco a pressione positiva continua (i cosiddetti CPAP) e 62 (8,3%) di ventilazione meccanica (intubazione). Il ricovero è durato in media 10 giorni (che salgono a 30 per coloro che sono transitati in terapia intensiva), con punte di degenza ospedaliera superiore ai 60 giorni per l’8% dei pazienti». Neanche le terapie somministrate nei primi mesi dell’epidemia possono spiegare questi effetti? «No. Il meccanismo patogenico che provoca sintomi a distanza di molto tempo dal contagio è ancora poco chiaro. Il Coronavirus anche in questo si è mostrato diverso da tanti altri suoi “simili”. L’ipotesi più verosimile è sempre legata all’aspetto infiammatorio di questa malattia». (C. D. M.) Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Salute
IL CALORE CONTRO IL TUMORE ALLA TIROIDE Studio italiano dimostra i buoni risultati sul trattamento dei microcarcinomi della tiroide con la termoablazione di Elisabetta Gramolini
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a prima pubblicazione europea sull’applicazione clinica della termoablazione nel trattamento dei microcarcinomi della tiroide è italiana ed è firmata dall’Università Statale di Milano e dall’Istituto europeo di oncologia (Ieo). Lo studio, apparso su “Frontiers in Endocrinology”, è stato condotto da Giovanni Mauri, ricercatore presso l’ateneo milanese, afferente alla divisione di Radiologia Interventistica dello Ieo, in collaborazione con la divisione di Otorinolaringoiatria e Chirurgia Cervico Facciale, della divisione di ricerca applicata per le Scienze Cognitive e Psicologiche e dell’unità di Radiologia Clinico Diagnostica. Il calore che distrugge il tumore non è una novità. Da quasi due decenni la tecnica viene utilizzata per alcuni tipi di tumore e in specifiche condizioni. Contro la neoplasia del fegato, delle ossa, dei reni e del polmone, la termoablazione viene impiegata con successo evitando la chirurgia classica, certamente
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più invasiva. Solo recentemente sono stati sviluppati dispositivi da termoablazione specifici per il collo che hanno aperto la strada alla metodica, in alcuni Paesi asiatici usata spesso al posto della chirurgia mentre in Europa applicata principalmente in casi non operabili. «Alcuni autori – aggiunge Mauri hanno pubblicato su singoli casi a scopo sperimentale, in particolare in un caso si è fatta prima la termoablazione e poi l’operazione chirurgica. Oppure nei casi in cui i pazienti non erano operabili. Allo Ieo è dal 2018 che abbiamo introdotto la termoablazione nella pratica clinica anche per casi tecnicamente operabili». La sperimentazione all’Istituto milanese ha osservato 11 casi di tumori papillari della tiroide trattati con termoablazione ecoguidata, con laser o radiofrequenza. In regime di anestesia locale, i radiologi interventisti hanno inserito uno speciale ago estremamente sottile che, mediante l’energia termica, ha permesso di distruggere il tumore, preservando il tessuto sano circostante. I risultati sono stati soddisfacenti, specie per quanto riguarda la fase post-operatoria: «Nei pazienti trattati con termoablazione – spiega Giovanni Mauri – abbiamo ottenuto la distruzione radicale del tumore, senza che si verificassero complicanze ed i pazienti sono potuti tornare alle proprie attività quotidiane, già dal giorno successivo. Il trattamento, che viene effettuato in regime di day surgery e in anestesia locale, è di estrema precisione e ha consentito di mantenere del tutto integra la funzione della tiroide. Nessun paziente ha dovuto iniziare una terapia ormonale sostitutiva in seguito all’intervento e tutti hanno riportato una
massima soddisfazione e un minimo, o nullo, discomfort di poche ore in seguito al trattamento». Ai pazienti coinvolti nello studio sono state poste tre strade: la termoablazione, la sorveglianza attiva e l’operazione chirurgica. «Ad oggi – dice Mauri - la maggior parte dei centri propone la chirurgia. In alcuni si inizia a suggerire la sorveglianza attiva, nel caso in cui i tumori siano piccoli e il rischio metastasi sia basso. Sappiamo come un paziente a cui viene diagnosticato un tumore sia molto preoccupato e non sempre accetti di non intervenire. Offrire invece un trattamento mininvasivo che mantiene l’organo, ma allo stesso tempo consente di eliminare il tumore, è un’alternativa accolta molto positivamente dai pazienti. Per questo, abbiamo coinvolto la divisione di Psiconcologia che ha valutato la soddisfazione del paziente tramite uno specifico questionario». Per la buona riuscita dello studio, è molto importante la selezione delle persone destinatarie della tecnica: «Il primo step – racconta il ricercatore - è stato proporre la metodica agli otorini che hanno individuato i pazienti candidabili con tumore alla tiroide. Sui 13 giunti alla nostra valutazione, due non possedevano le caratteristiche necessarie. Era infatti sconsigliabile per loro dal momento che, se il tumore ha già invaso la capsula della tiroide, è preferibile asportare la ghiandola per via chirurgica». Una delle problematiche finora rilevate in letteratura per gli interventi in termoablazione è la difficoltà di trattare completamente tutto il tessuto tumorale. Il calore, infatti, si diffonde a partire dall’ago e va a decrescere verso la periferia. «Bisogna ottenere – osserva Mauri -
“Nei pazienti trattati con termoablazione abbiamo ottenuto la distruzione radicale del tumore, senza che si verificassero complicanze ed i pazienti sono potuti tornare alle proprie attività quotidiane, già dal giorno successivo. Il trattamento, che viene effettuato in regime di day surgery e in anestesia locale, è di estrema precisione e ha consentito di mantenere del tutto integra la funzione della tiroide”.
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una temperatura sufficientemente alta per distruggere le cellule del tumore e, in piccola parte, anche oltre, senza danneggiare le strutture circostanti. Questa è una delle difficoltà tecniche per cui è necessario avere una buona esperienza e capacità tecnica. In questo caso, abbiamo usato il mezzo di contrasto ecografico che consente di individuare la zona bruciata rispetto a dove era posizionato il tumore con grande precisione. Non rimuovendo il tumore, rimane un margine di possibiltà che non sia stata bruciata la parte periferica». Nel post-operatorio, i pazienti sono stati poi controllati per osservare la parte ablata: «Stiamo – conclude il chirurgo - ancora seguendo i pazienti controllandoli con ecografie per osservare la cicatrizzazione ed i risultati sono soddisfacenti».
I microcarcinomi papillari
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l tumore papillare della tiroide rappresenta la gran parte dei tumori della tiroide (85%) e viene generalmente trattato mediante intervento chirurgico di asportazione della tiroide, cui può associarsi un intervento di svuotamento laterocervicale dei linfonodi del collo e un trattamento mediante radioiodio, quando il tumore si sia diffuso anche al di fuori della tiroide. Se il tumore papillare è di piccole dimensioni (< 1 cm) e confinato alla tiroide, viene definito come “microcarcinoma” papillare. Questo tipo di tumore ha una bassa aggressività, e può presentare una evoluzione estremamente lenta, tanto che alcuni autori consigliano di applicare una strategia attendista di stretto monitoraggio evolutivo, con la finalità di evitare ai pazienti l’invasività di un intervento chirurgico.
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ANTICORPI MONOCLONALI PER BLOCCARE LE METASTASI La ricerca italiana sulle metastasi ossee del cancro al seno: il ruolo della proteina integrina alfa5 e la svolta del Volociximab
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n anticorpo monoclonale capace di bloccare le metastasi ossee nel tumore al seno: è questo l’obiettivo raggiunto da uno studio internazionale multicentrico pubblicato sulla rivista Oncogene, condotto da Francesco Pantano dell’Unità di Oncologia medica del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, in collaborazione con l’Inserm di Lione, l’Institut Curie di Parigi e l’Università di Amburgo. Da uno screening esteso sul genoma di pazienti affetti da tumore della mammella il team di studiosi ha identificato la proteina integrina alfa5 16 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
come uno dei fattori più coinvolti nei processi di metastatizzazione ossea, ovvero quei fenomeni che possono essere responsabili della comparsa di recidiva del tumore anche a distanza di anni dal termine dei trattamenti chirurgici e adiuvanti. Rispetto alla proteina integrina alfa5 l’equipe ha anche studiato il suo ruolo effettivo all’interno del processo di metastatizzazione, riuscendo a bloccarne l’azione mediante l’utilizzo dell’anticorpo monoclonale Volociximab, la cui elevata efficacia è stata dimostrata prima su modelli in vitro e poi in vivo. Il dottor Pantano ha spiegato: «La proteina integrina alfa 5 è il
“gancio” con cui la cellula tumorale si lega alla fibronectina, che è altamente presente nel microambiente osseo. Questo aggancio, il primo evento che porta allo sviluppo delle metastasi, viene bloccato dal Volocixamab che si frappone alle due molecole e ferma la propagazione del tumore nell’osso. Il risultato è molto promettente anche perché il farmaco è sicuro, è già stato testato e non è tossico». Già in passato Volociximab era stato studiato come farmaco anti angiogenetico per inibire fenomeni correlati alla crescita del tumore causati dall’integrina alfa5, come la creazione di nuovi vasi sanguigni (necessari alle cellule tumorali per alimentarsi), ma senza fortuna. Disporre di un farmaco che ha già superato le prime fasi di sviluppo clinico potrebbe ridurre ampiamente l’iter di sperimentazione sull’uomo, consentendo quello che in gergo viene chiamato “Drug repurposing”, un riposizionamento terapeutico del farmaco sulla base delle nuove conoscenze acquisite. Il dottor Pantano ha concluso: «Nonostante i successi degli ultimi anni nella lotta ai tumori, ascrivibili soprattutto alla diagnosi precoce e ai trattamenti adiuvanti, nelle forme avanzate o in casi di particolare aggressività della malattia il tumore al seno resta curabile, ma non sempre guaribile. In questo senso le metastasi ossee possono presentarsi anche a distanza di anni dalla fine delle cure perché una chirurgia precoce non garantisce assenza di recidiva al 100 %. Bloccare la possibilità di una diffusione a livello osseo della malattia significherebbe, non solo ridurre il dolore o le fratture che peggiorano di molto il benessere della persona, ma anche migliorare l’aspettativa di vita». Nel 2020 sono 55mila le diagnosi di tumore al seno effettuate in Italia: sebbene la mortalità sia in calo (la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi è all’87%) secondo Aiom ancora quest’anno sono morte 12.300 per via della malattia. (D. E.).
Salute
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rriva anche in Italia brigatinib (Alunbrig) in monoterapia, nuovo trattamento per pazienti adulti affetti da una particolare forma di tumore al polmone, l’Nsclc, quello non a piccole cellule in stadio avanzato e Alk positivo (chinasi del linfoma anaplastico) non precedentemente trattato con gli inibitori Alk, che affianca l’indicazione al trattamento in monoterapia di pazienti adulti con Nsclc positivo per Alk, in stadio avanzato, precedentemente trattati con crizotinib. Il farmaco, prodotto da Takeda, è un inibitore della tirosin-chinasi di nuova generazione studiato per colpire in maniera selettiva e inibire le alterazioni genetiche Alk. Lo studio registrativo di fase 3 Alta-1L, che ha esaminato la sicurezza e l’efficacia di brigatinib rispetto a crizotinib nei pazienti con Nsclc Alk positivo, localmente avanzato o metastatico, che non hanno ricevuto precedente trattamento con un inibitore Alk, ha fatto emergere la sua significativa efficacia sistemica: in confronto all’altro farmaco il rischio di progressione della malattia o decesso è sceso del 51%. In una nota Takeda spiega che i risultati mostrano l’efficacia del farmaco nella popolazione Itt, ‘intent to treat’, con una sopravvivenza libera da progressione mediana valutata come doppia rispetto a crizotinib dal comitato di revisione indipendente in cieco: 24 mesi rispetto a 11. Paolo Marchetti, professore ordinario di oncologia all’Università Sapienza di Roma, ha spiegato come nel trattamento dell’Nsclc rivesta un’importanza sempre maggiore la profilazione molecolare del tumore, che consente di aumentare le opportunità terapeutiche per specifiche tipologie di pazienti. Il professor Marchetti ha spiegato che «nel caso dei pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule avanzato, che presenta riarrangiamento del gene Alk, brigatinib rappresenta un’importante alternativa a disposizione, avendo dimostrato nello studio cli-
nico registrativo un’efficacia sistemica significativamente maggiore rispetto al farmaco di confronto (crizotinib, ndr), con un profilo di tollerabilità gestibile e un sensibile miglioramento della qualità di vita dei pazienti trattati, misurato con l’indice Global Health Score». Brigatinib ha dimostrato anche un’efficacia intracranica importante: nei pazienti con metastasi cerebrali al basale ha infatti ridotto del 75% il rischio di progressione della malattia o decesso e del 69% quello di progressione intracranica rispetto a crizotinib. Un dato non marginale se si considera
che fino al 35% dei pazienti con Nsclc Alk positivo presenta alla diagnosi metastasi cerebrali: percentuale che nel corso della malattia sale al 90%. Secondo Alessandra Bearz, dirigente medico Soc Oncologia medica e dei tumori immunocorrelati, Centro di riferimento oncologico di Aviano, Brigatinib si presenta come un «farmaco maneggevole e con grande capacità di penetrare la barriera ematoencefalica, riuscendo sia ad agire contro eventuali localizzazioni già presenti sia a prevenire la colonizzazione encefalica da parte della malattia». (D. E.).
UN NUOVO TRATTAMENTO PER IL TUMORE AL POLMONE Brigatinib in monoterapia riduce del 51% il rischio di progressione della malattia o decesso nei casi in cui si presenti l’Nsclc
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IlIl Giornale Giornale dei dei Biologi Biologi || Febbraio Gennaio 2021
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Salute
ALZHEIMER E OBESITÀ
Uno studio evidenzia che il forte sovrappeso può avere effetti negativi sul cervello
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l morbo d’Alzheimer, la malattia che cancella i ricordi e priva il cervello delle sue capacità, potrebbe essere aggravato dall’obesità. A sostenere che questa condizione possa esacerbare gli effetti della malattia neurodegenerativa sono stati ricercatori britannici e finlandesi, che in uno studio hanno ravvisato un’associazione positiva tra obesità e volume di materia grigia intorno alla giunzione temporoparietale destra, deducendo che la presenza di grasso corporeo in eccesso potrebbe giocare un ruolo nel favorire la vulnerabilità neurale. Lo studio, i cui risultati sono stati pubblicati sul Journal of Alzheimer’s Disease Reports, è stato condotto dai ricercatori dell’Università di Sheffield e dell’Università della Finlandia orientale, i quali hanno svolto un’analisi di neuroimaging multimodale. Dal lavoro emerge come detto il convincimento che il forte sovrappeso possa rappresentare un fardello per la salute dell’intero organismo e del cervello. Il team di studiosi ha analizzato in particolare le scansioni cerebrali mediante risonanza magnetica di 47 pazienti con diagnosi clinica di demenza lieve associata al morbo di Alzheimer, 68 soggetti con decadimento cognitivo lieve e 57 individui cognitivamente sani. Nella ricerca sono state utilizzate tre tecniche computazionali complementari per analizzare l’anatomia del cervello, il flusso sanguigno e le fibre cerebrali. Come ha spiegato Annalena Venneri del Neuroscience Institute presso l’Università di Sheffield, il mantenimento di un peso sano, corretto, potrebbe aiutare nella preservazio-
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ne della struttura del cervello. Si tratta di un’indicazione non secondaria considerando che ad oggi nel mondo si stimano più di 50 milioni di casi attivi di Alzheimer. A gravare sulla condizione di queste persone e a rappresentare un dolore per le famiglie che si prendono cura dei malati, vi è poi il fatto che al netto di decenni di studi e di un importante sforzo nel campo della ricerca, ancora nessuna cura si sia rivelata efficace per questo morbo. Di più: agli scienziati sfuggono ancora in maniera complessiva i meccanismi che determinano la comparsa di questa terribile malattia. Ecco perché è importante lavorare sulla prevenzione, esaminando i potenziali fattori di rischio, così cercando di intervenire per neutralizzarli. Al riguardo, gli autori dello studio rimarcano che questo lavoro non è la prova che l’obesità rappresenti una causa del morbo di Alzheimer, ma che l’importante sovrappeso potrebbe esacerbare la patologia. La dottoressa Venneri ha spiegato che l’associazione positiva tra obesità e volume di materia grigia attorno alla giunzione temporoparietale destra potrebbe infatti significare una vulnerabilità neurale negli individui cognitivamente sani e in quelli che presentano lieve deterioramento cognitivo. Anche Matteo De Marco, collega della dottoressa Annalena Venneri al Neuroscience Institute dell’Università di Sheffield, in qualità di coautore dell’articolo ha spiegato come la perdita di peso rappresenti uno dei primi sintomi riscontrati nei pazienti affetti da morbo di Alzheimer. Questa circostanza non sarebbe una casualità bensì la conseguenza del fatto che
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molto spesso i soggetti ammalati dimenticano di mangiare. Lo studio condotto dai ricercatori dell’Università di Sheffield e dell’Università della Finlandia orientale ha portato i ricercatori a scoprire che il mantenimento di un peso sano potrebbe aiutare a preservare la struttura del cervello non solo nelle persone in età avanzata, ma anche in quelle che stanno già soffrendo di demenza lieve provocata dal morbo di Alzheimer. Rispetto ad altre malattie, come spiegato dal dottor Venneri, come può accadere ad esempio per le patologie cardiovascolari o il diabete, nel caso delle condizioni neurodegenerative si assiste infatti ad una mancata attenzione da parte delle persone per quel che concerne l’aspetto relativo alla nutrizione. Quasi che l’alimentazione non fosse uno dei fattori decisivi anche per preservare la salute del cervello: in parte restando vittime dell’il-
Sono 13mila i nuovi casi di tumore del fegato registrati in Italia nel 2020. Di questi 9.100 sono stati causati dai virus dell’epatite B e C, i rimanenti da altre malattie del fegato I morti totali sono stati 7.800. Tra i fattori di rischio ci sono fumo e grave aumento di peso. © Fuss Sergey /shutterstock.com
lusione che questo organo, poiché non visibile ad occhio nudo, non abbia bisogno di cure specifiche. La ricerca pubblicata sul Journal of Alzheimer’s Disease Reports dimostra esattamente l’opposto. Questa non è comunque la prima ricerca a segnalare un legame tra l’obesità e il morbo d’Alzheimer. Nei mesi scorsi era stato uno studio realizzato dai ricercatori del dipartimento di scienze comportamentali e sanitarie dell’University College di Londra (UCL), i cui risultati erano stati pubblicati sull’International Journal of Epidemiology, a dimostrare che un cospicuo eccesso di peso in età adulta incrementa le possibilità di sviluppare una demenza (con un effetto riscontrato fino a 15 anni più tardi). Monitorando nell’arco di quindici anni più di 6.500 cittadini inglesi con più di 50 anni, sani al momento di inizio dello studio, è emerso che quasi il 7% delle persone coinvolte nello studio (453) ha sviluppato una forma di demenza. Incrociando le diagnosi con il peso registrato all’inizio della ricerca si è notato che chi era obeso, ovvero presentava un indice di massa corporea (BMI) uguale o maggiore di 30, aveva un rischio più alto (+31%) di ammalarsi rispetto agli individui normopeso indipendentemente da altri fattori rilevanti nell’origine delle malattie neurodegenerative come età, sesso (femminile), grado di istruzione, uso di fumo e altri ancora. Un motivo in più per prestare attenzione alla nutrizione e tenere sotto controllo il proprio peso. (D. E.). Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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I benefici dell’arte sui pazienti post ictus in uno studio di Irccs Fondazione Santa Lucia e Sapienza di Roma che sfrutta la realtà virtuale
NEURORIABILITAZIONE CON L’EFFETTO MICHELANGELO
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grandi capolavori dell’arte aiutano il cervello colpito da ictus. Uno studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Psychology e condotto dall’Irccs Fondazione Santa Lucia, in collaborazione con i ricercatori dei dipartimenti di Psicologia e di Ingegneria Meccanica e Aerospaziale della Sapienza e del laboratorio di Realtà Virtuale di Unitelma Sapienza, ha unito l’arte alla tecnologia della realtà virtuale per potenziare l’efficacia della neuroriabilitazione a favore di persone che, a seguito di un ictus, hanno subito danni neurologici gravi che comportano la riduzione o la perdita dell’utilizzo di un braccio o di un lato del corpo (emiplegia). In una stanza dei laboratori della Fondazione Santa Lucia, un gruppo di persone sane e un altro di pazienti colpiti tre mesi prima da ictus hanno indossato un caschetto per la realtà virtuale che li ha messi davanti a una tela bianca. A tutti è stato indicato di muovere un cursore sul piano virtuale di fronte a loro. In particolare, ai pazienti è stato chiesto di utilizzare la mano del lato del corpo paralizzato a causa della lesione al cervello. Man mano, i movimenti scoprivano l’immagine di un capolavoro artistico: dalla Creazione di Adamo di Michelangelo alla Venere di Botticelli o dei Tre Musicisti di Picasso. Al termine dell’e-
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sercizio, quando il cursore aveva percorso l’intera tela, i pazienti avevano davanti l’opera completa. L’interfaccia di realtà virtuale, adattata dal neuroscienziato e psicologo, Gaetano Tieri dell’Irccs Fondazione Santa Lucia e del laboratorio di Realtà Virtuale di Unitelma Sapienza, ha offerto la possibilità di controllare tutti i parametri dell’esercizio, monitorando nel dettaglio i movimenti e misurando i progressi del paziente. «Abbiamo costruito un set virtuale – spiega Tieri a Il giornale dei biologi - in cui sia le persone sane sia quelle colpite da ictus provavano l’esperienza. Sappiamo che quando indossa il visore di realtà virtuale si ha l’illusione di essere fisicamente presenti nella stanza ed il cervello risponde agli stimoli virtuali come se fossero reali. Abbiamo sfruttato questo vantaggio per permettere ai pazienti di fare un’esperienza altrimenti impossibile nella realtà, come dipingere un’opera d’arte. All’interno della stanza appariva ai partecipanti una tela di dimensioni naturali, il paziente poteva interagire con un joystick in tempo reale e in maniera naturale utilizzando le proprie mani». Quali sono stati i benefici? La ricerca ha dimostrato che lo stimolo dell’opera d’arte ha migliorato le prestazioni dei partecipanti. «Il paziente – afferma Tieri - è più coinvolto. Dal punto
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di vista funzionale con la realtà virtuale possiamo creare degli scenari che non sono nella realtà. In futuro, stiamo già pensando di usare stimoli diversi, come immagini ad hoc pensate per il singolo paziente. Attualmente i risultati ottenuti sono promettenti e ripeteremo la ricerca su un campione di pazienti più ampio, in modo da validare l’efficacia del trattamento proposto». Rispetto ad un gruppo di pazienti che invece ha effettuato lo stesso esercizio semplicemente colorando la tela bianca, i pazienti che hanno dipinto virtualmente un’opera, hanno riscontrato migliori risultati e un recupero più rapido nel tempo, oltre ad un minore affaticamento al termine della terapia. «Questo risultato - commenta il co-autore dello studio Marco Iosa, ricercatore presso l’Irccs Fondazione Santa Lucia e professore di Psicometria alla Sapienza Università di Roma - si inserisce in un filone di studi che, a partire dalle ricerche sui neuroni specchio, hanno affrontato il tema della risposta all’arte da parte del cervello. L’intenzione del nostro studio è stata di verificare se questi effetti positivi potessero essere sfruttati per incrementare il coinvolgimento del paziente nel percorso di neuroriabilitazione e abbiamo scoperto che, analogamente all’effetto Mozart della musico-terapia, esiste in neuroriabilitazione quello che abbiamo chiamato l’effetto Michelangelo». La Fondazione Santa Lucia non è nuova ad esperimenti che vedono l’impiego della realtà immersiva per la neuroriabilitazione. «La realtà virtuale - descrive il dottor Tieri - è uno strumento sempre più utilizzato per sfruttare la plasticità del cervello. Attraverso l’esperienza immersiva
Abbiamo costruito un set virtuale – spiega Tieri a Il giornale dei biologi - in cui sia le persone sane sia quelle colpite da ictus provavano l’esperienza. Sappiamo che quando indossa il visore di realtà virtuale si ha l’illusione di essere fisicamente presenti nella stanza ed il cervello risponde agli stimoli virtuali come se fossero reali.
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della realtà virtuale, esiste infatti la possibilità di incentivare comportamenti positivi, ad esempio un movimento fluido e controllato di una mano su una tela, e di riconoscere movimenti patologici, permettendo al cervello di ripristinare, dove possibile, la corretta funzionalità del movimento. Sempre con il professor Marco Iosa – ricorda abbiamo pubblicato i primi studi sull’equilibrio utilizzando la realtà virtuale. I pazienti erano anche in quel caso stati colpiti da ictus. Adesso stiamo facendo diversi applicativi e trattamenti. La Fondazione sperimenta nuovi protocolli riabilitativi che una volta validati potranno essere utilizzati. È bene ricordare però che non sono una modalità che soppianterà la terapia tradizionale ma sarà una aggiunta». (E. G.)
Gli stimoli della musica
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el cosiddetto “effetto Mozart” si è iniziato a parlare in relazione a una ricerca condotta nel 1993 da Frances Rauscher, Gordon Shaw e Catherine Ky che studiarono l’effetto dell’ascolto Mozart. della musica di Mozart su un gruppo di 36 persone. Pur essendo sul ragionamento spaziale, lo studio pubblicato su “Nature” divenne famoso per aver dimostrato un aumento dell’intelligenza. In seguito, Don Campbell ha dedicato un libro (L’effetto Mozart: sfruttare il potere della musica per curare il corpo, rafforzare la mente e sbloccare lo spirito creativo) in cui afferma che l’ascolto di Mozart può aumentare temporaneamente il proprio QI. La ricerca scientifica al riguardo ha prodotto negli anni risultati ed esiti controversi.
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SCLEROSI MULTIPLA E NUOVE CURE
A Genova è stata individuata una nuova terapia per combattere questa patologia neurodegenerativa attraverso l’immunosoppressione seguita da trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche di Domenico Esposito
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na terapia per la sclerosi multipla scoperta a Genova. Arriva da uno studio malattia pubblicato sulla rivista Neurology e coordinato dall’ospedale Policlinico San Martino e dal Dipartimento di Neuroscienze, Riabilitazione, Oftalmologia, Genetica e Scienze Materno-Infantili dell’Università di Genova, una buona notizia per la ricerca sulla malattia che ogni anno in Italia colpisce circa 3.400 persone. Il lavoro del professor Gianluigi Mancardi e del dottor Giacomo Boffa, che ha coinvolto venti centri italiani, per la prima volta ha dimostrato che l’intensa immunosoppressione seguita da trapianto autologo di cellule staminali ematopoietiche blocca la progressione della malattia. Al centro dello studio sono stati messi tutti i pazienti con sclerosi multipla aggressiva che hanno subito un trapianto in Italia nel periodo che va dal 1998 al 2019 e che sono stati monitorati per un follow up medio di circa sei anni. L’analisi dei dati ha mostrato come più del 60% dei pazienti non ha subito un aggravamento a dieci anni dal trapianto e
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in molti casi si è assistito anche ad un miglioramento del quadro neurologico duraturo nel tempo. Si tratta di un passo avanti per quanto riguarda la ricerca sulla sclerosi multipla, a maggior ragione considerando che ad oggi, sebbene vi siano delle terapie in grado di rallentarne la progressione, non è ancora possibile bloccarla completamente. Il professor Mancardi, tra i pionieri del trapianto autologo di cellule staminali in persone affette dalla malattia, nel corso degli anni è stato testimone di un profondo cambiamento per quanto concerne la procedura. Se inizialmente ci si rivolgeva a pazienti con una malattia in fase avanzata, ovvero con una grave disabilità, adesso il target è rappresentato da soggetti che non rispondono alle terapie. Di fatto il trapianto autologo viene anticipato nel tempo: quando ci si accorge che la persona non risponde alle terapie tradizionali, tra le opzioni più importanti vi è sicuramente il trapianto autologo. Questo consente di intervenire per tempo, quando esistono ancora delle possibilità di recupero. Il problema principale della terapia resta il
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rischio di mortalità, che comunque sta progressivamente scendendo nel tempo e adesso è intorno allo 0,3%. Lo studio retrospettivo condotto a Genova, parzialmente finanziato dalla Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), ha messo sotto la lente d’ingrandimento l’efficacia nel tempo di questo tipo di trattamento, caratterizzato dal prelievo di cellule staminali dal paziente a cui vengono re-infuse dopo un trattamento chemioterapico. All’intensa immunosoppressione iniziale, eseguita allo scopo di eliminare l’infiammazione del sistema nervoso tipica della sclerosi multipla, è seguita infatti la re-infusione delle cellule staminali ematopoietiche in precedenza raccolte dal paziente stesso, finalizzata alla formazione di un nuovo sistema immunitario meno aggressivo e più tollerante. Come sottolineato dal dottor Giacomo Boffa, il fatto che non solo più della metà dei pazienti non abbia subito un aggravamento a dieci anni dal trapianto, ma che buona parte abbia visto migliorare il proprio quadro neurologico, è estremamente importante perché
L’analisi ha mostrato come più del 60% dei pazienti non ha subito un aggravamento a dieci anni dal trapianto e in molti casi si è assistito anche ad un miglioramento del quadro neurologico duraturo nel tempo. Si tratta di un passo avanti considerando che ad oggi non esiste una cura. © pinkeyes/ shutterstock.com
i soggetti presi in considerazione presentano una forma di sclerosi multipla talmente aggressiva che spesso vengono esclusi dalle sperimentazioni cliniche: da qui deriva il fatto che per loro vi siano poche terapie a disposizione. Lo studio in questione è anche il più lungo follow up dopo trapianto realizzato: il monitoraggio è infatti un aspetto decisivo considerando che la sclerosi multipla è una patologia lenta e cronica, che richiede lunghi periodi di osservazione prima di valutare gli effetti di un trattamento. Non è raro, infatti, che i pazienti vadano incontro a una progressione silente della malattia che nei primi anni di terapia non si palesa in maniera chiara. La sclerosi multipla è infatti una malattia infida: l’età di esordio si attesta generalmente tra i 20 e i 40 anni e la maggior parte dei pazienti presenta una forma di patologia in cui il danno a livello neurologico si accumula in maniera molto lenta. Proprio su questa forma si sono sviluppate tutte le terapie approvate fino ad oggi, ma per una piccola porzione di pazienti, quasi il 10%, che deve fare i conti con forme aggressive e che rispondono poco alle terapie, la necessità è quella di agire in maniera rapida, vista la concreta possibilità che la sclerosi causi danni irreparabili nello spazio di pochi mesi se non addirittura poche settimane. Anche la professoressa Matilde Inglese, responsabile del Centro Sclerosi Multipla dell’Ospedale Policinico San Martino e dell’Università di Genova non ha nascosto il proprio entusiasmo per i risultati raggiunti dallo studio. Questi dati, infatti, sono la prova che il trapianto di staminali ematopoietiche rappresenti una procedura capace di cambiare non solo la storia della ricerca sulla sclerosi multipla ma soprattutto la prognosi dei pazienti che alla sfortuna di avere la malattia hanno aggiunto anche quella di vedersi diagnosticate delle forme aggressive e per questo dimenticate dalla scienza, finendo così per essere poco rappresentati negli studi clinici propedeutici all’approvazione di trattamenti specifici. L’altro aspetto incoraggiante dello studio genovese riguarda anche la “gittata” del trattamento, con effetti positivi che si protraggono per molti anni a venire dopo la terapia: la migliore notizia possibile per i malati di sclerosi multipla e i loro cari. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Salute
DISPOSITIVI ROBOTICI NEL CORPO UMANO La microrobotica utilizza delle apparecchiature microscopiche che si muovono in autonomia nel nostro organismo per eseguire procedure mediche non invasive
di Carmen Paradiso
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l futuro della microrobotica parla italiano. Il progetto Celloids, finanziato dallo European Research Council (Erc) con fondi Erc Starting Grants, partito lo scorso primo febbraio dalla durata di cinque anni, coordinato da Stefano Palagi, ricercatore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, consentirà a dispositivi robotici di muoversi all’interno del corpo umano, in ambienti biologici 3D complessi (come i tessuti molli del corpo). Dalle dimensioni microscopiche, questi dispositivi consentiranno di eseguire procedure mediche non invasive, navigando nei tessuti del corpo. E sarà proprio Stefano Palagi a sviluppare i primi microrobot ispirati alle cellule, o celloidi, del sistema immunitario che hanno la capacità di muoversi attraverso i tessuti corporei. Le dimensioni saranno al di sotto del millimetro, si muoveranno simulando il movimento naturale delle cellule tra i tessuti. Sarà sorprendente vederli imitare il movimento ameboide (caratteristico delle cellule), riuscire ad entrare nei tessuti, modificando costantemente la forma per entrare in spazi molto più piccoli delle loro dimensioni. Adatteranno spontaneamente la loro morfologia che genererà dei cambiamenti di forma, alimentati dai flussi auto-organizzati e dalle sollecitazioni dei loro filamenti intracellulari e delle proteine motorie. «La caratteristica innovativa di questi microrobot - spiega Stefano Palagi - è la capacità di modificare autonomamente la propria forma corporea e di adattarsi all’ambiente circostante. Muoversi e 24 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
orientarsi in autonomia dentro il corpo umano apre la strada a procedure mediche rivoluzionarie, come il monitoraggio continuativo dall’interno del corpo per scopi diagnostici o interventi non invasivi in organi molto delicati». Questa ricerca ha l’obiettivo di rendere questi minirobot in grado di eseguire procedure mediche mininvasive e localizzate, dovranno essere in grado di muoversi e operare nei tessuti del corpo. I microrobot, al cui interno saranno presenti uno sciame di particelle attive,
si muoveranno consumando l’energia presente nel loro ambiente, dirigendosi autonomamente verso il sito di interesse. Ogni microrobot avrà un corpo liquido contenente particelle semoventi e differenti particelle sensibili; lo sciame di particelle sarà ingegnerizzato per esibire comportamenti collettivi desiderati. Percepiranno segnali ambientali e segnali di controllo esterni. Consentiranno di eseguire procedure mediche rivoluzionarie, tra cui il monitoraggio a lungo termine e interventi non invasivi in organi molto delicati, come ad esempio il cervello. «Siamo orgogliosi - dichiara Christian Cipriani, direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna - di poter ospitare questo importante progetto e siamo convinti che l’Istituto di BioRobotica sia il posto ideale dove condurlo. La microrobotica per applicazioni mediche è una tema di frontiera e il progetto di Stefano Palagi conferma uno dei nostri interessi primari: individuare soluzioni tecnologiche per la salute delle persone».
