Giornale dei Biologi
Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132
Aprile 2021 Anno IV - N. 4
L’ITALIA RIAPRE CON PRUDENZA
Draghi: “Rischio ragionato”. Diminuiscono i contagi e i ricoveri. Accelerano le vaccinazioni monitorando la variante indiana
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L’INDISPENSABILE E STORICO RUOLO DEL
BIOLOGO AMBIENTALE NELLA BOTANICA APPLICATA 12 MAGGIO 2021 ORE 9:30 CORSO TEORICO-PRATICO
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Sommario
Sommario EDITORIALE 3
Biologi e Vaccini di Vincenzo D’Anna
PRIMO PIANO 6 8
Aperture prudenti, ma la guardia rimane alta di Rino Dazzo Covid e malattie renali, la speranza è la teledialisi peritoneale di Emilia Monti
52 26
Tumori: reti oncologiche attive in 17 regioni di Emilia Monti
28
Trapianto di trachea su paziente post-covid di Emilia Monti
10
Qualità e sicurezza alimentare, i garanti della salute e il ruolo del biologo di Stefania Papa
29
Tumori, ecco come si innescano e proliferano di Emilia Monti
15
App e sito nuovo: il cogeaps si rifà il look di Claudia Dello Iacovo
30
Tumori e il mix di molecole immuno-oncologiche di Domenico Esposito
31
Dormire male indebolisce il sistema immunitario di Domenico Esposito
32
Tumore al seno triplo negativo: nuova terapia di Marco Modugno
34
Scoperti marcatori per metastasi al colon di Domenico Esposito
36
Dieta con vegetali contro il rischio ictus di Sara Lorusso
40
Colore degli occhi: affare complesso di Elisabetta Gramolini
42
Parkinson: il laboratorio per la disautonomia di Carmen Paradiso
43
L’importanza del dio Asclepio nell’antichità di Barbara Ciardullo
44
Le fragole e la bellezza della pelle di Emanuele Rondina
48
GAS6: il suo ruolo su stress e capelli di Biancamaria Mancini
50
Acido azelaico e piruvico contro l’acne di Carla Cimmino
72 INTERVISTE 16
18
20
“Casco” per l’insufficienza respiratoria La via italiana contro l’intubazione di Chiara Di Martino Dal mare, molecola per la cura di tumori e malattie degenerative di Chiara Di Martino Adenovirus oncolitici modificati per uccidere le cellule tumorali di Chiara Di Martino
SALUTE 22
Genetica predittiva e medicina di precisione di Daniele Tedeschi
Sommario
BENI CULTURALI 77
I teatri storici delle Marche candidati all’Unesco di Pietro Sapia
78
Le tre “ultime cene” di Oppido Lucano di Rino Dazzo
AMBIENTE 52
Gli spazi blu fanno bene alla salute di Domenico Esposito
54
Un nuovo “oro” in fondo al mare di Giacomo Talignani
82
Padel. Fenomeno per tutti di Antonino Palumbo
56
Emissioni di CO2 da record nonostante il lockdown di Giacomo Talignani
84
Imprese e alimentazione. I “segreti” di Chiappucci di Antonino Palumbo
58
Sos Antartide, un terzo dei ghiacci al collasso di Giacomo Talignani
86
Quinta olimpiade per la “divina” del nuoto di Antonino Palumbo
60
La mappa delle specie ancora da scoprire di Sara Lorusso
87
Un monumento del calcio di nome “Kazu” Miura di Antonino Palumbo
62
Una molecola per aiutare l’ambiente di Gianpaolo Palazzo
88
BREVI
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Una biodiversità tutta da tutelare di Gianpaolo Palazzo
66
Se esistono ancora le mezze stagioni di Michelangelo Ottaviano
68
I colori della primavera dalle piante tintorie di Pasquale Santilio
69
Bioraffinerie urbane per recuperare risorse idriche di Pasquale Santilio
70
72
SPORT
LAVORO 90
Concorsi pubblici per Biologi
SCIENZE 92
La figura del biologo ambientale nella gestione e manutenzione del territorio e nell’ecologia urbana di Giuliano Russini
Lo sviluppo sostenibile parte dalla cucina di Gianpaolo Palazzo
96
I peptidi batterici sulle cellule tumorali potenziali bersagli dell’immunoterapia di Valentina Arcovio
INNOVAZIONE
100 I microbi intestinali aiutano il sistema immunitario dopo un’infezione
La biostampa 3D per creare vasi sanguigni di Pasquale Santilio
73
Siamo sempre più vicini a esplorare Marte di Michelangelo Ottaviano
74
Esplorare i materiali con i “droni molecolari” di Felicia Frisi
75
Microbi “benefici” al servizio dell’ambiente di Felicia Frisi
di Valentina Arcovio
104 Il rischio di ASCVD nei sopravvissuti al cancro di Sara Loruss
ECM 108 Il consumo di suolo di Giuseppe La Gioia
Editoriale
Biologi e Vaccini di Vincenzo D’Anna Presidente dell’Ordine Nazionale dei Biologi
A
ll’atto dell’insediamento del nuo-
inglesi. Bastò pubblicare la locandina di
vo Consiglio dell’Ordine, quindi
quel convegno perché taluni “accademici”,
della mia presidenza, decidemmo
accompagnati da orecchianti in perfetta
di inaugurare quella che si sareb-
malafede, riuscissero a montare un’aspra
be rivelata, in seguito, la prolifica stagio-
polemica contro la presidenza dell’ONB. In effetti quegli “accademi-
ne degli eventi organizzati dall’ONB, con un primo grande appuntamento: quello incentrato intorno alle nuove frontiere della biologia, con tutta una serie di argomenti scientifici, ancora
L’Ordine Nazionale dei Biologi non ha nulla a che fare con il contrasto alla pratica dei vaccini e non ha mai incoraggiato tale distorta deduzione
ci” si rivelarono, in seguito, in stretti rapporti con case produttrici di vaccini ed alcuni di loro addirittura organici ai contributi che talune case farmaceutiche
non definiti, che furono oggetto di un ap-
elargivano alle loro università, ai laboratori
profondito dibattito.
di ricerca, agli stessi soggetti.
Tra questi spiccava anche quello relati-
Nomi e cifre vennero fuori in seguito,
vo all’esatta composizione dei vaccini. Pre-
grazie ad un elenco che la comunità eu-
senti illustri scienziati tra i quali un premio
ropea pubblica sui contributi a vario tito-
Nobel per la Biologia, Luc Montagnier, ed
lo elargiti da produttori farmaceutici. Un
eminenti scienziati italiani, danesi, russi e
elenco lungo che assomma a svariate decine GdB | Aprile 2021
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Editoriale
di milioni di euro. Nel frattempo, però, la
che smentissero ogni dubbio. Tuttavia, così
lettera scarlatta che faceva del sottoscrit-
non era e nulla servì di quella cagnara su-
to un no-vax militante, un anti-scientista,
scitata dagli “ortodossi” che impedisse di
un indegno rappresentante di una catego-
evidenziare come un’aporia giuridica, una
ria, faceva il suo corso. Insomma, a sentire
vacanza di legge, consentisse ai produttori
la pletora dei denigratori, nessun biologo
dei vaccini di non dover esibire gli esami
avrebbe mai dovuto e potuto porre questio-
eseguiti sul prodotto finito.
ni che ponessero in discussione il sillogismo
L’unico obbligo? Era quello di dimostra-
che i vaccini erano perfetti e la vaccinazio-
re quale fosse il tipo di antigene presente nel farmaco e il resto veni-
ne salvifica a prescindere. Il contrario di quello che è il mandato etico per un uomo di scienza che di tutto può discutere e dubitare se ha argomenti
documentati
e
suffragati da prove.
Tra i meriti della categoria dei biologi nella lotta al Covid-19, c’è sicuramente l’identificazione dei genomi virali del virus Sars-CoV-2
A nulla servì spiegare che,
va occultato dal brevetto di produzione. Insomma, tra Ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità, AIFA ed EMA (l’agenzia europea del farmaco) nessuno era in grado di confutare le
chiedere di sapere quale fosse l’esatta com-
tesi di coloro i quali denunciavano l’igno-
posizione del farmaco vaccino, non equiva-
ranza sui dati completi della composizione
leva a bandire una campagna contro l’uso
del farmaco vaccino. Tuttora siamo in que-
dei vaccini in medicina e le benefiche rica-
ste condizioni. Ma il tempo è galantuomo e
dute che questa pratica ha avuto nei secoli!
mette sempre in luce, sopiti i clamori e le
Nossignore: si chiedeva un’abiura a pre-
strumentalizzazioni che li accompagnano,
scindere. Un atto di fede che venisse suf-
la verità storica.
fragato dalla letteratura scientifica, come se
L’Ordine Nazionale dei Biologi non ha
la letteratura stessa contenesse l’indicazio-
nulla a che fare con il contrasto alla prati-
ne certa di esami qualitativi e quantitativi
ca dei vaccini, non ha mai parteggiato per
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Editoriale
movimenti di opinione, non ha mai prodotto
Quest’ultima operazione ha visto l’Ordine
atti politici ed amministrativi che incorag-
dei Biologi in prima linea nel recepire le mi-
giassero tale distorta deduzione. La tragedia
gliaia di prenotazioni girandole alle Regioni
della pandemia ha fugato ogni dubbio allor-
ed alle Aziende Sanitarie. In ultimo il ricono-
quando all’orizzonte della categoria sono
scimento, voluto fortemente dall’ONB, alla
maturati eventi straordinari e rivelatori. Il
categoria di poter essere inserita tra quelle i
primo è quello che ha visto impegnati i Bio-
cui iscritti possono entrare negli elenchi dei
logi nella lotta al Covid-19, nell’identifica-
vaccinatori, partecipando a un idoneo corso
zione dei genomi virali del virus proveniente
di formazione presso l’Istituto Superiore di Sanità.
dalla Cina grazie alla equipe della Biologa Maria Capobianchi allo “Spallanzani” di Roma. Il secondo l’identificazione dei virus cosiddetti autoctoni, ovvero da tempo giunti e diffusisi in Italia del
Presto faremo parte degli elenchi dei vaccinatori, come stabilito dal protocollo d’intesa firmato dall’Onbe dal Ministero della Salute
Nord, isolati dal Medico e
Insomma, i Biologi sono sempre più protagonisti anche della stagione vaccinale ed emergenziale in Italia, con l’Ordine accanto. Di questi fatti non possiamo non dichiararci che soddi-
Biologa Maria Rita Gismondo al “Sacco”
sfatti, essi confutano le maldicenze e le voci
di Milano. La terza è l’opera insostituibile
tendenziose. Non sono le uniche ad esse-
e meritoria delle migliaia di Biologi che nei
re confutate dai fatti finora realizzati dalla
laboratori ospedalieri ed in quelli privati
nuova gestione dell’ONB. Sono armai quasi
accreditati, hanno contribuito a rivelare gli
un centinaio gli eventi organizzati, in pre-
infetti dando le coordinate alle soluzioni an-
senza a e poi in webnair. Non c’è ambito di
ti-Covid ipotizzate dal Governo. La quarta
esercizio professionale che non venga messo
è la priorità della vaccinazione riservata ai
a fuoco. Le chiacchiere stanno a zero, come
Biologi in quanto professione sanitaria par-
i detrattori che dovrebbero almeno arrossire
ticolarmente esposta a contrarre la malattia.
per la vergogna.
Primo piano
APERTURE PRUDENTI MA LA GUARDIA RIMANE ALTA Calano i contagi giornalieri e aumentano le vaccinazioni con un quadro complessivo ancora “impegnativo”
di Rino Dazzo
L’
Italia riapre con prudenza, ma non è ancora fuori dal tunnel. A partire da lunedì 26 aprile buona parte degli abitanti del paese ha iniziato a riassaporare maggiore libertà di movimento. Quattordici le regioni gialle, cinque quelle contrassegnate dal colore arancione (Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Valle d’Aosta), una sola dal rosso: la Sardegna. Un «rischio ragionato», come lo ha definito il presidente del Consiglio Mario Draghi, dal momento che la situazione a livello epidemiologico rimane piuttosto seria. I dati relativi ai contagi giornalieri suggeriscono infatti come questa ondata sia agli sgoccioli, ma non alle spalle. L’incremento quotidiano su base nazionale resta significativo, con oltre 10mila casi di media al giorno nella settimana 22-28 aprile, così come troppo alto rimane il tributo pagato in termini di decessi: superata la soglia dei 120mila morti dall’inizio dell’epidemia, con una media superiore ai 300
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decessi giornalieri. Più confortanti i dati relativi ai ricoveri in terapia intensiva e negli altri reparti, con una riduzione significativa della pressione ospedaliera. Al monitoraggio del 28 aprile in Italia risultano positive 442.771 persone, di cui 2.711 in terapia intensiva, 19.860 ricoverate con sintomi e 420.200 in isolamento domiciliare. Come si legge nell’ultimo report settimanale del Ministero della Salute «il quadro complessivo resta ancora a un livello molto impegnativo. Complessivamente l’incidenza resta elevata e ancora ben lontana da livelli (50 per 100.000) che permetterebbero il contenimento dei nuovi casi. Di conseguenza, è necessario continuare a ridurre il numero di casi e progredire con la campagna vaccinale». La raccomandazione è sempre quella di rispettare le misure di protezione individuale e distanziamento, anche in considerazione della «prevalente circolazione in Italia di una variante virale caratterizzata da una trasmissibilità notevolmente maggiore». Il testo ministeriale fa riferimento alla variante inglese, ma ad aggiungere preoccupazione è l’approdo in Italia - primi casi in Veneto e Toscana - della variante indiana, caratterizzata da una doppia mutazione nella proteina Spike che rende più facile l’inserimento del virus all’interno dell’organismo. Un’importante rassicurazione al riguardo l’ha fornita Ugur Sahin, lo scienziato che ha fondato e che dirige BioNTech, la biotech che insieme a Pfizer ha messo a punto il vaccino anti Covid: il siero sembra funzionare sulla nuova forma virale. «La variante indiana – ha detto Sahin – presenta delle mutazioni che abbiamo già studiato e contro le quali il nostro vaccino ha dimostrato di funzionare. Questo è alla base della nostra fiducia». E a proposito di vaccini, la campagna in Italia procede a ritmo più sostenuto, ma senza le accelerazioni decisive auspicate nelle precedenti settimane. L’obiettivo l’ha indicato il ministro della Salute, Roberto Speranza: «Entro giugno puntiamo a vaccinare con almeno una dose tutti gli over 60». Augurandosi di non incappare in altri imprevisti. Dopo la momentanea sospensione del vaccino messo a punto da AstraZeneca (che nel frattempo ha cambiato denominazione in Vaxzevria), si sono persi giorni preziosi anche per quel che concerne il vaccino monodose Janssen, sviluppato da Johnson & Johnson. La distribuzione di entrambi è ripresa – anzi, nel caso di J&J è partita – solo nella seconda metà di aprile, con la raccomandazione dell’Aifa di
Al 28 aprile in Italia sono state consegnate 22.410.560 dosi (15.612.480 Pfizer, 4.662.580 AstraZeneca, 1.955.700 Moderna e 179.800 Janssen), di cui l’84,3% (18.886.925) effettivamente somministrate.
(2.747.459), personale scolastico (1.155.495), personale non sanitario (880.849), fascia 6069 anni (798.465), ospiti Rsa (647.560), altri (344.118) e Forze Armate (319.753). La percentuale di immunizzati è ancora troppo bassa per avere un impatto significativo sulla riduzione dei contagi a livello nazionale. Il trend dei nuovi casi settimanali per 100mila abitanti vede in testa la Valle d’Aosta con 247, seguita da Puglia (224) e Campania (219). Anche le regioni messe meglio sono sopra la soglia dei 50 casi per 100mila abitanti: Umbria (81), Provincia Autonoma di Bolzano (78) e Molise (72). E con le riaperture e il progressivo ritorno alla normalità i dati, sottolineano gli esperti, sono destinati a peggiorare. La sfida da vincere resta essenzialmente una: dare una spinta alla campagna vaccinale, visto che è ancora lontano l’obiettivo delle 500mila vaccinazioni quotidiane. Il trend dell’ultima settimana di aprile è di 357.946 dosi giornaliere e di questo passo l’immunità di gregge si raggiungerebbe a fine ottobre, anziché ad agosto come auspicato dal Governo.
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somministrarli in via preferenziale a persone di età superiore ai 60 anni. Al 28 aprile in Italia sono state consegnate 22.410.560 dosi (15.612.480 Pfizer, 4.662.580 AstraZeneca, 1.955.700 Moderna e 179.800 Janssen), di cui l’84,3% (18.886.925) effettivamente somministrate. Il 22,33% della popolazione (13.318.277 persone) ha ricevuto soltanto la prima dose, il 9,34% (5.568.648) ha completato il ciclo vaccinale. Il tutto con marcate differenze a livello regionale. Le regioni più virtuose, quelle che hanno immunizzato la percentuale più alta di persone con entrambe le dosi Pfizer, Moderna e AstraZeneca o col siero monodose Johnson & Johnson, sono state Molise (11,8%), Liguria(11,1%), Emilia-Romagna (10,9%) e Friuli-Venezia Giulia (10,5%). In coda alla classifica - elaborata dalla Fondazione Gimbe Calabria (8%), Provincia Autonoma di Trento, Campania e Puglia, tutte al 7,6%. Gli over 80 sono la fascia d’età messa maggiormente in sicurezza (6.581.449 dosi), seguita dalla fascia 70-79 anni (3.815.680), operatori sociosanitari (3.213.418), soggetti fragili
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Primo piano
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Primo piano
COVID E MALATTIE RENALI, LA SPERANZA È LA TELEDIALISI PERITONEALE Giuseppe Grandaliano (Università Cattolica del Sacro Cuore e Policlinico Gemelli): “La dialisi domiciliare è la possibilità migliore da offrire ai pazienti”
di Emilia Monti
L
a seconda ondata di Covid-19 ha travolto le persone con malattia renale cronica, con un tasso di mortalità che ha toccato quota 22%. Durante la pandemia il numero dei pazienti in emodialisi positivi è passato dal 3,4% della prima ondata all’11,6% della seconda; il numero dei pazienti in dialisi peritoneale e domiciliare è passato dall’1,3% al 6,8%; si è registrato un picco anche per i trapiantati che si sono infettati, che passano dallo 0,8% al 5%. I pazienti in dialisi domiciliare e peritoneale e ancor più i trapiantati sono stati esposti in maniera decisamente più significativa che nella prima ondata, ma proporzionalmente meno di quelli in emodialisi ospedaliera, che devono recarsi nei Centri ospedalieri più volte a settimana e trascorrere diverse ore in ambienti comuni, sia in attesa, sia durante il trattamento dialitico.
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Ora però si rafforza un nuovo trend che regala speranza e fiducia ai pazienti. Fare sia la dialisi, che gli esami del sangue direttamente a casa, sempre però controllati dal medico a distanza. Per deospedalizzare il più possibile e migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro familiari. E’ il principio al quale si ispirano le più recenti esperienze di teledialisi peritoneale, corredate da esami del sangue point-of-care, cioè fatti a casa anche quelli, da una goccia di sangue. Sono circa 50 mila i pazienti dializzati in Italia, potenzialmente quasi tutti candidabili alla dialisi peritoneale. Ma i numeri raccontano un’altra storia: i pazienti sottoposti in Italia a dialisi peritoneale sono appena l’8-10% del totale. Eppure, l’unica vera controindicazione clinica alla dialisi peritoneale è un pregresso intervento importante sull’addome, che renda inutilizzabile il peritoneo. Vanno inoltre consi-
Primo piano
Come funziona
L
a dialisi peritoneale si fa tutti i giorni. La forma cosiddetta ‘manuale’ si effettua di giorno, attraverso un catetere peritoneale (un tubicino che arriva in addome); tre volte al giorno, il paziente mette nella cavità peritoneale il liquido di dialisi ed elimina quello precedente. Più moderna è la forma ‘automatizzata’: la sera, prima di andare a dormire, il paziente collega ad un monitor le sacche con i fluidi di dialisi che entrano attraverso un tubicino in addome e ‘lavano’ per tutta la notte il sangue. La dialisi peritoneale fino a qualche anno fa veniva controllata attraverso il semplice contatto telefonico. Da qualche anno invece i dati della macchina di dialisi possono essere controllati da remoto; si scaricano su una piattaforma Cloud e la mattina i nefrologi possono leggere il risultato delle dialisi effettuate dai pazienti durante la notte.
Sono circa 50 mila i pazienti dializzati in Italia. Quelli sottoposti a dialisi peritoneale sono l’8-10% del totale.
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derate anche le limitazioni organizzative: per il paziente anziano senza caregiver o supporti la dialisi peritoneale non è indicata. E il Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS è in prima fila, come il più grande centro di dialisi peritoneale del Lazio e tra i principali centri italiani, insieme a quelli di Bari, Brescia, Vicenza e Alba. «La dialisi peritoneale – spiega il professor Giuseppe Grandaliano, Ordinario di Nefrologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e Direttore dell’Unità operativa Complessa di Nefrologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Ircss - nasce di per sé come dialisi domiciliare ed è la possibilità migliore da offrire ai pazienti. L’emodialisi domiciliare è infatti di per sé una nicchia: il centro che assiste più pazienti, il San Giovanni Bosco di Torino, ne ha appena una decina e noi stessi seguiamo con questa modalità appena 4 pazienti”. Questo accade perché con l’emodialisi, la gestione delle apparecchiature è estremamente complessa; e lo stesso dicasi per l’accesso vascolare. I pazienti devono essere in grado di pungersi da soli la fistola o di connettersi con il catetere vascolare centrale, per poi mantenere una circolazione extracorporea per almeno due ore al giorno. In casa. Da soli. Al contrario – spiega il professor Grandaliano - la dialisi peritoneale è già “disegnata” per essere effettuata a domicilio e, in questo contesto, diventa importante allargare in qualche maniera l’eventuale
platea, ricorrendo alle nuove tecnologie di teleconsulto. Il paziente giovane e autosufficiente fa tutto da solo e può risolvere eventuali problemi con un colpo di telefono al centro di nefrologia di riferimento. Ma ci sono tanti altri pazienti anziani, non autosufficienti, con più problemi, per i quali poter accedere alla “tele-dialisi” rappresenta un vantaggio importante, che tra l’altro dà un aiuto anche ai caregiver eventualmente coinvolti. In questo modo è possibile seguire agevolmente i pazienti anche in contesti geografici difficilmente accessibili, come i piccoli paesi di montagna o le isole. Unire la possibilità di un teleconsulto alla dialisi peritoneale è importante». «Al paziente in pre-dialisi – spiega il professor Grandaliano - la prima offerta da fare sarebbe il trapianto di rene da vivente, seguita dalla dialisi peritoneale e infine dall’emodialisi. Ma i piccoli centri che non hanno esperienza di dialisi peritoneale non offrono mai la teledialisi peritoneale. Qui al Gemelli, su 190 pazienti dializzati che seguiamo, 70 (il 37%) sono in dialisi peritoneale». A queste novità adesso si sta aggiungendo la possibilità di avere un point-of-care a casa del paziente, ovvero la possibilità di determinare tutti quei parametri che ci possono servire per valutare l’efficacia del trattamento dialitico (la creatinina, l’azotemia, gli elettroliti). Basta una goccia di sangue (come si fa con la glicemia) per avere queste risposte e riceverle direttamente al centro dialisi. GdB | Aprile 2021
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Primo piano
QUALITÀ E SICUREZZA ALIMENTARE, I GARANTI DELLA SALUTE E IL RUOLO DEL BIOLOGO Dalla tutela dell’ambiente ai controlli estesi lungo tutto l’arco della filiera, solo così i sapori arrivano incontaminati e sicuri sulle nostre tavole
di Stefania Papa*
S
apere cosa mettiamo a tavola, conoscere la qualità dei cibi che mangiamo, tracciarne (anche) la loro provenienza, non ha prezzo in termini di salvaguardia e tutela del consumatore. Da anni, non solo in Italia, scienziati, esperti di salute pubblica, epidemiologia, alimentazione e farmacologia, sono impegnati in un dibattito che mira alla corretta “conoscenza” degli alimenti. Com’è noto, l’adozione di un sistema di informazione nutrizionale basato sulle etichette, è raccomandata un po’ da tutti i comitati di esperti nazionali ed internazionali, in partico*Consigliere dell’Ordine Nazionale dei Biologi, delegata alla Sicurezza Alimentare e delegata per le regioni Toscana e Umbria.
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lare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ritiene tale misura “efficace” anche per “aiutare i consumatori ad adottare comportamenti alimentari più sani”. Tuttavia, non ci sono solo i “valori nutrizionali” da considerare. Il mondo degli alimenti, si sa, ruota, infatti, attorno a regole e leggi che tengono impegnati più attori della vasta e variegata filiera dell’Agroalimentare. Pensiamo, ad esempio, a quanto proposto dai carabinieri per la Tutela Agroalimentare in occasione della Giornata nazionale del Consumatore: una vivace ed accattivante rappresentazione grafica del quadro normativo vigente in materia di “sicurezza alimentare”, il disegno di un soleggiato giardino (denominato il “giardino dei diritti”), in cui tutti gli elementi raffigurati hanno assunto un valore simbolico, e i diritti stessi sono diventati dei fiori paffuti dallo stile vagamente naif. L’obiettivo, come
Primo piano
ci ha tenuto a precisare il comando dell’Arma, è stato quello di spiegare, in modo semplice, la normativa per il consumatore, con “una mappa concettuale quanto più confacente all’immediato utilizzo da parte di operatori e consumatori, guardando altresì al momento della formazione di studenti ed appassionati” della materia. Non per ultimo, ancora, in materia di agroalimentare, proprio tale argomento è stato oggetto, lo scorso 3 marzo, in Senato, di un’interrogazione parlamentare (la numero 3-02312) rivolta al Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, completamente incentrata sulla tutela e sulla promozione del “made in Italy”. Un’interrogazione, si badi bene, posta, sì, a salvaguardia della filiera e delle eccellenze tricolori, ma anche e soprattutto di chi, poi, quei prodotti, alla fine, è destinato a consumarli. In particolare nel testo presentato a palazzo Madama, si è posto l’accento sul fatto
L’adozione di un sistema di informazione nutrizionale basato sulle etichette, è raccomandata un po’ da tutti i comitati di esperti nazionali ed internazionali, in particolare dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
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che, nel settore dell’export, oggi più di due prodotti di tipo italiano su tre siano falsi: si tratta dell’Italian sounding, un fenomeno considerato “grave minaccia al made in Italy agroalimentare” e, come tale, da contrastare. Gli interroganti hanno inoltre denunciato come il mercato del falso valga oggi più del doppio del fatturato regolare, determinando, in tal modo, una grave perdita di ricchezza per i nostri territori, anche in termini occupazionali. Proprio in questo contesto vanno dunque ad inserirsi le linee programmatiche fissate, recentemente, dal ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali. In particolare, il Mipaaf ha rimarcato la necessità che le scelte di politica agricola, alimentare e forestale, siano integrate tra loro, per interpretare in chiave innovativa, ecologica e inclusiva le principali necessità di sostegno che la transizione ecologica richiede. GdB | Aprile 2021
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Il Ministero si è soffermato, in particolare, sulla trasparenza legata all’indicazione dell’origine in etichetta intesa come un diritto da garantire ai cittadini. A livello nazionale, è stato spiegato, è necessario proseguire con quanto già introdotto in via sperimentale rinnovando i decreti attualmente in essere riguardanti latte, formaggi, pasta, riso, carni suine trasformate e derivati del pomodoro. Per quanto concerne le carni, si ricorda come, con il decreto del 6 agosto 2020, i produttori abbiano “ricevuto” l’obbligo di indicare, sulle etichette, le informazioni relative ai paese di nascita, allevamento e macellazione mentre, per quanto concerne l’indicazione dell’origine del grano per la pasta di semola di grano duro, dell’origine del riso e del pomodoro nei prodotti trasformati, tale obbligo è stato prorogato al 31 dicembre 2021. Fermo e deciso è apparso, al momento, il rifiuto del Nutriscore, il modello di etichettatura a “semaforo”, messo a punto dai ricercatori dell’università di Parigi e dell’Inserm, concepito per segnalare i cibi che contengono un’alta percentuale di grassi e sale. Un sistema basato su un formato che indica i singoli valori nutrizionali con una scala di cinque colori (dal rosso al verde), a cui corrispondono le prime cinque lettere dell’alfabeto (a-b-c-d-e). Non è ammissibile, secondo il Mipaaf, per dirla con altre parole, che una bibita gassata senza zucchero abbia il bollino verde e invece prodotti che sono dei capisaldi della dieta mediterranea come olio d’oliva o parmigiano reggiano vengano penalizzati! A tal proposito, il Belpaese sarebbe propenso ad adottare un modello alternativo con il cosiddetto “schema a batteria”, nella convinzione che possa rivelarsi più utile al consumatore. Resta comunque il fatto che l’indicazione di massima, almeno nel nostro Paese, rimane quella che tali schemi debbano rimanere volontari e non obbligatori, e che vadano comunque esentate da una eventuale applicazione obbligatoria le produzioni a indicazioni geografica. Ora, in quanto Biologi, rappresentanti, cioè, a pieno titolo, di una categoria attiva anche e soprattutto nel campo della Sicurezza Alimentare, non possiamo non rimarcare come sia triste, a tutt’oggi, dover rilevare come su un argomento del genere ci sia ancora bisogno di fare chiarezza. La domanda di fondo resta la stessa: che sia il Nutriscore o un altro modello quello adottato, alla fine, cosa capirà il consumatore? Cosa com12 GdB | Aprile 2021
Ciò che conta è che chi legge un’etichetta poi ne capisca appieno anche il significato, senza bisogno di... cifrari! Ed è qui che entra in gioco la professionalità del Biologo, con le sue speciali competenze, la sua poliedricità, la sua capacità di interfacciarsi con la multidisciplinarietà e quella naturale propensione al gioco di squadra che ne fa il partner perfetto in ogni occasione: chi se non lui potrebbe dare una mano a stilare questa “guida per il consumatore”?
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Primo piano
prenderà l’acquirente di turno, quando, una volta comprato un prodotto al supermarket vedrà sovraimpressi, sulla confezione, un serie di lettere e di simboli colorati? Riuscirà a districarvisi o avrà bisogno di un… interprete? Detto in altre parole: quanto, di una pur corretta posizione scientifica di partenza, risulterà poi anche immediatamente comprensibile da parte dell’utente finale? Fuor di metafora: più che di “modelli innovativi” e complicati, è di un linguaggio semplice ed immediato che si avverte fortemente la necessità. Spesso, infatti, siamo portati a credere che semplificare le cose ne renda, poi, anche più facile la comprensione. Purtroppo non sempre questo accade. Ed è qui, nel “guado” che sovente separa ricerca e sviluppo, che si nasconde la vera insidia, la vera difficoltà. Lo ribadiamo: più che discutere sulla natura ideale del sistema di etichettatura “perfetto”, la domanda che in casi del genere tutti quanti noi dovremmo porci è la seguente: sarò in grado di far arrivare, nella maniera più corretta, giusta ed efficace, le informazioni che contano a chi poi si accinge ad acquistare e consumare un determinato alimento? Sarò realmente in grado di varare una guida valida, facile da consultare e che possa fungere da supporto concreto rispetto a quanto essa stessa dice e contiene, senza lasciare spazio a fraintendimenti ed incomprensioni? In soldoni: che sia il Nutriscore o il modello all’italiana, ciò che conta è che chi legge un’etichetta poi ne capisca appieno anche il significato, senza bisogno di... cifrari! Ed è qui che entra in gioco la professionalità del Biologo, con le sue speciali competenze, la sua poliedricità, la sua capacità di interfacciarsi con la multidisciplinarietà e quella naturale propensione al gioco di squadra che ne fa il partner perfetto in ogni occasione: chi se non lui potrebbe dare una mano a stilare questa “guida per il consumatore”? Tuttavia, per far sì che questo accada, occorre lavorare sodo per rafforzare l’intesa tra i Biologi e le istituzioni preposte (pensiamo al Mipaaf, al Mise, agli istituti Zooprofilattici, al Cnr, al Crea, alle associazione dei consumatori ed a quelle di categoria) con un discorso ampio che veda impegnata e coinvolta la nostra categoria in tutti i settori della filiera dell’agro-alimentare: dalla produzione, all’imballaggio, fino, appunto, all’etichettatura, alla distribuzione ed infine all’acquisto del prodotto. A prescindere dai supporti, solo rendendo più chiare e comprensibili le cose da capire potremo raggiungere il nostro obiettivo!
L’INDISPENSABILE E STORICO RUOLO DEL
BIOLOGO AMBIENTALE NELLA ZOOLOGIA APPLICATA 14 MAGGIO 2021 ORE 9:30 CORSO TEORICO-PRATICO
www.onb.it
I biologi per l’ambiente: nasce il
COORDINAMENTO NAZIONALE BIOLOGI AMBIENTALI (CNBA) 30 aprile 2021 ore 16:00 Diretta su OnbTv e Facebook
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uando tecnologia ed innovazione procedono a braccetto, a trarne beneficio è anche la formazione continua, senza la quale non c’è professionista sanitario che tenga. Com’è noto, dall’1 marzo del 2020, in ottemperanza al Dl 76/2020, l’accesso alla piattaforma informatica del Consorzio di gestione anagrafica delle professioni sanitarie (Cogeaps), è diventato possibile solo attraverso l’utilizzo di Spid e Cie. Ora, per semplificare ulteriormente l’accesso ai servizi offerti dall’organismo ministeriale per la “formazione continua in medicina”, si profila, all’orizzonte, una doppia novità, che non può non essere salutata con viva soddisfazione dal momento che rappresenta un ulteriore passo in avanti compiuto dal Cogeaps lungo la strada dell’ammodernamento e dell’informatizzazione. Dal prossimo 31 maggio infatti, saranno attivi sia l’App che il nuovo portale web istituzionale del consorzio che riunisce le Federazioni Nazionali degli Ordini e dei Collegi e le Associazioni dei professionisti della salute che partecipano al programma di Educazione Continua in Medicina. E’ importante comprendere come la nuova “applicazione”, disponibile e scaricabile gratuitamente su App Store (iOS) o Play Store (Android), sia stata concepita proprio con l’obiettivo di fornire uno strumento di interazione più semplice ed efficace a tutti i professionisti sanitari, tra cui ovviamente, spiccano anche i Biologi. Per iniziare ad utilizzarla basterà soltanto autenticarsi con le credenziali Spid e poter, così, accedere al sistema unitario e condiviso per la gestione dei crediti formativi. Analogo discorso va fatto per il nuovo portale del Cogeaps, a sua volta rimodellato e pensato con lo scopo di semplificare * Consigliera dell’Ordine Nazionale dei Biologi con delega alla Formazione, componente della Commissione ECM e delegata ONB per le regioni Puglia e Basilicata
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APP E SITO NUOVO: IL COGEAPS SI RIFÀ IL LOOK Quando tecnologia ed innovazione procedono a braccetto, a trarne beneficio è anche la formazione
di Claudia Dello Iacovo*
ancor più la gestione delle procedure e di consentire agli Ordini, tra cui il nostro ONB, di disporre dei parametri di valutazione dei propri professionisti, in regola con l’obbligo formativo, in tempo reale. Tutto questo, va sottolineato, per consentire ai professionisti sanitari di interrogare in maniera più semplice ed
efficace il Cogeaps, in modo così da poter verificare, di volta in volta, lo stato di conseguimento dei propri crediti formativi; inoltre il restyling offrirà all’organismo la possibilità di poter erogare in maniera più agevole ed immediata, i servizi di anagrafica e di certificazione Ecm a garanzia, ovviamente, delle Istituzioni di riferimento. GdB | Aprile 2021
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“CASCO” PER L’INSUFFICIENZA RESPIRATORIA. LA VIA ITALIANA CONTRO L’INTUBAZIONE Massimo Antonelli, direttore anestesista del Gemelli, spiega i vantaggi dell’utilizzo di questa metodica basata sulla ventilazione meccanica non invasiva precoce
di Chiara Di Martino
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on è uno strumento nuovo, e anche la modalità di utilizzo del “casco” sperimentata oggi a supporto della respirazione ha già qualche anno: risale infatti ai primi anni 2000 il primo studio, guidato da Massimo Antonelli, oggi direttore Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e Tossicologia clinica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e professore ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’Università Cattolica, campus di Roma, con cui si sperimentò l’utilizzo del “casco” per le gravi insufficienze respiratorie (tanti gli articoli apparsi: nel 2002 su Critical Care Medicine, nel 2006 su Intensive Care Medicine, tanto per citarne qualcuno). E proprio quello stesso casco, usato ormai da circa 20 anni, è oggi protagonista di un nuovo tassello del puzzle per la cura di pazienti con grave insufficienza respiratoria, inclusi quelli con polmonite da Covid-19. Nel nuovo studio HENIVOT, pubblicato su JAMA – il cui primo autore è Domenico Luca Grieco (Gruppo di studio Covid-ICU Gemelli), che con il prof. Antonelli e altri colleghi ha confrontato due diverse modalità di utilizzo del casco. Inventato e prodotto in Italia (due le aziende che al momento ne rendono possibile
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l’approvvigionamento: una italo-inglese e una 100% italiana: la Dimar e la Intersurgical), dove viene usato da molti rianimatori, il casco riduce in modo significativo la necessità di ricorrere all’intubazione e alla ventilazione invasiva. Prof. Antonelli, quali sono le due metodiche messe a confronto? «Quella che sfrutta la ventilazione meccanica non invasiva precoce settata secondo parametri che consentono un supporto pressorio maggiore capace di “riaprire” il polmone colpito dal processo infiammatorio, riducendo anche la fatica respiratoria, e l’ossigenoterapia precoce ad alti flussi umidificati e riscaldati, che è considerata l’ausilio di uso più diffuso attualmente, come indicato anche dalle linee guida per i pazienti con ipossiemia grave del 2020. Questa modalità di erogare ossigeno, anziché tramite le normali cannule nasali o le mascherine, si basa su flussi che superano i 60 litri al minuto, che, con la caratteristica di essere riscaldati (intorno ai 37 gradi) e umidificati correttamente, migliorano anche il lavaggio della CO2 dello spazio morto delle vie aeree e riducono il lavoro respiratorio». E quali differenze sono state riscontrate? «Dal punto di vista del numero di giorni liberi dalla ventilazione meccanica (cioè quanti
Intervista
Chi è
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rofessore di Terapia Intensiva e Anestesiologia, Direttore del dipartimento di Emergenza, Medicina di Terapia Intensiva e Anestesiologia alla Fondazione Policlinico Ospedale Universitario A. Gemelli IRCCS - Università Cattolica di Roma, Massimo Antonelli è stato anche presidente della European Society of Intensive Care Medicine (ESICM) e della SIAARTI (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva). È membro della Task force del governo italiano contro la pandemia di SARS Cov 2. È autore di più di 300 articoli con più di 42000 citazioni. Immagine tratta dal sito internet del Policlinico Gemelli.
giorni il paziente riesce a stare dopo l’utilizzo della metodica senza ricorrere ad altri sistemi di ventilazione di ogni genere: in sostanza né casco, né intubazione né altro) non c’è una grande differenza. Il vero vantaggio della prima metodica è quello di prevenire l’intubazione e la ventilazione meccanica invasiva in percentuali maggiori rispetto all’ossigenoterapia ad alti flussi». Qual è, dunque, il messaggio? «Che entrambi gli utilizzi migliorano l’ossigenazione nelle fasi precoci dell’insufficienza respiratoria legata al Covid-19. Se però lo sguardo si sposta sulla capacità di evitare l’intubazione dei pazienti il miglior risultato si ha con la “nostra” metodica. Che, come contraltare, richiede un monitoraggio continuo: se il paziente dovesse avere bisogno di essere intubato, bisognerebbe intervenire subito». Qual è stato il target dello studio? «La nostra ricerca è stata condotta tra ottobre 2020 e febbraio 2021 su 109 pazienti arruolati presso alcune unità di terapia intensiva italiane e ha dimostrato che il casco è sistema più performante per assistere i pazienti con insufficienza respiratoria acuta da Covid-19. Sono state le rianimazioni italiane ad adottare per prime durante la pandemia di COVID-19 questo tipo di supporto ventilatorio». Il sistema è stato testato solo in Italia? «Per lo più sì. Il suo uso non è stato frequente all’estero – qualcosa è stato visto negli Usa e in Germania, un po’ meno in Francia e Spagna
Il casco come supporto alla ventilazione è stato introdotto circa 20 anni fa. Oggi è protagonista di un nuovo tassello del puzzle per la cura di pazienti con grave insufficienza respiratoria, inclusi quelli con polmonite da Covid-19. Ne parla un nuovo studio pubblicato sulla rivista Jama.
