Il Giornale dei Biologi - N. 3 - Marzo 2021

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Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Marzo 2021 Anno IV - N. 3

ITALIA IN FILA PER IL VACCINO

Figliuolo: biologi tra i somministratori Da metà aprile un’arma in più con l’arrivo in Italia delle dosi della Johnson & Johnson www.onb.it


DELEGAZIONE REGIONALE CAMPANIA E MOLISE

“Acquisizione e gestione dei campioni biologici e delle attività preanalitiche per finalità diagnostiche” Corso di abilitazione al prelievo venoso e capillare ai sensi della direttiva del Ministero della Salute DIRP/III/BIQU/OU10014/2002 del 8/7/2002, e della D.G.R. della Regione Campania n.2125 del 20/06/2003

Parte teorica in modalità FAD dal 07/04/2021 al 14/04/2021 Tirocinio in presenza presso presidio ospedaliero “San Giuseppe Moscati”, ASL Caserta in Viale Antonio Gramsci Aversa (Caserta) Corso BLSD in presenza presso la Delegazione Campania-Molise ONB in Via Toledo 156 Napoli

http://campania.ordinebiologi.it 1/3


Sommario

Sommario EDITORIALE 3

Biologi, niente altro che Biologi di Vincenzo D’Anna

PRIMO PIANO

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6

Covid-19. Vaccini su quota 10 mln e prime luci di Emilia Monti

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8

Etichettatura e linguaggio, una… buona guida a tavola: il ruolo dei biologi di Stefania Papa

La coesina, un bersaglio molecolare contro il tumore di Pasquale Santilio

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Tumore del pancreas. Scoperta sui linfociti killer di Emilia Monti

22

Nuovi meccanismi della farmaco-resistenza di Domenico Esposito

23

Scoperta molecola Rna che ferma le metastasi di Domenico Esposito

24

Neurodante alle radici del bello di Elisabetta Gramolini

26

Come e quando il cervello si sorprende di Pasquale Santilio

27

Malattie genetiche: un software per la diagnosi di Pasquale Santilio

28

Autismo: perché non si riconoscono i volti di Carmen Paradiso

29

La farmacologia durante l’età imperiale di Barbara Ciardullo

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Una proteina può bloccare l’obesità di Domenico Esposito

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Terapie antitumorali. Italia, Australia e Nuova Zelanda unite nella ricerca di Chiara Di Martino

Ambiente e rischio obesità di Sara Lorusso

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Radicchio e carciofo di Emanuele Rondina

SALUTE

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Tumori, in 10 anni +37% pazienti vivi dopo diagnosi di Emilia Monti

Alghe e radicali liberi di Carla Cimmino

40

Natura e bellezza per cute e capelli di Biancamaria Mancini

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Figliuolo: anche i Biologi tra i vaccinatori

30 INTERVISTE 12

Piante per produrre ormoni, anticorpi e, perché no, vaccini di Chiara Di Martino

14

Carcinoma mammario triplo negativo, spiraglio per diagnosi e cure di Chiara Di Martino

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Sommario BENI CULTURALI 63

L’IA per la ricerca dei siti archeologici nascosti di Pietro Sapia

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Egnazia tra Messapi e Romani di Rino Dazzo

SPORT

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66

Dalia Kaddari. La nuova stella dell’atletica italiana di Antonino Palumbo

68

Classiche e grandi giri in “fuga” dal Covid di Antonino Palumbo

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Messi-Ronaldo. Gli eredi scalpitano di Antonino Palumbo

71

Luna Rossa piena a metà. Sfuma la Coppa America di Antonino Palumbo

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BREVI

AMBIENTE 42

Nessi tra microplastiche e salute nell’uomo di Giacomo Talignani

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Vaccini anche per gli animali di Giacomo Talignani

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La resistenza del fico d’India di Giacomo Talignani

48

In Europa, due miliardi di lampadine riciclate di Gianpaolo Palazzo

50

Attese tra le rotaie di Gianpaolo Palazzo

52

A marzo la giornata mondiale della fauna selvatica di Gianpaolo Palazzo

54

L’uragano spaziale sopra il Polo Nord di Michelangelo Ottaviano

55

L’Amoc sta scomparendo per il global warming di Michelangelo Ottaviano

56

Il progetto #arrestalereste

LAVORO 74

SCIENZE 76

L’esercizio fisico genera cellule immunitarie nelle ossa di Valentina Arcovio

80

I grassi fanno da scudo al cancro di Valentina Arcovio

84

L’impatto sulla mortalità dell’esame clinico al seno di Sara Lorusso

88

INNOVAZIONE 58

Tessuti performanti ed ecologici di Marco Modugno

60

Alterazioni genomiche nei pazienti oncologici di Felicia Frisi

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Enea punta sulla prima hydrogen valley italiana di Felicia Frisi

Concorsi pubblici per Biologi

Anticorpi anti-spike in soggetti, con e senza pregressa infezione da Sars-CoV-2... di Ciro Esposito et al.

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Invecchiamento: rischio sarcopenia e stile di vita Teresa Pandolfi e Giovanni Misasi

ECM 98

Focus sulla citologia urinaria: il Paris System

di Antonella Pellegrini


Editoriale

Biologi, niente altro che Biologi di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi

È

più facile rompere un atomo che vin-

medica, della citoistologia, dell’ematologia, si-

cere un pregiudizio. Questa espres-

ano esse dell’igiene e della scienza dell’alimen-

sione Albert Einstein soleva ripeterla

tazione. Una sorta di gara ad equipararsi ai

per condannare ogni sorta di discriminazione

colleghi Medici (con i quali spesso si lavora a

razziale, che, come tale, era sempre basata sui

stretto contatto) per un’antica rivalsa nei loro confronti, memori, forse, delle

pregiudizi, oppure su opinioni supinamente formatesi per “sentito dire”. Un pregiudizio radicato lo troviamo anche nella categoria dei Biologi ed è quello che vede molti di noi aspirare a svolgere funzio-

Un pregiudizio radicato lo troviamo anche nella categoria dei Biologi ed è quello che vede molti di noi aspirare a svolgere funzioni “paramediche”

discriminazioni e degli ostacoli da essi opposti agli albori della nostra attività professionale. Lotte combattute in aperta polemica sia fuori che dentro i tribunali, ma che col

ni “paramediche”, a volersi, cioè, cimentare

tempo hanno finito per dare ai Biologi lo spazio

in ambiti che sono, invece, ad appannaggio e

e l’autonomia che a stessi spettava.

competenza di altre professioni.

Un riconoscimento sia giuridico che politi-

Una vocazione antica soprattutto per coloro

co nell’ambito di un esercizio professionale, il

i quali svolgono attività sanitarie, siano esse nel

nostro, scaturente dalle numerose, specifiche

campo della medicina di laboratorio, oppure

competenze derivanti dalla legge istitutiva della

della microbiologia e virologia, della genetica

categoria. Tuttavia, qualcosa tuttora rimane di Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Editoriale

quei sentimenti di belligeranza e di emulazio-

può intraprendere oltre venti diverse attività,

ne al tempo stesso, soprattutto in quelle attività

che a loro volta gemmano ottanta diverse sub

ove più forte è il dato della concorrenza tra le

specie, non dovrebbe avere nostalgia di ulterio-

due diverse categorie. Mi pare di poter indivi-

ri riconoscimenti e praticabilità professionali

duare nella disciplina di laboratorio ed in quel-

oltre quelli già pacificamente svolti dai Biologi.

la della scienza della alimentazione, gli ambiti

Ma spesso non basta, soprattutto agli occhi

professionali più concorrenziali. Questo è visto

di quanti sono lontani da una puntuale e cor-

ogni qual volta un provvedimento legislativo ha

retta informazione, assunta attraverso i canali

indicato nei Medici i depositari di agevolazioni

ufficiali dell’ONB (il sito istituzionale, l’Area riservata, il webmagazine). Si ri-

e riconoscimenti professionali e così per gli Infermieri. Sono insorte a decine le richieste e le lamentele per una presunta mancanza di adeguata rappresentatività e di tutela della categoria. In genere si tratta

Una categoria come la nostra, che può intraprendere oltre venti diverse attività, non dovrebbe avere nostalgia di ulteriori riconoscimenti

di costruzioni fantasiose senza

corre, allora, all’estemporaneo utilizzo di siti e pagine social risalenti all’ente di Previdenza (ENPAB) oppure a sedicenti associazioni rappresentative di questa o di quell’attività professionale per “documentarsi”

alcun aggancio con le reali possibilità e compe-

o sfogarsi. Un ginepraio di soggetti autorefe-

tenze riconosciute ai Biologi, di mere rivendi-

renziali che stiamo tentando di identificare, di

cazioni riconducibili all’abitudine a lamentarsi

conoscere ed a volte di contrastare, in quanto

ogni qual volta il mondo non gira in asse attorno

causa delle disarmonie e delle più svariate ed in-

alle teste dei protestatari e delle loro deduzioni.

fondate richieste. È in questa “zona grigia” che

Rivendicazioni che, peraltro, non tengono

migliaia di Biologi si accomodano pensando di

conto dell’enorme divario di rappresentanza

poter trovare un surrogato del proprio Ordine

tra Medici e Biologi sia per numero di iscritti

oppure non riconoscersi nella loro “categoria”,

che per antica tradizione di presenza capillare

ma in una sorta di sub specie costituita da un

sui territori. Una categoria come la nostra, che

aggregato costituitosi per similitudine di inte-

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Editoriale

ressi ed attività svolte. All’ONB questi colleghi

somministrare i vaccini anche in quegli spa-

ricorrono di rado e quasi sempre per esprime-

zi. Ebbene, molti hanno fantasticato (i Biolo-

re giudizi negativi, basati sul presupposto della

gi nutrizionisti, innanzitutto) circa l’eventuale

mancata informazione. In queste “enclavi”, tan-

parificazione dei loro studi professionali con

ti Biologi credono di poter migliorare il proprio

le pratiche di attività vaccinali! Una valanga

bagaglio di conoscenze e di tutele. Il respirare la

di messaggi è giunta all’ONB per evidenziare

stessa aria, discutere tra simili per attività pro-

una presunta disparità di trattamento: perché

fessionale, ignorare ogni altro aggiornamento,

ai farmacisti sì e a noi no. Insomma: la solita

crea, purtroppo, dibattiti tanto surreali quanto

lamentela sulla scarsa tutela. Anche in questo caso la maggioranza dei pro-

approssimativi. Sono queste le basi sulle quali si costruiscono le contrapposizioni e spesso le presunte giuste pretese di volersi parificare ad altre professioni. Viene a mente la vicenda dei vaccini anti Covid ove

Molti sono lontani da una puntuale e corretta informazione assunta attraverso i canali ufficiali dell’ONB (sito, Area riservata e webmagazine)

quelli lontani dalle informazio-

testanti era disinformata sulle circostanze che la pratica vaccinale potesse avvenire solo ed esclusivamente in strutture autorizzate all’esercizio oppure accreditate all’interno di spazi dedicati realizzati a spe-

ni fornite dal sito ufficiale dell’ONB sono rima-

se del soggetto richiedente. Abbiamo richiesto

sti praticamente fuori dalle prenotazioni, salvo

al Ministro di includere anche i Biologi ope-

poi avere anche l’ardire di protestare nonostan-

ranti in strutture autorizzate accreditate e ido-

te la colpa fosse esclusivamente la loro.

neamente attrezzate tra questi. La proposta,

Così come anche per i tamponi in farma-

accolta, dovrebbe essere partorita dal Gover-

cia, nonostante l’ONB avesse già da tempo

no. Vedremo quanti saranno i volontari che si

stipulato intese con Federfarma ed impiegato

attrezzeranno. Alla fine pochi, come sempre

centinaia di biologi ad eseguire quell’attività.

accade. In fondo sarebbe bello che ci convin-

Infine, per rimanere in tema di “farmacie”,

cessimo tutti di essere solo e soltanto Biologi.

ecco il recente caso della possibilità di poter

E tanto dovrebbe bastare.


Primo piano

COVID-19 VACCINI SU QUOTA 10 MLN E PRIME LUCI La Provincia Autonoma di Bolzano e il Molise le regioni che hanno somministrato percentualmente più dosi rispetto a quelle che hanno ricevuto di Emilia Monti

N

el pieno della terza ondata si intravedono i primi segnali di miglioramento: dopo quattro settimane consecutive si inverte finalmente il trend dei nuovi casi settimanali e si riduce l’incremento percentuale dei nuovi contagi. Comincia a procedere speditamente la campagna vaccinale, ormai verso quota 10 milioni. Al 28 marzo sono 9.315.069 i vaccini anti-Covid somministrati nel nostro paese, l’85 per cento delle dosi finora consegnate, pari a 10.968.780 (7.668.180 Pfizer/BioNTech, 826.600 di Moderna e 2.474.000 di AstraZeneca), mentre ammonta a 2.946.751 il totale delle persone vaccinate a cui sono state somministrate la prima e la seconda dose di vaccino. Inoltre, dal 16 aprile arriverà in Italia il vaccino monodose Johnson & Johnson, al momento l’unico per il quale è prevista una sola somministrazione, senza richiamo. Finora, la somministrazione ha riguardato 5.581.519 donne e 3.733.550 uomini. Nel detta-

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glio, le dosi sono state somministrate a 2.968.515 operatori sanitari, 481.672 unità di personale non sanitario, 540.969 ospiti di strutture residenziali, 2.971.107 over 80, 221.479 personale Forze armate, 940.796 personale scolastico e 1.190.531 altro. Per quanto riguarda la suddivisione territoriale, in testa in termini percentuali, la Provincia Autonomia di Bolzano con 100.588 dosi somministrate (il 94,1 per cento di quelle consegnate) e il Molise con 58.794 (89,8 per cento). La Lombardia è la Regione che finora ha somministrato più vaccini (1.483.295 dosi), seguita da Lazio (950.141dosi) e l’Emilia-Romagna (798.680 dosi). In vista della scadenza del 7 aprile del Dpcm «andrà fatto un nuovo provvedimento a seguire. Verosimilmente, spiega il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, visto che dovremmo aver superato il picco della terza ondata, la strada è in discesa, andrà avanti così grazie alla vaccinazione, vedo un aprile che continuerà con i 21 parametri che governano le regioni, con delle regioni


Primo piano

che torneranno al giallo, magari anche al bianco, qualcuna forse rimarrà in rosso, ma poi oltre alla vaccinazione, la primavera e l’estate ci consentiranno di abbassare ulteriormente la curva. Vedo scuole aperte e progressivamente il ritorno alla normalità, anche con la riapertura dei ristoranti la sera, magari non subito dopo Pasqua, ma bisogna iniziare a pensarci». Nella settimana tra il 17 e il 23 marzo il monitoraggio indipendente della fondazione Gimbe rileva un lieve decremento dei nuovi casi di Covid-19 rispetto ai precedenti 7 giorni: 150.033 contro 157.677, pari a -4,8%, seppur con notevoli differenze regionali. Il monitoraggio segnala anche una lieve diminuzione dei decessi: 2.327 contro 2.522 (-7,7%). Continuano invece ad aumentare i casi attualmente positivi: (560.654 contro 536.115, +24.539, pari a +4,6%), le persone in isolamento domiciliare (528.680 contro 506.761, +21.919, pari a +4,3%), i ricoveri con sintomi (28.428 contro 26.098, +2.330, pari a +8,9%)e le terapie intensi-

A partire dal 16 aprile arriverà in Italia il vaccino monodose Johnson & Johnson, al momento l’unico per il quale è prevista una sola somministrazione, senza richiamo.

© oasisamuel/shutterstock.com

© Rido/shutterstock.com

ve (3.546 contro 3.256, +290, pari a +8,9%). In percentuale, la saturazione delle terapie intensive è inferiore al 30% in 12 regioni e nei reparti di area medica è superiore al 40% in 10 regioni. In tema di vaccini, a 7 giorni dalla fine del trimestre non risulta consegnato oltre un terzo delle dosi previste. Le Regioni hanno infatti ricevuto 9.911.100 dosi, pari al 63,1%. Sul fronte somministrazioni, al 24 marzo hanno completato il ciclo vaccinale con la seconda dose 2.624.201 milioni di persone (pari al 4,4% della popolazione), con marcate differenze regionali: dal 3,4% di Sardegna e Calabria al 5,7% del Friuli-Venezia Giulia. Rispetto alle fasce più a rischio, si conferma il notevole ritardo nella vaccinazione degli oltre 4,4 milioni di over 80: solo 846.007 (19,1%) hanno completato il ciclo vaccinale e 1.210.236 (27,4%) hanno ricevuto solo la prima dose di vaccino. Nelle strutture residenziali si iniziano a vedere i primi effetti delle vaccinazioni anti Covid-19, con un calo sia dell’incidenza della malattia fra i residenti e gli operatori, sia nel numero di residenti isolati, sia, anche se in misura ancora minore, nei decessi. Lo dimostra la seconda edizione del report di sorveglianza sulle strutture realizzato dall’Iss in collaborazione con il ministero della Salute, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e l’Ars Toscana. Sono 833 le strutture residenziali Rsa che hanno partecipato alla sorveglianza, per un totale di 30.617 posti letto disponibili dal 5 ottobre 2020 al 14 marzo 2021. Di queste, 345 erano strutture residenziali per anziani non autosufficienti, per un totale di 15.398 posti letto. Secondo l’indagine, l’incidenza settimanale di Covid-19 nelle strutture residenziali è aumentata marcatamente nei mesi di ottobre e novembre, in corrispondenza della seconda ondata epidemica, e nel mese di novembre 2020 ha raggiunto un picco del 3,2% nelle strutture residenziali per anziani e del 3,1% in tutte le strutture residenziali, in linea con quanto osservato nella popolazione generale. L’incidenza si riduce invece dopo l’inizio della campagna vaccinale: nell’ultima settimana di febbraio e nelle prime settimane di marzo si raggiungono valori sovrapponibili o inferiori a quelli registrati nella prima settimana di ottobre (0,6% nelle strutture residenziali per anziani e del 0,5% in tutte le strutture residenziali nella settimana dall’8 marzo al 14 marzo 2021). Questo dato è in controtendenza rispetto all’andamento dell’epidemia nella popolazione generale che ha mostrato una recrudescenza nelle ultime settimane di febbraio e inizio marzo. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Primo piano

ETICHETTATURA E LINGUAGGIO, UNA… BUONA GUIDA A TAVOLA: IL RUOLO DEI BIOLOGI L’OMS ritiene che l’adozione di un sistema di informazione nutrizionale basato sulle etichette possa “aiutare i consumatori ad adottare comportamenti alimentari più sani”

di Stefania Papa*

S

apere cosa mettiamo a tavola, conoscere la qualità dei cibi che mangiamo, tracciarne (anche) la loro provenienza, non ha prezzo in termini di salvaguardia e tutela del consumatore. Da anni, non solo in Italia, scienziati, esperti di salute pubblica, epidemiologia, alimentazione e farmacologia, sono impegnati in un dibattito che mira alla corretta “conoscenza” degli alimenti. Com’è noto, l’adozione di un sistema di informazione nutrizionale basato sulle etichette, è raccomandata un po’ da tutti i comitati di esperti nazionali ed inter*Consigliere dell’Ordine Nazionale dei Biologi, delegata alla Sicurezza Alimentare e delegata per le regioni Toscana e Umbria

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nazionali, in particolare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ritiene tale misura “efficace” anche per “aiutare i consumatori ad adottare comportamenti alimentari più sani”. Tuttavia, non ci sono solo i “valori nutrizionali” da considerare. Il mondo degli alimenti, si sa, ruota, infatti, attorno a regole e leggi che tengono impegnati più attori della vasta e variegata filiera dell’Agroalimentare. Pensiamo, ad esempio, a quanto proposto dai carabinieri per la Tutela Agroalimentare in occasione della Giornata nazionale del Consumatore: una vivace ed accattivante rappresentazione grafica del quadro normativo vigente in materia di “sicurezza alimentare”, il disegno di un soleggiato giardino (denominato il “giardino dei diritti”), in cui tutti gli elementi raffigurati hanno assunto un valore simbolico, e i diritti stessi sono diventati dei fiori paffuti


Primo piano

© Gorodenkoff/shutterstock.com

dallo stile vagamente naif. L’obiettivo, come ci ha tenuto a precisare il comando dell’Arma, è stato quello di spiegare, in modo semplice, la normativa per il consumatore, con “una mappa concettuale quanto più confacente all’immediato utilizzo da parte di operatori e consumatori, guardando altresì al momento della formazione di studenti ed appassionati” della materia. Non per ultimo, ancora, in materia di agroalimentare, proprio tale argomento è stato oggetto, lo scorso 3 marzo, in Senato, di un’interrogazione parlamentare (la numero 3-02312) rivolta al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, completamente incentrata sulla tutela e sulla promozione del “made in Italy”. Un’interrogazione, si badi bene, posta, sì, a salvaguardia della filiera e delle eccellenze tricolori, ma anche e soprattutto di chi, poi, quei prodotti, alla fine, è destinato a consumarli.

Senato, Palazzo Madama. Lo scorso 3 marzo, in Senato, c’è stata un’interrogazione parlamentare (la numero 3-02312) rivolta al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, completamente incentrata sulla tutela e sulla promozione del “made in Italy”.

In particolare nel testo presentato a palazzo Madama, si è posto l’accento sul fatto che, nel settore dell’export, oggi più di due prodotti di tipo italiano su tre siano falsi: si tratta dell’Italian sounding, un fenomeno considerato “grave minaccia al made in Italy agroalimentare” e, come tale, da contrastare. Gli interroganti hanno inoltre denunciato come il mercato del falso valga oggi più del doppio del fatturato regolare, determinando, in tal modo, una grave perdita di ricchezza per i nostri territori, anche in termini occupazionali. Proprio in questo contesto vanno dunque ad inserirsi le linee programmatiche fissate, recentemente, dal ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. In particolare, il Mipaaf ha rimarcato la necessità che le scelte di politica agricola, alimentare e forestale, siano integrate tra loro, per interpretare in chiave innovativa, ecologica e inclusiva le principali necessità di sostegno che la transizione ecologica richiede. Il Ministero si è soffermato, in particolare, sulla trasparenza legata all’indicazione dell’origine in etichetta intesa come un diritto da garantire ai cittadini. A livello nazionale, è stato spiegato, è necessario proseguire con quanto già introdotto in via sperimentale rinnovando i decreti attualmente in essere riguardanti latte, formaggi, pasta, riso, carni suine trasformate e derivati del pomodoro. Per quanto concerne le carni, si ricorda come, con il decreto del 6 agosto 2020, i produttori abbiano “ricevuto” l’obbligo di indicare, sulle etichette, le informazioni relative ai paese di nascita, allevamento e macellazione mentre, per quanto concerne l’indicazione dell’origine del grano per la pasta di semola di grano duro, dell’origine del riso e del pomodoro nei prodotti trasformati, tale obbligo è stato prorogato al 31 dicembre 2021. Fermo e deciso è apparso, al momento, il rifiuto del Nutriscore, il modello di etichettatura a “semaforo”, messo a punto dai ricercatori dell’università di Parigi e dell’Inserm, concepito per segnalare i cibi che contengono un’alta percentuale di grassi e sale. Un sistema basato su un formato che indica i singoli valori nutrizionali con una scala di cinque colori (dal rosso al verde), a cui corrispondono le prime cinque lettere dell’alfabeto (a-b-c-d-e). Non è ammissibile, secondo il Mipaaf, per dirla con altre parole, che una bibita gassata senza zucIl Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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chero abbia il bollino verde e invece prodotti che sono dei capisaldi della dieta mediterranea come olio d’oliva o parmigiano reggiano vengano penalizzati! A tal proposito, il Belpaese sarebbe propenso ad adottare un modello alternativo con il cosiddetto “schema a batteria”, nella convinzione che possa rivelarsi più utile al consumatore. Resta comunque il fatto che l’indicazione di massima, almeno nel nostro Paese, rimane quella che tali schemi debbano rimanere volontari e non obbligatori, e che vadano comunque esentate da una eventuale applicazione obbligatoria le produzioni a indicazioni geografica. Ora, in quanto Biologi, rappresentanti, cioè, a pieno titolo, di una categoria attiva anche e soprattutto nel campo della Sicurezza Alimentare, non possiamo non rimarcare come sia triste, a tutt’oggi, dover rilevare come su un argomento del genere ci sia ancora bisogno di fare chiarezza. La domanda di fondo resta la stessa: che sia il Nutriscore o un altro modello quello adottato, alla fine, cosa capirà il consumatore? Cosa comprenderà l’acquirente di turno, quando, una volta comprato un prodotto al supermarket vedrà sovraimpressi, sulla confezione, un

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“In quanto Biologi, rappresentanti, cioè, a pieno titolo, di una categoria attiva anche e soprattutto nel campo della Sicurezza Alimentare, non possiamo non rimarcare come sia triste, a tutt’oggi, dover rilevare come su un argomento del genere ci sia ancora bisogno di fare chiarezza”.

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Primo piano

serie di lettere e di simboli colorati? Riuscirà a districarvisi o avrà bisogno di un… interprete? Detto in altre parole: quanto, di una pur corretta posizione scientifica di partenza, risulterà poi anche immediatamente comprensibile da parte dell’utente finale? Fuor di metafora: più che di “modelli innovativi” e complicati, è di un linguaggio semplice ed immediato che si avverte fortemente la necessità. Spesso, infatti, siamo portati a credere che semplificare le cose ne renda, poi, anche più facile la comprensione. Purtroppo non sempre questo accade. Ed è qui, nel “guado” che sovente separa ricerca e sviluppo, che si nasconde la vera insidia, la vera difficoltà. Lo ribadiamo: più che discutere sulla natura ideale del sistema di etichettatura “perfetto”, la domanda che in casi del genere tutti quanti noi dovremmo porci è la seguente: sarò in grado di far arrivare, nella maniera più corretta, giusta ed efficace, le informazioni che contano a chi poi si accinge ad acquistare e consumare un determinato alimento? Sarò realmente in grado di varare una guida valida, facile da consultare e che possa fungere da supporto concreto rispetto a quanto essa stessa dice e contiene, senza lasciare spazio a fraintendimenti ed incomprensioni? In soldoni: che sia il Nutriscore o il modello all’italiana, ciò che conta è che chi legge un’etichetta poi ne capisca appieno anche il significato, senza bisogno di... cifrari! Ed è qui che entra in gioco la professionalità del Biologo, con le sue speciali competenze, la sua poliedricità, la sua capacità di interfacciarsi con la multidisciplinarietà e quella naturale propensione al gioco di squadra che ne fa il partner perfetto in ogni occasione: chi se non lui potrebbe dare una mano a stilare questa “guida per il consumatore”? Tuttavia, per far sì che questo accada, occorre lavorare sodo per rafforzare l’intesa tra i Biologi e le istituzioni preposte (pensiamo al Mipaaf, al Mise, agli istituti Zooprofilattici, al Cnr, al Crea, alle associazione dei consumatori ed a quelle di categoria) con un discorso ampio che veda impegnata e coinvolta la nostra categoria in tutti i settori della filiera dell’agro-alimentare: dalla produzione, all’imballaggio, fino, appunto, all’etichettatura, alla distribuzione ed infine all’acquisto del prodotto. A prescindere dai supporti, solo rendendo più chiare e comprensibili le cose da capire potremo raggiungere il nostro obiettivo!


Primo piano A sinistra Roberto Speranza, ministro della Salute A destra Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario per l’emergenza Covid

I

l Commissario straordinario all’emergenza Covid, Francesco Paolo Figliuolo, intende estendere la platea dei vaccinatori includendo anche i biologi. Lo ha riferito alle commissioni riunite Affari sociali di Camera e Senato, dove ha esposto alcune misure “pragmatiche” a cui sta lavorando di concerto con il ministro della Salute, Roberto Speranza. Il presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi, Vincenzo D’Anna, esprime soddisfazione per l’apertura del Governo «in questa fase storica in cui è opportuno perfezionare l’offerta del Sistema Sanitario Nazionale ricorrendo alle competenze scientifiche e pratiche di categorie professionali che operano nella sanità. Da questo punto di vista, la figura del biologo è certamente quella più indicata a erogare il servizio di somministrazione vaccinale». In tale prospettiva, appare del tutto ragionevole che i biologi possano praticare questo tipo di iniezioni, considerato che già conseguono l’idoneità a praticare prelievi venosi, a seguito di opportuno addestramento. Solo una settimana prima della dichiarazione di Figliuolo, il presidente D’Anna aveva scritto al Governo e al Comitato tecnico scientifico chiedendo di «coinvolgere anche la rete dei laboratori di analisi e dei centri poliambulatoriali pubblici e privati accreditati con il Servizio Sanitario Nazionale nella campagna di somministrazione dei vaccini anti Covid». Già il cosiddetto Decreto Sostegni aveva introdotto la possibilità, in via sperimentale, di consentire la somministrazione dei vaccini anche da parte dei farmacisti, opportunamente formati attraverso appositi corsi organizzati dall’Istituto superiore di sanità. «Accanto a questa iniziativa – ha scritto D’Anna – sarebbe possibile usufruire anche della ramificata rete dei laboratori di analisi accreditati, pubblici e privati, che, peraltro, insieme alle farmacie, sono gli unici presidi territoriali che non hanno mai interrotto le loro attività a causa della pandemia». D’altronde, ha argomentato il presidente dell’Ordine dei Biologi, la «ratio della norma è, molto

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FIGLIUOLO: ANCHE I BIOLOGI TRA I VACCINATORI Il Commissario per l’emergenza Covid lo ha riferito alle commissioni Affari sociali di Camera e Senato. D’Anna: «Soddisfazione per questa apertura del Governo»

chiaramente, quella di accelerare la campagna allargando il più possibile i punti di accesso e le categorie professionali abilitate all’inoculazione dei sieri». Ora anche «le strutture accreditate, al cui interno, lo ricordiamo, operano biologi abilitati e medici, sono inserite nel sistema Tessera Sanitaria, il che agevolerebbe non poco le esigenze informative connesse alla somministrazione dei vaccini». Naturalmente, ha rimarcato il presidente dell’Onb «a seconda dell’anamnesi del cittadino, po-

trebbero privilegiarsi alcune categorie rispetto ad altre ma sta di fatto che si tratterebbe di un contributo, quello offerto dai laboratori e dai centri poliambulatoriali, che, crediamo, potrebbe rivelarsi molto importante. Dal canto suo, nell’ottica della più ampia e fattiva collaborazione istituzionale, l’Ordine Nazionale dei Biologi è disponibile a farsi carico di qualunque adempimento dovesse ritenersi necessario per contribuire al successo della campagna vaccinale». Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Intervista

PIANTE PER PRODURRE ORMONI, ANTICORPI E, PERCHÉ NO, VACCINI Si fa sempre più promettente la frontiera del Molecular farming come alternativa alla produzione tradizionale di farmaci

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rmoni, anticorpi e, perché no, vaccini prodotti a partire da… piante. Fantascienza? No, una realtà che potrebbe essere non troppo lontana, almeno stando allo studio pubblicato da un team di ricerca italiano – composto da scienziati di ENEA, Università di Verona e Università della Tuscia di Viterbo, CNR e ISS – pubblicato sulla rivista Frontiers in Plant Science. La tecnologia alla base di questa nuova prospettiva – chiamata “Plant molecular farming” – non è poi così recente, è nata circa 30 anni fa e fin dai suoi albori ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, le ha dedicato tempo ed energie fino ad arrivare, oggi, all’acquisizione di un know-how in grado di portare a una (non troppo lontana) implementazione pratica delle sue potenzialità. Quali? «L’obiettivo è utilizzare le piante come “biofabbriche” per produrre biofarmaci – spiega Selene Baschieri, ricercatore senior del Laboratorio di Biotecnologie dell’ENEA – bypassando le difficoltà classiche dell’industria farmaceutica, a partire dalle tempistiche che, con questa tecnologia, si riducono in modo significativo. Un biofarmaco è una molecola strutturalmente complessa a struttura proteica; più semplicemente: una proteina prodotta da cellule; gli anticorpi, per esempio, vengono prodotti dai linfociti B, gli ormoni invece dalle ghiandole».

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Proprio nelle ultime settimane si è parlato a lungo delle difficoltà, soprattutto temporali e logistiche, che le aziende farmaceutiche italiane incontrerebbero qualora fosse consentita la produzione in loco dei vaccini contro il Covid-19: difficoltà che scaturiscono dalla carenza di bioreattori (apparecchiature in grado di fornire un ambiente adeguato alla crescita di organismi biologici, tradizionalmente batteri, lieviti e cellule di insetto o di mammifero), dove in condizioni ottimali vengono incubate e fatte proliferare le cellule necessarie a produrre i biofarmaci, e dal lungo tempo necessario alle singole fasi, che vanno anche sottoposte a rigorosi controlli da parte delle autorità regolatorie. «Con le biofabbriche, invece, si sfrutterebbero non singole cellule, ma l’intero organismo pianta – precisa Marcello Donini, ricercatore presso il laboratorio di Biotecnologie Centro Ricerche Casaccia dell’ENEA – a partire, nel nostro studio, da un batterio del suolo: Agrobacterium tumefaciens. Come, concretamente? Si trasferisce l’informazione all’interno di ciascuna cellula della pianta immergendola in una soluzione a base di questo batterio. Una volta integrata quell’informazione, basta far crescere la pianta in una serra per circa 5-7 giorni. Le foglie vengono raccolte e processate per purificare la molecola di interesse, che sia un anticorpo o un vaccino».


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nici sono in fase III. Ancora, in Israele, c’è un farmaco prodotto in cellule di carota già approvato dalla Food and Drug Administration statunitense e commercializzato, destinato alla cura della malattia di Gaucher, una patologia ereditaria autosomica recessiva». E in Italia? «Siamo ancora fermi alla ricerca di laboratorio», chiosa Donini. Ma se un’azienda farmaceutica volesse rivolgere il proprio sguardo alla Molecular farming cosa dovrebbe fare in concreto? «Tutti i gruppi coinvolti nello studio sono a disposizione con il proprio know-how e i propri brevetti in materia – asserisce Selene Baschieri -: ciò che serve è una struttura, che si tratti di una serra tradizionale o di un impianto di vertical farming, più, chiaramente, i laboratori convenzionali per lavorare sul batterio. Certo, rispetto ai bioreattori – per i quali comunque ci vorrà qualche mese – in questo caso si parte da zero e l’investimento non è da poco: va detto, però, che avrebbe dei grossi vantaggi, potendo diversificare facilmente prodotto all’interno della stessa struttura e in tempi molto rapidi. Basti pensare che per soddisfare l’intera domanda italiana di vaccini o reagenti per i test diagnostici per il Covid-19 basterebbe una serra di 12.500 metri quadri o un impianto di agricoltura verticale di soli 2.000 metri quadri. Insomma, sarebbe un’alternativa davvero valida». (C. D. M.) Il principio alla base di tutto questo, spiega Donini, è la trasformazione transiente: in sostanza, ci tiene a precisarlo non si sta parlando di piante transgeniche o geneticamente modificate. Un processo estremamente rapido e a costi contenuti, che in alcuni paesi del mondo ha già percorso molta strada. «In Canada, per esempio – va avanti Donini -, dove la società Medicago è già in grado di produrre con questa tecnologia un vaccino per l’influenza stagionale che, come sappiamo, deve essere “aggiornato” ogni anno, e quindi necessita di tempi rapidi. Il loro metodo – basato su particelle simil-virali (VLP, “virus-like particles”, particelle che mimano il virus ma innocue perché prive di capacità infettive) - ha già superato tutti gli studi clinici e a breve potrebbe raggiungere la commercializzazione. La stessa società canadese sta anche lavorando, con la stessa metodica, a un vaccino anti-Covid, e attualmente gli studi cli-

Cellule vegetali al microscopio. La tecnologia “Plant molecular farming” è nata circa 30 anni fa e fin dai suoi albori ENEA le ha dedicato tempo ed energie fino ad arrivare, oggi, all’acquisizione di un know-how in grado di portare a una (non troppo lontana) implementazione pratica delle sue potenzialità.

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Donini e Baschieri, scienziati ENEA a capo dello studio

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o studio pubblicato su eLife porta la firma di un team composito di studiosi. Tra questi: Marcello Donini, dal 2006 ricercatore presso il laboratorio di Biotecnologie Centro Ricerche Casaccia dell’ENEA. Ha conseguito un Dottorato di ricerca in Biotecnologie vegetali presso l’Università della Tuscia di Viterbo e ha partecipato a numerosi progetti di ricerca nazionali ed europei, specializzandosi in produzione di biofarmaci nelle piante; e Selene Baschieri, ricercatore senior del Laboratorio di Biotecnologie dell’ENEA, che vanta più di trent’anni di esperienza in campo immunologico e biotecnologico, con particolare expertise in Molecular Farming.

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CARCINOMA MAMMARIO TRIPLO NEGATIVO, SPIRAGLIO PER DIAGNOSI E CURE Una ricerca del CEINGE-Biotecnologie Avanzate ha individuato una molecola che è in grado di ridurre le metastasi. Allo studio anche un kit diagnostico. Intervista a Massimo Zollo

di Chiara Di Martino

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un tumore al seno che fa il suo esordio in giovane età e si caratterizza per la comparsa di metastasi in siti distanti da quello originario, frequentemente il polmone e il cervello. Oggi, un nuovo studio dei ricercatori del CEINGE-Biotecnologie Avanzate, pubblicato su iSCIENCE (gruppo CELL PRESS), svolto in collaborazione con il Dipartimento di Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche (Università di Napoli Federico II) e l’Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale, apre la strada alla diagnosi precoce e a nuove possibili terapie mirate a ridurre il processo metastatico del tumore al seno più aggressivo, il carcinoma mammario triplo negativo (TNBC). Una patologia che rappresenta il 20% dei tumori al seno ed è anche il sottotipo più “prepotente”: tre le tipologie principali definite a seconda del tipo di recettori espressi dalle cellule tumorali, da cui si fa discendere anche l’approccio terapeutico. Un primo tipo esprime i recettori per gli estrogeni o il progesterone; un secondo presenta recettori per un fattore di crescita (la proteina HER2) che ne accresce la proliferazione. I tumori tripli negativi, invece, non presentano recettori (né per estrogeni, né per progestero-

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ne, né per HER2), in sostanza non hanno un bersaglio da colpire. Ecco perché le pazienti con il triplo negativo metastatico hanno prognosi peggiori rispetto a quelli diagnosticati con altri sottotipi di cancro alla mammella metastatico: non ci sono, in pratica, bersagli molecolari riconosciuti per la terapia e si procede generalmente con chemioterapia. Ma una speranza arriva dalla ricerca su un particolare meccanismo molecolare all’origine delle metastasi: del corposo team – circa 15 scienziati - che ha aperto uno spiraglio su diagnosi e cure per questa grave patologia fa parte Veronica Ferrucci, laureata in Biotecnologie mediche alla Federico II di Napoli, con un dottorato in Medicina dei Sistemi presso il SEMM (Scuola europea di medicina molecolare), oggi ricercatrice di Genetica presso l’Ateneo partenopeo. È lei che ha lavorato in tandem con la collega Fatemeh Asadzadeh, dottoranda SEMM, e sotto la guida del genetista Massimo Zollo - a spiegarci in cosa consiste quello “spiraglio”. Cosa avete scoperto? «Abbiamo dimostrato che la proteina Prune-1 è iper-espressa in circa il 50% dei pazienti con carcinoma mammario triplo negativo ed è correlata alla progressione del tumore, alle metastasi a distanza (polmonari) ed anche alla presenza di


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Chi è

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n traguardo importante raggiunto da un team guidato da Massimo Zollo, genetista, professore dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e Principal Investigator del CEINGE. Il kit in via di sviluppo sembra piuttosto promettente, ma come ci si muoverà? «Il primo trial di validazione – spiega Zollo - partirà all’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale per poi estendersi a livello nazionale, anche all’IFOM – Fondazione Istituto FIRC di Oncologia molecolare di Milano. Poi coinvolgeremo un’azienda interessata allo sviluppo del kit per procedere successivamente alla sua validazione per determinare in quanti soggetti si verifica il risultato atteso». Ma il gruppo è al lavoro anche sullo sviluppo di una seconda molecola ancora più sensibile, per la quale si hanno già dati rilevanti. «Dovranno seguire tutte le fasi tradizionali – prosegue il genetista -, fino alla fase 1».

macrofagi M2 (presenti nel microambiente tumorale del carcinoma mammario triplo negativo e correlati ad un rischio più elevato di sviluppare metastasi). Ma abbiamo fatto di più: abbiamo identificato una piccola molecola non tossica, che è in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e di ridurre il processo metastatico al polmone. Attraverso l’utilizzo di banche dati di carcinoma mammario invasivo abbiamo avuto la conferma che quando questi geni sono iper-espressi, si verificano prognosi peggiori». Quali possono essere gli sviluppi concreti? «Oltre all’individuazione della molecola in grado di inibire la conversione dei macrofagi verso il fenotipo M2 e, quindi, di ridurre il processo metastatico al polmone, è ora allo studio lo sviluppo di una seconda molecola più sensibile alla quale dovrà fare seguito la sperimentazione. È stato inoltre sviluppato un kit in grado di identificare all’esordio quali carcinomi hanno maggiore probabilità di sviluppare metastasi con sede polmonare e/o in siti distanti. In sintesi, potrebbe identificare le potenziali mutazioni già in fase iniziale». Un kit diagnostico, dunque. Verosimilmente quando potrebbe essere pronto? «È difficile dirlo con certezza, ma il nostro

“È stato inoltre sviluppato un kit in grado di identificare all’esordio quali carcinomi hanno maggiore probabilità di sviluppare metastasi con sede polmonare e/o in siti distanti. In sintesi, potrebbe identificare le potenziali mutazioni già in fase iniziale”.