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Salute
L’
attività cerebrale è governata dalla comunicazione tra neuroni eccitatori e neuroni inibitori. Recenti studi hanno conferito un ruolo fondamentale ai cosiddetti neuroni inibitori GABAergici, che utilizzano il GABA (acido y-ammino butirrico), il più comune dei neurotrasmettitori inibitori presenti nel cervello. E’ stato osservato, infatti, che alterazioni dello sviluppo e/o della funzione dei neuroni inibitori sono alla base di molte patologie dello sviluppo. Il gruppo di ricerca di Claudia Lodovichi dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche ha pubblicato un lavoro su PNAS (Proceedings og the National Academy of Sciences) che dimostra la prima evidenza dell’effetto della precoce maturazione dei neuroni GABAergici sull’insorgenza delle patologie del neurosviluppo, avendo monitorato la migrazione dei precursori neuronali (neuroblasti) attraverso la tecnica di real-time imaging a due fotoni. La Lodovichi ha spiegato: «La maggior parte dei neuroni inibitori viene generata nel corso della vita embrionale. Tuttavia, la neurogenesi persiste anche dopo la nascita lungo le pareti dei ventricoli laterali, nella zona sub-ventricolare (SVZ). I precursori dei neuroni inibitori (neuroblasti) migrano dalla SVZ verso il bulbo olfattivo, l’area cerebrale deputata all’elaborazione delle percezioni olfattive, e verso molte altre aree corticali e sottocorticali, come la corteccia prefrontale, importante per le funzioni cognitive, sociali e di esecuzione. Tale processo è presente nella maggior parte dei mammiferi per tutta la vita, mentre nei bambini si concentra nei primi mesi di vita. Si ritiene che i neuroni inibitori generati in epoca postnatale giochino un ruolo fondamentale nella plasticità neuronale, essenziale per il normale sviluppo del cervello». Alterazioni nella migrazione e/o nello sviluppo di questi neuroni po-
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MATURAZIONE DEI NEURONI E MALATTIE DEL NEUROSVILUPPO Gli studiosi dell’Istituto di neuroscienze del Cnr ha pubblicato su Pnas lo studio che sostiene che lo crescita neuronale precoce sia causa di patologie dello sviluppo
di Pasquale Santilio
trebbero quindi contribuire all’insorgenza di deficit cognitivi. La ricercatrice del Cnr ha concluso: «Con i miei collaboratori abbiamo studiato nel cervello murino l’impatto della mutazione del gene codificante Oligophrenin 1 (OPHN1), associata a disabilità intellettiva umana, sulla migrazione dei neuroni inibitori generati in epoca postnatale. Aspetti come la minor velocità e l’alterazione della direzionalità di tale migrazione sono associati a specifici deficit neuronali; in particolare, la velocità risulta significativamente ridotta a causa di alterate risposte al GABA, che ha un ruo-
lo sulla regolazione della migrazione dei neuroblasti. Finora molti studi hanno dimostrato che l’alta concentrazione di ione cloruro intracellulare, associata ad altri fattori, è coinvolta nell’insorgenza di patologie quali le sindromi di Down e Rett e alcune forme di epilessia. Per la prima volta il nostro studio dimostra che anche il difetto opposto, ovvero che la bassa concentrazione di CI dovuta ad una prevalenza di complessi KCC2 con conseguente maturazione precoce dei neuroni possa portare allo sviluppo di patologie, in particolare, di disabilità intellettiva». Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Salute
L’ASSOCIAZIONE TRA CUORE E CERVELLO Uno studio dell’Università di Oxford individua nell’irrigidimento aortico un marcatore per la futura salute cognitiva di Sara Lorusso
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siste un’associazione tra cuore e cervello che potrebbe rivelarsi una strada utile da seguire, soprattutto nell’affrontare la condizione più dolorosa di alcune malattie neuro-degenerative, il declino cognitivo. L’associazione cuore-cervello è il focus di uno studio sviluppato dai ricercatori dell’Università di Oxford e dell’University College di Londra che ha individuato nell’irrigidimento aortico in età più o meno avanzata un marcatore per la salute del cervello. A guidare il team c’era Sana Suri, ricercatrice dell’Alzheimer’s Society presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Oxford. «Il nostro studio collega la salute del cuore con la salute del cervello e ci fornisce informazioni sul ruolo potenziale di una riduzione dell’irrigidimento aortico, per aiutare a mantenere la salute del cervello in età avanzata», ha spiegato. La ricerca è stata basata su un lavoro interdisciplinare, che ha evidenziato l’utilità di un’osservazione del cervello in combinazione con altri sistemi di organi. I ricercatori hanno osservato una popolazione di 542 adulti, a
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cui era stata misurata la rigidità dell’aorta in due momenti successivi, a 64 anni e 68 anni. Gli individui osservati sono stati inoltre sottoposti ad alcuni test cognitivi e a diverse misurazioni tramite risonanza magnetica del cervello, di cui sono state valutate le dimensioni, le connessioni e l’afflusso di sangue nelle diverse regioni. In condizioni normali, l’aorta, l’arteria più grande e importante del corpo umano, con l’età tende a diventare più rigida. Prendendo come target una popolazione di mezza età o poco oltre, gli studiosi del gruppo guidato da Suri hanno scoperto che nei casi in cui l’irrigidimento dell’aorta si era verificato in una modalità più veloce rispetto a quanto atteso, si erano verificate anche altre condizioni indicative di una cattiva condizione del cervello. Gli studiosi avevano infatti rilevato un rifornimento inferiore di sangue al cervello, una connettività strutturale ridotta tra diverse regioni del cervello, una memoria peggiore. «La ridotta connettività tra le diverse regioni del cervello - ha aggiunto Suri - è un indicatore precoce di malattie neuro-degenerative come il morbo di Alzheimer e prevenire questi cambiamenti riducendo o rallentando l’irrigidimento dei grandi vasi sanguigni del nostro corpo può essere un modo per mantenere la salute del cervello e della memoria quando invecchiamo.» Generalmente le arterie si irrigidiscono più velocemente in presenza di malattie cardiache, ipertensione, diabete e altre malattie vascolari. Il processo è progressivamente più
Salute
veloce in caso di un’esposizione a lungo termine ad abitudini poco sane, come il fumo o una cattiva alimentazione. È possibile intervenire, nella maggior parte dei casi, con trattamenti medici o modificando lo stile di vita, a partire da una maggiore attività fisica. Il gruppo di autori dello studio segnala dunque come una simile associazione, se approfondita, possa indicare una strada nell’affrontare il declino cognitivo tipico delle malattie neuro-degenerative. In una società che invecchia, in cui si prevede che il numero di persone affette da demenza sarà quasi triplicato entro il 2050, identificare modi per prevenirne o ritardarne l’insorgenza potrebbe avere un impatto sociale ed economico significativo. Non a caso l’Alzheimer’s Society, la principale organizzazione di beneficenza che si occupa di demenza nel Regno Unito, ha finanziato lo studio. «La demenza - ha dichiarato Richard Oakley, responsabile della ricerca presso l’ente benefico - devasta numerose vite e famiglie, e con il numero di persone affette da demenza destinato a salire a 1 milione entro il 2025, ridurne il rischio non è mai stato così importante». Lo studio non ha cercato direttamente un collegamento tra salute del cuore e demenza, ma ha acceso un faro su una possibile connessione tra la salute dei vasi sanguigni e gli indicatori della salute del cervello. La ricerca sembra suggerire che sostenere il rallentamento dell’irrigidimento arterioso, tramite interventi medici o il cambiamento del-
La ricerca è basata su un lavoro interdisciplinare, che ha evidenziato l’utilità di un’osservazione del cervello in combinazione con altri sistemi di organi. I ricercatori hanno analizzato 542 adulti, a cui era stata misurata la rigidità dell’aorta in due momenti successivi, a 64 anni e 68 anni. © Naeblys/ shutterstock.com
lo stile di vita, potrebbe avere una ricaduta sul declino cognitivo. Già oggi sappiamo che riducendo del 10% o del 25% alcuni fattori di rischio quali diabete, ipertensione in età adulta, obesità, fumo, depressione, bassa scolarizzazione e inattività fisica, si potrebbero prevenire da 1,1 a 3 milioni di casi di demenza di Alzheimer. Lo studio britannico è stato sviluppato attraverso i dati nel sottogruppo di imaging del Whitehall II Study, una ricerca che comprendeva individui impegnati nel servizio civile britannico sottoposti a follow-up clinici per oltre 30 anni. La popolazione era composta principalmente da uomini che non avevano ricevuto una diagnosi clinica di demenza. «Senza una cura per la demenza, una maggiore attenzione è spostata sulla comprensione dei modi per prevenirne o ritardarne l’insorgenza. Il nostro studio - ha spiegato Scott Chiesa, ricercatore presso l’UCL Institute of Cardiovascular Science ci aiuta a capire quando nel corso della vita è importante puntare a migliorare la salute cardiovascolare a beneficio del cervello». «Sappiamo che ciò che fa bene al cuore fa bene anche alla testa - ha aggiunto Richard Oakley - ed è emozionante vedere la ricerca che esplora questo collegamento in modo più dettagliato. Ma abbiamo bisogno di ulteriori studi per comprendere l’impatto della salute del cuore sulla salute del cervello con l’avanzare dell’età e comprendere come ciò influisca sul nostro rischio di demenza». Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Salute
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i sono buone notizie per gli amanti del caffè. Arrivano dagli Stati Uniti, dove l’American Heart Association ha diffuso uno studio che farà tirare un sospiro di sollievo a quanti non riescono a fare a meno della caffeina. Secondo una ricerca sviluppata dall’organizzazione, che ne ha pubblicato i risultati sull’house organ “Circulation: Heart Failure”, bere una o più tazze di caffè - non decaffeinato - è associato a un ridotto rischio di insufficienza cardiaca. A questa prima osservazione, i ricercatori hanno aggiunto una constatazione complementare: bere caffè decaffeinato non ha prodotto gli stessi benefici. Questi risultati sono arrivati analizzando tre precedenti studi sulle malattie cardiache che si erano rivolti complessivamente a una popolazione di 21mila individui. Negli Stati Uniti, dove risiedevano le comunità osservate, malattia coronarica, insufficienza cardiaca e ictus sono tra le principali cause di morte per malattie cardiache. In generale, l’abitudine al fumo, l’età e l’ipertensione sono tra i più noti fattori di rischio per le malattie cardiache, ma molti altri sono i fattori ancora non identificati. «I rischi e i benefici del bere caffè sono stati oggetto di costante interesse scientifico a causa della popolarità e della frequenza del consumo in tutto il mondo - ricorda Linda Van Horn, a
capo della divisione Nutrizione del dipartimento di Medicina Preventiva presso la Feinberg School of Medicine della Northwestern University di Chicago e membro dell’American Heart Association - Gli studi che riportano associazioni sono limitati a causa di incongruenze nelle metodologie analitiche, oltre ad alcuni problemi intrinseci legati all’autodichiarazione della dieta seguita». La ricerca è stata condotta con modelli di apprendimento automatico sviluppati dalla piattaforma di medicina di precisione dell’American Heart Association: i dati della corte del primo studio analizzato, il Framingham Heart Study, sono stati confrontati con i dati dell’Aterosclerosis Risk in Communities Study, uno studio sul rischio di aterosclerosi nelle comunità, e con quelli del Cardiovascular Health Study, dedicato ai fattori di rischio delle malattie cardiovascolari. Per analizzare i risultati dell’assunzione di caffè, i ricercatori hanno classificato l’abitudine al consumo in nessuna tazza di caffè al giorno, una, due o tre o più tazze al giorno. I dati sono stati raccolti, tuttavia, sempre a partire da un’autocertificazione delle persone. Analizzando i dati, il gruppo di studiosi ha verificato come le persone che avevano riferito di aver bevuto una o più tazze di caffè al giorno mostravano un ridotto rischio associato di insufficienza cardiaca a lungo termine. E questo dato ritornava in tutti e tre gli studi. Negli studi Fra-
Uno studio dell’American Heart Association rivela possibili asso di insufficienza cardiaca. Inoltre, bere de
IL CAFFÈ NON FA (SEM
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mingham Heart e Cardiovascular Health, inoltre, il rischio di insufficienza cardiaca nel corso dei decenni è apparso diminuire per tazza di caffè al giorno dal 5% al 12%, rispetto all’assenza completa di caffè. Nello studio sul rischio di aterosclerosi, invece, il rischio di insufficienza cardiaca non variava nel range di consumo tra nessuna e una tazza giornaliera, ma risultava di circa il 30% inferiore nelle persone che ne bevevano almeno 2 tazze al giorno. Nel Framingham Heart Study bere caffè decaffeinato sembrava avere un effetto opposto sul rischio di insufficienza cardiaca, aumentandone significativamente il rischio. Tuttavia, nel Cardiovascular Health Study non è emerso alcun cambiamento del rischio di insufficienza cardiaca associata al consumo di caffè decaffeinato. Quando, poi, i ricercatori hanno esaminato ulteriormente questo aspetto, hanno scoperto che il consumo di caffeina da qualsiasi fonte sembrava essere associato a un ridotto rischio di insufficienza cardiaca e la caffeina era almeno un elemento dell’apparente beneficio. «L’associazione tra caffeina e riduzione del rischio di insufficienza cardiaca - ha spiegato David P. Kao, della University of Colorado School of Medicine e autore senior dello studio - è stata sorprendente. Il caffè e la caffeina sono spesso considerati dalla popolazione elementi “cattivi” per il cuore perché vengono associati a palpitazioni o ipertensione. La relazione costante tra l’aumento del consumo di caffeina e
Analizzando i dati, il gruppo di studiosi ha verificato che le persone che avevano riferito di aver bevuto una o più tazze di caffè al giorno mostravano un ridotto rischio associato di insufficienza cardiaca a lungo termine. E questo dato ritornava in tutti e tre gli studi. © Syda Productions /shutterstock.com © Anucha Tiemsom /shutterstock.com
la diminuzione del rischio di insufficienza cardiaca trasforma questa ipotesi». Tuttavia, avvertono gli autori della ricerca, non ci sono ancora prove abbastanza chiare per raccomandare di aumentare il consumo di caffè per ridurre il rischio di malattie cardiache con la stessa forza che sorregge l’invito a smettere di fumare, perdere peso o fare esercizio. Soprattutto è necessario ricordare che le indicazioni sulle dosi ottimali di caffè sono riferite al caffè nero, ma spesso se ne consuma una quantità aggiuntiva in bevande che lo contengono come il cappuccino o il latte macchiato, bevande spesso ad alto contenuto di calorie, zuccheri aggiunti e grassi. La ricerca di Kao e colleghi non dimostra la causalità, ma ha riscontrato in tutti gli studi analizzati l’associazione del caffè a un ridotto rischio di insufficienza cardiaca. «Il caffè può far parte di un modello dietetico sano - ha affermato Penny M. Kris-Etherton, presidente del Comitato per lo stile di vita e la salute cardio-metabolica dell’American Heart Association - a patto che venga consumato in modo semplice, senza aggiunte di zuccheri e grassi, come le creme. La linea di fondo è: gustare il caffè con moderazione, come elemento di modello dietetico sano per il cuore, che soddisfi anche le raccomandazioni sul consumo di frutta e verdura, cereali integrali, basso contenuto di grassi, di sodio e di zuccheri aggiunti». (S. L.).
ociazioni tra un consumo moderato di caffeina e un ridotto rischio caffeinati non ha portato gli stessi benefici
MPRE) MALE AL CUORE
IlIl Giornale Giornale dei dei Biologi Biologi || Febbraio Gennaio 2021
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Salute
FUMO: DANNI ANCHE A MUSCOLI E OSSA Non solo cuore e polmoni. Anche l’apparato muscolo-scheletrico risente dei danni da sigaretta. La Siot ha elaborato un decalogo di Marco Modugno
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e condo una ricerca condotta dall’Istituto Ixè, per conto della SIOT (Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia), l’89% degli specialisti Ortopedici, conferma che il fumo provoca gravi danni anche al sistema muscolo-scheletrico. Sappiamo che rappresenta un fattore di rischio per le malattie cardiovascolari, respiratorie e oncologie. Negli ultimi anni sono aumentate le campagne di sensibilizzazione per invitare i consumatori a smettere di fumare, ridurre questa cattiva abitudine o trovare delle strategie alternative al consumo quotidiano di tabacco e sigarette, tutte attività considerate fondamentali anche per salvaguardare la salute di muscoli e ossa e del sistema muscolo-scheletrico in generale. Stando ai dati che vengono forniti da Ixè, solamente il 61% dei cittadini maggiorenni conosce questo effetto negativo del fumo, percentuale che sale di un solo punto percentuale andando ad intervistare i pazienti ortopedici (il 62%) e al 64% tra i fumatori. L’indagine, condotta parallelamente su un campione di oltre 800 cittadini maggiorenni, sia fumatori che non, su circa 350 medici specialisti ortopedici e su un campione di circa 100 pazienti ortopedici, fa emergere che le maggiori conseguenze sull’apparato musco-
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lo-scheletrico derivanti dal fumo conosciute dai cittadini sono la degenerazione delle cartilagini, un più alto rischio di infezioni in caso di interventi chirurgici, ed un recupero più lungo in caso di fratture, lesione ai tendini. Dato ancora più allarmante è che il 61% dei cittadini è consapevole che il fumo provoca un maggior rischio di osteoporosi, con conseguente aumento del numero di fratture. Inoltre, il fumo ha anche la sua incidenza sul processo di guarigione delle patologie muscolo-scheletriche e degli interventi chirurgici. A confermare questo dato sono il 92% degli ortopedici intervistati, ma dato preoccupante è che solo il 57% dei cittadini ha confermato di essere stato messo a conoscenza di ciò. Consapevolezza che migliora, tra i pazienti fumatori (59%) e tra i pazienti ortopedici (61%). Si è visto che solamente nel 33% dei casi, il consenso informato che gli specialisti presentano ai pazienti tratta di queste complicanze, il 63% dei pazienti afferma di aver ricevuto domande sulle proprie eventuali abitudini da fumo in sede di colloquio, mentre c’è un buon 23% che sostiene di non averne ricevuto alcun tipo d’informazione in merito. “Nel corso dell’indagine” - spiega Margherita Sartorio Mengotti, AD dell’Istituto Ixé – “abbiamo riscontrato che la maggior parte dei cittadini maggiorenni è consapevole che il fumo può provo-
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care danni anche al sistema muscolo-scheletrico. Uno dei veicoli importanti dell’informazione in merito è rappresentato proprio dai medici ortopedici, il segmento di popolazione che ha avuto a che fare con questa categoria di specialisti è tendenzialmente più informato della media anche se non in misura significativamente diffusa. Tendenzialmente i pazienti sono consapevoli che i danni possono essere di entità importante, anche se resta ampia la fascia di popolazione che ignora i rischi derivati dal consumo di sigarette anche in caso di patologie al sistema muscolo-scheletrico”. La SIOT ha stilato un decalogo sui rischi che il fumo causerebbe al sistema muscolo scheletrico e sulle possibili strategie del contenimento dei danni: l’opportunità di valutare attentamente le abitudini da fumo del paziente; l’invito agli ortopedici di adeguare il consenso informato, allertare i pazienti dei rischi ed invitarli a smettere di fumare, soprattutto se prossimi ad intervento; informare il paziente con difficoltà a smettere di fumare della possibilità di rivolgersi a centri specializzati o sulla possibilità di prodotti alternativi come le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato. “Quando si parla di fumo - ha spiegato il prof. Francesco Falez, past president SIOT – quello della salute delle ossa è un tema spesso sottovalutato e ignorato dall’o-
Il 61% dei cittadini maggiorenni conosce questo effetto negativo del fumo, percentuale che sale di un solo punto percentuale andando ad intervistare i pazienti ortopedici (il 62%) e al 64% tra i fumatori. L’indagine, è stata condotta su un campione di oltre 800 cittadini maggiorenni. © BigBlueStudio/shutterstock.com
pinione pubblica. Attraverso questa ricerca e il Virtual Forum SIOT “Combattere il fumo fino all’osso” organizzato a giugno scorso, abbiamo voluto promuovere un’azione di sensibilizzazione e confronto prima di tutto tra gli ortopedici, poi tra l’opinione pubblica per migliorare la consapevolezza tra i pazienti e individuare strategie diverse, mirate a ridurre gli effetti negativi del fumo sulla salute del sistema muscolo scheletrico”. Secondo i dati forniti da Ixè, solo il 29% dei medici insiste affinché il paziente smetta di fumare, il 48% invece ha invitato il paziente a ridurne il consumo mentre il 14% non avrebbe affrontato l’argomento. Si aggiunge che il 52% suggerisce metodo per smettere o ridurre l’abitudine, come l’uso della sigaretta elettronica o tabacco riscaldato, l’adozione di una terapia sostitutiva della nicotina (17%), farmaci (12%), centri antifumo (9%), agopuntura (8%). “Risulta fondamentale” - conclude Falez – “aumentare la consapevolezza di come il fumo comporti un netto aumento di complicanze in caso di patologie delle ossa e di ricorso alla chirurgia ortopedica. Queste complicanze possono manifestarsi nei fumatori, ma anche negli ex fumatori, con una percentuale tra il 40 e il 50% più alta rispetto ai non fumatori, percentuale che risulta molto più elevata nei forti fumatori”. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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ALOPECIA AREATA AUTOIMMUNE Una problematica riconducibile anche a cause immunologiche, neurologiche e genetiche. La tesi più accreditata tra gli esperti, però, è che la sua eziopatologia sia autoimmune di Biancamaria Mancini
L’
alopecia areata (AA) è una delle forme più comuni di alopecia non cicatriziale ed è caratterizzata dall’improvvisa comparsa di chiazze glabre, con forma circolare o ovalare, che si possono localizzare sia sul cuoio capelluto che in altri distretti piliferi. La perdita dei capelli in loco avviene in fase di anagen e la distrofia dei capelli in fase telogen, tuttavia le cellule germinali del follicolo rimangono vitali e pertanto i follicoli non vengono distrutti mantenendo la possibilità di restitutio ad integrum della capigliatura. Nonostante i diversi tentativi di classificazione patogenetica, l’AA continua ad essere classificata solo in base alle sue varianti fenotipiche basate sull’estensione e sulla distribuzione delle lesioni di perdita di capelli. Infatti, le chiazze prive di peli possono avere dimensioni nell’ordine del centimetro, fino a coinvolgere tutto il cuoio capelluto (alopecia totalis), o nei casi più gravi l’intera superficie corporea (alopecia universalis). In alcuni casi AA è accompagnata dal coinvolgimento di altri distretti con anomalie ungueali. Il decorso
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della malattia non è prevedibile, le chiazze di AA possono ingrandirsi, rimanere stabili o avere una risoluzione spontanea. Talvolta, la ricrescita dei capelli nelle aree glabre si manifesta con capelli fini e spesso bianchi o grigi. Le cause di AA non sono del tutto chiare, possono essere immunologiche, neurologiche o genetiche, anche se l’eziopatogenesi più accreditata è quella autoimmune. Nelle cause neurologiche si studiano le anomalie nell’innervazione del follicolo. Nelle fasi iniziali dello sviluppo di AA, è stato osservato In modelli animali un aumento del numero di fibre nervose della pelle sensibili alla sostanza P. Inoltre, è stato osservato come i linfociti T citotossici CD8+ e i macrofagi presenti attorno al follicolo pilifero, esprimano NK-1R, il recettore endogeno per la sostanza P. Tali evidenze fanno pensare
Salute
Bibliografia 1. Ralf Paus. “The Evolving Pathogenesis of Alopecia Areata: Major Open Questions” Journal of Investigative Dermatology Symposium Proceedings (2020) 20. 2. Gilhar et al. “What causes alopecia areata?” Controversies in Experimental Dermatology 16 August 2013.
© Diego Cervo/shutterstock.com
che la sostanza P, l’enzima che la degrada e i recettori NK-1R, svolgano un ruolo di regolazione nella risposta infiammatoria nei tessuti cutanei colpiti da AA. A livello genetico si evidenziano una costellazione di mutazioni su geni coinvolti nella proliferazione e differenziazione dei linfociti T. Le stesse regioni del genoma, risultate coinvolte nello sviluppo di AA, sono risultate associate anche ad altre malattie che coinvolgono la risposta immunitaria quali l’artrite reumatoide o la celiachia. A livello immunitario quello che sappiamo finora è che il fenotipo acuto di perdita di capelli di un soggetto con AA richiede la presenza di 4 condizioni: 1. la presenza di un infiltrato di cellule infiammatorie secernenti IFNg attorno al bulbo dei follicoli piliferi in anagen (HF);
Il concetto di privilegio immunologico è alla base del corretto ciclo vitale del capello, infatti il capello in anagen porta ad un silenziamento del sistema immunitario verso se stesso ed è proprio questo che ne protegge la crescita anche nei casi di autotrapianto di capelli. © d1sk/shutterstock.com
2. grave distrofia dell’HF che porta alla precoce caduta del capello; 3. la regressione precoce dell’HF (precoce induzione del catagen); 4. il collasso del privilegio immunitario fisiologico. Il concetto di privilegio immunologico è alla base del corretto ciclo vitale del capello, infatti il capello in anagen porta ad un silenziamento del sistema immunitario verso se stesso ed è proprio questo che ne protegge la crescita anche nei casi di autotrapianto di capelli. Il processo autoimmunitario che determina le manifestazioni cliniche di AA determinerebbe quindi la perdita del privilegio immunologico di HF che esporrebbe il bulbo pilifero all’autoaggressione da parte del sistema immunitario e alla sua regressione. Quanto detto ci fa capire che il solo danno di HF non è sufficiente a suscitare AA, ma serve in concomitanza il collasso del privilegio immunitario e la regressione precoce di HF. Questa ipotesi stabilisce che solo nei pazienti con AA in cui vi è evidenza di una risposta autoimmune specifica dipendente da cellule CD8+ si può parlare di una vera malattia autoimmune definita proprio “alopecia areata autoimmune” (AAA). I pazienti con una storia personale o familiare positiva per altre malattie autoimmuni sono i migliori candidati per la variante AAA. Solo nei pazienti AAA ha senso cercare autoantigeni patogenici e cellule T auto reattive, indipendentemente dal fatto che questi autoantigeni siano melanociti e / o correlati alla melanogenesi o derivano da altri antigeni prodotti da HF. Oggi la sfida è proprio quella di sviluppare biomarcatori molecolari che permettano di distinguere in modo affidabile i pazienti con AAA da quelli con altre forme non autoimmuni di AA per differenziare e rendere più specifiche le terapie di intervento. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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BELLEZZA A BASE DI UVA
Il progetto Bestmedgrape, che vede coinvolti 5 Paesi del bacino Euro-Mediterraneo, è guidato dall’Università di Cagliari e ha come scopo il recupero e il riutilizzo degli scarti della macerazione delle uve per la produzione di prodotti cosmeceutici e nutraceutici nanoformulati
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on si ottiene solo vino, ma anche nanoformulati cosmeceutici e nutraceutici di alta qualità. “Merito” degli scarti provenienti dalla macerazione delle uve. Si tratta di un progetto guidato dall’Università di Cagliari denominato “Bestmedgrape” (New Business opportunities & Environmental suSTainability using MED GRAPE nanotechnological products, finanziato dal programma ENI CBC Bacino del Mediterraneo 2014 - 2020) che coinvolge Italia, Francia, Tunisia, Libano e Giordania, una decisa spinta per far affermare l’economia circolare, unendo università e aziende locali presenti nel bacino Euro - Mediterraneo. Gambi, bucce e semi d’uva sono, quindi, una miniera per il gruppo di ricercatori coordinati da Gianluigi Bacchetta. La responsabile scientifica, Maria Manconi spiega: «Siamo in grado di preparare prodotti nutraceutici e cosmeceutici, cioè prodotti da assumere per via orale oppure da applicare sulla pelle che fanno bene alla nostra salute e proteggono l’organismo dallo stress ossidativo». Al centro del progetto la vite, una pianta con liane perenni legnose e rampicanti, fornite di cirri; ha foglie intere, più o meno palmatolobate, piccoli fiori riuniti in infiorescenze a pannocchia, frutti a bacca, gli acini, riuniti in
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infruttescenze, i cosiddetti “grappoli d’uva”. Viene coltivata in tutta l’area del Mar Mediterraneo, con un notevole potenziale commerciale ancora non del tutto utilizzato. Grazie all’esperienza dei partner, il progetto punta a favorire il trasferimento tecnologico dei risultati provenienti dalla ricerca, sui possibili utilizzi dei sottoprodotti di vinificazione e aiutare la nascita di nuove start up o il rafforzamento di imprese già sul mercato. I probabili nuovi imprenditori potranno sviluppare competenze utili a: integrare la conoscenza manageriale e scientifica; accrescere la capacità di problem solving e gestionali, legate soprattutto al lavoro in gruppo; analizzare le opportunità imprenditoriali e di mercato collegate alle specifiche conoscenze scientifiche e tecnologiche del progetto; acquisire competenze relazionali e servirsi di strumenti innovativi per la presentazione delle idee, secondo standard affermati a livello internazionale (es. elevator pitch, un breve discorso utilizzato per catturare l’attenzione di vari interlocutori su un’idea di affari). Per portare avanti quanto appena detto, bisogna capire che gli avanzi di lavorazione del
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vino, spesso ritenuti difficili da smaltire, se usati convenientemente hanno grandi risorse commerciali. «L’idea nasce dall’intuizione di voler utilizzare tutto ciò che si ottiene dalla raccolta dell’uva, - fanno sapere dalla Regione Sardegna, che nel progetto è autorità di gestione - ricca di polifenoli capaci di proteggere l’organismo dallo stress ossidativo grazie alle loro proprietà antitumorali, antinfiammatorie, antinfettive e antimicrobiche. Mediante l’utilizzo delle nanotecnologie è, infatti, possibile estrarre le componenti funzionali e trasformarle in bio-attivi per la realizzazione di integratori alimentari e prodotti cosmetici». Lo scorso autunno c’è stato l’avvio dei primi laboratori per un progetto nato nel 2019, da terminare entro agosto del 2022, e che ha un investimento complessivo di 3,3 milioni di euro; 2,6 vengono dall’Unione europea (il 20% è, invece, a carico dei Governi nazionali). Le nuove start up, collaborando con le aziende viti-vinicole del territorio (in Sardegna hanno aderito le cantine Argiolas, la Icnoderm e l’Isti-
tuto tecnico “Ottone Baccaredda”), ne salvano gli scarti e ripuliscono i terreni da sostanze potenzialmente nocive per i nuovi raccolti. «Il Mediterraneo - commenta il direttore tecnico di Argiolas, Mariano Murru eletto miglior enologo italiano dall’associazione Vinoway - è la culla della civiltà enoica del mondo. Uno dei motivi per cui abbiamo partecipato al progetto è proprio la possibilità di confrontarci con altre aziende del Mediterraneo, perché questo ci darà la possibilità di crescere entrambi scambiandoci informazioni, esperienze e tradizioni». Gli scarti o vinacce vengono selezionati e coltivati nella Banca del Germoplasma presso l’Università degli Studi di Cagliari, in cui, contemporaneamente, le piante sono studiate per appurarne la vitalità e la resistenza agli stress ambientali. La divulgazione delle competenze tecnologiche per l’estrazione dei fitocompressi si realizza attraverso i living labs, organizzati dal Crea (il Centro Servizi di Ateneo per l’innovazione e l’imprenditorialità dell’Università di Cagliari) e dal Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche di Sassari): «Il tutto a beneficio di un sistema di economia circolare per i territori che - chiariscono dalla Regione - favorisce nuove realtà occupazionali e l’acquisizione di nuove competenze per quelle esistenti, grazie anche allo scambio di informazione scientifica tra tutti i soggetti coinvolti nei cinque Paesi del Mediterraneo che possono dialogare e scambiarsi informazioni e competenze tramite una piattaforma telematica istituita ad hoc». (G. P.).
Il progetto Bestmedgrape L’idea nasce dall’intuizione di voler utilizzare tutto ciò che si ottiene dalla raccolta dell’uva ricca di polifenoli capaci di proteggere l’organismo dallo stress ossidativo grazie alle loro proprietà antitumorali, antinfiammatorie, antinfettive e antimicrobiche. © Davide Catoni/shutterstock.com
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ra gli obiettivi del progetto ci sono pure la valorizzazione e conservazione della biodiversità locale, oltre alla riduzione dell’inquinamento ambientale. Attraverso il processo di estrazione di sostanze bioattive dalle vinacce, esse vengono impoverite proprio di quelle parti tossiche per i terreni, che limiterebbero anche i possibili processi biotecnologici, i quali permettono di ottenere biocombustibili. Si ha, dunque, da un lato un estratto con attività biologiche benefiche per l’organismo umano e dall’altro le vinacce, che possono essere usate come ammendanti agricoli o substrati in processi biochimici di trasformazione. Il loro riutilizzo come ammendanti ci dà la certezza di concludere positivamente il ciclo produttivo.
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LE ERBE PER LA SALUTE DELLA PELLE Effetti benefici di una miscela complessa di estratti di Agrimonia pilosa, Houttuynia cordata, Glycyrrhiza uralensis (liquirizia), Paeonia lactiflora, Phellodendron amurense di Carla Cimmino
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n questo studio, sono stati esaminati gli effetti benefici per la pelle di una miscela di estratti ottenuti da cinque piante di erbe conosciute, per la protezione della funzione di barriera cutanea, anti-infiammatoria e anti-invecchiamento. 1) L’estratto di foglie di Agrimonia pilosa, ha dimostrato di accelerare il ripristino della barriera cutanea attivando il potenziale del recettore transiente vanilloide 3 (TRPV3), gli effetti antiossidanti e antinfiammatori di A. pilosa sono stati suggeriti anche in più studi; 2) L’Houttuynia cordata, è nota per promuovere la crescita dei capelli, sovraregolare l’espressione della filaggrina e migliorare la dermatite atopica; 3) La Glycyrrhiza uralensis (liqurizia),è un’altra erba ben nota per la sua attività immunomodulante e per il ruolo antietà nel fotoinvecchiamento indotto dai raggi UVA; 4) La Paeonia lactiflora, è una specie di pianta erbacea perenne con molte varietà, che mostrano diversi tipi di fiori e colori e fornisce sostanziali benefici farmacologici, utilizzata da più di 1000 anni in Cina per trattare il dolore, l’infiammazione e i disturbi immunitari. Studi recenti hanno dimostrato che l’estratto di P. lactiflora può alleviare la dermatite allergica da contatto, la psoriasi, l’artrite psoriasica e i danni alla pelle causati dalle specie reattive dell’ossigeno (ROS); 5) Il Phellodendron
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amurense (albero del sughero dell’Amur ), conosciuto come una delle erbe medicinali tradizionali, noto per avere il potenziale di alleviare la pigmentazione della pelle, la risposta infiammatoria e l’acne vulgaris.. Considerando questi punti, preparata una miscela di estratti vegetali di Agrimonia, Houttuynia, Liquirizia, Paeonia e Phellodendron (AHLPP), è stato: esaminato se la miscela avesse un effetto significativo sull’espressione genica e sul profilo delle citochine dei cheratinociti epidermici umani e dei fibroblasti dermici; esaminato se l’estratto di AHLPP funziona anche dopo l’irradiazione γ, essendo questa irradiazione uno dei metodi più diffusi “nella sterilizzazione con radiazioni”(radiosterilizzazione). Si può considerare di utilizzare questo metodo per sterilizzare l’estratto e il polimero idrogel, per una migliore applicazione cosmetica, In tutti gli esperimenti sono stati messi a confronto l’attività dell’estratto di AHLPP di controllo e dell’estratto di AHLPP irradiato. Dopo aver concluso, che l’estratto di AHLPP irradiato è risultato stabile in termini di attività cellulare nelle cellule della pelle, è stato depositato l’estratto di AHLPP in un polimero di idrogel e co-coltivato con le cellule della pelle, per determinare se un prototipo di maschere in foglio per l’applicazione commerciale, può
Salute © Natalia van D/shutterstock.com
funzionare nel sistema in vitro. In campo medico e cosmetico gli idrogel trovano largo impiego per la loro eccellente biocompatibilità e multifunzionalità. Uno dei vantaggi dell’utilizzo di idrogel è che possiedono una struttura tridimensionale stabile, che consente lo stoccaggio di grandi quantità di vari principi attivi. I polimeri di idrogel hanno proprietà fisico-chimiche diverse a seconda dei metodi di reticolazione utilizzati nella loro preparazione, cioè, reticolazione ionica, reticolazione chimica e reticolazione radicale. Tra questi, la reticolazione ionica presenta diversi vantaggi ,come la reazione in condizioni miti, una facile manipolazione e una minore influenza sugli ingredienti attivi. Pertanto, abbiamo considerato, che il polimero idrogel reticolato con ioni può essere adatto per fornire estratti attivi vegetali per applicazioni sulla pelle. Estratti i principi attivi idrosolubili da piante essiccate: 65 g di Phellodendron amurense Rupr, 26 g di Paeonia albiflora Pallas, 14 g di Agrimonia pilosa Ledeb var. japonica, 5 g di Glycyrrhiza uralensis Fisch e 3,5 g di estratti di Houttuynia cordata Thunb, sono stati incubati con 1 L di acqua per 48 ore. Dopodiche è stato preparato un estratto liofilizzato di
AHLPP. Risultati Ottenuti 1) La miscela AHLPP ha indotto una morte cellulare sottile nei fibroblasti dermici umani e nei cheratinociti epidermici La vitalità cellulare è stata valutata misurando l’attività delle deidrogenasi NAD / NADP cellulari. Il trattamento delle cellule Hs68 (fibroblasti dermici del prepuzio umano) con estratto di AHLPP, ha mostrato poca citotossicità fino a 3 μg / mL. E’ stata analizzata se l’attività di AHLPP irradiato con γ, potesse essere alterata, il risultato ha mostrato che la pre-sterilizzazione dell’estratto di AHLPP mediante irradiazione γ non ha modificato il suo effetto sulla vitalità cellulare. L’attività dell’estratto di AHLPP sulla linea cellulare di cheratinociti umani immortali aneuploidi, HaCaT, ha mostrato una bassa citotossicità simile a quella delle cellule Hs68. Si è concluso, che AHLPP non induce citotossicità significativa a concentrazioni di 5 µg / mL, quindi il tratta-
Lo studio ha individuato una miscela di estratti ottenuti da cinque piante di erbe conosciute che danno grandi benefici alla pelle nella protezione della funzione di barriera cutanea, anti-infiammatoria e anti-invecchiamento. © itakdalee/ shutterstock.com
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mento controllato con l’estratto, può regolare la fisiologia delle cellule della pelle. 2) La miscela AHLPP sottoregola le citochine proinfiammatorie Dopo aver determinato la concentrazione trattabile di AHLPP per le cellule della pelle, è stato determinato se l’estratto di AHLPP può regolare la secrezione di citochine infiammatorie dai cheratinociti epidermici. Essendo l’epidermide la principale barriera fisica a contatto con i rischi ambientali, inclusi microbi, allergeni, inquinanti, radiazioni ionizzanti e contatti ripetitivi, le risposte immunitarie contro la presenza di microrganismi come batteri, funghi e virus sulla pelle svolgono un ruolo importante nella protezione dell’organismo. Ma, risposte infiammatorie prolungate danneggiano la salute sistemica di un organismo e spesso provocano malattie autoimmuni fatali o sindromi iperinfiammatorie. L’attivazione prolungata delle risposte infiammatorie, può innescare anche molti effetti collaterali indesiderati, come l’invecchiamento della pelle, la formazione di rughe e la pigmentazione, quindi, la sottoregolazione delle risposte infiammatorie potrebbe essere una delle strategie antietà. E’ stata quindi eseguita un’analisi della mappa termica dei risultati dell’array di citochine per alcune citochine proinfiammatorie rappresentative, ed è stato scoperto che il fattore stimolante le colonie di granulociti (G-CSF), l’interleuchina (IL) 1-β, IL 7, le monochine indotte dall’interferone gamma (MIG o CXCL9) , il fattore 1 derivato dalle cellule stromali (SDF-1 o CXCL12) e la subunità B del fattore di crescita derivato dalle piastrine (PDGF-BB), sono stati significativamente ridotti dal trattamento con l’estratto di AHLPP e con l’estratto di AHLPP irradiato con γ. È stato dimostrato che i ligandi CXCR2 e il G-CSF inducono una grave infiammazione neutrofila intraepidermica e neutrofilia sistemica, tramite l’attivazione di PKCα. IL 1-β è una delle citochine proinfiammatorie rappresentative, ed è stato anche dimostrato che IL 7 induce la secrezione di citochine infiammatorie. La MIG è caratteristica di alcuni disturbi infiammatori della pelle come l’ipersensibilità da contatto, la dermatite dell’interfaccia, la malattia da tra38 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
pianto contro l’ospite lichenoide (liGVHD) e il lichen planus. È stato dimostrato che l’asse SDF-1 / CXCR4, gioca un ruolo importante nell’infiammazione della pelle e nell’angiogenesi infiammatoria. L’attivazione di PDGF-BB / PDGFRβ è in parte responsabile della sclerosi sistemica, una malattia autoimmune cronica, che può provocare danni estesi alla pelle. I risultati dello studio mostrano che alcune citochine proinfiammatorie rappresentative, sono state sottoregolate dal trattamento dei cheratinociti umani con l’estratto di AHLPP per 48 h. In particolare, la secrezione di IL 6 proinfiammatoria, proteina 1 chemiotattica dei monociti (MCP1) e angiogenina, è risultata significativamente aumentata dal trattamento con il complesso AHLPP, ma questa secrezione non è stata modificata o aumentata con il complesso AHLPP γ-irradiato. Questo risultato implica che l’irradiazione γ ha convertito la bioattività del complesso AHLPP in modo tale, che il complesso γ-irradiato può funzionare in modo legger-
Houttuynia cordata. © wasanajai/shutterstock.com
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mente diverso rispetto al complesso AHLPP di controllo. Nel complesso, sia il controllo che le miscele del complesso AHLPP irradiato con γ, hanno influenzato i cheratinociti epidermici con una predilezione verso un destino antinfiammatorio. 3) La miscela AHLPP potenzia la funzione barriera della pelle Esaminata la funzione di barriera cutanea, perché un’adeguata protezione dai microbi nocivi e dagli inquinanti ambientali come i raggi UV, o particelle fini ambientali è essenziale per la pelle e per la salute sistemica dell’organismo. L’espressione dell’mRNA di FLG, che codifica per filaggrina ,che svolge un ruolo importante nella formazione della rete cheratinica nei corneociti dello strato corneo, è stata prima determinata per verificare se AHLPP potesse influenzare la funzione di barriera cutanea. Il trattamento con AHLPP sia di controllo che irradiato con γ, ha aumentato significativamente l’espressione di filaggrina. Esaminati altri geni della funzione barriera tra cui TGM1 e DSP. Il TGM1 codifica l’enzima transglutaminasi 1, che è espresso negli strati spinosi e granulari superiori sotto lo strato corneo più e s t e rno. I
ruoli della transglutaminasi 1 comprendono il cross-linking di proteine strutturali della pelle, come l’involucrina, la loricrina e la tricoialina. DSP codifica per la proteina desmoplakin, che funge da uno dei componenti principali per l’integrità epidermica, creando desmosomi tra i cheratinociti. In particolare, l’espressione dell’mRNA della transglutaminasi 1 e desmoplakin è stata aumentata in modo significativo solo con l’estratto di AHLPP non irradiato. Quindi l’irradiazione γ ha sterilizzato l’estratto di AHLPP e ha alterato la composizione fisica o chimica del composto. Come osservato da alcuni dati, le citochine sono espresse in modo differenziale nelle cellule trattate con AHLPP. Uno dei motivi è il cambiamento strutturale, che deriva dall’irradiazione γ e converte alcuni principi attivi dell’estratto AHLPP in forme inattive, che non possono stimolare le cellule della pelle umana. Pertanto, l’irradiazione γ potrebbe essere utilizzata per manipolare l’attività biologica nonché per sterilizzare l’ingrediente. Successivamente, è stato visto se il trattamento con l’estratto AHLPP, influenzava la sintesi della ceramide, che è uno dei principali lipidi tra i corneociti più esterni e aiuta nella funzione barriera. I geni della serina palmitoiltransferasi della subunità base a catena lunga (SPTLC), codificano la serina palmitoil transferasi, che sono essenziali per la sintesi de novo della 3-chetosfonganina, che agisce come precursore di varie ceramidi cutanee. Le proteine SPTLC1 e SPTLC2 funzionano come una fase limitante la velocità nel metabolismo della ceramide e degli sfingolipidi. SPTLC3 è un’isoforma del gene SPTLC2 e partecipa alla generazione di basi sfingioidi a catena corta. Il trattamento con l’estratto di AHLPP irradiato γ, ha sovraregolato in modo significativo l’espressione dell’mRNA di SPTLC1 e SPTLC2. Tuttavia, l’estratto di AHLPP non irradiato ha modificato solo l’espressione dell’mRNA di SPTLC2. Presi insieme, si immagina che il trattamento con l’estratto di AHLPP possa regolare la sintesi di ceramide nell’epidermide, aumentando le quantità di mRNA di SPTLC1 e SPTLC2, che sono enzimi essenziali richiesti nella fase iniziale della biosintesi per basi sfingoidi cutanee.
