Lotus Booklet Extra
A cura di Nina Bassoli
L’architettura e la pandemia. Quaranta lettere per Lotus.
Lockdown Architecture
Lockdown Architecture L’architettura e la pandemia. Quaranta lettere per Lotus. A cura di Nina Bassoli
Lotus Booklet Extra
Sommario
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Introduzione Alessandra Ponte Alessandro Balducci Alfredo Brillembourg Andrea Cancellato Andrew Freear e Elena Barthel Carlotta de Bevilacqua Catherine Mosbach Cino Zucchi Cynthia Davidson Eric Bunge Francesco Repishti Gabriele Pasqui Giancarlo Mazzanti
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Gianluca Didino Jean-Christophe Bailly Jeffrey Schnapp JosĂŠ MarĂa Ezquiaga Juan Herreros Kengo Kuma Louisa Hutton Luca Molinari Marco Biraghi Marina Otero Verzier Mario Botta Mauro Baracco e Louise Wright Michael Maltzan Michel Desvigne
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Mirko Zardini Paolo Deganello Pippo Ciorra Rahul Mehrotra Renzo Piano Riccardo Venturi Richard Ingersoll Silvano Petrosino Simona Malvezzi, Johannes Kuehn, Wilfried Kuehn Sonia Calzoni Steven Holl Torsten Burkhardt Wang Shu e Lu Wenyu
Introduzione Nina Bassoli
Il 23 gennaio 2020, con l’obiettivo di isolare il primo focolaio di diffusione del nuovo virus Covid-19, il governo centrale cinese ha imposto un blocco nella città di Wuhan, la più popolosa dell’Hubei e la settima della Cina, con circa undici milioni di abitanti. Al primo blocco, sono presto seguiti quelli analoghi delle altre città della regione e poi di diverse città della Cina. Nel mese di marzo, la prima nazione ad adottare misure di chiusura generale è stata l’Italia, seguita in breve, dopo un primo momento di sconcerto generale, con misure più o meno restrittive, da tutti gli stati europei e via via anche dalle diverse nazioni degli Stati Uniti, dell’America Latina e dell’Asia, inclusa l’India, con i suoi 1.38 miliardi di abitanti. All’inizio di aprile, più della metà della popolazione mondiale è confinata in casa: oltre quattro miliardi di persone. In oltre centocinquanta Paesi o territori del pianeta, per un periodo variabile di diverse settimane, i cittadini 5
sono stati costretti o incoraggiati dalle autorità a non uscire per limitare i rischi di diffusione del Covid-19. Con le sue diverse declinazioni normative, spesso in continua evoluzione, il blocco assume forme e nomi che rimandano a diversi aspetti della vita degli esseri umani e della loro condizione sociale. La parola quarantena, forma veneta per quarantina, fa riferimento a un periodo di segregazione di quaranta giorni al quale venivano sottoposte persone, animali e cose ritenute in grado di portare con sÊ o trattenere i germi di malattie infettive, in particolare a chi proveniva dal mare. In questo caso, sui velieri e sulle navi sottoposte a quarantena a causa di malattie come la peste, nel XIV secolo veniva issata una bandiera gialla, da cui il colore di copertina, scelto per questa pubblicazione da Pierluigi Cerri. La quarantena dunque tenderebbe a sottolineare una durata temporale, un periodo determinato di sospensione, un limbo. Il termine lockdown è un sostantivo statunitense di origine piÚ recente, originato dal phrasal verb to lock down, utilizzato in particolare a partire dagli anni settanta per indicare un prolungato stato di isolamento per i detenuti nelle carceri o negli ospedali psichiatrici, e in seguito ogni periodo di isolamento forzato per ragioni di sicurezza. Trae origine dal lemma germani6
co lock, lucchetto o barriera o meccanismo di fissaggio, da cui costruzioni come lock in, rinchiudere, ad esempio una persona in una stanza, o lock up, la stanza di reclusione stessa o la porta o grata di chiusura, in uso fin dal XV secolo. È dunque in questo caso l’aspetto meccanico di blocco o chiusura a prevalere semanticamente. Nell’America del XIX secolo, con lock-down era indicato il tassello ligneo di fissaggio delle zattere per trasporti fluviali. Come ha osservato l’etimologo inglese Steven Poole, è quindi un’ironia malinconica che la condizione di recente isolamento prenda il nome da un meccanismo che una volta garantiva l’affidabilità del viaggio in grandi spazi aperti. Infine il confinement francese, dal latino cum-finis, con lo stesso limite, tende a indicare una zona, un’area solidale che distingue tra un dentro e un fuori, e rimanda chiaramente agli aspetti più strettamente spaziali dell’area interessata dal fenomeno. È in questo momento di isolamento, intorno alla fine di aprile, che decidiamo di sollecitare un certo numero di architetti e intellettuali in qualche modo vicini alla ricerca di “Lotus” per comprendere come stiano vivendo questo periodo eccezionale. Chiediamo di raccontarci cosa stia accadendo intorno a loro, in parti del mondo molto diverse, dall’Europa alla Cina, dall’America Latina al Canada, dagli Stati Uniti 7
al Giappone, e se pensano che questo avrà un effetto sul pensiero dell’architettura. Noi stessi, attraversati ogni giorno da nuovi dubbi e pensieri, in bilico tra una sospensione che assomiglia a una pausa e la sensazione di essere sulla soglia di un cambiamento epocale, sentiamo l’urgenza di consultare le persone che, a vario titolo, sono state vicine alle riflessioni della rivista negli ultimi anni. La risposta è entusiastica, sembra che la voglia di un confronto, o forse di appartenere a una comunità, per quanto senza prossimità fisica, sia particolarmente forte. Può darsi che l’opportunità di osservare l’architettura dall’interno di un momento di sospensione, quasi di congelamento, possa offrire una prospettiva privilegiata per indagare “le ragioni stesse dell’architettura”. Per dirla con le parole di Jean-Christophe Bailly: “La speranza di vita dell’architettura si tende su un arco che va dal cantiere alla rovina. Se si tende ancora quell’arco si ha, prima del cantiere, tutto lo spazio di ideazione e, oltre la rovina, quello della scomparsa. Ora, con la crisi che ha scosso il mondo intero, questa dilatazione continua del periodo di esistenza dell’architettura ha appena subito una significativa interruzione. (…) Forse questa esperienza della città immobilizzata, al di là di quello che ha potuto avere di spaventoso o di affascinante, potrebbe diventare 8
uno spunto di riflessione che indaghi sulle ragioni stesse dell’architettura?”. Da questa prospettiva irreale, il desiderio condiviso sembra essere quello di un riavvicinamento da parte dell’architettura ai problemi del mondo, di ristabilire il nesso necessario tra architettura e società, architettura e città, architettura e ambiente, di ritrovare, grazie a un momento di crisi, le risorse di senso di cui abbiamo bisogno. Tra le righe dei brevi testi, raccolti tutti in poche settimane tra il mese di maggio e l’inizio di giugno 2020, ricorrono preoccupazioni comuni. Accanto a una generale stanchezza nei confronti degli eccessi della società dei consumi e del “sistema ricattatorio dell’economia neoliberale” (Herreros), oltre a una certa inquietudine rispetto alla fiducia nelle tecnologie e nell’illusorio efficientismo che ne deriverebbe, le preoccupazioni che sembrano assumere maggiore rilievo sono rivolte principalmente alla città e all’ambiente. La prima, sollecitata dall’apparente “svolta antiurbana che la pandemia sembra suggerire nel rivendicare un movimento di de-densificazione” (Hutton) e dai temi di prossemica e “distanziamento” al centro del discorso della cosiddetta “fase 2”, apre a interessanti riflessioni sui temi della densità architettonica e urbana, come quelle contenute nei testi di Ezquiaga, 9
Herreros, Maltzan, Wang Shu, Holl, tra gli altri. La seconda è caratterizzata da una visione ecologica di ampio respiro, che, con posizioni più o meno radicali (da Zardini a Davidson, da Kuma a Mosbach, a Mazzanti e Holl fino a Ponte e Baracco+Wright), tende a includere l’architettura, e l’operato dell’essere umano in generale, all’interno di ecosistemi in cui “la flora, la fauna, gli oceani, l’atmosfera e l’umanità sono una forza vitale interconnessa e co-dipendente” (Holl); “un’architettura in cui il valore non stia solo in se stessa, ma anche in ciò che può essere in grado di promuovere in termini di interazioni sociali, nuovi tipi di rapporti e comportamenti, nella quale l’umano non prevalga sulla totalità degli agenti che abitano e occupano il mondo” (Mazzanti). Forse a causa dell’isolamento forzato, e del profondo senso di frustrazione dato dalla sospensione degli spostamenti e delle attività, in molti hanno parlato dell’incremento riscontrato da alcuni linguisti nell’uso del pronome “noi” rispetto a “io” nel periodo di lockdown nei social media e negli altri mezzi di comunicazione. Tuttavia è interessante anche riscontrare come di fronte a temi di tale portata, all’interno dei testi raccolti si senta emergere con altrettanta forza una certa dimensione intimista, più personale, concentrata sul qui e ora più che proiettata nel futuro 10
con eroiche promesse, tesa ad osservare le condizioni reali più che a immaginare nuovi mondi. “Quello che possiamo fare oggi, in una situazione di incertezza radicale, mi sembra sia lavorare sul potenziale della situazione, letta attraverso lo spazio fisico. Sul possibile piuttosto che sul probabile”(Balducci). Ecco allora affiorare, accanto alle grandi preoccupazioni sul futuro dell’umanità, un rinnovato interesse per la dimensione locale, “maggiore consapevolezza del locale: un locale specifico. Perché siamo stati così indifferenti verso questa condizione di prossimità?” (Mehrotra); per la dimensione del domestico, “tema decisamente negletto negli ultimi decenni in favore di concetti più astratti come residenza o tipologia”, Ciorra); il tema dello specifico contro il generico (e di conseguenza specialistico, Bunge); fino ad arrivare a una riscoperta della dimensione dei sentimenti e della felicità e a una rivendicazione di una dimensione personale in contrasto con quella astratta e quasi “metafisica” della normativa e degli standard, o dei paradigmi culturali dominanti (Petrosino). In questo quadro, se non è possibile trovare rimedi a problemi che non siamo ancora certi di avere, come illustra con arguzia e ironia Jeffrey Schnapp, rimane il dubbio sull’investimento che l’architettura debba fare, per sua intrinseca natura, sul futuro. Se il “tono” 11
prevalente della raccolta, questo tono intimo, di generale attenzione al piccolo, al domestico, al presente, al reale, rappresenti una pausa, la fase terminale di un ciclo, oppure l’inizio di una nuova era, ancora non possiamo saperlo.
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Caro/a, Ti scriviamo per chiederti una riflessione sulla condizione dell’architettura in un periodo dominato dalla clamorosa epidemia mondiale del Covid-19, iniziata nella città di Wuhan e attualmente diffusa in più di 210 nazioni del mondo. Ti scriviamo principalmente per chiederti come stai, come vivi questo periodo sospeso e se ritieni che questo inciderà, in futuro, sulla tua attività o sul tuo pensiero sull’architettura. Se da un lato la sospensione sembra offrire un’opportunità per la riflessione e la concentrazione, dall’altro l’incertezza per la durata di questo periodo e per l’effettiva natura di quello che seguirà non ci consente di radicarci a fondo nel momento che stiamo vivendo. In altre parole, non siamo ancora in grado di stabilire se si tratti di una augmented reality o di una diminuzione della realtà, mediata dalla pervasività del virtuale. 15
Sappiamo che come fenomeno locale e globale l’architettura è coinvolta diversamente da questi fatti a seconda delle situazioni in cui ciascuno di noi si trova a vivere e a operare. Proprio per questo stiamo chiedendo ad alcuni architetti e intellettuali collegati con la rivista di scrivere un breve testo (una pagina di circa 3.000 caratteri) in un modo molto libero che potrà di volta in volta essere una confessione, una riflessione, un ragionamento oppure uno sfogo personale o una previsione sulle possibili trasformazioni dell’attività professionale e, perché no, anche una riflessione sulle sorti del tuo paese o dell’umanità. In definitiva lo stato eccezionale della pandemia ci tiene svegli e inquieti e apre in noi continue domande. Proprio per questo vorremmo indagare tra le persone più vicine alla nostra ricerca quali forme questa condizione sospesa stia assumendo, e a quali riflessioni stia aprendo la strada. Il tuo contributo sarà raccolto in una pubblicazione della serie “Lotus Booklet”, la piccola collana di “Lotus International”, che sarà stampata e distribuita a fine emergenza. Un caro saluto, Pierluigi Nicolin
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Alessandra Ponte
Appello per una gaia storia del presente immediato o: “Convivere con le difficoltà”. L’8 marzo avrei dovuto prendere un volo da Montréal (la città dove vivo e insegno) a New York per partecipare a una cena in onore delle donne docenti di architettura al Pratt Institute, dove ho insegnato dal 2003 al 2007. I notiziari riportavano i primi casi di Covid-19 nella regione di New York e circolavano voci su migliaia di persone già in quarantena. Molti abitanti del Québec stavano approfittando della pausa invernale della prima settimana di marzo per recarsi a sud verso climi più caldi: noti come snowbirds, sono tornati portando il contagio che ha fatto di Montréal l’epicentro canadese della pandemia. Ho annullato il mio volo per New York all’ultimo momento e ho inviato il seguente messaggio da leggere alla cena del Pratt in risposta alla richiesta di una previsione: “È tempo di fermarsi, pensare e fare un bilancio, rivalutare le priorità e assumersi responsabilità”. 19
Una settimana dopo, veniva imposto il lockdown sia in Canada che negli USA. Ero nel pieno della terza edizione di una ricerca del laboratorio del master in design su Architecture and Information 2.0, coordinata con un seminario intitolato “Architecture Confronted to the New Technologies or: ‘How I Learned to Stop Worrying and Love…’ Machines” [L’architettura di fronte alle nuove tecnologie o: Come ho imparato a smettere di preoccuparmi e ad amare… le macchine]. La ricerca era iniziata nel 2017 dopo che Montréal era stata ufficialmente proclamata piattaforma mondiale per l’Intelligenza Artificiale e, un anno dopo, era stata annunciata l’ambizione canadese di creare una Maple Valley come risposta e alternativa alla Silicon Valley. Così, l’edizione del 2018 del laboratorio di ricerca prevedeva un viaggio di studio a San Francisco e alla Silicon Valley con visite al mitico Internet Archive (la Mecca dei nerd e degli hacker), ai laboratori di Autodesk, all’Apple Campus di Cupertino, disegnato da Norman Foster a forma di “nave spaziale” e al gigantesco Googleplex, il complesso che ospita la sede centrale di Google e Alphabet Inc… Situato a nord di Mountain View, Googleplex conta 190.000 metri quadrati di spazi a uso ufficio e circa 20.000 dipendenti che ogni giorno viaggiano per raggiungere il 20
posto di lavoro. Arrivando all’ora di pranzo con i miei studenti abbiamo scoperto che era impossibile comprare anche solo un caffè senza un badge Google e divertiti abbiamo contemplato miriadi di dipendenti che si godevano gli spazi aperti, vestiti in modo informale: consumavano pasti multietnici usciti da mense e furgoncini, circolavano su biciclette dipinte con i colori vivaci di Google, giocavano a pallavolo e a pallacanestro. Il bisogno di forme radicalmente nuove di economia e filosofia politica era evidente. La visita al Googleplex ha dato un nuovo significato all’elegante espressione di Michel Foucault “il marxismo sta nel pensiero del XIX secolo come un pesce sta nell’acqua; e cessa di respirare in qualsiasi altro luogo”. Detto brutalmente, il marxismo è l’economia politica della macchina a vapore, corrisponde alla tecnologia della prima rivoluzione industriale e all’organizzazione del lavoro definito dal modello della fabbrica e dalla corrispondente formazione di una “classe operaia”. Il punto su cui abbiamo miseramente fallito (e questo è diventato ancor più palese con la pandemia e l’emergere della figura del lavoratore “essenziale”) è nel pensare criticamente in termini politici, economici e perfino metafisici le interconnessioni tra esseri umani e non umani e la coproduzione di tecnologie dell’informazione in evoluzione esponen21
ziale. Innegabilmente, l’inadeguatezza del pensiero politico ed economico contemporaneo è fatalmente collegata all’incapacità di scendere a patti con la questione della tecnologia: abbracciando appassionatamente la tecnofobia o la tecnofilia i pensatori (e gli architetti) condannano la tecnologia come strumento di oppressione e controllo (partendo dagli iPhone e dalle app per finire con la recente denuncia dell’insegnamento online), o si dedicano a infiniti e inutili esercizi formali delegando le decisioni agli algoritmi (particolarmente scoraggianti sono i laboratori di varie scuole di architettura che compiono esperimenti con l’IA per generare forme prive di significato attraverso algoritmi di riconoscimento delle immagini). Se non altro, l’attuale crisi conferma l’esigenza di evitare attentamente le previsioni di un futuro distopico o utopico e mantenere invece una consapevolezza attenta, uno stato di vigilanza lucida. Dinanzi a un presente immensamente turbolento, occorrono una qualche sorta di gaia disposizione nietzschiana e nuovi modi di pensare gli “eventi” perché, nelle parole della geniale eco-femminista Donna Haraway, oggi dobbiamo “convivere con le difficoltà”. Alessandra Ponte, storica dell’architettura e del paesaggio, è professoressa ordinaria all’École d’Architecture de l’Université de Montréal.
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Alessandro Balducci
A ottobre sarà tutto finito. Conviveremo con il virus per anni. La pandemia cambierà tutto nella città e nella società. Tornerà tutto come prima. Incrociando queste due variabili (quanto durerà e che impatto potrà avere sul nostro modello di organizzazione economica e sociale) possiamo collocare tutte le posizioni che emergono nel frenetico dibattito corrente. Quelli che militano per un rapido ritorno al business as usual, se sarà breve dovranno occuparsi solo delle ferite lasciate dalle perdite di vite umane e dalla crisi economica; e se invece durerà molto saranno attori di un fallimento collettivo. Quelli che considerano la crisi l’occasione per profonde modificazioni del modello di sviluppo, se a ottobre sarà tutto finito dovranno lottare duramente per ottenere almeno qualche cambiamento, e se durerà molto avranno qualche ragione in più per promuoverlo, ma in mezzo a mille difficoltà. 23
Insomma, siamo in una situazione di incertezza radicale. E non abbiamo molti strumenti nella cultura dell’Occidente per trattarla. In mezzo a tutto questo c’è lo spazio della città e dell’architettura con la sua resistenza fisica anche a cambiamenti di portata meno epocale. In mezzo a tutto questo c’è il progetto che richiede per definizione una qualche stabilità. Ciò che l’incertezza radicale ha fatto perdere irrimediabilmente. Mi viene in mente il trattato sull’efficacia in Cina e in Occidente di François Jullien; ci dice che von Clausewitz nel suo trattato Della Guerra definisce la strategia come relazione fini-mezzi riferita sempre ad un modello ideale. Per Sun Tzu, nell’Arte della Guerra, la strategia non ha invece modelli, muove solo dal “potenziale della situazione”, dal lavorare a partire dalle circostanze. Non aggredisce il nemico frontalmente ma cerca addirittura di utilizzare la sua forza per batterlo. Una postura molto simile a quella del “possibilismo” di Albert Hirschman, che nelle situazioni di crisi invita ad abbandonare ogni teoria formalizzata e a ricercare razionalità implicite e interpretazioni che a prima vista possono sembrare contro-intuitive. Quello che possiamo fare oggi, in una situazione di incertezza radicale, mi sembra sia lavorare sul poten24
ziale della situazione, letta attraverso lo spazio fisico. Sul possibile piuttosto che sul probabile. Dobbiamo osservare e riflettere senza facili scorciatoie: non andremo ad abitare tutti in campagna ma certamente il salto quantico del telelavoro apre delle opportunità per una residenzialità più flessibile. Siamo stati costretti a limitare il nostro spazio prima alla casa, poi a 200 metri, poi al comune e alla regione di appartenenza, e in ognuna di queste scale abbiamo scoperto valori, necessità e potenzialità di cambiamento che possono allo stesso tempo consentirci di essere preparati ad altri shock e di migliorarne la qualità. La casa diventata luogo di lavoro, di studio e di loisir; il condominio i cui spazi comuni chiedono di diventare altro da luoghi di passaggio frettoloso; il quartiere dove la strada è tornata per un tempo sospeso ad essere vitale ma che chiede di tornare ad utilizzare i piani terra più intensamente, riportando quei servizi pubblici e di commercio stritolati dalla competizione e dalla razionalizzazione. La necessità del distanziamento fisico spinge a rioccupare in modo più flessibile lo spazio aperto ma forse anche quei grandi contenitori che abbiamo imparato ad usare nelle settimane del mobile o della moda, e che potrebbero oggi consentirci di ospitare grandi eventi culturali in condizioni di sicurezza. 25
La città densa non finirà per tante ragioni, ma può cambiare anche profondamente. D’altro canto non è stata la densità di per sé a consentire la diffusione del virus, come mostrano le analisi più accurate, ma la densità unita a povertà, degrado ambientale e capacità dei servizi territoriali. L’agenda è ampia e scritta dalle circostanze.
Alessandro Balducci è professore ordinario di Pianificazione e Politiche urbane al Politecnico di Milano.