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auspicio è che nel giro di un paio di anni possa diventare una realtà. Questo kit utilizza gli studi genomici qui presentati e può aiutare l’oncologo nel determinare una terapia eventualmente più aggressiva sin dall’esordio. Occorreranno circa 1-2 anni di validazione, affinché sia possibile dimostrare la sua efficacia nella diagnosi clinica». Il team che ha lavorato alla ricerca è piuttosto corposo. Chi ha guidato lo studio? «Lo studio è stato coordinato dal prof. Massimo Zollo (Università di Napoli Federico II e CEINGE) in collaborazione con il prof. Kris Gevaert (Responsabile del Centro di Proteomica di Biotecnologie Mediche VIB-UGent, Belgio), la prof. Natascia Marino (Associate Professor, Indiana University, Indianapolis, USA), il prof. Maurizio Di Bonito (Unità di Patologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori IRCS Fondazione Pascale), il prof. Giovanni Paolella (Università di Napoli Federico II e CEINGE) ed il prof. Francesco D’Andrea (Dipartimento di Sanità pubblica AOU Federico II). La ricerca è stata pubblicata sulla rivista scientifica internazionale iSCIENCE ed è stata finanziata dall’Unione Europea Progetto “PRIME-XS” e Tumic FP7, dall’AIRC Associazione per la Ricerca Sul Cancro, PON SATIN e dalla Fondazione Celeghin». Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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TERAPIE ANTITUMORALI ITALIA, AUSTRALIA E NUOVA ZELANDA UNITE NELLA RICERCA Antonio Musio, biologo dell’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Cnr, racconta come la coesina e la via Wnt potrebbero rappresentare un bersaglio molecolare per impedire il processo neoplastico

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uno studio che va avanti da anni e oggi sembra essere a un punto di svolta, almeno potenziale, per fornire nuovi approcci terapeutici per la cura dei tumori. Il lavoro, pubblicato sulla rivista eLife e sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, porta la firma dei ricercatori dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb) che da tempo collaborano con colleghi della University of Otago in Nuova Zelanda e dell’Australian National University, e si basa sul complesso proteico della coesina. Cosa hanno scoperto? Che componenti della via biochimica controllata da Wnt, una famiglia di glicoproteine, potrebbero essere un bersaglio terapeutico di composti anti-tumorali. Secondo i dati dell’Associazione italiana registri tumori raccolti in collaborazione con l’Associazione italiana di oncologia medica, si stima che in Italia, nel 2020, siano stati diagnosticati ogni giorno circa 1.030 nuovi casi di tumore e che il numero totale proiettato sull’intero anno sia di oltre 376.000. Numeri importanti, che rendono sempre più pressante l’esigenza di trovare nuove strategie di approccio. Quella che ci descri-

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ve Antonio Musio, biologo in servizio dal 2002 all’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Cnr, potrebbe costituire una speranza concreta per tutti i tumori in cui si registrano mutazioni nei geni che codificano per il complesso proteico noto come coesina. Ma andiamo con ordine. Dottor Musio, qual è stato il punto di partenza? «Lavoriamo da anni su questo complesso proteico della coesina che regola molte attività del DNA: trascrizione, replicazione, riparazione. Quando non funziona correttamente, la cellula si destabilizza, cresce in maniera incontrollata e si trasforma in tumorale. Tuttavia, i molteplici ruoli del complesso proteico offrono anche l’opportunità di inibire la crescita delle cellule tumorali interferendo con le vie biochimiche che dipendono dalla funzione della coesina stessa. Con i colleghi neozelandesi e australiani ci conosciamo da molto tempo perché il nostro gruppo organizza ogni 2 anni un congresso mondiale sulla coesina. Naturalmente, quello previsto per il 2020 è stato annullato per i motivi che tutti conosciamo e posticipato al 2022. In particolare, è molto vicina al nostro lavoro la prof.ssa Julia Horsfield».


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ntonio Musio, pugliese di origine, si è laureato in Scienze Biologiche a Pisa e ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Genetiche e la specializzazione in Citogenetica Umana. Dal 2002 lavora all’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Cnr (coinvolto nello studio insieme a University of Otago e Australian National University). La sua ricerca si concentra sul ruolo del complesso proteico noto come coesina nello sviluppo di malattie rare e nei processi di tumorigenesi. In questi ambiti ha dimostrato che mutazioni nei geni della coesina sono responsabili della sindrome di Cornelia de Lange, una rara patologia dello sviluppo, e ha contribuito a svelare i meccanismi molecolari che portano una cellula normale a trasformarsi e diventare tumorale. © Gorodenkoff/shutterstock.com

Come è stato diviso il lavoro tra gli istituti coinvolti? «Ognuno, chiaramente, ha fatto la sua parte, e così continuerà ad essere anche dopo questo step appena concluso. I colleghi della Nuova Zelanda e dell’Australia si sono in particolare occupati dell’analisi di circa 3.000 composti chimici – famaci, in sostanza -, di cui 2.399 approvati dalla Food and Drug Administration, efficaci nell’inibire la crescita delle cellule tumorali con mutazioni a carico della coesina. Dallo screening sono stati selezionati 206 composti e particolarmente interessante si è rivelato il composto LY2090314». Perché? «Inibendo – in modo inaspettato peraltro - il gene GSK3, tale composto attiva la via biochimica di Wnt, una famiglia di glicoproteine, determinando un’efficace riduzione della crescita cellulare. All’Istituto di Ricerca Genetica e Biomedica del Cnr abbiamo dimostrato il processo su cellule tumorali umane (cellule di tumore al colon, nello specifico). I nostri risultati suggeriscono che le mutazioni della coesina potrebbero contribuire allo sviluppo tumorale e che il targeting della via Wnt potrebbe rappresentare una nuova strategia terapeutica per i tumori mutanti della coesina. Il

Il lavoro, pubblicato sulla rivista eLife e sostenuto da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, porta la firma dei ricercatori dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Irgb) che da tempo collaborano con colleghi della University of Otago in Nuova Zelanda e dell’Australian National University.

fine di tali studi è aprire la strada allo sviluppo di terapie: la coesina e la via Wnt potrebbero rappresentare un bersaglio molecolare per impedire il processo neoplastico». In cosa consisterebbe l’approccio terapeutico? «Il farmaco c’è già, è quel composto LY2090314 individuato dai colleghi, che attiva la via biochimica di Wnt, provocando a cascata l’apoptosi, la morte cellulare (delle cellule tumorali, naturalmente). Per spiegarlo con altre parole parto dal titolo dello studio, che è “Cohesin mutations are synthetic lethal with stimulation of WNT signaling”. Quella espressione “Synthetic lethal” vuole significare questo: la mutazione della coesina da sola non fa niente, l’attivazione della via Wnt neanche; ma se si verificano insieme queste due condizioni, si ha la morte cellulare». È una scoperta che potrebbe avere risvolti utili in tutti i tumori? «Certamente in tutti quelli che presentano quel tipo di mutazione. È proprio quello su cui stiamo lavorando adesso, oltre a voler comprendere cosa c’è tra l’attivazione della via Wtn e l’apoptosi. Una volta aggiunto questo ulteriore tassello, si può puntare a un approccio terapeutico vero e proprio». (C. D. M.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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TUMORI, IN 10 ANNI +37% PAZIENTI VIVI DOPO DIAGNOSI La pandemia sta però frenando gli esami con 2 milioni di screening in meno nel 2020

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a pandemia da Covid-19 ha messo purtroppo il freno alla prevenzione oncologica in Italia, con effetti pesantissimi: nel 2020 si sono infatti effettuati 2 milioni di screening in meno contro i tumori e questo potrebbe causare un aumento della mortalità. Al contempo, però, si registra un aumento della sopravvivenza del 37% nell’arco di 10 anni, frutto delle cure e della ricerca oncologica, e in Italia sono oggi 3,6 milioni i cittadini vivi dopo la diagnosi di cancro. L’associazione italiana di oncologia medica (Aiom) presenta la fotografia dello stato dell’oncologia in Italia, sottolineando come negli ultimi anni i passi avanti fatti sul fronte delle cure siano stati notevoli. L’arrivo della pandemia nel 2020, però, ha rallentato esami e terapie e questo avrà conseguenze pesanti nel medio termine. Nei primi nove mesi del 2020 sono stati eseguiti oltre due milioni (2.118.973) esami di screening in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. Ritardi che si stanno accumulando e che si traducono in una netta riduzione non solo delle nuove diagnosi di tumore della mammella (2.793 in meno) e del colon-retto (1.168

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in meno), ma anche delle lesioni che possono essere una spia di quest’ultima neoplasia (oltre 6.600 adenomi avanzati del colon-retto non individuati) o del cancro della cervice uterina (2.383 lesioni CIN 2 o più gravi non diagnosticate). «Se la situazione si prolunga, diventa concreto il rischio di un maggior numero di diagnosi di cancro in fase avanzata, con conseguente peggioramento della prognosi, aumento della mortalità e delle spese per le cure», è l’allarme di Giordano Beretta, presidente nazionale Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) e responsabile oncologia medica Humanitas Gavazzeni di Bergamo. «Il ritardo diagnostico accumulato si sta allungando ed è pari a 4,7 mesi per le lesioni colorettali, a 4,4 mesi per quelle della cervice uterina e a 3,9 mesi per carcinomi mammari - afferma Beretta -. Sono le conseguenze indi-


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rette della pandemia. Queste latenze e le relative lesioni non individuate dipendono sia dal minore numero di persone invitate che dalla minore adesione da parte della popolazione durante la pandemia, per timore del contagio». Nel 2020, nel mondo, sono stati stimati quasi 20 milioni (19,3) di nuovi casi di tumore. Circa un terzo può essere prevenuto, basti pensare che il 22% è causato dal fumo di sigaretta e il 5% dell’abuso di alcol. Nel 2020, in Italia, ne sono stati diagnosticati 377.000, circa 6.000 casi in più rispetto al 2019. «Il ‘Libro Bianco 2020’ di Aiom rispecchia lo stato dell’oncologia nel nostro paese, fornendo un censimento del sistema assistenziale e definendo una costante e intensa collaborazione con le Istituzioni nazionali e regionali - sottolinea Massimo Di Maio, segretario Aiom e direttore Oncologia dell’Ospedale Mauriziano, Università degli Studi di Torino -. In Italia, sono attive 369 Oncologie,

“Se la situazione si prolunga, diventa concreto il rischio di un maggior numero di diagnosi di cancro in fase avanzata, con conseguente peggioramento della prognosi, aumento della mortalità e delle spese per le cure”.

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l’83% ha un servizio di supporto psicologico e sono significativi i passi in avanti realizzati nella definizione dei percorsi diagnostico-terapeutici e assistenziali (Pdta), essenziali per garantire un’assistenza multidisciplinare: sono stati deliberati dal 93% delle strutture, per un totale di 1.250 documenti, la maggior parte (1.045), come atteso, coprono i tumori della mammella, colon-retto, polmone e prostata, ma sono stati censiti anche 205 documenti sulle altre patologie». «L’Italia è tra i primi paesi in Europa nella cura delle malattie tumorali, se ci si ammala di cancro si ha un’aspettativa di vita più alta della media degli altri paesi europei» spiega il ministro della Salute, Roberto Speranza. «Lo dobbiamo - aggiunge - alle attività di prevenzione e ai progressi della scienza oltre che alla qualità del nostro personale sanitario. Oggi più che mai è evidente che prendersi cura del nostro paese vuole dire continuare a investire sul Servizio sanitario nazionale e sulla ricerca scientifica». «La pandemia ha reso il percorso di chi lotta contro il cancro ancora più difficile. Non dimentichiamoci dei pazienti oncologici. Ricerca, prevenzione e accesso alle cure siano priorità, anche nell’emergenza» sottolinea la presidente del Senato, Elisabetta Casellati. In Europa, la pandemia sta avendo un impatto “catastrofico” sulle cure per i tumori. L’allarme lanciato dall’ufficio europeo dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in occasione della Giornata mondiale contro il cancro. Nel Vecchio Continente, i servizi destinati ai malati di tumore sono stati interrotti o ridotti in un terzo dei paesi. «L’impatto della pandemia sui malati di tumore in Europa è semplicemente catastrofico», afferma il direttore Oms Europa, Hans Kluge, aggiungendo che «alcuni Paesi hanno avuto carenze di medicinali antitumorali e molti hanno registrato un calo significativo delle nuove diagnosi di tumore, compresi i paesi più ricchi». Kluge cita l’esempio dei Paesi Bassi e del Belgio, dove durante il primo lockdown il numero di tumori diagnosticati è precipitato del 30-40 per cento. Nel Regno Unito, invece, si prevede che il ritardo nelle diagnosi e nelle cure comporterà un incremento dei decessi per tumori del colon-retto del 15 per cento e del 9 per cento per quanto riguarda i tumori della mammella nei prossimi 5 anni. (E. M.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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LA COESINA, UN BERSAGLIO MOLECOLARE CONTRO IL TUMORE Il ruolo dei complessi proteci nelle patologie oncologiche. Lo studio del Cnr è stato sostenuto dalla Fondazione AIRC e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista eLife

di Pasquale Santilio

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lcuni ricercatori dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche in collaborazione con la University of Otago e l’Australian National University, hanno scoperto che componenti della via biochimica controllata da Wnt, una famiglia di glicoproteine, potrebbero rappresentare un bersaglio terapeutico di composti anti-tumorali. Sulla base dei dati dell’Associazione italiana registri tumori (Airtum) in collaborazione con l’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), 20 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

è stato stimato che in Italia nel 2020 siano stati diagnosticati circa 1030 nuovi casi di tumore al giorno e che il numero complessivo, generato dalla proiezione sull’intero anno, sia di oltre 376mila. In alcuni tumori è possibile rinvenire mutazioni nei geni che codificano per il complesso proteico noto come coesina. Antonio Musio, ricercatore dell’Istituto di ricerca genetica e biomedica del Consiglio nazionale delle ricerche, che ha realizzato lo studio in collaborazione con i colleghi neozelandesi dell’University of Otago e quelli australiani dell’Australian National University,

ha spiegato: «La coesina contribuisce a una corretta divisione cellulare, all’organizzazione tridimensionale del nucleo e alla regolazione dell’espressione genica». Quando la coesina non funziona in modo corretto, la cellula si destabilizza, cresce in maniera incontrollata e si trasforma in cellula tumorale. Tuttavia, i molteplici ruoli del complesso proteico offrono anche l’opportunità di inibire la crescita delle cellule tumorali interferendo con le vie biochimiche che dipendono dalla funzione della coesina stessa. Prosegue Antonio Musio: «Nella ricerca abbiamo studiato l’efficacia di 3009 composti chimici, di cui 2399 approvati dalla Food and Drug Administration, nell’inibire la crescita delle cellule tumorali con mutazioni a carico della coesina. Dallo screening sono stati selezionati 206 composti e, particolarmente interessante, si è rivelato il composto LY2090314. Inibendo il gene GSK3, tale composto attiva la via biochimica di Wnt, una famiglia di glicoproteine, determinando una efficace riduzione della crescita cellulare». Tale processo è stato dimostrato sia in cellule tumorali umane in coltura che in un animale di laboratorio, lo zebrafish, suggerendo che la sensibilità all’attivazione di Wnt nell’ambito di un contesto genetico in cui la coesina è mutata, sia espressione di un fenomeno conservato nel corso dell’evoluzione. Così ha concluso il ricercatore del Cnr- Irgb: «Siamo impegnati da anni a comprendere il ruolo della coesina nello sviluppo tumorale e i risultati della ricerca aprono nuove prospettive per la cura delle neoplasie. Il fine di questi studi è aprire la strada allo sviluppo di terapie. In tale ambito la coesina potrebbe rappresentare un bersaglio molecolare per impedire il processo neoplastico». Ricordiamo che lo studio è stato sostenuto dalla Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e i relativi risultati sono stati pubblicati sulla rivista eLife.


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o chiamano il “killer silenzioso” perché il tumore del pancreas non presenta sintomi specifici e quando questi compaiono spesso sono associati ad uno stadio molto avanzato della malattia. La causa potrebbe derivare dal fatto che, fin dalla sua origine questo tipo di tumore è caratterizzato da un intricato insieme di cellule di diversa natura che lo circonda e forma il cosiddetto “microambiente tumorale”. Nel microambiente vengono accesi numerosi programmi genetici e metabolici che forniscono un enorme vantaggio alla crescita del tumore e nello stesso tempo impediscono ai linfociti T killer antitumore di “infiltrarsi” nel tessuto tumorale, confinandoli all’esterno ed impedendo loro di riconoscerlo ed eliminarlo. Ora i ricercatori del Centro di medicina sperimentale (Cerms) della Città della Salute di Torino e del Dipartimento di Biotecnologie molecolari e Scienze per la salute dell’Università di Torino hanno scoperto il modo di permettere ai linfociti killer anticancro di infiltrarsi all’interno del tessuto tumorale per eliminarlo. Coordinati dai professori Paola Cappello e Francesco Novelli, i ricercatori impegnati in questo studio hanno dimostrato che bloccando l’interleuchina 17A, un importante messaggero della comunicazione tra le cellule del sistema immunitario e tra queste e le cellule circostanti, si modifica “il microambiente” tumorale ed in particolare il comportamento di un tipo di cellule, i fibroblasti. Queste cellule sono particolarmente abbondanti nel tumore del pancreas e sono responsabili della deposizione di un complesso e compatto reticolato di fibre, la cosiddetta “matrice”, che rappresenta il più grosso ostacolo all’ingresso dei linfociti killer antitumore così come la diffusione dei farmaci utilizzati per il trattamento. Gianluca Mucciolo dell’Università di Torino e primo autore di que-

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TUMORE DEL PANCREAS SCOPERTA SUI LINFOCITI KILLER Ricerca del Centro di medicina sperimentale della Città della Salute di Torino e del Dipartimento di Biotecnologie molecolari e Scienze per la salute di UniTo

sto studio, utilizzando un modello animale predestinato a sviluppare il tumore del pancreas e privo della capacità di produrre l’interleuchina 17A, ha osservato che, nonostante la presenza di molti fibroblasti, il microambiente tumorale era molto più “invaso” da linfociti killer antitumore. Grazie ad una collaborazione con un gruppo di ricerca della Czech Academy of Sciences di Praga, diretto dal professor Luca Vannucci, il gruppo torinese ha dimostrato che in assenza dell’interleuchina 17A, la matrice depositata dai fibroblasti era, diversamente dal solito, molto più soffice

e lassa, e presentava un’architettura che aveva poco in comune con le vere e proprie “autostrade” che favoriscono l’invasione delle cellule tumorali dei tessuti circostanti. La professoressa Cappello, mediante l’utilizzo di sofisticate tecnologie per lo studio dell’espressione genica a livello di una singola cellula, ha dimostrato come in assenza dell’interleuchina 17A i fibroblasti del tumore del pancreas modificano il loro programma genico per promuovere sia l’accumulo di linfociti T antitumore che l’aumento della loro attività killer. (E. M.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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NUOVI MECCANISMI DELLA FARMACO-RESISTENZA Arrivano studi scientifici che spiegano come la forma più letale del cancro alla pelle si difende dalle terapie cercando di proliferare

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no studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell’ISS, in collaborazione con i colleghi dell’Idi-Irccs e del Campus Biomedico, ha individuato nuovi meccanismi che spiegano, almeno parzialmente, la resistenza ai farmaci del melanoma, la forma più letale del cancro alla pelle. La ricerca, pubblicata su Biomedicines, è importante a maggior ragione considerando che il tasso di incidenza di questa forma di tumore è in rapido aumento e il successo terapeutico degli inibitori BRAF (BRAFi) e degli inibitori MEK (MEKi) nel melanoma BRAFmutante sta incontrando dei limiti dovuti proprio alla resistenza ai farmaci. Su Biomedicines gli autori dello studio spiegano come siano sempre di più le evidenze a suggerire che i cambiamenti nel microambiente tumorale possono giocare un ruolo fondamentale nei meccanismi di resistenza acquisita. Il dottor Francesco Facchiano, che ha coordinato la ricerca, ha spiegato come «nonostante i recenti progressi delle nuove opzioni terapeutiche ne abbiano significativamente modificato l’esito clinico», siano sempre «molto frequenti i melanomi cutanei resistenti agli inibitori della proteina BRAF (BRAFi), una chinasi che risulta mutata in circa il 50% del totale dei casi di melanoma». I ricercatori sono partiti da dati ottenuti in vitro con cellule tumorali e confermati su campioni biologici per poi concentrare la loro attenzione sull’insieme delle proteine secrete (il cosiddetto secretoma) dalle cellule del

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melanoma resistenti al vemurafenib, un farmaco antitumorale noto inibitore della proteina BRAF, che è coinvolta nei segnali che regolano il ciclo e la crescita cellulare e se mutata può aumentare la proliferazione tumorale. «I nostri dati confermano che le cellule resistenti al BRAFi mostrano un comportamento più aggressivo, con un’aumentata produzione di interferone-γ, interleuchina-8 e del VEGF (fattore di crescita dei vasi sanguigni) ha spiegato Claudio Tabolacci, primo autore dell’articolo e ricercatore sostenuto dalla Fondazione Umberto Veronesi -. Inoltre, abbiamo dimostrato che le cellule del melanoma resistenti al vemurafenib possono influenzare l’attività delle cellule dendritiche, modulando la loro attivazione e la produ-

zione di citochine che possono facilitare la crescita del melanoma». «La comprensione di questi meccanismi», spiegano i ricercatori citati sul portale dell’Istituto Superiore di Sanità, «è di grande importanza per mettere a punto nuove opzioni terapeutiche in grado di superare la resistenza ai farmaci antitumorali». I nuovi casi di melanoma in Italia sono in aumento: in un anno sono passati dai 12.300 del 2019 ai 14.900 del 2020. Un aumento del 20% che non può non essere fonte di preoccupazione, sebbene sia mitigato dal dato inerente la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi, pari all’87% (89% donne e 85% uomini). La speranza è che studi come quello appena illustrato, concentrandosi sui meccanismi che impediscono l’efficacia delle terapie, riescano ad aumentare ulteriormente questa percentuale. (D. E.).


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incr: si chiama così la molecola di Rna scoperta da un team di ricercatori del Dipartimento di Oncologia Sperimentale dell’Istituto Europeo di Oncologia in grado di limitare la capacità precoce delle cellule di melanoma di formare metastasi e sviluppare resistenza ai farmaci. Guidati da Luisa Lanfrancone e Pier Giuseppe Pelicci, i ricercatori hanno analizzato il ruolo di questa molecola lunga di Rna (long non-coding Rna) nella disseminazione metastatica del melanoma. Come spiegato da Marine Melixetian, prima autrice dello studio pubblicato su Embo Reports, «i long non-coding Rna sono delle molecole di oltre duecento nucleotidi che hanno un ruolo in diversi processi fisiologici della cellula. Noi abbiamo scoperto che, nel melanoma in stadio precoce, lo

SCOPERTA MOLECOLA RNA CHE FERMA LE METASTASI “Tincr” limita la capacità delle cellule tumorale di invadere tessuti lontani e di sviluppare la resistenza ai trattamenti con i farmaci

stato proliferativo delle cellule, cioè quello in cui esse si riproducono ma non formano metastasi, è mantenuto da un particolare long non-coding Rna, denominato Tincr. Quando Tincr è presente in alta concentrazione, come nei melanomi in stadio iniziale, le cellule proliferano ma il tumore non metastatizza; viceversa, quando la concentrazione di Tincr è bassa, le cellule diventano invasive e il melanoma metastatizza». Le cellule del melanoma esistono in due forme: cellule proliferanti e cellule invasive. Questi due tipi cellulari non sono determinati dalle alterazioni genetiche del melanoma, bensì dai segnali che provengono dall’ambiente esterno, il micro-ambiente tumorale. La stessa cellula può passare da uno stato proliferativo ad uno invasivo e viceversa. Nei melanomi in

fase iniziale sono prevalenti le cellule proliferanti. Nel corso della crescita del melanoma, alcune cellule proliferanti finiscono per diventare invasive, staccandosi dal tumore e migrando verso tessuti lontani, rientrando in uno stato proliferativo caratterizzato dalla crescita di metastasi. La storia del melanoma è dunque quella di un continuo cambiamento delle proprietà delle sue cellule, per descriverlo si usa il termine plasticità: da proliferative, nel melanoma iniziale, ad invasive, in quello più avanzato che rilascia le prime cellule metastatiche, a nuovamente proliferative, nella metastasi che cresce. Obiettivo degli studiosi, come dichiarato dalla dottoressa Lanfrancone, controllarla. Il dottor Pelicci ha spiegato: «Abbiamo dimostrato che alzando i livelli di Tincr nelle cellule del melanoma metastatico si riduce la loro capacità di invadere i tessuti circostanti, limitando così la formazione di metastasi. Non solo, ma la perdita dello stato invasivo restituisce al melanoma sensibilità ai farmaci molecolari, come gli inibitori di Braf e Mek». Il lavoro prosegue ora in due direzioni: «Vogliamo innanzitutto capire se i livelli di Tincr nel tumore sono predittivi della probabilità del paziente di sviluppare metastasi, e in caso usare queste informazioni per indirizzarlo a terapie preventive. Inoltre vogliamo identificare i geni controllati da Tincr che possano essere colpiti da farmaci mirati, al fine di individuare o sviluppare nuove terapie di prevenzione delle metastasi nel melanoma». (D. E.). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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NEURODANTE ALLE RADICI DEL BELLO Uno studio multidisciplinare dell’Università Sapienza di Roma ha osservato gli effetti della lettura della Divina Commedia sul cervello

di Elisabetta Gramolini

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l bello piace. A tutti. E non occorre essere un esperto dantista per apprezzare l’opera più celebre del Sommo. A dirlo è un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Brain Sciences, che ha analizzato, attraverso specifiche modalità di indagine, l’attività cerebrale durante l’ascolto di passi della Divina Commedia. Il lavoro è frutto della collaborazione scientifica tra i gruppi di ricerca dei dipartimenti di Medicina Molecolare edi Studi Europei, Americani ed Interculturali della Sapienza Università di Roma, guidati da Fabio Babiloni e da Paolo Canettieri, in sinergia con la start-up BrainSigns dello stesso Ateneo. La ricerca, denominata Neurodante, si inserisce nell’ambito di indagine della neuroestetica che osserva i correlati biologici all’esperienza estetica. Dal 2010 questa disciplina trova la sua applicazione anche alla letteratura dopo le arti figurative. I ricercatori hanno sottoposto l’ascolto di vari canti di Inferno, Purgatorio e Paradiso a un campione di 47 persone, suddiviso in due gruppi: il primo, formato da 23 studenti di lettere e corsi umanistici, il secondo da 24 studenti di facoltà scientifiche.

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I risultati sono stati sorprendenti. «Sia gli esperti sia i non esperti reagiscono approcciandosi ai versi in egual modo», spiega la neurobiologa Giulia Cartocci, fra gli autori della ricerca. Questo «Significa che ogni persona possiede la capacità di apprezzare il bello nonostante cresciamo spesso con etichette che ci portano ad essere giudicati come «portati per le materie letterarie» oppure «totalmente negati». «C’è una tendenza innata ad apprezzare il bello – sottolinea -. Uno degli indici usati nell’articolo si basa su due meccanismi, uno inibitorio e l’altro di attivazione. Se l’emisfero sinistro (in particolare nella zona frontale) risponde maggiormente rispetto al destro a uno stimolo c’è la tendenza all’approccio, mentre se viene attivata maggiormente la parte destra c’è una tendenza al rifiuto. Questo indice è stato applicato in molti ambiti. Lo abbiamo usato come indice di approccio cerebrale, differenziato da un secondo indice che sonda una reazione emozionale più viscerale». La ricerca partiva dalle precedenti evidenze relative all’arte figurativa che suggeri-


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vano come negli esperti si verifichi sia una attenuazione nella risposta emozionale, confermata anche dal presente studio che l’ha estesa a stimoli letterari e ipotizzandola specifica per competenza, evidenziando inoltre un aumento dell’elaborazione cognitiva in risposta agli stimoli da parte degli stessi esperti. La scelta del capolavoro del poeta fiorentino è stata quasi obbligata. «Abbiamo pensato a Dante – continua la ricercatrice - perché ci forniva la possibilità di comparare argomenti diversi con una struttura uguale. Inizialmente pensavamo di trovare una diversa fruizione fra i due gruppi, cosa che invece non c’è stata. Avevamo ipotizzato che i non esperti avrebbero elaborato di più la parafrasi, perché di più pronta comprensione. Ma non è stato così. Va detto che la Divina Commedia è molto conosciuta dagli italiani – osserva -, anche da chi non ha fatto studi classici al liceo. Un minimo di conoscenza quindi c’è». I brani erano ascoltati da partecipanti di sesso femminile o maschile: «Non abbiamo registrato differenze nei risultati a seconda del genere», ag-

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Un anno dedicato al Sommo

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l 5 settembre scorso, il presidente della Repubblica ha inaugurato le celebrazioni nazionali dell’anniversario della morte di Dante Alighieri, avvenuta 700 anni fa a Ravenna. Per l’importante appuntamento, numerose istituzioni, fra le quali l’Accademia della Crusca o la Società Dante Alighieri, hanno programmato una serie di eventi lungo tutto il 2021. Il Comitato nazionale di celebrazioni per il VII centenario della morte di Dante Alighieri istituito presso il ministero dei Beni culturali ha valutato i vari progetti per i quali ha concesso il patrocinio.

Divina Commedia, illustrazione di Gustave Doré. La ricerca, si inserisce nell’ambito di indagine della neuroestetica che osserva i correlati biologici all’esperienza estetica. Dal 2010 questa disciplina trova la sua applicazione anche alla letteratura dopo le arti figurative.

giunge Cartocci. Un risultato ha inoltre colpito gli autori: i non esperti risultano più emozionati di quelli considerati maggiormente «addetti ai lavori». «Nel nostro studio abbiamo ipotizzato che ci possa essere una attenuazione emozionale dovuta al background dei soggetti che probabilmente può essere estesa pure in altri campi». Anche i brani dell’opera più celebri, come quello che narra la vicenda di Paolo e Francesca, conquistano le emozioni degli esperti. «In risposta a quel canto – commenta - c’era una reazione emozionale totalizzante da parte degli esperti, c’era in particolare una correlazione fra i due indici, quindi la tendenza all’approccio cerebrale e l’indice emozionale. Era come se sia di pancia sia di testa gli esperti rispondessero con un pieno coinvolgimento emozionale a quel particolare canto in cui si parla di passione e romanticismo». Quali sviluppi potrebbe avere questa osservazione condotta sui versi della Divina Commedia? «La prima applicazione – risponde - che si potrebbe ipotizzare è nella neuroriabilitazione. L’arte e la letteratura influiscono sul cervello». Un’altra ipotesi da non tralasciare è lo studio della fruizione delle opere culturali dal pubblico. «Abbiamo ipotizzato a seconda dello stato d’animo che ci potrebbe essere uno stimolo letterario o artistico più adeguato». Il progetto, la cui realizzazione è durata diversi anni, ha previsto che i gruppi di ricerca svolgessero un periodo di attività presso la Biblioteca dell’Accademia dei Lincei. In questa occasione i risultati preliminari dello studio sono stati presentanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e all’allora presidentessa della Camera, Laura Boldrini. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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COME E QUANDO IL CERVELLO SI SORPRENDE Uno studio di ricercatori del Cnr di Pisa rivela i meccanismi cerebrali tra aspettativa, illusione e sorpresa. Lo studio è stato pubblicato su Current Biology

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n pool di ricercatori dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa e delle Università di Firenze e Pisa ha analizzato i processi cerebrali che sottendono i meccanismi collegati tra aspettativa, illusione e sorpresa. Lo studio, intitolato “Perceptual history propagates down to early levels of sensory analysis” è stato pubblicato sulla rivista scientifica Current Biology/ Cell- press. Guido Marco Cicchini del Cnr, Alessandro Benedetto dell’Università di Pisa e David Burr dell’Università di Firenze hanno indagato sulle modali26 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

tà attraverso cui il cervello genera le aspettative sul mondo che ci circonda. Lo studio parte da un fenomeno noto come dipendenza seriale in cui, per esempio quando il prestigiatore esegue un numero di illusionismo, gli osservatori tendono a confondere le proprietà degli oggetti che hanno difronte (come il colore, l’orientamento, etc.) con quelle di oggetti simili visti poco prima. Ha osservato David Burr: «Questo fenomeno, da noi scoperto qualche anno fa, evidenzia che il cervello cerca costantemente di prevedere quello che accadrà attingendo dall’informazione più affidabile del futuro,

ossia il passato prossimo delle nostre esperienze sensoriali». I ricercatori hanno generato una serie di stimoli visivi ordinari, inframezzati da stimoli illusori, ossia sollecitazioni che appaiono percettivamente diverse da come sono fisicamente. Prosegue lo studioso: «Analizzando il comportamento dei soggetti in prossimità di questi stimoli illusori, abbiamo visto che il cervello per formare le sue previsioni utilizza uno scambio continuo e reciproco, in entrata ed uscita, di segnali neurali di livello più alto (cioè elaborati) con segnali più grezzi che sono recepiti dalle aree neuronali più prossime alla retina». Guido Marco Cicchini spiega: «Ci aspettavamo di osservare meccanismi locali, circoscritti alle aree prime sensoriali, quelle della vista, oppure ad aree di alto livello, dedicate all’elaborazione della memoria. Invece, i dati hanno mostrato che il fenomeno della dipendenza seriale nasce da un dialogo delle seconde con le prime, probabilmente utilizzando dei percorsi neurali di feedback». Alessandro Benedetto ha spiegato: «Il cervello è un’intricata rete di neuroni interconnessi in cui si distinguono due grandi categorie. Le connessioni feedforward, che portano informazioni dalle prime aree sensoriali ai centri di elaborazioni più alti e le connessioni rientranti (feedback) che fanno il percorso inverso. Il ruolo delle connessioni feedforward è chiaro, quello delle connessioni rientranti è stato oggetto di molte speculazioni». Così ha concluso Cicchini: «Questo studio spiega che le previsioni sono un aspetto fondamentale del funzionamento cerebrale. Quando non si avverano emergono sensazioni di apprensione, spavento, sorpresa o meraviglia. Nei bambini spesso la sorpresa sfocia in allegria, ma in generale per l’adulto, che ha imparato le regolarità del mondo circostante, gli eventi imprevedibili sono pochi». (P. S.).