Paeonia lactiflora. L’epidermide è la principale barriera fisica a contatto con i rischi ambientali, inclusi microbi, allergeni, inquinanti, radiazioni ionizzanti e contatti ripetitivi. Le risposte immunitarie contro la presenza di microrganismi come batteri, funghi e virus sulla pelle svolgono un ruolo importante nella protezione dell’organismo. © volodimir bazyuk/ shutterstock.com
4) La miscela AHLPP promuove la sinteIl Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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si del collagene nelle cellule Hs68 Successivamente è stato considerato se l’estratto di AHLPP potesse influire sulla dinamica della rete di collagene dermico. Il collagene svolge ruoli funzionali e strutturali nel derma e viene progressivamente indebolito dall’invecchiamento o da stress esterni, come i raggi UV Agrimonia pilosa. e le sostanze chimiche. Il © ikwc_exps/shutterstock.com collagene viene prima sintetizzato come pre-procollagene, che viene ulteriormente trasformato in procollagene a tripla elica nel reticolo endoplasmatico. Il procollagene viene successivamente secreto nello spazio extracellulare e rilascia ulteriormente il pro-peptide scisso, per formare fibrille di collagene mature attraverso la reticolazione, per formare una fibra di collagene. E’ stata valutata la quantità di proteine del peptide C-terminale del procollagene scisso, per determinare se l’estratto di AHLPP può regolare la sintesi del collagene nelle cellule della pelle. Il supernatante dei fibroblasti umani Hs68 trattati con estratti di AHLPP ha mostrato quantità elevate di peptidi C procollagene. E’stata determnata se l’espressione dell’mRNA di COL1A1, che è uno dei tipi più abbondanti di collagene cutaneo, in particolare, se l’espressione di COL1A1 è stata significativamente sovraregolata solo nelle cellule Hs68 trattate con 0,5 μg / mL dell’estratto non irradiato. Ciò implica che il trattamento con l’estratto di AHLPP non irradiato ha facilitato l’elaborazione del procollagene, piuttosto che aumentare la trascrizione genica. Presi insieme, questi risultati suggeriscono che il trattamento AHLPP dei fibroblasti dermici 40 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
umani, potrebbe aumentare la sintesi proteica del collagene e che l’estratto potrebbe essere utilizzato come ingrediente cosmetico attivo. 5) Effetto antietà della miscela AHLPP I cheratinociti epidermici umani proliferano e si differenziano attivamente per mantenere l’integrità della pelle. Tuttavia, i cheratinociti hanno una durata di vita limitata, e le cellule invecchiate mostrano fenotipi di divisione cellulare e senescenza ridotti. Questo a volte rende difficile per le persone anziane, ricostituire le regioni danneggiate della loro pelle. Uno dei principali attori nella regolazione dell’invecchiamento dei cheratinociti è la telomerasi, che aggiunge sequenze ripetitive telomeriche protettive all’estremità dei cromosomi. E’stato analizzato se l’estratto di AHLPP può regolare l’attività dell’enzima telomerasi umana nelle cellule HaCaT. Il trattamento con controllo e AHLPP irradiato con γ, estrae l’attività della telomerasi umana significativamente sovraregolata nelle cellule HaCaT. Sono stati anche inattivati termicamente i lisati, per dimostrare che i risultati erano derivati da enzimi attivi in cellule vive. Ciò implica che gli estratti di AHLPP potrebbero influenzare direttamente l’attività enzimatica della telomerasi, per aiutare a mantenere un pool di cheratinociti vitali, prevenendo l’invecchiamento precoce. Successivamente è stato esaminato se il trattamento con questi estratti potesse regolare l’espressione di geni associati alla senescenza, come CDKN1A e CDKN1B. CDKN1A codifica per la proteina p21 che inibisce il complesso CDK2 / Cyclin E per indurre l’arresto del ciclo cellulare. La proteina p21 è anche indotta dall’accorciamento dei telomeri attraverso la via p53 in collaborazione con p16. Esaminata se l’espressione di p21 e p16 fosse influenzata dal trattamento con gli estratti AHLPP. Il trattamento delle cellule HaCaT con estratti di AHLPP per 48 ore, ha ridotto significativamente l’espressione dell’mRNA di CDKN1B che codifica per p16. Tuttavia, l’espressione dell’mRNA di p21 non ha mostrato alcun cambiamento. Analizzata l’espressione dell’mRNA del TERT umano amplificando le giunzioni di splicing all’esone 2/3 e all’esone 7/8 per valutare rispettivamente i trascritti totali e le forme attive catalitiche di TERT65. I risultati mostrano, che il trattamento con estratti di AHLPP sia di controllo, che γ-irradiati,
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ha innescato una significativa sovraregolazione delle forme attive totali e catalitiche di TERT umano. Presi insieme, questi risultati, suggeriscono che l’estratto di AHLPP, potrebbe essere utilizzato come ingrediente anti-invecchiamento, per regolare l’attività degli enzimi della telomerasi umana e l’espressione dell’mRNA di geni associati all’invecchiamento, come CDKN1A, CDKN1B e TERT. 6) Analisi dell’estratto di AHLPP irradiato γ incorporato in un polimero idrogel E’ stato depositato l’estratto di AHLPP irradiato γ in un polimero idrogel (1% p / p) senza conservanti, per determinare la citotossicità combinata e l’effetto dell’estratto γ-irradiato. Coltivazione di polimero idrogel irradiato γ, riempito con controllo e estratti γ irradiati su piastre di agar specifiche per Pseudomonas aeruginosa (ATCC n. 9027), Escherichia coli (ATCC n. 8739), Candida albicans (ATCC n. 10231) e Acinetobacter baumannii (ATCC n. 16404), non ha rivelato alcuna contaminazione microbica durante la coltura fino a 14 giorni. Successivamente è stato coltivato il polimero idrogel irradiato γ con cellule HaCaT per 48 ore e analizzato l’espressione dell’mRNA di FLG, per esaminare se gli estratti rilasciati dal polimero idrogel potevano regolare l’espressione genica delle cellule co-coltivate. Le cellule trattate non hanno mostrato una morte cellulare significativa e un’aumentata espressione di mRNA di FLG, il che implica che l’estratto di AHLPP depositato in idrogel potrebbe essere utilizzato per il beneficio della pelle. Poi esaminata l’espressione dell’mRNA di CDKN1A e CDKN2A per valutare se l’estratto potesse regolare i geni associati alla senescenza cellulare. Il CDKN2A è stato significativamente sottoregolato in conformità con l’analisi. Questi risultati indicano che: l’estratto di AHLPP irradiato con γ, mantiene la sua attività biologica anche dopo essere stato depositato nel polimero idro-
© Sofia Zhuravetc/shutterstock.com
Phellodendron amurense.
I cheratinociti epidermici umani proliferano e si differenziano attivamente per mantenere l’integrità della pelle. Tuttavia, i cheratinociti hanno una durata di vita limitata, e le cellule invecchiate mostrano fenotipi di divisione cellulare e senescenza ridotti © fujilovers/ shutterstock.com
gel, per regolare l’espressione dell’mRNA delle cellule adiacenti. E’ stato determinato se l’applicazione del polimero idrogel con l’estratto AHLPP potesse trattare la pelle a tendenza acneica. Questo studio clinico è stato condotto reclutando 10 adulti maschi e femmine con acne di età compresa tra 20 e 35 anni. In questo test, la valutazione visiva secondo il Global Acne Grading System (GAGS) e la valutazione del miglioramento del sebo utilizzando un Sebumetro (SKIN-OMAT, Cosmomed GmbH, Germania), sono state eseguite insieme per valutare l’efficacia dell’estratto AHLPP in polimero idrogel su pelle a tendenza acneica. Il risultato indica che l’uso di AHLPP ha mostrato un miglioramento dopo più di 2 settimane di utilizzo. Inoltre, la diminuzione della produzione di sebo era statisticamente significativa (p <0,001), mostrando un miglioramento di quasi il 40% dopo 4 settimane di utilizzo. Questi risultati implicano che il prodotto possa essere considerato benefico per la pelle. Tratto da “Effects of a complex mixture prepared from agrimonia, houttuynia, licarice, poeny and phellodendronon human skin cells”, di Kyung-ha Lee, Jeong Pyo Lee & Wanil Kim. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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LEGIONELLA E COVID DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA? Similitudini e differenze tra il Sars-Cov-2 e legionellosi. Panoramica sulle strtegie di contimento e di sorveglianza ambientale
di Sonia Viggiano 42 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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ell’ultimo anno l’umanità è stata colpita da un’epidemia nota come SARS CoV-2 che ha coinvolto tutta la popolazione mondiale con conseguenze anche letali nell’ordine del 4 - 5%, con polmonite di forma virale. Questa forma di contagio aggredisce le basse vie respiratorie, e ha molto in comune con un microrganismo di forma batterica conosciuto, studiato e talvolta trascurato che ha percentuali di letalità molto più alte che sfiorano il 15%. Dovendo fare un raffronto tra i due microrganismi ciò che li differenzia è la contagiosità che, nel caso della legionellosi non avvenendo attraverso il contatto interumano, la rende una epidemia se pur mondiale ma di modestissime dimensioni. Ma, affrontiamo meglio le caratteristiche di questo batterio oggetto di studio sia del suo habitat sia della sua trasmissibilità e della sua vulnerabilità che, attraverso processi di bonifica continui ed appropriati, ha ridotto la sua contagiosità e la sua pericolosità laddove è stato possibile intervenire. Contro la legionella non si vince ma si convive... Alla legionella piace restare nascosta in mezzo alla gente ma prima di manifestare i sintomi possono passare anni e a quel punto quando arriva l’epidemia è irrefrenabile...Certo ci sono soggetti più predisposti a contrarre la malattia. La Legionella appartiene alla famiglia delle Legionellaceae, attualmente si conoscono 61 specie diverse (sottospecie incluse) e circa 70 sierogruppi. Sebbene Legionella pneumophila sia considerata quella a maggior rischio infettivo, anche altri sierogruppi sono frequentemente associati a infezioni nell’uomo così come altre specie comunemente indicate come Legionella species (L.anisa, L.bozemanii, L.dumoffii, L.longbeachae, L.micdadei), un tempo ritenute ambientali e raramente patogene. Dati recenti riportano la comparsa di nuovi sierogruppi responsabili di casi clinici di endocardite e polmonite, come L.cardiaca, L.nagasakiensis e L.steelei. La Legionella è un bacillo Gram-negativo. Questi batteri sono aerobi, asporigeni, mobili per la presenza di uno o più flagelli ed hanno dimensioni che vanno da 0,3 a 0,9 μm di larghezza, da 1,5 a 5 μm di lunghezza, mentre in coltura sono frequenti forme Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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filamentose lunghe fino a 20 μm. Anche se sono Gram-negativi, la parete cellulare delle legionelle è atipica per la presenza di acidi grassi a catena ramificata. Sotto l’aspetto biochimico questi batteri non mostrano alcuna attività fermentativa dei carboidrati ma hanno una debole attività ossidasica e catalasica e una buona attività gelatinasica. La fonte di energia per il mantenimento dello stato vitale delle legionelle è presente in alcuni amminoacidi come cisteina, arginina, isoleucina, metionina e la loro crescita è stimolata da composti del ferro. Le legionelle sono ampiamente diffuse in natura, in particolar modo risultano essere associate alla presenza di acqua (superfici lacustri e fluviali, sorgenti termali, falde idriche ed ambienti umidi in genere). Esse prediligono gli habitat acquatici caldi: si riproducono tra (25 e 42)°C, ma possono sopravvivere per diverse ore a 50°C mentre a 70° C, quando non si trovano in simbiosi con alcuni microrganismi, esse vengono distrutte in modo istantaneo. Questi batteri presentano anche una buona sopravvivenza in ambienti acidi e alcalini, sopportando valori di pH compresi tra 5,5 e 8,1. La facilità con cui Legionella si riproduce nell’ambiente naturale è in contrasto con la difficoltà a crescere sui terreni di coltura artificiali dal momento che le legionelle per poter essere isolate in laboratorio necessitano di terreni di crescita molto selettivi, spesso caratterizzati da antibiotici in modo da poter favorire solo l’isolamento di Legionella. Il paradosso esistente tra l’ubiquitarietà 44 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
delle legionelle in ambiente naturale e la difficoltà di crescita in un contesto artificiale può essere spiegato dalla capacità di questi batteri di entrare e moltiplicarsi all’interno di protozoi ciliati ed amebe, i quali costituiscono una fonte di nutrimento e di protezione dalle condizioni ambientali sfavorevoli grazie anche alla capacità delle amebe di produrre forme di resistenza come le cisti. L’infezione all’interno di protozoi permette ai batteri di acquisire una spiccata virulenza. Occorre anche tener conto della capacità delle legionelle di formare biofilm, infatti, negli impianti idrici è possibile trovare la presenza di legionelle sia in forma libera che in forma ancorata al biofilm, il quale viene definito come una comunità microbica costituita da microrganismi (batteri, protozoi, virus, miceti etc.) adesi irreversibilmente ad un substrato e immersi in una matrice esopolisaccaridica prodotta da essi stessi. I biofilm costituiscono un terreno fertile per molti germi patogeni come E. coli o Legionella, proteggendoli da influenze chimico-fisiche. I microrganismi presenti nei biofilm sono estremamente resistenti ai disinfettanti. Si può supporre che anche i batteri acquatici possano influenzare positivamente o negativamente la sopravvivenza di Legionella. Molti batteri, ad esempio, possono esprimere una attività inibente nei confronti di Legionella grazie alla possibilità di produrre batteriocine o Bacteriocin-Like Substances (BLS), molecole di natura proteica dotate di potere inibente nei confronti di microrganismi appartenenti alla stessa specie o strettamente correlata. I batteri della Legionella sono presenti nei fiumi, nei laghi, nei pozzi e nelle acque termali. Comunque, la sola presenza di questi batteri non costituisce pericolo per le persone. I batteri diventano pericolosi solo quando sussistono contemporaneamente le seguenti condizioni: 1) Temperatura ottimale di sviluppo va-
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ria da 25°C a 42°C. La crescita dei batteri è massima a circa 37°C; 2) Presenza di ambiente aerobico; 3) Presenza di elementi nutritivi, biofilm, scorie, ioni di ferro e di calcare, altri microrganismi; 4) Nebulizzazione dell’acqua con formazione di microgocce aventi diametri variabili da 1 a 5 micron; 5) Alto livello di contaminazione, generalmente si ritiene che tale livello debba superare i 1000 CFU/L (o UFC: unità formanti colonie) è l’unità di misura con cui si valuta la contaminazione dell’acqua e indica la quantità di microorganismi presenti in un litro d’acqua. Fattori chimici che possono condizionare lo sviluppo di Legionella sono riferibili agli ioni d’Argento (Ag++) e Rame (Cu++) che risultano inibitori, quindi, secondo alcuni autori, le tubature in rame inibiscono la colonizzazione. Per contro, i siliconi, il teflon, favoriscono l’adesione e il caucciù (giunti e ranelle) favoriscono uno sviluppo intenso. In genere, tutti i materiali che rilasciano in un ambiente liquido delle particelle organiche utilizzabili microbiologicamente, favoriscono la colonizzazione da parte della Legionella. La malattia viene normalmente acquisita per via respiratoria mediante inalazione di aerosol prodotto da rubinetti,
docce, vasche con idromassaggio, torri di raffreddamento, fontane ornamentali, pratiche mediche che prevedono la nebulizzazione di acqua, come quelle odontoiatriche, o da impianti destinati ad uso irriguo. Sino ad oggi non è stata documentata trasmissione interumana, pertanto l’unica fonte di infezione risulta l’ambiente. I moderni condizionatori non sembrano essere incriminati come possibile sorgente di infezione, dal momento che non si verifica più il contatto tra aria e acqua di condensa, cosi come avveniva per quelli di vecchia generazione. Il rischio di acquisire la malattia e correlato alla suscettibilità dell’ospite determinata da fattori individuali (età avanzata, sesso maschile, fumo di sigaretta), patologie predisponenti (malattie croniche e immunodeficienza) e fattori di rischio ambientale quali temperatura dell’acqua [20-50°C], presenza di biofilm e caratteristiche della struttura (dimensioni, impianto centralizzato con ampi collettori, torri di raffreddamento, utilizzo stagionale o discontinuo della
Sotto l’aspetto biochimico questi batteri non mostrano alcuna attività fermentativa dei carboidrati ma hanno una debole attività ossidasica e catalasica e una buona attività gelatinasica. © Syda Productions /shutterstock.com
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struttura o di una sua parte) e dell’impianto (vetusta, ristagno, incrostazioni, depositi di calcare, rami morti, serbatoi di accumulo, fenomeni di corrosione e usura, utilizzo saltuario delle fonti di erogazione, pregressa contaminazione da Legionella. La polmonite da Legionella ha dei sintomi che sono spesso indistinguibili da polmoniti causate da altri microrganismi e, per questo motivo, la diagnosi di laboratorio della legionellosi deve essere considerata complemento indispensabile alle procedure diagnostiche cliniche. Gli accertamenti di laboratorio devono essere attuati possibilmente prima che i risultati possano essere influenzati dalla terapia e devono essere richiesti al fine di attuare una terapia an© Maridav/shutterstock.com
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tibiotica mirata, contenere così l’uso di antibiotici non necessari, evitare effetti collaterali, l’insorgenza di microrganismi antibiotico resistenti, ed in ultimo, ma non meno importante, ridurre i tempi di degenza e le spese sanitarie del nostro paese. Test diagnostici per la legionellosi dovrebbero essere idealmente eseguiti in tutti i seguenti casi di polmonite: -in pazienti con malattia severa che richieda il ricovero in un reparto di terapia intensiva; -in pazienti che riferiscano fattori di rischio (BPCO, neoplasie, diabete, insufficienza cardiaca, immunodepressione); -in pazienti che siano stati esposti a Legionella durante un’epidemia; -in pazienti in cui nessun’altra eziologia è probabile. La sensibilità e specificità dei metodi diagnostici per L. pneumophila sierogruppo 1 sono elevate mentre sono inferiori per altri sierogruppi di L. pneumophila o per altre specie di Legionella. I metodi di diagnosi per l’infezione da Legionella correntemente utilizzati sono i seguenti: -Isolamento del batterio mediante coltura; - Rilevazione di anticorpi su sieri nella fase acuta e convalescente della malattia; - Rilevazione dell’antigene urinario; - Rilevazione del batterio nei tessuti o nei fluidi corporei mediante test di immunofluorescenza; - Rilevazione del DNA batterico mediante PCR. Per quanto riguarda la ricerca di Legionella in campioni di provenienza ambientale a livello internazionale sono state redatte due norme che descrivono la determinazione di Legionella in matrici ambien-
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tali. Il laboratorio di riferimento per la diagnosi ambientale delle Regioni è l’A.R.P.A ossia l’Agenzia Regionale per l’Ambiente. Essa ha il compito di valutare le diverse strategie impiegate per la disinfezione dell’acqua sanitaria, verificando in particolare, la validità delle diverse procedure per il contenimento e la gestione del rischio idrico in strutture sia pubbliche che private. La sorveglianza ambientale costante della Legionella spp., resta una delle strategie di prevenzione e controllo del rischio di legionellosi più efficace: essa consente di monitorare nel tempo i livelli di contaminazione e di applicare di volta in volta gli interventi di bonifica più appropriati. Negli ultimi anni gli studi da me condotti a seguito di casi conclamati in numerose strutture pubbliche (in particolare il presidio Ospedaliero di un’Azienda Sanitaria Locale ASL) e private della regione Basilicata si sono rivolte all’A.R.P.A.B. per affrontare la difficile questione della legionella. Sono state monitorate nel tempo strutture dislocate su tutto il territorio lucano. È stato possibile valutare il livello di contaminazione da Legionella spp negli impianti idrici e delineare, parzialmente, la situazione nella nostra realtà regionale. Dopo il campionamento legionella spp, si è proceduto con l’identificazione valutando caratteristiche fenotipiche e genotipiche. I metodi fenotipici utilizzati hanno valutato caratteristiche che possono essere presenti in ceppi diversi di questa specie batteriche. L’IDENTIFICAZIONE della SPECIE e DEI SIEROGRUPPI DI LEGIONELLA È STATA EFFETTUATA SU BASE antigenica CON TEST SIEROLOGICI CHE HANNO UTILIZZATO ANTICORPI POLICLONALI E /O MONOCLONALI MEDIANTE SAGGI DI AGGLUTINA-
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La sorveglianza ambientale costante della Legionella spp., resta una delle strategie di prevenzione e controllo del rischio di legionellosi più efficace: essa consente di monitorare nel tempo i livelli di contaminazione e di applicare di volta in volta gli interventi di bonifica più appropriati. © kosmos111 /shutterstock.com
ZIONE AL LATTICE, AGGLUTINAZIONE DIRETTA SU VETRINO, TEST IMMUNOCROMATOGRAFICO, IMMUNOFLUORESCENZA DIRETTA E Indiretta. QUESTA TECNICA È STATA UTILIZZATA al fine di identificare un ceppo batterico a livello della specie, utilizzando geni conservati di procarioti che possono essere usati come orologi molecolari in grado di esprime la filogenesi dei batteri, il più noto è il gene codificante per la subunità ribosomale 16 S. Il gene che codifica per il 16s rRNA è una regione altamente conservata tra le differenti specie di procarioti. I risultati di tale applicazione mi hanno permesso di confermare l’identificazione di legionella pneumophila appartenente sia al SIEROGRUPPo 1sia ai SIEROGRUPPI 2-14 nei luoghi da me esaminati... Quindi pur trattandosi di due microrganismi differenti con azione e trasmissibilità differenti e con contagiosità che nel caso della legionella pneumpphila nn avviene con il contatto interumano e non ha una elevata contagiosità ma una preoccupante letalità, essi sono accomunati dall’effetto che hanno sull’organismo umano producendo entrambi danni a livello polmonare e risultando particolarmente letali su soggetti anziani e con patologie pregresse. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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BIOLOGI E NUTRIZIONE ANIMALE
Un ambito occupazione nel quale il professionista può lavorare con autonomia e competenza
di Stefano Spagnulo
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l percorso svolto durante la frequenza presso l’Istituto Tecnico Agrario Giovanni Presta di Lecce diede una buona ed autentica preparazione sulla materia zootecnia, alimentazione e nutrizione degli animali da compagnia e da reddito. Quando scelsi il percorso universitario lo feci soprattutto dopo aver letto l’Art. 3 Legge 396/67 sulla nostra professione ove si evince che il Biologo può occuparsi della determinazione del fabbisogno energetico e nutrizionale degli umani, degli animali e delle piante. Il presente lavoro è rivolto a tutti i colleghi che desiderano sapere se, e come, il biologo può approcciarsi a questo meraviglioso campo dopo un’adeguata ed approfondita formazione. Da quando avevo 6 anni alimento tutti gli animali. In difficoltà e non, e da biologo appassionato e onorato del suo percorso desidero informarvi di questa meravigliosa branca della nostra professione. Il fabbisogno di alimenti e nutrienti di ogni animale è necessariamente associato alla sua conformazione e prestanza fisica. Ci sono animali che possono vivere senza svolgere particolari movimenti, altri invece se non svolgono una concreta attività fisica rischiano di divenire obesi. Come mai tutto questo? Dall’altra parte, l’uomo, quale percezione ha dell’alimentazione animale e in particolare di quella del suo cane quando lo
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acquista o lo adotta? Belle domande davvero, se si pensa alla possibile semplicità delle risposte. Un animale come un uomo basta che mangi, giusto? Ma credetemi non è così semplice come sembra, in quanto se già per l’uomo è fissa la “regola biologica” siamo quello che mangiamo, quale percezione prende “l’essere” di un animale, se lo alimentiamo come desideriamo noi e non veramente secondo il suo reale fabbisogno? Al professionista giungono molti casi di persone che desiderano alimentare il proprio cane secondo i propri usi e costumi. Dottore ma perché non una dieta vegana o vegetariana? Perché non una dieta naturale? Perché non una dieta… ecc. ecc. ecc. Sono tutte delle domande di chi in realtà non si è mai chiesto cosa sia un cane, aldilà di averlo scelto o meno come un essere vivente che assolverà solo ed esclusivamente il compito di compagno e apportatore di compagnia. Facciamo un esempio razionale. Molta gente sceglie come cane da compagnia e da tenere in casa il “Labrador retriever”. Razza, come tante altre, perfettamente equilibrata nel comportamento affettuoso con l’uomo, giocherellone e fedele. Molto spesso però si sceglie questo tipo di razza (affermazione risultante dalla mia esperienza personale) solo perché la si vede nelle pubbli-
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cità con cuccioli affettuosi. Oppure molte razze si diffondono dopo che vengono ad essere mostrate in dei film molto commuoventi e toccanti, magari addirittura segnanti persone che hanno condiviso ciò che viene ad essere dimostrato in tv. Questo meccanismo crea una percezione del cane per l’uomo che molto spesso trasuda da quella che è la vera natura delle cose. Prima di affidarsi ad una razza specifica è opportuno studiare la sua natura e rispettarla, oppure adottarlo solo per piacere della cosa? Credo che la prima opzione sia quella giusta. In questo discorso l’alimentazione tocca effettivamente tutti i concreti orizzonti degli eventi. Si alimenta il cane con alimentazione naturale solo perché la natura è bella o perché il naturale fa bene? Poi, qual è il significato di alimento naturale? Alimento che semplicemente non è cotto o perché ce lo dà natura? Allora pochi alimenti in realtà sono naturali. Poi è opportuno alimentare il cane senza prodotti di origine animale con un’alimentazione vegana, oppure con le “paleo-diete”? Vi posso assicurare che giungono da me ogni forma di richiesta solo ed esclusivamente perché al cane si vuole dare la percezione di noi stessi. Sta cadendo quello che è il principio di etica animale. Cioè il rispetto! Ci sono degli usi specifici e anche giustificati con dei razionali riguardo ai differenti modelli di dieta. Ma quanti oramai
proprietari propongono al loro cane la dieta della moda solo perché il termine dieta è divenuto una moda. Il termine dieta sta per “stile di vita” cioè quello che siamo. Un Labrador retriever è un cane selezionato e istituito per la raccolta della pesca impegnativa in mare. Un cane che deve svolgere un consumo di energia giornaliera tale da bruciare grassi corporei di riserva in azione dure e prolungate. Questo tipo di cane possiede una fisiologia che deve produrre grassi per bruciare grassi, per produrre molta energia, per svolgere molto lavoro. Questo meccanismo è scritto nel suo DNA. Cosa ci dobbiamo aspettare allora se un Labrador retriever lo teniamo fermo in casa steso su di un divano in modo letargico? Molto semplicemente sarà predisposto, soprattutto se mangia più del dovuto, ad essere in sovrappeso oppure obeso. Si osservano molto spesso questi casi e la maggior parte delle volte si tratta di cani nei quali in fattore predominante e scatenante il malessere, è la cattiva percezione dell’animale da parte dell’uomo e la non curanza dell’aver rispettato la sua vera natura. Ogni razza possiede le esigenze individuali che determinano lo stato di salute di un cane. Questo vale per tutti gli animali sui quali l’uomo tende a svolgere una selezione. L’animale è di grande taglia o piccola taglia? Deve svolgere poca o molta attività fisica? Ha
Il fabbisogno di alimenti e nutrienti di ogni animale è necessariamente associato alla sua conformazione e prestanza fisica. Ci sono animali che possono vivere senza svolgere particolari movimenti, altri invece se non svolgono una concreta attività fisica rischiano di divenire obesi. © Stefano Spagnulo
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uno sviluppo del pelo particolare rispetto ad altri (esempio di status fisiologico)? A quali temperature ambientali è predisposto a vivere? In tutto questo se noi razza per razza, animale per animale, individuo per individuo, diamo delle risposte differenti, non tutti possono avere lo stesso tipo di alimentazione sia in qualità che in quantità. Molti stili alimentari, meglio impostati come schemi dietetici, nel momento vengono ad essere svolti in maniera fai da te e senza consultazione del professionista preparato possono determinare dei problemi seri alla salute dell’animale. In questi anni ho verificato personalmente casi di © Jaromir Chalabala/shutterstock.com
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cani ai quali venivano date le ossa delle ali di pollo, interiora decomposte dei bovini, verdure ricche di sali minerali e acqua dura. Allo stesso tempo ho visto casi in cui al cane veniva sostituito il mangime industriale solo per “provare” quale andasse bene, magari cambiandolo anche per cinque volte in un mese senza nessun criterio. Non è razionalità e non è rispetto per un essere vivente verso il quale abbiamo la responsabilità del suo benessere. “Dimmi quel che mi dai da mangiare… e ti dirò chi sei”. È questo il pensiero più profondo che proviene dal nostro animale quando gli diamo da mangiare. È il sentimento che migliora il nostro rapporto con il nostro amico a quattro zampe o meno. La prova ineluttabile che è stata l’alimentazione umana a determinare l’incremento degli affetti tra uomo e cane selvatico e che, indissolubilmente, su è perpetuata nel tempo senza risparmi e privazioni. La prova di questo deriva dagli studi del Biologo Robert Waine, il quale, mediante importantissime ricerche scientifiche, ha determinato che i branchi di Lupi nell’ultima era glaciale, hanno seguito l’uomo perché questo migrava e lasciava dietro di sé i resti alimentari della caccia. Quindi determinava la sopravvivenza dei branchi. Ma l’uomo era anche una specie minacciata dai grandi predatori, e i Lupi si sentirono in dovere di difendere l’uomo e il fatto che questo animale si muovesse in branchi ha fatto tutto il resto. Quando grossi carnivori predatori si avvicinavano alle famiglie umane per attaccarle, il branco di Lupi cercava di difendere, fino a quando lo poteva fare, l’uomo. Prima dimostrando rabbia e obiezione di fronte all’attacco del grande predatore. Se questo non bastava il branco attaccava con successo magari però perdendo qualche membro. E se pensassimo… magari nelle vicinanze alla famiglia umana sarebbe potuta nascere qualche cucciolata e magari la mamma di questi cuccioli
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di Lupo sarebbe potuta rimanere uccisa. Quello che è quasi certo è che l’uomo iniziò ad usare il ringhio di rabbia del Lupo come suono di allarme, per essere avvertito di un imminente pericolo di attacco. Una prima forma di apprezzamento quindi si determinò nell’uomo. Poi grazie alla vicinanza dei Lupi in branchi fissi vicino a noi, si determinarono animali biologicamente distinti rispetto a quelli lontani geograficamente dalla specie umana. L’uomo o meglio la donna adottò cuccioli orfani e l’uomo li usò per la caccia. Nacque l’animale da seguita e da riporto. Nacque il rapporto indissolubile tra uomo e cane. Facciamo quindi un discorso a ritroso e vediamo quale parola chiave possiamo usare per dare un titolo a questa vicenda… Alimentazione! Sono stati gli alimenti l’entità che il Lupo ha cercato da noi e poi quelle che noi abbiamo cercato e ricevuto da loro. Come si chiama questo evento? Scambio di doni per caso? Se questo fenomeno lo possiamo dare per certo, allora possiamo dire che ogni evento, tra due individui, che abbia come significa un invito a cena o il somministrare un mangime di qualità promette la pace e la vittoria della vita socialmente intesa. Ma cosa diamo da mangiare al nostro cane? Cosa è bene somministrare in base alla razza, allo stato fisiologico, alla eventuale patologia e all’attività fisica praticata durante la giornata? Si può rispondere in maniera tecnica, dando i giusti apporti professionali da professionisti (solo se preparati e con esperienza sul campo), ma qui si vuole dare un chiarimento quanto più veloce possibile al lettore e soprattutto… divulgativo, chiaro e semplice! Negli ultimi anni stiamo sentendo parlare di mangimi sempre più selettivi dal punto di vista dei nutrienti, le sostanze che hanno una funzione specifica nell’organismo per la sua vita. Si parla di mangimi di buona qualità, di monoproteici, di mangimi senza glutine, di
mangimi vegani, di integratori alimentari. Si parla della dieta casalinga. Ma cosa sono tutte queste parole? E che significati hanno? Il presente articolo vi chiarirà tutto questo! Iniziamo a dire cosa sia un mangime per i nostri amici a quattro zampe. Un prodotto industriale alimentare, derivato dalla lavorazione di materie prime che devono essere assolutamente compatibili con la biologia del consumatore primario, e che non deve provocare alcuna forma di danno o malattia. Questo in teoria. Mi giungono molti casi di cani che non tollerano un mangime rispetto ad altri. Altri cani tollerano solo la dieta casalinga e altri invece tollerano solo ed esclusivamente mangimi derivati da una sola fonte animale (i monoproteici). Allora ci dovremmo porre una domanda… quello che abbiamo scritto nella definizione di mangime è falso, oppure dobbiamo essere più specifici? Nella definizione abbiamo scritto della parola “biologia” per dirvi che ogni cane, quanto l’uomo ha una sua specifica individualità. “Ciò che può piacere a me o farmi bene non è detto che per te sarà lo stesso”. Quindi nasce lo studio dell’alimentazione e della nutrizione per la migliore dieta, il benessere e il nostro rapporto tra uomo e cane. I mangimi “pluri – proteici” completi e bilanciati, sono quelli somministrati ai nostri amici a quattro zampe da tutti i tempi. Hanno nella loro formulazione derivati di carni da più fonti animali (tipo pollo, tacchino e uova) hanno il grasso animale, più fonti di zuccheri e fonti veloci di energia (tipo grano e mais), più fonti di verdura e frutta e sostanze sintetiche che fungono da complementari dell’alimentazione (tipo Omega 3, calcio, fosforo e prodotti alimentari funzionali
I mangimi “pluri – proteici” sono alimenti che danno un apporto completo e bilanciato come fabbisogno di nutrienti. Il problema però che ci si deve porre, oltre al fabbisogno, se tutte le sostanze, non dannose, contenute in un mangime di questo tipo, vengano tollerate dal consumatore © Stefano Spagnulo
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come i semi di lino). Sono alimenti che danno un apporto completo e bilanciato come fabbisogno di nutrienti. Il problema però che ci si deve porre, oltre al fabbisogno, se tutte le sostanze, non dannose, contenute in un mangime di questo tipo, vengano tollerate dal consumatore. Vi faccio un esempio, poniamo il caso che nel nostro piatto a pranzo vi mettano un pizzico di bistecca di maiale, una coscietta di pollo, mezzo filetto di spigola, un uovo, dei semi, un assaggio di insalata e dell’olio. Vi nutrireste assorbendo tutto di cui avreste bisogno, ma tutto una volta. Alcuni di voi tollererebbero questo tipo di alimentazione svolgendo le azioni di una giornata e rimanendo in buona salute, altri no. Reagirebbero nel modo più eterogeneo possibile, da persona a persona. Qualcuno
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quindi potrebbe dimostrare delle intolleranze. Per questo sono nati i mangimi mono – proteici, specifici per gli animali con problemi di intolleranze e allergie alimentari. La loro formulazione fa in modo che contengano solo un tipo di carne o di pesce, aggiungendo solo gli integratori di vitamine, sali minerali o proteine. La filosofia che sposa la produzione e il consumo di un mangime di qualità, che sia mono – proteico o meno, verte anche a inserire nei prodotti, prima lavorati e poi venduti, anche fonti di ottima qualità non derivanti da allevamenti intensivi come coniglio, anatra, selvaggina e ungulati selvatici, cinghiale e maiale, pollo e altri animali allevati allo stato brado e alimentati con mangimi quanto più salubri possibili (ognuno poi lavora basandosi sulla propria coscienza). Ma quanto sono differenti i normali mangimi rispetto ai mono – proteici? È possibile che un cane non tolleri l’albume delle uova o l’olio di pesce o il glutine o qualsivoglia sostanza nutritiva e allora si ragiona in questo modo: se il nostro cane soffre di una sospetta intolleranza o allergia da alimenti è compito primario del medico veterinario determinarla con una diagnosi. Successivamente sarà compito del professionista competente in nutrizione animale strutturare una migliore dieta possibile che presenti mangimi o dieta casalinga o entrambi. Si cercherà di eliminare l’agente intollerante o l’allergene con precise prove cliniche e di osservazione professionale che determineranno alla fine il miglioramento della qualità della vita del nostro cane. Ma un alimento Mono – Proteico possiede pochi nutrienti rispetto ad un normale mangime completo e bilanciato? La risposta possiamo ottenerla comparando ad esempio il contenuto in percentuale di nutrienti e la composizione di due tipi di mangimi di ottima qualità. WComponenti analitici rappresentati in percentuale nella comparazione dei mangimi pluri e mono proteici. Possiamo determinare come, a livello di composizione analitica, i due mangimi si rappresentino praticamente uguali. E allora cosa c’è di così particolare nei mono proteici da avere un effetto così benefico in casi di intolleranze o allergie? La risposta la troviamo nella natura degli alimenti utilizzati in quanto nel mono proteico oltre ad essere utilizzato solo ed esclusivamente un tipo di carne animale (che non contiene l’agente intollerabile o l’allergene), sono formulate delle fonti di alimenti che hanno una funzione
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antiinfiammatoria, purificante e curativa. In entrambi i mangimi potrebbe essere presente o assente il glutine. Nella formulazione della dieta casalinga ci si può ispirare a questo principio: inserire poche tipologie di alimenti ma ricchi allo stesso tempo di tutti i nutrienti essenziali di cui ha bisogno il nostro cane in particolari stati fisiologici determinati dalla razza, dalla richiesta di energia, dal sesso e dalla attività fisica svolta. Solo il professionista, biologo o veterinario, può realizzare questa azione in maniera razionale. Si possono variare le fonti animali giorno per giorno dando durante la settimana una dieta completa e varia (principio della dieta equilibrata nell’uomo) facendo assumere al nostro cane, della carne bianca o rossa, del pesce, dei formaggi dietetici per lui ammessi e addirittura preparargli dei dessert come quelli realizzati con yogurt magro e frutta Rammento, è indispensabile che solo un professionista preparato e formato, possa formulare questo per il paziente animale! Non bisogna confondere un mangime monoproteico con un integratore alimentare. Gli integratori alimentari sono prodotti che permettono l’assunzione di una particolare sostanza nutritiva essenziale e/o curativa quando il cane non l’assume attraverso la dieta. Se ad esempio siamo di fronte ad un inizio di un invecchiamento e il nostro cane soffre di osteoartriti gli si può somministrare un integratore che vada a contribuire a rigenerare, fin dove è possibile, i tessuti stressati dall’età e dall’attività fisica affaticata. Un integratore di questo tipo potrebbe essere ricco di sostanze presenti nell’olio di pesce o nelle mele come la quercetina. Questa sostanza ad esempio rigenera la funzionalità di alcune particolari vitamine, disintossica gli organi del cane dagli effetti dell’attività fisica dannosa e dell’invecchiamento. Placa gli effetti delle infiammazioni. Gli integratori o supplementi sono indispensabili o in casi di attività fisica estrema come agility, caccia, lunghe Piste, jogging, convalescenza, stress, gravidanza oppure quando il cane ha inappetenza o è in anoressia, oppure ancora situazioni di mal assorbimento dovuto a patologie che non permettono al nostro amico a quattro zampe di far giungere nel sangue i nutrienti. Ogni situazione particolare e differenziata sarà gestita dai professionisti della salute del nostro amico a quattro zampe. Ne segue che: il biologo è un professionista (insieme al medico veterinario) a favore del quale esistono precise norme di rango legislativo che
riconoscono la sua competenza: • a valutare i bisogni nutritivi ed energetici dell’uomo e dell’animale. • a prescrivere le conseguenti diete. I laureati nei corsi di laurea magistrale della classe devono: • possedere una solida conoscenza delle proprietà dei nutrienti e dei non nutrienti presenti negli alimenti e delle modificazioni che avvengono durante i processi tecnologici; • conoscere specificatamente i meccanismi biochimici e fisiologici della digestione e dell’assorbimento e i processi metabolici a carico dei nutrienti e riconoscere gli effetti dovuti alla malnutrizione per eccesso e per difetto; • conoscere le tecniche ed i metodi di misura della composizione corporea e del metabolismo energetico; • conoscere ed essere in grado di applicare le principali tecniche di valutazione dello stato di nutrizione e saperne interpretare i risultati; • conoscere la biodisponibilità, inclinazioni ed effetti collaterali degli integratori; • conoscere la legislazione alimentare e sanitaria nazionale e comunitaria per quanto riguarda la commercializzazione e il controllo degli alimenti, degli ingredienti, degli additivi e degli integratori alimentari; • conoscere le principali tecnologie industriali applicate alla preparazione di integratori alimentari e di alimenti destinati ad alimentazioni particolari; essere in grado di definire la qualità nutrizionale e l’apporto energetico dei singoli alimenti e di valutare i fattori che regolano la biodisponibilità dei macro e dei micronutrienti; conoscere l’influenza degli alimenti sul benessere e sulla prevenzione delle malattie, nonché i livelli di sicurezza, le dosi giornaliere accettabili ed il rischio valutabile nell’assunzione di sostanze contenute o veicolate dalla dieta; • conoscere le tecniche di rilevamento dei consumi alimentari e le strategie di sorveglianza nutrizionale su popolazioni in particolari condizioni fisiologiche, quali gravidanza, allattamento, crescita, senescenza ed attività sportiva; • conoscere le problematiche relative alle politiche alimentari nazionali ed internazionali.