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Alfredo Brillembourg
Dobbiamo riorganizzare la città. Vorrei cominciare con l’esprimere la nostra genuina preoccupazione nell’affrontare uno dei momenti più sconcertanti e difficili di questo secolo. Persone e città hanno reagito alle sfide poste dalla pandemia di Covid-19 nei modi più straordinari. In questo momento molto sconclusionato le città si trovano di fronte a profonde incertezze, eppure devono andare avanti. Lo stato della nostra ricerca urbana dimostra che l’abitazione è diventata il fronte difensivo principale contro l’epidemia di Covid-19. La casa è una condizione di vita o di morte. Secondo l’ONU, circa 1,8 miliardi di persone in tutto il mondo vivono senza un tetto e in alloggi terribilmente inadeguati. Garantendo l’accesso a un’abitazione sicura con un’igiene appropriata, i governi, oltre a proteggere la vita di coloro che non hanno un tetto o vivono in insediamenti informali, contribuiranno a proteggere la popolazione del mondo intero appiat27
tendo la curva del Covid-19. Sono particolarmente preoccupato per due gruppi specifici di popolazione: coloro che vivono in ripari di fortuna, in insediamenti informali e senza un tetto, e coloro che devono far fronte alla perdita del posto di lavoro e alle ristrettezze economiche che potrebbero determinare ritardi sui pagamenti di mutui e affitti e sfratti. Le persone colpite da crisi umanitarie, in particolare gli sfollati e/o coloro che vivono in campi e ambienti simili, devono spesso far fronte a specifiche difficoltà e vulnerabilità che devono essere prese in considerazione quando si pianificano le operazioni di preparazione e reazione all’epidemia di Covid-19 e alle possibili pandemie future. Sono persone che vengono spesso trascurate e stigmatizzate, e che possono incontrare difficoltà nell’accedere ai servizi sanitari di cui il resto della popolazione può generalmente disporre. In questo contesto, Urban-Think Tank lavora da venti anni per richiamare l’attenzione del mondo su favelas, slum e township. Le conseguenze economiche per chi vive negli insediamenti informali saranno durature. Con la sospensione delle attività quotidiane e le limitazioni di movimento imposte nelle città, i lavoratori precari e a giornata perderanno il loro reddito. La conseguenza potrebbe essere che saranno costretti a lasciare la 28
loro abitazione per via dell’impossibilità di pagare l’affitto. Senza alcun ammortizzatore sociale, non potranno mantenere le loro famiglie. È estremamente importante, sotto l’aspetto della protezione, dei diritti umani e della salute pubblica, che le persone colpite dalle crisi umanitarie siano incluse in tutte le strategie, i piani e le operazioni di preparazione e reazione all’epidemia di Covid-19. C’è una forte motivazione di salute pubblica che induce ad estendere le misure adottate a tutti, indipendentemente dalla condizione sociale e a favore dell’inclusività. Si deve dare la priorità alle popolazioni vulnerabili come quelle dell’Africa, del Sudest asiatico e dell’America Latina. In luoghi in cui diverse famiglie condividono latrine o cucine è necessario costruire ulteriori servizi per ridurre i rischi sanitari di diffusione del virus e delle malattie in genere. Si dovrebbero negoziare ulteriori terreni per permettere espansioni. Ci potrebbe anche essere una maggior combinazione tra intervento statale e politiche di laissez-faire. In molti casi, la città è al contempo il centro più colpito e il centro della reazione alle catastrofi. La sua struttura spaziale funzionale sviluppatasi nel corso di un lungo processo storico deve soddisfare le esigenze quotidiane di un agglomerato urbano, oltre a essere costantemente ottimizzata rispetto al suo svilup29
po e alla sua trasformazione. Si tratta di un processo continuo, progressivo e stabile di evoluzione urbana, in cui Urban-Think Tank è impegnato in prima linea. Dobbiamo accettare che la volontà, l’energia e le risorse dei poveri sono la forza maggiore a loro disposizione per procurarsi un alloggio. Questo non significa che i governi o altri agenti come architetti, urbanisti, economisti, ONG, ecc., non possano avere un ruolo. Gli interventi di questi agenti esterni (compresi i governi) nell’universo della povertà urbana sono però talvolta influenzati da gravi pregiudizi sui modi in cui vive la gente e su che cosa occorrerebbe per migliorare il mondo. La ricerca sulle difficoltà e sulle opportunità della vita urbana è uno strumento importante per correggere queste convinzioni errate e per orientare gli interventi. Grazie alla comprensione di come le persone vivono e costruiscono, gli agenti esterni possono partecipare e sostenere la costruzione di un ambiente di vita invece che contrapporvisi. Allo stesso tempo, la preesistenza non è l’unica base per gli interventi futuri, ma per rendere più efficace l’innovazione serve una comprensione dei limiti e delle opportunità dei diversi modi di abitare. Alfredo Brillembourg è professore di Architettura e Progettazione urbana e cofondatore con Hubert Klumpner dello studio Urban-Think Tank, fondato a Caracas e con sede a Zurigo.
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Andrea Cancellato
Quando sento qualcuno affermare che una crisi è anche un’opportunità metto mano alla pistola. Come tanti, se non tutti, in queste settimane ho riflettuto circa le conseguenze di ciò che il mondo degli umani ha messo in atto per difendersi dal virus, da un nemico che, a differenza di altri nemici, è invisibile e nuoce alla vita sociale dell’uomo, oltre che all’uomo stesso. Ci sono altri comportamenti e altri mali che producono numerose e forse maggiori morti fra gli uomini, nessuno però che attenta alla “normalità” come questo virus. La cosa più grave è la consapevolezza che esso probabilmente verrà seguito da altri e che, quindi, ciò che stiamo vivendo è una svolta epocale poiché prepara una nuova “normalità”. Al netto della personale convinzione che quanto è stato fatto per contenere il virus sia complessivamente sbagliato, occorre prenderne atto e provare ad agire di conseguenza. 31
Se è vero che sta accadendo qualcosa di così grande, la prima cosa da fare è analizzare ciò che oggi appare inadeguato o sbagliato: un oggetto della casa in cui siamo stati costretti a vivere 24 ore su 24; l’organizzazione di un ufficio in cui prima o poi torneremo a lavorare; i luoghi di accoglienza dei servizi pubblici (ospedalieri, amministrativi, dei trasporti, della cultura, ecc.); i luoghi dell’incontro (bar, ristoranti, alberghi, oratori, ecc.). L’altra è avviare una nuova stagione del progetto che superi le barriere disciplinari e coinvolga tutti gli attori disponibili (antropologi, scienziati, filosofi, ecc.) nella consapevolezza che il design che nasce dalla critica, anche radicale, della realtà (senza accettarne i presunti vincoli di subordinazione passiva che ci vengono richiesti) e dall’ascolto della società, dei suoi bisogni e delle sue difficoltà, produce vera innovazione. In questi ultimi vent’anni, il design ha saputo imporsi in campi diversi, dall’arredo alla progettazione delle interfacce digitali, dai dispositivi biomedicali fino ai nuovi prodotti versione 4.0, perché ha promosso un metodo che ha fatto del dialogo con l’utilizzatore finale il punto di partenza di ogni forma di innovazione. Design è ascoltare la società, dare voce alla domanda, sfidare punti di vista consolidati, riconfigurare – quando necessario – processi produttivi dati per scontati. 32
Nonostante tutto, in questi mesi, non sono mancate le buone notizie. La società italiana ha dimostrato di saper interpretare il cambiamento con una velocità in molti casi sorprendente. Questa capacità di adattamento è la premessa per percorsi di innovazione centrati sul metodo del design. Da dove cominciare? I tanti contest lanciati in questi mesi in rete sono lì a testimoniare le potenzialità di un percorso che già oggi dà i primi segnali della propria vitalità. In tutti questi cantieri il design non è semplicemente risoluzione elegante (o eterodossa) di problemi complessi. Siamo chiamati a rilanciare, in tempi brevi, un’economia di pace basata su relazioni e dialoghi che sono all’origine del successo del Made in Italy nel mondo. La posta in gioco non è solo economica. È importante rimettersi in ascolto proponendo idee e progetti, coraggiosi e audaci, che contribuiscano a rinsaldare legami e fiducia all’interno del Paese così come a livello internazionale. È questo il modo migliore anche per creare un antidoto ai caratteri regressivi che un linguaggio da economia di guerra porta inevitabilmente con sé.
Andrea Cancellato è project manager di ADI Design Museum, Compasso d’Oro ed è stato direttore della Triennale di Milano dal 2002 al 2018.
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Andrew Freear e Elena Barthel
What’s up with WhatsApp Elena Barthel: Questa mattina ho camminato tra i campi fino ai piedi della collina, dove la campagna incontra la città. Alla fine, c’è un viottolo coperto dal secondo piano di una villetta a schiera. L’ho attraversato, con la sensazione di lasciarmi alle spalle la tranquilla vita rurale e andare incontro al pericolo della città. In cuor mio, è affiorato un interrogativo: riusciremo a goderci di nuovo lo spazio pubblico? Quello spazio che ci rende cittadini felici ed esseri umani socievoli? Spero di sì. Andrew Freear: Anch’io temo per l’interazione sociale. Sono sicuro che le grandi aziende e i politici che governano il mondo sarebbero felici nel saperci tutti a casa. A rimanere pigri consumatori passivi, con i pacchi consegnati a domicilio, lavorando dove possono controllarci e sorvegliarci attraverso i social media. 34
Il futuro dei rapporti è in pericolo: dobbiamo stare attenti e capire chi gestisce il messaggio e quali sono le sue motivazioni… EB: Mentre camminavo per strada, ho visto una donna su un marciapiede: uno spazio di ingiustizia, dove chi vince è sempre l’automobile più grande. In pigiama, si comportava come se la strada fosse un’estensione di casa sua. Mi ha guardato con sospetto e mi sono sentita un’untrice invadente. Qualche metro più in là, ha incontrato un uomo. Si sono messi a chiacchierare, in piedi, a una distanza troppo ravvicinata per la legge. Erano ovviamente tutti e due a casa. Di questi tempi, sentiamo parlare molto di “infrastrutture sociali”, altro termine asettico che il Covid-19 ha portato nelle nostre vite. Spero che la donna e il suo amico continuino a ignorare questa tendenza e a chiamare casa “la mia via”. AF: Parlando di anziani, hai sentito che ieri Dave è tornato a casa? È sopravvissuto al Covid-19 a 87 anni, anche se nessuno conosce esattamente la sua età perché non ha un certificato di nascita. È stata la sua prima volta in ospedale, sotto il controllo di un medico. Dice sempre scherzando che non si ammala perché non si è mai sposato. Dave, che ha sviluppato una resistenza e 35
un’immunità molto forti grazie a una vita dura, è una fantastica eccezione al mondo moderno, in cui siamo tutti così fragili ed esposti agli antibiotici. EB: Oggi è arrivato il formaggio di Bertuccia, la nostra capra adottiva. Sono andata a prenderlo e ho incontrato Chiara, la contadina. Le sono grata per questo cibo delizioso, sano e pulito. Con la pandemia, i supermercati sono più inadeguati che mai: pieni di mancanze e poco sicuri. Ieri ti guardavo lavare le mele, di ritorno a casa dopo la spesa. Oggi non c’è bisogno di preoccupazioni, solo un grande senso di amicizia con la persona che si prende cura della natura, il cibo e il paesaggio. L’ho salutata con un abbraccio sincero, ma con la mascherina. AF: Mi piace il fatto che in Italia la mascherina, malgrado tutti gli sforzi di Salvini, sia una rappresentazione del rispetto. Significa che tengo a te tanto quanto tengo a me e che siamo tutti sulla stessa barca. La comunità nella sua versione migliore. E alla fine, guardare le persone negli occhi, il che non accade molto spesso, è importantissimo. EB: È il cinquantesimo giorno di lockdown. Ho 36
deciso di disertare facendo una camminata fino al fiume. Sono arrabbiata. La gente va in macchina al supermercato sentendosi felice per l’incredibile momento di libertà. Tra congiunti, litigano per chi si alza presto la mattina, per andare a fare la fila e comprare cibo industriale. È un enorme paradosso. I sistemi alimentari su larga scala sono alla radice della pandemia, e non finiranno con il Covid-19. Noi esseri umani moderni siamo ciechi, irragionevoli o irrimediabilmente schiavi del consumo? AF: A quanto pare il nostro lockdown potrebbe finire con una marcia per Black Lives Matter. Cerchiamo sempre di stabilire una comunicazione con tutti i fronti della comunità. Qui, i ricordi delle lotte per i diritti civili, dei conflitti tra le famiglie e della storia della schiavitù sono ancora onnipresenti. Quindi, se abbiamo l’occasione di manifestare e crediamo profondamente nella causa, manifestiamo o rinneghiamo noi stessi? Manifestando potremmo compromettere anni di sforzi nella costruzione di ponti. Dobbiamo continuare a manifestare… EB: Anche oggi gli studenti hanno portato le loro linee a fare un giro. Ogni giorno disegnano una sedia del soggiorno senza guardare il foglio di carta. Pos37
sono alzare la matita solo quando il disegno è finito. Inaspettatamente stamani le loro linee hanno valicato i confini della stanza, fuori dalla finestra, fino in strada. Hanno esplorato gli edifici di mattoni, che se ne stanno attoniti sul bordo della via insieme ai fili della corrente, alla vegetazione e e ai semafori. Nei loro lavori è comparso un nuovo punto di vista, una sorta di rivelazione, direi un’epifania. E penso anche nella loro vita…
Andrew Freear e Elena Barthel insegnano al Rural Studio, il building program della School of Architecture, Planning and Landscape Architecture dell’Università di Auburn, in Alabama, di cui Andew Freear è direttore.
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Carlotta de Bevilacqua
Il virus ha messo in luce quanto ogni singolo aspetto della nostra produzione si muova all’interno di un network, anche in conseguenza del fatto che Artemide ha investito nella creazione di uno spirito di cooperazione e condivisione. Il network di Artemide si estende alla rete di fornitori italiani ed europei per gli aspetti produttivi e, nell’ambito del progetto e della ricerca, a università ed enti italiani ed internazionali, compresi architetti e progettisti di tutto il mondo. Purtroppo, il lockdown ha messo in discussione le cosidette supply chain, le complesse catene di distribuzione che regolano le attività dell’azienda. Non dobbiamo dimenticare che nel momento in cui l’attività produttiva è ridotta – non tutto è fattibile a distanza e lo smart working riguarda un numero ristretto di addetti – e gli spostamenti delle persone, ma anche delle merci, subiscono radicali limitazioni, un’azienda con unità produttive in Italia, Francia e Ungheria, oltre che in Canada, non ha 39
molta scelta: è costretta a fare qualcosa di diverso. Guardando le cose con un certo ottimismo possiamo dire che la crisi del Covid-19 ci suggerisce di progettare relazioni e interazioni innovative. La situazione attuale impone di ridisegnare anche le catene di fornitura. Molti si stanno riavvicinando a realtà produttive locali, ma nel campo della luce in particolare non si può pensare ad un sistema autarchico. Occorre pensare a modelli di relazioni più flessibili. Facciamo parte di un ecosistema globale e la situazione attuale ha fatto emergere in modo ancora più evidente che è necessario rimisurare i nostri parametri di scelta e giudizio rispetto a una diversa scala di valori, attraverso un approccio completo e attento, reale e trasparente, capace di integrare in modo organico tutti gli aspetti di una sostenibilità ambientale, sociale ed economica. Artemide lavora da molti anni in questa direzione. È importante sviluppare la capacità di interpretare in modo diverso le opportunità che la tecnologia ci offre e innovare non solo rispetto al prodotto: per una sostenibilità reale si devono ridisegnare anche i processi. In effetti la luce può conferire un valore particolare a tutti i prodotti, la luce è energia e l’idea di portare nuova sostenibilità all’interno degli spazi che illumina comporta un’azione su tutte le fasi del ciclo, 40
a partire dal concept fino alla fase d’uso. Ogni prodotto deve essere efficiente, intelligente e non sprecare energia. Un buon progetto può anche stimolare una nuova consapevolezza nel cercare di rendere gli utilizzatori responsabili integrando con intelligenza sensori e programmi di gestione. Il design non consiste soltanto nel fare degli oggetti belli ed emozionali: il futuro del design è tendenzialmente sistemico. La luce può essere portatrice di molte cose che, anche se non si vedono, trasformano radicalmente la qualità della vita e i nostri comportamenti. Non si tratta solo di progettare, produrre e distribuire oggetti, ma di concepire nuovi sistemi che possono essere veicolati dagli stessi prodotti. La scienza è entrata nel design. Oggi la luce può essere un conduttore di dati più efficace e sicuro del wifi, può essere una guida più precisa e sostenibile di un GPS, può, con il sistema brevettato Integralis che agisce contro i microorganismi patogeni illuminando l’ambiente, sanificare gli spazi. Le frequenze selezionate della luce visibile possono essere in grado di inibire lo sviluppo e la crescita di batteri, funghi e muffe, mentre quelle UV possono deattivare i microorganismi patogeni, inclusi i virus. La combinazione degli spettri di emissione della luce può valorizzare l’efficacia dell’azione sanificante. Nel momento in 41
cui iniziamo a pensare la luce come una piattaforma aperta, e non come qualcosa che ha a che fare soltanto con il visibile, si apre un mondo di possibilità. Einstein sosteneva che “non si può risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che lo ha generato”. Questo è secondo me il giusto approccio per reagire a questa crisi.
Carlotta de Bevilacqua, architetto e designer, è vicepresidente e CEO del gruppo Artemide.
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Catherine Mosbach
… evolvere a passi felpati in un mondo con rumore di fondo costante, giorno e notte. Lo spettro biologico ci ricorda la sua propensione a fare e a disfare. È il corso regolare di un universo in formazione-trasformazione continua. Accecata, allettata dalle sue prodezze, la mente evita di pensare alle culle feconde della terra, tra cui le culle della carne. Cogliere l’occasione di un’allerta intempestiva e globale: un assunto biologico che ricorda quello di cui gli esseri sono fatti e quello che possono perdere. … parentesi di un mondo sospeso. L’individuo è singolare. Il collettivo è plurale, cassa di risonanza che amplifica le singolarità. Le performance hanno ormeggiato le risorse creative di ogni individuo. La pressione è continua: connesso, saturo, occupato, nel senso di “paesepaesaggio occupato”. Vuoto e silenzio ridotti al nulla, che questa “parentesi” ricolloca e disloca per mancanza di addestramento. Vuoto e silenzio esclusi dalla sfera domestica e intima, così come da quella pubblica. Quan43
do uno spazio – in architettura e nel paesaggio – non è fissato da una funzione predeterminata, non esiste. Quando un individuo o un collettivo non è attivo sui social network, si dice che non esista… Non lasciare posto all’ignoto, all’emergere di qualcosa di indeterminato in un certo periodo, è una negazione assoluta dell’immaginazione, una fine senza opportunità di inizi… curioso e antinomico rispetto alle risorse a disposizione da quando la vita si è intromessa sulla terra… … qual è dunque questo organismo-organo che guarda gli altri dall’alto verso il basso? Individuo-umano, animale, pianta; collettivo-assemblaggio di singolarità. Mutualizzazione-Regolazione: uno accumula e aumenta, l’altro livella e limita. Scarsa propensione al dialogo, alle porosità, alle formazioni polivalenti, polimorfe tra discipline, tra mondi, tra culture, tra esseri di qualunque tipo. Superiorità dell’uno sull’altro. La democrazia, ipotesi di beni comuni, è una pratica poco agevole, né preacquisita, né acquisita una volta per tutte. Vale per la democrazia come per il resto, l’ipotesi si coltiva lasciando spazio a ciò che non è ancora comprensibile per le nostre formazioni, soltanto umane. Clima, ecologia, economia, salute, uomo, donna… sono tutti “slogan” esacerbati di continuo che allontanano le polarità, le rendono non udibili, impermeabili alle fecondità ibride, torre di Babele orizzontale versus il XXI secolo. La dis44
seminazione di un virus prende il posto del sollevamento delle nuvole, di quello delle popolazioni – umane, animali e vegetali. Sollevamento: inizio di un’altra era. … big data e algoritmi, promossi a sistemi di riferimento dominanti, dispiegano universi privati di “scritture”, di “interpretazioni”, di “immaginazioni”, di sguardi “altri”. Essere una particolarità nell’universo, tra altre particolarità, non implica sovrastare in modo totalitario ciò che non siamo noi. Navigare tra parole, immagini e disegni. Diffondere, trasmettere, strato tra gli strati, è una differenza, una risorsa: le “umanità”. Nessuno strumento potrebbe soppiantare, assorbire questa singolarità. Gli accessi a focali multiple – micro attraverso la biologia, macro attraverso l’astrologia – crescono come mai nella storia dell’umanità. Cogliere un’opportunità presuppone essere all’altezza e saper tras-portare una felicità al di là delle temporalità. Lasciare una porta aperta a ciò che non è ancora definito. Suonare una partitura di universi plurali. Porosità dei limiti, non sapere prima per poter trovare dopo. Architetti, paesaggisti, designer… immaginare le culle di domani. Lasciare una possibilità alle disseminazioni e propensioni creative… … ritornello di un essere tra altri, non del tutto finito, ancora vivo… Catherine Mosbach è titolare dello studio di architettura del paesaggio Mosbach Paysagistes, con sede a Parigi.
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Cino Zucchi
In lode di un’architettura just-out-of-time. Permanenze e mutazioni degli ambienti post-pandemici Passeggiare nel web. Ogni “catastrofe” spesso accelera fenomeni già presenti, rivelando di colpo la potenziale fragilità della loro struttura. La rivoluzione informatica aveva già modificato in maniera profonda il modo di abitare lo spazio domestico da parte dei cosiddetti millennials, e forse oggi ha trasferito di forza alcune delle sue caratteristiche sulle generazioni più vecchie, che sono state costrette dalla situazione a un addestramento informatico più veloce di quello militare subìto dagli adolescenti che Hitler mandò al fronte. Il cortocircuito e la perdita di un confine preciso tra la dimensione privata e quella pubblica è forse una delle conseguenze più evidenti dell’uso continuativo dei social media, e arriva a influenzare campi impensabili come l’economia e la politica nella sua costante oscillazione tra not-in-my-backyard, assemblearismo media46
tico, big data, populismo, fake news e social control. La distinzione operata da Michel de Certeau nel suo L’invention du quotidien (1980) tra la “strategia” propria delle istituzioni e le “tattiche” messe in atto dagli utenti – che trovano modi inediti di usare i sistemi e le procedure da queste stabiliti – potrebbe oggi essere trasferita dalla maglia della città a quella del web, analizzando come le nostre pratiche spontanee tendano a ibridare in forme sempre diverse l’uso dello spazio virtuale con quello dello spazio fisico. Passeggiare nella casa. Come la sfera di un indovino, la famosa sezione dell’“Un-House/Environment Bubble” concepita da Reyner Banham e François Dallegret nel 1965 raffigura come le connessioni mediatiche avrebbero potuto realizzare in futuro l’ideale di una casa-sacco amniotico potenzialmente ubiquo ma in connessione col mondo, e la scomparsa delle case come oggi le concepiamo. Basta peraltro un’istantanea scattata con il mio iPhone a uno dei miei quattro figli addormentato la mattina sul divano – questo anche ben prima della prigionia forzata dal coronavirus – per far crollare l’intera costruzione teorica dell’alloggio funzionalista e della sua corrispondenza biunivoca tra stanze e attività. In un raggio di non più di due metri dal suo corpo sdraiato troviamo un laptop con 47
le immagini congelate dell’ultima riunione di lavoro, una tazza di caffè, i resti di un pasto giappo-brasiliano ordinato a Deliveroo, un pacco Amazon Prime appena scartato, un cellulare con le icone delle tante app che costituiscono gli utensili vitali di un novello “uomo di Similaun” nell’ecosistema della città contemporanea. Ma come tradurre tutte queste considerazioni nella progettazione di nuovi alloggi? Se esiste una certa facilità nel cambiare gli spazi di un appartamento con l’arredo o con lo spostamento di muri, non possiamo buttare via interi edifici e quartieri come facciamo con uno smartphone obsoleto. Spesso viviamo in case e città costruite nel passato da persone con valori, tecniche e stili di vita molto diversi dai nostri. L’architettura arriva sempre a rispondere alla domanda che ha innescato il suo progetto leggermente “fuori tempo”; ma essa dura anche molto oltre il momento in cui il bisogno che l’aveva generata cessa o si modifica. Passeggiare nella città. Oggi ci stiamo gradualmente riappropriando degli spazi urbani, che abbiamo per un certo periodo contemplati liberi dalla concitazione quotidiana con un misto di stupore e desiderio. “Does your way of life need a city? Would you prefer to be a citizen of the world? Need there to be a gap between your dreams and the real environment? 48
Is the city still the landscape of the future?” erano alcune tra le domande provocatorie poste al pubblico dell’Expo di Osaka del 1970 dal gruppo radicale Archigram. Anche in questo caso, la cultura architettonica si stava interrogando già da prima della pandemia sulle conseguenze arrecate dai social media sull’uso dello spazio urbano. Ma anche qui, le profezie e le futurologie proiettive formulate dagli architetti non tengono conto di due importanti fattori: la relativa inerzia della forma urbana una volta costruita e l’imprevedibilità di eventi come crisi finanziarie, guerre o catastrofi ecologiche. I centri commerciali progettati su previsioni di mercato sono oggi abbandonati e demoliti. Le foto delle piazze italiane deserte durante il lockdown ci insegnano invece una cosa: gli spazi pubblici della città “consistono” sia vuoti che pieni, e non si contraggono come un pallone sgonfio se le persone restano a casa. Forse un buon ambiente urbano non dovrebbe essere costruito su stili di vita, sensori interattivi, diagrammi di traffico o previsioni sul cambiamento climatico, ma sugli stati più profondi del benessere umano. Un portico che ci ripara dalla pioggia, una panchina esposta al sole autunnale o l’ombra di un albero ben posizionato funzionano altrettanto bene per coppie di sbaciucchioni, anziane pettegole, bande di cyber-punk o esisten49
zialisti malinconici, e ci accolgono con dolcezza sia il giorno della nostra promozione che quello in cui ci muore un genitore. La vita di tutti i giorni mette continuamente alla prova e adatta gli spazi esistenti a bisogni imprevisti. In un mondo ossessionato dal just-in-time, pensare a un’architettura just-out-of-time vuole dire anche riflettere sulla lunga durata, sulla plasticità degli ambienti esistenti, sulla rigenerazione delle città, sul riuso, sui cicli di vita dei manufatti: una “nuova ecologia” capace di integrare ambiente urbano e ambiente naturale, dove l’innovazione tecnica non è un feticcio formale, ma uno strumento di azione responsabile in un pianeta sempre più piccolo e delicato.