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stato denominato VINYL (Variant prloritizatioN bY survival anaLysis) il nuovo software sviluppato grazie ad una preziosa quanto fattiva collaborazione da un team di ricercatori dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari, dell’Università “Aldo Moro” del capoluogo pugliese e dell’Università Statale di Milano. Lo studio è stato pubblicato su Bioinformatics. Questo strumento riproduce e ottimizza i principali criteri che vengono utilizzati in diagnostica molecolare al fine di individuare mutazioni nel nostro genoma potenzialmente collegate con l’insorgenza di patologie genetiche, facilitando così le applicazioni della genomica, deputata a comprendere i meccanismi di funzionamento del nostro patrimonio genetico attraverso il confronto delle sequenze dei genomi. «È stato stimato che, mediamente, il genoma di un individuo contenga milioni di piccole differenze, denominate varianti genetiche che, nel loro insieme, contribuiscono a delineare e definire i tratti somatici tipici di ciascun soggetto. Un numero alquanto ristretto di queste varianti può anche rappresentare la causa di malattie o di condizioni patologiche. La capacità di conoscere e identificare i tratti genetici di una malattia può, ovviamente, facilitarne la diagnosi e, di conseguenza, la cura. È proprio per questo motivo che, negli ultimi anni, l’analisi del genoma di soggetti malati viene sempre più utilizzata in genetica clinica» ha argomentato Graziano Pesole del Cnr-Ibiom. I ricercatori hanno dimostrato che VINYL è in grado di effettuare le analisi dei dati genomici molto più rapidamente. Prosegue Pesole: «Il software rende automatica e veloce la codifica degli eventuali effetti funzionali delle varianti genetiche, facilitando l’identificazione di quelle

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MALATTIE GENETICHE: UN SOFTWARE PER LA DIAGNOSI Il suo nome è VINYL ed è un strumento in grado di facilitare la scoperta di nuove mutazioni nel genoma

di possibile rilevanza clinica. Lo strumento realizzato è in grado di confrontare i profili genetici di miglia di persone affette da una patologia con quelli di persone sane e identificare le caratteristiche salienti delle varianti associate alla malattia». Inoltre, lo strumento è capace di individuare nuove varianti genetiche di potenziale interesse clinico che non erano state identificate dalla curatela manuale dei dati. «La medicina di precisione è un nuovo approccio che punta a utilizzare i profili genetici per sviluppare terapie mirate ed efficaci e costituisce una delle maggiori sfide per il futu-

ro delle discipline biomediche. Per questo, lo sviluppo di metodi e strumenti informatici come VINYL sarà sempre più necessario e, ci auguriamo, utile per interpretare in maniera sempre più accurata le informazioni derivate dalla sequenza del nostro genoma» ha concluso il ricercatore del Cnr-Ibiom. Lo studio è stato realizzato con il supporto della piattaforma Bioinformatica messa a disposizione dal nodo italiano dell’infrastruttura di ricerca europea Elixir per le Scienze della vita, coordinata dal Cnr con la responsabilità dello studioso Graziano Pesole. (P. S.). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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AUTISMO: PERCHÉ NON SI RICONOSCO I VOLTI La scarsa capacità di riconoscimento dipenderebbe da una scarsa attività dell’amigdala. Lo rivela uno studio pubblicato su Journal of Child Psychology and Psychiatry

di Carmen Paradiso

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a scarsa attività dell’amigdala sarebbe la causa del non riconoscimento dei volti nei soggetti autistici. A rivelarlo lo studio dal titolo “Brain activity during facial processing in autism spectrum disorder: an activation likelihood estimation (ALE) meta-analysis of neuroimaging studies”, pubblicato sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, una delle riviste più prestigiose di psicologia evolutiva, del team del Professor Claudio Gentili del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università’ degli Studi di Padova. Si è giunti a questa conclusione grazie agli studi effettuati sulla risonanza magnetica funzionale, che consente di visualizzare l’attività cerebrale in tempo reale. «Da quando le metodiche di esplorazione funzionale in vivo del cervello, hanno permesso di valutare in tempo reale l’attività cerebrale - spiega Claudio Gentili, docente di psicologia clinica del Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università degli Studi di Padova e autore della ricerca - la nostra capacità di comprendere funzioni e disfunzioni cerebrali si è arricchita enormemente e gli studi di ogni tipo sulla percezione dei volti umani anche in soggetti con disturbo dello spettro autistico sono aumentati enormemente. Il rischio è di avere tanti, forse troppi, studi scientifici, tutti simili, ma con risultati non sempre sovrapponibili. Abbiamo deciso di provare a mettere un po’ di ordine conducendo una ricerca sistematica di tutti gli studi che hanno utilizzato volti umani per studiare l’attività’ cerebrale in individui con disturbo dello spettro autistico». Nello studio è 28 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

emerso che l’amigdala, responsabile della maggior parte sia delle elaborazioni delle emozioni che delle reazioni, nei soggetti autistici presenta una minore attività. «La disfunzione dell’amigdala - spiega Claudio Gentili - da quel che è emerso, è risultata essere un’alterazione abbastanza coerente e riproducibile nella maggior parte degli studi presi in considerazione». Ciò significa che l’alterazione dei centri di elaborazione emozionale in questi individui possa essere centrale, apparentemente più di quella dei centri cerebrali

deputati alla percezione del volto come, ad esempio, il giro fusiforme responsabile dell’identificazione percettiva del volto, ovvero, per dirla come Oliver Sacks, quella regione cerebrale che non “confonde la propria moglie per un cappello”. Dallo studio è emerso, inoltre, che la disfunzione è presente nei soggetti adulti, mentre nei bambini o adolescenti la situazione appare differente; un risultato utile anche sia per eventuali sviluppi terapeutici che riabilitativi. «Infatti - aggiunge Claudio Gentili - in letteratura molti studi mostrano differenze significative tra adolescenti e bambini autistici da un lato e corrispondenti con sviluppo tipico dall’altro e le alterazioni della percezione dei volti sono clinicamente documentabili. Quando invece si raggruppano per un confronto diversi studi, come abbiamo fatto nella nostra pubblicazione, nessuna differenza di attività’ cerebrale risulta significativa. Dal nostro lavoro emerge che potrebbe essere utile concentrare i prossimi studi su questo aspetto non secondario».

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urante l’età Imperiale si affermò la tendenza di raccogliere in un’opera esaustiva l’insieme di conoscenze possedute in una determinata disciplina, come è stato il trattato dal titolo “Sulla materia medica” del medico militare Pedanio Discoride. Discoride era nato ad Anazarbo, in Cilicia, ed esercitò la sua professione durante i regni di Claudio e Nerone: la sua opera è, infatti, dedicata al medico Ario, amico di Licinio Basso, che fu console nel 64 d. C. Discoride viene considerato quello che introdusse le basi della farmacologia e nella sua opera descrive con dovizia, puntualità e conoscenze circa un migliaio di rimedi contro le malattie, soprattutto di origine vegetale, ma anche di natura animale e minerale. Nel suo trattato Discoride fornisce anche notizie su procedimenti chimici, come la cristallizzazione, la sublimazione, la distillazione e la preparazione del mercurio. Il suo trattato “Sulla materia medica”, che alcuni studiosi considerano anche una trattazione esauriente di botanica descrittiva dell’antichità, forse corredata pure di illustrazioni, ebbe grande fama nel periodo tardo-antico ed il suo recupero in Occidente durante l’età umanistica fu di enorme interesse; infatti, attraverso le numerose traduzioni latine e volgari, questo trattato influenzò in modo considerevole la Botanica del Rinascimento. Discoride nell’introduzione della sua opera propone indicazioni generali per conoscere e raccogliere le piante medicinali. Egli esalta il modo empirico del lavoro dell’erborista, ma anche la necessità di una grande esperienza. Riguardo alle proprietà terapeutiche, Discoride nel suo trattato non corre dietro alle credenze superstiziose o magiche; talvolta, pur dando notizie di questo genere, mostra di non prestare fede a tali informazioni. Per lui le virtù medicinali delle piante dipendono dalle quattro

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LA FARMACOLOGIA DURANTE L’ETÀ IMPERIALE “Sulla materia medica”, un trattato ricco di rimedi contro le malattie realizzato dal medico militare Pedanio Discoride, considerato il padre della farmacologia

di Barbara Ciardullo qualità fondamentali: caldo, freddo, umido e secco. Discoride descrive in modo puntuale circa 600 piante, che raggruppa alcune in base a caratteristiche comuni, altre in base ad analogia delle proprietà medicamentose. Di ogni pianta egli descrive le caratteristiche, le qualità curative ed i rimedi che se ne possono trarre. Ad esempio, parlando della cicerbita Discoride ne delinea una descrizione

accurata, dicendo che vi sono due specie: una selvatica e spinosa, l’altra tenera e, quindi, commestibile. Tutte e due le specie, però, hanno proprietà astringenti ed il loro succo, una volta bevuto, cura l’infiammazione e i dolori dello stomaco, mentre applicandolo sulla lana allieva le infiammazioni anali e uterine. La parte erbosa e la radice sono abbastanza efficaci contro i morsi degli scorpioni. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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UNA PROTEINA PUÒ BLOCCARE L’OBESITÀ EIF4E può ridurre l’accumulo dei chili di troppo, anche all’interno di un’alimentazione ricca di grassi

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l suo nome scientifico è eIF4E. Si tratta di una proteina che sembra avere tutte le carte in regola per bloccare l’obesità ed essere al centro dei futuri programmi medici per la perdita di peso. A scoprirla Davide Ruggero, ricercatore italiano dell’Università della California a San Francisco, coordinatore del team che in uno studio ha dimostrato come basti ridurre l’attività di questa proteina, a livello genetico o farmacologico, per vedere diminuire l’accumulo di chili di troppo, pur in presenza di un’alimentazione ricca di grassi. Più precisamente, come ha spiegato lo stesso dottor Ruggero, «i topi erano fondamentalmente protetti dall’aumento di peso». Gli autori dello studio hanno evidenziato come una dieta con molti grassi faccia sì che questi si accumulino in diversi organi, in quelle che vengono chiama-

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te goccioline lipidiche. Si tratta di un fenomeno molto pericoloso: si pensi ad esempio a quanto avviene al livello del fegato, dove un eccesso di grassi può sfociare in malattie come la steatosi epatica non alcolica, nota anche come fegato grasso. Gli esperimenti condotti in laboratorio hanno evidenziato come proprio l’attività di eIF4E sia responsabile della formazione delle suddette goccioline lipidiche. Una sua regolazione è in grado di modificare l’andamento di una condizione di cui gli scienziati stanno cercando di ottenere una migliore comprensione su base molecolare. Davide Ruggero, profes-


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sore presso l’Helen Diller Family Comprehensive Cancer Center nei Dipartimenti di Urologia e Farmacologia Cellulare e Molecolare, ha spiegato che i topi depurati dalla presenza di goccioline lipidiche non solo presentavano un fegato sano ma, al netto di un’alimentazione ricca di grassi, erano anche più energicamente attivi. Alma Burlingame, professore di chimica farmaceutica presso la UCSF, ha utilizzato la spettrometria di massa per tracciare il profilo delle proteine sia nei topi normali che in quelli modificati. Da questi dati, i ricercatori hanno scoperto che molte delle proteine presenti nei topi modificati da eIF4E non solo riducevano l’accumulo di lipidi nel fegato, ma aumentavano anche il metabolismo dei lipidi: di fatto i topi potevano mangiare di più e anche bruciare più grassi. «Se metti ogni tipo di topo sul tapis roulant o gli fai correre una maratona, i topi eIF4E-modificati vincono sempre - possono andare avanti perché possono bruciare i lipidi», ha spiegato Ruggero. La proteina eIF4E svolge un ruolo cruciale nell’avviare la sintesi proteica e si trova in tutte le cellule del corpo. Durante il processo chiamato traduzione, i filamenti di RNA messaggero (mRNA) portano le istruzioni per la produzione di proteine dai geni ai ribosomi, le macchine cellulari in cui vengono prodotte le proteine. In organismi che vanno dal lievito ai mammiferi, eIF4E forma una parte chiave di un complesso che si lega ad un cappuccio alla fine di ogni filamento di mRNA e guida l’mRNA ai ribosomi. Dunque eIF4E è ritenuto essenziale per la produ-

La proteina eIF4E svolge un ruolo cruciale nell’avviare la sintesi proteica e si trova in tutte le cellule del corpo. Durante il processo chiamato traduzione, i filamenti di RNA messaggero (mRNA) portano le istruzioni per la produzione di proteine dai geni ai ribosomi, dove cui vengono prodotte le proteine. © CI Photos /shutterstock.com

zione di tutte le proteine. Proprio a causa della sua importanza, fino a poco tempo fa, un complemento completo di eIF4E era considerato essenziale per la vita. Ma nel 2015 il gruppo di ricerca di Ruggero ha fatto la sorprendente scoperta che i topi geneticamente modificati per portare solo una copia del gene per eIF4E - e quindi solo la metà della quantità di proteina eIF4E che si trova nei topi normali - erano ancora in grado di sintetizzare proteine e svilupparsi normalmente. Nel corso di esperimenti guidati dall’ex ricercatore post-dottorato dell’ateneo californiano Crystal S. Conn, PhD, ora professore assistente presso l’Università della Pennsylvania Perelman School of Medicine, e l’attuale postdoc del laboratorio Ruggero, Haojun Yang, PhD, il team ha alimentato entrambi i topi normali e modificati da eIF4E con una dieta ricca di grassi nell’arco di cinque mesi. Da quanto si legge su Nature Metabolism, al termine degli esperimenti gli studiosi hanno osservato che i topi modificati hanno guadagnato solo la metà del peso delle loro controparti, suggerendo che l’attività di eIF4E è coinvolta nell’accumulo di grassi. Il dottor Yang, co-autore dello studio, al riguardo ha dichiarato: «Puntare sulla traduzione dell’mRNA può diventare un nuovo modo per curare l’obesità». Ruggero ha chiosato sottolineando come l’obesità sia un fattore di rischio per il cancro: non a caso in passato il suo team aveva già lavorato allo sviluppo di un farmaco attualmente in fase sperimentale, rivolto a pazienti affetti da diverse forme di tumore. Al riguardo, gli studiosi hanno anche dimostrato che questo farmaco è in grado di diminuire i livelli di obesità, quelli legati all’accumulo di grasso e anche di steatosi epatica nei topi sottoposti ad una dieta ricca di grassi. I nuovi risultati che coinvolgono eIF4E forniscono una nuova prospettiva intrigante su questo legame. Per questo l’augurio del dottor Ruggero è che i ricercatori approfondiscano il ruolo di questo fattore di traduzione nell’obesità, nel cancro e nella relazione tra i due. (D. E.).

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essun posto come casa: in altre parole, i fattori ambientali influenzano anche il modo in cui si affrontano alcuni problemi di salute. È la traiettoria di una serie di ricerche sui fattori di rischio metabolico correlati all’obesità e causati dall’ambiente, coordinate da Rebecca E. Hasson, professoressa presso l’Università del Michigan e direttrice del “Childhood Disparities Research Laboratory e Active Schools & Communities Initiative”, che da oltre un decennio si occupa delle cause e delle conseguenze dell’obesità pediatrica. Studiare come fattori comportamentali possano incidere, per esempio, sul rischio di diabete di tipo 2, sulla resistenza all’insulina e sulle infiammazioni, o come stili di vita poco corretti siano determinati, o anche solo incentivati, dal contesto, significa poter progettare trattamenti più personalizzati. La questione assume un’importanza maggiore in un periodo in cui, a causa della pandemia da Covid-19, le condizioni dell’abitare sono, sia per gli adulti sia per i più piccoli, profondamente cambiate. Le misure di sicurezza hanno limitato le possibilità che ciascun individuo ha a disposizione per affrontare e superare lo stress. È venuto meno anche il sostegno sociale, che soprattutto per i più giovani è una delle risorse principali per il superamento dello stress. E se è vero che ogni individuo ha sperimentato almeno una volta nella vita situazioni di

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stress, quando questo diventa un’esperienza cronica, il problema rischia di assumere dimensioni importanti. «Il corpo - spiega Hasson - semplicemente non è stato progettato per gestire ripetutamente lo stress». In caso di situazioni anomale, il corpo tende ad adattarsi: l’alterazione della produzione di cortisolo influisce sulla salute metabolica. Se questa condizione diventa costante può generarsi un ciclo pericoloso. Gli studi di Hasson sono stati sviluppati soprattutto in contesti geografici dove esistono comunità o gruppi in maggiore situazione di disagio socio-economico. Durante la pandemia gli adolescenti in queste realtà sono stati particolarmente sottoposti allo stress: costretti dal lockdown in abitazioni quasi mai spaziose, senza supporto nello studio, con i genitori preoccupati dal non riuscire a pagare per servizi basilari come il riscaldamento o dal non riuscire a procurarsi il cibo. Anche la violenza nel quartiere in cui si vive può rivelarsi, soprattutto per i bambini, un fattore di stress. «Il problema tende ad aggravarsi non solo quando l’individuo affronta uno stress cronico, ma anche quando ad affrontarlo sono le persone attorno - aggiunge Hasson - Oggi osserviamo il fattore di stress globale al vertice e ulteriori fattori di stress individuali e della comunità negli altri livelli. Non è una tempesta perfetta, è uno tsunami». Ma se gli adulti possono attingere alle personali capacità di superamento del disagio,


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AMBIENTE E RISCHIO OBESITÀ La pandemia ha limitato i più piccoli nell’attività fisica: così la risposta allo stress rischia di impattare sulle abitudini e il benessere di Sara Lorusso

non è detto che i bambini e i ragazzi riescano a trovare analoghe soluzioni. E il modo in cui i genitori rispondono a simili situazioni può influire sul loro sviluppo: il peso corporeo è spesso un importante indicatore. In un recente articolo pubblicato sulla rivista “Psychoneuroendocrinology”, il gruppo scientifico guidato da Hasson ha identificato un’associazione trasversale tra la violenza dell’ambiente di comunità in cui si vive e la disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene negli adolescenti in sovrappeso o addirittura obesi. «Un bambino di pochi anni non può andare a correre - aggiunge la studiosa - L’unico strumento di riduzione dello stress a disposizione è generalmente cibo ricco di zuccheri. Sappiamo che lo zucchero attiva il sistema di ricompensa del cervello e certamente i bambini tendono a stare meglio dopo aver mangiato qualcosa di dolce. Ma questo significa allenarli fin dalla più tenera età a indirizzare sul cibo la relazione con lo stress». Un pattern analogo, secondo gli studiosi, a quanto accade con socialmedia e videogiochi: un uso prolungato attiva i meccanismi della ricompensa, ma si tratta di attività sedentarie, a cui sempre più bambini si sono rivolti soprattutto con lo scoppio della pandemia, in assenza di molte possibilità di esercizio fisico. «La scuola è chiusa, la palestra è chiusa, il parco è chiuso. E se non vivi in un quartiere sicuro, non ti muovi certo all’aperto». Per un ragazzo che attraversa la pubertà - il

Studiare come fattori comportamentali possano incidere sul rischio di diabete di tipo 2, sulla resistenza all’insulina e sulle infiammazioni, o come stili di vita poco corretti siano determinati dal contesto, significa poter progettare trattamenti più personalizzati. © Yuriy Golub /shutterstock.com

periodo biologico cruciale in cui i più giovani diventano più resistenti all’insulina - bassi livelli di attività fisica e scorretto consumo di cibo sono fattori di rischio metabolico molto gravi. «Ma concentrarsi su abitudini alimentari malsane - prosegue Hassen - ci consegna solo metà del quadro, metà della storia, e prestando attenzione ad altri fattori un endocrinologo può spostare la valutazione nella giusta direzione per la prevenzione e il trattamento». Anche sulla scorta di queste riflessioni è nata l’esperienza del programma televisivo “Impact at Home”, in onda nella città di Detroit sul canale Michigan Learning Channel, una piattaforma audiovisiva con accesso gratuito e trasmessa in tv (quasi un terzo dei bambini nel Michigan non ha accesso a Internet). Il progetto, nato dalla collaborazione tra Hassen e altri specialisti, prevedeva originariamente un programma educativo da sperimentare nelle scuole, per educare i più piccoli all’attività fisica. Ma con l’arrivo della pandemia e gli studenti costretti a casa, il progetto è stato rielaborato per fornire così alle famiglie un aiuto pratico nell’affrontare lo stress dei propri figli. Il programma accompagna il pubblico giovane nell’attività fisica, suggerendo anche ai genitori di fare attività con i più piccoli. «Molti genitori - conclude la studiosa - vedono che i loro figli sono stressati, ma non sanno davvero cosa fare al riguardo. Un suggerimento è proprio fare del movimento insieme, stare con loro». Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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RADICCHIO E CARCIOFO Le caratteristiche alimentari e storiche di due prodotti tipici della cucina italiana di Emanuele Rondina

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Il Radicchio. La Storia e leggende popolari su questo gustoso ortaggio sono molte, perché il radicchio o meglio noto come cicora dei campi è stato per secoli il cibo povero delle campagne venete. Infatti, mentre i Dogi consumavano sontuose e ricercate pietanze, i contadini infatti cuocevano le verdure amarognole delle loro campagne inventando piatti che oggi sono tipici della cucina veneta. In realtà l’utilizzo della specie spontanea del radicchio è conosciuta fin dai ai tempi di Plinio il Vecchio (29 – 79 A.C.) che nel ‘Naturalis Historia’ cita la cicoria attribuendole proprietà depurative. Ne parlò ampiamente anche Galeno (129, – 199 C.) nei suoi trattati e anche Dioscoride (40 – 90 D.C.) la raccomandava contro i disturbi di stomaco e per favorire la digestione. Però questo ortaggio relegato ai piatti poveri e popolari per un lungo periodo viene snobbato tanto che non viene neppure citato dai cronisti antichi, quando descrivono il veneto e le sue specialità gastronomiche, cosi come non se ne parla nei testi di divulgazione agronomica pubblicati nel’700 a Venezia. Bisognerà aspettare fino alla seconda metà dell’800 per ritrovare la citazione del radicchio in un libricino dedicato alle operazioni necessarie per la cura dell’orto, nei vari mesi dell’anno. Da questo momento le notizie si sono susseguite numerose fino alla consacrazione ufficiale del radicchio rosso come pregiato ortaggio invernale grazie all’opera di Giuseppe Benzi, un agronomo di origine lombarda trasferitosi nel 1876 a Treviso come insegnante e che, divenuto responsabile dell’Associazione Agraria Trevigiana, darà vita, nel dicembre del 1900, alla prima mostre dedicate alla «rossa cicoria».

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Al mercato La cicoria selvatica Genere Cichorium, Specie intybus ha dato origine a molte varietà coltivate, appartenente a molte varietà, anche parecchio differenti per forma e provenienza tra cui: Radicchio Rosso di Treviso, Catalogna, Rosa di Chioggia e tante altre. Tra i radicchi più noti che possiamo acquistare al mercato ricordiamo: • Radicchio rosso di Treviso, precoce e tardivo (forma allungata, con foglie strette e cespo semi-chiuso) • Radicchio Rosso di Chioggia (forma sferica e cespo chiuso) • Radicchio rosso di Verona (forma allungata, con foglie larghe e cespo chiuso). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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• Radicchio variegato (color verde-giallognolo puntinato in rosso-violaceo avente il cespo aperto) • Radicchio verde pan di zucchero (forma allungata, con foglie larghe e cespo chiuso) • Radicchio verde selvatico o di campo (ce ne sono varietà differenti, alcune con foglia frastagliata, altre con foglia regolare; non formano un fitto cespo e rimangono di dimensioni più contenute). Nelle varietà rosso di Treviso, variegato di Castelfranco, rosso di Verona e radicchio rosa di Chioggia li accomuna il trattamento di coltivazione chiamato imbianchimento. Questa pratica, attuata a fine estate, consiste nello stimolare la pianta a produrre molti germogli privi di clorofilla. Successivamente, con le prime brine i radicchi vengono raccolti a mazzi e si lasciano a riposare coperti nei campi, per evitare la luce e le piogge. Si ottengono così i radicchi rossi di Verona e di Chioggia, caratterizzati da cespi piccoli e rotondi.

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Il Carciofo. La storia Molto probabilmente il capostipite selvatico del carciofo, è di origine greca perché a questo ortaggio è collegato un mito della ninfa Cynara. Questa ninfa, chiamata così per i suoi capelli color cenere, fu sedotta da Zeus il potente re degli Dei, che però non vedendo corrisposto il suo amore, la trasformò in carciofo, verde e spinoso come il carattere dell’amata. Forse proprio da questo episodio mitologico nasce la parola carciofo e anche la sua fama di alimento afrodisiaco, che mantiene fin dall’antichità. Questo legame con la mitologia non è casuale, la pianta infatti risulta originaria del bacino del Mediterraneo orientale, comprese le isole Egee, Cipro, l’Africa settentrionale e l’Etiopia, dove tuttora si trovano varie qualità di carciofi cresciuti spontaneamente. Proprio ai Greci è attribuita anche l’importazione dell’ortaggio nel nostro paese e in particolare nell’Italia meridionale, probabilmente in Sicilia, durante il periodo dell’occupazione nel I secolo a.C. Pero solo a partire dal Cinquecento, il carciofo comincia a comparire sempre di più anche nei trattati di cucina, trovando però riscontri di diversa natura. In questo periodo questa 36 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

pianta è ancora piuttosto rara e considerata un bene di lusso destinato solo alle persone più abbienti. Il consenso per questo alimento aumenta quindi, con la crescente accessibilità da parte di fasce sempre più ampie di popolazione. Da qui parte anche un’improvvisa fortuna figurativa, che va da metà Cinquecento a metà del Seicento, che farà comparire il carciofo nei famosi dipinti di natura morta, accanto a fiori rari e frutti ricercati. Al mercato L’Italia è il principale produttore mondiale di carciofo (cynara scolymus) e le varietà che si coltivano in Italia sono più di 90. Le più conosciute sono: • lo spinoso sardo (forma vagamente conica, le foglie serrate e gli aculei molto aguzzi) - Ottobre a Maggio • lo spinoso di Palermo (forma ovale e oblunga) - Primavera • il romanesco (forma sferica e grande) Estate • il violetto di Toscana (forma a tronco di cono) - Primavera • il precoce di Chioggia (forma cupolino bombato e dal colore viola) - Primavera • il violetto di Catania (forma cilindrica e sfumature violette) – Primavera Carciofo e radicchio. ControindicazioniSono ortaggi sconsigliati a chi ha problemi di calcoli e coleocististe. Da evitare se si soffre di ulcera gastroduodenale. Il radicchio può avere effetti stimolanti sull’utero e quindi andrebbe consumato solo dietro consulto medico durante la gravidanza. Il fegato viene protetto L’attività epatoprotettiva del carciofo e della cicoria sono note oramai da tempo. Questa proprietà è data dalle molecole dal gusto amaro, contenute in questi ortaggi. Tali molecole stimolano la bile che aiutano a digerire i grassi. Il Carciofo e il Radicchio esercitano infatti una valida azione coleretica (aumento della produzione di bile), favorendo la funzionalità epatocellulare e della secrezione biliare. Le molecole come l’acido clorogenico e la cinarina hanno la funzione di incrementano la secrezione biliare e l’effetto si ha sia sulla coleresi (produzione di bile) che sulla produzione di acidi biliari.


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L’aumento della secrezione avviene perché queste molecole stimolano la produzione di Secretina da parte del duodeno che a sua volta stimola la produzione di bile da parte delle cellule del fegato, mentre il passaggio del cibo stimola la produzione nel duodeno di colecistochinina (CCK) causa il rilascio di bile accumulata nella cistifellea. Mentre le molecole responsabili dell’attività protettiva antiossidante sono: l’acido caffeico, l’acido clorogenico, la luteolina. Questi principi attivi sono in grado di stimolare la rigenerazione epatocitaria ed incrementare la sintesi proteica a livello intraepatocitario legata ad un aumento dei livelli di RNA ribosomiale. Il colesterolo viene abbassato Oltre ad aumentare la produzione bilare e purificare le cellule del fegato i carciofi aiutano ad abbassare il colesterolo nel sangue. La base biochimica del perché di questa prerogativa, viene spiegata in due indagini condotte dal Physiologisch-chemisches Institut dell’Università di Tubinga, sulla biosintesi intraepatica del colesterolo14. Questa ricerca ha dimostrato che un estratto di foglie di carciofo (Cynara scolymus), a basse concentrazioni (<01mg/mL) determina una inibizione del 20% dell’attività dell’idrossimetilglutaril-CoA reduttasi (HMG-CoA reduttasi), l’enzima responsabile della sintesi del colesterolo endogeno a livello epatico. A concentrazioni più elevate (1mg/ml), il blocco della sintesi del colesterolo è decisamente più marcato (65%). Questa attività inibitoria è sicuramente dipendente dalla concentrazione estratto di carciofo utilizzato. Quindi il sostanza è stato dimostrato che l’estratto di foglie di carciofo inibisce la produzione di colesterolo endogeno contribuendo quindi ad abbassare i livelli di colesterolo totali presenti nel sangue. Il cinaroside e, in particolare, il suo aglicone luteolina, sono i responsabili dell’inibizione, l’acido clorogenico invece è molto meno efficace, mentre l’acido caffeico, la cinarina ed altri acidi dicaffeoilchinici risultano inefficaci. Le molecole I principali costituenti delle foglie di carciofo e di cicoria sono sono rappresentati da un gruppo di composti noti collettivamente col nome di frazione O-difenolica e corrispondenti ad esteri degli acidi caffeico (acido 1-caffeoilchinico, acido 3-caffeoilchinico o acido clorogenico, acido 4-caffeoilchinico o criptoclorogenico e 5-caffeoilchinico o neoclorogenico) e chinico (1,5-dicaffe-

Bibliografia

La cicoria selvatica Genere Cichorium, Specie intybus ha dato origine a molte varietà coltivate, appartenente a molte varietà, anche parecchio differenti per forma e provenienza tra cui: Radicchio Rosso di Treviso, Catalogna, Rosa di Chioggia e tante altre.

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© ChiccoDodiFC /shutterstock.com

oilchinico, 3,5-dicaffeoilchinico), mentre l’acido 1,3-dicaffeoilchinico o più conosciuto come cinarina è presente solo in tracce nella foglia fresca, in quanto viene generata dall’acido 1,5-dicaffeoilchinico durante un trattamento con acqua calda di conseguenza è presente solo in estratti acquosi e nelle foglie cotte. Altri componenti delle foglie di cicora e carciofo sono molecole di sapore amaro (lattoni sesquiterpenici), principalmente (cinaropicrina, deidrocinaropicrina, groseimina, cinarotriolo); acidi alifatici, soprattutto idrossi acidi (acido glicolico, acido malico, acido lattico, acido idrossimetilacrilico); eterosidi flavonoidici: scolimoside (luteolina 7-rutinoside), cinaroside (luteolina 7-glucoside), cinaratrioside (luteolina 7-ramnoglucoside 4’glucoside). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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ALGHE E RADICALI LIBERI Le proprietà antiossidanti della Spirogyra porticalis trans-himalayana (Muell.) Cleve di Carla Cimmino

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Traduzione dell’articolo Chemical Composition and Biological Activities of Trans-. Jatinder Kumar, Priyanka Dhar, Amol B. Tayade, Damodar Gupta, Om P. Chaurasia, Dalip K. Upreti, Kiran Toppo, Rajesh Arora, M. R. S seela, Ravi B. Srivastava.

e alghe sono il centro della ricerca, poiché attraverso numerosi studi, si è evidenziato, che possiedono una significativa attività antiossidante e proprietà di eliminazione dei radicali liberi. Si parla infatti di: 1) un gruppo di piante geneticamente diversificato, che possiede un’ampia gamma di caratteristiche fisiologiche e biochimiche; 2) una promettente fonte di nuovi composti biochimicamente attivi come acidi grassi, steroidi, carotenoidi, polisaccaridi, lectine, vitamine e fico-proteine, aminoacidi, minerali alimentari, composti alogenati, polichetidi, tossine e diversi antiossidanti. Si ritiene infatti, che le piante che crescono in ambienti di alta quota come la regione del deserto freddo trans-himalayano indiano Ladakh , producano sostanze bioattive naturali, che le aiutino a sopravvivere in condizioni di stress. Quindi si è valutato, che quelle specie di piante potrebbero avere ricche proprietà medicinali, e potrebbero essere utilizzate come agente profilattico e terapeutico per disturbi indotti da stress. L’alga verde d’acqua dolce filamentosa Spirogyra spp. (famiglia Zygnemataceae), è una preziosa fonte di composti bioattivi naturali ampiamente sfruttati per attività (antibiotiche, antivirali, antiossidanti, antinfiammatorie, citotossiche ecc.). Mediante metodi chemiometrici, con saggi in vitro e in vivo, si è potuto valutare le proprietà farmaceutiche, terapeutiche, fornendo un valido strumento, per il controllo di qualità, sicurezza e bio-efficacia dei prodotti naturali destinati all’uomo.

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Sono stati sviluppati una serie di prodotti a base di erbe dalle piante d’alta quota della regione trans-himalayana del Kashmir e del Ladakh, condotti vari studi sul potenziale medicinale, nutrizionale e antiossidante di questi, approfondito lo studio delle capacità antiossidanti, il contenuto fenolico, il profilo chemiometrico con la tecnica GC / MS (scelta per la caratterizzazione dei composti volatili presenti nei prodotti naturali), l’effetto citotossico e il potenziale anti-ipossico dell’alga trans-himalayana Spirogyra porticalis (Muell.) Cleve. L’attività citotossica, è stata valutata su cellule di carcinoma epato-cellulare umano HepG2 e carcinoma del colon RKO. Infine, l’effetto anti-ipossico dell’estratto di S. porticalis è stato testato su un sistema animale in vivo (ratti). Per i processi antiossidanti, sono stati utilizzati solventi con polarità varia, per capire le proprietà antiossidanti, monitorando il contenuto totale di estratti fitochimici (proantocianidine, polifenoli, flavonoidi) presenti nei diversi estratti, per determinare la relazione del contenuto fenolico con le capacità antiossidanti. I risultati di questo studio in accordo con precedenti studi , hanno evidenziato che gli estratti di S.porticalis hanno attività antiossidante, antimicrobica, antiemolitica, anti-iperglicemiche e anti-iperlipidemiche ed effetto reno-protettivo, grazie a diversi gruppi di sostanze fitochimiche bioattive. Il fingerprinting chemiometrico GC / MS dell’estratto di metanolo di S. porticalis, ha mostrato tredici chemiotipi bioattivi aventi una presunta importanza fito-farmaceutica.


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Spirogyra spp.

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Dai test di citotossicità su due linee cellulari prese in esame, è emerso che GI50 dell’estratto di metanolo di S. porticalis era 86 μg / ml per le cellule HepG2, che era ben al di sotto di 100 μg / ml e secondo l’NCI (National Cancer Institute ), questo estratto potrebbe agire come un potente farmaco antitumorale per queste cellule. Per la linea cellulare RKO, il valore GI50 è stato misurato come 154 μg / ml, che era superiore a 100 μg / ml, ma a una concentrazione di 333,33 e 205 μg / ml è stato riscontrato, che l’estratto si avvicinava a LC100 e LC50. In contrasto con questo risultato, l’estratto di metanolo non si è mai avvicinato alla LC50 fino al livello di concentrazione 333,33 μg / ml nelle cellule HepG2. Quindi, è chiaro che questo estratto ha agito come un agente antitumorale sia per le cellule HepG2, che per le cellule RKO in questo studio. Dopo aver confermato gli effetti citotossici e anticancerogeni dell’estratto di metanolo di S. porticalis nelle linee cellulari HepG2 e RKO, è stato ulteriormente condotto lo studio in vivo, per valutare l’attività biologica dell’estratto algale sui ratti. Qui, l’estratto di metanolo di S. porticalis ha fornito protezione dallo stress ossidativo indotto dall’ipossia e dai danni ai agli organi. È stato anche riscontrato, che accelera l’insorgenza di cambiamenti adattativi nei ratti a seguito di esposizione ipossica, quindi prodotti fitochimici bioattivi dell’estratto avrebbero potuto agire sinergicamente, per produrre un effetto protettivo ottimale sotto stress ipossico. I risultati di questo studio confermano anche studi precedenti, dove è stato osservato un forte aumento dei livelli di radicali liberi e il conseguente declino

L’alga verde d’acqua dolce filamentosa Spirogyra spp. (famiglia Zygnemataceae), è una preziosa fonte di composti bioattivi naturali ampiamente sfruttati per attività (antibiotiche, antivirali, antiossidanti, antinfiammatorie, citotossiche ecc.). © SciePro/shutterstock.com

dello stato antiossidante endogeno negli animali, a seguito di esposizione a ipossia ipobarica per 7 giorni. La somministrazione dell’estratto di metanolo di S. porticalis, durante l’esposizione all’ipossia ipobarica, ha ridotto i livelli di radicali liberi e la concentrazione di glutatione ossidato (GSSG), e ha anche aumentato la concentrazione di glutatione ridotto endogeno (GSH) e il rapporto GSH / GSSG. L’azione antiossidante dell’estratto di alghe, potrebbe essere attribuita al ricco contenuto di polifenoli, flavonoidi, proantocianidine, esteri di acidi grassi, steroli, alcoli insaturi e altri componenti bioattivi che ha indotto l’aumento del livello di GSH antiossidante endogeno e del rapporto GSH / GSSG nel sangue. Quindi dimostra l’efficacia dei componenti bioattivi nel modulare la biosintesi del glutatione e la stabilizzazione in condizioni ipossiche, ma ciò necessita di indagini ulteriori. Questo studio ha rivelato elevate capacità antiossidanti e una notevole quantità di composti fenolici totali negli estratti di S. porticalis, che potrebbero essere utilizzati come un’efficiente fonte naturale di antiossidanti. E’ stato riscontrato che l’estratto di metanolo, possiede la più alta capacità antiossidante e composti fenolici, e questo è stato ulteriormente studiato per il profilo chemiometrico GC / MS, l’azione citotossica su linee cellulari di carcinoma umano e l’azione biologica in vivo su modello animale. S. porticalis è un serbatoio di nuovi composti e potrebbe essere utilizzata come ricchezza, per la scoperta di nuovi farmaci contro una varietà di disturbi umani, come lo stress ossidativo. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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a secoli la cura della persona ha avuto un’importanza significativa a livello culturale, sanitario e sociale; ancora oggi il benessere di capelli e cute ricopre un ruolo fondamentale. I capelli sono l’emblema della nostra bellezza, del nostro star bene; sono importanti quando ci guardiamo allo specchio, quando usciamo in mezzo alla gente e perché no, anche quando lavoriamo. Un aspetto curato, inutile negarlo, ci agevola in tanti campi della nostra vita e aumenta la nostra autostima. La bellezza estetica dei capelli non può essere estrapolata dallo studio della loro biologia e fisiologia. Mentre i fusti dei capelli, costituiti per lo più da cellule morte possono essere a lungo manipolati e risultare utili nel proteggerci da agenti esterni come sole e freddo, tutt’altro discorso va fatto per la cute. La pelle è un organo molto complesso ed esteso, è un confine tra il mondo esterno e quello interno, tra l’ambiente e il proprio sé. Biologicamente, lo strato di protezione determinato dalla pelle non finisce con lo strato corneo ma si completa con il film idrolipidico e con l’insieme dei microrganismi che compone il microbioma cutaneo, Cute, film e microbioma costituiscono un equilibrio unico come nel caso del cuoio capelluto. Ma cosa succede se questo equilibrio viene a mancare? In una situazione di squilibrio possono insorgere alterazioni più o meno gravi; ad esempio un eccesso di sebo, o un cambiamento della sua composizione, rendono il cuoio capelluto un terreno poco adatto, se non nocivo, per la crescita dei capelli con lo sviluppo anche di desquamazione. Variando il pH, vengono favoriti alcuni microrganismi patogeni a discapito dei commensali creando infiammazioni locali e sintomatologia pruriginosa associata. Tali cambiamenti non sono da sottovalutare, infatti se non risolti subito diventano cronici, andando a influenzare negativamente il turnover cellulare cutaneo e la fisiologia dei fol-

licoli stessi, con conseguenze sullo svolgimento del ciclo vitale dei nostri capelli. Viene quindi da chiederci: c’è un modo per poter contrastare, se non risolvere, queste problematiche? Approfondiamo questo aspetto grazie al contributo della dott.ssa Debora Martinelli, biologa esperta da anni in tricologia, che ci spiega come la ricerca scientifica in questo campo abbia individuato alcune piante i cui estratti sono in grado di fornirci aiuti importanti per i nostri problemi tricologici. Una delle piante più conosciute come alleata della pelle è il Rosmarinus Officinalis (RO), una pianta sempreverde che è stata spesso usata, fin dai tempi antichi, come ingrediente di prodotti cosmetici. I suoi estratti contengono il carnosolo e l’acido rosmarinico, 2 principi attivi in grado di purificare e sebonormalizzare il distretto cutaneo. Il carnosolo inoltre, è in grado di agire direttamente sull’enzima superossido dismutasi, che degrada i radicali liberi, liberandoci dal danno ossidativo che provoca l’invecchiamento precoce. Altra azione importante di carnosolo e acido rosmarinico, è quella antinfiammatoria, in quanto queste sostanze vanno ad interagire con il rilascio di spe-

di Biancamar

Dalle piante numerosi rimedi per mantene

NATURA E BELLEZZA

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cifici mediatori infiammatori, riducendo notevolmente i sintomi quali prurito e rossore. Come se non bastasse, il RO è in grado di svolgere anche un’azione antibatterica, soprattutto contro mycobacterium tubercolosis, e antifungina, in particolare contro candida albicans e tinea. Un’altra pianta dalle grandi proprietà correttive in campo tricologico è l’Eucaliptus Globulus (EG), pianta sempreverde che cresce soprattutto in zone con clima temperato. Alcuni studi hanno dimostrato come EG possa avere un grande impiego nel trattamento della sintomatologia pruriginosa. Nello studio di Takagi si è testata una lozione topica a base di EG su persone con dermatite atopica, dermatite seborroica e con pitiriasi. I risultati hanno mostrato un notevole miglioramento della secchezza della pelle, della desquamazione e anche degli eritemi presenti nei soggetti con forme più gravi. Si conclude che gli estratti EG sono fortemente indicati per tutte le condizioni cutanee che presentano condizioni desquamative con sintomatologia pruriginosa. Una pianta invece meno conosciuta, ma molto promettente in campo tricologico, è il Cardiospermum Halicacabum, definito addirittura un cortisone naturale, tale è la

ria Mancini

Bibliografia • Zgonc Škulj A et al. “Herbal preparations for the treatment of hair loss.” Archives Of Dermatological Research 2019 Nov 03. • Takagi Y et al. “The efficacy of a pseudo-ceramide and eucalyptus extract containing lotion on dry scalp skin.” Clinical, Cosmetic And Investigational Dermatology 2018 Apr 06; Vol. 11, pp. 141-148. • CARLONI D., “Cardiospermum halicacabum for the treatment of dermatitis. Cardiospermum halicacabum - Sapindaceae family: a plant with a cortison-like action as a valid alternative to traditional dermatological applications”, H adn PC Vol. 7(4) October/December 2012, 32-37 • Folashade O. Oyedeji and Olufunsho Samuel Bankole-Ojo2 “Quantitative evaluation of the antipsoriatic activity of sausage tree (Kigelia africana).” African Journal of Pure and Applied Chemistry 18 October, 2012.