Non bisogna confondere i mangimi monoproteici con gli integratori alimentari. Gli integratori alimentari sono prodotti che permettono l’assunzione di una particolare sostanza nutritiva essenziale e/o curativa quando il cane non l’assume attraverso la dieta. © Stefano Spagnulo
Il biologo può autonomamente elaborare profili nutrizionali Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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al fine di proporre direttamente alla persona o all’animale o alle piante un miglioramento del proprio “benessere”, quale orientamento nutrizionale finalizzato al miglioramento dello stato di salute. In tale ambito può suggerire o consigliare integratori alimentari, stabilendone o indicandone anche le modalità di assunzione. Il nutrizionista biologo è abilitato all’esercizio della professione ed iscritto all’Ordine Nazionale dei Biologi. Il nutrizionista biologo in ambito di nutrizione animale può svolgere la professione in completa autonomia. Tuttavia è opportuno da parte del biologo nutrizionista entrare in empatia con il medico veterinario per la migliore riuscita del risultato di consulenza, specie per precise situazioni fisiopatologiche particolari. L’attività professionale del biologo nutrizionista è prevista dall’Art. 3 Legge 396/67 e quindi rientra nel DM del 17/05/02. Nello svolgimento dell’attività è possibile utilizzare apparecchi non invasivi, ritenuti di ausilio nella rilevazione di parametri utili alla valutazione dello stato nutrizionale ed energetico dell’animale. In generale si consiglia/raccomanda, al momento della scelta • di valutare la reale necessità ed i reali benefici che possono derivare dall’utilizzo dell’apparecchio; • di accertarsi della classificazione dell’apparecchio, richiedendo informazioni al rivenditore 54 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
ma soprattutto consultando il manuale d’uso dell’apparecchio stesso. Il manuale d’uso (e manutenzione) deve essere sempre presente e riportare le caratteristiche, la classificazione dell’apparecchio ed il suo campo di applicazione; • di accertarsi che l’apparecchio risponda alle norme di sicurezza in vigore nel nostroPaese (marcatura CE, certificata). [Rispondenza a norme di sicurezza di Enti non Europei non hanno valore nel nostro Paese]. È fatto divieto al biologo: - Fare diagnosi; - Prescrivere farmaci; - Prescrivere analisi; - Utilizzare apparecchiature e metodi invasivi per studiare l’animale ai fini della determinazione del fabbisogno nutrizionale e della realizzazione dei piano alimentare; - Utilizzare titoli diversi da quelli determinati dall’ONB. Il biologo può utilizzare le seguenti metodiche per la determinazione del fabbisogno energetico e nutrizionale per la riuscita del suo compito: Analisi del peso corporeo e calcolo del peso corporeo relativo Con questo metodo il nutrizionista determina mediante una bilancia specifica il peso corporeo dell’animale e determina mediante poi il calcolo dell’RBW (peso corporeo relativo) se l’ animale è in normopeso, in sottopeso oppure in sovrappeso; Valutazione della condizione corporea BCS (Body Condition Score) e osservazione dell’animale Il nutrizionista determina grazie all’osservazione dell’animale se si trova in uno stato di cachessia, lieve magrezza, normale, sovrappeso, obesità. Attribuisce dopo l’osservazione un punteggio che va da 1 a 5 per descrivere i differenti livelli. Analisi morfo-biometrica e determinazione del grasso corporeo dell’animale Valuta il peso, l’altezza al garrese, le circonferenze. Gli strumenti utilizzati sono la bilancia, il nastro metrico e in metro rigido da manovale.
Salute
Le circonferenze analizzate e misurare sono la circonferenza pelvica e la circonferenza toracica. Impedenziometria Valuta direttamente l’acqua corporea totale, utilizzando uno strumento che inietta nel corpo dell’animale una corrente alternata a bassa intensità. Determinazione del Fabbisogno energetico e dell’energia di mantenimento dell’animale e formulazione del piano alimentare; Attraverso l’utilizzazione di calcoli specifici riportati già in letteratura di clinica veterinaria il biologo calcola il fabbisogno di mantenimento dell’animale e successivamente elabora il piano alimentare rispettando le percentuali di fabbisogno in macro-nutrienti e micro-nutrienti con il fine di elaborare una dieta individuale, razionale ed equilibrata per l’animale in base all’età, metabolismo, attività fisica e razza. Analisi e studio del mangime utilizzato e di quello che si va a proporre; Mediante calcoli specifici il biologo determina la qualità nutrizionale, edonistica, sensoriale, di uso e servizio di qualsivoglia mangime per animali. Il Biologo nutrizionista, nel momento in cui avviene la convocazione da parte di un proprietario di un animale deve accertarsi di quale animale si tratti: prima di tutto se domestico oppure selvatico. Nel caso in cui si tratta di un animale selvatico in difficoltà ritrovato in maniera casuale si propone di fare riferimento alle strutture specifiche come Centri di Recupero di Fauna Selvatica che offrono la consulenza specifica grazie all’intervento di professionisti preparati e formati. Il Biologo può essere contattato da un allevatore o da un medico veterinario. Se l’animale è domestico il professionista deve accertarsi se si tratta di un animale da affezione oppure di un animale da reddito. Qualora si tratta di un animale da affezione i luoghi opportuni per effettuare il primo controllo possono essere un luogo messo a disposizione dal proprietario dell’animale (anche sito di allevamento o abitazione del proprietario) oppure la clinica veterinaria (previo colloquio con il medico veterinario), oppure un luogo adibito ad hoc da parte del nutrizionista che non sia il luogo ove visita in umana. Si sconsiglia per ragioni puramente igieniche di effettuare il controllo dell’animale ove già avvenga il controllo dell’umano. Se l’animale è da reddito il nutrizionista deve provvedere ad effettuare il sopralluogo nell’allevamento zootecnico. Cari colleghi spero abbiate trovato interessan-
te leggere questo scritto. Vi chiedo solo una raccomandazione: non improvvisatevi nella nostra professione ed occupatevi della tutela della salute dopo una opportuna e adeguata preparazione e formazione. Soprattutto fatelo se e solo se insiste in voi la passione e non il bisogno di ricreare un introito economico. La nutrizione animale è un campo complesso ed eterogeneo. Merita dedizione ed approfondimento.
Chi è
S
Il biologo in ambito di nutrizione animale può svolgere la professione in completa autonomia. Tuttavia è opportuno che entri in empatia con il medico veterinario per la migliore riuscita del risultato di consulenza, specie per precise situazioni fisiopatologiche particolari. © Stefano Spagnulo
tefano Spagnulo è un biologo nutrizionista, laboratorista e ambientale. Docente di Chimica e di Biologia, con la passione per la scrittura. Scrive sulla rivista “I nostri Cani” dell’ENCI (Ente Nazionale Cinofilia Italiana), collabora con la rivista online “ND, Natura Docet, la natura insegna” e i suoi supplementi (scaricabili gratuitamente). Ha vinto il Premio Letterario IGEA 2017 consegnato nella Città di Castellabate (SA) dall’Associazione “Pabulum”. Ha nel suo repertorio diverse pubblicazioni: La trilogia delle Città Polmonari (Pneumo City, la città polmonare; The Smoke Inside, ritorno a Pneumo City; La Melodia del Respiro, epilogo a Pneumo City), Beautynsidia, quando il bello è tuo nemico, Mi rispecchio nel frigorifero. Il cibo e la bellezza alla fine del mondo. A 17 anni ha vinto il premio letterario “Newton, il lettori intervistano” per la rivista “Newton, lo spettacolo della scienza”. Il 30 maggio 2018 ha ricevuto a Trieste il prestigioso Premio Letterario Nazionale CISL MEDICI 2018 concorrendo con il suo primo lavoro di narrativa scientifica “E tutto successe in laboratorio: un batterio racconta”. Con il romanzo Beautynsidia ha vinto il “Premio Speciale Arte per Amore” ricevendo nello stesso concorso il “Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti 2018. Città di Seravezza”. Nel 2019 ha vinto il Premio Letterario CISL MEDICI 2019 con mansione migliore opera in assoluto con il racconto “Dolly, storia di una citovita vissuta”. È Docente presso la Saint George Campus e Unitelma Sapienza di Roma.
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LA VALLE DEI DINOSAURI IN PUGLIA Scoperta nel 1999, la paleosuperficie di Cava Pontrelli ad Altamura (Bari) ha bisogno di tutela e manutenzione. A rischio trentamila impronte di Rino Dazzo
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oveva diventare una discarica, si è rivelato uno dei più estesi giacimenti di impronte fossili di dinosauri al mondo. Per certi versi è un unicum, perché in nessun’altra parte della Terra tante orme dei giganti della preistoria – più di trentamila – sono collocate in una superficie piana, come in un’ideale passeggiata che dal Cretacico superiore (82-68 milioni di anni fa) arriva fino ai giorni nostri.
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Cava Pontrelli è uno dei tesori di Altamura (Bari), un patrimonio da valorizzare e da difendere. Se non protette da una manutenzione costante, infatti, quelle orme che hanno resistito per milioni di anni potrebbero danneggiarsi in un tempo decisamente più breve. Le orme rinvenute a Cava Pontrelli, in quella che è stata ribattezzata come la “Valle dei dinosauri”, appartengono a un centinaio di bipedi e quadrupedi alti dai tre ai dieci metri. Cinque le famiglie riconoscibili dal tipo di impronte, tutte erbivore: Anchilosauri, Sauropodi, Ornitischi, Iguanodontidi e Ceratopsidi. Ci sono tuttora dei dubbi relativi alla possibile presenza di una famiglia di dinosauri onnivori. Lo stato delle impronte è piuttosto vario. In alcune è possibile scorgere precisi dettagli relativi alle pieghe della pelle e alle unghie degli animali (alcuni avevano tre dita, altri cinque), altre invece sono meno dettagliate. Nella loro passeggiata, i dinosauri si stavano spostando in una piana di marea, una zona di passaggio tra continente europeo e africano, con un clima e un paesaggio simili a quelli delle lagune tropicali come le attuali Bahamas. Le impronte sono state impresse sincronicamente sul fango e la loro scoperta, insieme a quelle di altri importanti giacimenti poco distanti, ha rivoluzionato le teorie sulla storia geologica dell’intera Puglia. La presenza di animali così grandi fa infatti supporre che il territorio non fosse sommerso dalle acque e che ci fosse una connessione diretta con i due continenti allora emersi. La storia recente della “Valle dei dinosauri” è iniziata il 10 maggio1999 quando due geologi marini dell’Università di Ancona, Massimo Sarti
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e Michele Claps, durante una ricerca sui sedimenti per conto di una compagnia petrolifera hanno notato e riconosciuto le impronte. Ne è nata una lunga trattativa tra i proprietari del sito, destinato in un primo momento a diventare un deposito per inerti, e lo Stato. La paleosuperficie di 12500 metri quadrati è stata sottoposta a vincolo da un decreto del 7 dicembre 2000, ma solo il 17 ottobre 2011 si è giunti all’avvio della procedura di esproprio, completata nel 2014, e alla predisposizione di un progetto di protezione e conservazione finanziato con fondi del Mibact. Da gennaio 2016 proprietario dell’area è il Comune di Altamura. Chi da anni si batte per la Valle è l’operatore culturale Francesco Fiore: «Ho presentato esposti, guidato battaglie civiche, fatto campagne di sensibilizzazione», racconta. «Conosco altri due o tre luoghi dove sono visibili orme, come una cava che adesso è stata coperta dalla statale Altamura-Matera. Se si potesse scavare, si troverebbero altre migliaia di impronte. Ma ora il problema principale è salvare quelle già emerse». Quello del deterioramento è un problema serio. Già nel 2013 il geologo Onofrio Simone (Società Italiana di Geologia Ambientale) lanciava l’allarme: «Sicuramente la situazione rispetto al ritrovamento è peggiorata. Ce la sentiamo di non conservare un patrimonio del genere?». Ora la situazione, a detta di Fiore, è ancora più grave: «Temo che un buon 15-20% delle impronte sia perduto. Acqua, vento e gelo sono i principali nemici, insieme all’incuria degli uomini. Nel 2019 è stato avviato uno studio scientifico di tutela e catalogazione delle orme da oltre un milione di euro. Risultato? Dalla superficie sono spuntate delle erbacce». Ottimista è Rosa Melodia, sindaca di Altamura, eletta nel 2018: «Il Mibact ha indicato le
procedure, ci vogliono 90mila euro l’anno per il mantenimento e la pulizia delle orme e bisogna capire a chi tocchi l’onere. La catalogazione è stata completata, è stata costruita una passerella per vedere le impronte dall’alto, senza rischiare di danneggiarle e si è ripulito il sito dagli arbusti». Il progetto è delineato: «Creare una rete dei beni culturali che comprenda le orme, l’Uomo di Altamura e le altre ricchezze del territorio, con una proposta di gestione pubblico-privata ex articolo 151 del Codice degli Appalti. Sono già pervenute varie manifestazioni d’interesse». Sul piano scientifico, i biologi potrebbero fare la loro parte nella prevenzione degli agenti infestanti, nella tutela dei materiali lepidei e nelle analisi ambientali.
Gli altri tesori dell’Alta Murgia Nella loro passeggiata (nelle foto, le orme ad Altamura), i dinosauri si stavano spostando in una piana di marea, una zona di passaggio tra continente europeo e africano, con un clima e un paesaggio simili a quelli delle lagune tropicali come le attuali Bahamas.
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a Valle dei Dinosauri, l’Uomo di Altamura (nella foto) e il Pulo: nello spazio di pochi chilometri sono racchiusi veri e propri tesori. Nel 1993, all’interno della grotta di Lamalunga, sono stati scoperti i resti di un Neanderthal databile tra 187 e 128mila anni fa, alto tra i 160 e i 165 centimetri e di sesso maschile, che gli altamurani hanno soprannominato Ciccillo. Lo scheletro, integro e perfettamente conservato, è letteralmente incastonato tra le pareti carsiche della grotta. Di eccezionale rilevanza è anche il Pulo, la più grande dolina carsica dell’Alta Murgia. Si tratta di una depressione di forma circolare del diametro di mezzo chilometro e profonda 75 metri, sulle cui pareti si sono create grotte e anfratti abitati sin dalla preistoria.
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“BUCO” NELL’OZONO ED EMISSIONI PROIBITE Registrato l’aumento di composti dannosi dovuto a emissioni industriali in Asia orientale di tipo non intenzionale, ancora non regolamentate
di Felicia Frisi
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l “buco” nell’ozono è un concetto scientifico entrato rapidamente a far parte del lessico popolare a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il rischio che questo schermo per i raggi nocivi per la vita sulla Terra venisse compromesso dall’inquinamento umano è stato uno dei motori dell’ambientalismo, non sempre recepito dalle istituzioni mondiali. A poco più di trent’anni dalla sua entrata in vigore, il Protocollo di Montreal per la protezione dell’ozono stratosferico, che limita la produzione e l’uso di gas ozono-distruttori, è considerato uno dei maggiori successi della cooperazione internazionale, data l’ampia adesione. Ben
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197 paesi hanno ratificato il trattato, impegnandosi a drastiche limitazioni nella produzione e nell’uso di questi composti. Tuttavia, risulta fondamentale riuscire a controllare il rispetto degli accordi. Misurare in continuo i livelli di questi gas in atmosfera è uno degli strumenti disponibili per questo controllo, implementato attraverso la messa in rete di osservatori che, sotto l’egida del WMO (l’Organizzazione mondiale della meteorologia), misurano in tutto il mondo e da molti anni i livelli atmosferici dei composti dannosi per l’ozono. Tra le stazioni che fanno parte delle reti di misura globali c’è l’Osservatorio climatico Ottavio Vittori, posto sulla vetta del Monte
Cimone e gestito dall’Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Isac) in collaborazione con l’Aeronautica militare. Sul Cimone, grazie alla collaborazione con l’Università di Urbino, da 20 anni si misurano, tra gli altri, i gas responsabili del “buco” nell’ozono stratosferico. In un articolo appena pubblicato sulla rivista PNAS si riportano i risultati di uno studio condotto grazie a una collaborazione internazionale tra ricercatori di tutto il globo tra cui Jgor Arduini e Michela Maione dell’Università di Urbino, associati Cnr-Isac, in cui per la prima volta si rileva la crescita dei livelli atmosferici globali di tre idroclorofluorocarburi ozono-distruttori, la cui produzione ed uso sono proibiti dal Protocollo di Montreal. «La messa in rete delle misure globali e la relativa analisi modellistica hanno permesso di identificare quale sia la regione del globo maggiormente responsabile delle emissioni: l’Asia orientale, dove i composti sono emessi come intermedi di produzione dell’industria dei fluorocarburi», spiega Maione. «Questo studio dimostra la necessità di introdurre nel Protocollo di Montreal emendamenti che regolino le emissioni non intenzionali, che al momento non sono previsti». Lo studio conferma l’utilità di queste ricerche nel controllo del rispetto degli accordi internazionali. «Nel 2018 i ricercatori della NOAA statunitense avevano appurato una violazione del Protocollo di Montreal da parte della Cina, dove è stata poi accertata la presenza di impianti industriali che dal 2013 producevano illegalmente CFC-11, un composto utilizzato per la creazione di schiume poliuretaniche fortemente dannoso per l’ozono», conclude la ricercatrice di Uniurb e Cnr-Isac. «Questa rivelazione ha portato il governo cinese a prendere provvedimenti immediati che hanno dato dei frutti, come dimostrano due articoli appena pubblicati su Nature. Le emissioni di CFC-11 dalla Cina orientale sono tornate a diminuire, con conseguente limitazione dei potenziali danni all’ozono stratosferico».
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ell’ambito del Green Deal europeo, nel settembre 2020 la Commissione europea ha proposto di elevare l’obiettivo della riduzione delle emissioni di gas serra per il 2030, compresi emissioni e assorbimenti, ad almeno il 55% rispetto ai livelli del 1990. Per raggiungere quest’obiettivo, è necessario adottare misure per decarbonizzare i sistemi di riscaldamento degli edifici e rilanciare il mercato delle caldaie da energie rinnovabili. Questo è quello che sostiene l’ultimo report delle organizzazioni impegnate nella campagna di sensibilizzazione e informazione sulle nuove normative europee in materia di efficienza energetica, #Coolproducts. I partner italiani sono Legambiente e Kyoto Club, che a partire dallo scorso autunno hanno inaugurato il progetto “Per la decarbonizzazione: efficienza energetica e riscaldamento negli edifici in Italia”. Secondo il documento, per raggiungere questi target sarà necessario agire su due fronti. In primo luogo, servirà introdurre una nuova e più ambiziosa etichetta energetica per le caldaie già a partire dal 2023, in modo da spingere il mercato verso le fonti green. In secondo luogo, tale provvedimento andrebbe abbinato con una progressiva messa al bando di riscaldamenti inquinanti e fossili. Secondo i dati ufficiali della campagna, il 28% dell’energia totale consumata nell’UE viene utilizzata dai per riscaldare gli ambienti, mentre più del 75% dell’energia prodotta per il riscaldamento degli edifici privati residenziali proviene attualmente da gas, petrolio e carbone. Di conseguenza, le emissioni prodotte da questo settore sono circa il 12% delle emissioni totali. La campagna, inoltre, sostiene come l’idrogeno non sia la scelta più pertinente per decarbonizzare l’intero settore. Alcuni studi hanno già dimostrato che solo meno del 10% del fabbisogno termico potrebbe essere soddisfatto da metano verde. L’idrogeno prodotto da rinnovabili sarà limitato
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LEGAMBIENTE: DECARBONIZZARE CALDAIE E RISCALDAMENTI La campagna #Coolproducts con Kyoto Club: c’è bisogno di adottare nuove etichette energetiche e target più ambiziosi già a partire dal 2023
e molto costoso, per questo dovrebbe essere usato per decarbonizzare altri settori che attualmente non hanno alternative (ad esempio industrie ad alta intensità o il trasporto marittimo e aereo). Viceversa, bisognerà puntare su pompe di calore, teleriscaldamento e ristrutturazione completa degli edifici. «Per avviare e portare a termine la transizione energetica del settore sarà fondamentale aprire un dibattito con associazioni, imprese e stakeholders nazionali su questo tema per arrivare ad una sintesi circa il potenziamento delle misure di elettrificazione di caldaie e scaldabagni ed emendare il PNIEC in
modo che sia in linea con i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030», dichiarano il Vicepresidente nazionale di Legambiente Edoardo Zanchini e il Direttore di Kyoto Club, Sergio Andreis. Entrambe le associazioni auspicano fortemente che il nuovo Ministero della Transizione Ecologica riesca a «conciliare le esigenze del settore industriale con le tematiche ambientali e climatiche, supportando le imprese del settore nella trasformazione industriale con il fine ultimo di far diventare il nostro Paese un’avanguardia mondiale di tecnologie di riscaldamento climate friendly». (F. F.) Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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LO SMOG GRANDE KILLER INVISIBILE Un nuovo studio racconta come l’inquinamento atmosferico uccida quasi 9 milioni di persone all’anno di Giacomo Talignani
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na persona ogni cinque, in tutto il mondo, muore a causa dell’inquinamento atmosferico. Più della pandemia, più di altre malattie e cause di decesso, l’inquinamento è oggi un killer invisibile che a causa dei combustibili fossili ha ucciso nel 2018 quasi 9 milioni di persone. Cifre allucinanti, quelle legate allo smog, che ci impongono un ragionamento necessario nel disegnare il Pianeta del futuro, una Terra che sta già pagando a caro prezzo l’impatto della crisi climatica in corso, che soffrirà sempre di più a causa delle emissioni climalteranti e l’innalzamento delle temperature e in cui urge un cambiamento radicale nel sostituire le sue fonti di energie, a favore di quelle rinnovabili e a sfavore dell’impiego di fonti fossili. I numeri sulla mortalità dell’inquinamento atmosferico sono stati recentemente ribaditi in uno studio condotto dagli scienziati dell’University College of London e dell’Università di Harvard. Secondo la ricerca ogni anno perdono la vita tra 8 e 9 milioni di persone per colpa dell’inquinamento atmosferico legato alle fonti fossili: appunto un decesso su cinque (dal 18 al 21,5%).
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Cifre simili a quelle diffuse nel 2019 dall’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, che stimava come ogni anno circa 8 milioni di decessi siano attribuibili all’inquinamento atmosferico sia in locali chiusi (4,3 milioni, sia all’aperto (3,7 milioni). Oltretutto, è un problema che per l’Oms colpisce la salute di migliaia di bambini e impatta soprattutto nei Paesi a basso medio reddito. La nuova ricerca sottolinea in particolare la pessima qualità dell’aria che respiriamo. Aria che contiene particelle prodotte da carbone, benzina e diesel, particelle legate a fonti fossili che aggravano in generale le condizioni respiratorie favorendo problemi come l’asma e che possono portare a cancro ai polmoni, malattie coronariche, ictus e morte. Sulla rivista Environment Research i ricercatori di Harvard insieme all’Università di Birmingham e l’Università di Leicester sottolineano che «la combustione produce particelle sottili cariche di tossine che sono abbastanza piccole da penetrare in profondità nei polmoni. I rischi derivanti dall’inalazione di queste particelle, note come PM 2.5, sono ben documentati» sostiene per esempio Eloise Marais, professoressa dell’UCL.
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In particolare, queste condizioni rischiano di essere fatali per milioni di persone che vivono in zone altamente inquinate e dove non si riescono a contenere i livelli di smog. Proprio recentemente gli scienziati di Copernicus Atmosphere Monitoring Service (CAMS), grazie ai dati satellitari, hanno raccontato come lo smog stia raggiungendo livelli drammatici per esempio in Asia Meridionale, mettendo a rischio la salute di milioni di persone. In Asia proprio in questo periodo è presente una foschia diffusa chiaramente osservata nelle immagini satellitari e «i principali contributi alla foschia provengono dal solfato e dalla materia organica. Le analisi mostrano che la concentrazione è rimasta elevata per un periodo prolungato, con un picco il 16 gennaio e il 1 febbraio» sostiene il CAMS. Aree e zone geografiche che attraversano India, Pakistan, Bangladesh e diversi paesi dal reddito medio basso, stanno registrando bassi livelli di qualità dell’aria che potrebbe colpire «una popolazione di oltre 400 milioni di persone» spiegano gli scienziati. Larga parte dello smog presente è direttamente imputabile al consumo di fonti fossili che, secondo
I numeri sono stati recentemente ribaditi in uno studio dell’University College of London e dell’Università di Harvard. Secondo la ricerca ogni anno perdono la vita tra 8 e 9 milioni di persone per colpa dell’inquinamento legato alle fonti fossili: appunto un decesso su cinque. © VectorPot/shutterstock.com © Stokkete/shutterstock.com
il nuovo studio di Harvard, sono decisive nel compromettere la salute delle popolazioni. «Il nostro studio - raccontano gli scienziati - si aggiunge alla crescente evidenza che l’inquinamento atmosferico derivante dalla continua dipendenza dai combustibili fossili sia dannoso per la salute globale. Non possiamo in buona coscienza continuare a fare affidamento sui combustibili fossili, quando sappiamo che ci sono effetti così gravi sulla salute e alternative praticabili e più pulite». Per comprendere a fondo la presenza e il possibile impatto dell’inquinamento atmosferico nella nuova ricerca gli esperti hanno utilizzato il GEOS-Chem, un modello 3D globale di chimica atmosferica che combina dati legati alla risoluzione spaziale e altri fattori. Grazie a questo gli scienziati hanno diviso il mondo in zone per poter mappare e osservare meglio la presenza di Pm 2.5 e altri inquinanti, stabilendo e stimando anche la provenienza delle emissioni, per esempio, da settori quali energia, trasporti, industria e via dicendo. Le zone con le più alte concentrazioni di smog legato ai combustibili fossili sono appunto risultate l’Asia meridionale ma anche Nord America orientale e parte dell’Europa, dove si registrano anche alti tassi di mortalità. «Invece di fare affidamento su medie diffuse in grandi regioni, volevamo mappare dove si trova l’inquinamento e dove le persone vivono, volevamo sapere più esattamente cosa respirano le persone» spiegano gli esperti. Nonostante dati e analisi per nulla incoraggianti legati a tassi di mortalità e smog, i modelli studiati dai ricercatori evidenziano però allo stesso tempo che misure legate a migliorare la qualità dell’aria possono essere efficaci: l’esposizione al particolato derivante dalle emissioni di combustibili fossili nel 2012 ha rappresentato il 21,5% dei decessi totali, ma questa è scesa al 18% nel 2018 grazie all’inasprimento delle misure per la qualità dell’aria. Infine, gli esperti chiosano ricordando che possiamo ancora invertire la rotta traendo benefici per tutti: senza emissioni legate all’uso di combustibili fossili, l’aspettativa di vita media della popolazione mondiale potrebbe infatti aumentare di oltre un anno e i costi economici e sanitari globali diminuirebbero di circa 2,9 trilioni di dollari. IlIl Giornale Giornale dei dei Biologi Biologi || Febbraio Gennaio 2021
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L’ITALIA DELLO SMOG
L’emergenza in Italia non si arresta e si cronicizza sempre di più. Nonostante la pandemia, il bilancio del nostro report annuale Mal’aria di città 2021 è preoccupante di Gianpaolo Palazzo
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u non hai capito che i tabaccai non ci sono più perché qua… non si deve fumare, per lo smog». Nel 1985 con la canzone “Vota Verdi”, tratta dall’album “Tocca l’albicocca”, gli Squallor ironizzavano, a modo loro, sull’ecologia e l’inquinamento. Tanti anni dopo, nel tempo della pandemia, l’emergenza smog è ancora presente. Il report annuale “Mal’aria di città 2021”, preparato da Legambiente, presenta un doppio bilancio sulla qualità dell’aria nei capoluoghi di provincia (anno 2020), con la classifica delle città fuorilegge per aver superato i limiti giornalieri previsti riguardo alle polveri sottili (Pm10) e la graduatoria di quelle che hanno oltrepassato il valore medio annuale per le polveri sottili (Pm10) suggerito dalle Linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), 20 microgrammi per metro cubo (µg/mc), la media annuale per il Pm10, da non superare contro quella di 40 µg/mc della legislazione europea. Su 96 capoluoghi di provincia, 35 hanno sopravanzato, almeno con una centralina, il limite previsto per le polveri sottili (Pm10), ossia la soglia dei 35 giorni nell’anno solare con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo. Il gruppo delle maglie nere è capitanato da Torino, 98 giorni di sforamenti registrati nella centralina Grassi, seguono Venezia (via Tagliamento) con 88, Padova (Arcella) 84, Rovigo (Largo Martiri) 83 e Treviso (via Lancieri) 80. Al sesto posto in classifica si trova Milano (Marche) 79, tallonata da Avellino (scuola Alighieri) e Cremona (Via Fatebenefratelli) con 78, Frosinone (scalo) 77, Modena (Giardini) e Vicenza (San Felice) che, con 75 giorni, chiudono le dieci peggiori città. Sono 60 i centri urbani (il 62% del campione analizzato) con una media annuale più in alto dei 20 microgrammi/metrocubo (µg/mc) di polveri sottili rispetto a quanto indicato dall’OMS. Primo posto sempre per la città della Mole con 35 microgrammi/mc come media annuale di tutte le centraline urbane, seguita da Milano, Padova e Rovigo (34µg/mc), Venezia e Treviso (33 µg/mc), Cremona, Lodi, Vicenza, ModeIl Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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na e Verona (32 µg/mc). L’Alta Italia è affiancata dal Centrosud: Avellino (31µg/ mc), Frosinone (30 µg/mc), Terni (29 µg/ mc), Napoli (28 µg/mc), Roma (26 µg/mc), Genova e Ancona (24 µg/mc), Bari (23 µg/ mc), Catania (23 µg/mc). Per Legambiente scarseggiano tuttora misure specifiche capaci di “rompere” la morsa dell’inquinamento. Lo dimostra «la mancanza di ambizione dei Piani nazionali e regionali e degli Accordi di programma che negli ultimi anni si sono succeduti, ma che, nella realtà dei fatti, sono stati puntualmente elusi e aggirati localmente pur di non dover prendere decisioni impopolari insieme al ricorso sistematico della deroga (come nel caso del blocco degli Euro4 nelle città che sarebbe dovuto entrare in vigore dal primo ottobre 2020 e che è stato prima posticipato al gennaio 2021 e poi all’aprile successivo)». Vengono valutate come un’altra dimostrazione anche le due procedure d’infrazione comminate all’Italia per il mancato rispetto dei limiti normativi previsti della Direttiva europea per il Pm10 e gli ossidi di azoto, «a cui si è aggiunta, lo scorso novembre, una nuova lettera di costituzione in mora da parte della Commissione europea in riferimento alle eccessive concentrazioni di particolato fine (Pm2,5) a cui ora l’Italia dovrà rispondere, essendo state 64 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
giudicate “non sufficienti” le misure adottate dal nostro Paese per ridurre nel più breve tempo possibile tali criticità». Secondo gli ambientalisti, una pianificazione adeguata potrebbe dare benefici immediati e duraturi incrociando due temi cruciali: la mobilità sostenibile, l’uso dello spazio collettivo e della strada con interventi anche nel settore del riscaldamento e dell’agricoltura. Tra le proposte ci sono il potenziamento del trasporto pubblico locale e della mobilità condivisa, elettrica ed efficiente, lo stop progressivo alla circolazione delle auto nei centri cittadini, corsie preferenziali per i mezzi pubblici, l’estensione delle aree pedonali nei quartieri, percor-
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si ciclopedonali e zone con il limite dei 30 chilometri orari. «L’inquinamento atmosferico - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - è un problema complesso che dipende da molteplici fattori come il traffico, il riscaldamento domestico, l’agricoltura e l’industria in primis. Proprio per tale complessità è una questione che non può essere affrontata in maniera estemporanea ed emergenziale, come fatto fino ad oggi dal nostro Paese che purtroppo è indietro sulle azioni da mettere in campo per ridurre l’inquinamento atmosferico, ma va presa di petto con una chiara visione di obiettivi da raggiungere, tempistiche
I dati di Roma e Milano
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Su 96 capoluoghi di provincia, 35 hanno sopravanzato il limite previsto per le polveri sottili (Pm10), ossia la soglia dei 35 giorni nell’anno solare con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/ metro cubo. Il gruppo delle maglie nere è capitanato da Torino. © Fabio Lamanna /shutterstock.com
Roma e Milano, nonostante i mesi di chiusura per il Covid-19 e la diffusione dello smart working, è stato superato il nuovo valore medio annuale suggerito dall’OMS, che l’Unione Europea si accinge a ratificare, per il biossido di azoto (NO2), 20 microgrammi per metro cubo (μg/mc). In particolare nella Capitale lo scorso anno il valore medio annuo di NO2 è stato di 34 μg/ m3, mentre a Milano di 39 μg/m3. Lo studio di scenario “Arianet” che Legambiente e ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente) hanno presentato a settembre 2020, mostrava che nel capoluogo lombardo sono i veicoli diesel “Euro4” ed “Euro5” a provocare la maggior parte dell’inquinamento da NO2 cittadino: circa il 30% nel corso del 2018.
ben definite e interventi necessari, in primis sul fronte della mobilità sostenibile». La pandemia in corso non farci dimenticare il tema dell’inquinamen© Aleksandr Rybalko/shutterstock.com to atmosferico. «Anzi, - conclude Zampetti - è uno stimolo in più, a partire dalla discussione in corso sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, perché non vengano sprecate le risorse economiche in arrivo dall’Europa. In particolare chiediamo che vengano destinate cifre adeguate per la mobilità urbana sostenibile, sicura e con una vision zero anche per riqualificare le strade urbane e le città. È urgente procedere con misure preventive e azioni efficaci, strutturate e durature città pulite e più vivibili dopo la pandemia. Una sfida europea, quella delle Clean Cities, a cui stiamo lavorando in rete con tante altre associazioni». Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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ENEA: METODO INNOVATIVO E LOW COST PER CONTROLLARE L’ARIA
Si chiama Air quality site suitability map e dà informazioni dettagliate sugli inquinanti atmosferici in città
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ei in strada o seduto davanti al bar e vuoi conoscere la qualità dell’aria che respiri? Puoi saperlo subito grazie ad un sistema multisensore portatile. A Portici, comune alle porte di Napoli con una superficie di 4,54 km2 e una densità di popolazione di circa 13.000 abitanti / km2, i cittadini hanno potuto utilizzare anche passeggini, bici, scooter o zaini con MONICA (acronimo di MONItoraggio Cooperativo della qualità dell’Aria) per misurare i livelli di qualità dell’aria e conoscere la loro esposizione grazie ad un’apposita applicazione su smartphone e tablet. I dati “immediati” sulla qualità dell’aria vengono integrati con quelli delle centraline fisse dell’ARPAC, (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale in Campania) permettendo la creazione di mappe molto precise per supportare la pubblica amministrazione nelle proprie scelte sulla mobilità. La qualità dell’aria a Portici è influenzata dagli inquinanti atmosferici trasportati dalle centrali elettriche, dal traffico, da alcune industrie locali (stampa, tessile, chimica, pasta, legno e abbigliamento), da attività alimentari (ad esempio ristoranti e pizzerie) e da fonti naturali specifiche
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come i vulcani attivi. È nata così negli anni la Air quality site suitability map, una piantina con informazioni dettagliate raccolte grazie ad una rete di centraline a basso costo, sia fisse sia mobili. Oltre ai residenti nel comune napoletano, il lavoro è frutto di una collaborazione tra i ricercatori del Centro ENEA di Portici e l’Università di Napoli “Federico II” nell’ambito del “Progetto Air-Heritage” finanziato con 4,1 milioni di euro dal terzo bando europeo Urban Innovative Actions. La ricerca è stata scelta come storia di copertina dal mensile internazionale “Atmosphere” (https://www.mdpi.com/2073-4433/11/11), una bella soddisfazione per Grazia Fattoruso, ricercatrice Enea che ha coordinato il lavoro: «La rete di monitoraggio sviluppata e testata a Portici è composta da dispositivi sensoriali mobili e stazioni fisse in grado di creare una mappatura ad alta risoluzione spazio temporale degli inquinanti in un ambiente complesso come quello urbano. I dispositivi mobili sono i sensori a basso costo ‘annusa-smog’ portatili MONICA, che abbiamo sviluppato nei nostri laboratori di Portici e sono utilizzati dai cittadini in giro per la città. Le centraline fisse sono commerciali, ma a basso costo.
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Lo “smog tracker”
È
un sistema composto da un apparecchio con sensori in grado di misurare gli agenti inquinanti e da una app per smartphone. È grande poco più di un hard disk portatile ed è perfetto per il manubrio di una bicicletta, ma anche per un passeggino o uno scooter. MONICA, nato grazie ai ricercatori del laboratorio di Sensoristica Avanzata dell’Enea di Portici, misura numerosi inquinanti (CO, NO2, ozono), poi elabora il livello complessivo di esposizione e lo indica anche sulla mappa del percorso effettuato. Come una specie di “navigatore antismog”, segnala l’inquinamento dell’aria e permette agli utenti di poter cercare velocemente la strada meno “avvelenata” da percorrere.
Questa rete va ad integrare le centraline fisse delle Arpa regionali, già presenti sul territorio cittadino, ma poco numerose, semplicemente perché costose». I siti scelti per l’istallazione dei dispositivi di controllo sono stati individuati soprattutto sulla base di due variabili geografiche: le emissioni veicolari e il paesaggio urbano. Entrambi hanno un peso fondamentale nella formazione e dispersione degli inquinanti atmosferici all’interno dei centri urbani: «Abbiamo costruito - continua Fattoruso - il modello 3D dell’edificato, della vegetazione e della rete stradale della città di Portici, derivando la geometria degli edifici e delle strade che ci ha permesso di localizzare gli “effetti canyon” sull’intera città». Infatti, nelle vie con edifici di una certa altezza, bastano due o tre piani, può nascere il cosiddetto “effetto canyon”: la brezza non è abbastanza sufficiente per cambiare l’aria che ristagna in mezzo alle case, insieme allo smog prodotto dalle automobili e alle polveri sottili dovute all’usura di pneumatici e asfalto. Sostituire le auto tradizionali con quelle elettriche può sanare sensibilmente la situazione, ma c’è sempre un limite: anche quei
A Portici, comune di Napoli con una densità di popolazione di circa 13.000 abitanti/km2, i cittadini hanno potuto utilizzare anche passeggini, bici, scooter o zaini con MONICA (MONItoraggio Cooperativo della qualità dell’Aria) per misurare i livelli di qualità dell’aria e conoscere la loro esposizione.
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veicoli producono polveri sottili con le gomme e, in caso di guida dinamica e sportiva, pure con l’uso dei freni. «Se in alcune zone gli inquinanti ristagnano e si accumulano in concentrazioni elevate, noi - prosegue la ricercatrice - integrando questa informazione con il flusso veicolare giornaliero, simulato sull’intera rete stradale urbana, abbiamo identificato le aree hot spot, caratterizzate da un’alta variabilità spaziale locale degli inquinanti. Esse rappresentano sostanzialmente i siti idonei all’installazione della rete di centraline». Tra i 169 individuati, 16 sono risultati altamente idonei e 73 moderatamente. Insieme rappresentano il 53% di quelli studiati e sono distribuiti in tutta la città campana, più densamente attorno ai punti d’ingresso e uscita. Durante la sperimentazione sono stati identificati alcuni sviluppi futuri, che potrebbero portare a un calcolo ancora più minuzioso sull’idoneità. Innanzitutto, si dovrebbe tenere conto, per l’istallazione di monitor a basso costo, dell’effetto ombra generato da edifici e alberi valutando, inoltre, il valore minimo di radiazione solare invernale da garantire per fissare ulteriori vincoli di localizzazione. I monitor low cost, difatti, sono di solito dotati di un pannello fotovoltaico e un accumulatore per le batterie, fissati sui pali per l’illuminazione stradale. Includere questi vincoli, oltre ad aggiungere ulteriori dati meteo per capire la dispersione degli inquinanti nell’atmosfera, dovrebbe consentire di scegliere aree con una migliore esposizione solare durante l’anno. (G. P.). Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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tiamo soffocando i rumori del mare. Se gli oceani con i loro suoni ci hanno da sempre cullato e affascinato, gli uomini con i loro rumori stanno mutando gli equilibri degli ecosistemi marini. Navi, piattaforme offshore, imbarcazioni cargo, operazioni di pesca, motori di vario tipo, mezzi dedicati agli sport, sonar delle grandi navi militari, sonde, segnali acustici: le attività antropiche, soprattutto nell’ultimo secolo, sono aumentate a tal punto da interferire sempre di più con l’armonia dei suoni del mare, mettendo a rischio sia le comunicazioni sia il comportamento degli organismi marini. Prendiamo ad esempio il pesce pagliaccio, il piccolo pesciolino arancione protagonista anche del cartone animato “Alla ricerca di Nemo”: a causa dei nostri rumori, rischia di non ritrovare davvero più la via di casa. Dopo lo stato larvale e l’inizio della crescita questo animale si orienta, nel ritrovare la via maestra, proprio grazie ai suoni, il fruscio e i rumori della barriera corallina. Oggi però, a causa dell’inquinamento acustico generato dall’uomo, quei suoni sono sempre più soffocati, tanto che il pesce pagliaccio rischia di perdersi. È un piccolo esempio concreto di cosa potrebbe accadere a diverse specie, sempre tenendo conto che diversi studi raccontano già come motori, sonar delle navi e rumori per esempio delle piattaforme petrolifere offshore, mutano i comportamenti e le migrazioni dei grandi cetacei.