Cino Zucchi è titolare dello studio Cino Zucchi Architetti e professre ordinario di Progettazione al Politecnico di Milano.
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Cynthia Davidson
Ho lasciato la città che amo la sera del 12 marzo con mio marito, il mio gatto di venti anni, il computer e due valigie di vestiti e di libri. Con il sindaco di New York che parlava di chiudere le attività non essenziali per contenere la diffusione del coronavirus in città, sembrava importante non soltanto lasciare il mio solito treno affollato di pendolari ma concedersi l’auto privata, anche se soltanto per un soggiorno di due settimane nella casa in Connecticut dove di solito trascorro i fine settimana. Quelle due settimane sono ora diventate tre mesi, e ancora non è finita; tuttavia il tempo non ha una forma reale, con le ore che si fondono in giorni senza nome, e lo spazio, quando non è contrassegnato a intervalli di due metri nei negozi di alimentari, si è ora appiattito alla schermata di Zoom. Grazie a Zoom, vado a New York almeno due volte a settimana, riducendo 130 chilometri e un viaggio di due ore a un click su un link – e anche a Los Angeles, Denver, Zurigo e Milano. Tele51
trasportami, Scotty. Adesso è la natura, non il ritmo della città o la puntualità di una sessione su Zoom, il mio vero legame con lo spazio e con il tempo. In questo ambiente bucolico ho osservato la primavera insinuarsi furtivamente nel paesaggio, poi esplodere d’improvviso nel canto degli uccelli e nelle fioriture. Esco andando incontro alla freschezza, al vento, all’umidità, al sole o alla pioggia, e sempre agli alberi, gli alberi che sono lì da decenni, addirittura secoli. Forse è questo riavvicinamento alla natura che mi ha portato a ripensare alla scoperta da parte del cacciatore di libri Poggio Bracciolini, nel 1417, del De rerum natura di Lucrezio, scritto intorno al 50 a.C. Per coincidenza, il De rerum natura finisce con i particolari sanguinosi di una pestilenza mortale ad Atene, ma quello che mi interessa è l’idea di Lucrezio dello scarto, del cambiamento di corso. Scrive: “Ma se non solessero declinare, tutti [i corpi primi] cadrebbero verso il basso / Come gocce di pioggia, per il vuoto profondo. Né sarebbe nata una collisione, né urto si sarebbe prodotto tra i primi principi, / Così la Natura non avrebbe mai creato nulla”. O come descrive Stephen Greenblatt, nel suo libro The Swerve: How the World Became Modern, collisioni casuali che, per quanto minuscole, – come, per esempio, un virus microscopico – costituiscono il 52
nostro mondo, la nostra natura. Il coronavirus è un fenomeno della natura. Il suo impatto sulla vita umana è devastante e la corsa per trovare un vaccino ci ricorda la nostra continua lotta non solo per comprendere ma anche per controllare la natura. Il ruolo dell’architettura nel plasmare lo spazio e il tempo ha fatto parte di quella lotta, e con il “distanziamento sociale” – in realtà il distanziamento spaziale – che entra nell’equazione per progettare lo spazio pubblico, cerchiamo ancora una volta di tenere a bada la natura. Se il coronavirus è uno scarto, allora la sua stessa visibilità può essere considerata un’allerta, un avvertimento per chi di noi lavora nel campo dell’architettura, chi progetta spazi e sceglie materiali e tenta di offrire un riparo civilizzato, del fatto che dobbiamo trovare un nuovo modo per venire a patti con la natura. Perché il prossimo scarto, probabilmente insito nel cambiamento climatico, potrebbe essere molto più devastante. Un giorno riprenderò il treno di pendolari per Manhattan; abbraccerò di nuovo amici e familiari. Per ora, abbraccio e ascolto gli alberi. Cynthia Davidson è executive director e editor di Anyone Corporation, Log, Writing Architecture Books, Anyspace a New York.
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Eric Bunge
Questo non è un ufficio; questa non è una casa. Ricordo a malapena la sensazione di trovarmi nel nostro ufficio ormai vuoto di Brooklyn, per non parlare dell’idea stessa di ufficio. Durante il primo breve ritorno per recuperare la mia sedia da ufficio, settimane dopo l’evacuazione, come da una nave che affondava, a metà marzo 2020, mi sono sentito circondato da fantasmi. Sullo sfondo di modelli semilavorati in attesa di un futuro incerto, schermi di computer senza corpo sfarfallavano in tempo reale, controllati a distanza dal nostro personale disperso. Come sembra lontano il passato recente! L’immenso investimento – concettuale, emotivo, logistico e finanziario – che abbiamo fatto sullo spazio fisico dell’ufficio è parallelo al nostro investimento sull’idea stessa di spazio. Come ci ricorda Adrian Forty in Parole e edifici. Un vocabolario per l’architettura moderna, il nostro attuale uso del termine “ufficio” nell’ambito della disciplina architettonica risale a poco più di un secolo fa. Nel prendere in considerazione le varie riformulazioni 54
dell’ufficio che sono state annunciate – il lavoro a distanza, la capacità ridotta, i turni alternati, la divisione dell’ufficio che fa di nuovo capolino, l’ufficio non come luogo di lavoro ma come luogo di incontro, nessun ufficio… – mi è venuto in mente che l’idea dello studio di architettura non è molto più vecchia. L’architettura ci sorprende in qualche modo per la sua capacità di continuare a funzionare, anche se lo spazio fisico dell’ufficio rimane un fantasma. Questo non è un ufficio, mi sono detto mentre chiudevo a chiave la porta del nostro spazio vuoto. È solo uno spazio. L’ufficio siamo noi. Tornato a casa, mi sono messo alla scrivania con la mia sedia recuperata. La nostra casa stava diventando tutto: la sede di nArchitects, la scuola per i nostri figli, la scuola remota per i nostri studenti di architettura, il centro di preparazione pasti non-stop e, naturalmente, a intermittenza, una semplice casa. Ho pensato, abbiamo forse bisogno solo di uno spazio non assegnato? Per molto tempo ho avuto dei sospetti sulla nozione di programma in architettura – un inconsistente comando dall’alto secondo cui dovremmo usare uno spazio così come prescritto. È così facile sovvertire un comando del genere, perché l’uso di uno spazio si discosti dalle intenzioni originali. E adesso sembrerebbe che l’idea di programma sia ancora più fragile di quanto pensassimo. Se utilizzassimo meno il programma, che ne sareb55
be allora della zonizzazione? Se, a quanto pare, da un giorno all’altro una casa può diventare un ufficio o una scuola, l’abitazione potrebbe facilmente diventare anche un ospedale o un albergo – tornando alle sue origini collettive – o perché no, un edificio per uffici? Da qualche tempo assistiamo a una convergenza e a una divergenza paradossale e simultanea degli usi in architettura: la tendenza al generico si è accompagnata alla specializzazione, mentre le ramificazioni programmatiche minori si affermano rapidamente come paradigmi. Il Covid-19 farà pendere l’ago della bilancia verso lo spazio generico? Come abbiamo visto in tutte le crisi della storia, queste hanno accelerato, se non del tutto rivelato, le tendenze latenti della società. Per l’architettura alcune di queste fanno paura, quali la messa in discussione della collettività e la potenziale diminuzione dell’importanza dello spazio. Ma nonostante le previsioni contrarie, i cambiamenti culturali e tecnologici spesso riposizionano piuttosto che sostituire: probabilmente non ne usciremo con una nuova idea di collettività e di spazio, ma con diverse idee contraddittorie. Per alcuni un ufficio sarà ancora una volta un ufficio, e una casa una casa. Brooklyn, 25 maggio 2020 Eric Bunge è cofondatore insieme a Mimi Hoang dello studio nArchitects e professore associato al GSAPP, Columbia University.
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Francesco Repishti
Come vivere insieme? Nata per difendersi dalle malattie, la quarantena era esercitata collettivamente in un luogo “altro”, chiuso e sottoposto a regole, come per tutte le istituzioni totali. La condizione attuale appare invece capovolta a favore di una quarantena personale all’interno di uno spazio autonomo e senza regole, se non quelle dell’autodisciplina. Dunque, non più parti della città destinate alla reclusione ma, al contrario, una dislocazione diffusa di singole celle (“Lo spazio della disciplina è sempre, in fondo, cellulare”; Michel Foucault). Un cambiamento definito anche positivamente come l’avvicinamento a una soluzione di “casa-mondo” dove tutti i consumi appaiono garantiti da una consegna a domicilio, fisica o virtuale (lavoro, divertimento, alimentazione…); ovviamente senza capire che questa regressione non vale per tutti. In questa condizione abbiamo anche osservato un cambiamento nell’uso di alcuni spazi domesti57
ci: come i balconi e i tetti-terrazze che, convertiti in palcoscenici, sono ritornati a essere luoghi di mediazione e hanno ritrovato i significati desiderati dal movimento moderno. Nel recente passato avevamo già intravisto ampliare le abitazioni con queste finalità (Frédéric Druot, Anne Lacaton & Jean Philippe Vassal), con progetti di recupero e soluzioni elaborate di superfici di interfaccia tra interno ed esterno e aree aperte destinate a svolgere proprio una funzione di “filtro” tra la dimensione intima dell’abitazione e il paesaggio urbano. Un’idea che alle piazze sostituisce una socialità intermedia e più orientata a un senso di responsabilità verso il più vicino. Il dispositivo della quarantena non è però un rimedio sufficiente alla malattia, così un secondo pilastro è stato individuato nel distanziamento sociale e fisico, amplificato dall’informazione e dalla paura generata dalle immagini di lunghe file di camion militari. Con il solo distanziamento è stata ulteriormente cancellata ogni dimensione collettiva: un comitato di tecnici ha disciplinato sulla base di un solo principio tutta la presenza, la circolazione e la sosta negli spazi aperti. Non è stato più ammesso vagabondare e perdersi; le panchine sono state smontate; l’indice di criminalità è crollato, mentre la percezione di cosa fosse reato si è innalzata, generata da una in58
comprensione delle norme. Per il controllo di queste azioni, non farmacologiche e dirette ai “sani”, sono stati incrementati e inventati sistemi di sorveglianza e sono state definite apposite ordinanze, autocertificazioni e sanzioni, così da incutere la paura di una punizione o di essere esposti alla spettacolarizzazione televisiva. Agli spazi aperti sono stati applicati meccanismi disciplinari: per ogni individuo è stato misurato uno spazio minimo, ogni luogo pubblico è stato normato, e in prossimità di alcuni punti sono apparse disegnate sul suolo organizzazioni spaziali che garantiscono l’ordine, come in un parcheggio per auto (riquadri poi usati come abitazione per individui senza fissa dimora). Il tutto nonostante la storia ci abbia insegnato che la ripartizione ordinata di umani in schemi geometrici è, da sempre, uno dei grandi divertimenti delle dittature. È molto facile prefigurare distopie più o meno catastrofiche, occorre invece capire come ritrovare soluzioni di partecipazione, una “poetica degli spazi pubblici dal basso”, come la definiva Aldo van Eyck, così da interrompere tali possibili distorcimenti. Ciò che conferisce un effettivo valore allo spazio pubblico sappiamo essere le persone che lo frequentano: appare così necessario ripensare a una serie di dispositivi, non più solo collettivi, ma diffusi e parte59
cipati. Come per i playgrounds si potrebbe ripartire da specifiche situazioni, dagli spazi interstiziali del tessuto urbano, da un preciso carattere o punti focali giĂ contenuti in essi, e, soprattutto, dalla collaborazione tra i residenti.
Francesco Repishti è professore ordinario di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano.
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Gabriele Pasqui
Tonalità emotive. Abitiamo il mondo nella flessione delle nostre tonalità emotive. Delle nostre angosce e speranze, delle nostre credenze. Mai come ora, di fronte a un futuro che sempre più assume i contorni dell’incertezza ontologica, irriducibile ai rischi calcolabili, dipendiamo dal nostro specifico modo di farci una ragione delle cose. D’altra parte, come scriveva lo studioso delle organizzazioni Karl E. Weick, il sensemaking è sempre postumo. Le tonalità emotive non sono solo una faccenda privata. Sono anche costruite socialmente, si nutrono di discorsi anonimi e di saperi comuni che prendono corpo nel discorso pubblico, ma anche dei linguaggi specialistici e dei nostri gerghi disciplinari. Nel mondo dell’architettura e dell’urbanistica, ma più in generale degli studi urbani, mi sembra di riconoscere una oscillazione tra due tonalità emotive. Una prima, che potrei definire “apocalittica”, riconosce nella pandemia un evento destinato a mutare in
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modo radicale i nostri modi di vita e le nostre forme d’uso dello spazio, l’organizzazione della produzione, della distribuzione e del consumo, le pratiche di mobilità, gli assetti insediativi. Qualcuno si è spinto a immaginare, e a proporre, una controurbanizzazione, una risalita dalle città verso le aree interne e marginali, una riconquista dei borghi abbandonati. Altri pensano a città nelle quali sperimenteremo il “totalmente altro”, dal punto di vista tecnologico, estetico, sociale. Una seconda tonalità emotiva immagina invece che l’emergenza finirà senza lasciare troppe tracce, come è stato per altre epidemie della storia, che i modelli insediativi e la struttura dei nostri territori non muteranno in modo significativo e che, in definitiva, tutto tornerà (più o meno) come prima. Certamente, una forte crisi investirà le economie mondiali e i mercati urbani: proprio per questo si tratterebbe di riavviare al più presto i motori. Come si diceva una volta: “se gira il mattone, gira l’economia”. Business as usual. Personalmente non mi sento di aderire a nessuna di queste prospettive, perché credo che persistenze (assetti di potere, immaginari, istituzioni) e rotture coesistano in qualunque condizione di crisi. Proprio per questa ragione, penso che il nostro compito, come professionisti e come studiosi che si occupano delle città, dei territori e del modo in cui li abitiamo, sia 62
innanzitutto quello di proporre un’agenda di lavoro, sensibile a quanto ora possiamo vedere e a quanto è ragionevole immaginare per un periodo medio e breve. Un’agenda capace di influenzare la discussione pubblica e, se possibile, le scelte politiche e di policy, che provi ad assumere la condizione di contesto che abbiamo davanti (nuova centralità degli investimenti pubblici, rilievo della dimensione spaziale dei fenomeni sociali, attenzione alla salute) come un campo di sperimentazione per progetti e programmi realistici di transizione ecologica delle città e dei territori, capaci di diminuire le disuguaglianze e di farsi carico di ridurre gli effetti negativi della pandemia sugli individui, le popolazioni e i territori più fragili.
Gabriele Pasqui, economo e filosofo, è professore ordinario di Politiche urbane al Politecnico di Milano.
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Giancarlo Mazzanti
Condividere il mondo. Oggi viviamo la sensazione che le nostre vite siano prese in prestito, quasi fossimo spettatori di una realtà che è in attesa di qualcosa. Viviamo in uno spazio-tempo eterotopico, come descritto da Foucault; una condizione spazio-temporale che si contrappone agli spazi normali in cui siamo stati abituati a vivere durante la nostra intera esistenza. Questa condizione ci ha portato fuori dal tempo normale e quotidiano, cancellando, neutralizzando il tempo e, per nostra fortuna, ci ha messo in crisi e ci ha fatto pensare. Sentiamo dire ogni giorno che tutto cambierà. Non sappiamo come e in che modo, ma sicuramente ci saranno due possibili scenari di questo cambiamento. Il tempo lo dirà. Il primo, terrificante e molto vicino al mondo nichilista e globalizzato, è quello basato su misure adottate in funzione della paura, con la chiara intenzione di controllare la popolazione con la scusa della pande64
mia. Questo porterebbe a una società fondata sulla crescita e sulla produttività dell’economia come obiettivo principale e unico, al servizio di pochi e a scapito di tutti gli altri, e produrrebbe un’architettura simile a quella attuale ma esacerbata, basata sul controllo e sulla sorveglianza, sulla speculazione economica e sull’individualismo come fattori principali. Il secondo, pieno di speranza, è quello basato sulle idee di Fiducia e Prossimità, in particolare con la natura che ci circonda; il che porterebbe a una costruzione materiale di cui ogni attore animato o inanimato che compone il mondo fa parte senza gerarchie prestabilite, in cui l’idea di comunità e di bene comune siano i pilastri di una disciplina estesa a tutti. A un’architettura in cui il valore non stia solo in se stessa, ma anche in ciò che può essere in grado di promuovere in termini di interazioni sociali, nuovi tipi di rapporti e comportamenti, nella quale l’umano non prevalga sulla totalità degli attori che abitano e occupano il mondo. In cui l’enfasi sia posta sulla condizione performativa dell’architettura stessa e non soltanto sulla sua condizione materiale. “Cosa può salvarci?” si chiedeva Heidegger. “Non soltanto un dio; non soltanto la creazione artistica; non soltanto l’oratoria politica; ma anche la prossimità”. La crisi che stiamo vivendo è un laboratorio per 65
creare in futuro nuove forme di rapporti sociali e, di conseguenza, per la costruzione materiale di uno spazio più in linea con le esigenze di tutti gli attori – umani e non umani – che compongono il mondo, affinché ognuno abbia voce in capitolo. Cambierà sicuramente il nostro modo di costruire la vita sociale, cambierà certamente la nozione di spazio tradizionale: quello spazio moderno, asettico e neutro, basato soltanto sull’efficienza e la produttività come sistemi organizzativi. Tutto questo comporterà un ripensamento profondo del senso dello spazio. Potremmo affermare che la nozione di spazio cesserà di indicare un luogo astratto e vuoto per riferirsi piuttosto a un luogo di mediazione e accordo tra i diversi agenti, viventi e inerti, che compongono il pianeta; ciò include la comprensione delle molteplici e complesse connessioni tra persone, materiali, animali, tecniche, specie, ecosistemi, associazioni, interessi economici, ecc. Non possiamo continuare a pensare lo spazio soltanto come risultato dell’efficienza funzionale e produttiva degli esseri umani. La questione centrale dovrebbe essere come pensare architetture basate su nuove forme di relazione tra i diversi agenti che compongono lo spazio, come ad esempio gli habitat degli animali, i legami comunitari, gli ecosistemi, le eterotopie, il mondo vegetale, 66
la meteorologia; tra i molteplici modi di definire uno spazio condiviso e prossimo tra tutti gli esseri. Questo approccio produrrebbe architetture basate su altre nature, come ad esempio facciate per nidificare in grado di mantenere la temperatura interna, coperture solari che consentano anche la vita animale, vuoti che connettano le attività e favoriscano la crescita di piante commestibili, spazi anomali che aiutino a scoprire nuove relazioni sociali e animali, ecc. L’obiettivo dovrà essere sempre più quello di produrre accordi tra abitanti umani e non, che aiutino a condividere il mondo, permettendo la costruzione di un’architettura aperta, multipla e plurivoca; dove non solo i bisogni umani costruiscano lo spazio e dove l’architettura si faccia promotrice di nuovi strumenti che consentano ai diversi attori di rispondere alle nuove sfide sociali e ambientali. “Se non scopriamo come il mondo possa venire condiviso, non ci sarà più mondo da condividere” (Bruno Latour).
Giancarlo Mazzanti è fondatore di El Equipo Mazzanti, studio di architettura e ricerca con sede a Bogotà.
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Gianluca Didino
Se qualcosa rimarrà di questa pandemia saranno i sogni: l’attività onirica stranamente vivida di cui ha fatto esperienza tutto il mondo durante e dopo il lockdown, una rete di simboli grande quanto il globo, una versione-ombra del nostro presente. È mai successo prima d’oggi che tutta l’umanità sognasse la stessa cosa? Durante la quarantena, chiuso nel mio appartamento londinese di cinquanta metri quadri, mi è tornato in mente quanto scriveva Gaston Bachelard nella Poetica dello spazio: “la casa protegge il sognatore, la casa ci permette di sognare in pace”. Durante la pandemia la casa ci ha protetto dalle minacce del mondo esterno, ma i suoi confini, irrigidendosi, ci hanno anche separati gli uni dagli altri, barricandoci nel sospetto reciproco. La soglia di casa è diventata un muro: tutto ciò che entra ed esce deve essere controllato, vagliato, sanificato. Con l’eccezione dei sogni: attraverso i sogni la minaccia dell’esterno è penetrata nelle pareti di casa (in 68
questa capacità di attraversare i muri, come sapeva già Schopenhauer, i sogni sono simili ai fantasmi). Allo stesso tempo, grazie ai sogni ci siamo aperti all’esterno inaccessibile nella vita diurna. La casa permette al sognatore di sognare, ma i sogni non sono mai pacificati. Mi è anche tornato in mente un altro interprete francese dello spazio, Georges Perec, e il suo tentativo di scrivere una “autobiografia notturna” nei 124 sogni raccolti nella Bottega oscura. L’attività onirica di Perec data gli anni compresi tra il 1968 e il 1972, anni in cui a Parigi il sogno aveva valenze politiche. Oggi i nostri sogni sembrano avere invece un significato diverso, quello dell’elaborazione collettiva di un trauma. Sono, come scriveva James Hillman, prodotto del “lavoro della morte”, che non ha più spazio nel mondo illuminato dalla luce del sole. Durante una pandemia, sembra logico che questo lavoro richieda più energie, che i rapporti di forza tra mondo diurno e notturno si ribaltino. Chiuso in casa durante le ore del giorno per conformarmi alle regole del distanziamento sociale ho cominciato a fare passeggiate la notte: lunghe camminate tra le colline del sudest di Londra, piccole case addormentate, parchi vuoti illuminati solo dalla luce spettrale della luna piena. Un mondo simile a quello 69
di tutti i giorni, ma al contrario. Per le strade quasi nessuno. In lontananza, oltre il fiume, i grattacieli del distretto finanziario di Canary Wharf vuoti da settimane, il respiro della macchina capitalista che si è fatto quasi impercettibile nel sonno a cui è stata costretta. Mi chiedo se sia possibile scrivere la biografia notturna di una città, la sua storia-ombra. Gli unici compagni di queste passeggiate sono le volpi, che escono da un giardino vuoto e rimangono a guardarti in mezzo alla strada, attente ai tuoi movimenti. Nel primo episodio di Sogni di Akira Kurosawa, al piccolo protagonista viene impedito di uscire di casa per paura delle volpi, che nel simbolismo giapponese non solo possono tramutarsi in uomini e manipolarne la volontà ma anche penetrarne i sogni rendendoli indistinguibili dalla realtà. A volte, nella città deserta, mi viene da chiedermi se questa sia la realtà e non un sogno. Come Zhuāngzǐ, non posso mai essere certo di essere un uomo che sogna una farfalla e non viceversa. Tantomeno adesso, in questa città irreale, in questi tempi irreali.