Biologicamente, lo strato di protezione determinato dalla pelle non finisce con lo strato corneo ma si completa con il film idrolipidico e con l’insieme dei microrganismi che compone il microbioma cutaneo © Space Vector/shutterstock.com

sua capacità antinfiammatoria. Gli studi condotti a tal proposito evidenziano l’inibizione della liberazione di TNF-a e di ossido nitrico da parte dei macrofagi, evitando il manifestarsi di sintomi fastidiosi come prurito e arrossamento. L’effetto, come detto, è simile a quello cortisonico, ma senza i potenziali effetti collaterali del farmaco. Citiamo in ultimo la Kigelia Africana, una pianta originaria dell’Africa spesso utilizzata dalle popolazioni indigene per il trattamento di diverse problematiche cutanee: dall’infezione micotica, agli eczemi fino alla cicatrizzazione delle ferite. L’aspetto più interessante legato all’azione dell’estratto è tuttavia l’effetto benefico che sembra avere sulla psoriasi, patologia con insorgenza autoimmune, per la quale è molto difficile trovare un rimedio. I risultati di molti studi sulla pianta in ambito tricologico sono davvero sorprendenti: l’estratto derivato dalla corteccia della pianta ha ridotto notevolmente i sintomi di psoriasi, secchezza e desquamazione, tanto da aprire la strada a studi che potrebbero individuare un percorso specifico per rendere la vita più serena a tutte quelle persone che ne soffrono. In conclusione, possiamo affermare che la natura ci fornisce diverse armi per poter contrastare alcune delle alterazioni più comuni che intaccano la bellezza della nostra chioma; sfruttiamole, così da poter continuare a sfoggiare il nostro aspetto migliore.

ere in salute il derma e il follicolo pilifero

PER CUTE E CAPELLI

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Intervista

NESSI TRA MICROPLASTICHE E SALUTE NELL’UOMO Un brevetto sviluppato all’Università di Catania riesce a rilevare frammenti con dimensioni inferiori ai 10 µm Intervista alla docente Margherita Ferrante

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n futuro, grazie al loro metodo innovativo, sperano di riuscire a rilevare la presenza di microplastiche persino nell’uomo e comprendere possibili effetti sulla salute. Il brevetto “Metodo per l’estrazione e la determinazione di microplastiche in campioni a matrici organiche e inorganiche” è italiano, unico al mondo, ed è in grado, a differenza di altri sistemi che si basano sul filtraggio, di determinare anche le microplastiche con dimensione inferiore ai 10 µm aiutando così a chiarire la relazione tra microplastiche ambientali e salute. È stato sviluppato dall’Università di Catania e realizzato dai docenti Margherita Ferrante, Gea Oliveri Conti, rispettivamente ordinario e ricercatore di Igiene generale e applicata nel dipartimento di Scienze mediche, chirurgiche e tecnologie avanzate “Gian Filippo Ingrassia” e dal dottore di ricerca Pietro Zuccarello, nell’ambito delle attività del Laboratorio di Igiene ambientale e degli Alimenti dell’Ateneo catanese. Mentre da Catania stanno depositando in tutto il mondo il brevetto, il metodo elaborato in Sicilia sarà una delle dieci tecnologie italiane presentate al prossimo salone internazionale BioVaria 2021, uno degli eventi più importanti a livello europeo nel

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campo delle Life Sciences, dove vengono presentate e promosse ad aziende europee le innovazioni tecnologiche più interessanti e promettenti per il futuro. Abbiamo chiesto alla dottoressa Margherita Ferrante di raccontarci di più sull’importanza di questo metodo. Siete orgogliosi che il brevetto selezionato rappresenterà l’Università di Catania e l’Italia a BioVaria2021? «Sì, molto orgogliosi. È molto bello che ci abbiano selezionato, ci ha stupito, non perché non avessimo consapevolezza del valore del nostro brevetto, ma perché è un brevetto che va a toccare interessi molto forti e quindi abbiamo avuto in passato qualche ostacolo. Diciamo che non tutti sono contenti che abbiamo messo a punto questo brevetto». In che senso?


Intervista

Università di Catania.

Il brevetto

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«Nel senso che quando indaghi i rapporti fra particelle e microparticelle nei substrati, l’avversione rispetto alle plastiche e le relazioni con la salute umana, credo sia normale che un brevetto di questo tipo che aiuta a svelare meglio queste relazioni non faccia piacere a chi basa tutto, per esempio, sul commercio delle plastiche, un materiale ancora diffusissimo. Diciamo così». State facendo studi anche sull’uomo e possibili danni da microplastiche? «Sì, stiamo facendo studi sull’uomo per capire se ci sono effetti negativi per la salute. In alcuni studi abbiamo già trovato microplastiche nelle urine, nel sangue, in diversi liquidi biologici. Ma trovarle non basta, non è che siano necessariamente dannose, bisogna vedere gli effetti a livello di salute. Al momento stiamo facendo queste indagini attraverso studi di controllo su popola-

Il metodo sviluppato dall’Università di Catania è un procedimento che consente di determinare e quantificare le microplastiche inferiori a 10 micrometri con una elevata sensibilità. La differenza rispetto ai metodi di prima per l’estrazione di microplastiche è che il nuovo brevetto non usa un processo di filtrazione e riesce ad osservare anche le nanoplastiche. Prima di questa invenzione tutte le metodologie internazionali prevedevano un processo di filtrazione per la raccolta delle microparticelle che però non consentiva di riconoscere le particelle con diametro inferiore al poro del filtro utilizzato e si verificava una perdita irrimediabile delle micro e nanoplastiche. Invece il nuovo brevetto, unico al mondo, può determinare anche le microplastiche con dimensione inferiore ai 10 µm. Con l’utilizzo di questo sistema sono già in attivo varie collaborazioni fra l’ateneo di Catania e centri di ricerca in tutto il Pianeta, dalla Tunisia all’Austria sino agli Stati Uniti.

zioni umane e quindi studieremo vari effetti delle microplastiche su organi e apparati per capire se c’è un nesso causa-effetto con danni specifici sul nostro organismo». Il problema sono le sostanze presenti nelle microplastiche? «Sì, diciamo che è tipico delle plastiche avere plasticizzanti, metalli, composti che sono interferenti endocrini. Ma c’è da capire se esiste una diretta connessione con problemi infiammatori nell’uomo, malattie dismetaboliche piuttosto che tumori e quant’altro». Rispetto ad altri metodi il vostro in cosa si differenzia? «La differenza con altri metodi è semplice: tutti i metodi per separare plastiche da campioni che sono indagati usano dei metodi di filtrazione. Quindi filtrando si è legati e vincolati al diametro dei pori, ovvero passano plastiche in relazione al diametro dei pori. Noi invece non usiamo filtrazione quindi estraiamo tutte le plastiche presenti, per questo vediamo nanoplastiche finora poco indagate nei vari studi». E nel dettaglio come funziona? «Diciamo che il sistema è semplice, ma c’ sempre un brevetto e cerchiamo di non renderne tutti i segreti troppo noti finché non lo avremo finito di depositare in tutti i Paesi. Al momento abbiamo chiesto il deposito in Paesi come Cina, Stati Uniti, Canada, Europa ed è stato già accettato ma devono ancora darci il codice di validazione. Solo dopo potremmo essere più precisi e fornire dettagli, ma posso dire che usiamo un principio semplice: semplicemente nessuno ci aveva pensato prima». Quanto è importante studiare e comprendere oggi i problemi ambientali relazionati alla salute? «I problemi ambientali rispetto alla salute non possono mai essere visti separatamente. Io faccio parte della task force del ministero salute ambiente e le posso dire in 40 anni di esperienza che nulla di ciò che accade a livello ambientale può essere visto separato dal resto perché, per esempio, anche il Covid è risultato di politiche perdenti da punto di vista ambientale. Uguale per plastiche e microplastiche, perché al di là che possiamo dimostrare o meno i loro danni per la salute umana, sono dei costituenti molto abbondanti all’interno del particolato atmosferico, un enorme problema di contaminazione ambientale, a sua volta collegato con cambiamenti climatici e con Covid. Tutto è connesso e per risolvere i problemi dovremmo guardare di più le cose a 360 gradi». (G. T.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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VACCINI ANCHE PER GLI ANIMALI Dai primati sino a visoni e gatti. Si apre la frontiera dell’immunizzazione per diverse specie nel tentativo di salvare noi e loro

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on solo gli umani. Mentre in tutto il mondo è corsa contro il tempo per vaccinare più persone possibili e tentare di arginare l’avanzata della pandemia, in alcuni zoo e laboratori americani (e non solo) stanno iniziando le prime vaccinazioni contro Sars-Cov2 sugli animali. Nell’ultimo anno di pandemia da Covid-19 l’attenzione planetaria si è concentrata giustamente sull’emergenza sanitaria e poco si è tornati a parlare di come tutto è, molto probabilmente, cominciato: la zoonosi. Il salto di specie, ancora non chiaro, avvenuto si stima probabilmente da un pipistrello a un altro animale che lo avrebbe poi trasmesso all’uomo. Tra indagini, anche dell’Oms, centinaia di studi e report di scienziati, ancora non si hanno le idee chiarissime su come sia iniziato il contagio: quel che è certo è che in questa pandemia le incessanti azioni dell’uomo, come l’invasione di habitat e la conseguente perdita di biodiversità, hanno probabilmente agevolato fenomeni di zoonosi che hanno innescato l’epidemia che oggi conosciamo. Adesso giustamente la scienza sta ponendo una maggiore attenzione al ruolo degli animali in questo complesso e storico contesto e sta spendendo più risorse non solo per studiarli e conoscerne i segreti del contagio, ma anche per proteggerli. Nello zoo di San Diego sono iniziate per esempio alcune vaccinazioni su oranghi, bonobo e gorilla, nel tentativo di proteggerli da contagi già avvenuti. Recentemente alcuni

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visoni sono stati invece vaccinati all’interno di laboratori americani ed europei. Ora, nuove ricerche, spingono per la futura immunizzazione anche di gatti e cani domestici. Lo sostiene per esempio un team di virologi sulla rivista Virulence specificando la necessità di vaccinare gli animali. Gli esperti di malattie infettive e genomica dell’Università dell’East Anglia, l’Earlham Institute e l’Università del Minnesota, in uno studio sostengono che la continua evoluzione del virus negli ospiti animali, come per gatti e visoni, seguita dalla possibile trasmissione in altri ospiti, rappresenti un rischio significativo a lungo termine per la salute pubblica. Non è impensabile dunque «che la vaccinazione di alcune specie animali domestiche possa essere necessaria anche per frenare la diffusione dell’infezione» scrivono i ricercatori. Per ora intanto per la prima volta è stato vaccinato un gruppo di primati non umani contro il Covid-19. Si tratta in totale nove grandi scimmie dello zoo di San Diego, quattro oranghi e cinque bonobo, che hanno ricevuto dosi del vaccino Zoetis, marchio legato alla Pfizer. Al momento si tratta di un vaccino sperimentale e non ancora approvato ufficialmente, ma pensato per gli animali in ambito veterinario. L’idea di vaccinarli è nata, anche in questo caso, dopo una ingerenza umana. Un custode dello zoo infatti nei mesi scorsi è risultato positivo e si crede che abbia contagiato alcuni gorilla presenti nella struttura. Essendo pochissime


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centinaia i primati presenti in cattività negli zoo di tutto il mondo, i veterinari dello zoo di San Diego si sono così trovati davanti alla scelta se tentare di vaccinare, anche se con un vaccino sperimentale, gli animali presenti, oppure correre il rischio di nuovi contagi. Dopo una lun-

ga diatriba si è scelto di vaccinarli e, dopo le prime iniezioni su oranghi e bonobo, a breve i membri dello zoo prevedono di vaccinare anche altri tre bonobo e un gorilla. «Era una situazione che ci ha fatto capire che le nostre altre scimmie erano a rischio» ha spiegato al San Diego Union Tribune Nadine Lamberski la responsabile della conservazione del San Diego Zoo Wildlife Alliance. «Il nostro scopo è fare del nostro meglio per proteggerli da questo virus perché non sappiamo davvero che impatto avrà su di loro». Per prassi, tutti i veterinari e diversi membri dello staff sono stati vaccinati contro il coronavirus e successivamente i responsabili hanno optato per l’uso del vaccino sperimentale di Zoetis in grado di stimolare l’immunità contro il coronavirus negli animali, un vaccino che poco prima in alcuni laboratori era stato testato già su visoni, cani e gatti. Un po’ come avvenuto per gli esseri umani, anche per i vaccini animali si è aperto il dibattito su possibili effetti collaterali del vaccino sperimentale. Da quanto riferito dai membri dello zoo di San Diego, i primati vaccinati hanno mostrato pochi sintomi collaterali, in generale “prurito nel punto dell’iniezione e alcuni si sono massaggiati ripetutamente la testa”, probabilmente a causa di un dolore poi svanito. L’iter seguito dallo zoo di San Diego potrebbe presto ripetersi anche in altre strutture e riserve del mondo. Le vaccinazioni sperimentali, oltre allo scopo di permettere l’immunità agli animali, servono infatti agli scienziati anche per esaminare reazioni, campioni di sangue e comprendere meglio i livelli di anticorpi nella speranza che i dati raccolti aiutino a fornire una opportunità preziosa per comprendere meglio l’efficacia del vaccino sugli animali. Al momento, Zoetis prevede nuove scorte di vaccino dedicate agli animali e si è in attesa dell’approvazione ufficiale negli Stati Uniti, anche se c’è già una trattativa in corso con il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti per l’approvazione, per esempio, nel vaccino per visoni. Secondo diversi esperti, la nuova frontiera dei vaccini sugli animali, che siano esemplari in cattività o animali domestici, potrà essere utile sia per proteggere gli animali stessi sia per evitare futuri sviluppi e varianti del virus che potrebbero colpire la salute umana. (G. T.). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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LA RESISTENZA DEL FICO D’INDIA Ecco perché potrebbe essere il cibo (e non solo) del futuro di Giacomo Talignani

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arola d’ordine “resistenza”. È quello che gli scienziati di tutto il mondo cercano nei cibi del futuro: resistenza alle alte temperature, ad ondate di calore, ma anche a siccità, inondazioni ed eventi meteo che a causa del surriscaldamento saranno sempre più intensi. La dieta del futuro, si sa, dovrà includere sempre meno agricoltura e allevamenti intensivi, con meno carne e più verdure, frutta, cereali e legumi sul piatto. Ma soprattutto, dovrà trovare nuovi cibi e fonti energetiche (anche per i biocarburanti) che siano in grado di sopravvivere negli scenari del domani, quelli di un Pianeta più caldo e arido. Da diversi anni uno di questi super cibi dall’altissima resistenza è stato individuato nel fico d’india, pianta succulenta appartenente alla famiglia delle cactacee, che ha incredibili proprietà e caratteristiche. Nel 2017 la Fao lo aveva già promosso come una delle piante più resistenti al caldo e climi aridi, capace di assorbire alte quantità di CO2 e ottima sia per l’alimentazione umana che per la produzione di mangimi. Ora una nuova ricerca sottolinea nuovamente queste proprietà, specificando perché il fico d’India potrebbe essere in futuro una risorsa ancor più di note coltivazioni come soia e mais, che soffrono per il surriscaldamento, un cibo che potrebbe sfamare milioni di persone nelle aree più aride del mondo e al tempo stesso una pianta utilizzabile come biocarburante. La sua funzione di cibo altamente sostenibile è stata recentemente sottolineata in

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una ricerca pubblicata su GCB-Bioenergy da un team di esperti dell’Università del Nevada, Reno, fra cui John Cushman, professore di biochimica e biologia molecolare del College of Agriculture, Biotechnology & Natural Resources dell’Università del Nevada. Da anni biologi e biochimici del Nevada stanno lavorando proprio su quelle che nel sud Italia chiamiamo “pale”, i fichi d’India presenti sia nel Centro America, in diverse zone aride del mondo e anche nel sud del Mediterraneo, con grandi quantità per esempio in Puglia, Calabria e Sicilia. Come noto, i pochi decenni andremo incontro a temperature sempre più elevate, estati più lunghe e mancanza di risorse idriche, ecco il perchè dell’interesse specifico per una pianta capace di resistere alle alte temperature e che necessita di pochissima acqua. Una coltura che, sostengono i ricercatori, potrebbe diventare in futuro anche più importante di soia, mais o addirittura riso. «Le aree aride diventeranno più asciutte a causa dei cambiamenti climatici - sostiene John Cushman nel raccontare la sua ricerca - e alla fine in futuro vedremo sempre di più questi problemi di siccità che interessano colture come mais e soia». È dunque necessario ricercare colture e soluzioni “più sostenibili”, come


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appunto l’opuntia ficus indica. Dopo diversi test effettuati in cinque anni all’interno del Southern Nevada Field Lab della Experiment Station a Logandale in Nevada gli esperti indicano che il fico d’india ha una ottima chance di diventare sia materia bioenergetica per sostituire le fonti fossili, sia che come pianta che ha la più alta produzione di frutti utilizzando fino all’80% in meno di acqua rispetto ad altre colture tradizionali. «Il mais e la canna da zucchero sono le principali colture bioenergetiche in

Pianta succulenta della famiglia delle cactacee, ha incredibili proprietà e caratteristiche © Marco Ossini/shutterstock.com

questo momento, ma usano da tre a sei volte più acqua del fico d’India» sostiene Cushman. «Questo studio dimostra che la produttività del fico d’India è alla pari con queste importanti colture bioenergetiche, ma utilizza meno acqua e ha una maggiore tolleranza al calore, il che rende questa coltura molto più resistente al clima». L’ottima capacità di immagazzinare CO2 in modo sostenibile e il fatto che cresca in zone siccitose permette al fico d’india di avere dunque nuove opportunità: “Con circa il 42% della superficie terrestre in tutto il mondo classificata come semi-arida o arida c’è un enorme potenziale per piantare tanti fichi d’india per il sequestro del carbonio. Possiamo iniziare a coltivare colture in aree abbandonate che sono marginali e potrebbero non essere adatte ad altre colture, espandendo così l’area utilizzata per la produzione di bioenergia” sostiene ancora Cushman. A questo va aggiunto il fatto che offrendo un raccolto perenne il fico d’india potrebbe essere utilizzato per il foraggio come mangime per animali, oltre naturalmente, come alimento per gli esseri umani, che già lo consumano sotto varie forme, dalle marmellate alle gelatine e diversi altri piatti. Infine gli esperti sostengono che molti dei segreti del fico d’India siano nei suoi geni che potrebbero essere, se studiati e utilizzati, in grado di migliorare l’efficienza nell’uso d’acqua di altre piante. L’opuntia ha infatti la straordinaria capacità di trattenere l’acqua chiudendo i suoi pori durante il caldo del giorno per prevenire l’evaporazione e aprirli di notte per respirare: scoprendo i segreti dei suoi geni e con esperimenti specifici su DNA e RNA, gli scienziati sperano dunque di aiutare altre piante ad aumentare la tolleranza alla siccità e ad avere più “resistenza”, quella caratteristica che candida il fico d’India a preziosissima risorsa per il domani. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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IN EUROPA, DUE MILIARDI DI LAMPADINE RICICLATE L’Italia ha contribuito, dal 2008, con la raccolta di circa 170 milioni di sorgenti luminose di Gianpaolo Palazzo

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uci nell’anno più buio, quello della pandemia. Si potrebbero sintetizzare con un titolo ad effetto la raccolta e il riciclo, da parte dei diciannove membri di “EucoLight”, che hanno raggiunto i due miliardi di lampadine in oltre quindici anni. L’associazione europea delle organizzazioni di raccolta e riciclaggio per lampade e illuminazione ha presentato, durante un seminario on-line, i propri risultati vantando oltre duecentocinquantamila tonnellate di lampadine smaltite correttamente, che equivalgono in peso a 140 volte il London Eye, mentre messe in fila potrebbero accompagnarci per cinque volte attorno alla Terra. Tra i tanti vantaggi, si possono aggiunger quelli derivanti dalla riduzione dell’estrazione di materie prime in natura, riutilizzando migliaia di tonnellate per il vetro, i metalli e la plastica, un deciso passo in avanti verso un’economia di tipo circolare. Come ricordato in apertura dell’evento dal presidente di “EucoLight”, nonché vicedirettore della francese “Ecosystem”, Hervè Grimauld, il percorso è iniziato nei primi anni 2000, quando l’Unione Europea ha introdotto il principio di Responsabilità Estesa

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del Produttore (EPR) per i RAEE (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Allora i produttori di luci hanno capito l’importanza di quell’obbligo, sviluppando una rete europea di organizzazioni di responsabilità del produttore (ORP) e fissando, sin da subito, un fine chiaro: raccogliere e riciclare più lampadine possibili in modo rispettoso per l’ambiente. Il contributo del nostro Paese, attraverso “Ecolamp”, il consorzio per il recupero dei RAEE, ci ha portati, dal 2008 ad oggi, a riciclare circa 170 milioni di sorgenti luminose, pari ad oltre ventimila tonnellate, una quantità idonea a coprire 44 volte la superficie di Piazza San Pietro a Roma. “Ecolamp” sin dalle origini, oltre a gestire la raccolta nelle isole ecologiche comunali, ha incrementato i propri servizi specifici per installatori e professionisti. Sono state organizzate oltre diecimila missioni all’anno aiutando cinquemila clienti professionali. Ora si possono contare più di 1.630 punti di raccolta serviti, con una gestione annuale che si aggira intorno alle 3.500 tonnellate di RAEE. Lo scorso anno, difatti, delle 3.446 tonnellate di RAEE smaltite correttamente il 47% proveniva da luci esauste (R5) mentre il 53%, 1.835 tonnellate, appartiene alla categoria dei piccoli elettrodomestici, elettronica di consumo e apparecchi di illuminazione giunti a fine vita (R4). Il tasso di recupero tra materia ed energia supera il 95%. Negli impianti di trattamento specializzati sono confluite 1.611 tonnellate di lampadine. Tra queste, il 41% è stato conferito da installatori e


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manutentori, con i servizi volontari di raccolta, uno dei punti di maggior interesse del canale professionale. Il 59% arriva, al contrario, dai centri comunali e dagli spazi di raggruppamento della distribuzione destinati ai cittadini. Fabrizio D’Amico, Direttore Generale del consorzio, nel suo intervento durante il webinar celebrativo ha ricordato che: «Dall’inizio dell’operatività, nel 2008, “Ecolamp” ha raccolto e avviato a riciclo oltre ventimila tonnellate di sorgenti luminose esauste, dando un importante contributo alla cosiddetta economia circolare. Quello raggiunto è un grande traguardo, ma non è ancora sufficiente. Vogliamo puntare a nuovi obiettivi e conquistare quanto prima i target stabiliti dalla Direttiva Europea. Questo è il grande impegno a cui intendiamo dedicarci nei prossimi anni. La flessione, registrata nei primi mesi del 2020, a causa della

I dati nelle Regioni

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In Italia si possono contare più di 1.630 punti di raccolta serviti, con una gestione annuale che si aggira intorno alle 3.500 tonnellate di RAEE. © JasminkaM/shutterstock.com

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ono cinque le regioni italiane che supportano il 65% della raccolta di lampadine, per un totale di 1.042 tonnellate gestite da “Ecolamp”. Prima della classe si conferma, anche per il 2020, la Lombardia con 372 tonnellate. È seguita da Veneto (206), Lazio (172), Emilia Romagna (164), Piemonte (128), Toscana (115), Campania (66), Puglia (61), Marche (57) e Sicilia (51). Per quanto riguarda le province, il podio più alto va a Milano con 99 tonnellate. Seguono Roma (93) e Bergamo (71). Queste prime tre province totalizzano il 16% nella raccolta complessiva di lampadine. Dati positivi per Latina, che è entrata tra le prime dieci con 69 tonnellate, Torino (57), Bologna (50) e per Napoli (30), città che si conferma prima nel Sud Italia.

pandemia non ha influito significativamente sulla raccolta complessiva. La forte ripresa avuta già prima dell’estate, infatti, ci ha consentito di chiudere in linea con i numeri del 2019». Per Maria Banti, funzionario della Direzione generale ambiente presso la Commissione europea, «i rifiuti prodotti dall’elettronica sono il flusso in più rapida crescita in tutto il mondo e il ruolo delle organizzazioni di responsabilità del produttore è vitale per l’attuazione della direttiva RAEE». Simona Bonafè, membro del Parlamento europeo e relatrice del pacchetto sull’economia circolare dell’UE, inserendo simbolicamente la duemiliardesima lampadina nel contenitore “EucoLight”, ha affermato: «Il traguardo celebrato dal settore dell’illuminazione è uno straordinario esempio di potenziale dell’economia circolare, quando tutti gli stakeholder coinvolti cooperano positivamente». Secondo i risultati dell’ultimo studio “EucoLight”, realizzato all’inizio del 2020 e commissionato a “GfK Italia” sulle percezioni e sui comportamenti dei cittadini riguardo al trattamento dei rifiuti di illuminazione e di altri elettrodomestici, una percentuale tra il 62% e l’88% ha correttamente individuato il luogo giusto per smaltire i rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche. Tuttavia, proprio guardando alle cifre, c’è ancora un margine di miglioramento per far crescere tra gli Europei la loro consapevolezza ambientale e incrementare, in tal modo, il benessere comune. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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orse domani correrò / dietro il suo treno...» Claudio Baglioni nel suo singolo “Amore bello”, maggio del 1973, descrive l’ultima serata insieme di due amanti, prima della partenza di lei su un vagone che raggiungerà una delle tante stazioni sparse sui 19.353 km di linee ferroviarie. Allora sarà stato un “viaggio sentimentale” faticoso, ma lo sarebbe anche adesso, poiché la maggior parte della rete italiana è a binario unico (il 56,3%), come si può intuire dalla lettura del rapporto Pendolaria 2021 di “Legambiente”. Il Sud spicca per i suoi svantaggi con esempi quali la Calabria, 686 km a binario unico su 965 (il 69,6%), la Basilicata, solo 18 km di binario doppio e il 96,1% a binario singolo, la Sardegna (549 km a binario semplice su 599) e la Sicilia (1.267 km a binario singolo su 1.490 km totali di rete, l’85%). Fino all’8 marzo 2020, data d’inizio della chiusura quasi totale per il Covid-19, i segnali erano positivi, con cifre in crescita partendo dalle metropolitane fino all’alta velocità. Dopo la successiva riduzione degli spostamenti e le limitazioni al riempimento massimo per garantire il distanziamento sociale, sono arrivate nuove scomodità per i pendolari. Vengono citate le linee Cumana,

Circumflegrea e Circumvesuviana di Napoli, la Roma Nord, dove la situazione già prima della pandemia era difficile, con treni vecchi, lenti e in ritardo, la Roma Porta San Paolo - Lido di Ostia, che «ha perso il 45% dei passeggeri dal 2014» o «la difficile situazione della Lombardia a seguito della sostituzione di 139 corse con autobus, su alcune linee». Negli ultimi dieci anni, però, il numero di coloro che ha scelto il treno è cresciuto, sia sui regionali sia su quelli nazionali, sfortunatamente con dati molto diversi tra le diverse aree. I passeggeri dell’alta velocità di Trenitalia sono saliti dai 6,5 milioni del 2008 ai 40 nel 2019: un aumento esponenziale (+515%), connesso al raddoppio della flotta in viaggio. Sempre nello stesso anno, il numero di persone che quotidianamente si spostavano su collegamenti nazionali era di circa 50mila sugli Intercity e di 170mila sull’alta velocità tra le Frecce di Trenitalia e Italo. Fuori da quel recinto celere, tuttavia, l’offerta dei convogli a lunga percorrenza, finanziati con il contributo pubblico, in termini di treni per chilometri è scesa dal 2010 al 2019 del 16,7% e simmetricamente sono calati i viaggiatori del 45,9%. La leggera ripresa (+0,8%) di due anni fa non ha inciso più di tanto. Passeggeri in forte ascesa, all’opposto, sui treni regionali e metropolitani, sorpassando i sei milioni ogni giorno con un incremento del 7,4% tra 2018 e 2019. I pendolari sui regionali sono lievi-

Ferrovie: Legambiente, in Italia su 19.353 km di linee ferroviarie è a binario unico il 56,3%” soprattutto al Sud

ATTESE TRA LE ROTAIE 50 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021


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tati di circa 19mila unità nel 2019 (+0,6% rispetto al 2018), approdando a 2 milioni e 938mila, mentre le linee metropolitane hanno avuto 270mila viaggi in più al giorno nel 2019 (+9,7% in confronto al 2018), per un totale di oltre tre milioni di spostamenti quotidiani nelle sette città in cui la metro è presente, soprattutto a Milano, Catania e Brescia e Roma, grazie al collegamento tra metro A e C. «È stata fotografata - spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di “Legambiente” - la situazione del trasporto ferroviario ai tempi del Covid-19, ma vogliamo focalizzare l’attenzione sulle opportunità irripetibili offerte dal Next Generation EU che, insieme ai fondi strutturali europei e agli investimenti nazionali, può rappresentare la svolta per la mobilità nel nostro Paese al 2030. Il Recovery Plan, proposto dal Governo Conte, deve essere modificato: oggi è una lista d’interventi, mentre il Paese ha bisogno di una visione del cambiamento che si vuole mettere in campo, per affrontare i problemi e migliorare l’accessibilità su ferro in ogni parte d’Italia, in modo da raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 fissati dall’Unione Europea al 2030 e al 2050. Emissioni alle quali il settore dei trasporti contribuisce per il 26% e che dal 1990 a oggi non hanno visto alcun calo. In tal senso, riteniamo un’ottima scelta la nomina di Enrico Giovannini alla guida del Dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti e siamo pronti a dare il nostro contri-

buto per uno sviluppo sostenibile che guardi alle priorità del Paese». Al centro del Recovery Plan, per “Legambiente”, occorrono scelte lungimiranti, idonee ad accelerare la decarbonizzazione e migliorare la facilità di utilizzo nel trasporto su rotaia. Un ruolo da protagonisti devono giocarselo innanzitutto le aree urbane, in cui ci sono oltre i due terzi degli spostamenti. La meta sarà incrementare il numero di viaggi al giorno su regionali e le metropolitane, arrivando a dieci milioni entro il decennio. «Tutti i dati pre-pandemia confermano la voglia degli Italiani di prendere treni, metro e tram, lasciando a casa l’auto. Con il Recovery Plan - sottolinea Zanchini - dobbiamo accelerare questa prospettiva attraverso investimenti e riforme non più rinviabili, dal recupero dei ritardi infrastrutturali nelle aree metropolitane all’elettrificazione delle linee ferroviarie al Sud, al potenziamento delle linee nazionali secondarie. Un cambiamento è possibile, come confermano le esperienze e i numeri positivi raccontati in questi anni e osservati ovunque si offra un’alternativa competitiva ai milioni di pendolari che si muovono ogni giorno nelle città, oggi principalmente in auto, aiutando così sia l’economia sia il turismo». (G. P.).

Il progetto

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endolaria 2021” propone trentotto storie e tante altre, consultabili sul sito dedicato al rapporto, con esempi positivi, da Nord a Sud, nella mobilità sostenibile. Molte riguardano la trasformazione degli spostamenti grazie alle linee tramviarie presenti, per esempio, a Padova, Firenze o Palermo. Altre raccontano le metrotranvie, come in Sardegna, a Sassari e a Cagliari, il progetto di una metropolitana di superficie a Ragusa, le nuove velostazioni, grazie alle quali gli spazi in città sono rigenerati e i pendolari possono raggiungere i luoghi di partenza in bicicletta, piuttosto che in auto, come a Rimini, Cesano Maderno, Busto Arsizio e Como Borghi. Regaleranno soddisfazioni, infine, le future linee turistiche in diciotto aree di particolare pregio naturalistico e/o archeologico.

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A MARZO LA GIORNATA MONDIALE DELLA FAUNA SELVATICA

Nonostante l’Italia ospiti circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa, la sua biodiversità sta diminuendo a causa della perdita di habitat, della crisi climatica, dell’inquinamento diffuso e dell’eccessivo sfruttamento delle riscorse

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uella che a causa dell’emergenza sanitaria alcuni studiosi hanno chiamato antropopausa, un periodo durante il quale si è alleggerita la pressione umana sulla Natura, ha portato anche dei vantaggi sul territorio italiano. Nel report “Fauna selvatica a rischio” curato da “Legambiente” scopriamo che dopo oltre cinquant’anni di assenza, la foca monaca è ricomparsa stabilmente nel Mediterraneo. Comune in tutto il Mare Nostrum e lungo le coste nordoccidentali dell’Africa, fino alle Isole Canarie e Madeira, la Monachus monachus ha rischiato l’estinzione, perché era cacciata per la pelle, l’olio, la carne e ha subito la degradazione dell’habitat costiero, oltre al turismo non sempre rispettoso nei suoi confronti. Ci sono poi le buone notizie sul camoscio appenninico e il lupo. Grazie al programma LIFE e all’impegno delle aree protette, abbiamo circa tremila esemplari di camoscio nei Parchi dell’Appennino centrale contro i trenta esemplari agli inizi del ‘900. Anche il lupo, specie protetta dalle leggi nazionali e internazionali, ha riconquistato luoghi da cui era scomparso, con dati che oscillano tra i 1.800 e i 2.400 individui, su cui è attivo un monitoraggio

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da parte di Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca) per avere cifre più complete. Nonostante ciò, la nostra biodiversità sta diminuendo per la crisi climatica, l’inquinamento, l’eccessivo sfruttamento delle risorse, l’attività umana e l’introduzione di fauna “aliena” invasiva. Quella “tricolore” è stimata in oltre 58.000 specie, di cui circa 55.000 di invertebrati (95%), 1.812 di protozoi (3%) e 1.265 di vertebrati (2%). «Alcuni gruppi, come alcune famiglie di invertebrati, - si legge nel rapporto - sono presenti in misura doppia o tripla, se non ancora maggiore, rispetto ad altri Paesi europei». Sono dodici, ciò nonostante, a rischiare la propria esistenza: il grifone, con un numero stimato di circa 600 individui, la trota mediterranea, il tritone crestato italiano, la lontra, l’orso bruno marsicano, il lupo e il camoscio appenninico, le farfalle e gli impollinatori, per poi passare a squali, delfini e alla tartaruga Caretta caretta. Per cercare d’invertire la rotta, entro il 2030, è essenziale, quindi, reintegrare le foreste, i suoli e le zone umide, creando spazi verdi, in primo luogo nelle città. Secondo l’associazione ambientalista il capitale naturale andrebbe incrementato con le aree


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dell’incomprensibile ritardo nell’approvazione del Piano di gestione e conservazione del lupo. Per questo è importante adottare un approccio integrato alla risoluzione dei problemi e mitigare la perdita di biodiversità, ridurre l’impatto della crisi climatica aumenta e prevenire le zoonosi rispettando anche gli obiettivi contenuti nella Strategia dell’UE sulla biodiversità per il 2030». Tra le altre proposte, messe nero su bianco nel report, ci sono i Piani di adattamento e mitigazione al cambiamento climatico per la fauna a rischio; la strategia marina per rafforzare la tutela della fauna e gli ecosistemi costieri e marittimi. La nascita di una rete italiana sui boschi vetusti e le aree rifugio per la fauna selvatica oppure la destinazione di risorse per la tutela, il monitoraggio e la gestione dell’ambiente, favorendo soluzioni che prendano spunto dalla natura (Nature Based Solution - NSB), gioverebbero alla ricostituzione delle aree degradate. Altro problema da non sottovalutare deriva dalle specie invasive, che possono essere arginate applicando in modo rigoroso i regolamenti, le norme nazionali ed europee per custodire gli ambienti naturali salvandoli dagli effetti negativi di questa minaccia, particolarmente nelle zone più esposte come le isole, i corsi d’acqua oppure le aree cittadine. Il rewilding (rinselvatichimento) del territorio e gli investimenti nei centri per il recupero della fauna selvatica completerebbero il percorso, arricchendolo e spalancandoci davanti agli occhi un inaspettato “nuovo” mondo pieno di meravigliose sorprese. (G. P.).

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protette e le zone di tutela integrale, coordinando meglio la biodiversità, rafforzandone la conoscenza e il monitoraggio. Occorrerebbe, inoltre, potenziare la gestione della Rete Natura 2000 e sistemare i Piani d’azione per le specie faunistiche in difficoltà ultimando, ad esempio, il Piano di conservazione e gestione nazionale del lupo, consolidando le tecniche per la tutela dell’orso bruno (PACOBACE e PATOM) e aggiornando il Piano d’azione del camoscio appenninico. «Il declino della biodiversità - spiega Antonio Nicoletti, responsabile nazionale aree protette e biodiversità di “Legambiente” - è uno dei maggiori problemi ambientali che l’umanità si trova ad affrontare. Malgrado ciò, la portata e la gravità delle conseguenze di questo declino non sono ancora percepiti dal grande pubblico e dalla gran parte dei decisori politici. Nel nostro Paese manca ancora la capacità di pianificare le priorità e le scelte per mettere in sicurezza il nostro capitale naturale. Mancano gli strumenti, sia i Piani d’azione delle specie a rischio che le risorse per continuare a operare in questo campo, e manca la capacità di concertare e decidere in maniera appropriata anche questioni spinose come nel caso

L’avvoltoio grifone

I L’avvoltoio grifone è tra i più grandi uccelli presenti nel nostro Paese. Può raggiungere un’apertura alare di 280 cm e un peso che va dai 6,5 ai 12 kg. È ad alto rischio di scomparsa. © LeAndr/shutterstock.com

l Gyps fulvus, tra i più grandi uccelli presenti nel nostro Paese, può raggiungere un’apertura alare di 280 cm e un peso che va dai 6,5 ai 12 kg. È ad alto rischio di scomparsa per: l’uso irresponsabile di bocconi avvelenati, il calo del tasso di mortalità del bestiame, con conseguente minore disponibilità di risorse, per i disturbi antropici diretti e indiretti. Si aggiungono pure l’elettrocuzione, la collisione con impianti di energia elettrica, l’intossicazione da sostanze chimiche e da piombo usato nella caccia, le malattie, mancanza, frammentazione e trasformazione degli habitat. Negli ultimi vent’anni si sono succeduti parecchi progetti a sua tutela in Sardegna e d’introduzione o re-introduzione con casi di successo in Friuli - Venezia Giulia (Alpi Orientali), in Abruzzo (Appennino abruzzese) e in Sicilia.