– ma è davvero una modalità innovativa: è anche piuttosto confortevole rispetto ad altre interfacce, cosa che lo rende utilizzabile per tempi più lunghi». Insomma, stiamo parlando di qualcosa di diverso dal casco per l’erogazione della CPAP? «Strutturalmente sono simili. CPAP - acronimo di Continuous Positive Airway Pressure in italiano significa Pressione Positiva Continua delle vie aeree, si applica sul respiro spontaneo, non assistito, del paziente, attraverso alti flussi e una valvola di Pressione di fine espirazione (PEEP) in grado di contribuire al reclutamento alveolare. Nel nostro caso, invece, si sfrutta il ventilatore meccanico da terapia intensiva impostato con parametri puntuali e il respiro del paziente è assistito». Lo studio ha ricevuto finanziamenti? «È stato finanziato dalla Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) e condotto in collaborazione con l’Ospedale degli Infermi di Rimini e le Università di Ferrara, Chieti e Bologna. Questa ricerca, come tutto l’impegno profuso durante la pandemia, è frutto dell’enorme lavoro di squadra di anestesisti rianimatori, specializzandi, infermieri e di tutto il personale sanitario coinvolto nell’assistenza dei pazienti con Covid-19 nelle terapie intensive del Policlinico Gemelli e degli altri ospedali coinvolti». Lo studio andrà avanti? «Certo, siamo al lavoro su ulteriori sviluppi». GdB | Aprile 2021
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DAL MARE, MOLECOLA PER LA CURA DI TUMORI E MALATTIE DEGENERATIVE È in fase preclinica il Sulfavant A, un sulfolipide simile ad alcuni composti presenti in alghe marine, su cui fa ricerca da anni un team italiano. Angelo Fontana (Icb-Cnr) ne spiega i dettagli
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olecole che agiscano sui vari “attori” di un tumore, da un lato con un’azione diretta sulla patologia, dall’altro, più indirettamente, sul sistema immunitario del paziente: è quello che studiano i ricercatori coinvolti nel progetto Advise (Antitumor Drugs and Vaccines from the Sea), un ambizioso piano di ricerca cofinanziato dall’Unione Europea, dallo Stato Italiano e dalla Regione Campania. I nomi in calce alle ultime scoperte – particolarmente significative per la prevenzione e la cura di alcuni tumori e malattie degenerative ma anche come adiuvanti di vaccini – appartengono all’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Icb-Cnr) di Napoli, a tre dipartimenti di oncologia (Azienda Ospedaliera San Giuseppe Moscati, CEBR – Università di Genova, Gruppo MultiMedica), alla Stazione Zoologica “Anton Dohrn” di Napoli, a diverse aziende della filiera e start up nel campo delle biotecnologie. Uno dei promotori della ricerca è il prof. Angelo Fontana, Direttore dell’Istituto di Chimica Biomolecolare del Cnr e Professore Ordinario di Chimica Organica presso il Dipartimento di Biologia dell’Universi-
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tà di Napoli “Federico II”. Coordina il gruppo di Chimica Bio-Organica e Chemical Biology le cui ricerche sono indirizzate allo sviluppo di nuovi principi terapeutici da piccole molecole naturali e di processi biotecnologici basati su microorganismi marini. Autore di oltre 300 lavori scientifici tra articoli, comunicazioni e brevetti, ha fondato nel 2016 la BioSEArch SRL, una società start-up di biotecnologie avanzate per lo sviluppo di prodotti naturali in medicina, alimenti funzionali e cosmetici. Insieme a Raffaele De Palma, direttore di Immunologia Clinica al Policlinico San Martino di Genova, già da una ventina d’anni, si è interessato in maniera via via più continua di piccole molecole che sono in grado di interagire con il sistema immunitario. Oggi uno dei principi attivi che hanno studiato, il Sulfavant, è in fase preclinica. Ma facciamo un passo indietro per ripercorrere i passi di questa ricerca. Professor Fontana, quando nasce il progetto Advise? «Ci siamo “inciampati”, in qualche modo, nel senso che ha preso il via studiando altre cose, come spesso accade nel mondo della ricerca. Da circa una ventina d’anni, con il prof.
Intervista
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De Palma e un ampio team di studiosi, stiamo raccogliendo importanti dati sull’attivazione e regolazione della risposta immune. La genesi del progetto è piuttosto complessa: le prime evidenze sperimentali le abbiamo ricavate intorno al 2013-2014. Abbiamo individuato classi di molecole, prima sconosciute, che stimolano il sistema immunitario innato così come quello acquisito, ottenendo in vitro risposte diverse da quelle che ci si aspettava. Le piccole molecole organiche costituiscono i principi attivi dei farmaci. Quelle di nostro interesse sono prodotti di derivazione naturale che, una volta identificati come candidati farmaceutici, vengono sintetizzati e migliorati in laboratorio». In particolare quale molecola si è presentata come particolarmente promettente? «Una, nello specifico, per il quale è stato concesso il brevetto in qualità di adiuvante, ossia una sostanza da aggiungere ai vaccini ad antigene sintetico per accrescere la risposta dell’organismo. Questo tipo di applicazione ha il ruolo di favorire una risposta immunitaria forte mediata dalla stimolazione dei linfociti T». Stiamo parlando del Sulfavant A? «Esatto, è il primo principio attivo che abbia-
Angelo Fontana. Il professor Angelo Fontana è uno dei promotori della ricerca. È direttore dell’Istituto di Chimica Biomolecolare del Cnr e Professore Ordinario di Chimica Organica presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Napoli “Federico II”.
mo identificato. Un sulfolipide simile ad alcuni composti presenti in alghe marine, in grado di stimolare il sistema immunitario umano agendo su cellule che funzionano da master controllo nel riconoscimento delle molecole derivate da agenti infettivi esterni (PAMPS) o derivati da processi cellulari alterati (DAMPS). Sulfavant agisce stimolando in maniera controllata le cellule dendritiche, e altre cellule deputate alla presentazione dell’antigene, prima linea di difesa del sistema immunitario e responsabili del riconoscimento di agenti pericolosi per l’organismo». Perché questa molecola e non un’altra? «Perché questa sembra avere il vantaggio di sviluppare il suo ruolo senza indurre, o addirittura attenuando, la risposta infiammatoria abnormale e fuori controllo di cui sentiamo tanto parlare da un anno. In più ha dimostrato di avere un’attività immunomodulante. Sempre che venga confermato quanto osservato finora, agisce determinando il repertorio dei linfociti T ed indirizzando la qualità ed il tipo di risposta del sistema immunitario su cui sta lavorando soprattutto il mio amico e collega Raffale De Palma al San Martino di Genova. Tutte caratteristiche che fanno ben sperare sui suoi utilizzi: già nel 2017, la rivista Scientific Reports (Nature) ha pubblicato l’efficacia di Sulfavant in un modello sperimentale di melanoma». A che punto è il vostro studio? «Con il Sulfavant A siamo in fase preclinica. Abbiamo completato il meccanismo di azione e dovremmo completare entro un anno e mezzo gli ultimi step relativi a tossicologia, dosaggio e distribuzione della molecola. Ma il Sulfavant è solo una delle tante molecole che studiamo e di cui indaghiamo il meccanismo d’azione: sotto la nostra “lente di ingrandimento” ci sono molti altri composti funzionalmente simili che si differenziano per meccanismo d’azione. In questo il Progetto ADViSE si è rivelato fondamentale perché non solo ci ha permesso di avere un finanziamento adeguato ma ha anche consentito di creare un gruppo di lavoro che ha potuto affrontare diversi aspetti complessi ed interconnessi». Quali i potenziali usi? «Sia quelle, già dette, di adiuvanti in vaccini – inclusi quelli antitumorali – ma anche utilizzi terapeutici per malattie oncologiche e degenerative, soprattutto quelle connesse a infiammazione cronica o disregolazione del sistema immunitario». (C. D. M.) GdB | Aprile 2021
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ADENOVIRUS ONCOLITICI MODIFICATI PER UCCIDERE LE CELLULE TUMORALI Il progetto di ricerca di una giovane dottoranda del Ceinge di Napoli, Maria Vitale, sembra una strategia terapeutica efficace e promettente
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a viroterapia oncolitica è un approccio terapeutico emergente, basato su virus capaci di replicarsi per infettare e distruggere selettivamente le cellule tumorali, provocando il rilascio di antigeni associati al tumore e stimolando, quindi, una risposta immunitaria antitumorale. Sotto i riflettori ci sono gli adenovirus oncolitici che possono uccidere le cellule tumorali in modi diversi, principalmente inducendo la morte cellulare immunogenica. È questo il fulcro della ricerca di Maria Vitale, una giovanissima dottoranda del Ceinge, Centro di Biotecnologie avanzate che ha sede a Napoli. Gli adenovirus oncolitici sono al centro del suo progetto di ricerca: Maria Vitale, 29 anni, laureata in Scienze Biologiche e studi magistrali in Diagnostica Molecolare, è oggi all’ultimo anno di dottorato in Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche all’Università “Federico II” di Napoli che l’ha portata dritta fino al Ceinge e al laboratorio di Terapia Genica del professor Lucio Pastore, ordinario di Biochimica clinica e Biologia Molecolare clinica. Quello che hanno indagato, insieme a un nutrito team di ricercatori, è lo sviluppo di un Adenovirus oncolitico modificato per esprimere un scFv (per esteso single chain fragment variable, una struttura anticorpale semplificata) che ha
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come target anti PD- L1, uno dei più importanti inibitori di checkpoint immunitari espressi da gran parte delle cellule tumorali. Un traguardo che l’ha portata a vincere due premi: l’Excellence in Research Award e il Meritous Abstract Travel Award, grazie al quale potrà partecipare all’Annual Meeting del prossimo anno che si terrà a Washington D.C a maggio 2022. Intanto, già nel maggio di quest’anno è stata chiamata a relazionare sui risultati della ricerca al 24esimo Annual meeting dell’American Society of Gene e Cell Therapy. Grandi soddisfazioni per lei, così giovane. Dottoressa Vitale, da dove è partita la sua ricerca? «L’idea di partenza esiste da molti anni, oltre al fatto che, nel mondo, ci sono molti gruppi di ricerca focalizzati sugli Adenovirus oncolitici. Al mio arrivo al Ceinge, anche grazie alla guida della mia ‘tutor’ interna, la ricercatrice Eleonora Leggiero, siamo riusciti a produrre i primi risultati, che sono quelli su cui si concentra il mio progetto di dottorato, ormai giunto quasi al termine». Quali sono questi risultati? «Abbiamo modificato un Adenovirus oncolitico - che cioè distrugge le cellule tumorali in modo selettivo, non danneggiando le cellule sane - per esprimere un scFv. per esteso: single chain fragment variable, che ha come target anti PD-
Intervista
L1, uno dei più importanti inibitori di checkpoint immunitari espressi da gran parte delle cellule tumorali. La finalità è doppia: da un lato, distruggere le cellule tumorali, dall’altro riattivare il sistema immunitario contro quelle stesse cellule». Quali test sono stati effettuati a sostegno della vostra idea di partenza? «Prima di tutto, esperimenti in vitro. Poi siamo passati a quelli in vivo con modelli murini di melanoma; la progressione del tumore è stata valutata nel tempo e abbiamo visto che il melanoma subiva un rallentamento della crescita rispetto ai gruppi di controllo. In termini più tecnici, il ligando di morte programmata 1 (PD-L1) è espresso principalmente sulla superficie delle cellule tumorali; il legame al suo recettore, PD-1, espresso sui linfociti T CD8 + ne inibisce la proliferazione e l’attività antitumorale». E questo cosa ci dice? Ci suggerisce che l’espressione di un inibitore del checkpoint immunitario, indotta dagli Adenovirus oncolitici, è una strategia efficace e promettente». A cosa potrebbe portare nel lungo termine?
Maria Vitale. Maria Vitale, 29 anni, laureata in Scienze Biologiche, è all’ultimo anno di dottorato in Medicina Molecolare e Biotecnologie Mediche alla “Federico II” di Napoli che l’ha portata al Ceinge e al laboratorio di Terapia Genica del professor Lucio Pastore, ordinario di Biochimica clinica e Biologia Molecolare clinica.
«Al momento, le strategie a base di virus oncolitici non possono comunque evitare la chemioterapia, che però, come sappiamo, è dannosa per tutte le cellule, anche quelle non tumorali. La prospettiva a lungo termine potrebbe essere quella di utilizzare queste nuove terapie in sostituzione, ma in questa fase è ancora difficile dire se sia verosimile ed è ancora più difficile stimarne le tempistiche». Quali sono i prossimi passi? «Si procede con altri test; dobbiamo ripetere naturalmente gli esperimenti in vivo per avere conferma delle prime evidenze e ne condurremo di nuovi in vitro». E nel suo futuro? Cosa c’è dopo la fine del dottorato? «Il mio ciclo terminerà a novembre. Sarei onorata, ovviamente, di restare qui per proseguire sulla scia dei risultati ottenuti finora. Ma non escludo che, per completare la mia formazione e arricchirla, un giorno possa decidere di trascorrere un periodo all’estero: studi sugli Adenovirus sono in corso in molti centri di ricerca». Ha vinto due premi ed è stata selezionata per relazione al meeting dell’American Society of Gene e Cell Therapy. Si aspettava un tale successo? «Onestamente no, sono rimasta piuttosto sorpresa. Ma non è solo una mia vittoria, devo dire grazie a tutto il gruppo con cui lavoro: la ricerca non è fatta mai di singole persone, è l’unione che fa la forza». (C. D. M.)
Adenovirus oncolitico contro il melanoma, il team completo
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n lavoro di squadra, quello che ha portato ai nuovi sviluppi sull’Adenovirus oncolitico: a capo del gruppo, il prof. Lucio Pastore, Principal investigator del CEINGE e ordinario di Biochimica clinica e Biologia Molecolare clinica alla Federico II; con lui nel team Eleonora Leggiero, ricercatrice CEINGE; Lorella Tripodi, dottoranda della scuola europea di Medicina Molecolare (SEMM). Il lavoro ha visto anche la collaborazione del team della prof.ssa Claudia De Lorenza, PI del CEINGE e ordinario di Biochimica Clinica, Margherita Passariello, ricercatrice CEINGE e del team di Vincenzo Cerullo, group leader dell’ImmunoViroTherapy Lab presso l’Università di Helsinki (Finlandia).
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GENETICA PREDITTIVA E MEDICINA DI PRECISIONE Il sequenziamento del DNA è una conquista dell’umanità che permette una serie di azioni che impongono una riflessione anche etica oltre che tecnica di Daniele Tedeschi*
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NA, genetica, farmacogenetica o nutrigenomica sono ormai parole di uso comune. Ma cosa è realmente percepito dal paziente e dalla comunità delle professioni mediche piuttosto che dalla stessa politica che regolamenta protocolli diagnostici prognostici piuttosto che terapeutici? Il sequenziamento del DNA è una conquista dell’umanità che può essere un vantaggio per tutti gli esseri viventi (non solo quindi l’essere umano) e che permette una serie di azioni che impongono una riflessione anche etica oltre che tecnica. Il DNA umano in particolare è distribuito su 23 paia di cromosomi (22 paia di autosomi e 2 cromosomi sessuali) che forniscono un doppio assetto del gene, l’uno ereditato dal padre, l’altro dalla madre che fornisce esclusivamente anche il DNA mitocondriale (circa 16 mila nucleotidi a fronte dei 3,3 miliardi <x2> del DNA nucleare). Il doppio assetto di un gene non è sempre garantito nel maschio a causa della differenza tra i due cromosomi sessuali. Oggi è noto che l’informazione genetica non è esclusiva del gene in quanto tale (ovvero della sequenza codificante una proteina) ma “appartiene” anche a sequenze o anche proteine di controllo che possono far si che lo stesso gene possa codificare più di una isoforma proteica (p.e.: splicing alternativo) o che la funzionalità di un gene possa essere modificata (epigenetica) anche dall’ambiente, positivamente o negativamente. Questo comporta oggi un sempre maggior interesse verso le scienze omiche per poter interferire su una funzionalità genetica compromessa o predittiva di una futura patologia. Variabilità genetica La tecnica di lettura tramite Next Generation Sequencing (NGS) e lo studio dei Single Nucleotide Polymorphisms (SNPs) ovvero polimorfismi di un singolo nucleotide, permette oggi di valutare le differenze esistenti tra i DNA dei diversi esseri viventi e nel caso specifico l’essere umano. La differenza di un singolo nucleotide all’interno della sequenza dello stesso gene può comportare, in funzione della tripletta poi codificata, una variabilità nella costruzione della futura proteina e quindi della sua struttura e/o della sua funzionalità. Le variazioni INDEL (sequenze di nucleotidi contigui aggiunte-inserzione o perse-delezione) insieme agli SNPs rappresentano quella percentuale di variabilità tra gli esseri umani (inferiore all’1%) ma responsaGdB | Aprile 2021
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Salute
bile di milioni di differenze strutturali e funzionali tra due soli in- d i v i d u i . Gli studi di associazione fenotipo/genotipo e malattia sono ormai estesi e soprattutto molto complessi dato che a differenza della genetica mendeliana (gene prevalente responsabile di una patologia) devono identificare una serie di varianti polimorfiche che possono conferire il maggior rischio di una malattia in funzione della presenza di un allele (o più) wild type (il più comune) o meno. La variante genetica potrà comportare una variazione funzionale non immediatamente patogena o quantomeno non immediatamente efficace sulla variazione fenotipica del paziente. Lo studio delle variazioni polimorfiche sta influenzando anche lo studio delle patologie monogeniche (mendeliane) potendone caratterizzare meglio anche le differenze fenotipiche a parità di mutazione genetica, ovvero quanto una serie di alterazioni funzionali o strutturali di geni (proteine) non immediatamente coinvolte nella patologia, possano influenzare negativamente la stessa patologia, così come fattori ambientali che interferiscono sulla funzionalità delle variabili polimorfiche che a loro volta interferiranno sulla malattia.
* BSc PhD Direttore Scientifico Progetto Genobioma
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Prevenire è meglio che combattere Grazie alla bioinformatica oltre che alle nuove tecniche di sequenziamento ed a studi di linkage familiare è progressivamente in aumento il numero di polimorfismi genetici che possono essere attribuiti ad una o più suscettibilità a patologie non classificabili come congenite (e quindi immediatamente trasmissibili o trasmesse e patogene) ma in ogni caso ”genetiche” (tumori, neurodegenerazioni, autoimmunità, rischi infettivi virali,…) o epigenetiche; ovvero è possibile interpretare in base ad una serie di varianti genomiche, che di per sé non sarebbero la causa di una o più patologie, la correlazione al maggior rischio di malattia. Grazie agli studi di
farmacogenetica e farmacogenomica, in particolare tra gli altri lo studio dei geni della famiglia del citocromo P450 (CYP450, migliaia di isoforme), è oggi peraltro possibile comprendere la velocità di azione enzimatica in risposta ad un farmaco o in generale ad una molecola farmacologicamente attiva, ed è quindi possibile associare la variabile genetica polimorfica alla risposta individuale ad uno specifico trattamento farmacologico. Curare un malato è la missione delle professioni sanitarie. In Biologia il malato è un essere vivente e la visione è meno antropocentrica e forse più vicina alle recenti scoperte in merito all’epigenetica e quindi a quanto l’ambiente possa interferire sulla funzionalità del DNA. La prevenzione è la parola chiave non solo per essere meno malati, ma anche per allontanare la malattia, il più avanti nel tempo o per curarsi meglio, ovvero bene. Lo studio della variabilità genetica oggi permette di considerare più fattori di rischio e di utilizzare in caso di malattia il farmaco con maggiore efficacia e minor rischio di reazione avversa. È possibile valutare la capacità di detossificare caffeina piuttosto che ammonio o alcool o di comprendere quanto il lattosio o i solfiti possano essere metabolizzati rapidamente o meno così come un oppioide o un chemioterapico. La conoscenza dei processi metabolici correlati ad una o più proteine e quindi alle varianti genetiche responsabili della codifica, permette di valutare la corretta integrazione (ove occorra un cofattore responsabile della maggior funzionalità) piuttosto che di un corretto percorso nutrizionale, nonché in alcuni casi anche dei fattori di rischio ambientali (anche l’eccesso di rumore per esempio correlato ad alcuni geni, piuttosto che l’esposizione a particolari inquinanti ambientali o la risposta a disruttori endocrini). La formazione del professionista sanitario come di quello ambientale (in particolare i Biologi, naturalmente i più predisposti ad una visione più allargata a tutti i processi legati alla natura e quindi alle conseguenze negative arrecate anche all’uomo causate da uno sfruttamento con criteri correlati prima che al benessere dell’am-
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biente a quelli strettamente economici: differenza tra green thinking e green economy) ha oggi un ruolo per comprendere come indirizzare al meglio le nuove tecniche di genomica e le scienze omiche (nutrigenetica, nutrigenomica, metabolomica, proteomica, farmacogenetica e farmacogenomica, trasposomica) non solo in termini di predittività per migliorare ed amplificare corrette azioni terapeutiche riducendo la probabilità di reazioni avverse da farmaco, ma anche di suscettibilità ad una patologia, così come anche di miglioramento delle azioni intraprese nell’ambiente e che possano giocare un ruolo negativo in funzione delle caratteristiche genetiche degli esseri viventi di quello stesso ambiente tra cui anche l’essere umano, ma non solo. La medicina personalizzata conseguente allo studio della variabilità genetica individuale va intesa come la migliore scelta farmacologica possibile, tra quelle esistenti, in funzione delle caratteristiche di risposte metaboliche al farmaco (p.es.: metabolismo veloce o lento di una certa molecola) e delle caratteristiche di detossificazione dello stesso. La scoperta di una serie di polimorfismi correlati al corretto sviluppo del proprio microbiota (l’insieme dei microrganismi che è responsabili in parte della regolazione del sistema immunitario nonché della nutrizione) implica un approfondimento delle interazioni tra il microbioma (il patrimonio genetico del microbiota) ed il genoma umano (l’insieme forma il genobioma) e di quanto gli oltre tre milioni di geni del microbiota influenzino funzionalmente il genoma umano e di quanto azioni epigenetiche siano alla fine responsabili, in funzione delle diverse variabili genetiche, della maggior progressione di una malattia o del suo esordio (diabete, autoimmunità, patologie degenerative, etc…).
Grazie alla bioinformatica oltre che alle nuove tecniche di sequenziamento ed a studi di linkage familiare è progressivamente in aumento il numero di polimorfismi genetici che possono essere attribuiti ad una o più suscettibilità a patologie non classificabili come congenite. © LuckyStep /shutterstock.com
Piano per l’innovazione del sistema sanitario basata sulle scienze omiche L’Intesa Stato Regioni del 26 ottobre 2017 in seguito all’intesa del 13 marzo 2013 su “linee di indirizzo sulla genomica in sanità pubblica” mira a sostenere l’attenta implementazione e l’uso intelligente del “big data” nel settore sanitario e a favorire il raggiungimento di benefici significativi sia per la salute della popolazione che per il sistema economico. L’applicazione della genomica nell’assistenza sanitaria ha il potenziale di ridurre l’impatto delle malattie sulla salute della popolazione. Il successo sarà tanto maggiore quanto questa applicazione avverrà come naturale ampliamento e complemento dei tradizionali approcci di sanità pubblica. I professionisti che lavorano nel campo della salute pubblica e coloro che hanno ruoli di responsabilità nell’organizzazione del sistema sanitario hanno il compito di iniziare e facilitare il processo di implementazione (All. Sub A, G.U. Serie Generale n.13 del 17-01-2018). Il piano in particolare è un impegno ad implementare le informazioni sulla medicina personalizzata delineando i modi in cui l’innovazione delle conoscenze nel campo biologico dovrebbero riformare il Sistema Sanitario Nazionale nelle aree di prevenzione diagnosi e cura tenendo conto dell’efficacia e della sostenibilità per migliorare la salute dell’individuo e della popolazione. Green Deal È auspicabile che un piano sulla implementazione delle conoscenze genomiche sia in qualche modo parte degli strumenti affinché la mission della “rivoluzione verde” e la transizione ecologica possa essere maggiormente tutelata e finalizzata ed in particolare per il rispetto delle biodiversità e dei rischi correlati alla salute umana (e non solo) che non può prescindere dall’ambiente nel quale lo stesso essere umano vive. Non al centro, ma immerso in esso. GdB | Aprile 2021
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TUMORI: RETI ONCOLOGICHE ATTIVE IN 17 REGIONI In quasi tutte è stato attivato il Registro. Importante superare la frammentarietà del percorso di cura
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uando si parla di reti oncologiche la mappa dell’Italia è variegata e segnala situazioni non ancora omogenee. Le reti oncologiche, strutture fondamentali nella presa in carico dei pazienti con tumore sul territorio, sono state avviate in 17 Regioni mentre pressoché in tutte le Regioni (20 su 21) è stato attivato un Registro tumori. A tracciare il quadro l’Agenzia per i servizi sanitari (Agenas), che ha presentato il rapporto sintetico di monitoraggio delle reti oncologiche regionali 2020, sui risultati della quarta indagine nazionale sullo stato di attuazione di queste strutture. L’indagine si basa su una griglia di valutazione compilata dalle singole Regioni e Province autonome nel secondo semestre 2020. Dall’analisi delle risposte fornite emerge che 17 realtà hanno formalizzato un organismo di governo della rete (gruppo di coordinamento/coordinamento/consiglio). «Superare la frammentarietà del percorso di cura e il disorientamento del paziente sono gli obiettivi che dobbiamo porci attraverso lo sviluppo delle reti oncologiche, ormai presenti su tutto il territorio nazionale, grazie so-
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prattutto alla preziosa collaborazione tra tutti gli attori coinvolti a vario titolo nelle reti. L’attività di analisi che l’Agenzia sta portando avanti attraverso l’osservatorio sulle reti, può contribuire notevolmente a rafforzare e rendere omogenea la diffusione di un modello di assistenza integrato e multidisciplinare che metta in relazione i diversi setting assistenziali» dichiara Enrico Coscioni, il presidente di Agenas, l’agenzia che ha presentato il rapporto. «Il monitoraggio delle reti oncologiche regionali è un’attività consolidata presso Agenas e si realizza nell’ambito dei tavoli di condivisione tra le istituzioni centrali e regionali, nonché con le società scientifiche di settore, le associazioni dei pazienti e dei cittadini» sottolinea Alessandro Ghirardini coordinatore dell’Os-
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servatorio per il monitoraggio delle Reti oncologiche regionali. «Questa giornata vuole essere l’occasione per mettere in risalto il lavoro e l’importanza delle reti oncologiche presenti su tutto il territorio nazionale - commenta il direttore generale dell’Agenzia Domenico Mantoan - in quanto fondamentali per la presa in carico del paziente e per coinvolgere in maniera multidisciplinare i professionisti. Non va mai dimenticato, infatti, che tra gli obiettivi di Agenas c’è anche quello di individuare buone pratiche organizzative e fare in modo che vengano replicate nei territori dove si presentano criticità nel soddisfare i bisogni dei pazienti». Sall’indagine risulta che i modelli gestionali più diffusi sono quello Hub & Spoke ed il Comprehensive Cancer Care Networ, ma in
È documentata la presenza delle associazioni di pazienti nelle reti oncologiche in 18 regioni, ma vi è evidenza di una reale partecipazione ai livelli organizzativi solo in 12.
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generale la mappa dell’Italia su questo fronte è multicolore. Tutte le tipologie di strutture sono coinvolte nelle reti, Aziende ospedaliere, le Asl, Aziende Ospedaliere Universitarie, Irccs, Hospice, Strutture private accreditate. Mentre le figure professionali in prima fila nella rete sono Oncologi, Anatomopatologi, Chirurghi e/o specialisti d’organo, Coordinatore, Direttore, Farmacisti, Fisioterapisti e/o riabilitatori, Genetisti, Infermieri, Medici di medicina generale e Pediatri di libera scelta, Medici specializzati in cure palliative, Nutrizionisti, Psicologi, Radioterapisti. Sul fronte della continuità delle cure in 16 Regioni sono attuati specifici percorsi assistenziali, in grado di garantire la continuità assistenziale per i pazienti all’interno della Ror anche in collegamento con il Mmg e i servizi socio-sanitari del territorio, che afferiscono al dipartimento oncologico intra-aziendale. Tredici Regioni hanno formalizzato le modalità di integrazione operativa e informativa tra attività ospedaliere e attività territoriali sanitarie, socio-sanitarie (residenzialità, semiresidenzialità, domiciliarità) e di integrazione con attività degli ambiti sociali; sono poi previsti accordi o contratti che garantiscano l’integrazione inter-istituzionale (in particolare per l’alta specializzazione/complessità) in 14 Regioni. E ancora, 14 Regioni fanno uso del fascicolo elettronico, e tracciano il percorso di cura del paziente oncologico preso in carico dalla rete, attraverso le cartelle cliniche. Sono sedici le Regioni che hanno definito criteri, protocolli, Pdta, linee guida e procedure basati sulle evidenze scientifiche, per l’appropriata presa in carico dei pazienti in maniera omogenea tra tutte le strutture della Ror (anche per patologie rare o particolarmente complesse). Tuttavia, non mancano Regioni che non hanno previsto dei Pdta o linee giuda formalizzate a livello regionali. In otto Regioni (Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana e Campania) la costituzione della Ror prevede modalità formalizzate di finanziamento ad hoc, di individuazione di un responsabile o di una struttura responsabile del finanziamento, della gestione dei finanziamenti e di monitoraggio del loro utilizzo, anche con un piano economico-finanziario che assicuri la sostenibilità delle strategie di continuità operativa. (E. M.) GdB | Aprile 2021
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TRAPIANTO DI TRACHEA SU PAZIENTE POST-COVID L’intervento è stato eseguito all’Ospedale Sant’Andrea di Roma ed è il primo nel suo genere, in relazione ai danni conseguenti all’infezione Sars-Cov2
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un grande risultato della sanità italiana e arriva durante di una pandemia che, da più di un anno, sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro sistema. È stato portato a termine con successo il primo trapianto di trachea in Italia, il primo al mondo che viene effettuato su un paziente post Covid-19. I danni conseguenti all’infezione Sars-Cov2 e alle tecniche di ventilazione invasiva che si sono rese necessarie durante la malattia, hanno provocato l’assottigliamento della trachea che impediva quasi completamente la respirazione, rendendo
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necessario effettuare l’intervento. Il trapianto è stato eseguito lo scorso 2 marzo presso la Chirurgia Toracica dell’Azienda ospedaliero-universitaria Sant’Andrea, policlinico universitario della rete Sapienza e azienda di alta specializzazione della Regione Lazio. Il paziente, un uomo di 50 anni originario della Sicilia, immediatamente risvegliato è stato da subito in grado di respirare e parlare autonomamente; dopo un ricovero di tre settimane e un decorso post-operatorio regolare, ha ripreso la sua vita normale, tornando al suo lavoro e alla sua città. L’importante traguardo è stato
presentato nell’aula magna della Sapienza da parte dello staff medico della Chirurgia toracica diretta da Erino Rendina e in particolare dalla giovane chirurga Cecilia Menna, la trentacinquenne responsabile del Programma “Tracheal Replacement” del Sant’Andrea che ha condotto con il professor Rendina l’intervento in prima persona. A prender parte, il Rettore de La Sapienza, Antonella Polimeni, l’Assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D’Amato, il direttore generale dell’Azienda Ospedaliera-universitaria Sant’Andrea Adriano Marcolongo, il preside della Facoltà di Medicina e psicologia Fabio Lucidi, che hanno condiviso il brillante risultato, spiegando la complessità della macchina organizzativa messa in moto per portare a compimento il trapianto. «Questo successo è motivo di soddisfazione per tutta la nostra comunità e rappresenta un’ulteriore conferma degli eccellenti risultati clinici della ricerca medica e scientifica prodotta dall’Ateneo, al servizio della salute della collettività – afferma il Rettore Polimeni – il fatto poi che questo intervento veda in prima linea una giovane chirurgo è un segnale forte di come le competenze femminili si possano affermare in ambiti professionali come quello chirurgico, tradizionalmente a quasi esclusivo appannaggio degli uomini». L’intervento chirurgico, che ha coinvolto 5 operatori ed è durato circa 4 ore e mezza, è stato condotto con sofisticate tecniche di anestesia, che hanno permesso di non instituire la circolazione extracorporea. La trachea malata è stata rimossa nella sua totalità e successivamente è iniziata la delicata fase di ricostruzione che ha previsto la sua sostituzione con un segmento di aorta toracica criopreservata presso la Fondazione Banca dei Tessuti di Treviso, diretta da Diletta Trojan e perfettamente adattabile alle dimensioni della via aerea del paziente. (E. M.)
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i è accesa una luce sul processo di proliferazione dei tumori. Dopo decenni di ricerche e molte ipotesi, si chiude il cerchio sui meccanismi del ciclo cellulare, il processo attraverso cui le cellule, anche quelle tumorali, maturano e proliferano. I ricercatori dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù e dell’Università di Roma “Tor Vergata”, in collaborazione con altri Centri di ricerca europei e statunitensi, hanno scoperto il tassello mancante: cosa regola la vita della Ciclina D, una molecola essenziale nella divisione delle cellule. L’interruttore che accende e spegne l’attività della Ciclina D è una proteina chiamata Ambra1: quando non funziona si innesca un processo che porta alla rapida formazione di tanti tipi di tumore. La scoperta apre la strada a terapie specifiche che inibiscono il sistema di difesa delle cellule malate sino alla loro autodistruzione. I risultati dello studio, sostenuto da Airc, sono stati appena pubblicati sulla rivista scientifica Nature. Il ciclo cellulare consiste in una serie di eventi concatenati e finemente regolati che porta alla divisione delle cellule; un processo vitale attraverso il quale da un ovulo fecondato si formano le cellule di tutto l’organismo, così come il processo mediante il quale le cellule della pelle, del sangue e degli organi vengono rinnovate. Questo ciclo è regolato dalle Cicline, un gruppo di proteine classificate con le lettere A, B, C, D e così via. Ciascuna compie un pezzo del lavoro di divisione cellulare e vengono prodotte e distrutte in una precisa alternanza, sino alla nascita delle cellule figlie. Di queste molecole era già quasi del tutto noto il meccanismo di regolazione, tranne - sino ad oggi - della Ciclina D. Con lo studio coordinato dal Bambino Gesù è stato finalmente definito l’intero percorso. È stata così scoperta la correlazione tra le proteine Ambra1 e Ciclina D è stato realizzato dai ricercatori del Bambino Gesù - guidati dal prof. Francesco
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TUMORI, ECCO COME SI INNESCANO E PROLIFERANO I risultati di uno studio italiano dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù e dell’Università di Roma “Tor Vergata” pubblicato su Nature, sostenuto dall’Airc
Cecconi dell’Area di Ricerca di Oncoematologia, diretta dal prof. Franco Locatelli - insieme al team di ricerca dell’Università di Roma “Tor Vergata” e si è avvalso della collaborazione del Danish Cancer Society Research Center e di altri Centri europei e statunitensi La ricerca è stata condotta su centinaia di campioni (modelli animali, cellule prodotte in laboratorio, cellule derivate da tumori sia animali che umani) con una combinazione di tecniche avanzate (imaging, microscopia, fluorescenza, ingegneria genetica, biochimica, istologia), partendo dall’intuizione di un possibile ruolo di Ambra1
- molecola scoperta nel 2007 proprio dal team del prof. Cecconi - in alcuni difetti del ciclo cellulare. Nel corso delle indagini, i ricercatori hanno infatti notato che in caso di assenza o di scarsa quantità di Ambra1, la Ciclina D non viene distrutta come dovrebbe e, quindi, si accumula. A causa di questo accumulo, le cellule cominciano a dividersi a velocità incontrollata, il Dna si danneggia e si innesca la formazione di masse tumorali. Lo squilibrio dei livelli delle due proteine è stato riscontrato in molti tipi di tumore, tra cui l’adenocarcinoma polmonare, il sarcoma e il glioblastoma. (E. M.) GdB | Aprile 2021
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TUMORI E IL MIX DI MOLECOLE IMMUNO-ONCOLOGICHE Lo studio tutto italiano coordinato da La Sapienza: “Siamo nell’era dell’immunooncologia di precisione”. La combinazione sarebbe efficace al di là del tipo di cancro
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otta contro i tumori: ha inizio «l’era dell’immuno-oncologia di precisione». È stata Bristol Myers Squibb ad annunciare il «nuovo approccio aperto dalla combinazione di due molecole immuno-oncologiche, nivolumab più ipilimumab, che in uno studio tutto italiano, per la prima volta al mondo, è stata sottoposta a valutazione agnostica, cioè indipendentemente dall’organo colpito». L’azienda farmaceutica ha promosso un media tutorial virtuale per presentare i risultati di una metanalisi coordinata dall’Università La Sapienza di Roma e pubblicata sul ‘Journal of Transla30 GdB | Aprile 2021
tional Medicine’. Oggetto del lavoro sono stati sette studi condotti fra il 2010 e il 2020 su più di 2.420 pazienti affetti da melanoma, tumore del polmone a piccole cellule e non a piccole cellule, tumori di vescica e stomaco, sarcoma e mesotelioma. Come comunicato in una nota, «la combinazione di nivolumab e ipilimumab ha dimostrato un’efficacia agnostica, cioè trasversale e al di là del tipo di cancro». L’associazione delle due molecole immuno-oncologiche, in particolare «ha incrementato le risposte del 68% e ha ridotto il rischio di progressione della malattia del 20% e il rischio di morte del 13%
rispetto alla monoterapia con solo nivolumab. Singoli studi hanno inoltre evidenziato che, grazie alla combinazione di nivolumab e ipilimumab, è possibile ottenere una sopravvivenza a lungo termine in diversi tipi di tumore particolarmente difficili da trattare in fase avanzata, come quelli del polmone (circa 40.880 nuovi casi stimati in Italia nel 2020), del rene (13.520), il melanoma (14.900) e il mesotelioma (1.900)». Paolo Marchetti, direttore Oncologia medica B del Policlinico Umberto I di Roma, ordinario di Oncologia alla Sapienza e prima firma della metanalisi, ha spiegato che l’associazione tra Nivolumab e ipilimumab è il «primo esempio di combinazione di molecole che agiscono in modo complementare sul sistema immunitario e che consentono di raggiungere risultati clinici importanti». Questo approccio, incentrato sui meccanismi di risposta e resistenza rappresenta «un primo passo verso l’immuno-oncologia di precisione, superando il modello della medicina basata sulla stratificazione dei pazienti in base a fattori predittivi di risposta. Quest’ultimo modello - ha detto Marchetti - ha l’obiettivo di ridurre il numero di pazienti da trattare per ottenere un vantaggio clinicamente rilevante, mentre il modello agnostico permette di ampliare il numero di pazienti che possono trarre vantaggio da una specifica modalità terapeutica». Ad oggi il mix nivolumab-ipilimumab ha ricevuto l’approvazione europea nel trattamento in prima linea del melanoma avanzato, del carcinoma a cellule renali avanzato a rischio intermedio/sfavorevole e, in associazione con due cicli di chemioterapia a base di platino, nel trattamento in prima linea del tumore del polmone non a piccole cellule metastatico (Nsclc) senza mutazione Egfr e Alk. Marchetti ha sottolineato la necessità che la combinazione sia rimborsata anche in Italia, come in altri Paesi UE, per offrire «un’efficace alternativa terapeutica». (D. E.).