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Di come l’azione e i rumori dell’uomo stanno mutando sempre di più l’equilibrio degli ecosistemi oceanici si è occupato un recente studio pubblicato su Science, “The soundscape of the Anthropocene ocean”, che ha come primo autore Carlos Duarte, ecologo marino della King Abdullah University of Science and Technology in Arabia e che è stato realizzato grazie al supporto di diversi altri colleghi. In totale oltre 25 scienziati internazionali, da biologi marini a esperti di acustica dell’oceano, che hanno analizzato circa 10mila articoli scientifici dove si trova traccia, con ricerche su varie specie e in diverse zone del mondo, di come l’inquinamento acustico sia sempre più pressante e negativo per gli organismi marini. «Come un ciclo interrotto: la colonna sonora è sempre più complessa da ascoltare e in molti casi sta scomparendo» ha spiegato Duarte. Nella analisi pubblicata su Science gli esperti sottolineano come a differenza di segnali chimici e visivi, che all’interno degli oceani si dissolvono dopo brevi distanze, il suono può invece viaggiare per diverse miglia e aiutare gli animali a muoversi nelle differenti condizioni e profondità dell’oceano. Diverse specie si sono adattate nel tempo sia a rilevare le onde sonore e muoversi attraverso i suoni, come per esempio vari cetacei, tra le quali le balene i cui canti sono fondamentali, ma si sono anche adattate in parte a convivere con alcuni rumori creati dall’uomo. Il problema, sottolineano gli scienziati, è questi rumori negli
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SOFFOCHIAMO I SUONI DELL’OCEANO
L’azione e i rumori dell’uomo stanno mutando sempre di più l’equilibrio degli ecosistemi oceanici
anni stanno diventando sempre più ingerenti e pericolosi per gli equilibri degli oceani. Non ci sono solo per esempio i capodogli che in alcuni casi vengono disturbati dai sonar o pesci che vengono influenzati, per esempio durante la caccia, dai rumori delle barche, ma il rumore sottomarino può influenzare anche lo zooplancton, alla base della dieta di molti animali, oppure le meduse. Come detto ci sono specie che si sono nel tempo adattate all’inquinamento acustico, ma altre che invece potrebbero risentirne nel lungo termine, per esempio spostandosi, come è accaduto alle orche che in alcune ricerche effettuate venivano disturbate da dei dispositivi scientifici usati per dissuadere le foche dal predare salmoni. I rumori creati dall’uomo, così come il surriscaldamento globale che sta spingendo diverse specie verso i poli, possono inoltre indurre alcune specie a spostarsi e finire in zone dove dovranno competere con altri animali per le stesse risorse, creando così disequilibri. «Ci sono prove evidenti del fatto che il rumore compromette le capacità uditive degli animali marini ed è causa di cambiamenti fisiologici e comportamentali» si legge nell’articolo, mentre «ci sono meno prove del fatto che i rumori prodotti dalle attività umane aumentino la mortalità degli animali marini». Per gli esperti però, a differenza degli impatti della crisi climatica, sempre più complessi da
L’inquinamento acustico è sempre più pressante e negativo per gli organismi marini. «Come un ciclo interrotto: la colonna sonora è sempre più complessa da ascoltare e in molti casi sta scomparendo», spiegano i ricercatori in uno studio pubblicato sulla rivista internazionale Science. © bestjeroen /shutterstock.com
contrastare e che necessitano di piani e azioni a lungo termine, quello acustico è un tipo di inquinamento più facile da ridurre. Come ha detto Steve Simpson, biologo marino dell’Università di Exeter, «il rumore è più o meno il problema più facile da risolvere negli oceani. Sappiamo esattamente cosa lo causa, sappiamo dov’è e sappiamo come fermarlo». Cambiare le dinamiche e la presenza di questi rumori, richiede però impegno, visione e anche l’uso di nuove tecnologie. Si può intervenire infatti in maniera più rapida ed efficace cambiando per esempio delle corsie e rotte di navigazione, vietando il transito in aree sensibili e riserve, modificando le eliche di molte imbarcazioni con nuovi sistemi più silenziosi, riducendo con attenzione l’inquinamento acustico causato dalle piattaforme, limitando i sonar. Ad oggi diverse nuove tecnologie, come per esempio quelle in grado di silenziare e modificare i rumori delle attuali eliche, sono in fase di studio nel tentativo di rimediare ai rumori prodotti dall’uomo. In poco tempo, spiegano gli esperti, si potrebbe fare molto per aiutare la natura: effetti immediati e positivi si sono già visti per esempio durante la fase della pandemia legata al Covid-19, in cui sono transitate meno navi, e alcuni mammiferi marini hanno subito tratto beneficio dalla riduzione dei rumori. È dunque tempo di silenziare il nostro rumore e far riecheggiare quello del mare. (G. T.). Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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I FRAGILI GHIACCIAI DEL PIANETA È allarme in tutto il mondo per crolli e ritiri di tonnellate delle nostre riserve di acqua
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isualizzate per un attimo, dall’alto, la mappa dell’Europa. Concentratevi su tutta la superficie dell’intero Regno Unito, e immaginate che sia una enorme lastra di ghiaccio spessa almeno 100 metri: ecco, quella è più è meno la quantità di tonnellate di ghiaccio dei ghiacciai che abbiamo perso negli ultimi vent’anni. Una fotografia che può dare l’idea dell’enorme problema che abbiamo: i ghiacciai, le nostre riserve d’acqua più preziose, fondamentali negli equilibri di tantissimi ecosistemi, sono sempre più fragili, neri, decadenti e pronti a crollare. Vale per tutto il mondo. Da quelli attentamente monitorati nelle nostre Alpi, come il ghiacciaio della Marmolada che si stima possa scomparire in appena 15 anni, a quelli delle Ande cilene e peruviane a rischio crolli, ma anche in Nord America e soprattutto ai poli e soprattutto in Artico e in Antartide, dove lo scioglimento della calotta potrebbe innescare scenari futuri che oggi ci appaiono fantascienza, ma che purtroppo sono già realtà. Influenzati e impattati dal surriscaldamento globale accelerato dall’uomo, i ghiacciai del mondo sono oggi in estrema sofferenza. Aumenta la velocità con cui la Terra perde ghiaccio: da 0,8 trilioni di tonnellate all’anno negli anni ‘90 a 1,3 trilioni di tonnellate all’anno nel 2017, dice ad esempio uno studio apparso su The Cryosphere, in cui si stima
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che tra il 1994 e il 2017 siano andate perse 28 trilioni di tonnellate di ghiaccio, pari appunto a una superficie come quella del Regno Unito. Finora, in molti casi, i ghiacciai si sono ritirati in maniera silenziosa, ma a volte i crolli e le condizioni di fragilità di enormi masse di ghiaccio - quando dovrebbero sempre essere al centro delle nostre attenzioni - fanno ancor più notizia perchè purtroppo causano anche vittime. È accaduto di recente, il 7 febbraio, in India, dove dalla catena montuosa dell’Himalaya, già più volte additata come a rischio crolli, è venuto giù un enorme pezzo di ghiaccio e roccia, che ha trascinato a valle detriti, ingrossato fiumi che sono poi esondati e travolto due impianti idroelettrici di dighe in costruzione. Il risultato è stato tragico: almeno una cinquantina di morti accertati a metà febbraio e ancora 150 dispersi da trovare. La correlazione diretta fra cambiamenti climatici e distacco del ghiacciaio è ancora da accertare in pieno, ma è indubbio che l’aumento delle temperature, con un 2020 al pari del 2016 fra gli anni più caldi di sempre, abbia inciso sulle dinamiche del ghiaccio. Così come è indubbio, lo provano studi anche recenti del 2019, che quella zona fosse soggetta a rischi di cui le autorità indiane erano state avvertite. Allo stesso tempo, affermano varie ricerche, è un dato di fatto che in meno di un quarto di secolo il tasso di perdita dei ghiacciai del mondo è aumentato del
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La Marmolada. © Kochneva Tetyana/shutterstock.com
65%. Soffrono in superficie, soffre lo stato di permafrost, soffre la rifrazione, fondamentale negli equilibri, perché i ghiacciai sono sempre più neri e inquinati e meno bianchi e riflettenti. E presto, di tutte queste conseguenze, secondo gli scienziati soffriremo sempre di più anche noi umani. Non solo le tante specie, dai pinguini ai mammiferi marini che già rischiano la vita per la modifica nell’equilibrio di habitat ed ecosistemi, ma anche milioni di persone che vivono e basano la loro economia sulle coste, che si teme possano soffrire ampiamente per l’innalzamento dei livelli dei mari. Come ha affermato in una ricerca Thomas Slater, scienziato che si occupa di modelli polari, «le perdite delle calotte glaciali dell’Antartide e della Groenlandia hanno accelerato di più. Le calotte glaciali stanno ora seguendo gli scenari di riscaldamento climatico peggiori rispetto a quelli stabiliti dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. L’aumento del livello del mare su questa scala avrà impatti molto gravi sulle comunità costiere in questo secolo». Mentre poco possiamo fare nell’arginare processi ormai irreversibili legati ai ghiacciai, fondamentale sarà dunque il costante monitoraggio e l’osservazione satellitare per comprendere i futuri possibili impatti. «Negli ultimi tre decenni - ha aggiunto Slater - c’è stato un enorme sforzo internazionale per capire cosa sta succedendo ai singoli componenti nel sistema di ghiaccio terrestre. Questo è stato rivoluzionato dai satelliti in quanto ci consentono di monitorare
Aumenta la velocità con cui la Terra perde ghiaccio: da 0,8 trilioni di tonnellate all’anno negli anni ‘90 a 1,3 nel 2017, dice uno studio apparso su The Cryosphere, che stima che tra il 1994 e il 2017 siano andate perse 28 trilioni di tonnellate di ghiaccio, pari alla superficie del Regno Unito. © adike/shutterstock.com
regolarmente le regioni vaste e inospitali dove è possibile trovare il ghiaccio». Il problema è che quello che si è innescato è ormai un circolo vizioso molto pericoloso. Per Isobel Lawrence del Center for Polar Observation and Modeling «uno dei ruoli chiave del ghiaccio marino artico è riflettere la radiazione solare nello spazio, il che aiuta a mantenere fresco l’Artico. Man mano che il ghiaccio marino si restringe, più energia solare viene assorbita dagli oceani e dall’atmosfera, facendo sì che l’Artico si riscaldi più velocemente che in qualsiasi altra parte del pianeta». Sebbene le calotte polari oggi siano le osservate numero uno per i timori sul futuro dei ghiacciai, gli effetti del surriscaldamento sulla salute dei ghiacciai stessi sono già purtroppo visibili ovunque. Dall’Himalaya, dove è avvenuta la recente tragedia, sino alle nostre catene montuose, come le Alpi, dove i processi di perdita dei ghiacciai stanno già dando vita a stravolgimenti in corso. La biodiversità per esempio, si sta spostando sempre di più in quota, fuggendo dalle dinamiche dell’innalzamento delle temperature. Come ha stabilito una recente ricerca della Stanford University insieme ad atenei italiani, che hanno analizzato centinaia di specie vegetali e animali dell’arco alpino, il ritiro dei ghiacciai in pochi anni influenzerà il 51% delle specie e, sebbene parte di queste potrebbe non risentirne, il 22% sarà purtroppo addirittura destinato all’estinzione. (G. T.). Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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arlare oggi di possibilità di lavoro e di mercato del lavoro potrebbe sembrare un puro esercizio accademico. La situazione attuale parrebbe indurre ad analizzare altre emergenze, trascurando quelle non strettamente legate al quella sanitaria. Come spesso accade, la realtà è ben più complessa e le artificiali semplificazioni servono a poco. Le dinamiche macroeconomiche continuano ad evolvere, anche se quelle microeconomiche sembrano ristagnare. Questo significa che l’evoluzione del mercato del lavoro è oggi in piena effervescenza, rapida modificazione e sta mettendo in luce opportunità che sarebbe poco accorto trascurare, solo perché la loro definitiva realizzazione non è dietro il prossimo angolo, ma solo ad un isolato di stanza. Come ho più volte affermato, il successo di una professione viene in gran parte determinato dalla sua capacità di intercettare bisogni emergenti e di rispondere a esigenze concrete espresse dalla società, anche *
Docente Università Parthenope di Napoli.
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se non ancora esplicitate. Per scendere sul terreno della prassi e chiarire come l’evoluzione che stiamo vivendo possa essere utilizzata per innovare la nostra professione di biologo, vorrei partire da dati concreti offerti da due importanti strumenti demoscopici: AlmaLaurea e il Rapporto Excelsior di Unioncamere. AlmaLaurea è un consorzio tra 76 Atenei, che licenziano circa il 90% dei laureati del sistema universitario italiano, e realizza ogni anno due indagini profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati a 1, 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo. Il sistema informativo Excelsior, invece, fornisce annualmente i dati di previsione sull’andamento del mercato del lavoro e sui fabbisogni professionali e formativi delle imprese. Questi due strumenti permettono di avere un quadro abbastanza chiaro delle tendenze del mercato del lavoro, anche se l’integrazione dei dati, forniti da queste due fonti, non è sempre un esercizio semplice. AlmaLaurea ci informa, nel suo ultimo rapporto, che i dati Istat relativi al tasso di occupazione mostrano un tendenziale miglioramento. Il 2019 ha fatto registrare, nella fascia di età 20-64 anni, un tasso di occu-
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I BIOLOGI E IL MERCATO DEL LAVORO
«Il successo di una professione è in gran parte determinato dalla sua capacità di intercettare bisogni emergenti e di rispondere a esigenze concrete espresse dalla società» di Stefano Dumontet*
pazione pari al 63,5% (+ 0,5 punti percentuali rispetto al 2017 e + 3,0 punti rispetto al 2015). Gli obiettivi fissati per il 2020 prevedevano il raggiungimento di un tasso di occupazione nella fascia d’età 20-64 anni pari al 67%. Correndo il rischio di fare osservazioni lapalissiane, e ragionando in negativo, cioè sul fronte della disoccupazione invece che su quello dell’occupazione, il 67% di occupazione corrisponde al 33% di disoccupa-
Figura 1.2. Tasso di occupazione dei 20-64enni in alcuni Paesi europei. Anni 2004-2019 (valori percentuali).
zione, una cifra al limite della tenuta sociale di una nazione. L’attuale situazione non ha certo migliorato le cose. Nella figura 1.2, ripresa dall’ultimo rapporto AlmaLaurea, è indicata l’andamento del tasso di occupazione in alcuni paesi europei e la media europea, dal 2004 al 2019. Come si vede, l’Italia mostra una vistosa sofferenza rispetto alla media dell’UE a 28 stati. Poiché il Paese deve pur andare avanti e la sua economica deve pur essere alimentata dall’esercizio di competenze tecniche, cerchiamo di capire cosa può fare il biologo e quali sono le richieste delle aziende in termini di competenze professionali che il biologo può esprimere. Sempre Alma Laurea, guardando al modello europeo, ci informa che il gap occupazionale italiano riguarda posti di lavoro qualificati, in servizi pubblici o alle imprese,
AlmaLaurea è un consorzio tra 76 Atenei, che licenziano circa il 90% dei laureati del sistema universitario italiano, e realizza ogni anno due indagini profilo e sulla condizione occupazionale dei laureati a 1, 3 e 5 anni dal conseguimento del titolo. © DuxX /shutterstock.com
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Figura 1.12. Spesa per Ricerca e Sviluppo in alcuni Paesi europei. Anni 2000-2008 (valori percentuali rispetto al Pil).
Figura 1.13. Occupati nelle professioni ad elevata specializzazione in alcuni Paesi europei. Anni 2004-2019 (valori percentuali).
Figura 5.5. Laureati magistrali biennali dell’anno 2014: tasso di occupazione per ripartizione geografica di residenza alla laurea. Anni di indagine 2015, 2017, 2019 (valori percentuali).
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per i quali è necessario un titolo di studio elevato. In altri termini, la domanda di impiego nei settori ad alta intensità di conoscenza è più bassa in Italia che negli altri paesi europei. Questo dato negativo è spiegabile tenendo presente la scarsa propensione per la ricerca e sviluppo che caratterizza l’Italia, ben illustrata dalla figura 1.12 (elaborazione AlmaLaurea su dati Eurostat). Non c’è dunque da stupirsi se l’occupazione nelle professioni ad elevata specializzazione segua l’andamento illustrato dalla figura 1.13 (fonte: AlmaLaurea). Nel 2019 il tasso di occupazione, a un anno dal conseguimento del titolo, è pari al 74% tra i laureati di primo livello e al 76% tra i laureati magistrali. Questo dato mostra un tendenziale miglioramento del tasso di occupazione che, nell’ultimo quadriennio, risulta aumentato di 8,4 punti percentuali per i laureati di primo livello e di 6,5 punti per i laureati di secondo livello. Bisogna comunque ricordare che nel 2008 il tasso di impiego ad un anno dalla laurea dei laureati triennali era dell’82% e quello dei laureati magistrali dell’80%. A 5 anni dal conseguimento del titolo i tassi di occupazione salgono all’89% per i laureati di primo livello e all’87% per quelli magistrali. Le note differenze territoriali, tra nord e sud del nostro paese, si confermano anche nel tasso di occupabilità dei laureati, come mostrato nella figura 5.5 (Fonte AlmaLaurea). Oltre che il tasso di occupazione, è interessante osservare la retribuzione ad 1 anno e a 5 anni dalla laurea. Questa è in media, ad un anno dalla laurea, di 1.210 euro per i laureati di primo livello e di 1.324 euro per i laureati magistrali. Questi valori passano, a cinque anni dalla laurea, a 1.418 e 1.512 euro per i laureati triennali e per i magistrali, rispettivamente. Passiamo ora ad esaminare le statistiche che ci stanno più a cuore: quelle relative alla nostra professione. Ci riferiamo solo alla situazione dei laureati magistrali. Prima di esaminare i dati, vorrei ricordare che AlmaLaurea ricomprende i biologi in un gruppo, a mio avviso troppo eterogeneo, che chiama “gruppo Geo-Biologico”. Non è chiara la ratio di tale scelta. In ogni caso, in questo raggruppamento, seppur arbitrario, il tasso
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di occupazione a 5 anni dalla laurea quin- to per quanto riguarda competenze quali la quennale è dell’82,8%, contro il 93,9% dei capacità di analisi e di problem solving, la laureati in ingegneria. capacità di lavorare in autonomia, la capaSempre a 5 anni dalla laurea, i laurea- cità di apprendimento continuo, la resilienti magistrali del gruppo “Geo-Biologico” za, la tolleranza allo stress e la flessibilità. I sono occupati per il 16,0% in attività di responsabili d’impresa ritengono che circa lavoro autonomo e per il 41,1% in attività il 40% dei lavoratori avrà necessità di una di lavoro con contratto a tempo indetermi- riqualificazione e si aspettano che i lavoranato. Il 42,9% è compresa nella galassia del tori acquisiscano nuove competenze durante precariato, che va dai contratti “non stan- la vita lavorativa. Quindi, appare ovvio che dard”, ai contratti “parasubordinati”, alle le imprese, se si aspettano una propensiotipologie “senza contratto”, agli assegni di ne alla riqualificazione e all’aggiornamento ricerca, ecc. dei propri dipendenti, saranno propense ad A 5 anni dalla laurea i laureati magistrali assumere lavoratori con particolari doti di del gruppo “Geo-Biologico” hanno una re- avanzata professionalità. A questo bisogna tribuzione media di 1.584 euro per gli uomi- aggiungere che progettualità relativa all’utini e di 1.467 euro per le donne, in linea con lizzo delle risorse del piano Next Generation il gruppo “Medico/professioni sanitarie” la EU (https://www.europarl.europa.eu/Recui retribuzione media, a fronte di un mag- gData/etudes/BRIE/2020/652000/EPRS_ gior tasso di impiego a 5 anni dalla laurea BRI(2020)652000_EN.pdf), , orientata alla (91,0% contro il nostro 82,8%), è di 1.581 sostenibilità e allo sviluppo delle competeneuro per gli uomini e di 1.477 per le donne. ze green e digitali, accentuerà ulteriormente Fin qui l’impietoso quadro offerto dalle il fabbisogno di queste competenze e la dostatistiche. Bisogna comunque considerare manda di cosiddetti green jobs. come questo tipo di analisi sia importante, La futura richiesta di competenze, seconma non sufficiente. Più interessante è il qua- do il Rapporto Excelsior, si concretizzerà dro sulla nostra professione che ci offre l’ul- come mostrato nella figura che segue. timo “Rapporto Excelsior” di Unioncamere, intitolato “La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane nel 2020”. Questo rapporto, differentemente da quello di AlmaLaurea, prende in considerazione la trasformazione imposta dalla crisi in atto e cerca di individuare le prossime necessità, in termini di competenze, Fabbisogni previsti per grandi gruppi professionali in Italia 2020-2025 (distr. %). che il mercato del lavoro esprimerà nei prossimi mesi. Una considerazione preliminare è che il divario tra l’Italia e Come si vede, la richiesta di professioni l’Europa, in termini di richiesta di professio- specialistiche e dirigenziali e di professioni nalità ad alta intensità di conoscenza, sarà il tecniche diminuirà nel quadriennio prossibanco di prova della tenuta del nostro siste- mo in relazione al biennio 2020/2021. ma economico. Più che preoccuparci per quanto riporIl divario tra le competenze richieste e tato da Unioncamere, conviene soffermarci quelle possedute dai lavoratori continua a sulle possibilità che i “macrotrend” nell’eessere elevato ed è destinato ad accrescersi voluzione del mercato del lavoro chiedono ulteriormente nei prossimi anni, soprattut- ai biologi. Anche in questo caso il Rapporto
A 5 anni dalla laurea i laureati magistrali del gruppo “Geo-Biologico” hanno una retribuzione media di 1.584 euro per gli uomini e di 1.467 euro per le donne, in linea con il gruppo “Medico/professioni sanitarie”. © FoodAndImage /shutterstock.com
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delle sue necessità in termini occupazionali. Nella tabella che segue sono individuate le necessità del mercato del lavoro in funzione di ciò che abbiamo appena descritto. Dalla tabella si deduce che ci sarà, per i dirigenti e per le professioni intellettuali, scientifiche e con elevata specializzazione, una difficoltà di reperimento delle competenze pari al 40% delle esigenze. Per tutto il sistema del mercato del lavoro (industria più servizi) si prevede una difficoltà di reperimento delle competenze che riguardano le nuove tecnologie della vita (biotecnologia e salute) pari al 66% del totale delle esigenze. Per il settore chimica, materiali e biotecnologie (non mediche) questo valore sale ad oltre il 77%. Per quanto riguarda i lavoratori con competenze di livello universitario, gli skill più richiesti saranno: lavorare in gruppo (96,9%), problem solving (96,9%), lavorare in autonomia (94,2%), flessibilità e adattamento (98,1%) e risparmio energetico e sostenibilità ambientale (84%). Come si vede, insieme a competenze specialistiche sono fortemente richieste competenze trasversali e ”soft skils”. Per quanto riguarda le competenze specifiche, in relazione al gruppo di professionalità nel campo agrario, agroalimentare e zootecnico i biologi si classificano come la quarta professionalità più difficile da reperi-
Excelsior è per noi uno strumento importante. Nel rapporto si legge “Da un’analisi complessiva delle caratteristiche delle entrate programmate dalle imprese dell’industria e dei servizi per il 2020 emerge che la contrazione del loro numero assoluto non ha inciso sul processo di cambiamento qualitativo della domanda di lavoro già in corso”. E ancora “[...] si osserva che nelle imprese italiane sta proseguendo il processo di adattamento della forza lavoro ai cambiamenti strutturali indotti dai megatrend prima delineati e ora influenzati dalla crisi sanitaria, che sta accelerando alcuni aspetti e modificandone altri”. E per concludere: “Nel 2020 si rileva una significativa crescita della difficoltà di reperimento, che dal 26% del 2018-19 sale a quasi il 30% nel 2020; in lieve aumento anche la richiesta di una precedente esperienza lavorativa. Si acuisce quindi ulteriormente la difficoltà delle imprese a trovare i profili di cui necessitano, problematica che riguarda ormai quasi una figura su tre.” Dunque, a fronte di una contrazione degli effettivi, cresce molto la difficoltà a reperire competenze strategiche. E’ qui che la nostra professione potrebbe trovare Entrate programmate per grandi gruppi professionali secondo alcune caratteristiche 2020 (valori assoluti e s o d d i s f a c i m e n t o quote % sul totale). 76 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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re, mentre al quinto posto troviamo i tecnici della produzione e del controllo di qualità, un’attività anche di nostra pertinenza. Per quanto riguarda l’ambito biologico-biotecnologico, i biologi sono la prima professione più difficile da reperire seguita al terzo posto dai tecnici della produzione e preparazione alimentare. Non sembri una contradizione in termini il rilevare che i biologi sono la professionalità più difficile da reperire nell’ambito del settore biologico-biotecnologico. In effetti, ciò che è difficile reperire è una professionalità che coniughi competenze tecniche, competenze trasversali e soft skill, strumenti che non sempre l’Università italiana riesce a fornire ai suoi laureati, né gli studenti sembrano apprezzare come complemento indispensabile e aggiuntivo al carico didattico del corso di studi. Il mercato del lavoro, secondo il Rapporto Excelsior, richiederebbe per il 63% laureati in scienze biologiche e biotecnologie e per il 34% competenze biologiche nel settore agrario, agroalimentare e zootecnico. Importante sottolineare che la richiesta di ulteriore formazione, oltre a quella ottenuta nel corso di studio, è pari all’82%. In altri termini, il mercato del lavoro reputa sufficiente le competenze acquisite con la laurea solo per il 18% dei casi. Tra le competenze trasversali richieste troviamo: digitali (51%), analisi dati e programmazione informatica (31%), tecnologiche (42%), green (34%), comunicative (47% comunicazione in italiano e 26% in lingue straniere). I principali soft skill richiesti sono: 1) definire norme di qualità, “) applicare gli standard di qualità, 3) conoscenza dell’inglese, 4) delegare le attività, 5) lavorare in gruppo, 6) adattarsi al cambiamento, 7) pensare in modo analitico, 8) stabilire buone relazioni, 9) problem solving. I principali e-skill richiesti sono: 1) processare i dati, 2) uso professionale di Microsoft Office, 3) fare ricerche su internet, 4) competenze nella gestione di database.
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Se il quadro occupazionale del prossimo futuro non appare roseo, come contraltare bisogna rilevare che il mercato del lavoro fatica a reperire le competenze di cui ha bisogno. Esiste, dunque, una grande potenzialità di sbocchi occupazionali per chi ha voglia di completare le sue conoscenze tecniche affrontando nuove sfide. © Stock-Asso /shutterstock.com
Se il quadro occupazionale del prossimo futuro non appare roseo, come contraltare bisogna rilevare che il mercato del lavoro fatica a reperire le competenze di cui ha bisogno. Esiste, dunque, una grande potenzialità di sbocchi occupazionali per chi ha voglia di completare le sue conoscenze tecniche affrontando nuove sfide. La nostra professione è particolarmente ben predisposta a questo tipo di nuove interazioni e contaminazioni culturali e tecniche. La biologia è al crocevia di numerosi approcci concettuali , che vanno dalla nano scala, alla micro scala, al livello cellullare, a quello dell’organismo per arrivare a quello ecosistemico passando per lo studio delle comunità. In aggiunta a tutto questo, bisogna elencare le competenze nel campo della certificazione di qualità, dell’Ecoaudit, dell’economia circolare, del risk assessment, della sicurezza alimentare, del biorisanamento tanto per citarne alcune tra le più importanti. Il nostro corso di laurea offre una visione particolarmente plastica delle problematiche che attengono allo studio della vita, nella sua accezione più ampia. Il nostro Ordine ha ben chiarito questo concetto, facendo un inventario particolarmente completo di tutte le aree di potenziale interesse professionale del biologo. Il messaggio di chiusura di questo mio intervento è di fiducia nelle potenzialità di una professione che ha tutte le carte in regola per esercitare un ruolo di primo piano nell’affrontare le sfide dei prossimi anni. Purché ci si apra a nuove prospettive e si seguano le vie della biologia lette alla luce delle nuove esigenze sociali. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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BIOMARCATORI? NUOVI NANOSENSORI IN FIBRA L’innovativa tecnologia consentirà di rilevare in modo semplice e affidabile molecole, proteine e cellule, utili alla diagnosi di patologie tumorali
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ome è noto, la lotta alle patologie tumorali e non solo, risulta tanto più efficace se la diagnosi è precisa e precoce. Negli ultimi anni è stato registrato un crescente interesse per lo sviluppo di sensori sempre più sofisticati, in grado di rilevare in modo semplice, veloce ed affidabile biomarcatori, come molecole, proteine e cellule. A tale esigenza risponde il nuovo nanosensore in fibra che renderà più semplici ed economici i dispositivi basati sulla spettroscopia Raman amplificata da superfici (Sers). La nuova tecnologia, frutto della collaborazione tra diversi 78 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
istituti del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli e Milano e dell’Università del Sannio ed il Centro Regionale Information Communication Technology della Regione Campania, è descritta sulla rivista Sensors and Actuators B. Spiega Stefano Managò, ricercatore del Cnr campano e primo autore dell’articolo: «Combinando la spettroscopia Raman con l’impiego di materiali metallici nanostrutturati è possibile identificare, in maniera sensibile, molecole chimiche e biologiche in una vasta gamma di settori. La tecnica, nonostante l’elevata sensibilità e specificità, ha avuto però
una limitata diffusione a livello commerciale, poiché i materiali necessari per eseguire il rilevamento sono abbastanza costosi e complicati da produrre. La tecnologia sviluppata, un substrato Sers depositato sulla punta di una fibra, è unica e potenzialmente rivoluzionaria. Ci permette di identificare e misurare velocemente sistemi biologici di dimensioni diverse: molecole, proteine e cellule». Il substrato Sers è assemblato sulla punta della fibra nel laboratorio di Polymer Optoelectronics & Photonics diretto da Francesco Galeotti del Cnr- Scitec, attraverso l’utilizzo di nanosfere di polistirene strettamente impacchettate e ricoperte d’oro. Precisa Managò: «L’impacchettamento delle biglie, le loro dimensioni ed eventuali trattamenti chimici rendono il sistema versatile e adattabile alla dimensione ed alla forma del campione da rivelare». Andrea Cusano, professore ordinario presso il Dipartimento di ingegneria dell’Università del Sannio e coordinatore del Polo di optoelettronica e fotonica presso il Centro regionale Information Communication Technology della Regione Campania, ha precisato: «Quando si deve rivelare la presenza di proteine o cellule presenti a bassissime concentrazioni nel campione, come ad esempio il sangue di un paziente, il segnale Raman deve essere amplificato in maniera estrema, ma è altrettanto cruciale adattare la nanostruttura metallica alle dimensioni del campione che si vuole rivelare, ed è la combinazione di questi due fattori che rende il sensore sviluppato estremamente promettente». Anna Chiara De Luca, coordinatrice del Laboratorio di biofotonica presso Cnr- Ibbc, conclude: «Le capacità di elevata sensibilità e specificità raggiunte con il biosensore sviluppato saranno ora testate per via endoscopica con notevoli implicazioni in medicina e, in particolare, per applicazioni diagnostiche in situ». (P. S.).
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n dispositivo in grado di aumentare la resa del processo produttivo dei radiofarmaci per la diagnosi e la cura di tumori ed altre patologie. Questo, quanto è stato brevettato dai ricercatori di Enea nei laboratori di Brasimone (Bologna) e Casaccia (Roma). Proviamo a comprendere di cosa si tratta. È un metodo basato essenzialmente su un processo di fusione nucleare rispettoso dell’ambiente, tuttavia alternativo a quello utilizzato per produrre radioisotopi per la medicina nucleare nei reattori a fissione. Pietro Agostini, direttore della divisione Enea di Ingegneria Sperimentale, ha spiegato: «Il dispositivo che abbiamo brevettato si basa su un processo di fusione nucleare assolutamente sicuro e facilmente ottenibile senza richiedere le licenze di un reattore nucleare a fissione». «Il brevetto consente di ottimizzare il rendimento dell’attività dei radioisotopi a breve emivita, vale a dire che decadono rapidamente nel tempo, che legati ad opportune molecole biologiche possono essere usati come radiofarmaci» ha aggiunto Marco Capogni, ricercatore del Dipartimento Enea di Fusione e Tecnologie per la Sicurezza Nucleare. L’ottimizzazione di un campionebersaglio da sottoporre a irraggiamento con neutroni veloci, ottenuti da processi di fusione nucleare di Deuterio- Trizio, consente di massimizzare la resa in attività di isotopi radioattivi a breve emivita che sono di particolare interesse nell’ambito della medicina nucleare. Tra questi radioisotopi riveste un ruolo peculiare il tecnezio-99 metastabile, utilizzato in medicina nucleare per diagnosticare numerose patologie con le tomografie SPECT (Single Photon Emission Computed Tomography). Marco Capogni, a tal proposito, ha chiarito: «Il tecnezio-99 metastabile è ottenuto per decadimento del suo precursore, il molibdeno-99.
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RADIOFARMACI DALLA FUSIONE NUCLEARE Il brevetto di Enea consente di ottimizzare il rendimento dell’attività dei radioisotopi utilizzando un nuovo processo rispettoso dell’ambiente
Oltre a decadere meno rapidamente nel tempo rispetto al tecnezio, il molibdeno è prodotto finora solo attraverso i reattori nucleari. La vetustà di molti di questi impianti, con i conseguenti lunghi periodi di fermo per controlli di sicurezza, ha causato nel 2009 una crisi mondiale di molibdeno-99 e, dunque, una forte carenza di tecnezio-99 metastabile, fatto che ha messo in estremo disagio l’intero settore della diagnostica SPECT». L’Enea è riuscita così a sperimentare una via alternativa ai reattori nucleari per la produzione di molibdeno-99 grazie a facility quali il Frascati Neutron Generator nel Centro
Ricerche di Frascati e gli impianti per misure di attività ad elevato standard metrologico dell’Istituto Nazionale di Metrologia delle Radiazioni Ionizzanti nel Centro Ricerche di Casaccia. A questi impianti si aggiunge il Sorgentina RF presso il Centro Ricerche Enea di Brasimone, il primo prototipo di macchina per ingegnerizzare una tecnologia di produzione che avrà valenza di dimostratore nella produzione di radionuclidi come il tecnezio-99 metastabile, con il quale vengono effettuate ogni anno circa 30 milioni di diagnosi SPECT per un valore stimato di otto miliardi di dollari. (P. S.). Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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MACCHINE MOLECOLARI: IL FUTURO DELLA SCIENZA In futuro saranno utilizzate per costruire materiali che si adattano alle condizioni esterne, plastiche che si piegano a comando, memorie e processori ultraminiaturizzati
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ro il comportamento degli individui e delle popolazioni molecolari». Dai complessi abiotici, in grado di eseguire le stesse funzioni di riconoscimento e attivazione molecolare dei sistemi biochimici, la chimica supramolecolare si è evoluta verso lo sviluppo delle cosiddette “macchine molecolari”. Alcuni chimici quali Vincenzo Balzani, Jean Pierre Sauvage, Bernard L. Feringa e James F. Stoddart sono stati tra i primi a concepire e sintetizzare sistemi su scala molecolare capaci di svolgere, in seguito a un input, compiti complessi come movimenti meccanici.
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ean Marie Lehn definiva così la chimica supramolecolare nel suo discorso alla cerimonia del Nobel per la chimica vinto nel 1987: «Oltre alla chimica dei legami forti, che unisce gli atomi in molecole, c’è la chimica delle interazioni deboli, quella in cui l’unione fa la forza […] Questa chimica, che possiamo chiamare supramolecolare, da luogo ad una sorta di sociologia molecolare. Le interazioni fra molecole ne definiscono il carattere interspecifico, l’azione e la reazione, la stabilità di un sistema organizzato e le affinità elettive, ovve-
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Quali sono le classi di molecole che, una volta organizzate, agiscono come macchine molecolari? Lo spiega Nicola Armaroli dell’Istituto per la sintesi organica e la fotoreattività del Cnr: «Un sistema è costituito dai catenani, ove due macrocicli si dispongono come maglie in una catena: ciascuna entità è confinata meccanicamente alla sua compagna, quindi non può muoversi nello spazio liberamente, ma è vincolata alla rotazione attorno alla molecola partner». La sintesi dei catenani era già nota negli anni ’50, ma solo a partire dagli anni ’80 è stato possibile ottenere questi composti con rese elevate e topologie complesse. Prosegue il ricercatore del Cnr: «Una sintesi molto efficace, sviluppata da Sauvage, prevede l’utilizzo di ioni metallici come il rame che servono da templanti, cioè vincolano due frammenti molecolari attraverso un legame di coordinazione, generando il primo nucleo della struttura del catenano, che viene poi chiuso in un successivo passaggio. I rotaxani, invece, sono costituti da un macrociclo attorno a una molecola lineare assiale che contiene due gruppi funzionali detti stopper agli estremi, ingombranti a sufficienza da non permettere al macrociclo di uscire dal filo molecolare». Conclude Armaroli: «I movimenti nelle macchine molecolari possono essere stimolati da un input chimico, come la variazione del pH, elettrochimico o fotochimico. Il pioniere dei movimenti molecolari indotti dalla luce è Vincenzo Balzani. Oggi, le macchine molecolari artificiali restano essenzialmente una curiosità scientifica, ma il loro potenziale applicativo è enorme. In futuro saranno utilizzate per costruire materiali le cui proprietà si adattano alle condizioni esterne, plastiche capaci di piegarsi a comando, memorie e processori ultraminiaturizzati, sonde nanometriche in grado di diagnosticare malattie, farmaci intelligenti che si attivano soltanto nel posto giusto al momento giusto». (P. S.).
Beni culturali Da sinistra, Gabriel Zuchtriegel e Dario Franceschini. Fonte: www.mibact.it
È
Gabriel Zuchtriegel il nuovo direttore del Parco Archeologico di Pompei. Lo ha stabilito Dario Franceschini, ministro per i Beni e le attività culturali, che pochi giorni fa ha nominato il successore di Massimo Osanna, attualmente direttore generale dei Musei Statali. «Pompei è una storia di rinascita e riscatto – spiega Franceschini - un luogo in cui si è tornati a fare ricerca e nuovi scavi archeologici grazie al lavoro lungo e silenzioso delle tante professionalità dei beni culturali che hanno contribuito ai risultati straordinari e che sono motivo di orgoglio per l’Italia. Nel ringraziare il professor Osanna per il grande lavoro svolto in questi anni a Pompei faccio i più profondi auguri di buon lavoro a Gabriel Zuchtriegel che lascia un’esperienza estremamente positiva a Paestum». Il nuovo direttore è stato scelto tra una rosa di 44 candidati da una Commissione composta, oltre che dal ministro Franceschini, da Marta Cartabia, Presidente emerita della Corte costituzionale e Ministro della Giustizia, Luigi Curatoli, già Generale dell’Arma dei Carabinieri e Direttore del Grande Progetto Pompei, Carlo Rescigno, accademico dei Lincei e professore ordinario di archeologia classica presso l’Università degli Studi della Campania “L. Vanvitelli”, Andreina Ricci, già professoressa ordinaria di metodologia e tecnica della ricerca archeologica presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, e Catherine Virlouvet, già direttrice della École française di Roma e professoressa emerita presso l’Univeristà d’Aix-Marseille. Nato nel 1981 a Weingarten, in Germani, Zuchtriegel fu selezionato nel 2015 per guidare il parco archeologico di Paestum e Velia. Ha studiato archeologia classica, preistoria e filoConsigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.