Gianluca Didino è un giornalista e scrittore italiano e vive a Londra.
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Jean-Christophe Bailly
Speranza? La speranza di vita dell’architettura si tende su un arco che va dal cantiere alla rovina. Se si tende ancora quell’arco si ha, prima del cantiere, tutto lo spazio di ideazione e, oltre la rovina, quello della scomparsa. Ora, con la crisi che ha scosso il mondo intero, questa dilatazione continua del periodo di esistenza dell’architettura ha appena subito una significativa interruzione. Mentre si profilava in lontananza lo spettro di una generalizzata rovina indicizzata sul registro della catastrofe, per settimane i cantieri hanno cessato di esistere: le città, svuotate di abitanti visibili, non solo hanno preso ad assomigliare alle scenografie di un film che nessuno più poteva girare, ma hanno anche dovuto lasciare che si spegnessero al loro interno le aree, grandi o piccole, collegate alla loro permanente trasformazione. Forse questa esperienza della città immobilizzata, al di là di quello che ha potuto avere di spaventoso o di affascinante, potrebbe diventare uno spunto di riflessione che inda71
ghi sulle ragioni stesse dell’architettura? A tutti i settori di attività si pone oggi, in modo del tutto nuovo, la domanda sul loro futuro, che è caratterizzata dal famoso e universale prima/dopo. Anche per l’architettura, la domanda è brusca e semplice: deve puramente e semplicemente riprendere relegando all’oblio l’episodio della sua interruzione? Oppure, alla luce di quanto è apparso nella sfera sociale con la crisi della pandemia, deve riconsiderare le sue prestazioni? Va da sé che è proprio su questo fronte che esiste per essa la possibilità di una ripresa veramente fondata, che sia in sintonia con il mondo. Poiché, lo vediamo, l’entusiasmo e la cattiva fede tecnocratici hanno generato ovunque nel mondo una quantità di architetture prive di intelligenza, che si sono accontentate di eseguire serie solitarie invece di pensare collettivamente accordi. La dilatazione del grande, la sopravvalutazione simbolica, le logiche dell’oggetto che fosse un grande oggetto, il gusto della prodezza – tutto si paga: il risultato, si sa ma non si osa veramente dire, è quello di un duplice impoverimento – della forma della città e del mestiere di architetto. Si tratta certo di una questione etica e di comportamento, ma che implica in primo luogo decisioni relative allo spazio e alla suddivisione dei volumi nello spazio. L’abbiamo appena visto e vissuto, una città non attraversata, non 72
percorsa, è una città morta. Che cos’è dunque l’attraversabile? Proprio questa domanda attraversa tutti gli ambiti dell’architettura, a cominciare dai terreni edificabili, in cui il rapporto di forza tra pubblico e privato deve essere interamente rivisto, evidentemente nella direzione di una forma a sciame, inventiva e diffusa di uno spazio pubblico integralmente ritrovato e in cui mai l’architetto giocherebbe la carta di ciò che la burocrazia e i media chiamano, come se fosse scontato, “distanziamento sociale”. Parigi, 2 giugno 2020
Jean-Christophe Bailly, scrittore, poeta e drammaturgo francese, insegna all’École de la Nature et du Paysage di Blois.
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Jeffrey Schnapp
Dieci spunti per l’architettura post-pandemica. Oltre l’automobilità. Così come l’automobile scrisse la sceneggiatura per la città e i piani urbanistici del XX secolo, la mobilità locale sta ora scrivendo la sceneggiatura per i loro discendenti. Camminare, girare in monopattino, andare in bicicletta, potenziati dal trasporto pubblico, fornirà il tessuto connettivo all’interno dei cerchi concentrici del quartiere, della città e della regione. Auto che si guidano da sole? Saranno limitate a circuiti controllati e a bassa densità. Autocarri a guida automatica? Potranno governare il regno delle autostrade. L’auto-mobilità post-pandemica sarà strategica (non universale). Architetture per la consegna a domicilio. L’ambiente costruito rimane ancorato a modelli di consegna postale antecedenti al XXI secolo, che prevedono di norma l’uso di buste di carta. La norma attuale è in74
vece il pacco, altamente variabile per dimensioni, forma, volume, valore e sensibilità al tempo. Ogni pacco ha bisogno di una stazione di trasferimento sicura, non solo di una cassetta della posta, di una porta di casa o di un portico. Nelle aziende e nelle case, dove si troverà questo luogo di consegna che non necessita di contatto? Che forma dovrebbe assumere? Manterrà la frutta fresca o la pizza calda? Ritorno in periferia. Le megalopoli sono il futuro, ma i giovani cittadini traslocano sempre di più in periferia rifuggendo dai costi elevati delle abitazioni del centro città e alla ricerca di spazi verdi. Come si potrebbero progettare periferie libere dalle auto e che offrano le stesse opportunità del centro città? La natura come hot spot. La campagna è almeno tanto adatta al cambiamento tecnologico quanto lo sono i complessi, compressi e intrattabili palinsesti che chiamiamo città. Ed è sempre più cablata. Le fattorie intelligenti sono fatte per restare. Come rinvigorire le interconnessioni città-campagna man mano che l’urbanizzazione avanza e la campagna si fa sempre più smart? Come possiamo fare leva sul potere delle reti di rilevamento e dei sistemi informatici per sostenere una migliore gestione dei paesaggi naturali? 75
Hub residenziali di microtransito. Mentre i vettori di micromobilità riempiono il vuoto lasciato dalle automobili ad uso privato (condannate all’esilio nelle periferie urbane), dove andranno tutte le biciclette, le e-bike, i monopattini elettrici e i nostri droni terrestri quando siamo al lavoro, a divertirci o a casa? Invece di infilarli tra le auto o di ammassarli, volenti o nolenti, in spazi inadatti, come possono essere inseriti senza soluzione di continuità nell’ambiente fisico su micro, meso e macro scala? Che aspetto ha un parcheggio per un robot o una porta d’appartamento a misura di bicicletta? Sharing economy. Monopattino, automobili, Airbnb: poco importa, la sharing economy sta vacillando sull’orlo di un abisso. Il rimanere in casa e la proprietà privata sono tornati in voga, ma ora sono collegati in rete. La condivisione si riaffermerà sotto forma di reti locali faccia a faccia e/o virtuali? In che modo l’architettura può favorire una connessione sempre più intensa con i luoghi (interconnessi)? Not smart enough. Mentre le grandi città del mondo sono costruite su strati e strati di intelligenza ed esperienza umana incrostata, le smart cities sono fondate su una premessa discutibile: che la città sia una specie 76
di computer i cui problemi sono riconducibili a questioni di hardware e software. Tecnologia ≠ smarts. Come possiamo implementare i sistemi di informazione, rilevamento e governance che saranno parte integrante delle città future in funzione di valori condivisi come la qualità della vita, il senso di comunità e la sostenibilità ambientale? Smart o no, la sfida più faticosa che le future megalopoli dovranno affrontare sarà quella delle infrastrutture costruite con il venerato metodo del mattone e della malta. La strada come marciapiede (e viceversa). Le automobili private riconquisteranno il terreno che hanno ceduto a seguito della riconversione, ispirata dal Covid-19, delle strade cittadine a spazi per pedoni e biciclette con distanziamento sociale? I superblocchi, la città di quindici minuti, le piste ciclabili, il pedaggio urbano e le zone pedonali sono qui per rimanere. Possano le strade (di nuovo) appartenere alle persone. Le sedi del telelavoro. L’ufficio in casa oggi occupa una posizione indefinita tra luogo di lavoro, spazio domestico riadattato e discendente del vecchio studiolo, gabinetto o biblioteca. Quale forma potrebbe assumere un nuovo spazio di lavoro pubblico/privato che rifletta le dinamiche peculiari dello smart working in casa? 77
“Spazi” virtuali site-specific. Mentre le piattaforme online per il lavoro, lo scambio economico, l’interazione sociale e la comunicazione culturale espandono il loro impero, le pressioni verso la de-standardizzazione aumenteranno. Le comunità online cercheranno di forgiare architetture sempre più differenziate con caratteristiche quali la persistenza, la personalità, la reattività in tempo reale e la differenziazione funzionale (tra sale d’attesa virtuali, aule, cliniche, corridoi, cucine, soggiorni e camere da letto). Come far sì che una home page trasmetta la sensazione di sentirsi a casa e una work page quella di essere a lavoro?
Jeffrey Schnapp, linguista, medievalista, storico, designer e scrittore, è direttore del metaLAB (at) Harvard.
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José María Ezquiaga
Quando negli ultimi anni ricordavamo che la battaglia decisiva contro il cambiamento climatico si sarebbe combattuta nelle città, difficilmente potevamo immaginare che queste fossero in procinto di combattere un’altra battaglia contro un nemico insidioso, crudele e invisibile. Come è noto, le grandi lotte contro le epidemie del passato hanno lasciato un segno profondo nella nostra memoria collettiva ma anche un lascito duraturo e ancora riconoscibile negli strumenti di progettazione e gestione della città: dal controllo capillare della città zonizzata, alla gestione delle infrastrutture primarie alla valutazione statistica del rischio, e alla formulazione di soluzioni abitative di base. Il Covid-19 ha profondamente destabilizzato lo spazio pubblico e le infrastrutture vitali della città aprendo la possibilità di promuovere tendenze rivoluzionarie rispetto alla visione urbana convenzionale. Difendere la città mediterranea. La densità è associata 79
al concetto di intensità. Sappiamo da Simmel che si tratta di uno dei caratteri essenziali della città moderna, la base su cui poggiano l’accumulo di conoscenza, lo scambio di idee e la creatività. Una delle questioni più urgenti che le città devono affrontare è risolvere la contraddizione tra la densificazione, intesa come limitazione razionale del consumo di suolo, e la dispersione territoriale, che nel contesto della pandemia sembra associarsi meglio al distanziamento sociale. A mio parere, tuttavia, esistono ragioni di ampio respiro per continuare a sostenere il modello denso, continuo e compatto della città mediterranea. L’intensità dell’interazione sociale stimola l’innovazione e la creazione nella sfera economica, scientifica e culturale. Dal punto di vista ambientale la densità è fondamentale per ridurre il consumo di suolo, il consumo energetico e le emissioni di carbonio. Rende possibile una mobilità pulita, che privilegia gli spostamenti a piedi sulle brevi distanze e un trasporto pubblico efficiente per la mobilità su scala metropolitana. Un nuovo contratto civico. Le misure di distanziamento sociale durante l’emergenza sanitaria hanno rafforzato la consapevolezza del valore dei vincoli tra persone e gruppi diversi. Questo ha evidenziato i vantaggi di quei luoghi in cui è possibile accedere a piedi ai servizi di prima necessità e i benefici collaterali della 80
riduzione della mobilità, quali il visibile miglioramento della qualità dell’aria e la riduzione del rumore. D’altra parte, ha reso evidente il conflitto tra uno spazio viario progettato al servizio dell’automobile, le esigenze della mobilità pedonale e quelle delle attività economiche a livello della strada. È dunque necessario un nuovo contratto civico a favore della priorità pedonale e delle nuove esigenze di una popolazione urbana sempre più variegata. Non si tratta di ampliare i marciapiedi per rendere possibile il mantenimento della distanza di sicurezza, quanto piuttosto di ridefinire il ruolo dello spazio pubblico a partire da nuovi criteri. Dare priorità al comfort e alla sicurezza dei pedoni. Attivare la vitalità e l’intensità della strada stimolando la più ampia varietà di attività. Promuovere un processo di rinaturalizzazione della città basato su un’infrastruttura verde multiscalare, che coinvolga dalle più piccole aree verdi di quartiere fino ai grandi spazi naturali e rurali su scala regionale. Abitazioni produttive e gestione intelligente del tempo. Il definitivo superamento delle soluzioni urbanistiche basate sullo zoning monofunzionale deve cedere il passo al mix intenzionale di attività economiche, ricreative e residenziali in ogni parte del tessuto urbano. Le nostre “abitazioni produttive”, dove hanno convissuto lavoro e 81
cura della famiglia, connessione sociale e intimità personale, sono l’avanguardia di una trasformazione molto profonda dell’architettura residenziale. L’espansione del telelavoro comporterà un cambiamento radicale nella progettazione degli spazi di lavoro e aprirà nuove opportunità per la reinvenzione e la trasformazione dei business centers. Progettare la città visibile è uno strumento insufficiente per gestire la complessità urbana contemporanea. Durante l’emergenza sanitaria siamo stati soggetti a una regolamentazione oraria dell’utilizzo dello spazio pubblico. Questa circostanza ci ha resi consapevoli dei suoi limiti e dell’importanza della sua qualità, ma anche dei ritmi e dei modelli temporali che organizzano la nostra vita quotidiana. Il miglioramento della mobilità non dipenderà soltanto dal potenziamento delle infrastrutture ma anche, in misura maggiore, da una gestione intelligente del tempo. Il cambiamento più profondo deve però avvenire nel rinnovamento della dialettica tra pubblico e privato, che incorpori la dimensione sociale e l’esperienza temporale nel progetto spaziale della città.
José María Ezquiaga è professore ordinario di Urbanistica alla ETSAM di Madrid ed è titolare dello studio Ezquiaga Arquitectura Sociedad y Territorio.
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Juan Herreros
3.000 caratteri su presente e futuro per Lotus. La profusione di sforzi per intendere il presente come un tempo di transizione degli esseri umani sulla terra e per predire un futuro incerto si basa sul sospetto che non abbiamo reagito a tempo di fronte a una minaccia latente e sulla preoccupazione di non conoscere tutte le equazioni del futuro più immediato. Per principio voglio rinunciare al gioco perverso delle profezie divinatorie con le quali placare l’ansia generata da questa incertezza, per cui mi limiterò a quello che mi preoccupa davvero. Primo: il mondo ha confidato troppo nella crescita continua come unica forma di progresso. Città, musei o studi di architettura non hanno conosciuto altra forma di successo che quella dell’espansione. Sappiamo tuttavia da cinquant’anni che questa corsa ha una fine, una brutta fine, che abbiamo sempre immaginato lontana; ora però scopriamo che la stiamo già 83
vivendo e che noi umani siamo parte del problema. Secondo: come architetto, la domanda che mi pongo è che cosa si aspetta o si dovrebbe aspettare da noi il mondo di fronte a questa situazione? In questo scenario ciò che sembra più difficile è che l’architettura abbia l’opportunità e la libertà per essere propositiva dinanzi alle novità che si profilano. Mancanza di libertà che va di pari passo con la complicità fra i settori più commerciali della professione e l’economia neoliberale – la parte più grave del problema – e il suo consolidato sistema ricattatorio. Terzo: forse il sistema dell’architettura così com’è strutturato oggi, intorno a una serie di grandi studi professionali che incrociano a malapena nel loro percorso una quantità di studi di piccola e media dimensione – cui è demandato il grosso del lavoro e che davvero hanno un impatto sulla vita quotidiana delle persone – è in crisi. Mentre i primi sono stati protagonisti di un’implacabile colonizzazione del mondo in via di sviluppo, l’importanza dei secondi su questioni fondamentali come la storia locale, il recupero di un vero dialogo con la natura o la costruzione di una felicità quotidiana, lontana dal consumo come unica forma di omologazione globale, non è stata abbastanza valorizzata. 84
Quarto: mai come adesso è stata necessaria una pratica professionale basata sulla teoria, la ricerca e la costruzione di un pensiero critico. La solidarietà, l’impegno e l’accettazione dell’altro fanno parte del codice deontologico della nostra professione. Abbiamo bisogno di una nuova generazione di committenti, di programmi pubblici avanzati e sperimentali e di forme collettive e trasversali di lavoro professionale che ancora non esistono. Mantenere la struttura attuale è comprensibile soltanto in un’ottica di paura o di nostalgia. Quinto: è cruciale lasciare alle nuove generazioni uno spazio in cui l’architettura abbia un ruolo determinante di fronte alle sfide di inclusione sociale, emergenza ambientale e rinnovamento tecnologico. In caso contrario l’architettura diventerà una disciplina superficiale e i suoi protagonisti diventeranno esponenti della “vecchia normalità”. Madrid, 17 maggio 2020
Juan Herreros è professore di Professional Practice al GSAPP della Columbia University e titolare dello studio di architettura Estudio Herreros.
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Kengo Kuma
Per Lotus, Lockdown Architecture. Nel blocco delle città dovuto alla calamità del coronavirus, si è potuto vedere chiaramente da dove venisse e dove stesse andando la storia dell’architettura, e anche che direzione dovrebbe invece prendere d’ora in poi. In sintesi, possiamo dire che la storia dell’architettura è la storia della creazione di scatole, la storia dell’ingrandimento di queste stesse scatole. All’interno delle scatole sono stati creati spazi efficienti, ma per quanto concerne ciò che era all’esterno di esse, qualsiasi cosa andava bene. Al mattino, le persone si dirigevano verso quelle scatole, stipate in altre scatole di ferro dalle quali venivano trasportate. Di fatto, erano costrette a lavorare per l’intera giornata in modo per nulla efficiente, anzi solo stressante, all’interno di scatole malsane. La sera, venivano nuovamente stipate dentro altre scatole e trasportate. Gli esseri umani, all’interno delle scatole, erano controllati non solo in termini di spazio, ma anche di tempo. Tuttavia, nessuno percepiva questo 86
come qualcosa di innaturale, e non c’era nessuno che si dicesse insoddisfatto perché infelice. In questo senso, la calamità del coronavirus ci ha insegnato qualcosa di molto importante. Che dobbiamo uscire dalle scatole e riappropriarci del nostro spazio. Ci ha insegnato che dobbiamo riappropriarci del nostro tempo. Quindi, usciti dalle scatole, dove è bene che ci dirigiamo? A me non piace l’assurda discussione secondo cui l’era della struttura centripeta è finita e dobbiamo passare a una struttura diffusa. E neppure mi piace l’argomentazione secondo cui dobbiamo lasciare le grandi città e creare, in mezzo al verde, smart city fondate sulla prossimità tra abitazione e luogo di lavoro. Tali dispute non fanno altro che cercare di risolvere il problema creando nuove scatole in zone decentrate o nel verde, che però non sfuggono affatto al vecchio stile di creazione delle scatole. Non fanno altro che cambiare l’ubicazione delle scatole, cambiarne la confezione, ma l’essenza dell’atto di creare scatole rimane la stessa. Non si può costruire una scatola senza distruggere qualcosa che si trova in quel luogo. Questo gli uomini lo hanno dimenticato. In quel posto ci sono la natura e la storia. Siccome non voglio distruggerle, in quel luogo vorrei gradualmente aggiungere qualcosa senza costruirvi una scatola. Così facendo vorrei procedere trasformando i luoghi esterni alle scatole in luoghi 87
per gli esseri umani. In Giappone, a questo metodo di progettazione per aggiunte è stata tradizionalmente attribuita una grande importanza. La distruzione finalizzata alla creazione di una nuova scatola era considerata una cosa poco elegante e le si preferiva l’apporto di minimi cambiamenti. Anche la creazione di scatole chiuse non è mai stata amata in Giappone. Si è invece preferito rendere il confine tra l’esterno e l’interno il più vago possibile, evitando di creare uno spazio chiuso e creando invece spazi liberi che permettessero di sentire sempre la natura. Quando si decide di uscire all’esterno delle scatole, gli spazi tradizionali giapponesi ci offrono molti suggerimenti. Noi ora siamo ad un punto di svolta della storia. Dopo un lungo, lunghissimo processo nel quale ci siamo diretti verso le scatole, ci siamo finalmente resi conto dell’infelicità, della mancanza di libertà che esse comportano. Noi dobbiamo uscire dalle scatole e cominciare a camminare, dirigendoci nuovamente verso le foreste.
Kengo Kuma insegna architettura alla Univerity of Tokyo ed è titolare dello studio di progettazione Kengo Kuma & Associates, con sede a Tokyo e a Parigi.
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Louisa Hutton
Pensieri introspettivi da Berlino. All’inizio della pandemia di Covid-19 ci siamo trovati nel bel mezzo della progettazione di una mostra che avrebbe dovuto essere inaugurata nel nostro Museo M9 di Mestre questo maggio, in parallelo con la Biennale di Architettura di Venezia. Entrambe le aperture sono state spostate a maggio 2021. Dal momento che la mostra include circa trentasei progetti tratti dal nostro lavoro passato e attuale, ripensarci in questo momento comporta sicuramente una prospettiva più acuta e più critica sui temi della sostenibilità – sia ambientale che sociale – riguardo all’architettura, alla città e alla nostra vita in generale. Ho scoperto che l’isolamento ci ha costretti a un grado di introspezione quasi esistenziale sia a livello personale che professionale. Il rallentamento della vita e del lavoro, la riduzione degli spostamenti, ma soprattutto le enormi e destabilizzanti incertezze che riguardano sia il futuro immediato che quello a breve
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e lungo termine, quasi tutte sembrano portare a contraddizioni apparentemente irrisolvibili. Quella più enorme, almeno nel mondo sviluppato, è forse l’improvvisa messa in discussione degli stili di vita urbani. Mentre la maggior parte di noi vive in città per il duplice vantaggio dello scambio sociale ed economico – il 50% della popolazione mondiale vive nelle città, che forniscono l’80% della produzione economica globale – la pandemia, in una svolta decisamente antiurbana, suggerisce un movimento verso la de-densificazione che porterà a una maggiore espansione abitativa e al suo conseguente uso di auto private, così come, naturalmente, alla tentazione di coprire ancora più il nostro suolo non costruito con asfalto ed edifici. A peggiorare questa situazione, si dice che nei prossimi quarant’anni si prevede che la superficie globale pavimentata di nuova costruzione raddoppierà: una statistica piuttosto inquietante. Un’ulteriore contraddizione riguardo all’esistenza stessa della città deriva dalla nostra dipendenza dalla tecnologia digitale: il lockdown ha visto un aumento esponenziale della comunicazione online e dei meeting virtuali di ogni tipo. Nella lettura più pessimistica entrambi sembrano mettere in discussione la necessità di spazi pubblici, di incontri pubblici e di edifici pubblici – in breve: delle città! Confidiamo però nel 90
comportamento umano – in fondo siamo una specie decisamente sociale –, e nel fatto che la conservazione della nostra vita e della cultura urbana sviluppatasi nel corso dei millenni continuerà a esistere, e forse sarà perfino rafforzata da nuove alleanze. Mentre le molteplici minacce – e al tempo stesso molte drastiche conseguenze – del cambiamento climatico e la derivante perdita di biodiversità sono diventate sempre più evidenti e urgenti negli ultimi anni, è chiaramente il fenomeno improvviso del Covid-19 che ha fatto scoppiare la bolla del nostro compiacimento per il modo in cui, per decenni se non per secoli, abbiamo maltrattato il mondo: il nostro ambiente, i nostri simili e noi stessi. Siamo stati costretti, letteralmente, a “scendere sulla terra” e ad affrontare gli eccessi dei nostri consumi, e con questo l’interconnessione di tutti i tipi di scambio globale (alimentato dal turbo-capitalismo) che rendono possibili i primi. Come dice la virologa Ilaria Capua, il Covid-19 è una malattia del nostro stile di vita. I governi di tutto il mondo hanno dimostrato come siano in grado di prendere misure immediate e drastiche nei loro vari approcci per contenere il virus, tenendo il capitalismo in sospensione, come è stato fatto. Se da un lato hanno costretto l’individuo e la sua libertà a sottomettersi al bene superiore della 91
società, dall’altro hanno dimostrato quali benefici si possono trarre dall’ambiente (compresa la nostra salute per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico) con una significativa riduzione dei livelli di emissione di CO2. I cittadini hanno recuperato le loro strade e conosciuto i loro vicini e i loro quartieri. Spero che la nostra condizione di vulnerabilità, ancora un po’ surreale, con la sua costante esposizione alla fragilità del nostro mondo, sarà sufficiente, nei prossimi mesi e anni, a forzare un sostanziale cambiamento comportamentale su molti livelli. Come individui, negli ultimi tre mesi, ci siamo lentamente abituati a uno stile di vita un po’ più semplice, certamente più “fondato”, basato sull’essenziale e privo di molte abitudini che – come comprendiamo ora col senno di poi – davamo per scontate. Il più grande compromesso è stato ovviamente la mancanza di contatti sociali a livello personale oltre che culturale. Con il graduale ripristino di tali connessioni, che sono necessarie e che migliorano la nostra qualità di vita, stiamo ora riemergendo in una posizione in cui dovremmo ricalibrare le nostre priorità. Poiché ognuno di noi ha dimostrato empatia, rispetto e gentilezza nei confronti dei propri vicini, delle comunità locali e dei nostri Paesi e – nei migliori dei casi – dei Paesi vicini, potremmo continuare ad 92
accontentarci di meno non solo della nostra vita personale, ma anche di quella professionale. La responsabilità dell’individuo nei confronti della società deve trovare eco in una nuova integrità architettonica, che rispetti il pianeta e che valorizzi il riutilizzo adattativo del patrimonio esistente, mettendo prima di tutto in discussione la necessità della demolizione. 9 giugno 2020
Louisa Hutton è fondadrice e partner dello studio di architettura e urbanistica Sauerbruch Hutton, con sede a Berlino, fondato a Londra con Matthias Sauerbruch.