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a qualità del sonno è fondamentale per il benessere della persona. Ne sono convinti gli esperti della World Sleep Society (Wss), secondo cui insonnia, disturbi del sonno e cattivo riposo notturno sono responsabili di problemi di salute del 45% della popolazione mondiale. Mediamente, in quasi tutti i Paesi, una percentuale compresa tra il 10 e il 15% della popolazione nazionale presenta disturbi del sonno, mentre un altro 30% lamenta una sensazione ricorrente di riposo non riparatore, sperimentando stanchezza al risveglio. Numeri preoccupanti, resi ancora peggiori, a detta di psicologi e medici, dalla pandemia di Covid-19, dai lockdown e dalle restrizioni che a partire da marzo 2020 hanno stravolto ritmi e abitudini di milioni di persone. L’importanza di un sonno qualitativamente ottimale, spiegano gli esperti, è correlata anche ad un miglior funzionamento del sistema immunitario, decisivo per rispondere alle minacce rappresentate da virus e altre malattie. Gli studiosi della Wss sottolineano che le alterazioni del sonno, oltre a provocare conseguenze dannose a livello psicologico e psichiatrico, come l’aumento dell’ansia e dello stato depressivo, si ripercuotono direttamente sul corpo, rappresentando un fattore di rischio aumentato per sovrappeso, obesità, diabete, ipertensione, ed alcune forme di tumore, in particolare del seno e della prostata. Ma c’è di più: una ricerca della Clinica universitaria di Navarra, in Spagna, ha evidenziato che il cattivo sonno incide anche sull’insorgere del morbo di Parkinson: il 33% dei pazienti con disturbi del riposo notturno lo sviluppano entro cinque anni e oltre il 75% entro dieci anni. Intervenire con terapie farmacologiche è possibile, ma sempre su prescrizione dello specialista. La Società mondiale del sonno, prima di arrivare ai medicinali, consiglia tra le
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DORMIRE MALE INDEBOLISCE IL SISTEMA IMMUNITARIO Gli esperti: la qualità del sonno incide sullo stato di salute, il cattivo riposo incide anche sull’insorgenza del morbo di Parkinson
altre cose di rispettare orari fissi sia per andare al letto che per alzarsi, di riposare in media tra sette e otto ore a notte, di non dormire eccessivamente e di non pensare di recuperare nel week-end il sonno perso nell’arco della settimana. Ad aiutare la regolarità del sonno possono essere poi i pasti ad orari regolari (possibilmente non troppo pesanti dal tardo pomeriggio in poi), una routine quotidiana che eviti di arrivare a fine giornata troppo stanchi, l’esposizione ai raggi solari in particolare di mattina, l’evitare dispositivi elettronici prima di coricarsi, nonché l’attività fisica eccessivamente pesante e
la moderazione nei consumi di fumo e alcool. Seguire questi consigli è enormemente più difficile durante una pandemia, ma gli esperti suggeriscono di tentare al netto dei lockdown e delle restrizioni. Di fatto si tratta di rispettare gli orari in cui uno va normalmente a dormire e si alza, senza trascorrere l’intera giornata davanti al pc, ritagliandosi all’occasione momenti di pausa per eseguire esercizi di respirazione, leggere libri, passeggiare nei pressi della propria abitazione, fare attività sportiva all’aperto, preparare dei pasti e avere cura del proprio corpo. (D. E.). GdB | Aprile 2021
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TUMORE AL SENO TRIPLO NEGATIVO: NUOVA TERAPIA Il nuovo trattemento dell’Ntbc si basa una terapia cellulare autologa, che prevede l’impiego di cellule prelevate dalla stessa paziente di Marco Modugno
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n progetto che nasce con un obiettivo ambizioso è quello che hanno deciso di sviluppare i ricercatori di Immuno-Cluster. Mettere nero su bianco una terapia cellulare autologa, che quindi si baserà in sostanza sull’impiego di cellule prelevate dalla stessa paziente, per andare a trattare il carcinoma mammario triplo negativo (Ntbc), una delle forme più aggressive di cancro al seno, che allo stato attuale è tra le più difficili da andare a trattare. Si è stimato che questa forma di tumore infatti rappresenti il 10-20% delle diagnosi totali di cancro alla mammella, e che vada a colpire principalmente le donne in giovane età, con un alta incidenza soprattutto nelle regioni del Nord Est Italiano, dove sono stati registrati oltre 160 casi per 100mila donne, fino a sconfinare nella vicina Slovenia, dove in casi sono leggermente più bassi, 120 per 100mila donne, e per le quali la possibilità di eventuali recidive, nonostante le pazienti siano state già trattate da cicli di chemioterapia, rimangono estremamente elevate. «Triplo negativo – ci tiene a precisare Francesco Curcio, ordinario di Patologia Clinica e responsabile scientifico per il Di-
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partimento di Area Medica Università di Udine, insieme all’Ospedale Ortopedico Valdoltra (Slovenia) – deriva dal fatto che, a differenza degli altri tumori mammari, questo si caratterizza per l’assenza di recettori estrogenici e progestinici e per la mancata sovraespressione del recettore 2 del fattore di crescita epidermico umano (Her2), rendendo quindi molto difficile il trattamento della malattia con gli approcci standard. L’immunoterapia, che sfrutta lo stesso sistema immunitario del paziente per combattere la patologia, e che è in fase sperimentale da decenni in associazione con i protocolli tradizionali, ha senza ombra di dubbio aperto la strada a nuove promettenti possibilità di cura. È adesso indispensabile creare una massa critica comune di competenze, sia cliniche sia produttive, che possano lavorare insieme come sistema anche utilizzando nuovi approcci cellulari e molecolari». Queste sono dunque le basi da cui ha preso poi forma quest’affascinate sfida, un progetto di ricerca che ha coinvolto ed è stato sostenuto da un network di eccellenze universitarie, oltre che da ospedali all’avanguardia, e da aziende farmaceutiche e biotecnologiche già molto attive sul
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fronte delle terapie avanzate per il trattamento del cancro e nell’immunoterapia. Fondamentale per la buona riuscita del progetto sarà il prossimo passaggio, che vedrà impegnati i ricercatori nella redazione di un protocollo condiviso che permetterà così entro la fine di quest’anno la produzione del medicinale cellulare autologo da sperimentare successivamente sulle pazienti affette da questa gravissima forma tumorale. All’Istituto di Oncologia di Lubiana, è stato affidato il delicatissimo compito di andare a reclutare le pazienti basandosi su specifici e rigorosi parametri. Segnali incoraggianti, che hanno funzionato da ottimo propulsore per la buona riuscita del progetto, provengono dallo studio clinico “HybriCureR”, sviluppato dal Lead Partner di progetto, Celica Biomedical, è stato già clinicamente testato su un ristretto numero di pazienti, affetti da cancro alla prostata resistente alla terapia ormonale. L’approccio terapeutico in questo caso si è dimostrato sicuro, non tossico e in grado di prolungare di oltre quattro volte il tempo alla terapia secondaria, come è stato anche confermato dal Direttore Robert Zorec, proprio per queste evidenze si è dimostrato il candidato ideale anche per il trattamento del Tnbc. Parliamo di un trattamento che ha come scopo la produzione, attraverso un articolato processo ed un’integrazione di competenze diversificate, di quelle cellule del sistema immunitario, cosiddette dendritiche, che per l’appunto sono specifiche nell’andare a riconoscere e catturare le proteine antigeniche (estranee) con lo scopo ultimo di far produrre una risposta immunitaria da parte dell’organismo. «Per ottenerle dobbiamo partire da campioni di sangue che ci vengono inviati dall’Ospedale dell’Angelo, Hub di riferimento della provincia di Venezia e che, in questa fase della ricerca, provengono da donatori sani. In futuro, quando il protocollo sarà stato messo a punto in via definitiva, verranno prelevati direttamente dalle donne con Tnbc» precisa Flavia Mazzarol, Business Development Specialist di VivaBioCell.
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Si è stimato che questa forma di tumore infatti rappresenti il 10-20% delle diagnosi totali di cancro alla mammella, e che vada a colpire principalmente le donne in giovane età, con un alta incidenza soprattutto nelle regioni del Nord Est Italiano. © Jo Panuwat D /shutterstock.com
Alla struttura friulana inoltre è affidata momentaneamente anche la sperimentazione della procedura in “sistema chiuso”, tramite il bioreattore automatico Nant, così da fare in modo di ridurre sensibilmente i costi dei prodotti per la terapia cellulare rendendola in futuro accessibile a sempre più pazienti. «Una volta ottenute queste cellule dendritiche autologhe, differenziate dai monociti, dovremo ibridarle, tramite elettrofusione, con quelle tumorali, rimosse chirurgicamente dalla stessa paziente. In questo modo, e una volta re-iniettate, saranno in grado di attivare il sistema immunitario aiutandolo a combattere il cancro, avendogli permesso prima di riconoscerlo». Per gli esperti appare chiaro che i risultati attesi avranno un impatto decisamente positivo anche sulle imprese e sui sistemi sanitari transnazionali, un iter che abbasserà enormemente i costi sia per quel che riguarda le terapie e anche per l’assistenza; senza considerare inoltre i vantaggi per le pazienti, che potranno in questo modo poter beneficiare di una migliore qualità di vita e di una speranza di guarigione sempre maggiore. GdB | Aprile 2021
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SCOPERTI MARCATORI PER METASTASI AL COLON La ricerca dell’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” e del Cnr di Napoli apre la strada a nuove terapie mirate
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e b b e n e i numeri siano in calo grazie all’efficacia dei programmi di screening, nel 2020 sono state 43.702 le diagnosi di tumore del colon-retto effettuate in Italia, un tipo di cancro che rappresenta ancora oggi nel nostro Paese la seconda causa di morte oncologica (la terza nel mondo) alle spalle del carcinoma del polmone. Statistiche che la dicono lunga sulla necessità di agire per scoprire come ridurre l’impatto di questa malattia per salvare quante più vite possibile. Ed è proprio quello che hanno fatto i ricercatori dell’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” del Cnr di Napoli, autori di uno studio realizzato grazie al sostegno della Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, scoprendo un meccanismo alla base della forma-
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zione di metastasi che potrebbe consentire di sviluppare nuove terapie mirate proprio contro tali fattori, eliminando in maniera selettiva una specifica popolazione di cellule tumorali. I risultati della ricerca italiana, pubblicati sulla rivista Theranostics, si concentrano sull’identificazione - da parte degli studiosi - di due marcatori molecolari che inducono le cellule staminali tumorali del colon verso lo sviluppo di metastasi. La dottoressa Enza Lonardo del Cnr-Igb ha spiegato come «fra i principali fattori di rischio per la malattia vi sono l’età, una dieta poco varia e non equilibrata, il fumo ed errori casuali nel DNA che si verificano durante la divisione cellulare. Alcune delle mutazioni genetiche più frequenti in questo tipo di tumore possono causare una crescita cellulare incontrollata delle cellule stesse». L’esperta ha messo in chiaro che al netto degli importanti progressi realizzati negli ultimi decenni nella comprensione della biologia dei tumori, «l’efficacia dei trattamenti disponibili per la cura del tumore del colon-retto non è migliorata in modo significativo»; ne deriva che «purtroppo un numero crescente di pazienti al momento della diagnosi già presenta metastasi epatiche». Una premessa che serve a chiarire l’importanza di aver scoperto dei bersagli molecolari specifici potenzialmente decisivi nel determinare il trattamento più idoneo per ogni paziente. La dottoressa Lonardo in questo senso ha dichiarato: «Diversi studi sono attualmente incentrati sulle cellule staminali tumorali, in quanto è stato dimostrato il loro coinvolgimento nel favorire la crescita tumorale e lo sviluppo di metastasi. Inoltre, le cellule staminali tumorali sono in genere altamente resistenti alla chemioterapia e possono di conseguenza essere responsabili della recidiva della malattia». Qui interviene la specificità e l’importanza del lavoro condotto dall’Istituto di genetica e biofisica Adriano Buzzati Traverso del Cnr di Napoli: «Il nostro studio - ha proseguito la dottoressa Lonardo - ha identificato una sottopopolazione di cellule staminali tumorali caratterizzata dalla elevata espressione della molecola di adesione L1cam. La co-espressione di tale fattore con il recettore Cxcr4, noto per favorire la migrazione delle cellule tumorali in organi distanti, incrementa il potenziale tumorigenico delle cellule staminali tumorali, rendendole altamente resistenti al trattamen-
Nel 2020 sono state 43.702 le diagnosi di tumore del colon-retto effettuate in Italia, un tipo di cancro che rappresenta ancora oggi nel nostro Paese la seconda causa di morte oncologica (la terza nel mondo) alle spalle del carcinoma del polmone. © Kateryna Kon /shutterstock.com
to chemioterapico e favorendo l’insorgenza di metastasi, in particolare nel fegato». Una scoperta di grande rilevanza scientifica quella realizzata dai ricercatori dell’istituto partenopeo, con i ricercatori che hanno inoltre identificato alcuni meccanismi molecolari alla base della elevata co-espressione di questi marcatori. Essi risultano assenti nelle cellule del colon normale, mentre vengono attivati in quelle tumorali che risiedono in un microambiente povero di ossigeno e in presenza della molecola Nodal. La presenza di entrambi questi fattori (ipossia e Nodal) induce l’espressione di L1cam e Cxcr4 - spiega il Consiglio Nazionale delle Ricerche - promuovendo così l’insorgenza di un fenotipo più aggressivo e meno responsivo alle terapie farmacologiche convenzionali. Per realizzare queste importanti scoperte scientifiche, gli autori dello studio si sono avvalsi dell’impiego di modelli cellulari tridimensionali, i cosiddetti organoidi, derivanti da cellule tumorali di pazienti, che hanno consentito loro di riprodurre in laboratorio le caratteristiche biologiche essenziali dei tumori del colon-retto nonché la loro architettura. La dottoressa Lonardo ha concluso notando come «questa scoperta potrebbe permettere lo sviluppo di nuovi farmaci che agiscano in modo specifico sia attraverso la riduzione diretta dell’espressione dei due marcatori» che inducono le cellule staminali tumorali del colon a sviluppare metastasi, «sia in maniera indiretta sul microambiente tumorale, ad esempio aumentando l’ossigenazione della massa tumorale o modulando la via di segnalazione mediata da Nodal». La scienziata si è detta infatti convinta che «tali nuovi approcci potrebbero avere importanti implicazioni cliniche, nel ridurre drasticamente il potenziale tumorigenico delle cellule e di conseguenza ridurre drasticamente la recidiva e la formazione di metastasi». Se lo augurano vivamente, non solo gli scienziati che hanno lavorato a questo studio nella speranza di apportare un contributo fattivo alla ricerca contro il cancro, e in particolare quello del colon-retto, ma soprattutto tutti i pazienti - i loro cari - affetti da una tipologia di tumore che soltanto nel 2020 è stata responsabile in Italia della morte di quasi 20mila persone. Un numero, sebbene in calo rispetto al passato, ancora troppo alto. (D. E.). GdB | Aprile 2021
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DIETA CON VEGETALI CONTRO IL RISCHIO ICTUS Nuovo studio del Dipartimento di Nutrizione di Harvard sul rapporto tra approcci dietetici considerati sani e il rischio cardiovascolare
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na dieta con una maggiore presenza di cibi vegetali sani rispetto a cibi vegetali raffinati può contribuire alla riduzione del rischio di ictus. Un team di ricercatori della Harvard TH Chan School of Public Health ha scoperto che regimi dietetici ricchi di alimenti come verdure a foglia verde, cereali integrali e fagioli, e che contemplino una minor presenza di cereali raffinati, patate e zuccheri aggiunti, possono ridurre il rischio complessivo di ictus fino al 10%. La ricerca è stata pubblicata online sull’houseorgan dell’American Academy of Neurology, la rivista “Neurology”. Lo studio ha analizzato i dati sanitari di 209.508 individui, donne e uomini, raccolti nei database di due generazioni del “Nurses’ Health Study”, uno studio pubblico e diffuso sullo stato di salute degli infermieri, ormai giunto alla terza generazione, che si occupa di indagare i fattori di rischio delle principali malattie croniche tra gli operatori sanitari. La popolazione osservata non mostrava in partenza una storia di malattie cardiovascolari o di cancro. La mole di dati a disposizione è notevole: lo studio può infatti fare affidamento su report relativi alle abitudini alimentari, redatti tramite questionari compilati ogni due o quattro anni, in un arco temporale di sorveglianza di circa 25 anni. La dieta dei partecipanti è stata valutata in base alla salubrità degli alimenti a base vegetale contemplati: le persone che solitamente mangiavano una porzione, o persino meno, di carne o pesce ogni mese
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sono state classificate come “vegetariane”. L’analisi ha portato gli scienziati a verificare che una dieta sana a base vegetale, oltre ad essere collegata a un rischio complessivo di ictus inferiore del 10%, era associata a una modesta riduzione del rischio di ictus ischemico, il tipo più comune di ictus, che si verifica quando il flusso sanguigno al cervello viene bloccato. Lo stesso studio, tut-
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tavia, non ha individuato alcuna associazione tra una dieta sana a base vegetale e un ridotto rischio di ictus emorragico, l’ictus che si verifica quando un’arteria si rompe o ha una perdita di sangue. «I nostri risultati - ha detto Megu Baden, autrice dello studio e ricercatrice presso il Dipartimento di Nutrizione ad Harvard - hanno importanti implicazioni per la salute pubblica, e suggeriscono che le future politiche nutrizionali, ai fini della riduzione del rischio di ictus, dovrebbero prendere in considerazione la qualità del cibo assunto». Il team di Harvard ha sviluppato anche un approfondimento su collegamenti più specifici, ma non è stata trovata alcuna associazione tra una dieta vegetariana e un ridotto rischio di ictus, sebbene gli autori della ricerca abbiano notato che il numero di partecipanti allo studio classificati come vegetariani era molto limitato. Ecco perché i ricercatori hanno suggerito che questo risultato - così come altri risultati incoerenti in studi precedenti che avevano esaminato il rapporto tra le diete a base vegetale e il rischio di ictus – potrebbe in parte essere spiegato da un’alta percentuale di alimenti a base vegetale di bassa qualità nelle diete dei partecipanti. In generale, mag-
Un team di ricercatori della Harvard TH Chan School of Public Health ha scoperto che regimi dietetici ricchi di alimenti come verdure a foglia verde, cereali integrali e fagioli, e che contemplino una minor presenza di cereali raffinati, patate e zuccheri aggiunti, possono ridurre il rischio complessivo di ictus fino al 10%. © Kerdkanno /shutterstock.com
giore è l’aderenza a modelli sani di alimentazione, minore è il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari (CVD). Alcuni mesi fa, lo stesso ateneo aveva diffuso i risultati di un altro studio, questa volta coordinato dal ricercatore Zhilei Shan, che aveva analizzato diversi modelli di dieta considerati sani e il rischio associato di malattie cardiovascolari. In quel caso l’indagine era stata focalizzata su modelli alimentari sani complessivi anziché su singoli ingredienti e sostanze nutritive. I ricercatori si erano concentrati sui punteggi di quattro modelli di alimentazione sana, facendo riferimento all’Healthy Eating Index-2015 (HEI-2015), al punteggio della dieta mediterranea (AMED), all’indice di dieta a base vegetale (HPDI) e all’Indice Alternativo di Alimentazione Sana (AHEI). Ciascuno dei modelli esaminati, seppur considerati con punteggi diversi rispetto alla “correttezza” dell’alimentazione personale, si caratterizzava per una maggiore assunzione di cereali integrali, verdure, frutta, legumi e noci e minori assunzioni di carni rosse e bevande zuccherate o trasformate. L’analisi aveva verificato che l’aderenza a un qualsiasi modello alimentare considerato sano era chiaramente associata a un minor rischio di CVD per un valore compreso tra il 14% e il 21%. «Questa ricerca – aveva allora commentato Frank Hu, presidente del Dipartimento di Nutrizione – conferma che seguire schemi alimentari sani conferisce benefici alla salute a lungo termine, nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Non esiste una dieta valida per tutti, che sia la migliore per tutti. Ma è possibile combinare gli alimenti in una varietà di modi flessibili per ottenere modelli alimentari sani in base alle esigenze di salute degli individui, alle preferenze alimentari e alle tradizioni culturali». Lo studio di Baden e colleghi pone dunque un ulteriore livello di approfondimento, segnalando che anche nell’approccio alimentare focalizzato sui vegetali possono essere fatte scelte più salutari di altre. «Molte persone hanno aumentato la quantità di componenti a base vegetale nella loro dieta», ha aggiunto Kathryn Rexrode, professoressa associata di medicina al Brigham and Women’s Hospital e coautrice dell’articolo. «Questi risultati mostrano che una maggiore assunzione di cibi sani a base vegetale può aiutare a ridurre il rischio di ictus a lungo termine e che è ancora importante prestare attenzione alla qualità della dieta anche quando sono a base vegetale». (S. L.). GdB | Aprile 2021
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Salute
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l Joint Research Centre (JRC), il servizio di ricerca scientifica indipendente della Commissione Europea, ha aperto una sezione del proprio portale dedicata ai temi della promozione della salute e della prevenzione delle malattie. La sezione intitolata “Health Promotion Knowledge Gateway” raccoglie dati, eventi e linee guida utili alle politiche di prevenzione dell’obesità e delle malattie correlate. Tra i vari contenuti scientifici, diffusi con taglio divulgativo, è possibile consultare anche molti report ufficiali di istituzioni e organizzazioni sanitarie come l’Organizzazione Mondiale della Sanità o l’Eurostat. La possibilità di accedere anche alle serie storiche permette di dare forma al contesto alla base di quella che è considerata una vera e propria epidemia. Oggi un adulto su quattro, pari a una quota compresa tra il 19% e il 29% della popolazione dei diversi Stati membri dell’Unione Europea, è affetto da obesità. Si tratta di una condizione complessa definita dall’eccessivo accumulo di grasso corporeo, leggermente più diffusa negli uomini. Uno degli obiettivi principali dello spazio digitale inaugurato sul portale del JRC è accompagnare i cittadini verso comportamenti consapevoli. Anche per questo sono disponibili numerose informazioni su tematiche che fanno parte del quotidiano come l’etichettatura degli alimenti o pacchetti di contenuti pensati per rendere l’educazione alla salute più semplice anche nelle scuole, in linea con gli obiettivi del contrasto all’obesità infantile e della promozione dell’esercizio fisico. Uno stile di vita sano e la prevenzione dell’obesità sono ormai nodi prioritari dell’agenda europea, anche sul piano della ricerca. Il programma Horizon 2020 ha destinato più di 200 milioni di euro in progetti per comprendere gli aspetti multiformi dell’obesità. Il problema di tipo sanitario fa infatti il paio con un correlato carico economico molto importante. Secondo il rapporto “The Heavy Burden of Obesity. The Economics of Prevention”, pubblicato dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), nell’ottobre 2019, oggi più della metà della popolazione della quasi totalità dei Paesi dell’OCSE è in sovrappeso, una persona su quattro è obesa. Secondo le 38 GdB | Aprile 2021
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UNO SPAZIO ONLINE CONTRO L’OBESITÀ Il portale del JRC inaugura una sezione dedicata ai corretti stili di vita: dati e documenti per un problema che nella sola UE brucia ogni anno 70 miliardi di euro di Sara Lorusso
stime questa condizione riguarderà 92 milioni di cittadini nei prossimi 30 anni, con la conseguente riduzione della speranza di vita di circa tre anni entro il 2050. Sul versante della spesa, si stima che il sovrappeso sia responsabile del 71% di tutti i costi delle cure per il diabete, del 23% dei costi delle cure per le malattie cardiovascolari e del 9% dei costi delle cure per i tumori. Il che si traduce in circa l’8,4% del bilancio del sistema sanitario dedicato alle malattie legate al sovrappeso. Gli Stati membri dell’UE spendono quasi il 7% dei loro budget per il trattamento delle condizioni di salute correlate all’obesità, come il diabete, le malattie cardiovascolari e il cancro. Includendo la spesa sanitaria e il calo della produttività, i costi legati all’obesità salgono a 70 miliardi di euro all’anno nell’UE. Una delle serie di dati pubblicati sulla sezione del sito, quelli relativi al 2016, evidenzia come più di mezzo milione di decessi ogni anno nella sola Unione Europea possano essere attribuiti a un indice di massa corporea (BMI) superiore al limite ideale. In quell’anno, per esempio, è stato registrato un BMI elevato per quasi il 60% degli adulti residenti nell’UE. «L’obesità - ha spiegato Marija Gabriel, commissaria UE per l’innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e la gioventù - è un fattore di rischio “silenzioso”, tra i più pericolosi e significativi oggi. Dobbiamo affrontarne le cause e impedire alle persone che convivono con l’obesità di sviluppare altre malattie, non trasmissibili ma pericolose per la vita».
Uno degli obiettivi principali dello spazio digitale inaugurato sul portale del JRC è accompagnare i cittadini verso comportamenti consapevoli. Anche per questo sono disponibili numerose informazioni su tematiche che fanno parte del quotidiano come l’etichettatura degli alimenti, pacchetti di contenuti pensati per rendere l’educazione alla salute più semplice anche nelle scuole, in linea con gli obiettivi del contrasto all’obesità infantile e della promozione dell’esercizio fisico. © 2xSamara.com /shutterstock.com
L’insorgenza dell’obesità è causata da molteplici e spesso correlati fattori genetici, comportamentali, fisiologici, ambientali e sociali. Contano la genetica, le influenze ambientali che determinano la biologia o circostanze fisiologiche, come la resistenza all’insulina. L’alimentazione è uno dei fattori con maggiore impatto: le diete poco variegate, basate su pasti trasformati ad alto contenuto energetico e bevande analcoliche zuccherate, e con una scarsa assunzione di frutta, verdura e altri alimenti ricchi di fibre sono state identificate come possibili cause dell’insorgenza e dell’aggravamento dell’obesità. «I dati scientifici raccolti dal JRC - ha aggiunto Gabriel - contribuiranno in modo significativo al processo politico in atto, per trovare le misure più adatte ad affrontare questo problema di salute». Lo spazio digitale inaugurato sul portale del JRC raccoglie anche le linee guida nazionali sull’alimentazione e sull’attività fisica, le indicazioni sulle limitazioni da imporre al marketing quando questo è targettizzato sui bambini. È stato inoltre progettato un toolkit per lo sviluppo di codici di condotta sulla commercializzazione di alimenti e bevande, indirizzato soprattutto alla riduzione dell’esposizione dei bambini a prodotti alimentari poco sani. Gli Stati membri, questo uno degli auspici del lavoro del centro di ricerca, dovrebbero aderire a linee guida comuni anche nella definizione di appalti per la fornitura di alimenti nelle istituzioni pubbliche, come scuole e uffici, nell’ottica di un maggiore contenimento del consumo di zuccheri. GdB | Aprile 2021
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COLORE DEGLI OCCHI: AFFARE COMPLESSO Uno studio internazionale pubblicato su Science Advances identifica nuovi geni coinvolti nella determinazione del tratto somatico
di Elisabetta Gramolini
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amma dagli occhi blu, papà con gli occhi marroni. Di che colore avrà gli occhi il figlio? Uno studio internazionale spiega quanto sia complessa dal punto di vista genetico la determinazione di questo particolare tratto somatico. La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Advances nel mese di marzo, ha coinvolto un esteso campione di 192.986 individui europei, provenienti da dieci popolazioni differenti, ed ha permesso ai genetisti di individuare 124 associazioni indipendenti, di cui 61 diverse regioni genomiche, incluse 50 finora sconosciute, che contribuiscono al tratto somatico. La scoperta rimette in gioco, in poche parole, le convinzioni del passato, quelle del pensiero “Mendeliano”, nonché gli studi precedenti, che ritenevano come la variazione del colore degli occhi fosse determinata da uno solo o da pochi geni che rendevano il colore marrone degli occhi “dominante” su quello azzurro. I risultati dimostrano invece come il colore degli occhi sia un tratto multifattoriale e poligenico. Al team di ricercatori provenienti
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da vari centri degli Stati Uniti, della Cina o dell’Australia, hanno partecipato anche l’Irccs Materno Infantile “Burlo Garofolo” e l’Università degli studi di Trieste. Il gruppo di genetica medica dell’Istituto triestino ha fornito dati genetici di oltre duemila soggetti, provenienti da isolati genetici, ovvero piccoli paesi isolati geograficamente, caratterizzati da una omogeneità ambientale e genetica. In questo modo, l’identificazione di tratti multifattoriali, come in questo caso il colore degli occhi, è risultata più semplice. «Dal nostro studio – spiega Giorgia Girotto, genetista presso il laboratorio di Genetica Medica del Burlo Garofolo e ricercatrice presso il dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e della Salute dell’Università di Trieste – emerge che il colore degli occhi risulta essere un tratto poligenico e multifattoriale. Il colore degli occhi è determinato da geni già noti coinvolti nella pigmentazione della melanina e nella struttura e morfologia dell’iride, oltre che da fattori ambientali quali la latitudine e l’area geografica
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La mappatura dei geni
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partire dal 2008, hanno preso avvio i cosiddetti Genome-wide association study (Gwas). Si tratta di un approccio usato nella ricerca genetica per associare le variazioni specifiche ad alcune malattie particolari. Il metodo consiste nella scansione dei genomi di differenti popolazioni e nella osservazione di marker genetici che possono essere usati per predirre la presenza di una malattia. Una volta identificati, questi marcatori genetici possono essere utilizzati per capire come i geni contribuiscono alla malattia e sviluppare migliori strategie di prevenzione e trattamento.
dalla quale si proviene. L’osservazione ha permesso di capire la natura delle numerose sfumature che possono caratterizzare i nostri occhi: il colore si rivela essere un tratto poligenico, determinato dall’interazione di più geni. Alcuni di questi sono maggiormente coinvolti, come il gene OCA2 che controlla la sintesi della melanina e il gene HERC2, implicato nella pigmentazione, ma non sono gli unici». Ma i risultati non si sono limitati all’Europa. «La peculiarità di questo studio – commenta l’autrice - è che sono state analizzate popolazioni europee per una prima identificazione dei geni coinnvolti ed è poi stata fatta una replica in popolazioni totalmente indipendenti (coorti asiatiche)». I ricercatori, quindi, oltre al genoma dei soggetti europei, hanno analizzato anche quello di 1.636 soggetti asiatici di due popolazioni diverse (i cinesi Han e gli indiani provenienti
La ricerca, pubblicata sulla rivista Science Advances nel mese di marzo, ha coinvolto un esteso campione di 192.986 individui europei, provenienti da dieci popolazioni differenti.
da Singapore). Nonostante le differenze etniche importanti, la variazione di pigmentazione dell’iride è risultata avere basi genetiche molto simili tra soggetti europei ed asiatici. Insieme, i risultati spiegano il 53,3% della variazione del colore degli occhi. «I soggetti della coorte asiatica – osserva la genetista - sono stati usati come replica. La prima coorte è stata invece usata come discovery, ovvero come coorte per l’identificazione dei geni. Successivamente abbiamo cercato di vedere se i geni venivano confermati in un gruppo etnico completamente indipendente». La ricerca ribadisce ciò che la scienza dice da tempo: non è vero che popolazioni così lontane siano differenti. «Tutt’altro – sottolinea la dottoressa Girotto – dal punto di vista genetico lo studio confuta le varie affermazioni razziste. Siamo in realtà molto simili. Addirittura alle volte le persone che sul piano fenotipico sembrano distanti, su quello genetico non lo sono. Esistono – precisa - le etnie non le razze». La conoscenza genetica dei principali tratti fenotipici può aprire a varie strade. La prima è quella che porta allo studio di nuove terapie per patologie oculari di cui conosciamo o ipotizziamo la causa genetica. «Tutti questi geni – precisa la ricercatrice dell’Università di Trieste – sono particolarmente interessanti perché miglioreranno la comprensione di molte malattie che sappiamo essere associate a specifici livelli di pigmentazione dell’iride, come ad esempio il glaucoma pigmentario e l’albinismo oculare. Saranno fondamentali gli studi futuri che permetteranno di chiarire determinati aspetti patologici legati ad alcune malattie». GdB | Aprile 2021
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Salute
PARKINSON: IL LABORATORIO PER LA DISAUTONOMIA A Milano è stato aperto il primo centro per la diagnosi di tali sintomi. Il progetto servirà a tracciare la rotta per nuove e cure e trattamenti della patologia neurologica
di Carmen Paradiso
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l primo laboratorio per la valutazione dei sintomi disautonomici del Parkinson è stato aperto all’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano. Realizzato in collaborazione con il Centro Parkinson e Parkinsonismi dell’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano e con il contributo delle Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson, al suo interno sarà possibile studiare, nella fase iniziale, i sintomi del sistema nervoso autonomo in questa malattia, affinché possa essere individuata e seguite la sua evoluzione, permettendo anche di distinguerla da altri parkinsonismi atipici. L’indagine viene eseguita mediante esame obiettivo, raccolta dei sintomi autonomici (questionari mirati alla ricerca di questi sintomi) e somministrazione di specifici test cardiovascolari che studiano il sistema nervoso autonomo, il quale ha il compito di controllare la funzione del cuore e dei vasi sanguigni. Anche il monitoraggio della pressione arteriosa nelle 24 ore è di notevole importanza, poiché potrebbe indicare la presenza di alterazioni compatibili con la disautonomia. «Uno degli impegni della nostra Fondazione - dichiara Gianni Pezzoli, Presidente Fondazione Grigioni per il Morbo di Parkinson e già Direttore Centro Parkinson e Parkinsonismi dell’ASST Gaetano Pini-CTO, Milano - si è concretizzato proprio nella realizzazione di questa struttura altamente innovativa e sofisticata, localizzata all’interno dello stesso Ospedale in cui si trova il Centro Parkinson (ASST Gaetano Pini-CTO). Sono pochissimi i Centri in Italia a disporre di una strumentazione così tecno42 GdB | Aprile 2021
logica e all’avanguardia e di un team di esperti dedicato. Questo Laboratorio – prosegue - è stato realizzato con l’obiettivo di acquisire nuove conoscenze relative ai disturbi non motori, attraverso la valutazione del Sistema Nervoso Autonomo, per contribuire a fare più chiarezza in questa area ancora poco conosciuta e pionieristica in ambito neurologico». Il Parkinson e i parkinsonismi atipici sono la conseguenza di un’alterazione del sistema nervoso che regola tutte quelle attività al di fuori del controllo volonta-
rio. È stato accertato che sintomatologie cardiovascolari, urinarie e dei disturbi della funzione sessuale sono i primi campanelli di allarme della disautonomia che può manifestarsi anche nella fase iniziale della malattia. L’esame utilizza una sofisticata strumentazione (sistema ANScovery) e si avvale della registrazione in continuo di segnali biologici (frequenza cardiaca, attività respiratoria e pressione arteriosa) per 60 minuti. Consente di diagnosticare la disautonomia nella malattia di Parkinson e nelle altre forme di Parkinson valutandone presenza, gravità ed evoluzione, insieme alla risposta alla terapia. «I sintomi di disautonomia - spiega Del Sorbo, medico specialista in Neurologia - possono essere gestiti con misure non farmacologiche. Data la varietà e la molteplicità dei sintomi disautonomici, la gestione e il trattamento di questi pazienti richiede un approccio multidisciplinare e un dialogo continuo e costante tra il neurologo e gli altri specialisti coinvolti nel percorso di cura» conclude.
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sclepio, che i latini chiamavano Esculapio, era figlio del Dio Apollo e di una donna mortale di nome Coronide. Quest’ultima, mentre teneva in grembo il figlio ancora in tenera età, fu assassinata della dea Artemide con una freccia lanciata da lontano. L’assassinio era stato meditato e portato a termine da Apollo, che era abbastanza adirato perché Coronide lo avrebbe tradito con un altro mortale di nome Ischi. Sin da bambino Asclepio dimostrò tanta predilezione verso il mondo scientifico al punto che il padre Apollo lo affidò al centauro Chirone perché conoscesse e apprendesse i fondamenti della scienza medica. Asclepio denotò subito grande interesse verso questa disciplina e la sua abilità cominciò non solo ad essere apprezzata dagli uomini ma anche dagli dei, tanto che Zeus, preso da invidia, non esitò ad ucciderlo con un fulmine. Ma lo stesso Zeus, padre degli dei, si pentì ben presto del suo gesto e lo fece ritornare alla vita, e da semidio lo elevò a divinità minore. Di Asclepio abbiamo avuto notizie anche dall’Iliade omerica, quando fra gli eroi greci che parteciparono alla guerra di Troia sono stati citati i suoi due figli, Podalirio e Macaone, i quali erano anche medici militari. Asclepio era un medico e, nello stesso tempo, un guaritore ed il centauro Chirone gli insegnò a curare le ferite. Proprio allora si generò la figura del medico-mago che, oggi corrisponderebbe ad uno stregone oppure allo sciamano: quindi, cominciò a farsi largo la medicina secondo una concezione magico-religiosa e taumaturgica del male e della terapia da applicare. Asclepio, che fu considerato un medico-mago, nei suoi interventi sugli ammalati utilizzava incantesimi, sacrifici, purificazioni rituali, infusi di erbe per guarire dalle malattie, che venivano viste come una punizione inviata dalle divinità. Quindi, la medicina ebbe origine divina e seguitò ad essere in tal modo considerata fino al V secolo a.C., quando si affermò Ippocrate di Coo, le cui teorie porteranno un’innovazione profonda e rivoluzionaria nel mon-
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L’IMPORTANZA DEL DIO ASCLEPIO NELL’ANTICHITÀ Fu considerato un medico-mago, nei suoi interventi sugli ammalati utilizzava incantesimi, rituali, infusi di erbe per guarire dalle malattie
di Barbara Ciardullo do della medicina. Ad Asclepio, tra il IV ed il III secolo a.C., venne dedicato ad Epidauro, antica città dell’Argolide (Peloponneso nordorientale) un santuario, che divenne col passare del tempo una solenne “città della salute”. Infatti, nei pressi del santuario sorgeva una fonte sacra, celebre fin dal VI secolo a.C., esso era affiancato da altri templi, porticati, da alloggi riservati a sacerdoti e pellegrini e da un teatro tra i più perfetti del mondo greco, costruito da Policleto il Giovane (350 a.C.) e tuttora utilizzato per le straordinarie qualità acustiche. Il culto di Asclepio si diffuse in ogni angolo della Grecia e santuari gli furono dedicati nelle colonie greche dell’Italia meridionale, in Sicilia e persino a Roma
dove Asclepio sarà venerato, a partire dal III secolo a.C., con il nome di Esculapio. Ma la città di Epidauro per oltre un millennio fu meta di pellegrinaggi di fedeli al culto di Asclepio: questo culto riuscì a superare le credenze religiose degli invasori barbari del III secolo a.C. e si oppose anche all’affermazione del Cristianesimo, che oramai aveva messo ai margini i riti pagani. Solo nel 426 d. C. l’imperatore romano d’Oriente Teodosio II pose fine a questo culto e lo vietò per sempre. Per Asclepio, infine, venivano organizzate pure le Asclepieie, feste che comprendevano i giochi minori, competizioni sportive e musicali e anche rappresentazioni teatrali, che erano considerate parte integrante di ogni terapia. GdB | Aprile 2021
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LE FRAGOLE E LA BELLEZZA DELLA PELLE La famiglia delle Rosacee è tra le fonti alimentari più ricche di componenti bioattivi dalle proprietà antiossidanti di Emanuele Rondina
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e fragole, insieme ad altri frutti di bosco appartenenti alla famiglia delle Rosacee, come il mirtillo, sono considerate tra le fonti alimentari più ricche di composti bioattivi dalle formidabili proprietà antiossidanti. Una dieta primaverile bilanciata ed equilibrata, quindi, non dovrebbe mai privarsi di questi frutti così importanti. Scopriamo ora tutte le proprietà delle fragole e i benefici che questi frutti rossi tipici della primavera, apportano alla nostra salute e come possono aiutarci a mantenere giovane la nostra pelle. La storia L’origine della fragola è molto antica: è presente anche nella Bibbia, dove viene descritta come un frutto spontaneo abbondante e gustoso, ma ne si attesta la presenza anche nel Neolitico. Il nome della pianta è Fragaria vesca, termine che ricorda il sostantivo latino “fragrans” cioè profumato con il quale i Romani erano soliti indicare questi frutti deliziosi. Il frutto rosso che tutti noi ben conosciamo in realtà, dal punto di vista botanico, non è un frutto bensì un contenitori di tanti frutti diversi (i semini
gialli che possiamo vedere sulla superficie rossa della fragola stessa). La fragola attuale ha origini americane In Italia, fino al XVII secolo erano presenti solo specie selvatiche autoctone (Fragaria vesca, F. viridis, F. moschata). La specie Fragaria ananassa, a cui appartengono tutte le varietà attualmente coltivate, in realtà è un ibrido interspecifico la cui costituzione si deve ad un ufficiale francese di nome A. F. Frezier. Durante i suoi viaggi esplorativi nel Nuovo Continente, importò dal Cile 5 piante di F. chiloensis, che aveva scelto per i suoi frutti di grossa pezzatura, e alcune a piante di F. virginiana (individuate nell’America settentrionale). L’incrocio fra queste due specie del continente americano avvenne casualmente in Bretagna nel 1712, dove vennero coltivate le une accanto alle altre. Gli acheni vennero raccolti, seminati e originarono dei semenzali alcuni dei quali producevano frutti più grossi di quelli delle specie parentali. Nel corso dei decenni successivi si avviò una attività di breeding che portò alla costituzione delle prime varietà coltivate all’inizio del 1800. Ad oggi sono più di 2000 le varietà costituite nel mondo originate da questo ibrido, gran parte delle quali perse.
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Salute
Caratteristiche e valori nutrizionali Le fragole, oltre ad essere ricchissime di vitamina C, sono una fonte molto ricca di diversi composti nutritivi ed in particolare di vitamine, flavonoidi e antocianine che hanno una azione antiossidante, antinfiammatoria, anti-tumorale e anti-aging. Questi nutrienti, agiscono in maniera sinergica, conferiscono alla fragola proprietà utili a promuovere lo stato di salute e prevenire diver© Anna Ok/shutterstock.com se patologie. Il contenuto in zuccheri delle fragole inoltre è modesto (più di 5 gr per 100 gr di alimento) e contengono una buona quantità di fibre. Tra le vitamine, la più rappresentata è senz’altro la vitamina C: Tra i frutti estivi, le fragole sono quelle con un contenuto maggiore di vitamina C con un contenuto di 58 mg in 100 gr di prodotto tenendo presente che l’assunzione giornaliera raccomandata è di 85 mg per la donna adulta e 105 mg per l’uomo adulto. Oltre alla vitamina C, come in moltissimi altri frutti, anche nella fragola troviamo buone quantità di potassio (minerale fondamentale per la contrazione muscolare, la regolazione della pressione arteriosa e il mantenimento del sistema idro-salino) e di fosforo (coinvolto nel metabolismo energetico e nella costruzione di molte proteine): 100 gr di fragole contengono circa il 4% della dose giornaliera raccomandata di questi due minerali. Troviamo, inoltre, una discreta quantità di iodio, paragonabile solo a pochissimi altri frutti. Il naturale periodo di raccolta delle fragole inizia a primavera e termina ad Agosto. Consiglio quindi di consumare questo frutto soprattutto durante questo periodo e di scegliere sempre prodotti biologici e possibilmente a km 0. Durante la scelta è consigliabile privilegiare i frutti dal colore uniforme e il picciolo ben attaccato all’estremità. Inoltre, per consumare frutti più ricchi di nutrienti, è consigliabile scegliere fragole di colore scuro. Le fragole, durante la stagione più calda, possono essere conservate a temperatura ambiente non più di una giornata. Se quindi le avete comprate per utilizzarle nell’arco di una 46 GdB | Aprile 2021
giornata allora non è necessario riporle in frigorifero. In alternativa potete conservare le fragole per diversi giorni in frigorifero, mettendole in un contenitore per alimenti. Raccomandazioni Non ci sono particolari controindicazioni al consumo moderato di fragole. Tuttavia va sottolineato che le fragole possono provocare reazioni allergiche e sono alimenti istamino-liberatori. Pertanto anche coloro che soffrono di allergia all’istamina devono limitarne il consumo. L’allergia alle fragole si nota con la comparsa di puntini rossi e prurito alla pelle. In casi più rari può comportare veri e propri episodi di orticaria e gonfiore alla bocca. Le fragole e la bellezza della pelle La Fragola, preferibilmente biologica e non derivata da sistemi di coltura intensivi che depauperano le proprietà nutrizionali di questo alimento, è una delle più ricche fonti naturali di composti fenolici bioattivi a livello cutaneo. Tra i flavonoidi più presenti sono: il campferolo, la quercitina, Tra gli acidi fenolici si evidenzia: l’acido gallico, l’acido caffeico, l’acido cumarinico e l’acido ellagico. Infine sono presenti sia diverse antocianine, responsabili del colore tipico di questi frutti, oltre ad un’alta quantità di vitamina C che oltre ad essere importante per l’assimilazione del ferro da parte dei globuli rossi, è coinvolta direttamente nella sintesi del collagene (la proteina che mantiene giovane e turgida la pelle). Questo basterebbe a spiegare la capacità di questo frutto primaverile di preservare l’integrità anatomo-funzionale del derma, risparmiando il collagene, però vorrei soffermarmi nel descrivere le proprietà dell’acido ellagico contenuto in alte dosi. Acido ellagico e l’azione anti-aging L’acido ellagico è un polifenolo antiossidante presente
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nelle fragole ma che può essere estratto anche dal melograno, dai lamponi, dai mirtilli rossi e dalle noci. Come tutti i polifenoli sopra elencati, svolge un’azione anti-radicali completa e potente, consentendo di proteggere efficacemente la pelle dagli effetti dello stress ossidativo e, quindi, dall’invecchiamento precoce. La particolarità di questa molecola è di agire agire direttamente sulla cute in particolare sulle fibre di collagene della matrice extra-cellulare aumentando la produzione di collagene di tipo I del 41%, e inibendo del 15% l’espressione degli enzimi che degradano questa molecola. Inoltre fissandosi sulle fibre di elastina (una proteina del tessuto connettivo permette alla pelle di mantenersi elastica), ne impedisce il degrado enzimatico (MMP, proteasi, elastasi) e ne aumenta la stabilità e la longevità. Infine, l’acido ellagico insieme alla vitamina C e agli altri polifenoli, limita il tasso di perossidazione dei lipidi della pelle, causato dai radicali liberi, limitandone l’invecchiamento precoce. Tutte queste funzioni, quindi, spiegano l’attività biologicamente preziosa della fragola, e del perchè le sue proprietà antiossidanti ne fanno un ingrediente di prima scelta oltre che nelle nostre tavole anche per contrastare gli effetti dell’invecchiamento cutaneo.