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GABRIEL ZUCHTRIEGEL È IL NUOVO DIRETTORE DI POMPEI Dopo l’esperienza nei siti di Paestum e Velia, il trentanovenne tedesco è stato nominato successore di Massimo Osanna. Franceschini: «I miei più profondi auguri»
di Pietro Sapia*
logia greca a Berlino, Roma e Bonn, dove nel 2010 ha concluso un dottorato di ricerca sul sito laziale di Gabii (Roma). È stato borsista dell’Istituto Archeologico Germanico e della Fondazione Alexander von Humboldt, che nel 2012 l’ha portato all’Università della Basilicata per un progetto di ricerca triennale sulla colonizzazione greca lungo la costa Ionica. Ha insegnato negli atenei di Bonn, Matera, Napoli “Federico II” e Salerno ed è autore di numerosi articoli e monografie. Nel 2015 ha collaborato al “Grande Progetto Pompei” come
componente della Segreteria tecnica di progettazione. Da novembre 2015 dirige il Parco archeologico di Paestum, al quale nel 2020 si è aggiunto il sito di Velia, entrambi iscritti nella lista del patrimonio Unesco. «Pompei è speciale non solo per il suo patrimonio archeologico inestimabile – spiega Zuchtriegel - ma anche per la squadra di professionisti e operatori che lavorano nel sito con grande impegno e competenza e che sono felice di poter guidare per garantire la tutela e la fruizione di un luogo unico al mondo». Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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L’ITALIA SOGNA CON LUNA ROSSA
La barca di patron Bertelli ha vinto la Prada Cup e dal 6 marzo contenderà la America’s Cup ai defender di Team New Zealand. Ascolti record in tv
di Antonino Palumbo
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taliani, popolo di insonni. Per ansia, spesso. Ma anche per sport. Perché il mix fra orgoglio patriottico e competizione sportiva conduce tanti di noi a sacrificare un sereno riposo per seguire una partita dei Mondiali, una gara delle Olimpiadi, un GP di Formula 1 o una epocale finale della Coppa America di vela. È quanto accadrà dal 6 al 15 marzo prossimi, quando Luna Rossa si giocherà l’ambito trofeo nautico nel golfo di Hauraki, in Nuova Zelanda, con l’Emirates Team New Zealand. È quanto, in realtà, è già accaduto durante la Prada Cup, ovvero la fase eliminatoria dell’America’s Cup, che definisce chi sfiderà il “defen-
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der”. Una fase in cui Luna Rossa ha dovuto faticare non poco per avere la meglio di American Magic e Team Ineos, migliorando regata dopo regata fino alla trionfale serie finale con i britannici (7-1). Dopo 21 anni, l’imbarcazione italiana è il challenger che cercherà di sfilare l’Antica Brocca dalle mani dei neozelandesi e portare la prossima edizione nel nostro Paese. Nelle acque di Auckland, la Prada Cup (già Luis Vuitton Cup) non era iniziata benissimo per il sodalizio di patron Patrizio Bertelli, con Max Sirena skipper e la novità del doppio timoniere (James Spithill e Francesco Bruni). Nel Round Robin, ovvero il girone all’italiana con quattro match race fra tutte le imbarcazioni, Luna Rossa ha battuto agevolmente per due volte American Magic (più una rinuncia), ma in tre occasioni ha pagato dazio con i sorprendenti e veloci britannici di Team Ineos. L’ultimo dei tre confronti con Britannia è stato un vero e proprio spot per l’America’s Cup: una regata spettacolare a 40 nodi con incroci ravvicinati, una leadership cambiata ben nove volte, ingaggi, proteste. Uno show che ha appassionato gli italiani popolo d’insonni, come testimoniato dai dati Auditel. Team Ineos in finale di Prada Cup, Luna Rossa costretta alle semifinali con
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American Magic, la barca del New York Yacht Club che si era ribaltata nella seconda sfida con Luna Rossa, rischiando di affondare. Una “scuffiata” epocale che ha lasciato il segno e che ha costretto lo staff statunitense a lavorare giorno e notte per poter tornare in acqua. Sul campo di regata, però, American Magic ha trovato una Luna Rossa più veloce che mai e ancora più forte rispetto al Round Robin. Spithill ha dominato le partenze scavando un significativo solco fra le due barche, che si è poi ampliato lato dopo lato, sia di bolina, sia di poppa grazie alla capacità di Luna Rossa di viaggiar forte anche con la brezza a 16 o 20 nodi. Le fredde cifre dei distacchi sono altrettanto eloquenti: 2’43” di distacco nella prima regata, 3’07” nella seconda. Veloce, sicura e affidabile, rigenerata rispetto alla fase a gironi, la barca italiana ha dominato anche la terza e la quarta sfida di semifinale, chiudendo la serie sul 4-0. E regalandosi la finale di Prada Cup, al meglio delle tredici regate, con Team Ineos. In tre settimane, però, ne è passata di acqua nel golfo di Hauraki. E Luna Rossa intanto ha trovato il suo abito migliore: scafo più veloce, team più affiatato, meccanismi di bordo oliati perfettamente. La barca di patron Bertelli è sembrata danzare, a tratti volare, nelle traiettorie pennellate da Bruni, Spithill e dall’ispirato velista-tattico Pietro Sibello. Perfetta sin dalla partenza, nella prima regata Luna Rossa ha sfruttato le condizioni di vento leggero e uno start problematico dei britannici per portare a casa il punto con serenità. Lavoro esemplare anche nella seconda gara, con gli italiani abili a coprire e chiudere
Logo dell’America’s Cup. L’America’s Cup è il più famoso trofeo nello sport della vela e il più antico trofeo sportivo del mondo. Si tratta di una serie di regate di match race, ovvero tra due yacht che gareggiano uno contro l’altro. Le due imbarcazioni appartengono a due Yacht Club differenti, una rappresentante il detentore del trofeo (defender) e l’altra uno yacht club sfidante (challenger). Quest’ultimo è a sua volta designato attraverso una serie di regate tra vari contendenti, che attualmente prende il nome di Prada Cup, in passato Luis Vuitton Cup.
ogni varco per la rimonta degli inglesi, vincendo meno nettamente senza patemi. I progressi di Luna Rossa hanno iniziato a far preoccupare i britannici, con lo skipper e timoniere Ben Ainslie che dopo gara-2 ha esortato i suoi ad «andare più veloci: dobbiamo capire come riuscirci per arrivare davanti». Speranza vana: nel giorno di San Valentino, la barca italiana si è presa il terzo punto con grandi prestazioni di bolina e il quarto con un ottimo start e un controllo attento. E mentre sulla sponda britannica si rifletteva sui troppi errori commessi, su quella italiana la parola d’ordine è stata: «Non è ancora finita». A regalare pepe e imprevedibilità al seguito ci ha provato, involontariamente, il mini-lockdown imposto dal governo neozelandesi dopo i tre nuovi casi Covid registrati nel Paese. Per Ace, l’agenzia organizzatrice, con un livello 2 o 3 di allerta le regate sarebbero riprese solo venerdì 26, per tornare alla normalità in città e consentire al pubblico in mare e a terra di godere dello spettacolo. Negativa, però, la risposta del Challenger of Record, il rappresentante degli sfidanti, disposta a regatare sin da giovedì 18 febbraio, a porte chiuse. Se gli organizzatori non volevano perdere l’occasione di sfruttare questo evento anche come un volano economico per la città, Luna Rossa ha badato al suo focus – il risultato sportivo – e puntato a completare l’opera, sfruttando il “vento” favorevole. Alla fine, si è tornati a competere il 20 e il team italiano ha centrato l’obiettivo, vincendo altri tre match e chiudendo la finale di Prada Cup sul 7-1, con mezzo milione di spettatori insonni a tifare davanti alla tv. Intanto è già entrata nel vivo la sfida con Team New Zealand, in programma dal 6 al 15 marzo. Checco Bruni, co-timoniere della barca italiana, avvisa: «Per batterci dovranno passarci sopra». Meno eclatante, ma fiducioso Max Sirena, skipper di Luna Rossa: «Se la loro barca farà due nodi più di noi, potremo farci poco. Ma se le barche saranno vicine ci toglieremo tante soddisfazioni».
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PIÙ FORTI DELLA BILANCIA I “GIGANTI” NELLO SPORT I campioni che sono riusciti ad andare oltre il body shaming e gli ipotetici limiti imposti dalle taglie forti
L’ex cestista Shaquille O’Neal con il compianto Kobe Bryant.
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ampioni oltre la stazza. Ovvero, quando a una taglia forte corrisponde un atleta forte, capace di ovviare alla sua mole (o a sfruttarla) per raggiungere traguardi importanti. Non parliamo solo di sumo e di getto del peso, dove i chili di troppo non sono certo un’eccezione, ma anche di tennis, nuoto, calcio, baseball e football americano. Declinati nel modo giusto, combinati con altre doti, i limiti diventano virtù. E favole, che lo sport non smette mai di scrivere. L’ultima in ordine di tempo è quella di Gauthier Mvumbi, pivot del Dreux AC (Francia) e della nazionale congolese di pallamano. A dispetto dei suoi 192 centimetri per 110 chili, il 26enne nato a Chartres ha mostrato di possedere agilità e un eccellente senso del gol. Sembra passata una vita dai difficili inizi di carriera: «Avevo un allenatore molto concentrato sul fisico, ma la verità è che allora non ero pronto neanche mentalmente e ho fallito». El Gigante, com’è stato ribattezzato Mvumbi, sono arrivati anche i complimenti di Shaquille O’Neal, leggenda del basket, che con
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148 chili e il 57 di scarpe dettava legge sotto i canestri della NBA. «Dicono che sei lo Shaq della pallamano, cosa sta succedendo?» ha scritto O’Neal sui social, inorgogliendo il pivot congolese oversize. Mvumbi ha ringraziato e lanciato un messaggio a chi deve superare muri ben più alti della loro stazza: «Vivete il vostro sogno e combattete per quello che siete». Non è facile, del resto, per chi ha un giro-vita esuberante. «Anche se ho un corpo diverso da quello di un atleta, ottengo dei risultati. Solo che, essendo come sono, devo lavorare più degli altri, e con molta forza di volontà” è il mantra di Teresa Almeida, portiere della squadra femminile di pallamano dell’Angola, che ai Giochi di Rio 2016 si autodefinì con mirabile autoironia la «portabandiera dei grassi di tutto il mondo». Aggiungendo: «A dicembre dovrò aver perso qualche chilo perché mi sposo e altrimenti non mi entra il vestito bianco per le mie nozze». Dall’Angola all’Etiopia, stesse Olimpiadi. E qualche risvolto spiacevole, soprattutto sui so-
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cial network, per il nuotatore Robel Kiros Habte, ultimo nella sua batteria (e in assoluto) dei 100 stile libero, a 15 secondi dal primo. Giustificò la sua “pancetta” con il lungo stop causato da un incidente stradale. Se Habte è un’eccezione in vasca, la possente tennista statunitense Taylor Townsend lo è su un campo da tennis: i suoi 80 chili, distribuiti su un metro e 70 d’altezza, non le hanno però impedito di raggiungere gli ottavi degli US Open in singolare e la semifinale in doppio con Asia Muhammad. Alla faccia dei «Sei troppo grassa», «Non puoi muoverti», «Non ce la farai» che ha dovuto smentire, sin da quando era piccola e finanche quando è diventata la numero 1 al mondo juniores. Gol oltre la bilancia per Saheed Adebayo Akinfenwa, 38enne attaccante del Wycombe Wanderers (seconda divisione inglese), capace di segnare oltre 200 gol in carriera, malgrado un rapporto tra centimetri (185) e chilogrammi (102) non proprio usuale per un calciatore. Continuerà a giocare almeno per un antro anno: ha infatti dichiarato di voler «cercare di guadagnare ancora
Nella foto, Gauthier Mvumbi, pivot del Dreux AC (Francia) e della nazionale congolese di pallamano. A dispetto dei suoi 192 centimetri per 110 chili, il 26enne nato a Chartres ha mostrato di possedere agilità e un eccellente senso del gol.
dal mondo del pallone per mantenere la sua famiglia». Una situazione che gli costa non pochi sacrifici, anche alla luce dei numerosi acciacchi legati proprio al suo fisico eccezionale. Qualche magia la regala ancora Felipe Sodinha. Di lui si diceva, con affetto: «Piedi da Maradona e fisico da Renato Pozzetto». Oggi dispensa gol e assist nel Modena (Serie C): chiedere a Vis Pesaro e Legnano, per conferma. Non passerà alla storia per le sue gesta sportive Wayne Shaw, il 45enne portiere del Sutton che fu “paparazzato” mentre mangiava platealmente una torta salata in panchina durante il match di FA Cup con il blasonato Arsenal. Accusato di aver scommesso su questo suo gesto (l’abbuffata era quotata 8/1), fu costretto a rassegnare le dimissioni. Scagionato, nei mesi successivi ha racimolato 35mila euro solo dalle interviste, si è messo a vendere panini e infine si è aperto un pub. Il leggendario Shaq non è stato l’unico campione della NBA a vantare una mole considerevole. Oliver J. Miller, detto Big O, pesava 150 kg ai tempi dell’Università dell’Arkansas; con i Phoenix Suns ne perse una ventina. Sofoklis Schortsanitis, camerunense di padre greco, ha raggiunto quota 160, per due metri d’altezza, in una buona carriera in giro per l’Europa, impreziosita dall’argento iridato del 2006: in semifinale la sua Grecia batté gli Stati Uniti. Big-Sofo ha annunciato il ritiro lo scorso dicembre a 36 anni. William Perry, detto “Il frigorifero”, è diventato grande nel football americano al di là del suo metro e 90 centimetri per 150 chilogrammi. In dieci stagioni di NFL con i Chicago Bears è riuscito a vincere anche un titolo, anche se al momento della premiazione ci si rese conto che l’anello della vittoria era troppo piccolo: ne occorse uno di taglia doppia. Sempre negli USA, due giganti hanno lasciato la loro impronta nel baseball: CC Sabathia, quasi 2 metri per 135 kg, vincitore della World Series americana con i New York Yankees e di numerosi premi individuali, e Dmitri Young, 188 cm per 133 kg, due volte All Star. Di Hakuno, il più vincente “gran maestro” della storia del sumo (44 tornei consecutivi), i 160 chili distribuiti in un metro e 93 di altezza non fanno certo notizia. Non più dei suoi trionfi e della discussa decisione di rinunciare alla cittadinanza mongola per richiedere quella nipponica. Per il campione di getto del peso C. J. Hunter, invece, il grattacapo più grande non è stato la “pancetta”, quanto la vergogna del doping che ha posto fine alla sua carriera. (A. P.) Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Larissa Iapichino.
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ORGOGLIO LARISSA CON I GENI DI MAMMA FIONA La 18enne fiorentina, figlia d’arte, ha eguagliato il record italiano indoor del salto in lungo appartenente alla May e battuto dopo 38 anni il primato mondiale Under 20
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utta sua madre. Ma pure un po’... suo padre. Perché tra Fiona May, due volte campionessa del mondo del salto in lungo, e Gianni Iapichino, ex primatista italiano dell’asta, le probabilità di ereditare talenti erano piuttosto alte, per Larissa Iapichino. Certo, poi vanno coltivati e allenati. Gli altisonanti risultati di febbraio confermano che la 18enne fiorentina lo sta facendo piuttosto bene. L’ultima perla è arrivata ad Ancona, nella gara di salto in lungo degli Assoluti indoor di atletica leggera. La campionessa europea e italiana uscente è volata fino a 6,91
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metri eguagliando il record italiano indoor di sua mamma Fiona May, realizzato nel 1998 a Valencia. Al contempo, l’atleta della Fiamme Gialle, ha sottratto il record del mondo under 20 indoor alla leggenda tedesca Heike Drechsler con 6,88 dal 1983. “Aver battuto un suo record è una cosa che mi ha sconvolta, lei è stata una delle dee del salto in lungo” ha commentato Larissa. Ciliegina sulla torta, la qualificazione per i Giochi di Tokyo grazie a quello che attualmente è il miglior salto al mondo del 2021. Buon sangue non mente, insomma. Ne ha fatta di strada, quella bimba che il
grande pubblico aveva conosciuto anni fa grazie a uno sport televisivo. A suon di salti, ma non solo. Da piccola ha praticato danza, nuoto e per otto anni ginnastica artistica. Poi, sei anni fa, al meeting di Montecarlo (regalo di compleanno della madre), anche in Larissa è sbocciata la passione per l’atletica leggera. A Calenzano, il tecnico Enrico Mancini l’ha guidata alla doppietta tricolore fra le cadette nei 300hs. Il talento in pista ha lasciato il passo all’eredità naturale in pedana, dove i cromosomi di Fiona sono stati esaltati dall’impegno di Larissa e dal lavoro di Gianni Cecconi e Ilaria Ceccarelli, allo stadio Ridolfi di Firenze. Che la Iapichino fosse una predestinata, si è capito da subito. Nel 2019 con 6,64 si è presa il primato italiano sia fra le allieve, sia fra le juniores superando dopo ventidue anni il record di Maria Chiara Baccini (6.55). E nello stesso anno si è laureata campionessa europea under 20 a Boras, contro avversarie più grandi anche di due anni, emulando Fiona May che nel 1987 fu oro continentale a Birmingham, da britannica. In un 2020 segnato dalla pandemia, la Iapichino ha toccato quota 6.80, diventando la seconda italiana di sempre alle spalle della madre. Una crescita continua, inesorabile, proseguita anche nella stagione indoor: a inizio febbraio, ad Ancona, ha migliorato per tre volte nella stessa gara il proprio record italiano U20 al coperto, portato infine a 6,75. Trentacinque centimetri meglio rispetto a un anno fa. Basta? Macché. Due settimane dopo, sullo stesso “palcoscenico”, è arrivata un’impresa ancora più grande, quella che l’ha permessa di eguagliare la madre e superare la “dea” Drechsler. «Alla fine, io non ho ancora metabolizzato quanto accaduto perché è successo tutto così velocemente. E sinceramente mi sembra ancora assurdo» il commento della giovane campionessa. Cento di queste assurdità, Larissa. (A. P.)
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on è un segreto che gli italiani altrove hanno sempre saputo farsi valere. Succede anche sul pianeta calcio, anche se sono cambiate un po’ le motivazioni: un tempo si andava via a fine carriera, per cercare nuovi stimoli o fare esperienze diverse, mentre oggi si inseguono anche i trofei più prestigiosi negli anni migliori della propria carriera. Nel Paris Saint-Germain degli emiri qatarioti ci sono tre italiani - un romano, un abruzzese e un vercellese di sangue ivoriano - che inseguono la Champions League e che hanno messo le loro firme su un’impresa eclatante: il 4-1 al Camp Nou di Barcellona, nell’andata degli ottavi di Champions League. Sono Alessandro Florenzi, ex capitano e poi esubero della Roma; Marco Verratti, a Parigi da nove stagioni; Moise Kean, arrivato lo scorso ottobre in prestito dall’Everton, che nel 2019 lo aveva acquistato per 27,5 milioni dalla Juventus. Verratti è ormai un pilastro del Paris Saint-Germain, che lo acquistò nel 2012 dal Pescara, fresco vincitore del campionato Serie B. Con i francesi ha totalizzato oltre 330 presenze, segnando nove reti, compresa quella al Barcellona che lo consacrò in Champions League. Intanto ha giocato un Mondiale con l’Italia, ne ha mancato un altro con Ventura ma poi è diventato un punto di riferimento per la giovane e rinnovata Nazionale di Mancini. Al Barcellona lo legava, però, anche un ricordo drammatico (sportivamente parlando), ovvero il 6-1 del marzo 2017 con il quale i catalani ribaltarono il poker secco dell’andata, eliminando il Psg. Si è riscattato mettendo la sua firma su decisive azioni difensive e offensive, come l’assist illuminante di prima per Mbappé nell’azione del pareggio. Per il Barcellona, Alessandro Florenzi sta diventando un vero e proprio spauracchio. Diventato di troppo nella sua Roma, il pendolino della capitale è andato in prestito prima al Valencia e ora al Paris Saint-Germain, con
Sport
Marco Verratti con la maglia del Paris Saint-Germain.
GLI ITALIANI “PARIGINI” CHE FANNO PIANGERE IL BARÇA Calcio, le firme di Verratti, Florenzi e Kean sul 4-1 esterno del Paris Saint-Germain in Champions League. Una buona notizia anche per il ct della nazionale azzurra Mancini
cui a gennaio ha vinto il primo trofeo da professionista: la Supercoppa francese. Ma già con la maglia giallorossa l’esterno romano aveva regalato dispiaceri agli spagnoli. Il 16 settembre 2015 emozionò lo stadio Olimpico con un pallonetto da centrocampo che impietrì Ter Stegen. Due anni e mezzo dopo, eliminò il Barça con la Roma, vincendo con un secco tris al ritorno dopo il 4-1 dell’andata al Camp Nou. Stavolta, nella reggia di Messi, ha imbrigliato Griezmann e innescato l’azione del 2-1 che ha indirizzato la partita. Kean ha qualche anno in meno e nel Psg delle stelle sta imparando a
sfruttare le occasioni, come l’infortunio di Neymar che lo ha “lanciato” titolare a Barcellona. Il gol a Ter Stegen si somma ai 10 in campionato e alla doppietta in Champions League al Basaksehir, che gli ha permesso di diventare il più giovane italiano ad andare in gol alla prima da titolare in Champions League. Un record tolto a un campione del calibro di Alessandro Del Piero. Il Psg apprezza, l’Everton apprezza, la Juve vorrebbe riprenderlo. E intanto il ct azzurro Mancini gongola: agli Europei 2021 l’Italia può candidarsi a un ruolo da protagonista, anche grazie ai suoi... francesi. (A. P.) Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico
a cura di Rino Dazzo
SALUTE Troppo caffè può ridurre la materia grigia
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roppe tazzine di caffè al giorno possono ridurre il volume di materia grigia nel cervello. Lo sostengono i ricercatori dell’Università di Basilea, che hanno condotto uno studio per valutare gli effetti dell’assunzione di caffeina su sonno e cervello. Ai volontari sono state somministrate quattro o cinque tazzine di caffè per dieci giorni e, se non si sono notate variazioni nella durata e nella profondità del sonno, è emersa una riduzione della materia grigia nell’ippocampo, nel lobo temporale mediale destro, regione che presiede alla memoria. Gli effetti sono svaniti quando il gruppo di studio non ha consumato caffè nei giorni successivi. Un’altra ricerca condotta dalla South Australia University ha invece dimostrato come il consumo di sei o più tazzine di caffè al dì faccia abbia effetti sulla quantità di grassi nel sangue, facendo aumentare il rischio di problemi cardiovascolari.
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RICERCA Nel sonno possiamo dialogare e risolvere problemi
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el sonno profondo, durante la fase REM, una persona addormentata può dialogare attivamente, risolvere problemi e svolgere operazioni matematiche. Lo hanno accertato quattro diversi gruppi di ricerca (Northwestern University, Sorbona, Università di Osnabruck e Radboud University Medical Center) che hanno combinato i loro studi, dimostrando come durante il sonno le persone siano in grado di comprendere e rispondere a domande, impegnarsi in operazioni di memoria e svolgere calcoli. L’indagine ha coinvolto 36 persone e potrebbe avere ripercussioni molto importanti in futuro, anche nelle comunicazioni con astronauti impegnati in lunghi viaggi attraverso il Sistema Solare. Importanti i riflessi dell’indagine, che mira a far luce sulle connessioni tra sonno ed elaborazione della memoria, anche per la soluzione di particolari disturbi o per la diminuzione degli incubi.
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AMBIENTE Le tartarughe marine sentinelle dell’inquinamento dei mari
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ono delle vere e proprie sentinelle, oltre che prime vittime, dell’inquinamento da plastica nel mare. Lo sono in particolare nell’Adriatico, bacino in cui sempre più è evidente la contaminazione con rifiuti d’ogni sorta, in primo luogo plastici. Sono ben 45 gli esemplari di Caretta Caretta nei quali gli studiosi dell’Università di Bologna hanno trovato detriti plastici nelle feci, con conseguenze negative per la loro salute.
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RICERCA I nuovi protocolli per la diagnosi precoce dell’autismo
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uovi protocolli per l’individuazione precoce dei disturbi dello spettro autistico sono stati sperimentati e messi a punto nel corso del progetto di rete “Italian Autism Spectrum Disorders Network: filling the gaps in the National Health System care”, coordinato dall’ISS e che ha coinvolto varie strutture ospedaliere e di ricerca. L’iniziativa si è avvalsa del modello di sorveglianza del Network NIDA, che monitora la popolazione ad alto rischio per i disturbi del neurosviluppo: fratellini e sorelline di bimbi con diagnosi di disturbo dello spettro autistico, neonati pretermine e piccoli per età gestazionale. I nuovi percorsi e i relativi test clinici (analisi delle competenze vocali, motorie e sociali nei primi 36 mesi di vita) aiuteranno a formulare diagnosi attendibili e precoci: gli interventi tempestivi, infatti, possono attenuare il quadro clinico finale, riducendo l’interferenza sullo sviluppo.
GENETICA Scovato il gene che lascia l’organismo senza difese
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a il potere di lasciare l’organismo umano senza difese causando la morte prematura delle cellule immunitarie. È un gene mutato, Fnip 1, e lo ha individuato un gruppo di ricerca formato dagli italiani del Centro di Ricerca Tettamanti e del Centro di emato-oncologia pedriatrica dell’Università Bicocca, in collaborazione con gli olandesi del Leiden University Medical Center e degli americani del Baylor College of Medicine e del Texas Children’s Hospital di Houston. Il gene mutato, come illustrato sulla rivista Blood, blocca il metabolismo delle cellule che producono linfociti B, lasciando l’organismo privo di difese ed esposto a malattie e infezioni ricorrenti, dall’agammaglobulinemia alla neutropenia e alla cardiomopatia ipertrofica. L’individuazione del gene apre il campo a ricerche e approfondimenti che potrebbero svelare nuove strade nella lotta ad alcuni tumori del sangue.
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Lavoro
CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LA RICERCA E L’INNOVAZIONE BIOMEDICA DI PALERMO Scadenza, 15 marzo 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n 1 borsa/e di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto per la Ricerca e l’Innovazione Biomedica (IRIB) del CNR Sede di Palermo, nell’ambito del progetto “Studio enzimatico e genetico di malattie metaboliche”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI ANCONA Scadenza, 15 marzo 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del CNR di Ancona nell’ambito del programma di ricerca: “Gestione sostenibile delle risorse marine e crescita blu”. Per informazioni: www.cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – ISTITUTO DI SCIENZE DELL’ALIMENTAZIO90 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
NE DI AVELLINO Scadenza, 18 marzo 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “BIOTECNOLOGIE” da usufruirsi presso da usufruirsi presso l’Unità di Ricerca presso Terzi (URT) dell’Istituto di Scienze dell’Alimentazione (ISA) del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso il Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Tematica: “Approcci bioinformatici per lo studio proteine da utilizzare per la realizzazione di biosensori per la qualità degli alimenti”. Per informazioni: www.cnr. it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE – Istituto di Genetica e Biofisica “Adriano Buzzati Traverso” Scadenza, 22 marzo 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto di Genetica e Biofisica “A. Buzzati Traverso del CNR di Napoli. Per informazioni: www. cnr.it, sezione concorsi. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DELL’ABRUZZO E DEL MOLISE “G. CAPORALE” DI TERAMO Scadenza, 3 marzo 2021 Concorso pubblico, per titoli ed
esami, per la copertura di un posto di dirigente sanitario biologo a tempo pieno e indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 13 del 16-02-2021. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 4 marzo 2021 Procedura di selezione per la copertura di due posti di ricercatore a tempo determinato, vari settori concorsuali, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie “C. Darwin”. Gazzetta Ufficiale n. 9 del 02-022021. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 4 marzo 2021 Procedura di selezione per la copertura di tre posti di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/A1, per il Dipartimento di biologia ambientale. Gazzetta Ufficiale n. 9 del 02-02-2021. AZIENDA OSPEDALIERA “OSPEDALI RIUNITI MARCHE NORD” DI PESARO Scadenza, 7 marzo 2021 Concorso pubblico unificato, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, disciplina di laboratorio e genetica medica, per l’area della medicina diagnostica e dei servizi. Gazzetta Ufficiale n. 10 del 05-02-2021. AZIENDA SANITARIA UNIVERSITARIA GIULIANO ISONTINA DI TRIESTE Scadenza, 7 marzo 2021 Concorso pubblico, per titoli ed
Lavoro
esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 10 del 05-02-2021. AGENZIA DI TUTELA DELLA SALUTE DELLA CITTÀ METROPOLITANA DI MILANO Scadenza, 11 marzo 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di posti di dirigente biologo, disciplina microbiologia e virologia, A tempo indeterminato, per la UOS microbiologia e biologia molecolare - afferente alla UOC laboratorio di prevenzione del Dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria. Gazzetta Ufficiale n. 11 del 09-02-2021. AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE OVEST MILANESE DI LEGNANO Scadenza, 11 marzo 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, area della medicina diagnostica e dei servizi, disciplina di laboratorio di genetica medica. Gazzetta Ufficiale n. 11 del 09-02-2021. AZIENDA UNITÀ SANITARIA LOCALE DI REGGIO EMILIA Scadenza, 11 marzo 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di tre posti di dirigente biologo, disciplina di biochimica clinica. Gazzetta Ufficiale n. 11 del 09-02-2021. UNIVERSITÀ DI CATANIACONCORSO Scadenza, 11 marzo 2021 Procedura di selezione pubblica per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato di durata triennale, settore concorsuale 05/E3 - Biochimica clinica e biologia molecolare clinica. Gazzetta Ufficiale n. 11 del 09-02-2021.
UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 12 marzo 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 06/A2 - Patologia generale e patologia clinica, per il Dipartimento di farmacia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 10 del 05-022021. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 12 marzo 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/E3 - Biochimica clinica e biologia molecolare clinica, per il Dipartimento di scienze biomediche e neuromotorie. Gazzetta Ufficiale n. 10 del 05-02-2021. ESTAR - ENTE DI SUPPORTO TECNICO-AMMINISTRATIVO REGIONALE DELLA TOSCANA Scadenza, 14 marzo 2021 Conferimento dell’incarico quinquennale rinnovabile, a tempo determinato e con rapporto esclusivo, ad un dirigente biologo, chimico o
medico, disciplina di patologia clinica, area della medicina diagnostica e dei servizi, per la direzione della struttura complessa UOC Laboratorio patologia clinica dell’Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica. Gazzetta Ufficiale n. 12 del 12-02-2021. UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM” Scadenza, 16 marzo 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e pieno, settore concorsuale 05/A1 - Botanica, per il Dipartimento di scienze biologiche, geologiche e ambientali. Gazzetta Ufficiale n. 11 del 09-02-2021. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 25 marzo 2021 Valutazione comparativa, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo pieno e determinato della durata di tre anni, eventualmente prorogabile per ulteriori due, settore concorsuale 05/B2, per il Dipartimento di biologia e biotecnologie Charles Darwin. Gazzetta Ufficiale n. 15 del 23-022021.
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Scienze
Il ruolo delle diete LCD nella remissione del diabete Studio internazionale di revisione sul ruolo dei regimi alimentari con basso apporto di carboidrati per periodi brevi
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na ricerca internazionale [1] ha studiato l’efficacia di una dieta a basso contenuto di carboidrati nei pazienti con diabete di tipo 2. I primi risultati, seppur da approfondire a detta degli stessi autori, suggeriscono che questo regime alimentare porti a una remissione del diabete di tipo 2 nel breve periodo. Lo studio di Joshua Z. Goldenberg, Andrew Day, Grant D. Brinkworth, Junko Sato, Satoru Yamada, Tommy Jönsson e altri, pubblicato su BMJ, è stato sviluppato da un team di ricercatori afferenti a università e istituti dislocati tra Stati Uniti, Australia, Canada, Svezia e Giappone. L’obiettivo di partenza del lavoro era determinare l’efficacia e la sicurezza delle diete a basso contenuto di carboidrati (LCD, Low Calories Diet) e delle diete a contenuto di carboidrati molto basso (VLCD, Very Low Calories Diet) per le persone con diabete di tipo 2. Lo studio ha preso in considerazione 23 studi precedenti per una popolazione complessiva osservata di 1.357 partecipanti, che sono stati sottoposti a un lavoro di revisione e analisi. Sono state ammessi alla ricerca gli studi che avevano considerato “a basso contenuto di carboidrati” le diete che prevedevano meno di 130 g di carboidrati al giorno o meno del 26% dell’apporto di una dieta da 2.000 kcal giornaliera. Per diete “a contenuto molto basso di carboidrati” si intendeva, invece, un regime con meno del 10% di calorie proveniente dai carboidrati. Inoltre era necessario, perché gli studi venissero presi in considerazione, che questi regimi alimentari fossero stati seguiti per almeno 12 settimane da pazienti con diabete di tipo 2. Sono state incluse persone con o senza condizioni di patologia cardiovascolare, e sottoposte o meno a trattamento farmacologico del diabete. Per la selezione degli studi analizzati, inoltre, non era determinante che il regime alimentare LCD fosse accompagnato dall’esercizio fisico o da un supporto di tipo comportamentale, come la frequentazione di gruppi di sostegno. La ricerca di Goldenberg e colleghi ha avuto come esito primario la verifica della remissione del diabete (attestato sui
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valori HbA1c meno del 6,5% o glucosio a digiuno inferiore a 7 mmol/L, con o senza l’uso di farmaci per il diabete). Ulteriori outcome primari erano perdita di peso, il valore HbA1c, glicemia a digiuno e la verifica di eventuali eventi avversi. Gli esiti secondari erano la qualità della vita correlata alla salute, la riduzione dell’assunzione di farmaci e dati di laboratorio biochimici tra cui colesterolo totale, colesterolo delle lipoproteine a bassa densità, trigliceridi, marcatori dell’infiammazione (C proteina reattiva). Secondo il lavoro di Goldenberg e colleghi, dopo sei mesi, rispetto alle diete usate come controllo, nei 23 studi esaminati le diete LCD hanno raggiunto tassi più elevati di remissione del diabete. Una dimensione minore dell’effetto si è, invece, verificata quando è stata utilizzata una definizione di remissione con il valore dell’HbA1c minore di 6,5% anche in assenza di farmaci. Una valutazione collaterale ha riguardato i pazienti che facevano uso di insulina: in questi casi la remissione con diete LCD è notevolmente diminuita. Le valutazioni a 12 mesi, invece, hanno fornito dati deboli sulla remissione, che variavano da un effetto limitato a un semplice aumento del rischio di diabete. I valori della sensibilità all’insulina si sono rivelati importanti a sei mesi, ma sono calati a 12 mesi. In tutti gli studi analizzati, i partecipanti non avevano segnalato differenze significative nella qualità della vita a sei mesi, ma avevano indicato un peggioramento clinicamente importante della qualità della vita e del colesterolo delle lipoproteine a bassa densità dopo 12 mesi. In sostanza il risultato principale del lavoro di revisione suggerisce che i pazienti che aderiscono a un regime alimentare LCD per sei mesi possono sperimentare la remissione del diabete senza conseguenze negative. L’interesse di un simile lavoro sta nel contesto sanitario generale in cui si inserisce. Il diabete è una condizione diffusa e dal pesante impatto globale in termini di costi sanitari e sociali. Nel mondo il numero di persone con diabete mellito è quadruplicato negli ultimi tre decenni: questa patologia è la nona causa principale di morte a livello globale [2]. Si
Scienze
stima che un adulto su 11 abbia il diabete e che questa malattia sia responsabile dell’11% dei decessi ogni anno, con un costo diretto di 760 miliardi di dollari. Secondo i dati pubblicati nel 2017 dalla World Diabetes Federation, oggi nel mondo vivono 415 milioni persone affette da diabete: una cifra destinata ad aumentare a 642 milioni nel 2040. In Italia, l’Istituto nazionale di statistica (Istat) stima che nel 2016 le persone con diabete fossero oltre 3 milioni, pari al 5,3% dell’intera popolazione [3]. Quello di tipo 2 è la forma più comune di diabete (rappresenta il 90-95% dei casi) ed è caratterizzato Poster relativo allo studio sugli effetti delle diete LCD sulla remissione del diabete (Goldenberg et al., Efficacy and safety of low and very low carbohydrate diets for dall’insulino-resistentype 2 diabetes remission, BMJ 2021) za influenzata dall’iperglicemia cronica [4]. La diagnosi arriva in genere attraverso le misurazioni 1919 pubblicata dal Rockefellar Institute for Medical Resedella glicemia ed è associata a diversi fattori di rischio: oltre arch, intitolata “Total dietary regulation in the treatment of alla genetica, ha una forte influenza lo stile di vita, tanto nei diabetes”, e in un manuale di raccomandazioni per medici e comportamenti alimentari che in quelli relativi all’esercizio pazienti distribuito nello stesso anno (“Diabetic manual for fisico. Più di tutto, è l’obesità ad avere un impatto determi- the mutual use of doctor and patient”) dalla casa editrice nante. Lea & Febiger di Philadelphia. Un diffuso libro di testo di Ecco allora che agire su alcuni fattori di rischio costitu- medicina interna del 1923 suggeriva, tra le raccomandazioni, isce una delle principali strategie di prevenzione o abbat- una dieta composta per il 75% da grassi, il 17% da proteine, timento del rischio. Le prove a supporto dell’utilità e del il 6% da alcol e solo il 2% da carboidrati [7]. In media, la rapporto costo-efficacia della terapia nutrizionale come letteratura dell’epoca suggeriva un apporto energetico giorcomponente della cura del diabete [5] sono ormai consoli- naliero di 1.795 calorie al giorno. date. Quello alla dieta è un approccio che la letteratura pone Dopo la scoperta dell’insulina e dei farmaci ipoglicecomunemente come elemento ad integrazione della gestione mizzanti orali, gli esperti hanno gradualmente modificato farmacologica del diabete. le raccomandazioni dietetiche finendo con l’includere una Del resto, prima della scoperta del trattamento medico maggiore assunzione di carboidrati, nella convinzione che i per il diabete, la limitazione dell’assunzione di carboidrati è farmaci potessero essere utilizzati per mantenere sotto constata a lungo la raccomandazione terapeutica predominan- trollo il glucosio. te per il diabete mellito. Come ricorda uno studio del 2008 Il ruolo della dieta è stato, poi, dibattuto nuovamente [6], nei primi anni del ventesimo secolo, prima di una vasta man mano che la conoscenza dei meccanismi alla base della disponibilità di farmaci, per il trattamento del diabete mel- patologia si è fatta più precisa. Poiché un meccanismo fonlito gli esperti consigliavano la dieta con restrizione dei car- damentale alla base del diabete di tipo 2 è la resistenza all’inboidrati. Ve n’è traccia, per esempio, in una monografia del sulina influenzata dall’iperglicemia cronica, alcuni esperti Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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hanno nel tempo suggerito che la riduzione dell’assunzione alimentare di carboidrati, la maggior parte dei quali viene assorbita come glucosio o fruttosio, potesse essere utile al controllo della glicemia e, di conseguenza, avere effetti sul diabete di tipo 2. Anche su questo fronte, tuttavia, si sono registrate posizioni e valutazioni differenti nel tempo. L’unica costante, ricordano gli autori dello studio internazionale, è stata una suddivisione delle diete con basso livello di carboidrati in tre categorie: 20-50 grammi al giorno di carboidrati o un quantitativo pari a meno del 10% dell’apporto totale in una dieta da 2000 kcal (condizione che è generalmente sufficiente per indurre la chetosi); meno di 130 grammi al giorno di carboidrati o meno del 26% dell’apporto energetico complessivo; un quantitativo pari a meno del 45% dell’apporto complessivo in una dieta da 2.000 kcal giornaliere. Se è ormai riconosciuto il ruolo di una dieta strutturata come una componente essenziale del trattamento del diabete [8, 9, 10], vi è comunque ancora molta confusione su quale dieta adottare. Come fanno notare Goldenberg e colleghi, se è ormai chiaro che perdita di peso e ridotto apporto calorico totale sono importanti per l’ottenimento di un buon controllo glicemico, la proporzione ideale dei tre principali componenti alimentari (carboidrati, grassi e proteine) da raccomandare rimane poco chiaro [11]. Gli stessi autori dello studio fanno notare come la produzione scientifica a riguardo sia vasta e complessa [12]. Proprio i risultati, decisamente variegati se non contrastanti, hanno finito col diventare parte della limitazione alla definizione del problema. Alcune revisioni precedenti avevano incluso anche interventi con un apporto di carboidrati moderato, agendo così sulla “diluizione” dell’effetto di diete LCD. Altri studi di meta-analisi, segnalano ancora gli autori, si sono concentrati esclusivamente su effetti secondari come la presenza di lipidi nel sangue. Da questo quadro generale ha preso le mosse la ricerca 94 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
internazionale che, per la prima volta, si è concentrata sull’effetto delle diete LCD sui tassi di remissione del diabete, tenendo in considerazione le soglie minime delle differenze di effetto. Il gruppo di ricercatori ha voluto valutare contemporaneamente diversi parametri legati agli effetti del regime alimentare, così da fornire indicazioni su efficacia e sicurezza sia rispetto a risultati “principali” sia rispetto ad effetti secondari che potrebbero rivelarsi gravi in pazienti portatori di diabete di tipo 2. Come riferimento, lo studio di Goldenberg e colleghi ha utilizzato come riferimento di dieta a basso contenuto di carboidrati (LCD) un regime alimentare con meno di 130 grammi al giorno (o meno del 26% di calorie provenienti da carboidrati). Al termine dell’analisi dei 23 studi preesistenti, la ricerca ha verificato che le diete LCD messe a confronto con regimi di controllo per lo più a basso contenuto di grassi, permettevano ai pazienti con diabete di tipo 2 di raggiungere tassi di remissione del diabete più elevati dopo sei mesi. Non sono stati rilevati effetti dannosi statisticamente significativi e clinicamente importanti sui fattori di rischio cardiovascolare (ad esempio, lipidi, proteina C reattiva) o eventi avversi. Contemporaneamente, i regimi LCD hanno © Oleksandra Naumenko/shutterstock.com
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aumentato la perdita di peso, ridotto l’uso di farmaci e migliorato le concentrazioni di trigliceridi a sei mesi. Ma gli autori della ricerca hanno notato una tendenza agli aumenti clinicamente importanti del colesterolo delle lipoproteine a bassa densità dopo 12 mesi. Analizzando i sottogruppi di popolazione osservata, i ricercatori hanno anche notato che i tassi di remissione del diabete a sei mesi risultavano aumentati nei pazienti che non usavano insulina. Un altro risultato segnalato dallo studio riguarda il sottogruppo delle diete con livello “molto basso” di carboidrati (VLCD) che hanno sottoperformato nella perdita di peso a sei mesi rispetto agli LCD meno restrittivi. Al momento lo studio ha valutato marcatori a breve termine per la remissione del diabete: suggeriscono di sviluppare lo studio in ricerche ulteriori a lungo termine, da progettare prevedendo anche un controllo calorico per determinare gli effetti dell’LCD sulla perdita di peso e la stessa remissione del diabete, oltre a risultati secondari come mortalità da causa cardiovascolare e maggiore morbilità. Lo studio di Goldenberg e colleghi ha dunque verificato che la maggior parte dei benefici è diminuita a 12 mesi. Un dato, quest’ultimo, che è apparso coerente con le revisioni precedenti, ma che gli stessi autori suggeriscono di approfondire: è difficile determinare con certezza, spiegano, se questo risultato sia correlato all’intensità dell’intervento o all’aderenza alla dieta oltre i sei mesi. È evidente che il tema merita ulteriori studi, ma la ricerca ha alcuni punti di forza utili per farne una base di approfondimento. Il principale sta nel ricorso non solo ai dati pubblicati, ma ad un confronto diretto che i ricercatori hanno avuto con gli autori degli studi presi in considerazione, così da aver recuperato eventuali dati non pubblicati sulla remissione del diabete. Tra i punti di debolezza segnalati, invece, vi è proprio la stessa definizione di remissione del diabete che è oggetto di considerevole dibattito, in particolare per quanto riguarda i livelli soglia dell’HbA1c e di glucosio a digiuno, l’uso di farmaci e la durata del follow-up da tenere in considerazione. Permangono poi alcuni problemi di sicurezza dei regimi alimentari a basso contenuto di carboidrati. Una preoccupazione è collegata a ciò che è indicato come il potenziale fattore di confusione della restrizione calorica: la limitazione di carboidrati tende a ridurre la fame, così non è sempre chiaro se i benefici siano dovuti alla restrizione dei carboidrati o alla restrizione calorica. Tra i suggerimenti degli autori anche quello di effettuare un approfondimento sulla qualità dei macronutrienti e sulla qualità della dieta, focalizzando l’attenzione sulle differenze tra gli alimenti trasformati rispetto ai cibi non trasformati. In conclusione, dicono Goldenberg e colleghi, le evidenze suggeriscono che i pazienti che aderiscono a diete LCD per sei mesi possono sperimentare tassi più elevati di remissione del diabete senza conseguenze negative rispetto ad al-
tre diete comunemente raccomandate per la gestione della malattia. Si tratta di una strada da valutare attentamente e che potrebbe rivelarsi un utile alleato nel trattamento del diabete, ma per brevi periodi e con un costante monitoraggio dell’assunzione di farmaci per il diabete secondo necessità. (S. L.).