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Luca Molinari
Difficile da dire. È difficile per me scrivere dell’esperienza Covid-19 in questi giorni. Durante la fase intensa della quarantena mi sono buttato sulla ricerca e la scrittura come strategia per non perdere il contatto con la mia realtà e, intanto, osservare il mondo nella sua drammatica metamorfosi, ma oggi, nei primi giorni della “fase 2”, vivo piuttosto un senso di sottile sconcerto strattonato tra chi urla alla prossima apocalisse e gli opposti che fanno finta di niente riempiendo le piazze dell’after-hours. In fondo, quando cinque miliardi di persone vivevano contemporaneamente in quarantena, chiusi nelle proprie celle abitative e interconnessi come mai era avvenuto nella storia dell’umanità, sembrava più semplice leggere quello che stava avvenendo, ma adesso che le carte si stanno rapidamente mescolando, tutto diventa complesso da interpretare. Mi si racconta che nelle cene eleganti, come benvenuto si offre insieme al flûte di champagne un test
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per verificare la positività dell’invitato. Un gesto gentile per abbattere le preoccupazioni e, insieme, per fare sentire la comunità temporanea sicura e protetta. Non oso immaginare una situazione in cui uno degli astanti possa risultare positivo. L’imbarazzo, la gentilezza comprensiva degli altri e quel progressivo aumentare della distanza fisica, un salutare frettoloso per tornare in una necessaria quarantena sociale e sanitaria. Credo che sarà molto interessante seguire le dinamiche sociali e le scelte politico-sanitarie dei prossimi mesi per capire quanto incideranno sui nostri modi di vivere e progettare i luoghi sia collettivi che privati. L’onda lunga dell’11 settembre ha generato conseguenze importanti introducendo il tema della sicurezza e della vulnerabilità degli spazi pubblici all’interno dei concorsi e delle richieste dei committenti. Ma credo che l’effetto di questa pandemia sarà molto più diffuso e profondo con conseguenze difficili da valutare in questo momento. Torneremo tutti all’auto privata invece che usare i mezzi pubblici? Ci chiuderemo in casa o in micro-comunità protette, decretando un temporaneo abbandono della città, e la stessa cosa avverrà tra gli Stati e i continenti? Smetteremo di viaggiare limitando al minimo gli spostamenti, attivando la crisi del modello globalista che sembrava ormai consolidato? Vivremo la fine 95
del termine share che sembrava plasmare le nostre metropoli? Quale modello tra un ipercapitalismo di reazione e una visione ecologica alternativa prenderà il sopravvento nella ricostruzione di un sistema economico atterrito dalla crisi? Che effetto avranno parole come distanza e sicurezza nel plasmare i nostri luoghi collettivi? Nel frattempo evito di ascoltare i troppi profeti prêtà-porter dell’architettura che monopolizzano i quotidiani con interviste e proclami interessati solo alla propria centralità mediatica ma indifferenti ad una realtà molto più sottile e complessa. Mentre constato che la più evidente conseguenza di quello che l’umanità sta vivendo è il rafforzarsi di un divario sociale ed economico che rischia di crescere, generando conseguenze visibili nella nostra vita oltre che nei territori che abitiamo. Un tema interessante è emerso in questi mesi, sottolineato da alcuni linguisti che, analizzando i social, hanno evidenziato il preponderante uso della parola “noi” su “io”; si tratta di uno slittamento simbolico significativo che dovrebbe farci riflettere e indurre il mondo dell’architettura e delle amministrazioni pubbliche a impegnare le proprie risorse sulle aree più povere, in cui monta rabbia e rancore verso chi avrà la fortuna di stare in una casa protetta e smart. 96
Non si tratta di fare i missionari, ma di guardare dove sono i veri problemi, recuperando il ruolo del progettista come civil servant in un mondo che ha un disperato bisogno di visioni utili ad affrontare questa profonda metamorfosi di sistema. 24 maggio 2020
Luca Molinari è professore ordinario presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” e titolare dello studio di consulenza e curatela per l’architettura Luca Molinari Studio.
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Marco Biraghi
Quattro effetti della seclusione. Tali e tanti sono gli effetti nefasti prodotti dalla pandemia (in campo sanitario, economico, sociale) da rendere perfettamente pleonastica, in questa circostanza, una loro mera elencazione e impossibile qualsiasi loro valutazione analitica. Da qualunque punto di vista li si voglia osservare, si tratta di effetti che lasceranno dietro di sé segni durevoli, di portata e gravità difficilmente calcolabili. Ma accanto a questi effetti ce ne sono altri, legati all’esperienza individuale che ciascuno di noi ha compiuto in questo periodo, che meritano qualche attenzione. Anche in questo campo, numerosi sono gli effetti negativi provocati dalla seclusione forzata. Ma tra questi, alcuni sono di segno diverso, quantomeno per il carico esperienziale e conoscitivo di cui sono portatori. Un primo effetto riguarda la considerazione dello spazio pubblico. Dopo anni di polemiche e lagnanze sulla presunta “sparizione” dello spazio pubblico dalle nostre città, la condizione di seclusione ha rivelato con
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grande evidenza che lo spazio pubblico è tutto quel che sta fuori dal nostro dominio strettamente privato. Sperimentando la segregazione all’interno del nostro spazio domestico, abbiamo (o dovremmo avere) capito che marciapiedi, strade, piazze, parchi, giardini, stazioni, mercati e in generale tutti i luoghi che offrono occasioni di socialità (anche con finalità commerciali), costituiscono lo spazio pubblico di cui lamentiamo quotidianamente l’assenza. Un secondo effetto riguarda la considerazione dello spazio domestico. Per molti la seclusione ha coinciso con una riscoperta (positiva o negativa, a seconda dei casi) degli spazi abitativi. Vivendoli con un’assiduità e un’intensità altrimenti sconosciuta in precedenza, gli spazi della casa hanno (o dovrebbero avere) rivelato ai rispettivi abitanti aspetti che erano rimasti loro ignoti, facendo emergere il possibile utilizzo di spazi fino a quel momento trascurati oppure – all’opposto – manifestando la mancanza di spazi rimasta fino a quel momento nascosta. Un terzo effetto riguarda la coscienza dello spazio domestico. Nel corso dei mesi di seclusione molte persone sono state costrette a venire a contatto con funzioni primarie ma al tempo stesso prima di allora completamente trascurate della vita domestica: funzioni svolte spesso in via esclusiva dalla componente femmi99
nile (quando presente), o in alternativa da personale di servizio: cucinare, fare le pulizie, riordinare la casa. In diretta conseguenza di ciò molti hanno (o dovrebbero avere) appreso non soltanto capacità relative a mansioni specifiche ma più in generale il valore e l’onerosità dell’economia domestica. Un quarto effetto riguarda la coscienza dello spazio pubblico. Forzati dalle necessità imposte dalle norme di sicurezza sanitaria e dal distanziamento sociale, siamo tornati ad osservare lo spazio (ma l’avevamo mai fatto prima d’ora?), valutandolo non tanto esteticamente quanto piuttosto dimensionalmente, arrivando addirittura, in certi casi, a misurarlo materialmente (nei negozi, nei locali pubblici, nei luoghi d’intrattenimento). In tal modo abbiamo (o dovremmo avere) imparato ad avere più consapevolezza dello spazio fisico che ci circonda, dopo averlo a lungo “dimenticato”, assorbiti perlopiù dalla dimensione virtuale. Quattro effetti positivi della seclusione che dovremmo avere la capacità di riconoscere e che – anche una volta cessata – dovremmo cercare di non dimenticare.
Marco Biraghi è professore ordinario di Storia dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano.
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Marina Otero Verzier
Volto e territorio ai tempi della pandemia. Oggi, durante una delle tante videochiamate quotidiane, ho deciso di disattivare la possibilità di vedermi. Non si trattava di nascondere il mio “look Covid-19/2020”. Mi sono improvvisamente resa conto che, nelle ultime settimane, mi sono guardata troppo. Costantemente, come mai prima: il mio viso stanco, incorniciato da griglie disegnate da piattaforme di comunicazione. C’è qualcosa di inquietante nel vedersi mentre si parla con gli altri, o, più in particolare, nel guardarsi mentre si parla con gli altri. Con il passare delle settimane, mi sto abituando alle misure senza precedenti che gli Stati e i governi hanno messo in atto per prevenire il diffondersi della pandemia. La nostra infrastruttura digitale ha drasticamente e immediatamente cambiato le attività sociali, culturali ed economiche di milioni di persone – intervenendo per dare una continuità al contatto intimo con i propri cari e alla vita pubblica. Ciò che 101
mi sconvolge ora è che siamo diventati una società di volti incorniciati. La distanza sociale ci costringe a ritirarci in ambienti politici sempre più piccoli e isolati. Abitare in città una volta implicava una continua vicinanza con gli altri, ma nel clima attuale l’incontro con gli estranei è socialmente condannabile, un capriccio praticato a scapito della vita umana. Ora la città sembra un percorso ad ostacoli d’evasione. Questa combinazione di paura dell’altro e di sguardo costante su se stessi è pericolosa. L’allontanamento sociale ha conseguenze più profonde che separare le persone. Potrebbe essere un’arma usata per fini di consenso politico e servire da alibi per normalizzare la privatizzazione della vita pubblica, la sorveglianza illimitata della popolazione, il consolidamento delle frontiere e l’aumento del nazionalismo e della xenofobia. A breve termine, la virtualizzazione della vita e del lavoro permette a molti di noi di mantenere il lavoro, di mantenere un certo contatto sociale e persino – alleluia – di ridurre le emissioni planetarie. Ma queste misure straordinarie non hanno ancora indebolito – né intendono indebolire – le strutture di estrazione, sfruttamento e discriminazione preesistenti. È il momento di concepire e mettere in pratica forme alternative di organizzazione e di azione collettiva 102
basate sulla solidarietà, l’empatia, la ridistribuzione delle risorse e la cura per gli altri. Eppure passiamo il tempo a guardare noi stessi, intrappolati in una griglia che segmenta e separa mentre ci vende una falsa immagine di uguaglianza. Un’uguaglianza in cui siamo o volti senza corpo, separati digitalmente dai nostri volti vicini, o corpi senza volto, coperti e protetti da possibili incontri pubblici. Non ho formule magiche per uscire da questo pantano. Per ora, sfido i privilegiati come me, che passano tutto il giorno in videochiamate, a smettere di guardarsi. Perché in realtà non guardiamo noi stessi, ma la nostra immagine piatta e mercificata. Disinnescare il volto vuol dire forse rompere i muri, uscire da se stessi, dare vita a nuovi sviluppi, relazioni, forme di solidarietà. Non guardare questa versione di sé significa vedere se stessi in relazione agli altri: vedere gli altri e immaginarsi con gli altri. È un gesto politico e creativo che ci collega al mondo in modi non ancora immaginati, senza linee che ci inquadrano e ci separano.
Questo testo è stato originariamente pubblicato col titolo Face and Territory in Times of Pandemic in “Avery Shorts”, 13 maggio 2020. Marina Otero Verzier, architetto e curatrice spagnola, dirige il dipartimento di ricerca del Het Nieuwe Instituut di Rotterdam.
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Mario Botta
L’introduzione del cosiddetto “lavoro remoto”, interpretato attraverso la comunicazione elettronica come un cambiamento solo strumentale, di fatto comporta uno stravolgimento totale della creatività, che ne risente profondamente. Il lavoro tradizionale lento, dallo schizzo iniziale al disegno, ai modelli e ai piani definitivi, portava con sé i tempi di riflessione, di critica e di continue modifiche. In altre parole offriva la possibilità di crescita per una qualità del progetto. Il lavoro a distanza purtroppo serve solo a chi progetta per catalogo, dove le soluzioni sono precostituite, schematiche e dozzinali. L’America e la Cina ne sono i massimi esempi. Non credo nelle nuove ere ma nella continuità data da generazione in generazione. Penso che la città trovi la propria forza nell’essere la storia dei popoli estinti. La città, ancora oggi, è la forma di aggregazione più bella, più performante, più funzionale, più flessibile, più intelligente che l’umanità, dal Neolitico fino ai 104
nostri giorni, ha saputo realizzare. I nostri tessuti urbani custodiscono l’espressione più evoluta del lavoro dell’uomo, delle fatiche, del sapere, dei desideri e delle speranze collettive. La forza della città non è data dalle funzioni o dai servizi alle quali risponde ma soprattutto dal “territorio della memoria” di cui l’uomo ha immensamente bisogno. Non è possibile vivere senza passato. Le contingenze con le loro emergenze passano, le città restano. Storicamente le città, dopo epidemie e catastrofi, hanno sempre saputo ottenere benefici per la vita comunitaria. Dopo la peste, ad esempio, ci sono stati miglioramenti delle infrastrutture sanitarie, canalizzazioni, fognature che si sono consolidate come conquiste quando hanno interpretato i bisogni collettivi. La città, come tutti i manufatti dell’uomo, dovrà continuamente correggersi lungo la propria storia. Come lo farà dipenderà ancora una volta dagli uomini. Io credo che il vivere collettivo resterà il grande desiderio, al di là delle contingenze e delle emergenze. La città è la forma di vita sociale più evoluta. Per questo è necessario vigilare. La maggiore densità non è un bene in se stessa così come non lo è il culto di una libertà economica senza limiti, della quale stiamo percependo sempre più un inquietante senso di insi105
curezza, di timore, forse anche di paura. Il coronavirus passerà… la città, i borghi, le periferie e le case resteranno in attesa che altri uomini le trasformino come hanno sempre fatto nella storia. Le abitazioni dei nostri paesi nei secoli si sono sempre adattate allo spirito dei tempi. Molte strutture agricole sono diventate prime o seconde case, l’intero villaggio di Corippo sarà un albergo diffuso, la casa del Vescovo ospiterà addirittura un’altra istituzione. Questa continua stratificazione è la vera ricchezza della nostra bella vecchia Europa, della quale Karl Kraus ricordava ai nostalgici che un tempo fu nuova. Quel che è certo è che prossimamente, soprattutto per ragioni economiche, dovremo parlare e ragionare sempre più in termini di “riuso”, cioè dare una nuova funzione alle strutture obsolete. Un modo per far rivivere il passato cambiandone le destinazioni d’uso, senza usare nuovo terreno, senza altre infrastrutture, senza ulteriori urbanizzazioni.
Il testo è tratto dall’intervista a cura di Andrea Stern La città trova la propria forza nella storia, in “Il Caffè”, 10 maggio 2020. Mario Botta, titolare dello studio di progettazione Mario Botta Architetti, fondato a Lugano e con sede a Mendrisio, è tra i fondatori dell’Accademia di Architettura di Mendrisio.
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Mauro Baracco e Louise Wright
Caro Pierluigi, Che piacere ricevere la tua lettera. Un caro saluto a Nina. Noi tutto bene, ci sembra. Il piccolo Frank è tornato a scuola. Ogni mattina quando ci svegliamo, Louise si ferma un attimo e si concentra sulla gola. Fa male?… no. Questo è ciò che dicono, devi avere mal di gola. È l’unica cosa che ci è chiara. Ti stiamo scrivendo subito dopo aver ritirato il tosaerba che avevamo portato a riparare. In realtà non c’è più molta erba alla Garden House, sostituita a sua volta con specie più endemiche che probabilmente erano lì una sessantina di anni fa. Ultimamente ci passiamo molto tempo. Abbiamo anche dovuto comprare una lavatrice. Pensando al “tempo di prima”, in cui tutti i vari eventi, incontri, viaggi, ristoranti… erano parte integrante di una rete che ci faceva ondeggiare qua e là, ci viene da dire che l’interruzione della vita frenetica cui eravamo abituati, beh, ci sembra più che altro un approdo. Piedi per terra, tutto fermo, via le scarpe! Reale. 107
È forse troppo ovvio dire che il nostro rapporto con la natura al di là di noi stessi è stato messo in discussione? Per una volta abbiamo smesso di calpestare il giardino con i nostri pesanti stivali e il resto della natura è riemerso da dove si nascondeva. Ci auguriamo che lo spazio creato dalla crisi pandemica in corso possa indurre cambiamenti, resi possibili dal decentramento dell’uomo, al fine di ripensare la rigenerazione del mondo naturale alle sue stesse condizioni. Anche l’architettura, dal nostro punto di vista, dovrebbe rimanere un po’ più ferma. Sedersi, per un momento; stare tranquilla; lasciare spazio agli altri e all’alterità; mantenere le distanze. Un’architettura più silenziosa si farebbe da parte e sarebbe in grado di stare lontana da luoghi in cui non dovrebbe esserci. Sarebbe soddisfatta di fare la sua parte stratificando la città. Sarebbe più agile e propensa alla condivisione, tesa a trasformare e rigenerare se stessa piuttosto che a voler apparire “nuova” ogni volta. Qui a Melbourne e in tutta l’Australia, così come in tutto il mondo, molti spazi potrebbero trarre vantaggio dall’essere trattati con maggiore attenzione e cura – potrebbero essere trasformati, convertiti, riadattati a varie e flessibili forme di prestazioni, così da essere in grado di offrire livelli ulteriori e diversificati di utilizzo, prendendo le distanze da quei grandi anonimi conte108
nitori dalle facciate pretenziose che avrebbero dovuto rappresentare il futuro, o almeno così si diceva fino a pochi mesi fa. Insieme, noi e l’architettura, possiamo partecipare al mondo dal nostro luogo, allo stesso tempo rivolgendo il nostro sguardo e la nostra attenzione alla terra intorno a noi, al suolo sotto i nostri piedi. La nozione di Terrestre di Bruno Latour, intesa come un richiamo al senso locale basato sulla cura dei nostri luoghi (piuttosto che sulla protezione e la separazione dallo “straniero”) eppure aperto al mondo, sembra particolarmente rilevante: “Il fatto è che il Terrestre dipende dalla terra e dal suolo ma è anche mondiale, nel senso che non si inquadra in alcuna frontiera, che va al di là di ogni identità.” (Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, 2018). Un caro saluto, Louise e Mauro
Mauro Baracco e Louise Wright sono fondatori dello studio di architettura, ricerca e curatela Baracco+Wright Architects, con sede a Melbourne.
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Michael Maltzan
È possibile che i sobborghi tornino a prenderci? La gran parte dello sviluppo storico della città in cui vivo e lavoro è stata definita dalla costruzione incessante di un tappeto apparentemente infinito di case unifamiliari, che si estendono orizzontalmente e senza sosta in tutte le direzioni. Inserite poco per volta in quel tessuto urbano sorgono una casa e un’altra e un’altra ancora… ognuna con il suo “cordone sanitario” costituito da un cortile anteriore, posteriore e laterale, che separa i vicini l’uno dall’altro a volte con una striscia di spazio vuoto, anche se altrettanto spesso quello spazio è colmato da un’orticoltura variegata che può mettervi radici. Quello spazio, e l’occasionale giardino, sono un lusso che ha finito per rappresentare l’immaginario di questa regione, benché nasconda le più inquietanti e insidiose divisioni e disparità sociali che affliggono Los Angeles, con la sua aspirazione di città “multiculturale”. Nel decennio scorso la traiettoria di questo genere 110
di sprawl alla piccola scala ha cambiato direzione, con uno spostamento verso forme di maggiore densità urbana. Questo è il risultato dell’esigenza pratica di un maggior numero di abitazioni, dovuta principalmente all’aumento costante della popolazione, ma anche l’effetto di anni di lavoro per incrementare le reti del trasporto di massa, creare centri sociali più forti e pianificare una gestione delle risorse più efficiente. Dove non sono però mancate le battaglie… Torniamo indietro a qualche anno fa. Siamo nel pieno del lavoro finalizzato a ottenere il permesso per il progetto di un complesso di cinque piani con settanta abitazioni a costo accessibile nel bel mezzo della San Fernando Valley, il tipico paesaggio costruito del dopoguerra nella California del sud. L’edificio è destinato a reduci di guerra senza casa. Si tratta di un terreno abbandonato, con una pianta lunga e sottile, un tipico lotto edificabile che costeggia una tipica strip principale, il cui fronte stradale è scandito da esercizi commerciali per lo più a un piano… un negozio di alimentari, una società di garanzia, un rivenditore di bevande alcoliche… l’altra estremità del terreno si trova accanto a una strada senza uscita di case unifamiliari. La nostra proposta consiste in un edificio che “galleggerà” in un nuovo paesaggio cercando di inserire il nuovo giardino nei giardini privati sparsi del quartiere 111
circostante e di incoraggiare la percezione di un paesaggio collettivo e connesso. Il quartiere si solleva in massa per protestare contro il nuovo edificio. Gli argomenti non sono nuovi ma il dibattito è acceso. “Questo progetto rovinerà il carattere della comunità”, “È sproporzionato”, “Stiamo costruendo con troppa densità nella Città”. Pur sapendo che i nuovi appartamenti serviranno una parte della popolazione che “vive” già nella comunità, e che aiuteranno a stabilizzare una minaccia crescente per la comunità derivante dall’inaccessibilità delle case e dai senzatetto, il timore di cosa e chi la densità potrebbe portare lascia pochi spiragli nell’argomentazione. Dopo mesi di riunioni e di dibattito pubblico finalmente l’edificio ottiene i permessi per andare avanti, ma l’approvazione sembra fragile e incerta. La possibilità di risolvere i reali problemi sociali, economici e di parità in questa regione dipende in larga misura da forme di maggiore densità, ma questa nuova forma emergente della città è ancora ben lontana dall’essere sostenuta. Durante questa pandemia la California è stata vista come un esempio positivo. È stato sottolineato come la nostra “curva” sia stata tenuta ragionevolmente sotto controllo principalmente grazie agli interventi tempestivi dello Stato e del governo locale… ma è 112
percepibile come sullo sfondo inizi a prendere forma il pensiero collettivo che la bassa densità e la separazione fisica abbiano avuto un ruolo altrettanto importante. È inevitabile che questo argomento venga sollevato sempre più spesso nei dibattiti pubblici contro un futuro a maggiore densità. Sarà un argomento potente, specialmente quando alimentato dalle paure e dalle ansie sommerse, cicatrici croniche che rimarranno a lungo anche dopo che la fase acuta dei traumi subiti dalla nostra psiche collettiva inizierà a scemare. Lo slancio verso una città evoluta, che rappresenti più fedelmente i cambiamenti dinamici con cui la regione continua a doversi confrontare, deve vedersela ancora una volta con un nuovo argomento a favore di una vecchia forma.