Bibliografia
Le fragole, oltre ad essere ricchissime di vitamina C, sono una fonte molto ricca di diversi composti nutritivi ed in particolare di vitamine, flavonoidi e antocianine che hanno una azione antiossidante, antinfiammatoria, anti-tumorale e anti-aging. © NokkieVector /shutterstock.com
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L
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a perdita dei capelli può essere causata da diversi fattori, tra cui i più conosciuti sono la genetica e l’età, ma sono altrettanto importanti lo stile di vita, l’alimentazione e lo stato psico-fisico personale. Tra i fattori di rischio legati alla calfvizie, l’esposizione cronica e prolungata a fattori di stress merita un approfondimento in quanto può influenzare profondamente l’omeostasi dei tessuti, sebbene i meccanismi con cui si verificano tutti i cambiamenti da stress siano in gran parte sconosciuti. La pratica clinica ha evidenziato che quando una persona è stressata, ansiosa o malata, il ciclo di crescita del capello può essere mandato prematuramente in stato di shock e indurre anticipatamente il passaggio in fase di telogen e quindi la caduta prematura e sincronizzata. Il 31 marzo 2021 è stato pubblicato su Nature uno studio del dott. Ya-Chieh Hsu, professore di cellule staminali e biologia rigenerativa presso l’Università di Harvard, in cui emerge che riducendo i livelli di corticosterone nei topi mediante una particolare proteina, si aumenta di conseguenza la crescita dei peli. WIl corticosterone, è un ormone prodotto dalla ghiandola surrenale dei roditori in seguito a stress ed è l’equivalente del cortisolo negli esseri umani, questo ormone regola la quiescenza delle cellule staminali del follicolo pilifero (HFSC) e la crescita dei peli nei topi. In assenza di corticosterone sistemico, gli HFSC aumentano sostanzialmente la rigenerazione e la produttività capillare. Al contrario, sotto stress cronico, i livelli aumentati di corticosterone prolungano la quiescenza dell’HFSC e mantengono i follicoli piliferi in una fase di riposo prolungata anticipando la caduta e ritardando la nuova crescita. Meccanicamente, il corticosterone agisce sulle papille dermiche per sopprimere l’espressione di Gas6, un gene che codifica per una proteina chiamata “fattore di arresto della crescita specifico 6”. La scoperta messa in luce dai ricercatori dell’Università di Harvard è aver provato che il ripristino dell’espressione di Gas6 supera l’inibizione indotta dal corticosterone e attiva la produttività di HFSC e della crescita dei capelli. Gas6 è una proteina contenente il dominio dell’acido gamma-carbossiglutammico (Gla) che si ritiene sia coinvolto
proprio nella stimolazione della proliferazione cellulare. Interessante anche notare che la presenza di Gla necessita di una reazione enzimatica dipendente dalla vitamina K che carbossila il carbonio gamma di alcuni residui glutammici della proteina durante la sua produzione nel reticolo endoplasmatico. Quindi l’azione della vitamina K è essenziale sulla funzione GAS6 ed è una delle vitamine che se carenti possono essere responsabili di maggiore caduta. Nello studio pubblicato su Nature, i risultati evidenziano che nei topi, gli ormoni dello stress sopprimono la crescita dei peli inibendo le cellule staminali del follicolo pilifero, ma che aumentando la produzione di GAS6, la crescita dei peli riprende anche sotto stress. In particolare, i topi alterati che non producevano più corticosterone grazie ad una modifica delle ghiandole surrenali, mostravano radici in telogen per soli 20 giorni, tre volte meno rispetto ai topi naturali. Allo stesso tempo nei topi alterati senza produzione di corticosterone i fusti si sono mostrati 3 volte più spessi. Tali risultati ci inducono a pensare che GAS6 sia capace di promuovere la crescita dei capelli anche nell’uomo quando aumenta lo stress, e che invece la sua riduzione faciliti i casi di caduta da shock o da effluvio cronico. Dopo aver registrato tali condizioni, i ricercatori hanno iniettato GAS6 nei topi non modificati ma sottoposti a stress e hanno riscontrato con successo una nuova ricrescita di peli. L’inoculazione di GAS6 è riuscita a inibire il blocco delle cellule staminali indotto dallo stress incoraggiando la rigenerazione della crescita. Tali evidenze sono molto importanti perchè identificano negli ormoni dello stress l’inibizione sistemica dell’attività HFSC e dimostra che la rimozione di tale inibizione spinge gli HFSC ad aumentare i cicli di rigenerazione, senza difetti osservabili a lungo termine. Le conclusioni di tali studi aprono a scenari futuri entusiasmanti, in cui sarà possibile proteggere i nostri capelli dagli stress psico fisici e/o post traumatici alla base del telogen effluvium, o anche nei casi di post trapianto in cui spesso si osserva spesso un effetto detto shock loss, che sebbene transitorio, genera disagio al paziente per diversi mesi.
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GAS6: IL SUO RUOLO SU STRESS E CAPELLI I ricercatori dell’Università di Harvard scoprono che il gene supera l’inibizione indotta dal corticosterone e attiva la crescita dei capelli di Biancamaria Mancini
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ACIDO AZELAICO E PIRUVICO CONTRO L’ACNE Come il peeling chimico può aiutare a curare gli inestetismi della pelle danneggiata dall’infiammazione di Carla Cimmino
L’
Tratto da “A comparison of the effectiveness of azelaic and pyruvic acid peels in the treatment of female adult acne: a randomized controlled trial”, di Karolina Chilicka, Aleksandra M. Rogowska, Renata Szyguła, Iwona Dzieńdziora-Urbińska & Jakub Taradaj.
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acne vulgaris è una malattia infiammatoria cronica della pelle, si presenta con comedoni, seborrea, noduli, papule, pustole e cicatrici. L’acne dell’adulto (acne trada) è più comune nelle persone di sesso femminile di età compresa tra i 20 ei 25 anni. Ne esistono di due sottotipi: 1) acne tardiva (nota anche come persistente, quando emerge nell’adolescenza e continua fino all’età adulta rappresenta l’80% dei casi); 2) esordio tardivo (se si presenta per la prima volta in età adulta). E’ caratterizzata da noduli infiammatori papulo-pustolosi e profondi, sul collo, mascella e mento. Uno dei metodi più efficaci per ridurre le cicatrici da acne è il peeling chimico. Utile nella cosmetologia moderna per il resurfacing della pelle invecchiata e danneggiata dal sole, ma anche per trattare varie malattie della pelle. Secondo l’American Academy of Dermatology, “il peeling chimico (chemexfoliation) per il trattamento di alcune malattie o condizioni cutanee o il miglioramento estetico, consiste nell’applicazione di uno o più agenti esfolianti chimici sulla pelle, distruggendo porzioni dell’epidermide o derma, permettendo la rigenerazione di nuovi tessuti epidermici e dermici.” I “peeling chimici superficiali” (peeling leggeri), prevedono l’applicazione di uno o più agenti sulla pelle con l’obiettivo di una leggera desquamazione. Gli alfa-idrossiacidi (AHA) sono un gruppo di composti organici estratti
dalla frutta e dalla canna da zucchero. Per i “peeling medi”, gli AHA azelaici hanno la massima efficacia nel migliorare la qualità e l’aspetto della pelle del viso, soprattutto nella riduzione dell’acne papulo-pustolosa. L’acido piruvico è un α-cheto-acido con proprietà cheratolitiche, antimicrobiche e sebostatiche, stimola la formazione di nuovo collagene e fibre elastiche. E’ impiegato come agente “peeling medio” in soggetti con acne infiammatoria, cicatrici da acne moderate, pelle grassa, cheratosi attinica e verruche, e in diversi disturbi della pigmentazione in pazienti di pelle chiara. L’acido azelaico (AA) è un acido C9-dicarbossilico saturo naturale, ha proprietà antinfiammatorie e antibatteriche, inibisce la sintesi di proteine cellulari in microrganismi aerobi e anaerobi, come P. acnes e S. epidermidis. In questo studio sono state prese in esame 120 donne di 22 anni (suddivise in due gruppi da 60), affette da acne papulo-pustolosa lieve e moderata, e si è esaminata la differenza dell’efficacia dei peeling con acido azelaico e piruvico, nel trattamento dell’acne vulgaris. Valutate le pazienti clinicamente prima e dopo il trattamento, utilizzando la scala dei sintomi di gravità di Hellegren – Vincent per la diagnosi dell’acne e l’analizzatore Nati per stimare le proprietà della pelle (pelle grassa, desquamazione, porosità e umidità). Si è dimostrato che il grado dei sintomi di gravità dell’acne è dimi-
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nuito significativamente durante il trattamento con entrambi gli acidi AA e PA (p <0,001), così come la percentuale di oliatura e desquamazione della pelle. Il gruppo trattato con PA ha mostrato una pelle significativamente meno grassa rispetto al gruppo trattato con AA, ma la dimensione dell’effetto era piccola (con il 3% della varianza totale spiegata). L’AA e PA hanno prodotto riduzioni simili nella gravità e nelle lesioni dell’acne. Il miglioramento globale medio complessivo è stato di circa il 40% in entrambi i gruppi. Recenti ricerche evidenziano che l’acido piruvico è molto indicato per il trattamento dell’acne vulgaris, infatti in alcuni studi ha mostrato: 1) un aumento significativo dell’idratazione cutanea; 2) una diminuzione della quantità di melanina nell’epidermide. AA e PA possono interferire con il gradiente di pH transmembrana, con la riduzionedi Cutibacterium acne intrafollicolare. Sia AA che PA hanno prodotto un livello di desquamazione significativamente inferiore (di circa l’1% alla settimana 12). La dimensione dei pori, nonché il livello di umidità U e T, non sono cambiati in modo significativo sotto l’influenza di AA e PA. Il PA riduce l’untuosità maggiormente (di circa il 19% alla settimana 12) rispetto all’AA (di circa il 13% alla settimana 12). Il PA grazie alle sue piccole dimensioni, penetra più rapidamente e profondamente attraverso la pelle rispetto all’AA, ma tutto dipende anche
Lo studio mostra come il grado dei sintomi di gravità dell’acne è diminuito significativamente durante il trattamento con entrambi gli acidi AA e PA (p <0,001), così come la percentuale di oliatura e desquamazione della pelle. Il gruppo trattato con PA ha mostrato una pelle significativamente meno grassa rispetto al gruppo trattato con AA, ma la dimensione dell’effetto era piccola (con il 3% della varianza totale spiegata). © thoughtsofjoyce /shutterstock.com
dalla concentrazione, attrito, veicolo, passaggi e tempo di esposizione. L’AA ha un’efficace azione antibatterica, diminuisce la dimensione e il numero dei comedoni alterando l’ipercheratosi follicolare e riducendo l’iperpigmentazione post-infiammatoria, grazie alla sua attività antitirosinasi, non è tossico né fototossico e non interagisce con altri farmaci, quindi può essere utilizzato durante la gravidanza e l’allattamento. I suoi effetti collaterali: prurito, bruciore, irritazione, disestesia, reazioni allergiche verso il veicolo, tensione della pelle nella zona trattata, un lieve effetto sbiancante e l’aggravamento della pelle già infiammata, può essere combinato con contraccettivi ormonali e, nei casi gravi di acne, con tetracicline orali, per promuovere un miglioramento più rapido. Il PA è un agente peeling efficace e sicuro in grado di migliorare la struttura e il colore della pelle, ridurre l’acne attiva (in particolare l’acne microcistica) e le lesioni iperpigmentate, ha anche proprietà cheratolitiche, antimicrobiche e sebostatiche ben note e stimola la formazione di collagene e fibre elastiche. Durante l’applicazione produce vapori pungenti e irritanti per la mucosa delle vie respiratorie superiori, gli effetti collaterali includono anche la formazione di croste nelle aree di pelle infiammata o più sottile. Le controindicazioni includono l’infezione da virus herpes simplex, malattie della pelle autoimmuni, gravidanza, trattamento con isotretinoina nei 3 mesi precedenti, cheloidi e cicatrici ipertrofiche. A causa della sua azione profonda e rapida, il PA non è raccomandato per pelli con dermatite seborroica, dermatite atopica o dermatite periorale, ma nonostante ciò, è suggerito come agente utile nell’efficacia della terapia dell’acne topica e sistemica, soprattutto per la pelle grassa e cicatrici da acne lievi. I risultati di questo studio sono promettenti ma richiedono conferme in ulteriori ricerche. L’efficacia degli acidi azelaico e piruvico nel trattamento dell’acne è paragonabile, come confermato in questo studio. Siccome lo studio si è concentrato su un gruppo omogeneo di giovani donne, i risultati non possono essere generalizzati a uomini, adolescenti e anziani, così in futuro, dovrebbe partecipare allo studio un campione più ampio, che includa donne e uomini con acne, nonché persone senza problemi di pelle o malattie (per confronto). Inoltre, l’idea è quella di esaminare gli adolescenti, così come gli adulti sopra i 30 anni con acne. GdB | Aprile 2021
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GLI SPAZI BLU FANNO BENE ALLA SALUTE Allungano la vita e rendono più felici. Secondo gli studiosi dell’Università di Glasgow assicurano una migliore salute fisica e mentale di Domenico Esposito
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ivere a colori”, recita il ritornello di una canzone di successo di qualche anno fa. Ma chissà se l’interprete era consapevole dell’impatto che i colori possono avere sulla salute umana. Per restare in tema musicale, sarebbe stato orgoglioso della scoperta realizzata da cinque ricercatori dell’Università di Glasgow un certo Domenico Modugno, che con il suo “Nel blu dipinto di blu” si diceva già in tempi non sospetti “felice di stare lassù”. Ed è proprio quanto messo nero su bianco, in maniera certamente meno poetica, dagli scienziati dell’ateneo scozzese che nello studio “Meccanismo dell’impatto degli spazi blu sulla salute umana” hanno evidenziato i benefici derivanti dal vivere vicino ad aree caratterizzate dalla presenza di acqua, ossia coste, laghi, fiumi e canali. La ricerca, attraverso un criterio anche meramente statistico, ha sottolineato come vivere vicino al blu sia benefico non solo perché è meno evidente l’inquinamento atmosferico, ma anche perché porta ad incrementare sia l’attività fisica, sia l’interazione sociale delle persone. Più in generale, hanno evidenziato gli studiosi dell’Università di Glasgow, vivere vicino al blu assicura una migliore salute fisica e mentale. Nel loro lavoro, gli scienziati
hanno voluto muoversi in controtendenza rispetto a quel filone di esperti che è portato a porre l’accento sugli effetti negativi degli spazi blu e dei pericoli che comportano per la salute. In particolare, per citare alcuni esempi, l’aumento del rischio di inondazioni per chi vive vicino al mare o alle rive di un fiume, ma anche livelli più elevati di trasmissione di malattie a causa dell’esposizione ai microbi che abitano le acque. A detta dei ricercatori di Glasgow, infatti, gli effetti positivi sulla salu-
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te sono di gran lunga superiori a quelli negativi: gli spazi blu, scrivono, devono essere considerati «preziosi servizi ecosistemici, hanno un ruolo sia estetico che ecologico e possono essere utilizzati per la regolazione del microclima urbano». Nel loro rapporto, gli scienziati dichiarano che ad oggi «pochi studi distinguono tra spazi verdi e blu, poiché lo spazio blu è spesso trattato come una componente intrinseca dei parchi e degli ambienti naturali. Tuttavia, gli spazi blu sono entità indipendenti e c’è bisogno che siano considerati separatamente e non solo come una sottocategoria degli spazi verdi». Quella sulla distinzione tra spazi verdi e blu non è ascrivibile ad una diatriba cromatica di poco conto. Agli spazi verdi, infatti, già in passato era stata attribuita dalla scienza la capacità di influire positivamente sullo stato di salute mentale delle persone che li frequentavano, riducendo i livelli di ansia, stress e depressione. Al riguardo, un recente studio su bambini danesi ha evidenziato che quelli cresciuti vicino a spazi verdi avevano il 40% di probabilità in meno di sviluppare uno spettro di disturbi della salute mentale nonché un disturbo da abuso di alcol o sostanze. Lo studio dell’Università di Glas g o w
La ricerca, attraverso un criterio anche meramente statistico, ha sottolineato come vivere vicino al blu sia benefico non solo perché è meno evidente l’inquinamento atmosferico, ma anche perché porta ad incrementare sia l’attività fisica, sia l’interazione sociale delle persone. © Daxiao Productions /shutterstock.com
conferma, attraverso dati statistici, che i disturbi di salute mentale sono più frequenti in aree con una maggiore densità di popolazione. Ad aumentare il rischio di insorgenza di questo tipo di problematica sono fattori come il sovraffollamento, l’inquinamento, l’assenza di una rete sociale e la violenza urbana. Ecco perché gli ambienti naturali sono stati visti a lungo come una grande risorsa, in grado di incidere positivamente sui livelli di stress e di ansia sperimentati dalle persone, migliorando il loro umore e la loro salute mentale. Anche gli spazi blu, come gli spazi verdi - sostengono gli esperti - influiscono sulla vita degli esseri umani ed è proprio il colore blu, come emerso esaminando le reazioni delle persone anche attraverso la realtà virtuale, a rappresentare un vero e proprio toccasana contro il malumore e lo stress. Ma qual è la correlazione tra il blu e un inferiore rischio di morte prematura? Il rapporto scozzese fornisce una spiegazione molto semplice: essere meno nervosi, non essere sottoposti a stress o depressione, riduce il rischio di malattie cardiovascolari, ad oggi tra le cause di morte più frequenti. Godere di uno stato d’animo sereno porta le persone a muoversi di più - e di conseguenza a diminuire le possibilità di diventare obesi - oltre che a sviluppare maggiori interazioni sociali. Un concetto che gli studiosi di urbanistica conoscono bene al punto che, come ricordato in un articolo citato dal World Economic Forum da Michael Georgiou, tra i ricercatori autori dello studio, sperimentano le varie possibilità per portare i corsi d’acqua vicino ai centri urbani. Esempio lampante è quanto avveniva in epoca vittoriana, quando i canali del Regno Unito risultavano decisivi per l’economia consentendo il commercio e gli spostamenti dei lavoratori. Georgiou al riguardo osserva come «c’è ancora un’enorme rete di queste vie d’acqua in molte città del Regno Unito, ma pochissime di esse sono in uso». Si guardi la città di Birmingham, dove vi sono più canali che Wa Venezia, ma l’accesso ad essi è spesso bloccato da alti edifici o recinzioni che ne limitano il pieno utilizzo. Paradossalmente, questi canali, se abbandonati rischiano di causare anche problemi ambientali, come l’inquinamento da rifiuti di plastica, che può diminuire la biodiversità e danneggiare la fauna selvatica. Alla luce di questa consapevolezza, in molte zone del Regno Unito tra cui proprio la Scozia, si sta cercando il modo per riqualificarli. GdB | Aprile 2021
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UN NUOVO “ORO” IN FONDO AL MARE Sono le olurie, comunemente detti “cetrioli di mare”, sempre più al centro di un mercato nero che le vede protagoniste in diversi Paesi del mondo
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l nuovo oro pescato illegalmente anche nei nostri mari è un “lingotto” dalla forma di cetriolo. Le oloturie, note come i cetrioli del mare, sono infatti sempre più al centro di un mercato nero che le vede purtroppo protagoniste in diversi Paesi del mondo. A richiederle è il mercato asiatico, sia il sud-est che la Cina, dove le oloturie vengono considerate (senza alcuna corrispondenza con la realtà) afrodisiache, e dove sono ambite sia come cibo che nella medicina tradizionale cinese. Eppure, questi echinodermi del mare dall’aspetto buffo, è importante che rimangano lì dove sono: hanno una funzione fondamentale all’interno degli ecosistemi. Grazie al loro spostarsi lungo i fondali, mantengono fertilizzati gli ambienti marini attraverso gli escrementi e – come dimostrato in diverse ricerche – sono decisivi nel far prosperare la vita. Visto che li stiamo perdendo, anche per questo da alcuni anni in Italia così come in altre zone del mondo è vietata la pesca di oloturie, esseri viventi che non sfuggono però alle dinamiche dei pesca-
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tori illegali che le piazzano come “oro” sul mercato nero, dato che possono valere intorno a 250 euro al chilo e anche molto di più in caso di specie particolari. Nonostante i divieti, in Italia esiste purtroppo una tratta abusiva di oloturie: spesso vengono pescate illegalmente in Puglia o nell’Adriatico e poi caricate su furgoni e navi diretti in Grecia. Da lì, vengono rivendute sul mercato asiatico. Di esempi ce ne sono a bizzeffe. Di recente, sono arrivate condanne per pescatori salentini che stavano commercializzando illegalmente oltre 200 tonnellate di cetrioli di mare pescati in provincia di Lecce e persino in aree marine protette. Altri sequestri di questi “biorimediatori naturali”, capaci di ingerire e filtrare sedimenti e nutrienti, sono stati effettuati poi nel brindisino, al confine con l’Istria, nel palermitano, a Taranto e in numerosissimi altri luoghi, se si guarda soltanto all’ultimo anno. Nel frattempo, la pesca di frodo sta contribuendo a decimare le popolazioni di oloturie. Il Mipaaf, per ora, ha esteso il divieto di pesca fino al 31 dicembre 2021 ma da noi
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come altrove i pescatori illegali continuano ad infischiarsene. Così, sui furgoni e nascosti fra i bancali, finiscono chili e chili di oloturie ancora vive gettate nei secchi diretti in Grecia e in Asia. Continuando a saccheggiare i fondali e rischiando di portare i cetrioli di mare al collasso, si potrebbero però incrinare completamente gli equilibri degli ecosistemi: gli escrementi delle oloturie sono infatti decisivi per esempio per aiutare le barriere coralline dato che i cetrioli divorano materia organica sui fondali, fra cui alghe, sabbia e organismi e quando rilasciano le feci disperdono carbonato di calcio, azoto, ammoniaca, e diversi fertilizzanti fondamentali per la vita nei fondali. Un ruolo che è stato dimostrato in più ricerche scientifiche e, come ha detto per esempio la biologa marina australiana Jane Williamson che ha condotto diversi studi sulle oloturie, «sono importanti perché girano i sedimenti, areandoli e rilasciando sostanze nutritive e cibo ad altri organismi sulle barriere coralline». Nonostante la loro importanza però, essendo così richiesti sul mercato
Grazie al loro spostarsi lungo i fondali, mantengono fertilizzati gli ambienti marini attraverso gli escrementi e – come dimostrato in diverse ricerche – sono decisivi nel far prosperare la vita © e2dan/shutterstock.com
asiatico, come sostiene uno studio dell’Università di Newcastle ad oggi diverse specie di questi echinodermi sono in pericolo estinzione o fortemente minacciati proprio a causa della pesca di frodo. Pesca che avviene in diverse coste del Mediterraneo e che, in certe zone del mondo, come in Sri Lanka, non sta solo sconvolgendo gli ecosistemi ma anche le economie di intere popolazioni dato che, per esempio nelle acque di Palk Bay o nella zona del Golfo di Mannar, da anni l’ingerenza dei pescatori di frodo indiani e non solo sta mettendo in ginocchio la pesca locale. Oggi, raccontano alcuni pescatori locali dello Sri Lanka, dopo dieci ore di ricerca si pesca solo una minuscola frazione di quel che si tirava su un tempo, proprio perché i fondali sono stati completamente depredati. Inoltre, meno si trovano più aumenta il valore, tanto che quello delle oloturie in quarant’anni è quasi quadruplicato. Tutto questo perché immaginati come “afrodisiaci” o semplicemente per finire direttamente in tavola: in Asia infatti questi echinodermi fondamentali anche per combattere l’acidificazione degli oceani, vengono mangiati in varie forme, da quelli secchi noti comebêche-demer otrepang sino ad altre varianti usate nella medicina tradizionale. Una pratica che sembra non trovare fine dato che lo sfruttamento di questi animali si sta diffondendo sempre di più nel mondo, dal Messico all’Italia, dalla Tanzania sino a Giappone dove persino la nota mafia yakuza è legata al contrabbando illegale dei cetrioli di mare. E dunque importante fare informazione e coinvolgere sempre più persone nella protezione di questi preziosi e così ambiti animali: con i mari già in difficoltà fra crisi climatica, acidificazione e sovrapesca, secondo diversi esperti è necessario uno sforzo internazionale per poter aiutare queste creature degli oceani. Come sostiene uno degli scienziati impegnati nella lotta alle catture illegali, Sivakumar Kuppusamy del Wildlife Institute of India, è fondamentale raccontare e diffondere l’importanza del ruolo ecologico dei cetrioli: «Se non ci sono, il mare è in pericolo” spiega ricordando a tutti l’importanza di “coinvolgere sempre di più le autorità e i pescatori stessi nel combattere ogni forma di pesca di questi preziosissimi organismi marini». (G. T.). GdB | Aprile 2021
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onostante i governi del mondo, in primis quelli europei, stiano tentando e annunciando politiche verdi per riuscire a tagliare le emissioni di CO2, la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera continua a toccare livelli record. Poche settimane fa, nonostante un anno di lockdown dovuto alla pandemia, per la prima volta nella storia del Pianeta si è arrivati toccare la cifra record di 421,21 ppm (parti per milioni) di CO2. Un record assoluto, registrato all’Osservatorio di Mauna Loa delle Hawaii, nella stazione di ricerca della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA). Mai, da quando esiste questo tipo di misurazione a fine anni Cinquanta, si è arrivati a una cifra simile. Circa cinquant’anni fa erano intorno a 315 ppm, mentre oggi i numeri continuano in maniera preoccupante a salire. Era previsto e lo sarà anche per il prossimo futuro: le emissioni e i gas serra saranno sempre più cospicui e tali da rendere, con la crisi climatica in corso, il nostro Pianeta sempre più in difficoltà. Emissioni che sono ormai quasi raddoppiate rispetto alla rivoluzione industriale e che continuano a pesare in maniera decisiva sul futuro della Terra agevolando il surriscaldamento e i suoi impatti devastanti. Secondo gli esperti del Noaa i livelli di concentrazione non sono mai stati così alti negli ultimi 3,6 milioni di anni. Sono addirittura «paragonabili a quelli del periodo cal-
do del medio Pliocene, quando il livello del mare era di circa 23 metri più alto di oggi». Come le PM, è record assoluto nel 2020 anche di emissioni di metano: l’aumento annuale nell’anno passato è stato infatti di 14,7 parti per miliardo (ppb), il più consistente incremento registrato dagli anni Ottanta ad oggi. Un mix di condizioni che non preannunciano nulla di buono, se non riusciremo davvero a invertire la rotta scongiurando così, come chiedono gli Accordi di Parigi del 2015, di andare oltre quei 1.5° C rispetto ai livelli preindustriali che sconvolgeranno realmente le sorti del mondo e dei suoi ecosistemi. Inoltre, purtroppo, anche in tutto il 2021 (dove si è già registrato un primo record), il livello di emissioni di CO2 sarà drammatico secondo stime recenti dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), essendo tutti noi ancora oggi troppo dipendenti dalle fonti fossili. Secondo il rapporto Global Energy Review dell’AIE le emissioni di anidride carbonica sono in crescita di 1,5 miliardi di tonnellate nel 2021, pari ad un incremento del 5% a 33 miliardi di tonnellate. La causa sarebbe legata per esempio all’uso del carbone e di quelle fonti fossili che usiamo per far fronte alla domanda di elettricità, tornata soprattutto dopo le fasi di lockdown. La domanda di carbone è attesa in crescita del 4,5% ed è trainata da economie
EMISSIONI DI CO2 DA RECORD
L’Osservatorio di Mauna Loa delle Hawaii, nella stazione di ricerca della National Oceanic and Atmos 56 GdB | Aprile 2021
emergenti e in via di sviluppo, come India e Cina. Per fortuna, insieme alle fossili, ci sono attese e speranze di forte crescita anche per le rinnovabili, stimate in un aumento dell’8% nel 2021. Purtroppo però di questo passo, quello per far fronte alla richiesta di energia da parte di tutto il mondo, anche le prospettive per il 2022 non sono delle migliori e come ha spiegato il direttore dell’AIE Fatih Birol «è probabile che nel 2022 affronteremo una situazione ancora peggiore. La ripresa economica dalla crisi del Covid è attualmente tutt’altro che sostenibile per il nostro clima e sarà necessario impegnarsi in un’azione chiara e immediata prima della COP26 a Glasgow». Dall’Italia, almeno, arriva
Con le PM, è record nel 2020 anche di emissioni di metano: l’aumento nell’anno passato è stato di 14,7 parti per miliardo (ppb), il più consistente registrato dagli anni 80
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qualche segnale incoraggiante. Secondo le prime stime diffuse dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca per l’Ambiente (ISPRA) si contano quasi un dieci per cento (9,8) in meno di emissioni di CO2 nel 2020 rispetto al 2019, questo anche per effetto dei lockdown, dei blocchi e delle restrizioni alla circolazione imposte dalla pandemia di Covid-19. Per l’ISPRA le emissioni calano più del Pil che tra il 2020 e il 2019 ha visto una riduzione dell’8,9 per cento. Nel dettaglio, in Italia il calo delle emissioni è legato alla riduzione di quelle per la produzione di energia elettrica (-12,6%), per la minore domanda di energia e dei consumi energetici anche negli altri settori, di industria (-9,9%), trasporti (-16,8%) e riscaldamento (-5,8%). Segnali incoraggianti, seppur legati spesso a misure contenitive della pandemia, che insieme alle nuove politiche green europee e all’onda verde guidata dalle nuove generazioni, tengono però acceso il lume per un futuro fatto di emissioni in calo, anche se la strada da percorrere è lunghissima e sarà necessario un impegno massivo da parte delle grandi economie inquinanti, su tutte Cina, India, Russia e Stati Uniti. Da soli, questi Paesi, contribuiscono infatti a oltre la metà di tutti i livelli mondiali di emissioni, con la Cina che sfiora quasi il 30% e gli Usa il 15%. Cifre che, se non troveranno una inversione di tendenza, ci guideranno verso un futuro davvero sempre più incerto. (G. T.).
