Intervista
“
“CASCO” PER L’INSUFFICIENZA RESPIRATORIA. LA VIA ITALIANA CONTRO L’INTUBAZIONE Massimo Antonelli, direttore anestesista del Gemelli, spiega i vantaggi dell’utilizzo di questa metodica basata sulla ventilazione meccanica non invasiva precoce
di Chiara Di Martino
N
on è uno strumento nuovo, e anche la modalità di utilizzo del “casco” sperimentata oggi a supporto della respirazione ha già qualche anno: risale infatti ai primi anni 2000 il primo studio, guidato da Massimo Antonelli, oggi direttore Anestesia, Rianimazione, Terapia Intensiva e Tossicologia clinica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e professore ordinario di Anestesiologia e Rianimazione all’Università Cattolica, campus di Roma, con cui si sperimentò l’utilizzo del “casco” per le gravi insufficienze respiratorie (tanti gli articoli apparsi: nel 2002 su Critical Care Medicine, nel 2006 su Intensive Care Medicine, tanto per citarne qualcuno). E proprio quello stesso casco, usato ormai da circa 20 anni, è oggi protagonista di un nuovo tassello del puzzle per la cura di pazienti con grave insufficienza respiratoria, inclusi quelli con polmonite da Covid-19. Nel nuovo studio HENIVOT, pubblicato su JAMA – il cui primo autore è Domenico Luca Grieco (Gruppo di studio Covid-ICU Gemelli), che con il prof. Antonelli e altri colleghi ha confrontato due diverse modalità di utilizzo del casco. Inventato e prodotto in Italia (due le aziende che al momento ne rendono possibile
16 GdB | Aprile 2021
l’approvvigionamento: una italo-inglese e una 100% italiana: la Dimar e la Intersurgical), dove viene usato da molti rianimatori, il casco riduce in modo significativo la necessità di ricorrere all’intubazione e alla ventilazione invasiva. Prof. Antonelli, quali sono le due metodiche messe a confronto? «Quella che sfrutta la ventilazione meccanica non invasiva precoce settata secondo parametri che consentono un supporto pressorio maggiore capace di “riaprire” il polmone colpito dal processo infiammatorio, riducendo anche la fatica respiratoria, e l’ossigenoterapia precoce ad alti flussi umidificati e riscaldati, che è considerata l’ausilio di uso più diffuso attualmente, come indicato anche dalle linee guida per i pazienti con ipossiemia grave del 2020. Questa modalità di erogare ossigeno, anziché tramite le normali cannule nasali o le mascherine, si basa su flussi che superano i 60 litri al minuto, che, con la caratteristica di essere riscaldati (intorno ai 37 gradi) e umidificati correttamente, migliorano anche il lavaggio della CO2 dello spazio morto delle vie aeree e riducono il lavoro respiratorio». E quali differenze sono state riscontrate? «Dal punto di vista del numero di giorni liberi dalla ventilazione meccanica (cioè quanti