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Nuove speranze per la diagnosi precoce della PAH Individuato un nuovo potenziale marcatore diagnostico e prognostico dell’ipertensione arteriosa polmonare
di Giada Fedri
L’
ipertensione arteriosa polmonare (PAH) è una malattia rara e progressiva che annovera tra 15 e 50 casi per milione di individui adulti [1]. Sebbene la fisiopatologia non sia ben compresa, la predisposizione genetica e i fattori ambientali sono i principali responsabili dell’aumento della resistenza vascolare polmonare, aspetto chiave dell’eziogenesi della PAH. Oltre all’ereditabilità e l’esposizione a specifici agenti esterni, le cause di PAH sono numerose e disparate. Può avere origine idiopatica, iatrogena o essere correlata ad altre patologie come malattie del tessuto connettivo e polmonare, infezione da HIV, ipertensione, cardiopatie congenite, anemia, esposizione cronica ad alta quota, anomalie dello sviluppo, patologie ematologiche e sistemiche [2]. Recenti ricerche hanno collegato anche il metabolismo cellulare e sistemico alterato alla promozione della malattia vascolare polmonare e l’insufficienza cardiaca destra, tipiche della PAH [3]–[5]. Alla lista si aggiungono il diabete mellito e la resistenza all’insulina, in quanto presenti in soggetti non obesi ma affetti da PAH, suggerendo che possano contribuire all’insorgenza della patologia [6]–[9]. L’ipertensione arteriosa polmonare è una malattia fatale, caratterizzata dapprima da un aumento del rimodellamento vascolare nei polmoni e da una pressione arteriosa polmonare elevata [10], [11]. L’aumento della pressione causa lo sviluppo progressivo della resistenza vascolare polmonare che, se non attenuata in tempo, provoca un sovraccarico del ventricolo destro che progredisce in disfunzione e poi insufficienza cardiaca destra [12], [13], causa di morte prematura [14]. Per questi motivi, prima della disponibilità di terapie più specifiche intorno alla metà degli anni ‘80, l’aspettativa di vita dal momento della diagnosi di PAH era inferiore a tre anni [2], [15]. Nonostante nell’ultimo secolo le
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proposte terapeutiche siano notevolmente aumentate, il tasso di mortalità a 5 anni rimane superiore al 40% [1], [16]. La PAH è una malattia fortemente eterogenea e caratterizzata da molteplici meccanismi patologici; gli attuali trattamenti si concentrano principalmente sulla vasocostrizione polmonare dinamica che, per quanto possano migliorare la capacità funzionale polmonare e l’emodinamica dei pazienti, non coprono gli altri effetti correlati, mantenendo quindi ancora alta la probabilità di decesso. La PAH è una malattia insidiosa che richiede una diagnosi precoce e tempestiva, resa difficile dalla presenza di molteplici sintomi aspecifici come mancanza di respiro, affaticamento, debolezza, dolore toracico, sincope, gonfiore delle gambe e distensione addominale, comuni a molteplici patologie. Quando tali sintomi sono presenti a riposo, significa che la malattia è ormai in uno stadio molto avanzato [1]. Una volta che dall’anamnesi emerge il sospetto di PAH, è fondamentale procedere con i test diagnostici specifici per confermare la presenza di pressione cardiaca elevata nel lato destro ed escludere malattie polmonari valvolari, miocardiche primarie e croniche, tromboemboliche e le altre cause di ipertensione polmonare secondaria. In generale la malattia del cuore sinistro (LHD) è una delle cause più comuni di PH. Può essere causato da insufficienza cardiaca cronica attribuibile a disfunzione del ventricolo sinistro di origine sistolica, diastolica o da altre malattie valvolari prevalentemente a carico della valvola mitrale [17]. Fino al 60% dei pazienti con grave disfunzione sistolica e fino al 70% di quelli con disfunzione diastolica del ventricolo sinistro rischiano di sviluppare PH, con prognosi particolarmente sfavorevole [18], [19]. Attualmente lo standard di riferimento per la diagnosi della PAH è il cateterismo cardiaco destro (RHC), che non solo conferma la presenza della patologia, ma
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fornisce anche informazioni emodinamiche prognostiche (pressione atriale destra media e resistenza vascolare polmonare [20]), importanti per decidere il percorso terapeutico appropriato. D’altra parte è una procedura piuttosto invasiva, i pazienti che si sottopongono a RHC purtroppo rischiano di avere gravi complicanze con un incidenza del l’1-8% , tra cui sanguinamento, reazioni vaso-vagali, ipotensione sistemica, danni arteriosi, aritmie, crisi ipertensive, pneumotorace, reazioni anafilattiche, shock, crisi epilettiche, tossicità renale, ictus, infarto del miocardio e nel 0,055 % dei casi anche la morte [21]. Esistono alternative meno invasive e pericolose per lo screening e l’analisi del decorso della PAH come l’ecocardiogramma transtoracico e l’eco-cardiografia, utili per la valutazione della pressione sistolica ventricolare destra e di altri sintomi come l’aumento delle dimensioni della camera del lato destro e lo spessore delle pareti cardiache [22]. Questi test però hanno un’accuratezza e precisione inferiore fino al 60% rispetto alla RHC [23] e proprio in virtù dei limiti dell’ecocardiografia, nell’ultimo decennio è in crescente aumento lo studio e la ricerca di bio-marcatori validi per lo screening e per il follow-up dei pazienti affetti da PAH. Ad oggi, i principali candidati sono il peptide natriuretico di tipo B (BNP) e il suo frammento inattivo NT-proBNP (frammento ammino-terminale del pro-peptide natriuretico di tipo B), normalmente prodotti nel cuore e rilasciati in occasione di sollecitazioni cardiache. Il rilascio di queste proteine è conseguente alla ritenzione di liquidi, all’aumento del volume arterioso e venoso, alla sollecitazione e allo stiramento delle cellule musco-
lari cardiache. Il precursore di BNP (pro-BNP) è prodotto principalmente dal ventricolo cardiaco sinistro, responsabile del pompaggio del sangue in tutto l’organismo e conseguentemente delle variazioni del volume e della pressione sanguigna; il pro-BNP poi subisce una scissone enzimatica che produce l’ormone attivo BNP e il suo frammento inattivo, NT-proBNP. Quando il ventricolo sinistro è dilatato per l’eccessivo carico di lavoro, la concentrazione ematica di BNP e/o di NT-proBNP aumenta notevolmente, riflettendo quindi la diminuita capacità del cuore di far fronte a queste richieste. Sebbene questi bio-marcatori abbiano dimostrato una buona correlazione con la presenza di PAH [24], [25] sono in realtà marker generali di disfunzione cardiaca, alterati anche in presenza di altre malattie a carico del cuore e di disfunzione renale [26], [27], dimostrandosi quindi marcatori non specifici e causa di confusione diagnostica. Altri bio-marcatori sono attualmente in esame, tra cui il peptide natriuretico atriale, l’endotelina-1, l’acido urico, la troponina T, l’ossido nitrico, la dimetil-arginina la guanosina monofosfato, il D-dimero e la serotonina [28], così come la concentrazione alterata di citochine infiammatorie (come il fattore di necrosi tumorale alfa e l’interleuchina 6), correlate alla forma idiopatica della PAH [29]. Non esiste ancora però, un candidato che sia sufficientemente accurato e specifico per la diagnosi univoca di PAH e abbastanza preciso ed affidabile da permettere la comprensione dell’evoluzione pato-biologica della malattia e da scegliere per il monitoraggio non invasivo della sua progressione. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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A questo scopo, un gruppo di ricercatori della “Johns Hopkins University” di Baltimora, dopo un accurato studio che ha coinvolto 330 pazienti affetti da PAH ha individuato IGFBP-2 (insulin-like growth factor binding protein-2), la proteina 2 legante il fattore di crescita insulino-simile, come nuovo bio-marcatore plasmatico per valutare la presenza, la gravità e la progressione dell’ipertensione arteriosa polmonare [30]. I fattori di crescita simili all’insulina (IGF) sono proteine con un’alta somiglianza di sequenza all’insulina e sono i protagonisti di un complesso sistema di comunicazione cellulare definito “asse IGF”, che comprende due ormoni (IGF1 e 2) che si legano ai due rispettivi recettori (IGFR1 e 2) e a 6 proteine leganti (IGFBP1-6) con elevata affinità [31]. Il ruolo principale delle proteine che legano gli IGF circolanti è quello di proteggerli dalla degradazione, ma hanno anche funzioni indipendenti dai meccanismi legati all’asse IGF [32] tra cui stimolare la crescita cellulare [33]. IGFBP-2 in particolare può svolgere un ruolo specifico nella funzione polmonare, la sua concentrazione plasmatica è infatti fortemente correlata alla progressione e il trattamento della fibrosi polmonare [34]. Gli IGFBP circolanti sono stati associati ad altre malattie cardio-polmonari [34], [35]. Ad esempio, un esperimento sugli embrioni di pesce zebra, ha dimostrato che l’inibizione mirata di IGFBP2 porta allo sviluppo di difetti angiogenici, interrompe lo sviluppo cardiovascolare, riduce il numero di globuli, provoca disfunzione cardiaca ed edema del ventricolo cerebrale [36]. Nell’uomo, IGFBP-2 è sovra-espresso in diverse forme di cancro, dove agisce sulla funzionalità vascolare e sull’angiogenesi ed è coinvolto nei meccanismi di 98 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
crescita dei vasi sanguigni attorno ai tumori di grandi dimensioni inoltre, i suoi livelli di espressione risultano direttamente proporzionali al grado di malignità e alla scarsa differenziazione dei tumori [37], [38]. Il gruppo di ricerca di Baltimora ha dimostrato che i livelli sierici di IGFBP-2 sono significativamente aumentati nei pazienti con PAH rispetto ai soggetti sani, ed ha individuato anche il valore soglia (262,8 ng/ml) che potrebbe differenziare le persone con ipertensione arteriosa polmonare da chi soffre di altre patologie. Inoltre, i ricercatori hanno dimostrato che oltre ad essere fondamentale per la diagnosi, IGFBP-2 è un importante fattore prognostico infatti, all’aumentare dei suoi valori plasmatici si osserva un aggravamento della PAH e una diminuzione dell’indice di sopravvivenza. Ma i ricercatori non si sono limitati a questo: analizzando il tessuto prelevato dai polmoni dei pazienti con PAH, hanno dimostrato che la proteina IGFBP-2 è altamente espressa nei tessuti polmonari ed è prodotta direttamente livello dei vasi sanguigni. In particolare, hanno capito che sono proprio le cellule endoteliali e le cellule muscolari lisce delle arterie polmonari a produrre, secernere e rilasciare nella circolazione sanguigna IGFBP-2. Lo stesso gruppo di ricerca ha lavorato parallelamente nello studio della PAH in ambito pediatrico, dimostrando allo stesso modo come L’IGFBP-2 circolante fosse un nuovo marker valido per la PAH nei bambini, e come anche in questo caso fosse associato a uno stato funzionale peggiore e una minor sopravvivenza [39]. Tutti questi risultati sottolineano come la disregolazione dell’asse IGF possa avere una responsabilità centrale nell’ipertensione arteriosa polmonare pediatrica e
Scienze negli adulti, e come IGFBP-2 abbia un ruolo chiave nei processi patologici della PAH. IGFBP2 può essere definito quindi come un potenziale nuovo bio-marcatore specifico e non invasivo della PAH, associato alla presenza, alla gravità e alla sopravvivenza alla malattia e come meriti ulteriori studi per ottenere preziose informazioni cliniche e prognostiche. È necessaria una migliore comprensione di questo nuovo percorso molecolare per supportare lo sviluppo di approcci terapeutici innovativi e mirati, e sfruttare queste nuove importanti informazioni dei processi patologici della PAH per affrontare e combattere una malattia così grave e letale.
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Covid-19: inquinamento, impronta ecologica e clima Proposta di strategia per le aree interne e progetto “Borghi del benessere”
di Teresa Pandolfi, Giovanni Misasi e Matteo Olivieri*
Q
uesto studio si inserisce nel solco del position paper della Società Italiana di Medicina Ambientale (2020), dei dati della Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) e dell’OCSE (2020), e del working paper della università di Harvard (Wu et al., 2020), secondo cui il meccanismo di contagio del Covid-19 sembrerebbe collegato all’inquinamento atmosferico, che funge da vettore di trasporto del coronavirus. Anche le rilevazioni ambientali condotte nella regione Calabria dalla Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (ASBSF) durante il periodo di lockdown, sembrano confermare tale ipotesi, nel confronto con altre regioni italiane. L’implicazione principale di questo studio è che la tutela della salute umana e quella del nostro pianeta sono attività interconnesse, e ciò delinea nuove prospettive nella pianificazione territoriale ed urbanistica in ottica ecosostenibile. Per supportare un cambio di paradigma, che ormai appare non più rinviabile, viene presentato il progetto “i Borghi del Benessere”, il cui obiettivo è la promozione di un concetto di sviluppo sostenibile che sia al contempo diffuso, tale cioè da invertire la tendenza alla concentrazione di risorse nei centri urbani, e partecipato, attraverso forme decentrate di governance territoriale, che combattano lo spopolamento in atto nelle aree interne e valorizzino i borghi, quali cerniera tra aree urbane, agricole e naturali. Covid-19 e inquinamento atmosferico In Italia il Covid-19 ha colpito le regioni del Nord e ha risparmiato quelle del Sud. In particolare, la pandemia ha colpito duramente le aree della Pianura Padana (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna) che, in base ai dati dell’AgenComitato tecnico-scientifico della Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (ASBSF), Cosenza, presidenza@asbsf.it.
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zia Europea per l’Ambiente (Eea) e dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa), sono tra le più inquinate d’Europa. Anche lo studio di Watts e Belesova (2019), pubblicato su The Lancet, conferma che l’Italia è il primo paese in Europa, e l’undicesimo nel mondo, per numero di morti premature causate dalla esposizione alle polveri sottili Pm2,5. Similitudini sono state notate anche con la provincia cinese di Wuhan e la regione autonoma spagnola di Barcellona, pure fortemente colpite dal coronavirus e aree fortemente inquinate. Tale evidenza ha indotto ad ipotizzare che i livelli di inquinamento atmosferico possano essere associati alla diversa propagazione dell’epidemia, attraverso la presenza di polveri sottili nell’aria (Pm10 e il Pm2,5), le quali – fungendo da vettori di trasmissione del virus – ne amplificano la diffusione spaziale. In particolare, tenuto conto che il principale sintomo del coronavirus sono le complicanze respiratorie, si è ipotizzata una correlazione tra la esposizione prolungata agli inquinanti atmosferici e la maggiore vulnerabilità al coronavirus. Infatti, le polveri sottili presenti nell’aria hanno dimensioni microscopiche, nell’ordine di diametro uguale o inferiore a 10 millesimi di millimetro e, attraverso le vie respiratorie, riescono a penetrare stabilmente nei polmoni, causando perciò infiammazioni e rischi per la salute. La pericolosità di tali polveri sottili è poi direttamente proporzionale alla loro dimensione: infatti, tanto più piccole sono tali particelle, tanto più facilmente esse vengono inalate nel sistema respiratorio e, quindi, danneggiare gli alveoli polmonari. Cambiamenti climatici e protezione della salute umana Il termine particolato indica un insieme di sostanze costituite da polveri sottili, fumo, microparticelle o anche sostanze liquide che rimangono sospese in atmosfera e – in presenza di particolari condizioni climatiche, come la assenza di piogge o di venti prevalenti – determinano un duraturo peggioramento della qualità dell’aria respirata e quindi un
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effetto “aerosol”. Se di origine antropica, il particolato è il risultato dei processi di combustione termica nel settore dei trasporti, nelle attività che utilizzano sostanze chimiche volatili (quali solventi e carburanti), in impianti industriali a ciclo continuo come centrali elettriche o termovalorizzatori, nei sistemi di riscaldamento o refrigerazione in aree ad alta concentrazione antropica, come pure in agricoltura intensiva, mediante l’utilizzo di fertilizzanti azotati che causano la dispersione di ammoniaca in atmosfera. Inoltre, le polveri sottili possono essere causate indirettamente da comportamenti predatori posti in essere dagli esseri umani, spesso responsabili di incendi boschivi o di dissesto idrogeologico nel tentativo di consumare maggiore quantità di suolo per finalità produttive. La direttiva europea sulla qualità dell’aria (2008/CE/50) fissa per il particolato Pm10 il limite medio giornaliero di 50 µg/m3 e max 35 sforamenti in un anno, e quello medio annuale pari a 40 µg/m3. I valori soglia per il particolato ultrasottile Pm2,5 sono ancora più stringenti: infatti, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) indicano in 10 μg/m3 il valore associato con elevati rischi per la salute umana. Nonostante ciò, le città italiane sono malate. Secondo l’Ocse (2020), l’Italia registra valori durevolmente al di sopra dei limiti. Inoltre, nel dossier annuale di Legambiente “Mal’aria di città” (2020), si legge che il 2019 è stato un “anno nero per la qualità dell’aria”, poiché ben 26 centri urbani sono risultati “fuorilegge” in relazione al superamento dei valori limite di legge riguardanti le polveri sottili (Pm10) e l’ozono (O3), e 54 città hanno superato il numero massimo di sforamenti di legge, fissato in 35 giorni all’anno per il Pm10 e in 25 per l’ozono (O3). Per il settimo anno nelle ultime dieci rilevazioni condotte dall’associazione ambientalista, è Torino la città d’Italia col maggior numero di sforamenti (147 “giornate fuorilegge” nel solo ultimo anno, di cui 86 per il Pm10 e 61 per
l’ozono), seguita da Lodi con 135 (55 per Pm10 e 80 per ozono) e Pavia con 130 (65 superamenti per entrambi gli inquinanti. Limitando l’attenzione al solo parametro Pm10, in base ai dati forniti da Legambiente, la città di Torino (centralina Grassi) si colloca ancora una volta in testa alla classifica italiana per numero di sforamenti annuali delle soglie di legge (86 giorni/anno), seguita da Milano (centralina Marche) con 72 giorni/ anno di sforamenti e Rovigo (centro) con 69 giorni/anno, e poi Frosinone (scalo), Venezia (Beccaria e Tagliamento), Alessandria (D’Annunzio), Padova (Arcella), Pavia (P.zza Minerva), Cremona (P.zza Cadorna) e Treviso (S. Agnese), dove i giorni di superamento dei limiti di legge sono compresi tra 68 e 62 giorni all’anno. Impronta ecologica e livello di antropizzazione La ”impronta ecologica” (ingl. “carbon footprint”) è un parametro utilizzato a livello mondiale per la stima delle emissioni di gas clima-alteranti, responsabili del riscaldamento del pianeta, cioè il c.d. “effetto-serra”. Il Protocollo di Kyoto definisce sette gas ad “effetto-serra”, ovvero l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido d’azoto (N2O), gli idrofluorocarburi (HFCs), i clorofuorocarburi (CFCs), i perfluorocarburi (PFCs) e l’esafluoruro di zolfo (SF6), ma tra essi l’attenzione massima è rivolta alle emissioni di anidride carbonica, in quanto gas prevalente in natura nonché sottoprodotto delle attività antropiche. E’ possibile esprimere l’impronta ecologica anche in termini di “porzione di territorio” (terrestre o acquatico) di cui una comunità ha bisogno per riprodurre le risorse consumate o per neutralizzare le emissioni inquinanti prodotte. Comunemente, il termine viene utilizzato per la stima di quanti pianeti equivalenti alla Terra sarebbero necessari per sostenere gli attuali stili di vita umani. In base ai dati del 2019 forniti dal Global Footprint Network (ma riferiti al 2016), l’impronta ecologica dell’Italia è pari a 4,4 ettari pro-capite, equivalenti ad una biocapacità di 0,9 ettari pro-capite ed un deficit ecologico di -3,5 ettari pro-capite. Questo significa che viviamo al di sopra delle nostre possibilità e, quindi, utilizziamo una quantità di risorse naturali incompatibile con la tutela della salute umana. Il crescente consumo di suolo, l’utilizzo di processi industriali inefficienti e la densità abitativa comportano squilibri naturali spesso irreversibili, e pongono a rischio la sopravvivenza del genere umano. L’aumento del degrado è visibiIl Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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alcuni casi anche ai massimi storici, con superamenti generalizzati del limite giornaliero di 50 µg/m3 ad Alessandria il 18 ed il 19 marzo, e a Novara il 18 marzo. Tale anomalia è stata motivata dalle autorità competenti con l’arrivo di polveri del deserto.
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le soprattutto nelle regioni industrializzate, dove l’impatto ambientale causato dall’antropizzazione è maggiore rispetto al passato, non solo per l’aumento della popolazione, ma anche per le maggiori fonti di inquinamento e conseguente perdita di biodiversità. Inquinamento atmosferico a confronto tra regioni italiane I campionamenti ambientali eseguiti da ASBSF in Calabria durante i mesi di marzo e aprile 2020 hanno riguardato le cinque città capoluogo, nonché le aree industriali di Gioia Tauro (porto e termovalorizzatore) e Crotone (impianto a biomasse), alcuni cantieri della autostrada A2 e in prossimità di svincoli della SS 106, dove si registrano notevoli volumi di traffico. La campagna di monitoraggio ha evidenziato ovunque concentrazioni di particolato atmosferico sottile (Pm10) e ultrasottile (Pm2,5), nonché di metalli pesanti e di inquinanti gassosi (CO e SO2) al di sotto dei limiti di legge. I risultati ottenuti confermano, completandole, le rilevazioni della Agenzia Regionale per la protezione dell’Ambiente della Calabria (Arpacal). Nello stesso periodo, le rilevazioni condotte in Veneto dalla Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale (Arpa), evidenziavano diffusi sforamenti delle concentrazioni di Pm10, con valori superiori di oltre il doppio dei limiti di legge. In particolare, nei giorni 27/28/29 marzo 2020, le concentrazioni giornaliere hanno toccato punte di oltre 100 µg/m3 in tutta la regione, ad eccezione della zona alpina e prealpina. L’inquinamento da particolato è stato registrato anche in Lombardia, dove i superamenti della concentrazione di Pm10 hanno riguardato quasi tutte le province, con valori nettamente superiori al limite di 50 µg/m3 per più giorni consecutivi e nonostante il lockdown. Infine, in Piemonte si sono registrati aumenti anomali delle concentrazioni di Pm10 nel periodo 16/19 marzo 2020, con valori superiori non solo alla media del periodo, ma, in 102 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
Nuove prospettive nella pianificazione territoriale Inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici sono fenomeni correlati. Infatti, il particolato causato dalle emissioni di gas serra rimane in atmosfera sotto forma di black carbon (BC) o di gas quali anidride carbonica (CO2) e ozono troposferico (O3) – sostanze che hanno un potenziale impatto negativo sul clima e sul riscaldamento globale – oppure finisce nei mari, contribuendo così al fenomeno di “acidificazione degli oceani”, ritenuto causa dell’estinzione di numerose specie viventi. Lo sviluppo sostenibile delle aree urbane è una sfida di importanza fondamentale per ridurre le emissioni di carbonio e, quindi, per proteggere la vita. Per questo motivo esiste un consenso crescente sul fatto che occorre agire sui fattori precursori dei gas ad effetto serra per mitigare i cambiamenti climatici in atto, tra l’altro progettando gli spazi in maniera flessibile, in modo che siano adattabili alle mutate esigenze di vita. La sfida di costruire città a emissioni-zero (“carbon neutral”) non è irrealizzabile ma, anzi, è alla nostra portata. Anche in passato, le epidemie hanno imposto di ripensare urbanisticamente le città e le infrastrutture, in modo da garantire la sicurezza alimentare, la fornitura di servizi pubblici essenziali, e la amenità di vita in abitazioni ben fatte. Per riuscire anche questa volta, è fondamentale ripensare l’impronta ecologica dei processi antropici facendo ricorso a tecnologie pulite e a soluzioni innovative derivate dalla scienza, in modo da includere fattori di mitigazione dei rischi, con particolare riferimento nel settore energetico, dei trasporti e delle telecomunicazioni. Occorre implementare azioni in molti direzioni, a partire da quelle realizzabili con poco sforzo e immediato. Per esempio, è indispensabile ripensare urbanisticamente le nostre città, attraverso la trasformazione di aree degradate o marginali in “corridoi verdi”, che – oltre a favorire l’assorbimento di inquinanti atmosferici – consentono di dare un apporto significativo nella lotta alle isole di calore urbano, al bilancio energetico e alla rigenerazione di risorse naturali attraverso l’azione degli insetti impollinatori. In questo processo di transizione ecologica delle aree antropizzate, che
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vede la biologia in prima linea assieme ad altre discipline scientifiche, viene condivisa la necessità di migliorare la qualità della vita delle persone attraverso l’utilizzo sinergico e non predatorio delle risorse naturali. Il mondo post-pandemia e la simbiosi con l’ambiente La pandemia di Covid-19 ha messo in luce le debolezze dell’attuale modello di sviluppo. Improvvisamente ci siamo resi conto che ospedali, mezzi di trasporto pubblico, centri commerciali e altri luoghi di assembramento possono trasformarsi in veicoli di trasmissione del virus, e perfino le case sono apparse luoghi inospitali dove trascorrere il periodo di isolamento forzato. Nella impossibilità di garantire un adeguato distanziamento sociale non è rimasta altra scelta che fermare tutte le attività produttive e culturali, e così le nostre città sono diventate in breve tempo degli ambienti ostili e inadatti alla vita degli individui. Perfino le infrastrutture strategiche sono state messe a dura prova: per esempio, il lockdown ha imposto un aumento dei rifiuti indifferenziati (ponendo così nuove sfide ambientali), mentre tracce di coronavirus sono state trovate negli impianti fognari e di depurazione di numerose città (con potenziale rischio di contaminazione degli acquiferi dove la depurazione è carente). Ci siamo resi conto che ogni aspetto del nostro vivere è stato organizzato sulla base di assunzioni rigide, che – se messe in discussione da eventi di eccezionale gravità – non sono in grado di adattarsi prontamente alle mutate condizioni di sistema, e quindi conducono ad un sostanziale peggioramento del benessere. Addirittura, proprio le infrastrutture, progettate per garantire la connessione tra cose e persone, sono apparse inservibili nel momento di maggiore bisogno, e dunque antieconomiche a causa di improvvisa carenza di domanda. Tutto ciò ha contribuito a creare la percezione di una situazione di precarietà e pericolo, i cui effetti psicologici sono destinati a durare verosimilmente a lungo nella mente degli individui. In tutto questo rivolgimento culturale, nuove discipline scientifiche si sono ritagliate un posto di rilievo nel dibatti-
to pubblico, e tra esse soprattutto l’economia e la biologia, dalla cui interazione è sorto un rinnovato interesse verso i temi dello sviluppo sostenibile. Al centro della discussione si è posto il tema della tutela degli ecosistemi, il cui valore è rappresentato dalla riserva di biodiversità anziché dalla sola riserva di materie prime estraibili. La salute degli ecosistemi è diventata una variabile strategica nel mondo post-pandemia, poiché nel mondo animale e vegetale è possibile trovare degli alleati per risolvere problemi pratici della vita umana: batteri, funghi, protozoi, alghe, muschi, insetti, pesci, sono “operai” preziosi, in quanto sono in grado di scomporre le catene chimiche complesse e restituire all’ambiente i nutrienti necessari, oltre che l’energia creata dalla fotosintesi clorofilliana. Finora abbiamo sottovalutato questo aspetto, ma ora è arrivato il momento di cambiare, e la pandemia ci impone di farlo! Così, dotarsi di piani di tutela dell’aria e dell’acqua dall’inquinamento e difendere la fertilità dei suoli, ci offre la possibilità di rafforzare le nostre difese immunitarie, smaltire in sicurezza i rifiuti, produrre energie rinnovabili, garantire la sicurezza alimentare, e perfino curare certi disturbi della personalità. Per troppo tempo abbiamo tollerato il degrado degli habitat pensando che ciò fosse necessario per promuovere lo © Nhemz/shutterstock.com
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sviluppo economico. Ed invece tutto ciò si è tradotto unicamente in un deterioramento della nostra qualità di vita. Si è guardato a foreste, fiumi, mari unicamente come riserve di biomassa da sfruttare a basso costo, mentre poca o nulla attenzione è stata rivolta ad essi in quanto rigeneratori di risorse naturali, ovvero quali riserve di carbonio in grado di assicurare la prosecuzione della vita sulla Terra. Mai si è guardato agli habitat quale prima linea di difesa contro la diffusione dei virus né mai si è provato a trovare soluzioni innovative ai problemi comunitari senza dover per forza intaccare il capitale naturale. E, se non si può escludere che in futuro un altro virus sconosciuto colpisca duramente il genere umano, non di meno è possibile mitigare i rischi di una nuova epidemia, rendendo salubri e ameni i luoghi abitati, e diminuendo la dipendenza umana da fonti di energia non sostenibili o da linee di approvvigionamento insicure. Occorre favorire l’azione dei processi naturali fin dentro le nostre città, prevenendo l’inquinamento e ogni altra condizione che possa far prosperare i virus. Dobbiamo ripensare i processi produttivi, in modo da poter essere certi che essi continuino ad operare anche in situazioni di emergenza estrema. Soprattutto, abbiamo bisogno di soluzioni decentrate e ritagliate sui bisogni specifici delle nostre comunità, e la biologia (assieme alle biotecnologie) ci aiuta a farlo. Il campo di discussione è ampio e variegato, ma il dibattito tra discipline scientifiche oggettivamente differenti è possibile perché – in fondo – ad accumunarle c’è la vocazione originaria al sapere olistico, alla poliedricità dell’ingegno, alla sintesi interdisciplinare, che vede l’essere umano non come una entità isolata o egoista, bensì come parte di un ecosistema vivente fatto di relazioni simbiotiche con l’ambiente circostante. Solo a partire da un diverso sguardo sull’umano, le nostre città potranno mutare in meglio in futuro, abbandonando modelli di sviluppo basati sul consumo irreversibile di suolo, e promuovendo invece una sinergia tra ambiente urbano, rurale e forestale. Progetto “Borghi del benessere” Il progetto “I borghi del Benessere”, promosso da ASBSF, nasce nel 2013 con l’obiettivo di stimolare il dibattito pubblico intorno al ruolo strategico dei borghi italiani quali depositari di conoscenze e competenze a rischio di estinzione, e di favorire altresì un nuovo modello di vita sociale, ecosostenibile, che promuova il contatto attivo delle persone con l’ambiente naturale. Ad oggi sono 44 i Comuni calabresi che hanno aderito formalmente al progetto tramite protocollo di intesa. L’idea di fondo è che la definizione attuale di progresso ha allontanato le persone dalla consapevolezza che la sopravvivenza del genere umano dipende dallo preservazione dello stato di salute del territorio e, pertanto, una maggiore comprensione 104 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
delle relazioni esistenti tra matrici ambientali aria-acqua-suolo-energia è la chiave per © Anastasiia Tymoshenko/shutterstock.com prenderci cura fattivamente del pianeta Terra. L’iniziativa si inserisce pertanto nel filone della lotta ai cambiamenti climatici, e si ripropone di riconoscere ai borghi il ruolo di cerniera tra aree urbane, agricole e naturali. Nei borghi, infatti, si producono buona parte delle derrate alimentari e le materie prime che trovano un mercato nelle aree a maggiore densità abitativa, come pure i servizi ecosistemici utili alla crescita delle aree urbanizzate. Per esempio, è nei borghi peri-urbani che inizia la lotta al dissesto idrogeologico o agli incendi, come pure la rigenerazione di capitale naturale e la protezione del paesaggio. Non deve stupire, pertanto, se tra aree urbanizzate, naturali e rurali si siano sviluppati storicamente dei rapporti sinergici e di mutua dipendenza, tanto che oggi i borghi sono unanimemente considerati dei presidi avanzati di controllo di aree marginali del territorio, nonché serbatoio di un grande patrimonio della nostra cultura. Tra i vantaggi di questo approccio vanno citate la possibilità di implementare politiche di coesione dal basso, capaci di ridurre i divari territoriali tra aree centrali e periferiche di una nazione, nonché sperimentare un modello di sviluppo economico pluridimensionale, disegnato sulla base delle specificità territoriali anziché essere incentrato sulla industrializzazione quale unico motore di sviluppo economico. Tra le numerose azioni finora svolte e/o in itinere, spesso in collaborazione con scuole e gruppi di animazione locale, si citano: A) Progetto Sarcopenia La sarcopenia indica la perdita progressiva di massa muscolare e la conseguente diminuzione delle forze, che si verifica in prevalenza nelle persone anziane. Con l’avanzare dell’età, infatti, gli esseri umani tendono naturalmente a perdere parte delle forze fisiche, rendendo l’organismo umano fragile e più esposto alle malattie. Nei casi più gravi, la sarcopenia è accompagnata dall’insorgere di problemi psicologici, poiché il progressivo deterioramento delle condizioni fisiche e la conseguente difficoltà nello svolgere le azioni abituali, può essere causa di autoesclusione sociale o di depressione, soprattutto in quelle persone che con fatica accettano l’inevitabile declino fisico. Dal momento che non esistono farmaci in grado di guarire dalla sarcopenia, gli unici rimedi ritenuti efficaci per mantenere un adeguato stato di salute, sono un’alimentazione equilibrata (come la dieta mediterranea), una buona idratazione con il giusto apporto di sali minerali, assieme a una moderata attività fisica e al buonumore. Infat-
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ti, l’esposizione prolungata ai raggi solari favorisce la produzione di vitamina D, un ormone naturale ritenuto parte del processo di mantenimento del tono muscolare. Tali attività sono facilitate nei borghi. Il “Progetto Sarcopenia” intende valorizzare il valore sociale degli anziani, favorendone l’attivismo e l’inclusione sociale, attraverso attività a basso sforzo fisico quali l’orticoltura, laboratori di artigianato, incontri culturali (cfr. anche il progetto “Piatto della salute”), attività ricreative all’aperto (passeggiate ecologiche, giardinaggio, ecc.), scambio di conoscenze intergenerazionali, in modo da favorire l’attività motoria in un contesto amichevole e accogliente. B) Progetto “Piatto della Salute” Il tema del cibo salutare è tornato prepotentemente di attualità in tutto il mondo. I cibi organici e biologici, in particolar modo quelli ricchi di aminoacidi, spesso prodotti a km-zero, risultano particolarmente utili per rafforzare il sistema immunitario, equilibrare il rapporto tra massa muscolare e grassi, contribuire al dinamismo delle funzioni cerebrali e, quindi, rallentare i processi di invecchiamento naturale. Il progetto consiste in più azioni poste sotto la supervisione di ASBSF, tra cui la certificazione dei processi produttivi biologici, il rilascio di marchi di qualità a “denominazione comunale d’origine” (De.Co.), la tutela e la valorizzazione delle varietà di cibo autoctono o a rischio di estinzione (p.e. grani antichi), e la diffusione di conoscenze legate al corretto valore nutritivo del cibo. Tale iniziativa è stata poi ulteriormente declinata nel progetto “Ambasciatori della salute”, volto a identificare dei testimonial credibili nel diffondere le buone pratiche salutari nella produzione e nel consumo di cibo nelle comunità locali, nonché nei progetti-gemelli, a) “Casetta dell’acqua”, che – oltre a contribuire alla riduzione delle plastiche monouso – intende sensibilizzare le persone sull’importanza di bere acqua dotata del giusto apporto di sali minerali e priva di cloro, e b) “Biopackaging”, con la progressiva sostituzione di imballaggi in plastica con bio-polimeri naturali, per esempio quelli ottenuti a partire dagli scarti di produzione delle arance. Conclusioni Ogni crisi porta con sé la possibilità di ripensare il modo di vivere da lasciare in eredità alle future generazioni. Ciò che il Covid-19 ha insegnato è che l’inquinamento può essere un veicolo di trasmissione di virus insidiosi, ma anche il fatto che le pandemie mettono in luce le fragilità della società, con conseguenze da pagare in termini di diseguaglian-
ze sociali nell’accesso ai servizi essenziali. Purtroppo, ad essere colpite maggiormente dagli effetti del virus sono state le persone che vivono in aree di degrado ambientale o di disagio sociale. Ripensare l’urbanistica in funzione equa ed ecosostenibile è dunque una necessità non più rinviabile. Ciò comprende tra l’altro il ripensamento delle funzioni abitative e l’uso di infrastrutture essenziali, legate alla mobilità (strade, ferrovie, porti, aeroporti, ecc.), all’educazione (scuole, università), alla salute (ospedali, laboratori, case di cura) e alla vita pubblica (tribunali, uffici pubblici, ecc.). Per questo motivo, vale la pena investire per aumentare la capacità di produrre localmente le risorse di cui si ha bisogno, decongestionando le aree più densamente popolate soprattutto durante lunghi periodi di confinamento sociale, e e riducendo il rischio sanitario. La sfida riguarda un cambio di paradigma nei rapporti tra aree urbane, agricole e naturali, tenendo conto delle implicazioni economiche, sociali e ambientali dell’inquinamento atmosferico sulle scelte di pianificazione territoriale, che passano attraverso una riduzione dell’impronta ecologica; la tutela della biodiversità; una maggiore resilienza ai cambiamenti climatici; la tutela dell’ambiente e lo stile di vita salutare. Tutti elementi che favoriscono il benessere degli individui, rendendoli meglio in grado di contrastare le minacce di agenti patogeni, e possono creare nuove opportunità di lavoro in settori finora trascurati.