Michael Maltzan è titolare dello studio di architettura e progettazione urbana Michael Maltzan Architecture, con sede a Los Angeles.
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Michel Desvigne
Parigi, il lungosenna e la zona a monte. Vivo su un’isola, un’isola della Senna, a Parigi. E contemplo le banchine del fiume. Durante questi due mesi di confinamento, guardavo tutti i giorni i lungosenna totalmente deserti. Così deserti da perdere ogni dimensione, da diventare un paesaggio; tutto il mio paesaggio. Il “giorno dopo” e tutti i giorni seguenti li ho visti riempirsi, quasi voracemente, e quello straordinario desiderio di spazio pubblico metteva allegria. A me dava gioia soprattutto osservare la folla festosa, avida di quegli spazi che un tempo erano strade e che oggi non sono oggetto di alcun programma né attrezzate in alcun modo. Forse per ritrovare quel vuoto, per recuperare il mio paesaggio effimero ormai perduto, ho pedalato lungo le rive oltre la folla, risalendo il fiume. Stordito e un po’ intimidito, ho costeggiato per la prima volta il mio fiume spingendomi un po’ più lontano, oltre l’aeroporto a sud della città. Il primo viaggio dopo l’assenza, 114
alle spalle dei comuni delle periferie, delle stazioni di smistamento, degli impianti di depurazione e delle tangenziali. Forse questo paesaggio a monte non esiste. Non si vede. Non ha forma, non è un tutto, ma è fatto di aggiunte posteriori, di sfondi scollegati tra loro. A qualche chilometro dall’Île Saint-Louis, il fiume appare come il limite di questi sfondi, una frontiera, un confine tracciato dagli amministratori, astratto come una carta geografica. Il fiume è un osso rosicchiato. Potevo rallegrarmi nella convinzione che questa situazione fortuita mi aveva finalmente consentito di collegare la mia città e e le banchine del suo fiume alla zona a monte, alla geografia. Grazie a questo improbabile viaggio sul posto, ho capito soprattutto quanto sarebbe semplice trasformarne il percorso: così come ho fatto a Bordeaux, progettato a Detroit, messo in pratica a Minneapolis, ammirato a Boston, è facile concedere un po’ di spazio al fiume e ridare vita alle sue rive. Non è mai troppo tardi. In questo modo, i lungosenna parigini – diventati in tempi recentissimi importanti spazi pubblici – si trasformerebbero in una sequenza di parchi, parte di un sistema a misura della Grande Parigi. Michel Desvigne è titolare dello studio di architettura del paesaggio MPD Michel Desvigne Paysagistes, con sede a Parigi, e insegna all’Università di Harvard.
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Mirko Zardini
Inaspettate, o prevedibili e convenzionali? Le crisi ci sorprendono, ma non giungono mai inaspettate. Generalmente non portano con sé nuove idee e soluzioni. Ci costringono tuttavia a stravolgere le nostre priorità e ad accelerare alcuni dei processi in atto. Guardando a ritroso troviamo sempre, e facilmente, le tracce e le anticipazioni di quanto sarebbe poi accaduto. Nel caso di questa crisi sanitaria basta tornare alle recenti epidemie della Sars (2001) o Mers (2012) per trovare i documenti che anticipavano una nuova epidemia, suggerivano soluzioni, proponevano piani e strategie. Il fallimento che ci troviamo a vivere non può quindi essere imputato alla mancanza di avvertimenti o alla scarsezza delle risorse disponibili. Semplicemente eravamo occupati in altre cose, avevamo “altre priorità”. Convenzionali come sanno essere, le crisi non portano con sé nuove idee o paradigmi. Esse però ci costringono a privilegiare alcune delle direzioni già in 116
atto, a cui non avevamo prestato fino ad allora troppa attenzione. Così è accaduto con la crisi del 1973, quando il problema dell’approvvigionamento delle risorse energetiche diede un breve impulso alle politiche di riduzione del consumo energetico e di sostegno per le energie alternative, già da decenni parte delle sperimentazioni architettoniche, ma che fino ad allora erano state considerate con una certa sufficienza. Nel caso della crisi terroristica-militare seguita all’attacco al World Trade Center di New York del 2001 e ai successivi attacchi terroristici in tutto il mondo, abbiamo assistito non solo alla militarizzazione camuffata degli spazi pubblici delle nostre città, ma soprattutto all’accelerazione e alla proliferazione dei meccanismi di controllo, esercitato ad un primo livello attraverso l’uso delle telecamere (il riconoscimento visivo) e ad un secondo livello attraverso il controllo dei dati e la manipolazione dei nostri comportamenti. Lo scoppio della bolla finanziaria del 2008 avrebbe dovuto segnare la fine, in architettura, della stagione contrassegnata dallo star-system. Non più trophy buildings (musei, centri congressi, avveniristiche sedi di corporations), ma case, scuole, parchi, servizi sociali generosi verso le esigenze degli abitanti. Considerando la situazione in cui ci troviamo, non sembra sia veramente accaduto. 117
Questa crisi (come quelle più recenti generata da virus zoonotici, apparsi negli animali selvatici e trasmessi poi all’uomo) ci costringerà forse ad affrontare il problema dell’ambiente non solo da un punto di vista energetico o climatico, ma attraverso una riflessione più vasta che includa il nostro rapporto con le specie viventi. L’idea di cura dovrebbe informare non solo la pratica medica, ma la società (l’economia della cura), e anche il nostro rapporto con l’ambiente (prenderci cura di). Tuttavia questa nuova considerazione per l’ambiente può nascere solo attraverso nuovi sguardi, idee, parole, narrazioni. Questo dovrebbe essere il compito delle istituzioni che pretendono di avere a cuore il nostro futuro (e presente, e passato).
Mirko Zardini, architetto, autore e curatore, insegna all’università di Princeton ed è membro del Board of Trustees del Canadian Centre for Architecture, di cui è stato direttore dal 2005 al 2019.
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Paolo Deganello
Brazil. In Brasile, sotto grandi alberi molto diradati, sono già scavate, su una terra rossastra, ordinate e estese file di fosse, perfettamente rettangolari, tutte uguali e numerosissime. Appena vengono riempite di bare vengono coperte dalla stessa rossastra terra da solerti ruspe gialle. La pandemia continua la decimazione delle popolazioni indigene già realizzata nel 1970 dalle epidemie di morbillo e pertosse. La foresta amazzonica va liberata dai suoi abitanti, sotto la foresta ci sono preziosi metalli che è bene estrarre. A questo servi signora pandemia? A liberare la foresta dai suoi abitanti e a far fuori quei vecchi figli del benessere che la medicina ha tenuto troppo a lungo in vita? La pandemia si è adagiata su disuguaglianze sempre più esasperate e crudeli e su una crisi economica contrassegnata da crisi della domanda ed eccesso di capacità produttiva. C’erano già i piazzali delle industrie automobilistiche pieni di auto invendute, prodotte nel 2018 e 2019. La pandemia ha fermato tutto 119
e, chiusi in casa, ci siamo detti… e adesso? I miei figli mi hanno definito un soggetto a rischio e mi hanno affettuosamente chiesto di stare in casa. Quale può essere la vita di un soggetto a rischio? Da alcuni anni mostro ai miei studenti tre progetti: il Neues Museum di Berlino di Chipperfield, la Fondazione Prada di Koolhaas, e la scuola nel Burkina Faso di Kéré. Propongo loro di progettare per aggiornare, reinventare il già costruito, e cerco di convincerli che la scuola di Kéré è la nuova architettura. È un’architettura che usa la terra dove la si costruisce, è inventata in funzione di un clima impietoso, utilizza tecniche aggiornate e manovalanze locali di un territorio afflitto da analfabetismo e povertà cronica. Faccio vedere ai miei studenti di design le architetture perché più chiare ed esaurienti della miriade di merci che il design ormai senza sosta e ragione continua a legittimare esteticamente. Ma ha ancora senso costruire nuove sedie? … per di più in plastica? Dopo la crisi del 2008 le proteste di massa, nelle strade di tutti i continenti, sono aumentate dell’11,5% in un decennio. A questa crescita continua contribuisce una nuova generazione di giovanissimi, che in tutto il pianeta, uniti nella sigla Fridays for Future, chiedono un “Ritorno al Futuro”. Mettono giustamente insieme crisi climatica e pandemia, che vogliono entrambe cancellare con la “transi120
zione ecologica”. A loro invece molti, con sufficienza, dicono che importante è la crescita economica, che tutto ritornerà presto come prima, che la pandemia è una parentesi a cui seguirà il ritorno nella “normalità”. È proprio quella “normalità” l’oggetto del loro rifiuto. Sono un soggetto a rischio e ho una nipote che ha solo otto anni ma che vorrei crescesse così in fretta da accompagnarmi nelle loro manifestazioni per il “Ritorno al Futuro”. Sarei certamente un corpo estraneo, parte di quella generazione che ha distrutto loro il futuro, ma proprio a loro spiegherei che cerco da tempo di insegnare ai nuovi progettisti di dare piccoli contributi alla loro “transizione”. Milano, 1 giugno 2020
Paolo Deganello, architetto e designer, tiene corsi di Ecodesign all’Isia di Firenze e Sustainable Design alla FIDI di Firenze.
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Pippo Ciorra
Il mio ovvio desiderio, immagino globalmente condiviso, è che le cose tornino progressivamente alla “normalità”. Ci vorrà tempo e ci saranno danni economici, culturali e psicologici con cui fare i conti. Conviveremo a lungo col new normal, ma certamente – in questi casi torna sempre in mente Hobsbawm – il progresso umano si basa anche sulla propensione a dimenticare il dolore degli errori e delle sconfitte subite e andare avanti. L’alternativa non potrebbe che essere paralisi e regressione. Tuttavia, il trauma prolungato che stiamo vivendo non è di quelli da cui si esce velocemente e con facilità. È un po’ come una guerra – uno stato di stress intenso e prolungato, ben diverso per esempio da quello di un terremoto. Non si riesce a recuperare se non riusciamo collettivamente, come genere umano, a imparare dall’esperienza vissuta e a trasformare quello che impariamo in un seme di innovazione positiva, quale che sia il campo di applicazione di questo progresso. Questo breve testo è allora un’occasione per indicare 122
tre campi d’azione nei quali la pandemia potrà probabilmente lasciare tracce interessanti nel nostro ambito culturale, tutti e tre (inevitabilmente) localizzati nella sfera dell’abitare e della sua relazione con la vita lavorativa e sociale dell’individuo. Il primo e più ovvio ha a che fare con lo spazio della casa. In rete, sui giornali, sulle news televisive troviamo già centinaia di progetti-lampo di architetti e designer che ci fanno vedere come grazie agli arguti ed eleganti dispositivi che ci propongono possiamo facilmente trasformare casa nostra in un mini-ufficio, mini-palestra, mini-giardino, mini-bar, eccetera. Tutto utile e interessante, almeno quello che non arriva a irritare i nostri nervi e la nostra sensibilità, se non altro perché stimolerà gli architetti a rimettersi a fare ricerca sul tema dello spazio domestico, decisamente negletto negli ultimi decenni in favore di concetti più astratti come residenza o tipologia. Tranne però che tutto sommato, ed è forse ancora più interessante, le nostre case, piccole o grandi, urbane o “nei borghi”, si erano a quel punto già dimostrate capacissime di tollerare l’espansione delle funzioni verso lo spazio di lavoro, di socialità e svago virtuale, di cura a allenamento del corpo, eccetera. Ancora una volta l’architettura della casa si è dimostrata la più duttile e la più resiliente, nonostante sia tutto sommato la stessa da alcuni millenni. D’altronde già in passato 123
ha più volte dimostrato la sua capacità di assorbire con discreta indifferenza shock sociali, sanitari, tecnologici, climatici, religiosi e antropologici ancora più profondi di quello procurato dal Covid-19. Come in passato, infatti, la sfera delle dotazioni che potrà cambiare più radicalmente nelle nostre case e luoghi di lavoro non sarà probabilmente quella spaziale, o quella delle relazioni architettoniche con l’esterno, ma piuttosto – ancora una volta – quella delle infrastrutture. Tornando per un momento alle innovazioni accelerate dalle guerre, anche in quel caso l’innovazione avvenne soprattutto nel campo delle reti e degli strumenti necessari per governarle. Sembra evidente che sarà così anche questa volta. Nel breve periodo le città avranno il problema di gestire il conflitto tra la paura persistente e il bisogno di recuperare progressivamente il livello di interazione fisica che permette a una società di vivere e sostenersi. Insomma quello strano ibrido che in Italia cominciamo a vivere in questi giorni, sovrapponendo “vita digitale” e “vita virtuale”. Più avanti, quando ci saremo riassestati ma vorremo aver imparato qualcosa da questa catastrofe, inclusione vorrà per esempio dire che tutte le case devono essere dotate di banda extra-larga e connettività garantita. Non credo si tratti solo di fare lezione agli studenti su una piattaforma Cisco o Zoom, o di gestire buona par124
te dei rapporti di lavoro “da casa”. Mi chiedo se un operatore non potrà per esempio gestire il robot che assembla il suo pezzo di Panda da casa. O se un chirurgo non potrà operare più spesso – già avviene – in remoto. Tecnologia e nuove infrastrutture dovranno anche aiutarci a combinare la difesa da virus come questo con politiche ecologiche più mature, nella convinzione che salute pubblica e salute del pianeta devono coincidere e possono comporre una straordinaria alleanza. Il terzo punto è certamente il meno pragmatico, ma investe, almeno per un boomer e un “curioso delle idee” come chi scrive, un aspetto particolarmente interessante del significato spaziale della pandemia. Si tratta infatti di riconsiderare il concetto di distopia e di metterlo in relazione con quello di smart. Quello che abbiamo appreso in questi mesi è che i due concetti sembrano andare molto più d’accordo di quanto immaginassimo. Stiamo infatti familiarizzando con un’idea della distopia molto lontana da quella con cui ci siamo gingillati con piglio millenaristico negli ultimi decenni del secolo scorso. Niente caos, nessuna tenebra alla Blade Runner, niente displacement in stile J.G. Ballard (il nostro Calvino). Quello che ho visto ancora ieri sera attraversando Roma poco prima dell’ora di cena, ma in piena luce del giorno, è l’immagine di una città svuotata e pulita, dominata dal silenzio, dalla maestosità indisturbata dei 125
monumenti, dall’aria trasparente e priva di inquinamento. Tornavano in mente, mi si perdoni il sacrilegio preservationist, le fotografie di Paolo Monti che sostanziavano i piani di Cervellati per la conservazione dei centri storici emiliano-romagnoli. Là giorni di lavoro per togliere ogni traccia di vita (moderna) e costruire il canone della bellezza. Qui uno scenario spettrale nel quale i rapporti – sociali, di potere, economici – che siamo abituati a vedere rappresentati nello spazio si sono trasferiti altrove, in un altrove fatto di reti e dispositivi. Dispositivi che singolarmente vediamo e utilizziamo ma che gestiscono dati e relazioni che ci rimangono invisibili. Sapevamo già che il mondo smart implica una cospicua perdita non solo di privacy ma anche di controllo. È una battaglia che abbiamo implicitamente dato per persa, ma questa pandemia può forse risvegliarci un po’ e ricordarci che non dobbiamo accontentarci del suono politically correct della parola resilienza ma cercare allo stesso tempo di costruire una salda resistenza, almeno a livello di consapevolezza ed elaborazione concettuale. Ragion per cui sarà importante sia tornare nelle strade, spazio congenito della democrazia, sia agire con consapevolezza disturbante nel mondo digitale. Pippo Ciorra è Senior curator per l’architettura al MAXXI di Roma e professore ordinario di Progettazione e Teoria dell’architettura presso la SAAD di Ascoli Piceno.
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Rahul Mehrotra
La Casa e il Mondo. La pandemia causata dal Covid-19 ha indotto all’isolamento e l’esperienza che ne deriva è simile a uno specchio a due vie. Riflette ed è trasparente. Riflette ciò che è in prossimità e contemporaneamente espande il nostro universo nel regno virtuale. Porta ciò che è fisicamente vicino a noi nel nostro abbraccio e ci fa apprezzare e notare le più piccole cose che davamo per scontate. Ma rende anche visibile nitidamente e a volte ingrandisce ciò che è distante, spesso accelerato ed esagerato dal potere delle tecnologie digitali di radunare – zoomando dentro e fuori! Questa simultaneità di vicinanza e distanza e questi crolli in tempo reale inducono a forme estreme di introspezione. Chiaramente la dimensione locale, sia che si tratti delle nostre case, del nostro quartiere o del piccolo giardino che abbiamo in cortile, assume una vita che non avevamo mai visto o forse mai apprezzato prima. Percepire il cambiamento della luce, osservare 127
minuscole trasformazioni attraverso i ritmi stagionali o notare i vicini (e i loro animali domestici) – che erano sempre stati lì ma la cui presenza non avevamo mai notato, ci dà una maggiore consapevolezza del locale: un locale specifico. Come di tempo che si ripete e a volte sta fermo. Perché siamo stati così indifferenti verso questa condizione di prossimità? Forse perché ciò che era vicino e che si supponeva fisso era percepito come transitorio nelle nostre esperienze vissute correndo dentro e fuori dalle nostre case e dai nostri luoghi quotidiani? Che tutto questo si sia invertito e che ciò che è immediato sia diventato più permanente, stabile e onnipresente – dato che non c’è nessun posto dove correre? D’altra parte la dimensione globale determina oggi un impulso simultaneo piuttosto complesso, al contempo di rifiuto e di nuovo desiderio di vivere insieme. Che sia il rifiuto del nostro stile di vita e del nostro iper-impulso a connetterci e a metterci in rete che ha di fatto distrutto il pianeta? Vediamo la natura ripristinarsi a livello globale e le tecnologie digitali facilitano la nostra registrazione di questo processo, rendendolo tangibile. Vediamo apparire specie animali e pianeti, i cieli limpidi e l’aria, di nuovo, qualcosa che non dobbiamo misurare per testarne la qualità! Si potrebbe forse sostenere che il virus 128
che ci circonda sia l’agente più efficace per mitigare il cambiamento climatico in cui il pianeta avrebbe potuto sperare? E poi, mentre vediamo questi meta-fenomeni dispiegarsi a distanza, abbiamo un desiderio esasperato di vicinanza. Un impulso o un desiderio di stare insieme – forse il contatto umano è insostituibile? Le nostre anime hanno bisogno di vicinanza spaziale e fisica per connettersi davvero? Che questa oscillazione tra il desiderio di essere locali e globali sia la condizione umana alla quale non possiamo sottrarci? In realtà, questa tensione è sempre esistita, ma è ora accentuata dalla combinazione fra il distanziamento sociale e la conseguente attitudine introspettiva – quello specchio a due vie che ora rende visibile e registra l’ovvio che abbiamo scelto di non registrare mentre ci connettevamo a mondi che avremmo potuto scegliere di non vedere. Per esempio, le forme estreme di disuguaglianza che abbiamo guardato senza vederle, o l’ingiustizia che abbiamo appreso a leggere e le sue conseguenze con le quali non ci siamo ancora riconciliati. Marciamo in stretta prossimità, come i milioni di indiani che cercano di tornare a casa, come coloro che in tutto il mondo stanno protestando. Le nostre preoccupazioni trascendono momentaneamente le preoccupazioni per noi stessi – i problemi vanno al di 129
là della nostra sicurezza? Vi preoccupate contemporaneamente per la vostra casa e per il mondo? Per rendercene conto, avevamo davvero bisogno della pandemia di Covid-19?
Rahul Mehrotra è professore di Progettazione e Pianificazione urbana alla GSD, Harvard University, e titolare dello studio RMA Architects, con sedi a Mumbai e a Boston.
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Renzo Piano
Ho passato la quarantena nella mia casa di Parigi, due mesi e mezzo di confinement, praticamente chiuso in casa, come tutti. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo una città vuota, ferita. Dalla mia finestra si vede il Beaubourg, che naturalmente era vuoto. La mia carriera al 90% è fatta di edifici pubblici: ho costruito scuole, biblioteche, musei, teatri, sale da concerto, università… pensavo a tutti questi edifici, alla Fondazione Beyeler a Basilea, al Whitney di New York, a tutti questi edifici pubblici vuoti, una tristezza enorme. E inoltre vedevo anche che la città stessa era vuota. Io credo nella città, credo nel valore della città, nella città come luogo di incontro. I luoghi iconici della città sono le piazze, le strade, i ponti. Da casa mia intravvedevo i ponti, ma anche i ponti di Parigi erano vuoti. Questo virus, così cattivo, così diabolico, così perverso, riesce in una cosa che è esattamente l’opposto di quello che noi come architetti cerchiamo di fare: fare incontrare la gente. Proprio 131
quello che il virus impedisce. Sebbene noi tutti siamo certamente dei privilegiati e stavamo lì senza grandi problemi, vedere un mondo di persone separate, che il virus obbliga a stare lontane le une dalle altre, è stata una forma di sofferenza. L’architettura lavora contro il virus perché è una macchina che spinge all’incontro. Gli edifici pubblici sono luoghi fatti apposta perché la gente si incontri e condivida dei valori. Un teatro, una biblioteca, una scuola: sono luoghi che veicolano dei valori condivisi, luoghi di convivenza. E così è la città. Vedere le piazze, i ponti, le strade di una città vuoti fa malinconia, e ci fa pensare che non si deve cedere. L’11 settembre del 2001 ero a New York, con tutta la famiglia. Subito dopo quello che è successo alle Torri Gemelle, l’imperativo corrente era rappresentato da una domanda costante: cosa si deve fare nella città perché questo non accada più? Io ho pensato immediatamente che questa domanda fosse profondamente sbagliata. Per l’amor del cielo, non inventiamoci una città a prova di terrorismo, creeremmo dei mostri: dobbiamo agire all’opposto! Ebbi la fortuna di avere un grande cliente, che erano i Sulzberger del “New York Times”. Il 14 settembre, tre giorni dopo l’attacco delle Torri, era il mio compleanno, e mi ave132
vano invitato a cena con mia moglie. Fu una cena un po’ triste perché erano passati pochi giorni da quello che era successo. Ma loro mi guardarono e mi dissero: “Andiamo avanti”. E io risposi: “Bene. Ma andiamo avanti con un edificio ancora più trasparente. Facciamo il piano terra ancora più permeabile, perché la trasparenza è più sicura dell’opacità”. Quello che voglio dire è che adesso non dobbiamo metterci in testa di difenderci dal virus facendo delle città divise. Non mettiamoci in testa di difenderci dal terrorismo, o dalla guerra nucleare facendo dei bunker, come fecero in Svizzera negli anni sessanta e settanta construendo un bunker antiatomico per ogni casa: una follia. Il nostro mestiere, all’opposto, consiste, ancora di più di fronte a un pericolo, nel costruire luoghi affinché la gente possa incontrarsi. Sono la scienza e la politica, intesa nel senso più bello e nobile della parola, che devono risolvere questo problema. Non gli architetti, costruendo delle città a prova di virus.