NONOSTANTE IL LOCKDOWN
spheric Administration (NOAA) registra il record di Ppm nell’atmosfera degli ultimi sessant’anni GdB | Aprile 2021
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ultimo segnale, di quelli che non passano inosservati, arriva dal gigantesco A68. Se n’è andato, l’iceberg fra i più grandi al mondo, senza far rumore, scomposto e frammentato da correnti, acque calde e idro fratture, da fenomeni naturali che si uniscono però a una serie di concause della crisi climatica che stanno cambiando il volto dell’Antartide. Nuove ricerche ci dicono infatti che se la crisi climatica continuerà ad accrescere le temperature perderemo il 34% di tutte le piattaforme di ghiaccio antartiche che rischiano seriamente il collasso. In poche parole: un terzo dei ghiacciai dell’Antartide sono a rischio, con potenziali conseguenze drammatiche sia per gli ecosistemi sia per l’uomo e la sua economia, data l’ipotesi di innalzamento dei livelli del mare. È un fenomeno che riguarda tutto il mondo, quello dello scioglimento dei ghiacci, ma a livello dei poli si fa sempre più drammatico sia in termini di innalzamento delle acque, sia per scenari che potrebbero sconvolgere per sempre la biodiversità. Con il continuo aumento delle emissioni, con la CO2 che nonostante lockdown e politiche green è arrivata alla cifra record di 421,21 parti per milione (misurata all’Osservatorio di Mauna Loa nelle Hawaii), le temperature continuano infatti ad alzarsi e i ghiacciai antartici sembrano risentirne in maniera notevole. Secondo uno studio dell’Università di Reading pubblicato su
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Geophysical Research Letters se non riusciremo a contenere le temperature globali, se davvero a causa di emissioni e gas serra la Terra arriverà a surriscaldarsi di quattro gradi sopra i livelli preindustriali, allora un terzo della superficie della piattaforma glaciale dell’Antartide potrebbe addirittura collassare in mare. Con effetti devastanti su Pianeta ed ecosistemi. Per sostenere questa tesi il gruppo di ricercatori ha utilizzato modelli climatici e previsionali dettagliati che portano all’ipotesi, sempre in caso di temperature elevate, di mezzo milione di chilometri quadrati di ghiaccio che potrebbero destabilizzarsi. Per Ella Gilbert, ricercatrice del Dipartimento di meteorologia dell’Università di Reading, «le piattaforme di ghiaccio sono importanti tamponi che impediscono ai ghiacciai sulla terra di fluire liberamente nell’oceano e contribuire all’innalzamento del livello del mare. Quando collassano, è come se fosse rimosso un tappo gigante da una bottiglia consentendo a quantità inimmaginabili di acqua dai ghiacciai di riversarsi in mare». La dottoressa Gilber precisa inoltre che «sappiamo che quando il ghiaccio sciolto si accumula sulla superficie delle piattaforme di ghiaccio, può farle fratturare e collassare. Ricerche precedenti ci hanno fornito il quadro più ampio in termini di previsione del declino della piattaforma glaciale antartica, ma il nostro nuovo studio utilizza le più recenti tecniche di modellazione con dettagli
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SOS ANTARTIDE, UN TERZO DEI GHIACCI AL COLLASSO Il gigantesco A68, uno degli iceberg più gradi al mondo, si è sciolto La crisi climatica sta cambiando il volto del mondo di Giacomo Talignani
più specifici per fornire previsioni più precise. I risultati sottolineano l’importanza di limitare l’aumento della temperatura globale come stabilito nell’accordo di Parigi se vogliamo evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico, compreso l’innalzamento del livello del mare». Se però si riuscisse a contenere l’innalzamento delle temperature a 2° C l’area a rischio individuata in Antartide si dimezzerebbe, evitando così un aumento significativo del livello del mare. Le ricerche condotte riguardano diversi ghiacciai e piattaforme dell’antartico, anche Larsen C, enorme piattaforma di ghiaccio sulla penisola da cui nel 2017 si è formato e staccato il gigantesco iceberg noto come A68. Proprio A68, per quattro anni ha vagato nei mari dell’Antartide rischiando di impattare contro la Georgia del Sud e modificare per sempre la vita delle comunità di pinguini e dell’intero ecosistema antartico. Onde, temperature dell’acqua elevate, correnti e venti hanno però scongiurato per fortuna questo destino: A68 si è infatti frammentato nel tempo sino a trasformarsi in tanti piccoli iceberg non più pericolosi. La sua sorte, seppur molto legata a fenomeni naturali, sottolinea comunque come le temperature stiano cambiando le dinamiche dell’Antartide. A rischio sono per esempio, oltre a Larsen C, anche Shackleton, Pine Island e Wilkins tutti ghiacciai che intorno ai 4 ° C di riscaldamento in
Secondo uno studio dell’Università di Reading pubblicato su Geophysical Research Letters se non riusciremo a contenere le temperature globali, allora un terzo della superficie della piattaforma glaciale dell’Antartide potrebbe addirittura collassare in mare © kpboonjit /shutterstock.com
più rispetto alle medie pre industriali, a causa della loro geografia e del significativo deflusso di acqua previsto in quelle aree potrebbero collassare creando danni enormi. Tra l’altro proprio il ghiacciaio di Pine Island secondo un’altra ricerca dell’Università della Northumbria, Newcastle, da pochi mesi avrebbe superato il cosiddetto punto di non ritorno, spiega un team di ricercatori sulla rivista The Cryosphere, sottolineando come quest’area di ghiaccio ampia come circa due terzi del Regno Unito sta perdendo più ghiaccio di qualsiasi altro ghiacciaio in Antartide e pare assestarsi verso una ritirata irreversibile da cui non potrebbe riprendersi. Più in generale la condizione dei ghiacciai, delle piattaforme e degli ambienti dell’Antartide, che ci appaiono lontani, dovrebbero invece essere motivo di grande preoccupazione a livello mondiale, viste le ripercussioni che potrebbero avere sulle vite di tutti noi. Come spiega concludendo la dottoressa Gilbert, «se le temperature continuano a salire ai tassi attuali, potremmo perdere più piattaforme di ghiaccio antartiche nei prossimi decenni. Limitare il riscaldamento non sarà solo un bene per l’Antartide: preservare le piattaforme di ghiaccio significa minore innalzamento del livello del mare a livello globale, e questo è un bene per tutti noi». GdB | Aprile 2021
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LA MAPPA DELLE SPECIE ANCORA DA SCOPRIRE Lo studio dei ricercatori di Yale sulla vita ancora non identificata nel nostro Pianeta
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se oltre a indagare le forme di vita conosciute nei vari habitat terrestri ci spingessimo a scoprire la vita nei luoghi ancora inesplorati? È un orizzonte di conoscenza che sul Pianeta potrebbe offrire ancora ampi margini di risultato. Ed è anche la missione che si sono dati alcuni ricercatori di Yale guidati da Walter Jetz, professore di ecologia e biologia evolutiva dell’università del Connecticut, negli Stati Uniti: obiettivo, tracciare le specie esistenti ma ancora non identificate e condividere un metodo adatto alla collaborazione di altri scienziati per implementare la mappatura. Del resto, «stando al ritmo del cambiamento ambientale globale, non c’è dubbio che molte specie si estingueranno prima che noi avremo avuto la possibilità di sapere della loro esistenza e la capacità di interrogarci sul loro destino - ha spiegato Jetz - Ma ritengo che una simile forma di ignoranza sia imperdonabile: ciò che dobbiamo alle generazioni future è colmare rapidamente queste lacune di conoscenza». A meno di un decennio dalla pubblicazione della “Mappa della vita”, un database globale ancora attivo, che dettaglia la distribuzione delle specie conosciute in tutto il Pianeta, gli scienziati del prestigioso ate-
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neo hanno lanciato un progetto persino più ambizioso: creare una mappa dei luoghi in cui la vita deve ancora essere scoperta. La nuova mappa delle specie sconosciute è stata pubblicata sulla rivista “Nature Ecology & Evolution” ed è disponibile anche in una versione online. Basata su un protocollo di georeferenziazione, la mappa è interattiva, interrogabile per specie, luogo, caratteristiche ambientali del contesto. Mixando gli indicatori è possibile, per esempio, scoprire il valore percentuale della ricchezza o delle rarità che popolano determinate aree del mondo. Oppure, muovendo il mouse sulla mappa interattiva, è possibile scoprire che probabilità esiste di scoprire nuove specie in una precisa porzione dei cinque continenti. Secondo stime prudenti, infatti, solo il 10-20% delle specie sulla Terra è stato già formalmente descritto. Lo studio e la relativa piattaforma sono stati sviluppati a partire da domande “inverse” rispetto a quelle che circa dieci anni fa gli stessi autori
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avevano messo al centro della ricerca per costruire la mappa delle specie viventi conosciute. «Il nostro studio - ha spiegato Mario Moura, ex ricercatore del laboratorio di Yale e attualmente professore presso l’Università Federale di Paraiba, in Portogallo - sposta l’attenzione da interrogativi su “quante specie da scoprire esistono?” a quesiti più concreti come “dove e cosa?”. Le specie conosciute sono le “unità di lavoro” in molti approcci di conservazione; di conseguenza le specie sconosciute sono solitamente escluse dalla pianificazione e dal processo decisionale della conservazione. Trovare i pezzi mancanti del puzzle della biodiversità della Terra è quindi fondamentale per migliorare la conservazione della biodiversità in tutto il mondo». Nel tentativo di fornire alla scienza uno strumento per individuare le specie non tracciate, Moura e Jetz hanno compilato la piattaforma con una vasta mole di dati che comprendevano la posizione, le date d i sco-
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Moura e Jetz hanno compilato la piattaforma con una vasta mole di dati che comprendevano la posizione, le date di scoperte storiche e altre caratteristiche ambientali e biologiche di circa 32.000 vertebrati terrestri conosciuti © Kuttelvaserova Stuchelova W/shutterstock.com
perte storiche e altre caratteristiche ambientali e biologiche di circa 32.000 vertebrati terrestri conosciuti. L’analisi di queste informazioni ha permesso di estrapolare la mappa dei siti e dei tipi di specie ancora sconosciute che hanno più probabilità di essere identificati in futuro per i quattro principali gruppi di vertebrati. Il metodo usato muove dalla consapevolezza che le possibilità per una specie di essere scoperta e descritta non sono le medesime di un’altra. Secondo lo studio di Jetz e Moura, per esempio, è più probabile che siano già stati scoperti animali di grandi dimensioni in aree geografiche ampie localizzate in zone popolate. I ricercatori hanno esaminato 11 fattori chiave che hanno permesso al team di prevedere meglio le posizioni in cui potrebbero essere localizzate specie non ancora identificate. L’emù, un grande uccello diffuso in Australia, fu scoperto nel 1790 subito dopo l’inizio delle descrizioni tassonomiche delle specie. La piccola specie di rana Brachycephalus guarani, invece, non è stata mai avvistata prima del 2012 in Brasile. Ci sono dunque maggiori probabilità che animali più piccoli, che abitano regioni più inaccessibili, siano sfuggiti fino ad oggi al rilevamento. Probabilmente ci sono alcune specie simili alla rana brasiliana ancora da scoprire. Vi è poi un altro parametro variabile e determinante per la definizione della mappa: il numero di scienziati che stanno cercando le nuove specie. Si tratta di specialisti la cui dislocazione nel mondo è molto disomogenea. Senza contare la questione del metodo. «In generale, tendiamo a scoprire prima ciò che ci appare ovvio e poi ciò che è oscuro», ha aggiunto Moura, lanciando contestualmente un appello globale a finanziare le ricerche in questa direzione. Moura e Jetz hanno mostrato come le possibilità di scoperta di nuove specie varino notevolmente in tutto il mondo. Brasile, Indonesia, Madagascar e Colombia sono i Paesi con maggiori opportunità di identificare nuove specie, almeno per un quarto di tutte le potenziali scoperte. E in quest’ottica, la collaborazione al processo diventa un fattore chiave. Attraverso partnership in ogni parte del mondo, i ricercatori di Yale hanno in programma di espandere la mappa della vita ancora sconosciuta alle specie vegetali, marine e invertebrati: simili informazioni aiuteranno, questo l’auspicio, governi e istituzioni scientifiche a capire dove concentrare gli sforzi per documentare e preservare la biodiversità. (S. L.). GdB | Aprile 2021
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UNA MOLECOLA PER AIUTARE L’AMBIENTE L’idrogeno verde con Enea sarà protagonista nel processo di decarbonizzazione di Gianpaolo Palazzo
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nrometeo era un titano amico del progresso, dal momento che sottrasse il fuoco alle divinità per gli uomini. Subì, però, la punizione di Zeus, il quale lo incatenò ad una rupe posta ai confini del mondo per poi farlo sprofondare nel Tartaro. Lì veniva tormentato da un’aquila che, perennemente, gli rodeva il fegato. Si salverà, secondo il tragediografo Eschilo, solo grazie a Eracle. La lotta prometeica è, tuttora, simbolo di un’opposizione morale alla tirannide e di una sfida verso ogni imposizione. Il nome Prometeo, letteralmente “colui che pensa prima di agire”, è stato scelto da un progetto europeo, coordinato da Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), che prevede un investimento di 2,7 milioni di euro, di cui circa 2,5 finanziati dall’Unione Europea attraverso il programma pubblico-privato FCH JU, (Fuel Cells and
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Hydrogen Joint Undertaking). L’obiettivo di Hydrogen PROduction by MEans of solar heat and power in high TEmperature solid Oxide electrolysers, questo il nome per esteso, è una disfida agli dei elettrici: ridurre i costi di produzione dell’idrogeno verde, a meno di due euro al kg in prospettiva, grazie ad una tecnologia capace di combinare l’elettricità da fotovoltaico (o eolico), con il calore da solare a concentrazione. Ma che cos’è il cosiddetto “idrogeno verde”? Viene prodotto ad impatto ambientale zero mediante l’elettrolisi dell’acqua alimentata con energie provenienti da fonti rinnovabili. Si distingue dall’idrogeno “grigio”, ottenuto attraverso lo steam reforming del metano (reazione catalitica di un idrocarburo con vapor d’acqua), processo che immette nell’ambiente un’enorme quantità di anidride carbonica. L’idrogeno “blu”, infine, frutto sempre dello stesso procedimento, prevede la parallela cattura delle particelle di CO2, per non rilasciarle in atmosfera. Nell’iniziativa, che durerà quarantadue mesi, sono presenti imprese e istituzioni di ricerca italiane ed europee: la Fondazione Bruno Kessler (FBK), la spagnola Imdea Energy e l’Istituto di ricerca svizzero Epfl si occuperanno insieme all’Enea di integrare il prototipo con le fonti rinnovabili; l’italo-svizzera SOLIDpower provvederà agli elettrolizzatori e al sistema di termo-regolazione, mentre Maire Tecnimont guiderà l’ingegnerizzazione del primo modello e la partenza dell’impianto tramite due proprie controllate, l’italiana NextChem e l’olandese Stamicarbon. Nello sviluppo di applicazioni finali giocheranno un ruolo importante anche gli utilizzatori potenziali della tecnologia: Snam per l’iniezione di idrogeno verde nella rete gas, la spagnola Capital Energy, cui andrà lo stoccaggio chimico di elettricità rinnovabile e l’olandese Stamicarbon per i probabili impieghi nell’industria chimica. «Il cuore della sfida di Prometeo - spiega Alberto Giaconia, il ricercatore Enea che coordina il progetto - sta nel garantire continuità alla produzione di idrogeno da elettrolisi anche quando l’energia rinnovabile da fonte solare non è disponibile a causa dell’intermittenza o nei periodi in cui è più conveniente utilizzarla, come
La prima Hydrogen Valley italiana in cui far crescere una filiera per la produzione, il trasporto, l’accumulo e l’utilizzo di idrogeno, scommettendo su ricerca, tecnologie, infrastrutture e servizi innovativi, nascerà grazie all’Enea. L’investimento da 14 milioni di euro (fondi Mission Innovation) porterà ad un incubatore tecnologico, in collaborazione con università, istituti di ricerca, associazioni e imprese, che nei piani futuri dovrebbe assecondare la transizione energetica assieme al risparmio. Presso il Centro ricerche Enea Casaccia, vicino alla Capitale, sorgeranno infrastrutture per i combustibili puliti, che ridurranno le emissioni di CO2 nell’industria, nei trasporti, nella generazione di energia e nel residenziale. © Diyana Dimitrova /shutterstock.com
ad esempio nei surplus di produzione; ciò consentirà di essere altamente competitivi in termini di costi». Sarà realizzato nel nostro Paese un elettrolizzatore ad ossidi solidi da venticinque kWe capace di produrre quindici chili di idrogeno al giorno, che dopo verrà validato in Spagna all’interno di un impianto fotovoltaico: «Un po’ come il mitologico Prometeo che rubò il fuoco agli dei per donarlo all’umanità, - afferma Giorgio Graditi, Direttore del Dipartimento Enea di tecnologie energetiche e fonti rinnovabili - questo progetto rappresenta per noi una grande sfida verso la produzione e l’utilizzo di idrogeno verde in ambito industriale. Gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 impongono alla ricerca di trovare nuove strade per produrre e sfruttare le fonti rinnovabili in modo ottimale e su larga scala. E l’idrogeno verde ha tutte le caratteristiche per supportare la transizione energetica. È auspicabile che a fine progetto il prototipo venga installato anche nella nostra Hydrogen Valley del Centro ricerche Casaccia, per favorirne il trasferimento tecnologico al settore Power-to-Gas». Invece dell’acqua in forma liquida, il nuovo sistema utilizzerà l’elettrolisi a vapore, con temperature previste superiori ai settecento gradi Celsius. Il calore e l’energia occorrenti deriveranno per intero dal sole. «La prima grande sfida - sottolinea Dina Lanzi, responsabile Sviluppo tecnologico della business unit idrogeno di Snam - è quella di produrre idrogeno a zero emissioni su larga scala e a bassi costi per decarbonizzare l’industria energivora e la mobilità pesante. Il progetto Prometeo contribuirà a sviluppare e scalare tecnologie efficienti di produzione grazie alle alte temperature, abbattendo i costi di produzione dell’idrogeno verde e aumentandone la competitività. Il secondo obiettivo consiste nell’integrare questa tecnologia nell’infrastruttura energetica, accoppiando la rete gas e la rete elettrica, per vincere le attuali e future sfide del sistema energetico italiano ed europeo. Siamo felici di aver contribuito a questa iniziativa mettendo a fattor comune le nostre competenze infrastrutturali e tecnologiche in una prospettiva di filiera». GdB | Aprile 2021
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«L’ Litorale laziale © NoyanYalcin/shutterstock.com
I dati Istat sulla popolazione
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elle quindici regioni italiane bagnate dal mare vi sono, come registra l’Istat nel “Rapporto sul territorio 2020”, 644 comuni litoranei, pari a l’8,1% del totale. Tra il Censimento del 1951 e quello del 1981, la popolazione lì è aumentata di circa 4,4 milioni, passando dal 26,4 % al 29,9% del totale nazionale. Una leggera riduzione degli abitanti c’è dal 1991, fino al 28,0% del 2011. Dividendo i cittadini per macro-aree, il 53% risiede nel litorale tirrenico, il 24% in quello adriatico e il 23% nelle isole. La regione con più popolazione rivierasca è il Lazio (per la presenza del comune di Roma), seguito da Sicilia e Campania. Oltre la metà dei residenti si trova nel Mezzogiorno. Le aree marittime risultano anche le più densamente popolate: in media 398 abitanti per km2, rispetto ai 167 di quelle non litoranee. Ciò dipende, in gran parte, dalla presenza di grandi centri urbani, tra cui dieci capoluoghi di regione.
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inverno passerà / fra la noia e le piogge, / ma una speranza c’è / che ci siano nuove spiagge». Il desiderio espresso nel 1983 da Renato Zero e Dario Baldan Bembo nel brano “Spiagge” li accomuna a quella dell’associazione “Marevivo”. Trentasei anni dopo la prima attività di pulizia è partita in aprile la nuova campagna nazionale “Adotta una spiaggia”, con cui sarà possibile aiutare le attività di ripulitura, osservazione e valorizzazione di numerose coste in tutta Italia, dalla Liguria alla Sardegna, dal Friuli - Venezia Giulia alla Sicilia. Il delicato equilibrio di quell’ambiente in cui la terra incontra il mare troppe volte corre il rischio di venir rovinato dai nostri modi di agire sbagliati. Sottrarre sabbia, conchiglie, distruggere la vegetazione e le tante creature che vivono sul litorale o nelle acque vicino alla riva crea danni incalcolabili per un ambiente delicato e indispensabile al quale, spesso purtroppo, siamo abituati a pensare solo nei mesi estivi. A prendersi cura delle “adozioni” saranno i volontari presenti sul territorio, i quali da anni hanno deciso di dedicare il proprio tempo per tutelare l’integrità, il pregio naturalistico e l’incanto di luoghi sorprendenti, che ci fanno essere orgogliosi di vivere in Italia. Le donazioni da cinque euro in su (una tantum, mensili o annuali) consentiranno di mettere in piedi o favorire in futuro la pulitura e tutte le azioni di sensibilizzazione verso la popolazione e le istituzioni, anche tramite l’installazione di pannelli informativi. Sul sito internet di “Marevivo” è possibile selezionare quale lido “difendere”, decidendo di seguire il cuore o la razionalità, con un occhio attento al punto di vista naturalistico. «Quando pensiamo alla spiaggia - dice Raffaella Giugni, responsabile delle relazioni istituzionali di “Marevivo” - spesso non ci rendiamo conto che si tratta di un ecosistema complesso, habitat naturale di centinaia di animali e piante marine. Per proteggerla dobbiamo capirne il valore, guardarla con occhi diversi. Per questo abbiamo deciso di lanciare questa campagna e di chiedere a tutte le persone che amano il mare di aiutarci a preservare decine di spiagge in tutta Italia
e gli animali che le abitano». La frase “Conoscere per amare, amare per proteggere” rappresenta la mission di tutti gli associati e lo spirito dell’iniziativa che pensa a salvaguardare i luoghi per la villeggiatura, ma anche l’ambiente, meritevole di essere preservato e rivalutato. Secondo il “Rapporto sul territorio 2020” dell’Istat (Istituto nazionale di statistica) le zone bagnate dai mari della nostra penisola sono molto estese, così come la linea di costa, coprendo il 6% del totale europeo. Siamo al quinto posto tra i Paesi Ue 28 (per le caratteristiche frastagliate Svezia, Finlandia e Regno Unito insieme rappresentano circa la metà della linea costiera complessiva dell’Unione). Caratterizzato storicamente da un’elevata urbanizzazione il territorio litoraneo italiano ha caratteristiche climatiche e morfologiche diverse tra est e ovest. Nel complesso, per un quarto della propria estensione sono presenti parecchie attività antropiche. La loro incidenza raggiunge il 55% in Liguria e il 47% in Friuli-Venezia Giulia, dati i numerosi insediamenti urbani, le città e le aree portuali di notevole dimensione (Genova, Trieste, La Spezia e Monfalcone). L’aspetto naturale maggiormente rappresentato è la tipologia sabbiosa (il 47,8%). È prevalente specialmente lungo l’Adriatico; in Veneto ed Emilia-Romagna, rappresenta circa i tre quarti del totale. Sardegna e Toscana possiedono, invece, un’incidenza elevata di litorale con vegetazione naturale e coste rocciose (nell’insieme intorno al 50%). «Le principali minacce e pressioni su questi ambienti fragili - scrivono sul sito di “Marevivo” - sono l’inquinamento, la cementificazione delle coste, il turismo irresponsabile, le attività di vario genere che si svolgono nell’immediato entroterra, la distruzione delle praterie sommerse di posidonia, la presenza di specie aliene, la distruzione degli alvei dei fiumi. Si stima che l’inquinamento delle spiagge colpisca più di 800 specie di fauna selvatica in tutto il mondo, e sono più di 100.000 gli uccelli, le tartarughe marine e i mammiferi marini che ogni anno muoiono a causa dei rifiuti di plastica abbandonati. Hanno la loro influenza anche fenomeni a scala globale come i cambiamenti climatici e l’aumento delle tempe-
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rature medie del pianeta». Frequentemente i numerosi bagnanti e il rumore che producono disturbano animali come il fratino o la tartaruga marina Caretta caretta. Essi non riescono a trovare un po’ di pace o le condizioni adatte per la propria riproduzione, la deposizione e la schiusa delle uova o per lo sviluppo dei nuovi nati. La vegetazione costiera è, quasi ovunque, sparita oppure molto danneggiata e non riesce più a contrastare l’avanzata dell’erosione. Specie tipiche che ritroviamo sugli arenili del bacino mediterraneo come il giglio di mare (pancratium maritimum, pianta perenne che appartiene alla famiglia delle Amaryllidaceae) o la sfinge del pancrazio (una farfalla notturna il cui bruco si nutre esclusivamente delle foglie regalate dal giglio), stanno ormai diventando rare, una perdita che questo “mondo tra i due mondi” non merita. (G. P.).
UNA BIODIVERSITÀ TUTTA DA TUTELARE Osservare, pulire e valorizzare decine di litorali in tutta Italia Marevivo lancia la nuova campagna nazionale “Adotta una spiaggia” GdB | Aprile 2021
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SE ESISTONO ANCORA LE MEZZE STAGIONI Il cambiamento climatico e quello del suolo hanno alterato enormemente il regolare susseguirsi delle temperature, con danni agli animali e alle piante
di MIchelangelo Ottaviano
“P
erché i celesti danni ristori il sole, e perché l’aure inferme Zefiro avvivi, onde fugata e sparta delle nubi la grave ombra s’avalla […]”. Era il Gennaio del 1822 quando Leopardi metteva al mondo i versi della canzone “Alla Primavera o delle favole antiche”, nella quale viene cantata proprio l’epifania della stagione. Dire che dal tempo in cui scrisse il poeta recanatese sono cambiate tante cose è assai riduttivo. Forse nemmeno il Leopardi più pessimista si sarebbe aspettato un mutamento così grande da parte della stagione che assesta i “celesti danni”
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(quelli dell’inverno). Forse non immaginava quanto l’uomo potesse distruggere, attraverso uno spregiudicato processo di industrializzazione che proprio negli anni leopardiani era al culmine del suo primo stadio evolutivo, la sacralità del rapporto uomo-natura per cui si era tanto battuto. A distanza di anni vorremmo ancora girarci in qualsiasi direzione e vedere quei paesaggi incontaminati da lui minuziosamente descritti. Purtroppo, non è così facile. L’attività umana e l’inquinamento atmosferico e del terreno hanno mutato radicalmente il motus operandi della biomassa che caratterizza la Primavera. Il primo
cambiamento riguarda la sconfitta dell’esercito silenzioso degli impollinatori: bombi, farfalle, api selvatiche, vespe, falene, sirfidi, una schiera di truppe colorate che sta progressivamente scomparendo. Secondo i dati del WWF riguardanti l’Europa, negli ultimi 30 anni è scomparso oltre il 70% degli insetti volatori. Il danno è enorme visto che due terzi della frutta e della verdura che consumiamo quotidianamente dipendono dall’impollinazione. Il dato più preoccupante riguarda in particolare la riduzione degli insetti appartenenti alla grande famiglia delle Api, che qualitativamente offrono un maggior contributo al processo. Il loro metodo di impollinazione determina un migliore mantenimento delle caratteristiche delle piante (dimensioni, profumo, colori), favorendo la variabilità genetica nonché il potenziale adattativo che permette la sopravvivenza alle variazioni ambientali. Il secondo cambiamento, in stretta relazione con il precedente, riguarda la durata della stagione delle allergie, un’amica fidata della Primavera (con la quale però non va astronomicamente d’accordo). Uno studio condotto nel Nord America dimostra che tra il 1990 e il 2018 la stagione dei pollini si è anticipata di 20 giorni e allungata di circa 8 a causa dell’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera e delle temperature medie più alte. Nello stesso periodo di tempo, la quantità di polline dispersa è aumentata del 21%, in parte per il cambiamento climatico, in parte per altri fattori (il solo cambiamento climatico sarebbe responsabile dell’8%). L’applicazione dei metodi della “scienza dell’attribuzione”, utilizzati per stabilire le relazioni tra i grandi eventi metereologici o i grandi incendi e il riscaldamento globale, evidenziano che esiste un legame chiaramente riscontrabile. Allora, forse, in un contesto simile, non è poi così banale dire che non ci sono più le mezze stagioni.
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Ambiente
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I COLORI DELLA PRIMAVERA DALLE PIANTE TINTORIE Proteggersi dalle radiazioni anche con i coloranti naturali utilizzati per tingere lino, canapa e cotone
C
on l’arrivo della primavera diventano più numerose le occasioni per stare all’aria aperta. Tuttavia, è proprio in questa stagione che bisogna prestare attenzione ai raggi Uv, perché la nostra pelle non è pronta all’esposizione. Se la gamma dei filtri solari oggi offre un’ampia scelta, a seconda del fototipo, la ricerca si orienta anche sulla capacità dei tessuti di schermare al meglio i raggi ultravioletti. In tal senso, un ruolo importante può appartenere ai coloranti naturali, utilizzati soprattutto per tingere lino, canapa e cotone, che possono
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contribuire a proteggerci dalle radiazioni. Daniele Grifoni, dell’Istituto per la bioeconomia del Consiglio nazionale delle ricerche, ha spiegato: «Esistono svariate piante tintorie dalle quali è possibile estrarre coloranti naturali. Ad esempio, dalle radici della robbia tintoria e della robbia selvatica si ricava il rosso, mentre il blu viene ottenuto dalle foglie del guado, il giallo dai fiori dell’elicriso, il marrone dalla corteccia del castagno e le bucce della cipolla possono fornire un colore rossastro. Molti coloranti naturali risultano, inoltre, composti da so-
stanze che ostacolano lo sviluppo di batteri e presentano anche caratteristiche protettive nei confronti della radiazione ultravioletta». Questi coloranti sono particolarmente indicati per coloro che risultano sensibili alle dermatiti allergiche e trovano impiego anche nella realizzazione di indumenti per neonati. Il ricercatore ha studiato il rapporto tra Uv e tinture vegetali. «Dai dati sperimentali emerge- riferisce Grifoni- come le tinture oggetto di alcune prove contengono un’ampia gamma di polifenoli, molecole che generalmente risultano possedere caratteristiche tali da determinare un certo assorbimento nella banda Uv. Nel caso del lino, ad esempio, i tessuti mordenzati con allume di potassio e tinti con elicriso, lavanda selvatica e robbia selvatica mostrano livelli di protezione Uv che vanno da molto buono a buono. Nel caso della tintura con elicriso, si è ottenuto un buon livello di protezione anche con la mordenzatura effettuata con i tannini naturali. In ogni caso, i valori Upf dei tessuti colorati e mordenzati con i tannini sono in genere più bassi di quelli dei tessuti trattati con allume di potassio; ciò indica come i fissanti metallici possano determinare un miglior “legame” tra colorante e tessuto. Appare evidente che anche altri parametri possono influenzare il grado di protezione Uv, come ad esempio lo spessore e la trama del tessuto o la composizione chimica della fibra». Un altro studio condotto dal Cnr-Ibe, «Risorse dei territori rurali e impresa femminile nell’artigianato tessile», ha avuto come finalità il censimento e la valutazione di tali attività artigianali in alcune aree rurali soggette all’abbandono, nelle regioni Toscana, Emilia Romagna, Campania e Sardegna e i benefici per l’economia locale, grazie all’opportuna valorizzazione di una produzione di nicchia molto pregiata a cura prevalentemente femminile. (P. S.).
Ambiente
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i è svolto a marzo il primo incontro di approfondimento “Ciclo dell’acqua ed economia circolare” del gruppo di lavoro promosso dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile e da Enea, che nasce con l’obiettivo di favorire la transizione e la gestione delle risorse idriche verso un modello di economia circolare. Sotto l’impulso dei più recenti rapporti della Commissione Europea e delle principali organizzazioni internazionali, che sottolineano la necessità di sviluppare adeguate misure finalizzate ad agevolare la transizione dal modello di economia lineare verso un modello di economia circolare in grado di valorizzare un uso efficiente delle risorse, il gruppo di lavoro mette al centro delle sue attività la gestione della risorsa più preziosa, indispensabile per la vita e per tutte le attività dell’uomo, cioè l’acqua. La scarsità dell’acqua, infatti, costituisce già oggi un problema grave per alcuni Stati dell’Unione Europea. Secondo la Commissione Europea, almeno l’11% della popolazione europea e il 17% del suo territorio sono stati colpiti da scarsità d’acqua, situazione destinata ad aggravarsi a seguito dei cambiamenti climatici. Quindi, per favorire l’utilizzo di fonti alternative di acqua, di recente il Parlamento Europeo ha approvato il nuovo Regolamento sul riutilizzo delle acque reflue. Nei tre anni previsti per la sua effettiva entrata in vigore dovranno essere risolti importanti nodi strategici che interesseranno l’intera filiera idrica. A questo primo appuntamento hanno preso parte Enrico Rolle, professore ordinario di Ingegneria Sanitaria Ambientale presso l’Università La Sapienza di Roma; Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile; Roberto Morabito, Direttore del Dipartimento di Sostenibilità dei Sistemi Produttivi e Territoriali di Enea; Mario Rosario Mazzola, esperto del Ministero Economia
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BIORAFFINERIE URBANE PER RECUPERARE RISORSE IDRICHE Proposta la trasformazione degli impianti di depurazione per la gestione delle acque reflue
e Finanze e Professore Ordinario di Costruzioni Idrauliche dell’Università di Palermo. Trasformare gli impianti di depurazione in vere e proprie “bioraffinerie urbane” in grado di estrarre dai liquami e dai fanghi di depurazione risorse idriche e materiali da utilizzare in altri settori economici, come ad esempio l’agricoltura (acqua per l’irrigazione, fertilizzanti, etc.), o per la produzione di energia (ad esempio biometano). La proposta è contenuta in un documento il cui obiettivo è quello di promuovere una strategia nazionale di gestione delle acque reflue nell’uti-
lizzo delle risorse idriche, in linea con le direttrici del Recovery Plan e per la transizione verso un modello di economia circolare. Luigi Petta, responsabile del Laboratorio Enea di Tecnologie per riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, ha dichiarato: «L’economia circolare può e deve poter rappresentare l’elemento chiave per una nuova gestione delle acque reflue, a fronte di una sempre minore disponibilità della risorsa idrica dovuta, in maggior misura, ai cambiamenti climatici ed all’attuale contesto normativo ed economico». (P. S.). GdB | Aprile 2021
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LO SVILUPPO SOSTENIBILE PARTE DALLA CUCINA Riducendo lo spreco alimentare domestico, nel 2020 gli italiani hanno risparmiato acqua più dell’intero Lago Trasimeno, 688 milioni di metri cubi Lo riporta la campagna “Spreco zero”
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ei primi versi del quinto libro sulla guerra punica il poeta Silio Italico narra la triste storia d’amore tra la ninfa Agylle e il giovane Trasimeno, figlio del re Tirreno, che morendo tra le acque darà il proprio nome al lago. Molti secoli dopo, nel 2020, secondo la campagna “Spreco Zero” gli Italiani hanno ricompensato quello specchio d’acqua umbro “salvandone” potenzialmente ben 12/10 del suo bacino idrico. Il calo dello sperpero alimentare domestico pro capite lo scorso anno, passato da 600g (2019) a 529,3g (2020) sulla base del Rapporto 2021 dell’Osservatorio Waste Watcher International (Last Minute Market/ DISTAL Unibo su rilevazioni Ipsos), ha prodotto una riduzione di consumo idrico virtuale di ben 11.400 litri a testa, «che corrispondono - spiega il ricercatore e docente Luca Falasconi, curatore scientifico del Rapporto Waste Watcher “Il caso Italia 2021” - a 688.104.000 metri cubi d’acqua, ovvero 0,688 km cubi. Il lago Trasimeno si estende per una portata idrica di 0,586 Km cubi che siamo riusciti a portare in salvo semplicemente aumentando la nostra attenzione nella fruizione del cibo a casa, dall’acquisto alla gestione degli alimenti». Per capire l’importanza di questi dati, si potrebbe ricorrere pure ad un altro esempio: le piscine olimpioniche. Sarebbero 275.241,6, considerando che ciascuna, tarata per la competizione olimpica, profondità due metri, contiene 2.500.000 litri d’acqua.
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«Riflettere intorno all’acqua - afferma Andrea Segrè, professore ordinario di Politica agraria internazionale e comparata presso l’Università di Bologna, nonché fondatore della campagna “Spreco Zero” - è un’ottima occasione per sviluppare una nuova coscienza, una vera “intelligenza ecologica”: questo perché la gestione della risorsa idrica coinvolge simultaneamente la società civile, gli amministratori, gli imprenditori e gli stakeholders. L’acqua è essenziale per gli usi alimentari, dalla produzione alla fruizione, ma anche ai fini della produzione energetica. Un tema che si proietta sulla nostra dieta quotidiana, quindi sulle nostre scelte quotidiane rispetto al cibo». L’Italia durante i mesi segnati dalla pandemia ha creduto nello sviluppo sostenibile, mettendolo in atto già a partire dalla cucina: nel 2020 sono finiti nella spazzatura 27 kg di cibo a testa (529 grammi a settimana), quindi l’11,78% in meno (3,6 kg) rispetto al 2019. Questo significa che 222.125 tonnellate sono state “salvaguardate” dallo sperpero con un risparmio di sei euro a persona, 376 milioni di euro a livello nazionale in un anno. Vale sei miliardi e 403 milioni, invece, lo spreco alimentare domestico nazionale e sfiora il costo di dieci miliardi l’intera filiera, sommando le perdite in campo, nel commercio e nella distribuzione che ammontano a 3.284.280.114. In peso, significa che nel 2020 abbiamo gettato via 1.661.107 tonnellate di cibo in casa e 3.624.973 tonnellate se si includono le perdite e le disper-
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sioni di filiera. Come mai tanti errori proprio in casa? Ci dimentichiamo specialmente di alimenti vicini alla data di scadenza, che si deteriorano (46%), ma, talvolta, la frutta e verdura acquistate sono già sull’orlo della deperibilità (42%) o i cibi venduti erano già vecchi (31%). Si ammette anche, tuttavia, di comprare troppo (29%) e di aver calcolato male il cibo che serviva (28%). Alla spesa prevalentemente sono dedicate una o due uscite alla settimana: lo dichiarano sette Italiani su dieci (il 69% degli intervistati) e c’è una chiara cognizione sul dover spendere qualcosa in più per la qualità: «Un investimento che potrebbe derivare dal risparmio creato dal non spreco - continua Luca Falasconi - infatti i 376 milioni che a livello nazionale si vengono a liberare da ciò che non sprechiamo più, potremmo, o forse dovremmo reinvestirli in cibo di migliore qualità». La pensa in questa maniera un Italiano su tre (il 33% degli intervistati), mentre il 60% è attento al miglior rapporto tra costo e qualità. Pochissimi (meno del 5%) cercano regolarmente il ribasso. L’attenzione verso l’alimentazione si ritrova nell’educazione dei figli: per prima cosa non sprecare, dichiarano le famiglie italiane nell’83,9% dei casi. Otto connazionali su dieci dicono di non sperperare quasi mai il cibo o meno di una volta alla settimana. Quando capita è sempre la frutta fresca a finire nella pattumiera (37%), seguita da verdura fresca (28,1%), cipolle aglio e tuberi (5%), insalata (21%) e pane (21%). Se nelle lun-
Secondo uno studio dell’Università di Reading pubblicato su Geophysical Research Letters se non riusciremo a contenere le temperature globali, allora un terzo della superficie della piattaforma glaciale dell’Antartide potrebbe addirittura collassare in mare © Syda Productions /shutterstock.com
ghe settimane di chiusura molti si sono dati da fare per panificare, si può riconoscere che quella passione ha portato nuove consapevolezze: gettiamo 20 grammi di pane a settimana pro capite e poco meno di un chilo durante l’anno. «Il profilo delle dinamiche dello spreco alimentare scorre lungo direttrici peculiari nel nostro Paese - afferma Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos - e ci consente di costruire una mappa della cultura alimentare che evidenzia delle differenze nelle diverse aree del Paese, tra i ceti sociali, tra metropoli e borghi e in base alla tipologia di famiglia. Da un punto di vista della struttura sociale del Paese, i ceti che mostrano una minore attenzione allo spreco sono quelli bassi e popolari (+9% di spreco rispetto la media), anche se in questi segmenti sociali si sprecano meno alimenti come uova, latticini o cibi precotti». (G. P.).
L’andamento nelle regioni
L’
area dove c’è maggiore attenzione verso la riduzione degli scarti alimentari è il Nord (489,4 grammi la settimana, rispetto una media di 529,3 grammi), seguita dal Centro Italia; quella in cui vi è molta disattenzione è il Sud (602,3 gr la settimana). Sono le famiglie con figli a sciupare spesso il cibo: in media lo fanno il 15% in più delle persone singole. Leggendo i dati nel rapporto, sorprendentemente meno si guadagna e più si getta via. GdB | Aprile 2021
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Innovazione
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LA BIOSTAMPA 3D PER CREARE VASI SANGUIGNI La ricerca, pubblicata su Biofabrication, apre la strada ad applicazioni avanzate di medicina rigenerativa
di Pasquale Santilio
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no studio interdisciplinare, che ha coinvolto l’Istituto di tecnologie biomediche del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano (Cnr-Itb) e la Fondazione istituto nazionale di genetica molecolare (Ingm), ha consentito lo sviluppo di una strategia per generare nuovi vasi sanguigni in organismi viventi, evitando l’immunorigetto. Roberto Rizzi, ricercatore del Cnr- Itb e Ingm e coordinatore dello studio, ha spiegato: «Per la prima volta sono state utilizzate le vescicole extracellulari, cioè microbolle prodotte dalla membrana delle cel-
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lule endoteliali, che rivestono l’interno dei vasi e trasportano proteine e acidi nucleici in grado di diffondere istruzioni alle cellule circostanti, come bioadditivo per la generazione di bioinchiostro, vale a dire l’idrogel utilizzato nei processi di biostampa 3D, che può essere costituito da biomateriali sintetici, naturali o misti. I bioinchiostri in forma di idrogel composti da Gelatina Metacrilata, addizionati con vescicole extracellulari endoteliali, hanno garantito una rapida generazione di nuovi vasi sanguigni in modelli animali, sia immunodeficienti che non, impiantati con strutture 3D biostampate».
La ricerca, pubblicata sulla rivista internazionale Biofabrication, apre la strada ad applicazioni avanzate di medicina rigenerativa cellulare, garantendo un pronto nutrimento ematico al tessuto trapiantato ed anche un attecchimento funzionale. L’emergenza pandemica che stiamo vivendo, ha sollevato il problema e, quindi, obbligato a sviluppare repentinamente competenze innovative in ambito biotecnologico, al fine di fronteggiare le nuove sfide sociosanitarie. Il ricercatore del Cnr- Itb ha aggiunto: «Combinando competenze di biologia cellulare e molecolare con la chimica e l’ingegneria dei tessuti è stato possibile ottenere strutture vascolari altamente specializzate e funzionali mediante il meccanismo di richiamo, nel sito danneggiato di cellule deputate a formare vasi sanguigni. Tale studio si inserisce nelle biotecnologie applicate alla medicina con uno sviluppo translazionale, in quanto l’applicazione di questa strategia consentirà un maggiore successo negli interventi di medicina rigenerativa e ricostruttiva». Il ruolo delle vescicole extracellulari nella biomedica sta emergendo, sia come marker diagnostico, che come veicolo di comunicazione intercellulare. «Per la prima voltaha concluso Roberto Rizzi- abbiamo sfruttato il signaling molecolare, cioè la capacità di impartire istruzioni attraverso l’attivazione di molecole, per modulare il comportamento delle cellule precursori endoteliali, le staminali deputate a diventare endoteliali, dell’organismo ricevente, fino a creare nuovi vasi sanguigni che seguono la geometria delle fibre stampate. La rapida vascolarizzazione di un tessuto ischemico così ottenuta potrebbe essere vitale per pazienti che hanno subito un danno tissutale ma anche fondamentale per il trattamento di quelle patologie, come il diabete, che presentano mancate disfunzioni endoteliali».
Innovazione
È
da poco ricorso il sessantesimo anniversario dell’epocale Vostok 1, la missione che portò il sovietico Jurij Gagarin ad essere il primo uomo a volare nello spazio. Di voli, da quel 12 Aprile del 1961, ne sono stati fatti eccome, ed oggi come non mai l’uomo si sente lontano dalla Terra. Negli ultimi anni l’attenzione delle principali agenzie spaziali è stata catturata da un pianeta in particolare: Marte. La colonizzazione dell’inconquistato Pianeta rosso è ritenuta un passaggio inevitabile nello sviluppo futuro dell’umanità. Certo è che attualmente sussistono diversi problemi: le radiazioni, l’estrazione di risorse, la produzione di cibo e acqua, la creazione di un ambiente artificiale che simuli le condizioni ambientali terrestri; sembra dunque ancora assurdo pensare ad un futuro interplanetario. A quanto pare, non lo è per lo studio di design architettonico ABIBOO che assieme a SONet, un team internazionale di ricercatori, ha realizzato un progetto in grado di bruciare le tappe. Nüwa City (dal nome della dea che secondo la mitologia cinese creò l’umanità) è fortemente candidata a diventare il primo insediamento marziano, una città futuristica e autosostenibile. La città sorgerebbe a Tempe Mensa, il pendio di una delle scogliere di Marte dove è stata accertata la possibilità di accedere all’acqua. Le abitazioni verrebbero realizzate su un terreno scosceso, dando vita ad una città verticale all’interno della roccia, al riparo dalle radiazioni, dalla pressione e da eventuali meteoriti, ma che beneficerebbe della luce indiretta del sole. I collegamenti, una rete di gallerie e ascensori modulari ad alta velocità, rapidi da realizzare e facilmente replicabili, che connetterebbe i diversi moduli. Il punto più alto della scogliera è stato individuato nella Mesa, una vasta pianura con infrastrutture dedicate alla produzione alimentare, all’allevamento e alla fabbricazione di energia solare. A valle saranno poste
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SIAMO SEMPRE PIÙ VICINI A ESPLORARE MARTE Nella scoperta della spazio, l’umanità ha come obiettivo quello di raggiungere il Pianeta Rosso. Ma gli ostacoli non sono pochi
strutture specifiche che comprenderanno ospedali, scuole, attività sportive e culturali, aree commerciali e le stazioni dei treni. Tutti i moduli comprenderanno spazi verdi, orti urbani e aree di condensazione artificiali, le “Snow Domes” (cupole di neve), che aiuteranno a dissipare il calore e ripulire l’aria. Per creare un legame emotivo con la Terra, il team di progettazione ha pensato a delle “Green Domes” (cupole verdi) di due tipi: quelle che consentiranno la presenza e l’azione umana e quelle che sperimenteranno una vegetazione in un ambiente con un’atmosfera tipicamente marziana.
Nüwa, una volta completata, occuperà una superficie totale di 600 milioni di metri quadrati e sarà in grado di ospitare 250 mila persone. Secondo quanto comunicato da ABIBOO, i lavori di costruzione su Marte potrebbero cominciare entro il 2054 e durare una cinquantina d’anni. Dal progetto si stima che ogni anno (dal 2100) potrebbero essere inviate 1.000 persone, in un viaggio che durerebbe circa 250 giorni. La proposta è stata già presentata ad Elon Musk di Space X, George Whitesides di Virgin Galactic e all’amministratore della NASA Jim Bridenstine. (M. O.). GdB | Aprile 2021
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ESPLORARE I MATERIALI CON I “DRONI MOLECOLARI” Lo studio dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Consiglio nazionale delle ricerche è stato pubblicato su Advanced Material
di Felicia Frisi
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rgoglio ed eccellenza della ricerca italiana, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, attraverso i propri istituti, spinge ogni giorno più il là il confine della conoscenza. Non a caso, il Cnr si è classificato al decimo posto, nel 2018, tra i dei dieci enti pubblici di ricerca più innovativi del mondo per numero di articoli pubblicati sulle 82 riviste scientifiche monitorate da Nature. Stavolta la rivista che ne ha pubblicato una ricerca è Advanced Material. Il lavoro è dei ricercatori dell’Istituto per lo studio dei materiali nanostrutturati del Consiglio nazionale delle
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ricerche (Cnr-Ismn), Matteo Baldoni e Francesco Mercuri, coordinato da Massimiliano Cavallini e introduce un nuovo paradigma per la manipolazione della materia su scala atomica. Negli ultimi anni lo sviluppo delle nanotecnologie ha permesso la realizzazione di materiali innovativi, grazie alla modificazione della materia su una scala estremamente piccola, invisibile ad occhio nudo. Questo ha portato a progressi sorprendenti nella scienza e nella tecnologia. Fino ad oggi è stato sempre considerato difficile poter scendere ad un livello ulteriore, ovvero poter interagire con ogni singolo atomo di una superficie,
operazione attualmente consentita solo con i microscopi a scansione di sonda. «Il lavoro è basato sull’uso di particolari molecole capaci, come veri e propri droni, di planare sulla superficie dei materiali, eseguendo operazioni controllate quali rimuovere o sostituire singoli atomi, superando così i limiti tecnici legati alla manipolazione atomica attraverso l’approccio fisico», spiega Cavallini. «Manipolare la materia a livello atomico permetterebbe di creare materiali dotati di proprietà specifiche fino ad oggi inimmaginabili e impossibili da realizzare. I droni molecolari permetteranno di realizzare una serie di nuovi materiali a bassa dimensionalità, in parte già previsti, ma solo in teoria, con proprietà fisiche eccezionali, ottimizzate per specifiche applicazioni in tutte le tecnologie basate sull’utilizzo di materiali». Moltissimi i campi di applicazione su cui può impattare questa scoperta: energie pulite, comunicazioni, computer quantistici, catalizzatori per la produzione di idrogeno verde dall’acqua, senza l’uso di metalli rari. Questi campi possono essere rivoluzionati con l’introduzione di nuovi materiali “custom”, quindi resi perfetti per gli specifici utilizzi. «Le potenzialità sono infinite, soprattutto se si pensa alla possibile integrazione di questa metodologia con tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale, il Machine Learning ed il Deep Learning per il design di materiali innovativi», concludono Mercuri e Baldoni. «È stato un lavoro interessante il cui risultato ci ha sorpreso. Le applicazioni dei droni molecolari sono particolarmente rilevanti poiché potrebbero permettere la realizzazione di materiali dalle proprietà eccezionali, finora irrealizzabili a causa delle limitazioni delle attuali tecniche di sintesi, grazie anche alla possibilità di raggiungere un’estrema miniaturizzazione di componenti, utilizzando tra l’altro una tecnologia sostenibile e a basso impatto ambientale».
