Cosa ha fatto l’Europa Dopo aver informato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 31 dicembre, di una serie di casi simili alla polmonite verificatisi nella città di Wuhan, anche nel resto del mondo inizia a diffondersi il timore di una nuova epidemia. Timore che diventa concreto nelle settimane successive con il violento propagarsi in Cina e in altre zone dell’Asia di un nuovo virus identificato inizialmente con il nome di 2019-nCoV e poi con Sars-CoV-2. Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) inizia a profilare il rischio che il nuovo coronavirus possa raggiungere anche l’Europa; negli aeroporti internazionali vengono attivati infatti i primi controlli. Nel frattempo, a fine gennaio, la Croazia, presidenza di turno del Consiglio Ue, attiva il meccanismo dei dispositivi integrati dell’Unione per la risposta politica alle crisi (IPCR - integrated political crisis response mechanism) predisponendo la condivisione delle informazioni e degli aggiornamenti periodici. Successivamente, il 13 febbraio, una riunione straordinaria del Consiglio “Occupazione, politica sociale, salute e consumatori” Ue stabilisce, fra le altre cose, di rafforzare il sostegno al Comitato per la sicurezza sanitaria e di attivare i meccanismi di finanziamento esistenti per sostenere la preparazione degli Stati membri. Ma siamo ancora in una fase 0 della crisi. Bisognerà aspettare che il 21 febbraio, in Italia, esplodano i casi di nuovo coronavirus perché l’Unione europea inizi a pensare a un approccio concreto. Nel giro di dieci giorni si inizia a valutare l’impatto potenziale dell’epidemia sull’industria in Unione europea e la Commissione sottolinea l’importanza di condividere le informazioni essenziali e di coordinare le misure. Il 2 marzo, di fronte all’aggravarsi della situazione si giunge alla “piena attivazione” degli IPCR per elaborare misure concrete di risposta nei settori più colpiti. Nell’ambito di questo meccanismo si svolgono riunioni per preparare e sviluppare azioni da adottare.
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