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Ambiente

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L’URAGANO SPAZIALE SOPRA IL POLO NORD I ricercatori dell’Università inglese di Reading hanno scoperto come plasma e campi magnetici nell’atmosfera possano esistere in tutto l’universo

di MIchelangelo Ottaviano

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li uragani (dal caraibico huracan, nome indigeno del Dio del vento), o per usare un termine meteorologicamente più preciso i “cicloni”, sono delle zone atmosferiche di bassa pressione, ovvero aree in cui la pressione atmosferica è minore di quella delle regioni circostanti alla stessa altitudine. Esse sono caratterizzate da un vortice atmosferico a cui associamo il cattivo tempo meteorologico (temporali, pioggia e vento), e infatti i cicloni, che prendono il nome di uragani se sono tropicali, corrispondono a quelle che banalmente chiamiamo

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perturbazioni atmosferiche. Sono fenomeni di grandi dimensioni che si manifestano nella parte più bassa dell’atmosfera terrestre, la troposfera, dove ha origine anche la maggioranza degli altri eventi atmosferici. Tuttavia, disturbi simili agli uragani non erano mai stati rilevati nell’atmosfera superiore della Terra. A cancellare quel “mai” ci hanno pensato i ricercatori dell’Università di Reading che, attraverso le informazioni trasmesse dai satelliti, hanno potuto aggiungere questa novità all’inventario delle scoperte. Gli scienziati inglesi hanno capito che non si trattava di un normale vorti-

ce d’aria, ma di una massa di gas ionizzato e plasma concentratasi proprio sopra il Polo Nord. La frazione dell’atmosfera terrestre in cui questa massa si è costituita è la cosiddetta ionosfera, una zona nella quale le radiazioni del Sole, e in misura molto minore i raggi cosmici provenienti dallo spazio, provocano la ionizzazione dei gas componenti. Estesa fra i 60 e i 1000 km di altitudine, e quindi appartenente sia alla mesosfera sia alla termosfera, può essere ulteriormente divisa in strati che ne evidenziano le diverse proprietà elettriche, dovute alle variazioni di composizione e dell’intensità di radiazione solare ricevuta. A supportare la tesi del team di Reading ha contribuito una serie di dati raccolti nel 2014 dall’Università cinese di Shandong. Inoltre, grazie alle ricostruzioni virtuali, sono state effettuate delle misurazioni precise e definite le particolarità di questo sensazionale fenomeno. Secondo quanto osservato dagli scienziati, da una massa di 600 miglia di larghezza (circa 965 km) stavano piovendo elettroni al posto della normale acqua di un uragano terrestre, con la perturbazione che è durata quasi otto ore prima di rompersi. Fino ad ora non era certo che esistessero anche uragani di plasma spaziale, e questo fa supporre che plasma e campi magnetici nell’atmosfera dei pianeti possano esistere in tutto l’universo e che non siano fenomeni poi così rari. Infine, si è scoperto che l’uragano spaziale, verificatosi durante un periodo di bassa attività geomagnetica, condivide molte caratteristiche con quelli terrestri: una zona centrale tranquilla, cesoie, bracci a spirale e una circolazione diffusa. Secondo gli scienziati è probabile che questo tipo di uragani porti a effetti meteorologici spaziali come disturbi nelle comunicazioni radio ad alta frequenza, o maggiori interferenze nella navigazione satellitare e nei sistemi di comunicazione.


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he la Terra stia vivendo uno dei momenti climatici più difficili non è una notizia nuova, ma la sensibilizzazione delle coscienze e l’attenzione a questo tema probabilmente non saranno mai abbastanza. Il surriscaldamento globale ha rotto gli equilibri di gran parte delle biodiversità sul nostro pianeta, sta modificando le nostre abitudini alimentari e la nostra quotidianità, e renderà le economie sempre più instabili se la corsa forsennata del sistema capitalistico non verrà indirizzata sui binari della sostenibilità. Tutto sta cambiando drasticamente, e alcuni di questi cambiamenti sono punti di non ritorno. L’allarme dal mondo scientifico arriva da un gruppo di ricercatori irlandesi, tedeschi e inglesi che sulla rivista Nature geoscience hanno pubblicato uno studio sull’indebolimento della corrente AMOC. L’acronimo sta per Atlantic Meridional Overturning Circulation, ed è uno dei principali sistemi di circolazione oceanica della Terra che ridistribuisce il calore sul nostro pianeta e ha un impatto importante sul clima. Essa è un sistema di correnti che provvedono a un doppio flusso: uno superficiale di acqua salata e calda, che va in direzione dell’emisfero Nord, ed uno profondo di acqua fredda a bassa concentrazione salina, che verso Sud. L’AMOC muove circa 20 milioni di metri cubi di acqua al secondo, regolando il clima dell’intero emisfero Boreale e parte di quello Australe. La più nota corrente di questo sistema è quella del Golfo, il grande nastro trasportatore che porta il calore dei tropici fino all’Atlantico Settentrionale, temperando le aree del Nord Europa. Gli scienziati, attraverso lo studio di sedimenti oceanici e campioni di ghiaccio, hanno ricostruito il flusso della corrente fino a 1600 anni fa, ricavando dati ricavati a dir poco spaventosi: negli ultimi mille anni, l’AMOC non era mai stata così de-

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L’AMOC STA SCOMPARENDO PER IL GLOBAL WARMING Danni enormi a uno dei principali sistemi di circolazione oceanica della Terra che ridistribuisce il calore sul nostro pianeta e ha un impatto importante sul clima

bole come nei decenni precedenti. La convezione, assicurata dalla salinità e dalla differenza della temperatura, viene però disturbata dai fenomeni relativi al riscaldamento globale. L’aumentare delle temperature medie del globo ha infatti provocato assieme all’incremento delle piogge, lo scioglimento delle masse di ghiaccio. L’acqua dolce che finisce in mare riduce inevitabilmente la salinità, andando ad interferire con il meccanismo termoalino che regola la Corrente del golfo, inibendo lo sprofondamento e il conseguente richiamo di acqua calda. Questo ral-

lentamento della corrente potrebbe far accumulare molta acqua lungo il continente americano, con aumento del livello del mare. In Europa, invece, si assisterebbe ad una serie di inverni rigidi, ed estati in cui si ridurrebbero le piogge in favore delle ondate di calore. La velocità con cui la Terra si sta riscaldando rompe vertiginosamente con i modelli climatici sviluppati. La circolazione dell’AMOC potrebbe cessare da un momento all’altro, e la sua morte porterebbe ad una rottura senza precedenti degli equilibri planetari. (M. O.). Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Ambiente

IL PROGETTO #ARRESTALERESTE Presentato venerdì 26 marzo 2021 un convegno in modalità online sul Coordinamento e la Tutela Mare

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romosso dall’Area Marina Protetta Parco Sommerso di Gaiola, ad oggi racchiude 18 associazioni impegnate in attività di salvaguardia dell’ambiente marino costiero, un modo innovativo di fare squadra quello proposto in Campania, il Coordinamento Tutela Mare CTM “Chi Tene Ò Mare”, rimanda volutamente alla nota canzone di Pino Daniele e fin dalle prime riunioni, dichiara il Direttore Maurizio Simeone, si è palesata la necessità di formare un gruppo unito e avere la possibilità di portare alla luce tematiche emergenti o affrontare questioni ataviche che compromettono la salute dell’ecosistema marino e la sua biodiversità in una città complessa come quella di Napoli e del suo vasto golfo. Profonda la convinzione che oggi più che mai il ruolo di un’Area Protetta sia essa marina o terrestre non sia statico ma debba essere quello di guardare oltre i propri confini e farsi portavoce delle diverse istanze che riguardano non solo la tutela ma miri ad attività di cooperazione tra associazioni di tutela ed usi un linguaggio comune di facile comprensione per portare alla luce tematiche ambientali. Il Coordinamento Tutela Mare ha lo scopo di: - creare un tavolo di confronto attivo sulle tematiche inerenti la salvaguardia dell’ambiente marino costiero tra le Associazioni ambientaliste operanti sul territorio Comunale e Regionale; - stimolare Enti ed Amministrazioni locali e nazionali, su specifiche problematiche dell’am-

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biente marino-costiero proponendo possibili soluzioni; - realizzare eventi ed iniziative congiunte per sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica, con particolare attenzione alle giovani generazioni, sulle problematiche relative all’ambiente marino, l’uso corretto delle sue risorse e la salvaguardia della biodiversità; - denunciare agli organi competenti abusi e attività illegali che minano la salvaguardia di specie o habitat marino-costieri; - mettere a disposizione, ove possibile, all’interno del coordinamento, le risorse tecnico-professionali proprie di ciascuna associazione. Con l’ottica del dialogo è stato proposto il primo progetto comune, denominato #arrestalereste, un gioco di parole accattivante per presentare la crescente problematica legata alla dispersione in mare delle reste, i retini tubolari, utilizzati in mitilicoltura detti anche calze, all’interno dei quali vengono inseriti i “semi” dei molluschi, ovvero i piccoli mitili o cozze (Mytilus galloprovincialis) costituenti il materiale di partenza dell’allevamento, le reste hanno lunghezza compresa tra i 2 e i 5 metri (sistema long-line di allevamento) e sono realizzate in polipropilene (PP) il polimero termoplastico rigido e resistente, caratteristiche che lo rendono una volta disperso in mare una componente crescente del marine litter nei diversi comparti dell’ambiente marino (fondali, superficie del mare, colonna d’acqua, linea di costa). in Italia si stima un consumo annuale di 80mila tonnellate di cozze, alle quali corri-


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sponde l’utilizzo di 2000 tonnellate di retini con potenziali danni trasversali all’ambiente bentonico in particolare l’habitat del coralligeno, all’ambiente pelagico e all’avifauna marino costiera, tra i relatori che hanno messo a disposizione le loro conoscenze Prof. Giovanni Fulvio Russo (Presidente Società Italiana Biologia Marina, Docente Ecologia marina Univ. Parthenope di Napoli) e Marcello Bruschini per ASOIM (Associazione Studi Ornitologici Italia Meridionale). Diverse ipotesi di soluzione al problema sono state messe in campo, modificare l’attuale CER (Codice Europeo del Rifiuto) che al momento non assegna alle reste carattere di rifiuto speciale elevando i costi di smaltimento, lo studio di materiali biodegradabili con tempi tali tali da permettere il corretto sviluppo del mitile all’interno della resta ma non il suo perdurare nell’ambiente, ed infine una normativa sposti la fase della lavorazione della sgranatura delle cozze dal mare alla terra ferma evitando il rischio dispersione e velocizzando processi virtuosi di economia circolare. L’intento del convegno di presentazione e del progetto è stato quello di trovare soluzioni ecosostenibili, affiancando i mitilicoltori in quanto produttori di una eccellenza alimentare, versatile e largamente apprezzata, aprendo un confronto con istituzioni locali, aziende di riciclo del materiale plastico per iniziare percorso di economia circolare e coinvolgendo i cittadini con una attività di ci-

Il Coordinamento ha lo scopo di creare un tavolo di confronto attivo sulle tematiche inerenti la salvaguardia dell’ambiente marino costiero tra le Associazioni ambientaliste operanti sul territorio Comunale e Regionale, oltre che di realizzare eventi ed iniziative congiunte per sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica, con particolare attenzione alle giovani generazioni, sulle problematiche relative all’ambiente marino.

tizen science, una mappatura interattiva che coinvolga e stimoli a segnalare la presenza di reste abbandonate su spiagge o fondali (cittadini, professionisti, studenti, centri diving, associazioni impegnate in attività di cleanup le periodiche pulizie di spiagge o fondali , cooperative di pesca, appassionati subacquei) raccogliendo quante più informazioni possibili sulla distribuzione di questa tipologia di rifiuto marino nel Golfo di Napoli, al fine di avere una base più capillare di informazioni scientifiche sulla problematica e proporre soluzioni adeguate. In sintesi Il progetto si articolerà in 3 fasi, sensibilizzazione, raccolta dati e proposte di possibili soluzioni, la presentazione del coordinamento tutela mare è stata accolta con entusiasmo, ha dichiarato Alessia D’Angelo, responsabile nazionale del programma educativo Ecofoodforlife che collabora con l’A.M.P. Gaiola per i laboratori di ecologia marina e terrestre e ha visto partecipazione e curiosità di studenti universitari e neo laureati in Scienze Biologiche collegati grazie alla diretta social. Le 18 Associazioni che hanno aderito agli scopi del CTM sono: CSI Gaiola Onlus, Greenpeace Gruppo Locale Napoli, Marevivo Onlus, FAI - Fondo Ambiente Italiano, WWF Napoli, Associazione Vivara Onlus, FIPSAS, ASOIM, Let’s do it Italy, Fondalicampania, Oceanomare Delphis Onlus, ONESEA alliance, Arci Pesca FISA, C.R. Federcanoa Campania, Associazione Nemo, Legambiente Campi Flegrei, N’ Sea Yet, Cleanap. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Innovazione

TESSUTI PERFORMANTI ED ECOLOGICI La ricerca è dei ricercatori del Politecnico di Torino e del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Al centro del progetto la possibilità di utilizzare nuovi materiali, processi di fabbricazione e la modellazione computazionale di Marco Modugno

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ono stati pubblicati sulla rivista “Nature Sustainability” i risultati di una ricerca che ha visto coinvolti in una sinergia, i ricercatori del Politecnico di Torino e del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Al centro del progetto la possibilità di utilizzare nuovi materiali, processi di fabbricazione e la modellazione computazionale delle microfibre, così da rendere i tessuti tecnici più performanti e, al tempo stesso, più sostenibili rispetto a quelli naturali. Si è visto che la produzione di tessuti colorati comporta un processo molto inquinante, dove si stima che vengano utilizzati oltre 98mila miliardi di litri d’acqua annui, e che da questo processo, vengano prodotti scarti fluidi ad alta concentrazione di inquinanti, senza contare che a ciò bisogna aggiungere un costo abbastanza importante per un loro smaltimento sicuro. Come spiegano Matteo Fasano, ricercatore del Multi-Scale ModeLing Laboratory del Dipartimento Energia al Politecnico di Torino e Pietro Asinari, docente del Dipartimento

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Energia e direttore all’Istituto Nazionale di ricerca Metrologica, supervisori accademici del progetto, “l’impatto ambientale dei tessuti in fibre naturali è anche notevole durante il loro lavaggio, a causa della scarsa controllabilità delle caratteristiche chimiche e geometriche di queste fibre che porta a una richiesta energetica significativa sia in fase di lavaggio che di asciugatura”. Si è visto che la struttura micro e nano-porosa delle fibre naturali permette all’acqua o al sudore di penetrare al loro interno, rendendo così molto più difficile la diffusione dell’acqua, aumentando notevolmente i tempi di asciugatura. Per avere un idea più chiara di quanto detto, basti confrontare il tempo che s’impiega ad asciugare una maglietta di cotone rispetto ad una tecnico sportivo in Nylon. Confrontando i due tessuti durante l’attiva sportiva, dove negli ultimi anni i prodotti tecnici stanno facendo da padrone, e facilmente riscontrabile che un tessuto in fibre naturali non sia in grado di trasportare in maniera efficacie il sudore lontano dalla pelle, l’evaporazione inadeguata, provoca


Innovazione

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nel soggetto che la indossa una sensazione di scarso comfort dovuto proprio dal contatto tra la pelle ed il tessuto bagnato. Altra caratteristica da non sottovalutare è quella relativa allo smaltimento, infatti i tessuti naturali colorati sono molto difficili da riciclare, nella maggior parte delle volte vengono accumulati nelle discariche o addirittura bruciati, con un grande spreco di risorse. Questa ricerca ha quindi individuato nei tessuti in polietilene una validissima alternativa, si tratta infatti di un materiale plastico che vanta i più alti volumi di produzione al mondo (oltre 149 milioni di tonnellate all’anno) si possono facilmente trovare in oggetti di uso comune, come gli imballaggi o contenitori alimentari, è spessissimo hanno la caratteristica di essere monouso. “Tacciato di essere nocivo per l’ambiente” - spiega Svetlana Boriskina, coordinatrice della ricerca presso il MIT – “a conti fatti la produzione di tessuti colorati in polietilene ha un impatto ambientale inferiore del 60% rispetto a quelli in cotone. Le fibre in polietilene hanno inoltre basso costo e sono

La produzione di tessuti colorati comporta un processo molto inquinante, dove si stima che vengano utilizzati oltre 98mila miliardi di litri d’acqua annui, e che da questo processo, vengano prodotti scarti fluidi ad alta concentrazione di inquinanti. © Vedmed85/ shutterstock.com

ultraleggere, la loro struttura può essere ottimizzata con precisione per modificarne le caratteristiche meccaniche, termiche e ottiche, ottenendo così elevata resistenza a rottura e abrasione e ottima dissipazione del calore. In aggiunta, i pigmenti colorati tipici dello “sporco” aderiscono con difficoltà alla superficie delle fibre in polietilene grazie alla loro semplice struttura molecolare, risultando in proprietà antimacchia che ne semplificano il lavaggio a basse temperature. Tuttavia, questo fa anche sì che la colorazione del tessuto, debba avvenire con un processo innovativo: i pigmenti, naturali o sintetici, vengono direttamente incapsulati all’interno delle fibre durante la loro forgiatura, evitandone così il rilascio durante il lavaggio”. Il Polietilene per molto tempo non è mai stato preso in considerazione dall’industria tessile, per quanto concerne il campo del vestiario, soprattutto a causa della sua scarsa traspirabilità e bagnabilità delle fibre che rendono questo tessuto poco confortevole. I ricercatori del Politecnico, grazie a questa ricerca, hanno potuto lavorare direttamente all’interno del polo tecnologico di Boston, nell’ambito del progetto MITOR, finalizzato a promuovere la collaborazioni tra le due istituzioni. Proprio per rispondere alle accuse mosse a questo tessuto e migliorarlo sotto l’aspetto del comfort e della vestibilità, la ricerca si è concentrata sull’ingegnerizzazione delle proprietà di trasporto dell’acqua nel tessuto, caratterizzando l’effetto di diversi intrecci e ottimizzando la geometria delle fibre di polietilene. “Agendo sul processo di fabbricazione” spiega Matteo Alberghini, dottorando presso il Dipartimento Energia e il CleanWaterCenter – “è così possibile modificare le caratteristiche chimiche superficiali e la forma delle fibre, controllando sia la bagnabilità che le proprietà capillari finali del tessuto, ossia la sua capacità di assorbire e trasportare un fluido al suo interno. Le ottime prestazioni raggiunte dal nuovo tessuto studiato sono dovute alla capacità delle fibre di polietilene di trascinare l’acqua sulla loro superficie pur rimanendo impermeabili, quindi impedendo al fluido di insinuarsi all’interno delle fibre stesse - cosa che invece accade di norma con quelle naturali”. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Innovazione

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ALTERAZIONI GENOMICHE NEI PAZIENTI ONCOLOGICI Pubblicata su Molecular Cancer una nuova metodica di monitoraggio messa a punto da Istituto di fisiologia clinica del Cnr, Ispro, Università di Pisa e di Firenze e Aoup

di Felicia Frisi

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nizia con il prelievo del sangue un nuovo sistema per il monitoraggio delle patologie oncologiche nei pazienti. Mentre l’evoluzione generale della malattia oncologica può essere prevista in base alle statistiche, il suo sviluppo nel singolo paziente deriva da fattori genetici ed eventi casuali specifici che ne definiscono la prognosi e le opzioni terapeutiche. Nella ricerca di biomarker-marcatori che ne possano predire più precocemente il decorso, l’analisi del genoma del tumore (la sede di tutta l’informazione che ne definisce le caratteristiche fisiologiche) finora si è dimostrata problematica a causa della

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difficoltà di ottenere tessuto tumorale per le analisi. Grazie alla collaborazione tra l’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc), l’Istituto per lo studio, la prevenzione e la rete oncologica (Ispro), l’Università di Pisa (Unipi), l’Università di Firenze (Unifi) e l’Azienda ospedaliero universitaria pisana (Aoup) è stato messo a punto un innovativo metodo per il monitoraggio di pazienti oncologici mediante sequenziamento di terza generazione. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Molecular Cancer. «L’approccio adottato si basa sulla biopsia liquida: si parte da un prelievo

di sangue per isolare il DNA circolante, un DNA molto danneggiato, caratterizzato da frammenti piccoli, derivante per lo più dalla morte delle cellule sane ma, nei pazienti oncologici, anche dalla morte delle cellule tumorali», dice Silvo Conticello del Cnr-Ifc e dell’Ispro, coordinatore dello studio. «La frazione di quest’ultima componente – spiega – è molto variabile e dipende dallo stato del tumore: limitata nei tumori primari e dopo la terapia, aumenta esponenzialmente in seguito allo sviluppo di metastasi. Nella nuova metodica, dopo aver purificato il DNA circolante dal plasma dei pazienti, si procede a sequenziarlo direttamente mediante tecnologia Nanopore». Nel sequenziamento Nanopore i frammenti di DNA vengono spinti attraverso dei nano-pori su una membrana: il passaggio delle basi che compongono il DNA (Adenina, Citosina, Guanina, Timina) attraverso il poro induce un’alterazione del segnale elettrico che viene poi decodificato per ottenere la sequenza dei diversi frammenti. La sequenza dei frammenti permette di localizzarli sul genoma, l’insieme di tutta l’informazione genetica, e contarne il numero in ogni singolo punto. «Calcolando il loro eccesso o difetto rispetto alla media, possiamo identificare le regioni del genoma dove sono presenti alterazioni nel numero di copie. Queste alterazioni sono associate allo sviluppo e alla progressione tumorale. L’essere in grado di profilare il tumore può dare indicazioni per il singolo paziente, in un’ottica di medicina personalizzata, per un’accurata classificazione dei tumori, poter scegliere la strategia terapeutica più adatta e per seguire il decorso della malattia nel tempo», prosegue Conticello. «Il nostro approccio – conclude – può rappresentare una soluzione a diversi problemi, grazie alla facilità della metodica, perché consente di ottenere risultati in poche ore e di ridurre i costi necessari per poter avviare un sequenziamento».


Innovazione

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l primo incubatore tecnologico italiano sorgerà al Centro Ricerche ENEA Casaccia, a pochi chilometri da Roma, con un investimento di 14 milioni di euro. In questa Hydrogen Valley si potrà lavorare alla produzione, al trasporto, all’accumulo e all’utilizzo di idrogeno, puntando su ricerca, tecnologie, infrastrutture e servizi innovativi, con l’obiettivo di favorire la transizione energetica e la decarbonizzazione. «Si tratta di una piattaforma polifunzionale, inclusiva, in cui ci occuperemo di idrogeno a 360 gradi, per accelerare ricerca e innovazione e mettere a disposizione dell’industria infrastrutture hi-tech per arrivare a colmare il gap fra scala di laboratorio e industriale», spiega Giorgio Graditi, Direttore del Dipartimento Tecnologie Energetiche e Fonti Rinnovabili dell’ENEA e rappresentante ENEA all’interno della European Clean Hydrogen Alliance. Oggi l’idrogeno verde può essere ottenuto da diverse fonti di energia rinnovabile come il fotovoltaico e l’eolico. La piattaforma di ricerca ENEA consentirà anche la sperimentazione di nuove tecnologie per la produzione di idrogeno, ad esempio, attraverso l’utilizzo dei rifiuti (biomasse residuali) e l’impiego del calore rinnovabile a media-alta temperatura prodotto da impianti solari. All’interno dell’incubatore potrà essere utilizzato idrogeno puro e in miscela con gas naturale per la produzione di energia elettrica. Verranno, infatti, messe a punto miscele idrogeno-metano da immettere nella rete interna di distribuzione del gas e sarà realizzato un “idrogenodotto” locale dedicato al trasporto di idrogeno puro in pressione, da utilizzare in modo capillare a seconda della domanda delle utenze. È prevista anche la realizzazione di una stazione di rifornimento per veicoli a idrogeno, come i mezzi per la movimentazione delle merci, bus e automobili, in uso all’interno del Centro Ricerche ENEA, con l’obiettivo di dimostrare il contributo di questo combustibile alla decarbonizzazione del settore mobilità.

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ENEA PUNTA SULLA PRIMA HYDROGEN VALLEY ITALIANA Investimento di 14 milioni di euro per realizzare un centro di ricerca alle porte di Roma per favorire la transizione energetica e la decarbonizzazione

Tra le applicazioni di maggiore interesse che verranno studiate all’interno dell’Hydrogen Valley, c’è anche il power-to-gas, un processo che, attraverso l’elettrolisi, consente di produrre idrogeno dall’energia elettrica generata da fonti rinnovabili. L’idrogeno così prodotto può essere convertito in metano, o essere immesso nella rete interna del gas naturale. In questo modo è possibile accumulare l’energia prodotta da fonte rinnovabile, svolgere anche una funzione di “stabilizzazione” della rete elettrica e agire come elemento di congiunzione con la rete gas, in pre-

visione del forte incremento di produzione da rinnovabili. La strategia ENEA sull’idrogeno prevede inoltre la realizzazione di progetti per la decarbonizzazione dell’industria, in particolare quella ad alta intensità energetica, ma anche dei trasporti pesanti su gomma e ferroviari alimentati ancora a diesel. Per le sue caratteristiche, l’idrogeno verde potrebbe ricoprire un ruolo di primo piano per il raggiungimento della neutralità climatica al 2050, come prevede la Hydrogen Strategy for a climate-neutral Europe, lanciata dalla Commissione europea nel 2020. (F. F.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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DELEGAZIONE REGIONALE LOMBARDIA

Ciclo di conferenze

NUTRIZIONE SPORTIVA: APPROCCIO INTEGRATO Cinque appuntamenti, dal 16 marzo al 13 aprile 2021

Diretta Facebook sulla pagina @ordinedeibiologi ONB TV su YouTube


Beni culturali

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ricercatori del Centre of Cultural Heritage Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit) e quelli dell’Agenzia Spaziale Europea (Esa) hanno dato vita al progetto biennale “Cultural Landscapes Scanner”, che ha lo scopo di utilizzare gli strumenti messi a disposizione dall’intelligenza artificiale per rintracciare siti archeologici sconosciuti. L’equipe analizzerà le immagini satellitari dei territori e, con l’ausilio di tecnologie avanzate, identificherà anomalie e alterazioni di superficie terrestre e vegetazione che potrebbero indicare la presenza nel sottosuolo di resti antichi ancora da scoprire. Come ha spiegato Arianna Travaglia, coordinatrice del gruppo di studio dell’IIT, finora la ricerca dei siti del patrimonio culturale sotterraneo si è avvalsa dei dati provenienti dal telerilevamento, una metodologia che consente il recupero di opere sepolte attraverso l’uso di immagini provenienti da terreni spogli, campi coltivati o vegetazione. Una tecnica valida, ma con dei limiti oggettivi, poiché in grado di indentificare automaticamente solo depositi archeologici molto specifici. Tra le piattaforme web contenenti dati di telerilevamento, quella maggiormente utilizzata nel campo dei beni culturali è Copernicus, coordinata dall’Esa, ma che si basa su un metodo soggettivo di analisi dei dati, legato cioè alla capacità di osservazione delle persone. L’obiettivo del progetto “Cultural Landscapes Scanner” è quello di aggiungere al metodo tradizionale quello dell’apprendimento automatico e della visione artificiale computerizzata, affinché l’attività di ricerca possa essere più semplice, più Consigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.

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© rigsbyphoto/shutterstock.com

L’IA PER LA RICERCA DEI SITI ARCHEOLOGICI NASCOSTI Dalla collaborazione tra Iit ed Esa arriva il progetto che punta a recuperare i resti antichi contenuti nel sottosuolo grazie all’utilizzo l’intelligenza artificiale

di Pietro Sapia* precisa e coprire aree sempre più ampie. Per ottenere questo, l’equipe studierà degli algoritmi in grado di indentificare automaticamente e con accuratezza le zone archeologiche e i reperti nascosti. L’intelligenza artificiale consentirà agli esperti di osservare oggetti e anomalie non visibili all’occhio umano, fornendo accurate immagini di irregolarità

nella vegetazione estremamente fitta, terreni aridi o avvallamenti del suolo. Non solo. Nel settore della biotutela del patrimonio culturale, l’IA permetterà l’identificazione rapida dei siti in corso di depredazione o a rischio di deturpazione, fornendo una risposta veloce ed efficace alle minacce esterne delle opere d’arte. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Beni culturali

EGNAZIA TRA MESSAPI E ROMANI

Le due antiche civiltà coesistono nelle testimonianze archeologiche che si estendono su quindici ettari a metà strada tra Bari e Brindisi e a pochi passi dal mare di Rino Dazzo

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l sito archeologico di Egnazia ti sorprende all’improvviso tra ulivi secolari, in prossimità di un litorale che offre spiagge da sogno. Siamo a Fasano, tra Bari e Brindisi, dove su quindici ettari di parco si estendono scavi iniziati nel 1912 e ripresi più volte nei decenni successivi, restituendo testimonianze

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eccezionali dell’età romana e tardo-antica ma ancor prima della civiltà dei Messapi, popolo di origine illirica che si insediò nella Puglia meridionale nell’ottavo secolo prima di Cristo, fiero nemico di Taranto e dei coloni della Magna Grecia. Attraversata dalla Via Traiana, una delle “superstrade” dell’Impero Romano, e protetta da poderose mura alte sette metri, Egnazia – anticamente Gnathia – ha analogie con quanto accaduto a Pompei. Anche qui, infatti, il tempo sembra essersi fermato. Non per un’improvvisa eruzione vulcanica, ma forse a causa del passaggio dei Goti di Totila, che nel VI secolo d.C. coprirono di cenere una cittadina i cui primi insediamenti risalgono addirittura all’età del bronzo, spingendo i sopravvissuti ad arroccarsi sulla vicina acropoli. Porto privilegiato per l’Egeo e il Mar Nero, città di transito e dai vivaci commerci, Egnazia ha vissuto il massimo splendore tra il quarto e il terzo secolo a.C. sotto i Messapi, per poi prosperare anche in età romana. Nel bellissimo parco archeologico, il più esteso della Puglia, si possono ammirare i resti di imponenti edifici pubblici sorti lungo la Via Traiana, sul cui tracciato si scorgono ancora i segni del passaggio dei carri. Al periodo messapico risalgono le alte mura perimetrali. Propri dell’età romana sono il Foro, l’Anfiteatro, la Fornace e il Criptoportico. Alle prime fasi del periodo cristiano sono invece riconducibili la Basilica e il Battistero. La necropoli che sorge fuori le mura, scoperta nel 1971 durante la costruzione del Museo Archeologico Nazionale dove sono esposti i reperti sfuggiti ad anni e anni di razzie e scavi clandestini, è invece databile all’ultima fase del dominio messapico. È qui che sorgono


Beni culturali

tombe decorate con meravigliosi affreschi e corredate da eccezionali arredi funerari. Caratteristica di Egnazia è la Ceramica Egnatina, un tipo di ceramica ricoperta da vernice nera e sovradipinta in bianco, giallo e rosso. Tre le tipologie di tombe familiari scavate nella pietra locale, il carparo, un tipo di tufo non particolarmente duro: a fossa, a camera e a semi-camera. Gli ultimi due tipi di sepoltura, a loro volta distinguibili in tombe a dromos con corridoio coperto da lastroni, e a scalinata con tanto di vestibolo e camera chiusa, sono i più caratteristici e significativi, testimoni della nascita di una classe sociale aristocratica dall’elevato tenore di vita. Gli splendidi affreschi alle pareti e sul soffitto della Tomba del Pilastro, delle Melagrane, del Banchetto o della Fiaccola sono tesori da ammirare e da preservare con attenzione, perché le insidie che minacciano la loro conservazione sono tante. «In ambienti come questi il rischio principale è legato agli attinomiceti, batteri simili ai funghi che attaccano gli ambienti umidi come quelli ipogei» spiega Matteo Montanari, membro della Commissione Permanente “Tutela dei Beni Culturali” dell’Ordine Nazionale dei Biologi e docente di Elementi di Biologia applicata al restauro all’Accademia delle Belle Arti di Bologna. «Altro rischio è legato alle infiltrazioni d’acqua. Gli attinomiceti sfruttano proprio la presenza di acqua per svilupparsi su pitture, pigmenti e leganti organiche». Il fango di secoli, in effetti, ha rovinato molti degli affreschi di diverse sepolture. Lo stesso ingresso alle tombe, anche prima della pandemia da Covid, era stato contingentato. Le difficoltà legate alla gestione di un sito così grande e ricco di tesori sono tante, ma la dottoressa Angela Ciancio, direttore del Parco Archeologico

“In ambienti come questi il rischio principale è legato agli attinomiceti, batteri simili ai funghi che attaccano gli ambienti umidi come quelli ipogei” spiega il biologo Matteo Montanari. Gli affreschi delle tombe sono i tesori più delicati da proteggere e l’opera dei biologi potrebbe essere preziosissima in tal senso.

di Egnazia e, dallo scorso febbraio, dell’intero Polo Museale della Puglia, ha le idee chiare su come affrontarle: è lei che ha curato il progetto e la direzione scientifica dell’ultimo intervento da cinque milioni di euro finanziato con fondi Pon Fesr 2014-2020, partito nel 2016 e completato lo scorso settembre. «Abbiamo riaperto il museo “Andreassi” con una veste rinnovata, ampliando l’esposizione museale con nuovi reperti al piano interrato tra cui un’iscrizione dell’età di Traiano di recente acquisizione. L’obiettivo - dice la dottoressa Ciancio - è stato quello di dare al visitatore un’offerta articolata, capace di abbinare un parco attrezzato al contatto concreto con la storia e i con monumenti, così come la possibilità di leggere in ogni momento qualcosa in più su ciò che si sta ammirando». Gli affreschi delle tombe sono i tesori più delicati da proteggere e l’opera dei biologi potrebbe essere preziosissima in tal senso: «Tutta la gestione del sito comporta problemi non indifferenti. La fortuna di Egnazia è quella di poter legare un museo all’aperto, il Parco archeologico vero e proprio, con il museo al coperto, che si estende su 1200 metri quadrati e dove si possono osservare più di tremila reperti. Il tutto - conclude Angela Ciancio - nel cuore di un territorio che nello spazio di pochi chilometri offre tante altre attrazioni». E tra le innovazioni più apprezzate degli ultimi anni c’è anche la possibilità di ammirare dal vivo le ricostruzioni di monumenti, edifici e affreschi dell’antica Egnazia, un piccolo grande capolavoro di realtà aumentata chiamato Drawing Egnazia, nato dalla collaborazione tra il Parco Archeologico, il Polo museale pugliese e il Cetma, Centro di Ricerche Europeo di Tecnologie Design e Materiali. © Ba_peuceta/shutterstock.com

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Sport

DALIA KADDARI LA NUOVA STELLA DELL’ATLETICA ITALIANA Dai trascorsi nel basket alla passione per il sushi, la campionessa dei 200 metri racconta sogni e ambizioni. Con Tokyo 2021 nel mirino

di Antonino Palumbo

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ra le passerelle e le piste, ha scelto queste ultime. La cagliaritana “figlia del vento” Dalia Kaddari fa incetta di record, ottenuti con la naturalezza della sua corsa e la leggerezza dei suoi vent’anni. Iniziato con l’incubo globale della pandemia, il 2020 le ha regalato il tito-

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lo italiano assoluto (il 30 agosto a Padova) e poi il record italiano juniores in 23”23 a Bellinzona, due centesimi meglio di quanto aveva fatto diciotto anni prima Vincenzina Calì. Quanto basta, insomma, per trasformarlo nel suo anno migliore malgrado tutte le paure e le difficoltà del caso: «Si,


Sport

le prestazioni e i risultati ottenuti negli ultimi mesi hanno reso speciale il mio 2020. Adesso però ho già voltato pagina e penso già al prossimo obiettivo: le Olimpiadi». Già, perché il sogno di ogni atleta è per Dalia un traguardo che si potrebbe concretizzare in tempi brevi, senza necessariamente aspettare Parigi 2024: «Non sarebbe male entrare fra le atlete della staffetta 4x100 per i Giochi in Giappone. Se chiudo gli occhi e mi immagino su una pista delle Olimpiadi, è decisamente quella di Tokyo!». E pensare che fino a sei anni fa Dalia correva, si, ma su un campo di basket. Giocava da ala e anche piuttosto bene. Citando Ligabue, era la Oriali della situazione: nessuno, infatti, era brava come lei a recuperar palloni (soprattutto a rimbalzo) e a far ripartire l’azione della sua squadra. Poi, però, qualcuno che sapeva vederci lungo l’ha individuata per i giochi sportivi studenteschi e lì ha scoperto che la sua rapidità nella corsa poteva essere sfruttata di per se stessa su una pista d’atletica. Una vittoria ha tirato l’altra, un traguardo ha inseguito l’altro e pian piano Dalia – madre sarda, papà marocchino – ha deciso di puntarci in maniera decisa, senza trascurare le lezioni al liceo linguistico B.R. Motzo a Quartu Sant’Elena. «Ho sempre praticato questa disciplina fissandomi degli obiettivi, sin da quando l’ho preferita al basket. Mi era chiaro, sin dalle fasi provinciale e regionale, che ogni gara andava bene e volta per volta miglioravo, e ho messo sempre più impegno e dedizione, negli allenamenti e nelle competizioni. La pallacanestro mi piaceva ma sono certa di aver fatto la scelta giusta». Un po’ come quella di dire «no, grazie» alla moda – è stata eletta anche Miss Quartu qualche anno fa - per concentrarsi sul presente e il futuro da sportiva. «Avrei potuto anche cimentarmi con quel settore, ma non si possono fare diecimila cose, se vuoi farle bene. Sia lo sport sia la moda richiedono tempo e impegno che non si possono conciliare. Resterà una passione legata alla mia adolescenza», spiega.

Medaglia d’argento alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires nel 2018. “Non sarebbe male entrare fra le atlete della staffetta 4x100 per i Giochi in Giappone. Se chiudo gli occhi e mi immagino su una pista delle Olimpiadi, è decisamente quella di Tokyo!”.