Il testo è una trascrizione della conversazione fra Renzo Piano e Pierluigi Nicolin del 3 giugno 2020. Renzo Piano è titolare del Renzo Piano Building Workshop, studio di architettura con sedi a Genova, Parigi e New York.
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Riccardo Venturi
Circumfusa. Facciamo un salto indietro al XVIII secolo. Primo professore di Igiene pubblica alla Facoltà di medicina di Parigi, Jean-Noël Hallé (1754-1822) offre una visione del clima più complessa rispetto al determinismo geografico de De l’esprit des lois (1748) di Montesquieu. Alla ricerca di un nuovo rapporto tra l’epidermide del corpo umano e l’atmosfera esterna, nel lemma “Igiene” della Encyclopédie méthodique, Médecine (t. VII, 1798) riprende le sei categorie di aria, alimenti e bevande, sonno e veglia, esercizio e riposo, escrezione, passioni. Le sostituisce con quelle, più comprensive, di circumfusa, applicata, ingesta, excreta, gesta e percepta. In sintesi, applicata è ciò che viene steso sulla cute umana, come vestiti, trucchi o tatuaggi; ingesta è quanto ingeriamo, dal cibo alle medicine al tabacco; excreta è quanto viene rigettato, come feci, urina o sudore; gesta designa qualsiasi azione della vita diurna; percepta è quanto percepito dai nostri sensi, le sensazioni o le funzioni intellettuali e affettive. 134
Quanto alle circumfusa, non s’identificano esattamente con l’aria che ci circonda, così come le altre categorie di Hallé non sono un corrispettivo preciso di quelle da cui è partito. Sono più vicine a quanto scrive Ippocrate in Arie acque luoghi. Il clima non è più l’insieme delle condizioni meteorologiche di una regione sul quale l’essere umano non esercita alcun controllo, ma quel complesso di elementi circostanti che s’intrecciano con l’agire umano e con i corpi, influenzandosi incessantemente gli uni con gli altri. Perché l’uomo altera e trasforma l’ambiente col suo agire tecnico, col rischio che l’ambiente, a sua volta, modifichi le nostre condizioni di vita e incida sulla nostra salute. Anziché limitarsi a indagare le caratteristiche dell’aria e la sua fisiologia, Hallé s’interessa al rapporto tra l’aria e la cute umana, all’azione dell’aria sul corpo vivente. Come funziona l’assorbimento cutaneo, cosa accede quando l’aria tocca la pelle umana, una superficie che appartiene tanto alle circumfusa che alle applicata? Come scrive Jean-Baptiste Fressoz in L’Apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique (Seuil 2012, 2020), le circumfusa sono il prodotto di esalazioni assieme naturali e artificiali che incidono sulla salute umana come sulla società. Conoscere gli invo135
lucri atmosferici nei quali, dentro i quali, evolviamo e viviamo, diventa necessario per governare, come sosteneva già l’Abbé Richard nei suoi dieci volumi dell’Histoire naturelle de l’air (1776). Nasce così una medicina climatica, come una politica – e una polizia e una procedura – che non si limitano a garantire l’ordine sociale ma che, per meglio perseguire questo fine, investe le circumfusa. “I saperi multipli che nel XVIII secolo s’interessano all’aria, alla sua salubrità e ai suoi costituenti (chimica delle arie, pneumatica, eudiometria [studio della composizione dei gas], meteorologia e topografie mediche) s’inscrivono in questa biopolitica delle atmosfere” (Fressoz, corsivo mio). Le circumfusa vivono così in uno stato di continua trasformazione. È questo il risultato dell’industrializzazione, dello sfruttamento delle risorse naturali, della sperimentazione di modi invasivi di produzione derivati dalla piantagione intensiva tipica delle monoculture, dell’inquinamento dell’atmosfera e della deregolamentazione ambientale per favorire la grande industria. Da qui le città insalubri e miasmatiche, i luoghi di lavoro con scarse condizioni igieniche e fonti di malattie come nelle miniere. Prima della teoria di Gaia di James Lovelock, della Grande accelerazione, dell’Antropocene o, meglio, del Capitalocene, 136
la modernizzazione del XVIII secolo è impensabile senza le circumfusa. Inutile insistere sulla ragione per cui mi tornano in mente oggi, al tempo dell’emergenza virale – causata, per quanto ne sappiamo finora, dalla zoonosi – e di quella “biopolitica delle atmosfere” che ha portato queste ultime al cuore delle nostre preoccupazioni individuali e collettive, psicologiche e politiche, igieniche ed economiche. È attraverso l’aria che il virus circola e si trasmette da un corpo all’altro. L’aria è il suo medium – ed è questo a renderlo così pericoloso al di là delle mascherine con cui proteggiamo le cavità attraverso le quali il virus penetra nei nostri polmoni. Come nelle radiazioni che seguono a una catastrofe nucleare, la minaccia viene dall’aria. Certo, non abbiamo dovuto aspettare l’attuale pandemia per renderci conto dell’esistenza delle circumfusa; la storia dell’architettura e dell’urbanistica ci viene in aiuto. Già Aristotele, nella Politica, consigliava di erigere le città in alto per una maggiore salubrità: “le città che sono esposte a oriente e ai venti che soffiano da levante sono più salubri; poi vengono quelle riparate dalla tramontana, perché hanno in genere inverni miti” (VII, 10, 1-2). Empedocle, così si racconta, fece aprire un varco nella pendice rocciosa che proteggeva Agrigento per lasciar passare il vento del Nord, come 137
ricorda Joseph Rykwert in L’idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico (1976, Adelphi 2011). Le strade delle città, si chiede Rykwert, erano costruite seguendo la direzione dei venti in modo che potessero incanalarsi e attraversarla rendendola salubre e areata o, al contrario, erano costruite in modo da ostruire, da strozzare quelle raffiche dei venti che dall’esterno si abbattevano impetuosi sulle città? Accogliere o respingere le circumfusa? Le testimonianze greche e romane sono spesso in disaccordo sulla “correlazione sistematica tra l’orientazione delle città e la direzione dei venti dominanti o altri fattori analoghi”. Di certo, oggi viviamo in un weather-world o mondo-meteorologico: l’espressione è di Tim Ingold, alla ricerca di un’antropologia ecologica o di un’ecologia del sensibile che dialoghi con l’archeologia, l’arte e l’architettura. Per weather-world intende un mondo in divenire che vive nei (e dei) flussi della materia, nella circolazione di energie, negli scambi che si producono a partire dal semplice respirare l’aria da cui dipende la nostra sopravvivenza. “Laddove il globo viene misurato e registrato, l’ambiente viene vissuto. A uno si addice il clima, all’altro il tempo meteorologico [weather]”. Non sorprende che, per Ingold, non vi è architet138
tura senza atmosfera, ovvero senza l’aria che circola all’esterno e all’interno, il fuoco del focolare, la luce che rende cangianti le sue superfici nel corso della giornata, i suoni di chi la abita. Non esiste un edificio indifferente alle vite che si svolgono tra le sue mura, al pulsare delle esistenze che racchiude. “Per quanto possa sembrare strano, la storia dell’architettura è stata scritta in gran parte come se la sua componente atmosferica potesse essere trascurata, come se questa componente non fosse altro che un effluvio che avvolge l’essenza dell’edificio – un’essenza che sarebbe meglio rivelata se l’atmosfera fosse rimossa. Tradisce un atteggiamento non dissimile da quello dei biologi che vorrebbero che la loro percezione della fauna marina non fosse oscurata dall’opacità del mare” (Lighting up the Atmosphere, in Mikkel Bille, Tim Flohr Sørensen, a cura di, Elements of Architecture. Assembling Archaeology, Atmosphere, and the Performance of Building Spaces, Routledge, 2016). Nel 2002 sul lago di Neuchâtel a Yverdons-les-Bains, gli architetti Liz Diller e Rick Scofidio realizzano per la Swiss Expo Blur, un padiglione dove l’architettura produce artificialmente una coltre di vapore che l’avvolge, la fa scomparire e confondere con gli elementi naturali. Inutile, secondo Ingold, sforzarsi di distinguere architettura e atmosfera: “l’architettura è 139
atmosferica”. Anziché disfarci di questo medium immateriale come di un ostacolo alla funzionalità, alla sostanza fisica e statica o alla conoscenza, dobbiamo pensare con e attraverso quell’atmosfera che influenza il nostro vivere. Una presenza che oggi, all’epoca di una nuova “biopolitica delle atmosfere”, torna sotto la forma di circumfusa.
Riccardo Venturi, storico e critico d’arte contemporanea, è ricercatore in Storia dell’arte contemporanea del XX e XXI secolo presso l’INHA (Institut National d’Histoire de l’Art) di Parigi.
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Richard Ingersoll
Per sempre felici e contenti. Molte favole finiscono con l’epigramma: “e vissero per sempre felici e contenti”. Anche se l’idea di “dopo” è probabilmente la prima cosa che la maggior parte delle persone in questo momento ha in mente, perché vorrebbe tornare a una qualche forma di normalità, e i governi in particolare non vedono l’ora di dichiarare la fine della pandemia per salvare le loro economie paralizzate, questo desiderio di dichiarare la fine sembra un po’ una favola. La crisi sanitaria planetaria provocata dal Covid-19, che ha costretto oltre il 50% dei terrestri a vivere in una qualche forma di quarantena, dovrebbe essere considerata come un precursore di altre crisi ambientali più pericolose. I vaccini e le procedure mediche fermeranno la diffusione del contagio, permettendoci di parlare di un “dopo coronavirus”, ma per quanto riguarda il cambiamento climatico siamo molto lontani dal trovare rimedi. Lo scioglimento delle calotte polari, lo scongelamento del permafrost 141
nordico, l’aumento dei livelli di acidità del pH negli oceani, i continui disboscamenti in tutto il pianeta, gli stermini di massa delle specie biologiche e, naturalmente, la riduzione della capacità di coltivare cibo a causa delle temperature ostili sta cambiando notevolmente la condizione umana. La probabilità di altre pandemie è quindi accompagnata da importanti minacce meteorologiche per le quali non siamo pronti. Il coronavirus ci insegna che abbiamo bisogno di strategie di adattamento per sopravvivere, sia per affrontare situazioni immediate che a lungo termine. La crisi richiede ai cittadini di cambiare il loro stile di vita e ai progettisti di inventare alternative in tema di ordine urbano, costruzione architettonica e arredamento. Così come una persona affetta da diabete deve smettere di mangiare zuccheri e iniziare ad assumere insulina, così le future “vittime climatiche” devono smettere di adottare stili di vita consumistici e trovare invece palliativi tecnici. In architettura, l’attenzione rivolta ai grattacieli bioclimatici sembra sbagliata in quanto, nonostante le loro eccellenti prestazioni termiche, servono a promuovere la globalizzazione e il consumismo. Gli adeguamenti bioclimatici agli edifici ordinari sarebbero più appropriati, così come la ricerca di materiali da costruzione biodegradabili, l’invenzione di metodi di costruzione rapida per le 142
emergenze, la pianificazione delle città come spugne urbane, i rifugi portatili per il reinsediamento, la diffusione dell’agricoltura urbana, lo sforzo concertato di utilizzare i rifiuti come risorsa. Mentre alcune città, come Copenhagen, Nantes, Bristol e Stoccolma hanno avviato eccellenti programmi per guidare i cittadini verso un futuro a zero emissioni di carbonio, esse sono ancora alloggiate in un sistema di economie in crescita, e l’equilibrio dei gas serra tra i loro partner commerciali ci spingerà ben presto oltre il limite massimo per l’aumento della temperatura planetaria fissato a 1,5 gradi. Proprio come le persone hanno imparato a realizzare le proprie mascherine per scongiurare il contagio, così i progettisti devono contribuire ad un adattamento radicale. Il modo in cui ci muoviamo, il modo in cui facciamo shopping, il modo in cui andiamo a scuola, il modo in cui visitiamo i musei, l’uso di bar e ristoranti, il modo in cui giochiamo e andiamo in vacanza. Ogni azione umana deve essere ripensata in termini di sicurezza e flessibilità. Non è più una questione di soddisfazione del consumatore, ma come Richard Neutra aveva predetto molti decenni fa di “sopravvivenza attraverso il design”. Ci sono soldi per questo? Miracolosamente sono stati trovati miliardi di dollari per scongiurare il fal143
limento di compagnie come Lufthansa in Germania e delle aziende vicine al presidente negli Stati Uniti. Ma importanti stabilimenti automobilistici hanno chiuso in tutto il mondo (Nissan a Barcellona) e la disoccupazione sta raggiungendo un picco vertiginoso. Ora dovrebbe essere il momento di attivare il Green New Deal, pensando al New Deal di Roosevelt degli anni trenta, che manteneva le persone occupate, piuttosto che comprarle con gli assegni di disoccupazione. La profonda crisi economica iniziata dal coronavirus dovrebbe essere affrontata come una crisi ambientale altrettanto profonda, che impone molteplici forme di progettazione e di lavoro per tenerci in vita felici e contenti.
Richard Ingersoll, storico e critico dell’architettura californiano, insegna Teoria dell’architettura contemporanea al Politecnico di Milano.
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Silvano Petrosino
Metafisica della sicurezza e architettura. L’ideologia dell’eccellenza si è intrecciata in questo ultimo periodo con l’ideologia della sicurezza. La prima ha sollecitato la seconda generando un assioma che viene imposto come l’indiscutibile premessa di ogni possibile futuro ragionamento: “l’eccellenza esige la sicurezza”, il che vuole soprattutto dire: “se si mira all’eccellenza bisogna imporre la sicurezza”, “niente eccellenza senza sicurezza”. Siamo nel campo del delirio, laddove è difficile avanzare visto che i deliranti sono divorati da allucinazioni, visive ed acustiche, che li portano (vedono e sentono ovunque conferme delle loro elucubrazioni) precisamente laddove il loro stesso delirio li conduce. In effetti già l’elogio dell’eccellenza, in vigore da alcuni anni, era il sintomo di un malessere e/o di una malafede del soggetto: solo i mediocri si trastullano con l’eccellenza, solo i truffatori si servono dello specchio dell’eccellenza, spesso incorniciato con l’enfasi sul talento, per giustificare l’esclusione e lo sfruttamento de145
gli altri. In questo periodo, senza mai perdere di vista il fantasma dell’eccellenza, si sta dunque delineando una “metafisica della sicurezza” che, come tutte le metafisiche degne di questo nome, non potrà che compiersi in quel “sorvegliare e punire” acutamente evidenziato da Foucault qualche decennio fa. Ecco il copione della recita. Atto primo: bisogna vivere per l’eccellenza, bisogna essere i migliori, bisogna esseri i primi perché arrivare secondi o terzi non serve a nulla, se non si raggiunge l’eccellenza allora si è dei falliti, o tutto o niente poiché fermarsi al semplice qualcosa significa accontentarsi del niente; atto secondo: l’epidemia ha dimostrato che siamo tutti fragili, deboli, abbattuti, altro che eccellenti, siamo tutti in balia delle circostanze, bisognosi gli uni degli altri (pantomima dei buoni sentimenti, ostentazione delle lacrime e della sofferenza diffusa, elogio del “noi” al posto dell’“io”); atto terzo: non appena la curva dei contagi ha iniziato a declinare, ecco subito rientrare in gioco i “valori forti” del “ritorneremo come prima” (arroganti e sicuri come prima), anzi meglio di prima, ecco riapparire il fantasma dell’eccellenza (la deprimente gara tra i governatori a chi ha fatto prima degli altri, meglio degli altri, ecc.), che tuttavia, come anticipavo, questa volta, a differenza di quanto accadeva nel primo atto, è rientrato in scena accompagnato dal fantasma della 146
sicurezza. È la nuova litania: “bisogna mettere (tutto e tutti) in sicurezza”, espressione che non è più solo la manifestazione di una necessità pratica, essendo piuttosto l’attestazione di un’autentica visione metafisica e di conseguenza di un indiscutibile imperativo morale. Le principali “filosofie seconde” che derivano dalla “filosofia prima” in quanto “metafisica della sicurezza” sono: la medicina e l’architettura. Un breve accenno solo a quest’ultima. Non ci sono dubbi: non si può vivere nell’insicurezza, non si può vivere all’interno di un edificio che non sia stato “messo in sicurezza”, e la progettazione/realizzazione di una simile costruzione è compito dell’architettura e dell’ingegneria. Ma il pericolo che personalmente scorgo all’orizzonte riguarda – chiedo venia per il modo un po’ semplicistico con il quale qui mi esprimo – la pretesa di “mettere in sicurezza” non solo la house ma anche la home: la sicurezza da urgenza pratica si trasforma in un’autentica necessità metafisica precisamente nel momento in cui, cadendo vittima della “pulsione all’eccellenza”, essa osa avanzare pretese non solo nei confronti della house ma anche nei confronti della home. La tentazione è nota ed è presente in ogni momento della storia umana: separare definitivamente il male dal bene allo scopo di eliminare, o magari anche solo controllare, la violenza dal mondo e costruire una 147
“città degli uomini” dove si possa finalmente abitare in totale sicurezza. Anche questo, purtroppo, è noto: tale pretesa, invece di costruire il paradiso in terra ha puntualmente generato l’inferno. Il “bene” non può essere imposto, così come l’abitare dell’uomo non può essere “messo in sicurezza” una volta per tutte; la scena umana è quella di un dramma vivente all’interno del quale l’edificazione del bene è legata al filo fragile e al tempo stesso tenacissimo della libertà e della responsabilità dell’uomo. Mi permetto di suggerire a tale riguardo – a riguardo della messa in sicurezza del conflitto tra il bene e il male, e della costruzione di una casa/società assolutamente sicura – tre letture: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde (Stevenson); La tana (Kafka); Arancia meccanica (Burgess); quest’ultimo ha affermato: “Imponete a un individuo la possibilità di essere solo e soltanto buono, e ucciderete la sua anima in nome del bene presunto della stabilità sociale. La mia parabola e quella di Kubrick vogliono affermare che è preferibile un mondo di violenza assunta scientemente – scelta come atto volontario – a un mondo condizionato, programmato per essere buono o inoffensivo”. Silvano Petrosino, filosofo, è professore ordinario presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Teorie della comunicazione e Antropologia religiosa e media.
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Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn, Johannes Kuehn
X-RAY. Il ruolo del Covid-19, oltre a quello evidente di portatore di crisi pandemica, è stato quello di mettere in luce situazioni esistenti di disuguaglianza. Il Covid-19 ha l’effetto di una radiografia che ci fa individuare problemi relativi al lavoro, alla casa, alla famiglia. La chiusura di scuole, università e biblioteche ha emarginato una parte di popolazione che non ha i mezzi per la formazione a distanza e che vive in spazi ristretti che non favoriscono la concentrazione per lo studio. Lo smartworking ha riguardato certe categorie di professionisti mentre altre, quali medici, infermieri, commessi, operai, sono state penalizzate. E molti non sanno ancora se troveranno un’occupazione come prima. In questa situazione come si può esprimere l’architettura, che da un lato è comunque espressione dell’ordine sociale e dall’altro si pone come portatrice di cambiamenti sociali anche epocali? 149
L’accessibilità è la parola chiave, in questo caso la mancanza di accessibilità ai luoghi pubblici può farci riflettere su come nel futuro vada ripensato e potenziato lo spazio pubblico, non inteso soltanto come piazza o strada, ma come luogo del sapere e dello scambio. Quindi ripartendo dal potenziamento di questi spazi, rendendoli più sicuri e ampliandoli per garantire un distanziamento e nello stesso tempo una condivisione delle risorse digitali, ripensiamo ad una scuola mobile che raggiunga tutti i luoghi, legata al potenziamento dell’accessibilità pubblica. “L’educazione superiore e la formazione devono diventare un’impresa industriale, non un servizio offerto da gentiluomini a pochi eletti. Il Potteries Thinkbelt qui delineato romperà l’isolamento e la specificità oggi associate alle università. È grande abbastanza per coinvolgere l’intera comunità e per farle capire che l’educazione a questi livelli non è puramente desiderabile, ma essenziale.” L’idea di Cedric Price di riattivare aree industriali abbandonate per un progetto educativo di massa attraverso il riuso delle linee ferroviarie, per un nuovo modello formativo adattabile ad innumerevoli occasioni di cambiamento, va attualizata oggi in una chiave di lettura digitale, che punti sulle relazioni da met150
tere in atto tra spazialità fisiche e virtuali attraverso un progetto architettonico preciso e mirato: come far uso ed appropriarsi della rete digitale per produrre un’università collettiva transgenerazionale che abbia riscontro fisico nello spazio sociale.
Simona Malvezzi, Wilfried Kuehn e Johannes Kuehn sono i fondatori dello studio di architettura Kuehn Malvezzi a Berlino.
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Sonia Calzoni
Ad ogni modo distanti. Caro Pierluigi, è da diversi giorni che mi sveglio molto prima del suono della mia abituale sveglia mattutina. I primi tempi non ci ho fatto troppo caso, ma poi ho compreso che la mia reazione non era affatto estranea a quanto sta accadendo e alla condizione molto particolare e imprevista in cui ora ci troviamo. Ho sentito questo confinamento di tutti noi come una nuova realtà e un’insolita strana solitudine con cui confrontarsi. Ho sentito che, dopo i primi tentativi canori e musicali di avvicinamento, scendeva nel mio intimo un silenzio che spesso mi impediva anche solo di fare una telefonata agli amici piÚ cari e ho sentito che anche per molti di loro questo stava avvenendo. Ti devo anche confessare che i primi giorni ho continuato a comportarmi come se nulla fosse cambiato, ma ho presto dovuto desistere per entrare in questa situazione di assoluta incertezza. Non ero affatto pre152
parata, pur sapendo, ormai, quanto la nostra condizione possa cambiare all’improvviso e inaspettatamente. Quello che più mi colpisce è la vastità di quanto è accaduto, il fatto che abbia coinvolto tutti – ogni persona in ogni angolo del mondo. Questo dovrebbe farci sentire sempre più vicini, tocchiamo con mano la nostra fragile condizione terrena, siamo tutti, ma veramente tutti rinchiusi nelle nostre piccole o grandi case. Siamo anche accomunati da un unico pensiero: sono le nostre paure sulla malattia e su quello che avverrà. In questi giorni ho più volte sentito amici decantare la loro fortuna nel possedere case spaziose, terrazzi, giardini, la possibilità di stare in campagna; è evidente che anche questa pandemia colpisce diversamente la società, ma non ci siamo resi conto che comunque siamo tutti prigionieri? Non ci siamo resi conto che questa reclusione collettiva e forzata è quanto di più innaturale possa volere un essere umano? Non riesco a non pensare che le nuove odierne forme di comunicazione, a cui ognuno di noi ha potuto ricorrere benedicendole, non possano sostituire i nostri abituali modi di interagire. E non riesco a non pensare che grazie all’avvento delle nuove tecnologie anche noi cambieremo, forse senza accorgercene e magari solo un po’ alla volta, ma saremo diversi. Dico questo con una certa malinconia, con una qualche preoccupazio153
ne, ma anche con un indubitabile grado di ottimismo e perché no di curiosità. Ora, è difficile capire quali saranno esattamente le conseguenze di questa emergenza sanitaria, di questa pandemia – per me è quasi certo che il mondo subirà una nuova accelerazione perché dovranno essere ripensati i modi di vivere, di abitare, di lavorare, di spostarsi, anche quello del tempo libero. È certamente una nuova sfida quella che ci attende, e spero si abbia il tempo necessario per pensare al di là delle urgenze dei dati economici e delle aspettative. Senza dubbio questo periodo di isolamento ci ha costretto a riflettere e, riuscendo a vincere l’ansia, spesso è stato positivo e di accrescimento. Ci aspetta un grandissimo lavoro, forse anche interessante. Forse interessante anche per noi architetti. Sonia Milano, 23 maggio 2020
Sonia Calzoni è titolare dello studio Calzoni architetti con sede a Milano, dove insegna Progettazione architettonica al Politecnico.