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“R
iparare la Terra” con l’aiuto dei microbi “benefici” è diventato un obiettivo dell’ENEA, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. Le finalità sono quelle di migliorare resa e qualità delle colture, ma anche di contrastare l’impoverimento dei suoli, bonificare terreni contaminati e ridurre l’utilizzo di acqua, fertilizzanti e pesticidi. Pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale della Terra del 22 aprile, incentrata su “Restore Our Earth” (ripariamo la Terra, appunto), l’ENEA ha presentato i risultati di tre progetti che prevedono l’utilizzo di comunità di microrganismi, per la rigenerazione sostenibile dei suoli. Ad oggi, infatti, circa 1/4 della superficie terrestre è già stata danneggiata e ogni anno vengono persi oltre 24 miliardi di tonnellate di terreno fertile, causando la perdita di produttività di circa il 25% della superficie globale. I ricercatori dell’ENEA hanno sviluppato comunità di microbi benefici, quasi dei “cocktail” di batteri e funghi, mettendo insieme microrganismi promotori della crescita delle piante (i cosiddetti Plant Growth Promoting Microorganisms, PGPMs) selezionati a seguito di una sistematica rassegna di letteratura e della loro capacità di coesistere in vitro. Queste attività, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Microorganisms – MDPI, si sono svolte nell’ambito del progetto SIMBA, finanziato dal programma Horizon 2020. La combinazione di consorzi microbici con composti naturali bioattivi (idrolizzati proteici di origine vegetale, selezionati nello studio) e l’uso di idonei ammendanti (identificati nell’ambito del progetto) consentiranno di incrementare la fertilità del suolo e migliorare resa e qualità delle colture. Le comunità di microbi possono inoltre dare un aiuto concreto per le coltivazioni nelle aree semi-aride e aride del Mediterraneo (Italia, Giordania, Cipro, Grecia e Algeria) come ha dimostrato il
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MICROBI “BENEFICI” AL SERVIZIO DELL’AMBIENTE L’ENEA punta a contrastare il degrado dei suoli e a migliorare la produttività delle coltivazioni con tre progetti che prevedono l’utilizzo di comunità di microrganismi
progetto EranetMed Supreme, coordinato dall’Università di Cagliari, presso il sito di Al-Ghweir, in Giordania. In questo caso i ricercatori ENEA hanno utilizzato ceppi provenienti dalla rizosfera di piante locali spontanee e la sperimentazione - effettuata sull’orzo, principale coltura del luogo - ha dimostrato che sotto stress idrico i batteri sono in grado di sostenerne vitalità e crescita, agendo come biofertilizzanti. Infine, piante e batteri possono essere ottimi alleati per de-contaminare i suoli inquinati da attività estrattive. È l’obiettivo di alcuni progetti, tra cui “Umbrella” e “SMERI”, condotti nel sito minerario
di Ingurtosu (Sardegna), dove i ricercatori dell’ENEA hanno testato l’efficacia di interventi di risanamento dei suoli tramite l’associazione di piante e microrganismi, il cosiddetto fito-risanamento assistito. Per evitare la dispersione dei metalli nelle aree circostanti la miniera e ripristinare la normale funzionalità dei suoli, i ricercatori dell’ENEA hanno trattato infatti alcuni terreni - utilizzati come depositi di scarti di miniera - associando alla pianta endemica “Euphorbia pithyusa L.”, un consorzio batterico di ceppi autoctoni, selezionati tra i più resistenti ai metalli pesanti e promotori della crescita vegetale. (F. F.) GdB | Aprile 2021
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t i . b n o . w w w o t i s l u s v T b n O i g o a l d o i r B a i u e G d e n i d r O ’ l e d p o su l’Ap
Ordine Nazionale dei Biologi
Beni culturali
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assessorato alla Cultura della regione Marche ha sottoposto al Segretariato generale del Ministero della Cultura dell’Unesco la proposta di candidare i teatri del territorio a patrimonio mondiale dell’umanità. «Abbiamo avuto un primo incontro con l’ufficio Unesco - ha spiegato l’assessore alla Cultura, Giorgia Latini - nel corso del quale ho presentato la straordinaria ricchezza di teatri storici delle Marche e rappresentato la volontà di investire su questo patrimonio anche attraverso un processo di candidatura, teso anche alla salvaguardia di questa ricchezza. È proprio in questa direzione che si muove la politica culturale regionale, da un lato promuovendo progetti e programmi di recupero, restauro e riallestimento dei teatri, con l’obiettivo di adeguare e riallestire lo spazio di spettacolo dal vivo delle Marche, dall’altro sostenendo nuove forme di gestione degli spazi teatrali con una crescente partecipazione delle compagnie locali e dei giovani per creare dei veri e propri teatri di comunità». Quello marchigiano è un patrimonio unico per tante ragioni. La prima riguarda il primato italiano relativo alla densità teatrale rispetto al numero degli abitanti e dei Comuni. La regione, infatti, vanta sessantotto strutture, dopo aver registrato quota settantuno alla fine degli anni Novanta e il picco di centotredici nel 1868. Una capillarità, questa, che supera quella riportata da tutta l’Italia meridionale messa insieme. La seconda concerne gli aspetti architettonici e artistici, poiché molti edifici furono progettati dai più famosi architetti della storia. Infine, ma non meno importante, l’aspetto socio-culturale. Ogni teatro, anche nei più piccoli centri abitati, regalava preConsigliere tesoriere dell’Onb, delegato nazionale per le regioni Emilia Romagna e Marche.
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Teatro Sferisterio (Macerata). © esseerre/shutterstock.com
I TEATRI STORICI DELLE MARCHE CANDIDATI ALL’UNESCO L’Assessorato alla Cultura della Regione ha sottoposto la candidatura degli edifici a patrimonio mondiale dell’umanità
di Pietro Sapia* stigio alla comunità e al territorio, diveniva motivo di aggregazione sociale e fonte occupazionale per i cittadini. Per tali ragioni, i rappresentanti della “Regione dei teatri” ritengono che la candidatura possa soddisfare i requisiti di unicità nazionale e valore artistico e socio-culturale stabiliti dall’Unesco. Quel che è certo, è che i cittadini delle Marche rivedono in questo patrimonio
l’espressione di una tradizione che è parte integrante e identitaria della loro cultura regionale. «I teatri rappresentano ancora un punto di riferimento e di aggregazione sociale e, per raggiungere il prestigioso riconoscimento Unesco, il processo di candidatura coinvolgerà gli enti locali, le comunità e gli operatori culturali del territorio», conclude Giorgia Latini. GdB | Aprile 2021
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Beni culturali
LE TRE “ULTIME CENE” DI OPPIDO LUCANO Nel suggestivo borgo della Basilicata ci sono ben tre rappresentazioni del significativo episodio della vita di Gesù: un viaggio nella storia dell’arte lungo 400 anni
di Rino Dazzo
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ppido Lucano (Potenza) è un borgo caratteristico della Basilicata, nell’Alto Bradano, ricco di testimonianze artistiche e storiche. Tra le sue peculiarità ce n’è una che è abbastanza singolare: è una cittadina con diverse raffigurazioni dell’Ultima Cena. Nel suo territorio se ne possono ammirare ben tre, per un viaggio nella storia dell’arte che, partendo dalla terza decade del 1300, giunge fino alla metà del ’700. La prima (XIV secolo) è contenuta nel ciclo di affreschi delle Grotte di Sant’Antuono, la seconda (XVI-XVII secolo) figura nel cenacolo del convento di Sant’Antonio, la terza (XVIII secolo) impreziosisce invece il “cappellone” della Chiesa Madre dei Santi Pietro e Paolo. Quella degli affreschi è una storia nella storia, visto che sono rimasti nascosti o ignorati per secoli, fino a quando nei primi anni Settanta del secolo scorso un insegnante di educazione tecnica, Antonio Maria Cervellino, ha dato un’occhiata a quei ruderi poco fuori Oppido, in contrada Pozzella, usati come ricovero per maiali e capre e dove i ragazzi del paese si divertivano “a tirare i sassi a Gesù”. Nella cripta dell’antica chiesa rupestre Gesù c’era davvero. E con lui la Madonna, San Giuseppe, Giuda, gli apostoli
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e tutti i protagonisti di un ciclo di raffigurazioni sacre dai tratti probabilmente unici in Italia, databile tra la terza e la quarta decade del XIV secolo. Il ciclo è composto da 16-18 scene e costituisce un singolare e preziosissimo punto d’incontro tra Oriente e Occidente, tra Medioevo e Rinascimento. Lo stile pittorico dai tratti piuttosto semplici, dalla prospettiva approssimativa e dalla chiara ascendenza bizantina rivela infatti una certa familiarità con i nuovi sviluppi che porteranno al trionfo dell’arte rinascimentale. «Sono diversi i dettagli che suggeriscono come il frescante dovesse essere un personaggio piuttosto colto», sottolinea la docente universitaria Maria Caterina De Bonis, appassionata d’arte e oppidese doc. «Nella scena dell’Ultima Cena, in particolare, sulla tavola imbandita ci sono cinque pani e due pesci anzi-
© Immagini e Suoni
Beni culturali
Affreschi della chiesa rupestre di Sant’Antuono (XIV sec.), Ultima Cena.
Nella chiesa rupestre di Sant’Antuono a Oppido Lucano (Pz) è custodito un ciclo di affreschi del XIV secolo con raffigurazioni sacre. Tra queste, un’Ultima Cena ben conservata.
Affreschi della chiesa rupestre di Sant’Antuono (XIV sec.), particolare dell’Ultima Cena.
ché l’agnello. Giuda, inoltre, non è diverso dagli altri apostoli: ha l’aureola. Particolari che da un lato si legano alla tradizione italiana, dall’altro all’Oriente». Da cui dovevano provenire i monaci basiliani che qui si insediarono tra l’XI e il XII secolo. A loro si sono poi sovrapposti i monaci antoniani, seguaci dell’opera di Saint’Antoine de Vienne, che offrivano cura ai malati di ergotismo, il fuoco di Sant’Antonio. «Grotte con singole scene dallo stile piuttosto simile sono presenti in Calabria e Puglia, ma nessuna con un ciclo pittorico così ampio», continua la professoressa De Bonis. «La perifericità delle grotte ha salvato gli affreschi dall’usura, ma allo stesso tempo ha impedito a lungo che fossero valorizzati». Lo stato di conservazione degli affreschi è buono, al di là di alcune scene compromesse o andate perdute. I rischi sono legati alle aperture naturali delle grotte e alla possibilità che luce e acqua possano penetrare all’interno. «Eventuali situazioni critiche dal punto di vista biologico legate ad esempio a zone umide o a infiltrazioni possono essere scoperte con un’analisi con la termocamera a infrarossi», dice Matteo Montanari, membro della Commissione Permanente “Tutela dei Beni Culturali” dell’Ordine Nazionale dei Biologi e docente di Elementi di Biologia applicata al restauro all’Accademia delle Belle Arti di Bologna. «A livello preventivo è difficile intervenire sul microclima: si perturberebbe un ambiente che è così da milGdB | Aprile 2021
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Beni culturali
Refettorio del Convento di Sant’Antonio, affresco dell’Ultima Cena (XVIII sec.)
lenni. In casi come questo, si possono impedire contaminazioni algali utilizzando luci con lunghezza d’onda sui 550 nanometri che non falsino troppo i colori e contingentando gli ingressi per non favorire accumuli di umidità e CO2. Utile potrebbe essere l’introduzione di una serie di sensori datalogger di temperatura e umidità in grado di rilevare l’andamento microclimatico in continuo a livello di punti critici. L’analisi dell’andamento termoigrometrico nel corso delle stagioni permette di determinare i periodi più critici e di segnalare eventuali scostamenti imprevisti dai valori standard». Meno travagliata la storia e meno a rischio il destino della seconda Ultima Cena, contenuta nel cenacolo del convento di Sant’Antonio, in realtà dedicato a Santa Maria del Gesù, fondato nel 1482 per iniziativa dei signori locali, Francesco e Caterina Zurlo. Convento in cui è possibile ammirare una serie di affreschi del Todisco dedicati all’Antico e al Nuovo Testamento, oltre che un polittico e un trittico di Antonio Stabile da Potenza, tutti di stampo cinquecentesco. «Da tempo si era soliti predisporre nel refettorio degli edifici religiosi raffigurazioni dell’Ultima Cena, ma è a partire dal ’500 che si è iniziata a diffondere l’abitudine di inserire nel Chiesa dei Santi Pietro e Paolo, dipinto dell’Ultima Cena di Andrea Giannico (1747). dipinto anche angeli in 80 GdB | Aprile 2021
© Tino Funicelli
alto e animali in basso», spiega la professoressa De Bonis. «Una consuetudine rinascimentale che consente di datare questa Ultima Cena nel XVI-XVII secolo. Gli angeli volano sulla tavola, dove è presente l’agnello. Purtroppo l’autore è ignoto, di lui sappiamo solo che era un fedele seguace dei canoni del tempo». Molto di più si sa a proposito della terza Ultima Cena, realizzata nel 1747 da Andrea Giannico (Andrea di Laterza) per l’altare del “cappellone” della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, su commissione della confraternita del Santissimo Sacramento. «La tela, recentemente restaurata, ripropone un soggetto realizzato da Francesco De Mura e conservato presso il Pio Monte della Misericordia a Napoli», dice Maria Caterina De Bonis. «Anche Qui sono presenti animali in basso, in particolare in primo piano ci sono i cani simbolo di fedeltà, e gli angeli che volano in alto, ma con una ricchezza di particolari e una qualità complessiva superiori rispetto al dipinto del convento. Il soggetto della tela all’ultima cena è legato alla devozione dei committenti: l’Ultima Cena costituisce l’istituzione del Sacramento dell’Euca© Immagini e Suoni ristia».
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PADEL FENOMENO PER TUTTI Martina Lombardi racconta l’exploit della disciplina che piace a grandi e piccoli e che non richiede grandi spese per la pratica
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ivertente, imprevedibile, spettacolare. E poi salutare, democratico, economico. Di aggettivi per descrivere il padel, il fenomeno sportivo e sociale del 2020 (e facciamo anche 2021), ce ne sarebbero ancora tanti, ma rischieremmo di annoiarvi e la parola “noia” non si sa cosa sia, su un campo di padel. Due coppie di giocatori, racchette, palline depressurizzate, campo in formato ridotto (18x20 metri, 3/4 metri d’altezza) chiuso da quattro pareti (in vetro in fondo, in grata metallica ai lati mediani) che creano situazioni mai scontate e sempre difficili da leggere. Insomma, la quintessenza del divertimento, nitidamente raccontata da numeri impressionanti: in Italia i campi di gioco sono passati da 50 a 1600 in quattro anni (+ tremila per cento), con un numero di praticanti in continua crescita: tra il 2019 e il 2020 l’incremento è stato del 200 per cento.
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© FVSHOT - TYRESIA
di Antonino Palumbo
Sport
mi piaceva molto – racconta – perché vengo dal tennis e il padel non c’entra nulla con lo sport che ho praticato per 10 anni. Subito dopo, però, me ne sono innamorata e non sono più uscita dal campo. Ad oggi è la mia passione e la mia vita gira intorno al padel». I risultati di Martina sono stati la diretta conseguenza di questa inattesa passione: campionessa regionale, vicecampionessa italiana e campionessa italiana in sere A con il circolo CC Aniene, la Lombardi ha partecipato a un Mondiale e ad un Europeo, raggiungendo il secondo posto delle classifiche nazionali. Il mio obiettivo è tornare nelle Top 10 e continuare a inseguire risultati importanti con il mio nuovo circolo. Quest’anno infatti Martina, classificata 1.1, Martina Lombardi. difenderà i colori del Villa Pamphili Padel Club, L’atleta romana, classe società che nutre grandi ambizioni nel campio1993, dopo aver praticato nato di serie D. «È una grande fortuna far parte il tennis, ha iniziato a dedi questo magnifico circolo. Ho firmato con loro dicarsi al padel a livello per la partecipazione del campionato di serie C agonistico, diventando vicampionessa nazionale. ma è solo l’inizio: abbiamo tutte le carte per puntare alla B. Mi alleno con Mara Blanco che mi dedica tantissimo tempo e colgo l’occasione di salutare il presidente Luigi Argiolas e ringraziare tutti per la fiducia in me». L’atleta romana, classe 1993, è anche la protagonista di Tyresia Padel Go, videogioco in realtà aumentata, scaricato da oltre 7mila persone nei primi tre giorni: parte del successo del mobile game è la presenza di due avatar che riproducono fattezze e movenze di Martina Lombardi e di un altro campione reale, Marcelo Capitani. E dal punto di vista nutrizionale, come ci si comporta prima di giocare a padel? Come spiega la campionessa romana, «l’alimentazione è © David Prado Perucha/shutterstock.com molto importante, ma dipende dalle caratteristiche di ciascuno di noi, dalla propria struttura fisica e da cosa hai bisogno. L’importante è non saltare i pasti e ascoltare il proprio corpo, anche se richiede un’alimentazione più sostanziosa. È preferibile che la pasta sia principalmente integrale. Il pasto principale può essere anche un’ottima colazione: non bisogna entrare in campo con carenza di zuccheri e affamati». © FVSHOT - TYRESIA
«Non è un caso – spiega Martina Lombardi, già numero 2 e vicecampionessa nazionale – che il padel si sia diffuso così rapidamente. È uno sport molto divertente, facile e aggregante: per giocare basta chiamare 4 persone e può iniziare il divertimento. È facile perché si può apprendere subito e farci una partita. E si può giocare a qualsiasi età». Il padel è una disciplina piuttosto recente, nata dalle esigenze pratiche di don Enrique Corcuera che, per non rinunciare al campo da tennis nella sua villa di Acapulco, decise di aggiungere altri muri a quello che aveva scoraggiato il progetto iniziale. Al suo amico Alfonso de Hohenlohe, imprenditore e principe spagnolo, si deve la diffusione in Spagna, al miliardario Julio Menditequi il “dilagare” della passione per il padel in argentina a partire dai primi anni Ottanta. Anche Diego Armando Maradona, dio pagano del calcio, ha spesso impugnato la racchetta divertendosi con i professionisti. E l’Italia? I primi due campi in muratura, erba sintetica e regolamentari furono costruiti a Costabissara, in Veneto, nel maggio del 1991. Ma fino al 2015 il padel è rimasto uno sport di Nicchia. La simpatia riscossa da nomi importanti del calcio, come Zlatan Ibrahimovic e Francesco Totti, ha contribuito alla fama del padel: «Fa piacere che personaggi come loro si siano affacciati a questo sport – aggiunge Martina Lombardi – che grazie alla loro pubblicità è cresciuto ancora di più ed è stato identificato come uno sport di moda». Pregio indiscutibile del padel è la sua accessibilità: non servono, almeno a livello basic, i fondamentali richiesti da tennis (per citare una disciplina “gemella”) o basket e le forze sono distribuite e Racchetta da padel. livellate dal gioco di squadra. L’accessibilità è anche economica: il campo costa tra i 6 e i 10 euro per un’ora e mezza, il costo delle racchette parte da una base di circa 30 euro. Martina Lombardi, invece, il padel lo pratica a un livello un “tantino” più alto. L’ha scoperto cinque anni fa e riesce a disimpegnarsi egregiamente su ambo i lati, con predilezione per quello di sinistra. Tutto è nato per caso: «All’inizio non
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Sport
IMPRESE E ALIMENTAZIONE I “SEGRETI” DI CHIAPPUCCI A quasi 30 anni dall’impresa del Sestriere, il Diablo continua a essere un esempio per tanti sportivi. Ma spiega: “Se avessi avuto un nutrizionista in squadra, avrei fatto ancora meglio”
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ra può finalmente alzare le braccia al cielo, nel segno del trionfo... Claudio Chiappucci ha vinto alla grande questa tredicesima tappa del Tour». Così Adriano De Zan, storica voce italiana del ciclismo, raccontava l’impresa del Diablo, una fuga di oltre 200 chilometri che nessuno dei grandi rivali - dal “Signore del Tour” Miguel Indurain al bicampione del mondo Gianni Bugno - riuscì a rintuzzare. Primo su tutti i Gpm della tappa, Chiappucci concluse la tappa in solitaria, a 40 anni dall’assolo leggendario di Fausto Coppi, salendo al secondo posto in classifica generale. Dribblando moto e incuneandosi con la sua maglia a pois fra due ali di folla, l’Omino di Ferro (De Zan dixit) mise così il proprio sigillo sulla graduatoria degli scalatori e regalò una giornata indimenticabile agli amanti del ciclismo. Era il 18 luglio 1992. Da allora il ciclismo è diventato più tecnologico, più scientifico, più “programmato”. Quello che non è cambiato, al netto dell’innovazione scientifica, dei prodotti e delle figure professionali a
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disposizione degli atleti professionisti, è l’importanza dell’alimentazione e dell’idratazione, prima e durante la competizione agonistica. «Negli ultimi trent’anni il ciclismo è cambiato, grazie alla tecnologia e all’innovazione nel campo della nutrizione si è arrivati a ottimizzare l’allenamento e il talento, in base al metabolismo di ciascun atleta. All’inizio degli anni Novanta prima della gara l’alimentazione era quella che tanti appassionati conoscono, dal piatto di pasta alle marmellate» racconta Chiappucci. Se alimentarsi e idratarsi bene prima delle gare era importante, fondamentale era farlo durante. Soprattutto nel caso di sforzi prolungati, e quanto pare imprevisti, come quello del 18 luglio 1992. «Quella fuga non era programmata – spiega il Diablo – e dunque per gestirmi bene ho cercato di giocare d’anticipo, idratandomi prima di avere sete e mangiando prima di avere fame, soprattutto piccoli panini con marmellate e proteine, in particolare prosciutto anche se poi mi è capitato in carriera di farli anche con il tonno».
Sport
Oggi nel ciclismo agonistico un ruolo chiave è giocato dall’integrazione, necessaria quando lo sportivo deve far fronte a determinate esigenze (ad esempio, l’aumento o il preservare la massa muscolare), ma soprattutto facilitare il recupero post endurance training e non solo. Alcuni esempi, forniti dal Biologo nutrizionista che segue Claudio Chiappucci, Rudy Alexander Rossetto: gli Amminoacidi ramificati o BCAA, che consentono un effetto anabolico, permettendo la costruzione di nuove proteine, oltre che di ridurre il senso di fatica e di aumentare la capacità di recupero tra gli allenamenti; le maltodestrine DE19, mix di carboidrati di natura complessa, che rilasciano energia in maniera lenta e costante e favoriscono i tempi di recupero; la glutammina, che previene il catabolismo muscolare, favorisce la sintesi delle proteine e a sua volta agevola il recupero, dando supporto al sistema immunitario. A questi integratori è si può associare anche l’assunzione di Vitamina C Retard. Chi seguiva il ciclismo in quegli anni, fa fatica ad associare Chiappucci a una cosiddetta “crisi
A 58 anni, Chiappucci conduce una vita da vero sportivo, allenandosi e partecipando a numerosi eventi cicloamatoriali. Ma non è un semplice promoter: grazie al suo talento sempreverde e ad abitudini alimentari rigorose, riesce a mettersi dietro numerosi atleti molto più giovani.
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A sinistra, Claudio Chiappucci taglia per primo il traguardo del Sestriere al Tour de France del 1992. Nel riquadro, “El Diablo” con con Rudy Alexander Rossetto.
di fame”, ovvero il momento in cui le riserve di glicogeno dell’organismo, in particolar modo quelle muscolari, risultano insufficienti a sostenere lo sforzo fisico necessario all’atleta. Sia perché «il mio metabolismo mi ha sempre aiutato, garantendomi una grande capacità di recupero e ottime riserve», sia perché Claudio ha sempre avuto la capacità di ascoltare il proprio corpo. Fra gli episodi più curiosi, in tal senso, Chiappucci ricorda quello riguardante un compagno di squadra che, in crisi di fame, arrivò a mangiare una banana con tutta la buccia. Eppure, lo scalatore di Uboldo è convinto: «Se all’epoca avessi avuto a disposizione la figura di un nutrizionista, probabilmente avrei fatto ancora meglio». «Nel ciclismo professionistico – spiega ancora Rossetto - i piani nutrizionali e d’integrazione sono fatti per rispecchiare picchi di allenamento, zone, metabolismo energetico (lipidico o glucidico) in gioco, recupero e ripristino del glicogeno e dei protidi e in generale per favorire il recupero, evitare lo stress ossidativo e il catabolismo muscolare, cioè evitare l’overtraining. Il nutrizionista deve mettere al centro l’atleta e la qualità degli alimenti». A 58 anni, Chiappucci conduce una vita da vero sportivo, allenandosi e partecipando a numerosi eventi cicloamatoriali. Ma non è un semplice promoter: grazie al suo talento sempreverde e ad abitudini alimentari rigorose, riesce a mettersi dietro numerosi atleti molto più giovani. Da uomo di ciclismo, ha potuto constatare come «oggi i cicloamatori si nutrono come professionisti, sono molto competitivi e curano tutto nel dettaglio: allenamenti, mezzi, nutrizione. Prendono spunto dai professionisti per arrivare alle gare in condizioni perfette». E magari chiedono pure consiglio a Claudio, fra un aneddoto e l’altro di un ciclismo che era già moderno, ma che grazie a poeti del pedale come Chiappucci e il compianto Pantani ha saputo regalare pagine di elevato romanticismo. (A. P.) GdB | Aprile 2021
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Sport
Federica Pellegrini.
QUINTA OLIMPIADE PER LA “DIVINA” DEL NUOTO Federica Pellegrini si è qualificata per i Giochi di Tokyo nella specialità dei 200 stile libero: sarà la prima nuotatrice italiana a partecipare a cinque edizioni di fila
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lle Olimpiadi di Tokyo ci sarebbe andata comunque, perché alla “Divina” del nuoto una wild card l’avrebbero data. Ma Federica Pellegrini, 32enne atleta di Mirano, medaglia d’oro a Pechino 2008, ha preferito arrivare al gate per il Giappone con una qualificazione meritata in vasca. In barba alle difficoltà affrontato negli ultimi mesi, inclusa l’indesiderata e segnante esperienza del Covid che ha raccontato e testimoniato sui suoi canali social. La pluricampionessa italiana, europea e mondiale si è presa il “pass” per il Sol Levante nella sua gara per eccellen-
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za, i 200 metri stile libero, vincendo la finale della specialità agli Assoluti di nuoto di Riccione col tempo di 1’56”69. E dopo la gara la Divina non si è vergognata di concedere a fotografi, telecamere e taccuini il proprio lato più umano, scoppiando in un pianto liberatorio. «Scusate per le lacrime – le parole che hanno fatto capolino fra le lacrime di Federica - ma non sono stati mesi semplici questi ultimi. Nuotare questo tempo non è stato da poco. C’era tanta rabbia ieri per qual decimo che mancava nei 100 e invece il limite per Tokyo è venuto oggi ed è ancora più bello perché è la mia gara. Sono con-
tenta di tutto. Sono in linea con gli altri campionati italiani fatti negli anni scorsi. Adesso si respira molto meglio. Sono arrivata alla quinta olimpiade, sono tante e mi viene da piangere un’altra volta». Sono tante, si. La Pellegrini sarà la prima nuotatrice italiana a partecipare a cinque edizioni consecutive dei Giochi olimpici. Un traguardo che, in vasca, era stato toccato solo da Franco Cagnotto nei tuffi (fra Tokyo 1964 e Mosca 1980, con due argenti e due bronzi), Gianni de Magistris (Città del Messico 1968-Los Angeles 1984, un argento) e Stefano Tempesti (Sidney 2000-Rio de Janeiro 2016, con un argento e un bronzo) nella pallanuoto. Salvo imprevisti, Federica raggiungerà altre grandissime dello sport italiano, come le schermitrici Valentina Vezzali, Giovanna Trillini e Margherita Zalaffi, la velista Alessandra Sensini, le fondiste dello sci Sabina Valbisa e Gabruella Paruzzi, la biatleta Nathalie Santer e la ciclista Roberta Bonanomi. Meglio di loro hanno fatto solo Josefa Idem, in gara due volte per la Germania Ovest e sei per l’Italia, e Gerda Weissensteiner, prima ed unica azzurra capace di vincere medaglie olimpiche in due discipline diverse (slittino e bob). E pensare che cinque anni fa, dopo aver solo sfiorato il bronzo nei 200m stile libero a Rio 2016 - dov’era stata portabandiera dell’Italia nel giorno del suo compleanno - qualcuno aveva temuto che Federica potesse ritirarsi dalle gare. Altroché. Annunciata, subito, la volontà di proseguire fino a Tokyo 2020 (diventata Tokyo 2021), la Divina ha vinto l’unico oro che ancora le mancava, quello dei mondiali in vasca corta, e vincendo altre due medaglie d’oro ai Mondiali nei 200m stile libero, portando a otto le edizioni consecutive sul podio della stessa gara iridata, impresa mai riuscita a nessuno prima d’ora. E le Olimpiadi? Federica non era riuscita a staccare il pass in occasione dei campionati italiani invernali 2019, pur vincendo due gare e tre medaglie totali. (A. P.)
© Samuel Ponce/shutterstock.com
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e Olimpiadi, il sogno di ogni atleta. A prescindere dall’età, anche quando lo scorrere del tempo rischia di creare un solco di competitività con chi ha la metà (o meno) degli anni. Chi non ha mai badato troppo al calendario è Kazuyoshi Miura, calciatore giapponese noto ai tifosi italiani, che lo scorso 10 marzo è sceso in campo a 54 anni suonati, collezionando almeno una presenza in 36 stagioni da professionista. L’ennesimo primato di un’autentica leggenda vivente. Una sorta di eroe dei quattro mondi, se si considera che la sua carriera è iniziata in Brasile, ha toccato l’Europa e l’Australia e scrive nuovi capitoli in Giappone. Con la segreta speranza, appunto, di mettere la ciliegina sulla torta agli imminenti Giochi olimpici di Tokyo. Lo scorso agosto, giocando la partita tra il Sagan Tosu e il suo Yokohama FC, Miura era diventato il calciatore più anziano ad essere sceso in campo nella Coppa del Giappone, a 53 anni, 5 mesi e 10 giorni, ma soprattutto è diventato il primo calciatore a giocare in cinque decadi diverse, dagli anni Ottanta del XX secolo agli anni Venti del XXI. A gennaio di quest’anno, poi è arrivato il rinnovo del contratto (per il diciottesimo anno di fila) con lo Yokohama FC, firmato alle 11:11 dell’11 gennaio, un numero che Miura porta da sempre sulla maglia. L’ultimo record di “Kazu” è datato 10 marzo: in quella data, infatti, l’attaccante nipponico è sceso in campo per un minuto nel match di Jleague perso dallo Yokohama FC con l’Urawa Red Diamonds, in una stagione sinora avara di soddisfazioni sia per la Fenice (un solo successo, in coppa col Kashiwa Reysol) sia per il suo iconico calciatore. Tempo per rinascere dalle sconfitte, comunque, ce n’è e con quasi quarant’anni di calcio alle spalle Miura lo sa bene. Ne aveva poco più di 15 quando, dopo i primi passi e i primi gol nelle giovanili dello Shizuoka Gakuen, assieme al fratello maggiore Yasutoshi acquistò un biglietto per il Brasile. intenzionato
Sport
Kazuyoshi Miura, scultura in cera al Museo di Madame Tussauds in Odaiba (Giappone).
UN MONUMENTO DEL CALCIO DI NOME “KAZU” MIURA A 54 anni, l’attaccante giapponese, ex Genoa, è sceso in campo per trentaseiesima stagione di fila in un campionato professionistico e insegue le Olimpiadi
ad affinare la sua tecnica e ad affermarsi come calciatore professionista. Si racconta che la sua scelta abbia ispirato Yōichi Takahashi per le vicende di “Capitan Tsubasa”, alias “Holly e Benji”, un manga calcistico che narra la storia di un ragazzo, cresciuto nella scuola Nankatsu, che a 15 anni lascia il Giappone per avventurarsi nel calcio brasiliano e arrivare a giocare da professionista anche in Europa. Recordman di gol in nazionale, 55, Miura può vantare una carriera infinita, partita nel 1986 con la maglia del Santos e proseguita, in Brasile, con i colori del Palmeiras, del Matsubara, del CRB XV de Jaù e del Coritiba. Poi il ritorno
in Giappone, con 100 gol in 192 partite per il Verdy Kawasaki tra il 1990 e il 1998. Senza scordare la storica parentesi al Genoa, al di là del numero di reti: l’unica, peraltro ininfluente, arrivò in un derby con la Sampdoria. Dopo essere passato da Croazia Zagabria, Kyoto Sanga, Vissel Kobe, dal 2005 si è legato allo Yokohama Fc, concedendosi solo una parentesi - 4 partite, 2 gol - al Sydney FC. Il 5 marzo 2017, Miura ha sottratto a Sir Stanley Matthews dello Stoke City il primato di longevità nel calcio, scendendo in campo con il V-Varen Nagasaki a 50 anni e 7 giorni, due meglio del cavaliere britannico, Pallone d’Oro nel 1956. (A. P.) GdB | Aprile 2021
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LA BIOLOGIA IN BREVE Novità e anticipazioni dal mondo scientifico
a cura di Rino Dazzo
INNOVAZIONE Nuovo farmaco antietà all’esame del test clinico
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a già dimostrato la sua efficacia sui topi, ora uno studio della Washington University School of Medicine di St. Louis intende confermarne la validità anche sull’uomo: si chiama NMN (nicotinamide mononucleotide), è un derivato della niacina e può contrastare gli effetti dell’invecchiamento. Un farmaco antietà, che migliora la capacità dell’insulina di aumentare l’assorbimento del glucosio nel muscolo scheletrico, spesso anormale in soggetti obesi o diabetici. Il farmaco è in commercio in Giappone, Cina e negli Stati Uniti sotto forma di integratore alimentare e sembra funzionare più nelle donne che negli uomini. L’NMN, inoltre, è coinvolto nella produzione di un altro importante composto, il NAD (nicotinamide adenina dinucleotide): quando i suoi livelli diminuiscono con l’età, possono insorgere effetti come la resistenza all’insulina.
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RICERCA L’arma vincente dell’Homo sapiens? La creatività
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a forma fisica e la creatività: sono queste, secondo gli scienziati dell’Università di Granada, le caratteristiche che hanno consentito all’Homo sapiens di affermarsi sui Neanderthal. In uno studio i ricercatori spagnoli fanno riferimento a 267 geni associati alla creatività, facenti parte di un più ampio gruppo di 972 particelle cromosomiche associate a personalità, memoria e apprendimento. Una prima parte di questi cromosomi, responsabili delle reazioni emotive, è emersa circa 40 milioni di anni fa. Un’altra rete, alla base della capacità di autocontrollo, si è invece sviluppata meno di due milioni di anni fa. L’ultima rete di cromosomi, quella più legata autoconsapevolezza creativa, è emersa invece circa 100mila anni fa e potrebbe aver marcato la differenza rispetto agli altri ominidi, consentendo all’Homo sapiens di affermarsi come specie dominante.
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NEUROLOGIA Essere nevrotici aumenta rischi di sviluppare il Parkinson
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ssere nevrotici aumenta il rischio di sviluppare il Parkinson. Lo indica una ricerca che ha visto la partecipazione del Cnr-Irib di Cosenza e del Cnr-Ibfm di Milano che ha verificato i nessi tra il nevroticismo e Parkinson. Col progredire della malattia, il danno alle cellule nervose nel cervello provoca un calo dei livelli di dopamina che porta a sintomi come perdita di equilibrio, lentezza, tremori e rigidità. È la compromissione del sistema ipotalamo-ipofisi-surrene a portare uno stress ossidativo a lungo termine.
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ONCOLOGIA Presto nuovi dispositivi medici nucleari contro i tumori
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n arrivo nuovi dispositivi medici nucleari adroterapici contro i tumori, più efficaci, compatti e basati su particelle cariche come i protoni, che sono in grado di distruggere le cellule tumorali. Sono molto positivi i risultati del programma LPA2 (Laser Driven Proton Acceleration Applications), esperimento finanziato dalla Commissione Scientifica Nazionale dell’INFN. Attraverso l’impiego di un laser capace di generare impulsi molto brevi, i ricercatori sono riusciti a produrre e a trasportare un fascio di protoni con l’intensità e l’energia adatti ai trattamenti oncologici. Soprattutto, sono riusciti a guidarli verso precisi punti di irraggiamento. La campagna di sperimentazione ha avuto luogo presso il Laboratorio di Irraggiamento con Laser Intensi di Pisa dell’Istituto Nazionale di Ottica, dove dal 2018 è attivo un impianto laser di elevata potenza finanziato dal Cnr.
AMBIENTE Oceani più acidi, a rischio conchiglie e molluschi
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ceani e mari terrestri sono sempre più acidi e meno ospitali per molluschi e coralli. Lo dicono i risultati del sistema di mappatura messo a punto dal gruppo di ricerca coordinato da Luke Gregor, dell’Eth di Zurigo, grazie al supporto dell’Esa, che ha consentito di verificare l’evoluzione dello stato di salute dei bacini. L’osservazione del sistemato carbonatico superficiale-oceanico dal 1985 al 2018 ha mostrato come l’acidità degli oceani sia progressivamente aumentata, con conseguente diminuzione del pH dell’acqua. Questo perché gli oceani, oltre ad assorbire il 90% del calore extra nell’atmosfera provocato dalle emissioni di gas serra, assorbono pure il 30% dell’anidride carbonica pompata dall’uomo. Di questo passo – è l’allarme lanciato dai ricercatori – conchiglie, barriere coralline e scheletri marini finiranno col dissolversi.
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Lavoro
CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DI VERBANIA Scadenza, 3 maggio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Chimiche” da usufruirsi presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del CNR, sede secondaria di Verbania, nell’ambito del Programma di incentivo e sostegno alle attività di Applicazione, MIglioramento e COstruzione dei trovati brevettati” (Programma AMICO) - “Natural-Blu”. Per informazioni, visitare il sito www.cnr.it.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO PER L’ENDOCRINOLOGIA E L’ONCOLOGIA “GAETANO SALVATORE” DI NAPOLI Scadenza, 13 maggio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da usufruirsi presso l’Istituto per l’Endocrinologia e l’Oncologia Sperimentale “G. Salvatore” del CNR di Napoli, ell’ambito del Progetto di Ricerca: “H2020 MSCA-RISE- DevelOpmeNt of Cancer RNA TherapEutic, cONCReTE”. Per informazioni, visitare il sito www.cnr.it.
CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA E L’ANALISI DELL’ECONOMIA AGRARIACONCORSO Scadenza, 3 maggio 2021 Conferimento, per titoli e colloquio, di due assegni di ricerca, della durata di dodici mesi, da usufruirsi presso il Centro di ricerca politiche e bio-economia U.O. di Firenze. Gazzetta Ufficiale, n. 26 del 02-04-2021.
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA” Scadenza, 13 maggio 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/D1 - Fisiologia, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 29 del 13-04-2021.
UNIVERSITÀ DI FERRARA Scadenza, 8 maggio 2021 Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato della durata di trentasei mesi e definito, settore concorsuale 05/C1 - Ecologia, per il Dipartimento di Scienze della vita e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 32 del 23-04-2021. 90 GdB | Aprile 2021
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA” Scadenza, 13 maggio 2021 Procedura comparativa per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 05/E2 - Biologia molecolare, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 29 del 13-04-2021. UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA DI VITERBO
Scadenza, 13 maggio 2021 Valutazione comparativa per la copertura di tre posti di ricercatore a tempo determinato, vari settori concorsuali, per il Dipartimento per la innovazione nei sistemi biologici, agroalimentari e forestali. Gazzetta Ufficiale n. 29 del 13-04-2021. AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE GRANDE OSPEDALE METROPOLITANO NIGUARDA DI MILANO Scadenza, 13 maggio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, per la S.C. Analisi chimico cliniche e microbiologia. Gazzetta Ufficiale n. 29 del 13-042021. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI BARICONCORSO Scadenza, 16 maggio 2021 Conferimento di una borsa di studio della durata di sette mesi per laureati in Scienze agrarie o Scienze biologiche. Tematica: “Salvaguardia delle risorse genetiche di interesse Agrario”. Gazzetta Ufficiale n. 30 del 16-04-2021. AZIENDA SANITARIA LOCALE BT ANDRIA Scadenza, 16 maggio 2021 Stabilizzazione del personale precario, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo. Gazzetta Ufficiale n.30 del 16-04-2021.
Lavoro
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSCIENZE E BIORISORSE DI BARI Scadenza, 17 maggio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n. 1 borsa di studio per laureati di mesi 7 (sette) per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Bioagroalimentari” da usufruirsi e da svolgersi presso l’Istituto di Bioscienze e BioRisorse del CNR di Bari nell’ambito del Progetto PRO.CA.NA.PA. – Reperimento, Caratterizzazione, Conservazione e Moltiplicazione di Germoplasma di Cannabis sativa. Per informazioni, visitare il sito www.cnr.it. CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI BIOSTRUTTURE E BIOIMMAGINI DI NAPOLI Scadenza, 20 maggio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n.1 borsa di studio per laureati, per ricerche inerenti l’Area scientifica “Scienze Biomediche” da usufruirsi presso la Sede dell’Istituto di Biostrutture e Bioimmagini del CNR, nell’ambito del progetto CIR01_00023 - “IMPARA - IMAGING DALLE MOLECOLE ALLA PRECLINICA - RAFFORZAMENTO DEL CAPITALE UMANO”. Per informazioni, visitare il sito www.cnr.it. UNIVERSITÀ DI PADOVA Scadenza, 20 maggio 2021 Procedure di selezione per la chiamata di due professori di seconda fascia, per il Dipartimento di biologia Gazzetta Ufficiale n. 31 del 20-04-2021. AZIENDA DI TUTELA DELLA SALUTE DELLA SARDEGNA DI SASSARI
Scadenza, 20 maggio 2021 Revoca e contestuale nuova indizione della procedura di stabilizzazione del personale precario del comparto, per titoli ed esami, per la copertura di quattro posti di collaboratore tecnico professionale - laureato in biologia, categoria D, a tempo indeterminato. Gazzetta Ufficiale n. 31 del 20-04-2021.
per ricerche inerenti l’Area scientifica “Biomatematica” da usufruirsi presso l’Unità di Ricerca “Fisiopatologia clinica e modellistica matematica in biomedicina” dello IASI con sede nel Dipartimento di Neuroscienze – Università Cattolica del Sacro Cuore - Roma, nell’ambito del progetto “NUP153”. Per informazioni, visitare il sito www.cnr.it.