Dopo il primato italiano allieve, nel 2018 Dalia si è laureata campionessa italiana di categoria, ha sfiorato il podio europeo e soprattutto è stata medaglia d’argento alle Olimpiadi giovanili di Buenos Aires. «Un’esperienza indimenticabile, che capita una volta nella vita. Non pensavo di andare a medaglia, anche perché abbiamo gareggiato a ottobre e in quel periodo la nostra stagione è finita. Mi sono allenata bene ma senza grandi illusioni: evidentemente gli allenamenti hanno dato ottimi frutti. Il tutto in un contesto molto bello, che mi ha arricchita». Il 23”45 di Buenos Aires le ha inoltre “restituito” la miglior prestazione nazionale U18 dopo l’interregno dell’amica-rivale Chiara Gherardi. Con quest’ultima, la Kaddari ha costruito negli anni un rapporto speciale: «Abbiamo vissuto tante trasferte assieme ed è nata una bella amicizia. Si, può sembrare strano ma per me è assolutamente naturale: siamo rivali in pista, ma amiche nella vita». Due anni fa Dalia è entrata nelle Fiamme Oro, costruendosi l’opportunità di fare atletica ad alti livelli «con gli strumenti e la stabilità della quale un atleta ha bisogno». Tra i suoi idoli ci sono Pietro Mennea ma anche la giamaicana Elaine Thompson, campionessa olimpica dei 100 e 200 metri piani a Rio de Janeiro 2016, e la statunitense Allyson Felix, la donna più medagliata (9) e più volte d’oro (6) nell’atletica leggera ai Giochi, oltre che l’atleta più vincente in assoluto ai campionati mondiali. Più abitudinaria che scaramantica prima delle gare («mi piace ripetere una serie di rituali che mi aiutano a rendere meglio», spiega), Dalia si carica col reggaeton ma sa abbandonarsi a note più introspettive, quando fanno pendant col suo umore. Introspettive come le serie TV, che sceglie per rilassarsi. Tra i suoi hobby c’è ancora oggi la fotografia, ma a differenza della pista ama più posare che scattare («ultimamente ho fatto una bella esperienza con il mio sponsor Adidas»). Poi c’è la cucina. E su questo fronte, più che la velocista, le tocca fare l’acrobata: «devo seguire un’alimentazione equilibrata, anche se adoro mangiare di tutto. Per fortuna non tendo a ingrassare. Il mio piatto preferito? Il sushi». A giudicare da quanto corre, dev’essere ottimo. Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Sport

CLASSICHE E GRANDI GIRI IN “FUGA” DAL COVID Il Giro, il Tour e la Vuelta al loro “posto” in calendario con vecchi e nuovi protagonisti dei pedali

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on sarà “normalità” senza la muraglia di tifosi sulle salite, i quartiertappa affollati alla ricerca di un autografo, le premiazioni “classiche” e senza paura. Eppure la bella stagione del ciclismo, con le classiche a salutare la primavera e i Grandi Giri al loro posto, vive pedalate cariche di speranza. E prova ad auspicare una vera e propria “rinascita”, con le imprese di giovani e giovanissimi campioni a catturare gli occhi degli appassionati alla TV: Pogačar, Evenepoel, Bernal, Van der Poel, Van Aert, ma anche gli italiani Ganna e Ballerini. Senza dimenticare, ovviamente, affamati over 30 come Roglic e Sagan, sempreverdi campioni come Nibali e Froome, talenti purissimi come il 28enne campione del mondo Alaphilippe. Dopo la rivoluzione delle date, imposta dall’emergenza Covid lo scorso anno, quest’anno il Giro d’Italia tornerà ad aprire il calendario dei Grand Tours, con partenza da Torino l’8 maggio e festa finale a Milano il 30. Fra i pretendenti alla maglia rosa c’è Vin-

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cenzo Nibali della Trek-Segafredo, vincitore del Giro nel 2013 e nel 2016 e sul podio finale in altre quattro edizioni. Sarà affiancato da validissime “spalle” come Bauke Mollema e Giulio Ciccone e proverà a dar filo da torcere a rivali giovani e agguerriti. Su tutti Egan Bernal del team Ineos Grenadiers, classe 1997, capace di vincere il Tour de France a 22 anni, e Remco Evenepoel, 21enne della Deceuninck-QuickStep, reduce da una lunga convalescenza dopo lo spaventoso incidente al Giro di Lombardia 2020. Ci sarà il buon “vecchio” Thibaut Pinot (Groupama-FDJ) che ha preferito il Giro dopo aver visto il percorso del Tour, al pari di Emanuel Buchmann (Bora-Hansgrohe). Tra Zoncolan, Passo Pordoi e Sega di Ala, c’è terreno anche per un altro bravo scalatore come George Bennett (Jumbo-Visma), senza dimenticare il lucano Domenico Pozzovivo della Qhubeka Assos, il veneto Davide Formolo della UAE Team Emirates e i vari Landa, Yates, Soler, McNulty e Vlasov, in cerca di un posto al sole in classifica


Sport

generale. Per gli sprint, sfida gomito a gomito fra le veloci ruote di Caleb Ewan, Arnaud Démare, Fernando Gaviria ed Elia Viviani. Mantiene il suo gran fascino il Tour de France, anche se l’arrivo sugli Champs Élysées a Parigi (18 luglio) precede di pochissimi giorni la gara in linea delle Olimpiadi di Tokyo. Nella “Grande Boucle” che prenderà il via il 26 giugno da Brest i riflettori sono puntati sulla rivincita fra sloveni: il campione uscente Tadej Pogačar, già vincitore di UAE Tour e Tirreno-Adriatico quest’anno, e il suo connazionale Primoz Roglic, che nel 2020 fu scavalcato nella penultima tappa, una cronometro con arrivo in salita a La Planche des Belles Filles. Ma il Tour de France rappresenta anche l’ennesima sfida del tetra-campione Chris Froome, passato alla Israel Start-Up Nation, per eguagliare leggende come Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault e Miguel Indurain. Tra i possibili progagonisti anche Wilco Kelderman, David Gaudu, Guillaume Martin, Tao Geoghegan Hart e i “soliti” Mollema, Landa e Nibali. Per

Vincenzo Nibali, vincitore del Giro d’Italia 2013 e 2016. Fra i pretendenti alla maglia rosa c’è Vincenzo Nibali della Trek-Segafredo, vincitore del Giro nel 2013 e nel 2016 e sul podio finale in altre quattro edizioni.

© William Perugini/shutterstock.com

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gli sprint ci saranno anche Pascal Ackermann, Mads Pedersen, Peter Sagan e Alexander Kristoff, mentre i “fenomeni” Alaphilippe e Van Aert e il 22enne svizzero Marci Hirschi garantiscono spettacolo e imprevedibilità. Ci sarà da divertirsi anche alla Vuelta a Espana, dal 14 agosto al 5 settembre. Ci sarà tempo per definire la startlist, ma di sicuro vedremo in prima fila Pogačar e l’italiano Ciccone, libero dai compiti di gregario di Nibali. E poi gli spagnoli, da Eric Mas e Mighel Angel Lopez (già al Tour) a Marc Soler, passando per Alejandro Valverde. L’Italia del pedale tiferà anche per le volate di Matteo Trentin, nella corsa a tappe che in tanti scelgono per prepararsi al Mondiale. Intanto ha preso il via con la Milano-Sanremo la stagione delle classiche Monumento. Ed è iniziata con una sorpresa, il successo del 28enne fiammingo Jasper Stuyven, che nel finale ha sorpreso tutti i favoriti, dal connazionale Matheiu Van der Poel al francese campione del mondo Julien Alaphilippe, fino all’eclettico Wout Van Aert, terzo al traguardo. Tre grandi corridori che pochi giorni prima avevano reso unica e indimenticabile l’edizione numero 56 della Tirreno-Adriatico, corsa a tappe di una settimana sulle strade del centro Italia. E c’è da attenderli lì davanti, combattivi come sempre, anche al Giro delle Fiandre, in programma il 4 aprile a “porte chiuse”. Le strade della Ronde non saranno le stesse, senza l’allegra e colorata folla che popola i suoi “muri”, ma la speranza è che dal prossimo anno non siano più necessarie restrizioni dovute alla pandemia. Intanto, però, causa Covid potrebbe saltare o perlomeno slittare, la terza delle classiche Monumento ovvero la Parigi-Roubaix dell’11 aprile. Lo ha affermato il Prefetto dell’Alta Francia, Michel Lalande, rispondendo a una domanda nel corso di un’intervista radiofonica. Il 25 aprile si correrà, coronavirus permettendo, la Liegi-Bastogne-Liegi, quarta delle “Monuments” e la terza classica delle Ardenne dopo l’Amstel Gold Race (domenica 18) e la Freccia Vallone (mercoledì 21). Non solo battaglie di un giorno: dal 19 al 23 aprile torna il Tour of the Alps, ultimo banco di prova prima del Giro d’Italia, con campioni come Vincenzo Nibali, Simon Yates e Thibaut Pinot all’ultima rifinitura prima dell’avventura rosa. (A. P.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Sport

Lionel Messi.

MESSI-RONALDO GLI EREDI SCALPITANO Dopo 15 anni, nessuno dei due giocherà i quarti del massimo campionato continentale. I ventenni Mbappé e Haaland pronti a prendersi il palcoscenico

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evento “epocale” delle ultime settimane, sul pianeta Pallone, è l’assenza di Lionel Messi e Cristiano Ronaldo dai quarti di finale della UEFA Champions League, dopo 15 anni di presenza ininterrotta. I due supercampioni sono condizionati anche dal momento di difficoltà dei relativi club, Barcellona e Juventus. L’argentino e il portoghese non sono riusciti a incidere sull’esito degli ottavi di finale, rispettivamente contro Paris Saint-Germain e Porto. Fino allo scorso anno, almeno uno dei due era sempre arrivato in semifinale e in sei occasione ci sono arrivati insieme.

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Sedici anni fa, Champions League 2004-2005, Cristiano Ronaldo era al secondo anno col Manchester United, eliminato agli ottavi dal Milan poi finalista. Leo Messi aveva esordito, a 17 anni, con il Barcellona che venne spedito a casa dal Chelsea, nonostante lo stupendo gol di punta di Ronaldinho. Il capocannoniere di quell’edizione du Ruud Van Nistelrooy del Manchester United, con 8 gol. Né CR7, né la Pulce avevano ancora segnato in Champions League. Dal 2005 in poi hanno realizzato rispettivamente 134 gol (Cristiano) e 120 gol (Messi) in Champions League, con il portoghese trasformatosi da impre-

vedibile ala a implacabile uomo-gol e l’argentino diventato geniale faro del Barcellona che ha cambiato la filosofia e le gerarchie del calcio nel XXI secolo. E se Lionel ha giurato amore eterno ai catalani, con tanto di record di reti per un solo club nell’ex Coppa dei Campioni (120), CR7 ha abbracciato nuove sfide, diventando prima signore di Madrid e poi la grande illusione dei tifosi della Juventus, incapace di mettere a frutto i gol e il senso del lavoro e del sacrifico del 36enne asso di Funchal. L’impero di Cristiano e Lionel è stato del resto fotografato anche dalle classifiche del Pallone d’oro, nel periodo 2007-2019: 6 successi per Messi, 5 per Ronaldo, entrambi sul podio in 12 occasioni su 13. Lo scorso anno il riconoscimento di miglior giocatore del pianeta avrebbe preso altre strade, probabilmente quella di Robert Lewandowski, Calciatore dell’anno sia per la UEFA sia per la FIFA, autore di 15 reti nella Champions League vinta dal Bayern Monaco. Nell’attesa di un possibile canto del cigno – CR7 è orgoglioso e maniacale, Messi calcisticamente divino – i due campioni hanno già i loro eredi: il 22enne Kylian Mbappé e il 20enne Erling Haaland. Nato in Francia, origini camerunensi e algerine, Mbappé è un esterno offensivo veloce e dal dribbling micidiale, campione del mondo con la Francia nel 2018 e quarto nella classifica del Pallone d’oro lo stesso anno. La sua tripletta al Camp Nou di Barcellona, nel 4-1 che ha esaltato il Paris Saint-Gemain, è stata un virtuale passaggio di consegne di fronte a Re Messi. Norvegese nato a Leeds, Haaland abbina ai 194 centimetri di potenza buone doti tecniche, velocità e fiuto del gol: ne ha segnati 20 in 14 partite di Champions League disputate, fra Salisburgo e Borussia Dortmund. Non sarà facile emulare le pagine di calcio scritte da Messi e Ronaldo, ma Mbappé e Haaland hanno tutte le carte in regola per raccoglierne l’eredità. (A. P.)


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tramontato alla decima regata il sogno di Luna Rossa di vincere la Coppa America di vela. Si è infranto contro la velocità di un’avversaria, Team New Zealand, che prova dopo prova ha perfezionato il feeling interno e sfruttato al meglio la bravura dei suoi uomini e l’avanguardia dei suoi mezzi. È finita 7-3 per Te Rehutai, il nome Maori della barca neozelandese legato alla schiuma del mare: per la Nuova Zelanda si tratta del quarto successo in sette finali disputate negli ultimi 26 anni. Per l’Italia della vela la Coppa delle 100 Ghinee resta ancora tabù: nel 1992 era stato Il Moro di Venezia a soccombere (4-1) con “America cubed”, otto anni dopo Team New Zealand tenne a zero Luna Rossa imponendosi in cinque regate. “Se non fosse così difficile vincere, non saremmo qui a provarci. Non siamo contentissimi, ma non è stato semplice arrivare fin qua” ha commentato lo skipper italiano Max Sirena, dopo l’ultima regata, mercoledì 17 marzo. E pensare che, a metà strada della serie finale, il Team Prada Pirelli si trovava in vantaggio per 3-2 sui defender neozelandesi. Dopo aver perso la prima regata, infatti, Luna Rossa aveva immediatamente pareggiato, festeggiando il record assoluto di successi in Coppa America del timoniere Jimmy Spithill. Poi, grazie a partenze esemplari e alla massima attenzione e reattività in gara, aveva pareggiato e allungato, con qualche rammarico per un errore in gara-4. Importante sliding door della finale è stata però la sesta regata, nella quale Luna Rossa – fino a quel momento perfetta nel terzo giorno di competizione – per un buco di vento ha concesso subito un vantaggio considerevole alla velocissima Te Rehutai, permettendole di navigare senza pressione verso il comodo 3-3, davanti a decine di migliaia di tifosi entusiasti. Se nelle prime sei regate è stata decisiva la partenza, la settima e l’ottava hanno smentito questa consuetudine: dietro allo start, Team New Zealand

Sport

Da sinistra, le imbarcazioni di Team News Zealand e Luna Rossa.

LUNA ROSSA PIENA A METÀ SFUMA LA COPPA AMERICA La barca italiana vola sul 3-2 nella finale di Auckland, poi Team New Zealand Delusione delle centinaia di milgiaia di italiani incollati allo schermo a notte fonda

si è presa entrambe le manche volando sul 5-3. Clamoroso l’evolversi dell’ottava regata. Arrivata ad avere 4’ di vantaggio, dopo che Te Rehutai è finita in acqua dopo una strambata, Luna Rossa è andata incontro allo stesso destino, stentando a decollare per troppi minuti. I buoni propositi di Luna Rossa hanno subito il colpo definitivo nella memorabile nona regata, definita dallo skipper Sirena come “la più bella degli ultimi quindici anni”. Un duello colpo su colpo fino al quinto gate, con gli italiani sempre avanti, deciso però da una corrente di vento più forte che ha reso imprendibili i neozelandesi nel fortunato rush fina-

le. E così quella che Vasco Vascotto, afterguard di Luna Rossa, ha definito “una lezione di match race, non solo nelle partenze, ma anche sul campo di regata” si è beffardamente tradotta nel match point per i campioni in carica. Un match point sfruttato da Team New Zealand nel decimo duello: velocissima (fino a 41 nodi di velocità massima in poppa), la barca di casa ha rimediato alla buona partenza italiana passando in testa alla prima boa e incrementando il vantaggio su ogni lato. Con buona pace delle centinaia di migliaia di appassionati italiani che hanno tifato e sperato davanti alla TV a notte fonda. (A. P.) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Brevi

LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico

a cura di Rino Dazzo

ALIMENTAZIONE La genetica dei peperoni non ha più segreti

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n arrivo peperoncini e peperoni più resistenti e produttivi. I ricercatori del World Vegetable Center di Taiwan, infatti, hanno studiato a fondo la genetica di queste piante scoprendo una serie di ibridi che possono essere coltivati incrociando le varietà domestiche, più grandi ma più fragili, e quelle selvatiche, di dimensioni più piccole ma notevolmente più resistenti. In particolare gli studiosi asiatici, che hanno pubblicato la loro ricerca sulla rivista Plos One, hanno analizzato le correlazioni genetiche tra 35 specie della famiglia Capsicum, che comprende peperoni comuni, jalapenos, peperoncini del New Mexico e di Caienna, e 15 specie selvatiche e domestiche provenienti da tutti il mondo. La possibilità di ibridazione si è rivelata molto alta, indipendentemente dalla vicinanza genetica delle specie, con la possibilità di dar vita a nuove varietà ibride, resistenti e coltivabili tutto l’anno.

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RICERCA Il conservante che danneggia le cellule immunitarie

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a Food and Drug Administration l’ha approvato diversi anni fa, ora però uno studio ne ha messo in evidenza la tossicità. Il TBHQ, o terz-butil-idrochinone, è un composto organico aromatico utilizzato come conservante che potrebbe danneggiare il sistema immunitario dei consumatori. Lo sostengono i ricercatori dell’Ewg, l’Envitomental Working Group, che in un articolo pubblicato sull’International Journal of Environmental Research and Public Health hanno descritto come questa sostanza, utilizzata per decenni allo scopo di aumentare la durata di conservazione di vari prodotti alimentari, possa migrare verso il cibo dai materiali di imballaggio e dalle apparecchiature di lavorazione, influenzando le proteine delle cellule immunitarie e provocando danni all’organismo. Gli autori dello studio raccomandano di prestare attenzione alle etichette degli imballaggi in plastica.


Brevi

NEUROLOGIA Pfas si integrano a neuroni, possono sviluppare Parkinson

C’

è un possibile legame tra Pfas e malattie del sistema nervoso come il Parkinson. Lo segnala l’Università di Padova, che ha evidenziato segni di accumulo di queste sostanze in aree come l’ipotalamo, costituite da neuroni dopaminergici. I dati preliminari della ricerca suggeriscono un coinvolgimento delle cellule implicate nel processo degenerativo del Parkinson: Pfas e membrane neuronali possono integrarsi, modificando struttura e stabilità delle cellule nervose. Saranno necessarie ulteriori ricerche.

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INNOVAZIONE Ipertensione addio con un semplice intervento

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una delle più classiche forme di ipertensione resistente e, grazie a uno studio coordinato dal professor Gian Paolo Rossi di Unipd, oggi non ha più segreti. Si tratta dell’aldosteronismo primario, una forma di ipertensione arteriosa provocata dall’eccessiva produzione di aldosterone da parte delle ghiandole surrenaliche. Lo studio ha coinvolto oltre 1600 pazienti di 19 centri di eccellenza dislocati in ben quattro continenti e ha evidenziato come la semplice rimozione del surrene malato basti a risolvere tutti i problemi, curando in via definitiva l’ipertensione resistente ai farmaci regolatori. Necessari, dunque, per i responsabili della ricerca, la diagnosi e il trattamento precoce dell’aldosteronismo primario presso centri specializzati: il riconoscimento repentino della malattia e il suo trattamento possono restituire ai pazienti una vita normale in brevissimo tempo.

SALUTE L’esercizio aiuta gli anziani a conservare la memoria

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n regolare esercizio fisico può aiutare a migliorare le capacità di cognizione e di memoria negli anziani sani e in quelli che mostrano lievi segnali di deterioramento cognitivo. Lo certifica uno studio dell’Università del Texas a Southwestern, che ha coinvolto 70 uomini e donne di età compresa tra i 55 e gli 80 anni. A tutti era stato diagnosticato un lieve deterioramento cognitivo e in quelli che hanno seguito un programma di attività fisica mirata, con camminate veloci e leggere sessioni di allenamento settimanali, si sono notati miglioramenti evidenti provocati dalla diminuzione della rigidità dei vasi sanguigni del collo e un aumento del flusso sanguigno al cervello. Nello studio si sottolinea come alcune persone potrebbero trarre maggiori benefici dall’esercizio aerobico rispetto ad altre, ma il maggior afflusso di sangue al cervello in età avanzata è senz’altro un beneficio per tutti.

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Lavoro

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI MILANO Scadenza, 4 aprile 2021 Conferimento, per titoli ed eventuale colloquio, di una borsa di studio per laureati, da usufruirsi presso la sede di Pisa. Gazzetta Ufficiale n. 18 del 05-03-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO PER L’ENDOCRINOLOGIA E L’ONCOLOGIA “GAETANO SALVATORE” Scadenza, 5 aprile 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale del CNR di Napoli, nell’ambito del Progetto finanziato dal KAUST Impact Acceleration Funding 2019, dal titolo “Computational Identification of drugs inhibiting breast cancer stem cells by inducing differentiation”. Informazioni sul sito internet www. cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOLOGIA E BIOTECNOLOGIA AGRARIA DI PISA Scadenza, 5 aprile 2021 È indetta una pubblica sele74 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

zione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di una borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti all’Area scientifica “Scienze Biologiche / Agrarie e Veterinarie” da usufruirsi presso l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del CNR di Pisa, nell’ambito del Progetto di Ricerca “AGRENO: Gruppo per ritrovare economie e nuove opportunità”. Informazioni sul sito internet www.cnr. it, sezione concorsi. AZIENDA SANITARIA LOCALE DI MATERA Scadenza, 11 aprile 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, disciplina di microbiologia e virologia, a tempo indeterminato, per l’area della medicina diagnostica e dei servizi. Gazzetta Ufficiale n.20 del 12-03-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI NEUROSCIENZE DI PISA Scadenza, 12 aprile 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Neuroscienze” da usufruirsi presso l’Istituto di Neuroscienze del CNR di Pisa nell’ambito del Progetto di Ricerca “Inter-neuronal transfer of clostridial neurotoxins and tau: cell specificity and rele-

vance for brain disorders”. Informazioni sul sito internet www. cnr.it, sezione concorsi. CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA E L’ANALISI DELL’ECONOMIA AGRARIA Scadenza, 14 aprile 2021 Conferimento, per titoli ed esame-colloquio, di un assegno di ricerca per laureati della durata di dodici mesi, da svolgersi presso il Centro di ricerca viticoltura ed enologia di Conegliano e presso la ditta Microbion di San Giovanni Lupatoto. Gazzetta Ufficiale n. 24 del 26-03-2021. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DELLA PUGLIA E DELLA BASILICATA DI FOGGIA Scadenza, 15 aprile 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esame-colloquio, per la copertura di due posti di dirigente biologo, a tempo pieno e determinato, per il Centro di referenza nazionale per l’antrace di Foggia. Gazzetta Ufficiale n. 21 del 16-03-2021. UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 15 aprile 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/E1, per il Dipartimento di scienze biomediche. Gazzetta Ufficiale n. 21 del 16-03-2021.


Lavoro

UNIVERSITÀ “LA SAPIENZA” DI ROMA Scadenza, 15 aprile 2021 Procedura comparativa, per titoli e colloquio, per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di tre anni eventualmente prorogabili per ulteriori due e pieno, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per il Dipartimento di Sanità pubblica e malattie infettive. Gazzetta Ufficiale n. 21 del 16-03-2021. ISTITUTO NAZIONALE PER LA PROMOZIONE DELLA SALUTE DELLE POPOLAZIONI MIGRANTI E PER IL CONTRASTO DELLE MALATTIE DELLA POVERTÀ

Scadenza, 15 aprile 2021 Conferimento, per titoli e colloquio, di una borsa di studio della durata di dodici mesi, per laureati in Scienze biologiche o titoli equiparati/equipollenti. Gazzetta Ufficiale n. 21 del 1603-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI MESSINA Scadenza, 18 aprile 2021 Conferimento di una borsa di studio per laureati, da usufruirsi presso la sede di Ancona. Gazzetta Ufficiale n. 22 del 19-03-2021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITU-

TO PER LE RISORSE BIOLOGICHE E LE BIOTECNOLOGIE MARINE DI ANCONA Scadenza, 19 aprile 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’Ambiente da usufruirsi presso l’Istituto per le Risorse Biologiche e le Biotecnologie Marine del CNR – sede di Ancona nell’ambito del programma di ricerca: “Innovazione, sviluppo e sostenibilità nel settore della pesca e dell’acquacoltura per la Regione Campania (ISSPA)”. Informazioni sul sito internet www.cnr.it, sezione concorsi.

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L’esercizio fisico genera cellule immunitarie nelle ossa È stato identificato nel midollo osseo un tipo specializzato di progenitore delle cellule ossee, che ha dimostrato di supportare la generazione di cellule immunitarie, chiamate linfociti in risposta al movimento

di Valentina Arcovio

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l midollo osseo è un luogo piuttosto affollato. Al suo interno, infatti, coesistono fianco a fianco [1] [2] molti tipi di cellule staminali e progenitrici, compresi i progenitori delle cellule immunitarie, che sono supportate da cellule vicine che generano ambienti protettivi specializzati per le cellule staminali, chiamate nicchie [3] [4] [5]. Tuttavia, sappiamo ancora molto poco dell’interazione che c’è tra le cellule della nicchia, note anche come cellule stromali, e i progenitori delle cellule immunitarie nel midollo osseo. Ma si tratta di un punto centrale che potrebbe avere implicazioni cliniche importanti. La comprensione dei meccanismi e della coordinazione di questa interazione, infatti, potrebbe aiutarci a capire meglio come vengono generati i progenitori delle cellule immunitarie. In uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Nature [6], un gruppo di scienziati coordinati dal Children’s Medical Center Research Institute dell’UT Southwestern - Bo Shen, Alpaslan Tasdogan ,Jessalyn M. Ubellacker ,Jingzhu Zhang, Elena D. Nosyreva, Liming Du, Malea M. Murphy, Shuiqing Hu, Yating Yi, Nergis Kara, Xin Liu, Shay Guela, Yuemeng Jia,Vijayashree Ramesh, Claire Embree, Evann C. Mitchell,Yunduo C. Zhao, Fodera A. Ju ,Zhao Hu, Genevieve M. Crane, Zhiyu Zhao, Ruhma Syeda e Sean J. Morrison - ha risolto parte di questo intricato puzzle, identificando il ruolo giocato dal movimento nello stimolare la comunicazione tra un tipo di cellula stromale e i progenitori immunitari nei topi. In altre parole, gli studiosi americani hanno scoperto che sarebbe il movimento a innescare e guidare l’interazione tra la moltitudine di cellule che risiedono nel nostro midollo osseo. Le intuizioni emerse da questo studio hanno portato anche a individuare una nuova strategia che, testata su un gruppo di topi in laboratorio dai ricercatori americani, ha permesso di aiutare gli animali a combattere le infezioni. I vari tipi di cellule staminali e cellule progenitrici nel midollo osseo [7] sono altamente interconnessi fra loro, sia fisicamente che funzionalmente. Ad esempio, le cellule me-

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senchimali e le cellule progenitrici, che danno origine alle ossa, al tessuto scheletrico e alle cellule adipose, sono una parte essenziale della nicchia stromale per le cellule staminali ematopoietiche e progenitrici (HSPC). Le HSPC, a loro volta, sono responsabili della produzione di tutti i lignaggi delle cellule del sangue, comprese quindi anche le cellule immunitarie [8]. Nei topi, alcuni progenitori mesenchimali producono una proteina di segnalazione, chiamata fattore di cellule staminali (SCF), cruciale per supportare le HSPC. Queste cellule esprimono anche una proteina della superficie cellulare chiamata recettore della leptina [9] [(LepR). Le cellule che esprimono LepR (LepR+) risiedono in posizioni molto diverse nel midollo osseo, inclusi due tipi di vasi sanguigni, arteriole e sinusoidi. Tuttavia, la popolazione LepR + è una combinazione di tipi di cellule progenitrici mesenchimali [10]. Shen e gli altri autori dello studio hanno deciso di concentrarsi sul sottoinsieme di cellule LepR+ , che sono coinvolte nel mantenimento della nicchia delle HSPC. Per riuscire nel loro intento, gli autori dello studio hanno eseguito un’analisi dell’espressione genica delle cellule LepR +, la quale ha rivelato che c’è una sottopopolazione di cellule che esprime anche un’altra proteina marker, l’osteolectina [11] [12] (Oln). L’osteolectina ha un ruolo molto importante e cioè promuove il mantenimento [13] dello scheletro adulto inducendo LepR + a formare nuove cellule ossee. Il gruppo di ricerca è poi passato dai test in vitro a test su modelli animali. Gli studiosi hanno così applicato le tecniche di ingegneria genetica per generare topi [14] in cui le cellule Oln+ sono state fatte diventare fluorescenti [15] [16]. In questo modo hanno scoperto che le cellule stromali Oln+ risiedono intorno alle arteriole ma non intorno ai sinusoidi [17]. I ricercatori hanno poi dimostrato che le cellule sono progenitori osteogenici, che danno origine alle cellule che formano l’osso, chiamate osteoblasti [18], che a loro volta hanno un ruolo crucia-


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le nella rigenerazione ossea. Shen e i colleghi hanno quindi creato, tramite tecniche di ingegneria genetica, topi mutanti privi del gene che codifica per SCF nelle cellule Oln+. La conseguente mancanza di SCF nelle cellule Oln+ non ha influenzato le cellule staminali ematopoietiche o la maggior parte degli altri tipi di cellule progenitrici ematopoietiche nel midollo osseo. Tuttavia, ha portato a una significativa riduzione del numero di un tipo speciale di progenitore ematopoietico, il progenitore linfoide comune (CLP), che dà origine alle cellule immunitarie chiamate linfociti. A sostegno dell’ipotesi che le cellule Oln+ aiutino a generare e mantenere i CLP, gli autori hanno dimostrato che le cellule Oln+ e i CLP sono posizionati vicini nel midollo osseo. Successivamente i ricercatori hanno infettato i topi mutanti con un batterio patogeno, chiamato Listeria monocytogenes, che di solito viene eliminato dall’organismo proprio grazie ai linfociti [19]. Gli animali mutanti, ovvero i topi privati del gene che codifica SCF nelle cellule Oln+, hanno eliminato il patogeno in maniera molto meno efficace rispetto ai controlli. Gli animali ingegnerizzati in laboratorio semplicemente non hanno prodotto abbastanza linfociti in grado di svolgere il loro lavoro, a causa del numero ridotto di CLP. È noto che la stimolazione meccanica delle ossa, che si verifica durante l’esercizio, promuove la formazione ossea [20]. In un set finale di esperimenti, Shen e i colleghi hanno messo i topi in gabbie con ruote da corsa e hanno scoperto che il movimento che gli animali hanno eseguito è stato in grado di stimolare un numero maggiore di cellule Oln + e CLP all’interno del midollo osseo. Il gruppo di ricercatori americani ha scoperto che le cellule Oln + esprimono la proteina del canale ionico meccanosensibile

Piezo1 e ha dimostrato che il numero di CLP è anormalmente basso nei topi ingnegnerizzati. Pertanto, gli autori dello studio hanno scoperto un percorso precedentemente sconosciuto attraverso il quale l’esercizio, rilevato attraverso la proteina meccanosensibile Piezo1 [21] [22] [23], innesca l’espressione di SCF nei progenitori osteogenici per aiutare a mantenere i CLP, controllando così parte della funzione del sistema immunitario. La scoperta che i progenitori osteogenici meccanosensibili potrebbe avere un ruolo importante nella lotta alle infezioni batteriche. Per questa gli stessi ricercatori del Children’s Medical Center Research Institute dell’UT Southwestern hanno definito i risultati del loro studio come “eccitanti”. Se infatti sapevamo già che il movimento può stimolare il sistema immunitario [24], il nuovo studio condotto dai ricercatori americani è stato in grado di fornire una motivazione valida del perché è così. Se le stesse conclusioni venissero dimostrate in un successivo studio sugli esseri umani, il lavoro dei ricercatori potrebbe avere applicazioni cliniche dirette. Ad esempio, il percorso scoperto nel nuovo studio potrebbe essere sfruttato per sviluppare trattamenti e terapie migliori in grado di rafforzare la produzione di cellule immunitarie innescata dal movimento. Si tratterebbe di una via nuova che consentire di potenziare le difese naturali degli esseri umani. Il passo logico successivo a questo studio, secondo i ricercatori, sarà quello di verificare se correre volontariamente può effettivamente migliorare la clearance batterica nei topi. Si potrebbe ad esempio ipotizzare la messa a punto di specifici programmi che prevedono esercizio fisico che possano rinforzare specificatamente il sistema immunitaria Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Un’altra questione chiave aperta dallo studio americano è quella di capire se l’aumento del numero di cellule Oln+ e di CLP nel midollo osseo può aiutare a fornire protezione contro altri batteri patogeni, o persino virus. Non solo. I risultati dello studio inducono anche a chiedersi se l’aumento delle cellule Oln+ e CLP possa anche avere un impatto significativo sulle vaccinazioni, aumentando ad esempio la risposta anticorpale. Gli autori hanno anche scoperto che il numero di nicchie Oln + e il numero di CLP erano inferiori nel midollo osseo dei topi con 18 mesi di vita rispetto alle loro controparti con soli 2 mesi di vita. I ricercatori hanno spiegato che, con l’avanzare dell’età, l’ambiente del nostro midollo osseo subisce dei cambiamenti e le cellule responsabili del mantenimento della massa ossea e della funzione immunitaria iniziano man mano a esaurirsi. Da qui il numero più basso di di nicchie Oln + e di CLP. Tuttavia, sappiamo ancora molto poco su come l’ambiente del midollo osseo cambia e perché queste cellule diminuiscono con il passare degli anni e con l’avanzare dell’età. Prima che gli autori pubblicassero quest’ultimo studio sapevamo soltanto che l’esercizio fisico può essere in grado di migliorare la forza ossea e la funzione immunitaria. Ora però, grazie ai ricercatori, si è fatto luce su un nuovo meccanismo attraverso il quale ciò si verifica. Quindi, fattori diversi dalla riduzione del movimento, potrebbero contribuire a questo declino correlato 78 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

all’invecchiamento negli animali anziani [25]. In pratica i ricercatori hanno scoperto che il numero di cellule positive all’osteolectina e di progenitori linfoidi diminuisce con l’età. Tuttavia, i test condotti sui topi messi in gabbie dotate di ruote per correre hanno permesso di dimostrare che le ossa di questi topi sono diventate più forti con l’esercizio e nel frattempo il numero di cellule positive all’osteolectina e progenitori linfoidi intorno alle arteriole è aumentato. Questa è la prima indicazione che dimostra che la stimolazione meccanica regola una nicchia nel midollo osseo. Per questo, i ricercatori del Children’s Medical Center Research Institute dell’UT Southwestern sono ora convinti che interventi terapeutici mirati ad espandere il numero di cellule positive all’osteolectina potrebbero aumentare la formazione ossea e le risposte immunitarie, in particolare negli anziani. Inoltre, secondo i ricercatori americani, sarebbe interessante anche indagare il modo in cui le nicchie Oln + percepiscono i cambiamenti nel tempo della stimolazione meccanica, o se i cambiamenti epigenetici (modifiche al DNA che possono alterare l’espressione genica senza cambiare la sequenza del DNA sottostante) nelle cellule Oln + vecchie le rendono meno efficaci nel generare molecole di segnalazione come SCF. I risultati dello studio suggeriscono ulteriori vie da indagare. Sappiamo che la meccanosensibilità svolge un ruolo nella fisiologia ossea, ma un ruolo cruciale per la meccanosegnalazione è stato descritto anche per altri tipi di cellule, ad esempio le cellule progenitrici del pancreas, le cellule staminali intestinali e le cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni. Sebbene si sappia meno sulle nicchie che supportano le cellule staminali al di fuori del midollo osseo, il sistema vascolare, e quindi le cellule endoteliali, sono i principali candidati per la formazione di tali nicchie. È quindi possibile che la meccanosensibilità nelle cellule endoteliali che formano le nicchie possa contribuire al mantenimento di altri tipi di cellule staminali e progenitrici. In tal caso, il lavoro dei ricercatori del Children’s Medical Center Research Institute dell’UT Southwestern potrebbe avere implicazioni di ampio respiro per la biologia delle cellule staminali con una potenziale moltitudine di implicazioni cliniche.