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Steven Holl
La Trasformazione della Coscienza. “La filosofia moderna, a partire da Hegel, ha ceduto alla strana illusione che l’uomo, distinguendosi dalle altre cose, si sia creato da solo”. Hannah Arendt, La vita della mente “Quando avremo pensato di essere soli, saremo con tutto il mondo”. Joseph Campbell, Il potere del mito “Basta un respiro per invocare il regno dell’esperienza religiosa”. Paul Klee Immagino che il coronavirus, questo strano respiro – peste divorante che oggi inghiotte il globo – d’ora in poi cambierà in qualche modo l’umanità sulla terra. Su questa terra, essere vivi è un dono. Oggi siamo 155
avviliti e sconvolti dall’ignoto. La nostra vulnerabile specie – il genere umano – negli ultimi decenni ha causato la disintegrazione degli ecosistemi naturali ad una “velocità cataclismica”. Per progredire la nostra specie deve rivalutare se stessa: dobbiamo iniziare una trasformazione della coscienza che comprenda almeno otto punti: 1. Rispettare il potere della natura. 2. Focalizzare le azioni della nostra specie principalmente sulla protezione della terra, della casa. 3. Riconoscere che siamo una comunità globale, non nazionalisti parassiti su questa terra. 4. La pianificazione dell’ambiente e dell’architettura nel suo insieme dovrebbe abbracciare la nostra co-dipendenza. 5. Le divisioni privatistiche e politiche di radice tribale devono essere abolite. 6. Dovremmo praticare collettivamente l’intolleranza verso l’abuso di potere, la menzogna e la manipolazione da parte dei media. 7. Un profondo apprezzamento per i lavoratori del settore sanitario, dell’agricoltura, del settore alimentare e di tutte le azioni di sostegno alla comunità. 8. Il primato della creatività e della forza spirituale ottimista in tutte le arti. (8 aprile 2020) 156
Il ripensamento del futuro. Invece di un futuro che noi determiniamo attraverso la volontà umana, un futuro che ci viene incontro sposta la nostra comprensione. Come ha detto recentemente il compositore Arvo Pärt: “Il coronavirus ci ha dimostrato che l’umanità è un unico organismo… in un certo senso ci ha riportati tutti in prima elementare”. Come un unico organismo: la flora, la fauna, gli oceani, l’atmosfera e l’umanità sono una forza vitale interconnessa e co-dipendente. Dobbiamo trasformare i nostri valori per fare piani urbanistici, interventi ambientali e opere architettoniche. Dobbiamo chiederci: “Come dovremo vivere? Cos’è l’architettura?” La Trasformazione della Coscienza implica una “svolta contro l’autoaffermazione dell’uomo”, ma al contempo abbraccia la conoscenza e le future scoperte delle scienze naturali. Comporta una più profonda interrogazione sul significato dell’“essere”. Hannah Arendt ha scritto: “La vita è un esperimento di conoscenza”. La nostra attuale crisi globale deve scuoterci nelle fondamenta per una nuova comprensione del pensiero e dell’esperienza – dato che sconvolge il modo in cui pensiamo, possiamo rivalutare tutti i nostri valori. Il potere fenomenale dell’architettura di rimettere l’essenza delle cose nell’esistenza. Il potenziale della 157
profonda interconnessione dell’architettura con la fisica ambientale e naturale e il potere dell’architettura di ri-spiritualizzare la vita su questo fragile pianeta sono tutti parte di una trasformazione della coscienza. Questa trasformazione deve includere la poesia, la musica e le arti – essenziali per l’arte di vivere la propria vita. (5 maggio 2020) Architettura ed Esistenza. Il poema epico latino de Le Metamorfosi di Ovidio è stato pubblicato nell’8 d.C. È un segreto degli dei che le lacrime che si trasformano in ambra “cavalcano il carro della luce”. Oggi le relazioni tra il mondo naturale e il mondo antropizzato richiedono la massima attenzione. L’attuale pandemia globale rivela i fenomeni interconnessi che sono essenziali per la nostra esistenza. Mesi di immobilità umana hanno fermato l’iper-sviluppo globale, mostrando una tranquillità fatta di richiami di uccelli, aria pulita e cieli azzurri. La nostra architettura si intreccia con la nostra esistenza quotidiana in modo che l’architettura possa riportare l’essenza all’esistenza. La fusione dell’architettura con il paesaggio abbraccia un valore di fondamentale importanza. Le realtà urbane che hanno la fortuna di avere una terrazza verde sul tetto improvvisamente ne apprez158
zano il valore essenziale. Astra Zarina, professoressa, urbanista e mia insegnante quando ero studente di architettura a Roma nel 1970, ha scritto il libro I tetti di Roma, che tratta del valore fondamentale del paesaggio dei tetti di quella grande città (attualmente il libro è in corso di traduzione e ripubblicazione con MIT Press). Nel prossimo futuro forse vedremo gli urbanisti proclamare, come nuovo obiettivo, l’“anti-densità”. Credo che questo potrebbe portare a un’ondata di espansione suburbana che consumerà ulteriormente il paesaggio naturale, aggravando disastrosamente i problemi già gravi causati dal cambiamento climatico. Al contrario, ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo equilibrio creativo – un equilibrio del paesaggio naturale con la luce, l’aria e l’architettura fatta dall’uomo. Forse “la cultura della congestione” si rivelerà sbagliata quanto la “torre nel parco” di Le Corbusier, indotta dalla tubercolosi del tessuto parigino. Un esempio recente di torri ammassate in uno sviluppo ultradenso è il cumulo di grattacieli di Hudson Yards a New York; avallato dai progettisti che sostengono il manifesto della “cultura della congestione”, non sarà certamente un buon modello per le città del futuro. Tre progetti che abbiamo realizzato negli ultimi due decenni suggeriscono un equilibrio e una fusio159
ne tra paesaggio e architettura. L’impianto di trattamento delle acque del lago Whitney a New Haven CT (1998-2005) ha realizzato il più grande tetto verde dello stato ed è alimentato da ottantotto pozzi geotermici. L’estensione del Nelson Atkins Museum a Kansas City (1999-2007) fonde il paesaggio di un giardino pubblico di sculture con un’estensione del museo d’arte che conserva e si collega al museo originario del 1938. Un terzo esempio, l’estensione del Kennedy Center for the Performing Arts che abbiamo avviato sei mesi fa, ha trasformato un parcheggio esistente in un paesaggio pubblico. Essendo il più grande tetto verde di Washington D.C. è costituito da molti livelli, i quali portano luce naturale agli spazi sottostanti. In un futuro ripensato, lavorando col dubbio, potremmo ripensare i nostri attuali atteggiamenti riguardo alla densità urbana, attribuendo un valore maggiore alla luce naturale e alle qualità essenziali dei paesaggi naturali e dei parchi. Ora abbiamo la tecnologia per eliminare i combustibili fossili e gestire le nostre città interamente con energie rinnovabili – ci serve solo la volontà politica. Circa 3400 anni fa Ra, il dio del sole, era al centro del culto di Eliopoli nell’antico Egitto. A pochi chilometri di distanza, a Menfi, il dio Ptah governava come creatore dell’universo: all’epoca il potere 160
dell’invenzione, cioè l’immaginazione creativa, era un valore fondamentale. Oggi, nel 2020, l’immaginazione creativa sarà essenziale per la nostra Trasformazione della Coscienza. Rhinebeck, NY, 26 maggio 2020
Steven Holl è titolare dello studio Steven Holl Architects, con sede a New York e Pechino.
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Torsten Burkhardt
Spazio sociale in lockdown. Mani sul viso, cerco di rilassarmi. Una persona si tocca il viso fino a 3.000 volte al giorno. L’avrei mai saputo senza il virus? No, ma ora si tratta di vita o di morte. La distanza sociale è necessaria. Tra me e le mie mani. Tra me e le altre persone. Tra tutte le persone. Tra le nazioni. Anche tra i continenti. Quanto lontani possiamo essere? Mi interrogo su questa sensazione inquietante, come camminare sulla gelatina, senza terra sotto i piedi. Perché questa stanchezza? Mi hanno detto che il tempo in quarantena è paragonabile a quello di uno smartphone che – anche se sembra funzionare normalmente – ha tutte le applicazioni aperte in sottofondo, che consumano energia. Ma nulla sembra cambiato. Gli edifici e gli spazi sono al loro posto. Gli aeroporti non si sono spostati. Le città non si sono spostate. Ma d’altra parte, tutto è cambiato. Lo spazio sociale è cambiato. La percezione dello spazio è cambiata. Noi siamo cambiati. Avete notato quanto sia di162
ventato strano lo shopping? O anche solo camminare sui marciapiedi? All’improvviso sembra che tutti noi abbiamo questa corrente elettrica dentro che ci spinge ad allontanarci per mantenere la giusta distanza. Un timido ma educato dondolarsi lateralmente con gli occhi a terra come per chiedere scusa. I mezzi di trasporto si sono trasformati in treni fantasma, autobus come gusci vuoti su ruote e aerei che si nascondono a terra come se avessero paura di volare. Tutte quelle cabine in movimento che un tempo ci collegavano sono deserte. I ristoranti sono sprangati. I cancelli delle scuole sono chiusi. I campus universitari sono desolati. I teatri e le sale da concerto sono diventati silenziosi. Guido attraverso la città. Niente auto, niente ingorghi, niente rapine. È come galleggiare in una cartolina tridimensionale. Lo spazio pubblico è vuoto. Quarantena. Chiudere la porta, girare la chiave e ora? Dove sono le persone? Nelle loro case. Ma non sono fatte per l’isolamento. Non sono fatte per stare a distanza. Non sono fatte per stare rinchiuse e aspettare che il virus scompaia. Non sono fatte per vivere e lavorare con tutta la famiglia confinata senza potere evadere. Ci rendiamo conto di quanto siano essenziali gli spazi sociali esterni. Sono le nostre zone cuscinetto, le nostre zone di sopravvivenza. Ciò che ci sconvolge è l’improvvisa distorsione dello spazio so163
ciale. Le distanze cambiano. Le abitudini cambiano. Tutto sembra muoversi. Ma dobbiamo fermarci. La pressione da una parte porta a una contro-pressione dall’altra. Appaiono scorci di vita dopo l’isolamento. Un po’ di sole e si vedono i parchi che diventano le spiagge del Paese. Gli amanti del jogging inseguono le strade. Biciclette ovunque. E si parla di ponti. Ponti aerei. Per ricollegarci. Osare sognare di nuovo di sedersi su una panchina del Giardino di Boboli con vista sulla maestosa Firenze. Camminare nella foresta tedesca gelata nella neve e nella quiete. Gettarsi nella risacca spumeggiante del mare. Torneremo da dove siamo venuti? Stesse abitudini, stesso ritmo, stessa comodità o dolore? Quello che ci aspetta sarà diverso. Deve essere diverso. Ci metteremo in cammino per guarire la distorsione del nostro spazio sociale. E c’è la speranza di poterci stringere di nuovo l’un l’altro senza paura. Cosa sarebbe la vita senza il calore di un abbraccio?
Torsten Burkhardt è Associate Partner dello studio Rogers Stirk Harbour + Partners, fondato da Richard Rogers a Londra, con sedi a Londra, Shanghai e Sydney.
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Wang Shu e Lu Wenyu
Quarantena e apertura. Città ed edifici nell’Era PostPandemica. Quasi mezzo anno dopo che la pandemia e la lotta per il Covid-19 hanno terrorizzato il mondo, crediamo che la gente si sia resa conto che questo subdolo virus difficilmente scomparirà presto, che il centro della trasmissione sta cambiando nei diversi continenti del mondo, e che in un’epoca di frequenti comunicazioni dobbiamo imparare a coesistere con il virus. Se anche fossimo fortunati e il virus scomparisse improvvisamente a un certo punto di quest’anno, basterà ricordare la Sars del 2003, e poi il Mers e l’H1N1, per accorgerci che in meno di vent’anni il mondo ha visto il succedersi di quattro pandemie associate a infezioni respiratorie. Questa volta in particolare, in quanto epidemia globale, le misure adottate da vari Paesi, come l’isolamento delle città o addirittura l’isolamento dell’intero Paese, e la diffusa insoddisfazione e la lotta a queste restrizioni condotte dai governi, ci costringono a pensare a un possibile cambiamento a lungo 165
termine del nostro stile di vita. Non dobbiamo optare per una limitazione temporanea, ma per un possibile cambiamento a lungo termine! Nella sua sostanza, l’architettura ha maggiormente a che fare con questo cambiamento a lungo termine che potrebbe modificare lo stile di vita delle persone; con il potenziale impatto delle restrizioni di viaggio che abbiamo appena sperimentato in tutto il mondo sulla pianificazione urbana e sui prototipi di design, ma anche con il cambiamento del modello di spazio residenziale e comunitario a fronte dell’isolamento domestico che abbiamo appena vissuto. In che modo l’architettura risponde a questi cambiamenti? Crediamo che sia molto utile riflettere attentamente sullo stile di vita personale di ciascuno di noi dopo lo scoppio del virus. Abbiamo volato da New York a Pechino il 19 gennaio. La sera del 20 abbiamo cenato con degli amici e, scherzando, sostenevamo che bevendo liquori cinesi si potesse evitare il nuovo tipo di polmonite che si diceva fosse apparso a Wuhan. In realtà, già il 10 gennaio erano emerse alcune notizie sul nuovo tipo di polmonite, ma in generale la gente pensava che si trattasse di un’altra malattia leggendaria, un po’ lontana dalla loro vita. Le persone intorno a noi non si sono quindi fatte prendere dal panico. La vita procedeva normalmente. Il 20 gennaio il signor Zhong Nanshan, un noto medico 166
cinese, ora chiamato anche “dottor Fauci della Cina”, ha annunciato pubblicamente sul canale televisivo nazionale che il nuovo virus si trasmetteva tra gli esseri umani, il che ha portato ad uno stato di allarme tra la gente comune. Solo il 22 gennaio, quando il governo di Wuhan ha annunciato che il giorno dopo avrebbe bloccato la città, la popolazione si è resa conto che qualcosa di grosso stava per accadere, perché Wuhan è una grande città che conta dieci milioni di abitanti. Si diceva che quella notte, come la sera dell’isolamento di Milano un mese dopo, centinaia di migliaia di persone si siano allontanate da Wuhan. Tre giorni dopo, Hangzhou, la città in cui viviamo, una città di dieci milioni di persone a 1.000 chilometri da Wuhan, è stata la seconda città della Cina a dichiarare l’isolamento, e nel giro di una settimana tutte le città cinesi sono state chiuse. Hangzhou è stata rigorosamente e completamente chiusa per un mese. Alla fine di febbraio, il nostro studio è tornato alla normalità, ad eccezione di alcuni assistenti che avevano trascorso la Festa di Primavera nella loro città natale fuori Hangzhou e non sono potuti tornare al lavoro prima di aver concluso l’isolamento domiciliare di quattordici giorni obbligatorio al loro ritorno. In effetti, abbiamo potuto comprendere l’efficacia dell’isolamento da ciò che avevamo visto e sentito dai media e per via della successiva pandemia globale, dal momento 167
che nessuno intorno a noi si è ammalato. Ma anche così, il panico ha messo radici nella mente di tutti. A febbraio, camminando lungo il famoso Lago dell’Ovest di Hangzhou, si vedevano poche persone nella strada che un anno prima aveva ospitato più di cinquanta milioni di visitatori. Un piccolo numero di pedoni indossava delle mascherine ed era visibilmente in preda al panico per gli incontri reciproci. Come architetti, la nostra prima conclusione è che il concetto di pianificazione urbana e progettazione devono cambiare – non importa quanto sia larga la strada, la pavimentazione deve essere altrettanto larga. Nel frenetico sviluppo delle città cinesi degli ultimi due decenni, si è prestata troppa attenzione al traffico automobilistico ma non abbastanza al sistema dei marciapiedi; soprattutto nella trasformazione della città vecchia, quando lo spazio stradale è stato fissato, la priorità è sempre stata quella di allargare la strada del traffico, anche annullando o comprimendo i marciapiedi fino a meno di un metro. Credo che, almeno, la pandemia ci abbia fatto capire quanto siano necessari dei marciapiedi sufficientemente larghi. Il modello del viale parigino con grandi marciapiedi è destinato ad essere riproposto nelle città di tutto il mondo. Il problema in Cina è che questo modello non dovrebbe essere solo un landmark del centro urbano, quanto piuttosto un prototipo di168
stribuito in modo uniforme, a beneficio di tutti i cittadini che vivono nei dintorni. Dovrebbe essere in grado di dare alle persone l’opportunità di una vita pubblica all’aperto relativamente sicura di fronte alla diffusione dell’epidemia. Una discussione su una scala minore dovrebbe interessare il modo di vivere della comunità. In passato siamo stati piuttosto critici nei confronti del modello di comunità chiusa tipico dello sviluppo immobiliare urbano in Cina, che distrugge lo spazio stradale e interrompe i collegamenti diretti tra comunità residenziali e spazi pubblici urbani. Tuttavia, in questo isolamento, la chiusura della comunità facilita per ovvie ragioni la gestione e i servizi del governo. Di conseguenza, è necessario esplorare un modello più equilibrato tra apertura e chiusura della comunità. L’isolamento di Wuhan è stato molto più severo di quello di Hangzhou, e alcune comunità non hanno permesso ai residenti di uscire dagli edifici per più di due mesi. Naturalmente, il servizio alla comunità in stile cinese è molto forte. Cibo e verdure fresche potevano essere consegnati direttamente in ciascun appartamento. Ma anche così, due mesi di isolamento in un’unità residenziale all’interno di un grattacielo sono stati molto difficili. È necessario esplorare un prototipo di scala e di spazio equilibrato tra la privacy di ogni famiglia e la natura pubblica 169
della comunità che garantisca una minima qualità di vita. Guardando alla storia delle città cinesi, assumere il cortile come principio ordinatore e come prototipo spaziale è stata una scelta saggia. L’avere sperimentato numerose epidemie negli ultimi millenni aveva reso queste città in un certo senso sospese tra la chiusura e l’apertura. Ogni cortile era in realtà una piccola società di dimensioni limitate, in cui diverse famiglie o decine di famiglie vivevano insieme. Sotto una pandemia, questo modello insediativo permette un isolamento dalla città, mentre all’interno del cortile l’unità di vicinato tiene lontana la solitudine. Naturalmente, la situazione degli appartamenti nei grattacieli moderni è molto diversa. In Cina, sia a Wuhan che a Hangzhou, l’epidemia si è quasi conclusa in due mesi a causa delle severe misure di blocco. I problemi dei grattacieli non sono stati completamente rivelati. Gli ascensori e le scale sono risultati essere i luoghi più vulnerabili. È difficile immaginare come sarebbe stato se l’isolamento fosse durato più a lungo, dal momento che la gente aveva troppa paura per usare gli ascensori o anche le scale, per non parlare della trasmissione aerea che può avvenire attraverso l’aria condizionata e i tubi dell’acqua che corrono su e giù! Nel 2000 abbiamo progettato sei edifici per abitazioni alti cento metri ad Hangzhou, con circa ottanta cortili 170
impilati uno sull’altro. Ogni cortile si sviluppa su due piani, con circa dieci famiglie che vivono insieme. Gli alberi potrebbero essere piantati nel cortile. Nei giorni di pioggia, il cortile pubblico offre uno spazio all’aperto per i vecchi e i bambini. Ogni edificio è composto da dodici cortili, che insieme formano una comunità. Oggi questo progetto sembra davvero perfetto in risposta alla pandemia. Se ci dovesse essere bisogno di rivedere questo prototipo per problemi legati all’emergenza sanitaria, il problema potrebbe essere l’ascensore. I dodici cortili di ogni edificio condividono tre ascensori, il che ovviamente porta a possibilità di infezioni incrociate. Con un progetto estremo in termini di planimetria, ad ogni cortile dovrebbe essere assegnato un ascensore speciale, e l’edificio necessiterebbe di dodici ascensori. Sembra un po’ folle. Forse si potrebbe sviluppare un prototipo di venti famiglie che vivono insieme in un cortile, in modo che un edificio con sei ascensori separati possa funzionare. Naturalmente, non dobbiamo dimenticare i condizionatori dell’aria e i tubi dell’acqua. Dovrebbero essere configurati separatamente per ogni cortile. Guardiamo al futuro, perché no? Wang Shu e Lu Wenyu sono i fondatori di Amateur Architecture Studio, con sede ad Hangzhou, dove Wang Shu è preside della Scuola di architettura della China Academy of Art.
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Lockdown Architecture A cura di Nina Bassoli Editing di Gaia Piccarolo Traduzioni di Margherita Marri, Language Consulting Congressi © 2020 Editoriale Lotus srl © Gli autori per i loro testi
Lotus Booklet Extra A cura di Nina Bassoli Maite García Sanchis Gaia Piccarolo Progetto grafico Pierluigi Cerri Studio con Roberto Libanori Lotus Booklet Extra 01 ISSN 9 771124 906004 20311 Editoriale Lotus srl Via Santa Marta 19/A 20123 Milano +39 0245475744 www.editorialelotus.it office@editorialelotus.it Finito di stampare nel mese di luglio 2020 da Arti Grafiche Fiorin, Sesto Ulteriano (MI) Librerie Distribuzione Idea Books Via Lombardia 4 36015 Schio vendite@ideabooks.it +39 0445576574
Nella collana Lotus Booklet 1 Umberto Eco, Vittorio Gregotti, Sulla fine del design Introduzione di Gaia Piccarolo Con un testo di Vanni Pasca
2 Giancarlo De Carlo, Pierluigi Nicolin, Conversazione su Urbino Introduzione di Maite García Sanchis Con un testo di Renzo Piano
3 Martin Heidegger, Costruire abitare pensare Introduzione di Nina Bassoli Con un testo di Silvano Petrosino
4 Bruno Zevi, L’ultimo manifesto Introduzione di Pippo Ciorra Glossario di Nina Bassoli, Maite García Sanchis, Gaia Piccarolo
5 Aldo Rossi, Manfredo Tafuri, La città analoga Introduzione di Pierluigi Nicolin Con un testo di Cino Zucchi
6 Richard Sennett, Città aperte Introduzione di Gabriele Pasqui Con testi di Benedetto Vecchi e Luigi Mazza
Lotus Booklet Extra Lockdown Architecture. Architettura e Pandemia. Quaranta lettere per Lotus A cura di Nina Bassoli