Bibliografia - European Network for Rural Development, “A Strategy for Inner Areas Italy”, Working document. - ntergovernmental Panel on Climate Change - IPCC (2019) “Special Report on Climate Change, Desertification, Land Degradation, Sustainable Land Management, Food Security, and - Greenhouse gas fluxes in Terrestrial Ecosystems”. - Ispra (2020), Rapporto “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” - Legambiente (2020), Rapporto “Mal’Aria di città”. - Ocse (2020), Rapporto “Environmental health and strengthening resilience to pandemics” - Rete Rurale Nazionale (2020), Rapporto “Emergenza Covid-19. Le azioni della rete a supporto dello sviluppo rurale” The New York Times, “239 Experts With One Big Claim: The Coronavirus Is Airborne”, 4 luglio 2020 - Watts N., Belesova K. (2019), “The 2019 report of The Lancet Countdown on health and climate change: ensuring that the health of a child born today is not defined by a changing climate”. The Lancet, vol. 394, isuue 10211, P1836-1878, November 16 - Wu X., Nethery R.C., Sabath M.B., Braun D., Dominici F. (2020), “Air pollution and COVID-19 mortality in the United States: strengths and limitations of an ecological regression analysis”, Science Advances (in pubblicazione) 2012;30(36):4493-4500. doi:10.1200/JCO.2012.39.7695
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La Promozione della Salute e la Valutazione di Impatto Sanitario (VIS): nuovi orizzonti professionali per il biologo Il potenziale impatto sulla salute umana di decisioni politiche in merito a interventi (progetti, piani o programmi) necessari per lo sviluppo di un determinato territorio
di Giorgio Liguori*
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l rapporto con l’ambiente fisico e sociale è una delle determinanti fondamentali dello stato di salute individuale e collettiva potendone conseguire, a seconda dei contesti e delle situazioni, differenti condizioni di benessere o di danno, come ad esempio le malattie. La Valutazione di Impatto Sanitario (VIS) è la metodologia il cui obiettivo è quello di considerare con rigore scientifico il potenziale impatto sulla salute umana di decisioni politiche in merito a interventi (progetti, piani o programmi) necessari per lo sviluppo di un determinato territorio. I valori di fondo cui la VIS si ispira sono la democrazia, l’equità, lo sviluppo sostenibile e l’uso etico delle evidenze scientifiche, vale a dire i medesimi valori e le finalità della Promozione della salute che considera la salute bene essenziale per lo sviluppo sociale, economico e personale, e dunque un aspetto fondamentale della qualità della vita. Le Linee guida dell’Istituto Superiore di Sanità elaborate nel 2019 propongono un nuovo modello di VIS integrata alla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), arricchito da indicazioni e check list sia per i proponenti che per i valutatori. L’efficacia del processo di VIS, quale modello oggi previsto a livello nazionale nelle procedure VIA, può essere garantita solo attraverso il contributo multidisciplinare di tutte le competenze che operano nel settore ambientale-sanitario quali epidemiologi, biologi, tossicologi, ecotossicologi, fisici, chimici. In particolare, il professionista biologo, alla luce delle specifiche conoscenze e competenze acquisite nel proprio percorso formativo, risulta il professionista di riferimento e maggiormente funzionale agli obiettivi della VIS. La
sensibilizzazione verso i temi ambientali, della valutazione del rischio e delle analisi ecotossicologiche consentirà sempre più il suo inserimento in tale ambito lavorativo. La Promozione della Salute Il concetto teorizzato di promozione della salute, pur avendo attraversato varie epoche storiche, è stato codificato dalla Carta di Ottawa, documento di consenso ed impegno politico elaborato a conclusione della prima Conferenza Internazionale sulla promozione della salute tenutasi in Canada nel 1986. A distanza di più di trent’anni, tale documento costituisce tuttora il più importante riferimento per lo sviluppo delle politiche orientate alla salute. La Carta, sottoscritta dagli Stati appartenenti all’Or-
* Professore ordinario di Igiene Generale e Applicata Dipartimento di Scienze Motorie e del Benessere, Università degli studi di Napoli “Parthenope”
Figura 1. Gli elementi della Carta di Ottawa.
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ganizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definisce la promozione della salute come “il processo che consente alle persone di esercitare un maggior controllo sulla propria salute e di migliorarla” implicando, una tale definizione: - la creazione di ambienti che consentano di offrire un adeguato supporto alle persone per il perseguimento della salute negli ambienti di vita e di lavoro, attraverso condizioni di maggiore sicurezza e gratificazione; - il rafforzamento dell’azione delle comunità che devono essere adeguatamente sostenute per poter operare scelte autonome per quanto riguarda i problemi relativi alla salute dei cittadini che vi appartengono; - il riorientamento dei servizi sanitari, nella logica di renderli più adeguati ad interagire con gli altri settori - quali istruzione, cultura, trasporti, agricoltura, turismo, ecc. -in modo tale da svolgere un’azione comune per la salute della comunità di riferimento. In questo senso, la promozione della salute include ma non si limita alle attività di prevenzione (Figura 1). La promozione della salute va inteso come processo che mira soprattutto a raggiungere l’eguaglianza nelle condizioni di salute. Il suo intervento si prefigge di ridurre le disparità evidenti nell’attuale stratificazione sociale della salute, offrendo a tutti eguali opportunità e risorse per conseguire il massimo potenziale di salute possibile. Non è possibile conquistare il massimo potenziale di salute se non si è in grado di controllare i fattori che la determinano (determinanti di salute), vale a dire quei fattori che influenzano lo stato di salute e che comprendono sia fattori biologici naturali (età, sesso ed etnia), sia comportamenti e stili di vita, l’ambiente fisico e sociale, l’accesso alle cure sanitarie e ai servizi in generale, elementi spesso strettamente interconnessi (1) (Figura 2). La salute come bene essenziale per lo sviluppo sociale, economico, personale e aspetto fondamentale della qualità della vita. I fattori politici, economici, sociali, culturali, ambientali, comportamentali e biologici possono favorirla, così come possono lederla. In tale contesto, gli individui e i gruppi sono soggetti attivi nel perseguimento di uno stato di buona salute quando in grado di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, soddisfare i propri bisogni, modificare l’ambiente o di adattarvisi. La promozione della salute porta il problema all’attenzione dei responsabili delle scelte in tutti i settori e a tutti i livelli, invitandoli alla piena consapevolezza delle conseguenze, sul piano della salute, di ogni loro decisione e ad una precisa assunzione di responsabilità in merito. É un processo lun-
Figura 2. Modello concentrico dei determinanti di Salute. Fonte: Whitehead M., Dahlgren G., Gilson L.. Developing the policy response to inequities in Health: a global perspective; in Challenging inequitiee in health care: from ethics to action. New York: Oxford University Press; 2001:309-322. http://www.ais.up.ac.za/med/scm870/developingpolicychallenginginequitieshealthcare.pdf
go, complesso e articolato che può essere messo in atto solo se in linea con taluni principi che ne costituiscono il fondamento teorico e, al tempo stesso, i tre obiettivi principali, per altro strettamente collegati tra loro: 1. la Salute in tutte le politiche 2. rendere semplici le scelte salutari 3. ridurre le diseguaglianze in salute L’Environmental Health Il rapporto con l’ambiente (fisico e sociale) è una delle determinanti fondamentali dello stato di salute individuale e collettiva potendone conseguire, a seconda dei contesti e delle situazioni, differenti condizioni di benessere o di danno alla salute, come ad esempio le malattie. Molto complesso è comprendere quali sono gli elementi da tenere in considerazione, da un punto di vista epidemiologico, per valutare l’impatto dei diversi fatto-
Figura 3. Interazioni tra le varie matrici ambientali e l’esposizione umana Fonte: Rapporti ISTISAN 19/9. http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2850_allegato.pdf
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duale e collettiva. Per prevenire ogni anno milioni di morti altrimenti evitabili si ritiene sia necessario che settori come quello dei trasporti, dell’energia, dell’agricoltura e dell’industria collaborino per abbattere il più possibile i rischi correlati all’ambiente di vita e di lavoro. L’Ordine Nazionale dei Biologi, in collaborazione con l’ARPAC Campania, ha organizzato tra il 2019 e 2020 due edizioni della “Summer School of Environmental Toxicology”, corsi di alta formazione per biologi sui temi dell’Environmental Health (Figura 5). In particolare, nel primo modulo della seconda edizione i temi della Promozione della Salute e della Valutazione di Impatto Sanitario sono stati oggetto di 6 ore di lezione tenute dal sottoscritto. In futuro è prevista l’istituzione di una Scuola Permanente di Formazione sulla valutazione di integrata di impatto ambientale sulla salute.
Figura 4. Prevenire le malattie attraverso la salute dell’ambiente Fonte: World Health Organization. Preventing disease through healthy environments: a global assessment of the burden of disease from environmental risks. WHO, 2016 https://www.who.int/ quantifying_ehimpacts/publications/preventing-disease/en/.
ri sullo stato di salute. È solo grazie all’incrocio tra dati ambientali, territoriali e urbanistici, epidemiologici, della mortalità così come di altri indicatori sanitari, demografici, culturali e sociali che è possibile tracciare, per una determinata popolazione, una serie di scenari probabili, utili a regolare e a prevedere, quando necessario, azioni di politica - non solo sanitaria - che sia in grado di migliorare la salute di quella comunità e limitare i danni derivanti da specifiche componenti ambientali (Figura 3). Circa il 24% di tutte le patologie nel mondo è dovuto all’esposizione a fattori di rischio ambientali che, in buona parte, potrebbero essere ridotti/eliminati attraverso interventi mirati; tale valore percentuale sale a +33% se si considerano i bambini con età <5 anni. Ciò vuole significare che prevenire l’esposizione a fattori di rischio ambientale potrebbe salvare circa 4 milioni di vite/anno, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Il Rapporto “Prevenire le malattie grazie a un ambiente migliore: verso una stima del carico di malattia legato all’ambiente”: pubblicato dalla WHO (World Health Organization) nel 2016 è un’analisi focalizzata sulle cause ambientali delle malattie e su quanto diverse tra queste possano essere influenzate dall’ambiente. L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene e documenta con rigore scientifico come mortalità, morbosità e disabilità possano essere effettivamente ridotte attraverso scelte di politica ambientale adeguate. (3, 4) (Figura 4) L’ambiente influenza per più dell’80% la salute indivi108 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
La Valutazione di Impatto Sanitario (VIS) In base alla definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Valutazione di Impatto Sanitario (o sulla Salute, VIS) è, infatti, “Una combinazione di procedure, metodi e strumenti per mezzo dei quali una politica, un piano o un progetto possono essere giudicati circa i loro potenziali effetti sulla salute di una popolazione e sulla distribuzione di questi effetti all’interno della popolazione stessa” (5). Sino ad oggi, il metodo più spesso adoperato per tale scopo è consistito nel mettere a confronto gli impatti di un nuovo impianto (opera) sui determinanti di salute con i valori limite stabiliti dalla normativa o da altri tipi di standard riconosciuti come validi (Figure 6 e 7). Questo modo di procedere assume implicitamente che se questi valori limite non sono superati, i mutamenti ambientali indotti dall’intervento non avranno alcun effetto sulla salute dell’uomo. Si tratta, come intuibile, di un approccio chiaramente discutibile e poco scientifico, poiché gli stessi valori limite e gli standard tendono ad essere modificati di tanto in tanto e ciò avviene con un ritardo a volte considerevole rispetto al costante avanzamento delle conoscenze scientifiche. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2005 ha aggiornamento le Linee guida sulla qualità dell’aria riducendo il valore limite di esposizione al biossido di zolfo (media nelle 24 ore) da 125 a soli 20 microgrammi/mc. Appare poi evidente come questo modo di procedere, oltre ad essere insoddisfacente, presenti l’importante limite di tendere ad evidenziare esclusivamente gli impatti negativi sulla salute umana, trascurando invece quelli positivi, spesso non immediatamente evidenti ma non per questo meno significativi; succede dunque che, con un tale approccio, il supporto alla decisione orienti in modo pregiudiziale in senso negativo.
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La VIS, al contrario, prende in considerazione i determinanti di salute e gli impatti di uno specifico intervento su di essi, negativi o positivi che siano. Inoltre, non si limita a valutare solo gli effetti sulla salute derivanti dalla qualità dell’ambiente fisico, elemento comune con l’approccio tradizionale prima descritto, bensì include e focalizza l’attenzione anche sui determinanti associati all’ambiente socio-economico, comprendenti, tra gli altri, reddito e status sociale. La VIS, come risultato, non produce dunque un semplice confronto del valore dei parametri con i valori soglia, per i quali la normativa o altri tipi di standard riconosciuti come validi impongono dei limiti, bensì un’accurata e completa disamina di tutti gli impatti sulla salute, positivi o negativi, di breve o di lungo periodo, normati o meno, con l’obiettivo di fornire al decisore raccomandazioni che ne rafforzino gli effetti positivi e ne minimizzino quelli negativi, con particolare riguardo alla salute dei gruppi più vulnerabili (bambini, anziani, emarginati). Per questo la VIS è strumento a supporto dei processi decisionali riguardanti interventi diversi (piani, programmi e progetti) ed interviene di regola prima che questi siano realizzati, ma non solo. Esistono, infatti 3 distinte tipologie di VIS: 1. VIS prospettica, orientata a valutare i potenziali impatti per la salute prima della implementazione di nuovi progetti/interventi, rendendo possibili aggiustamenti per massimizzare gli effetti positivi e minimizzare i danni; 2. VIS retrospettiva, basata sulla analisi dell’impatto di situazioni esistenti, utile per orientare futuri progetti/ interventi; 3. VIS trasversale, analisi realizzata in corso di intervento, utile per monitorare l’andamento dell’impatto associato all’implementazione del progetto/intervento. L’aspetto innovativo dell’approccio metodologico della VIS risiede nel proporre un percorso integrato e procedure elaborate per effettuare valutazioni improntate al rispetto dei valori di fondo cui la VIS si ispira: democrazia, equità, sviluppo sostenibile e uso etico delle prove scientifiche. Evidente le similitudini con i principi e le finalità della Promozione della salute. Il campo dei determinanti sociali della salute è forse il più complesso e il più stimolante, occupandosi degli aspetti chiave della vita delle persone, del loro lavoro, degli stili di vita. In particolar modo, attiene alle conseguenze delle politiche economiche e sociali e ai benefici che possono derivare da scelte di investire in salute; tema mai “sentito” così come oggi. La Direttiva europea 2014/52/UE (6), concernente la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA) ha presentato una grande novità nel panorama delle valutazioni del rischio ambientale includendo in modo esplicito nell’elen-
Figura 5. Locandina della Summer School IIa edizione organizzata da ONB e ARPAC.
co dei temi che devono essere considerati la “Population and human health”. Essa, tuttavia, lascia ancora aperte alcune domande quali, ad esempio, la definizione di salute umana, i metodi per determinare i potenziali effetti (positivi e negativi) su di essa e la qualificazione dei professionisti incaricati della valutazione di tali effetti. Le Linee guida elaborate nel 2019 dall’Istituto Superiore di Sanità (7, 8), sulla base di esperienza del progetto CCM 2016 condotta dal Ministero (9) forniscono ulteriori argomentazioni per rispondere adeguatamente ad alcuni di tali quesiti. Esse contengono indicazioni dettagliate e argomentate sia per i proponenti (Società, Enti privati o pubblici che propongono l’esecuzione di un intervento/ opera), sia per valutatori (cioè il personale della pubblica amministrazione cui è deputato il compito di valutare la proposta presentata) (Figura 8). L’approccio adottato è quello consolidato di VIS, articolata nelle 5 fasi seguenti: - Screening: fase in cui si decide se la proposta deve essere sottoposta a VIS. - Scoping: fase che definisce quali temi chiave deve trattate la VIS, quali effetti sulla salute siano rilevanti, quanto essi siano persistenti, estesi geograficamente, altamente probabili, la comunità interessata dagli impatti potenziali, chi sono gli stakeholder e le fonti di dati disponibili. - Assessment: fase che definisce quali caratteristiche hanno i rischi sanitari, quali soggetti sono interessati dagli impatti, come questi sono classificati per imporIl Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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tanza, quali alternative sono disponibili e quali sono le incertezze delle stime. In questa fase, quando possibile, possono essere riportate anche valutazioni quantitative di impatto. - Reporting: fase che riepiloga le informazioni necessarie da fornire al decisore, l’esistenza di conflitti non risolti, le eventuali proposte alternative, le raccomandazioni, le misure di mitigazione identificate per ogni impatto. - Monitoring: (non di rado contenuta nel Reporting) fase che riepiloga il piano di monitoraggio delle mitigazioni, gli indicatori del monitoraggio ed i responsabili della loro attuazione (Figura 9). In aggiunta, queste 5 fasi prevedono che vengano effettuate sempre: - la descrizione delle emissioni/scarichi nelle matrici ambientali; - la valutazione della popolazione direttamente ed indirettamente esposta; - la valutazione di impatto diretto ed indiretto attraverso: l’analisi della letteratura scientifica e la stima dei casi attesi; l’analisi dello stato di salute ante-operam della popolazione esposta e la stima di impatto in fase di cantiere, esercizio e dismissione; - la descrizione delle misure suggerite di mitigazione e del piano di monitoraggio.
Figura 6. Risposte biologiche all’esposizione di un inquinante.
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Il processo di costruzione delle conoscenze inevitabilmente produce delle sovrapposizioni tra le distinte fasi della VIS, pertanto esso può essere rappresentato come un processo senza soluzione di continuità. La natura dei rischi identificati in fase preliminare, la disponibilità di dati esistenti e delle risorse e i tempi previsti per effettuare la valutazione, incidono sulla necessità e sulla possibilità di procedere ad una migliore definizione delle conoscenze. In particolare: Nella fase preliminare di Screening le conoscenze sugli impatti, positivi e negativi, possono essere approfondite anche mediante una definizione rapida dei pericoli e dei rischi esistenti e prevedibili (Rapid appraisal). A tale scopo occorre acquisire e analizzare informazioni rilevanti relative al progetto e caratterizzare il contesto ai fini della valutazione di salute (es. posizione geografica, influenza dell’opera, cultura e struttura socioeconomica della popolazione). La fase di valutazione preliminare porta ad esprimere un parere per la prosecuzione del percorso di VIS e, nel caso in cui il processo evidenzi possibili impatti significativi, va sempre effettuata la VIS integrata alla VIA. Allorquando la procedura di screening porti a concludere che sia necessario effettuare la VIS, le informazioni preliminari devono essere approfondite valutando quali altri dati siano necessari e come reperirli; questa fase è detta di Scoping. In essa si parte dalla consultazione della letteratura scientifica disponibile, letteratura grigia e documenti esistenti, relativi a studi simili; si acquisiscono poi eventuali valutazioni effettuate in altre procedure sulle componenti ambientali/sociali/altro per evitare duplicazioni. L’obiettivo è disporre di dati che siano qualificati, completi e adatti alla descrizione del contesto in studio e a chiarire se mancano informazioni. Di ulteriori se ne possono raccogliere anche attraverso la consultazione di informatori chiave oppure definendo modalità di partecipazione estesa a più stakeholder. La costruzione delle conoscenze utili ad effettuare la VIS prosegue nella fase di assessment (= valutazione) con l’elaborazione di indicatori elaborati a partire da dati esistenti relativi alla popolazione interessata per quanto riguarda le categorie ambiente, salute e aspetti socioeconomici. Viene costruita una fotografia dello stato di salute della comunità coinvolta dai potenziali impatti identificati, su cui si baserà la stima degli impatti attesi sulla salute. Le principali informazioni che devono essere raccolte ai fini della valutazione sono
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Figura 7. Criteri per classificare gli effetti degli inquinanti sulla salute umana.
quelle ambientali, demografiche, sociali e sanitarie (vedi in seguito). Le checklist sono gli strumenti che, più di altri, possono consentire di raccoglierle in modo sintetico con alto livello di definizione. Dati Ambientali - uso del suolo e biodiversità
Figura 8. Le ultime Linee guida dell’ISS per la VIS http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2850_allegato.pdf
- caratteristiche fisiche del territorio - qualità delle matrici ambientali (suolo, acqua, aria, clima, etc.) - caratterizzazione delle sorgenti di esposizione connesse con l’opera ed individuazione del destino degli inquinanti considerati - identificazione dei rischi eco-tossicologici con riferimento alle normative e definizione dei relativi fattori di emissione - aspetti paesaggistici (paesaggio) Dati Demografici, economici e sociali - caratteristiche della popolazione - beni materiali - patrimonio culturale - accesso ai servizi Dati Sanitari - stato di salute della popolazione - esposizione a confondenti dei fattori in studio delle comunità e delle aree coinvolte - considerazione dei gruppi particolarmente vulnerabili e dell’esposizione combinata a più fattori di rischio - capacità del sistema assistenziale Opportuna è l’integrazione dei dati ottenuti nell’ambito delle altre analisi settoriali e la verifica della compatibilità dei livelli di esposizione previsti con la normativa vigente. Allo scopo sono oggi disponibili molti archivi per la consultazione delle informazioni; le stesse Linee Guida dell’ISS sono integrate da una sezione “Fonte dei dati” che fornisce chiare indicazioni e riferimenti a riguardo. Appare evidente come nel processo valutativo vadano coinvolti, sin dalle fasi iniziali, tutti gli esperti del settore ambientale e sanitario e gli stakeholders interessati, facilitando anche la partecipazione della popolazione che affronterà le conseguenze delle modifiche che l’opera apporterà sul territorio. In analogia alla VIA, la VIS dovrà considerare gli effetti complessivi, diretti e indiretti, che la realizzazione dell’opera può indurre sulla salute, necessitando di essere svolta per tutte le fasi della vita di questa: realizzazione, funzionamento, dismissione. Come nel caso della VIA, anche la VIS si basa su valutazioni di natura previsionale ed è quindi soggetta ad incertezza, legata a diversi fattori quali i modelli di rischio utilizzati, i dati disponibili e la loro qualità, i presunti scenari di esposizione per la popolazione. In quanto valutazione previsionale, la VIS dovrà altresì definire un piano di monitoraggio ambientale-sanitario, ovvero identificare e pianificare il monitoraggio dei parametri ambientali che hanno rilevanza sui potenziali effetti sulla salute nonché gli indicatori sanitari da monitorare secondo una tempistica adeguata all’osservazione delle loro potenziali modifiche. In linea con i principi della promozione della salute, Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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sono universalmente riconosciuti diversi “buoni motivi” per effettuare una VIS, in quanto essa: - introduce la salute nel processo decisionale; - allarga il concetto di salute ed equità; - mostra il guadagno in salute come un valore aggiunto di politiche/programmi non sanitari; - promuove la collaborazione interdiscipliplinare/intersettoriale; - risponde ad una priorità della popolazione (la Salute) rafforzandone il coinvolgimento; - aumenta l’accountability del decisore, vale a dire la responsabilità, da parte degli amministratori che impiegano risorse finanziarie pubbliche, di rendicontarne l’uso sia sul piano della regolarità dei conti sia su quello dell’efficacia della gestione. Le nuove linee guida dell’ISS, pubblicate a soli due anni di distanza dalle precedenti (10), scaturiscono dall’esigenza di rispondere tempestivamente al DL.vo del 16 giugno 2017 n.104, con cui è stata recepita la Direttiva europea 2014/52/UE, concernente la Valutazione dell’Impatto Ambientale (VIA). Esse propongono una VIS fortemente integrata nella valutazione dell’impatto ambientale (VIA) e fanno continuo riferimento al concetto di salute come definita dalla WHO, cioè “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattia e di infermità”. A tal riguardo è anche bene richiamare quanto previsto dall’art. 4 del DL.vo 152/2006, come modificato dal DL.vo 104/2017, nel quale si fa specifico riferimento a come “la valutazione ambientale dei progetti ha la finalità di proteggere la salute umana”. L’analisi dei fattori ambientali condotta con esplicito riferimento alla tutela della popolazione e della salute umana, mentre le precedenti Direttive si riferivano più genericamente ad effetti diretti e indiretti sull’uomo. La procedura di VIS, come proposta e promossa dalla Conferenza di Gothenburg, si ispira ai principi di trasparenza, etica, eguaglianza, partecipazione, sostenibilità e democrazia, oltre a ribadire la robustezza delle valutazioni tecniche scientifiche svolte. In particolare, la VIS è stata identificata come uno strumento importante per promuovere il lavoro intersettoriale e migliorare la salute pubblica, tenendo in considerazione i determinanti socioeconomici della salute nel promuovere politiche e interventi che possano migliorare l’equità e ridurre le di112 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
Figura 9. Schema riassuntivo delle 5 fasi della VIS Fonte: Documento finale del progetto CCM 2013 “Linee Guida VIS per valutatori e proponenti - T4 HIA”, finanziato dal Centro per il Controllo e la prevenzione delle Malattie (CCM) del Ministero della Salute. http://www.ccm-network.it/pagina.jsp?id=node/1946&idP=740&idF=1800
suguaglianze in salute (11). In tale contesto è evidente come il professionista biologo assuma un ruolo rilevante per le specifiche conoscenze e competenze, acquisite nel proprio percorso formativo, che risultano assolutamente funzionali agli obiettivi della VIS. Rappresenta l’eccellenza professionale per quella che, a ragione, deve essere considerata una vera e propria “nuova competenza” della quale non sarà più possibile fare a meno. Conclusioni L’aspetto innovativo delle nuove Linee guida dell’ISS è quello di una procedura assolutamente integrata alla VIA. Non a caso, il documento propone anche alcuni esempi di indicatori sanitari da considerare per specifiche esposizioni, i criteri per la valutazione ecotossicologica, le metodologie relative all’assessment tossicologico ed epidemiologico, sia come procedure singole che integrate. È evidente come le varie metodologie possono avere pesi diversi nelle varie fasi, in relazione ai diversi fattori
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ed elementi da considerare quali, ad esempio: - gli aspetti ecotossicologici, che possono essere molto informativi sia nella fase di Screening che di Monitoring, fornendo indicatori di salute degli ecosistemi; - necessità di integrazione completa e collaborazione tra tossicologi e epidemiologi per l’identificazione dei potenziali fattori di rischio e degli indicatori sanitari più appropriati; - ricorso più frequente alla metodologia tossicologica, ove possibile integrata con dati epidemiologici, per la maggiore disponibilità di dati, nel caso della valutazione predittiva dei rischi correlati ad un intervento; - componente epidemiologica quale metodologia di elezione nelle fasi di studio dello stato di salute della popolazione sia ante-operam, sia nella fase di Monitoring; - valutazione dell’esposizione - da considerare trasversale e assolutamente complementare a tutte le metodologie - sia come esposizione esterna ambientale (misurata o stimata con opportuna modellistica) che come esposizione interna, informata dalla componente tossicocinetica e modellistica nella fase predittiva o come studi di biomonitoraggio nella fase di Monitoring. Sempre più evidente è, pertanto, come la VIS sia necessariamente il frutto della collaborazione di più competenze integrate e come ogni valutazione richieda il coinvolgimento di tutti gli esperti nelle materie che quel singolo caso evidenzia. Epidemiologi e tossicologi, insieme ad esperti ambientali ed ecotossicologici, dovranno sempre essere presenti nel gruppo di lavoro affinché si realizzi l’auspicata integrazione tra le componenti “Ambiente” e “Salute”. È inoltre fondamentale che al processo partecipino gli Enti del territorio, ambientali e sanitari, con i quali il soggetto che propone l’intervento dovrà creare un rapporto di stretta collaborazione per ricevere in tempi idonei le informazioni e i dati necessari a svolgere la VIS. La complessità delle valutazioni richiede indubbiamente un periodo di formazione alle diverse tematiche, tenuto conto che fino ad oggi le valutazioni condotte sono state sempre confinate al solo settore ambientale utilizzando criteri di riferimento selezionati per tale obiettivo. La valutazione di impatto sanitario, invece e come descritto, richiede un allargamento della visione di impatto includendo criteri di riferimento che partono da prospettive diverse, talvolta non completamente allineate con quelle ambientali. Ne consegue che, sebbene condotta all’interno della procedura di VIA, la VIS deve fare riferimento costante ai principi che appartengono alla tutela della salute pubblica (Preven-
Figura 10. Possibili applicazioni della VIS Fonte (Hirschfield, 2001)
zione e Promozione della Salute). Considerate la complessità e la delicatezza richieste per tali valutazioni, l’ISS si è proposto per un’attività di formazione sia per gli Enti del territorio che dovranno sostenere le valutazioni, sia per i soggetti proponenti a cui è assegnato l’onere della valutazione; a tal fine, il documento che riporta le ultime Linee guida è stato integrato con alcuni specifici allegati tecnici, utili per condurre le valutazioni epidemiologiche e tossicologiche. Anche se attualmente sono in atto processi di formazione rivolti a territori regionali su alcune tematiche di interesse per la VIS, è difficile ritenere che le necessarie competenze siano omogeneamente presenti sul territorio nazionale. Queste dovranno inevitabilmente essere oggetto di specifica formazione includendo e integrando le ampie tematiche che la VIS deve affrontare. Nella fase operativa e di sviluppo futuro delle Linee guida, il confronto con proponenti e stakeholder potrà fornire elementi utili per aggiornamenti al fine di renderle pienamente condivise e applicabili alle numerose situazioni che potranno presentarsi nelle diverse realtà territoriali. La promozione della salute, la tutela delle comunità, la salvaguardia del bene comune inteso come l’insieme delle componenti dell’ambiente (naturali, umane, sociali, culturali, economiche, politiche, tecnologiche) sono l’obiettivo prioritario delle istituzioni locali, nazionali ed internazionali che a vari livelli di governo si occupano di Salute Pubblica. La procedura che più di ogni altra contribuisce a perseguire tale obiettivo è la VIS, in quanto con essa vengono analizzati rischi e benefici di piani, programmi e progetti, considerandone preliminarmente sostenibilità ed equità. Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Il contributo del professionista Biologo La salute è universalmente riconosciuta come uno dei valori principali da tutelare e non solo come un diritto in sé (art.32 della Costituzione); nel tempo è progressivamente cresciuta la consapevolezza che essa sia un pre-requisito anche per lo sviluppo economico e la stabilità politica (12). L’efficacia del processo di VIS, quale modello di valutazione oggi previsto a livello nazionale nelle procedure VIA può essere garantito solo attraverso il contributo multidisciplinare di tutte le competenze che operano nel settore ambientale-sanitario quali fisici, chimici, biologi, tossicologi, ecotossicologi, epidemiologi (13). In particolare, il Biologo, come si sa, è la figura professionale che si caratterizza per possedere competenze in tutti quei campi della biologia (dal livello di comunità a quello cellulare e biomolecolare) che si interfacciano con l’ambiente naturale e antropico. La sensibilizzazione verso i temi ambientali, oltre che delle certificazioni e della valutazione del rischio biologico, in particolare, ha permesso, e permetterà sempre più, l’inserimento in specifici ambiti lavorativi di tale professionista che possiede adeguate conoscenze e competenze. L’impostazione tradizionale dei sistemi di controllo dell’ambiente è stata - fino a qualche tempo addietro basata su una funzione prettamente tecnica mirata al controllo analitico. Oggi le finalità della professione del biologo, e gli ambiti di esercizio in campo ambientale, sono da ricondurre ad attività professionali che possono essere svolte sia in istituzioni di ricerca, di controllo e di gestione in ambito privato e pubblico, sia in perfetta libertà professionale, con particolare riguardo ai settori delle acque, dell’aria e dei rifiuti, oltre che della valutazione e pianificazione territoriale. In tale ambito, il biologo individua e valuta le risorse biologiche nei sistemi ambientali naturali e antropizzati; diagnostica e previene le alterazioni di origine naturale e antropica sulla base della valutazione del rischio per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Proprio in quest’ottica si inserisce il contributo che tale professionista può forni114 Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
re nella Valutazione di Impatto sanitario (VIS) così come descritta fin qui. Sulla base di quanto riportato, a maggior ragione, non va trascurato il contributo dell’Igiene quale disciplina in grado di impartire allo studente di biologia, a partire già dal primo livello di formazione universitaria, elementi fondamentali sugli aspetti sanitari e sulla salute in sé, fornendo conoscenze in merito a principi, strategie e interventi di epidemiologia, prevenzione e promozione della salute, sia relativamente alle malattie (infettive e multifattoriali), sia ai grandi temi ambientali ed al loro impatto sulla salute individuale e collettiva. La metodologia epidemiologica, quale strumento al © Francesco Scatena/shutterstock.com
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servizio della conoscenza, consente al biologo di approcciare in modo corretto e rigoroso alle attività di studio, di ricerca e professionali, nonché alle loro molteplici applicazioni, e gli fornisce lo strumento essenziale per lavorare sulla base delle evidenze scientifiche anche in un contesto di Sanità Pubblica in team con altre figure professionali. Gli elementi di management, sanitario e non, trattati dall’Igiene arricchiscono di ulteriori conoscenze il professionista biologo che può diventare così una risorsa di riferimento nella gestione della qualità applicata ai laboratori di ricerca, alle analisi chimiche, microbiologiche, cliniche e ambientali, appunto, integrando la propria attività anche nel contesto dei compiti e degli obiettivi del SSN. La valutazione e gestione dei rischi per la salute sui luoghi di lavoro, applicate all’autocontrollo delle produzioni alimentari e ai grandi temi ambientali, costituiscono importanti opportunità professionali tuttora in grande evoluzione, in particolare quando riferiti a contesti quali: - la valutazione del rischio biologico negli ambienti di vita e di lavoro, in applicazione del D Lgs 81/08; - I metodi di autocontrollo (HACCP) delle filiere alimentari e referente della Qualità e dei sistemi correlati; - La Valutazione di Impatto Sanitario (VIS), di cui al D Lgs 104/2017, eventualmente integrata alla VIA (Valutazione di Impatto Ambientale) e alla VAS (Valutazione Ambientale Strategica).
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DELEGAZIONE REGIONALE LAZIO E ABRUZZO
GIORNATA NAZIONALE DEL FIOCCHETTO LILLA Disturbi del comportamento alimentare
Dott. Aberto Spanò Consigliere ONB – Delegato ONB Lazio e Abruzzo
L’approccio nutrizionale dei DCA secondo le Linee Guida del Ministero della Salute in ambito di multidisciplinarietà Dott.ssa Romina Carinci
Psicologa Psicoterapeuta
Diagnosi e cura dei DCA in ambito sanitario Dott.ssa Patricia Giosuè Medico Psichiatra – Asl Te
Biologa Nutrizionista
15 marzo 2021
Terapia Cognitivo Comportamentale nei DCA e strategie terapeutiche in equipe Dott.ssa Lauretana Di Marino
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Anno IV - N. 2 febbraio 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it
Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb Il Giornale dei Biologi
Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132
Febbraio 2021 Anno IV - N. 2
Hanno collaborato: Carla Cimmino, Rino Dazzo, Chiara Di Martino, Stefano Dumontet, Domenico Esposito, Giada Fedri, Felicia Frisi, Elisabetta Gramolini, Giorgio Liguori, Sara Lorusso, Biancamaria Mancini, Giovanni Misasi, Marco Modugno, Emilia Monti, Matteo Olivieri, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo, Teresa Pandolfi, Stefania Papa, Carmen Paradiso, Pasquale Santilio, Pietro Sapia, Stefano Spagnulo, Giacomo Talignani, Sonia Viggiano. Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB.
POST-COVID QUEI SINTOMI CHE NON VANNO VIA L’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha studiato gli “strascichi” della patologia dopo la prima ondata
Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione giovedì 25 febbraio 2021. Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it.
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Pietro Miraglia – Vicepresidente E-mail: analisidelta@gmail.com Pietro Sapia – Consigliere Tesoriere E-mail: p.sapia@onb.it
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UFFICIO TELEFONO Centralino Anagrafe e area riservata Ufficio ragioneria Iscrizioni e passaggi Ufficio competenze ed assistenza Quote e cancellazioni Ufficio formazione Ufficio stampa Ufficio abusivismo Ufficio legale Consulenza fiscale Consulenza privacy Consulenza lavoro Ufficio CED Presidenza e Segreteria Organi collegiali
06 57090 200 06 57090 237 - 06 57090 241 06 57090 220 - 06 57090 222 06 57090 210 - 06 57090 223 06 57090 202 06 57090 214 06 57090 216 - 06 57090 217 06 57090 207 - 06 57090 239 06 57090 205 - 06 57090 225 06 57090 288 protocollo@peconb.it consulenzafiscale@onb.it consulenzaprivacy@onb.it consulenzalavoro@onb.it 06 57090 230 - 06 57090 231 06 57090 227 06 57090 229
Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi Andrea Morello Marco Rufolo Erminio Torresani Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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Corso teorico pratico
PESTICIDI E SALUTE: DALL’AMBIENTE ALLA CATENA ALIMENTARE, RISCHI E STRATEGIE DI PREVENZIONE Parte teorica in webinar: 24 marzo 2021 Parte pratica (stage Istituto Ramazzini): 16 o 23 giugno 2021
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DELEGAZIONE REGIONALE PUGLIA E BASILICATA
Corso Teorico-Pratico per i Biologi
acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche” Corso di abilitazione al prelievo venoso e capillare ai sensi della DIR/III/BIQU/OU10014/2002 e della D.G.R. della Regione Puglia n°104 del 15/02/2005 U.O.S.V.D. Patologia Clinica /Polo Universitario ASL BT Presidio Ospedaliero “Mons. R. Dimiccoli” Barletta
Parte teorica in modalità FAD (dal 25/03/2021 al 31/03/2021) Tirocinio e parte pratica del corso BLSD in presenza
Apertura dei lavori e saluti Avv. Alessandro Delle Donne
Direttore Generale ASL BT
Dott.ssa Marilena Colucci
Direttore UOSVD Resp. Formazione e Polo Universitario ASL BT
Organizzatori Dott.ssa Claudia Dello Iacovo
Consigliere nazionale e delegata dell’Onb per la Puglia e la Basilicata
Dott.ssa Daniela Tatò
Gruppo di Studio “Patologia Clinica” ONB Puglia e Basilicata
http://puglia.ordinebiologi.it Il Giornale dei Biologi | Febbraio 2021
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