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I grassi fanno da scudo al cancro Il cancro può eludere l’attacco da parte del sistema immunitario, grazie all’aiuto delle cellule T regolatorie immunosoppressive, che dipendono da un percorso di produzione di lipidi nell’ambiente tumorale. Averlo individuato apre la strada alla messa a punto di nuovi trattamenti mirati a rompere questa alleanza

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e cellule immunitarie chiamate cellule T regolatorie (cellule T reg) sono un sottoinsieme di cellule T che hanno la funzione di attenuare selettivamente le risposte immunitarie [1]. Questo loro compito viene effettuato sopprimendo l’attivazione delle cellule T che promuovono invece l’infiammazione e che secernano fattori antinfiammatori [2]. Tale attenuazione delle risposte immunitarie [3] è molto preziosa perché impedisce al sistema immunitario di scatenare una forte reazione infiammatoria nell’organismo di una persona. Evenienza, quest’ultima, che può essere considerata come un tipo di malfunzionamento che si verifica nelle malattie autoimmuni. Quella delle cellule T reg è quindi una funzione fondamentale che consente quindi di prevenire reazioni infiammatorie eccessive, che possono rivelarsi anche letali. Tuttavia, ci sono casi in cui le cellule T reg possono invece rivelarsi un “nemico”, lasciando esposto il nostro organismo a minacce importanti, come quella legata a un tumore. Le cellule T reg, infatti, possono essere di grande aiuto per i tumori che, proprio grazie a esse, possono proliferare e diffondersi indisturbatamente in altre parti dell’organismo rispetto al sito di origine. Le cellule T reg, infatti, possono sopprimere le cellule immunitarie deputate ad attaccare le cellule cancerose, come le cellule T CD8 (note anche come cellule T killer). In un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature [4], un gruppo di ricercatori del St Jude Children’s Research Hospital, Memphis (Usa) - Seon Ah Lim, Jun Wei, Thanh-Long M. Nguyen, Hao Shi, Wei Su, Gustavo Palacios, Yogesh Dhungana, Nicole M. Chapman, Lingyun Long, Jordy Saravia, Peter Vogel & Hongbo Chi - hanno identificato una dipendenza metabolica delle cellule T reg nel microambiente tumorale. Si tratta di una scoperta che rivela in che modo le cellule operano nel e attorno al sito del tumore. La conoscenza del meccanismo attraverso cui le cellule T reg “aiutano” il tumore a sfuggire all’attacco delle cellule T killer del sistema immunitario, ha dato una grande

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spinta allo sviluppo dell’immunoncologia. Oggi, infatti, l’immunoterapia viene utilizzata in clinica per contrastare il meccanismo di evasione da parte di un tumore dall’attacco dei linfociti T killer. Questo approccio può includere, infatti, trattamenti che prevedono la somministrazione di anticorpi mirati alle cellule T reg [5]. Sebbene tale terapia aumenti le risposte immunitarie contro il tumore, può però avere un effetto negativo sulle cellule T reg in altre parti dell’organismo dove svolgono l’importante funzione di mantenimento del sistema immunitario in equilibrio. Di conseguenza, le persone che ricevono tali trattamenti spesso sviluppano una malattia autoimmune [6]. Bloccando infatti l’azione delle cellule T reg che consente al tumore di eludere l’attacco dei “soldati” del sistema immunitario, si blocca anche l’azione antinfiammatoria fondamentale di queste cellule in altre parti dell’organismo. Un grande bisogno insoddisfatto è quello quindi di disporre di un tipo di immunoterapia che ha come target da bersagliare solo le cellule T reg “cattive” che si trovano nelle vicinanze del tumore, lasciando intatte e operative le cellule T reg “buone” che si trovano in altre parti dell’organismo e il cui lavoro è appunto essenziale. Per trovare un modo per individuare le cellule T reg indesiderate, Lim e i colleghi hanno utilizzato topi che avevano un tipo di tumore chiamato melanoma. Gli studiosi hanno confrontato i profili di espressione genica delle cellule T reg prelevate in un’area vicina al tumore dei topi con quelli prelevati da altre parti dell’organismo dell’animale. Solo le cellule T reg associate al tumore esprimono geni la cui espressione è controllata da un gruppo di fattori di trascrizione chiamati Steroli regolamentazione proteine elemento legante (SREBPs). Queste proteine guidano l’espressione di geni che codificano per enzimi che producono lipidi [7], come acidi grassi e colesterolo [8], necessari per processi che includono la segnalazione cellulare e la costruzione delle membrane cellulari. Per verificare se questa firma trascrizionale che produ-


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ce lipidi è funzionalmente importante, Lim e il suo team di ricerca hanno utilizzato topi geneticamente modificati in cui il percorso di espressione genica mediato da SREBP [9] è stato disattivato specificamente nelle cellule T reg. Gli autori dello studio hanno monitorato la crescita delle cellule tumorali - melanoma e anche adenocarcinoma del colon - trapiantate sotto la pelle degli animali e hanno scoperto che questa interruzione di SREBP ha portato a risposte immunitarie antitumorali molto più efficaci nelle due forme di cancro rispetto a quelle che si sono verificate negli animali che avevano SREBP funzionanti. La buona notizia è che i topi che non hanno ricevuto trapianti di tumore, ma che sono stati privati lo stesso dell’espressione genica mediata da SREBP, non hanno mostrato segni di malattia autoimmune. Ciò indica che le cellule T reg esterne all’ambiente tumorale funzionavano normalmente senza quindi aver bisogno dell’espressione genica mediata da SREBP. Anche quando questi animali sono stati manipolati per sviluppare una malattia del cervello autoimmune, simile alla sclerosi multipla umana, avevano lo stesso livello di gravità della malattia così come i topi con cellule T reg normali. Si tratta di un’ulteriore conferma di quanto l’approccio mirato a SREBP possa essere promettente per contrastare il tumore senza causare effetti indesiderati. Il risultato dello studio americano, infatti, dimostra che l’espressione genica mediata da SREBP è necessaria per le cellule T reg nell’ambiente tumorale, ma può essere superflua per altre cellule T reg. Il blocco del percorso SREBP ha anche scatenato una potente ri-

sposta antitumorale nei topi con melanoma trattati con un tipo di immunoterapia chiamata anti-PD-1. In questi casi il trattamento anti-PD-1 da solo sarebbe stato altrimenti inefficace negli animali. Le ricadute cliniche di questa scoperta potrebbero essere importantissime. La terapia anti-PD-1 attualmente funziona solo in circa il 20 per cento dei malati di cancro. Nei casi in cui funziona, la risposta è molto importante e soprattutto durevole nel tempo. Ma ci sono molti altri casi, ad esempio tumori pediatrici, che non rispondono al trattamento anti-PD-1. Ora però gli esperimenti condotti nello studio americano hanno dimostrato che il blocco di una specifica via lipidica ha avuto un effetto notevole nel sensibilizzare i topi alla terapia. Secondo gli studiosi, anche se si ha davanti ancora un lungo percorso di ricerca, i loro risultati suggeriscono che se è possibile sviluppare farmaci per controllare questo specifico percorso delle cellule T regolatorie “cattive” nei pazienti affetti da cancro, allora è possibile renderli ancora più reattivi alle terapie anti-PD-1. Nel corso dello studio i ricercatori americani si sono anche chiesti perché la produzione di lipidi mediata da SREBP è necessaria per le cellule T reg associate al cancro. Secondo gli autori dello studio, i tumori estraggono i lipidi dall’ambiente circostante e usano queste molecole per poter disporre dell’energia necessaria e per alimentare la loro crescita [10] . In teoria, la scarsità di lipidi intorno ai tumori potrebbe significare che le cellule T reg associate al tumore devono produrre i propri lipidi. Ma secondo i ricercatori del St Jude Children’s Research Hospital c’è

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di più della sola necessità per gli SREBP di favorire la proliferazione cellulare e il fabbisogno energetico delle cellule T reg. Lim e e il suo team di ricerca hanno identificato due ruoli chiave di SREBP. In primo luogo, gli studiosi hanno mostrato che le cellule T reg del tumore hanno bisogno di SREBP per generare l’acido grasso sintasi, un enzima coinvolto nella sintesi di acidi grassi. Se questo enzima non è presente, le cellule T reg del tumore non diventano completamente mature e perdono in questo modo d’efficacia. Inoltre, con SREPB non funzionante le cellule mostrano una ridotta capacità di attenuare la risposta immunitaria rispetto alle cellule T reg che hanno questo enzima. In secondo luogo, Lim e i suoi colleghi hanno dimostrato che, affinché le cellule T reg svolgano il loro solito ruolo antinfiammatorio nell’ambiente tumorale, esse devono fare affidamento su quella che viene chiamata via del mevalonato. Questo percorso dipendente da SREBP produce colesterolo, così come altre molecole, tra cui geranilgeranil pirofosfato (GGPP). GGPP si lega alle proteineattraverso un processo chiamato prenilazione [11]. L’aggiunta di GGPP modifica le proprietà chimiche della proteina bersaglio, più o meno allo stesso modo in cui altri tipi di modifica delle proteine, come la fosforilazione e l’acetilazione, alterano la proteina modificata. I ricercatori del St Jude Children’s Research Hospital hanno anche fornito evidenze che collegano la produzione di GGPP attraverso il percorso del mevalonato all’espressione di un gene che codifica per una proteina immunosoppressiva chiamata PD-1. La proteina prenilata presumibilmente richiesta per l’espressione di PD-1 è sconosciuta; tuttavia, gli autori dimostrano che, senza GGPP, le cellule T reg del tumore non sovraregolano il gene codificante PD-1. Essi mostrano che PD-1 è necessaria per “stabilizzare” le cellule T reg del tumore: il trattamento dei topi con tumore con un anticorpo che blocca la funzione di PD-1 conduce all’espressione di geni normalmente non associati alle cellule T reg, come un gene che codifica per la proteina pro-infiammatoria interferone-γ [12]. Le cellule T reg che producono interferone-γ non possono proteggere un tumore dall’attacco del sistema immunitario [13]. Il fatto che una popolazione di cellule T reg trovata nel 82 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

contesto del cancro sia metabolicamente vulnerabile è una rivelazione che ha implicazioni molto profonde. Potrebbe indicare, ad esempio, la strada verso lo sviluppo di immunoterapie meno tossiche in grado di bersagliare selettivamente le cellule T reg “danneggiate”, risparmiando quindi quelle necessarie per i buon funzionamento dell’organismo. Con centinaia di studi clinici attualmente in corso che stanno esaminando come si potrebbero potenziare le risposte immunitarie contro il tumore, i tentativi di destabilizzare le cellule T reg del tumore attraverso i pathway evidenziati da Lim e i suoi colleghi saranno senza dubbio di interesse. Attualmente farmaci che inibiscono specificamente la via del mevalonato sono già in uso clinico per combattere una serie di disturbi cardiovascolari. Ad esempio, le statine sono una classe di farmaci in grado di abbassare il colesterolo che viene utilizzata da milioni di persone già dagli anni ‘80. Non a caso ci sono dati che indicano che la mortalità è inferiore nelle persone con tumori che assumono statine. Questo dato è stato osservato in molte forme di neoplasie, tra cui il mieloma multiplo [14], il cancro esofageo [15] e il cancro del pancreas [16]. L’idea di interrompere la via del mevalonato come modo di trattare il cancro sta ottenendo sempre più consensi perché è stato osservato che, rispetto alle cellule normali, alcune cellule tumorali hanno una maggior bisogno di molecole generate a valle di questa via [17]. Secondo i ricercatori americani, è affascinante ipotizzare che le cellule T reg cellule potrebbero aver contribuito a queste prime osservazioni cliniche. Forse gli inibitori della via del mevalonato o gli inibitori della prenilazione mediata da GGPP giocheranno un ruolo nelle future terapie antitumorali. Il ruolo chiave dell’acido grasso sintasi nella funzione delle cellule T reg del tumore è una scoperta interessante, secondo gli autori dello studio, dato che altre ricerche [18] indicano che l’inibizione dell’enzima acetil-CoA carbossilasi 1 (che funziona a monte dell’acido grasso sintasi nella stessa pathway) aumenta la formazione e la funzione delle cellule T reg nello stesso modello murino di malattia cerebrale autoimmune utilizzato da Lim e dal suo team di ricerca. Questi risultati suggeriscono che gli effetti dell’inibizione della funzione delle cellule T reg, attraverso l’interruzione dell’acido grasso sintasi dipendente da SREBP, dipendono dal contesto. Al di fuori dell’ambiente tumorale, l’interruzione dell’acido grasso sintasi non ha avuto alcun


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effetto, mentre l’inibizione dell’acetil-CoA carbossilasi 1 ha effettivamente conferito benefici alle cellule T reg [18]. Lo studio di Lim e colleghi ha implicazioni che vanno ben oltre il trattamento del cancro. Una rara malattia autoinfiammatoria chiamata deficit di mevalonato chinasi (MKD) è causata da una mutazione nel gene, appunto MKD, che codifica per l’enzima mevalonato chinasi, che agisce nella via del mevalonato. Nei pazienti, entrambe le copie del gene MVK sono danneggiate, comportando un’insufficienza dell’attività dell’enzima mevalonato chinasi. Ciò causa un accumulo di acido mevalonico che compare nelle urine durante gli attacchi di febbre. Da un punto di vista clinico, il risultato è febbre ricorrente. Peggiore è la mutazione del gene MK, più grave, tende a essere la malattia. Le persone gravemente colpite possono quindi sviluppare attacchi di febbre anche molto gravi, ritardo nello sviluppo, riduzione della vista e danni ai reni. In molte persone colpite, un componente del sangue, l’immunoglobulina D (IgD), è elevato, dando origine al nome alternativo di “sindrome da iper IgD e febbre periodica”. Si ritiene che la malattia sia causata da una prenilazione proteica difettosa, ma la mancanza di una chiara comprensione meccanicistica della causa sottostante a essa ha ostacolato gli sforzi per sviluppare un trattamento efficace [19]. Le scoperte di Lim e del suo team di ricerca sollevano anche la questione se PD-1 o le cellule T reg possano essere collegate a questa malattia. Questa possibilità giustifica, secondo gli autori dello studio, ulteriori indagini. La ricerca di Lim e dei suoi colleghi, inoltre, rafforza la necessità di comprendere la relazione tra i pathway metabolici e la regolazione della funzione del sistema immunitario. Come mostra questo lavoro, tali intuizioni potrebbero essere fondamentali negli attuali sforzi per curare il cancro. (V. A.).

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L’impatto sulla mortalità dell’esame clinico al seno Uno studio su migliaia di donne indiane pesa il ruolo dell’analisi effettuata da specialisti sulle pratiche di prevenzione del tumore alla mammella

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n recente studio prospettico, randomizzato e controllato, basato su alcuni cluster di popolazione indiana osservati nella città di Mumbai, ha valutato gli effetti dello screening tramite esame clinico sull’incidenza e sulla mortalità del cancro al seno, con un follow-up di venti anni. La ricerca, coordinata da un team di ricercatori del Tata Memorial Centre e dell’Homi Bhabha National Institute di Mumbai, di cui fa parte il professore emerito Indraneel Mittra, è stata pubblicata a fine febbraio sulla rivista “BMJ” [1]. L’obiettivo primario dello studio era testare l’efficacia dello screening mediante esame clinico della mammella l’osservazione e la palpazione accurata di entrambe le mammelle effettuate da specialisti - rispetto sia alla possibilità di fronteggiare il carcinoma mammario in dimensioni ridotte fin dalle fasi di diagnosi, sia nell’impatto sulla mortalità per malattia, soprattutto rispetto a gruppi di pazienti con patologia analoga ma in assenza dello screening specifico. Lo studio di Indraneel Mittra e colleghi si è basato su 20 cluster geograficamente distinti, situati tutti nella popolosa città di Mumbai, in India, e che sono stati assegnati in modo casuale alle attività di screening (10 cluster) e di controllo (10 cluster). La ricerca ha tenuto conto dei dati raccolti in un periodo di osservazione di 20 anni, relativi a una popolazione di oltre 151.000 donne (nello specifico, 151.538 donne di età compresa tra 35 e 64 anni che al basale non avessero già una storia di cancro al seno). Le donne osservate nel gruppo di screening sono state sottoposte a quattro cicli di esame clinico della mammella condotti da operatori sanitari di base qualificati ogni due anni, con annesse le informazioni utili a una maggiore consapevolezza sul tumore. Questi primi interventi sono stati seguiti da cinque cicli di sorveglianza attiva ogni due anni. Le donne osservate nel gruppo di controllo hanno, invece, ricevuto un primo ciclo di informazioni per la consapevolezza sul tumore, seguito da otto cicli di sorveglianza attiva ogni due anni.

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L’aderenza media della popolazione allo screening dopo quattro cicli è stata del 67,07% e l’adesione media al rinvio in ospedale per l’eventuale conferma della diagnosi è stata del 76,21%. L’aderenza media ai cicli (dal quinto al nono) della sorveglianza attiva dopo lo screening con esame clinico è stata del 77,57%, un valore simile a quello rilevato nel gruppo di controllo. Dei 641 tumori rilevati complessivamente nel gruppo di screening, 199 (pari al 31%) sono stati rilevati durante i quattro cicli di esame e 442 (pari al 69%) sono stati rilevati durante la successiva sorveglianza attiva. L’aderenza nel gruppo di controllo al primo e unico intervento informativo per la consapevolezza è stata del 90,88%; l’aderenza media ai successivi otto cicli di sorveglianza attiva è stata del 78,14%. Al termine dell’attività di sorveglianza, in questo secondo gruppo sono stati registrati 655 casi di cancro al seno. La costanza nella partecipazione alle attività di screening si è rivelata un fattore fondamentale: i ricercatori spiegano, infatti, di aver riscontrato una riduzione della mortalità del 34% tra le donne al di sotto dei 50 anni che avevano partecipato a tutti i cicli di screening. Uno dei punti di forza dello studio segnalati dagli stessi autori sta nella progettazione della ricerca: si tratta, spiegano, di uno “studio autoctono”, progettato e implementato da un team di studiosi con base operativa a Mumbai e che, dunque, avevano una piena comprensione delle realtà sociali, geopolitiche e geografiche del contesto, indicatori che sempre influenzano la conduzione di un’analisi collegata alla salute pubblica, in particolar modo nelle aree disagiate. Lo studio è stato condotto in zone estremamente povere, abitate soprattutto da donne in condizione di difficoltà economica: sono stati i medici e gli assistenti sociali a raggiungerle per effettuare gli screening programmati. Il risultato principale ha confermato che l’esame clinico del seno condotto ogni due anni dagli operatori sanitari può ridurre del 15% - una misura ritenuta tuttavia non significativa - la mortalità per cancro al seno. La riduzione assume, invece, valori decisamente più importanti, pari


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Il grafico sulla mortalità per cancro al seno durante i 20 anni di studio, dalla ricerca di Mittra I, Mishra GA, Dikshit RP, Gupta S, Kulkarni VY, Shaikh HKA et al.

al 30%, quando l’osservazione si focalizza sulle donne ultracinquantenni. Ancora come dato generale, il gruppo di ricercatori spiega di non aver osservato alcuna riduzione significativa della mortalità nelle donne di età inferiore ai 50 anni. Il cancro al seno è stato rilevato in fase precoce ad un’età media di 55,18 anni nel gruppo di screening rispetto al gruppo di controllo (dove l’età media di rilevazione è stata a 56,50). Questa differenza, spiegano gli autori, segnalava che lo screening aveva anticipato la diagnosi di cancro al seno di 16 mesi, così come che il cancro al seno è stato diagnosticato prevalentemente nelle donne anziane o nelle donne più giovani dopo aver raggiunto i 50 anni. Come previsto dagli autori della ricerca, dunque, è stata osservata una maggiore incidenza di cancro al seno nel gruppo di screening rispetto al gruppo di controllo, ma questa differenza si è poi ridotta gradualmente a partire dal periodo che coincideva con l’avvio della sorveglianza, per scomparire completamente al termine del tempo di osservazione. Al momento del reclutamento nella ricerca di Indraneel Mittra e colleghi, oltre il 70% delle donne sia nel braccio di screening che in quello di controllo ave-

va meno di 50 anni, mentre al momento della diagnosi di cancro al seno questa proporzione era invertita con quasi il 75% delle donne di età pari o superiore a 50 anni in entrambi i bracci. Una parte dell’osservazione ha inoltre permesso agli autori di fare alcune riflessioni sul contesto in cui l’indagine è stata sviluppata, per tirare così alcune conclusioni di portata più squisitamente sociale. È nei Paesi a basso medio reddito che, segnalano gli studiosi, l’esame clinico del seno dovrebbe essere preso in considerazione per le campagne di screening e le politiche attive di prevenzione. L’incidenza del cancro al seno, del resto, è in aumento in tutti i Paesi del mondo, ma in particolare in quelli a basso e medio reddito [2]. Tra le donne, il cancro è la seconda causa di morte nel mondo, così come nelle Americhe, in Europa e nelle regioni del Pacifico occidentale. È la terza causa di morte nel Mediterraneo orientale, la quarta nel sud-est asiatico e la sesta in Africa [3]. Nel 2012, per esempio, sono stati registrati 6,7 milioni di nuovi casi di cancro e 3,5 milioni di decessi tra le donne in tutto il mondo: di questi, il 56% dei casi e il 64% dei decessi si sono verificati nei Paesi meno sviluppati. Le previsioni parlano di un aumento dei casi nel mondo a 9,9 milioni, con 5,5 milioni di decessi ogni anno entro il 2030. Dati, questi ultimi, collegati anche alle stime di crescita e invecchiamento della popolazione. In India, territorio di riferimento della ricerca, il tasso di incidenza standardizzato per età del cancro al seno è aumentato del 40,7% tra il 1990 e il 2016. In quella regione, questo tipo di tumore è la principale causa di morte per cancro nelle donne nella maggior parte degli stati [4]. C’è un tema fondamentale legato allo sviluppo della malattia ed è quello della diagnosi precoce. In generale, il carico del cancro tra le donne potrebbe essere sostanzialmente ridotto sia nei Paesi ad alto reddito che in quelli a reddito medio-basso attraverso l’implementazione di diversi interventi efficaci, tra cui il controllo dell’uso del tabacco, la vaccinazione HPV e HBV e, naturalmente, lo screening [5]. I tumori al seno nei Paesi a basso e medio reddito sono frequentemente rilevati in fasi avanzate e, di conseguenza, più della metà delle morti globali per cancro al seno si verifica in aree meno sviluppate. La mammografia è ormai uno strumento di screening riconosciuto e consolidato nella pratica in tutti i Paesi sviluppati. Ma in aeree del mondo meno ricche e con sistemi sanitari meno solidi, non è facile individuare la modalità di screening standard su cui fare affidamento. L’autopalpazione può essere una pratica importante da sostenere ai fini della prevenzione diffusa, ma non è detto che le donne la eseguano sempre in modo corretto [6]. Ad oggi la maggior parte degli studi sull’efficacia dell’autopalpazione della mammella è stata di tipo osservativo: queIl Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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ste ricerche hanno suggerito che le donne che la praticano hanno maggiori probabilità di scoprire il tumore al seno, e che il tumore tende ad essere più piccolo e che per queste donne si profila una maggiore sopravvivenza [7]. Di contro, la mammografia, esame ampiamente utilizzato nei Paesi occidentali, potrebbe non essere un approccio appropriato nei Paesi a basso e medio reddito a causa del suo costo e della sua complessità. Senza contare che la maggior parte delle donne residenti nelle zone del Pianeta meno sviluppate ha meno di 50 anni e la mammografia è meno efficace in questa fascia di età. Per comprendere gli effetti delle attività di prevenzione, la letteratura fornisce alcuni dati indicativi. Negli Stati Uniti la mortalità per cancro al seno è diminuita del 24% sostanzialmente in un periodo breve, tra il 1990 e il 2000. Nel 2005 una stima del Cancer Intervention and Surveillance and Modeling Network (CISNET), supportata dal National Cancer Institute statunitense, aveva evidenziato come circa il 46% della diminuzione osservata potesse essere attribuita allo screening. Uno studio norvegese del 2010 [8], invece, aveva indicato nel 10% il contributo della mammografia alla diminuzione della mortalità in Norvegia, con una quota del 28% attribuita a un effetto del tempo, come risultato dell’azione complementare di consapevolezza, miglioramento della terapia e uso di strumenti diagnostici più sensibili, fattori che stavano agendo contemporaneamente all’implementazione dello screening mammografico [9]. Nell’Africa Sub Sahariana, la prevenzione e il controllo del cancro al seno sono un problema di salute pubblica sempre più critico. Il cancro al seno è il tumore femminile più frequente in quell’area del Pianeta e i tassi di mortalità sono i più alti a livello globale. Ma è altrettanto vero che a lungo 86 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

il cancro al seno è stato considerato una malattia dei Paesi ricchi ed è in questi contesti che sono stati sviluppati e implementati programmi per la diagnosi precoce. Nell’Africa Sub Sahariana, i programmi di screening per il cancro al seno sono stati meno efficaci, probabilmente proprio per il contesto profondamente diverso in cui sono stati applicati i programmi, a partire dall’età della popolazione, decisamente più giovane in Africa. Il contesto socio-economico generale, inoltre, non permette un’azione tempestiva dopo la diagnosi: molte donne presentano uno stadio avanzato della malattia, e poiché le opzioni di trattamento sono limitate, hanno prognosi sfavorevoli. [10]. Nel 1997 uno studio valutò l’efficacia dello screening del cancro al seno avviato a New York nel dicembre 1963 su donne di età compresa tra 40 e 64 anni. All’epoca la mammografia era nelle sue prime fasi di sviluppo e un numero elevato di tumori al seno fu rilevato dalla pratica dell’esame clinico della mammella. A circa 18 anni dal reclutamento, tra le donne di età compresa tra i 40 e i 49 anni e tra i 50 e i 59 anni nel gruppo di studio a cui erano state fornite sia la mammografia sia l’esame clinico fu registrata una mortalità per cancro al seno inferiore di circa il 25% [11]. Per valutare il contributo della mammografia e dell’esame clinico alla riduzione della mortalità per cancro al seno, all’inizio degli anni ’80 fu avviato il Canadian National Breast Screening Study. Le donne osservate, tutte di età compresa tra i 50 e i 59 anni, furono assegnate in modo casuale a due gruppi di studio: per il primo era stato previsto un esame clinico alla mammella ogni anno, al secondo era stata assegnata anche la mammografia. L’obiettivo dell’indagine era determinare se la mammografia fornisse un vantaggio aggiuntivo in termini di riduzione della mortalità: dopo 13


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anni di follow-up e cinque cicli di screening, i decessi per cancro al seno nei due gruppi risultarono quasi identici. L’effetto vantaggioso dello screening mammario sulla mortalità per cancro al seno, dice uno studio svedese del 2002, persiste dopo un follow-up a lungo termine. La riduzione è stata registrata come maggiore nelle donne di età compresa tra i 60 e i 69 anni all’ingresso nell’indagine; mentre restringendo le fasce di età a cinque anni, effetti statisticamente significativi sono stati registrati nei gruppi di età 55-59, 6064 e 65-69 anni [12]. Alcuni di questi studi sono stati presi in considerazione del gruppo di Mittra per avviare la progettazione della ricerca e definire meglio gli obiettivi dell’indagine. Al termine del percorso è stato possibile affermare che l’esame clinico alla mammella ha portato a una significativa riduzione dello stadio del cancro al seno individuato in tutte le donne. Alla fine dello screening, i ricercatori hanno individuato 198 donne con cancro al seno nel braccio dello screening e 151 nel braccio di controllo. Ma dopo un follow-up mediano di 18 anni, i bracci di screening e di controllo presentavano rispettivamente 640 e 655 casi di cancro al seno. Sono invece stati registrati 213 decessi per cancro al seno nel braccio di screening e 251 decessi nel braccio di controllo: il dato ha permesso di valutare come “non significativa” la riduzione della mortalità del 15% quando sono state considerate donne di tutte le età. Tra le donne di età inferiore ai 50 anni, 149 decessi per cancro al seno sono stati registrati nel braccio di screening e 158 decessi nel braccio di controllo; tra le donne di età pari o superiore a 50 anni, 64 decessi per cancro al seno sono stati registrati nel braccio di screening e 93 decessi nel braccio di controllo. Quando i dati sulla mortalità per cancro al seno sono stati analizzati sulla base della partecipazione al numero di cicli di screening clinici, il team ha scoperto che anche le donne di età inferiore ai 50 anni che hanno partecipato a tutti i cicli di controllo ne hanno beneficiato in modo significativo in termini di riduzione della mortalità, ma questo vantaggio non esisteva se le donne partecipavano solo a tre turni di esame. Le donne di età pari o superiore a 50 anni, invece, hanno ottenuto benefici sia con tre cicli sia con quattro cicli di screening. In generale, tra i risultati più significativi segnalati dagli autori vi è proprio la constatazione che l’esame clinico biennale alla mammella eseguito da operatori sanitari qualificati ha anticipato in modo significativo la diagnosi di cancro al seno e ha anche abbassato la portata della malattia con un minor numero di tumori di stadio III o IV nelle donne sottoposte a screening.

Quasi sempre nella vicenda clinica delle donne con una storia di tumore al seno un trattamento tempestivo può contribuire a migliorare la qualità della vita, prevenendo la malattia in stadio avanzato e finanche la recidiva locale. (S. L.).

Bibliografia [1] Mittra I, Mishra G A, Dikshit R P, Gupta S, Kulkarni V Y, Shaikh H K A et al. Effect of screening by clinical breast examination on breast cancer incidence and mortality after 20 years: prospective, cluster randomised controlled trial in Mumbai BMJ 2021; 372:n256 doi:10.1136/bmj.n256 [2] International Agency for Research on Cancer. CI5 plus-cancer incidence in five continents time trends. 2018. https://ci5. iarc.fr/CI5plus/default.aspx [3] Torre LA, Islami F, Siegel RL, Ward EM, Jemal A. Global cancer in women: burden and trends. Cancer Epidemiol Biomarkers Prev 2017; 26:444-57. doi:10.1158/1055-9965.EPI16-0858 pmid:28223433 [4] Dhillon PK, Mathur P, Nandakumar A, India State-Level Disease Burden Initiative Cancer Collaborators. The burden of cancers and their variations across the states of India: the Global Burden of Disease Study 1990-2016. Lancet Oncol 2018; 19:1289-306. doi:10.1016/S1470-2045(18)30447-9 pmid:30219626 [5] Bray F, Ferlay J, Soerjomataram I, Siegel RL, Torre LA, Jemal A. Global cancer statistics 2018: GLOBOCAN estimates of incidence and mortality worldwide for 36 cancers in 185 countries. CA Cancer J Clin2018; 68:394-424. doi:10.3322/ caac.21492. pmid:30207593 [6] Thomas DB, Gao DL, Ray RM, et al. Randomized trial of breast self-examination in Shanghai: final results. J Natl Cancer Inst 2002; 94:1445-57. doi:10.1093/jnci/94.19.1445 pmid:12359854 [7] Hackshaw AK, Paul EA. Breast self-examination and death from breast cancer: a meta-analysis. Br J Cancer 2003; 88:1047-53. doi:10.1038/sj.bjc.6600847 pmid:12671703 [8] Kalager M, Zelen M, Langmark F, Adami HO, Effect of screening mammography on breast-cancer mortality in Norway. N Engl J Med. 2010; 363: 1203-1210 [9] Harford JB. Breast-cancer early detection in low-income and middle-income countries: do what you can versus one size fits all. Lancet Oncol 2011; 12:306-12. doi:10.1016/S14702045(10)70273-4 pmid:21376292 [10] Black E, Richmond R. Improving early detection of breast cancer in sub-Saharan Africa: why mammography may not be the way forward. Global Health 2019; 15:3. doi:10.1186/ s12992-018-0446-6 pmid:30621753 [11] Shapiro S. Periodic screening for breast cancer: the HIP Randomized Controlled Trial. Health Insurance Plan. J Natl Cancer Inst Monogr1997;22:27-30. doi:10.1093/jncimono/1997.22.27 pmid:9709271 [S] Nyström L, Andersson I, Bjurstam N, Frisell J, Nordenskjöld B, Rutqvist LE. Long-term effects of mammography screening: updated overview of the Swedish randomised trials. Lancet2002;359:909-19. doi:10.1016/S0140-6736(02)08020-0 pmid:11918907

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Anticorpi anti-spike in soggetti, con e senza pregressa infezione da Sars-CoV-2, sottoposti al vaccino a mRNA (Pfizer-Biontech) Un dosaggio immunologico chemiluminescente a cattura di micro particelle è stato utilizzato per rilevare gli anticorpi di classe IgG diretti contro la proteina nucleocapside (N) e contro la proteina spike del SARS-CoV-2

di Ciro Esposito*, Matilde Bile*, Annalisa Esposito*, Roberta Brugnone*, Concetta Esposito*, Antonella Mazzotti*, Luciano Minieri*, Stefania Fasano**, Marco Varelli**, Antonio Monti**, Martina Cipollaro**, Emanuele De Vita**

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3 soggetti (47 senza pregressa infezione da SARS-CoV-2 ovvero sieronegativi); (26 con pregressa infezione da SARS-CoV2 ovvero sieropositivi), afferenti da diversi settori lavorativi (personale sanitario, fattorini, personale amministrativo), sono stati sottoposti a vaccinazione Pfizer. Un dosaggio immunologico chemiluminescente a cattura di micro particelle, è stato utilizzato per rilevare gli anticorpi di classe IgG diretti contro la proteina nucleocapside (N) e contro la proteina spike del SARS-CoV-2 nel siero a distanza di 7-10 gg dalla somministrazione sia della I che della II dose del vaccino. Nei soggetti esposti al virus prima della vaccinazione, si è osservato un elevato titolo di anticorpi anti-spike già a una settimana dalla I dose del vaccino (media 27174,54), titolo rimasto, praticamente, invariato al controllo dopo una settimana dalla II dose (media 30941,50). Viceversa, nei soggetti non esposti al virus nativo, a una settimana dalla I dose di vaccino (media 1014,21), si è osservato un basso titolo anticorpale che solo dopo la II dose di vaccino (media 25074,11), è diventato sovrapponibile a quello dei soggetti esposti al virus. Questi risultati suggeriscono che una singola dose di vaccino a mRNA (Pfizer) induce risposte immunitarie molto rapide in soggetti sieropositivi,

* Patologia Clinica CTO – Azienda Ospedaliera dei Colli - Napoli. ** Istituto Diagnostico Varelli

88 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

con titoli anticorpali post-vaccino paragonabili o superiori a quelli trovati in soggetti sieronegativi che hanno ricevuto due dosi di vaccino. Introduzione A causa dell’inarrestabile diffusione della pandemia da SARS-CoV-2 (severe acute respiratory syndrome coronavirus-2) e alla luce di un futuro plausibilmente caratterizzato da diffusione endemica di SARS-CoV-2 (1), la vaccinazione contro questo nuovo coronavirus è oggi considerata la strategia più efficace per moderare le drammatiche conseguenze sanitarie, sociali ed economiche di COVID-19 (2). Terminata la prima fase della campagna vaccinale, è importante valutare il grado di protezione ottenuto dagli operatori sanitari in seguito alla vaccinazione, attraverso il dosaggio degli anticorpi IgG anti-SARS-CoV-2 e in particolare gli anticorpi neutralizzanti. Il vaccino, infatti, induce il nostro organismo ad attivare un meccanismo di protezione consistente nella produzione di anticorpi specifici (anticorpi neutralizzanti), capaci di evitare l’ingresso nelle nostre cellule del virus responsabile di Covid-19 e di prevenire quindi l’insorgere della malattia. La valutazione diretta dell’attività di neutralizzazione virale richiede infrastrutture, attrezzature specifiche e personale addestrato non sempre reperibili presso la maggior parte dei laboratori diagnostici. Tuttavia, la presenza di anticorpi neutralizzanti è stata messa in correlazione con la presenza nel siero di anticorpi delle immunoglobuline di classe G (IgG), diretti contro il dominio legante il recettore (RDB) della proteina spike del


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SARS-CoV-2. Scopo di questo studio è quello di valutare la risposta immunitaria umorale anti SARS-CoV-2 in soggetti vaccinati, esposti e non al virus.

Materiali e Metodi 73 soggetti (47 senza pregressa infezione da SARSCoV-2 ovvero sieronegativi; 26 con pregressa infezione da SARS-CoV2 ovvero sieropositivi), afferenti da diversi settori lavorativi (personale sanitario, fattorini, personale amministrativo), sono stati sottoposti a vaccinazione Pfizer. Di questi, sono stati raccolti i dati anagrafici e anamnestici riguardanti la eventuale esposizione al virus nativo (tabella 1). Per

Tabella 2. Anticorpi anti-spike in campioni di operatori sieropositivi che hanno ricevuto il vaccino Pfizer.

Tabella 3. Anticorpi anti-spike in campioni di operatori sieronegativi che hanno ricevuto il vaccino Pfizer

Tabella 1. Suddivisione dei campioni per sesso-

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di 7-10 gg. dalla somministrazione sia della I che della II dose di vaccino.

Fig. 1. IgG anti-spike in soggetti vaccinati, con pregressa infezione da SARS-CoV-2.

Fig. 2. IgG anti-spike in soggetti vaccinati, senza pregressa infezione da SARS-CoV-2.

rilevare gli anticorpi di classe IgG nel siero, diretti contro la proteina nucleocapside (N) e contro la proteina spike del SARS-CoV-2, è stato utilizzato un dosaggio immunologico basato sulla tecnologia in chemiluminescenza a cattura di micro particelle (CMIA). Questo dosaggio è in grado di rilevare, in maniera qualitativa e quantitativa, la presenza di anticorpi anti SARS-CoV-2 IgG (compresi gli anticorpi neutralizzanti), diretti contro la proteina N e verso il dominio legante il recettore RDB della proteina spike del SARS-CoV-2. I prelievi di sangue sono stati raccolti a distanza 90 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

Risultati A conferma delle osservazioni in letteratura (3), anche il nostro studio ha evidenziato una differente risposta anticorpale al vaccino tra soggetti esposti e non al SARS-CoV-2 (tabella 2 e 3). Infatti, in quelli esposti al virus prima della vaccinazione, si è osservato un elevato titolo di anticorpi anti-spike già a una settimana dalla I dose del vaccino (media 27174,54), rimasto praticamente invariato al controllo dopo una settimana dalla II dose (media 30941,50) (fig. 1). Viceversa, nei soggetti non esposti al virus nativo, a una settimana dalla I dose di vaccino (media 1014,21), si è osservato un basso titolo anticorpale che solo dopo la II dose di vaccino (media 25074,11), è diventato sovrapponibile a quello dei soggetti esposti al virus (fig. 2). Conclusioni Questo studio evidenzia che una singola dose di vaccino a mRNA (Pfizer) determina una risposta immunitaria molto rapida in soggetti sieropositivi, elicitando un titolo anticorpale post-vaccino paragonabile o superiore a quello ottenuto nei soggetti sieronegativi solo dopo la II dose di vaccino. Pertanto, nei pazienti con diagnosi molecolare di infezione recente SARS-CoV-2, come risulta da studi accreditati, si evince che possa essere sufficiente la somministrazione di una sola dose di vaccino o quantomeno posticipare la somministrazione della II dose.

Bibliografia 1. Shaman J, Galanti M. Will SARS-CoV-2 become endemic? Science 2020;370:527-9. 2. Rubin EJ, Longo DL. SARS-CoV-2 Vaccination - An ounce (actually, much less) of prevention. N Engl J Med 2020;383:2677-8. 3. Florian Krammer, Komal Srivastava, the PARIS team, and Viviana Simon - Robust spike antibody responses and increased reactogenicity in seropositive individuals after a single dose of SARS-CoV-2 mRNA vaccine.


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13 aprile 2021 16 aprile 2021 20 aprile 2021 23 aprile 2021 27 aprile 2021 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Invecchiamento: rischio sarcopenia e stile di vita Studio su un campione di 150 soggetti di età compresa tra 60 e 88 anni

di Teresa Pandolfi e Giovanni Misasi*

L’

invecchiamento è legato, molto spesso, a disturbi fisici e/o psichici e molto frequentemente a comorbilità. La sarcopenia, in particolare, è un fenomeno fisiologico che generalmente inizia attorno ai 50 anni. L’European Working Group on Sarcopenia in Older People (EWGSOP) (Cruz-Jentoft et al., 2010) ha definito la sarcopenia come una sindrome caratterizzata dalla perdita progressiva e generalizzata di massa associata ad un calo della forza muscolare e/o della funzionalità motoria. Abellan van Kan GJ, (2009) ha indagato la prevalenza della sarcopenia nella popolazione tra i 60 -70 anni che si aggira intorno al 5–13%, ma aumenta fino al 11–50% nei soggetti con un età superiore agli 80. La sarcopenia comporta un peggioramento della qualità della vita con una relativa riduzione dell’aspettativa di vita. La sarcopenia può essere accentuata in presenza di malattie croniche, malnutrizione ed inattività fisica oltre ad essere associata ad eventi negativi per lo stato di salute, come il rischio di cadute e fratture. Un fattore che aggrava il processo sarcopenico è l’obesità. L’obesità sarcopenica è una condizione di ridotta massa magra del corpo e un eccesso di adiposità, si riscontra soprattutto negli anziani, poiché sia il rischio che la prevalenza aumentano con l’età. Nell’obesità sarcopenica, la fisiopatologia della sarcopenia e quella dell’obesità sono fortemente interconnesse. L’attività fisica e un’alimentazione corretta e bilanciata prevengono l’insorgenza dell’obesità. Per mantenere la massa muscolare nel corso degli anni, è importante costruire il muscolo da giovani, Comitato tecnico-scientifico della Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere (ASBSF), Cosenza, presidenza@asbsf.it.

*

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mantenerlo nell’età adulta, e cercare di perderne il meno possibile da anziani. L’Associazione Scientifica Biologi Senza Frontiere di Cosenza (ASBSF), che si occupa di ricerca scientifica finalizzata al miglioramento della qualità della vita a tutte le età, ha effettuato uno studio sullo stato di salute, su un campione di età compresa tra 60 e 88 anni, per valutare le abitudini alimentari, lo stile di vita, l’apporto idrico correlati a patologie croniche e al rischio di sarcopenia con l’avanzare dell’età, al fine di promuovere le corrette abitudini migliorare e mantenere un buono stato di salute durante l’ invecchiamento e soprattutto per prevenire la sarcopenia, come processo fisiologico legato all’età. Materiali e metodi Il campione esaminato è costituito da 150 soggetti (68 M, 82 F) di età compresa tra 60-88 anni (età media 70 anni). Lo studio ha l’obiettivo di valutare lo stile di vita e il rischio di sarcopenia correlato allo stato nutrizionale, all’idratazione e alle abitudini alimentari del campione in esame. Sono state rilevate le misurazioni antropometriche, è stata eseguita la bioimpenziometria per la valutazione della composizione corporea e sono stati inoltre intervistati per conoscere le loro abitudini alimentari, eventuali patologie ed altre informazioni utili allo studio. E’ stato eseguito il test del cammino su 4 metri per misurare la velocità del passo. E’ stato utilizzato l’handgrip dynamometer per la misura della forza prensile, con cut-off per la diagnosi di 30 kg per i maschi e 20 kg per le femmine. Il peso corporeo è stato misurato senza scarpe, con abbigliamento minimo utilizzando bilancia digitale con una precisione di 0,1 kg. L’altezza è stata misurata senza scarpe usando lo stadiometro con una precisione di 0,1 cm. La misurazione della circonferenze (vita, polpaccio, coscia, torace) è stata effettuata utilizzando


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un nastro non elastico con una precisione di 0,5 cm. L’indice di massa corporea, definito come peso diviso per il quadrato di altezza (kg/m2), è il metodo più diffuso per la valutazione della massa corporea. Secondo l’OMS si considera: sottopeso (IMC<19), medio (IMC 19-24), sovrappeso (IMC 25-30), obesità (IMC >30). La circonferenza della vita è una misura dell’adiposità addominale utile per identificare chi è a maggior rischio di malattie legate all’obesità (Maffeis et al., 2001a, b; McCarthy, 2006). Valori superiori a 94 cm nell’uomo e a 80 cm nella donna sono indice di obesità viscerale associate ad un rischio moderato (International Diabetes Federation (I.D.F. 2004), valori superiori a 102 cm nell’uomo e a 88 cm nella donna sono associati ad un rischio alto. Il rapporto vita-altezza è un indice di distribuzione del grasso addominale con un fattore predittivo per la sindrome metabolica e il rischio di malattie cardiovascolari, (cut-off 0.5 (McCarthy, Ashwell, 2006; Maffeis et al., 2008). Risultati Valutazione delle misurazioni antropometriche e bioimpenziometriche La valutazione dello status del peso è stata effettuata secondo la seguente legenda – IMC: <16.5 grave magrezza,16-18,49 sottopeso, 18.5-24,99 normopeso, 25-29,99 sovrappeso, 30-34,99 obesità classe I (lieve), 35-39,99 obesità classe II (media), > 40 obesità classe III (grave). Sul campione totale il 17% risulta essere normopeso, il 44% sovrappeso, il 28% stato di obesità di I°, il 9% stato di obesità di II°, 2% stato di obesità di III° (fig. 1). Dei maschi il 5% risulta essere normopeso, il 51% sovrappeso, il 32% stato di obesità di I°, il 10% stato di obesità di II°, il 2% stato di obesità di III°, (fig. 2). Delle femmine il 16% risulta essere normopeso, il 36% sovrappeso, il 19% stato di obesità di I°, il 13% stato di obesità di II°, il 6% stato di obesità di III° (fig. 3). A confronto maschi e femmine si evince che i maschi sono, in percentuale, più in stato di

Fig. 4.