MINISTERO DELL’INTERNOCONCORSO Scadenza, 23 maggio 2021 Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di dodici posti di commissario tecnico biologo del ruolo dei biologi della carriera dei funzionari tecnici della Polizia di Stato. Gazzetta Ufficiale n. 32 del 23-04-2021.
UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA” Scadenza, 27 maggio 2021 Procedura comparativa per la chiamata di un professore di prima fascia, settore concorsuale 05/B2 Anatomia comparata e citologia, per il Dipartimento di biologia. Gazzetta Ufficiale n. 33 del 27-04-2021.
CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ISTITUTO DI ANALISI DEI SISTEMI ED INFORMATICA “ANTONIO RUBERTI” DI ROMA Scadenza, 24 maggio 2021 È indetta una pubblica selezione per titoli, eventualmente integrata da colloquio, per il conferimento di n 1 borsa/e di studio per laureati,
ESTAR TOSCANA Scadenza, 27 maggio 2021 Concorso pubblico unificato, per titoli ed esami, per la copertura di due posti di dirigente biologo, disciplina di patologia clinica, a tempo indeterminato, per l’attività di procreazione medicalmente assistita dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi. Gazzetta Ufficiale n. 33 del 27-04-2021.
BANDI & CONCORSI www.onb.it GdB | Aprile 2021
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Scienze
La figura del Biologo Ambientale nella gestione e manutenzione del territorio e nell’Ecologia Urbana L’indispensabile e storico ruolo del Biologo Ambientale nella Botanica applicata, nella progettazione Botanica e nella Zoologia applicata
di Giuliano Russini*
I
l biologo nella botanica applicata
Con il fare noi impariamo (By doing we learn), uno dei tanti motti che coniò il grande biologo scozzese Patrick Geddes botanico ed ecologo, creatore della “architettura del paesaggio” e di molti concetti fondamentali che vengono ancora oggi utilizzati in diversi contesti devoti alla progettazione di spazi verdi all’interno di aree urbane, ma spesso volutamente non riconosciuti al suo antesignano; creò concetti come la conurbazione (fusione in un unicum spazio-temporale, della struttura urbana, con le circostanti aree rurali e boschive, prodromo dei corridoi ecologici), del bioregionalismo (ovvero che si doveva con sopralluoghi su campo, verificare tutte lo condizioni del tessuto vivente web life e abiotico, per poter creare una città ideale) e della Geografia evolutiva (somma della biogeografia, geomorfologia e attività antropica), fornendo le basi concettuali e pratiche della Ecologia urbana. Fondamentale è lo storico ruolo del Biologo Ambientale nella figura del botanico applicato, ecologo applicato e altre specializzazioni, che oltre il significativo apporto del passato, attraverso missioni nei posti più lontani nel mondo, permettendo la scoperta di tutte le specie vegetali oggi note di cui ne ha caratterizzato la crescita e sviluppo in relazione alla natura del terreno, delle relazioni ambientali e fisiologiche e sulla natura del manto vegetale ricoprente il Pianeta Terra, in funzione della loro geografia di distribuzione e nella formazione delle diverse fitocenosi, ha permesso di contestualizzare poi l’uso di numerose di esse a scopo ornamentale e alimentare e il corretto utilizzo con criterio scientifico, non Biologo Botanico applicato-Fitopatologo, Referente Tecnico del Comitato Nazionale dei Biologi Ambientali (CNBA), dell’Ordine Nazionale dei Biologi. *
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solamente estetico, in relazione al fitoclima e microclima nella progettazione di aree verdi urbane, periurbane e in tutti quegli ausili indispensabili oggi, per rendere reale l’idea di Patrick Geddes di “città ideale”. Città ideale, nella quale la necessità di spazi verdi che non siano solo una sorta di “giardino dipinto”, come l’architettura vorrebbe, risultino funzionali ecologicamente alla fauna urbana, ma anche al benessere psicofisico dei cittadini che ne usufruiscono. Da questo punto di vista, il biologo ambientale nelle sue varie specializzazioni è una figura indispensabile per la corretta progettazione di aree verdi che risultino quanto più possibili naturali (i famosi “ecourbanoidi” di René Dubos, 1901-1982) nei quali si vengano a strutturare rapporti tra la componente vegetale, correttamente scelta con criteri fitogeografici, fitosociologici e in relazione al clima e microclima e terreno presente e analizzato e le aree acquatiche (oggi definite punti blu) che progetta ad esempio come zone umide, laghetti etc., perché ciò si sviluppi coerentemente in un’area quanto più assimilabile ad una biocenosi; non è assolutamente sufficiente la componente estetica, ma è fondamentale e indispensabile anche quella ecologica, anzi in primis quest’ultima, da cui non si può assolutamente fare a meno del biologo ambientale nelle sue accezioni specialistiche, nel contesto di un progetto di forestazione urbana in collaborazione con alte figure professionali, di progettazione delle aree verdi (parchi, giardini), ma anche nella manutenzione e ricupero di aree verdi antiche e nel contesto di parchi archeologici, dove la componente vegetale riveste un ruolo fondamentale. In alcuni casi, figure professionali senza una formazione biologica-ecologica, hanno provato a fare progettazione di spazi verdi, con errori gravi nella scelta della tipologia delle alberature, errori di cui stiamo pagandone le conseguenze oggi in tutte le città italiane, con interi patrimoni arborei che sono divenuti obsoleti
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e alberature instabili dal punto di vista fitostatico, poiché il progettista di turno a digiuno di conoscenze ecobiologiche, ha fatto una scelta puramente estetica, non considerando che si sta parlando di organismi biologici che sono dotati di un piano di sviluppo e crescita, che si relaziona con l’ambiente, iscritto nel loro genoma. La presenza quindi nelle pubbliche amministrazioni quali servizi regionali, servizi parchi e giardini comunali, enti regionali fitosanitari, assessorati all’agricoltura e sviluppo rurale, non possono fare a meno della presenza del biologo ambientale negli organigrammi, come non si può assolutamente negare l’evidenza fattiva della figura del biologo ambientale come libero professionista e consulente per tali enti e nei piani di assestamento urbano, forestale e come cardine nei piani di assestamento ecologico, grazie ad una formazione completa e globale, olistica. Come fondamentale indispensabile è il suo apporto, nei progetti della conservazione della biodiversità vegetale ad esempio con l’ausilio delle Banche del seme, oggi Banche del Germoplasma, dove con protocolli scientifico-tecnici piuttosto complessi ed avanzati, vengono conservati semi delle piante sia autoctone che alloctone, a rischio di estinzione; infine, come per le specie animali, è indispensabile a livello urbano per gli aspetti che riguardano sia il controllo igienico ad esempio nelle lotte obbligatorie contro parassiti quali le processionarie dei pini (Thaumetopoea pityocampa (Denis & Schiffermüller, 1775)) e delle querce (Thaumetopoea processionea (Linnaeus, 1758)), delle acque ad uso urbano e reflue, che possono venire contaminate anche da organismi di origine vegetale (alghe tossiche) oltre che animale e di altra origine come quella virale, batterica e di altri bacilli come
i protozoi e dagli inquinanti e nel contrasto delle specie aliene vegetali come dei patogeni, nel caso delle piante, di origine aliena (causa di vere pandemie fitopatologiche su territorio nazionale) perché normalmente presenti in altre aree geografiche, ma che spesso arrivano sul nostro territorio come passeggeri di vario tipo (attraverso derrate alimentari, piante nel comparto vivaistico etc.) vedi il Punteruolo rosso (Rhynchophorus ferrugineus Olivier, 1790), o il Punteruolo nero, Curculionide del fico (Aclees sp.cf. Foveatus), o la più recente Cocciniglia tartaruga (Toumeyella parvicornis) che sta devastando il patrimonio boschivo urbano del Pino mediterraneo, comune, dei pinoli, ad ombrello (Pinus pinea, L.) e quello del Pino marittimo o costiero (Pinus pinaster, Aiton 1789) come di altre Pinaceae e molte altri sono i casi in essere. Indispensabile è in tutte quelle procedure di impatto ambientale di valutazioni pre e post operam ambientali e sanitarie, di cui ne è a pieno titolo conoscitore e propositore anche a livello di linee guida e normativa legale di concerto con altre figure professionali. Altro ruolo fondamentale lo svolge nel comparto agricolo/forestale sia nella lotta contro i sempre più evidenti fenomeni di siccitosi e desertificazione, anche su territorio nazionale (Italia centromeridionale) con opere di ingegneria naturalistica e nella sistemazione fluviale. Per cui rifacendoci alla frase iniziale è d’uopo considerare il Biologo Ambientale come figura cardine nella tutela e gestione del territorio sia naturale che urbano, poiché attraverso il fare si impara, ovviamente alla luce di una conoscenza olistica e approfondita dell’ambiente e della natura, che caratterizzano questa figura antica e fondamentale. GdB | Aprile 2021
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L’indispensabile e storico ruolo del Biologo Ambientale, nella Zoologia applicata Oggi, l’errata visione antropocentrica che si è instaurata in tutte le scienze, ha portato ad una visione distorta dello studio e della protezione dell’ambiente e della natura, con annessa diversità biologica, sempre e solo in funzione della saluta umana e a tutela dell’Homo sapiens, il quale ne è invece solo una componente insieme alle circa 1,5 milioni di specie animali, 380.000 specie di piante e relativi ecosistemi noti alla Biologia, patrimonio che può sembrare enorme, ma che in realtà ricopre a mala pena il 15% circa delle specie conosciute nei vari ecosistemi componenti la biosfera, sia terrestri, marini che di acque continentali, mentre ignoriamo ancora l’esistenza di ulteriori milioni di specie non ancora scoperte e che si stanno estinguendo senza che purtroppo abbiamo avuto modo di averne conoscenza, per la sempre più crescente distruzione ed alterazione dei vari ecosistemi del Pianeta! Il biologo ambientale sin dalla sua origine è stato colui che ha scoperto e definito lo studio e conoscenza degli organismi viventi e le loro profonde relazioni con il loro ambiente abiotico (botanico, zoologo, ecologo, etologo), il cui insieme formano le Biocenosi! Inoltre il biologo anche nei casi in cui ha rivolto l’attenzione verso l’essere umano, lo ha fatto sempre con un approccio naturalistico scientifico, si pensi ai grandi studi della Psicobiologia, ove l’approccio nella comprensione dei meccanismi psicobiologici e psicofi94 GdB | Aprile 2021
siologici dell’essere umano, hanno sempre trovato supporto da studi comparativi nell’ambito delle altre specie animali. Con la sempre più crescente urbanizzazione, spesso distrofica, l’essere umano inoltre si è appropriato e si sta appropriando di enormi spazi naturali, modificando totalmente anche il paesaggio e la sua ecologia, da cui oggi, ci troviamo a convivere con specie animali e vegetali selvatici in spazi urbani, per averne rubato i loro spazi naturali; specie che spesso per questioni necessarie e perché letteralmente intrappolate dalle strutture urbane, si stanno modificando per potersi adattare a vivere in questi nuovi ecosistemi (urbani), le città! Si pensi al comune Merlo dei boschi (Turdus merula, Linneaus, 1758) che generalmente ha due migrazioni una in autunno (ottobre-novembre) e una in inverno (dicembre-febbraio), ma che a causa della riduzione delle aree rurali e dei boschi e, trovando sempre più cibo nel contesto urbano e nicchie dove potersi riprodurre, si è adattato ad una forma stanziale e secondo alcuni biologi dell’evoluzione sta evolvendo in una nuova specie, o sottospecie, lo stesso per le piante, il comune Tarassaco, o Dente di cane o la famosa cicoria selvatica (Taraxacum officinale, Weber ex Wiggers, 1780) che nelle zone di campagna è molto comune, la quale produce una infruttescenza i cui frutti privi di endosperma sono degli acheni (frutti secchi) indeiscenti (che non si aprono spontaneamente), provvisti di pappi: appendici piumose con cui sfruttando le correnti di vento, viene attuata la dispersione dei semi (dispersione anemocora), an-
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che a lunghe distanze nell’ambiente circostante, in ambiente urbano invece, la presenza di strade asfaltate, delle pavimentazioni delle vie pedonali, hanno indotto una pressione tale per cui tale specie vegetale sta modificando la struttura e la modalità di dispersione dei semi, facendoli cadere a pochi metri di distanza dalla pianta madre, all’interno dell’aiola in cui si trova, anche qui secondo molti botanici è in atto per adattamento la modificazione di una specie. Questi sono solo due esempi di una lunga coorte di modificazioni che specie animali e vegetali stanno subendo negli ecosistemi urbani! Inoltre la forzata convivenza di specie animali di origine selvatica nei centri urbani e anche di specie vegetali spontanee potenzialmente pericolose, richiama l’estrema necessità di biologi ambientali (quali zoologi applicati e botanici applicati), con diverse funzioni, anche in quella del controllo di tali specie per questioni di igiene urbana. Ricadute fondamentali il biologo ambientale le ha non solo nell’ambito naturalistico, ma anche in quello urbano e anche in altri settori come quello zootecnico nell’ambito del miglioramento delle specie animali da reddito e nella nutrizione animale, in quello fondamentale della conservazione (grazie a zoo, acquari e bioparchi) di specie selvatiche animali e grazie a Orti Botanici di quelle vegetali minacciate di estinguersi, proprio dall’inurbamento crescente, oltre che da una agricoltura che richiede sempre più territorio e da una pesca sempre più invasiva, per soddisfare le esigenze alimentari delle popolazioni i cui indici demografici
sono sempre più alti. Fondamentale (come all’estero da sempre è) il suo ruolo all’interno delle Pubbliche Amministrazioni, nei Consorzi di Bonifica agraria e a sistemazione fondiaria, nei presidi fitosanitari, o come consulente nel caso di libero professionista verso le pubbliche amministrazioni, perché si possano attuare progetti e piani di “Assestamento Ecologico Urbano” oltre che nelle aree naturali, ove la figura del Biologo Ambientale ha un ruolo cardine e il più importante, dato l’insieme delle nozioni che lo caratterizzano e il suo approccio “olistico” verso l’Ambiente e la Natura. In sostanza, la filosofia di questo articolo come la parte precedente sulla Botanica applicata, si rifà proprio alla frase del grande biologo francese René Dubos, citata all’inizio, sull’idea dell’azione locale che il biologo ambientale ha nella protezione e gestione del territorio, con un approccio globale al problema.
Bibliografia 1- Patrick Geddes in India. 2- Rieducazione alla speranza, Patrick Geddes Planner in India (1914-1924). 3- Città in evoluzione. 4- The World of René Dubos: A Collection from His Writings, 1990, Henry Holt & Co.
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I peptidi batterici sulle cellule tumorali potenziali bersagli dell’immunoterapia Sulla superficie delle cellule tumorali possono essere presenti frammenti proteici di batteri che possono essere riconosciuti dal sistema immunitario. Questa scoperta potrebbe avere implicazioni per l’immunoterapia contro il cancro
di Valentina Arcovio
N
ei tumori umani ci sono colonie diverse di microrganismi [1][2][3][4][5], che insieme formano il cosiddetto microbiota tumorale [6][7][8][9][10]. Queste colonie possono influenzare il microambiente del tumore, ad esempio provocando infiammazione o soppressione immunitaria locale [11][12][13][14][15]. Ciò può portare a cambiamenti significativi nel modo in cui il sistema immunitario del nostro organismo risponde al tumore. Non solo. Questo può anche alterare le risposte a una determinata terapia [16]. Un nuovo studio condotto da un gruppo internazionale di ricercatori - Shelly Kalaora ,Adi Nagler ,Deborah Nejman, Michal Alon, Chaya Barbolin, Eilon Barnea, Steven LC Ketelaars, Kuoyuan Cheng, Kevin Vervier, Noam Shental, Yuval Bussi, Ron Rotkopf, Ronen Levy, Gil Benedek, Sophie Trabish, Tali Dadosh, Smadar Levin-Zaidman, Leore T. Geller, Kun Wang, Polina Greenberg, Gal Yagel, Aviyah Peri, Garold Fuks, Neerupma Bhardwaj, Alexandre Reuben, Leandro Hermida, Sarah B. Johnson, Jessica R. Galloway-Peña, William C. Shropshire, Chantale Bernatchez, Cara Haymaker, Reetakshi Arora, Lior Roitman, Raya Eilam, Adina Weinberger, Maya Lotan-Pompan, Michal Lotem, Arie Admon, Yishai Levin, Trevor D. Lawley, David J. Adams, Mitchell P. Levesque, Michal J. Besser, Jacob Schachter, Ofra Golani, Eran Segal, Naama Geva-Zatorsky, Eytan Ruppin, Pia Kvistborg, Scott N. Peterson, Jennifer A. Wargo, Ravid Straussman & Yardena Samuels - ha dimostrato che i batteri che si trovano nel tumore possono essere riconosciuti dal nostro sistema immunitario. In particolare, Shelly Kalaora del Dipartimento di Biologia Cellulare Molecolare del Weizmann Institute of Science di Rehovot, Israele, e i suoi colleghi hanno scoperto che il sistema immunitario può individuare e riconoscere frammenti di proteine batteriche, chiamati peptidi, che si trovano sulla superficie delle cellule tumorali. A riconoscerle sono le cellule immunitarie, chiamate linfociti T.
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Questa scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, potrebbe essere utile per lo sviluppo di nuovi approcci immunoterapici nella lotta al cancro. Le molecole chiamate antigeni tumorali consentono al sistema immunitario di distinguere le cellule tumorali da quelle sane. Ogni cellula contiene una sorta di “macchina” per la produzione dell’antigene, che consente ai peptidi derivati dall’antigene di essere visibili al sistema immunitario tramite molecole specializzate chiamate antigeni leucocitari umani (HLA) presenti sulla superficie cellulare. I peptidi visibili grazie ad HLA che sono riconosciuti dalle cellule immunitarie sono chiamati epitopi. Gli antigeni tumorali si dividono in due categorie principali: associati al tumore e specifici del tumore [17]. Gli antigeni associati al tumore sono espressi nei tessuti normali così come nei tumori e quindi non attivano prontamente le risposte immunitarie. Ma se si innescano le risposte immunitarie, c’è il rischio di reazioni autoimmuni dannose contro i tessuti normali che esprimono l’antigene. Tuttavia, poiché gli antigeni associati al tumore si trovano spesso in più tipi di tumore e in molte persone che hanno il cancro, possono essere considerati buoni bersagli per immunoterapie ampiamente applicabili. Al contrario, gli antigeni specifici del tumore sono espressi esclusivamente sulle cellule tumorali e quindi sono bersagli ideali contro i quali scatenare un attacco immunitario specifico contro i tumori. Un sottotipo, i cosiddetti neoantigeni, deriva da mutazioni geniche specifiche del tumore, quindi i neoantigeni sono tipicamente specifici del tumore e del paziente. Un cancro della pelle chiamato melanoma ha tre classi di antigeni note associati al tumore e le sue cellule in genere sono portatrici di molte mutazioni genetiche. Di conseguenza c’è alta probabilità che ci siano neoantigeni [18]. Non stupisce quindi che il melanoma sia stata la forma tumorale che ha portato alla scoperta del tumore-antigene e allo sviluppo dell’immunoterapia in onco-
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logia [19] [20] . Per questo Kalaora e i sui colleghi hanno deciso di utilizzare nel loro studio campioni di melanoma per descrivere un’altra potenziale classe di antigene tumorale. I ricercatori si sono così proposti di studiare la composizione batterica di 17 metastasi di melanoma, cioè tumori che si sono formati a seguito della diffusione del cancro dal suo sito originario ad altre regioni del corpo, riguardanti un totale di 9 persone. Gli studiosi hanno scoperto che la composizione dei batteri era molto simile in diverse metastasi dello stesso individuo e talvolta in campioni di persone diverse. Questa scoperta indica che particolari specie batteriche sono comuni nel melanoma, in linea con quanto concluso in un precedente studio che riportava un microbiota tumorale specifico per diversi tipi di cancro [1]. Gli autori dello studio hanno anche confermato che questi batteri erano presenti nelle cellule del melanoma, piuttosto che nel microambiente extracellulare circostante. Kalaora e colleghi hanno continuato a indagare se i peptidi di questi batteri intracellulari sono resi visibili al sistema immunitario allo stesso modo degli altri antigeni intracellulari. A tal fine, hanno utilizzato un approccio basato sulla spettrometria di massa chiamato immunopeptidomica, che consente il rilevamento diretto dei peptidi presentati da HLA. Hanno trovato quasi 300 peptidi nei loro campioni provenienti da 33 specie batteriche. Diversi peptidi sono stati trovati in più di un tumore della stessa persona e in tumori di persone diverse. Gli autori si sono poi chiesti se i peptidi batterici siano realmente presentati dalle cellule del melanoma, piuttosto che da cellule immunitarie chiamate cellule APC (cel-
lule che presentano l’antigene) che rilevano, assorbono e presentano agenti patogeni ad altre cellule del sistema immunitario. Per separare le cellule da due campioni di melanoma in APC e cellule tumorali, i ricercatori hanno utilizzato una proteina marker delle cellule immunitarie. L’immunopeptidomica ha rivelato che entrambi i gruppi di cellule presentavano peptidi batterici. Un sottoinsieme di peptidi è stato presentato sia dagli APC che dalle cellule tumorali, indicando che lo stesso peptide può avviare una risposta immunitaria attraverso la presentazione sugli APC e allo stesso tempo essere un bersaglio per l’attacco immunitario alle cellule tumorali. I ricercatori hanno quindi dimostrato che le cellule T (che riconoscono i peptidi presentati da HLA) isolate dai melanomi hanno reagito ai peptidi batterici identificati. Nel loro insieme, i risultati dello studio condotto da Kalaora e i suoi colleghi indicano la possibilità che i peptidi batterici visualizzati dal tumore siano una classe di antigeni tumorali precedentemente non identificata. Tuttavia, ci sono ancora molte domande che rimangono senza risposta. Per essere antigeni tumorali veri e propri, le specie batteriche identificate non devono invadere i tessuti non tumorali e i loro peptidi non devono essere presentati su HLA su cellule non tumorali. Se così non fosse, i peptidi non potrebbero essere più qualificati come bersagli dell’immunoterapia. Inoltre, i peptidi batterici sembrano essere abbastanza abbondanti (almeno, rispetto al numero di neoepitopi melanomatici identificati [20]), allora perché l’organismo non innesca una risposta immunitaria efficace contro i melanomi? Saranno necessari ulteriori studi sui peptidi batterici che sono visibili dal tumore in combinazione con le informazioni sui GdB | Aprile 2021
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Scienze
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pazienti per chiarire il potenziale ruolo clinico dei peptidi. Tali dati potrebbero aiutare i ricercatori a selezionare bersagli batterici adatti per approcci di immunoterapia contro il cancro. In conclusione, i peptidi batterici identificati da Kalaora e i suoi colleghi potrebbero essere bersagli interessanti per l’immunoterapia. Poiché i peptidi batterici sono “non-self”, per l’organismo umano dovrebbe essere relativamente facile suscitare forti risposte immunitarie contro di loro e non ci sarebbero preoccupazioni sull’autoimmunità se si potesse accertare che non si presentano su alcun tessuto normale. Pertanto, i peptidi batterici che si osservano dal tumore potrebbero servire come antigeni specifici del tumore condivisi tra le persone. Si tratta di una combinazione rara e utile per le terapie, finora vista solo nei tumori indotti tramite virus, in cui gli epitopi possono essere derivati da proteine virali che causano il cancro [18] . Dati recenti indicano che i batteri che invadono il tumore potrebbero essere un fenomeno comune [1], [15]. Quest’ultimo lavoro dei ricercatori potrebbe quindi gettare le basi per l’identificazione di antigeni specifici del tumore condivisi in un’ampia gamma di tipi di tumore, aprendo così la strada allo sviluppo di nuovi approcci immunoterapici, potenzialmente più efficaci degli attuali e utilizzabili contro diversi tipi di cancro. 98 GdB | Aprile 2021
[1] Deborah Nejman, Ilana Livyatan, Garold Fuks, Nancy Gavert, Yaara Zwang, Leore T. Geller, Aviva Rotter-Maskowitz, Roi Weiser, Giuseppe Mallel, Elinor Gigi, Arnon Meltser, Gavin M. Douglas, Iris Kamer, Vancheswaran Gopalakrishnan, Tali Dadosh, Smadar Levin-Zaidman, Sofia Avnet, Tehila Atlan, Zachary A. Cooper, Reetakshi Arora, Alexandria P. Cogdill, Md Abdul Wadud Khan, Gabriel Ologun, Yuval Bussi, Adina Weinberger, Maya Lotan-Pompan, Ofra Golani, Gili Perry, Merav Rokah, Keren Bahar-Shany, Elisa A. Rozeman, Christian U. Blank, Anat Ronai, Ron Shaoul, Amnon Amit, Tatiana Dorfman, Ran Kremer, Zvi R. Cohen Sagi Harnof, Tali Siegal, Einav Yehuda-Shnaidman, Einav Nili Gal-Yam, Hagit Shapira, Nicola Baldini, Morgan G. I. Langille, Alon Ben-Nun, Bella Kaufman, Aviram Nissan, Talia Golan, Maya Dadiani, Keren Levanon, Jair Bar, Shlomit Yust-Katz, Iris Barshack, Daniel S. Peeper, Dan J. Raz, Eran Segal, Jennifer A. Wargo, Judith Sandbank, Noam Shental, Ravid Straussman. “The human tumor microbiome is composed of tumor type–specific intracellular bacteria”. Science. 29 May 2020. Vol. 368, Issue 6494, pp. 973-980. [2] Jin Hai Zheng, Vu H Nguyen, Sheng-Nan Jiang, Seung-Hwan Park, Wenzhi Tan, Seol Hee Hong, Myung Geun Shin, Ik-Joo Chung 10, Yeongjin Hong, Hee-Seung Bom, Hyon E Choy, Shee Eun Lee 8, Joon Haeng Rhee, Jung-Joon Min. “Two-step enhanced cancer immunotherapy with engineered Salmonella typhimurium secreting heterologous flagellin”. Science Translational Medicine, 8 febbraio 2017: Vol. 9, numero 376. [3] Cecilia A. Silva-Valenzuela, Prerak T. Desai, Roberto C.Molina -Quiroz, David Pezoa, Yong Zhang, Steffen Porwollik, Ming Zhao, Robert M. Hoffman, Inés Contreras, Carlos A. Santiviago, Michael McClelland. “Solid tumors provide niche-specific conditions that lead to preferential growth of Salmonella”. Oncotarget. Published: April 28, 2016. 7:35169-35180. [4] Smruti Pushalkar, Mautin Hundeyin, Donnele Daley, Constantinos P. Zambirinis, Emma Kurz, Ankita Mishra, Navyatha Mohan, Berk Aykut, Mykhaylo Usyk, Luisana E. Torres, Gregor Werba, Kevin Zhang, Yuqi Guo, Qianhao Li, Neha Akkad, Sarah Lall, Benjamin Wadowski, Johana Gutierrez, Juan Andres Kochen Rossi, Jeremy W. Herzog, Brian Diskin, Alejandro Torres-Hernandez, Josh Leinwand, Wei Wang, Pardeep S. Taunk, Shivraj Savadkar, Malvin Janal, Anjana Saxena, Xin Li, Deirdre Cohen, R. Balfour Sartor, Deepak Saxena and George Miller. “The Pancreatic Cancer Microbiome Promotes Oncogenesis by Induction of Innate and Adaptive Immune Suppression”. Cancer Discovery. Published April 2018. 8(4); 403–16. [5] Mauro Castellarin, René L. Warren, J. Douglas Freeman, Lisa Dreolini, Martin Krzywinski, Jaclyn Strauss, Rebecca Barnes, Peter Watson, Emma Allen-Vercoe, Richard A. Moore, and Robert A. Holt. “Fusobacterium nucleatum infection is prevalent in human colorectal carcinoma”. Genome Research. 22: 299-306. October 18, 2011. [6] Julia L. Drewes, James R. White, Christine M. Dejea, Payam Fathi, Thevambiga Iyadorai, Jamuna Vadivelu, April C. Roslani, Elizabeth C. Wick, Emmanuel F. Mongodin, Mun Fai Loke, Kumar Thulasi, Han Ming Gan, Khean Lee Goh, Hoong Yin Chong, Sandip Kumar, Jane W. Wanyiri & Cynthia L. Sears. “High-resolution bacterial 16S rRNA gene profile meta-analysis and biofilm status reveal common colorectal cancer consortia”.
Scienze
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I microbi intestinali aiutano il sistema immunitario dopo un’infezione I microbi intestinali possono aiutare a bloccare un’infezione, ma i meccanismi coinvolti in questo processo non sono completamente chiari. Ora un nuovo studio ha scoperto che una serie di cambiamenti che avvengono nella comunità microbica dopo un’infezione aumentano il livello di una molecola che combatte i batteri nocivi
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e complesse interazioni che si instaurano tra un ospite mammifero e il suo microbiota intestinale, cioè la comunità di microrganismi che risiedono nell’intestino tenue e crasso, influenzano la salute dell’ospite e la suscettibilità alle malattie. Una delle principali sfide nello approfondire le relazioni meccanicistiche che guidano tali interazioni è l’elevata diversità delle specie presenti nel microbiota intestinale, che dà origine a un profilo microbico che è unico per ogni individuo [1], proprio come lo è un’impronta digitale. La comunità scientifica concorda sul fatto che il microbiota intestinale è implicato nello sviluppi di forme di resistenza contro la colonizzazione intestinale da parte di microrganismi patogeni. Sull’argomento sono stati condotti molteplici studi, ma pochissimi sono entrati nello specifico, individuando e descrivendo dettagliatamente i meccanismi con cui il micobiota intestinale svolge il suo ruolo in questa forma di resistenza. In effetti, la maggior parte degli studi riguardanti questo fenomeno sono stati ampiamente descrittivi e hanno avuto la tendenza a correlare solo particolari composizioni del microbiota con un particolare stato di salute o di malattia [2]. Ora però uno studio [3] condotto da un gruppo di ricercatori del NIAID Microbiome Program presso il National Institutes of Health (NIH), in collaborazione con ricercatori de National Institute of General Medical Sciences, del National Cancer Institute, del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases, e del National Human Genome Research Institute, - Apollo Stacy, Vinicius Andrade-Oliveira, John A McCulloch, Benedikt Hild, Ji Hoon Oh, P Juliana Perez-Chaparro, Choon K Sim, Ai Ing Lim, Verena M Link, Michel Enamorado, Giorgio Trinchieri, Julia A Segre, Barbara Rehermann, Yasmine Belkaid - ha portato all’individuazione e alla descrizione dettagliata di un meccanismo che rivela come i cambiamenti che avvengono nel microbiota guidano la sua capacità di resistere all’invasione da parte di agenti patogeni.
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La letteratura scientifica ha documentato più volte che il microbiota può ostacolare la colonizzazione da parte di patogeni intestinali [4] e ci sono varie evidenze che supportano l’idea che il microbiota intestinale possa avere un ruolo nel limitare la crescita dei patogeni. Ad esempio, l’uso prolungato e / o elevato di antibiotici nelle persone favorisce l’espansione del Clostridium difficile [5], un batterio che causa una grave diarrea e infiammazione del colon, portando ad un alto rischio di malattia e morte. Sappiamo inoltre che una bassa diversità di specie presenti nel microbiota, una caratteristica comunemente osservata nelle persone che risiedono nei paesi industrializzati, è associata a una maggiore suscettibilità alle malattie infettive [6]. Inoltre, i topi che sono stati trattati con antibiotici o allevati in condizioni sterili, cioè prive di germi, e quindi privi di microbiota, sono più suscettibili agli agenti patogeni intestinali rispetto ai topi con un microbiota normale [7]. Al contrario, alcuni microbioti potrebbero portare alla promozione della crescita di un patogeno o portare a sviluppare un’infezione a un livello più elevato di virulenza. Ad esempio, diversi microbioti di topo determinano la suscettibilità al patogeno Citrobacter rodentium, che causa un tipo di crescita anormale nel colon chiamata iperplasia [8]. Quest’ultima, in particolare, è un processo biologico progressivo, che porta alla crescita del volume dell’organo per aumento del numero delle cellule che lo costituiscono. Il trapianto di microbiota da topi suscettibili a topi non suscettibili induce una maggiore suscettibilità all’infezione da C. rodentium, mentre il trapianto di microbiota da animali non suscettibili ad animali suscettibili determina una resistenza alle infezioni [8]. Varie evidenze epidemiologiche indicano che la suscettibilità di alcune persone in Svezia alle infezioni causate dall’agente patogeno di origine alimentare Campylobacter jejuninelle dipendeva dalla composizione delle specie presenti nel loro microbiota [9]. E i report hanno evidenziato come alcuni patogeni intestinali, come la Salmonella enterica [10] e C. rodentium, sfruttano
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i segnali ospite-microbiota per modulare con precisione il loro metabolismo e, attraverso il processo di respirazione, la produzione di energia. Rilevando e rispondendo a questi segnali, gli agenti patogeni possono anche aumentare o diminuire l’espressione dei componenti del loro repertorio di virulenza, che vengono utilizzati per colonizzare l’ospite [11] [12]. Un nuovo ed entusiasmante filone di ricerca sta iniziando a studiare il ruolo del microbiota nelle infezioni. Lo studio condotto da Stacy e i suoi colleghi va oltre la semplice
documentazione delle correlazioni tra infezione e presenza o assenza di specie o differenze nella composizione delle specie di batteri del microbiota intestinale. In particolare, il lavoro ha iniziato a svelare i meccanismi attraverso i quali particolari composizioni di microbiota offrono resistenza alle infezioni o favoriscono gli agenti patogeni invasori. Stacy e colleghi riferiscono che, dopo l’infezione con l’agente patogeno intestinale Klebsiella pneumoniae [13] [14], i topi [15] coinvolti nello studio sono risultati avere una maggiore capacità di resistere alla successiva infezione
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da questo batterio. Per cercare di capire il pathway responsabile, gli autori hanno analizzato il DNA microbico, valutando i metagenomi (tutti i geni microbici rilevati nella comunità) del microbiota dopo l’infezione e del microbiota non esposto precedentemente al batterio, per determinare come i microbi potrebbe contribuire alla resistenza alla colonizzazione. Il team dello studio ha scoperto che i geni che codificano le proteine necessarie per il metabolismo delle molecole contenenti zolfo, compresa la taurina [16], erano molto più numerosi nei microbioti dopo l’infezione che nei microbioti non esposti precedentemente al batterio. Gli acidi biliari vengono prodotti nel fegato e immagazzinati nella cistifellea e sono la principale fonte di taurina nell’intestino. Sono secreti nell’intestino per aiutare la digestione di cibi grassi e oli. Membri specifici del microbiota scompongono gli acidi biliari [17], rilasciando taurina, che può fungere da fonte di energia per altri batteri intestinali. L’uso della taurina nelle vie metaboliche batteriche genera come sottoprodotto il composto idrogeno solforato. Ad alte concentrazioni, l’idrogeno solforato può inibire l’attività degli enzimi citocromo ossidasi, che catalizzano le reazioni che si verificano durante la respirazione ossigeno-dipendente (aerobica). Gli agenti patogeni intestinali invasori spesso sfruttano l’ossigeno generato dall’ospite per ottenere energia dalla respirazione aerobica e quindi prendere il sopravvento nei loro sforzi di colonizzazione dell’ospite [18]. Stacy e colleghi riportano una correlazione tra la produzione mediata dalla taurina [119] di molecole di solfuro, compreso l’idrogeno solforato, da parte del microbiota dopo l’infezione e la concomitante inibizione della respirazione patogena, che alla fine inibirebbe l’infezione da parte dell’agente patogeno. Gli autori hanno dimostrato questo effetto per due patogeni, K. pneumoniae e C. rodentium, il che suggerisce che dopo l’infezione il microbiota fornisce un’ampia protezione contro gli invasori. In particolare, Stacy e i suoi 102 GdB | Aprile 2021
colleghi riferiscono che l’integrazione di taurina nell’acqua potabile degli animali ha portato a effetti simili. Ma questa protezione dall’infezione è diminuita quando i ricercatori hanno aggiunto all’acqua potabile il subsalicilato di bismuto. Questo perché il subsalicilato di bismuto, che è comunemente usato per trattare la diarrea, ha inibito la produzione di idrogeno solforato, portando all’espansione di batteri potenzialmente patogeni come Enterococcus faecalis ed Escherichia coli. I risultati dello studio quindi suggeriscono che, in presenza di alti livelli di taurina, l’idrogeno solforato inibisce l’infezione impedendo agli agenti patogeni di accedere all’ossigeno . Lo studio “rivela un processo mediante il quale l’ospite, innescato dall’infezione, può distribuire la taurina come nutriente per alimentare e addestrare il microbiota, promuovendone la resistenza alla successiva infezione”, affermano i ricercatori. “Indagando la conseguenza delle esposizioni patogene sulla resistenza alla colonizzazione, abbiamo scoperto che i metaorganismi ospitanti si adattano alle infezioni nutrendo il loro microbiota intestinale con taurina, una strategia che serve per aumentare la produzione di solfuro de microbiota e garantire la sua maggiore resistenza contro future invasioni di patogeni”, aggiungono. I risultati supportano anche l’idea che la taurina e l’idrogeno solforato potrebbero essere utilizzati per migliorare la resistenza del microbiota intestinale ai patogeni intestinali. La taurina si trova in abbondanza nel cervello, nella retina, nel tessuto muscolare e negli organi di tutto il corpo. E’ anche disponibile come integratore ed è persino un ingrediente chiave in moltissime bevande sportive nella convinzione, non ancora dimostrata, che possa aumentare le prestazioni atletiche. Pertanto la scoperta del ruolo della taurina nell’intestino è molto affascinante e potrebbe avere implicazioni molto importanti. Una comprensione più profonda di tali meccanismi potrebbe infatti aprire la porta alla manipolazione di precisione del microbiota per combattere alcune malattie infettive. Questi risultati suggeriscono che l’integrazione alimentare di alcuni metaboliti, come la taurina, potrebbe offrire un modo per riprogrammare il “metametabolismo” del microbiota in modo da aumentare la resistenza agli agenti patogeni. Questo e altri studi che definiscono i meccanismi attraverso i quali il microbiota influenza il metabolismo, la respirazione e la virulenza dei patogeni intestinali, rappresentano un passo in avanti fondamentale nel campo delle interazioni ospite-microbiota-patogeno. I risultati dello studio suggeriscono che la sola taurina, che si trova naturalmente in alcuni alimenti come carne, pesce e uova, potrebbe indurre una maggiore resistenza del microbioma alle infezione. Questa scoperta potrebbe aiutare gli sforzi alla ricerca di alternative agli antibiotici. Si tratta di un filone di studi molto importante. Sappiamo infatti che gli antibiotici danneggiano il microbiota e
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diventano meno efficaci man mano che i batteri sviluppano forme di resistenza ai farmaci [20]. Alcuni scienziati paventano quella che è stata soprannominata emblematicamente “Apocalissi antibiotica”, cioè un “mondo” in cui nessun antibiotico disponibile è in grado di contrastare i batteri, causando il dilagare di infezioni e di morti a causa di esse. Oltre alla ricerca di antibiotici di nuova generazione, più efficaci e più potenti di quelli attualmente disponibili, la comunità scientifica mondiale concorda nel ritenere la ricerca di alternative all’uso di antibiotici di fondamentale importanza per affrontare al meglio le future sfide per il contrasto alle malattie infettive [21]. Il nuovo studio, che si inserisce in un filone di ricerche sempre più corposo riguardo al ruolo del microbioma in molteplici processi, è importante nell’ottica di trovare o migliorare i trattamenti naturali in grado di sostituire gli antibiotici o, quantomeno, di limitarne il consumo che sappiamo essere sempre più elevato, specialmente nei paesi più sviluppati [22]. (V. A.).
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Il rischio di ASCVD nei sopravvissuti al cancro Uno studio della dell’Ohio State University ha valutato il peso dell’associazione nei pazienti con una storia pregressa di tumore
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li adulti con una storia di cancro alle spalle vanno incontro a un più elevato rischio a 10 anni di malattia aterosclerotica cardiovascolare. È il risultato principale emerso nel corso di uno studio sviluppato dall’Ohio State Uni-
versity [1]. La ricerca, firmata dai ricercatori Xiaochen Zhang, Meghan Pawlikowski, Susan Olivo-Marston, Karen Patricia Williams, Julie K. Bower e Ashley S. Felix, ha indagato su un aspetto particolare della salute a medio e lungo termine degli individui che hanno avuto il cancro. Lo studio ha provato a verificare se e in che misura i pazienti sopravvissuti al cancro mostrino un rischio maggiore di sviluppare e morire per malattie cardiovascolari (CVD) rispetto alla popolazione generale. Il rischio è stato in particolare valutato a 10 anni: quello della malattia aterosclerotica cardiovascolare (ASCVD) è apparso elevato tra gli individui con una storia di cancro rispetto a quanti non ne avevano registrata una. Ecco, allora, che la valutazione del rischio e la sorveglianza clinica della salute cardiovascolare a seguito di una diagnosi di cancro, spiegano gli autori del lavoro, potrebbero potenzialmente ridurre il carico di malattia e prolungare la sopravvivenza, soprattutto per i pazienti con tumori specifici e che si sono rivelati ad alto rischio di ASCVD. La ricerca è stata condotta in un campione di popolazione statunitense rappresentativo a livello nazionale. I dati dei partecipanti, di età compresa tra 40 e 79 anni e senza storia pregressa di CVD, sono stati raccolti a partire dal database dello studio “National Health and Nutrition Examination Survey 2007-2016”. La storia di cancro dei singoli pazienti era stata auto-segnalata dagli stessi nel corso di quel monitoraggio, mentre il rischio a 10 anni di ASCVD è stato stimato utilizzando equazioni di coorte raggruppate. La popolazione complessiva osservata comprendeva 15.095 partecipanti, con un’età media di 55,2 anni: di
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questi, il 12,3% (pari a 1.604 individui) aveva riportato sui questionari una storia di cancro. A seguito delle elaborazioni, gli individui con una storia di cancro hanno mostrato maggiori probabilità di un rischio elevato di ASCVD a 10 anni: condizione che ha riguardato in particolare i pazienti con storia di cancro alla vescica e ai reni, alla prostata, al colon-retto, al polmone, ai testicoli o melanoma: per questi pazienti la maggiore probabilità di rischio di ASCVD a 10 anni è apparsa compresa in un valore tra il 2,72 e il 10,47. Un dato particolarmente interessante emerso ha riguardato l’età, che si è rivelata un modificatore dell’effetto. Una storia di cancro, infatti, è apparsa per esempio associata a una probabilità 1,24 volte più alta di un rischio elevato di ASCVD a 10 anni tra le persone di età compresa tra i 60 e i 69 anni, ma non con altri gruppi di età. Ricerca, cure e prevenzione hanno cambiato radicalmente negli ultimi anni le condizioni in cui il cancro va affrontato. Solo negli Stati Uniti d’America i tassi di incidenza del cancro sono da tempo costantemente in calo tra gli uomini e restano stabili tra le donne, e continua ad aumentare anche il numero di sopravvissuti al cancro, soprattutto in concomitanza con il costante invecchiamento della popolazione. Stime recenti dell’American Cancer Society e del National Cancer Institute dicono che al 1° gennaio 2019 vi erano più di 16,9 milioni di americani (8,1 milioni di maschi e 8,8 milioni di femmine) con una storia pregressa di cancro: secondo stime basate sulla crescita e sull’invecchiamento della popolazione, si prevede che questo numero raggiungerà più di 22,1 milioni entro il 1° gennaio 2030[2]. Nel 2016 i sopravvissuti al cancro che vivevano negli Stati Uniti erano circa 15,5 milioni, il 62% dei quali aveva 65 anni o più. La proiezione è che aumentino a 26 milioni entro il 2040 [3]. Nel 2019 i tre tumori più diffusi sono risultati quello alla prostata (3.650.030), al colon e retto (776.120) e il melanoma della pelle (684.470) tra gli uomini, quello
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tumori maligni. Alcuni anni fa, nel 2013, l’American College of Cardiology e l’American Heart Association hanno introdotto le “Pooled Cohort Equations”, funzioni progettate come strumenti specifici per sesso e razza, utili a stimare i tassi assoluti a 10 anni di eventi di malattia cardiovascolare aterosclerotica [9]. Contestualmente il rischio a 10 anni è stato definito come il rischio di sviluppare un primo evento Probabilità di un rischio elevato di ASCVD a 10 anni in base all’età, tra i pazienti con o senza storia di cancro (Ten-year cardiovascular risk among ASVCD grave, compresa una cancer survivors: The National Health and Nutrition Examination Survey). prima insorgenza di infarto miocardico non fatale o un ictus non fatale. alla mammella (3.861.520), al corpo uterino (807.860) e Visti i dati coerenti tra vari studi, anche il gruppo di al colon retto (768.650) tra le donne. Il National Cancer Zhang sottolinea come la stima del rischio futuro di sviInstitute stima che a più della metà (56%) dei sopravvis- luppare eventi ASCVD sia un’azione fondamentale al fine suti la diagnosi sia stata consegnata negli ultimi 10 anni e di progettare percorsi adeguati alla prevenzione e alla diaquasi due terzi (64%) tra questi abbiano più di 65 anni. gnosi precoce delle CVD tra i pazienti con una pregressa La maggior parte dei pazienti sopravvissuti, una volta storia di cancro. L’idea comunemente riconosciuta è che guariti dalla malattia, devono tuttavia fronteggiare gli ef- interventi tempestivi di prevenzione primaria e lo screefetti fisici sia del cancro sia del trattamento, con le pesanti ning regolare per la diagnosi precoce possano sostenere la conseguenze sul versante funzionale, cognitivo e psicolo- comprensione della probabilità di futuri eventi ASCVD. gico. Una delle principali preoccupazioni per la crescen- È fondamentale per i malati di tumore impegnarsi fin da te popolazione di sopravvissuti al cancro, molti dei quali subito a modificare il proprio stile di vita per migliorare vivranno più di 10 anni dopo la diagnosi di tumore [4], la salute cardiovascolare. è l’insorgenza di eventi e malattie cardiovascolari (CVD), In assenza di uno studio che avesse verificato il rischio quali infarto del miocardio, ictus, insufficienza cardiaca e di ASCVD tra individui con e senza storia di cancro utialtre malattie cardiache. Per questo, prosegue la disamina lizzando equazioni di coorte raggruppate, Zhang e coldegli autori, appare importante valutare i bisogni dei so- leghi hanno avviato la ricerca per descrivere il rischio di pravvissuti più anziani, considerando l’esperienza sempre ASCVD a 10 anni, sfruttando un campione rappresenpiù comune del cancro come malattia cronica. Questo, in tativo della popolazione degli Stati Uniti. Il gruppo di un contesto generale molto preoccupante per le malattie scienziati ha fatto, così, affidamento sui dati del National cardiovascolari: secondo una passata stima dell’American Health and Nutrition Examination Survey (NHANES) Heart Association, pochi adulti dal 1987 al 1989 avevano 2007-2016 [10]. Tra le informazioni a disposizione vi erauna salute cardiovascolare ideale [5]. no diversi indicatori correlati alle abitudini alimentari, I sopravvissuti al cancro hanno un rischio maggiore di all’attività fisica, all’indice di massa corporea (BMI), alla sviluppare e morire per CVD rispetto alla popolazione pressione, al diabete, oltre che dati specificamente collegenerale, a causa di molteplici meccanismi o condizioni, gati all’eventuale malattia tumorale e alla cura correlata. tra cui i trattamenti cardiotossici e fattori di rischio conDei circa 15 mila individui compresi dalla popolazione divisi che predispongono questi pazienti alla successiva osservata da Zhang e colleghi, 13.491 partecipanti (pari CVD [6, 7]. Ne ha discusso, per esempio, un gruppo di all’87,7%) non avevano segnalato alcuna storia di cancro ricercatori dello United Kingdom Clinical Practice Re- mentre 1.604 (pari al 12,3%) avevano riportato una storia search Datalink [8], in uno studio che includeva più di di cancro. Il tempo medio dalla diagnosi di cancro era 100.000 sopravvissuti al cancro e 500.000 individui senza stato di 11,3 anni: nello specifico il 29,6% aveva ottenuto una diagnosi di cancro, e che ha rivelato un aumento del la diagnosi entro 5 anni dal basale, il 25,4% tra 5 e 9 anni rischio di diversi esiti di CVD rispetto alla popolazione dall’avvio dell’osservazione, il 45,1% a dieci anni dal bagenerale, tra cui insufficienza cardiaca, cardiomiopatia, sale. Il 24,8% dei partecipanti era stato classificato come malattia coronarica e ictus, tra i sopravvissuti di alcuni avente un rischio elevato di ASCVD a 10 anni; il 35,1% GdB | Aprile 2021
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degli individui con una storia di cancro, rispetto al 23,4% degli individui senza storia di cancro, sono stati classificati come aventi un rischio elevato di ASCVD a 10 anni. Raffrontando i fattori individuali di rischio, i ricercatori del team hanno verificato che età avanzata, pressione sanguigna sistolica più elevata e diabete prevalevano tra i pazienti con una storia di cancro rispetto all’altro gruppo. La prima elaborazione dei dati, senza correttivi, ha segnalato probabilità due volte maggiori di rischio elevato di ASCVD a 10 anni (OR = 3,00) tra gli individui con una storia di cancro. Con l’aggiustamento di alcuni indicatori, come il BMI, lo stato civile, il livello di istruzione, il rapporto reddito/povertà e le abitudini legate alla dieta e all’attività fisica, gli individui con una storia di cancro hanno mostrato 2,4 probabilità maggiori di rischio ASCVD elevato a 10 anni (OR = 3,42). Quanto al tipo di tumore, i partecipanti che avevano segnalato una diagnosi di cancro alla vescica o ai reni, alla prostata, al colon-retto, ai polmoni, ai testicoli o un melanoma, risultavano avere maggiori probabilità di rischio di ASCVD a 10 anni. Analogo risultato per i pazienti che, consapevoli della storia di tumore, avevano dichiarato però di non conoscere in dettaglio la propria tipologia di cancro. Dopo gli aggiustamenti, l’elaborazione ha portato a stabilire che i pazienti con una storia di cancro ai testicoli avevano probabilità più alte di un rischio elevato di ASCVD a 10 anni (OR = 11,47), seguiti da quelli con una storia di cancro alla prostata (OR = 9,45), a vescica o rene (OR = 7,27), in caso di melanoma (OR = 5,84) e tumore al polmone (OR = 5,03). Infine, rispetto a individui senza storia di cancro, le probabilità più alte di ASCVD a 10 anni sono risultate più elevate, ma senza una significativi106 GdB | Aprile 2021
tà statistica, tra coloro che avevano una storia di cancro al seno o ematologico. Zhang e colleghi segnalano di aver osservato un’interazione significativa tra l’età e lo stato del cancro rispetto alle probabilità di un rischio elevato di ASCVD a 10 anni. Ma, hanno spiegato, se i risultati non differivano tra i gruppi di 40-49, 50-59 e 70-79 anni rispetto agli individui coetanei senza storia di cancro, il rischio aumentava significativamente nel gruppo con età tra i 60 e i 69 anni. I risultati della ricerca sviluppata all’Ohio State University sono apparsi coerenti con la letteratura precedente che documenta, hanno fatto notare gli autori, un’associazione della storia del cancro con aumento di incidenza e mortalità per CVD. Condizione che riguarda anche i sopravvissuti adulti al cancro infantile. Uno studio del 2016 [11] aveva concluso che le sopravvissute al cancro al seno fossero a maggior rischio di mortalità correlata alla CVD, con un aumento del rischio emerso in particolare a sette anni dopo la diagnosi. Uno studio che aveva, invece, preso in considerazione i sopravvissuti al cancro infantile, aveva notato nel gruppo, entro i 45 anni di età, maggiore incidenza di malattia coronarica (5,3%), di insufficienza cardiaca (4,8%), di malattia valvolare (1,5%) e aritmia (1,3%) [12]. Senza contare che almeno due fattori di rischio cardiovascolare sono stati segnalati dal 10,3% dei sopravvissuti e dal 7,9% dei loro fratelli. E se l’ipertensione era indipendentemente associata al rischio di morte cardiaca, tra i sopravvissuti risultava determinate l’effetto combinato della radioterapia toracica e dell’ipertensione, con conseguente potenziamento del rischio per ciascuno dei principali eventi cardiaci.
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Una recente analisi su 3,2 milioni di malati di cancro ha dimostrato che la mortalità per CVD nei sopravvissuti al cancro rispetto alla popolazione generale è diminuita gradualmente con l’aumentare dell’età alla diagnosi del cancro [13]. Una ricerca danese del 2016 [14] aveva sottolineato come, seppur con profili differenti in base alla tipologia di cancro, il rischio maggior di malattie cardiovascolari riguardi di sopravvissuti al cancro in età adolescenziale o giovanile per tutta la vita. Comprendere l’interazione tra l’età dei sopravvissuti al cancro e il rischio di ASCVD può aiutare, dunque, a sviluppare interventi di prevenzione delle CVD per le popolazioni più giovani, in particolare quelle ad alto rischio di ASCVD. Oltre ai fattori individuali, bisogna poi tenere in considerazione l’effetto dei trattamenti contro il cancro: le radiazioni dirette al torace possono causare lo sviluppo di malattie coronariche, indurre tossicità cardiaca, problemi strutturali cardiaci e disfunzione cardiaca. Le conclusioni dello studio di Zhang e colleghi - un rischio di ASCVD a 10 anni stimato più alto tra gli individui con una storia di cancro, con un’associazione che è apparsa variare in base alla tipologia di malattia - hanno portato gli autori a sottolineare come sia possibile individuare importanti sottogruppi di pazienti che potrebbero potenzialmente beneficiare di interventi di prevenzione delle malattie cardiovascolari. Anche il dato sull’età sembra fornire una lettura possibile: se il rischio di ASCVD a 10 anni appare più elevato tra gli individui con storia pregressa di cancro con età compresa tra i 60 e i 69 anni, e poiché la popolazione si fa sempre più anziana, si pone il tema della salute successiva al tumore per moltissimi individui. La ricerca dimostra, in conclusione, che la diagnosi di cancro si aggiunge al carico di CVD. Questa consapevolezza suggerisce, allora, di progettare nuovi modelli di previsione in cui tenere conto anche fattori salienti per i sopravvissuti al cancro, quali l’essere stati sottoposti a chemioterapia o radiazioni, o l’età alla diagnosi. Visto il crescente aumento del numero di sopravvissuti al cancro - dato in continuo aumento di anno in anno - è possibile stimare che il 65% dei sopravvissuti al cancro sarà vivo cinque anni dopo la diagnosi: è in questo contesto generale che appare fondamentale, ricordano gli autori, adattare gli attuali strumenti di screening per rilevare e affrontare il rischio di CVD in eccesso a cui una diagnosi di cancro potrebbe contribuire. (S. L.).
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Ecm Questo articolo dà la possibilità agli iscritti all’Ordine di acquisire 3 crediti ECM FAD attraverso l’area riservata del sito internet www.onb.it.
Il consumo del suolo Sempre maggior rilevanza è assegnata a tale problematica. Di seguito la sintesi di tale rapporto che permetta una più veloce e facile comprensione del fenomeno del consumo del suolo
di Giuseppe La Gioia*
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empre maggiore attenzione è riservata alla problematicità della trasformazione del suolo. Il 2020 vede la pubblicazione in Italia della settima edizione del Rapporto su “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2020” (Munafò, 2020). Il Rapporto è a cura del Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), che riunisce le 21 Agenzie Regionali (ARPA) e Provinciali (APPA), oltre a ISPRA. Il presente documento vuole essere una estrema sintesi di tale rapporto - anche se integrata con alcuni dati presi da altra bibliografia (soprattutto i precedenti report di ISPRA, 2016 e 2017) - che permetta una più veloce e facile comprensione del fenomeno del consumo del suolo. L’importanza di questa tematica è stata amplificata, soprattutto nell’opinione pubblica, a causa delle restrizioni dovute al COVID-19 che hanno influenzato il modo di vivere le città e gli spazi urbani di prossimità e hanno ulteriormente evidenziato le problematicità inerenti l’ambiente naturale: cambiamenti climatici, dissesto idrogeologico, inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, degrado del territorio, del paesaggio e dell’ecosistema. Cosa è il suolo? Il suolo è lo strato superiore della crosta terrestre; è costituito da elementi inorganici (componenti minerali, acqua e aria) e biologici (materia organica e organismi viventi) e ospita gran parte della biosfera e rappresenta l’interfaccia tra terra, aria e acqua. È ormai universalmente riconosciuto che un suolo di buona qualità è in grado di esplicitare corret*
Biologo ambientale.
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tamente le proprie funzioni garantendo la fornitura di peculiari servizi ecosistemici, che si suddividono, secondo la più recente classificazione CICES (www. cices.eu), in: - servizi di approvvigionamento (prodotti alimentari e biomassa, materie prime, etc.); - servizi di regolazione e mantenimento (regolazione del clima, cattura e stoccaggio del carbonio, controllo dell’erosione e dei nutrienti, regolazione della qualità dell’acqua, protezione e mitigazione dei fenomeni idrologici estremi, riserva genetica, conservazione della biodiversità e della produttività dell’ecosistema, etc.); - servizi culturali (servizi ricreativi e culturali, funzioni etiche e spirituali, paesaggio, patrimonio naturale, etc.). Il suolo, però, non solo è una risorsa limitata, ma a causa dei suoi lunghissimi tempi di formazione, può essere considerata sostanzialmente non rinnovabile e, purtroppo, nonostante la sua resilienza, può essere distrutto fisicamente in tempi molto brevi o alterato chimicamente e biologicamente sino alla perdita delle proprie funzioni. Per le ragioni sopra esposte, il suolo naturale, come tutte le risorse naturali, deve essere tutelato e preservato per le generazioni future (Parlamento europeo e Consiglio, 2013). Quali sono le minacce del suolo? Il fenomeno del consumo del suolo si riferisce a un incremento della copertura artificiale di terreno, legato alle dinamiche insediative e infrastrutturali, prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici, fabbricati e insediamenti, all’espansione delle città, alla densificazione (intesa come una nuova copertura artificiale del suolo all’interno di un’area urbana) o all’infrastrutturazione del territorio. Un’altra grave minaccia per il suolo è il degrado
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Figura 1. Un esempio di consumo di suolo a Barberino del Mugello (Firenze) per la realizzazione di una nuova area di servizio autostradale.
Figura 2. Un esempio di consumo di suolo nel comune di Casirate d’Adda (Bergamo), per la realizzazione di una struttura industriale-commerciale.
che porta alla riduzione o perdita di produttività biologica o economica, di cui la desertificazione è il livello estremo. Cosa è il consumo del suolo? Il consumo di suolo è definito come una variazione, di natura antropogenica, da una copertura non artificiale, ovvero suolo non consumato, a una copertura artificiale del suolo, ovvero suolo consumato (come ad esempio nelle Figure 1 e 2). La forma più evidente e diffusa di copertura artificiale è l’impermeabilizzazione del suolo, ovvero la copertura permanente di parte del terreno e del relativo suolo con materiali artificiali (quali asfalto o calcestruzzo) per la costruzione di edifici e strade. Altre forme di degrado del suolo sono rappresentate, per esempio, dalla perdita totale della “risorsa suolo” attraverso la rimozione per escavazione (comprese le attività estrattive a cielo aperto), alla perdita parziale della funzionalità della risorsa a causa di fenomeni quali la compattazione (es. aree non asfaltate adibite a parcheggio). Appare evidente, quindi, che il consumo di suolo può essere permanente o reversibile. È quindi opportuno definire anche il consumo di suolo netto che è
valutato attraverso il bilancio tra il consumo di suolo e l’aumento di superfici agricole, naturali e seminaturali dovuto a interventi di recupero, demolizione, de-impermeabilizzazione, rinaturalizzazione o altro (Commissione Europea, 2012). È utile però sottolineare che anche il consumo reversibile inibisce alcuni servizi ecosistemici cruciali, e che va sempre considerata la perdita di funzioni per tutto il periodo che intercorre prima dell’effettivo e completo recupero. Nelle aree consumate rientrano anche quelle in ambiti rurali e naturali ma non le aree aperte naturali e seminaturali in ambito urbano, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso (Commissione Europea, 2013). Per questo motivo, anche la densificazione urbana, ovvero la copertura artificiale del suolo all’interno di un’area urbana, dovrebbe essere considerata consumo di suolo. Le attuali più frequenti cause di cambiamenti sono la realizzazione di infrastrutture (in particolare nel Nord), edificazioni e cantieri (in particolare aree del commercio), edificazione dispersa, densificazione urbana e serre permanenti (in particolare nel Sud), mentre la realizzazione di campi fotovoltaici subisce andamenti temporali e territoriali legati agli iter autorizzativi e di finanziamento. Analizzando i cambiamenti nelle principali aree urbane in un periodo più lungo (dal 2006 al 2012), si conferma che il fenomeno della densificazione delle aree urbane è significativo (22,3% dei cambiamenti), insieme alla realizzazione di nuove aree industriali e commerciali (27,9%) e a nuove aree urbane a bassa densità (23,1%), che comprendono anche le strade locali e urbane, a cui aggiungere un altro 2,5% di altre infrastrutture (Figura 3). L’espansione urbana di tipo denso riguarda solo lo 0,1% dei cambiamenti. Figura 3. Consumo percentuale di suolo dal 2006 al 2012.
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Nuovi cantieri (12,9%), attività estrattive e discariche (7,1%), parchi sportivi e di divertimento (2,4%) e nuove aree verdi (1,7%) completano il quadro delle trasformazioni. Il consumo del suolo non deve essere confuso con l’uso del suolo (Land Use) che rappresenta come il suolo venga impiegato in attività antropiche e quindi descrive le interazioni tra l’uomo e il suolo. La tematica dell’uso del suolo è trattata dalla Direttiva 2007/2/ CE che istituisce l’Infrastruttura per l’informazione territoriale nell’Unione europea (Inspire) e fornisce una classificazione del territorio in base alla dimensione funzionale o alla destinazione socioeconomica, presenti e programmate per il futuro. Quali sono gli impatti? L’artificializzazione dei suolo provoca i diversi effetti negativi a carico della società e dell’ambiente. Si può ricordare la frammentazione dell’ecosistema con conseguenze su flora/fauna, ecosistemi, assetto idrogeologico e l’alterazione del paesaggio, ovvero la modifica in senso socio-culturale della percezione umana e dell’identità culturale. La frammentazione porta, inoltre, alla creazione di aree isolate e/o emarginate con conseguente ulteriore depauperamento del valore intrinseco, ma anche l’aumento dei costi di urbanizzazione e fornitura dei servizi. L’impermeabilizzazione è probabilmente la trasformazione più impattante sul suolo e comporta un rischio accresciuto di inondazioni, contribuisce ai cambiamenti climatici, minaccia la biodiversità, provoca la perdita di terreni agricoli fertili e aree naturali e seminaturali, contribuisce insieme alla diffusione urbana alla progressiva e sistematica distruzione del paesaggio, soprattutto rurale e alla perdita delle capacità di regolazione dei cicli naturali e di mitigazione degli effetti termici locali, nonché ne impedisce la funzione sociale (Commissione Europea, 2012). Il consumo di suolo ha un impatto su un insieme di servizi e funzioni ecosistemici che sono fondamentali per il nostro benessere (Commissione Europea, 2013). La perdita del flusso annuale di servizi ecosistemici, calcolata dal 2012 al 2019, varia da 2,5 a 3 miliardi di Euro all’anno; nello stesso periodo si è perso uno stock valutato tra 7 e 8 miliardi di Euro. Anche la frammentazione del territorio - il processo di trasformazione di patch di territorio di grandi dimensioni in parti di territorio di minor estensione e più isolate - è principalmente il risultato dei fenomeni di espansione urbana, che si attuano secondo forme diverse più o meno sostenibili, e dello sviluppo della rete infrastrutturale, volta a migliorare il collegamento delle aree urbanizzate mediante opere lineari quali strade e ferrovie. L’espansione urbana in crescita e la 110 GdB | Aprile 2021
costruzione di nuove infrastrutture di trasporto si riflette in un incremento della frammentazione del territorio e in particolare degli habitat con conseguente riduzione della connettività ecologica che è espressione di funzionalità degli ecosistemi. Come è monitorato il consumo di suolo? In Italia il SNPA attualmente effettua il monitoraggio del consumo di suolo attraverso la produzione di una cartografia nazionale su base raster (griglia regolare) di 10x10m, prodotto secondo un sistema di classificazione il cui primo livello suddivide l’intero territorio in suolo consumato e suolo non consumato. Le elaborazioni annuali seguono una metodologia omogenea e prevedono un processo con le seguenti fasi: - acquisizione dei dati di input (immagini Sentinel 1 e 2, altre immagini satellitari disponibili, dati ancillari); - preprocessamento dei dati; - classificazione semi-automatica della serie temporale completa dell’anno in corso e dell’anno precedente di Sentinel 1 e 2; - produzione di una cartografia preliminare; - fotointerpretazione multitemporale completa dell’intero territorio ed editing a scala di dettaglio (≥1:5.000); - revisione della serie storica; - rasterizzazione; - validazione; - mosaicatura nazionale e riproiezione in un sistema equivalente; - elaborazione e restituzione di dati e indicatori.
Tabella 1. Tipologie di consumo di suolo.
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Figura 4. Consumo percentuale di suolo a livello provinciale e comunale (2019).
Le attività di monitoraggio sfruttano le potenzialità del programma Copernicus che raccoglie informazioni da molteplici fonti (satelliti e sensori di terra, di mare ed aviotrasportati). Le superfici artificiali vengono rilevate solo se di estensione tale da coprire più del 50% della cella di 10x10m. Sono, quindi, esclusi molti elementi lineari di spessore limitato, come le infrastrutture minori in contesto agricolo o naturale. Tale sistema di classificazione, inoltre, diversamente da quanto si faceva in precedenza, non considera più come consumo le serre permanenti, escluse quelle pavimentate (dove rilevabili) e, in generale, le aree dove gli interventi connessi con la conduzione dell’attività agricola assicurino condizioni di naturalità del suolo; sono inoltre esclusi i corpi idrici artificiali (ma non le cave in falda), i ponti e le gallerie. Il sistema di classificazione prevede che il consumo di suolo sia suddiviso in due categorie principali, permanente e reversibile, a loro volta suddivise in numerose sotto-categorie (Tabella 1). La situazione attuale In Europa, l’Italia si posiziona tra le nazioni con la maggior percentuale di superficie disturbata, subito dietro a Danimarca e Germania. È questo un indicatore di quanto il processo di dispersione insediativa abbia ormai invaso ampie porzioni del nostro territorio, causando una frammentazione degli habitat naturali, del territorio e del paesaggio. A livello nazionale, la trasformazione del paesaggio italiano, dal dopoguerra ad oggi, ha avuto sempre maggiore peso, dovuto a diversi fattori, tra i quali: la ricostruzione post-bellica, il boom demografico, la grande infrastrutturazione del Paese, che hanno portato all’aumento della domanda di superfici atte a realizzarvi edifici abitativi, industriali e commerciali, nonché la necessaria rete di infrastrutture che le collegasse, particolarmente accelerata anche dalla motorizzazione di massa. Il consumo di suolo è passato dal 2,7% stimato per gli anni ’50 al 7,1% del 2019, con un incremento di oltre 4 punti percentuali e una crescita percentuale più del 180%. In termini assoluti, il consumo di suolo ha intaccato ormai 21.398 kmq del nostro territorio a cui se ne devono aggiungere altri 1.351 per altre
Figura 5. Suolo consumato pro capite a livello provinciale.
Figura 6. Copertura delle classi di frammentazione (%) nel 2019.
coperture non inquadrabili in quelle censibili e per aree di dimensione ridotta. Le aree più colpite risultano essere le pianure del Settentrione, dell’asse toscano tra Firenze e Pisa, del Lazio, della Campania e del Salento, le principali aree metropolitane, delle fasce costiere, in particolare di quelle adriatica, ligure, campana e siciliana (Figura 4). Nel 2019 la media nazionale di suolo con-
Figura 7. Indice di frammentazione (effective mesh density) su griglia regolare a 1 kmq nel 2019. Valori più bassi dell’indice identificano livelli di frammentazione minori.
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Tabella 2. Stime del suolo consumato in anni passati (ISPRA, 2016).
Tabella 3. Stime del suolo consumato in anni passati.
Tabella 4. Velocità del consumo di suolo annuale netto.
Tabella 5. Consumo di solo pro capite (mq/abitanti).
sumato è pari al 7,10%: in 13 regioni viene superato il 5% di consumo di suolo, con il valore percentuale più elevato in Lombardia, Veneto e Campania (oltre il 10%), seguono Emilia-Romagna, Puglia, Lazio, Friuli Venezia Giulia e Liguria, con valori compresi tra il 7 e il 9%; la Valle d’Aosta è la regione con il valore più basso, pari a poco più del 2%. L’incremento netto rispetto all’anno precedente è di 1.72 mq/ha a livello nazionale, con Veneto, Puglia, Lombardia e Sicilia che presentano i valori maggiori, rispettivamente pari a 4,28, 3,23, 2,69 e 2,38. Il consumo del suolo pro capite, calcolato come rapporto tra suolo consumato e numero di abitanti è di 355 mq/abitanti nel 2019 (Figura 5). Basilicata, Veneto, Abruzzo e Puglia sono le quattro regioni che presentano valori di crescita del rapporto consumo di suolo annuale/abitanti rispetto al 2018 vicini al doppio del dato nazionale che è pari a 0,86 mq/abitanti. Rispetto al 2012, la frammentazione del territorio calcolata per il 2019 - valutata con un indice (effective mesh density) che rappresenta la densità delle patch territoriali (mesh) dove i valori più bassi dell’indice identificano livelli di frammentazione minori - ha subito un incremento di circa 2 punti per le zone già a elevata o molto elevata frammentazione, compensato dal decremento delle aree a bassa frammentazione; la percentuale delle zone a media frammentazione è sostanzialmente rimasta invariata (Figure 6 e 7). 112 GdB | Aprile 2021
L’evoluzione In Italia lo studio dell’andamento del consumo di suolo è stato sviluppato recentemente ed è permesso dalle recenti tecniche GIS di elaborazione degli strati informativi sull’uso del suolo. Non si dispone, quindi, di serie temporali molto lunghe e dettagliate, ciononostante è possibile avere una idea chiara del fenomeno degli ultimi anni che ci fornisce bene anche il trend recente anche perché è stato possibile effettuare delle stime anche per anni passati (Tabella 2). Dal 2019 la metodica di calcolo di suolo consumato è leggermente cambiata e ha portato ad una correzione del valore del 2015 che nella Tabella 3 viene confrontato con gli anni seguenti. Il trend non sembra cambiare negli anni successi, con una incremento di suolo consumato netto superiore a 50 kmq che nel 2019 è stato di 57,5 kmq pur a fronte di un incremento della riconversione di suolo consumato a non consumato di 5,6 kmq. Inoltre, altri 8,6 kmq di suolo consumato sono passati nel 2019 da reversibile a permanente, con una impermeabilizzazione complessiva salita di ulteriori 22,1 kmq. Dopo aver toccato anche gli 8 metri quadrati al secondo degli anni 2000, il rallentamento (tra i 6 e i 7 metri quadrati al secondo) iniziato nel periodo 20082013 (ISPRA, 2017) si è consolidato negli ultimi anni poco sotto i 2mq/secondo (Tabella 4); ma il consumo di suolo continua a crescere. Il consumo di suolo nelle zone periurbane e urbane a bassa densità a scapito delle aree agricole e naturali è un fenomeno confermato anche dai dati più recenti; tali aree vedono un continuo e significativo incremento delle superfici artificiali, sia per un aumento della densità del costruito, sia per la maggiore frammentazione e artificializzazione delle aree limitrofe a causa
Figura 8. Consumo di suolo tra il 2012 e il 2019 a livello nazionale per densità delle coperture artificiali
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Figura 11. Percentuale di suolo consumato nel 2019, diviso per classe di distanza dalla costa.
Figura 12. Percentuale di suolo consumato nazionale (2019) in funzione della distanza dalla linea di costa. Figura 9. Localizzazione dei principali cambiamenti avvenuti nel periodo 2018-2019.
della maggiore accessibilità. Tali processi riguardano soprattutto le aree costiere mediterranee e le aree di pianura, mentre al contempo, soprattutto in aree marginali, si assiste all’abbandono delle terre e alla frammentazione delle aree naturali. Il consumo di suolo, con le sue conseguenze, rallenta ma non accenna a fermarsi. Il rallentamento, pur non sufficiente, della sua velocità, dovuto alla crisi economica degli ultimi anni, rende evidente che non vi sono ancora strumenti efficaci per il governo del consumo di suolo e ciò rappresenta un grave vulnus in vista della auspicata ripresa economica, che non dovrà assolutamente accompagnarsi ad una ripresa della artificializzazione del suolo che i fragili territori italiani non possono più permettersi.
Figura 10. Percentuale di suolo consumato nazionale (2019) in funzione dell’altitudine.
Il consumo del suolo pro capite, calcolato come rapporto tra suolo consumato e numero di abitanti nel 2019 è leggermente superiore agli anni precedenti (Tabella 5). Dove si sono verificati i principali cambiamenti? Al livello nazionale, negli ultimi anni, ben oltre la metà dei cambiamenti sono avvenuti in un contesto a media o bassa densità di aree artificiali (aree urbane e periurbane a media e bassa densità) (Figura 8); questa situazione mette in luce la rilevanza delle aree urbane a media e bassa densità come quelle maggiormente a rischio per il fenomeno del consumo di suolo, probabilmente a causa della maggiore facilità di trasfor-
Figura 13. Percentuale di superficie del territorio impattata direttamente o indirettamente al 2019, a distanza di 60, 100 e 200 metri dal suolo consumato.
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pia di quella media nazionale, seguite da Abruzzo, Emilia Romagna e Campania in cui la percentuale è superiore al 33%. La superficie potenzialmente impattata dalla presenza di coperture artificiali, considerando il territorio ricadente entro una distanza di 60, 100 e 200 metri dalle aree consumate, è risultata essere nel 2019 rispettivamente pari a 38,8, 51,9 e 71,2% della superficie nazionale (Figure 13 e 14).
Figura 14. Superficie del territorio impattata direttamente o indirettamente (a distanza di 60 metri) dal suolo consumato a livello regionale al 2019.
mazione delle aree scoperte rimaste incluse nelle aree urbanizzate o intercluse tra gli assi infrastrutturali. Un quadro riassuntivo della distribuzione dei principali cambiamenti avvenuti nel periodo 2019-2020 è evidente nella Figura 9 e si concentrano in alcune aree del Paese, rimanendo particolarmente ele-vati in Veneto, in Lombardia e nelle pianure del Nord, lungo le coste siciliane e della Puglia meridionale e nell’area metropolitana di Roma, mentre gradi elevati di trasformazione permangono lungo quasi tutta la costa adriatica. La maggiore densità di trasformazione è stata riscontrata nelle aree costiere, nelle pianure, nelle zone periurbane delle città più grandi. Il suolo consumato, come prevedibile, è maggiore nelle aree pianeggianti e nella fascia altimetrica da 0 a 300 m di quota dove la percentuale raggiunge il valore di 11,3; nella fascia 300 - 600 m la percentuale scende a 5,4 e, infine, oltre i 600 m raggiunge il valore di 2,1 (Figura 10). Anche la differenza tra il 2019 e l’anno precedente mostra la stessa dinamica sia in termini di estensione(ha) che di densità (mq/ha) e percentuale. I valori percentuali del suolo consumato crescono avvicinandosi alla costa e, infatti, a livello nazionale quasi un quarto (22,8%) della fascia compresa entro i 300 metri dal mare è ormai consumato (Figure 11 e 12). Liguria e Marche soffrono una percentuale dop114 GdB | Aprile 2021
Le politiche di tutela Già dal 2002 l’Unione Europea pone l’attenzione sia sui fenomeni di diffusione delle aree urbane, il cosiddetto urban sprawl (European Environment Agency, 2002) che evidenzialo scollamento tra crescita della popolazione e crescita dell’urbanizzazione sia sull’importanza del suolo come risorsa vitale con la “Comunicazione” dal titolo “Verso una strategia tematica per la protezione del suolo” (Commissione Europea, 2002) in cui si evidenziava la natura non rinnovabile del suolo, sottoposta a crescenti pressioni. Da allora si sono susseguite ulteriori prese di posizione a favore del suolo. Oggi l’Europa e le Nazioni Unite ci richiamano alla tutela del suolo, del patrimonio ambientale, del paesaggio, al riconoscimento del valore del capitale naturale attraverso il raggiungimento di alcuni obiettivi: - l’azzeramento del consumo di suolo netto entro il 2050 (Parlamento europeo e Consiglio, 2013); - la protezione adeguata del suolo anche con l’adozione di obiettivi relativi al suolo in quanto risorsa essenziale del capitale naturale entro il 2020 (Parlamento europeo e Consiglio, 2013); - l’allineamento del consumo alla crescita demografica reale entro il 2030 (UN, 2015); - il bilancio non negativo del degrado del territorio entro il 2030 (UN, 2015). Per raggiungere tali obbiettivi occorre: 1. evitare e limitare, prioritariamente, la trasformazione di aree agricole e naturali; 2. mitigare e ridurre gli effetti negativi dell’impermeabilizzazione del suolo; 3. infine, solo se gli interventi dovessero risultare assolutamente inevitabili, compensarli attraverso altri interventi quali la rinaturalizzazione di una superficie con qualità e funzione ecologica equivalente. Ciononostante le politiche, a livello europeo, rimangono ancora oggi piuttosto lacunose anche se il Green Deal include misure per la protezione del suolo e il ripristino dei suoli degradati, in particolare la strategia per la biodiversità dell’Unione europea per il 2030 e il piano d’azione per l’inquinamento zero dell’aria, dell’acqua e del suolo.
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Figura 15. Scenari di consumo del suolo in Italia (kmq di suolo consumato a livello nazionale al 2050).
Gli obbiettivi di riduzione del consumo del suolo sono fondamentali specialmente per l’Italia, alla luce delle particolari condizioni di fragilità e di criticità del nostro territorio, sebbene manchi ancora una legge fondamentale per la tutela dell’ambiente, del territorio e del paesaggio italiano. Gli scenari futuri L’Unione Europea chiede di raggiungere entro il 2050 l’azzeramento del consumo di suolo netto: significa evitare l’impermeabilizzazione di aree agricole e di aree aperte e, per la componente residua non evitabile, compensarla attraverso la rinaturalizzazione di un’area di estensione uguale o superiore, che possa essere in grado di tornare a fornire i servizi ecosistemici forniti da suoli naturali (Commissione Europea, 2016). Se la velocità di trasformazione dovesse confermarsi pari a quella attuale nei prossimi anni si stima il nuovo consumo di suolo in 1.556 km2 tra il 2020 e il 2050, se invece si dovesse tornare alla velocità massima registrata negli anni 2000, si arriverebbe quasi a 8.000 km2 (Figura 15); nel caso in cui si attuasse una progressiva riduzione della velocità di trasformazione, ipotizzata nel 15% ogni triennio, si avrebbe un incremento delle aree artificiali di 721 km2 prima dell’azzeramento al 2050. Gli scenari non sono, pertanto, ottimistici soprattutto per l’Italia dove le numerose proposte di legge non sono mai approdate ad un risultato finale e la tutela del suolo è lasciata a norme e regolamenti regionali e locali non coordinati.
Bibliografia - Commissione Europea (2012), Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermeabilizzazione del suolo. Bruxelles, 15.5.2012, SWD (2012) 101. - Commissione Europea (2013), Superfici impermeabili, costi nascosti. Alla ricerca di alternative all’occupazione e all’impermeabilizzazione dei suoli. Lussemburgo. - Commissione Europea (2016), Future Brief: No net land take by 2050? April 2016. - European Environment Agency (2002). Environment signals 2002. Benchmarking the millennium. Environmental assessment report, no. 9. - [https://www.eea.europa.eu/publications/environmental_assessment_report_2002_9, accesso del 4.03.21] ISPRA (2016), Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici - Edizione 2016. Rapporti 248/2016. - ISPRA (2017), Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici - Edizione 2017. Rapporti 266/2017. - Munafò M. (a cura di) (2020). Consumo di suolo, dina-miche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2020. Report SNPA 15/20. - Parlamento europeo e Consiglio (2013), Decisione n. 1386/2013/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 novembre 2013 su un programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente fino al 2020 «Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta», GUUE, L 354, 28.12.2013: 171-200. - UN (2015), Transforming our World: The 2030 Agenda for Sustainable Development, A/RES/70/1, United Nations.
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Anno IV - N. 4 aprile 2021 Edizione mensile di AgONB (Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi) Testata registrata al n. 52/2016 del Tribunale di Roma Diffusione: www.onb.it
Direttore responsabile: Claudia Tancioni Redazione: Ufficio stampa dell’Onb
Giornale dei Biologi
Edizione mensile di AgONB, Agenzia di stampa dell’Ordine Nazionale dei Biologi. Registrazione n. 52/2016 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Claudia Tancioni. ISSN 2704-9132
Aprile 2021 Anno IV - N. 4
L’ITALIA RIAPRE CON PRUDENZA
Draghi: “Rischio ragionato”. Diminuiscono i contagi e i ricoveri. Accelerano le vaccinazioni monitorando la variante indiana
Hanno collaborato: Valentina Arcovio, Barbara Ciardullo, Carla Cimmino, Rino Dazzo, Claudia Dello Iacovo, Chiara Di Martino, Domenico Esposito, Felicia Frisi, Elisabetta Gramolini, Giuseppe La Gioia, Sara Lorusso, Biancamaria Mancini, Marco Modugno, Emilia Monti, Michelangelo Ottaviano, Gianpaolo Palazzo, Antonino Palumbo, Stefania Papa, Carmen Paradiso, Emanuele Rondina, Giuliano Russini, Pasquale Santilio, Pietro Sapia, Giacomo Talignani, Daniele Tedeschi. Progetto grafico e impaginazione: Ufficio stampa dell’ONB. Questo magazine digitale è scaricabile on-line dal sito internet www.onb.it edito dall’Ordine Nazionale dei Biologi. Questo numero de “Il Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione mercoledì 28 aprile 2021. Contatti: +39 0657090205, +39 0657090225, ufficiostampa@onb.it. Per la pubblicità, scrivere all’indirizzo protocollo@peconb.it.
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