Fig. 5.

sovrappeso e di obesità rispetto alle femmine (fig. 4) Circonferenza vita La valutazione della circonferenza vita del totale del campione, intesa come misura dell’adiposità addominale utile per identificare chi è a maggior rischio di malattie legate all’obesità, è risultata molto più pronunciata nelle femmine con rischio molto alto (>110) per il 10,71% e con rischio alto per 63,5% (100-109), nei maschi risulta un rischio molto alto (>102) per il 3,92% e un rischio alto (100-120) per il 45,09% (fig. 5). La circonferenza vita (CV) è anche un parametro di valutazione del rischio cardiovascolare soprattutto quando supera il limite massimo di 102 per i maschi e 88 per le femmine. Nelle fig. 6 e 7 la circonferenza vita correlata alle patologie in atto, riferite dal campione in esame. Nei maschi con CV>102 (fig. 6) sono state riscontrate patologie croniche come affanno e apnea notturna nel 7%, e molto più frequenti ipertensione nel 39% e nel 47% diabete, frattura femore, omocisteina alta, artrosi, ipercolesterolemia. Nelle femmine con CV>82 (fig. 7) sono state riscontrate

Fig. 1, 2 e 3.

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ciate ad una riduzione del valore dell’ angolo di fase, pertanto rappresenta un importante indice prognostico per monitorare la presenza e l’evoluzione dei processi infiammatori cronici. Valori di normalità sono per i maschi PA>di 6 gradi; per le femmine PA > di 5 gradi. Nel nostro campione il 72,54% dei maschi risulta con un PA< 6, di cui il 31,37% presenta problemi di salute tra cui ipertensione, oltre infarto e frattura del femore (fig. 9). Il 28,57% delle femmine risulta con un PA<5 di cui il 7,14% presenta problemi di salute come disfunzioni tiroidee, affanno, ipertensione, diabete oltre a frattura del femore (fig. 10).

Fig. 6 e 7.

Fig. 8.

patologie croniche come ipercolesterolemia nel 22%, ipertensione nel 45%, diabete nell’11% e problemi tiroidei nel 22% dei soggetti. Rapporto vita/altezza (WHtR) Il rapporto vita altezza (WHtR) inteso come fattore predittivo per la sindrome metabolica e il rischio di malattie cardiovascolari, è risultato del 43,13% > 0,5 nei maschi di cui il 31,37% ad alto rischio con valori compresi tra 0,7–0,9 e del 78,57% nelle femmine di cui il 39,28% ad alto rischio con valori compresi tra 0,7–0,9 (fig.8). Risultati bioimpedenziometrici La bioimpedenziometria è una metodica utilizzata per la determinazione della composizione corporea, si basa sulla misura dell’ impedenza del corpo (“bioimpedenza” o “bioresistenza”) al passaggio di una corrente elettrica a bassa potenza e alta frequenza (50 kHz). L’ impedenza consta di due diverse componenti: la resistenza (determinata dalla conduzione della corrente attraverso i fluidi intra ed extracellulari ) e la reattanza (determinata dalla resistenza delle membrane cellulari). L’angolo di fase, espresso in gradi, è rappresentato dal rapporto tra reattanza e resistenza, ovvero tra volumi intra ed extracellulari. Può essere considerato un buon indicatore dell’integrità cellulare e dello stato nutrizionale giacché lo stato di malnutrizione causa alterazioni sia nell’integrità della membrana cellulare che nell’equilibrio idrico. Condizioni di sarcopenia, infiammazione, malnutrizione, perdita di massa cellulare (BCM) sono asso94 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

Rischio sarcopenia Tutti i soggetti del nostro campione di studio, per la valutazione della sarcopenia, sono stati sottoposti a valutazione BIA, valutazione della forza muscolare (Hand Grip test) e della funzionalità motoria (Gait Speed test). Sono stati adottati i criteri dell’European Working Group on Sarcopenia in Older People (EWGSOP) – 2010 (Cruz-Jentoft et al., 2010) per identificare i soggetti sarcopenici o a rischio di sarcopenia (fig. 13). Per l’indice di massa muscolare scheletrica sono stati adottati i cut-off di 8.87 kg/m2 per i maschi e 6.42 kg/m2 per le femmine (CruzJentoft et al., 2010). Applicando l’algoritmo, come da fig. 13, ai dati rilevati dai test (Hand Grip test, Gait Speed test e BIA) effettuati sul nostro campione di 150 persone, il risultato è di 15 soggetti sarcopenici (9,33% del campione) e 42 (28%) ad alto rischio (fig. 14).

Fig. 9 e 10.

Fig. 11 e 12.


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sete. Nel nostro campione in esame il 76,63% delle persone intervistate dichiara, infatti, di non sentire lo stimolo della sete e bevono un quantitativo di acqua giornaliero ≤ ad 1 lt. Dallo studio si evince inoltre che i soggetti che hanno un angolo di fase maggiore dei limiti soglia, sia maschi che femmine, si idratano di più arrivando anche ai 2lt giornalieri (fig. 15 e 16).

Figura 13. (Cruz-JentoftA J et al. Age Ageing 2010; 39:412-423).

Percezione stato di salute Abbiamo chiesto a ciascuno come considerano il loro stato di salute. Come si evince dal grafico (fig. 17) il 58% definisce il suo stato di salute buono, il 9% molto buona, il 4% ottima ed il 29% cattiva. Conclusioni Dall’analisi del presente studio si deduce l’evidenza di promuovere uno stile di vita corretto e adeguato nelle fasce della popolazione over 60, per prevenire processi infiammatori e patologie croniche non trasmissibili legati all’ invecchiamento, ma anche per ridurre processi già in atto rendendo la qualità della vita migliore. Dall’indagine si deduce che alcuni alimenti, come il pesce e la frutta secca sono poco presenti o addirittura assenti nell’alimentazione, l’ap-

Figura 14.

Abitudini alimentari Sono state valutate le abitudini alimentari del nostro campione e relazionate con l’angolo di fase (PA) come indicatore di processo infiammatorio (Fig. 15). Dall’analisi dei dati si evince che i maschi con PA<6 consumano pochissimo pesce e pochissima o zero frutta secca, il 30.35% mangia pasta a pranzo 7 giorni su 7 e consumano più carne rossa rispetto alla carne bianca, il 43,13% consuma frequentemente formaggi e latticini. Chi ha un PA>6 consuma più pesce, più carne bianca e meno formaggi. Le femmine con PA>5 consumano abitualmente pesce, carne bianca e carne rossa, bevono almeno 1 lt di acqua al giorno (fig. 16). Idratazione L’idratazione è un parametro importante da valutare in ogni fase della vita. Con l’avanzare dell’età il contenuto totale di acqua nell’organismo tende a diminuire, ma questo non vuol dire che bisogna idratarsi di meno. Gli anziani sono più a rischio di disidratazione sia per problemi fisiologici legati all’invecchiamento e sia perché sentono meno lo stimolo della

Figura 15 e 16.

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Bibliografia

Figura 17.

porto idrico è ridotto perché quasi assente lo stimolo della sete, come dichiarato da molti soggetti del campione in esame, la maggior parte svolge una vita molto sedentaria. Dall’esame bioimpedenziometrico si denota che l’angolo di fase, inteso come monitoraggio per i processi infiammatori, tende a diminuire con l’avanzare dell’età, al contrario delle comorbilità che tendono invece ad aumentare, abbinato alla riduzione della massa muscolare, oltre che all’aumento dell’acqua extracellulare, aumenta il rischio di sarcopenia. Si denota inoltre che chi è più attento all’alimentazione, all’idratazione e all’attività fisica, intesa in questo caso come vita attiva, svolta in movimento, camminando molto e contrastando più possibile la sedentarietà, si può invecchiare meglio, anche perché spesso la malnutrizione negli anziani è molto frequente e spesso associata a sarcopenia. Alla domanda sulla percezione del proprio stato di salute, la maggior parte dei soggetti ha risposto che la ritiene buona nonostante i disturbi fisici e/o malesseri, perché ritengono che questi facciano parte dell’età. L’obiettivo del presente studio è quello di prevenire e/o migliorare lo stato di sarcopenia individuando preventivamente i soggetti a rischio, in quanto essendo un processo fisiologico, che compare già a circa 50 anni di età, può diventare con il tempo invalidante, peggiorando la qualità della vita e aumentando il rischio di mortalità. Individuare per tempo i soggetti a rischio, permette di intervenire immediatamente al fine di correggere le abitudini errate del proprio stile di vita per evitare complicanze. Una dieta equilibrata con il giusto apporto di nutrienti, il giusto apporto idrico ed una vita attiva possono non solo aiutare nella prevenzione, ma migliorare le condizioni di salute rallentandone il processo. I nostri studi e le nostre attività di ricerca hanno l’obiettivo del miglioramento e del mantenimento di un buono stato di salute della popolazione e sono rivolte al concetto di longevità, intesa come lunga vita in buona salute. Informazione, prevenzione e correzione di abitudini errate possono ridurre in maniera considerevole le patologie croniche non trasmissibili derivanti da uno stile di vita non corretto, con un conseguente risparmio delle spese sanitarie. La nostra mission è migliorare la qualità della vita partendo dal benessere individuale per arrivare a quello collettivo, con stili di vita corretti e sostenibili in un ambiente sano. 96 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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U.O.C. MICROBIOLOGIA E VIROLOGIA

comitato di studio per la parassitologia

CORSO DI AGGIORNAMENTO PROFESSIONALE

LA DIAGNOSI DELLE PRINCIPALI MALATTIE PARASSITARIE DI INTERESSE UMANO

3-4-10-11 maggio 2021

ECM

Direttore scientifico

Dott.ssa Maria Grazia Coppola Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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Ecm Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 6 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.

Focus sulla citologia urinaria: il Paris System La neoplasia uroteliale vescicale: fattori di rischio e strategie cliniche

di Antonella Pellegrini*

I

n Italia il tumore della vescica è il quarto tumore per frequenza nei maschi, con valori di incidenza più elevati al centro e al sud. Nelle donne la neoplasia è meno frequente, con valori di incidenza inferiori sia al centro che al sud, ed è responsabile del 1% di tutti i tumori femminili. Nella popolazione generale il più importante fattore di rischio per i carcinomi della vescica e delle alte vie escretrici è il fumo di sigaretta. Il secondo fattore di rischio è l’esposizione occupazionale alle amine aromatiche. Numerosi studi hanno inoltre confermato l’associazione tra fattori occupazionali e tumore sia della vescica che delle alte vie escretrici, in particolare negli uomini per la lavorazione di tabacco, produzione di gomma, uso di coloranti e vernici. L’ematuria è il principale, e spesso unico, segno iniziale di malattia osservabile nei pazienti con neoplasia uroteliale vescicale. La stadiazione clinica (classificazione TNM) delle neoplasie vescicali distingue le neoplasie non muscolo invasive (dove la malattia è confinata all’epitelio

Tabella 1. *

Presidente Società Italiana di Citologia (SICi).

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di transizione o alla sottomucosa) dalle neoplasie muscolo invasive (dove c’è invasione o superamento della tonaca muscolare). Il grading istologico tiene conto invece del grado di atipia cellulare: la classificazione istologica WHO/ISUP 2004, poi WHO 2016, distingue le neoplasie uroteliali non invasive in basso grado e alto grado, nel tentativo di migliorarne la riproducibilità diagnostica e di stratificarle in categorie di significato prognostico (Tab.1). Nonostante abbia ottenuto un buon livello di accettazione, neppure questa classificazione è riuscita ad eliminare del tutto la variabilità esistente tra patologi rispetto al grading. Le Linee Guida AIOM del 2019 sui tumori dell’urotelio raccomandano di utilizzare la classificazione WHO 2004-2016, riportando eventualmente nel referto istologico anche il grading della precedente classificazione WHO 1973. Ormai da molti anni si ritiene che la trasformazione neoplastica dell’urotelio segua due distinte vie: una via “iperplastica” e una via “displastica”, come schematicamente semplificato e rappresentato nella Figura 1. La via “iperplastica” è più comune (circa l’80% dei casi): inizia appunto con l’iperplasia dell’urotelio, progredisce a carcinoma uroteliale di basso grado (LGUC), è geneticamente stabile. Questi tumori hanno un elevato rischio di recidiva, ma un comportamento non aggressivo, con un basso rischio di progressione. La via “displastica” è meno frequente e responsabile del 20% circa dei carcinomi uroteliali. Inizia con la displasia dell’urotelio e progredisce verso carcinomi papillari di alto grado oppure, in una minore percentuale, verso carcinomi uroteliali piatti, ovvero il carcinoma in situ, che è comunque per defini-


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nella valutazione clinica dei pazienti a rischio di carcinoma uroteliale e nel monitoraggio di quelli con carcinoma uroteliale, ma spesso il referto citologico è equivoco e induce i clinici a sottovalutarlo, lasciandoli inoltre dubbiosi rispetto alla gestione del paziente. La causa di questa percezione di insufficiente attendibilità va ricercata nellasua scarsa sensibilità per le neoplasie di basso grado e nella mancanza di una terminologia comune tra citopatologi, spesso associata ad una consistente percentuale di referti equivoci e/o atipici. La sensibilità della citologia urinaria per i tumori di basso grado varia tra 21 e 53%. L’impatto clinico di questo limite non è però essenziale, dal momento che questi tumori sono facilmente individuabili con la cistoscopia dagli urologi esperti. Di contro, i citopatologi esperti possono individuare i carcinomi di alto grado, nei campioni adeguati, con un VPP >85 %. La rilevazione di queste ultime lesioni è di particolare beneficio per quei pazienti la cui vescica può apparire endoscopicamente normale o diffusamente alterata in seguito a terapia intravescicale. Pertanto, a dispetto delle apparenti contraddizioni, la citologia urinaria resta il gold standard per la rilevazione del carcinoma uroteliale, in quanto facilmente fruibile, non invasiva, altamente sensibile (tra 50 e 80%) e specifica (tra 26 e 88%) per il carcinoma uroteliale di alto grado. Per quanto riguarda la terminologia, in passato sono state proposte numerose classificazioni per la citologia urinaria; queste però non hanno mai definito specifici criteri morfologici e non hanno mai espresso consenso sulla categoria “atipico” (Fig.2).

zione di alto grado. Questa via è geneticamente instabile ed è associata ad un alto numero di mutazioni addizionali. Anche i carcinomi di alto grado (HGUC) hanno un rischio elevato di recidiva, ma soprattutto un alto rischio di progressione a muscolo invasivi. Di grande importanza è che le anormalità molecolari caratteristiche dei carcinomi di alto grado si escludono reciprocamente con le anormalità molecolari che caratterizzano la via del basso grado “iperplastica”. Questo indicherebbe che le due vie sono completamente separate e, se venisse confermato, avrebbe un rilevante significato clinico, in quanto il carcinoma di basso grado e il carcinoma di alto grado corrisponderebbero a due malattie completamente diverse. Esistono già alcune opinioni che il carcinoma di basso grado originato dalla via iperplastica non dovrebbe neppure essere chiamato carcinoma, in quanto nessun altro tumore nel corpo umano (tranne il carcinoma in situ) viene refertato da un patologo come “carcinoma”, in assenza di invasione. Al di là di queste considerazioni patogenetiche, le neoplasie uroteliali di reale significato clinico sono quelle che hanno la potenzialità di invadere il muscolo, cioè i carcinomi di alto grado. Nel caso di sospetto clinico di neoplasia uroteliale, l’inquadramento diagnostico si basa sull’uso complementare della diagnostica per immagini e/o cistoscopica e della citologia urinaria. Della citologia urinaria si può dire tutto e il contrario di tutto: è un esame molto richiesto dai clinici (sia urologi che MMG) e rappresenta pertanto una percentuale significativa della quotidiana attività di citodiagnostica per molti Fig. 2. Cancer Cytopathology-January 2013. Owens et al. laboratori; svolge un ruolo importante Comparison of Classification Schemes for Urine Cytology and Histologic Classification of Papillary Urothelial Tumors.

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L’idea di elaborare un sistema di refertazione anche per la citologia urinaria è scaturita durante il Congresso dell’Accademia Internazionale di Citologia, a Parigi nel maggio 2013. Il termine “sistema di refertazione” non è casuale, in quanto si basa sui presupposti del Sistema Bethesda per la Refertazione della Citologia Cervicale (prima edizione 1994, edizioni successive 1991, 2001, 2014), che sono stati successivamente applicati anche alla citopatologia di altri organi. L’impegno del Gruppo di lavoro del Paris System, basato sul consenso internazionale, si è concluso nel 2016 con la pubblicazione del libro “The Paris System for Reporting Urinary Cytology” e con il successo di questo cambiamento paradigmatico, enfatizzato nella stessa prefazione con la frase At Last We Have Standardized Terminology for Urinary Cytology! Trattandosi di un “sistema” di refertazione, il Paris System ha cercato di colmare le lacune delle precedenti classificazioni, con lo scopo di definire rigorosi criteri morfologici e standardizzare la terminologia, affrontare il tema dell’adeguatezza del campione, ri-definire i criteri di “atipia”, raggruppare le entità biologicamente assimilabili, migliorare la riproducibilità inter-osservatore e favorire la comunicazione con i clinici. Pertanto è questo il filo conduttore del Paris System e il principio ispiratore delle categorie diagnostiche: • Negativo per Carcinoma Uroteliale di Alto Grado (NHGUC) • Cellule uroteliali atipiche (AUC) • Sospetto per carcinoma uroteliale di alto grado (SHGUC) • Carcinoma uroteliale di alto grado (HGUC) • Neoplasia uroteliale di basso grado (LGUN) Il Paris System, proprio perché sistema di refertazione, fa precedere un giudizio sull’adeguatezza del campione alla valutazione citologica e alla relativa classificazione diagnostica. Il termine “adeguatezza” è inteso esattamente come nel Sistema Bethesda, cioè l’utilità del campione in esame ai fini dell’obiettivo diagnostico: nel caso della citologia urinaria l’obiettivo è individuare il carcinoma di alto grado o le alterazioni citologiche che lo fanno sospettare. È evidente quindi che un campione urinario raccolto in una condizione batterica acuta, costituito solo da cellule infiammatorie, è inadeguato per il suddetto obiettivo, mentre non lo è per rispondere ad un quesito clinico non oncologico. L’adeguatezza è influenzata dalla combinazione di più elementi: il tipo di campione (urine spontanee o strumentali), la cellularità, il volume, e i reperti citomorfologici. Partendo da questi ultimi, il reperto di una qualsiasi atipia rende il campione comunque adeguato, a prescin100 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

Fig. 3. Algoritmo dell’adeguatezza dei campioni urinari Il Paris System per la refertazione della citologia urinaria-Cap.2 M.T. Olson et al.

dere dagli altri elementi, proprio come nel Sistema Bethesda. L’esiguità dei dati in letteratura non ha consentito di formulare un consenso rispetto al tipo di campione, cellularità e volume: pertanto il Gruppo di lavoro del Paris System ha proposto delle raccomandazioni, fondate su un algoritmo di adeguatezza (Fig.3).Lo scopo dell’algoritmo è sostanzialmente “educativo”: trasmettere il messaggio della relazione esistente nel Paris System tra tipo di campione, cellularità e volume; indurre i laboratori a validare propri cut-off per ciascun ramo dell’algoritmo; delineare gli studi futuri necessari per avere una chiara base di evidenza che possa fornire cut-off di consenso riguardo al volume e alla cellularità per ciascun tipo di campione. L’algoritmo non tiene intenzionalmente conto della metodica utilizzata per processare il campione (citocentrifugazione, strato sottile): il Gruppo di lavoro si aspetta infatti che vengano elaborati cut-off dipendenti dal tipo di processazione, come è avvenuto per i criteri di adeguatezza della citologia cervicale. Anche per l’adeguatezza viene segnalata, nel capitolo conclusivo, l’esigenza di definirne meglio i parametri, basandosi sui dati che verranno raccolti ed elaborati in seguito all’auspicabile applicazione della terminologia standardizzata. È importante ricordare l’obiettivo enfatizzato dal


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Paris System: individuare il carcinoma di alto grado ed evidenziare quei casi che rappresentano per il paziente un rischio significativo di malignità. Pertanto, anche in analogia con il Bethesda System, vengono incluse nella categoria negativo tutte quelle entità che non pongono alcun rischio significativo, sulla base degli studi disponibili. La categoria Negativo per Carcinoma Uroteliale di Alto Grado (NHGUC) include tutte le alterazioni morfologiche riconducibili ad una specifica causa, non associata a malignità (es: alterazioni reattive, alterazioni da terapia, calcoli ecc.), e anche quei casi che possono presentare caratteri citologici suggestivi di neoplasia di basso grado, ma che sono negativi per carcinoma di alto grado. L’esperienza e la conoscenza approfondita, sia della variabilità morfologica della popolazione uroteliale normale che dei reperti morfologici non neoplastici che presentano alterazioni benigne, sono fondamentali affinché il citologo possa applicare correttamente questo criterio. Il riconoscimento di tali alterazioni è spesso impegnativo e potrebbe essere in parte facilitato da adeguate notizie cliniche, che purtroppo però sono molto spesso insufficienti. Vediamo brevemente alcune condizioni che, presentando apprezzabili alterazioni cellulari, possono destare dubbi nel citologo, ma che non costituiscono un allarme ai fini del rischio di neoplasia per il paziente. Le cellule uroteliali superficiali (cellule a ombrello), presentano spesso multinucleazione e cromocentri/nucleoli evidenti; mantengono però un basso N/C, in virtù dell’abbondante citoplasma, e devono pertanto essere considerate benigne/reattive. Le cellule uroteliali degli strati più profondi, intermedie e basali, hanno meno citoplasma delle cellule superficiali, ma nuclei sostanzialmente delle stesse dimensioni, il che conferisce loro un più alto N/C: tuttavia la regolarità della membrana nucleare e la distribuzione uniforme della cromatina supportano la loro totale benignità. Anche la presenza di frammenti di tessuto uroteliale benigno, sia nelle urine spontanee che in quelle strumentali, rende spesso ardua la valutazione del campione. Nel primo caso la loro presenza può avere cause molteplici (palpazione addominale, manipolazione prostatica, esplorazione rettale, jogging antecedenti la raccolta del campione, litiasi) o essere in relazione a un processo infiammatorio, mentre nel secondo caso può essere causata da litiasi o essere semplicemente conseguenza della strumentazione stessa. Saranno i dettagli nucleari, qualora rispondenti ai criteri di benignità, a collocare tali campioni citologici nella categoria NHGUC. In questo breve elenco dei quadri morfologici con maggiore difficoltà interpretativa devono essere inclusi anche i processi infettivi, che possono causare alterazioni reattive nell’urotelio. Meritano sicuramente di essere

menzionate le famigerate “decoy cells”, cellule uroteliali infettate dal virus Polyoma, rese famose da Leopold Koss nella seconda edizione del suo testo sacro “Diagnostic Cytology and Its Histopathologic Bases”, assimilandole ai richiami per la caccia alle anatre. L’infezione virale determina infatti, in queste cellule, marcate alterazioni che possono essere misinterpretate come maligne e pongono una questione di diagnosi differenziale con il carcinoma di alto grado. Ultime ma non meno importanti, le alterazioni da terapia (radioterapia, immunoterapia, chemioterapia), che producono nell’urotelio modificazioni rilevanti, ma non sempre facilmente riconducibili alla causa che le ha determinate, soprattutto in assenza di notizie cliniche al riguardo. La valutazione citologica sarà NHGUC, qualora ovviamente non siano presenti altri elementi di atipia o malignità, in quanto i caratteri citologici che definiremmo “anormali” in un soggetto non in terapia sono invece “normali” nel soggetto in terapia. L’introduzione delle categorie Cellule Uroteliali Atipiche e Sospetto per Carcinoma Uroteliale di Alto Grado è basata sulla ragionevole ammissione di quanto è normale che avvenga in morfologia, e cioè che in alcuni casi non può essere formulata una valutazione citologica nettamente definita. La categoria “atipico” è frequentemente criticata, e non solo in citologia urinaria, in quanto mancante di specificità e di riproducibilità; lascia inoltre i clinici più titubanti rispetto al tipo di azione da intraprendere con il paziente. Essa riflette però le reali possibilità e i limiti della diagnostica citologica. Talvolta l’uso della categoria “atipico” viene interpretato come incompetenza del citologo, che non riesce a prendere una decisione definitiva, ma in realtà questo termine corrisponde ad una reale necessità di riempire l’intervallo tra ciò che può essere riconosciuto come chiaramente normale e ciò che può essere riconosciuto come chiaramente anormale, con la conseguente collocazione in categorie nettamente definite. La categoria Cellule Uroteliali Atipiche (AUC) viene proposta dal Paris System come categoria citodiagnostica standardizzata, cioè con una chiara definizione, immagini di riferimento concordate e chiaro significato clinico (possibilità di malignità sottostante). La definizione morfologica di AUC è rigida: cellule uroteliali non superficiali e non degenerate con alterazioni cellulari che soddisfino il criterio maggiore richiesto e un criterio minore. Più dettagliatamente: • Criterio maggiore richiesto: N/C aumentato (>0.5) • Criteri minori (dei quali è richiesto solo uno) Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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• Ipercromasia nucleare • Membrana nucleare irregolare • Cromatina irregolare, grossolana È utile ricordare che i termini ipercromasia nucleare e membrana nucleare irregolare si riferiscono al confronto con le cellule uroteliali superficiali normali. Questa categoria deve essere quindi applicata a campioni che contengono cellule uroteliali con atipia citologica (non architetturale) da lieve a moderata: in altri termini, le alterazioni citologiche devono essere inferiori a quelle richieste per la categoria SHGUC. Sebbene la definizione morfologica si riferisca a cellule non degenerate, la categoria AUC include anche i campioni nei quali, a causa della scarsa preservazione, non sia possibile valutare con certezza il grado di atipia. Di contro, si enfatizza particolarmente che la sola degenerazione cellulare non giustifica un giudizio di AUC, dal momento che la scarsa conservazione cellulare è un riscontro previsto in un campione di urina. Come già detto, le modificazioni reattive associate a calcoli, infezioni, infiammazione, terapia non devono essere valutate come AUC ma rientrano nella definizione di NHGUC. Per dirlo in parole povere, il termine atipia non dovrebbe essere utilizzato semplicemente perché le cellule “non ci piacciono”, in quanto nella maggior parte dei casi, applicando adeguatamente i criteri diagnostici, le alterazioni da noi osservate si adattano senza dubbio meglio alla categoria NHGUC. Quanto più rigidi sono i criteri per la categoria AUC e meno frequentemente essa verrà usata e tanto maggiori saranno il significato clinico e l’utilità per il paziente. C’è da dire però che, per quanto rigorosamente si applichino i criteri suggeriti, questa categoria è a rischio di essere troppo utilizzata e di essere scarsamente riproducibile, come avviene d’altronde per tutte le categorie che esprimono un dubbio, anche se ragionevole. Gli autori del Paris System ne sono consapevoli, ovviamente, e auspicano nel prologo che il monitoraggio tra laboratori non solo ne riduca l’uso, ma possa anche contribuire a perfezionarne i criteri e il significato. La categoria Sospetto per Carcinoma Uroteliale di Alto Grado (SHGUC) è intesa come presenza di cellule uroteliali con atipia severa, ovvero maggiore di AUC, quantitativamente insufficienti per una diagnosi di HGUC. La definizione morfologica di SHGUC è rigida: cellule uroteliali non superficiali e non degenerate con alterazioni cellulari che soddisfino due criteri maggiori e almeno un criterio minore. Più dettagliatamente: • 2 Criteri maggiori richiesti: • N/C aumentato (da 0.5 a 0.7) 102 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

• • • •

Ipercromasia nucleare da moderata a severa Criteri minori (dei quali è richiesto almeno uno) Cromatina irregolare, azzollata Membrana nucleare marcatamente irregolare Applicando le suddette peculiarità, la decisione di assegnare il caso alla categoria SHGUC o HGUC diventa solo una questione quantitativa. Al momento della pubblicazione del Paris System, la mancanza di dati provenienti da studi rivolti al problema numerico impedisce di stabilire una soglia precisa al di sopra della quale si possa passare con sicurezza dal sospetto al positivo. È raccomandato però un cut-off compreso tra 5 e 10 cellule, sulla base del grado di atipie osservate e al livello di esperienza del citologo. Anche il tipo di campione e l’eventuale precedente storia clinica di HGUC possono essere di supporto. Per esempio, nei campioni di urine spontanee (per loro natura meno cellulari di quelli da strumentazione) di pazienti con precedente storia di HGUC, il reperto di un numero di cellule marcatamente atipiche inferiore a 5 può essere sufficiente, anche se raro, per una diagnosi di HGUC. Il punto debole di questa categoria è insito nella sua definizione: infatti la necessità di studi e dati ulteriori, espressa dagli stessi Autori nel prologo, riguarda proprio la migliore collocazione del “sospetto”, per valutare se esso debba restare una categoria a sé stante o essere incluso nella categoria HGUC. Anche per la categoria Carcinoma Uroteliale di Alto Grado (HGUC) il consensus del Paris System ha definito i criteri morfologici: • Cellularità: almeno 5-10 cellule anormali • N/C: 0.7 o maggiore • Ipercromasia nucleare: da moderata a severa • Membrana nucleare: marcatamente irregolare • Cromatina: grossolana, azzollata Altri caratteri citomorfologici rilevanti che possono essere riscontrati sono pleomorfismo e marcata variabilità anche delle dimensioni cellulari, nucleoli evidenti, mitosi, fondo infiammatorio, detriti necrotici. Per quanto riguarda la cellularità, si può fare un discorso analogo a quanto già detto per la categoria SHGUC: il tipo di campione e il livello di dimestichezza del citologo possono agevolare l’assegnazione alla categoria diagnostica. Nel caso di un campione citologico proveniente da strumentazione sarà necessario individuare almeno 10 cellule con le atipie diagnostiche per HGUC, mentre in un campione di urina spontanea (fisiologicamente meno cellulare) potrà essere sufficiente un numero minore di cellule, purché rispondenti ai criteri diagnostici. Una citologia urinaria positiva è clinicamente significativa, pur non potendo distinguere il carcinoma urotelia-


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le di alto grado invasivo da quello non invasivo o dal CIS. Sebbene la stesura del Paris System non perda mai di vista il suo leitmotiv, è stata comunque introdotta una categoria a sé stante per definire le condizioni in cui i caratteri citologici sono tali da poter formulare una diagnosi di Neoplasia Uroteliale di Basso Grado (LGUN). Il Paris System include nella categoria LGUN tutte le neoplasie uroteliali papillari di basso grado. Questa posizione è basata sul consenso generale esistente riguardo all’inopportunità e all’impossibilità di differenziare in citologia i vari tipi di neoplasie uroteliali di basso grado (classificazione WHO/ISUP 2004): resta invece cruciale separare queste entità dal carcinoma di alto grado. La distinzione citologica tra le lesioni di basso grado e l’urotelio normale è estremamente difficile, dal momento che non ci sono apprezzabili atipie citologiche. Pertanto la diagnosi di LGUN per il Paris System deve rispettare i seguenti rigidi criteri morfologici: presenza di aggregati papillari tridimensionali (cioè aggregati di cellule con sovrapposizione nucleare, che formano “papille”), con un asse fibrovascolare comprendente i capillari. Questo criterio deve essere applicato a prescindere dal tipo di campione, cioè sia urine spontanee che strumentali. Qualora i caratteri citologici siano fortemente suggestivi di una neoplasia papillare di basso grado (aggregati tridimensionali e aumentato numero di cellule singole, non superficiali, omogenee), ma non sia palesemente apprezzabile un asse fibrovascolare, la diagnosi citologica dovrebbe essere NHGUC, con un commento suggestivo di LGUN. Quando disponibili, le notizie cliniche riguardanti il reperto cistoscopico e/o istologico dovrebbero essere correlate dal citologo al reperto microscopico, essendo di possibile sostegno alla sua valutazione. In tal caso, sarebbe opportuno esplicitarlo nel referto con una nota. Gli autori del Paris System riconfermano nel prologo che lo scopo principale del loro impegno è stato standardizzare la terminologia per la refertazione della citologia urinaria e che lo scopo finale di quest’ultima è individuare il carcinoma di alto grado. Indicano inoltre i principali temi che dovranno essere ulteriormente studiati e approfonditi, una volta trascorso un significativo periodo di utilizzazione appropriata dei criteri diagnostici. Un tema particolarmente importante è la riproducibilità interosservatore, su cui gli studi sono ancora pochi. Nel 2018 è stato pubblicato lo studio PIRST (Paris Inter-observer Reproducibility Study), che esamina il modo in cui la comunità di laboratorio ha risposto a un sistema di refertazione relativamente nuovo. I partecipanti allo studio hanno mostrato massimo ac-

cordo sulla categoria “negativo” e sulla categoria “lesioni di alto grado”. Come previsto, la riproducibilità interosservatore delle categorie AUC e SHGUC è stata peggiore, dimostrando ancora una volta che l’applicazione dei criteri morfologici, per quanto dettagliati e rigorosi, risente comunque della inevitabile soggettività. Tenuto conto che il criterio diagnostico principale di queste due categorie è la quantificazione del N/C, è evidente che questo sarà un punto da affrontare nella seconda edizione del Paris System. Come è stato dimostrato in precedenza dagli studi sulla riproducibilità delle categorie del Sistema Bethesda per la citologia cervicale, i sistemi diagnostici migliorano se vengono utilizzati su larga scala, con il training, l’esperienza e il tempo. Per quanto riguarda la nostra pratica quotidiana di refertazione della citologia urinaria, riterrei già molto soddisfacente se il Paris System ci avesse fatto capire che i clinici, e i pazienti, non hanno bisogno delle nostre descrizioni morfologiche, seppur erudite, bensì di categorie diagnostiche delle quali conoscono il rischio e le opzioni di management.

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Giornale dei Biologi

Anno IV - N. 3 marzo 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it

Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb Giornale dei Biologi

Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132

Marzo 2021 Anno IV - N. 3

Hanno collaborato: Valentina Arcovio, Matilde Bile, Roberta Brugnone, Barbara Ciardullo, Carla Cimmino, Martina Cipollaro, Rino Dazzo, Emanuela De Vita, Chiara Di Martino, Annalisa Esposito, Ciro Esposito, Concetta Esposito, Domenico Esposito, Stefania Fasano, Felicia Frisi, Elisabetta Gramolini, Sara Lorusso, Biancamaria Mancini, Antonella Mazzotti, Luciano Minieri, Giovanni Misasi, Marco Modugno, Antonio Monti, Emilia Monti, Michelangelo Ottaviano, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo, Teresa Pandolfi, Stefania Papa, Carmen Paradiso, Antonella Pellegrini, Emanuele Rondina, Pasquale Santilio, Pietro Sapia, Giacomo Talignani, Marco Varelli. Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione lunedì 30 marzo 2021.

ITALIA IN FILA PER IL VACCINO

Figliuolo: biologi tra i somministratori Da metà aprile un’arma in più con l’arrivo in Italia delle dosi della Johnson & Johnson www.onb.it

Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it. Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano l’Ordine né la redazione. Immagine di copertina: © faboi/www.shutterstock.com

104 Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021


Contatti

Informazioni per gli iscritti Si informano gli iscritti che gli uffici dell’Ordine Nazionale dei Biologi forniranno informazioni telefoniche di carattere generale nei seguenti orari: dal lunedì al venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00. Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Ordine Nazionale dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@peconb.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

CONSIGLIO DELL’ORDINE NAZIONALE DEI BIOLOGI Vincenzo D’Anna – Presidente E-mail: presidenza@peconb.it

In applicazione delle disposizioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 è possibile recarsi presso le sedi dell’Ordine Nazionale dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

Duilio Lamberti – Consigliere Segretario E-mail: d.lamberti@onb.it

Pietro Miraglia – Vicepresidente E-mail: analisidelta@gmail.com Pietro Sapia – Consigliere Tesoriere E-mail: p.sapia@onb.it

Gennaro Breglia E-mail: g.breglia@onb.it Claudia Dello Iacovo E-mail: c.delloiacovo@onb.it Stefania Papa E-mail: s.papa@onb.it

UFFICIO TELEFONO Centralino Anagrafe e area riservata Ufficio ragioneria Iscrizioni e passaggi Ufficio competenze ed assistenza Quote e cancellazioni Ufficio formazione Ufficio stampa Ufficio abusivismo Ufficio legale Consulenza fiscale Consulenza privacy Consulenza lavoro Ufficio CED Presidenza e Segreteria Organi collegiali

06 57090 200 06 57090 237 - 06 57090 241 06 57090 220 - 06 57090 222 06 57090 210 - 06 57090 223 06 57090 202 06 57090 214 06 57090 216 - 06 57090 217 06 57090 207 - 06 57090 239 06 57090 205 - 06 57090 225 06 57090 288 protocollo@peconb.it consulenzafiscale@onb.it consulenzaprivacy@onb.it consulenzalavoro@onb.it 06 57090 230 - 06 57090 231 06 57090 227 06 57090 229

Franco Scicchitano E-mail: f.scicchitano@onb.it Alberto Spanò E-mail: a.spano@onb.it CONSIGLIO NAZIONALE DEI BIOLOGI Maurizio Durini – Presidente Andrea Iuliano – Vicepresidente Luigi Grillo – Consigliere Tesoriere Stefania Inguscio – Consigliere Segretario Raffaele Aiello Sara Botti Laurie Lynn Carelli Vincenzo Cosimato Giuseppe Crescente Paolo Francesco Davassi Immacolata Di Biase Federico Li Causi Andrea Morello Marco Rufolo Erminio Torresani Il Giornale dei Biologi | Marzo 2021

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In collaborazione con

DELEGAZIONE REGIONALE CAMPANIA E MOLISE

NELLE TERRE DEI FUOCHI APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE PER IL RISANAMENTO AMBIENTALE E LA PREVENZIONE DELLA SALUTE 10 aprile 2021

Dalle ore 9:00 alle 14:00


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